Fuori i Rossi da Hollywood! Il maccartismo e il cinema americano 8867081217, 9788867081219

Una Commissione parlamentare che inquisisce le stelle del cinema sulla base di sospetti. Processi politici senza diritto

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Italian Pages 412 [243] Year 2014

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Fuori i Rossi da Hollywood! Il maccartismo e il cinema americano
 8867081217, 9788867081219

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Una Commissione parlamentare che inquisisce le stelle del cinema sulla base di sospetti. Processi politici senza diritto alla difesa. Incarceramenti senza prove. L’accusa: aver cercato di insinuare elementi di «antiamericanismo» nei film. Questo, e molto altro, racconta Fuori i Rossi da Hollywood!, attraverso i verbali – in gran parte inediti in Italia – delle udienze tenute dalla Commissione per le attività antiamericane, davanti a cui sfilarono personaggi come Ronald Reagan, John Wayne, Walt Disney, Gary Cooper, Bertolt Brecht, Edward Dmytryk e molti altri. Scrive Oliviero Diliberto nella prefazione: «Ci fu, come sempre avviene in questi casi, chi apertamente si schierò con la Commissione, chi affrontò il carcere, chi rimase disoccupato, chi si uccise. Erano passati pochissimi anni dal periodo della cinematografia statunitense impegnata contro il nazismo, esaltatrice delle libertà e della democrazia, ma sembravano secoli. Il sonno della ragione generava i suoi mostri». Sciltian Gastaldi è nato a Roma nel 1974. Scrittore, giornalista, docente universitario, è autore dei romanzi Tutta colpa di Miguel Bosé (Fazi) e Angeli da un’ala soltanto (Leaf River Publishing). Collabora con «Internazionale», «D-La Repubblica delle donne» e con «Il Fatto Quotidiano».

I Quarzi

In copertina: Roy Cohn, Joseph McCarthy e Don Surine durante un interrogatorio (26 aprile 1954) © AP Archives © 2004 Lindau s. r. l. corso Re Umberto 37 - 10128 Torino ISBN 978-88-6708-191-2

Sciltian Gastaldi

FUORI I ROSSI DA HOLLYWOOD! Il maccartismo e il cinema americano

Prefazione di Oliviero Diliberto

Introduzione

Presentazione e ringraziamenti Il lungo periodo della cosiddetta «caccia alle streghe» contro i comunisti d’America è passato alla storia sotto il termine di maccartismo, sebbene sia iniziato prima dell’avvento sulla scena pubblica del senatore Joseph Raymond McCarthy, da cui ha preso il nome, e sia finito ben dopo la sua morte. Questo saggio nasce dalla constatazione che, nell’ampio panorama della storiografia italiana, la questione maccartista è un tema curiosamente quasi del tutto trascurato. In tempi di postuma riscoperta di un’ideologia anticomunista in Italia1, e di una nuova ondata di paura e repressione irrazionale nei confronti di un’intera comunità – quella araba – dopo l’11 settembre 2001 in America2, mi è parso interessante andare a ripercorrere i fatti che segnarono l’inizio del maccartismo, guardando alle conseguenze che si abbatterono sull’industria cinematografica statunitense all’indomani del secondo dopoguerra. Ricostruendo cosa accadde nella colonia di Hollywood allo scadere degli anni ’40, inoltre, penso sia possibile capire come nacque l’idea di condizionare il sistema dei media da parte di uomini politici estremisti e senza scrupoli. Nelle pagine che seguono illustrerò la nascita e lo sviluppo del meccanismo della lista nera a Hollywood, delle reazioni al blacklisting da parte degli artisti e dei produttori e dei fatti che portarono alla sua fine. In particolare ho voluto dedicare un ampio spazio alla riproduzione dei verbali di alcune delle udienze tenute dalla Commissione per le attività antiamericane (documenti in gran parte inediti in Italia) e analizzare i motivi principali che alimentarono la volontà d’epurazione politica in questo settore. Uno sguardo è poi rivolto al ritorno alla normalità che si sviluppò lungo gli anni ’60, mentre l’ultimo capitolo analizza la situazione attuale, che alcuni definiscono di neomaccartismo. Come vedremo, ciò che fu istituito con la Commissione per le attività antiamericane fu un attacco in piena regola ai principi cardine dell’ordinamento liberal-democratico statunitense. Un lungo momento di vero e proprio terrore di stato contro chi fu arbitrariamente giudicato colpevole di reati d’opinione politica, che portò perfino all’istituzione di campi di concentramento per i sospetti di simpatie comuniste. Sebbene solo pochissimi cittadini conobbero la galera, segnando comunque un grave vulnus per la tradizione democratica degli Usa, moltissimi furono indotti con i mezzi più subdoli a «pentirsi» e a trasformarsi in delatori, come è sempre avvenuto nelle dittature d’ogni colore. Con la concreta minaccia della perdita del posto di lavoro, della discriminazione sociale e di una pressione psicologica pesantissima, uomini stipendiati pubblicamente e rappresentanti la democrazia americana

costrinsero inermi concittadini ad abiurare alle loro idee giudicate sbagliate. Il tutto, sulla base di sospetti più che di prove, con processi condotti al di fuori del sistema giudiziario americano, sfruttando i poteri d’indagine e di giudizio senza limiti né – de facto – i vincoli costituzionali di una Commissione parlamentare. E come in ogni «caccia alle streghe», non furono poche le vittime casuali, coloro che nemmeno condividevano quelle idee considerate all’epoca sovversive. Questo stesso metodo di terrore e ricatto sarebbe stato poi usato contro i lavoratori dell’informazione giornalistico-televisiva, divenendo per diversi anni un tornaconto indispensabile per alimentare il consenso elettorale dei cacciatori di streghe. Cercherò quindi di dimostrare come il principale intendimento della Commissione per le attività antiamericane, dunque il prodotto più caratteristico di tutto il periodo maccartista, sia stato essenzialmente punitivo nei confronti di determinate categorie di persone, anziché rispondente a una logica di effettiva legalità. Nella bibliografia si potrà vedere come l’unica fonte italiana interamente incentrata sul tema suddetto sia l’opera della professoressa Giuliana Muscio3: Lista nera a Hollywood. La caccia alle streghe negli anni ’50, del 1979. Per il resto, esistono saggi che trattano del periodo maccartista all’interno o di un panorama generale della storia degli Usa di questo secolo, o come sfondo di argomenti differenti4, ma niente di più. Immagino che questa mancanza della nostra storiografia sia il semplice frutto del caso. Devo tuttavia sottolineare come nei tre anni di ricerche compiute per preparare questo lavoro, mi sia dovuto confrontare con un atteggiamento non esattamente di collaborazione da parte della maggioranza delle istituzioni culturali americane delle quali ho chiesto la consulenza. A questa imprevista chiusura corrisponde una significativa carenza di testi e altri documenti sull’argomento presso gli archivi di importanti istituti a stelle e strisce presenti sul territorio italiano5. Felice eccezione, sia in quanto a disponibilità umana che a completezza del proprio catalogo bibliotecario, la sede bolognese della Johns Hopkins University, già presieduta da quell’Owen Lattimore che fu egli stesso testimone e vittima dell’inquisizione maccartista. Last but not least, ho piacere di ringraziare chi mi ha aiutato a coltivare la passione per la storia e la ricerca: la professoressa Antonella Dente, il professor Umberto Gentiloni per la disponibilità e le indicazioni materiali su come strutturare la tesi di laurea da cui questo libro si sviluppa; il professor Angelo Ventrone e infine il relatore Pietro Scoppola. Un ringraziamento speciale anche al redattore delle Edizioni Lindau Gabriele Giuliano, che rileggendo il testo con cura, pazienza e attenzione ha contribuito a migliorare la qualitá globale di questo volume. Infine, il ringraziamento più grande va ai miei genitori per l’aiuto mai venuto meno. Ringrazio mio padre anche per il prezioso contributo nella traduzione di alcuni verbali delle udienze.

La terminologia, i contenuti e l’organizzazione dello studio Prima di cominciare la mia analisi, è utile spiegare l’accezione entro la quale

s’intendono alcuni termini, poi usati frequentemente in tutto il saggio. Lista nera: il concetto stesso di «lista nera» ha diviso per decenni la società dello spettacolo americano. Un elenco pubblico e ufficiale degli artisti da escludere a causa delle loro idee politiche stilato dalle major non è mai esistito, poiché sarebbe stato contro la legge. Gli artisti che ritenevano di essere stati iscritti nella lista nera anticomunista, hanno mosso diverse cause contro le compagnie cinematografiche di Hollywood per un totale di più di 150 milioni di dollari. Nessuna casa citata ha mai ammesso l’esistenza di un qualche tipo di discriminazione sulla base delle idee dei propri lavoratori, tantomeno ha ammesso la creazione di una «lista nera». Nessun tribunale ha dunque riconosciuto l’esistenza di liste di proscrizione nell’industria dello spettacolo. Il motivo di questa mancanza sta nel fatto che dimostrare in tribunale l’esistenza di un meccanismo di blacklisting è tutt’altro che semplice. Oltre a provare che un lavoratore o un gruppo di lavoratori siano esclusi dalle loro attività in modo sistematico, è necessario dimostrare che tale situazione sia originata da una volontà di cospirazione da parte del o dei datori di lavoro. Nel nostro caso, se una casa cinematografica dichiarava di non voler assumere un singolo individuo, era chiaramente una scelta legittima e legale. Ma se più compagnie stabilivano con un atto concertato di non voler far lavorare una persona o un gruppo di persone per qualunque motivo, questo era (ed è) riconosciuto dal tribunale come un atto di blacklisting, e dunque illegale. Nelle cause intentate da coloro che ritennero d’essere stati danneggiati economicamente tramite il meccanismo della lista nera, i tribunali non hanno mai riconosciuto questo preciso elemento di collusione tra le diverse case, bensì hanno ritenuto che ciascuna compagnia, in modo del tutto autonomo e indipendente, avesse deciso chi escludere dai propri progetti di lavoro. Così, nessuna corte ha trovato le prove dell’esistenza di una lista nera da parte delle case di produzione cinematografica6. Discorso diverso per quanto riguarda le liste di proscrizione promosse (e in alcuni casi perfino pubblicate) da parte dei gruppi di pressione che si battevano contro la minaccia comunista, come per esempio l’Aware, «Counterattack» o Red Channels 7. Se dunque, a stretto rigore, non si può parlare di «lista nera» in senso legale, si è diffuso un uso comune del termine che è lo stesso usato in questa indagine. Nell’accezione moderna, una lista nera nasce nel momento in cui un individuo o un gruppo di individui non vengono più impiegati dal proprio datore di lavoro per motivazioni che non hanno nulla a che fare con l’effettiva capacità e/o qualità a svolgere la propria mansione. In questo senso, non è forse indispensabile sapere come si è arrivati all’esclusione, ma provare che l’esclusione si sia verificata. Non volendo però lasciare inevasa la questione del come si entrasse a far parte della lista nera di Hollywood, diremo che è essenziale stabilire che il motivo dell’improvviso mancato utilizzo di un artista da parte dell’industria cinematografica fosse dovuto ai due seguenti fattori: a) l’essersi rifiutati di rispondere alle domande dell’House Committe for the Un-American Activities (Hcua)8; b) l’aver ricevuto l’accusa da parte di altri testimoni di appartenere o essere

stati iscritti al Partito comunista americano (CpUsa)9. Per questo, la lista nera di Hollywood può dirsi a tutti gli effetti «lista nera anticomunista». Meccanismo di «clearance»: La clearance era la cancellazione del proprio nome dalla lista nera e segnava quindi il ritorno al lavoro. Identificava un processo che poteva partire dalla volontà dell’artista estromesso o dagli estensori della lista nera stessa. L’artista per prima cosa doveva individuare un esponente influente dell’industria dello spettacolo a cui chiedere quale tipo di comportamento avrebbe dovuto seguire al fine di essere cancellato dalla lista nera. Di solito era sufficiente ammettere pubblicamente le proprie «colpe» di filocomunista, quindi dissociarsi da qualunque associazione sospetta di complicità con la causa sovietica. Nei casi più gravi, al «figliol prodigo» era richiesto di tornare di fronte alla Hcua e fare i nomi ( «naming names») di altri colleghi comunisti. Diversi studi10hanno indagato il funzionamento della clearance, dimostrando la nascita di un giro d’affari molto redditizio e complesso, che ha portato a parlare, non a torto, di una «industria della clearance». L’industria dello spettacolo di Hollywood: usando questo termine mi riferirò alle dieci grandi compagnie che si associarono nel cosiddetto cartello delle major, che comprendeva la Metro-Goldwin-Mayer, la Warner Brothers, la 20th Century Fox, la Paramount, la Columbia, la Universal-International, la Republic, la United Artists, la Rko-Radio e la Allied Artists11. Queste dieci corporazioni controllavano circa il 90% del mercato statunitense della distribuzione dei lungometraggi12. Per questioni di spazio, non tratterò degli effetti della lista nera negli ambiti della radio e della televisione americana. Sebbene vi fosse una sovrapposizione di personale tra le due industrie del l’intrattenimento, le decisioni politiche prese dalle major avevano effetto solo nel proprio settore, senza influenze dirette su quello radiotelevisivo, dove pure vi fu un fenomeno di proscrizione del tutto analogo, dettato però non tanto dai timori di disaffezione da parte del pubblico, quanto dalle pressioni esercitate dagli sponsor. Il mercato nero: come vedremo, tra gli artisti schedati vi fu una quota consistente di sceneggiatori. Nello spettacolo l’autore del testo non basa il proprio successo sulla notorietà del proprio volto, al contrario dell’attore o anche del regista. Di conseguenza gli sceneggiatori poterono tentare di resistere alla schedatura lavorando in clandestinità, usando uno pseudonimo o ricorrendo a un prestanome13. Il più delle volte i committenti delle sceneggiature, dei soggetti, dei trattamenti conoscevano le vere identità che si celavano dietro ai nuovi nomi, ma talvolta pensavano si trattasse di artisti emergenti. In tutti e due i casi ritengo si possa parlare di relazioni di lavoro clandestino, e in questo senso parlerò di mercato nero. È dunque evidente che le vere vittime della lista nera non furono tanto i lavoratori del dietro le quinte, quanto gli attori e le attrici che poterono sopravvivere solo cambiando lavoro o accontentandosi di parti sottopagate in piccole produzioni indipendenti, nel teatro off-Broadway14, o riscoprendo la gavetta degli spettacoli itineranti per il paese.

A partire dal 1947, come abbiamo detto, la comunità cinematografica di Hollywood fu sottoposta a un’estenuante indagine mirante a individuare tutti coloro che avevano idee o simpatie comuniste. Le indagini, condotte dall’House Committee for the Un-American Activities con l’ausilio del Federal Bureau of Investigations (Fbi), si basarono su un elenco di personaggi definiti «sospetti» perché sostenitori di istanze progressiste negli anni precedenti. Questi personaggi, furono chiamati a testimoniare di fronte alla Commissione con due scopi essenziali: «confessare» la propria appartenenza al Partito comunista americano, e indicare il maggior numero possibile di altri iscritti o simpatizzanti. L’operato dell’Hcua, non riuscì a dimostrare il fondamentale nesso tra appartenenza al CpUsa e volontà di sedizione, né quello tra presenza di idee di sinistra tra le persone «sospette» e loro effettiva iscrizione al Partito o ad altri gruppi ritenuti sovversivi. Il metodo sul quale si basò l’indagine fu – come detto – quello del terrore; la minaccia, non ufficiale, che sorgeva in tutta la sua materialità era l’esclusione dal lavoro per tutti coloro che non avessero voluto cooperare con l’inchiesta. Il clima di paura che l’Hcua, l’Fbi e altre organizzazioni nazionaliste e reazionarie (prime fra tutte l’American Legion) riuscirono a creare all’interno del mondo di Hollywood, mirava a ottenere un meccanismo di reciproca delazione tra i lavoratori dell’industria, in modo da poter condannare i sospettati sulla base di testimonianze plurime. È bene ricordare che la Commissione per prima si mostrò disinteressata a controllare la presenza effettiva di propaganda comunista nei lavori degli artisti accusati, che al contrario erano disponibili a far passare al vaglio le proprie opere per capire che cosa fosse loro esattamente contestato15. Né bisogna dimenticare che nessuna indagine messa in atto dalla Commissione, da politici maccartisti o dalle associazioni che gridavano all’allarme «rossi», sia mai riuscita a dimostrare la presenza di alcun tipo di propaganda comunista all’interno dei film di Hollywood da parte degli sceneggiatori accusati di radicalismo. Come potesse riuscirci un attore, poi, è un mistero che nessuno si è mai preoccupato di risolvere. Le fonti primarie16 di questo lavoro risiedono principalmente nei verbali delle Udienze della Commissione del Congresso per le attività antiamericane sulle infiltrazioni comuniste nel mondo dello spettacolo di Hollywood (Hearings Regarding the Communist Infiltration of the Hollywood Motion Picture Industry) depositate presso l’Archivio giuridico della Biblioteca del Congresso a Washington, distretto di Columbia. Data la mole di tale documentazione, si è resa necessaria un’accurata selezione del materiale esistente, con una particolare attenzione ai verbali riguardanti le «udienze di Hollywood» degli anni 1947, 1951, 1952 e 1953, a giudizio unanime le più rilevanti. Tra le fonti secondarie, ho potuto sfruttare una bibliografia in lingua inglese molto estesa, sia da parte di storici che di testimoni dell’epoca studiata. In particolare mi sono servito dell’opera di Larry Ceplair e Steven Englund The Inquisition in Hollywood. Politics in Film Community 1930-1960, sicuramente il lavoro più compendioso sull’argomento, oltre al già citato saggio della professoressa Giuliana Muscio. Altre analisi particolarmente interessanti sul tema sono: il primo volume di Report on Blacklisting, di John Cogley; Naming

Names, del giornalista Victor S. Navasky; Hollywood on Trial. The Story of the Ten Who were Indicted, dello scrittore Gordon Kahn; Only Victims. A Study of Show Business Blacklisting, di Robert Vaughn; The Committee,di Walter Goodman; The Judges and the Judged, di Merle Miller; A Journal of the Plague Years, di Stefan Kanfer. Gustosissime per il particolare punto di vista degli autori sono alcune autobiografie dei Dieci di Hollywood o di altre celebrità che passarono per i banchi della Commissione. Tra le altre, ricordo: The Time of the Toad, dello sceneggiatore Dalton Trumbo; Inquisition in Eden, dello scrittore Alvah Bessie; I’d Hate Myself in the Morning, autobiografia dell’indimenticato Ring Lardner jr. ; Hollywood Red, autobiografia di Lester Cole; Inside Out. A Memoir of the Blacklist, del regista Walter Bernstein; Scoundrel Times, della commediografa Lillian Hellman. In tempi recenti sono usciti dei saggi che affrontano le udienze di Hollywood all’interno di un panorama più generale. Tra queste, segnalo: The Big Tomorrow, intelligente analisi di Lary May su come Hollywood abbia influito nel cambiamento della società politica americana; La caza de brujas, di Roman Gubérn, unico autore spagnolo e Congressional Theatre di Brenda Murphy. Di tutti questi sono disponibili in italiano solo Larry Ceplair e Steven Englund, Inquisizione ad Hollywood. Storia politica del cinema americano 1930-1960, più il saggio di Trumbo Additional Dialogue, tradotto col titolo di Lettere dalla Guerra Fredda.

1 L’esigenza di un baluardo contro il comunismo è stata una delle parole d’ordine reintrodotte nelle ultime tre campagne elettorali per le politiche del 1994, 1996 e 2001 da parte del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi. 2 Sono innumerevoli gli articoli e le testimonianze che hanno descritto questa nuova epoca del sospetto anche verso i cittadini americani di origine araba. Tra gli altri, cfr. John Le Carré, Il mondo piegato all’ordine americano, «La Repubblica»,16 gennaio 2003, pp. 1, 40-41. 3 Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywood. La caccia alle streghe negli anni ’50, Feltrinelli, Milano 1979. 4 Notevole in questo senso, per l’attenzione con cui è stato curato il collegamento tra maccartismo e media, il libro di Bruno Cartosio, Anni inquieti: società, media, ideologie negli Stati Uniti da Truman a Kennedy, Editori Riuniti, Roma 1992, in particolare i cap. V, VI, VII alle pp. 71-122. 5 A titolo di esempio, la voce «maccartismo» non è neanche prevista nella divisione per soggetto dei cataloghi di alcuna biblioteca italoamericana, mentre negli archivi centrali del Centro studi americani di via Caetani in Roma sono custoditi appena sei testi sull’argomento, su una collezione di oltre 60 mila volumi e a fronte di una collezione di storiografia nazionale davvero molto ampia, come si può vedere nella bibliografia di questo saggio. Altre indagini in diverse collezioni hanno rivelato una scarsezza di materiale ancora più notevole. 6 Cfr. Herbert Biberman, Salt of the Earth, Beacon Press, Boston 1965, pp. 246-247, in cui sono specificate le spiegazioni che l’avvocato di Biberman gli dette quando tentò di far causa all’industria dello spettacolo per avere costituito una lista nera e per avere ristretto il budget del film tratto dal libro, di cui porta lo stesso titolo. La mancanza di collusione fu il fattore che determinò la legalità dell’azione delle compagnie. 7 In particolare Red Channels, nel giugno del 1950, dette alle stampe un libello in cui mise all’indice 151 fra attori, registi, produttori, sceneggiatori, annunciatori, e musicisti accusati di far parte di almeno una delle 127 associazioni comuniste o paracomuniste elencate nella seconda parte del volume. AA. VV. , Red Channels: The Report of Communist Influence in Radio and Television, American Business Consultants, New York 1950. 8 D’ora in poi indicherò tale struttura come «la Commissione» oppure «l’Hcua». 9 D’ora in poi indicato come «il Partito» oppure «il CpUsa». 10 Tra gli altri, ricordiamo il bel saggio di Merle Miller, The Judges and the Judged, Doubleday & Co. , Garden City (N. Y. ) 1952. Nonché Karen Sue (Byers) Foley, The Political Blacklist in the Broadcast Industry: the Decade of the 1950’s,Tesi di dottorato discussa presso la Ohio

State University, a. a. 1972 (edita per la Arno Press Inc. , 1979). 11 Republic e Rko-Radio non esistono più, mentre la Universal-International ha cambiato il suo nome prima in Universal City Studios, poi solo in Universal. Inoltre, quasi tutte le compagnie hanno cambiato gestione e proprietà dal 1950 a oggi. 12 Film Daily Yearbook, Film Daily, New York 1959, p. 100. 13 Cfr. il film Il prestanome ( The Front), regia e produzione di Martin Ritt, sceneggiatura di Martin Ritt e Walter Bernstein, con Woody Allen e Zero Mostel, 1975. 14 Letteralmente, col termine off-Broadway si intendono tutte le produzioni che non venivano rappresentate a Broadway, l’alter-ego di Hollywood. Broadway è il quartiere-mecca dell’industria teatrale americana, avente sede a Manhattan. 15 Dalton Trumbo, uno dei cosiddetti «testimoni ostili», mise a disposizione della Commissione, presieduta da John Parnell Thomas, venti suoi lavori per individuare gli eventuali elementi di propaganda comunista da lui inseriti. «Quant’è lungo ciascuno di questi suoi lavori?» chiese il presidente Thomas. «Dalle 115 alle 170 pagine» rispose l’artista. «Troppo», concluse Thomas, respingendo l’offerta. Riportato in Alvah Bessie, Inquisition in Eden,Seven Seas, Berlin 1967. 16 Per un elenco più completo, ancorché parziale, delle fonti, vedi la bibliografia in fondo al volume.

Prefazione di Oliviero Diliberto

Zero Mostel danza da solo in una stanza d’albergo. Sorride. Ha una coppa di champagne in mano. Brinda verso un interlocutore inesistente. Sale sul davanzale della finestra. Si butta nel vuoto. È un ricordo vivissimo. The Front (in Italia, Il prestanome) di Martin Ritt: storia di maccartismo e dell’impossibilità di lavorare nel cinema e nello spettacolo per chi era di sinistra o, semplicemente, per quanti si opponevano alla caccia alle streghe, credevano nella libertà di espressione, nella democrazia. Ci fu chi affrontò il carcere, chi rimase disoccupato, chi – come Mostel nel film di Ritt – si uccise. Era l’America democratica che si interrogava su se stessa e sulla propria storia recente, fatta anche di grandi e piccole tragedie. Era il 1976. In Italia, il Pci raggiungeva il suo massimo storico, avevamo alle spalle la grande vittoria di due anni prima sul divorzio, la società italiana cambiava, progrediva. Era un’illusione momentanea, ma ci dava un’infinita fiducia sul futuro. Lontano, in un’altra parte del mondo, migliaia di «piccoli grandi uomini» vietnamiti avevano da poco definitivamente sconfitto gli americani. Sì, il mondo sembrava prendere una piega – per noi, giovani della sinistra di allora – positiva: perché ci sembrava che il mondo lo si potesse cambiare per davvero. Per molti di quei giovani di allora è valso invece l’opposto. «Pensavamo di cambiare il mondo e il mondo ha cambiato noi»: battuta chiave di un altro film di culto per la mia generazione, C’eravamo tanto amati (1974). Alcuni di quei giovani di allora, invece, continuano a cercare di cambiare il mondo, nonostante le dure repliche della storia. E continuano a interrogarsi sulla storia di questo nostro lunghissimo dopoguerra, iniziato nel 1945 e finito nell’89. Cinquant’anni di Guerra Fredda. Il maccartismo ne è stato parte essenziale, simbolicamente tra i più potenti, perché tra i simboli – appunto – più potenti vi è proprio il cinema, con le sue suggestioni, le emozioni, le commozioni. Veicolo formidabile di idee, di denuncia, di scandaglio della società e del mondo. Eccoci, dunque, tornati a Zero Mostel, così come alla struggente scena finale del film, nella quale Woody Allen si rifiuta di fornire alla Commissione per le attività antiamericane anche il solo nome di un morto. Diventa un eroe, lui che era, appunto, solo un prestanome. L’America – come dicevo – si interrogava su se stessa, come tre anni prima aveva fatto Sydney Pollack ( Come eravamo, 1973). Il cinema indagava sul cinema, sulla vigliaccheria e sul coraggio. Ferite ancora aperte, se si pensa alle recentissime polemiche sull’Oscar alla

carriera attribuito a Elia Kazan, accusatore di amici e colleghi – come tanti altri – per farla franca. Sono, in fondo, i momenti nei quali ciascuno di noi si confronta con se stesso, prima ancora che con gli altri. Uno il coraggio, direbbe Manzoni, non se lo può dare. Ma la dignità, sì. Il maccartismo – come spiega benissimo questo libro intelligente, colto e raffinato, ricco di materiali inediti – nasce nel quadro del mondo diviso in due, nasce dal blocco di Berlino (1948), dall’incubo dell’atomica sganciata pochi anni prima su Hiroshima e Nagasaki e appena sperimentata per la prima volta in Urss (1949), dalla paura del comunismo che vince in Cina (sempre nel 1949), dall’inizio della guerra di Corea (1950). McCarthy non mise sotto processo solo gli esponenti del peraltro sparuto Partito comunista americano. Denunciò la presenza di 205 simpatizzanti comunisti nel Dipartimento di Stato, poi ridimensionati, da lui stesso, in 81. Non sfuggirono a tale paranoia ossessiva libri, pubblicazioni, riviste, la libertà d’espressione e di pensiero. Colpirà tra gli altri, come noto, registi, attori, sceneggiatori illustri. Ci fu, come sempre avviene in questi casi, chi apertamente si schierò con la Commissione (Reagan, John Wayne, Cecil De Mille che pretese il giuramento di fedeltà anticomunista da tutti i membri del Sindacato registi), chi diede prova di viltà, come l’imbarazzato e imbarazzante Gary Cooper, chi si attestò su una linea «grigia» compromissoria, e chi invece prese esplicitamente le distanze. Mankiewicz e John Ford si schierarono contro De Mille. Chaplin e Losey emigrarono. Le black listes venivano continuamente aggiornate. I celebri Dieci di Hollywood finirono in carcere. Tra loro, un grande: Dalton Trumbo, poi sceneggiatore di uno Spartacus (1960) di estrema sinistra. Erano passati pochissimi anni, in fondo, dal periodo della cinematografia statunitense impegnata contro il nazismo, esaltatrice delle libertà e della democrazia. Essere o non essere è del 1942 e Lubitsch riesce a girare un film dichiaratamente di parte – dalla parte della democrazia nel mondo – ma anche un vero capolavoro. E la magnifica protagonista, Carol Lombard, morirà quell’anno in un incidente aereo, proprio nel corso di un tour per raccogliere fondi per la guerra contro il nazismo. Erano passati pochissimi anni, ma sembravano secoli. Il sonno della ragione generava i suoi mostri. Sono trascorsi, dal maccartismo, cinquanta lunghi anni. Il cinema ha fatto la sua parte, nel bene e nel male, per raccontarci cosa è successo. E di generazione in generazione, il cinema stesso ha interpretato, modificato, non di rado capovolto – a livello di massa – la percezione di quanto avveniva o era avvenuto. La cinematografia americana ha prima messo in discussione il West come mito fondativo della loro stessa nazione (talvolta, come negli ultimi anni, perfino con un eccesso di politicamente corretto), riuscendo a recuperarne, poi, anche la dimensione simbolica. Il cinema ha raccontato il Vietnam– vero incubo collettivo della nazione – nei modi più disparati: la guerra persa perché si è voluto perderla (il tradimento dei governi e dei politici); la guerra persa perché era una sporca guerra imperialista; la guerra che è sempre e comunque un orrore e il Vietnam come metafora di tutti i conflitti: Il cacciatore (1978), Apocalypse Now (1979); la

guerra che non è in realtà mai finita – e dunque occorre andarsi a riprendere con la forza i «nostri ragazzi» ancora prigionieri – come per dire, tra le righe: possiamo vincere noi, una buona volta. Ma il cinema americano è riuscito anche a dissacrare se stesso, e penso proprio allo stesso cinema sul Vietnam, grazie alla parodia intelligente e asperrima di Tarantino ( Pulp fiction, 1994): si pensi al tormentone sull’orologio che si tramanda di padre in figlio, nascosto durante le diverse prigionie di ciascuno di essi, Vietnam compreso, nell’ano dei proprietari. È un pugno allo stomaco per ogni proclama militarista, ma anche per molta retorica antimilitarista di maniera. È lo stesso cinema che sta affrontando – è storia di oggi – il tema del pericolo terrorista, della paura per gli islamici. È il cinema dell’epoca delle prigioni di Guantanamo e delle torture di Abu Graib, ossessionato, in un senso o nell’altro, dall’11 settembre. È un cinema la cui metafora è ben rappresentata, se ci pensate, da un sottoprodotto quale il personaggio di Rambo, che passa da reduce disperato e perseguitato della sporca guerra in Vietnam, a giustiziere contro i nemici di allora (e – of course– questa volta li sconfigge: vendetta compiuta), a protagonista di mirabolanti azioni contro i nuovi «cattivi», questa volta – prima dell’11 settembre! – gli islamici. I «cattivi» cambiano. Di volta in volta, sono stati gli indiani, i messicani (Alamo insegna), gli stessi cocciuti cowboy che non si arrendono all’arrivo della legge nel vecchio West (lo struggente L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962), poi i giapponesi, i tedeschi, i sovietici con i loro alleati: coreani, vietnamiti, spesso implicitamente rappresentati dagli extraterrestri, di cui si teme sempre l’invasione. Ora, gli islamici. Verrebbe da evocare un nuovo Kubrick, un Dottor Stranamore dei giorni nostri, per riuscire a capovolgere la prospettiva. Lo scienziato nazista (il nemico di ieri, l’inarrivabile Peter Sellers) assoldato per contrastare il nemico di oggi, la bomba atomica sganciata a mano e cavalcata a pelo dall’aviere che agita il cappello da cowboy (ancora la metafora del nemico di ieri, aggiornata sul nemico del presente), la paranoia militarista di un generale che vuole la guerra (lo straordinario George C. Scott), per finire con una sorta di vero e proprio autodafè. Il personaggio del generale pazzo Jack Ripper, che scatena la guerra nucleare dando senza alcun motivo l’ordine di bombardare l’Unione Sovietica, è interpretato da un magnifico Sterling Hayden, attore amato da Kubrick. Ma proprio Hayden, non molti anni prima, era stato protagonista di una vergognosa delazione ai danni dei colleghi di fronte alla Commissione per le attività antiamericane. Con il Dottor Stranamore si era nel 1964. Anni in cui il mondo provava a rifiatare dopo drammatici rischi di conflitto nucleare. Anni in cui pareva schiudersi una prospettiva di pace. Gli anni del disgelo sovietico, di Kennedy e di Giovanni XXIII. Illusioni presto scomparse. Ma allora Kubrick poteva permettersi di giocare, da maestro, sull’impazzimento del mondo. Oggi, siamo ripiombati nell’incubo. La guerra è tornata a dominare la scena. Anzi, la guerra ha sostituito la politica estera, la diplomazia. E la prima vittima della guerra, come affermava uno che di guerra se ne intendeva, è la verità. Tornano paure collettive, razionali o irrazionali, caccia alle streghe, proclami

infuocati, anatemi. Vi è sempre in agguato, in definitiva, un senatore Joseph McCarthy. Sta a noi, come alla coscienza libera dell’America, vigilare affinché la storia, diabolicamente perseverando nell’errore, non si ripeta. Mai più. Oliviero Diliberto

FUORI I ROSSI DA HOLLYWOOD!

A Ernesto & Mara, le mie radici. E a Marta Russo, per l’ingiustizia

Capitolo 1 L’epoca maccartista

1.1. Il «maccartismo» prima di McCarthy (1938-1946) Il termine «maccartismo» (coniato dal popolare disegnatore satirico Herblock e derivato dal nome del senatore Joseph McCarthy) viene oggi usato dagli studiosi per indicare quella fase della storia degli Stati Uniti d’America, in cui la liberaldemocrazia di Lincoln e Jefferson rischiò di degenerare in autoritarismo. Essa si caratterizzò per una spietata «caccia al rosso»1 nella quale si etichettò come comunista chiunque apparisse troppo progressista. L’utilizzo di questo termine, che serve ormai per indicare un periodo che comincia ben prima della personale crociata del senatore repubblicano McCarthy, e termina di gran lunga dopo la sua scomparsa politica, fa oggi molto discutere2. La Commissione per le attività antiamericane, nota con l’acronimo di Hcua (House Committee for the Un-American Activities), fu istituita a carattere temporaneo il 26 maggio del 1938 dalla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti d’America e rimase in vita fino al 1968, anno in cui subì un cambio di nome. Le sue udienze, infatti, erano ormai un palcoscenico sul quale i testimoni chiamati a deporre sfidavano apertamente e con sarcasmo i loro giudici. Venne peraltro abolita soltanto nel 1975. I suoi scopi erano stati così stabiliti: Il Presidente della Camera dei Rappresentanti autorizza la formazione di una speciale Commissione composta da sette membri con lo scopo di condurre una indagine su: 1) L’estensione, il carattere e gli obiettivi delle attività di propaganda antiamericane3negli Stati Uniti. 2) La diffusione all’interno degli Stati Uniti di propaganda sovversiva e antiamericana istigata da potenze straniere o originata da movimenti interni, che si proponga di attaccare e rovesciare il principio della forma di governo così come garantita dalla Costituzione. 3) Tutte le altre questioni relative che possano aiutare il Congresso in qualunque riforma legislativa necessaria. 4

L’istituzione di questa Commissione, fu il segnale più evidente della ventata reazionaria tesa a offuscare il clima progressista dell’Amministrazione Roosevelt. Ventata che aveva già avuto un primo alfiere nel deputato dell’ultradestra repubblicana del Mississippi John E. Rankin, ricordato ancora oggi per il suo credo antisemita, antinero e anticomunista. Rankin promosse campagne politiche ispirate dall’intolleranza e dall’odio, anticipando di un ventennio quel che sarebbe stata la febbre inquisitoria del senatore Joseph McCarthy. Nel novembre del 1938, quando la Commissione, guidata da Martin Dies5, diede il via ai lavori, chiese al Dipartimento di Stato di poter indagare su alcune organizzazioni sospettate di essere, in violazione delle leggi federali, al soldo di governi stranieri.

La petizione della Commissione mise in gran subbuglio la Camera, poiché molti democratici lessero la richiesta come un attentato ai principi di libertà politica e ideologica garantiti dalla Costituzione. Tuttavia, grazie all’appoggio dell’opposizione repubblicana e di alcuni democratici conservatori del Sud, la petizione arrivò sulla scrivania del presidente Roosevelt, il quale, nel gennaio del 1939, diede il suo placet a che le investigazioni cominciassero. Dopo alcuni ritardi e nuove pressioni della Commissione, i Dipartimenti di Giustizia e di Stato si riunirono per decidere quali associazioni o gruppi dovevano essere indagati. I primi a essere messi sotto controllo furono il Bund (associazione di cittadini americani di origine tedesca), il Partito comunista americano6 e l’associazione pacifista Lega americana per la pace e la democrazia, successivamente esclusa. Nel giugno del 1939 il Federal Bureau of Investigations, guidato da Edgar J. Hoover, ricevette l’ordine di iniziare le sue ricerche sulle prime due. Hoover, direttore dell’Fbi dal 1924 al 1972, era un veterano nella lotta al comunismo da quando, nel lontano 1919, aveva redatto un durissimo memoriale contro il Partito comunista. Da allora il suo impegno contro i «rossi» aveva assunto il profilo di una personale filosofia di vita, non senza degenerare in un atteggiamento ai limiti della paranoia. Nel 1939, stime del suo dipartimento valutarono in 70. 000 il numero degli affiliati nordamericani al Partito, cifra che sempre secondo il capo dell’Fbi raggiunse il suo massimo nel 1944 con circa 80. 000 iscritti. In virtù della sua formazione ideologica, Hoover condivideva in pieno la tesi patrocinata dalla Commissione Dies, secondo la quale le dottrine del filosofo tedesco Karl Marx e del russo Nikolaj Lenin erano «aliene alla tradizione americana» e dunque dovevano essere estirpate. In un discorso pronunciato nel 1938, Hoover affermò che «il fascismo è cresciuto sempre nelle paludi del comunismo» e concluse affermando che «non possiamo conservare una nazione metà americana e metà straniera nel suo spirito»7. Apparve chiaro, fin dalle prime battute, come la Commissione per le attività antiamericane ambisse a essere la più efficace concentrazione di forze conservatrici contro Roosevelt e la politica del New Deal. Intento dichiarato apertamente, nel 1940, dal successore di Martin Dies, l’onorevole repubblicano del New Jersey J. Parnell Thomas, che in un discorso pubblico disse: «La sovversione in America è fiorita sotto il New Deal; il modo più sicuro per sradicarla è quello di sbarazzarsi del New Deal». Il primo a subire un duro colpo fu il Partito comunista: il 23 ottobre 1939, infatti, il segretario generale Earl Browder fu arrestato dall’Fbi per utilizzo improprio di passaporto. Venne condannato a quattro anni di carcere e a 2000 dollari di multa, con sentenza confermata dalla Corte Suprema, quindi scarcerato prima dei termini per decreto presidenziale il 16 maggio 1942. Successivamente (ottobre 1940), il Congresso approvò la Legge Voorhis, che obbligava tutte le organizzazioni a fiscalità straniera a iscriversi in un apposito registro federale. Un mese dopo, il Partito comunista, per eludere l’obbligo, dichiarò formalmente di aver troncato i suoi rapporti col Comintern. L’importante svolta politica del Partito non alleggerì la stretta vigilanza dell’Fbi sui suoi membri e simpatizzanti.

I lavori legislativi presero a seguire il tracciato delle inchieste poliziesche: la Legge Hatch, approvata il 2 giugno del 1939 ed emendata il 19 luglio 1940, stabilì il divieto per i funzionari federali di essere membri di qualunque organizzazione o partito politico che perseguisse il sovvertimento della forma costituzionale di governo. Detta legge, che non prevedeva altre sanzioni se non il licenziamento, avrebbe avuto conseguenze importanti nel dopoguerra. Sul piano inquisitorio l’Fbi continuò a lavorare in segreto, alimentando i suoi archivi con migliaia di rapporti su persone definite «sospette». Questa attività clandestina di Hoover giunse a provocargli, nel 1940, un serio incidente con la Casa Bianca: venne alla luce che il Federal Bureau stava indagando sulla lealtà di Edith B. Helm e Malvina Thompson, segretarie della first lady Eleanor Roosevelt. Il commento della moglie del Presidente in proposito fu chiaro e tagliente: «Mi pare che questo tipo di investigazioni ricordino troppo da vicino i metodi della Gestapo e, a mio parere, rivelano l’inefficacia e la mancanza di professionalità della persona che l’ha ordinata». Tra gli obiettivi principali della Commissione capeggiata da Dies, oltre ai gruppi di intellettuali progressisti e ai centri universitari, vi furono i progetti approvati durante il New Deal, considerati un esempio di comunismo americano e odiati non solo dai repubblicani ma anche dall’ala conservatrice dei democratici. In particolare, la Commissione si accanì contro il Federal Theatre Project, creato nel 1935 dall’Amministrazione Roosevelt per dare lavoro a 17. 000 disoccupati del settore, e dove prestavano servizio artisti quali Orson Welles e Joseph Losey. Il Federal Theatre Project fu sottoposto a un bombardamento quotidiano di critiche circa la sua utilità e apertamente accusato da Parnell Thomas, in un articolo sul «New York Times» del 27 luglio 1938, di essere «una culla di comunisti, infestato di radicali dall’inizio alla fine». Le pressioni furono talmente forti, che nel giugno 1939 la Commissione riuscì a ottenere l’interruzione dei finanziamenti da parte del governo, cosa che provocò la chiusura del progetto stesso. Per capire meglio tutto ciò, è utile ricordare l’udienza, dai risvolti grotteschi, del 6 dicembre 1938 nei confronti di Hallie Flanagan, direttrice delle produzioni dell’Ftp. La Flanagan, accusata tra le altre cose di avere scritto un articolo dal sapore comunista sulla rivista «Theatre Arts Monthly» , durante la sua difesa venne interrotta dall’onorevole Joseph Starnes, deputato democratico dell’Alabama: Starnes: «Aspetti un attimo. Leggo qui nel suo articolo che lei, parlando degli operai che parteciparono al Federal Theatre Project, fa riferimento a, cito, “una certa follia marlowesca”. Chi è questo Marlowe, un comunista?»  (Il pubblico presente all’udienza scoppia a ridere ed è subito riportato all’ordine dal Presidente) Flanagan: «Ma… citavo Christopher Marlowe, ovviamente. » Starnes: «Bene, ci dica chi è questo Marlowe, cosicché possiamo comprendere la giusta relazione: è tutto quel che vogliamo fare qui. » Flanagan: «Sia messo a verbale che [Marlowe] è stato il più grande drammaturgo nel periodo antecedente la venuta di Shakespeare. » Starnes: «Sì, sia messo a verbale, perché l’accusa nei suoi confronti è che questo articolo trasuda comunismo da tutti i pori, e noi vogliamo solo aiutarla. » Flanagan: «Vi ringrazio. Quella frase sarà messa a verbale. »

Starnes: «Certo, anche ai tempi degli antichi greci esistevano quelli che oggi chiameremmo comunisti. » Flanagan: «Vero…» Starnes: «E credo che Euripide fosse colpevole anche di aver insegnato coscienza di classe, no?» Flanagan: «Credo che quell’accusa fosse mossa contro tutti i drammaturghi dell’antica Grecia. » Starnes: «Quindi non possiamo dire dove la cosa sia iniziata. »8

Ma il settore che preoccupava di più gli uomini della Commissione era il cinema, come lo stesso Dies dichiarò nel 1938 in un suo rapporto accusatorio. Il clima liberale del New Deal e la nutrita emigrazione di democratici tedeschi scappati dal nazismo ed esiliati a Hollywood (Bertolt Brecht, Hanns Eisler, Fritz Lang, Thomas Mann, Heinrich Mann, Arnold Schönberg, l’attrice Helene Weigel, moglie di Brecht ecc. ), avevano alimentato, nella mecca del Cinema (e in gran parte del mondo culturale statunitense), un vivo sentimento antifascista, manifestatosi contro Franco, nella guerra civile spagnola, e contro Hitler. Buona parte della produzione cinematografica americana degli anni ’30 rivelò, infatti, un’acuta sensibilità verso problematiche sociali e politiche: la disoccupazione, la crisi agraria, il gangsterismo, la corruzione della giustizia e del sistema penitenziario. Non a caso in quel decennio si produssero alcuni capolavori del cinema sociale nordamericano: All’ovest niente di nuovo ( All Quiet on the Western Front, 1930) di Lewis Milestone; Io sono un evaso (I’m a Fugitive From a Chain-gang, 1932) di Mervyn Le Roy; Tempi moderni( Modern Times, 1936) di Charlie Chaplin; Sono innocente(You Only Live Once, 1938) di Fritz Lang; Furore (Grapes of Wrath, 1940) di John Ford ecc. I settori più reazionari del paese giudicarono negativo il nuovo orientamento progressista di Hollywood e cominciarono a esercitare pressioni per frenarlo. Eddie Cantor, popolare attore comico, organizzò una delle denunce più eclatanti del clima del momento quando, durante un incontro del Gruppo antinazista di Beverly Hills, salì sul palco davanti a diecimila persone sventolando un assegno e annunciando al microfono: «Ecco qui un assegno che mi hanno offerto perché non partecipassi a questo nostro incontro». Pressioni isolate di questo tipo, provenienti dai centri di potere dei grandi studi, non riuscirono a evitare l’aumento della sensibilità verso i problemi sociali e politici dei settori più dinamici della colonia hollywoodiana, accentuata dall’entrata in guerra contro i regimi nazifascisti. Tuttavia, lo scoppio del conflitto, con la seguente militarizzazione del cinema americano reclutato per un’urgente propaganda antifascista, paralizzò per alcuni anni la campagna censoria della Commissione. Nel giro di pochissimo tempo, sul grande schermo a stelle e strisce i cattivi smisero gli abiti eleganti dei gangster per vestire le divise dei nazisti e dei giapponesi, mentre i grandi divi compivano azioni eroiche sui fronti della guerra, ricreati in California. Il nuovo impegno militante davanti alle cineprese dilagò anche nella vita civile. Mentre le attrici s’impegnavano a non far più uso delle calze di seta giapponesi – sostituite dal nuovo materiale detto «Nylon», che da quel momento, per gli americani, divenne l’acronimo di «Now You Loose, Old Nippon!» – i sindacati di Hollywood raccoglievano fondi per aiutare lo sforzo

bellico. Il più attivo e politicizzato fu quello degli sceneggiatori, che promosse nell’ottobre del 1943 un grande congresso (The Writers Congress) nel quale presero la parola Roosevelt, Robert Rossen, Mikhail Kalatozov, Edward Dmytryk, Joris Ivens, Hanns Eisler, il produttore Louis B. Mayer, Thomas Mann, Ben Barzman e Vladimir Pozner. Charlie Chaplin già un anno prima aveva pronunciato un discorso intriso di politica durante un collegamento telefonico a un raduno sindacale al Madison Square Garden di New York. Egli aveva chiesto ufficialmente l’apertura di un secondo fronte in Europa, per aiutare l’Urss attaccata dai nazisti: È sui campi di battaglia della Russia che si deciderà il destino della democrazia. Il destino delle nazioni alleate è in mano ai comunisti. Se l’Urss sarà vinta, il continente asiatico – il più vasto e ricco del globo – passerà a essere dominato dai nazisti. Essendo praticamente tutto l’Oriente sotto l’influenza del Giappone, Hitler controllerà la quasi totalità delle materie prime necessarie a condurre la guerra. Che possibilità avremmo noi di vincere allora?

Nel segno di questo clima di infiammata militanza antifascista, John Ford si vide assegnare il grado di capitano di Marina e passò a dirigere la produzione cinematografica della Us Navy, mentre al colonnello Frank Capra spettò quella dell’esercito e al maggiore William Wyler quella delle forze aeree. Davanti a un simile fronte compatto, i nuclei della destra estrema non poterono che sospendere i loro attacchi. Non appena terminata la guerra, tuttavia, John E. Rankin riuscì a trasformare la temporanea Commissione Dies in una Commissione permanente della Camera dei Rappresentanti. Alla presidenza furono nominati, congiuntamente, J. Parnell Thomas e lo stesso Rankin. La Commissione, sotto Dies, aveva preparato il terreno per la vasta campagna anticomunista che ora poteva esplodere in tutta la sua potenza.

1.2. La situazione dopo il secondo conflitto mondiale (1947-1950) Le elezioni legislative del novembre 1946 segnarono il passaggio della maggioranza in entrambe le camere ai repubblicani, fatto che non accadeva dal 1928. I motivi che spinsero l’elettorato americano a questa virata politica furono il desiderio di mettersi alle spalle la guerra e la scomparsa del venerato Roosevelt. Così il presidente democratico Truman, come già il suo predecessore Wilson, si trovò a dover governare in «coabitazione» con un Congresso ostile. Truman era un politico molto lontano e infinitamente più conservatore del suo illustre predecessore. Il primo segnale che il nuovo Presidente volle dare al Congresso a maggioranza repubblicana fu il siluramento dell’unico newdealer superstite, il ministro del Commercio Henry A. Wallace che, oltre a essere stato un vicepresidente di Roosevelt, era portavoce dei sindacati e rappresentava l’ala liberal dei democratici 9. Il secondo segnale Truman lo diede poche settimane dopo. Nel novembre 1946 – forse anche dietro consiglio del senatore repubblicano Arthur Vandenberg, di cui rimase famosa la frase: «Fa scappare il diavolo fuori dal paese, Harry!» – il Presidente nominò una commissione provvisoria incaricata di studiare il livello di lealtà dei funzionari federali. Considerati i lavori di questa nuova commissione, e ascoltata l’esperta opinione di Hoover in

materia, il Presidente emanò il famoso Executive Order 9835 del 21 marzo 1947. Il provvedimento sanciva la nascita del Programma di lealtà degli impiegati federali (Federal Employees Loyalty Programme), che convertì da un giorno all’altro in «sospetti» ben 2. 500. 000 funzionari, ai quali venne richiesto di sottoporsi a una speciale ispezione di sicurezza10. Secondo il Programma, era prova di slealtà «essere membro di, essere affiliato a, o simpatizzare con qualunque organizzazione, associazione, gruppo, movimento o unione di persone considerate totalitarie dal Procuratore generale». Sarebbe interessante capire quanto il Programma derivasse dalle convinzioni politiche del Presidente e quanto fu un tentativo di ingraziarsi la fortissima opposizione congressuale, composta non solo dalla maggioranza repubblicana ma anche dall’ala conservatrice dei democratici. In ogni caso, la frase di Truman: «Il Programma laverà la macchia comunista del Partito democratico!» si riferiva all’ombra rossa che il New Deal aveva gettato sul partito e alla sua ansia di cancellare una colorazione tanto sospetta. Nel 1951 l’opposizione emendò il decreto rafforzandolo; così dove prima diceva «qualora esistano motivi razionali per credere che la persona implicata sia sleale», recitò «qualora esistano dubbi ragionevoli rispetto alla sua lealtà». L’emanazione del Programma di lealtà fu uno degli eventi politici che più divise l’opinione pubblica americana. Le forze liberali e sindacali scesero subito in campo contro il provvedimento, e la United Public Workers of America, organizzazione sindacale affiliata al Congress of Industrial Organizations (Cio), lo denunciò come una «caccia alle streghe». Nel paese si moltiplicarono gli articoli, le vignette, i pamphlet e le prese di posizione contrarie («Chi investiga sull’uomo che investiga su di lei?», domandava un volantino), ma i «formulari di lealtà» continuarono a diffondersi a ogni livello, raggiungendo anche quanti lavoravano nelle forze armate e per il Dipartimento della Difesa. Come hanno riconosciuto i più importanti storici del periodo, il Programma di lealtà ricoprì un ruolo formidabile nello sviluppo del maccartismo. Nonostante l’enorme ondata polemica suscitata dall’Executive Order 9835, il settore sul quale Truman si concentrò maggiormente fu la politica estera. Il Presidente, che aveva legato il suo nome allo sganciamento delle due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, era determinato ad accelerare il rientro delle truppe americane dai quattro angoli del pianeta dove ancora si trovavano. Truman non aveva tuttavia intenzione di tornare all’isolazionismo di prima della guerra e, il 12 marzo 1947, proclamò la cosiddetta «dottrina Truman», che stabiliva la necessità di portare aiuti economici e militari a qualunque paese minacciato dal comunismo. Questa decisione nasceva dalla volontà americana di sostituirsi all’influenza delle antiche potenze coloniali europee, e infatti la sua prima applicazione consistette nel sostituire la Gran Bretagna in Grecia e Turchia. La «dottrina Truman» fu una vera dichiarazione di «guerra fredda» al movimento comunista mondiale, che aveva conquistato solide posizioni politiche in molti paesi europei al termine delle resistenze partigiane,

imponendosi anche attraverso elezioni truccate (Polonia, gennaio 1947 e Ungheria, agosto 1947 e 1949) o colpi di mano (Cecoslovacchia, febbraio 1948), fino alla costituzione del Cominform nel settembre 1947. Sul fronte interno, il 23 giugno 1947 il Congresso riuscì ad approvare, aggirando il veto di Truman, la Legge Taft-Hartley che limitava il controllo sindacale sulla manodopera, imponeva controlli sulle dichiarazioni di scioperi e richiedeva a ogni sindacato di dichiarare la propria estraneità al comunismo. Il timore dei «rossi al potere» era ormai dilagante, e il procuratore generale degli Stati Uniti, Herbert Brownell jr. , non esitò ad accusare lo stesso Truman di «slealtà» (6 novembre 1953) per le sue eventuali implicazioni nello scandalo che coinvolse il suo collaboratore Harry Dexter White. Truman rifiutò di comparire di fronte al Comitato del Congresso, e il caso fu archiviato. Conseguenza immediata della Dottrina Truman fu lo storico discorso pronunciato a Harvard dal Segretario di Stato, il generale ed eroe di guerra George Marshall, che dette inizio al programma di aiuti economici per i paesi europei che ne avessero fatta richiesta. Il «piano Marshall» aveva come obbiettivo ufficiale quello di un aiuto umanitario alle popolazioni europee stremate da più di cinque anni di guerra, ma era soprattutto un progetto di acuta strategia politica mirante a frenare la crescita del movimento comunista in tutto il vecchio continente. La crisi di Berlino, nel 1948, fu la prima scintilla della tensione sovieticoamericana e fu risolta dalla grande determinazione statunitense di non lasciare al loro destino i settori occidentali della città, circondati dalle truppe di occupazione di Mosca. Il ponte aereo che fu organizzato dagli americani resta una delle maggiori operazioni di rifornimento di generi di prima necessità della storia. A partire da quella data, la tensione fra Est e Ovest andò via via crescendo. Il 4 aprile 1949, Usa, Canada e 16 paesi europei firmarono il North Atlantic Treaty Organization (Nato), alleanza militare alla cui guida si pose il generale Eisenhower: l’obiettivo esplicito era opporre una resistenza armata alle forze del blocco sovietico. Quando, il 23 settembre 1949, Truman annunciò al popolo americano che l’Urss aveva fatto brillare la sua prima bomba atomica, il clima di isteria antisovietica attizzato dalla stampa conservatrice, venne alimentato dalla paura dello spionaggio scientifico dei centri nucleari e dal tradimento di celeberrimi scienziati. Oggi sappiamo che un certo numero di quegli scienziati sospettati passarono effettivamente informazioni riservate ai loro colleghi sovietici. Col senno di poi possiamo anche dire che quel loro boicottaggio contribuì a creare una situazione di equilibrio e reciproco timore tra le due superpotenze, mettendo un freno alle tentazioni di attacco atomico covate dai settori più radicali della destra repubblicana. Nel segno di queste passioni esacerbate e col trionfo della rivoluzione comunista anche in Cina (che in America molti addebitarono alla decisione del segretario di Stato Dean Acheson di interrompere gli aiuti economici e militari al generale Chiang Kai-schek), iniziò il processo contro il diplomatico Alger Hiss. Hiss era stato funzionario del Dipartimento di Stato durante il mandato di

Roosevelt ed era presidente della Fondazione Carnegie per la pace internazionale. Il diplomatico fu denunciato alla Commissione per le attività antiamericane nell’agosto 1948 da Whittaker Chambers. Questi giurò di avere militato nel Partito comunista dal 1924 al 1937 e sostenne di aver collaborato con Hiss nelle sue missioni di spionaggio. L’accusato negò le accuse e querelò per diffamazione Chambers, chiedendo 75. 000 dollari di indennizzo. Il primo processo, iniziato nel maggio 1949, si risolse in favore di Hiss, ma il secondo, del novembre dello stesso anno, rovesciò la sentenza: Hiss fu giudicato colpevole di spergiuro e fu condannato a 5 anni di reclusione. Oggi sembra chiaro che il processo Hiss fu il primo grande attacco pubblico contro la generazione di liberali formatasi durante il New Deal. Ma in quei giorni di paura collettiva dovuta alla bomba atomica russa, grazie anche a una abilissima orchestrazione dei mass media, bastava poco per essere giudicati cospiratori da parte dell’opinione pubblica. Nel 1950, il sindacato Cio espulse i suoi membri comunisti e, nel luglio dello stesso anno, sempre con l’accusa di spionaggio atomico, furono condannati alla sedia elettrica i coniugi Julius ed Ethel Rosenberg (giustiziati nel giugno 1953), riconosciuti colpevoli di avere consegnato al viceconsole sovietico a New York segreti atomici ricevuti da David Greenglass, fratello di Ethel, impiegato nel centro nucleare di Los Alamos. I coniugi Rosenberg negarono ogni accusa, ma furono condannati nonostante l’apparente fragilità delle prove a loro carico e la campagna di stampa internazionale contro la sentenza di morte. I documenti del «Progetto Venona», a cui faremo cenno più avanti, hanno poi dimostrato un coinvolgimento dei Rosenberg coi servizi segreti dell’Urss, anche se non dicono nulla sull’importanza effettiva di questa collaborazione. Alla metà del 1950, nell’inutile tentativo di frenare l’ondata di reazione che proveniva dal Congresso repubblicano, Truman pose il veto alla famigerata Legge McCarran sulla sicurezza interna, riapprovata, però, dal Congresso nel settembre dello stesso anno. La Legge McCarran vietava l’ingresso negli Usa agli stranieri sospettati di sovversivismo, ordinava l’iscrizione in un registro di tutte le persone considerate pericolose, autorizzava l’incarceramento preventivo dei sospetti e arrivava a prevedere l’istituzione di campi di internamento o la deportazione per coloro che erano immigrati. La contemporanea guerra di Corea (giugno 1950-luglio 1953) diede una spinta formidabile alla crociata anticomunista in tutto il paese, ora guidata dal populista Joseph McCarthy.

1.3. McCarthy e il «maccartismo» (1950-1954) Joseph Raymond McCarthy (Grand Chute, Wisconsin, 1909-Bethesda, Maryland, 1957)11 non fece mai parte della Commissione per le attività antiamericane 12 che seminò il panico a Hollywood e quindi non ebbe a che vedere direttamente con l’argomento di cui ci vogliamo occupare, tuttavia la sua figura giganteggiò proprio nel periodo in cui accaddero i fatti riferiti in questo libro. McCarthy non si occupò di Hollywood ma divenne il simbolo della sua persecuzione, almeno a partire dal 1950. Scoprì la miniera dell’anticomunismo quasi per caso: in gioventù era

addirittura stato un sostenitore del New Deal di Roosevelt. Si era laureato con difficoltà in Legge alla Marquette University del Wisconsin ed era diventato un avvocato di poco successo, costretto a sbarcare il lunario giocando a poker a livello semi-professionistico. Poiché in seno ai democratici non riusciva a farsi candidare neanche per la poltrona di procuratore distrettuale, tentò la fortuna tra le fila repubblicane. Ottenne la carica di Giudice del tribunale circondariale calunniando il suo avversario, l’anziano magistrato Edgar Warner. Dopo la guerra, che McCarthy fece in Marina ma relegato a mansioni d’ufficio per le sue non perfette condizioni fisiche, riuscì a battere a sorpresa nelle primarie del Wisconsin il notissimo senatore uscente Robert La Follette, ultimo di una famiglia che si assicurava quel seggio da 40 anni. Il «merito» di quella vittoria fu una campagna senza esclusione di colpi e la denigrazione costante dell’avversario. Tra i vari sotterfugi messi in atto, McCarthy fece stampare migliaia di volantini elettorali con una foto che lo ritraeva in posa, dietro a una mitragliera terra-aria, a torso nudo con pantaloni e berretto militare, ricoperto di bandoliere e con tanto di denti in mostra. Disse che La Follette era un traditore della patria perché non era andato in guerra. Nessuno badò al fatto che La Follette aveva già 46 anni quando i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbour e nessuno si accorse che la foto «eroica» era una messa in scena. McCarthy accusò poi l’avversario di aver sfruttato la guerra per il proprio tornaconto (aveva messo in piedi una stazione radio da cui trasmetteva bollettini dal fronte), e vinse le primarie per poco più di 5000 voti. La Follette lasciò la politica e pochi anni più tardi si suicidò. Arrivato a Washington, il neo-senatore si accorse di essere ignorato: era uno dei tanti eletti di secondo piano. Per uscire da quell’anonimato, seguì il consiglio di un prete cattolico, Edmund Walsh, che gli suggerì di lanciare una sua crociata personale contro i comunisti approfittando delle presidenziali del 1950. La paura dei «rossi» si stava diffondendo anche negli angoli sperduti del paese. Infatti proprio a Wheeling, cittadina del West Virginia dove McCarthy avrebbe fatto di lì a poco il suo primo famoso discorso anticomunista, un poliziotto aveva chiesto e ottenuto nel gennaio di quell’anno la rimozione di una macchinetta distributrice di caramelle il cui involucro si proponeva di dare delle mini-lezioni di geografia ai bambini. Uno di questi, riguardante l’Unione Sovietica, recitava, sotto la bandiera rossa con falce e martello: «Urss, popolazione 211 milioni, capitale Mosca. La nazione più grande del mondo». Il city manager Robert Plummer, allarmato, firmò l’ordinanza di rimozione della sinistra macchinetta con queste parole: «È terribile che i nostri bimbi siano esposti a simili informazioni» 13. Il 9 febbraio 1950 McCarthy uscì dall’anonimato: nel comizio di Wheeling agitò in aria una cartellina porta documenti di cuoio, ben chiusa. Con forte enfasi e sapienza oratoria, declamò: Anche se non ho il tempo di nominare tutte le persone del Dipartimento di Stato che sono state segnalate in quanto iscritte al Partito comunista e membri di una cerchia di spie, ho in mano una lista di 205 elementi noti al Segretario di Stato come membri del Partito comunista e che ciò nonostante lavorano ancora al Dipartimento di Stato e ne determinano

la politica.

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Era tutto inventato, ma l’esca era stata lanciata con abilità. Le parole del senatore15 furono riprese dal quotidiano locale di Wheeling, l’«Intelligencer», e soprattutto dall’importante agenzia di stampa Associated Press, che le diffuse in tutti gli Stati Uniti. L’indomani, tuttavia, solo diciotto quotidiani riportarono la notizia. McCarthy era comunque soddisfatto del riscontro della stampa e ripeté le sue accuse in tutti gli altri comizi previsti, cambiando però alcuni fattori essenziali dell’accusa, e in particolare il numero dei «comunisti» da lui «scovati» a lavorare per il Dipartimento di Stato. Il mattino successivo, durante uno scalo all’aeroporto di Denver, McCarthy trovò due giornalisti del «Denver Post» che gli chiesero la lista dei nomi. McCarthy, che in quest’occasione parlò di «207 [lavoratori] ad alto rischio» e non già di «205 tesserati al Partito comunista», acconsentì e si mise a cercare la lista nella sua borsa, salvo poi ammettere di «averla dimenticata in aereo», scusandosi perché ormai era «troppo tardi» per tornare a prenderla. Nel comizio di quella stessa sera, a Salt Lake City, Utah, ecco come McCarthy tornò sull’argomento: Ieri sera ho accennato alla presenza di comunisti nel Dipartimento di Stato. Ho affermato di avere i nomi di 57 tesserati al Partito comunista. […] Ma non si tratta di spie ordinarie, bensì di gente che guadagna 5300 dollari al mese e più, che contribuiscono a forgiare la politica estera dell’America. 16

Prima di andare oltre, cerchiamo di capire la ratio, se ratio ci fu, di queste cifre ballerine. McCarthy, ovviamente, non era in possesso di alcuna lista, ma i numeri da lui riferiti non erano dati a caso. In seguito a personali ricerche, il senatore era venuto a conoscenza dei risultati di un’indagine conoscitiva ordinata nel 1946 dal segretario di Stato James Byrnes, riguardo alla lealtà di tremila impiegati federali. Byrnes aveva sottolineato come in 284 casi gli esaminati non avessero voluto rispondere completamente ai questionari riguardo il loro passato. Nel luglio dello stesso anno, solo 79 di quei 284 erano stati scagionati dal sospetto di essere potenziali pericoli per la nazione. McCarthy non aveva idea di cosa fosse successo da quel luglio al febbraio 1950 ai restanti 205 «sospetti», né sapeva di cosa fossero sospettati, ma tanto gli bastò per concludere che nel Dipartimento di Stato si trovavano ancora 205 pericolosi comunisti. Alla stessa maniera, anche il numero 57 veniva fuori da un «ragionamento»: nel 1948 l’House Appropriation Committee aveva ricevuto l’autorizzazione a ricontrollare i risultati di un’ennesima indagine conoscitiva sulla lealtà degli impiegati del Dipartimento di Stato, scoprendo 108 lavoratori identificati come «problematici per la sicurezza». Dal 1948 al 1950, di quei 108 solo 51 erano stati licenziati, per cui 57 erano ancora impiegati presso il Dipartimento. Anche in questo caso, le cifre di McCarthy non erano altro che una grossolana improvvisazione, dal momento che in realtà nel febbraio del 1950 solo 40 impiegati definiti «problematici» erano rimasti al loro posto, senza contare che l’accusa, necessariamente vaga, era scattata di fronte ad affiliazioni le più varie, anche non strettamente politiche. Il giorno successivo al comizio di Salt Lake City, McCarthy si presentò a Reno (Nevada), dove trovò un gruppo di giornalisti che lo attendevano. Ripeté loro le stesse cifre dette a Wheeling, annunciando anche di avere «ingiunto» con un telegramma al presidente Truman di riaprire «immediatamente» gli

archivi sulla sicurezza degli impiegati del Dipartimento di Stato. Questa volta la notizia rimbalzò come una vera e propria «bomba» giornalistica, un attacco frontale al segretario di Stato Dean Acheson, sino alle più alte stanze del potere. Nessuno espresse dubbi circa le fonti di quelle denunce sulle infiltrazioni comuniste. La scuola giornalistica americana rimase abbagliata dall’autorevolezza della fonte, un senatore degli Stati Uniti, e tanto garantì la fondatezza della notizia. Praticamente, ci dice Guido Macera 17 «nessuno vide quello che l’esperienza successiva doveva mettere in chiaro, e cioè che era venuto sulla scena politica un demagogo vigoroso e spietato, audacissimo nell’attacco, cauto e accorto nel prendere la via della ritirata al momento giusto». Nei giorni seguenti, solo pochissimi giornali18 che ospitavano gli articoli di columnist di grido si preoccuparono di rintracciare la ragione di quel numero (205) e quindi la sua origine in documenti già noti: niente si trovò in quelle fonti che potesse sostenere le accuse di McCarthy. Un primo dato che ci fa riflettere sulla buona fede di quei giornalisti, che per giustificare la copertura pedissequa delle accuse maccartiste chiamarono in causa il modello delle straight news (secondo cui il giornalista deve limitarsi a riportare la mera notizia, senza azzardarsi a commentarla né a contestualizzarla), avvenne pochi giorni dopo. Il 16 febbraio 1950 il presidente Truman, in una conferenza stampa, annunciò che McCarthy «non aveva detto una parola di verità». Eppure l’indomani quasi nessuna testata riportò la notizia. In proposito Edwin Bayley ha fatto notare: «La smentita presidenziale fu ignorata da circa il 90% della stampa. Solo 18 dei 129 giornali esaminati riportarono l’avvenimento, e 11 di questi erano giornali del Wisconsin». Nei giorni successivi McCarthy cavalcò la tigre, ripetendo le sue accuse, cambiando di volta in volta il numero dei nomi inclusi nella famosa lista che teneva sempre «in mano» ma che non mostrava mai. I reporter continuarono a telefonare ai loro giornali e alle agenzie di stampa le parole del senatore, «oggettivamente», senza alcun giudizio critico 19. Il giornalista Richard Rovere, nella sua biografia su McCarthy pubblicata nel 1959 20, sostenne che il senatore «mentì con una sfacciataggine senza precedenti» e che «inventò nuovi tipi di bugie», per cui era stato difficile accorgersi «quando e quanto barasse». Un altro autorevole opinionista, Walter Lippmann, difese la stampa affermando che «le accuse di tradimento, di spionaggio, di corruzione, di perversione da parte di McCarthy sono notizie che non si possono sopprimere o ignorare. Provengono da un senatore degli Stati Uniti e uomo politico che gode di credito ai vertici del Partito repubblicano». Addirittura, il giornalista del «New York Times» Peter Khiss scrisse: «Il pubblico dei lettori deve capire che è difficile, se non impossibile, ignorare le accuse del senatore McCarthy soloperché si sono dimostrate di solito esagerate o false. È al lettore che spetta trovare il rimedio» [corsivo nostro]. Con la malizia di oggi e l’abitudine di noi giornalisti a lavorare secondo la teoria dell’ interpretative reporting (ossia l’esercizio del giudizio critico e la verifica dell’attendibilità delle informazioni) anziché delle straight news, riesce

difficile pensare che dei professionisti della carta stampata credessero davvero di non poter essere che semplici ripetitori della propaganda del senatore. Ma all’epoca, ciascun membro del Congresso americano era circondato da un’aura di massima credibilità e autorità, forse paragonabile a quella che in Italia si nutre generalmente nei riguardi del solo Presidente della Repubblica. Considerato il clima di terrore dei tempi, appare chiaro che McCarthy seppe toccare corde molto sensibili anche nel cuore dei giornalisti, rivelando così quell’ idem sentire indispensabile alla creazione e diffusione di una notizia infondata. L’alleanza tra potere politico e mass media creò una miscela esplosiva che incendiò per anni l’opinione pubblica statunitense. Quando, nell’aprile del 1954, quel connubio si ruppe, fu l’inizio della fine della carriera di McCarthy. In conclusione, delle migliaia di «comunisti di stato» denunciati dal senatore del Wisconsin e inquisiti dai vari organi d’inchiesta, solo pochissimi sono stati riconosciuti colpevoli di spionaggio o cospirazione. Lo spirito filosofico di queste vaste campagne repressive, che oggi chiamiamo genericamente «maccartismo», era radicato nella manichea e puerile dicotomia tra «americanismo» e «antiamericanismo», vissuti intimamente come sinonimi di «giusto» e «sbagliato», al punto che la stessa commissione investigatrice preferì, come abbiamo visto, l’appellativo di «Commissione per le attività antiamericane» ad altri più consoni, come «per le attività sovversive», o comuniste, o anticostituzionali ecc. Questo piccolo dato semantico dà un’idea del furioso nazionalismo che pervadeva i membri della Commissione, per i quali era buono e positivo quello che era «americano» e degenerato e pericoloso tutto il resto, convinzione che aveva portato, nel passato, alla comica proibizione della macchina a vapore in quanto invenzione britannica. È da sottolineare, inoltre, il carattere fazioso dell’«americanismo» proclamato da questa commissione, che non teneva conto della filosofia antischiavista di Lincoln, del liberalismo di Jefferson o del riformismo di Roosevelt, ma nasceva dall’incontro della provincia americana agraria e patriarcale, profondamente conservatrice, con le potentissime oligarchie finanziarie-industriali rappresentanti di quello che si profilerà sempre più nitidamente come un capitalismo monopolista. Questo curioso punto di contatto ideologico delle forze più destrorse della nazione trovò il suo portavoce più autorevole nel senatore McCarthy, prodotto archetipico dell’isteria della Guerra Fredda, le cui ambizioni senza limiti avrebbero potute mettere in pericolo lo sviluppo del capitalismo americano, precipitando il paese verso una guerra nucleare. Da questa prospettiva si possono comprendere le critiche che lo stesso presidente repubblicano Eisenhower, per nulla sospettabile di «progressismo», diresse contro il senatore del Wisconsin. E tuttavia Eisenhower si mosse cautamente contro il temibile e potente senatore e gli si scagliò apertamente contro solo quando la sua causa era davvero persa. Nel 1954, commentando le investigazioni del Comitato di cui era presidente McCarthy, il Presidente affermò che «se i procedimenti utilizzati sono simili a quelli che utilizzano i comunisti, si comincerà a non sapere chi siano effettivamente i comunisti». In

quei giorni, dopo il passo falso compiuto da McCarthy nel tentativo di provare l’infiltrazione rossa nello Stato Maggiore dell’Esercito, un voto di censura del Senato segnò la fine politica dell’uomo. Era il 2 dicembre 1954.

1.4. Il «Progetto Venona» e le nuove polemiche Recentemente lo storico revisionista Arthur Herman21, basandosi sulla dissecretazione del «Progetto Venona», ha offerto una rilettura del maccartismo oggettivamente problematica e di un certo rilievo. Il «Progetto Venona» fu un programma del controspionaggio americano, istituito nel febbraio 1943, con lo scopo di decifrare le comunicazioni criptate fra sedi diplomatiche sovietiche. Le traduzioni di Venona, di cui – in modo assai singolare e certamente non costituzionale – non furono messi al corrente i due presidenti democratici, Franklin Delano Roosevelt e Harry Truman, permisero di identificare, senza però certezza assoluta, i nomi o gli alias di più di 200 persone che a quel tempo si trovavano negli Usa e che, secondo i messaggi dell’intelligence militare sovietico e del Kgb, erano agenti infiltrati o contatti utili. I messaggi sembrano rivelare 22 alcune delle attività clandestine di Julius ed Ethel Rosenberg, Harry Gold, Klaus Fuchs, David e Ruth Greenglass, e altri personaggi implicati nello spionaggio di segreti relativi alla bomba atomica. L’affidabilità delle decrittazioni Venona è ancora oggi materia di discussione tra gli storici e nel mondo politico e culturale americano. La maggior parte della storiografia considera Venona fonte di primo grado credibile, mentre la polemica è invece assai più accesa circa l’affidabilità delle interpretazioni delle decrittazioni. Infatti l’associazione del controspionaggio fra i nomi di copertura e le identità di persone in carne e ossa è stata condotta sulla base di vari criteri, non ultimo risalendo dalle denunce (a volte semplici illazioni) alle circostanze descritte nei messaggi del Kgb. Come intuibile, questo metodo si è rivelato ora di assoluto buon senso, ora meno. Dal 1952 il programma Venona fu coordinato dalla National Security Agency (Nsa)23. Se dovessimo ritenere affidabili non solo le decrittazioni Venona ma anche tutte le identificazioni condotte dal controspionaggio con i nomi in codice presenti nei messaggi del Kgb, dovremmo concludere che il controspionaggio americano comunicò all’Fbi di Hoover di avere gravi indizi sulla colpevolezza di determinati personaggi all’interno del sistema, pur non potendo svelare la fonte dei propri sospetti. Sarebbe quindi ipotizzabile che Hoover, in un primo momento molto amico di McCarthy, gli abbia parlato di questi sospetti e della possibilità dell’esistenza di spie comuniste nel Dipartimento di Stato, argomento che costituì il trampolino politico del senatore. Sulla base di queste possibili imbeccate, secondo Herman, McCarthy avrebbe posto le basi della sua spettacolare campagna anticomunista. Dal momento che non si ha, per ora, prova di questa comunicazione tra Hoover e McCarthy, né si hanno prove del fatto che il senatore sapesse del «Progetto Venona» (benché lui abbia sempre dichiarato di attingere da «fonti istituzionali segrete e attendibilissime»), il giudizio storico su McCarthy non può, a mio avviso, essere rovesciato come pure alcuni stanno tentando di fare con toni poco scientifici 24. Infatti è lo stesso Herman a concludere che nonostante le carte Venona, il giudizio su McCarthy resta lo stesso di sempre.

Herman se ne rammarica, ma praticamente la totalità degli storici americani non ritiene che i nuovi documenti possano cambiare il drastico giudizio sui metodi usati dal senatore del Wisconsin. È invece corretto osservare che, se le interpretazioni delle decrittazioni Venona dovessero rivelarsi affidabili, McCarthy non condusse una «caccia alle streghe», come ormai dato per scontato dalla quasi totalità della storiografia, bensì s’impegnò in un campo nel quale effettivamente c’era bisogno di smascherare le infiltrazioni spionistiche sovietiche. Ciò non muterebbe comunque il giudizio di indegnità morale formulato sull’esponente repubblicano, né alleggerirebbe le corresponsabilità della stampa e del sistema politico nel suo complesso: non è infatti storicamente serio ridurre il «maccartismo» ai soli fatti e misfatti di Joseph McCarthy. Riprendendo il giudizio di James Aronson, «se pure il maccartismo arrivò a essere legge nel paese, non era stato però Joseph McCarthy a scrivere quella legge». Qualora cambiasse la cornice del quadro generale, credo che l’attività politica di quel periodo dovrebbe essere almeno in parte riconsiderata. Al momento in cui scrivo, i documenti del «Progetto Venona» non hanno provato la colpevolezza degli accusati. In ogni caso tra i sospetti dei documenti Venona non figurano i personaggi perseguitati dalla Commissione a Hollywood, argomento che è il vero tema di questo saggio.

1 Poiché questa «caccia» fu contemporanea all’inizio e all’aggravarsi della Guerra Fredda, mi pare giusto introdurre un nuovo termine per descrivere il periodo. In questo senso potremmo parlare di «guerra fredda civile» per indicare il clima di inquisizione e repressione che si stabilì negli Stati Uniti con l’intento di stanare qualunque attività sovversiva dell’ordine costituito. Come all’interno di una guerra civile, le fazioni in lotta non si riconobbero legittimità istituzionale: per la Commissione i «testimoni ostili», come vennero chiamati coloro che si rifiutarono di collaborare, erano nemici dello stato; per gli accusati, era la Commissione stessa a essere anticostituzionale e «antiamericana». 2 Cfr. per esempio: Bruno Cartosio, Il maccartismo di Joe McCarthy, in AA. VV. , Il maccartismo, fascicolo 11, agosto 1993, pp. 3-10; Richard M. Fried, Nightmare in Red - The McCarthy Era in Perspective, Oup, s. l. 1990; Aldo Lanza, Maccartismo, in Nicola Tranfaglia et al. (a cura di), Storia del Nord America, vol. V, tomo I, La Nuova Italia, Firenze 1978-’83, pp. 179-186. 3 Da notare che queste attività (e le persone stesse che ne erano artefici) furono battezzate frettolosamente come «antiamericane», rinverdendo un uso semantico fascista – poi ripreso da altre dittature totalitarie – che pone al di fuori dello stato qualunque idea che non si identifichi con l’ideale unico del regime. È da ricordare che la cultura americana ha sempre identificato nell’alieno, nell’altro da sé, il pericolo, ben prima che i regimi fascisti europei introducessero i concetti di difesa della stirpe o della razza. Indiani e neri, marziani e russi, i nemici sono i non-americani: Un-Americans, letteralmente. Cfr. William Preston, Aliens and Dissenters, 1903 - 1933, Hup, Cambridge 1963. 4 79th Congress, 1st Session, Public Law 601. Riportato in Walter Goodman, The Committee. The Extraordinary Career of the Huac,Farrar, Straus & Giroux, New York 1968, p. 16. 5 Martin Dies, texano, presiedette la Commissione fino al 1945. Questa, in seguito, fu resuscitata e resa permanente dietro la spinta del deputato repubblicano John E. Rankin. 6 Cfr. Antonio Donno, La «questione comunista» negli Stati Uniti. Il Communist Party dal Fronte Popolare alla Guerra Fredda (1935-1954), Milella, Lecce 1982; Malcolm Sylvers, Sinistra politica e movimento operaio negli Stati Uniti. Dal primo dopoguerra alla repressione liberal-maccartista, Liguori Editore, Napoli 1984; Irving Howe, Lewis Coser, The American Communist Party. A Critical History, Knopf, New York 1957; Earl Latham, The Communist Controversy in Washington. From the New Deal to McCarthy, Cup, Cambridge 1966. 7 Come ha argutamente fatto notare Ellen Schrecker, una delle più insigni studiose del

periodo, il maccartismo si sarebbe potuto chiamare hooverismo, se solo si fosse venuti prima a conoscenza del ruolo ricoperto da Hoover e dei metodi da lui adottati. Fu infatti solo nel 1975, quando il Congresso americano approvò il Freedom of Information Act, col quale si autorizzava l’abrogazione del segreto di stato su una grande quantità di documenti riservati dell’Fbi, che si scoprì il ruolo fondamentale giocato da Edgar J. Hoover che aveva accusato di comunismo chiunque gli fosse ostile, usando spionaggio, delazioni, ricatti, accuse scandalistiche inconsistenti, rivolte anche contro presidenti e ministri. Ellen Schrecker, Many are the Crimes. McCarthyism in America, Little Brown & Co. , Boston-New York-TorontoLondon 1998. 8 Riportato in Brenda Murphy, Congressional Theatre, Dramatizing McCarthyism in Stage, Film and Television, Cup, Cambridge 2002. 9 Dopo il suo licenziamento, Wallace si spostò ancora più a sinistra, fuoriuscendo dal Partito democratico e fondando il Partito progressista, di cui fu, senza successo, il candidato alla presidenza negli anni a venire (alle elezioni del 1950 si classificherà quarto con 1. 157. 172 voti, dietro di un soffio anche a J. Strom Thurmond, candidato di un’estemporanea «Lista degli agricoltori del Sud», ultra-conservatrice). 10 Questa operazione costò alle casse statali circa 25 milioni di dollari; una fonte dell’Fbi registra che tra il 21 marzo 1947 e il 27 maggio 1953 il dipartimento cooperò con il Programma di Lealtà controllando 4. 660. 122 schede personali, trasmettendo 4. 756. 750 formulari, portando a termine 26. 236 investigazioni complete e altre 26. 833 commissioni. 11 Il senatore McCarthy presiedette la Sottocommissione permanente sulle investigazioni (Permanent Subcommittee on Investigations) e la Commissione senatoriale sulle operazioni governative (Senate Commettee on Government Operations) fino al 1954, anno in cui fu destituito. Nonostante una consistente pubblicistica pressapochista, il senatore non ebbe – né poteva avere – alcun ruolo ufficiale nella Commissione per le attività antiamericane, se non altro perché questa era una commissione della Camera dei Rappresentanti (House Committee) e non del Senato. 12 Il giovane senatore si presentò una volta nel 1950 nell’aula delle udienze tenute dal presidente Thomas. Questi lo salutò e gli chiese se non voleva porre delle domande ai testimoni. Al che, McCarthy rispose educatamente: «Sono solo venuto ad assistere al magnifico lavoro che questa Commissione sta portando avanti. Sono qui solo per ascoltarvi in silenzio, non per fare domande». Cfr. Stefan Kanfer, A Journal of the Plague Years. A Devastating Chronicle of the Era of the Blacklist, Atheneum, New York 1973, p. 99. 13 Riportato in Edmund Wilson, The Fifties, Straus and Giroux, New York 1986, p. 20. 14 Bruno Cartosio, Anni inquieti: Società, media, ideologie negli Stati Uniti da Truman a Kennedy, Editori Riuniti, Roma 1992. 15 Parole che, in seguito, lo stesso McCarthy avrebbe contestato durante le audizioni del Comitato Tydings nominato dal Senato per indagare sull’attendibilità delle sue accuse. 16 Riportato in «Salt Lake Tribune»,11 febbraio 1950; «Desert News», 11 febbraio 1950. 17 Guido Macera, Rapporto sul maccarthyismo, Guanda, Parma 1955. 18 Tra questi, ricordiamo gli articoli di R. Pearson, I. Murrow, I. F. Stone, M. Childs e dei fratelli Aslop che comparvero sul «Capital Times» di Madison, sul «New York Times», sul «New York Post», sul «Washington Post», sul «Milwaukee Journal», sul «Saint-Louis Post Dispatch» e altre testate minori. Notevoli anche le vignette dei giornalisti satirici Walt Kelly, Herbert Block e Daniel Fitzpatrick, pubblicate su 205 quotidiani. 19 Fu solo dal 1953 che la pratica della straight news, ossia della cronaca oggettiva, cominciò a essere affiancata o sostituita dall’ interpretative reporting, cioè dall’esercizio del giudizio critico e dalla verifica dell’attendibilità delle informazioni. Anche quando provenienti da un senatore del Congresso. 20 Richard H. Rovere, Senator Joe McCarthy, Harper & Row, New York 1973. 21 Arthur Herman, Joseph McCarthy. Reexamining the Life and Legacy of America’s Most Hated Senator, The Free Press, New York 2000. 22 La polemica è invece meno aspra nel caso degli scienziati Julius ed Ethel Rosenberg. La questione della colpevolezza dei due fisici e coniugi, finiti sulla sedia elettrica con l’accusa di spionaggio, ha appassionato per decenni l’America e il mondo. Il dilemma è stato sciolto da un passaggio decrittato di un messaggio del Kgb, in cui, facendo riferimento al proprio agente soprannominato «Liberal», in relazione al passaggio di informazioni sulla costruzione della

bomba atomica, è nominata, con il vero nome, sua moglie «Ethel». Il controspionaggio americano riuscì a decrittare questo passaggio solo nel 1947, dopo ben tre anni di studi sul messaggio. Cfr. Arthur Herman, Joseph McCarthy. Reexamining cit. , pp. 105-106; Herbert Romerstein, Eric Breindel, The Venona Secrets. Exposing Soviet Espionage and America’s Traitors, Regnery, Washington Dc 2000. 23 Agenzia federale di controspionaggio, istituita dal presidente Truman nel 1952 e ordinata da un documento del Dipartimento della Difesa che dà vita a «un’organizzazione unica, strutturata per condurre la missione di intelligence di segnale (Sigint) degli Stati Uniti e garantire sistemi di comunicazioni sicuri per tutti i dipartimenti e le agenzie del governo degli Stati Uniti». Cfr. Parlamento Europeo, Commissione temporanea sul sistema di intercettazione Echelon, CM 434208IT. doc, PE 300. 136, allocuzione del Ten. Gen. Michael V. Hayden, direttore della National Security Agency, tenuta alla Kennedy Political Union, American University, il 17 febbraio 2000. 24 In questa gara si è contraddistinta per la rozzezza la giornalista Ann Coulter, nel suo recentissimo successo Treason, Liberal Treachery from the Cold War to the War on Terrorism, Crown Forum, New York 2003.

Capitolo 2 La nascita della lista nera anticomunista a Hollywood

2.1. Le liste nere di Hollywood L’industria dello spettacolo di Hollywood ha sempre avuto le sue «liste nere». Col tempo sono cambiate le motivazioni e le dimensioni del fenomeno, ma ci sono sempre state persone, professionalmente validissime, che da un giorno all’altro si sono scoperte tagliate fuori dal «giro» che contava, fino a non riuscire più a ottenere una nuova scrittura. Le ragioni spesso non avevano nulla a che vedere con le loro capacità lavorative. Il più delle volte si finiva in una lista nera per motivi del tutto individuali, non di rado a causa della vendetta personale di qualche pezzo grosso che si era visto rifiutare le sue «attenzioni» verso una bella attrice, o un bell’attore. Altre volte la «schedatura» era l’ingiusta punizione riservata a chi, specie tra gli scrittori o i registi, tentava di organizzare sindacalmente i propri compagni di lavoro. In questi processi quasi mai vi era qualcosa di formale. In un’industria in cui il potere era nelle mani di un gruppo assai ristretto di persone, una banale telefonata tra un produttore e l’altro era sufficiente a mettere in quarantena un artista. Alcune volte, invece, l’esclusione colpiva interi gruppi. Agli afroamericani, per esempio, fu impedito di occupare posizioni di prestigio per moltissimi anni. Una forma di discriminazione visibile anche nelle storie portate sullo schermo, dove agli attori di colore erano riservati ruoli stereotipati e circoscritti, fedeli ai più triti e rassicuranti cliché. Un fenomeno tristemente tipico non solo di Hollywood, ma di tutta la nazione americana del tempo, sindacati compresi1.

2.2. «Hollywood Babilonia» La prima vera e propria «lista nera» di Hollywood apparve all’inizio degli anni ’20, quando le cronache riportarono con dovizia di particolari i comportamenti indecorosi di stelle, stelline, registi e produttori e si andò diffondendo il mito della «Hollywood Babilonia»2, stigmatizzato da un deputato del Congresso nel 1922 con una famosa catilinaria che terminava con l’esplicita richiesta di un codice di censura. Il punto di non ritorno fu raggiunto con lo scoppio degli scandali riguardanti «Fatty» Arbuckle3, William Desmond Taylor4 e Wallace Reid5 , in cui ci scappò il morto. I tre eventi attirarono una forte ondata di critiche da parte dell’opinione pubblica puritana, che portò

proprio nel 1923 all’istituzione dell’Associazione produttori e distributori del cinema (Motion Picture Producers and Distributors of America, Mppda), al cui vertice fu nominato l’avvocato dell’Indiana William Harrison Hays. Detta Associazione fu creata come un’agenzia di relazioni pubbliche per l’industria di Hollywood e il suo scopo era di proteggere questa dai gruppi di pressione esterni, sia politici che civili. Il primo risultato della nuova politica di Hays (che sarebbe stato ricordato come lo «zar del cinema» poiché rimase al suo posto per un trentennio) fu la formulazione di una «lista nera» di 117 artisti 6 esclusi dal lavoro perché le loro vite private li rendevano «scomodi». Hays, già sottosegretario repubblicano alle Poste, vide che si stava saldando nel paese un blocco conservatore – composto dai rappresentanti di diverse religioni, dalle associazioni puritane dei genitori, delle donne e da molti giornali locali – che aveva l’obiettivo di annientare l’industria del cinematografo, giudicata come «profondamente immorale». Per arginare questo progetto, il politico repubblicano ideò il «Motion Picture Production Code», destinato a passare alla storia col nome di «Codice Hays» (1930).

2.3. Il «Codice Hays» Il «Codice Hays»7 era il frutto di un compromesso al ribasso cercato e conseguito tra lo stesso Hays e i boards delle varie Chiese. Tra i documenti preparatori al codice vero e proprio, è rimasto famoso il Donts and be Carefuls, un regolamento di autodisciplina morale con lo scopo di dare orientamenti precisi circa i temi, i fatti, le situazioni o i termini da non inserire nei film. Per esempio, si vietavano le parole «Dio», «Signore», «Gesù», «Cristo» (se non in contesti religiosi), le nudità maschili e femminili anche in silhouette, il traffico illegale di droga, le cosiddette perversioni sessuali, il mettere in ridicolo il clero e così via. Il tutto in nome non certo di qualche discutibile valore religioso, ma con lo scopo preciso di salvare gl’incassi al botteghino della nascente industria hollywoodiana. In teoria il «Codice Hays» non era vincolante e non prevedeva sanzioni disciplinari; in realtà era un potentissimo strumento di pressione morale, con conseguenze gravi sul piano commerciale. Un film che non sottostava al divieti del «Codice», infatti, non solo andava incontro alla censura in vari Stati e a campagne stampa contrarie, ma era sicuramente escluso dai premi Oscar e boicottato da distributori ed esercenti. Per questo furono pochissimi i produttori che si ribellarono ai ferrei divieti codificati da Hays e ancor meno i film che subirono i tagli censori, almeno fino al caso di Il mio corpo ti scalderà (The Outlaw, 1943), di Howard Hughes, che progettato nel 1940, uscì solo nel 1946 dopo un editing molto travagliato. I primissimi esempi di liste di proscrizione su base politica si verificarono a partire dagli anni ’30, ma il fenomeno rimase piuttosto circoscritto e riguardò le battaglie sulla sindacalizzazione dei lavoratori. A quel periodo risale, in particolare, la lotta tra il Sindacato sceneggiatori (Screen Writers Guild, Swg) e l’Associazione commediografi dello schermo (Screen Playwrights, Sp) sostenuta dalle compagnie. Lo scontro arrivò a

minacciare l’esistenza stessa delle gilde, dal momento che molti scrittori pur di trovare lavoro cedettero al ricatto dei produttori e restituirono le tessere dei sindacati. Però alla fine la Screen Writers Guild l’ebbe vinta e nel 1940 firmò il primo contratto collettivo con i produttori. Questo successo, tuttavia, costò ad alcuni dei membri più politicizzati l’ostracismo da parte delle compagnie maggiormente conservatrici. Sempre tra il 1930 e il 1943, infine, nacquero liste di proscrizione informali preparate da alcuni artisti di area comunista contro quei loro colleghi che avevano deciso di combatterli apertamente8. Fenomeni di dimensioni ridotte ma preparatori di quel che sarebbe successo negli anni a venire. Se dunque, negli anni ’20, Hollywood volle sbarazzarsi degli artisti additati come moralmente inaccettabili, negli anni ’40 e ’50 si sarebbe liberata di quelli considerati politicamente pericolosi. Per semplificare, le liste nere che si attivarono nella cittadella del cinema prima del 1947 si basarono per lo più sul concetto di escludere dalle produzioni chiunque causasse problemi o incorresse nelle ire di qualche potente. Un meccanismo tutto sommato preventivabile in un’industria lavorativa ambitissima per gli alti salari, la fama e il glamour, che sin dalla sua nascita aveva richiamato molta più gente di quella che poteva essere assorbita, come ha spiegato l’antropologa Hortense Powdermaker nel suo saggio Hollywood: The Dream Factory. In conclusione, possiamo affermare che il fenomeno delle liste di proscrizione è stato sempre presente nella storia di Hollywood, e solo quando i costi di tali liste divennero troppo gravosi in termini di tempo, soldi, e perdita di artisti desiderati, l’industria archiviò la pratica.

2.4. Le prime influenze comuniste e l’organizzarsi dell’opposizione Fino alle inchieste del 1947, tra gli artisti di Hollywood la componente comunista godette di una diffusa popolarità. Esiste addirittura una storia apocrifa che parla di un certo Leber Bronstein del Bronx, alias Lev Trockij, assunto come comparsa nel film The Battle Cry of Peace (1915), di Wifred North. Apocrifi a parte, la data di nascita di un vero gruppo comunista all’interno dell’industria del cinema risale al 1937, quando John Howard Lawson e altri compagni si incontrarono per inaugurare la prima sezione distaccata del Partito comunista americano nella cittadella dello spettacolo. A partire da quella data furono molti gli iscritti comunisti che s’impegnarono all’interno dei sindacati degli sceneggiatori, degli attori e dei registi9 : Lawson, per esempio, fu per diversi anni presidente eletto per acclamazione dello Screen Writers Guild. Sul piano politico e sociale, i comunisti erano presenti – come anche i progressisti, i democratici e non pochi repubblicani – in gruppi quali il Comitato democratico di Hollywood (Hollywood Democratic Committee), la Lega antinazista di Hollywood (Hollywood Anti-Nazi League), il Comitato per gli aiuti americani alla Spagna (United American Spanish Aid Committee) e numerose organizzazioni che combattevano gli atti di bigottismo razziale o

religioso. Nel suo saggio The Red Decade, Eugene Lyons dedica un capitolo ai «rossi di Hollywood» accreditandoli di una influenza maggiore di quanto si legga in altri testi. Non c’è dubbio, tuttavia, che in generale gli artisti comunisti parteciparono intensamente alla vita politica dell’industria cinematografica, riscuotendo il plauso dei loro colleghi apolitici fino al 1947, data a partire dalla quale cominciò la stagione delle prese di distanza e delle condanne10. Come ricorda Edward Dmytryk, uno dei Dieci di Hollywood, nella sua autobiografia: Sul mio opuscolo del partito, numero di matricola 84961 del 6 maggio 1944, c’era scritto, tra le altre cose: «Il Partito comunista degli Usa è […] un partito politico che si propone di continuare la tradizione di Jefferson, Paine, Jackson e Lincoln […] Il partito sostiene e difende la Costituzione degli Stati Uniti […] attraverso il governo del popolo, dal popolo e per il popolo. Il partito è per l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di una nazione su un’altra e di una razza su un’altra razza […] Noi aspiriamo a un mondo senza oppressioni e guerre, il mondo della fratellanza dell’Uomo». Ora, vi domando, mai sentito una retorica più carica di spirito americano? Non c’era un solo accenno di rivoluzione, violenza o terrorismo. 11

L’avanzata dell’influenza comunista nell’industria del cinema era vista con preoccupazione da parte dei conservatori sia dentro che fuori l’ambiente dello spettacolo e già nel 1940 il presidente della Commissione per le attività antiamericane, il democratico del Texas Martin Dies, si era recato a Los Angeles per indagare sui «rossi di Hollywood». In tale occasione, il presidente dell’Associazione produttori (Association Motion Picture Producers, Ampp), Frank Freeman, aveva guidato una delegazione di esponenti dell’industria nella stanza d’albergo di Dies, dove si svolgevano le indagini, per illustrare il punto di vista della sua organizzazione. Freeman, davanti alla Commissione Dies e in nome dell’Associazione produttori, disse: I 32 mila lavoratori del mondo dello spettacolo di Holywood non vogliono essere secondi a nessuno nel loro sincero americanismo; diamo il benvenuto a un’indagine completa e imparziale. È sempre stato desiderio di ogni leale americano in questa industria cooperare con i rappresentanti del governo. Se una indagine veramente imparziale scoprirà chi sono quelli che, con le loro azioni e la loro condotta, hanno gettato discredito su questa industria e i suoi lavoratori, non ci sarà alcun tentativo di proteggere tali individui o gruppi di individui. 12[Corsivo nostro]

Ma dalle indagini del 1940 della Commissione Dies non venne fuori nulla di rilevante e con l’entrata nel 1941 degli Usa nella seconda guerra mondiale, in alleanza con l’Urss, quasi tutte le agenzie federali misero la sordina ai loro attacchi contro i sospettati di comunismo.

2.5. La nascita dell’Alleanza cinematografica per la difesa degli ideali americani (Mpapai) Nel 1943, l’anno di massimo splendore del movimento comunista americano, un gruppo di artisti e cittadini conservatori che si opponeva apertamente ai «rossi» e a tutti i progressisti di Hollywood, fondò l’Alleanza cinematografica per la difesa degli ideali americani (The Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals, dal buffo acronimo Mpapai), associazione che sarebbe diventata la lobby anticomunista più efficace del settore. Tra i suoi fondatori ricordiamo: James Kevin McGuinness, capo del dipartimento di

Storia alla Metro-Goldwin-Mayer, Rupert Hughes, fondatore dello Screen Playwrights, George Sokolsky, editorialista della catena giornalistica Hearst, John Wayne, Robert Taylor, Lela Rogers (mamma di Ginger), Sam Wood, John Ford, Clark Gable e Gary Cooper13. La nascita dell’Alleanza non impedì inizialmente ai comunisti di Hollywood di raggiungere il picco della loro influenza durante l’ultimo anno della seconda guerra mondiale, quando l’alleanza militare tra Usa e Urss (propagandata dal governo americano in tutto il paese), permise loro di eleggere 16 membri su 40 nel Comitato esecutivo del Sindacato sceneggiatori. Finita la guerra fu chiaro che le relazioni tra Urss e Usa andavano deteriorandosi. Il sentimento anticomunista tornò a impadronirsi di molti settori dell’opinione pubblica americana e l’attacco ai «rossi di Hollywood» riprese con forza maggiore. Nel 1945 la Commissione per le attività antiamericane, ora sotto la presidenza del democratico del New Jersey Edward J. Hart e poi del collega della Georgia John S. Wood, annunciò che avrebbe iniziato una nuova indagine sull’infiltrazione comunista nel mondo dello spettacolo. Contestualmente, il deputato repubblicano del Mississippi, John Rankin, proclamò che avrebbe scoperchiato «uno dei più terribili complotti mai tentati per rovesciare il governo federale» e che Hollywood rappresentava «il più grande covo di attività sovversive degli interi Stati Uniti». L’indagine fu condotta per alcuni mesi dietro le quinte, senza alcuna udienza pubblica. Alla fine tutto si risolse in una bolla di sapone, senza immediate conseguenze. In ogni caso i proclami della Commisione per le attività antiamericane del 1945 avevano dato un segnale di quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Negli studios della Columbia i vicepresidenti B. B. Kahane e Mendel Silverberg fecero pressioni sul presidente Harry Cohn affinché licenziasse John Howard Lawson, noto simpatizzante comunista. Kahane e Silverberg ritenevano che la Columbia dovesse «dare il buon esempio» e assumere una posizione chiara nei confronti della volontà politica della Commissione, ancora prima della sua venuta a Los Angeles. Ma Cohn respinse le pressioni e Lawson potè conservare il suo posto ancora per qualche tempo14.

2.6. Maggio 1947: l’inchiesta a porte chiuse prende il via Il 1947 fu l’anno capitale della storia della lista nera a Hollywood. Anche se in quell’anno furono solo dieci gli artisti che finirono sotto schedatura, si delinearono tutti i meccanismi di accusa che sarebbero rimasti costanti per più di un decennio. Per capire come si giunse alla formazione della lista nera anticomunista è opportuno esaminare gli avvenimenti del ’47 nel dettaglio. Per la terza volta in un decennio la Commissione per le attività antiamericane tornava dunque a Hollywood, ora sotto la presidenza del repubblicano del New Jersey, J. Parnell Thomas. La nuova inchiesta traeva spunto dalla gran quantità di materiale raccolto dal California Legislature’s Joint-Fact-Finding Committee (Cljffc)15 e dall’Alleanza cinematografica per la difesa degli ideali americani. Per tutto il mese di maggio un Sottocomitato della Commissione (composto oltreché dal presidente Thomas, dai deputati John McDowell della Pennsylvania, Richard B. Vail dell’Illinois, John S. Wood

della Georgia e Richard M. Nixon della California), tenne udienze a porte chiuse all’Hotel Biltmore di Los Angeles, chiamando a testimoniare anche alcuni membri di spicco dell’Alleanza per la difesa degli ideali americani. Eric Johnston, presidente dell’Associazione del cinema (Motion Picture Association of America, Mpaa), promise «piena cooperazione» al Sottocomitato 16, ma il presidente Thomas lamentò ugualmente verso la sua indagine un clima di generale fastidio da parte dell’industria17. All’interno di Hollywood gli atteggiamenti nei confronti di un’inchiesta che indagava sulla presenza di artisti comunisti al suo interno erano contrastanti. Mentre il celebre produttore Jack Warner dichiarò che l’America aveva «bisogno di svegliarsi» e raccomandò un’indagine severa contro i «rossi»18, il collega Eric Johnston assicurò: «Dite ai ragazzi di non preoccuparsi. Non ci sarà mai una lista nera: non diverremo totalitari per soddisfare questa Commissione!». Il quotidiano dello spettacolo «Daily Variety» si schierò apertamente contro l’indagine in un editoriale premonitore che accusò: «L’inchiesta di Thomas e del suo gruppo sarà soltanto una caccia alle streghe»19. In particolare, durante l’udienza del famoso produttore Jack Warner della Warner Bros. , i membri della Commissione suggerirono, senza mai dirlo apertamente, l’utilità di un meccanismo di discriminazione contro i sospettati di comunismo. Chiedere ufficialmente l’istituzione di una tale misura era illegale, illegittimo e anche sconveniente da parte di deputati del Congresso. Così i commissari fecero capire la loro volontà ai magnati del cinema, con delle lunghe perifrasi alquanto ambigue, come quando l’investigatore Stripling disse a Warner: Non crede che il modo più efficace di rimuovere queste influenze comuniste sia quella del libro-paga? In altre parole, se i produttori tagliassero fuori dai loro libri-paga questa gente, se ne eliminerebbero molti di più e molto più velocemente di quanto potrebbe fare una Commissione federale o qualunque altra crociata, no?20

Argomento sul quale tornò anche l’investigatore Vail, sempre nello stesso interrogatorio, qualche minuto più tardi: «Ma davvero lei ci tiene molto a fornire un salario vita natural durante a individui che tentano di rovesciare la nostra forma di governo con metodi sovversivi?»21. Tuttavia le risposte del testimone Warner restavano vaghe, almeno nel giudizio dei commissari, che volevano ottenere un’esplicita dichiarazione di discriminazione contro qualunque artista che si fosse proclamato comunista. Questo tipo di dichiarazioni, durante le udienze a porte chiuse del maggio 1947, furono difficili a sentirsi, ma di lì a pochi mesi sarebbero piovute da più parti. Come riporta Kahn, Jack Warner fornì una mediocre immagine di sé, deponendo in modo servile e contraddittorio allo stesso tempo, terrorizzato dal vedere diminuito il suo potere di produttore dell’industria cinematografica e perciò desideroso di dare alla Commissione l’assicurazione che lui «era dalla loro parte» e che di «rossi» a Hollywood22 non ne voleva. All’interno dell’interrogatorio Warner vi furono anche dei clamorosi autogol da parte degli inquirenti, come quando l’investigatore McDowell, nel tentativo di ottenere dal testimone una dichiarazione di anticomunismo militante, disse: McDowell: «Solo un’altra domanda, signor Warner… Lei ovviamente saprà che la presente Commissione sta preparando due risoluzioni che suggeriscono di mettere fuori legge il Partito comunista. Lei pensa che il Congresso dovrebbe adottare queste due risoluzioni?»

Warner: «Beh le sosterrei se fossi sicuro che non pregiudichino i diritti di un libero cittadino, di un buon americano di farsi una vita, e anche che non interferiscano con la Costituzione degli Stati Uniti, o con la Dichiarazione dei Diritti». McDowell: «Lei sa che durante il regime hitleriano furono approvate delle disposizioni che mettevano fuori legge il comunismo e che portarono i comunisti in galera. Non sosterrebbe le stesse misure qui?» Warner: «Tutti in quest’aula, e tutti nel mondo sanno quali furono le conseguenze di quel tipo di disposizioni. »23

Warner sembrava non capire il senso di quelle domande e si ostinava a rispondere nel modo che lui riteneva il più giusto possibile, deludendo le aspettative degli investigatori. Alla fine, la questione della messa fuori legge del Partito comunista fu risolta bruscamente dallo stesso presidente Thomas, che abbandonò qualunque perifrasi: Presidente Thomas: «Insomma, se noi come deputati approvassimo una legge, questa sarebbe una procedura corretta, no?» Warner: «Io, come ogni singolo cittadino, sono naturalmente a favore di qualunque cosa che sia buona per gli americani. » Presidente Thomas: «E allora, sarebbe a favore di una legge che mettesse fuori dai giochi il Partito comunista?» Warner: «Intende fuori dalle elezioni?» Presidente Thomas: «Sì, facendolo diventare un’organizzazione illegale. » Warner: «Sono per farlo diventare un’organizzazione illegale. » Presidente Thomas: «Lo è?» Warner: «Sì, signore. »24

2.7. Giugno 1947: l’assemblea dei produttori Le udienze pubbliche di Hollywood sarebbero dovute cominciare nel giugno del ’47, poi lo stesso presidente Thomas le spostò al mese di settembre per permettere alla Commissione di «mettere ordine all’interno delle moltissime indicazioni pervenute»25. Mentre le udienze venivano spostate, i produttori organizzarono un importante incontro26 degli esecutivi dei maggiori studios di Hollywood. L’Associazione produttori era una associazione volontaria che operava sotto le leggi dello Stato di California. Includeva, nel 1947, solo i produttori delle major, cioè Warner Bros. , Mayer, 20th Century Fox, Rko-Radio, Columbia, Universal-International e Goldwin. Una delle maggiori compagnie di Hollyowood, la United Artist, non era membro di questo gruppo perché non produceva film ma si limitava a distribuirli. Il sorgere di accordi collettivi tra le gilde e i sindacati a Hollywood era stato contrastato dall’Associazione produttori che fungeva da agente per tutte le major. Ciascuna compagnia firmava un proprio contratto con ogni gilda o sindacato, chiamato minimum basic agreement. Le reali contrattazioni erano portate avanti in un secondo momento dall’Associazione produttori. Oltre a essere capo dell’Associazione produttori, Eric Johnston rappresentava, come abbiamo detto, anche l’Associazione del cinema, che si dedicava soprattutto alle pubbliche relazioni e all’autoregolamentazione e aveva sede a New York, ma il suo ufficio principale era a Washington Dc, con una filiale a Hollywood. L’Associazione del cinema era un’organizzazione più grande di quella dei produttori, comprendente ogni aspetto dell’industria cinematografica con

agenzie sparse in tutto il mondo. Essa aveva inoltre possibilità di proporre emendamenti al famoso «Codice Hays», gestito come abbiamo visto prima dall’Associazione produttori e distributori, al cui vertice vi era lo stesso Hays. Al convegno del 2 giugno 1947, Eric Johnston tentò di convincere l’Associazione produttori ad adottare un programma in tre punti per fronteggiare l’investigazione della Commissione: a) insistenza per avere una giusta e oggettiva indagine da parte del comitato antiamericano di Thomas [sic]; b) accordo di non impiegare persone che fossero provatamente comuniste in una posizione di influenza nel film; c) l’impiego di James Byrnes, già Segretario di Stato, come rappresentante dell’Associazione produttori in tribunale, presentando alla Commissione tutte le statistiche dell’industria27. L’Associazione produttori votò l’adozione delle proposte a) e c) di Johnston ma rifiutò la risoluzione b). Più tardi Johnston stesso spiegò perché il gruppo aveva votato contro la sua seconda proposta: «Unirsi per rifiutare di assumere qualcuno poteva essere letto come una potenziale cospirazione e il nostro ufficio legale diede parere contrario». Inoltre, aggiunse Johnston, «chi poteva mai provare se un uomo era comunista o no? Si sarebbe dovuto fare un processo in base alle leggi americane, o qualcuno – magari un apposito comitato o un singolo produttore – si sarebbe arrogato il diritto di stabilire chi era comunista?». Così anche Johnston convenne con il resto dell’Associazione produttori e il secondo punto fu rigettato. Era comunque chiaro che i produttori attendevano l’inizio dell’inchiesta nella consapevolezza che si avvicinavano mesi difficili non solo per gli eventuali «sovversivi» ma per tutta l’industria, che avrebbe dovuto difendere sopra ogni altra cosa la propria libertà e autonomia, oltre quella dei propri lavoratori. Se il secondo obiettivo non vedeva nell’Associazione produttori il giusto difensore, il primo scopo fu, fino a un certo punto, sostenuto con forza. Nel tardo luglio del 1947 due investigatori del comitato giunsero a Los Angeles annunciando che Hollywood aveva sessanta giorni di tempo per «scuotersi e liberarsi dei sovversivi». E se ciò non fosse stato fatto, l’intera industria dello spettacolo sarebbe stata sottoposta a un’attenta indagine, poiché «in questo caso», come annunciò un investigatore alla stampa, «gli stessi studios saranno ritenuti corresponsabili di ogni infiltrazione comunista dell’ambiente»28.

2.8. Settembre 1947: la Commissione sceglie i testimoni In settembre, il comitato mise sotto processo 41 personaggi di Hollywood29 e l’opposizione alla Commissione cominciò a solidificarsi: 19 individui che avevano ricevuto il mandato di comparizione affermarono che si sarebbero rifiutati di cooperare. Questi 19 testimoni furono immediatemente etichettati dai giornali come «unfriendly», ostili30 e divennero noti come «I Diciannove» (in realtà sarebbero poi stati solo 18, dal momento che Brecht, essendo straniero, volle rimanere libero di elaborare una propria linea di difesa, cosa che gli altri non contestarono).

Un caso a parte fu quello del celebre Charlie Chaplin, convocato nel settembre 1947. Dopo tre rinvii della sua comparizione, egli spedì alla Commissione un telegramma: «Non sono comunista, non mi sono mai iscritto ad alcun partito od organizzazione politica in vita mia». La Commissione dovette credergli, perché gli rispose che la sua comparizione alle udienze non era più necessaria e che la questione poteva essere considerata chiusa. Pochi mesi più tardi, avendo partecipato a un appello in appoggio ai Dieci, ricevette una nuova ingiunzione mentre si trovava a bordo di una nave che lo stava portando in Inghilterra. Arrivato in Europa, il famoso attore fece sapere al consolato statunitense di Losanna che non aveva alcuna intenzione di rimettere piede in America e che quindi non si sarebbe mai presentato alla Commissione31. Non si è mai saputo con quale criterio la Commissione scelse i suoi primi testimoni. Certo le delazioni compiute dai membri dell’Alleanza per la difesa degli ideali americani durante le udienze a porte chiuse ebbero un grosso peso, ma non si può escludere un intervento decisivo dell’Fbi che all’epoca doveva già avere dossier aperti coi nomi di diverse decine di sospettati. Da quanto risulta oggi, il presidente Thomas aveva spuntato i nomi di 72 «personaggi sovversivi», ma in questa prima tornata volle spedire l’invito di comparizione a sole 41 persone, di cui diciannove erano schierate apertamente contro la Commissione. Le caratteristiche comuni ai 19 ostili erano: – abitavano tutti a Hollywood ed erano attivi nel cinema; – erano tutti impegnati in iniziative filosovietiche; – erano tutti uomini; – sedici erano sceneggiatori; – tredici erano di origine ebrea; – uno solo era reduce della seconda guerra mondiale. Cosa che ci fa supporre un’intenzione della Commissione di concentrarsi contro una figura ben delineata di artista hollywoodiano: il progressista benestante, appartenente all’intellighenzia del cinema, meglio se di origine ebraica. Quest’ultima caratteristica era considerata quasi come una ulteriore «prova» di colpevolezza, poiché i movimenti che premevano per spazzare via i «rossi» dagli Stati Uniti spesso si professavano apertamente antisemiti, antineri e omofobi, riunendo in un unico calderone tutte le categorie scomode diverse da quella Wasp (White Anglo Saxon Protestant), ritenuta l’unica vera americana. Sarebbe interessante approfondire le ragioni che vedevano, nella democratica America uscita vittoriosa sul nazismo, ceppi di così aperto antisemitismo, ma tale ricerca esula dal campo di questo studio. È da notare, tuttavia, che quando i giornali della destra americana vollero assestare un colpo all’immagine dei 19 testimoni «ostili», pubblicarono i loro nomi americanizzati aggiungendo in parentesi l’originale cognome ebraico. Una bieca operazione alla quale dette il via lo stesso Rankin, sottolineando in aula la radice ebraica dei nomi degli accusati. Come ha sostenuto Brenda Murphy nel suo fondamentale saggio32: «Per Rankin, Hollywood era territorio semita. Per Thomas, era territorio del New

Deal. Per l’intera Commissione, era un vero e proprio sole attorno al quale l’attenzione della stampa ruotava incessantemente. Ed era anche un posto dove era possibile trovare qualche vero comunista».

2.9. La tattica difensiva dei diciannove testimoni «ostili» Pochi giorni prima dell’inizio delle udienze, i «Diciannove» si riunirono a casa di Edward G. Robinson per definire una comune linea di difesa contro l’inchiesta della Commissione, da loro valutata come «illegittima e illegale» poiché Thomas, Rankin, Nixon e gli altri commissari erano per loro nient’altro che degli avversari politici camuffati da parlamentari. Albert Maltz, uno degli intervenuti alla riunione, disse: «Non andiamo davanti alla Commissione per mettere su uno spettacolo o grandi manovre legali; dobbiamo combattere, insieme agli inquisitori, l’intero movimento di destra che dal dopoguerra cerca di far tacere chi critica il sistema: tutti, dagli artisti ai dipendenti statali»33. In un’altra occasione Maltz dichiarò: «Si distrugge una persona in modo che la paura ne costringa al silenzio e all’impotenza altre mille». Maltz era convinto che questo fosse un metodo fascista e che combattendo la Commissione, loro «combattessero l’ennesima battaglia contro un’altra forma di fascismo». Dunque, nonostante il clima politico del Congresso si fosse rivelato a favore della Hcua, i «Diciannove» non erano disponibili a riconoscerle un’autorità maggiore di quella che aveva il Ku Klux Klan o il Partito nazista americano. I «Diciannove» erano quanto mai determinati a continuare a lavorare a Hollywood, a evitare il carcere senza per ciò dover rispondere alle domande della Commissione, men che meno coinvolgendo altri artisti nella faccenda. Scelsero, quindi, un collegio di difesa collettivo, formato da Ben Margolis (che riteneva l’Hcua «uno strumento di repressione politica») e Charles Katz, della National Lawyers Guild, coadiuvati da Robert Kenny (ex procuratore generale dello Stato di California), Bartley Crum, avvocato di San Francisco di fede liberal-repubblicana, nonché Samuel Rosenwein di New York, e Martin Popper di Washington, per poter seguire da vicino gli sviluppi dell’inchiesta sulla costa orientale. Questo collegio di difesa ritenne che la mossa vincente fosse di arrivare al giudizio in Corte Suprema, all’epoca largamente rooseveltiana nella sua composizione, poiché i precedenti gradi di giudizio potevano essere facilmente influenzati dal potere politico della Commissione per le attività antiamericane. Contemporaneamente, per permettere ai loro assistiti di continuare a lavorare, il collegio di avvocati decise che occorreva trovare una strategia legale che consentisse di manifestare una netta opposizione alla Commissione senza urtare la suscettibilità dei produttori, inclini a chinare la testa davanti a Thomas e soci sinché erano in gioco «solo» questioni ideali o di principio. Come ricorda Lester Cole nella sua autobiografia: I nostri avvocati ci spiegarono nel dettaglio una regola-capestro inventata dalla Commissione: durante l’interrogatorio, se, dopo aver dichiarato il nostro nome e cognome – cosa che eravamo obbligati a fare, pena oltraggio al Congresso – avessimo risposto «sì» o «no» a qualunque ulteriore domanda, saremmo stati obbligati a rispondere a tutte le domande successive, sempre a pena di oltraggio. Ma c’era anche una situazione peggiore: uno della Commissione avrebbe potuto chiedermi «è iscritto o è mai stato iscritto al Partito

comunista?» e io avrei potuto onestamente rispondere «no». Quindi, loro avrebbero potuto chiedermi se conoscevo qualche appartenente al Partito, e di nuovo avrei potuto negare. Ma se loro fossero stati in grado di produrre anche un solo testimone che avesse sostenuto che io conoscevo dei comunisti, sarei incorso nel reato di falsa dichiarazione sotto giuramento. Cosa ovviamente impossibile per i loro eventuali falsi testimoni, dal momento che il controinterrogatorio non era permesso!34

Così gli avvocati consigliarono loro di presentarsi alle udienze e di tentare di parlare al microfono il più a lungo possibile, pur senza rispondere a domande giudicate illegali sulla base del Primo o del Quinto emendamento. I «Diciannove», che dapprincipio sembravano intenzionati a non presentarsi neanche alle udienze, oppure di presentarsi facendo scena muta per non riconoscere legittimità alla Commissione, accettarono questa prospettiva soprattutto perché vedevano il loro scontro con l’Hcua come un’occasione pubblica di massimo ascolto, per cui bisognava trovare il modo di presentarsi politicamente a quel popolo americano che essi volevano convincere. D’altro canto, non volevano svendere il proprio orgoglio politico per compiacere l’opinione pubblica, dunque decisero di non rispondere a nessuna domanda personale, intendendo come tale qualunque domanda che riguardasse le loro affiliazioni sindacali o politiche.

2.10. Il dilemma degli «ostili»: Primo o Quinto emendamento? Decisa questa strategia, la questione della scelta dell’emendamento cui appellarsi fu lunga e complicata. Per capire bene quali ragioni giuridiche (e non solo) si contrapponevano, è necessario analizzare brevemente il significato dei due articoli. Anzitutto, pur facendo parte entrambi della Dichiarazione dei Diritti del 1791 (Bill of Rights) godevano di un favore diverso nel paese. Il testo del Primo emendamento35 dice: Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento ufficiale di qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto; o per limitare la libertà di parola o di stampa, o il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al governo per la riparazione di torti subiti.

Mentre il testo del Quinto recita: Nessuno sarà tenuto a rispondere di un reato che comporti la pena capitale, o comunque infamante, se non per denuncia o accusa fatta da una grande giuria […]; né alcuno potrà essere sottoposto due volte per un medesimo delitto, a un procedimento che comprometta la sua vita o la sua integrità fisica, né potrà essere obbligato, in qualsiasi causa penale, a deporre contro sé medesimo, né potrà essere privato della vita, della libertà o della proprietà, se non in seguito a un regolare procedimento legale [ without due process of law]. [Corsivi nostri]

Nel suo spirito, dunque, il Primo intendeva difendere la libertà di parola, di pensiero, di riunione e di stampa – le libertà fondamentali – di qualunque cittadino americano. Appellandosi al Primo, i «Diciannove» accusavano implicitamente la Commissione di trasgredire uno dei principi cardine dell’ordinamento costituzionale statunitense; una vera dimostrazione di antiamericanismo da parte della Commissione per le attività antiamericane. In questo modo, dunque, si lasciava intendere che effettivamente i «Diciannove» avrebbero anche potuto essere di idee comuniste, ma che questo rientrava pienamente nei loro diritti di liberi cittadini americani. Il Quinto, invece, era inteso, seppure in modo incorretto, come una mezza

ammissione di colpa. Col Quinto si riconosceva che il fatto stesso di definirsi comunisti o di esserlo stati, era considerabile come reato, e proprio sulla base di questo sillogismo si chiamava il diritto garantito dal Quinto di non dover rilasciare testimonianze auto-accusanti. Del resto il concetto che chi si appellasse al Quinto fosse sotto sotto colpevole, era stato sapientemente insinuato nel paese dagli stessi commissari e diffuso nell’America degli anni ’50 per via dei vari processi politici che furono tenuti in quel periodo36 e che vedevano sempre qualcuno degli indagati appellarsi a detto emendamento. Come vedremo più avanti nella Dichiarazione del Waldorf, per i produttori chi si difendeva col Quinto emendamento era automaticamente inserito nella lista nera. Valersi di un principio immortale, «americanissimo», dall’alto respiro – quello ispirante il Primo – oppure riconoscere la propria situazione di imputati alla sbarra, imputati di comunismo? Questa era la grande scelta che impegnò le discussioni dei «Diciannove» con i loro avvocati. Alla fine si decise per il Primo, una scelta in linea col carattere degli artisti inquisiti che sembrava poter offrire una buona difesa giuridica. La Corte Suprema non aveva (ancora) esplicitamente limitato il ricorso a esso da parte di testimoni chiamati a deporre davanti al Congresso. Tuttavia, nonostante i vantaggi sentimentali, politici, professionali e giuridici che il ricorso al Primo presentava, una tale linea difensiva implicava anche la certezza di incriminazione per oltraggio al Congresso e una lunga e costosa battaglia giudiziaria per evitare di essere multati o incarcerati. Sotto il nome di «Comitato per il Primo emendamento» i registi John Huston, William Wyler e Philip Dunne fondarono un’organizzazione per attaccare i metodi e i propositi delle udienze, che crebbe fino ad avere alcune centinaia di preminenti personaggi di Hollywood37. Anche gli stessi produttori stavano cominciando a meditare sui veri fini dell’inchiesta. Una dichiarazione ufficiale pubblicata dall’Associazione produttori in ottobre, poco prima delle udienze, affermava che se l’industria cinematografica avesse commesso dei crimini voleva sapere quali fossero, altrimenti si rifiutava di collaborare con la Commissione. Questa fu l’affermazione più dura che l’Associazione produttori rilasciò alla stampa riguardo il comunismo a Hollywood; mai più l’Associazione avrebbe osato sfidare l’Hcua in modo tanto coraggioso. Quello che il collegio di difesa non calcolò fu il clima politico sfavorevole che portava la gente a puntare il dito contro i «sovversivi comunisti», e legittimava il potere politico e giuridico del momento. Paradossalmente, l’America del Bill of Rights era più tollerante di quella della Guerra Fredda. Quest’America, impaurita dalla minaccia costituita dall’Urss, arrivò a sconfessare il valore fondamentale di democrazia e libertà contenuto nel Primo emendamento. Il Congresso e il Presidente avevano autorizzato la nascita della Commisione per le attività antiamericane. Il Congresso ne aveva deciso la composizione; erano i parlamentari della Commissione a interrogare e sarebbe stato il Congresso a decidere le sanzioni. L’unico organo che il potere politico non poteva controllare sinché i suoi membri fossero rimasti in vita, era la Corte

Suprema, che nel 1947, come abbiamo detto, vedeva una composizione di tendenza liberal-progressista. Il collegio di difesa dei «Diciannove» non poteva prevedere che poco prima dell’esame del loro caso, tre degli alti magistrati della Corte – tra cui il presidente Mayer – sarebbero deceduti, lasciando il posto a tre colleghi conservatori nominati dal presidente Truman. L’ultima decisione che i «Diciannove» presero, fu che ciascuno avrebbe letto ai microfoni della Commissione una breve, critica dichiarazione38 prima di rispondere a qualunque domanda ritenuta legittima. Il concetto delle «domande legittime» fu introdotto con successo da Robert Kenny – di tutti l’avvocato più accorto e cauto, più politico potremmo dire – che suggerì ai «Diciannove» di evitare di usare l’espressione «mi rifiuto di rispondere», replicando a qualunque domanda venisse posta da Kenny se era ininfluente all’indagine e di tergiversare su quelle topiche, sostenendo che stavano sì rispondendo, «ma alla loro maniera». Del resto gli imputati possedevano una forte dimestichezza con la parola ed erano certo in grado, tranne forse lo straniero Brecht, di sostenere il fuoco di fila delle domande in modo arguto, ossia senza tacere e senza rispondere. Un esempio di questa strategia è stata poi riprodotta nelle scene finali del bel film Il prestanome da Woody Allen.

2.11. 20 ottobre 1947: l’inchiesta prende il via Questa volta, a differenza che in passato, l’arrivo della Commissione per le attività antiamericane fu trasformato in un mega evento mediatico e le udienze furono trasmesse in diretta sia radiofonica che televisiva. Alle dieci e trenta del mattino del 20 ottobre 1947, nella Sala Caucus dell’Old House Office Builiding di Washington Dc, Parnell Thomas, Richard Nixon, John McDowell e Richard Vail dettero finalmente inizio alle udienze pubbliche dei 41 testimoni. L’aula degli interrogatori, oltre a essere gremita di fan in subbuglio per poter vedere dal vivo i propri beniamini (le cronache dell’epoca riportano che una donna di una certa età si ruppe la testa scivolando da un termosifone sul quale si era arrampicata), fu letteralmente presa d’assalto da 120 reporter, diversi commentatori, cinque troupe radiofoniche e tre televisive con i necessari sistemi di luci. Nonostante le feroci critiche del «New York Times», lo «show» di Hollywood alla sbarra attirò l’attenzione di un pubblico immenso e preparò il terreno per le udienze in diretta Tv tra McCarthy e l’esercito di sette anni più tardi, quelle sullo scandalo Watergate degli anni ’70, sull’affaire Iran-Contras negli anni ’80 e l’interrogatorio di Clinton sul caso Lewinski alla fine degli anni ’90. I primi a essere ascoltati furono i testimoni amichevoli, quasi tutti membri dell’Alleanza cinematografica per la difesa degli ideali americani, che accusarono quanti più testimoni «ostili» poterono, sulla base di «sentito dire» o di precedenti esperienze lavorative in comune. L’ordine di deposizione fu a lungo studiato dai membri della Commissione nel tentativo (molto hollywoodiano) di creare il massimo pathos possibile: così si cominciò con uno dei personaggi più collaborativi, il famosissimo produttore Jack Warner (che aveva già testimoniato in maggio, fornendo una lunga lista di nomi di probabili «artisti comunisti»), al quale sarebbe seguito un regista

altrettanto famoso, Sam Wood. Quindi sarebbe stato il turno del capo del più grande studio di Hollywood, Louis B. Mayer, e poi una sceneggiatrice, Ayn Rand, e un attore, Adolphe Menjou. I primi cinque testimoni rappresentavano dunque i cinque grandi settori dell’industria cinematografica, come a dimostrare che il pericolo comunista era presente in tutte le categorie. Dopo Menjou fu la volta del regista Leo McCarey, poi toccò a due sceneggiatori, John Charles Moffitt e Rupert Hughes, e ancora un produttore esecutivo, James K. McGuinness, quindi fu la volta di una delle star più famose di Hollywood, Robert Taylor. Dopo sarebbe toccato a un ex comunista, Howard Rushmore, ad altri tre sceneggiatori, Morrie Ryskind, Fred Niblo jr. e Richard Macaulay, quindi a quattro famosi attori, Robert Montgomery, George Murphy (futuro senatore repubblicano della California), Ronald Reagan e Gary Cooper. Il ciclo dei testimoni amichevoli sarebbe stato ultimato dalla madre di Ginger Rogers, Lela, dal politologo Oliver Carlson e, ultimissimo, il celeberrimo disegnatore Walt Disney. Come ha scritto il professor Dick: «Che proprio il creatore di Fantasia [ id. , 1940] chiudesse le testimonianze di accusa, fu la giusta fine di cinque giornate di fantasia che, se filmate, sarebbero state rese bene da un cartone animato»39. Curioso notare come quasi tutti i testimoni amichevoli fossero iscritti all’Alleanza cinematografica per la difesa degli ideali americani.

2.12. I testi «amichevoli»: le deposizioni di Jack Warner e Adolphe Menjou Il primo a sedersi dietro i microfoni della Commissione e delle radio di tutta America fu dunque il produttore Jack Warner. Dopo una strenua difesa della «purezza americana» di tutte le sue produzioni, inclusa Mission to Moscow (1943, di Michael Curtiz), l’uomo si lanciò in una goffa e servile rivendicazione del suo «patriottismo», ringraziando la Commissione per il suo operato e professando la sua avversione per il comunismo. Senza neanche aspettare la fatidica domanda, Warner fornì deliberatamente i nomi di dodici comunisti che aveva «smascherato e licenziato» dal suo studio: Bessie, Khan, Koch, Lardner, Lavery, Lawson, Maltz, Rossen, Trumbo, Wexley, Irwin e Odets Shaw. Alla domanda di quali film a carattere anticomunista avesse prodotto, la risposta fu indicativa di tutto un modo di pensare: «La mia compagnia ha giusto messo in cantiere una serie di opere in proposito»40. Era stata così distrutta ogni strategia messa a punto dai produttori. Warner aveva gettato la maschera e aveva privato se stesso e la sua categoria di qualunque appiglio giuridico che aiutasse il mantenimento di una linea di condotta di squadra, utile a difendere l’autonomia dei produttori di Hollywood. Gli stessi «Diciannove» furono sorpresi da un atteggiamento tanto servile e ridicolo. Paul McNutt, avvocato dei produttori, rivelò giorni dopo a Johnston: «Ho passato la giornata a rivedere la testimonianza di Warner nel tentativo di farlo apparire sotto una luce meno idiota»41. Dopo Warner, gli altri testimoni amichevoli (Sam Wood, John Charles Moffitt, Rupert Hughes, Morrie Ryskind, Fred Niblo jr. , Richard Macaulay, con l’eccezione di Leo McCarey) denunciarono senza esitazione decine e decine di

loro colleghi, tutti «colpevoli» di comunismo. Ogni testimone dell’Alleanza cinematografica per la difesa degli ideali americani raccontò alla Commissione come Hollywood fronteggiasse l’infiltrazione dei «rossi». Alcuni testimoni tentarono di mostrare che la propaganda della falce e martello era apparsa sullo schermo, ma tale evidenza fu, nella migliore delle ipotesi, inconcludente e spesso comica42. «La Commissione» – ricorda Giannalberto Bendazzi nell’introduzione all’edizione italiana di un saggio di Donald Trumbo43 – «dovette dedicarsi almeno otto volte, durante le udienze del 1947, a definire che cosa bisognava intendere per “ideologia comunista”. Durante queste dotte disquisizioni si stabilì che presentare una persona ricca come maleducata, criticare i membri del Congresso o mostrare un soldato smobilitato come deluso dalla sua esperienza militare, era un sicuro rivelatore di ideologia comunista». Lo stile degli interrogatori è riassumibile dai seguenti scambi di battute tra il deputato Stripling e Adolphe Menjou e poi tra Nixon e lo stesso teste: Stripling: «Come attore, signor Menjou, può dire a questa Commissione se un attore sia in condizione di interpretare una scena in modo che possa servire a propagandare il comunismo o qualunque altra attività antiamericana?» Menjou: «Oh si. Credo che in certe circostanze un regista comunista, uno sceneggiatore comunista o un attore comunista possano introdurre comunismo o altri elementi sovversivi, anche se l’ordine di ogni produzione è di astenersi da qualunque doppio senso politico… In certe circostanze, si può fare con uno sguardo, un’inflessione, un cambio di voce; credo che possa essere fatto facilmente. Non l’ho mai visto fare, ma credo che possa essere fatto. » Stripling: «Può farci qualche esempio?» Menjou: «Non mi viene in mente nulla, al momento. » Stripling: «Conosce il signor John Cromwell?» Menjou: «Si, signore. » Stripling: «Proprio ieri, Sam Wood davanti a questa Commissione lo ha indicato come uno di quelli che hanno tentato di portare il Sindacato sceneggiatori nella corrente dei rossi. Pensa che il signor Cromwell sia comunista?» Menjou: «Non so se sia comunista o no. » Stripling: «Si comporta da comunista?» Menjou: «Trovo si comporti terribilmente da comunista. » […] Nixon: «Signor Menjou, poco fa, rispondendo a una domanda del collega Stripling, ha sostenuto che sebbene lei possa non sapere se una certa persona è comunista, è in grado di capire se quella persona si comporta da comunista. Dico bene?» Menjou: «Se uno è iscritto a un’associazione paracomunista e non fa nulla contro i comunisti, se non si dimette dall’associazione quando sa che è dominata dai rossi, beh, la considero una cosa molto, molto pericolosa. » Nixon: «Ha escogitato altri test per capire se qualcuno si comporta da comunista?» Menjou: «Beh, penso che se uno va a un concerto di Paul Robeson e mostra di apprezzare le sue canzoni comuniste in America, magari applaudendo… ecco, io mi vergognerei di essere visto in mezzo a una folla simile. » Nixon: «Lei ha detto che una persona si comporta da comunista quando, per esempio, si mette a parlare contro il capitalismo, come a lei è successo di sentirsi dire. » Menjou: «Non è comunista di per sé, ma è un atteggiamento molto pericoloso, qualcosa di molto vicino…» Nixon: «Dunque lei sostiene che essere iscritti a un’associazione paracomunista, essere consociati a dei comunisti, andare a queste riunioni programmate, dire cose contro il sistema capitalistico, sono tre dei test che lei userebbe per capire se uno è comunista. » Menjou: «Sì, signore. »44

Come ha fatto notare Brenda Murphy : I «test» di Menjou erano piuttosto vicini al metro usato dalla Commissione per ingiungere ai testimoni a presentarsi e chieder loro di fare i nomi di chi aveva partecipato a riunioni di

associazioni ritenute sospette, o che avevano pubblicamente espresso la loro contrarietà all’operato della Commissione stessa. 45

Le udienze, come detto, guadagnarono la prima pagina dei giornali di tutto il paese, ma furono presentate dalla stampa come uno stupido spettacolo messo in atto da deputati sconosciuti in cerca di grossi titoli46.

2.13. Gli «amichevoli»: la deposizione di Gary Cooper I successivi testimoni dell’Alleanza cinematografica per la difesa degli ideali americani Robert Taylor, Robert Montgomery, Ronald Reagan, Gary Cooper e George Murphy interpretarono la parte dei «cittadini patriottici preoccupati» e assicurarono la Commissione di avere sempre vigilato sulle sceneggiature che dovevano recitare, cercando di scovare qualunque elemento «comunisteggiante». L’udienza della star Gary Cooper47 fu segnata dalla volontà dell’attore di ostentare tutto il suo appoggio alle indagini della Commissione e dalla sua ingenuità nell’ammettere di non ricordare nulla di tutte le «cose comuniste» che pure ammise di avere orecchiato. Smith: «Lei è membro del Sindacato attori (Screen Actors Guild, Sag)?» Cooper: «Sì, da quando fu organizzato. » Smith: «Durante la sua permanenza a Hollywood, ha mai notato un’influenza comunista nell’industria del cinema?» Cooper: «Sì. » Smith: «Secondo lei qual è il mezzo principale con cui i comunisti fanno propaganda a Hollywood?» Cooper: «Beh, credo sia la parola. » Presidente Thomas: «Può parlare più forte, per favore signor Cooper?» Cooper: «Credo venga fatto attraverso il passaparola e suppongo per mezzo di pamphlet e scritti. » Smith: «Passaparola? Che vuol dire signor Cooper?» Cooper: «Beh, voglio dire tramite riunioni sociali. » Smith: «Ha assistito a qualcuna di queste riunioni?» Cooper: «Sì, è l’unica cosa a cui ho assistito. » Smith: «Ci può ripetere alcune delle affermazioni che ha sentito in queste riunioni e che lei pensa possano trattarsi di propaganda comunista?» Cooper: «Qua e là, a volte, durante il corso degli anni ho sentito frasi tipo “non pensi che la Costituzione degli Stati Uniti, scritta 150 anni fa, sia superata?”. E anche “il Governo non sarebbe più efficiente senza Congresso?”. Questioni che mi paiono molti antiamericane. »

Cooper, nuovo testimone più realista del re, con le sue bizzarre affermazioni stava rendendo un pessimo servizio alla Commissione. Urgeva cambiare prontamente discorso. Smith: «Ha mai trovato traccia di propaganda comunista in qualche sceneggiatura?» Cooper: «Beh, in effetti ho rifiutato qualche copione perché mi sembrava… tinto di rosso. » Smith: «Può farci qualche titolo?» Cooper: «Eh, no, non me ne ricordo. Non ci ho mai davvero badato. » Presidente Thomas: «Solo un minuto. Sig. Cooper, lei ci vuol far credere di avere una cattiva memoria?» Cooper: «Prego, signore?» Presidente Thomas: «Dico che lei, per il lavoro che fa, deve avere una buona memoria. Quindi ricorderà sicuramente qualche titolo di copione scartato perché “tinto di rosso”, no?» Cooper: «No. Non posso dire nessun titolo, no. » Presidente Thomas: «Magari ci può pensare sopra e fornire quei titoli alla Commissione. » Cooper: «Non credo. Io leggo i copioni di notte e se non mi piacciono non li finisco neppure; se li finisco, li restituisco subito agli autori. »

McDowell: «È così che fa la maggior parte degli attori, delle star, signor Cooper?» Cooper: «Sì, credo di sì, signore. Conta di più quello che c’è scritto che il nome dell’autore. Mi ricordo che restituii un copione in cui il personaggio principale organizzava una banda armata negli Stati Uniti, non ricordo i dettagli ma il tema era più che sufficiente per restituire subito la sceneggiatura. »

Forse per Cooper anche la criminalità aveva un sapore comunista. Smith: «Signor Cooper, ha mai avuto una qualsiasi esperienza personale in cui si sia sentito usato dal Partito comunista?» Cooper: «Non credo. È noto che non mi piace il comunismo. Molti anni fa, quando il comunismo era poco più di una chiacchiera sociale – chiacchiera nelle feste e negli uffici, quando non aveva le implicazioni che ha ora – le discussioni sul comunismo erano più aperte. Ricordo di avere ascoltato discorsi sui vantaggi che avevano i popoli di quel regime, in particolare gli artisti e le persone creative, a cui lo stato offriva posti nel governo e permetteva di guadagnare molto di più della media. E ricordo che si facevano nomi di attori che possedevano una gran villa a Mosca, tre macchine, e la cui casa era molto più grande di quella che avevo io a quel tempo a Beverly Hills. Roba così. Mi sono sembrati discorsi fasulli, chiacchiere sciocche alle quali non ho mai prestato troppa attenzione. » Smith: «Signor Presidente, abbiamo molti documenti ufficiali, ottenuti attraverso il Dipartimento di Stato, che mostrano chiaramente come il Partito comunista tenti di usare individualmente attori in tutto il mondo per favorire la sua causa. Col suo permesso, gradirei mostrare uno di questi documenti al signor Cooper e farglielo leggere al Comitato. Questo documento, che il signor Cooper ora leggerà, fu distribuito in opuscoli in Italia nel maggio del 1947. »

Si trattava di un dossier ufficiale del Partito comunista italiano, che si batteva nel nostro paese contro l’ondata maccartista in America. Il documento attribuiva (falsamente) a Gary Cooper un discorso di protesta contro le attività della Commissione davanti a una folla di 90 mila persone a Filadelfia. Cooper: «Devo leggerlo?» Smith: «Sì, viene dal Partito comunista. Vada avanti. » Cooper (legge): «Gary Cooper, che prese parte alla lotta per l’indipendenza della Spagna, ha tenuto un discorso davanti a una folla di 90 mila persone a Filadelfia in occasione della consacrazione della bandiera della Federazione comunista di Filadelfia. Tra le altre cose ha detto: “Ai giorni nostri essere comunista è l’onore più grande. Mi auguro che il mondo intero sappia chi siamo realmente noi comunisti. Nessuno potrebbe più sostenere che noi siamo nemici dell’umanità e della pace. Quelli che vogliono discutere le idee del comunismo dovrebbero prima conoscerle. Gli americani incontrano grande difficoltà nel conoscerle. Milioni di persone dagli altri continenti guardano l’America come il centro della moderna civiltà, ma solamente noi americani possiamo vedere come questa opinione sia falsa. Siamo franchi: il nostro paese è il paese dell’oro, dell’argento, della benzina, e delle grandi ferrovie. Ma allo stesso tempo è un paese dove Rockefeller, Ford, e Rothschild usano gettare gas contro i lavoratori che lottano per i loro legittimi diritti. Il nostro paese è la patria di Lincoln e Roosevelt, ma allo stesso tempo è anche il paese di uomini come il senatore Bilbo e gentaglia del suo tipo. È il paese dove i pellerossa furono sterminati con le armi e con il brandy”. » Smith: «Lei è mai stato a Filadelfia, signor Cooper?» Cooper: «No, signore, mai stato a Filadelfia. » Smith: «Vuol fare qualche commento su quanto ha letto?» Cooper: «Beh, una folla di 90 mila persone è un po’ difficile da negare, eppure non è vero. » Presidente Thomas: «Voglio aiutarla signor Cooper…» Cooper: «È tutto completamente falso, signore. » Presidente Thomas: «Lo sappiamo. È solo un’ordinaria spietata bugia. Lo sappiamo per certo. Non deve preoccuparsi. » McDowell: «E anche, signor Cooper, giusto per metterlo agli atti, non pensa che non esistano 90 mila comunisti a Filadelfia?» Cooper: «Beh, credo sia difficile trovare una folla di 90 mila persone a Filadelfia per qualsiasi causa. »

Nonostante l’ironia, Cooper cominciava a sentirsi molto scomodo sulla sedia

del testimone. L’investigatore Smith lesse un nuovo documento, stavolta del Partito comunista yugoslavo, nel quale si imputava l’uccisione dell’attore Buster Crabbe alla Destra estrema. In realtà l’attore, come Cooper confermò, non era affatto morto: McDowell: «Signor Presidente, posso chiedere se Crabbe è vivo?» Smith: «Per quel che ne so fino a questo momento, sì, è vivo. » Cooper: «Crabbe è un esempio d’americano in buonissima salute. » Stripling: «Signor Cooper, molti testimoni di Hollywood che l’hanno preceduta, hanno dichiarato di considerare i membri del Partito comunista americano come agenti di un governo straniero. Lei li considera così?» Cooper: «Non sono in grado di sapere quello che è stato detto prima di me dai miei colleghi, perché non sono un membro molto attivo del Sindacato. Di certo loro sono più addentro alle cose politiche di quanto non sia io. » […] Stripling: «Lei pensa che i gruppi comunisti di Hollywood, sia che operino nel Sindacato attori o in quello degli sceneggiatori, in generale abbiano un’influenza positiva o negativa sul mondo del cinema?» Cooper: «Beh, tornando a un paio delle cose dette poco fa, penso abbiano un’influenza molto negativa, perché sono gruppi decisamente antiamericani. Voglio dire, è davvero disgustoso sentire qualcuno con le tasche piene di soldi dire cose come: “La Costituzione degli Stati Uniti è superata da almeno 150 anni”. » Stripling: «Le hanno mai chiesto di entrare nel Partito comunista o in qualcuno dei suoi fronti, signor Cooper?» Cooper: «No, mai. » Presidente Thomas: «Signor Cooper, durante la guerra il mondo del cinema ha prodotto diversi film contro il nazismo. Non pensa che sarebbe una buona idea se ora Hollywood si dedicasse alla produzione di film anticomunisti, che mostrino i pericoli del comunismo negli Stati Uniti?» Cooper: «Credo che si dovrebbero fare molti più film che rappresentino quel che sono realmente i pilastri dell’americanismo. Intendiamoci: sono stati fatti molti ottimi film – e io ho provato a partecipare ad alcuni di questi – ma trovo ci sia un enorme spazio per tornare a vendere al pubblico l’idea di quel che abbiamo in questo paese, che è il massimo si possa avere in tutto il mondo. So per certo che la grande maggioranza degli americani non cambierebbe mai la nostra forma di governo per quella di nessun altro paese. » Presidente Thomas: «Secondo lei il comunismo a Hollywood sta avanzando o è in ritirata?» Cooper: «È molto difficile dirlo in questo momento, negli ultimi mesi è diventato molto impopolare e anche un po’ rischioso parlare troppo. La differenza si vede a occhio nudo. Persone che prima esprimevano le lodo idee senza grandi problemi, hanno cominciato a chiudersi come ricci. » Presidente Thomas: «In altre parole alcuni di loro si stanno trasformando in una sorta di setta?» Cooper: «Beh, non so, ma credo parlino solo tra loro, di nascosto, si sentono braccati e fanno capannelli. » Presidente Thomas: «Ha sentito di queste proposte di legge che il Comitato sta discutendo, proposte che mirano a mettere il Partito comunista fuori legge in America, esattamente come è stato fatto in Canada e in alcune nazioni del Sud America?» Cooper: «Sì. » Presidente Thomas: «Lei, che è una personalità tanto importante del cinema americano, non trova che sarebbe saggio se noi, se il Congresso, passasse una legislazione per bandire il Partito comunista negli Stati Uniti?» Cooper: «Penso che sarebbe una buona idea, sebbene non abbia mai letto Karl Marx e non sappia niente sul comunismo, al di là di ciò che ho orecchiato qua e là. Quel poco che ho sentito non mi piace, però non credo di avere le basi per rispondere alla domanda. »

E tuttavia l’attore aveva risposto eccome.

2.14. Gli «amichevoli»: la deposizione di Ronald Reagan Ronald Reagan48, da poco presidente del Sindacato attori, dette senza

dubbio la deposizione più cauta e bilanciata tra quelle dei testi amichevoli. Il futuro Governatore della California e Presidente americano, dimostrò che si poteva collaborare con la Commissione senza rinunciare ai propri principi liberali e democratici. Anche in considerazione dell’importanza che la figura di Reagan ha poi ricoperto nella storia politica americana degli anni ’80, proponiamo il testo integrale del suo interrogatorio: Stripling: «Quando e dove è nato, signor Reagan?» Reagan: «Tampico, Illinois, il 6 febbraio 1911. » Stripling: «Qual è la sua occupazione presente?» Reagan: «Attore di cinema. » Stripling: «Da quanto tempo esercita questa professione?» Reagan: «Dal giugno 1937, con un breve intervallo di tre anni e mezzo, intervallo che a quel tempo non sembrò molto breve. » Stripling: «In che periodo esattamente?» Reagan: «Durante l’ultima guerra. » Stripling: «Dov’era arruolato?» Reagan: «Beh, signore, sono stato per alcuni anni nella Riserva ufficiale della Cavalleria degli Stati Uniti, ma poi mi assegnarono all’aviazione. » Stripling: «Tipico dell’esercito, no?» Reagan: «Sì, signore. La prima cosa che fece l’aviazione fu di assegnarmi all’Ufficio trasmissioni. » McDowell: «Ha portato la divisa?» Reagan: «Per un po’. » Presidente Thomas: «Penso che questo abbia poco a che fare con la nostra inchiesta. Procediamo. »

Quelle prime battute così amichevoli, nel vero senso della parola, servivano a far sciogliere la tensione al testimone. L’indugiare sul suo passato di militare era utile per sottolineare il patriottismo e la differenza rispetto ai futuri testimoni «rossi». Stripling: «Signor Reagan, lei è membro di qualche sindacato?» Reagan: «Sì, signore, il Sindacato attori. » Stripling: «Da quanto tempo?» Reagan: «Dal giugno 1937. » Stripling: «Adesso lei è Presidente del sindacato?» Reagan: «Sì, signore. » Stripling: «Da quanto tempo?» Reagan: «Pochi mesi. Sono stato eletto in sostituzione del dimissionario Robert Montgomery. » Stripling: «Quando scadrà il suo termine?» Reagan: «Il prossimo mese. » Stripling: «Ha avuto altre cariche all’interno del Sindacato attori?» Reagan: «Sì, signore. Prima della guerra ero membro della direzione, e lo sono stato anche dopo la guerra, prima di essere eletto Presidente. » Stripling: «Come membro della direzione, come Presidente del Sindacato attori e come membro attivo, lei ha mai notato l’esistenza di gruppi o gruppuscoli comunisti o fascisti? Gruppi che tentavano di fare pressione sul Sindacato?» Reagan: «Bene, signore, la mia testimonianza è molto simile a quella di George Murphy e di Robert Montgomery. C’è stato un piccolo gruppo nel Sindacato che si è opposto costantemente alla politica della direzione, come riportato dalle divisioni di voto su vari problemi. Sospettavamo quei gruppuscoli di seguire tattiche imputabili al Partito comunista. » Stripling: «Pensa che avessero un’influenza distruttiva?» Reagan: «Penso che abbiano tentato di esercitare un’influenza distruttiva. »

Reagan, in qualità di presidente del Sindacato attori, non aveva intenzione di far passare la sua gilda come un’organizzazione alla mercé dei comunisti. Da questa risposta in poi l’attore seguì fedelmente il suo copione: difesa

corporativa ma anche rivendicazione degli elementari diritti di partecipazione e d’espressione di libere opinioni politiche all’interno di un’associazione democratica. Stripling: «Sa se qualcuno di loro è membro del Partito comunista?» Reagan: «No, signore, il mio ruolo non prevede poteri di indagine, non lo so. » Stripling: «Le è mai stato riportato che qualche membro del Sindacato fosse comunista?» Reagan: «Sì, signore, ho sentito diverse discussioni e alcuni di loro si dicevano comunisti. » Stripling: «Pensa che costoro abbiano tentato di scalare il Sindacato?» Reagan: «Beh, signore, loro tentavano di affermare i loro particolari punti di vista su diversi problemi, però allora dovremmo dire che anche noi tentavamo di scalare il sindacato, perché combattevamo aspramente per affermare i nostri punti di vista. In base alle cifre fornite dal signor Murphy, potrete vedere che il 90% dei membri ha votato per la nostra attuale politica. »

Stripling non apprezzò questa risposta, che gli suonava a metà tra una lezione di democrazia e una possibile volontà da parte del testimone di difendere le idee comuniste dei suoi colleghi. Così passò a una domanda diretta e personale nei confronti di Reagan: Stripling: «Signor Reagan, diversi testimoni han qui dichiarato che sono esistite molte organizzazioni comuniste a Hollywood. Non le hanno mai proposto di iscriversi a una di esse?» Reagan: «Beh, signore, ho ricevuto del materiale da un’organizzazione che si firmava “Comitato per una politica democratica dell’Estremo Oriente”. Non so se fossero comunisti, so solamente che non mi piacquero le loro vedute e non volli avere a che fare con loro. » Stripling: «Le hanno mai chiesto di patrocinare il Comitato per i rifugiati antifascisti uniti (Joint Anti-fascist Refugee Committee)?» Reagan: «No, signore, ma mi sono scoperto coinvolto come finanziatore di alcuni eventi che erano organizzati sotto l’egida del Comitato per i rifugiati antifascisti uniti. » Stripling: «Lei diede il suo nome come sponsor sapendo del Comitato?» Reagan: «Non di proposito. Potrei spiegare come successe?» Stripling: «Certo. » Reagan: «Mi contattarono diverse settimane fa. Si trattava di raccogliere soldi per la costruzione di un ospedale, l’All Nations Hospital. Lo scopo sembrava così ovvio da avere l’appoggio della maggior parte delle persone di Los Angeles. Certamente della maggior parte dei dottori. Qualche tempo dopo una donna mi telefonò. Mi disse il suo nome, ma non ci feci caso e quindi non me lo ricordo. Mi disse che ci sarebbe stato un recital in cui avrebbe cantato Paul Robeson; disse che tutti i soldi dei biglietti sarebbero andati all’ospedale e mi chiese se poteva usare il mio nome come sponsor. Esitai per un momento, perché sapevo che le mie vedute politiche e quelle del signor Robeson non coincidevano affatto, ma poi mi dissi che ero uno sciocco perché in questo caso Robeson era solo un’artista e la costruzione di un ospedale è al di sopra di ogni politica. Quindi versai dei soldi io stesso e la autorizzai a usare il mio nome. Lasciai la città per un paio di settimane e quando ritornai lessi su un giornale che quel recital all’Auditorium del sacrario a Los Angeles era sotto gli auspici del Comitato dei rifugiati antifascisti. L’oratore principale era stato Emil Lustig [Ludwig? N. d. A. ], Robert Burman aveva fatto una colletta e sul palco c’era la Lincoln Brigade. Telefonai al giornale per avere spiegazioni e si misero a ridere: ero la cinquantesima persona che telefonava per lamentarsi dell’uso improprio del proprio nome. » Stripling: «Pensa sia una tattica o una strategia dei comunisti quella di usare i nomi di persone note per raccogliere soldi e avere appoggio?» Reagan: «Penso di sì, signore. » Stripling: «Trova ci sia qualcosa di democratico in questo?» Reagan: «No, signore. »

Stripling si sentiva tranquillizzato dalle ultime risposte di Reagan. Passò dunque a un argomento più delicato: Stripling: «Come Presidente del Sindacato attori, conosce lo sciopero giurisdizionale che c’è stato a Hollywood, vero?»

Reagan: «Sì, signore. » Stripling: «Ha avuto delle riunioni coi rappresentanti di questo sciopero?» Reagan: «Sì, signore. » Stripling: «I comunisti hanno partecipato in qualche modo a questo sciopero?» Reagan: «Signore, la prima volta che la parola “comunista” fu pronunciata riguardo allo sciopero, fu a una riunione a Chicago con William Hutchinson, presidente dell’unione dei carpentieri, in sciopero in quel momento. Egli chiese al Sindacato attori di sottoporre alcune condizioni al signor Walsh, e ci disse di fargli sapere che se avesse ceduto su quelle questioni, lui in cambio avrebbe cacciato via Sorrel e tutti gli altri comunisti rompendo con loro. Devo aggiungere che Walsh e Sorrel stavano guidando lo sciopero a Hollywood per conto di Hutchinson. » Stripling: «Signor Reagan, secondo lei che cosa si deve fare per sottrarre Hollywood a ogni influenza comunista?»

Reagan si aspettava questa domanda, al punto che per rispondere aveva preparato una breve dichiarazione scritta, che chiese e ottenne di leggere di fronte alla Commissione. In essa venivano ripetuti i principi di liberaldemocrazia che avevano ispirato la condotta politica del Presidente del sindacato fino a quel momento: Reagan: «Il novantanove per cento di noi è ben consapevole di quanto sta accadendo ma credo che, entro i limiti imposti dal rispetto dei nostri diritti democratici e senza mai averli superati neppure una volta, abbiamo fatto un buon lavoro per contenere le politiche di questa gente. Dopotutto dobbiamo riconoscerli come un partito politico. Partendo da questo presupposto, abbiamo svelato le loro bugie quando le abbiamo incontrate, ci siamo opposti alla loro propaganda e posso testimoniare che, almeno per quanto riguarda il Sindacato attori, siamo riusciti a impedire la loro tattica, che è quella di trascinare le maggioranze tramite una ben organizzata minoranza. La miglior opposizione contro quella gente è lasciare che la democrazia faccia il suo lavoro. Nel Sindacato attori noi abbiamo vigilato affinché ogni persona potesse esprimere il suo voto, e che fosse sempre un voto informato. Credo, con Thomas Jefferson, che se tutti gli americani sono bene informati sui fatti, non sbagliano mai. Se poi il Partito comunista americano dev’essere dichiarato fuorilegge, questo spetta alle decisioni del Governo. Come cittadino, esito a credere giusto che si possa mettere fuorilegge un partito solo sulla base della sua ideologia politica. Se poi si riesce a provare che non è un partito ma un’organizzazione foraggiata dall’estero – e credo che il Governo potrebbe provarlo – allora è un altro paio di maniche. Sono molto orgoglioso dell’industria in cui lavoro e del modo in cui conduciamo questa battaglia. Non credo che i comunisti siano mai riusciti a usare il cinema come amplificatore della loro ideologia. » [Corsivi nostri]

Considerato il clima del momento, le dichiarazioni di Reagan erano una ventata di aria pulita in mezzo a quella cultura del sospetto ben poco americana. I membri della Commissione capirono subito di non poter andare contro quelle frasi, che pure suonavano come una netta presa di distanza dai metodi sin lì da loro predicati. Così, il presidente Thomas: Presidente Thomas: «Signor Reagan, tra le cose che ha detto una mi ha colpito molto: la citazione di Jefferson. Perché illustra bene il motivo per cui questo Comitato è stato creato dal Congresso: rendere i cittadini americani edotti sui fatti. Una volta che tutti gli Americani sappiano come stanno le cose, non c’è alcun dubbio sul genere di scelta che essi faranno. Vogliamo ringraziarla di essere venuto qui oggi. » Reagan (finendo di leggere): «Detesto, aborro la loro filosofia [dei comunisti, N. d. A. ], ma detesto di più le loro tattiche, che sono quelle della quinta colonna, della disonestà. Allo stesso tempo, non vorrei mai vedere come cittadino americano la nostra nazione messa in condizione di compromettere qualcuno dei nostri principi democratici a causa della paura o del risentimento verso questo gruppo. Io credo che la democrazia lo possa fare. »

Lester Cole, nella sua gustosa autobiografia – scritta nel 1980, pochi mesi dopo l’elezione dell’attore a Presidente degli Stati Uniti – ricorda dei particolari interessanti sul giovane Reagan. Il più curioso riguarda il modo in

cui l’artista californiano conobbe la sua seconda moglie, Nancy Davis: Un giorno, quando Reagan (allora pronunciato «Rigan») era presidente del Sindacato attori, bussò alla sua porta una giovane attrice, tale Nancy Davis, che da qualche tempo non riusciva più a trovare una scrittura. «Sono finita nella lista nera anticomunista a causa di una omonima. Puoi aiutarmi?». Reagan le ripulì l’immagine, la Davis riprese a lavorare e tra i due scoppiò un’eterna storia d’amore. Oggi, a distanza di trent’anni, il giornalista del «Los Angeles Times», Phil Kerby, scavando negli annuari di Hollywood alla ricerca dell’ altraNancy Davis, la comunista, ha scoperto che non è mai esistita più di una solaNancy Davis attrice. «Oggi che l’unica Nancy Davis è diventata first lady»,si chiede Kerby, «la sicurezza nazionale del nostro paese non è forse in pericolo come mai prima d’ora?». 49

2.15. Gli «amichevoli»: la deposizione di Walt Disney La Commissione aveva preparato per il fine settimana il piatto forte degli interrogatori. Alla sbarra furono chiamati a testimoniare l’ultimo dei testi «ben disposti», Walt Disney, e il primo degli ostili, John Howard Lawson, in un’alternanza di atteggiamenti di forte impatto emotivo. Walter E. Disney offrì una delle deposizioni più dure contro i sospettati di comunismo, allargando il suo discorso al movimento comunista mondiale, colpevole – a suo dire – di infangare la sua figura e le sue opere ovunque potesse. Del resto, le idee politiche del bravo disegnatore erano note a tutti per essere profondamente conservatrici, se non proprio di destra radicale; già in occasione degli scioperi dei lavoratori del suo studio aveva condannato il diritto stesso di sciopero, adducendo che fossero «solo manovre comuniste». Ecco uno stralcio del suo interrogatorio: Smith: «Cosa ne pensa del Partito comunista, signor Disney? Secondo lei è o non è un partito politico?» Disney: «Beh, non penso che sia un partito politico. Credo sia una cosa [sic] antidemocratica. La cosa che più mi preoccupa è che sono capaci di intrufolarsi in questi sindacati, prenderne la guida, e far credere al mondo che il loro piccolo gruppo rappresenti tutto l’insieme dei lavoratori appartenenti a un’industria, mentre io so che anche nello studio dove svolgo la mia attività la grande maggioranza degli occupati sono buoni americani, americani al 100%… loro [i comunisti, N. d. A. ] li fanno apparire come seguaci di quelle ideologie, ma non è così, e credo che debbano veramente essere scacciati, mostrando a tutti quello che sono veramente, in modo che tutte le buone e libere cause di questo paese, tutti i liberalismi che sono effettivamente americani, possano esternarsi senza la macchia del comunismo. Ecco, io la penso sinceramente così. » Smith: «Lei crede ci sia una minaccia di comunismo nell’industria dello spettacolo?» Disney: «Sì, c’è, e ci sono tanti motivi per cui gli piacerebbe prenderne il potere per controllarla o distruggerla, ma non penso che siano riusciti ad andare molto in là, e credo che l’industria sia fatta di buoni americani, proprio come nel mio studio, buoni e solidi americani. »50

Le parole del celeberrimo disegnatore furono musica per le orecchie dei membri della Commissione. Una musica destinata a venir rovinata dalle urla e dalle accuse che, come vedremo nel prossimo capitolo, a partire da quello stesso pomeriggio avrebbero caratterizzato gli interrogatori dei dieci testimoni «ostili» (più Brecht, che come abbiamo detto e come vedremo nel prossimo capitolo, attuò una strategia difensiva diversa da quella dei suoi compagni) su diciannove chiamati alla sbarra, che per questo passarono alla storia come i «Dieci di Hollywood».

1 Nella maggioranza dei sindacati dei lavoratori dello spettacolo nessun nero ha ricoperto una qualunque posizione di rappresentanza fino a tutti gli anni ’60. La tacita esclusione dei neri dalle posizioni di maggior prestigio all’interno dell’industria dello spettacolo fornisce un

importante elemento utile a capire la filosofia di qualunque lista nera: non c’era bisogno di stabilire un preciso criterio di esclusione. La gente «sapeva come doveva comportarsi» senza dover ricevere un ordine esplicito in tal senso. 2 Immagine coniata da Kenneth Anger. 3 Nel 1921, in un hotel di San Francisco, durante un party, la stellina Virginia Rappe morì in circostanze tragiche e Roscoe Arbuckle, popolare attore comico soprannominato «Fatty», fu incriminato per omicidio colposo. Il pubblico reagì boicottando i film di Arbuckle, anche dopo che l’attore fu scagionato dall’accusa. Hollywood per tutta risposta gli chiuse le sue porte dorate e per «Fatty» fu l’oblio. 4 Regista britannico che venne assassinato misteriosamente nel 1922. Le indagini rivelarono solo che la giovane attrice Mary Milles Minter aveva avuto una relazione con il regista e che l’attrice brillante Mabel Normand era stata l’ultima persona a vedere Taylor vivo. 5Attore popolarissimo per aver incarnato sullo schermo l’eroe onesto nonché il tipico ideale di bellezza maschile, fu una delle primissime morti (1923) di Hollywood per overdose. 6 Tra cui le attrici Mary Milles Minter e Mabel Normand, coinvolte alla lontana nell’omicidio del regista William Desmond Taylor. 7 Molto ci sarebbe da dire sulla struttura e la composizione di questo famoso «Codice». Qui basterà accennare che fu scritto da Hays assieme a un sacerdote cattolico e a un gesuita e che comprendeva varie sezioni in cui si illustravano anche le motivazioni per cui determinate situazioni non dovevano essere rappresentate sullo schermo. Per un’analisi accurata del Codice, cfr. AA. VV. , Il cinema. Grande storia illustrata, vol. I, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981, pp. 182-184. 8 John Cogley, Report on Blacklisting, Fund for the Republic, New York 1956. Ma anche il resoconto annuale per il 1943 del California Legislature’s Joint Fact-Finding Committee (o Comitato Tenney): «Il Partito comunista organizza a oggi il più efficace fenomeno di lista di proscrizione nella storia dello stato. Opporsi al comunismo e ai suoi compagni porta una persuasiva penalizzazione economica in certi quartieri californiani, e particolarmente in certi settori dell’industria dello spettacolo. » (p. 79). Purtroppo, come per la maggioranza delle affermazioni contenute nei resoconti di questo comitato, non si citano prove a conferma di queste accuse. D’altro canto, Guy Endore, un ex membro del partito, poi schedato, afferma che i comunisti avevano la possibilità «di boicottare quelli che non lo erano» e si trovò fuori dal giro sin quando non decise di aderire anch’egli. Cfr. Guy Endore, Reflections , Uclap, Los Angeles 1964, pp. 140-141. Alcuni ex comunisti hanno affermato che quando lasciarono il partito i loro ex compagni dissero loro che non avrebbero più lavorato a Hollywood. Cfr. la testimonianza di Bart Lytton e Leopold Atlas negli atti dell’Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltration of Hollywood Motion Picture Industry, 83rd Congress, 1st Session, pp. 451-453, 950-951. 9 Padri fondatori del Sindacato sceneggiatori, poi individuati come comunisti, furono John Bright, Sidney Buchman, Lester Cole, Edward Eliscu, Henry Meyers, Samuel Ornitz, Gertrude Purcell, Marguerite Roberts e Edward Chodrov. Il Sindacato attori ricevette grossi aiuti da parte dello Screen Writers Guild quando fu fondato, e per un certo periodo di tempo le due associazioni pubblicarono congiuntamente una piccola rivista, oltre a dividere gli stessi uffici. 10 Cfr. Leo Rosten, Hollywood, the Movie Colony, the Movie Makers , Harcourt, Brace and Co. , New York 1941. Un intero capitolo è dedicato al rapporto tra Hollywood e politica, che termina dichiarando che «la vertenza politica di Hollywood precedette il risveglio politico di tutta l’America». In questo capitolo c’è molto materiale sull’impegno politico degli artisti sia a destra che a sinistra, particolarmente nella Hollywood Anti-Nazi League. 11 Edward Dmytryk, Odd Man Out. A Memoir of the Hollywood Ten, Southern Illinois University Press, Carbondale 1996, pp. 1-2. 12 Leo Rosten, Hollywood, The Movie Colony cit. , p. 148. 13 Dalton Trumbo, in un intervista con Eric Partlow del primo maggio 1967, riconosce l’efficacia di questa organizzazione con le seguenti parole: «[L’Mpapai] era comunque una squadra seria. Loro e i comunisti erano le uniche due organizzazioni che valessero qualcosa in città». Cogley, nel suo Report on Blacklisting cit. , vol. I, p. 11 sottolinea il ruolo dell’Alleanza nello spingere affinché le udienze dell’Hcua cominciassero finita la seconda guerra mondiale. 14 Bob Thomas, King Cohn, G. P. Putnam’s Sons, New York 1967, p. 299. 15 Questo comitato, sotto la presidenza di Jack B. Tenney, tenne udienze sull’influenza

comunista a Hollywood sin dal 1940. Il Comitato Tenney fu una delle principali fonti per le inchieste dell’Hcua, anche se, verso la fine degli anni ’40, il Cljffc recitò come sua fonte le indagini dell’Hcua… Le indagini del Comitato Tenney ebbero una gran pubblicità, ma non furono prese molto sul serio da nessuna autorità del mondo dello spettacolo, a causa dell’enorme numero di non comunisti che furono accusati senza l’ombra di una prova. Ovviamente l’Hcua seppe sfruttare con maggiore astuzia e perizia le informazioni raccolte da Tenney. Per un’analisi delle indagini del Comitato Tenney cfr. Edward Barrett jr. , The Tenney Committee, Cup, Ithaca -New York 1951 e anche la risposta di Tenney stesso The Tenney Committe. The American Record, Standard Publications, Tujunga 1952. 16 La promessa di cooperazione di Johnston è riportata sul «Daily Variety» del 5 maggio 1947. 17John Cogley, Report on Blacklisting cit. , vol. I. 18«Hollywood Reporter», 21 aprile 1947. 19 «Daily Variety» , 16 maggio 1947. 20 Gordon Kahn, Hollywood on Trial. The Story of the 10 who were Indicted, Boni & Gaer, New York 1948. 21 Ivi. 22 Ivi. 23 Ivi. 24 Ivi. 25 «Los Angeles Times» , 5 giugno 1947. 26Johnston descrisse questo incontro nella sua testimonianza davanti all’Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltration cit. , pp. 312-314 e passim. 27 Ivi, pp. 312-313. 28 «The Hollywood Reporter», 23 luglio 1947. 29 Il «Daily Variety» del 22 settembre 1947 elencò: Alva [sic] H. Bessie, Roy E. Brewer, Herbert Biberman, Berthold [sic] Brecht, Lester Cole, Gary Cooper, Charles Chaplin, Joseph E. Davies, Walt Disney, Edward Dmytryk, Cedric Gibbons, Samuel Goldwyn, Rupert Hughes, Eric Johnston, Howard Koch, Louis B. Mayer, Albert Maltz, Thomas Leo McCarey, Lowell Mallett, James McGuinness, Lewis Milestone, Adolphe Menjou, Sam Moore, John Charles Moffitt, Robert Montgomery, George Murphy, Clifford Odets, Larry Parks, William Pomerance, Ronald Reagan, Lela E. Rogers, Howard Rushmore, Morrie Ryskind, Adrian Scott, Dore Schary, Donald Ogden Stewart, Robert Taylor, Waldo Salt, Dalton Trumbo, Jack L. Warner e Sam Wood. In altre pubblicazioni ho trovato cifre leggermente diverse (cfr. Bernard F. Dick, Radical Innocence. A Critical Study of the Hollywood Ten, The University Press of Kentucky, Lexington 1989, pp. 1, 248), poiché si riferiscono ora ai 45 testimoni elencati dall’«Hollywood Reporter» del 22 settembre 1947, ora ai verbali delle 43 testimonianze dell’Hcua. Anche Clifford Odets non fu interrogato, sebbene il suo nome fosse nei fascicoli della Commissione. Infine, Samuel Goldwyn, Donald Ogden Stewart, William Pomerance, Cedric Gibbons e Joseph E. Davies figurano solo nell’elenco riportato dall’«Hollywood Reporter», ma non nel ruolino dell’Hcua. 30 Nel corso delle udienze a porte chiuse che l’Hcua tenne a Los Angeles nel maggio 1947, Parnell Thomas chiamò un gruppo di testimoni fornito dalla Mpapai (Robert Rogers, Richard Arlen, Lela Rogers) «dei testimoni ben disposti a collaborare con questa commissione». Nella stessa occasione Thomas non usò il termine di testimone «ostile» nel riferirsi al musicista Hanns Eisler che si era invece rifiutato di collaborare. Sulla primogenitura dell’etichetta di «unfriendly», ci sono più versioni: chi sostiene che comparve in modo spontaneo su molti giornali più o meno contemporaneamente, e chi, come Larry Ceplair, fa risalire l’origine allo schierato «Hollywood Reporter». Giuliana Muscio, poi, sostiene che la dicitura di «testimoni ostili» fosse stata scelta dagli stessi «Diciannove» coinvolti, in seguito a una riunione a casa di Edward G. Robinson del 18 ottobre 1947 (cfr. Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywood, Feltrinelli, Milano 1979, p. 52). I «Diciannove ostili» erano: Alvah Bessie, Herbert Biberman, Lester Cole, Richard Collins, Edward Dmytryk, Gordon Kahn, Howard Koch, Ring Lardner jr. , John Howard Lawson, Albert Maltz, Lewis Milestone, Samuel Ornitz, Larry Parks, Irving Pichel, Robert Rossen, Waldo Salt, Adrian Scott e Dalton Trumbo. 31 Charles Chaplin, My Autobiography, Simon&Schuster, New York 1964, pp. 447-449. 32 Brenda Murphy, Congressional Theatre, Dramatizing McCarthyism in Stage, Film and Television, Cup, Cambridge 2002, p. 17. 33 Albert Maltz, The Citizen Writer, Intl. Publishers, New York 1950, p. 28.

34 Lester Cole, Hollywood Red. The Autobiography of Lester Cole, Ramparts Press, Palo Alto 1981, pp. 267-268. 35 «Le costituzioni di dieci Stati di “democrazia stabilizzata”», in Paolo Biscaretti di Ruffìa (a cura di), Costituzioni straniere contemporanee, vol. I, Giuffrè, Milano 1994, pp. 19-20. 36 In un recente saggio, Marcello Flores ha sostenuto di poter tracciare un parallelo tra i processi politici della Guerra Fredda, considerando sia quelli officiati negli Stati Uniti che quelli del blocco comunista. La sua analisi della sostanziale agiuridicità di questi processi la dice lunga sulla qualità dei giudizi espressi in quel periodo anche dai tribunali occidentali. Cfr. Marcello Flores, L’età del sospetto. I processi politici e la Guerra Fredda, Il Mulino, Bologna 1995. 37 Il Comitato per il Primo emendamento vide una crescita esponenziale dei suoi simpatizzanti: un appello comparso su «Daily Variety» del 21 ottobre 1947 vedeva appena 35 firme al suo attivo, mentre un nuovo appello pubblicato sullo stesso giornale solo sette giorni più tardi ne contava addirittura 332. Tra gli altri, comparvero i nomi dei registi John Ford, Billy Wilder, George Stevens, Elia Kazan; degli attori Humphrey Bogart, Gregory Peck, Katherine Hepburn, Danny Kaye, Rita Hayworth, Kirk Douglas, Henry Fonda, Burt Lancaster; dei musicisti Benny Goodman, Leonard Bernstein; scrittori come Thomas Mann e di quattro senatori progressisti: Kilgore, Pepper, Thomas e Taylor. 38 Vedi l’appendice. 39 Bernard F. Dick, Radical Innocence. A Critical Study of the Hollywood Ten, The University Press of Kentucky, Lexington 1989. 40 Udienze Hcua, 1947, pp. 306-308, 323. 41 Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema americano, 1930-1960, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 367. 42 Solo qualche esempio: Ayn Rand, che aveva indicato nel film Song of Russia (1943, di Gregory Ratoff) un chiaro esempio di propaganda comunista «poiché mostrava bambini russi felici e sorridenti, cosa che mai accade nella realtà perché non ne hanno alcun motivo», avendo suscitato l’ilarità dei presenti tentò di correggere il tiro: «… beh… se lo fanno… lo fanno privatamente e casualmente». Lela Rogers, dichiarò invece che si era rifiutata di far recitare la figlia Ginger nel filmIl ribelle (None but the Lonely Hearts, 1944) di Clifford Odets perché «conteneva il tipo di propaganda che piace ai comunisti inserire nei film» e per rafforzare questa sua opinione citò la recensione dell’«Hollywood Reporter» che aveva detto che il film «era stato girato in economia, aveva uno stile intimista ma sobrio, alla maniera russa». 43 Dalton Trumbo, Additional Dialogue, Manfull Helen M. Evans & Co. , New York 1970 (trad. it. Lettere dalla Guerra Fredda, Bompiani, Milano 1977). 44 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltration cit. 45 Brenda Murphy, Congressional Theatre cit. 46Tra tutti, ricordiamo l’editoriale di Phillips Cabel, sul «New York Times»: «[Queste udienze sull’industria di Hollywood] sono lanciate con quell’ineffabile tocco di spettacolarizzazione che i cittadini naive dell’Est associano alla première di Hollywood, fatta per loro solo di orchidee, vestiti lunghi da sera e torri di luce che attraversano il cielo notturno. » Cabell Phillips,UnAmerican Committee Puts on its «Big Show», «New York Times», 26 ottobre 1947. 47 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltration cit. , p. 249. 48 Ivi, p. 258. 49 Lester Cole, Hollywood Red. The Autobiography of Lester Cole, Ramparts Press, Palo Alto 1981, pp. 270-271. 50 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltration cit. , p. 285.

Capitolo 3 I Dieci di Hollywood «Have you or have you ever been…?»

3.1. Gli «ostili»: la deposizione di John Howard Lawson E venne finalmente il turno dei «testi ostili». John Howard Lawson fu il primo dei «Diciannove» a essere interrogato, a sorpresa, perché era previsto come terzo nell’ordine dei testimoni unfriendly1. Probabilmente fu chiamato per primo in quanto fondatore e presidente della Screen Writers Guild, il Sindacato sceneggiatori. Solo undici dei «Diciannove» furono effettivamente interrogati, poiché a un certo punto Thomas sospese le udienze, forse a causa della cattiva pubblicità che vi stava crescendo intorno2. La Commissione aveva espresso il più fermo proposito di non concedere agli «ostili» la possibilità di «fare del banco dei testimoni un palco per le loro arringhe politiche», e impedì loro di fornire qualunque tipo di risposta articolata alle domande, bloccando così la tecnica delle «risposte non risposte» suggerita ai «Diciannove» da Kenny, come risulta dal verbale dell’interrogatorio di Lawson, del 27 ottobre 1947: Presidente Thomas: «Signor Lawson, si accomodi al banco. » […] Lawson: «Signor Presidente, avrei qui una dichiarazione che gradirei leggere…» Presidente Thomas: «Bene, mi faccia vedere. » (Una guardia consegna la dichiarazione al Presidente) Presidente Thomas: «Non mi interessa andare oltre nella lettura di questa dichiarazione. Questa Commissione non le accorda il permesso di metterla agli atti. Ho letto la prima frase. » Lawson: «Avete passato una settimana intera a sparlare di me davanti all’opinione pubblica americana…» Presidente Thomas: «Un minuto…» Lawson: «… e vi rifiutate di farmi leggere una dichiarazione sui miei diritti come cittadino americano. » Presidente Thomas: «Le rifiuto di leggercela per via della prima frase. La dichiarazione non è pertinente all’indagine. Ora, questa è una Commissione del Congresso, istituita per legge. Dobbiamo osservare una procedura ordinaria, e seguiremo precisamente tale procedura. Signor Stripling, identifichi il testimone. » Lawson: «I diritti dei cittadini americani in quest’aula sono importanti, e io intendo difendere quei diritti, onorevole Thomas. » Stripling: «Signor Lawson, può dirci il suo nome e cognome, per favore?» Lawson: «Desidero protestare contro la proibizione di questa Commissione a leggere una dichiarazione, quando avete permesso al signor Warner, al signor Mayer e altri di leggere dichiarazioni in quest’aula. Il mio nome è John Howard Lawson. » […] Stripling: «Signor Lawson, è membro del Sindacato sceneggiatori?»

È da notare che solo fino a dieci anni prima, qualunque scrittore che avesse

ammesso la sua iscrizione al Sindacato, non avrebbe più trovato lavoro entrando in un’altra di quelle liste nere tipiche dell’ambiente di Hollywood, di cui abbiamo accennato all’inizio del libro. Lawson: «Qualunque domanda che riguardi la mia affiliazione sindacale o credo politico…» Stripling: «Signor Presidente…» Lawson: «… oltrepassa i poteri di questa Commissione. » Stripling: «Signor Presidente…» Lawson: «Tuttavia…» (Il Presidente batte il martelletto) Lawson: «… è un fatto di pubblico dominio che io sia membro della Swg. »3 Stripling: «Le ripeto la domanda, signor Lawson: ha mai coperto qualche posizione di responsabilità nella Swg?» Lawson: «E io le ho detto che è al di fuori delle competenze di questa Commissione indagare in qualunque forma di associazione…» Presidente Thomas: «Spetta alla presidenza stabilire cosa è che le compete. » Lawson: «I miei diritti di cittadino americano non sono meno importanti delle responsabilità di questa Commissione federale. » Presidente Thomas: «Ora, lei sta solo approfittando di questa occasione per darsi delle arie e per far andare tutto a p…allino (risate). Risponda completamente alle domande, come hanno fatto tutti gli altri testimoni. Lei non è diverso dagli altri. Vada avanti, signor Stripling. » Lawson: «Io sono trattato in modo diverso dagli altri!» Presidente Thomas: «Lei non è trattato diversamente dagli altri. » Lawson: «Gli altri testimoni hanno potuto leggere le loro dichiarazioni, che comprendevano citazioni da libri e da altre fonti che non avevano alcun legame con gli interessi di questa Commissione. » Presidente Thomas: «Spetta a noi determinare se ci sono o no legami. Ora, vada avanti…» Lawson: «È assolutamente al di là dei poteri di questa Commissione indagare sulla mia affiliazione a qualunque organizzazione. » Presidente Thomas: «Signor Lawson, o la finisce o la faccio allontanare dal banco dei testimoni! E sarà allontanato per oltraggio, ecco perché sarà allontanato. E se lei sta cercando di farsi sbattere fuori per oltraggio, non dovrà sforzarsi troppo. Lei sa quel che è accaduto a tutte le persone che hanno oltraggiato questa Commissione, no?» Lawson: «Sono felice che lei abbia reso perfettamente chiaro a tutti che vuole minacciare e intimidire i testimoni, signor Presidente. » (Il Presidente batte il martelletto)

Lawson aveva un passato di studente di storia costituzionale, e sapeva bene quali fossero i suoi diritti come testimone e quali i limiti dei suoi inquirenti. Lawson: «Ma io sono un americano e non mi si intimidisce facilmente; difatti non lo sono neanche un po’. » (Il Presidente batte il martelletto) Stripling: «Signor Lawson, le ripeto la domanda. Ha mai coperto qualche posizione di responsabilità nel Sindacato sceneggiatori?» Lawson: «Le ripeto che la domanda è illegale. Ma tutti sanno che ho coperto diverse cariche all’interno di quel Sindacato. Ne sono stato il primo Presidente nel 1933, e ho via via avuto diversi compiti all’interno del comitato direttivo. » Stripling: «Ha lavorato nell’industria dello spettacolo, giusto?» Lawson: «Sì. » Stripling: «Può dirci il nome di qualche studios nel quale ha lavorato?» Lawson: «Praticamente in tutti gli studios, in tutti i più importanti. » Stripling: «Come sceneggiatore?» Lawson: «Certo. » Stripling: «Ci può elencare qualche film del quale ha scritto la sceneggiatura?» Lawson: «Devo ricordarvi che ora state indagando la libertà della stampa e delle comunicazioni, sulle quali non avete il benché minimo controllo. Non avete bisogno di farmi fare 3000 miglia e venire qui per sapere quali film ho scritto. I film che ho scritto sono molto famosi, come Convoglio verso l’ignoto ( Action in North Atlantic, 1943, di Lloyd Bacon),Sahara(id. , 1943, di Zoltan Korda)…» Stripling: «Bene. È o è mai stato membro del Partito comunista?»

Stripling voleva tagliare corto e arrivare alla «domanda da 64 dollari»4. Lawson: «Nell’inquadrare la mia risposta a questa domanda, devo sottolineare con forza quanto vi ho detto prima. La questione comunista non è in alcun modo collegata a questa inchiesta, che è un tentativo di controllare la libertà d’espressione del cinema e di prevaricare i diritti fondamentali dei cittadini americani in ogni settore. » McDowell: «Obiezione!» Stripling: «Signor Presidente!» (Il Presidente batte il martelletto) Lawson: «La questione qui sta non solo nel domandarmi delle mie affiliazioni politiche in qualunque organizzazione, ma la Commissione sta tentando di arrogarsi il diritto di…» (Il Presidente batte il martelletto) Lawson: «… che è stato storicamente negato a qualunque commissione di sorta, di prevaricare i diritti, i privilegi e le immunità dei cittadini americani, siano essi protestanti, metodisti, cattolici o ebrei, siano essi democratici o repubblicani o qualunque altra cosa. » (Il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Signor Lawson, faccia silenzio. La domanda più pertinente che noi qui possiamo farle è se lei sia stato o no membro del Partito comunista americano. Ora, vuol dare una risposta?» Lawson: «Voi state usando una vecchia tecnica, già usata da Hitler in Germania, per creare paura, qui…» (Il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Oh!» Lawson: «… per creare un’intera atmosfera di falsità e paura con la quale questa udienza è condotta…» (Il Presidente batte il martelletto) Lawson: «… per poter calunniare l’industria dello spettacolo e poi procedere con la stampa e qualunque forma di comunicazione in questo paese. » Presidente Thomas: «Lei ha imparato…» Lawson: «La Dichiarazione dei Diritti fu stabilita proprio per prevenire l’operazione di qualunque Commissione che tentasse di prevaricare i diritti fondamentali degli americani. Ora, se volete sapere…» Stripling: «Signor Presidente, il testimone si rifiuta di rispondere alle domande. » Lawson: «… se volete sapere…» (Il Presidente batte il martelletto) Lawson: «… dello spergiuro commesso qui e dello spergiuro programmato…» Presidente Thomas: «Signor Lawson…» Lawson: «Permettete a me e ai miei avvocati di avere un confronto coi testimoni che hanno presenziato la settimana scorsa, permetteteci di controinterrogarli e vi mostreremo l’intera trama di bugie…» (Il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Otterremo la risposta a questa domanda anche se dovessimo stare qui un’intera settimana. Signor Lawson, è o è mai stato membro del Partito comunista americano?» Lawson: «È davvero bizzarro e tragico che debba essere io a insegnare a questa Commissione i basilari principi americani…» (Il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Non stiamo parlando di questo, non stiamo parlando di questo! La domanda è: è o è mai stato membro del Partito comunista americano?» Lawson: «Sto inquadrando la mia risposta nell’unico modo in cui un cittadino americano potrebbe inquadrare la sua risposta a una domanda che viola assolutamente i suoi diritti. »

Come abbiamo visto, il concetto di rispondere a modo proprio e non di rifiutarsi di rispondere, era ciò su cui si impostava l’intera linea difensiva dei Dieci, che speravano di far valere la questione davanti alla Corte Suprema. Presidente Thomas: «Dunque si rifiuta di rispondere alla domanda; è così?» Lawson: «Vi ho detto che spiegherò al pubblico americano il mio credo politico e le mie affiliazioni, e loro sapranno da che parte sto. » (Il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Licenziate il teste. » Lawson: «Come lo sanno dalle cose che ho scritto. »

(Il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Si allontani dal banco dei testimoni!» Lawson: «Ho scritto americanismo per molti anni, e continuerò a battermi per la Dichiarazione dei Diritti, che voi state cercando di distruggere. » Presidente Thomas: «Guardie, allontanate quest’uomo dal banco dei testimoni!» (Applausi e grida di disapprovazione, il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Non sono ammesse dimostrazioni di sorta in quest’aula. Nessuna dimostrazione, né pro né contro. Rimettetevi seduti. »5

La deposizione di Lawson era apparsa in tutta la sua dirompenza, specie in confronto a quelle dei testimoni amichevoli che si erano risolte in un dialogo dai toni pacati e accondiscendenti tra i membri della Commissione e gli artisti chiamati al banco. Gli effetti dello scontro tra il primo dei Dieci e il presidente Thomas divisero il pubblico americano e la gente di Hollywood in due fazioni (anche all’interno degli stessi «Diciannove»: mentre Ornitz eliminò i suoi dubbi sull’atteggiamento duro da tenere nei confronti della Commissione, Dmytryk si convinse del contrario): tra chi era convinto che lo sceneggiatore avesse fatto bene a tenere testa alle domande illiberali dei commissari e chi riteneva che avesse senza dubbio qualcosa da nascondere se non voleva neanche rispondere sulla sua affiliazione al Partito comunista. Così, ancora prima che il Presidente chiamasse al banco l’investigatore incaricato dalla Commissione, l’ex agente dell’Fbi Louis J. Russell, che avrebbe fornito delle «prove inoppugnabili» circa l’affiliazione al Partito comunista di Lawson, parte dell’opinione pubblica già riteneva lo scrittore come un «sicuro comunista». Russell si fece avanti mentre Lawson veniva ancora trascinato via, urlando le sue accuse di nazismo all’intera Commissione. Con calma e tono impostato, l’investigatore lesse un documento in cui si specificavano ben trentacinque «indizi» che dimostravano l’affiliazione comunista e sovversiva del testimone. Il promemoria citava articoli scritti per il «Daily Worker» e «New Masses» ed elencava un paio di dozzine di «associazioni paracomuniste» di cui Lawson aveva fatto parte, tra queste anche la Lega antinazista di Hollywood e il Comitato democratico di Hollywood. Infine, Russell mostrò a tutti una tessera del Partito comunista americano a nome dello sceneggiatore6: le prove sembravano schiaccianti. La tecnica del resoconto da parte dell’investigatore dell’Fbi sarebbe poi stata applicata a tutte le testimonianze ostili. Sarebbero variati il numero degli articoli scritti per giornali sovversivi, il nome e la quantità di associazioni paracomuniste coinvolte, ma sempre, immancabile, sarebbe poi spuntata una tessera del Partito comunista americano che aveva l’effetto del gran finale.

3.2. La deposizione di Dalton Trumbo Il mattino del 28 ottobre fu chiamato al banco dei testimoni Dalton Trumbo. Trumbo era probabilmente il più famoso tra gli sceneggiatori cinematografici (escludendo Brecht, solo prestato a Hollywood) e senza dubbio il meglio pagato. Il suo salario, nei tempi d’oro, raggiungeva l’astronomica cifra di 75. 000 dollari a copione7. Trumbo era anche il più convinto delle proprie idee e decise di affrontare la Commissione con uno stile molto diverso da quello dei suoi predecessori, ancora più tagliente:

Presidente Thomas: «Bene, signor Trumbo, si accomodi al banco, per favore. » […] Trumbo: «Avrei anche io qui con me una breve dichiarazione che gradirei leggere prima di cominciare il nostro dialogo. » Presidente Thomas: «Un momento, mi faccia vedere. » (La dichiarazione è consegnata al Presidente) Presidente Thomas: «Mi dispiace, signor Trumbo, ma anche la sua dichiarazione non è considerata pertinente a questa indagine, per cui questa Commissione non ne consente la lettura. » Trumbo: «Non è pertinente, dice. Probabilmente ho confuso i fogli e le ho consegnato qualche pezzo di una mia sceneggiatura…» (Risate, il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Silenzio o faccio sgombrare l’aula! Signor Stripling, proceda. » (Viene data lettura dei film a cui Trumbo ha partecipato)

Trumbo era un uomo grintoso, impegnato in politica da tempo. Volle affrontare di petto la Commissione, andando a stuzzicarla sull’argomento che, in teoria, doveva essere la vera ragion d’essere dell’intera indagine: l’insinuazione di elementi sovversivi all’interno delle sceneggiature da lui scritte per Hollywood: Trumbo: «Presidente, ho portato qui con me le versioni integrali di una ventina di miei lavori sceneggiati a Hollywood negli ultimi anni. Sono a vostra disposizione, in modo che possiate indicarmi i punti sovversivi che vi avrei inserito. » Presidente Thomas: «Posso domandare che ampiezza hanno questi lavori?» Trumbo: «In media dalle 115 alle 160 o 170 pagine. » Presidente Thomas: «Troppe pagine, non le vaglieremo. »

Questa incredibile risposta del Presidente della Commissione è esemplare in tutta la sua faziosità. L’indagine era nata con lo scopo di difendere l’industria del cinema dalla propaganda sovversiva che, questa era l’accusa, i «rossi di Hollywood» erano riusciti a mettere in circolo. Ora che la Commissione aveva finalmente l’opportunità di sindacare sulle sceneggiature di uno dei personaggi ritenuti più invischiati col comunismo, Thomas rifiutava di leggere i testi perché «troppo lunghi». Il Presidente pareva ormai interessato solo ad appurare l’affiliazione di Trumbo col «temibile» Sindacato sceneggiatori: Presidente Thomas: «Lei è membro del Sindacato sceneggiatori, signor Trumbo?» Trumbo: «Mi pare evidente che una domanda di questo tipo miri a identificarmi con il Sindacato sceneggiatori, per poi identificarmi con il Partito comunista americano, così che si possa distruggere il Sindacato…» (Il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Si limiti a rispondere alla domanda. Lei è membro del Sindacato sceneggiatori?» Trumbo: «A mio avviso questa domanda ha un doppio fine…» (Il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Vuole farci la cortesia di rispondere con un sì o un no? Lei è membro del Sindacato sceneggiatori?» Trumbo: «… che è quello di stabilire un legame tra il Sindacato e il Partito comunista americano…» Presidente Thomas: «Glielo ripeto: lei è membro del Sindacato sceneggiatori?» Trumbo: «Mi consenta di rispondere. Credo che questa domanda voglia colpire il Sindacato…» (Il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Questa è l’ultima volta che glielo chiedo, signor Trumbo. Lei è membro del Sindacato sceneggiatori?» Trumbo: «Mi pare evidente che una domanda di questo tipo miri a identificarmi con la Swg, per poi identificarmi con il CpUsa così che si possa distruggere il Sindacato…» (Il Presidente batte il martelletto) Trumbo (alzando la voce): «I diritti dei lavoratori americani all’inviolabilità dell’affiliazione ai sindacati sono stati conquistati a prezzo di sangue e con un grande costo in termini di

fame. La sua domanda costringerebbe ogni lavoratore americano vicino a un sindacato a identificarsi qui come tale, e a essere soggetto a future intimidazioni. Per questi motivi la domanda è a mio avviso incostituzionale. » Presidente Thomas: «Non potrebbe rispondere alla domanda se è iscritto al Sindacato sceneggiatori dicendo “sì” o “no” o “credo di sì” o “forse” o qualcos’altro del genere?» Trumbo: «Con questa domanda lei intende colpire il Sindacato…» Presidente Thomas: «Bene, sia messo agli atti che il testimone si rifiuta di rispondere alla domanda. Passiamo oltre. È o è mai stato membro del Partito comunista americano?» Trumbo: «Credo di avere il diritto di sapere quali sono le prove che giustificano una simile domanda. Vorrei vedere cosa avete. » Presidente Thomas: «Oh bene, lei vorrebbe vedere!» Trumbo: «Sì. » Presidente Thomas: «Bene, lo vedrà presto, molto presto. » (Risate e applausi, il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Licenziate il testimone. È impossibile. » Trumbo: «Questo è l’inizio…» (Il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Solo un minuto…» Trumbo: «… di un campo di concentramento negli Stati Uniti!» Presidente Thomas: «Questa è una tipica tattica comunista! Questa è una tipica tattica comunista!» (Applausi) 8

3.3. La deposizione di Albert Maltz La scelta di non ammettere la lettura delle dichiarazioni dei Dieci fu inspiegabilmente interrotta il 28 ottobre per Albert Maltz (che potè leggerla per intero) e per Alvah Bessie (a cui si consentì di leggere i primi due paragrafi, anche se poi Bessie ne approfittò per leggerla tutta). Forse i commissari si erano resi conto della pubblicità negativa che la loro censura aveva causato e cercarono di porre rimedio. Riportiamo il testo integrale della dichiarazione di Maltz: Io sono un Americano, e credo non vi sia parola più nobile nel vocabolario di un uomo. Sono un romanziere e uno sceneggiatore e ho prodotto un certo numero di opere negli ultimi 15 anni. Come per qualunque altro scrittore, tutto ciò che ho scritto è venuto dal tessuto della mia vita – il mio esser nato in questa terra, le nostre scuole, i nostri giochi, la nostra atmosfera di libertà, la nostra tradizione di indagine, di critica, di discussione, di tolleranza. Chiunque io sia, è l’America ad avermi forgiato. E io, a mia volta, nutro la più grande lealtà verso questa terra, verso il sistema sociale ed economico della sua gente, verso la perpetuazione e lo sviluppo del suo modo di vita democratico. Ora, all’età di 39 anni, sono obbligato a testimoniare davanti alla Commissione per le attività antiamericane. Per un’intera settimana questa Commissione ha incoraggiato un gruppo di testimoni ben disposti a dichiarare che io e altri siamo sovversivi e antiamericani. Ha rifiutato a noi il diritto che qualunque ladruncolo ha in un’aula di tribunale: il diritto di controinterrogare questi testimoni, di contestare le loro dichiarazioni, di rivelare le loro vere ragioni, la loro storia e chi, esattamente, loro sono. Inoltre, garantisce a questi testimoni l’immunità congressuale cosicché non possiamo querelarli per diffamazione e calunnia. Io sostengo che questa sia una procedura sbagliata e viziata; che sia legalmente ingiusto e moralmente indecente – e che metta in pericolo ogni altro Americano, poiché se i diritti di uno possono essere calpestati, allora le garanzie costituzionali di tutti sono sovvertite e nessuno sarà più protetto dalla tirannia ufficiale. Che cosa vuol distruggere con me questa Commissione? I miei lavori? Molto bene, analizziamoli allora. Il mio romanzo La freccia di fuoco (The Cross and the Arrow) è stato stampato in 140. 000 copie da un’agenzia federale del tempo di guerra, le edizioni dei servizi armati, per gli americani impiegati all’estero. I miei racconti sono stati ristampati in più di 30 antologie, suppongo tutte edite da case editrici americane sovversive, senza dubbi. Il mio film C’è sempre un domani ( The Pride of the Marines, 1945, di Delmer Daves) è stato

premiato in 28 città durante i banchetti del Guadalcanal Day sotto il patrocinio del Corpo dei Marines degli Stati Uniti. Un altro film, Destinazione Tokyo ( Destination Tokyo, 1943, di Delmer Daves), è stato premiato a bordo di un sottomarino della Marina e adottato dalla Marina come film ufficiale di addestramento. Il mio documentario The House I Live in (1945) ha ricevuto il premio speciale della giuria dall’Accademia delle arti e dello spettacolo per il suo contributo alla tolleranza razziale. Il mio racconto The Happiest Man on Earth, ha vinto il premio alla memoria di O. Howard per il 1938 come miglior racconto americano. Dunque questo è il mio curriculum di scrittore, per il quale questo comitato preme affinché io sia schedato ed escluso oggi dall’industria dello spettacolo e domani, se ne avrà il potere, anche dall’editoria e dai periodici. Mi si vuole impedire di scrivere, tramite una fredda censura, se non proprio con un’apposita legge. Ma questa censura si fermerà con me? O si fermerà con gli altri inquisiti? Se è necessario accettare le idee di questa commissione per restare fuori dalle accuse di antiamericanismo, chi può dirsi veramente al sicuro, a parte i membri del Ku Klux Klan? Per quali altri motivi questo comitato desidera distruggere me e gli altri? Per le nostre idee, non vi è ombra di dubbio. Nel 1801, quando era Presidente degli Stati Uniti, Thomas Jefferson scrisse: «[Avere un’] opinione, mantenerla in modo giusto, non dovrebbe mai essere considerato un crimine secondo me: né dovrebbe mai portare danni all’individuo». Ma pochi anni fa, durante una delle udienze di questa Commissione, il deputato J. Parnell Thomas ha affermato che, e cito dalle trascrizioni ufficiali: «Voglio solo dire questo ora: sembra che il New Deal stia lavorando in parallelo col Partito comunista. Il New Deal è per il Partito comunista, o lavora con le sue mani». Molto bene, ecco dunque l’altro motivo per cui io e gli altri siamo stati chiamati davanti a questa Commissione: le nostre idee. Insieme a molti altri americani, ho sostenuto il New Deal. Insieme a molti altri americani, ho sostenuto l’Antilynching Bill contro Mr. Thomas e Mr. Rankin. Mi sono opposto a loro sostenendo i controlli dell’Opa e il reinserimento dei veterani di guerra, così come la legge per le pratiche di giusta assunzione. Ho firmato petizioni in favore di queste misure, ho aderito a organizzazioni che le hanno difese, ho versato fondi, qualche volta ho addirittura parlato in manifestazioni pubbliche e continuerò a fare così. Trarrò la mia filosofia da Thomas Paine, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln, e non permetterò di intimidirmi a uomini per i quali «il Ku Klux Klan è una accettabile istituzione americana», così come affermato nelle udienze. Vi dico inoltre che su molte questioni di pubblico interesse le mie opinioni di cittadino non sono sempre state in accordo con quelle della maggioranza. Le mie opinioni non sono sempre state fisse e immutabili, né lo sono ora; ma, giuste o sbagliate che siano, rivendico il mio diritto alla libertà di pensiero, alla libertà di parola; ad aderire al Partito repubblicano o a quello comunista, a quello democratico o a quello proibizionista; a pubblicare quel che mi pare; di avere un’opinione o di cambiarla, senza dettati di alcuno; di esprimere qualunque critica a qualunque politica pubblica ufficiale; di aderire a qualunque organizzazione io ritenga, senza curarmi di ciò che certi legislatori possano pensarne. Soprattutto, sfido il diritto di questa Commissione di interrogarmi sui miei credi politici o religiosi, in qualunque modo o maniera, e asserisco che non solo la condotta di questa Commissione ma la sua stessa esistenza rappresentano una sovversione della Carta dei Diritti. Se fossi stato un portavoce del generale Franco, non sarei qui oggi. Preferirei morire piuttosto che essere un mediocre americano, e umiliarmi davanti a uomini come Thomas e Rankin, che conducono oggi in America attività simili a quelle che Goebbels e Himmler hanno condotto in Germania. Il popolo americano dovrà scegliere tra la Dichiarazione dei Diritti e la Commissione Thomas. Non potranno avere tutt’e due. Una dovrà essere abolita nell’immediato futuro. 9

Letta la dichiarazione, cominciò anche per Maltz l’interrogatorio: Presidente Thomas (battendo il martelletto): «Signor Stripling, a lei. » Stripling: «Signor Maltz, di cosa si occupa?» Maltz: «Sono uno scrittore. » Stripling: «Lavora nel mondo dello spettacolo?» Maltz: «Scrivo per vivere e ho accettato qualche volta le offerte del mondo dello spettacolo. » Stripling: «Ha scritto sceneggiature per film?» Maltz: «È un fatto di dominio pubblico. » Stripling: «È membro del Sindacato sceneggiatori?» Maltz: «Poi, mi domanderà a quale gruppo religioso appartengo. »

Presidente Thomas: «No, no. Non glielo chiederemo. » Maltz: «E qualunque domanda come questa…» Presidente Thomas: «Lo so. » Maltz: «È un ovvio tentativo di prevaricare i miei diritti costituzionali. » Stripling: «Si rifiuta di rispondere se sia iscritto o no al Sindacato sceneggiatori?» Maltz: «Non mi rifiuto di rispondere alla domanda. Al contrario, sottolineo che dopo mi chiederete se sono o no membro di un determinato gruppo religioso, e poi proporrete che io sia schedato da un’industria perché appartengo a un gruppo che non vi piace. » (Il Presidente batte il martelletto) Stripling: «Signor Maltz, lei si rifiuta di rispondere alla domanda?» Maltz: «Non rifiuto affatto di rispondere alla domanda. Ho appena risposto alla domanda. » Stripling: «Le ripeto: è membro del Sindacato sceneggiatori?» Maltz: «E io le ripeto la mia risposta, signor Stripling, che qualunque domanda del genere è un evidente tentativo di calpestare il mio diritto di aderire come cittadino americano a qualunque organizzazione desideri, e sarei un mediocre americano se non le avessi risposto così. » Stripling: «Signor Maltz, è membro del Partito comunista?» Maltz: «Poi mi domanderà a quale gruppo religioso appartengo. » McDowell: «Questo non è rispondere alla domanda. » Maltz: «E poi farete pressioni a molti esponenti dell’industria perché non vi piace la mia religione, dunque non dovrei più lavorare. Qualunque domanda di questo tipo è per me irrilevante. » Stripling: «Glielo ripeto per l’ultima volta: signor Maltz, è o è mai stato membro del Partito comunista americano?» Maltz: «Ho già risposto alla domanda, signor Quisling10. Mi dispiace. Voglio che lei sappia…» McDowell: «Obiezione! Il testimone offende la Commissione coi suoi doppi sensi!» Presidente Thomas: «Licenziate il testimone. La sua testimonianza segue una tipica linea comunista!» Maltz: «Ma sì, proseguite con i vostri verbali falsi!»11

Mentre Maltz veniva fatto allontanare, si alzò nuovamente l’investigatore Russell, che con tono monocorde lesse la lunga lista di organizzazioni «sovversive» di cui aveva fatto parte lo sceneggiatore, quindi mostrò a tutto l’uditorio la tessera del Partito comunista americano a nome dello scrittore. Ancora una volta tutto ciò venne fatto senza possibilità di difesa da parte dell’imputato.

3.4. Le deposizioni di Alvah Bessie, Samuel Ornitz e Herbert Biberman Nel pomeriggio dello stesso giorno fu chiamato al banco Alvah Bessie. A lui, come abbiamo detto, il presidente Thomas consentì di leggere i primi due paragrafi della sua dichiarazione. Alla fine Bessie riuscì a evitare la censura semplicemente non interrompendosi. L’effetto della lettura fu molto più forte di quella di Albert Maltz, per via del tono più spiccatamente politico e di scontro che Bessie (già soldato volontario nella Brigata Lincoln contro Franco in Spagna) usò: Sono sicuro che il Primo emendamento della nostra Costituzione vieti espressamente al Congresso di approvare qualunque legge che si proponga di limitare o abrogare la libertà di parola o di opinione. Sono convinto che le funzioni delle Commissioni congressuali prevedano che siano stabilite dal Congresso con il chiaro proposito di indagare su materie che potrebbero condurre a delle nuove leggi. Ora, o la Costituzione e la sua Dichiarazione dei Diritti valgono per quel che dicono, oppure non significano niente. E il Primo emendamento, o sorveglia le attività del Congresso e di tutti gli organi legislativi del nostro Governo, o non ha nessun valore. Non posso essere

d’accordo con questa cosiddetta Commissione e il suo implicito credo che la Dichiarazione dei Diritti significhi quel che quest’organo vuole che significhi, o che sia applicabile solo a coloro le cui opinioni sono in accordo con questa Commissione. Io non condivido le opinioni, le attività o gli obiettivi di questo Comitato o di qualunque comitato che anche remotamente ci assomigli. E poiché le uniche leggi che questa Commissione potrebbe mai far scaturire abrogherebbero la libertà di parola e di pensiero, e sarebbero quindi automaticamente incostituzionali, sono arrivato alla conclusione, che nascerà dai fatti, che questa Commissione sia totalmente incostituzionale e senza alcun potere di indagare su niente che io pensi, creda, sostenga o accarezzi, o su nulla che io abbia mai scritto o detto, o su nessuna organizzazione cui io abbia mai aderito o alla quale abbia rifiutato di aderire. Da ex giornalista sono rimasto profondamente colpito dalla reazione crescente di disapprovazione da parte della stampa nazionale circa le attività di questa Commissione. Quando il conservatore «New York Herald Tribune» arriva a dire: «Il credo [politico, N. d. A. ] degli uomini e delle donne che scrivono per il cinema è affare esclusivamente loro, al pari del credo di qualunque altro cittadino, come stabilisce la Dichiarazione dei Diritti. Né il signor Thomas né il Congresso, nel quale pure siede, hanno il potere di dettare ciò che gli americani dovrebbero pensare…» e quando il «Chicago Times» scrive: «Chiaramente, il reale obiettivo del signor Thomas e della Commissione per le attività antiamericane non è in primo luogo quello di scoprire le influenze sovversive di Hollywood. È di gettare fango sui new dealers e sui loro successori progressisti o come si vogliano chiamare…» – allora qualunque persona intelligente non ha difficoltà a capire che, se si permette a questa indagine di raggiungere il suo vero obiettivo, non esiterà a spostarsi dall’industria dello spettacolo – ormai evirata – al soffocamento della stampa, della radio, del teatro, e degli editori d’America. Abbiamo già assistito a questa strategia nella Germania di Hitler, e la capiamo a fondo. Il vero proposito di questa Commissione per le attività antiamericane è di creare un’atmosfera [di panico, N. d. A. ] e di agire come una testa d’ariete per le vere forze antiamericane che progettano un’America fascista. Ingiungendomi di venire qui da casa mia, questa Commissione spera di rastrellare prove dalle braci fumanti della guerra che fu combattuta in Spagna dal 1938 al 1939. Quest’organo, in tutte le sue manifestazioni precedenti, ha messo a verbale di ritenere che il sostegno alla Repubblica Spagnola fosse sovversivo, antiamericano e filocomunista. Questa vergognosa menzogna è stata diffusa per primi da Hitler e Franco. Ma la maggioranza degli americani, anzi, la maggioranza delle persone del mondo, non vi ha mai creduto. E io a questo punto voglio che sia messo a verbale che non solo ho sostenuto la Repubblica Spagnola, ma che è stato mio profondo privilegio e altissimo onore avere servito come volontario nelle file delle Brigate internazionali per tutto il 1938. E continuerò a sostenere la Repubblica Spagnola sinché il popolo spagnolo, nella sua maestà e nel suo pieno potere, deporrà Francisco Franco e i suoi sostenitori e ristabilirà il governo legale che Franco e i suoi soldati nazifascisti hanno usurpato. La consapevolezza che mi portò a lottare in Spagna per quella Repubblica, e l’esperienza da me accumulata in quella guerra, mi insegnano che questa Commissione è impegnata nelle stesse identiche attività di cui si occupavano le commissioni per le attività antispagnole, antitedesche e antiitaliane che furono installate in ciascun paese poco prima dell’avvento del fascismo. Non aiuterò o favorirò mai un simile comitato nel suo patente tentativo di promuovere il mezzo dell’intimidazione e del terrore che è l’inevitabile precursore di ogni regime fascista. E ribadisco qui ufficialmente la mia convinzione che quest’organo non possieda alcuna autorità legale di intromettersi nelle teste o nelle attività di qualunque americano che creda, come io credo, nella Costituzione, e che è pronto in ogni momento a combattere per difenderla, così come ho combattuto per difenderla in Spagna. 12

Una così forte dichiarazione di guerra alla Commissione e ai suoi «membri fascisti» non poteva passare inosservata. Il trattamento riservato a Bessie fu dunque dei più duri e sbrigativi. Saltando ogni introduzione (per gli altri si era proceduto con la lettura delle generalità e del curriculm lavorativo), Thomas ordinò a Stripling di porre subito le due domande chiave, e il suo aiutante lesto obbedì:

Stripling: «È iscritto al Sindacato sceneggiatori, signor Bessie?» Bessie: «Per quale motivo lo vuol sapere?» Stripling: «Lei è davanti a una Commissione federale per rispondere a delle domande, non per farle. Allora, è o non è iscritto al Sindacato sceneggiatori?» Bessie: «La cosa non la riguarda minimamente, come garantito dal Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America. » Stripling: «Sia messo agli atti che il testimone si rifiuta di rispondere se sia iscritto o meno al Sindacato sceneggiatori. È o è mai stato iscritto al Partito comunista?» Bessie: «Il generale Eisenhower si è recentemente rifiutato di rispondere a una domanda sulle sue idee politiche, e quel che va bene per il generale va bene anche per me. » (Applausi, il Presidente batte il martelletto) Presidente Thomas: «Adesso basta, licenziate il testimone! Se ne vada a fare i suoi discorsi sotto un bell’albero! (Batte il martelletto e si rivolge al pubblico plaudente. ) Sono convinto che se il generale Eisenhower fosse testimone davanti a questa Commissione e qualcuno gli chiedesse: “È membro del Partito comunista?” non solo sarebbe molto solerte nel rispondere, ma sarebbe stato anche gravemente insultato e per una semplice ragione: un grand’uomo come il generale Eisenhower non penserebbe mai neanche in sogno di diventare un vile comunista. »13

Subito dopo, come era ormai tradizione, venne il turno dell’investigatore Russell e della sua elencazione di tutte le «schiaccianti prove» a carico dell’imputato il quale, anche questa volta, non potè replicare in alcun modo. La mattina successiva Samuel Ornitz fu il quinto degli artisti chiamato al banco. A lui il presidente Thomas non permise neppure la lettura della dichiarazione, definita come «solo un altro caso di oltraggio» 14. Anche stavolta l’interrogatorio fu circoscritto alle sole due domande chiave: Stripling: «Signor Ornitz, è membro del Sindacato sceneggiatori?» Ornitz: «Non è semplice rispondere a una simile domanda, perché tocca nel profondo la mia coscienza, essendo contraria ai miei diritti costituzionali. » Stripling: «Ha intenzione di rispondere alla domanda o no?» Ornitz: «Lei mi suscita una seria questione di coscienza quando mi chiede di essere suo complice nell’infrangere la Costituzione. » Stripling: «Dunque non risponde. È o è mai stato membro del Partito comunista?» Ornitz: «Mi rifiuto di rispondere a una simile domanda. Ho il diritto di appartenere a qualunque partito io creda. » 15

Quindi tornò a ripetersi la scena del soliloquio dell’ispettore Russell e delle sue «inoppugnabili prove». A Ornitz successe Herbert Biberman. Anche la sua dichiarazione fu censurata, ma l’interrogatorio cominciò dai dati generali: Stripling: «Signor Biberman, vuol dirci dove e quando è nato?» Biberman: «Sono nato a pochi metri dalla Independence Hall di Filadelfia, il giorno in cui McKinley fu proclamato Presidente degli Stati Uniti, il 4 marzo 1900, al secondo piano di un palazzo all’angolo tra la Sesta strada e la Sud, sopra un emporio. » Stripling: «Sono molto contento di questa sua così mirabile precisione16 nel rispondere alla Commissione e mi auguro che dimostrerà altrettanta precisione nel rispondere alle prossime domande. »

Tuttavia alle domande chiave anche Biberman si rifiutò di rispondere e per ciò venne licenziato anzitempo al pari dei suoi predecessori: Stripling: «È iscritto al Sindacato sceneggiatori?» Biberman: «Mi pare chiaro che il vero scopo di questa inchiesta…» Presidente Thomas (battendo il martelletto): «Non è una risposta pertinente. » Biberman: «… è di aprire una breccia…» Presidente Thomas: «Non è questa la domanda!» Biberman: «… nelle componenti…» Presidente Thomas: «Signor Stripling, passi alla domanda successiva. » Biberman: «… e difendendo i miei diritti costituzionali qui, io difendo…» Presidente Thomas: «Avanti con la prossima domanda!»

Biberman: «… il diritto non solo nostro…» Stripling: «È lei un membro…» Biberman: «… ma dei produttori e del popolo americano…» Stripling: «… del Partito comunista americano?» Presidente Thomas: «Basta, licenziate il testimone, si rifiuta di rispondere. »17

L’unica differenza coi precedenti testimoni stette nella dichiarazione finale di Biberman, che si scusò per avere alzato la voce durante la deposizione. Poi, implacabile, la lettura di Russell.

3.5. Le deposizioni di Edward Dmytryk e Adrian Scott Nel pomeriggio del 29 ottobre fu il turno del regista Edward Dmytryk, a cui seguì il produttore Adrian Scott, entrambi accusati dello stesso «reato»: aver collaborato al film Odio implacabile (Crossfire, 1947), che attaccava l’antisemitisimo. L’andamento degli interrogatori fu per tutti i Dieci molto simile, rifiutandosi gli imputati di rispondere alle domande di carattere politico o sindacale che la Commissione continuava ossessivamente a proporre. Nel caso dell’udienza di Dmytryk i toni furono molto più drammatici rispetto ai precedenti e ai successivi interrogatori, a causa della notevole tensione del regista al momento della sua deposizione. Poiché Dmytryk sarà il grande pentito dei Dieci e otterrà una nuova udienza nel 1951, riporto la traduzione integrale del suo interrogatorio. Prima di ascoltare Dmytryk, il presidente Thomas sentì il bisogno di difendere l’autorità della sua Commissione di fronte alla stampa e insieme volle fare il punto sui risultati delle indagini fin lì conseguiti: Presidente Thomas: «La presidenza vorrebbe ora fare un breve riassunto sulle indagini del Comitato circa le influenze comuniste nell’industria del cinema. In risposta alla domanda del popolo, il presente Comitato per le attività antiamericane ha condotto un’indagine preliminare che ha reso ampia evidenza dell’estensione dell’infiltrazione comunista a Hollywood. Per raccogliere le prove così come vi vengono presentate, questo Comitato si è avvalso dell’opera di investigatori professionisti, tutti ex-agenti dell’Fbi. Di conseguenza, l’autorità del Comitato a condurre tale indagine, a norma della Legge 601, è assolutamente cristallina. Noi non abbiamo violato e non stiamo violando i diritti di nessun cittadino americano, e neppure i diritti dei comunisti, sebbene fedeli in primo luogo a un governo straniero. Il Comitato è ben consapevole delle forti pressioni che in ogni modo hanno cercato di impedire questa indagine. Sono orgoglioso di dichiarare che il presente Comitato non ha mai sofferto alcuna incertezza, né si è lasciato dominare, intimidire o influenzare dal fascino di Hollywood, o da questa o quella lobby ; tantomeno ci spaventano le minacce o i tentativi di mettere in ridicolo l’indagine da parte di burattini ben pagati da certi signori dell’industria del cinema. Il popolo conoscerà i fatti, proprio come ho detto in apertura della seduta. » Stripling: «Signor Dmytryk, dove e quando è nato?» Dmytryk: «Sono nato il 4 settembre 1908, a Grand Forks, British Columbia, Canada. » Stripling: «Quando e come è diventato cittadino degli Stati Uniti?» Dmytryk: «Venni nazionalizzato [naturalizzato?, N. d. A. ] nel 1939 a Los Angeles. » Stripling: «Di che si occupa?» Dmytryk: «Regista di film. » Stripling: «Da quanto tempo fa il regista?» Dmytryk: «Dal 1939. Ma sono entrato nel cinema nel 1923. » Stripling: «Con quali studi lavora adesso?» Dmytryk: «Con la Rko. » Stripling: «Per quali altre compagnie ha lavorato nel passato?» Dmytryk: «Per la Universal. Ma per molti anni ho lavorato per la Paramount. »

Stripling: «Vuol ricordare i titoli di alcuni film che ha diretto?» Dmytryk: «Signor Presidente, avrei qui una dichiarazione scritta. Include i nomi di alcuni dei film che ho diretto. Posso leggerla?» Crum: «La mostri al Presidente. » Presidente Thomas: «Prego, mi faccia vedere. (Pausa) Questa dichiarazione assomiglia ad altre che abbiamo già scorso. Non è assolutamente pertinente a questa indagine, perciò la presidenza la giudica non ammissibile. » Dmytryk: «Signor Presidente, credo che la mia dichiarazione riguardi proprio le domande che fate qui a causa di questa indagine. » Presidente Thomas: «La presidenza ha deciso che la dichiarazione non è affatto pertinente. L’investigatore capo le farà delle domande, e lei per favore risponda. » Dmytryk: «Come vuole. »

Quindi partì la solita pantomima: Stripling: «Signor Dmytryk, lei è un membro del Sindacato registi?» Dmytryk: «Signor Stripling, mi pare che questo genere di domande porti a…» Presidente Thomas: «Un momento. Non è lei che deve esprimere pareri. Lei deve solo rispondere alle domande. Andiamo avanti. » Dmytryk: «Signor Presidente, se lei mi consente risponderò alla domanda. In ogni caso, a molti altri testimoni, certamente a tutti quelli della prima settimana, è stato permesso di rispondere come meglio volevano e alcuni l’hanno presa molto alla larga…» Stripling: «Mi perdoni, signor Dmytryk. Quanto tempo pensa le sia necessario per dirci se era oppure non era iscritto al Sindacato registi? Crede che cinque minuti sarebbero sufficienti?» Dmytryk: «Molto meno di cinque minuti. » Presidente Thomas: «Avrebbe bisogno di cinque minuti per rispondere se lei è associato al Sindacato registi?» Dmytryk: «Ho detto che mi basta molto meno di cinque minuti, signor Presidente. » Presidente Thomas: «Molto meno di cinque minuti. Non può rispondere solo sì o no?» Dmytryk: «Non ci sono molte domande a cui si possa rispondere solo con un sì o un no. » Presidente Thomas: «Ma io mi riferisco a questa domanda. Può rispondere sì o no?» Dmytryk: «Io voglio rispondere alla domanda. Però gradirei rispondere a modo mio. » Presidente Thomas: «Le chiediamo di rispondere. Qui basta davvero un sì o un no, non crede?» Dmytryk: «Non credo che lei possa dirmi come devo rispondere alle domande. Le ho detto che gradirei rispondere alla domanda, ma a modo mio. » Presidente Thomas: «Bene, risponda pure usando tutta la sua abilità, però in modo da farci comprendere se lei è o non è membro del Sindacato registi. » Dmytryk: «Sono lieto di rispondere. » Presidente Thomas: «Se richiede un tempo troppo lungo, forse è perché c’è qualcosa di sbagliato. » Dmytryk: «Non penso che richiederà un tempo così lungo da annoiarla. » Presidente Thomas: «Vada avanti. » Dmytryk: «Credo che questo genere di domande sia congegnato in modo da provocare una divisione nel Sindacato e fra i membri dei sindacati, proprio quando siamo riusciti a creare un sindacato unitario. Voglio sottolineare, in ogni caso, essendo cosa di dominio pubblico, che quando alcuni di noi ebbero uno scontro con il signor Wood – Sam Wood – il quale contro il sindacato unito perse, io ero uno dei dirigenti del Sindacato registi. » Stripling: «Lei è o è mai stato membro del Partito comunista, signor Dmytryk?» Dmytryk: «Signor Stripling, credo che questa domanda riguardi i miei diritti costituzionali e non credo che lei abbia…» Presidente Thomas: «E quando ha studiato la Costituzione? Mi dica, quando ha studiato la Costituzione?» Dmytryk: «Sono contento di rispondere a questa domanda, signor Presidente. L’ho imparata al liceo e poi di nuovo…» McDowell: «Risponda all’altra domanda. » Dmytryk: «Mi avete chiesto quando ho studiato la Costituzione. » Stripling: «La prima domanda, signor Dmytryk, era: “Lei è o è stato mai un membro del Partito comunista?”» Dmytryk: «Bene, signori, se fate domande semplici e una alla volta, sarò contento di rispondere. »

Stripling: «Quella è molto semplice. » Dmytryk: «Il Presidente mi ha fatto un’altra domanda. » Presidente Thomas: «Lasci perdere la mia domanda. La ritiro. » Dmytryk: «A me pare che l’altra domanda violi i miei diritti costituzionali. La Costituzione non esige che si debba rispondere a quella domanda nel modo in cui il signor Stripling vorrebbe, perché le organizzazioni alle quali appartengo, quello che penso e quello che dico non può essere inquisito da questo Comitato. » Stripling: «Lei si rifiuta di rispondere alla domanda?» Dmytryk: «Non rifiuto di risponderle. Le ho risposto a modo mio. » Stripling: «Lei non ha detto se è o no membro del Partito comunista. » Dmytryk: «Ho risposto dicendo che non penso che lei abbia il diritto di chiedere…» Stripling: «Signor Presidente, è evidente che anche questo testimone segue la stessa linea del precedente. » Presidente Thomas: «Il testimone è licenziato. »18 Nell’udienza Scott i toni furono più ironici, ma non per questo meno tesi: […] Stripling: «Allora, signor Scott, è o è mai stato iscritto al Partito comunista americano?» Scott: «Trovo sia una questione che lede i miei diritti di cittadino. Non credo sia possibile per questa Commissione indagare sulle mie relazioni private o sulle mie relazioni pubbliche. » Stripling: «Glielo ripeto per la quarta e ultima volta: vuole dire a questa Commissione se è o è mai stato comunista, sì o no?» Scott: «Ho come l’impressione di avere già sentito tale domanda, e sono certo di avere già risposto. Non credo che questa Commissione abbia il diritto di indagare su ciò che una persona possa pensare. » Presidente Thomas: «Non è scopo di nessuna di queste due domande [la prima era quella sull’affiliazione al Sindacato sceneggiatori , N. d. A. ] indagare sui suoi pensieri, signor Scott. » Scott: «Ritengo di avere risposto in modo più che soddisfacente. » Presidente Thomas: «Devo essere terribilmente stupido, ma dalle sue risposte non ho capito se lei sia un membro [del Partito comunista , N. d. A. ] oppure no!» Scott: «Io non penso che lei lo sia. » Presidente Thomas: «Molto spiritoso. Signor Scott lei è accusato di oltraggio al Presidente di una commissione federale. Licenziate il testimone. Investigatore Russell, a lei la parola. »19

3.6. Le deposizioni di Ring W. Lardner jr. e Lester Cole Anche nel caso della testimonianza di Ring W. Lardner jr. , tenutasi il giorno successivo, l’atmosfera tesa si mescolò con l’arguzia delle risposte fornite: […] Lardner: «Signor Presidente, vorrei fare una dichiarazione. » (Il testimone dà una copia scritta della dichiarazione sia al Presidente che al signor Stripling. ) Presidente Thomas: «Signor Lardner, la Commissione è unanimemente d’accordo che dopo la sua testimonianza potrà leggere la sua dichiarazione. » Lardner: «Grazie. » Stripling: «Signor Lardner, lei è iscritto al Sindacato sceneggiatori?» Lardner: «Signor Stripling, io voglio cooperare, ma entro certi limiti. Non voglio aiutarla a dividere o danneggiare il Sindacato, né a infiltrarsi negli affari dell’industria del cinema allo scopo, mi sembra, di tentare di controllarne gli affari, e controllare quello che il popolo americano può o non può vedere nelle sale. » Presidente Thomas: «Signor Lardner, se fossi in lei non mi comporterei come gli altri, altrimenti non potrà mai leggere la sua dichiarazione. Le suggerirei…» Lardner: «Signor Presidente, mi consenta…» Presidente Thomas: «… di rispondere alla domanda. » Lardner: «Io…» Presidente Thomas: «La domanda è: lei è membro del Sindacato sceneggiatori?» Lardner: «Lei mi ha detto che avrei potuto leggere la mia dichiarazione, signor Presidente.

» Presidente Thomas: «Sì, ma dopo che avremo finito con le domande e le risposte. » Lardner: «Va bene. » Presidente Thomas: «Ma lei non risponde alle domande. » Lardner: «Bene, risponderò alle domande, ma lei non aveva messo condizioni al fatto che io avrei potuto leggere la mia dichiarazione. » Presidente Thomas: «Le metto ora: se lei rifiuta di rispondere alle domande, non le permetterò di leggere la sua dichiarazione. » Lardner: «Beh, ho capito. Questo è un modo indiretto per dire che lei non mi permetterà di leggere la mia dichiarazione. » Presidente Thomas: «Perché lei sa già che non risponderà alle domande, giusto?» Lardner: «No, sto per rispondere alla domanda. » Presidente Thomas: «E allora risponda. » Lardner: «Bene, signore. Vorrei capire perché questa domanda mi viene posta. » Presidente Thomas: «Ecco il perché: noi vogliamo sapere se lei è un membro del Sindacato sceneggiatori. È una domanda molto semplice. Lei puoi rispondere con un sì o con un no. Non serve un’arringa o un discorso complesso. Se lei vuol fare un discorso, potrà farlo fuori da quest’aula. » Lardner: «Non sono molto bravo a fare un’arringa, e non ci proverò, ma mi sembra che se lei può farmi rispondere su questa questione, domani potrebbe chiedere a qualcuno se crede nello spiritismo…» Presidente Thomas: «Non c’è alcuna possibilità che noi si chieda a qualcuno se crede nello spiritismo, e lei lo sa bene. Questa è una sciocchezza. » Lardner: «Lei potrebbe…» Presidente Thomas: «Lei non ha imparato bene le sue battute. » Lardner: «Beh…» Presidente Thomas: «Voglio sapere se lei può rispondere alla domanda, sì o no. » Lardner: «Se lei chiedesse a qualcuno cosa può domandargli…» Presidente Thomas: «Non si preoccupi di quello che potremmo chiedere a qualcuno. Stiamo interrogando lei, adesso. Allora, lei è un membro del Sindacato sceneggiatori o no?» Lardner: «Ma…» Presidente Thomas: «Lei è americano…» Lardner: «Ma quella è una domanda…» Presidente Thomas: «… e gli americani non dovrebbero avere paura di rispondere a questa domanda. » Lardner: «Sì, ma come americano sono preoccupato perché non credo che questo Comitato abbia il diritto di chiedermi…» Presidente Thomas: «Ebbene, noi abbiamo il diritto, e mentre lei verifica che noi abbiamo il diritto di chiedere, deve rispondere a questa domanda!» Lardner: «Come già ho detto, se lei chiede a qualcuno qualcosa sullo spiritismo…» Presidente Thomas: «Lei è un testimone, vero? È un testimone o no?» Lardner: «Signor Presidente…» Presidente Thomas: «Le ho chiesto: lei è un testimone qui o no?» Lardner: «Sì, lo sono. » Presidente Thomas: «Benissimo, allora una Commissione del Congresso le sta chiedendo: lei è un membro del Sindacato sceneggiatori? Risponda sì o no. » Lardner: «Beh, sto dicendo che per rispondere…» Presidente Thomas: «Come vuole. Passiamo alla prossima domanda. Quella da 64 dollari…» Lardner: «Non ho…» Presidente Thomas: «Vada alla prossima domanda. » Stripling: «Signor Lardner, lei è o è stato membro del Partito comunista?» Lardner: «Mi piacerebbe rispondere anche a questa domanda, ma…» Stripling: «Signor Lardner, l’accusa fatta di fronte a questo Comitato è che il Sindacato sceneggiatori, di cui secondo gli atti lei è membro che lo ammetta o no, ha un buon numero di individui che sono anche membri del Partito comunista. Questo Comitato sta cercando di determinare l’estensione dell’infiltrazione comunista nel Sindacato sceneggiatori e negli altri sindacati del cinema. Quindi la domanda se lei è o no membro del Partito comunista è molto pertinente. Allora: lei è o è stato mai un membro del Partito comunista?» Lardner: «A me sembra che lei stia tentando di screditare il Sindacato sceneggiatori attraverso me, e l’industria del cinema attraverso i sindacati attentando alla nostra libertà di espressione. »

Stripling: «Se lei e altri siete membri del Partito comunista, siete voi quelli che state screditando i sindacati!» Lardner: «Sto tentando di rispondere alla domanda, ma prima vorrei affermare quello che ritengo sia lo scopo della stessa che, come dico, è screditare l’intera industria del cinema. » Presidente Thomas: «Lei non affermerà niente prima. Lei si rifiuta di rispondere a questa domanda. » Lardner: «Sto dicendo che quello che capisco, come cittadino americano…» Presidente Thomas: «Non importa quello che lei capisce. Le abbiamo fatto una domanda: lei è o è stato mai iscritto al Partito comunista?» Lardner: «Potrei rispondere nel modo che vuole lei, signor Presidente ma…» Presidente Thomas: «No…» Lardner: «… ma penso che c’è un…» Presidente Thomas: «Non si tratta di rispondere come vogliamo noi oppure no. È una domanda molto semplice e ogni cittadino americano sarebbe orgoglioso di rispondere alla domanda: “Lei è o è stato mai un membro del Partito comunista?”… Qualsiasi vero americano!» Lardner: «Dipende dalle circostanze. Potrei risponderle, ma se lo facessi, non potrei più guardarmi allo specchio la mattina. » (Boato di risate e applausi) Presidente Thomas (battendo il martelletto): «Se ne vada!» Lardner: «Era una domanda che avrebbe potuto…» Presidente Thomas: «Lasci il banco dei testimoni!» Lardner: «… perché è una domanda…» Presidente Thomas (picchiando col martelletto): «Fuori! Se ne vada! Sergente, porti fuori il testimone. E la sua dichiarazione non è giudicata pertinente, per cui non viene messa agli atti. » (Il sergente obbedisce all’ordine e porta via Lardner di peso). Lardner: «Strano. Ho come l’impressione di essere portato via con la forza!» ( Applausi e risate) Presidente Thomas: «Signor Stripling, il prossimo testimone. »20

Il penultimo testimone a essere ascoltato fu lo sceneggiatore Lester Cole. Come i suoi nove colleghi precedenti, anche Cole si appellò ai suoi diritti costituzionali garantiti dal Primo emendamento, fu licenziato e in sua assenza parlò l’investigatore Russell.

3.7. La particolare deposizione di Bertolt Brecht Il dialogo tra sordi fu interrotto solo dall’udienza del 30 ottobre del tedesco Bertolt Brecht, accompagnato da un traduttore di fiducia della Commissione. Brecht, come abbiamo detto, aveva stabilito con gli altri Dieci e con i suoi avvocati di seguire una strategia di difesa diversa, per via della sua cittadinanza straniera. Riportiamo perciò il suo interrogatorio in forma quasi integrale: Stripling: «Signor Brecht, vorrebbe dirci nome, cognome, indirizzo attuale, per favore? Parli nel microfono. » Brecht: «Il mio nome è Bertolt Brecht. Vivo al numero 34 della 73ª. Strada Ovest di New York. Sono nato ad Augsburg, in Germania, il 10 febbraio 1898. » […] Stripling: «Signor Brecht, la Commissione ha qui un interprete se preferisce. » Crum: «Desidera l’interprete?» Presidente Thomas: «Vorrebbe l’interprete?» Brecht: «Sì. » Stripling: «Dove lavora, signor Baumgardt?» Baumgardt (interprete): «Presso la Biblioteca del Congresso. » Brecht: «Signor Presidente, potrei leggere una dichiarazione in inglese?» Presidente Thomas: «Dia qui. » ( Il Presidente legge in silenzio i primi paragrafi del testo, poi lo mette da parte. )

Presidente Thomas:«Signor Brecht, la Commissione ha vagliato con cura la sua dichiarazione. È un racconto di vita tedesca molto interessante, ma non è pertinente con la nostra indagine. Quindi, non abbiamo bisogno che la legga pubblicamente. » [Considerata l’importanza dell’autore – e non condividendo la «non pertinenza» del testo con l’indagine di Hollywood – riportiamo di seguito la versione integrale della dichiarazione di Brecht, N. d. A. ] Brecht: «Sono nato ad Augsburg, in Germania, figlio di un industriale, e ho studiato scienze naturali e filosofia presso le università di Monaco e Berlino. All’età di vent’anni, mentre prendevo parte alla guerra come infermiere, scrissi una ballata che fu usata dal governo di Hitler per espellermi dal paese quindici anni dopo. La poesia Der Tote Soldat (Leggenda del soldato morto) attaccava la guerra e coloro che volevano prolungarla.

Divenni drammaturgo. Per un periodo la Germania sembrò avviarsi sulla strada della democrazia. Vi era libertà di parola e di espressione artistica. Nella seconda metà degli anni ’20, comunque, le antiche forze reazionarie militariste cominciarono a riguadagnare potere. Ero allora all’apice della carriera di drammaturgo, e il mio dramma L’opera da tre soldi veniva rappresentato in tutta Europa. Alcuni dei miei lavori vennero presentati a Berlino, Monaco, Parigi, Vienna, Tokyo, Praga, Milano, Copenaghen, Stoccolma, Budapest, Varsavia, Helsinky, Mosca, Oslo, Amsterdam, Zurigo, Bucarest, Sofia, Bruxelles, Londra, New York, Rio de Janeiro ecc. Ma in Germania si potevano già sentire voci che si levavano a domandare che la libertà di parola e di espressione artistica venissero messe a tacere. Idee umanitarie, socialiste e persino cristiane furono definite «non tedesche», undeutsch, una parola che difficilmente ricordo senza associarla all’intonazione selvaggia di Hitler. Contemporaneamente le istituzioni culturali e politiche del popolo venivano violentemente attaccate. La Repubblica di Weimar, qualsiasi fossero le sue colpe, vantò uno slogan potente, accettato dai migliori scrittori e da tutti i tipi di artisti: Die kunst dem Volke [L’arte appartiene al popolo]. I lavoratori tedeschi, essendo il loro interesse verso l’arte e la letteratura molto grande, formavano una parte essenziale del pubblico dei lettori o di coloro che andavano a teatro. Le loro sofferenze in una depressione devastante, che sempre più minacciava il loro livello culturale, l’impudenza e il potere crescente della vecchia cricca militarista, feudale e imperialista ci allarmavano. Cominciai a scrivere poesie, canzoni, drammi, che riflettevano i sentimenti del popolo e attaccavano i suoi nemici che allora marciavano apertamente sotto la svastica di Adolf Hitler. Le persecuzioni nel mondo della cultura aumentarono gradualmente. Famosi pittori, editori e redattori di note riviste vennero perseguitati nelle università; si misero in scena cacce alle streghe di tipo politico e si fecero delle campagne contro film come All’ovest niente di nuovo. Questi, naturalmente, non erano che i preparativi in vista di misure ben più drastiche. Quando Hitler si impadronì del potere, ai pittori si impedì di dipingere, case editrici e studi cinematografici passarono in mano al partito nazista. Ma anche questi colpi contro la vita culturale del popolo tedesco erano solo l’inizio. Furono preparati e eseguiti come preparazione a una guerra totale che è nemica assoluta della cultura. La guerra mise la parola fine a tutto ciò. Ora il popolo tedesco deve vivere senza un tetto che lo protegga, senza nutrimento sufficiente, senza sapone, senza i fondamenti della cultura. All’inizio solo pochi furono in grado di vedere il rapporto tra le restrizioni reazionarie nel campo della cultura e gli assalti definitivi contro la stessa vita fisica del popolo. Gli sforzi dei

democratici e degli antimilitaristi, tra i quali quelli che lavoravano in campo culturale, non erano che una piccola parte, si dimostrarono deboli; Hitler prese il potere. Dovetti lasciare la Germania nel febbraio del 1933, il giorno dopo l’incendio del Reichstag. Un intenso esodo di scrittori e artisti di un genere che il mondo non aveva mai conosciuto prima, ebbe inizio… Io mi stabilii in Danimarca e dedicai tutta la mia produzione letteraria, da allora in avanti, alla lotta contro il nazismo, scrivendo drammi e poesie.

Alcune poesie furono introdotte clandestinamente nel Terzo Reich, e il nazismo danese, appoggiato dall’ambasciata di Hitler, ben presto cominciò a chiedere la mia espulsione. Naturalmente il governo danese rifiutò. Ma nel 1939 la guerra sembrava imminente e decisi di partire con la mia famiglia per la Svezia, invitato dal senato svedese e dal sindaco di Stoccolma. Potei restare solo un anno. Hitler aveva invaso la Danimarca e la Norvegia. Continuammo la nostra fuga verso il nord, in Finlandia, per attendere là i visti d’immigrazione per gli Stati Uniti. Le truppe di Hitler incalzavano. La Finlandia era piena di truppe naziste quando noi partimmo per gli Usa nel 1941. Attraversammo l’Urss sul Siberian Express, e assieme a noi viaggiavano rifugiati tedeschi, austriaci, cecoslovacchi. Dieci giorni dopo che avevamo lasciato Vladivostok su una nave svedese, Hitler invadeva l’Urss. Durante il viaggio, la nave caricò della copra a Manila. Pochi mesi dopo gli alleati avrebbero invaso anche quell’isola. Facemmo richiesta di cittadinanza americana (First Paper) il giorno dopo Pearl Harbour. Suppongo che alcune delle poesie e dei drammi da me scritti durante questo periodo di lotta contro Hitler abbiano spinto la Commissione per le attività antiamericane a spiccare contro di me questo mandato di comparizione. Le mie attività, persino quelle contro Hitler, sono sempre state puramente letterarie e di natura strettamente indipendente. In quanto ospite degli Stati Uniti mi sono astenuto da attività politiche che riguardassero questo paese, anche in forma letteraria. Tra l’altro non sono neppure uno sceneggiatore. Hollywood ha utilizzato soltanto un soggetto da me scritto per un film che mostrava le atrocità naziste a Praga. Non sono a conoscenza di nessun tipo di influenza che potrei avere esercitato nell’industria cinematografica, sia di natura politica che artistica. Essendo stato chiamato davanti alla Commissione, comunque, mi sento libero per la prima volta di dire alcune parole sulla situazione americana: guardando indietro alle mie esperienze di drammaturgo e poeta nell’Europa degli ultimi due decenni, desidero dire che il grande popolo americano avrebbe molto da perdere, molto da rischiare se permettesse a qualcuno di restringere la libera competizione delle idee in campo culturale, o di interferire con l’arte che deve essere libera per essere davvero arte. Viviamo in un mondo pericoloso. Il livello della nostra civiltà è tale che l’umanità è gia in grado di diventare enormemente ricca, ma, nel complesso, è ancora tormentata dalla povertà. Grandi guerre sono state sopportate, e più grandi ancora sono imminenti, a quel che si dice. Una di esse potrebbe spazzar via l’umanità intera. Potremmo essere l’ultima generazione della specie umana su questa Terra. Le idee su come utilizzare le nuove possibilità di produzione non sono state sviluppate a pieno, dai tempi in cui il cavallo doveva far ciò che l’uomo non poteva fare. Non credete che, in una tale eventualità, ogni nuova idea

dovrebbe essere esaminata con attenzione e in piena libertà? L’arte può rendere più chiare e persino più nobili queste idee. » Stripling: «Ora signor Brecht, vorrebbe dire alla Commissione se lei è cittadino degli Stati Uniti?» Brecht: «Non sono cittadino americano però ne ho fatto richiesta ufficiale [First Paper, N. d. A. ]. » Stripling: «Quando?» Brecht: «Nel 1941, quando arrivai qui. » Stripling: «Quando è giunto negli Stati Uniti, con precisione?» Brecht: «Posso accertarmene? Il 21 luglio, a San Pedro, California. » Stripling: «Il 21 luglio ’41?» Brecht: «Esattamente. »

[…] Stripling: «Ha ricevuto un visto dal viceconsole americano a Helsinki, in Finlandia, il 3 maggio 1941?» Brecht: «Sì. » Stripling: «E lei è entrato nel paese con quel visto?» Brecht: «Sì. » Stripling: «Dove risiedeva prima di recarsi a Helsinki. » Brecht: «Posso leggere la mia dichiarazione? Nella mia dichiarazione…» Presidente Thomas: «Prima dobbiamo procedere alla sua identificazione, signor Brecht. Non ci vorrà molto. » Brecht: «Dovetti lasciare la Germania nel febbraio del 1933, quando Hitler prese il potere. Allora andai in Danimarca ma la guerra sembrava imminente e nel 1939 dovetti partire per Stoccolma, in Svezia. Rimasi là per un anno e quando Hitler invase la Norvegia e la Danimarca, dovetti partire per la Finlandia dove attesi un visto per gli Usa. » Stripling: «Signor Brecht, qual è la sua occupazione?» Brecht: «Sono drammaturgo e poeta. » Stripling: «Attualmente dove lavora?» Brecht: «Non ho un lavoro. » Stripling: «Ha mai lavorato per il cinema?» Brecht: «Sì, ho venduto un soggetto a una casa di produzione di Hollywood, Hangmen also Die 21ma non ho scritto io la sceneggiatura. Non sono uno sceneggiatore professionista. Ho scritto un altro soggetto, ma non è stato prodotto. » Stripling: « Hangmen also Die… a chi l’ha venduto? A che casa?» Brecht: «È stato, credo, a una casa indipendente, la Pressburger della United Artist. » Stripling: «Quando ha venduto il dramma alla United Artist?» Brecht: «Il soggetto. Non ricordo esattamente, forse tra il 1943 e il 1944. » Stripling: «E a quali altre case ha venduto del materiale?» Brecht: «A nessun’altra, oltre al soggetto di cui vi ho detto, ho scritto per la Enterprise Studio. » Stripling: «Conosce Hanns Eisler, Johannes Eisler?» Brecht: «Sì. »

La domanda su Johannes Eisler – famoso compositore musicale – era probabilmente la vera motivazione per cui Brecht si trovava a dover rispondere davanti alla Commissione. Eisler era apparso di fronte all’Hcua nel settembre 1947 ed era stato incriminato per falsa testimonianza, con susseguente richiesta di espulsione alle autorità di immigrazione americane. Nel febbraio 1948 si era tenuta una seconda udienza che si era conclusa con l’emissione di un mandato di deportazione. A Eisler e alla moglie fu concesso di partire volontariamente dopo aver firmato un documento in cui si impegnavano a non fare più ritorno negli Stati Uniti. I coniugi Eisler accettarono e il 26 marzo 1948 lasciarono l’America alla volta della Cecoslovacchia. L’esilio degli Eisler rappresentò uno dei primi casi di fuga

dagli Stati Uniti di importanti artisti europei ex profughi di guerra. Stripling: «Da quanto tempo conosce Johannes Eisler?» Brecht: «Penso dalla metà degli anni ’20. Da vent’anni circa. » Stripling: «Ha collaborato con lui in alcuni lavori?» Brecht: «Sì. » Stripling: «Signor Brecht, lei è membro del Partito comunista, o lo è mai stato? […] Prima di procedere con le domande, vorrei che fosse messa agli atti la citazione a comparire davanti a questa Commissione, che le è stata consegnata il 19 settembre. Lei è qui in risposta a una citazione, vero?» Brecht: «Sì. » Stripling: «Ora, le ripeterò la domanda originale. È membro, o è mai stato membro del Partito comunista, in qualsiasi paese?»

Dopo un lungo minuetto di domande preliminari relative all’identificazione del più famoso drammaturgo tedesco, finalmente l’investigatore Stripling era andato dritto all’unica domanda che veramente interessava tutta la Commissione. È da notare che, essendo Brecht non americano, gli fu risparmiata la domanda sull’affiliazione al sindacato, che ammetteva solo sceneggiatori statunitensi. Alla tanto attesa domanda, lo scrittore dette una risposta articolata, spiegando chiaramente i motivi per cui la sua condotta sarebbe differita da quella dei precedenti testimoni: Brecht: «Ho ascoltato i miei colleghi quando consideravano impropria questa domanda, ma essendo ospite di questo paese e non volendo entrare in discussioni di tipo legale, risponderò a questa domanda nel modo più completo possibile. Non sono mai stato e non sono ora membro di nessun Partito comunista. » Presidente Thomas: «La sua risposta è, dunque, di non essere mai stato membro del Partito comunista?» Brecht: «Esattamente. » Stripling: «Non era iscritto al Partito comunista in Germania?» Brecht: «No, non lo ero. » Stripling: «Signor Brecht, è vero che lei ha scritto un notevole numero di drammi, poesie e altri scritti che erano molto rivoluzionari?» Brecht: «Ho scritto un gran numero di poesie, e canzoni e drammi, durante la lotta contro Hitler e, naturalmente, possono essere considerati perciò rivoluzionari, perché io, è ovvio, ero favorevole al rovesciamento di quella forma di governo. »

Da quanto sappiamo dalle dichiarazioni di Brecht successive ai fatti del 1947, e dal testo della sua dichiarazione, egli intendeva sottolineare la somiglianza delle attività dell’Hcua con quelle delle prime polizie politiche naziste. Il destro per tale parallelo gli fu fornito dallo stesso investigatore Stripling, che dette così un’ennesima dimostrazione della poca avvedutezza nel porre le domande. Poiché la Commissione aveva tutto da perdere da simili paragoni, il presidente Thomas accorse in aiuto del suo collaboratore: Presidente Thomas: «Signor Stripling, non ci interessano i lavori che possono essere stati scritti per sostenere il rovesciamento del governo della Germania o di un altro paese. » Stripling: «Sì, capisco. Ma da un esame dei lavori che il signor Brecht ha scritto, specialmente quelli in collaborazione con Hanns Eisler, mi pare che egli sia una persona di importanza internazionale per quel che concerne il movimento comunista rivoluzionario. Ora, signor Brecht, è vero che lei ha scritto degli articoli che sono apparsi in pubblicazioni della zona sovietica della Germania nei mesi scorsi?» Brecht: «Non ricordo di aver scritto questi articoli. Non ne ho visto nessuno pubblicato. Non ho scritto articoli di questo tipo in questo periodo. Scrivo pochissimi articoli, se mai ne scrivo. » Stripling: «Ho qui, signor Presidente, un documento che darò all’interprete e gli chiederò di identificarlo. » Brecht: «Posso spiegare io questa pubblicazione?»

Stripling: «Sì. Potrebbe identificarla?» Brecht: «Oh sì. Non è un articolo, ma una scena tratta da un dramma da me scritto nel 1937, credo, o nel 1938, in Danimarca. Il dramma si chiama Furcht und Elend des dritten Reichs (Terrore e miseria del Terzo Reich), e questa scena tratta di una donna ebrea a Berlino nel 1936 o 1937. È stata pubblicata, a quanto vedo, sulla rivista “Ost und West” nel luglio del 1946. » Stripling: «Signor interprete, vorrebbe tradurre il frontespizio della rivista?» Baumgardt: «” Est e Ovest”. Contributi alle questioni politiche e culturali del nostro tempo, curati da Alfred Kantorowicz, Berlino, 1947, primo anno di pubblicazione. » Stripling: «Signor Brecht, conosce il curatore di questa rivista?» Brecht: «Sì. Lo conobbi a Berlino e lo incontrai di nuovo a New York. » Stripling: «Sa che è membro del Partito comunista in Germania?» Brecht: «Quando lo incontrai in Germania era un giornalista della Ullstein Press. Che non è – non era – un giornale comunista, perché non c’erano giornali comunisti allora; per cui non so con certezza se fosse membro del Partito comunista. » Stripling: «Lei non sa se era iscritto al Partito comunista?» Brecht: «Non lo so. No, non lo so. » Stripling: «Nel 1930 lei ha scritto un dramma, insieme a Hanns Eisler, intitolato Die Massnahme( La linea di condotta)?»

Sin dal titolo dell’opera, la Commissione intendeva proporre a Brecht una traduzione inglese forzata che potesse formare una prova del suo tentativo di indottrinamento del popolo americano. Ma il commediografo e il suo interprete corressero parola per parola tutto quel che gli veniva imputato dalla lettura «di parte» del dramma. Brecht: «Sì, sì. » Stripling: «Vorrebbe spiegare alla Commissione il tema di questo dramma, di che cosa tratta?» Brecht: «Sì, cercherò. » Stripling: «Prima di tutto spieghi cosa significa il titolo. » Brecht (in tedesco): « Die Massnahmesignifica…» Baumgardt: «Misure da prendere o passi da compiere; misure (in tedesco). » Stripling: «Potrebbero essere misure disciplinari?» Baumgardt: «No, non misure disciplinari. Significa misure da prendere. » Stripling: «Va bene. Ora dica alla Commissione, signor Brecht, di che cosa tratta il dramma. » Brecht: «Sì. Questo dramma è un adattamento dell’antico dramma religioso giapponese, chiamato dramma No, e segue abbastanza da vicino queste antiche storie, che mostrano la devozione a un ideale fino alla morte. » Stripling: «A che ideale, signor Brecht?» Brecht: «L’ideale nell’antico dramma era religioso. Questi giovani…» Stripling: «Non aveva a che vedere col Partito comunista?» Brecht: «Sì. » Stripling: «E con la disciplina all’interno del Partito comunista?» Brecht: «Sì, sì, è un dramma nuovo, un adattamento. Ha come sfondo la Russia e la Cina degli anni 1918-’19 circa. Alcuni agitatori comunisti si recarono in una specie di terra di nessuno tra la Russia, che allora non era uno stato e non aveva un reale…» Stripling: «Signor Brecht, permette che la interrompa? Considererebbe il dramma come un lavoro filo o anticomunista o, secondo lei, che assume una posizione neutrale rispetto al comunismo?» Brecht: «No, io direi – vedete la letteratura ha il diritto e il dovere di diffondere presso il pubblico le idee dell’epoca. Ora, in questo dramma – naturalmente, ho scritto circa altri venti drammi – ma in questo cercavo di esprimere i sentimenti e le idee degli operai tedeschi che combattevano contro Hitler. Ho anche formulato in modo artistico…» Stripling: «Ha detto lottando contro Hitler?» Brecht: «Sì. » Stripling: «Scritto nel 1930?» Brecht: «Oh sì, sì. Quella lotta cominciò nel 1923. » Stripling: «Lei ha detto che si tratta della Cina, però. Non aveva nulla a che vedere con la Germania?»

Brecht: «No, non aveva nulla a che vedere. » Stripling: «Mi permetta di leggerle questo pezzo. » Brecht: «Sì. » Stripling: «Nel corso del dramma si fa riferimento alle teorie di Lenin, all’abc del comunismo e ad altri classici comunisti e alle attività del Partito comunista cinese in generale. Questi sono brani dal dramma: (legge). Ora, signor Brecht, vorrebbe dire alla Commissione se uno dei personaggi del dramma viene o meno ucciso da un compagno nel migliore interesse del Partito comunista?» Brecht: «No, non è così, secondo la vicenda. » Stripling: «Perché non si inchina alla disciplina, per questo viene ucciso dai suoi compagni, vero?» Brecht: «No, non è proprio così. Se lo leggete attentamente, scoprirete che come nell’antico dramma giapponese, vi sono in gioco altre idee; questo giovane che muore è convinto di aver recato danno alla missione in cui credeva, ed era d’accordo, era pronto a morire per non aumentare questo danno. Per questo chiede ai suoi compagni di aiutarlo e tutti lo aiutano a morire. Egli salta in un abisso ed essi lo accompagnano teneramente a quell’abisso. È questa la vicenda. » Presidente Thomas: «Dalle sue osservazioni ne deduco che egli non fu semplicemente ucciso, egli non fu assassinato. » Brecht: «Egli desiderava morire. » Presidente Thomas: «E per questo gli altri lo hanno ucciso?» Brecht: «No, non l’hanno ucciso… non è nella vicenda. Egli si è ucciso. Gli altri l’hanno aiutato, ma naturalmente gli avevano detto che era meglio se scompariva, meglio per loro, per lui, e per la causa in cui anch’egli credeva. »

Non riuscendo Stripling a dimostrare l’alto valore sovversivo della commedia brechtiana tentò allora di cambiare argomento, riferendosi ai due viaggi compiuti a Mosca dal testimone: Stripling: «Signor Brecht, potrebbe dire alla Commissione quante volte si è recato a Mosca?» Brecht: «Sì. Sono stato invitato a Mosca due volte. » Stripling: «Chi la invitò?» Brecht: «La prima volta fui invitato dall’organizzazione “Voks” per gli scambi culturali. Fui invitato per presentare un film, un documentario che avevo aiutato a realizzare a Berlino. » Stripling: «Come si intitolava?» Brecht: « Kuhle Wampe, è il nome di un sobborgo di Berlino. » Stripling: «Mentre era a Mosca incontrò Sergej Tretjakov?» Brecht: «Sì, è un drammaturgo russo. » Stripling: «Uno scrittore?» Brecht: «Sì. Ha tradotto alcune delle mie poesie e, credo, un mio dramma. » Stripling: «Signor Presidente, il numero 5 di “International Literature” del 1937, pubblicato dall’Editrice di Stato per la Letteratura di Mosca, reca un articolo di Sergej Tretjakov con un intervista al signor Brecht. A pagina 60 afferma: “’Io sono stato uno dei membri del comitato rivoluzionario di Augsburg’ proseguì Brecht. ’Non lontano, a Berlino, Leviné innalzava la bandiera del potere sovietico. Augsburg visse della luce riflessa di Monaco. L’ospedale era l’unica unità militare della città. Mi elessero nel Comitato rivoluzionario. Ricordo ancora Georg Brem e il bolscevico polacco Olshevsky. Non vantammo un solo ufficiale della guardia rossa. Non avemmo il tempo di pubblicare un solo proclama o di nazionalizzare una sola banca o di chiudere una chiesa. In due giorni le truppe del generale Epp entrarono in città, nella loro marcia su Monaco. Uno dei membri del Comitato rivoluzionario si nascose in casa mia, fino a che non riuscimmo a fuggire’. Brecht ha scritto anche Tamburi nella notte (Trommeln in der Nacht). Quest’opera contiene echi della rivoluzione. I tamburi della rivolta richiamano con insistenza l’uomo che è tornato a casa. Ma l’uomo preferisce la pace quieta dell’anima. Questo lavoro era una devastante satira su quelli che hanno abbandonato la rivoluzione e si dono dedicati ai loro focolari. Va ricordato che Kapp lanciò l’offensiva la vigilia di Natale, calcolando che molte guardie rosse avrebbero disertato il loro distaccamento per tornare all’albero di Natale in famiglia. Il suo dramma, La linea di condotta, il primo dramma di Brecht su un tema comunista, è organizzato come un tribunale in cui i personaggi tentano di giustificarsi per aver ucciso un compagno, e i giudici, che contemporaneamente rappresentano il pubblico, riassumono i fatti e raggiungono il

verdetto. Quando visitò Mosca nel 1932, Brecht mi disse che aveva un piano per l’organizzazione di un teatro a Berlino, in cui si sarebbero rivissuti i più importanti processi della storia dell’umanità. Brecht pensò di scrivere un dramma sui trucchi terroristici escogitati dai proprietari terrieri allo scopo di stabilizzare i prezzi dei cereali. Ma ciò richiedeva la conoscenza dell’economia. Lo studio dell’economia ha portato Brecht a Marx e Lenin, i cui lavori sono diventati una parte preziosa della sua biblioteca. Brecht studia e cita Lenin in quanto grande pensatore e grande maestro di prosa. Il dramma tradizionale ritrae la lotta degli istinti della classe. Brecht vuole che la lotta degli istinti della classe venga sostenuta dalla lotta della coscienza sociale, delle convinzioni sociali. Egli ritiene che la situazione non vada soltanto sentita, ma anche spiegata, cristallizzata nell’idea che rovescerà il mondo. ” Ricorda questa intervista, signor Brecht?» Brecht: «No (risata). Deve essere stata scritta vent’anni fa almeno. » Stripling: «Le mostrerò la rivista. » Brecht: «Sì. Non ricordo che ci fosse stata un’intervista. (La rivista viene data al testimone. )Non lo ricordo… Signor Stripling, non ricordo con esattezza l’intervista. Io credo che sia, più o meno, un riassunto giornalistico di discussioni su molti argomenti. » Stripling: «Sì. E quanti dei suoi lavori sono basati sulla filosofia di Marx e Lenin?» Brecht: «Non credo che ciò sia veramente corretto, ma naturalmente ho studiato, ho dovuto studiare, come ogni scrittore che intenda scrivere drammi storici, l’idea di Marx sulla Storia. Non credo che al giorno d’oggi si possano scrivere drammi intelligenti senza questi studi. Inoltre la Storia scritta ora è profondamente influenzata dagli studi di Marx su di essa. » Stripling: «Signor Brecht, da che lei è qui negli Stati Uniti ha mai frequentato riunioni del Partito comunista?» Brecht: «No, non credo. » Stripling: «Non crede?» Brecht: «No. » Stripling: «Non ne è sicuro?» Brecht: «No, sono sicuro. » Presidente Thomas: «È sicuro di non aver mai preso parte a riunioni del Partito comunista?» Brecht: «Credo di si. Sono qui da sei anni… Non credo. Non credo di aver preso parte a riunioni politiche. » Presidente Thomas: «Le riunioni politiche non c’entrano, ma ha preso parte a riunioni del Partito comunista negli Stati Uniti?»

Ancora una volta il drammaturgo aveva messo in ridicolo il suo interrogatore, costringendolo a definire le riunioni del Partito comunista – forse l’organizzazione più rigorosamente politica e ideologizzata d’America – come riunioni «non politiche». Brecht: «Non credo. » Presidente Thomas: «Ne è certo?» Brecht: «Io credo di esserne certo. » Presidente Thomas: «Lei crede di esserne certo?» Brecht: «Sì, non ho partecipato a queste riunioni, secondo me. » Stripling: «Signor Brecht, da quando si trova negli Stati Uniti, ha mai incontrato rappresentanti ufficiali del governo sovietico?» Brecht: «Sì, sì. Quando mi trovavo a Hollywood sono stato invitato tre o quattro volte al consolato sovietico, assieme ad altri scrittori, naturalmente. » Stripling: «Quali altri?» Brecht: «Altri scrittori e artisti e attori che… Si davano delle feste per speciali… ( in tedesco). » Baumgardt: «… festività…» Brecht: «festività sovietiche. » Stripling: «Alcune di queste autorità sovietiche sono mai venute in visita da lei?» Brecht: «Non mi pare…» Stripling: «Gregory Kheifets non è venuto da lei il 14 aprile 1943? Il viceconsole sovietico? Lei conosce Gregory Kheifets, vero?» Brecht: «Gregory Kheifets?» Presidente Thomas: «Faccia molta attenzione a questa domanda. » Brecht: «Non ricordo questo nome, ma potrei conoscerlo. Non ricordo…»

Stripling: «È venuto da lei il 14 aprile 1943?» Brecht: «Potrebbe essere. » Stripling: «E di nuovo il 27 aprile e ancora il 16 giugno del 1944?» Brecht: «Può anche essere, che qualcuno… non ricordo. Non ricordo il nome ma qualcuno degli addetti culturali…» Stripling: «Addetti culturali?» Brecht: «Sì. » Presidente Thomas: «Vorrebbe scrivere quel nome?» (Stripling esegue) Brecht: «Kheifets?» Stripling: «Sì. Ricorda il signor Kheifets?» Brecht: «Non ricordo questo nome, ma potrebbe darsi. Ma ricordo che dal – sì, penso fosse il consolato – dal consolato russo venne qualcuno ma non ricordo neppure il suo nome. » Stripling: «Per quale motivo vennero?» Brecht: «Deve essere stato a riguardo dei miei contatti letterari con scrittori tedeschi. Alcuni tra loro sono miei amici. » Stripling: «Scrittori tedeschi?» Brecht: «Sì, a Mosca. » Stripling: «A Mosca?» Brecht: «Sì. Per questo l’Editrice di Stato ha pubblicato la traduzione dei miei drammi, a cura di Sergej Tretjakov, per esempio, Terrore e miseria del Terzo Reicho L’opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper) e le poesie ecc. » Stripling: «Gerhardt Eisler è mai venuto a trovarla? Gerhardt, non Hanns. » Brecht: «Sì, ho conosciuto anche Gerhardt Eisler. È il fratello di Hanns ed è venuto a trovarmi insieme a suo fratello e tre o quattro volte anche senza di lui. » Stripling: «Può dirci in che anno? Non fu nello stesso anno in cui Kheifets venne da lei?» Brecht: «Non lo so, ma non ci vedo nessuna relazione. » Stripling: «Ricorda che egli sia venuto da lei il 17 gennaio 1944?» Brecht: «No, non ricordo questa data, ma potrebbe anche essere. » Stripling: «Dov’è venuto a trovarla?» Brecht: «Di solito veniva a cercare suo fratello che, come vi ho detto, è un mio vecchio amico, giocavamo anche a scacchi oppure parlavamo di politica. » Stripling: «Di politica?» Brecht: «Sì. » Presidente Thomas: «Qual è stata l’ultima risposta? Non l’ho sentita. »

È ben comprensibile il sobbalzo di attenzione da parte del presidente Thomas, perché finalmente il testimone sembrava avere ammesso una sua qualche implicazione con un Eisler, col quale «parlava di politica». Ma era un nuovo tranello del drammaturgo, nel quale stavolta era caduto anche l’on. Thomas: i due discettavano di cose tedesche, non statunitensi! Stripling: «Parlavano di politica. In qualcuna di queste conversazioni con Gerhardt Eisler ha mai discusso sul movimento comunista tedesco?» Brecht: «Sì. » Stripling: «In Germania?» Brecht: «Sì, parlavamo naturalmente di questioni politiche tedesche. È uno specialista di queste cose, è un uomo politico. » Stripling: «È un uomo politico?» Brecht: «Sì. Egli sapeva molto di più di me sulla situazione in Germania. » Stripling: «Signor Brecht, quando lei è entrato nel nostro paese ha fatto nessuna dichiarazione circa le sue passate affiliazioni, all’Ufficio immigrazione?»

Brecht: «Non ricordo di aver fatto una simile dichiarazione ma ho fatto la solita dichiarazione che non intendevo rovesciare il governo degli Stati Uniti. Può essermi stato chiesto se appartenevo al Partito comunista, non ricordo se mi è stato chiesto, ma in tal caso avrei risposto ciò che ho detto anche a voi, e cioè che non ero iscritto. » Stripling: «Le chiesero se era stato membro del Partito comunista o no?»

Brecht: «Non ricordo. » Stripling: «Le chiesero se era mai stato in Unione Sovietica?» Brecht: «Sì, mi pare, e glielo dissi. » Stripling: «Le rivolsero domande relative ai suoi scritti?» Brecht: «No, a quanto mi ricordo, no. Non ricordo di nessuna discussione letteraria…»

Ancora l’ironia di Brecht. Stripling: «Lei ha detto di aver venduto il libro, o il soggetto di Anche i boia muoiono alla United Artists, vero?» Brecht: «Sì, a una ditta indipendente. » Stripling: «La colonna sonora è stata scritta da Hanns Eisler?» Brecht: «Sì. » Stripling: «Ricorda chi compariva nel film?» Brecht: «No, non ricordo. » Stripling: «Non ricorda neppure chi interpretava il ruolo principale?» Brecht: «Mi pare fosse Brian Donlevy. » Stripling: «Non ricorda altri interpreti?» Brecht: «No, non ricordo. Vedete, non ho avuto molto a che fare con le riprese del film. Scrissi il soggetto e poi diedi alcuni consigli agli sceneggiatori sull’ambiente del nazismo in Cecoslovacchia, cosicché non ebbi nulla a che fare con gli attori. » Presidente Thomas: «Signor Stripling potrebbe affrettarsi che abbiamo molto da fare questo pomeriggio?»

Era ormai chiaro a tutti che quell’interrogatorio si andava trasformando in un’azione controproducente per la Commissione. Così il presidente Thomas chiese esplicitamente a Stripling di tagliare. Stripling: «Va bene, signor Thomas. Da quando è negli Stati Uniti ha pubblicato articoli sulla stampa comunista americana?» Brecht: «Non credo. » Stripling: «Conosce la rivista “New Masses”?» Brecht: «No. » Stripling: «Non ne ha mai sentito parlare?» Brecht: «Sì, naturalmente. » Stripling: «Ha mai pubblicato qualcosa su quella rivista?» Brecht: «Questo non lo so. Potrebbero aver pubblicato la traduzione di qualche mia poesia, ma io non ho mai avuto diretto contatto con loro, né gli ho mai mandato qualcosa. » Stripling: «Ha collaborato con Hanns Eisler per la canzone In Praise of Learning (Lode dell’imparare)?» Brecht: «Sì, ho collaborato. Io ho scritto le parole e lui la musica. » Stripling: «Vorrebbe recitare le parole di questa canzone alla Commissione?» Brecht: «Sì, va bene. Posso sottolineare che la canzone deriva dal mio adattamento di un dramma di Gor’kij, La madre (Mat’). In questa canzone un’operaia russa si rivolge a tutta la povera gente. » Stripling: «È stata presentata nel nostro paese, vero?» Brecht: «Sì, nel 1935 a New York. » Stripling: «Ora le leggerò le parole e mi dirà se è quella: “Impara la semplice verità / Tu, per il quale finalmente il tempo è venuto; / Non è troppo tardi. / Impara ora l’abc. / Non è abbastanza, ma almeno imparalo. / Non temere, non lasciarti andare. / Comincia, devi imparare la lezione, / devi essere pronto a prendere il potere. ”» Brecht: «No, mi scusi ma questa traduzione è sbagliata. Non va bene. (risata) Solo un secondo e le darò il testo esatto. »

Era questa l’ultima carta di Stripling: proporre agli atti una traduzione libera, o faremmo meglio a dire forzata, nella speranza di poter addebitare a Brecht qualcosa. Ma l’artista non perse la calma. Stripling: «Non è corretta la traduzione?» Brecht: «No, non è corretta. Non è quello il senso. Non è molto bella, ma non è di questo che sto parlando. » Stripling: «Che significa? Ho qui una parte del libro The People pubblicato dal Partito

comunista degli Stati Uniti, edito dal Workers’ Library Publisher. A pagina 24 dice: “ Lode dell’imparare, di Bertolt Brecht, musica di Hanns Eisler”. Dice qui: “Devi essere pronto a prendere il potere; uomini che ricevete il sussidio di disoccupazione, imparatelo; uomini in prigione, imparatelo; donne nelle cucine, imparatelo; uomini di 65 anni, imparatelo. Dovete essere pronti a prendere il potere…”» Baumgardt: «La traduzione corretta sarebbe “dovete prendere la guida”. » Brecht: «”La guida” dice senza dubbio così. Non è “dovete prendere il potere”. La traduzione non è letterale. » Stripling: «Bene, signor Brecht, dato che è stata stampata su pubblicazioni del Partito comunista, se non è corretta, cosa si intende?» Brecht: «Non ricordo di aver mai… Non ho mai ricevuto questo libro. Probabilmente non ero presente quando uscì. Credo che sia stata pubblicata come canzone, una delle canzoni di cui Eisler aveva scritto la musica. Non penso di averne mai visto la traduzione. » Stripling: «Ha le parole di fronte a sé?» Brecht: «In tedesco, sì. » Stripling: «Prosegue “devi essere pronto a prendere il potere. Non esitare a domandare, compagno…”» Brecht: «Perché non fate tradurre a lui, parola per parola, dal tedesco?» Baumgardt: «Credo che a voi interessi maggiormente questa traduzione che proviene da…» Presidente Thomas: «Non riesco a capire cosa sta dicendo l’interprete né il testimone. »

Kahn fa notare un particolare paradossale in proposito: il traduttore, signor Baumgardt, aveva un accento tedesco ancora più spiccato di quello di Brecht. Non era insomma il microfono, il problema, ma la scelta dell’interprete… Baumgardt: «Chiedo scusa, signor Presidente. Farò uso di questo [il microfono, N. d. A. ]. » Presidente Thomas: «Parlate nel microfono e forse ci capiremo. » Baumgardt: «L’ultima riga di questi tre versi va tradotta correttamente: “Devi prendere la guida” e non: “Devi prendere il potere”. “Devi prendere la guida” sarebbe la traduzione più corretta, più accurata. » Stripling: «Signor Brecht, ha mai fatto richiesta di essere ammesso al Partito comunista?» Brecht: «Non ho capito la domanda. Se io…» Stripling: «Ha mai presentato domanda per essere ammesso al Partito comunista?» Brecht: «No, no, no, no, no. Mai. »

In questa circostanza, l’artista aveva voluto imitare il presidente Thomas, che solo pochi giorni prima aveva risposto con cinque «no» alla richiesta di uno dei Dieci di leggere una dichiarazione. Stripling: «Signor Presidente, ho qui…» Brecht: «Io sono sempre stato uno scrittore indipendente e ho sempre voluto essere uno scrittore indipendente e sottolineo che, anche teoricamente, era la cosa migliore per me, non essere iscritto a qualsivoglia partito. E tutte queste cose che sono state lette qui, non sono state scritte solamente per i comunisti tedeschi, ma sono state scritte per tutti i lavoratori. Operai socialdemocratici sono intervenuti a questi spettacoli, così han fatto anche lavoratori cattolici, appartenenti a sindacati cattolici; così hanno fatto lavoratori che non si erano mai iscritti a un partito o che non volevano entrare in un partito. » Presidente Thomas: «Signor Brecht, Gerhardt Eisler le ha mai chiesto di entrare nel Partito?» Brecht: «No, no. » Presidente Thomas: «E Hanns Eisler le ha mai chiesto di entrare nel Partito comunista?» Brecht: «No, non l’ha fatto. Io credo che mi consideri semplicemente uno scrittore che vuole scrivere delle cose come lui le vede, e non una figura politica. » Presidente Thomas: «Non ricorda nessuno che le abbia chiesto di iscriversi al Partito comunista?» Brecht: «Alcuni possono avermelo suggerito, ma poi ho scoperto che non erano cose per me. » Presidente Thomas: «Chi è che le chiese di entrare nel Partito comunista?» Brecht: «Oh, lettori. » Presidente Thomas: «Chi?» Brecht: «Lettori delle mie poesie o persone tra il pubblico. Lei intende… non c’è mai stato un approccio ufficiale affinché pubblicassi…»

Presidente Thomas: «Alcune persone le hanno comunque chiesto di entrare nel Partito comunista. »

Questa volta era stato l’avvocato Kenny, capita l’antifona, a lanciare l’amo all’investigatore Stripling: Kenny ( a fianco del testimone): «In Germania. » Brecht: «Intende, in Germania?» Presidente Thomas: «No, intendo negli Stati Uniti. » Brecht: «No, no, no. » Presidente Thomas (rivolto all’avvocato Kenny): «Se la sta cavando benissimo. Molto meglio di altri testimoni che avete portato qui. Lei ricorda se qualcuno qui negli Stati Uniti le ha mai chiesto di iscriversi al Partito comunista?» Brecht: «No, non ricordo. » Stripling: «Vorrei chiedere al signor Brecht se egli ha o meno scritto la poesia Forward, we’ve not forgotten (Avanti, non abbiamo dimenticato). » McDowell: «Avanti… cosa?» Stripling: « Avanti, non abbiamo dimenticato. » Brecht: «Non me la ricordo. Dev’essere per via del titolo in inglese. » Stripling: «Vorrebbe tradurlo in tedesco?» (L’interprete traduce) Brecht: «Oh, ora capisco, sì. » Stripling: «Si ricorda le parole?» Brecht: «Sì. » Stripling: «”Avanti, non abbiamo dimenticato la nostra forza nelle lotte che abbiamo vinto. Non importa ciò che incombe, avanti, indimenticati, siamo forti come uno solo. / Solo queste nostre mani ora agiscono, costruiscono la strada, i muri, le torri. / Tutto il mondo è nostra opera. / Che cosa in esso possiamo dire nostro? / Avanti. Marciate verso la torre, attraverso la città, attraverso la terra, il mondo. / Avanti, non abbiamo dimenticato la nostra unione nella fame e nel dolore, non importa ciò che incombe, avanti, non abbiamo dimenticato. / Abbiamo un mondo da conquistare. Dobbiamo liberare il mondo dall’ombra, ogni negozio, ogni stanza, ogni strada e ogni prato. / Tutto il mondo ci apparterrà. ” Signor Brecht ha scritto lei queste cose?» Brecht: «No. Io ho scritto una poesia in tedesco, ma è una cosa molto diversa. » (Risata) Stripling: «Questo è tutto, signor Presidente. » Presidente Thomas: «Molte grazie signor Brecht. lei è stato un buon esempio per i testimoni degli avvocati Kenny e Crum. » 22

Come commenta il professor Dick: Evidentemente, includendo Brecht nei sospettati, la Commissione si dette la zappa sui piedi. Il drammaturgo tedesco, già un’icona delle arti letterarie, era giunto negli Usa solo dal 1941 e i suoi legami con l’industria cinematografica erano tenui. Il suo unico contributo a Hollywood era stato il soggetto di Anche i boia muoiono, così non gli si poté neanche chiedere se fosse o meno membro della Swg. […] La ragione per cui l’Hcua volle Brecht fu che il 24 settembre la Commissione aveva interrogato il compositore Hanns Eisler, suo amico e compagno d’emigrazione, trattandolo peggio di qualunque altro testimone. Eisler, che aveva scritto le musiche per alcune opere di Brecht, aveva collaborato anche per Anche i boia muoiono e molti altri film della Rko, incluso Il ribelle, che Lela Rogers aveva considerato comunistico. […] Ecco che tutto tornava nella mente dei commissari: Brecht conosceva Eisler, Eisler aveva scritto le musiche per un film di Brecht, e se Eisler era comunista, ergo, lo era anche Brecht. 23

Di fatto Brecht era comunista, come osserva il suo biografo Martin Esslin, ma non nella figura dell’attivista militante, quanto nel suo impegno di tutta una vita. I membri della Commissione, per paradosso, non furono in grado di capirlo.

3.8. L’interruzione delle udienze dell’ottobre 1947 Non è chiaro quali furono le vere motivazioni

24

per cui il presidente Thomas

decise di interrompere le udienze dei testi ostili dopo quella di Bertolt Brecht. Il discorso che il presidente Thomas il 30 ottobre 1947 rivolse all’auditorio e all’America via radio diceva: Le udienze di oggi concludono la prima fase delle indagini della Commissione sul comunismo nell’industria dello spettacolo. Abbiamo ascoltato 39 testimoni, ma molti altri ne restano ancora. La presidenza ha precedentemente affermato di voler presentare le testimonianze di 79 importanti personaggi associati all’industria dello spettacolo che sono stati mebri del Partito comunista americano o che hanno precedenti di affiliazione comunista. Abbiamo avuto davanti a noi 11 di questi individui. Ne mancano altri 68. Queste udienze sono servite principalmente a individuare personale comunista infiltrato nell’industria. Voglio specificare che la Commissione non si sta aggiornando sine die, ma anzi riprenderà le audizoni il più presto possibile. Le udienze delle ultime due settimane hanno mostrato chiaramente l’utilità di tale indagine. La Commissione ha chiamato al banco dieci prominenti personaggi di cui aveva le prove del loro essere comunisti, e costoro hanno rifiutato di negare l’accusa. 25

Gordon Kahn sospetta che la decisione di Thomas di interrompere le udienze fosse presa da tempo 26, ma la verità non la sappiamo. Gli elementi certi sono che la stampa americana nella sua maggioranza non era favorevole al metodo con cui le interrogazioni venivano tenute, e inoltre l’attenzione pubblica sul processo era in calo. È dunque probabile che Thomas abbia deciso di interrompere le udienze non appena ebbe l’occasione di sfruttare la testimonianza meno polemica di Brecht, nel tentativo di risultare vincitore agli occhi del pubblico. È invece improbabile che sia stato influenzato in qualche maniera, come scritto dal «Los Angeles Examiner» 27, dal Comitato per il Primo emendamento, organizzato da John Huston. Il Comitato era arrivato a contare più di 500 firme del mondo dello spettacolo e seguiva le varie udienze direttamente in aula con alcuni suoi esponenti più battaglieri e convinti. Tale Comitato, alla fine degli interrogatori dell’ottobre 1947, fece pubblicare su vari giornali di cinema una petizione 28di forte condanna dell’operato della Commissione e di supporto ai testimoni ostili. La petizione fu firmata da 28 famosi personaggi, tra cui Huston, Larry Adler, Humphrey Bogart, Lauren Bacall, Geraldine Brooks, Ira Gershwin, Sterling Hayden, June Havoc, Gene Kelly e Danny Kaye, ma non ottenne alcun effetto se non quello di fornire altri 28 nomi alla lista dei «sovversivi» custodita dalla Commissione. Nonostante il continuo aumento di questo gruppo di protestatari, che si chiamò poi Comitato dei Mille, nel 1951 esso si sciolse come neve al sole, con varie dichiarazioni di estraneità alle cose politiche da parte dei suoi membri, tra cui rimase famosa quella di Humphrey Bogart 29. A ogni modo, ormai la Commissione aveva dieci vittime e poteva permettersi di spedire un ultimatum a Hollywood, condensato nelle frasi di chiusura del presidente Thomas: Non è necessario per la presidenza evidenziare ulteriormente il danno che l’industria dello spettacolo patisce dalla presenza al suo interno di comunisti riconosciuti che non hanno a cuore gli interessi degli Stati Uniti. L’industria dovrebbe darsi ora da fare a ripulire il suo ambiente anziché aspettare che l’opinione pubblica la forzi a farlo. Le udienze sono aggiornate. 30

Era una chiara richiesta di schedatura e proscrizione di quegli artisti «notoriamente comunisti», che troverà, come vedremo, una sua precisa e pronta risposta nella Dichiarazione del Waldorf controfirmata dai principali

produttori. Nel prossimo capitolo vedremo come la Dichiarazione segnerà l’inizio teorico e pratico della lista nera anticomunista.

3.9. L’indagine del 1947: una valutazione Volendo offrire una valutazione degli effetti dell’indagine del 1947, dobbiamo per prima cosa ricordare le sue conseguenze pratiche nella vita degli accusati di oltraggio. Nove di loro vennero riconosciuti colpevoli di vilipendio ed effettivamente incarcerati per periodi che vanno dai sei ai dodici mesi. Leggendo i verbali delle udienze del 1947 si resta sorpresi dal poco spazio dedicato alle conclusioni: appena una frase. Questa frase diceva: «Sebbene la Commissione, a causa dei suoi limiti di tempo e di risorse, non abbia potuto esaminare ogni singola fase dell’attività comunista nell’industria dello spettacolo, il profilo e le strategie di quelle attività sono state chiaramente scoperte». 31 In realtà, se mai l’effetto primario dell’indagine avesse voluto essere quello di scoprire le influenze comuniste su Hollywood, questo obiettivo non fu raggiunto. Lo stesso schema degli interrogatori, con la «domanda da 64 dollari» posta così al principio, toglieva qualunque possibilità ai commissari di ricavare degli elementi utili a capire l’estensione delle iniziative comuniste nel mondo dello spettacolo. Come sostiene Robert Vaughn: Dagli stessi verbali [delle udienze, N. d. A. ] ci rendiamo conto che l’obiettivo principale degli inquisitori fu quello di far condannare per vilipendio i testi ostili, anziché indagare sul comunismo nel cinema americano. Le successive inchieste degli anni ’50 avrebbero rivelato che alcuni artisti strapagati di Hollywood contribuivano cospicuamente alle cause del Partito comunista americano; questa sì sarebbe stata un’ottima materia di indagine per la Commissione, che invece non fu neanche sfiorata. 32

E come giustificare il fatto che dei famosi 79 imputati che il presidente Thomas ricordava spesso di avere nella sua lista di sospetti, ben 69 furono lasciati liberi di continuare a lavorare e a svolgere le loro attività politiche fino al 1951? Tutti questi elementi ci portano a credere che effettivamente lo scopo delle udienze del 1947 non fosse quello di sradicare il comunismo da Hollywood, ma di impressionare il pubblico americano inserendo una nuova categoria politica, quella dell’anticomunismo «militante». Per essere anticomunista non erano necessari doti particolari; bastava saper offrire un’immagine grintosa di difensore dell’americanismo, ed era dunque una «qualità» facilmente acquisibile da parte di tutti quegli uomini politici che non potevano proporsi all’elettorato con altri allori. Una sentenza 33della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1943 aveva stabilito: «Se c’è una stella fissa nella nostra costellazione costituzionale, è che nessuna istituzione, grande o piccola, possa stabilire quel che è consentito in materia di politica, nazionalismo, religione o altre questioni di opinione, né costringere i cittadini a confessare a parole o fatti il loro credo o fede». Ring Lardner jr. la cita 34a memoria nell’intervista rilasciata al «Saturday Evening Post», ammettendo che per lui e i Dieci rappresentava la garanzia di non finire in galera per oltraggio alla Commissione. La legalità dell’accusa di vilipendio

applicata ai Dieci di Hollywood è materia di dibattito degli studiosi di diritto ed è quindi al di fuori degli scopi di questo saggio. Quel che può e deve interessarci è invece il metodo usato durante gli interrogatori, per stabilire se sia stato, oppure no, effettivamente intimidatorio, come sostenuto ampiamente ed esplicitamente da tutti i testimoni e in particolare da John Howard Lawson. Sebbene gli inquirenti35 della Commissione Dies o del California FactFinding Committee on American Activities ebbero atteggiamenti ancor più rozzi e aggressivi contro i rispettivi indagati, le tecniche adoperate dall’Hcua per identificare i «rossi di Hollywood» non si possono definire proprie di un sistema liberal-democratico. Diciamo questo senza dimenticare il clima della Guerra Fredda, l’isteria collettiva che sembrava essersi impadronita di molti settori della società statunitense e la forte volontà di «pulizia» da parte della grande maggioranza dei deputati americani. Certamente la Commissione fu bipartisan, ossia istituita e composta con la volontà di entrambi i partiti principali, dunque non la si può inquadrare come il risultato della volontà di una sola fazione estremista. Ciò non toglie che quel che accadde nel 1947 fu che la repubblica statunitense mandò in galera alcuni suoi cittadini sulla base del mero sospetto – senza alcuna prova ufficiale – che questi fossero iscritti al Partito comunista, per altro sino a quel momento riconosciuto come legale. Questi cittadini americani furono condannati per oltraggio nei confronti della Commissione con un pretesto: il loro «reato» era stato di non rispondere riguardo al loro credo politico, così come garantito dal Primo emendamento della Costituzione. Lasciamo il commento conclusivo alle udienze del 1947 alle parole di Thomas Mann: Sono anche io un testimone ostile. E mi onoro di dirlo pubblicamente. Dichiaro di avere un forte interesse per il cinema e che, da quando sono giunto negli Usa nove anni fa, ho visto moltissimi film di Hollywood. Se mai è stata inserita di soppiatto della propaganda comunista in qualcuno di questi film, deve essere stato fatto molto di nascosto. Io, per esempio, non mi sono reso conto di niente del genere. Dichiaro inoltre che, a mio giudizio, la persecuzione ignorante e superstiziosa dei seguaci di una dottrina economico-politica – che dopo tutto è il prodotto di grandi menti e grandi pensatori – non è solo degradante per gli stessi persecutori, ma molto dannosa alla reputazione culturale di questo paese. Come cittadino americano di nascita tedesca, infine, dichiaro che ho dolorosa familiarità con certi trend politici. L’intolleranza spirituale, le inquisizioni politiche, il declino della sicurezza legale – e tutto questo nel nome di un cosiddetto «stato di emergenza» […] – proprio così iniziò in Germania. Quello che venne dopo fu il fascismo, e quel che seguì al fascismo fu la guerra. 36

1 Bernard F. Dick fa notare come per i testimoni ostili ci fu una gran confusione da parte della Commissione nello stabilire l’ordine dei loro interventi. Addirittura Lardner, che seguiva le udienze dalla radio della sua stanza di hotel, si sentì chiamato al banco proprio dalla radio con due giorni di anticipo. Cfr. Bernard F. Dick, Radical Innocence. A Critical Study of the Hollywood Ten, The University Press of Kentucky, Lexington 1989, p. 5. 2 Solo per citare uno degli editoriali del «New York Times» del 29 ottobre 1947: «Non crediamo che la Commissione stia conducendo una buona indagine. Siamo piuttosto convinti che la via che ha imboccato minacci di portare a pericoli maggiori di quelli che sembrano preoccuparla tanto». Cabell Phillips, And the Show Goes On, «New York Times» ,29 ottobre 1947. 3 Molti, all’interno della Swg erano arrabbiati coi Dieci per le loro difficoltà a rispondere alla domanda sull’affiliazione al Sindacato, poiché sembrava così collegare quest’ultimo al Partito comunista, che era esattamente ciò che la Commissione voleva per includere la Swg nel fronte paracomunista. 4 Detta così in virtù di un popolare quiz radiofonico equiparabile all’odierno «Chi vuol essere

milionario», la cui domandona finale era appunto del valore di 64 dollari. 5 Hearings Regarding Communist Infiltration of the Motion Picture Industry, 80th Congress, 1st Session. Riportato parzialmente in Robert Vaughn, Only Victims. A Study of Show Business Blacklisting, Putnam, New York 1972 , pp. 93-95. Cfr. Albert Fried (a cura di), McCarthyism. The Great American Red Scare. A Documentary History , Oup, New York-Oxford 1997. Il resoconto delle udienze di Hollywood tradotto in italiano costituisce un inedito nella nostra storiografia, a parte i passaggi tradotti in Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywood. La caccia alle streghe negli anni ’50, Feltrinelli, Milano 1979; Bruno Cartosio, Anni inquieti: società, media, ideologie negli Stati Uniti da Truman a Kennedy, Editori Riuniti, Roma 1992. 6 Larry Ceplair, sostiene che molto probabilmente queste tessere erano dei falsi, dal momento che i comunisti coi quali ha parlato gli riferirono di non aver mai ricevuto tessere perché la linea del partito era di non rilasciarne a nessuno, per evitare situazioni di questo tipo. Walter Goodman, al contrario, sostiene che «tutti i Dieci erano membri del Partito comunista». Cfr. Walter Goodman, The Committee. The Extraordinary Career of the Huac, Farrar, Straus & Giroux, New York 1968, p. 301. 7 Robert C. Jennings, The Hollywood 10 Plus Twenty, «The Los Angeles Times West Magazine», 3 settembre 1967. 8 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltrationcit. . Riportato parzialmente anche da Robert Vaughn, Only Victimscit. , p. 96. 9 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltration cit. , pp. 364-366. 10 Maltz usò appositamente il nome del famoso collaborazionista norvegese filonazista Quisling, che vendette il suo paese a Hitler, per indicare cosa pensasse del suo interlocutore. 11 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltrationcit. , p. 367. 12 Ivi, pp. 384-385. 13 Ivi,pp. 387-388. 14 Ivi,p. 403. 15 Ivi, p. 404. 16 In realtà nessuno si accorse che in questa prima risposta il testimone non era stato accurato, in quanto McKinley venne proclamato presidente il 4 marzo 1901 e non 1900. 17 Ivi,pp. 412-413. 18 Riportato anche in Eric Bentley (a cura di), Thirty Years of Treason. Excerpts from Hearings Before the House Committee on Un-American Activities, 1938-1968, Viking Press, New York 1973 (nuova edizione: Nation Books, 2002). 19 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltrationcit. ,p. 466. 20 Ivi,p. 482. 21 Ne fu tratto il film Anche i boia muoiono(1942, di Fritz Lang) ma la sceneggiatura venne attribuita dalla Swg a John Wexley, che vi aveva collaborato in minima parte, per motivi sindacali. 22 Hcua, Hearings Regarding the Communist Infiltrationcit. ,pp. 492-494. Tradotto in Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywoodcit. 23 Bernard F. Dick, Radical Innocencecit. ,p. 7. 24 C’erano ancora molti testimoni da interrogare, come previsto nel ruolino dell’Hcua (p. 522). Quali che fossero le motivazioni della sospensione delle udienze, la cosa permise a molti degli indagati di continuare a lavorare a Hollywood, almeno fino al 1951, quando la maggioranza di loro fu «riconosciuta» come comunista. 25 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltrationcit. ,p. 552. 26 Gordon Kahn, Hollywood on Trial. The Story of the 10 who were Indicted, Boni & Gaer, New York 1948 , p. 113. 27 «The Los Angeles Examiner», 31 ottobre 1947, riporta un’intervista di un membro della Commissione che giustificava la sospensione come il risultato della minaccia del Comitato per il Primo emendamento di organizzare una marcia dei più famosi comunisti a Washington Dc. Riportato anche in Robert E. Stripling, The Red Plot Against America, Benn Publishing Co. , Drexel Hill (Penn. ) 1949. 28 Riportata in Gordon Kahn, Hollywood on Trialcit. ,pp. 141-144. 29 Cfr. Albert Fried (a cura di), McCarthyism. The Great Americancit. ,p. 44. 30 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltrationcit. 31 Us Congress, Hcua, 80th Congress, 2nd Session, Report, 31 dicembre 1948, p. 9.

32 Robert Vaughn , Only Victimscit. , p. 112. 33 West Virginia vs. Barnette, 319 Us 624. 34 Ring Lardner jr. , My Life on the Blacklist, «Saturday Evening Post», 14 ottobre, 1961, p. 38. 35 Cfr. Albert Fried (a cura di), McCarthyism. The Great Americancit. , pp. 20–21. Riporta l’interrogatorio dello stesso senatore Jack B. Tenney a un militante di un candidato sostenuto dal CpUsa per un’elezione locale. 36 Riportato in Lester Cole, Hollywood Red. The Autobiography of Lester Cole, Ramparts Press, Palo Alto 1981, p. 283.

Capitolo 4 Le conseguenze delle udienze del 1947

4.1. Gli studios prendono tempo e cercano di salvare l’immagine Terminate le udienze, la battaglia si sposò in queste tre aree: 1) la Camera dei Rappresentanti, dove le citazioni contro i Dieci di Hollywood per oltraggio al Congresso dovevano essere votate; 2) sui mass media, dove sia la Commissione che i Dieci ricevettero ancora più attenzione; 3) nei tribunali. Il Comitato per il Primo emendamento non fu l’unico gruppo che si mosse in difesa dei Dieci (importante fu anche l’apporto del Science and Professional Council of the Progressive Citizens of America)1, ma fu di sicuro il più attivo. Il Comitato si impegnò pubblicamente a difendere i Dieci dalle accuse della Commissione per le attività antiamericane organizzando comizi, discorsi, comprando pagine di pubblicità sui giornali e all’interno dei programmi radio. Dalla parte opposta, l’American Legion e altri gruppi conservatori chiedevano di boicottare le sale in cui si proiettavano i film di chi era stato identificato come comunista. I titoli dei giornali neutrali riportavano con enfasi i proclami lanciati da una parte e dall’altra. C’erano poi le testate politicamente schierate, come quelle della catena di William Randolph Hearst che lanciò un duro attacco con vari articoli scritti da Hearst stesso. In una serie di editoriali di prima pagina, il magnate sosteneva che poiché i produttori di Hollywood avevano mostrato di non voler far nulla, era necessario che il governo federale intervenisse censurando i film. «È utile», dichiarava Hearst, «perché l’industria del cinema è infestata dai comunisti. »2 Nel frattempo, la lotta in California si faceva sempre più al calor bianco: il senatore dello Stato, Jack Tenney, non contento dell’operato della Commissione, impegnò tutte le energie del suo Joint Fact Finding Committee on Un-American Activities per allargare sempre più le indagini su Hollywood e su chi difendeva gli accusati3. Pian piano l’ostracismo contro i Dieci cominciò a dare i suoi frutti anche all’interno della gilda degli scrittori, dove i membri a loro vicini persero brutalmente le elezioni sindacali4 e si trovarono in diretto scontro con il resto degli associati. Una novità subito riportata dall’«Hollywood Reporter» che aprì con un titolo a sei colonne: «La questione comunista divide la Screen Writers Guild». Di peggio accadde nella Screen Actors Guild, dove fu approvata una risoluzione che stabiliva che nessun membro potesse assumere una posizione ufficiale senza prima firmare una dichiarazione di «non comunismo» 5. Ma i Dieci erano davvero tutti comunisti, come l’accusa sentenziava e molti giornali (non solo quelli di parte) proclamavano? Tra i produttori, Louis Mayer

cominciò a sostenere che Lester Cole gli avesse detto di non essere mai stato membro del Partito comunista americano6, e a quanto pare, prima delle udienze, Adrian Scott e Edward Dmytryk avevano giurato a Dore Schary la stessa cosa7. Anche Bartley Crum, uno dei legali dei Dieci, era convinto che solo due o tre di loro fossero comunisti, e lo disse apertamente8 nelle trattative coi capi degli studios. Sul finire del 1948, inoltre, il giornale comunista della West Coast dichiarò che i Dieci di Hollywood non erano noti per essere iscritti al Partito9. Tuttavia, ai produttori e ai distributori non importava sapere se i Dieci erano veramente comunisti o no. Quello che li preoccupava era che sembravano dannatamente comunisti. Mannix, un conservatore che fu direttore generale della Metro-Goldwin-Mayer, riassunse l’atteggiamento di molti industriali del settore dichiarando: «Non vado in giro a scoprire o colpire comunisti… i Dieci sono diventati un gran disturbo per l’industria: che siano rossi o no non fa ormai alcuna differenza»10. La questione per i capi non era dunque politica ma di pubbliche relazioni. Per ciò, dopo la fine delle udienze del 1947, i produttori istituirono un comitato incaricato di risollevare le relazioni pubbliche degli studios. A capo ne fu messo Louis Mayer, mentre Eric Johnston, Dore Schary, Walter Wanger e Joseph Schenk ne fecero parte come semplici membri11. Lo scopo del nuovo comitato, per come la vedeva Mayer, era molto semplice: «Creare pubblicità favorevole all’industria del cinema, per stemperare il brutto clima» che si era creato12. Il comitato dei produttori temeva che la Commissione mantenesse la sua promessa di riprendere le udienze di Hollywood, dal momento che il presidente J. Parnell Thomas aveva minacciato di tornare per convocare altri 68 comunisti del cinema13. Se questo fosse accaduto, disse Mayer, «avrebbe causato ulteriore danno, ulteriore trambusto»14. Così per molte settimane gli studios più importanti non accennarono a nessun tipo d’azione, speranzosi di poter capire meglio in un secondo momento da che parte conveniva schierarsi. Alla Mgm Louis Mayer lo ammise in modo candido: «In quei giorni tutti mi chiedevano una dichiarazione a favore o contro i Dieci. Io invece avevo deciso di non voler fare o dire nulla»15. Per avere un’idea dell’incertezza che dominava l’industria del cinema basta ricordare che Ring Lardner jr. continuò a ricevere il suo solito stipendio da 2000 dollari a settimana anche dopo le udienze, ed ebbe pure un aumento16 Nelle stesse settimane Lester Cole e Dalton Trumbo conservavano il loro posto alla Mgm, mentre alla Rko Edward Dmytryk e Adrian Scott ricevevano assicurazioni sul fatto che il loro salario non era in pericolo.

4.2. L’accusa di oltraggio e la Dichiarazione del Waldorf La situazione di incertezza non poteva durare a lungo e infatti, verso la metà del novembre 1947, l’atteggiamento degli studios cominciò a cambiare. Il comitato esecutivo della Rko annunciò in una nota ufficiale che non avrebbe usufruito dei servizi di alcun rosso e aggiunse che si sarebbe opposto al comunismo in qualunque modo17. Il 19 novembre Eric Johnston fece un discorso in cui dichiarò che i Dieci avevano «causato un tremendo disservizio

all’industria del cinema per via del loro rifiuto di alzarsi in piedi e lasciarsi contare»18. Pochi giorni dopo, il consiglio della 20th Century Fox annunciò che avrebbe licenziato ogni «comunista dichiarato o qualunque impiegato citato per essersi rifiutato di rispondere alle domande sulla propria affiliazione comunista»19. Un annuncio premonitore: proprio il 24 novembre 1947 la Camera dei Rappresentanti votò a stragrande maggioranza in favore della citazione dei Dieci di Hollywood per oltraggio al Congresso20. Nello stesso giorno una cinquantina dei più importanti personaggi del mondo dello spettacolo si riuniva all’albergo Waldorf Astoria di New York City per quello che sarebbe stato uno dei momenti caratterizzanti della storia di Hollywood. Gli uomini che convennero al Waldorf rappresentavano tutte le major di Hollywood21. L’iniziativa nasceva da Eric Johnston22 che, da presidente dell’assemblea, lanciò un vero e proprio j’accuse contro «i comunisti infiltrati nel cinema», addossando loro tutti i problemi dell’industria. Johnston riassunse ai presenti la situazione del cinema negli Usa e all’estero e fece una panoramica drammatizzante del momento. Il capo dei produttori ricordò come la loro industria fosse particolarmente sensibile e dipendente dalle opinioni del pubblico e paventò che tutto quel bailamme politico avrebbe portato un serio danno economico. Alcuni dei temi toccati da Johnston erano fedeli alla realtà: già nei giorni precedenti alla condanna per oltraggio al Congresso (e ancor di più nei giorni immediatamente successivi) nuovi editoriali erano apparsi su centinaia di giornali negli Stati Uniti e stavolta la maggioranza era assai critica verso i Dieci e verso la «volontà di protezione» da parte dell’industria di Hollywood23. Inoltre richieste di regolamentazione e di censura apparivano da più parti, non solo sulle testate del gruppo conservatore Hearst. Tra i membri del Congresso c’era sempre più risentimento contro i testimoni ostili e l’industria di cui facevano parte. Riguardo ai mercati esteri, dai quali Hollywood dipendeva pesantemente, Johnston affermò che erano danneggiati dalle accuse di propaganda rossa nei film americani e ricordò come alcuni paesi dell’America Latina si erano chiusi alle produzioni Usa a causa di quelle accuse24. La situazione che il capo dell’Associazione produttori e di quella del Cinema dipinse a tinte ancor più fosche riguardava l’operato dell’American Legion e la reazione che lui aveva percepito da parte del pubblico americano. L’American Legion aveva in effetti minacciato di boicottare le sale in cui erano proiettati i film dei sospetti di comunismo, ma si trattava di una minaccia abbastanza estemporanea e poco realizzabile se non in pochissime realtà. Ciò non di meno Johnston la descrisse come «un pericolo carico di serio danno all’industria del cinema». Infine il potente oratore ricordò al suo sensibile uditorio di aver ricevuto moltissime lettere da organizzazioni civiche e da singoli cittadini contro la condotta dei Dieci. Il produttore dichiarò di aver parlato con uomini d’affari, contadini e lavoratori in rappresentanza di un campione significativo del pubblico americano e il risultato di quegli incontri «non lasciava dubbi». I produttori si dovevano adeguare: o decidevano tutti insieme di difendere il diritto a impiegare i Dieci, oppure tutti insieme li licenziavano, cosa che avrebbe definitivamente convinto il pubblico della loro colpevolezza. Nella discussione che seguì il discorso di apertura di Johnston, Louis Mayer

si schierò per il licenziamento in tronco, mentre Eddie Mannix, della Mgm, espresse il dubbio che privare del posto di lavoro i Dieci non fosse legale per le leggi della California. Ma James Byrnes, ex giudice associato della Corte Suprema e ora avvocato dei produttori, sostenne invece che lo fosse «con alcuni rischi»25. Rassicurato che tali espulsioni si potessero legalmente fare, Mannix si dichiarò d’accordo con Mayer. Gli unici che si opposero all’allontanamento degli ostili furono Dore Schary, Sam Goldwin e Walter Wanger. Goldwin disse che i produttori dovevano «sedere al tavolo con i Dieci e trovare una soluzione». Alla fine Goldwin vide che quasi tutti gli altri erano in favore di liberarsi dei Dieci e preferì non opporsi26. Fu così che Dore Schary restò la sola voce importante contraria al licenziamento dei testi ostili, affermando che il loro allontanamento non avrebbe portato niente all’industria, se non la necessità di un nuovo programma di relazioni pubbliche27. Non vi fu alcun voto finale sulla questione del licenziamento28 , ma se ci fosse stato il risultato sarebbe stato scontato perché i presidenti delle major erano gli unici che veramente contavano, e questi erano tutti avversi ai Dieci. Chi si oppose all’espulsione degli artisti furono i produttori indipendenti, come Sam Goldwin o Walter Wrangler, o meri dipendenti, come Schary o Eddie Mannix (rispettivamente della Rko e della Mgm, i cui presidenti erano per la mano dura)29. Così il risultato dell’incontro fu la seguente dichiarazione, che sarebbe diventata la pietra miliare della lista nera di Hollywood: I membri dell’Associazione produttori cinematografici deplorano il comportamento dei dieci cineasti hollywoodiani che sono stati incriminati per oltraggio dal Congresso. Non vogliamo pregiudicare i loro diritti legali, ma con le azioni commesse questi uomini hanno danneggiato i loro datori di lavoro e compromesso l’interesse che l’industria cinematografica aveva per la loro collaborazione. D’ora in poi provvederemo quindi a licenziare o a sollevare dall’incarico senza alcuna indennità chi di loro lavora alle nostre dipendenze, e non riassumeremo nessuno dei Dieci incriminati finché non saranno assolti o scagionati dall’accusa di oltraggio e dichiareranno sotto giuramento di non essere comunisti. Siamo altresì disposti a prendere severi provvedimenti nei confronti della più ampia fascia di elementi sovversivi e antipatriottici che si presume esista a Hollywood. Non assumeremo alcuna persona che ci risulti essere comunista [«We will not knowingly employ»] o membro di qualsiasi gruppo o partito che si proponga di rovesciare, con la forza o con altri metodi illegali e incostituzionali, il governo degli Stati Uniti. Nel perseguire questa linea, non ci lasceremo sviare da isterismi o da intimidazioni da qualunque parte provengano. Non abbiamo difficoltà ad ammettere che tale linea comporta alcuni rischi e pericoli: c’è il pericolo di colpire degli innocenti, c’è il rischio di creare un’atmosfera di paura. E il nostro lavoro artistico non può esprimersi al suo meglio in un clima siffatto. Ci impegniamo dunque a fare in modo che i rischi, i pericoli e i timori connessi con la nostra azione siano quanto più possibile evitati. A questo scopo, rivolgiamo un appello alle organizzazioni sindacali di Hollywood perché collaborino con noi al fine di eliminare i sovversivi che si annidano tra noi, di proteggere gli innocenti e salvaguardare così la libertà di parola e di espressione cinematografica da ogni pericolo che le minacci. L’assenza di una politica nazionale stabilita dal Congresso riguardo all’impiego di comunisti nelle industrie private rende il nostro obiettivo difficile. Il nostro è un paese di diritto. Noi chiediamo al Congresso di approvare misure legali per aiutare l’industria americana a sbarazzarsi degli elementi sleali e sovversivi. Niente di sovversivo o di antiamericano è mai apparso sullo schermo, né può alcuna indagine su Hollywood gettare un’ombra sui servizi patriottici preziosissimi che 30. 000 lavoratori, americani leali, hanno reso al nostro governo sia in tempo di guerra che di pace. 30[Corsivi nostri]

Come ricordano Larry Ceplair e Steven Englund: A tutt’oggi le vere motivazioni e i veri sentimenti dei produttori rimangono un mistero. Nelle loro dichiarazioni ufficiali […] si trovano costretti ad attenersi rigidamente a motivi contrattuali che fornivano una copertura giuridica alle decisioni prese al Waldorf. […] In sostanza, però, la decisione fu di natura economica: i licenziamenti erano resi necessari dalla paura di conseguenze negative sugli incassi, benché tale paura non trovò conferma né nelle «prove» portate dai legali della Producers’ Association alle varie cause iniziate dai Dieci, né nell’accoglienza riservata ai film ai quali gli artisti della lista nera avevano collaborato.

Eppure, come sappiamo, anche questi calcoli di convenienza economica si dimostrarono infondati. Ancora Ceplair ed Englund: Non esistono prove sufficienti che il film di un produttore, di uno scenaggiatore o di un attore protagonista che era stato testimone «ostile» non potesse richiamare un folto pubblico nei cinema, vincere premi, garantire lauti compensi se venduto alla televisione. Anzi moltissime indicazioni sembrano mostrare il contrario. 31

La grande commediografa e scrittrice Lillian Hellman, che come vedremo nel prossimo capitolo fu in seguito toccata in prima persona dalle inchieste della Commissione per le attività antiamericane, ha dato una sua interessante interpretazione della riunione del Waldorf: Si erano riuniti per una sorta di assonnato isterismo, convocati da forze che, per quante ricerche si facciano, nemmeno oggi si riescono a individuare con certezza. Dovevano assicurare al pubblico, con una dichiarazione straordinariamente confusa, che loro credevano con tutta l’anima nel diritto americano di dissentire, ma che non avrebbero consentito alcun dissenso che loro non approvassero. A quell’epoca si diceva che non esiste nessuno che somigli a un avvocato di una casa cinematografica se non un altro avvocato di una casa cinematografica. (Probabilmente a questo convegno del Waldorf Astoria fu deciso quello che più tardi a Hollywood venne chiamato il giuramento dell’American Legion. Era il giuramento obbligatorio per i dipendenti degli studi. Dal nome del giuramento, sembra evidente che alcuni membri dell’Al debbano avere in qualche modo influenzato il convegno, o intervenendo di persona o facendo qualche visita prima e dopo, il che è più probabile. […] Ogni studio chiedeva ai dipendenti di scrivere una lettera in cui giuravano di non essere comunisti e di non frequentare estremisti, e che se in passato avevano dato un contributo a certe organizzazioni – per aiutare i profughi spagnoli ecc. – se ne rammaricavano e non avrebbero più commesso quell’errore). 32

4.3. Le conseguenze della Dichiarazione del Waldorf La Dichiarazione del Waldorf tolse ogni dubbio sul fatto che la lista nera sarebbe stata presto estesa a molti artisti. La Commissione per le attività antiamericane, tuttavia, fece passare quasi tre anni e mezzo prima di tornare a Hollywood, nell’attesa di vedere cosa sarebbe successo nei tribunali dove ora si spostava la lotta tra gli artisti «comunisti» e i produttori e la Commissione stessa. In questo lasso di tempo il meccanismo della lista nera rimase momentaneamente fermo. I Dieci, al contrario, non dovettero attendere per subire le conseguenze delle decisioni del Waldorf. Chi tra loro aveva un contratto fu immediatamente licenziato o sospeso dalla paga33. La motivazione ufficiale che venne presentata agli artisti faceva ricorso alla violazione dell’articolo 16 del contratto d’impiego, articolo che citava: In ogni momento a partire da oggi e per tutta la produzione e la distribuzione del film, [l’artista] si comporterà con il dovuto rispetto per le convenzioni sociali e la morale comune, e non si farà coinvolgere in azioni che lo degradino o lo espongano pubblicamente al

discredito, allo sdegno o al ridicolo, o che scandalizzino, offendano o irritino la comunità o la moralità e la decenza comune, oppure che rechino danno a questa azienda o all’industria cinematografica nel suo insieme.

Articolo che dunque si prestava a risolvere tutte le situazioni nelle quali non ci fosse stata unitarietà di vedute tra la produzione e l’artista, per quel che atteneva i suoi comportamenti morali, sessuali e – in questo caso – politici. L’effetto fu dirompente per i nuovi reietti: per i successivi quindici anni nessuno di loro sarebbe più potuto entrare in uno studio di Hollywood, vittime di una schedatura del tutto illegale34. Ai Dieci non restò che portare in tribunale i loro ex produttori. A partire dal 1950 i blacklisted mossero diverse cause contro gli studios: alcune per rottura ingiustificata del contratto, altre per licenziamento illegale, altre per la creazione di una vera e propria lista nera. Di queste, solo cinque35 furono vinte per rottura ingiustificata del contratto. Le altre furono tutte perse. Le cause di lavoro non iniziarono prima del 1950, perché prima i Dieci dovettero difendersi in tribunale contro l’accusa di oltraggio al Congresso. Il 9 giugno 1948 furono chiamati in giudizio a Washington, dove si proclamarono non colpevoli; il 14 aprile 1948 John Howard Lawson, il primo del gruppo, fu giudicato colpevole. Due settimane dopo, il processo a Dalton Trumbo finì con lo stesso verdetto. Tutti e due i verdetti furono appellati, e gli avvocati dei Dieci stipularono col governo un accordo per il quale il giudizio finale di questi due casi avrebbe deciso il destino di tutti gli accusati. Due anni dopo, il 10 aprile 1950, la Corte Suprema respinse il ricorso, spegnendo così l’ultima speranza degli accusati36. John Howard Lawson e Dalton Trumbo, condannati a un anno di reclusione, furono i primi a entrare in prigione. Il resto dei Dieci li seguì di lì a poco37. Alleggeriamo il racconto con un curioso aneddoto che si verificò qualche settimana dopo la condanna degli artisti. Nel 1950, Lester Cole e Ring Lardner jr. furono assegnati al carcere federale di Danbury (Connecticut) dove svolgevano mansioni di stenografo e di segretario presso l’ufficio di entrata. Un mattino, durante l’ora d’aria, mentre Cole discuteva con altri galeotti di questioni politiche, fu apostrofato dal detenuto addetto alla pulizia dei pollai: «Vedo che non ha smesso di farneticare quelle stupidaggini comuniste, allora!». L’artista si girò di scatto, avendo riconosciuto la voce del suo accusatore di sempre: era proprio J. Parnell Thomas, imprigionato per avere incluso finti nominativi negli elenchi degli impiegati federali, appropriandosi dei loro salari. Dopo un istante di sorpresa, lo scrittore seppe rispondere con prontezza: «E io vedo che lei non ha ancora finito di rimestare nella merda di gallina, signore!»38. Robert Kenny, uno degli avvocati dei Dieci, in un’intervista del 1965 ha sostenuto che grazie alla battaglia legale inscenata dai Dieci tra il 1947 e il 1950, altri «sospetti» poterono continuare a lavorare 39. È un’argomentazione plausibile, poiché mentre i Dieci combattevano la loro battaglia, la lista nera fu tenuta in sospeso, e anche la Commissione per le attività antiamericane attese prima di tornare a Hollywood. Il rigetto delle istanze davanti alla Corte Suprema ebbe però l’effetto di dare nuova linfa all’azione dell’Hcua. Le contestazioni agli interrogatori della Commissione – e per estensione alla

lista nera che ne seguì – si basavano come abbiamo visto sul concetto che le idee politiche degli artisti di Hollywood (come di chiunque altro) fossero soltanto affari loro. L’Hcua sosteneva invece che l’essere comunisti non fosse questione politica ma solo cospirazione e sovversione, per cui era suo dovere intervenire nel modo più duro. Di fatto, non appena la Corte Suprema si rifiutò di riaprire le cause di Lawson e Trumbo, la ripresa della campagna anticomunista a Hollywood trovò strada libera. Tra le forze conservatrici si distinse subito l’Associazione per la difesa degli ideali americani, che il 14 maggio 1950 dichiarò sui giornali finanziari di Hollywood che «entro un anno» il mondo dello spettacolo sarebbe stato di nuovo «sotto il fuoco del Congresso per colpa dei comunisti». L’Associazione stimava che il numero totale dei rivoluzionari sovversivi comunisti a Hollywood non fosse superiore «al centinaio», ma i maggiori responsabili dell’industria non dovevano ripetere l’errore della volta passata. «Che a loro piaccia o no», ammoniva il proclama dell’Associazione, «il pubblico americano non tollererà la risposta di una semplice scrollata di spalle. Hanno una responsabilità pubblica e se tentano di non curarsene causeranno un danno irreparabile all’industria cinematografica che tutti noi amiamo. Tutta l’America insiste per una completa pulizia. »40

4.4. 1951: il ritorno della Commissione per le attività antiamericane L’8 marzo del 1951, come l’Associazione aveva previsto, la Commissione riprese le sue udienze a Hollywood 41 più minacciosa che mai. Stavolta chiunque avesse ricevuto l’invito a comparire non aveva più l’alternativa di contestare la Commissione o di sfidarla in base al Primo emendamento, poiché il rifiuto della Corte Suprema di permettere a Lawson e Trumbo un qualsiasi ricorso aveva dimostrato che questa linea di condotta era inefficace. Inoltre, ora si arrivava al banco dei testimoni già ritenuti «colpevoli» e per tanto discriminati sul lavoro dai propri superiori, ai quali veniva comunicato dell’ingiunzione in modo informale da qualche investigatore della Commissione stessa. Davanti al ritorno della Commissione a Hollywood, i produttori non ebbero più dubbi su come comportarsi. Il «Daily Variety» riportò in un articolo del 14 marzo che Joyce O’Hara, sostituto di Eric Johnston nell’Associazione del cinema, si era incontrato con i responsabili della pubblicità degli studios e aveva detto loro che chi non avesse negato la propria affiliazione comunista davanti alla Commissione, avrebbe trovato «difficile» lavorare. Nello stesso articolo si leggeva che Edward Cheyfitz, assistente di Johnston, assicurò ai capi dello studio che l’industria avrebbe questa volta cooperato con la Hcua nella speranza che «le ultime tracce di comunismo a Hollywood fossero spazzate via»42. A quel punto, neanche i personaggi più famosi resistettero nella loro opposizione alla Commissione. Quasi tutti gli attori schierati in favore degli inquisiti si ritirarono dai vari comitati sorti in loro difesa. Chi invece aveva

mantenuto fino a quel punto una prudente posizione di neutralità, prese a parlare chiaramente contro il «pericolo rosso», scoprendosi all’improvviso tanto bravo sullo schermo quanto esperto di ideologie politiche. Memorabili le affermazioni di John Wayne, icona dei film western nonché nuovo presidente dell’Associazione per la difesa degli ideali americani: Non permettete a nessuno di dire che un comunista possa essere tollerato nella società americana e in particolare nella nostra industria. […] Non vogliamo essere confusi con i traditori, vogliamo patriottismo e giustizia. Noi non odiamo nessuno. Speriamo che coloro che hanno cambiato idea coopereranno al massimo con le autorità. Con questo voglio dire che facciano nomi di persone e di luoghi, così che possano rientrare nella grande famiglia americana. 43

Al suo ritorno l’Hcua chiamò al banco dei testimoni una novantina di persone. La scelta degli imputati venne solo parzialmente dalla lista già in mano alla Commissione nel 1947; diciotto nuovi testimoni furono chiamati in causa dalle stesse accuse dei nuovi testi amichevoli, mentre una piccola parte si presentò spontaneamente, obbedendo all’«amichevole consiglio» del nuovo presidente Wood, democratico della Georgia. Il clima delle udienze del 1951 fu molto più ostile verso gli accusati di comunismo, a causa delle contingenti situazioni di politica estera e interna. Nell’arco degli ultimi quattro anni, infatti, l’America aveva assistito alla condanna di Alger Hiss44, all’avvento al potere dei comunisti in Cina (vissuto da molti come una «perdita» statunitense), al primo esperimento nucleare sovietico, all’inizio della guerra di Corea, all’arresto della spia atomica Klaus Fuchs in Inghilterra, alla «discesa in campo» del senatore McCarthy contro qualunque cosa tendesse al rosso, all’approvazione del McCarran Internal Security Act45, alla definitiva approvazione da parte della Corte Suprema dello Smith Act46, all’arresto di Julius ed Ethel Rosenberg47, e infine alla legislazione repressiva e autoritaria approvata dallo Stato della California48. Tutti avvenimenti che «ossessionarono gli anni ’50» per parafrasare I. F. Stone, e aprirono la via a un periodo di repressione politica49 come il paese non aveva più visto dagli anni immediatamente seguenti alla prima guerra mondiale. Nonostante questo clima così sfavorevole, ben 48 testimoni si rifiutarono di rispondere alle domande della Commissione riguardo il loro credo politico, e solo 35 si piegarono, replicando a tutto quanto loro richiesto e arrivando persino a trasformarsi in delatori di colleghi sospettati di radicalismo.

4.5. Il lunghissimo interrogatorio di Larry Parks Tra coloro che furono piegati dall’interrogatorio simultaneo dei membri della Commissione, rimane emblematico per la sua durezza il caso dell’attore Larry Parks. Chiamato davanti all’Hcua il 21 marzo del 1951, l’artista rispose a qualunque domanda riguardo le sue precedenti esperienze politiche, ma si rifiutò di rivelare i nomi di altri suoi ex compagni adducendo motivi di coscienza. Alla «domanda da 64 dollari», ripetutagli decine di volte durante uno degli interrogatori più lunghi in assoluto (tre sessioni nello stesso giorno), Parks spiegò: Parks: «Come dicevo prima, non sono comunista. Sono stato iscritto al CpUsa quando ero molto più giovane, dieci anni fa. […] Allora essere comunisti aveva un significato di pensiero liberal, idealistico, ispirato ai bisogni dei non privilegiati, degli oppressi. Sentivo che essere

comunista rispondeva a questi miei ideali, alla mia sete di giustizia ed eguaglianza. Credo che essere stati comunisti nel 1941 ed esserlo nel 1951 sia tutto un altro paio di maniche. Oggi sappiamo che l’Urss cerca di conquistare il mondo. » […]

Ciò aveva permesso alla Commissione di passare alla questione dei nomi: Tavenner: «Ha fatto parte di una cellula comunista?» Parks: «Sì. » Tavenner: «Qual era il nome della cellula e dove si riuniva?» Parks: «Beh non so se avesse un nome. Era un gruppo di persone che sapevo essere comuniste e che si riuniva un po’ dove capitava, a seconda delle volte. » […] Tavenner: «Conosce Lionel Stander?» Parks: «L’ho conosciuto, sì. » Tavenner: «Lo ha mai incontrato in una di queste riunioni comuniste?» Parks: «Non ricordo di averlo mai visto in uno degli incontri del partito. » Tavenner: «Sa se era iscritto al CpUsa?» Parks: «No. » Tavenner: «Conosce Karen Morley?» Parks: «Sì. » Tavenner: «È iscritta al partito?» Parks: «Beh, signore, preferirei non fare nessun nome, se possibile. Non credo sia corretto nei loro confronti. Sono venuto qui dietro vostra richiesta, e sono pronto a dirvi qualunque cosa su di me. Penso di non aver fatto nulla di male, e risponderò a ogni domanda che vorrete farmi su di me. Ma preferirei, se me lo consentite, di non parlare di altre persone. »

Parks aveva paura della Commissione. Sapeva che poteva stroncargli la carriera. Ciò non di meno, riuscì a dare questa stessa risposta lunga e articolata, per ben undici volte. Walter: «Chi presiedeva questi incontri cui lei prendeva parte?» Parks: «Eravamo in tempo di guerra, le riunioni consistevano per lo più di argomenti d’attualità, come stava andando la guerra, problemi degli attori a Hollywood. Una roba più sociale che politica, direi. Si ritiene soddisfatto della mia risposta, onorevole?» Walter: «È una risposta. » Parks: «Hmmm?» Walter: «È una risposta. » Parks: «Beh, se non è soddisfatto della mia risposta, vorrei poter rispondere meglio…» Walter: «Ciò che voglio sapere è chi presiedeva queste riunioni. » Parks: «E le ripeto che non era nessuno di mia conoscenza. » Potter: «Chi convocava le riunioni?» Parks: «Non lo so…» […] Potter: «Avevate degli incontri fissi, uno alla settimana, uno al mese, o semplicemente vi vedevate ogni volta che venivate convocati?» Parks: «Per quel che ricordo, erano convocate via telefono. Chiamava ogni volta uno diverso…» Potter: «Beh, certamente non erano convocate telepaticamente. » Parks: «Non l’ho detto. Ho detto che erano convocate per telefono, ma per quanto ne so non c’era un calendario fisso degli incontri. » […] Kearney: «Dove si tenevano queste riunioni, in luoghi aperti al pubblico o in casa vostra?» Parks: «In casa. » Kearney: «Ne ha mai ospitata una in casa sua?» Parks: «Mai. » Kearney: «In casa di chi si tenevano?» Parks: «Venivano persone come me, gente tranquilla, piccolo-borghese, non diversi da lei o da me. » Kearney: «In casa di chi si tenevano?» Parks: «Come ho detto, in varie case di Hollywood. » Kearney: «Può farci i nomi di qualche proprietario di queste case?» Parks: «Beh, come ho chiesto prima, preferirei non fare alcun nome riguardo a nessuna circostanza: erano tutte persone come me, persone che non hanno mai fatto nulla di male,

come me. Sono sicuro che nessuno di noi si crede perfetto, ma…» Wood: «Un momento. Lei crede veramente che queste persone di cui non vuole dirci i nomi non siano responsabili di alcuna colpa?» Parks: «È quello che credo, in tutta onestà: erano persone come me, che non hanno fatto niente di male. » Wood: «E allora, signor Parks, per quale motivo lei crede di causare danno a queste persone rendendo noti i loro nomi, se non hanno fatto niente di male?» Parks: «Beh se pensate che sia facile per un uomo che ha risalito la china lavorando duro nella vita, venire di fronte a questa Commissione e testimoniare, vi sbagliate, perché non è affatto semplice. Uno dei motivi è che la mia intera carriera di attore dipende dal favore del pubblico, ed essere chiamati qui davanti a voi influenza negativamente il pubblico, che comincia a sospettarti di essere sleale verso il tuo paese. » […] Wood: «Lei pensa che il pubblico non dovrebbe sapere queste cose?» […]

I membri della Commissione martellarono l’attore per l’intera giornata, dalla mattina alla sera, insistendo affinché facesse i nomi dei suoi compagni di riunione. A un certo punto lo stesso onorevole Walter provò a convincere il presidente Tavenner ad andare oltre la faccenda dei nomi: Walter: «Quel che voglio dire, Presidente, è se non sia più importante cercare di capire l’estensione di queste attività comuniste, dal momento che questi nomi li abbiamo già avuti da altri testimoni. […] Abbiamo qui un testimone che ha dimostrato di voler cooperare con questa Commissione proprio riguardo a quelli che credo essere i temi principali della stessa. Il resto per me non ha grande rilevanza. »

Ma Tavenner non era d’accordo, e l’interrogatorio di Parks continuò sullo stesso tono di prima: Tavenner: «Hugo Butler era iscritto al partito?» Parks: «No signore, non l’ho mai saputo. » Tavenner: «Ha mai assistito una riunione dove ci fosse anche lui?» Parks: «Non che io ricordi. » Tavenner: «Che lei si ricordi, che cosa mi dice di Frank Tuttle? Era iscritto?» Parks: «Non lo so, non credo di averlo mai sentito, non credo di averlo mai visto. » […] Tavenner: «Chi erano i membri della cellula comunista della quale lei faceva parte nel periodo che va dal 1941 al 1945?»

Era la dodicesima volta che la Commissione poneva essenzialmente la stessa domanda. Parks, sudato e rosso in volto, ebbe una crisi: Parks: «Basta, ho parlato per tutto il tempo di questo e non voglio più difendermi a riguardo: ormai avete davanti l’uomo più finito che abbiate mai visto. Sto difendendo un principio, credo, se l’americanismo è coinvolto in questa faccenda. Di questo ho parlato fino a ora. Non credo sia adeguato che questa Commissione mi tratti così. Non credo convenga alla Commissione o ai suoi scopi, forzarmi [a fare questi nomi]. È quello che penso, onestamente. Non mi pare che ci sia fair play in tutto ciò. Non potete costringermi a scegliere tra commettere oltraggio al Congresso o strisciare nel fango e diventare un delatore! Non penso che sia nello spirito del vero americanismo. Le persone di cui tanto volete i nomi non sono un pericolo per la nazione. Sono gentiluomini, persone che ho conosciuto, persone per bene come me. » […] Jackson: «Dunque lei vuole dire che noi qui stiamo facendo qualcosa di altamente antiamericano. Bene, è una sua opinione, e penso in tutta onestà che vada messa a verbale. » […]

L’avvocato Mandel intervenne cercando di far rifiatare il suo assistito: Mandel: «Vorrei presentare una richiesta alla Commissione; non vi chiedo di promettere niente, ma se potessimo trovare una sportività di comportamento, se poteste dichiarare davanti al signor Parks che le informazioni che vi darà non serviranno a mettere in difficoltà queste persone nel modo in cui lui oggi si trova…» Wood: «Nessun membro di questo Comitato ha intenzione di pregiudicare l’onorabilità di

nessuno. » […] Mandel: «Lo so, ma il motivo per cui vi faccio una simile richiesta è che il mio assistito è in preda a una crisi di coscienza molto dolorosa, e penso che voi potreste alleviarla facendo quella dichiarazione…» Tavenner: «Oh insomma, risponda semplicemente alla domanda, per favore. Allora: chi erano gli iscritti alla cellula del Partito comunista di cui lei era membro dal 1941 al 1945?» Parks: «Morris Carnovsky, Joe…» Tavenner: «Come si scrive, può fare lo spelling?» Parks: «Non lo so come si scrive. Carnovsky, Joe Bromberg, Sam Rossen, Anne Revere, Lee Cobb. » Tavenner: «Come ha detto?» Parks: «Cobb. Gale Sondergaard, Dorothy Tree. Sono i nomi principali che ricordo. » Tavenner: «Come si chiamava il marito di Dorothy Tree? Non era Michael Uris?» Parks: «Sì. » Tavenner: «Era iscritto anche lui?» Parks: «Che io sappia, no. » […] Tavenner: «Si ricorda altri nomi?» Parks: «No, al momento no. » Tavenner: «Howard Da Silva era iscritto?» Parks: «No, non credo di avere mai fatto una runione con Da Silva. » Tavenner: «E Roman Bohman? [Bohnen, N. d. A. ]» Parks: «Sì. » Tavenner: «Credo sia deceduto. » Parks: «È morto. » Tavenner: «E James Cagney è mai stato iscritto?» Parks: «Che io sappia, no. » […] Tavenner: «Sam Jaffe?» Parks: «Che io sappia, no. » Tavenner: «John Garfield?» Parks: «Non ricordo di nessun meeting con lui. » […] Tavenner: «Marc Lawrence non faceva parte della stessa cellula?» Parks: «Credo di sì, non ne sono certo, penso di sì. » […] Tavenner: «Stamane le avevo chiesto di Karen Morley. Era iscritta anche lei?» Parks: «Sì. » Tavenner: «Conosce Richard Collins?» Parks: «Sì, non è mai stato alle nostre riunioni. » Tavenner: «Che tipo di legame aveva John Howard Lawson con questa cellula?» Parks: «Non ne ho idea. » Tavenner: «Fred Graff era iscritto?» Parks: «Mai sentito questo nome. » Tavenner: «Georgia Backus?» Parks: «No. » Tavenner: «Meta Reis Rosenberg?» Parks: «Non la conosco. » Tavenner: «Robert Rossen?» Parks: «No. »

Tavenner chiese di altre sedici persone, dimostrando di conoscere meglio dello stesso Parks la composizione della famigerata cellula. Alla fine del terzo grado, il commissario Walter, mosso a compassione, cercò di consolare l’attore: Walter: «Credo che potrà trovare qualche conforto nel sapere che tutte le persone di cui lei ha fatto i nomi sono state già chiamate davanti a questa Commissione, così se mai dovranno testimoniare, non sarà a causa della sua deposizione. » Parks: «Non mi è di nessun conforto. »50

Nonostante la capitolazione e la pubblica abiura cui Parks fu costretto, l’industria di Hollywood non tolse l’attore dalla lista nera; tutta quella sua ostinazione nel voler difendere dei «rossi» gli fece acquisire una nomea di inaffidabile, e nessun produttore volle rischiare per lui. Così, dopo due anni di miseria, Larry Parks si ridusse a scrivere una lettera al nuovo presidente della Commissione, Harold Velde, in cui si offriva di fornire una nuova deposizione molto più amichevole. Era l’ultimo disperato tentativo di salvare la sua carriera, ormai irrimediabilmente compromessa. Da un punto di vista giuridico, un cambiamento importante nella linea di difesa degli imputati del 1951 fu quello di appellarsi al Quinto emendamento anziché al Primo, per non rispondere alle domande sulle proprie opinioni politiche. Questa scelta comportava da un lato qualche rischio in più, poiché la Corte Suprema non aveva ancora stabilito la legittimità del ricorso a esso anche per un’inchiesta parlamentare (lo avrebbe fatto nel 1955)51 , ma dall’altro garantiva la non incriminazione per oltraggio, in quanto non indicava la Commissione inquirente come illegittima52. È importante soffermarsi su questo particolare giuridico della scelta dell’emendamento cui appellarsi, perché fu l’unica discriminante che permise di evitare la galera ai testimoni ostili successivi ai Dieci. Chi si appellò al Quinto sviluppò tre variazioni sul tema. Alcuni usarono il cosiddetto «Quinto pieno», consistente in un ostruzionismo assoluto: non dire all’Hcua che il proprio nome e indirizzo. Fra i tanti che ricorsero a questa linea difensiva, potremmo dire aggressiva, Paul Jarrico e Michael Wilson furono quelli che imitarono più da vicino l’atteggiamento sprezzante e intransigente dei Dieci. C’era poi il «Quinto leggermente attenuato», usato da persone come Carl Foreman o Robert Rossen (alla sua prima comparizione) che erano disposti a dire alla Commissione di non fare attualmente parte del CpUsa, ma non intendevano rispondere alla domanda su un’eventuale militanza passata o a qualsiasi cosa riguardante il Partito. Altri infine tentarono di usare un «Quinto molto attenuato», che prevedeva un’ampia discussione su se stessi ma il rifiuto di parlare di chiunque altro; fu la tecnica di Lillian Hellman, come vedremo. Proprio la Hellman ha ricordato nelle sue memorie: Il Quinto emendamento ha le sue trappole: se mi chiedevano se conoscessi Harriman o il presidente Roosevelt, dovevo rispondere di sì perché non potevo affermare che il fatto di conoscerli potesse danneggiarmi; ma se mi chiedevano se conoscessi Chaplin o Hammett [due indagati ritenuti comunisti, N. d. A. ], per esempio, avrei dovuto rifiutarmi di rispondere perché secondo la Commissione costoro avrebbero potuto farmi incriminare. In questo modo, naturalmente, si finisce col puntare il dito su certe persone, e magari persone di cui si sa molto poco e la cui storia si può solo immaginare. Forse da un punto di vista legale è tutto necessario, tutto ben congegnato, ma in pratica può essere una brutta faccenda. 53

4.6. La deposizione dotta di Paul Jarrico Tra i testimoni chiamati al banco, ricordiamo la deposizione proprio di Paul Jarrico, collaboratore di Richard Collins in Song of Russia, film che, come abbiamo visto, aveva calamitato le ire e i sospetti di molti anticomunisti in servizio permanente effettivo. Jarrico era figlio di un acceso militante socialista e sionista immigrato negli Usa dalla Russia; era stato, già all’inizio

degli anni ’30 tra le avanguardie dell’attività politica degli studenti di sinistra dell’Ucla e di Berkeley. A differenza di altri colleghi, Jarrico aveva maturato la sua coscienza politica prima di diventare scrittore; i membri della Commissione ben conoscevano i suoi trascorsi di militante, e tentarono di fargli esprimere ufficialmente durante l’interrogatorio le sue posizioni ritenute «sovversive». In risposta alla domanda dell’investigatore Doyle se lui riteneva la Commissione «pericolosa per i diritti dei cittadini americani», lo sceneggiatore disse, non senza una certa emotività: Sono certo che il Congresso non avesse questa intenzione [quando ha istituito l’Hcua ,N. d. A. ]. Tuttavia, dieci amici miei, amici molto cari, sono stati mandati in galera per avere detto davanti a questa Commissione che il Congresso non dovrebbe indagare in quei settori che non può regolamentare per legge. E poiché la Costituzione degli Stati Uniti stabilisce specificatamente che il Congresso non possa fare alcuna legge che limiti la libertà di parola, e siccome infinite decisioni dei tribunali hanno tradotto questa clausola della Costituzione nella proibizione per il Congresso di indagare sulle opinioni, sulle coscienze, sui credo, penso che, nell’inquisire su tali temi, nel citare i miei amici per oltraggio al Congresso, e nel riuscire a mandarli in carcere, ebbene in tutto ciò questa Commissione abbia sovvertito il significato della Costituzione americana, sì. 54

Poiché Jarrico si era schierato radicalmente contro l’operato della Commissione, l’investigatore Doyle si concentrò sul tentativo di farlo accusare di tradimento della Costituzione: Doyle: «Voglio farle un’altra domanda, signor Jarrico, e se lei pensa che la forma della mia domanda non sia cortese, voglio che me lo dica, perché io sto cercando in buona fede di essere giusto. Non sto cercando di trarre alcun vantaggio, né di dare vita a una persecuzione. Lei crede che un cittadino americano abbia il diritto di sostenere tutto ciò che vuole? » Jarrico: «Sì, esatto. » Doyle: «Devo ritenere che lei pensi che un cittadino americano abbia anche il diritto di sostenere che si può rovesciare un governo con la forza? » Jarrico: «Io credo che si possa sostenerlo. Credo anche che non otterrebbe un gran risultato sostenendo ciò. Voglio anche che sia chiaro che io personalmente sono contrario a rovesciare questo governo con la forza e in generale all’uso di forza e di violenza. Tuttavia, il presidente Lincoln disse che il popolo di questo paese ha il diritto di fare la rivoluzione, se necessario, nel caso che il processo democratico risulti bloccato e il popolo non possa più esercitare la sua volontà mediante i mezzi costituzionali. »55

Al di là delle precisazioni del testimone, era esattamente ciò che l’investigatore Doyle voleva sentir dire dallo sceneggiatore. L’interrogatorio continuò comunque: Doyle: «È al corrente di qualche organizzazione operante negli Stati Uniti che sostenga il rovesciamento del nostro governo con la forza? Conosce qualche organizzazione di questo tipo?» Jarrico: «Beh, la Legge McCarran, la Legge Smith…» Doyle: «Io le sto domandando di un’organizzazione. Conosce qualche organizzazione?» Jarrico: «Sto rispondendo alla domanda, signore. Sto dicendo che diverse leggi passate dal Congresso degli Stati Uniti hanno individuato alcune organizzazioni come organizzazioni che sostengono il rovesciamento di questo governo. Non devo per forza condividere queste definizioni. » Doyle: «Non le sto chiedendo se sia d’accordo o no con queste definizioni. Le ho chiesto, da uomo a uomo, in buona fede, se lei è al corrente di qualche organizzazione di questo tipo. Io parto dall’idea che lei è un cittadino americano interessato a proteggere la nostra forma di governo contro ogni rivoluzione violenta. Se il mio assunto è sbagliato, allora la base della mia domanda è sbagliata. Non le sto chiedendo se lei è membro o no di qualcuna di queste organizzazioni. Lei si è posto sotto la protezione del Quinto emendamento. Quindi non le faccio domande in quel senso. Do per scontato da uomo a uomo che se lei conoscesse

qualche organizzazione in America che favorisca questa politica violenta, in buona fede verrebbe e ce lo direbbe. » Jarrico: «Bene signori, questa Commissione…» Doyle: «Conosce qualcuna di queste organizzazioni?» Jarrico: «Secondo questa Commissione, ogni organizzazione che abbia sostenuto la pace in questo paese…» Doyle: «Aspetti un minuto. La mia domanda può avere come risposta un sì o un no. Noi abbiamo altri testimoni che sono venuti fin qui da Hollywood, e vogliamo sentirli, in modo che possano tornare a casa per il weekend. » Jarrico: «Per vostra definizione, signore, qualunque organizzazione che abbia difeso gli ideali di decenza e progresso, il New Deal, contro le discriminazioni, per la pace e così via, queste organizzazioni sono [da voi] equiparate alle organizzazioni che sostengono il rovesciamento del governo con la forza. Non accetto questa definizione. » Doyle: «In altre parole, lei non accetta la definizione del dizionario Webster. »56 Jarrico: «Sì che accetto la definizione del Webster. » Doyle: «Io le sto chiedendo se, sulla base della definizione del Webster, lei sia a conoscenza oppure no di qualunque organizzazione di questo paese che sostenga ciò che il Webster definisce come una condotta sovversiva, ecco tutto. Questo è ciò che le chiedo. Presuppongo che lei voglia contribuire a proteggere il governo americano. » Jarrico: «Se conoscessi un’organizzazione così, contribuirei a farvela scoprire. » Doyle: «Conosce qualcuno che ha interesse a rovesciare il nostro governo?» Jarrico: «Se conoscessi un individuo così, contribuirei a farvelo scoprire. » Doyle: «Molto bene. Ora, un’altra domanda. In risposta al nostro avvocato, lei ha affermato che crede che lo scopo di questa Commissione sia quello di gettare le basi per l’istituzione di una lista nera. Perché crede che questa Commissione abbia interesse a far schedare gente per non farla lavorare più, se questa è gente onesta, cittadini patriottici? È quanto da lei affermato?» Jarrico: «Voi non avete quel fine, ma fareste bene a riconsiderare i vostri metodi, poiché i vostri metodi hanno portato a quel fine. Conosco molte persone che sono state scritte sulla lista nera di Hollywood come risultato delle udienze del 1947, e so che oggi si sta preparando la strada all’estensione di quella lista nera, così che chiunque abbia sostenuto qualcosa di progressista sarà presto sospettato. E l’Alleanza cinematografica per la cosiddetta difesa degli ideali americani, sarà l’organizzazione che deciderà chi potrà lavorare e chi non potrà farlo, quali film si potranno fare e quali no, e quella è un’organizzazione che sostiene questa Commissione e crede stia facendo uno splendido lavoro nell’individuare i cosiddetti “rossi”». Doyle: «Come si chiama questo comitato?» Jarrico: «The Motion Picture Alliance for the Preservation of the American Ideals. Dovrebbe conoscerla molto bene, signor Doyle. »

Singolare come l’investigatore Doyle facesse finta di non conoscere un’organizzazione cha tanto aveva contribuito alle indagini del 1947, il cui nome era riportato centinaia di volte nei verbali della Commissione, e che era ben attiva e molto potente nel 1951: Doyle: «E invece non la conosco, signor Jarrico. Vede, ci sono molti di noi, al contrario da quanto lei affermato, che hanno a cuore gli interessi dei diritti dei cittadini americani come lei, e sono ugualmente progressisti e patriottici verso il pensiero liberale, che lei ci creda o no. Desidero affermare – vale per me ma lo affermo anche per gli altri membri della Commissione – che non siamo interessati a schedare nessuno. Non sarei corretto verso i miei doveri di cittadino se le permettessi di accusarmi [di voler schedare qualcuno] senza negarlo. Ma le dirò questo: penso che voi gentiluomini che venite davanti a questa Commissione e inalterabilmente vi barricate dietro il Quinto o il Primo emendamento quando vi chiediamo delle organizzazioni di cui siete o siete stati membri, state rendendo il lavoro di questa Commissione Federale molto duro. » Jarrico: «Io sento di difendere la Costituzione, signore, e non di barricarmici dietro. Lo sento sinceramente. E sento che se lei fosse sincero nelle sue dichiarazioni contro la lista nera, dovrebbe rendere esplicito che i testimoni che hanno invocato i loro diritti costituzionali non debbano essere discriminati a Hollywood, perché Hollywood ha l’impressione che voi pensiate che chiunque non voglia collaborare con questa Commissione debba essere messo alla porta dall’industria. »57

Pochi mesi più tardi, nel novembre del 1952, Jarrico fece causa alla Rko chiedendo 350. 000 dollari di penale per avere sciolto inopinatamente il contratto. Il giudice della Corte Superiore, Orlando Rhodes, stabilì che Jarrico aveva violato la clausola morale del contratto firmato con la Rko rifiutandosi di rispondere alle domande dell’Hcua. Rhodes affermò che facendo ricorso al Quinto emendamento per evitare di testimoniare, Jarrico era stato associato dall’opinione pubblica ai simpatizzanti (o ai membri) del Partito comunista; nell’uno e nell’altro caso lo scrittore si era reso oggetto di discredito, malanimo e ridicolo di fronte al pubblico. Jarrico si appellò alla Corte Suprema, ma il verdetto non cambiò. In questo modo il sistema giudiziario americano aveva in parte inficiato il principio legale del mutuo contratto e aveva colpito la protezione civile offerta dal Quinto emendamento accettando l’opinione della direzione dello studio, secondo cui il ricorso alla Dichiarazione dei Diritti corrispondeva, prima facie, alla violazione della causa morale di un contratto.

4.7. La deposizione «ingenua» di John Garfield Un caso totalmente diverso fu quello dell’attore John Garfield, che anziché affrontare a brutto muso la Commissione o piegarsi a essa diventando delatore di altri amici, scelse di recitare la parte dell’ingenuo, del semplicione, assolutamente digiuno di cose politiche, pur sapendo astutamente individuare nel comunismo la causa di ogni male. L’artista comparve al banco dei testimoni il 23 aprile 1951 e resistette alle domande per quasi tre ore. A suo dire, Garfield non conosceva e non aveva mai conosciuto alcun comunista di Hollywood, né aveva mai sentito dire da qualcuno che alcuni suoi colleghi potevano essere comunisti. Aveva sì appoggiato la candidatura di Henry Wallace alla presidenza degli Stati Uniti, ma da « liberal convinto» e senza mai sospettare che anche i comunisti lo appoggiassero. Non si ricordava di aver presentato l’attore e cantante Paul Robeson (definito comunista dalla Commissione) a una cena del Comitato per i rifugiati antifascisti uniti, ma ammise di aver firmato per il Comitato per il Primo emendamento. Sostenne che il CpUsa dovesse essere messo fuori legge, ma non ricordava di aver bevuto un drink su una nave sovietica nel porto di Los Angeles in compagnia di Charles Chaplin, il regista Lewis Milestone e lo sceneggiatore russo Costantine Semenov. Alla fine, l’investigatore Donald L. Jackson perse la pazienza davanti ai continui «non ricordo», «non me ne intendo», «non so» che Garfield opponeva alle domande della Commissione e commentò: Jackson: «E lei vorrebbe farci credere che lungo i sette anni e mezzo di lavoro a Hollywood, in un ambiente nel quale un gruppo di comunisti organizzato su cellule operava settimana dopo settimana su elettricisti, attori e ogni categoria rappresentata, che durante l’intero periodo in cui lei ha lavorato a Hollywood non è mai venuto a conoscenza di un singolo attivista comunista?» Garfield: «Esattamente. »

Alla domanda successiva, che chiedeva se fosse stato mai avvicinato da qualche membro dell’apparato comunista di Hollywood, Garfield rispose: «Fosse successo, mi sarei messo a correre via come se avessi visto

l’inferno!»58. La tecnica di Garfield, per quanto rischiosa e umiliante, era comunque riuscita nel suo intento, almeno in un primo momento. L’attore non fu subito individuato come un testimone ostile, ciò non di meno dopo pochi mesi il suo nome venne inserito nella lista nera.

4.8. La seconda deposizione del pentito Edward Dmytryk Il regista Edward Dymtryk, come vedremo, decise invece di ritrattare le sue accuse contro la Commissione e spedì lettere di scuse ai membri dell’Hcua, dichiarandosi pronto a rispondere a tutte le domande del caso. Dmytryk prima delle udienze del 1947 aveva diretto, tra gli altri, Eravamo tanto felici (So Well Remembered, 1947), Gli eroi del Pacifico (Back to Bataan, 1945), L’ombra del passato (Murder my Sweet, 1945), Hitler’s Children (1943) e aveva appena terminato di girare Odio implacabile. Condannato per oltraggio e imprigionato, in carcere, il regista crollò psicologicamente e decise di fare pubblica ammenda di comunismo. Dopo un colloquio con Roy Brewer, si stabilì di organizzare una seconda seduta davanti alla Commissione, prima della fine del 1951, rispondendo questa volta a tutte le domande, e spiegando anche cosa l’aveva spinto ad aderire a una «associazione sovversiva» come il Partito comunista. Come riporta Giuliana Muscio: «La lista di persone così redente è lunga e penosa. Una via d’uscita alla lista nera si era trovata, ma il prezzo da pagare era alto: la dignità morale»59. Tornato davanti al presidente Thomas, fece i nomi dei compagni che sapeva essere comunisti; questo «tradimento» – così fu vissuto dagli altri artisti – gli procurò il disprezzo dei suoi ex amici ma la riabilitazione come artista hollywoodiano. Vediamo dunque il testo del secondo interrogatorio di Dmytryk dinanzi alla Commissione, interrogatorio da lui espressamente richiesto nella primavera del 1951 e tenutosis il 25 aprile di quell’anno. Tavenner: «Quale è il suo nome, per favore?» Dmytryk: «Edward Dmytryk. » […] Tavenner: «Signor Dmytryk, lei fu citato in giudizio come testimone davanti a questa Commissione nel 1947?» Dmytryk: «Sì. » Tavenner: «E lei è uno di quelli noti come i Dieci di Hollywood?» Dmytryk: «Sì, lo ero. » Tavenner: «Noto che lei dice “ero” piuttosto che “sono”. » Dmytryk: «Non penso che sarò considerato uno dei Dieci ancora per molto. » Tavenner: «La sua testimonianza di oggi farà chiarezza su quella storia?» Dmytryk: «Immagino di sì. »60

Sulla questione, Dmytryk ha scritto delle belle pagine nella sua autobiografia Odd Man Out, dalle quali sgorga tutto il travaglio interiore di un uomo che decide di rinnegare se stesso, i suoi ideali e di tradire i suoi vecchi amici e compagni: San Giovanni citò le parole di Cristo: «E la verità vi renda liberi». Bene, avevo voglia di fare un tentativo. Non che avessi mentito la prima volta. Non avevo, in effetti, detto nulla. E ne ero rimasto dispiaciuto da allora e per sempre. Adesso cercavo di rimediare ai miei errori: verso il Congresso, verso mia moglie e la mia famiglia, e verso coloro che erano rimasti

offesi dal processo. Dopo quasi quattro anni di navigazione in mari in tempesta, dove ogni possibile nuova nuvola era più nera della precedente, e che avevano compreso due anni di esilio e sei mesi in prigione, ero alla disperata ricerca di un porto che potesse offrire un po’ di pace e di stabilità. Ma avevo ancora da passare la più difficile delle prove: dovevo esorcizzare il mio passato, e sapevo che nel rito purgatorio avrei potuto curare le vecchie ferite solo al costo di nuove, che avrebbero amareggiato il resto della mia vita a venire. Dovevo fare una seconda apparizione di fronte alla Commissione per le attività antiamericane. E avevo giurato di dire in pubblico la verità, tutta la verità, e nient’altro che la verità. Stavo per fare i nomi [dei miei ex compagni] 61

Ma torniamo al testo del verbale della nuova udienza di aprile: Tavenner: «Se non erro lei è uno dei condannati per oltraggio al Congresso. Ha scontato la condanna?» Dmytryk: «Sì. » Tavenner: «Era iscritto al Partito comunista quando fu chiamato da questo Comitato nel 1947?» Dmytryk: «No, non lo ero. » Tavenner: «È mai stato membro del Partito comunista?» Dmytryk: «Sì, lo sono stato dall’estate del 1944 fino a circa l’autunno del 1945. Fu quando il Partito comunista come tale fu sciolto, e al suo posto venne creata la Communist Political Association. » Tavenner: «Quando era uno dei cosiddetti “Dieci di Hollywood”, aveva modo di osservare i lavori del Partito comunista?» Dmytryk: «Posso dire che avevo molte più opportunità di osservare i lavori del Partito comunista quando ero un membro dei Dieci di Hollywood che non quando ero un membro del Partito comunista stesso. » Tavenner: «Questa Commissione sta cercando strenuamente di indagare sull’estensione dell’infiltrazione del Partito comunista nel campo dello spettacolo. Lei, volendo cooperare con la Commissione, porterà il beneficio della sua conoscenza, delle sue esperienze, sia di quando era membro del Partito comunista che successivamente?» Dmytryk: «Certamente. » Tavenner: «Anche se rifiutò di testimoniare di fronte a questo Comitato nel 1947?» Dmytryk: «Sì. La situazione è piuttosto cambiata. » Tavenner: «Che vuol dire?» Dmytryk: «C’è molta differenza tra il 1947 e il 1951, relativamente al Partito comunista, o almeno circa il mio grado di consapevolezza sul Partito comunista. Nel 1947 la Guerra Fredda non era ancora entrata nel vivo. Credevo che la Russia [sic] fosse sinceramente amante della pace, e non sentivo il Partito comunista in questo paese come una minaccia. Mi parve che il Comitato, di fronte al quale fui chiamato a testimoniare, stesse invadendo un campo che non poteva invadere, ossia quello della libertà di pensiero. E sinceramente credetti anche che le procedure usate dal Comitato non fossero quelle di un’indagine onesta. Per questo rifiutai di rispondere allora. Ma da quel momento ci sono stati degli sviluppi molto importanti. Fino al 1947 non avevo mai sentito qualcuno dire che avrebbe rifiutato di combattere per il nostro paese in una guerra contro la Russia sovietica. Ero in Inghilterra quando lessi per la prima volta un articolo scritto da un comunista australiano in cui ammetteva che lui non avrebbe mai combattuto contro la Russia sovietica. Poi lessi degli articoli di membri del Partito comunista americano sulla stessa posizione ideologica. Mi pare che Paul Robeson ne avesse firmato uno. Da allora altri membri del Partito comunista americano hanno affermato che, in caso di guerra, non combatterebbero per il loro paese. Io invece credo che in una democrazia ciascuna persona debba difendere il suo paese in tempo di guerra. D’accordo con altre persone, firmai la Petizione di pace di Stoccolma. Credo nella pace, come tutti dovrebbero. Pensavo che i miei co-firmatari fossero sinceri, ma la guerra di Corea mi dimostrò che non lo erano. Trovo che qualsiasi persona intelligente possa comprendere che la Corea del Nord non avrebbe mai attaccato la Corea del Sud, se non avesse avuto l’appoggio di potenti forze. Non posso provarlo, ma credo che quelle forze siano la Cina comunista e la Russia comunista. Questo mi turbò tremendamente e mi fece capire che c’è una minaccia comunista, e che il Partito comunista di questo paese è una parte di quella minaccia. La terza cosa che mi ha fatto riflettere è stata la rete di spionaggio: i casi Colpon, Greenglass e in Inghilterra il caso Fuchs. Trovo ci sia un aspetto fondamentale venuto fuori dai processi per spionaggio, ed è che questa gente non faceva la spia per soldi, o almeno non per molti soldi. Ci sono spie che lavorano per il proprio paese e

io le rispetto, altre lo fanno solo per denaro e forse si può avere una certa ammirazione perché rischiano la loro testa. Ma questi invece lo facevano per amore del Partito, e questo per me è tradimento. Credo che il Partito che li ha usati sia accusabile di tradimento esso stesso. Non dico che tutti i membri del Partito comunista siano colpevoli di tradimento, ma penso che il Partito li incoraggi ad agire in questa direzione. Per tutto ciò, oggi, io voglio parlare. » Tavenner: «Vorrei sapere come e perché il Partito comunista faccia di tutto per infiltrarsi a Hollywood. » Dmytryk: «Non ho mai avuto accesso alla direzione del Partito e quindi non posso dire nulla di ufficiale, ma penso che loro avessero probabilmente tre scopi principali. Il primo era ottenere finanziamenti, e Hollywood è una comunità molto ricca, una grande fonte di capitali. Il secondo era ottenere prestigio. E il terzo e il più importante era, attraverso l’infiltrazione ed eventualmente prendendo il sopravvento nei sindacati di Hollywood, controllare il contenuto dei film. L’unico modo in cui loro avrebbero potuto controllare il contenuto dei film era quello di controllare completamente i sindacati degli studios. »

L’analisi di Dmytryk suona, col senno di poi, abbastanza convincente. La cittadella del cinema faceva gola tanto ai maccartisti quanto ai comunisti, e per gli stessi motivi: denaro, prestigio (o notorietà), influenza sulla società. Solo che, mentre i comunisti non hanno mai avuto il modo o il tempo per condizionare con la propria propaganda l’industria e i suoi prodotti – i film –, il maccartismo è riuscito, proprio in virtù della sua inquisizione, a ottenere una produzione in linea con gli ideali che lo muovevano: critica del comunismo e di ogni forma di progressismo. Tornando al testo del verbale: Tavenner: «Restiamo al primo degli scopi che lei ha menzionato, la questione dei soldi. Che informazioni ha riguardo allo sforzo del Partito comunista di ottenere somme considerevoli dalla gente di Hollywood?» Dmytryk: «In alcuni casi c’era un sistema che imponeva di versare una percentuale dei salari ai sindacati, e a volte erano un mucchio di soldi. C’era anche l’opportunità di organizzare grandi feste, cene e riunioni di vario genere – magari non direttamente per il Partito comunista – ma da cui si potevano trarre donazioni considerevoli. Credo che – particolarmente quando tra Russia e America si filava in perfetto accordo, durante la guerra e subito dopo – a Hollywood siano stati raccolti molti soldi. » Tavenner: «Lei contribuì con somme considerevoli al finanziamento del Partito comunista?» Dmytryk: «No, non guadagnavo molto a quel tempo. Avevo anche un agente che dirigeva i miei affari. A Hollywood il business manager è una figura piuttosto particolare: per amministrare al meglio i tuoi soldi ti passa solo un piccolo assegno alla settimana. Il mio era di venticinque dollari. Qualche volta ho dato cinque o dieci dollari, ma non potevo dire al mio agente di pagare una percentuale fissa a nessuno. Gli agenti sono capitalisti, e non potevo chiedere soldi per il Partito comunista. E dopo non sono mai stato indottrinato a sufficienza. » Tavenner: «Lei ha dichiarato che il secondo scopo del Partito comunista a Hollywood era quello di guadagnare prestigio. Cosa vuole dire?» Dmytryk: «Non so se il partito sia mai riuscito ad arruolare direttamente molte persone di prestigio. Di certo poteva avvicinare quasi tutte le persone influenti di Hollywood, e ottenere di mettere i loro nomi su decisioni o propaganda del fronte comunista. Questa è una cosa complicata. Quando uno dice “fronte comunista”, hai l’impressione che sia guidato da comunisti, ma non è sempre vero. Ho conosciuto associazioni chiamate “fronti comunisti” sebbene solo uno o due dei loro membri fossero comunisti. Ci sono inoltre due generi di fronti. Il primo è organizzato dal Partito comunista stesso, l’altro è un’organizzazione originariamente liberale, successivamente infiltrata da comunisti. I comunisti sono lavoratori accaniti, e un membro determinato a dedicare tutto il suo tempo a un’organizzazione, può riuscire a dominarla. Un comunista, in particolare, non cerca di solito di diventare presidente. Mira a essere segretario e, come segretario, controlla e guida l’organizzazione come un’organizzazione comunista. Un altro punto importante è che le organizzazioni del fronte comunista non si impegnano, almeno non apertamente, in attività che possano sembrare antidemocratiche o antipatriottiche; in questo modo possono attirare molte persone. Il lavoro che han fatto durante la guerra è stato veramente buono: hanno

preso in trappola molta gente. Direi che nel fronte comunista di Hollywood per ogni comunista c’erano cento non comunisti e quasi nessuno realizzava di essere controllato da un gruppo comunista; non perché fossero sciocchi, ma perché i comunisti sono abbastanza intelligenti per dissimulare questo genere di cose. »

In quest’ultima risposta, invece, ci appare chiaro il tentativo di Dmytryk di compiacere i membri della Commissione con una serie di affermazoni che potessero attendersi. Le cosiddette organizzazioni «paracomuniste» di Hollywood erano in gran parte delle normali associazioni vertenziali che si battevano di solito contro il nazifascismo. Al loro interno erano iscritte persone dalle più varie tendenze democratiche, e quindi appare normale che ci fossero anche alcuni comunisti. Ma da qui a pensare che l’apparato del CpUsa fosse tanto lungimirante e pianificatore da escogitare una strategia di così lungo corso (insinuarsi nelle associazioni per indottrinare lentamente tutti i suoi membri), presuppone una capacità politica che il piccolo partito di certo non aveva. Tavenner: «Ha detto che lo scopo più importante del Partito comunista era avere il controllo dei sindacati. Ho capito bene?» Dmytryk: «Sì. » Tavenner: «A quali sindacati si riferiva?» Dmytryk: «Finora ho spiegato che i comunisti a Hollywood avevano un grande successo. Coi sindacati le cose andavano peggio, per loro. Hollywood è divisa in due mondi. Da un lato ci sono il Sindacato sceneggiatori, quello dei registi (Screen Directors Guild) e quello degli attori. I primi due sono del tutto autonomi e indipendenti, il terzo è affiliato alla Federazione americana del lavoro, ma è largamente autonomo. Ci sono poi i sindacati delle maestranze, soprattutto la Iatse (International Association of Theatrical and Stage Employees). So che i comunisti hanno avuto un certo successo per qualche tempo nel Sindacato sceneggiatori ma senza mai prendere il sopravvento. Nel Sindacato registi invece non hanno mai sfondato, ci sono sempre stati pochissimi comunisti lì. » Tavenner: «Lei apparteneva al Sindacato registi?» Dmytryk: «Sì, dal 1939 in poi. » Tavenner: «In quanti eravate nel Sindacato registi?» Dmytryk: «225 o 230. » Tavenner: «Tra loro c’era qualcuno che lei sapeva essere membro del Partito comunista?» Dmytryk: «Per quel che ne so, sette. » Tavenner: «Ci vuol dare i nomi dei sette?»

La fatidica domanda dei nomi. In inglese risuonò: «Will you give us the names of the seven?». Ma stavolta Dmytryk non oppose alcuna resistenza: Dmytryk: « Sì. Frank Tuttle. » Tavenner: «Era un regista?» Dmytryk: «Sì. Poi Herbert Biberman. E Jack Berry. » Tavenner: «Può identificarlo meglio?» Dmytryk: «Il Presidente stamattina ha letto il suo indirizzo. È il Berry che vive in King’s Road. Organizzava le riunioni in casa sua. Per questo conosco Bernard Vorhaus. » Tavenner: «Ne ha nominati quattro. » Dmytryk: «Poi Jules Dassin. E io. » Tavenner: «Conosce qualcuno di coloro che hanno lasciato il Partito comunista?» Dmytryk: «No, però è facile che molti lo abbiano fatto. » Tavenner: «Ho capito bene: la riunione a cui lei partecipò venne tenuta in casa di Jack Berry?» Dmytryk: «Esatto. » Tavenner: «Qual era lo scopo della riunione?» Dmytryk: «Per quanto posso ricordare, mi pare riguardasse il tentativo di fare eleggere uno di noi nel Comitato di direzione del Sindacato registi. » Tavenner: «Perché interessava al Partito comunista mettere uno dei suoi nella direzione del Sindacato?» Dmytryk: «Beh, faceva parte di un piano a lunghissimo termine. Loro volevano avere più

persone possibile alla guida del Sindacato in vista di future lotte sindacali e di sostegno fra le organizzazioni. » Tavenner: «In altre parole, questo è uno esempio che dimostra come il Partito comunista tentasse di avere il controllo dei sindacati?» Dmytryk: «Sì. » Tavenner: «Riprendendo il suo discorso sul terzo e più importante scopo del Partito comunista, è a conoscenza di altri tentativi per controllare o i film, o i sindacati, o l’industria del cinema?» Dmytryk: «Lo sforzo principale venne fatto nei sindacati delle maestranze. Il Partito comunista non ebbe mai alcun controllo su qualsiasi dirigente d’azienda dei grandi studios, né mai ebbe un qualsiasi controllo effettivo sul contenuto dei film. Magari qualcuno si è fatto scappare una battuta o qualche altro tipo di dettaglio che li ha resi felici, ma non hanno mai avuto alcun controllo su dirigenti di azienda, che io sappia. Nei sindacati delle maestranze erano riusciti a organizzare un gruppo chiamato Conference of Studio Unions che portava avanti la loro politica. Diventarono tanto forti da rischiare uno sciopero contro la Iatse. Però persero la battaglia e il loro tentativo finì nel nulla. » Tavenner: «Durante quel periodo, il Partito comunista tentò di influenzare i sindacati sui motivi dello sciopero?» Dmytryk: «So che i tre sindacati nominarono dei comitati per investigare sulle ragioni dello sciopero. Risultò quasi in tutti i casi che erano a favore della Conference of Studio Unions. » Tavenner: «Parlava dei sindacati delle maestranze. Che cosa sa sulle infiltrazioni comuniste in questi sindacati?» Dmytryk: «Beh, ne so molto poco, se non che nella Conference of Studio Unions erano molto ben organizzati. So anche che avevano pochissimi infiltrati, lì dentro; al massimo una cinquantina. » […] Tavenner: «È disposto a dire quello che sa circa la penetrazione comunista nel Sindacato sceneggiatori?» Dmytryk: «Non so molto a questo proposito eccetto che molti dei miei amici erano iscritti a quel Sindacato. I comunisti elessero un numero sufficiente di membri nella direzione di esso in modo da poterlo controllare per parecchi anni, fino al 1947, credo. Come risultato, poterono condurre diverse campagne a Hollywood sulle attività di molti fronti comunisti. Cercarono di portare dalla loro parte il più gran numero di talenti possibile, quelli che noi chiamiamo i sindacati di prestigio, per dominare il Csu (Conference of Studio Union) contro lo Iatse. »62 Tavenner: «Conosce qualche nome?» Dmytryk: «Sì. Alcuni. John Howard Lawson era uno di loro. Lester Cole era un leader del gruppo. Questi due sono i soli che io posso identificare con certezza come comunisti. Anche Gordon Kahn era piuttosto importante nel gruppo. » Tavenner: «Come, in che modo, il Partito comunista tentò di influenzare i vari sindacati?» Dmytryk: «Secondo me non riuscirono nel loro intento, che era di controllare ciò che si narrava nei film. I comunisti da anni hanno compreso l’importanza di qualsiasi mezzo pubblico di propaganda e istruzione. Già Lenin aveva detto che il cinema sarebbe stato probabilmente il più importante mezzo di propaganda e di educazione. I comunisti americani cercavano di impadronirsene, e l’unico modo per arrivarci era di controllare i sindacati. » Tavenner: «È a conoscenza di un caso in cui i comunisti riuscirono a controllare il contenuto di un film?» Dmytryk: «Vagamente, sì. Accadde a me. Nel 1945 io e Adrian Scott girammo un film chiamatoMissione di morte ( Cornered). Il film raccontava la storia di un pilota canadese, immediatamente dopo la guerra, che era stato sposato con una ragazza francese della Resistenza rimasta uccisa. Il pilota cercava i tedeschi che l’avevano ammazzata e, poiché aveva saputo che molti gerarchi erano riusciti a scappare in Argentina, li inseguiva cercando di vendicarsi. In questo film avemmo l’opportunità di dire molte cose sul fascismo. La prima versione del soggetto era di John Wexley, e vi trovai lunghi discorsi antifascisti e antinazisti, ma dal punto di vista dei comunisti. Io mi opposi, non tanto per ragioni politiche, ma perché il film con tutti quei discorsi risultava poco drammatico e dissi ad Adrian di cercare un nuovo sceneggiatore. Cosa che facemmo. Chiamammo John Paxton, uno scrittore molto bravo e, anche se l’ho nominato qui, non è affatto un comunista. Paxton riscrisse la sceneggiatura, noi la girammo e ne venne fuori un buon film. Ma mentre si stampavano le copie per le sale ricevemmo un invito da Wexley per un incontro a casa mia. C’erano anche

Richard Collins a Paul Trivers. »

Singolare che Dmytryk, per rispondere affermativamente a questa domanda chiave, possa citare un solo e unico esempio, per di più accaduto proprio a un suo film. E molto strano è che alla fine, il «controllo comunista sulla sceneggiatura» presa in esame, si traduca in «lunghi discorsi antifascisti e antinazisti, ma dal punto di vista dei comunisti». Troppo onore, per i comunisti, identificarli come gli unici fieri antifascisti e antinazisti. Tavenner: «Che mestiere faceva Paul Trivers?» Dmytryk: «Era uno scrittore. Penso che ora sia con la compagnia di Bob Robert e John Garfield. Mi rimproveravano di aver tagliato le battute di Vexley dicendo che così facendo avevo tramutato il film da antinazista a pro-nazista. » Tavenner: «Adrian Scott era un membro del Partito comunista?» Dmytryk: «Sì. La sua esperienza col Partito era simile alla mia. » Potter: «Quando ebbe luogo questa riunione?» Dmytryk: «Nella tarda estate o nell’autunno del 1945. » Tavenner: «Anche John Wexley era un membro del Partito comunista?» Dmytryk: «Direi di sì, anche se lo vidi quella sola volta, ma quello era certo una cosa che interessava il Partito comunista. » Tavenner: «Oltre a John Wexley, come faceva a sapere che le altre persone che ha nominato erano comunisti? Cominci da Adrian Scott. » Dmytryk: «Avevo presenziato a riunioni con Scott. » Tavenner: «Un altro che lei ha nominato è John Howard Lawson. » Dmytryk: «Di lui ho già detto prima. Poi ho fatto i nomi di Collins e Trivers. » Tavenner: «Come seppe che Trivers era un membro del Partito comunista?» Dmytryk: «Solo dalla sua reputazione e da quella riunione che era senza dubbio una riunione di comunisti. Ovviamente, noi respingemmo le loro accuse ma ci chiesero un altro appuntamento e John Howard Lawson era il Dalai Lama del Partito comunista a quel tempo. » Tavenner: «Perché?» Dmytryk: «Lawson dirimeva tutte le questioni. Se c’era da prendere una decisione ci si rivolgeva a lui. Ci incontrammo una terza volta, e Adrian Scott portò Albert Maltz, che era il comunista più liberale del gruppo, per difenderci dalle accuse. Queste riunioni finirono in un nulla di fatto. Penso che Albert Maltz si stesse preoccupando della mancanza di libertà di pensiero nel Partito comunista e quella riunione gli servì da ispirazione per l’articolo che scrisse per il giornale “New Masses” sulla libertà di pensiero. » Tavenner: «Secondo lei questo incidente che ha appena descritto ebbe un effetto forte su Albert Maltz?» Dmytryk: «Lo so per certo, perché parlai con lui dopo e mi disse di essere molto preoccupato per questo sforzo di condizionare il pensiero degli iscritti. Per questo scrisse quell’articolo che lo pose nella condizione di ripudiarlo o uscire dal Partito. Anche Adrian Scott era preoccupato e pensava che avremmo dovuto avere una riunione con Lawson per discuterne a fondo. Andammo a una colazione ufficiale con Lawson al Gotham Cafè a Hollywood. Fu una riunione molto insoddisfacente, non ci spiegò i motivi delle sue azioni. Disse che noi evidentemente non sapevamo accettare la disciplina del Partito. Adrian Scott era restio a prendere qualsiasi decisione. Da parte mia, anche se non mi dimisi dal Partito e non spedii lettere di dimissioni o roba del genere, l’episodio mi convinse a non andare mai più ad altre riunioni. » Tavenner: «Ha qualcosa da aggiungere sul punto 3, quello che lei ha definito il principale scopo del Partito comunista?» Dmytryk: «Sono sicuro che adesso il Partito comunista non conta più niente a Hollywood. » Tavenner: «Sono stato colpito da molte testimonianze sul successo di alcune persone che sono diventate membri del Partito comunista. Che fascino esercita il Partito comunista per reclutare persone a volte importanti?» Dmytryk: «Gli scrittori sono ovviamente attenti alla gente che è alla base del loro lavoro. Per capire le persone devono capire la società nella quale vivono e le condizioni economiche in cui vivono. Così qualsiasi scrittore degno di questo nome studia questi problemi. Probabilmente, chi diventa scrittore ha uno spirito umanitario: in lui c’è almeno una riga di altruismo e idealismo. Per questo gli scrittori entrano in contatto coi comunisti più della

media. La maggior parte di loro viene dalla borghesia e sono sconvolti dalla povertà, specialmente dove esistono grandi differenze, come nel cinema, dove un uomo che guadagna 2500 dollari la settimana lavora a fianco di un altro che ne guadagna appena 25. Questo sembra loro ingiusto. È un caratteristica di Hollywood. A Hollywood più che altrove viene usata la parola “colpo”. Se tu chiedi a una persona perché e come ha avuto successo, non ti dirà “perché ho lavorato duro e per la mia personalità”. Lui dirà: “Ho avuto un colpo di fortuna, l’occasione giusta”. Ovviamente il lavoro e la personalità contano molto ma il “colpo” anche. Quando ero un proiezionista, il capo del reparto montaggio propose a me e a un altro vecchio proiezionista l’opportunità di diventare montatore. Il mio vecchio collega non volle. E ora lui è sempre un proiezionista e io guadagno uno stipendio alto. Io colsi l’opportunità. Ognuno a Hollywood è interessato ad alzare il livello della gente che ha intorno perché sa che da solo non può farcela. Non basta dare ogni tanto cinque dollari qui e cinque dollari là. Ci si guarda intorno, cercando di poter organizzare qualcosa. E così s’incontra il marxismo. Non che sia così semplice, non è che uno apre gli occhi e dice “è quello che mi ci vuole”. Il Partito comunista tende molte trappole, e funzionano bene. Attraggono non solo quelli che diventano comunisti ma anche quelli che non lo diventeranno mai, ma che regalano loro del tempo, del denaro, del lavoro. Credo che Koestler abbia detto che sette su dieci di quelli che entrano nel Partito, poi ne escono quando si accorgono che non c’è libertà di pensiero. Se non fosse stato per l’esperienza conMissione di morte, avrei continuato la mia militanza nel Partito. Il partito ha una buona spiegazione per tutto. Se uno dice che non c’è libertà, ti rispondono che puoi dire la verità e poiché il Partito comunista ha scoperto la verità ultima, sei libero di dirla. Ogni cosa al di fuori della linea del Partito è una menzogna. Ovviamente qualunque cosa provenga dal capitalismo è fondamentalmente una bugia perché viene da un sistema che considerano disonesto dalle radici. Così quando un uomo accetta tutto questo crede di seguire la verità. Qualunque cosa accada in Russia, dicono che è necessario per arrivare al giusto scopo. Anche il patto Hitler-Stalin o la guerra di Finlandia. »

Anche in queste affermazioni, sembra quasi che Dmytryk, per dare la «risposta giusta», pecchi di ingenuità o di partigianeria nei confronti del comunismo. Non è certo vero che gli unici a contrastare le sperequazioni sociali fossero i comunisti, nella Hollywood degli anni ’40 e ’50. Walter: «Come spiegano i comunisti i diciotto milioni di lavoratori schiavi che ci sono in Russia?» Dmytryk: «Lo negano. Dicono che la stampa capitalista non scrive la verità. Ho litigato su questo. Ammetteranno che delle persone sono state liquidate, ma aggiungono che è per il bene dell’umanità. » Tavenner: «Ci dica ora le circostanze del suo ingresso nel Partito. Quando e come accadde?» Dmytryk: «Entrai nel Partito, come ho detto prima, nel 1944. » Tavenner: «Lei era già membro di qualche organizzazione a sfondo comunista?» Dmytryk: «Probabilmente già nel 1942 avevo cominciato a interessarmi di quello che più tardi divenne il fronte comunista. C’era una scuola che si chiamava People’s Educational Centre e fui invitato a tenere delle lezioni di montaggio. Altri facevano dei corsi di regia e di sceneggiatura. Alcuni dei professori erano comunisti, altri no. C’era la guerra, e io non dissi “che schifo”, dissi “oh guarda, questi comunisti fanno cose utili”. Il congresso degli scrittori si tenne nel 1943; era una riunione di autori venuti da tutto il paese e anche dall’estero. Fu letto un messaggio del presidente Roosevelt. Gordon Sproul era presidente onorario, credo ci fosse anche Darryl Zanuck; solo dopo ho saputo che era stato organizzato dai comunisti. Ma era una cosa positiva. Così mi convinsi che il Partito comunista si impegnava in cose buone. Anche la mobilitazione degli scrittori (Writers Mobilization), come testimoniò Emmet Lavery nel 1947, era organizzata dai comunisti. Così mi incuriosii e cercai di leggere Marx, ma non riuscii mai ad andare oltre il primo capitolo delCapitale. Poi il Partito comunista si sciolse nella Communist Political Association e la linea era che si poteva lavorare coi capitalisti illuminati e che non serviva alcuna rivoluzione. » Tavenner: «Questa linea durò poco?» Dmytryk: «Penso un anno: Browder fu cacciato per questo motivo. C’era anche molta disorganizzazione a Hollywood, a quel tempo. Frequentai solamente sei o sette riunioni di gruppo regolari e forse tre riunioni speciali per tutto il tempo che rimasi nel Partito. » Potter: «Chi le chiese di partecipare alla prima riunione?» Dmytryk: «L’uomo che parlò a quella riunione fu Alvah Bessie; più tardi sarà uno dei Dieci

di Hollywood. » Tavenner: «Chi erano gli altri?» Dmytryk: «La riunione fu tenuta a casa di Frank Tuttle, sebbene lui non ci fosse. L’unico che conobbi fu Alvah Bessie, perché parlò. Non era una riunione comunista regolare. Più tardi andai con un amico di cui non faccio il nome perché è morto, a una riunione in San Fernando Valley dove presi l’opuscolo del Partito. » Tavenner: «Era una cellula?» Dmytryk: «Non le chiamavamo cellule ma gruppi di quartiere. » Tavenner: «Ci può fare i nomi di coloro che con lei formavano il gruppo?» Dmytryk: «Uno era Lester Cole. Un altro era un uomo chiamato Sackin. L’avevo conosciuto nel cinema. Penso che il suo primo nome fosse Lou o Moe. Credo fossero due persone. Non potrei identificarle. » Tavenner: «Vuol dire che erano due persone diverse?» Dmytryk: «Sì. Non conosco i nomi degli altri e c’è una ragione per questo. Quando si entra nel Partito comunista non si viene presentati con il proprio cognome, e così è anche per gli altri. Può passare molto tempo prima di saperlo, o non saperlo mai. Io partecipai solamente a un paio di queste riunioni. Più tardi traslocai a Beverly Hills e andai a un paio di riunioni lì, e poi ancora in un altro gruppo, così non seppi mai i cognomi di quelle persone. » Tavenner: «Descriva ognuno dei gruppi ai quali venne assegnato. » Dmytryk: «Il secondo gruppo al quale fui assegnato si riuniva a Hollywood. In questo gruppo c’erano Herbert Biberman, Arnold Manoff, Michael Uris e Leonardo Bercovici. » Tavenner: «Poi venne trasferito a un altro gruppo?» Dmytryk: «Sì, a un gruppo speciale. Eravamo verso la fine dell’Associazione politica comunista. Non so precisamente perché fu organizzato, mi fu detto più tardi che si chiamava “il gruppo di Davis”; avevano cominciato a battezzare i gruppi coi nomi di comunisti famosi. Naturalmente famosi e morti. Il gruppo si riuniva a San Fernando Valley. Era formato da persone di prestigio o supersegrete. Non ho idea dello scopo ultimo, però so che era una cosa segreta. Partecipai a due riunioni: una avvenne a casa di Sidney Buchman, sebbene Sidney non fosse presente. Del gruppo facevamo parte: io, John Howard Lawson, Adrian Scott, uno scrittore chiamato Francis Faragoh, sua moglie Elizabeth Faragoh e una coppia che non avevo mai incontrato prima; lui si chiamava, mi pare, Giorgio Corey, ed era uno scrittore. » […] Tavenner: «Lei ha detto di avere imparato molte cose sul comunismo attraverso il cosiddetto gruppo dei Dieci di Hollywood. Cosa ci può dire di questo?» Dmytryk: «Dopo le udienze tenute qui nel 1947, quando tornammo a Hollywood ci organizzammo in un gruppo che chiamammo i “Diciannove”. Non si trattava di una organizzazione, avevamo semplicemente in comune gli avvocati. Di noi diciannove, dieci furono accusati di oltraggio verso questo Comitato e tra noi accusati organizzammo il gruppo dei Dieci di Hollywood per dividere le spese legali, in quanto eravamo stati ormai quasi tutti licenziati dalle case di produzione. Poiché dovevamo pagare gli avvocati, mettemmo in piedi una campagna per raccogliere fondi, che non ebbe però molto successo. Tuttavia organizzammo pranzi, cene, riunioni, per raccogliere denaro. Dopo le udienze del 1947 tenemmo anche molte riunioni per discutere di quanto stava accadendo. Io stesso ho tenuto un paio di discorsi. Poi lasciai il paese, ormai non potevo più lavorare a Hollywood. Cinque su dieci di noi avevano contratti con gli studios, ma infine fummo tutti licenziati. Andai in Inghilterra a fare un paio di film. Mi recai all’inizio del 1948, e tornai nel 1949, quando fu deciso che il nostro caso sarebbe stato esaminato dalla Corte Suprema, e noi avremmo saputo se dovevamo andare in prigione oppure no. In Inghilterra successe una cosa interessante, dico di Kravcenko, quello che ha scritto un libro sul comunismo russo. » Tavenner: «Viktor Kravcenko?» Dmytryk: «Sì. Aveva scritto il libroHo scelto la liberta ( I Chose Freedom), descrivendo cosa fosse il comunismo russo. Non ho mai letto quel libro, ma un giornale comunista di Parigi scrisse che erano tutte bugie e fu chiamato in giudizio. Io ricevetti un invito a comparire per testimoniare il livello di repressione e di persecuzione vigente negli Stati Uniti. La cosa però non mi parve avere alcun nesso col fatto che Kravcenko avesse detto o meno delle menzogne, e pensai che a ogni modo nessun uomo, anche se ingiustamente colpito, debba sporcare il proprio paese quando è all’estero. Ricevetti tre mandati di comparizione ma li ignorai. Quando tornai a Hollywood, partecipai a molte riunioni e mi accorsi che l’aria era cambiata: adesso quelli del gruppo seguivano completamente le linee guida del Partito comunista. Io sostenevo che poiché combattevamo per la libertà di espressione avremmo

dovuto coinvolgere quanta più gente possibile: liberali, progressisti, gente comune, tutti, in quanto la libertà riguarda tutti. Quando la discussione diventava calda, qualcuno si appellava a Lawson o a Ben Margolis e si finiva sempre per approvare la linea del Partito. Credo che si trovassero prima delle riunioni ufficiali per stabilire l’agenda degli argomenti. » Tavenner: «Quando lei fu citato per comparire davanti a questo Comitato, il Partito comunista intervenne per dirvi come dovevate comportarvi?» Dmytryk: «Probabilmente sì, ma solo adesso posso rendermene conto, pensando al modo in cui erano organizzati i “Diciannove”. Sì, direi sì. » Tavenner: «Ci parli di questo. » Dmytryk: «Io e Adrian Scott ricevemmo le citazioni dal maresciallo degli studi della Rko. Non eravamo in contatto con nessuno allora, e decidemmo che ci serviva un avvocato. Adrian Scott conosceva Bartley Crum, un repubblicano liberale di San Francisco, e decidemmo di contattarlo per chiedergli consiglio. Lui accettò. Gli spiegammo come stavano le cose, gli dicemmo che noi eravamo stati membri del Partito comunista ma che ne eravamo usciti entrambi. Tornati a Hollywood, ci fu chiesto di partecipare a una riunione informale di un gruppo di altre persone che aveva avuto le citazioni in giudizio e che non era molto ben disposto verso il Comitato. Questa riunione fu tenuta a casa di Edward G. Robinson. Lui però non c’era. L’unica ragione per cui si teneva in quella casa era che il senatore Pepper era ospite dei Robinson. Cercavamo di sapere come stavano le cose a Washington. Il senatore parlò in modo vago e vuoto. Alla fine della riunione fummo avvicinati da persone come Herbert Biberman, e ci chiesero di presenziare a una prossima riunione per discutere come procedere per il nostro mutuo vantaggio. Così andammo a un’altra riunione e scoprimmo che si era costituito un pool di avvocati comuni. Poiché eravamo tutti a corto di soldi, ci parve una buona idea. Probabilmente era una cosa preparata, ma allora non ce ne rendemmo conto. A Washington alloggiammo tutti allo Shoreham Hotel, dove ci riunivamo per discutere, non di quello che avremmo detto, ma di questioni finanziarie o politiche. » Tavenner: «Partecipava qualcuno che non era del gruppo?» Dmytryk: «Ne posso ricordare due. Uno era Lee Pressman che tenne un breve discorso informale. » Tavenner: «Argomento del suo discorso?» Dmytryk: «La libertà. Disse che noi eravamo in prima linea in una battaglia per la libertà, e che eravamo sulle barricate. L’altra persona estranea che venne a trovarci fu Harry Bridges. » Tavenner: «Ebbe l’impressione che volessero incoraggiarvi a tener duro nella posizione che avevate assunto?» Dmytryk: «Senza dubbio. » Tavenner: «E il risultato fu che lei si rifiutò di testimoniare?» Dmytryk: «Sì. Eravamo tutti d’accordo su questo. Stavamo battendoci per le libertà civili e il Primo emendamento. Il principio accettato era che il Comitato non si stesse comportando in modo regolare e che l’unico modo per obbligarci a testimoniare fosse quello di chiamarci in giudizio in tribunale su un problema costituzionale. Eravamo sicuri che se fossimo stati citati per oltraggio al Comitato avremmo avuto il proscioglimento davanti alla Corte Suprema. » Tavenner: «Eravate tutti d’accordo su questo rifiuto di testimoniare o c’erano opinioni diverse?» Dmytryk: «Stavamo molto attenti a non discutere di questo in gruppo, per non cadere sotto l’accusa di cospirazione. Come comportarsi di fronte al Comitato doveva essere deciso a livello individuale, con il solo ausilio degli avvocati. I nostri legali diedero lo stesso consiglio a tutti, ma ci furono dei dissensi tra gli stessi avvocati sulla tattica da seguire. Speravamo anche nell’appoggio del cinema di Hollywood. » Tavenner: «Che vuol dire?» Dmytryk: «A Hollywood molti temevano che il Comitato volesse intimidire l’industria e molti si dicevano pronti a testimoniare in nostro favore davanti alla Corte Suprema. » Tavenner: «Prima lei ha parlato di una riunione tenutasi in casa di Edward G. Robinson. Sa se fosse anche lui iscritto al Partito comunista?» Dmytryk: «Per quanto ne so io, no. So che diede un po’ di soldi a organizzazioni comuniste, ma, come molte altre persone, senza sapere che fossero comuniste. Non credo invece che abbia mai dato soldi per la causa dei Dieci di Hollywood. »

Quest’ultima parte della deposizione di Dmytryk la riconosciamo come molto

fedele alla realtà, anche grazie al racconto speculare che si trova in molte autobiografie dei «Diciannove». Tavenner: «Abbiamo un elenco di circa ventiquattro individui che lei ha detto essere comunisti nel corso della sua testimonianza. Uno di questi è Alvah Bessie. » Dmytryk: «Ho detto di una riunione in cui Alvah Bessie parlò del Partito comunista. Aveva combattuto nelle Brigate Internazionali in Spagna ed era un po’ un eroe a quel tempo. Tenne un discorso per arruolarmi e per arruolare chiunque fosse disponibile. » Tavenner: «Arruolarla in cosa?» Dmytryk: «Nel Partito comunista. » […] Tavenner: «Ha partecipato a riunioni del Partito comunista con Richard Collins?» Dmytryk: «Solo la volta che ho detto. Una persona può essere nel Partito comunista da molto tempo e non sapere chi sia comunista, perché questi gruppi sono tenuti abbastanza separati. Non è che ci siano segni segreti o parole d’ordine, però non ho mai sentito qualcuno che si presenti dicendo “salve, sono un comunista”. Così uno può sospettare cinquanta persone o cento persone, ma per esserne certo deve aver lavorato con loro in una qualche riunione. » Tavenner: «Richard Collins testimoniò di essere stato nel Partito comunista a Hollywood per circa nove anni, e di avere presenziato a riunioni due volte la settimana durante tutto quel periodo. E lei non lo ha mai incontrato?» Dmytryk: «Mai, all’infuori della volta che ho detto. » Tavenner: «Sterling Hayden ha detto di aver partecipato a molte riunioni. Lei lo ha mai incontrato?» Dmytryk: «Fui molto sorpreso quando lui ammise di essere un membro del Partito comunista. Non ne avevo idea. » Tavenner: «Larry Parks ha detto di essere un membro del Partito comunista e di avere partecipato a molte riunioni. Anche lui non l’ha mai incontrato?» Dmytryk: «No. Anzi ero convinto che Larry Parks fosse uno dei pochi dei “Diciannove” a non essere comunista. » Tavenner: «La signora Meta Rosenberg è un’altra che ha testimoniato di avere partecipato a un certo numero di riunioni. L’ha mai incontrata?» Dmytryk: «No, mai. » Tavenner: «Le ventiquattro persone che lei ha nominato sono persone di cui lei è certo che siano comunisti?» Dmytryk: «Sì. » Tavenner: «Quando si ritirò dal Partito?» Dmytryk: «Nell’autunno del 1945. Però insegnai al People’s Education Center fino al 1947. Ero un membro dei Dieci di Hollywood. Così decisi di non rompere ma correre il rischio fino in fondo, fino al processo davanti alla Corte Suprema, per sapere se avevamo ragione o torto e se dovevamo andare in galera. Ma anche prima della condanna avevo già deciso di rivelare che ero stato membro del Partito comunista. Non ho voluto farlo prima di aver terminato di scontare la condanna. Rilasciai tuttavia una dichiarazione mentre ero in prigione perché la guerra di Corea mi colpì profondamente. » Tavenner: «A chi diede questo documento?» Dmytryk: «Agli avvocati Bartley Crum e Milton Diamond. Feci la mia deposizione in presenza del signor Thieman, che è il sovrintendente della prigione di Mill Point. Ho sentito dei pettegolezzi per cui io avrei fatto la rivelazione perché la Mgm mi aveva offerto un lavoro con una paga di 5 mila dollari la settimana, oppure che avevo avuto delle pressioni da non comunisti. Non è vero. Nessuno mi ha fatto alcuna pressione, né mi ha offerto un premio se confessavo la mia appartenenza al Partito comunista. » Tavenner: «Quindi la sua testimonianza è dettata solo dalla sua coscienza?» Dmytryk: «Esclusivamente dalla mia coscienza, signore. » Walter: «Signor Dmytryk, è consolante che ci sia gente che voglia aiutare i nostri deboli sforzi e dare un contributo in questa lotta mondiale contro il comunismo. Io credo che lei oggi abbia dato un grande contributo. » Dmytryk: «Grazie. »

All’indomani della sua confessione, Dmytryk fu messo alla berlina dai suoi ex compagni ed ex amici. Al di là del biasimo espressogli direttamente o indirettamente dagli altri nove di Hollywood, l’artista fu bersagliato

soprattutto da articoli di giornale apparsi tanto nelle riviste specializzate quanto nella stampa quotidiana. Per tutti ricordiamo il pezzo a firma di David Platt sul «New York Daily Worker» del 15 novembre 1951: Il regista Edward Dmytryk, ex membro dei Dieci di Hollywood divenuto informatore dell’Fbi, è ora culo e camicia con il suo vecchio nemico Adolphe Menjou, già rabbioso cacciatore di streghe e gentiluomo da due centesimi. Quattro anni or sono, Menjou s’inventò prove di attività comuniste a Hollywood davanti alla Commissione per le attività antiamericane, Commissione che perseguitò Dmytryk e altri nove artisti fino a spedirli in prigione per un anno. Ora Dmytryk e Menjou sono nuovamente insieme, stavolta da amici. Menjou ha il ruolo principale inNessuno mi salverà( The Sniper, 1952), che Dmytryk, dopo aver cambiato idea sulla guerra ed esser tornato nei favori del Grande Capitale, sta dirigendo per la Stanley Kramer Productions. 63

A queste critiche, piuttosto ricorrenti, lo stesso Dmytryk ritenne di rispondere nella sua biografia, ricordando di 1) non aver mai parlato con nessuno dell’Fbi; 2) che l’aver lavorato con Menjou era diverso dall’essere «culo e camicia» con lui; 3) di non essere mai stato a favore della guerra di Corea, come del resto dimostrato da diversi miei successivi film; 4) di non essere di certo rientrato nei favori del «Grande Capitale», benché non avessi nulla da ridire sui termini del mio contratto perNessuno mi salverà. 64

Lo stesso Menjou dovette sopportare gli attacchi dei suoi amici anticomunisti per avere concesso a un «rosso», benché pentito, la grande occasione del rilancio nel cinema che contava. Come ricorda ancora Dmytryk in Odd Man Out: «Quando l’ennesimo degli amici di Menjou lo rimproverò pubblicamente durante un party: “Adolphe, come fai a lavorare con un ex comunista!?”, l’attore adottò un’interessante difesa: “Perché sono una mignotta!”, e la cosa tagliò la testa al toro»65. Una prova a contrario dell’esistenza di una ferrea lista nera anticomunista, è che pochi mesi dopo la sua seconda deposizione, il regista d’origine canadese rientrò (gradualmente) a pieno nel mondo del grande cinema. Viceversa, gli altri testimoni ostili – lo vedremo nel prossimo capitolo – una volta rilasciati si trovarono schedati e impossibilitati a trovare lavoro a Hollywood. Dovettero arrangiarsi per sbarcare il lunario, chi scrivendo per il teatro, chi lavorando fortemente sottopagato per piccole produzioni indipendenti, chi cambiando radicalmente di settore. I film importanti che impegnarono Dmytryk dopo la seconda udienza furono L’ammutinamento del Caine (The Caine Mutiny, 1952), I giovani leoni (The Young Lions, 1958), L’ultima notte a Warlock (Warlock, 1959). Tutti di carattere commerciale e piuttosto distanti dai soggetti di ricerca nei quali il regista si era espresso prima del 1947, confermando che, come dice la Muscio, «dal 1951 Dmytryk aveva scelto la strada della sicurezza, evitando il rischio e il coraggio anche in campo artistico»66. Non è quantificabile ciò che i Dieci67 non poterono scrivere, dirigere o produrre a causa della schedatura. La cosa su cui non si possono avere dubbi è che le capacità creative dell’industria cinematografica americana dopo le inchieste dell’Hcua furono notevolmente compromesse. Molti altri testimoni scelsero la strada più semplice per allontanare qualunque sospetto di sedizione o di comunismo, decidendo di collaborare pienamente con l’indagine dell’Hcua, senza riservarsi di fare i nomi di uno, dieci, cento colleghi ed ex compagni di partito.

4.9. La deposizione volontaria del pentito Elia Kazan Ora approfondiamo la situazione di un altro grandissimo pentito: il celeberrimo regista Elia Kazan, che contribuì in modo determinante alla schedatura di decine di altri artisti. A differenza del regista canadese, Kazan non fu mai condannato per oltraggio alla Commissione, né finì mai in carcere per le sue deposizioni. Fu ascoltato una prima volta nel gennaio del 1952 in sessione esecutiva, ossia a porte chiuse. Anche se di questa testimonianza non sono disponibili verbali, in quell’occasione Kazan ammise la sua iscrizione al Partito comunista per un periodo di 19 mesi a cavallo tra il 1934 e il 1936, ma si rifiutò di fare i nomi di altre persone a lui note come compagni di partito. Non potendosi più appellare al Quinto emendamento, un simile rifiuto poteva costituire un’accusa di vilipendio, e quando la prospettiva della lista nera si fece più reale, Kazan si presentò volontariamente nell’aprile dello stesso anno una seconda volta davanti all’Hcua, pronto a rispondere a tutte le domande: Sono giunto alla conclusione che ho sbagliato a non fare prima questi nomi, perché la segretezza è utile ai comunisti, ed è esattamente quel che essi desiderano. Il popolo americano deve sapere i fatti e tutti i fatti, riguardo tutti gli aspetti del comunismo, per prendere provvedimenti saggi ed efficaci. È mio dovere di cittadino dire tutto quello che so. 68

Così, dopo avere specificato nuovi aspetti della sua militanza comunista, e in particolare i motivi per cui decise di allontanarsi dal Partito, passò senza esitazione a fare i nomi di otto comunisti del Group Theatre, quattro capi della Lega dei lavoratori teatrali e tre funzionari del CpUsa69. Infine, descrivendo sommariamente i contenuti dei propri film, Kazan mantenne una linea di basso profilo, negando qualunque intenzione di critica sociale o seconda lettura delle proprie opere. Licenziato dall’Hcua con i ringraziamenti dei commissari, il regista si dedicò nello stesso 1952 a girare Fronte del porto (On the Waterfront), metafora fin troppo evidente dell’informatore trasformato in eroe. Inoltre, il giorno dopo la sua deposizione, fece pubblicare sul «New York Times» una lettera aperta nella quale spiegava il perché del suo gesto: Nelle settimane passate sono circolate a New York e Hollywood intollerabili voci sulla mia posizione politica. Voglio allora rendere chiaro che: Credo che le attività comuniste mettano le persone di questa nazione davanti a un problema senza precedenti ed eccezionalmente difficile. Ossia, come proteggerci da una cospirazione straniera pericolosa e riuscire a conservare quello stile di vita sano, aperto e libero che ci garantisce rispetto per noi stessi. Credo che il popolo americano possa risolvere questo problema saggiamente solo conoscendo i fatti sul comunismo. Tutti i fatti. Ora, credo che qualunque americano che sia a conoscenza di tali fatti abbia l’obbligo di renderli noti, sia al pubblico che alle appropriate agenzie federali. Se anche vi sia isteria – e ve n’è, specialmente a Hollywood – è alimentata dal mistero, dal sospetto e dalla segretezza. Fatti concreti e puntuali potranno raffreddarla. I fatti di cui io sono a conoscenza sono vecchi di sedici anni, ma forniscono un pezzettino dell’insieme della figura sepolcrale del comunismo d’oggi. Ho raccontato questi fatti davanti alla Commissione per le attività antiamericane senza riserve e le racconto ora davanti al pubblico e davanti ai miei colleghi di lavoro del cinema e dello spettacolo. Diciassette anni e mezzo fa ero un giovane manager ventiquattrenne che faceva qualche comparsata da attore, guadagnando 40 dollari alla settimana, quando lavoravo. A quel tempo, quasi tutti ci sentivamo minacciati da due cose: la depressione e il crescente potere di Hitler. Le strade erano piene di uomini disoccupati e scossi. Fui rapito dalla

versione diTempi moderni che rappresenta bene la tecnica di reclutamento e di pubblicizzazione dei Comunisti. Loro sostenevano di avere una soluzione per la Depressione e una soluzione per il nazismo e il fascismo. Ho aderito al Partito comunista nella tarda estate del 1934. Ne sono uscito un anno e mezzo dopo. Non ho storie di spionaggio da raccontare, perché non ho visto alcuna spia. Né capivo, a quel tempo, le opposizioni tra gli interessi nazionali americani e russi. Non mi era chiaro nel 1936 neanche che il Partito comunista americano prendesse ordini dal Kremlino. Quello che scoprii fu il minimo che chiunque debba capire quando metta la testa nel cappio della «disciplina» di partito. I comunisti automaticamente violavano le quotidiane pratiche democratiche alle quali ero abituato. Tentavano di controllare il pensiero e di sopprimere l’opinione personale. Cercavano di dettare la condotta personale. Distorcevano, frammentavano e calpestavano la verità. Tutto ciò era totalmente opposto alle loro dichiarazioni di «democrazia» e di «approccio scientifico». Essere un membro del Partito comunista vuol dire avere gusto per lo stato di polizia. È un gusto diluito, ma amaro e indimenticabile. È diluito perché puoi lasciare il Partito. Io me ne sono andato via nella primavera del 1936. La domanda che mi sarà fatta è perché non abbia raccontato questa storia prima. Sono stato trattenuto, in primo luogo, dalla preoccupazione per le reputazioni e l’occupazione delle persone che possano, come me, aver lasciato il Partito molti anni fa. Sono stato anche frenato da un tipo di ragionamento silenzioso che ha fatto tacere molti liberali. Dice: «Puoi anche odiare i comunisti, ma non devi attaccarli o denunciarli, perché se lo fai attacchi il diritto di avere opinioni impopolari e ti unisci a coloro che attaccano le libertà civili». Ho pensato con calma a questo. Ed è, semplicemente, una bugia. La segretezza serve ai comunisti. D’altra parte, serve a coloro che hanno interesse a far tacere le voci liberali. L’impiego di molti buoni liberali è minacciato perché sono giunti a schierarsi e a essere associabili ai comunisti, o essere da loro ridotti al silenzio. I liberali devono parlare. Credo sia utile che alcuni di noi abbiano avuto questo tipo di esperienza coi comunisti, perché se non fosse accaduto non saremmo giunti a conoscerli così bene. Oggi, quando tutto il mondo teme la guerra e loro gridano per la pace, sappiamo quanto valgano le loro professioni di fede. Sappiamo che domani avranno un nuovo slogan. L’esperienza in prima persona di cosa sia la dittatura e il controllo del pensiero mi ha lasciato dentro un forte odio nei loro riguardi. Un grande disprezzo della filosofia comunista e dei metodi e obblighi che impone. Mi ha anche lasciato l’appassionata convinzione che non dobbiamo mai permettere ai comunisti di propagandare cose per le quali nei loro paesi la gente è assassinata. Parlo della libertà di parola, di stampa, dei diritti della proprietà, dei diritti del lavoro, di uguaglianza razziale e, soprattutto, dei diritti individuali. Io do valore a queste cose. Le prendo sul serio. Do valore alla pace, quando non è comprata a prezzo delle decenze fondamentali. Credo che per queste cose si debba combattere se non sono pienamente onorate e protette, quando siano minacciate. I film che ho fatto e le commedie che ho scelto di dirigere rappresentano le mie convinzioni. Mi aspetto di continuare a fare lo stesso tipo di film e di dirigere lo stesso tipo di commedie. 70

Se da un lato con la deposizione volontaria Kazan si era messo in salvo dalla probabile schedatura, e aveva potuto subito riprendere a lavorare, dall’altro ciò gli costò l’amicizia e la collaborazione di personaggi prestigiosi, come l’autore teatrale Arthur Miller, col quale vi era una prolifica cooperazione artistica. Ancora pochi anni fa, a distanza di mezzo secolo dalle sue delazioni, sono sorte forti polemiche circa la decisione dell’Academy di assegnargli il premio Oscar alla carriera71. Il motivo di tanta acrimonia è, come sostiene Navasky, che Kazan era il personaggio più ricco e famoso di tutti i sospettati, dunque probabilmente l’unico a potere sfidare la Commissione sbaragliando la lista nera già nel 1952. A onor del vero, c’è da ricordare che il regista di origine greca resistette quattro anni alle pressioni dell’Hcua, e decise di

piegarsi solo nel 1952, quando deve aver pensato che i tempi si allungassero troppo. A tutt’oggi, l’artista non ha voluto rilasciare interviste o dichiarazioni riguardo quell’epoca, a parte quanto dettato al suo agiografo Michel Ciment, al quale ha spiegato come fosse stato difficile prendere la decisione, dal momento che sapeva di porsi contro molti suoi colleghi e amici. In definitiva, ha detto Kazan, «ho agito per il meglio, o per quello che le mie convinzioni mi facevano vedere come il meglio». La reazione di chi fu denunciato dal regista di Fronte del porto è ben riassunta dalla risposta di Tony Kraber, un cantante del gruppo teatrale chiamato davanti alla Commissione la settimana successiva; alla domanda se conoscesse Kazan: «È il Kazan che ha firmato quel contratto da 500. 000 dollari il giorno dopo aver fatto i nomi davanti a questa Commissione?»72.

4.10. Il ritorno di Ronald Reagan Al di là delle effettive nuove convinzioni di Kazan, è un fatto che chiunque volesse continuare a lavorare a Hollywood senza problemi non poteva più permettersi di non scegliere da che parte stare. La Screen Actors Guild, lo fece in modo molto chiaro, eleggendo alla sua presidenza Ronald Reagan, già informatore segreto dell’Fbi (vi era entrato su consiglio di suo fratello, agente federale, che vedeva la Sag come un’organizzazione potenzialmente pericolosa sinché fosse stata piena di «rossi»). Il 30 luglio 1951 Reagan riassunse in un articolo dal titolo Reds Beaten in Hollywood per «Citizen News» la politica adottata dal Sindacato attori sotto la sua direzione: Il comunismo ha fallito a Hollywood perché la stragrende maggioranza dei membri della Screen Actors Guild, della Screen Extras Guild [Sindacato comparse, N. d. A. ], e delle gilde degli scrittori e dei registi è ed è sempre stata contro il comunismo. Giorno dopo giorno, in queste udienze della Commissione per le attività antiamericane abbiamo assistito alla stessa storia di frustrazione e fallimento comunista; tentavano di impadronirsi del controllo di sindacati e gilde, attraverso cui avrebbero poi cercato di determinare i contenuti dei film per influenzare le menti di 80 milioni di spettatori. Il successo della nostra vittoria è davvero rimarchevole, poiché Hollywood è stata per tanti anni un obiettivo primario della propaganda dei rossi e degli altri cospiratori della nazione. Cercavano di applicare gli ordini di Stalin, che ha detto: «Il cinema non è solo un mezzo per l’educazione e l’indottrinamento politico dei lavoratori, ma anche un ottimo canale per raggiungere le menti della gente di tutto il mondo. La Kinofikatsiya [introdurre propaganda nei film, N. d. A. ] è inevitabile. Il compito è di prendere in mano questa teoria e applicarla ovunque». Così i nemici rossi della nostra nazione hanno concentrato le loro armi su Hollywood. E hanno fallito completamente. Ma non prima di essere riusciti per due anni a scatenare disastrosi scioperi e sanguinose battaglie nelle quali lavoratori americani hanno menato altri lavoratori americani davanti ai cancelli degli studios. E non prima, sfortunatamente, di essere riusciti a convincere qualche leale americano a credere che il Partito comunista cercasse di organizzare un mondo migliore. Questi sciocchi sanno oggi che il vero obiettivo del Partito comunista americano è di preparare la strada alla conquista sovietica del mondo. I membri della Screen Actors Guild sono giustamente orgogliosi del ruolo chiave che hanno avuto nel determinare la sconfitta della cospirazione comunista a Hollywood. In realtà, ci sono stati pochissimi attori a Hollywood che hanno aderito al Partito comunista. Ma ce ne sono stati diversi che sono stati ingannati molti anni fa e hanno versato denaro o autorizzato a impiegare i loro nomi in favore di organizzazioni guidate da comunisti. […] Le hanno tentate tutte per condizionare gli studios coi loro scioperi, ma gli attori, guidati dall’ufficio di presidenza della Screen Actors Guild li ha combattuti e combattuti. Li abbiamo contrastati in pubblico e in privato, nelle assemblee e dietro le quinte. I nostri nemici rossi sono giunti anche a minacciare attentati a base di acido da gettare sul

volto di chi si opponeva, in modo da «non poter recitare mai più». Sono stato personalmente minacciato, e ho dovuto girare armato per alcuni anni, con la polizia in casa a difendere i miei figli. Ma questo era più di cinque anni fa, e quei giorni sono passati per sempre, assieme ai progetti dei rossi. I comunisti non potranno mai più sperare di ottenere qualcosa nella capitale del cinema. E mi sembra di poter dire che ora si stanno concentrando in altri settori, dai quali saranno presto scacciati. Qualunque americano che sia mai stato membro del Partito comunista e che abbia oggi cambiato idea, dovrebbe sentire l’obbligo di alzarsi in piedi per farsi contare; dovrebbe ammettere: «Ho sbagliato» e dare tutte le informazioni richieste alle agenzie federali che combattono i complotti rossi. Ci siamo liberati dai cospiratori comunisti a Hollywood. È ora di scacciarli dagli altri settori!

Rispetto alla sua deposizione del 1947 di fronte alla Commissione per le attività antiamericane, Reagan aveva indurito di molto la sua posizione. Le affermazioni dal sapore liberale, tese a temperare gli inviti all’anticomunismo radicale dei membri della Commissione, avevano lasciato il passo a queste dichiarazioni militanti di totale chiusura e opposizione nei confronti dell’ideologia comunista. Come lui stesso spiegò: «In passato mi sono fatto usare in modo sprovveduto per attività che poi si sono rivelate comuniste. Ma pian piano ho visto le cose con disincanto, o forse farei meglio a dire che mi sono risvegliato, ho aperto gli occhi sulla rigenerazione del mondo»73. Bisogna riconoscere che il nuovo furore antirosso del futuro Presidente degli Stati Uniti rimase coerente fino agli anni ’80, quando, durante i suoi due mandati, giocò un ruolo fondamentale nella sfida ideologica finale all’Urss.

4.11. La deposizione di Lillian Hellman Tornando alle deposizioni degli artisti chiamati davanti alla Commissione, il caso di Lillian Hellman merita di essere analizzato nella sua unicità. Lillian Hellman era la commediografa più prestigiosa d’America. Una donna puritana, borghese, di buona famiglia, considerata non solo nei suoi ambienti come una figura di classe, un alto esempio di intellettuale. Pur convivendo con lo scrittore comunista Dashiell Hammett, era rimasta di idee liberali e aveva sostenuto la campagna presidenziale di Henry Wallace, il fondatore di quel Partito progressista che si poneva l’obiettivo di rompere lo schema bipartitico statunitense. La storia degli Stati Uniti presenta ciclicamente la nascita di terze forze, più o meno strutturate, che tentano di spezzare il duopolio elettorale dei partiti consolidati, ma queste forze non sono praticamente mai riuscite nel loro intento soprattutto a causa del sistema elettorale maggioritario e della forma di governo federale. Tra i vari tentativi terzaforzisti, probabilmente quello del Partito progressista di Wallace fu uno dei meno riusciti. La sua struttura era sostanzialmente quella del Partito comunista americano, e questo fatto rappresentò una vera lama a doppio taglio, dal momento che fu l’argomento più gettonato da parte non solo dei repubblicani ma anche dei democratici per rispondere agli attacchi di Wallace e dei suoi liberals. Nel suo libro di memorie74, Lillian Hellman ha lasciato una emozionante testimonianza di quello che le accadde quando la Commissione per le attività antiamericane decise di chiamarla al banco delle udienze nel 1952. Quando le

arrivò l’invito di comparizione, diversi suoi amici erano dovuti passare per quel banco, e nessuno se l’era cavata in modo positivo. Molti di loro, tra cui Kazan, del quale la commediografa era ottima conoscente, si erano piegati, come abbiamo visto, ad abiurare ai loro diritti costituzionali e avevano fatto i nomi di diversi sospettati di comunismo. Chi aveva voluto tenere testa alla Commissione, stava scontando mesi di prigione per vilipendio al Congresso, e aveva dovuto pagare forti indennità, oltre all’inserimento di prammatica nella lista nera. Tra questi, vi era anche lo stesso compagno della Hellman, Dashiell Hammett. Due inviti a comparire davanti all’Hcua nella stessa coppia non erano una novità assoluta, ma rappresentavano pur sempre una seria minaccia alla stabilità finanziaria di quella famiglia, se non addirittura alla sua indissolubilità. La Hellman, quando ricevette la comunicazione, fu perciò colta da una silenziosa disperazione, perché vide improvvisamente in pericolo le fatiche di una vita. Da liberale, inoltre, non avrebbe avuto difficoltà a scaricare qualunque addebito circa una sua presunta iscrizione al CpUsa, cosa che infatti non era mai avvenuta. Ma gli ideali della scrittrice le impedivano di mettersi totalmente al servizio della Commissione, della quale la Hellman si sentiva una nemica giurata. Così, consultandosi con il suo amico avvocato Fortas, difensore anche di Owen Lattimore, concordarono una linea di difesa nuova, simile a quella attuata dallo sceneggiatore e produttore esecutivo comunista Sidney Buchman75 , che segnò un primo punto in favore degli oppositori alle indagini contro i comunisti. Riportiamo il breve passo del diario a riguardo: La sua sensazione [dell’avvocato Fortas, N. d. A. ] era questa: secondo lui era arrivato il momento, il momento perfetto, che qualcuno prendesse una posizione morale davanti a queste vergognose commissioni del congresso anziché affidarsi alla scappatoia legale del Quinto emendamento. Per Fortas la posizione morale era in sostanza quella di dire: testimonierò su me stessa, risponderò a tutte le vostre domande sulla mia vita, ma non vi dirò niente di nessun altro, né estraneo né amico. Fortas pensava che io potevo essere la persona giusta per dire così, perché, francamente, sapevo ben poco degli iscritti al Partito comunista. […] Volevo dirgli che la posizione morale di mio gusto sarebbe stata di dichiarare: «Siete un mucchio di arrivisti, e usate a vostro vantaggio la vita altrui. Sapete benissimo che quelli che avete convocato non hanno mai fatto praticamente nulla, ma con le intimidazioni e la prepotenza ne avete costretti molti a mentire su colpe che non avevano mai commesse. E allora andatevene al diavolo, e per quello che mi riguarda fate ciò che volete». Non dissi a Fortas niente di tutto questo perché sapevo che non sarei mai stata capace di dirlo. 76

Così, nel maggio 1952 la Hellman e il suo avvocato difensore Mr. Rauh collaborarono alla stesura di una lettera da spedire alla presidenza di John S. Wood, nell’intenzione di stabilire dei limiti a quel che sarebbe stato l’interrogatorio della Commissione. Riportiamo la lettera integralmente, per il valore documentale che ha assurto a testimonianza del clima psicologico al quale andarono incontro i cittadini americani chiamati dinanzi alla Commissione: 19 maggio 1952

Onorevole John S. Wood Presidente della Commissione della

Camera per le attività antiamericane Stanza 226. Old House Office Building Washington 25, Dc Egregio signor Wood, come lei sa ho ricevuto l’ingiunzione di comparire il 21 maggio 1952 davanti alla vostra Commissione. Sono pronta a rispondere a tutte le domande che mi riguardano. Non ho nulla da nascondere alla Commissione e nella mia vita non c’è nulla di cui io mi vergogni. Il mio legale mi informa che invocando il Quinto emendamento ho il diritto costituzionale di rifiutarmi di rispondere alle domande che riguardino le mie opinioni, le mie attività e i miei legami politici, perché con le mie risposte potrei autoincriminarmi. Non voglio invocare questo diritto. Sono pronta a deporre davanti ai rappresentanti del nostro governo su tutto ciò che riguarda le mie opinioni e le mie azioni, senza tener conto dei rischi e delle conseguenze che ne possano derivare. Ma l’avvocato mi dice che se rispondo alle domande che riguardano me stessa, devo rispondere anche alle domande che riguardano altre persone, e che se mi rifiuto di farlo posso essere denunciata per vilipendio. L’avvocato mi dice inoltre che se rispondo alle domande che mi riguardano, rinuncio automaticamente ai diritti che mi garantisce il Quinto emendamento, e che quindi potrei essere costretta per legge a rispondere alle domande che riguardano altri. Questa, per un profano, è una cosa molto difficile da capire. Ma c’è un principio che io capisco: non sono disposta, né oggi né mai, a mettere in gravi difficoltà delle persone che al tempo in cui ci frequentavamo non hanno mai fatto discorsi né compiuto atti sleali o sovversivi. Non amo la sovversione e la slealtà sotto nessuna forma, e se ne fossi stata testimone avrei considerato mio dovere denunciarle alle autorità competenti. Ma danneggiare persone innocenti, conosciute molti anni fa, per salvare me stessa è una cosa che considero disumana, incivile e disonorevole. Non posso e non voglio mutilare la mia coscienza per adattarla alla moda di quest’anno, anche se da molto tempo ho finito col convincermi che non sono un animale politico e che non potrei sentirmi a mio agio in nessun gruppo politico. Sono stata cresciuta secondo una vecchia tradizione americana e mi sono state insegnate alcune cose molto semplici: cercare di dire la verità, non giurare il falso, non far del male al mio prossimo, essere fedele al mio paese e così via. Generalmente ho sempre rispettato questi ideali di onore cristiano e a essi mi sono attenuta come meglio ho saputo. Sono convinta che voi concorderete con queste semplici regole di umana creanza e non vi aspetterete che io trasgredisca alla sana tradizione americana da cui esse derivano. Vorrei dunque comparire davanti a voi per parlarvi di me. Sono pronta a rinunciare al diritto di non parlare per evitare l’autoincriminazione e sono pronta a dirvi tutto quello che volete sapere sulle mie idee e sulle mie azioni se la vostra Commissione si asterrà dal chiedermi di fare dei nomi. Se la Commissione non è disposta a darmi questa assicurazione, all’udienza sarò costretta ad appellarmi al Quinto emendamento. Vi sarò grata se vorrete rispondere a questa lettera. In fede,

Lillian Hellman77 Il giorno dopo, puntuale, arrivò la risposta del presidente Wood: Cara signorina Hellman, rispondiamo alla sua lettera del 19 maggio 1952, nella quale ci informa che in caso la Commissione le rivolga domande sui suoi rapporti con altre persone, lei si sentirà obbligata a non rispondere, avvalendosi del Quinto emendamento. A questo proposito, la prego di considerare che la Commissione non può permettere ai testimoni di stabilire da soli le condizioni entro le quali saranno chiamati a rispondere.

Siamo riusciti in passato a raccogliere molte utili informazioni da persone che lavorano nello spettacolo e che han voluto cooperare pienamente con la Commissione. La Commissione apprezza qualunque informazione che le provenga da chi è stato membro del Partito comunista. La Commissione, ovviamente, capisce che un gran numero di individui che sono stati iscritti un tempo al CpUsa non credevano che potesse essere un’organizzazione sovversiva. Tuttavia, va sottolineato che i contributi resi al Partito comunista da persone che non erano di per sé sovversive ha reso possibile per quei membri che lo erano e che lo sono tutt’ora di portare avanti i loro progetti. La Commissione ha provveduto a fornire udienza a tutti coloro all’interno del campo dell’intrattenimento identificati come comunisti per chiarire se facessero ancora parte del Partito oppure no. Qualunque persona da lei identificata durante lo svolgimento dell’audizione avrà la possibilità di apparire davanti alla Commissione in accordo con la politica da noi seguita. Sinceramente vostro,

Presidente John S. Wood78 L’indomani, il 21 maggio 1952, l’audizione davanti all’Hcua della più famosa scrittrice d’America ebbe inizio. Dopo le iniziali domande di prammatica tese a identificare la testimone e la sua attività artistica, alle quali la Hellman rispose completamente come aveva dichiarato nella sua lettera, l’interrogatorio entrò nella sua fase calda: […] Tavenner: «Quando andò a Hollywood?» Hellman: «Per la prima volta vi andai nel 1930 e lavorai per la Mgm in qualità di lettrice e traduttrice, per lo più lettrice. Vi ritornai nel 1935, credo, per il primo lavoro da sceneggiatrice. Scrissi anche un film chiamatoStrada sbarrata( Dead End, 1937, di William Wyler) di cui non conservo ricordi particolari. » Tavenner: «Per quanto tempo si fermò a Hollywood allora?» Hellman: «Non saprei. Circa quattro o cinque mesi. » Tavenner: «E quale fu la successiva occasione per un viaggio a Hollywood?» Hellman: «Credo l’adattamento di Quelle due ( The Children Hour, 1962, di William Wyler), probabilmente nel 1936. Non sono sicura di queste date. » Tavenner: «Per quanto tempo si fermò a Hollywood nel 1936?» Hellman: «Più o meno per lo stesso periodo. Non ho mai vissuto veramente a Hollywood. Ci stavo per due o tre mesi e poi partivo. Credo che il periodo più lungo che vi ho trascorso è stato di 6, 7 mesi nel 1937 o nel 1938. » […] Tavenner: «Nel corso del suo soggiorno a Hollywood conobbe Martin Berkeley?» Hellman: «Devo rifiutare di rispondere a questa domanda, in base al fatto che potrebbe portare alla mia incriminazione. » […] Tavenner: «Durante le udienze in California del 1951, Martin Berkeley ha testimoniato a riguardo di una riunione del Partito comunista tenutasi a casa sua nel giugno del 1937. Pare, a quanto ci disse, che si trattasse di uno degli incontri iniziali per l’organizzazione del Partito comunista a Hollywood. Le leggo la testimonianza: “ Tavenner: ’Vorrei che ora ci dicesse quando e dove fu organizzata la sezione di Hollywood del CpUsa. ’ “Berkeley: ’Per una strana coincidenza, la sezione fu organizzata a casa mia. Dal momento in cui ero giunto a Hollywood a gennaio il Partito era cresciuto molto rapidamente. Jerome stava lavorando sodo, come anche Mike Pell e Lou Harrys, e tutti noi ci davamo da fare per reclutare nuovi membri. Ci rendemmo conto – a quel tempo non c’era ancora una vera organizzazione – che pur essendo membri del Partito non avevamo un posto per riunirci. Non vi erano ancora dei gruppi costituiti, c’erano solo poche associazioni di studio ed era tutto. Sentivamo di essere numericamente abbastanza forti da avere una nostra organizzazione che chiamammo la Sezione di Hollywood. A metà giugno 1937, si tenne una riunione a casa mia. La scegliemmo perché aveva un salotto grande e molto spazio per parcheggiare, era sul Beverly Glenn, che a quel tempo era ancora campagna, e il contratto di affitto scadeva di lì a due giorni. La riunione riuscì molto bene. Avevamo l’onore della presenza di alcuni funzionari della città e gli animi erano alti. ’

“Tavenner: ’Vorrebbe dirci i nomi di alcuni tra quelli che parteciparono a questa riunione, che erano membri del Partito comunista?’ “ Berkeley: ’Oltre a Jerome e a altri di cui vi ho già detto, vorrei aggiungere persone nuove: Eva Shafran, che era allora direttrice del settore educativo della contea, che poi è morta. Harry Carlisle, che sta per essere espulso dal paese, cosa di cui sono molto contento. Era suddito inglese. Dopo che Stanley Lawrence rubò i fondi del Partito e per farsi perdonare andò in Spagna a farsi accoppare, ci mandarono Harry Carlisle, che avrebbe dovuto tenere le lezioni di marxismo. Egli era presente a quell’incontro. C’erano anche Donald Ogden Stewart, Dorothy Parker, anche lei una scrittrice, e suo marito, Allen Campbell. Il mio vecchio amico Dashiell Hammett, che ora è in prigione a New York, per le sue attività. E quell’eccellente scrittrice di teatro, Lillian Hellman. ’” Signorina Hellman, alla luce di questa testimonianza, desidero chiederle se lei concorda o meno con la correttezza di tali affermazioni, e se no, perché; e se lei ha partecipato a quest’incontro come sostenuto sotto giuramento da Martin Berkeley. Poi vorrei chiederle alcune cose in merito alle attività delle persone che erano presenti. Prima di tutto, queste affermazioni sono vere?» Hellman: «Mi piacerebbe molto discuterne con lei, signor Tavenner, e a questo punto la rimando alla lettera che vi ho scritto. Ho un gran desiderio di discutere queste cose. Per essere onesta con me stessa, credo di aver faticato molto scrivendo questa lettera, e molto seriamente. Vi chiedo nuovamente di considerare ciò che vi ho scritto. »

La scrittrice temeva che la sua lettera fosse riconosciuta non pertinente con l’inchiesta, come era accaduto per le testimonianze dei Dieci, e la sua voce tradì questa paura, come ricorda il suo avvocato che aveva confidato molto sull’effetto di quella dichiarazione alla stampa. Presidente Wood: «Allo scopo di rendere più chiaro il resoconto ufficiale, signor avvocato, a questo punto sarebbe bene mettere agli atti la corrispondenza che c’è stata fra la teste e me, in qualità di Presidente di questa Commissione. » Tavenner: «Ho qui la lettera della signorina Hellman, indirizzata al Presidente e datata 19 maggio 1952, e una copia della risposta a cura del Presidente, del 20 maggio 1952. Noto che la stampa ne sta distribuendo delle copie. Da chi vengono distribuite queste copie?» Avv. Rauh: «Da me, signor Tavenner. Ho pensato che dato che voi le avete messe agli atti, non si trattasse di un gesto inappropriato. »

Quella mossa spiazzò l’intera Commissione. Era la prima volta che la stampa poteva disporre di una dichiarazione che fissava dei precisi paletti alle domande degli inquirenti. La Hellman acconsentiva a rinunciare ai suoi diritti di segretezza riguardo le opinioni politiche per non porsi in condizione di essere accusata di vilipendio alla Commissione, ma era inflessibile sul concetto di non volersi rendere complice dell’operato dell’Hcua. Da vera liberale, non avrebbe denunciato nessuno in virtù delle sue opinioni. Mentre i fogli della lettera passavano di mano in mano, nel folto pubblico dei giornalisti si udì distintamente una voce: «Grazie a Dio, finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di farlo!», che fece andare su tutte le furie il presidente Wood: «Silenzio! Non sono ammessi commenti a testimonianza in corso da parte di nessuno. Se la cosa si ripete dovrò far sgombrare la stampa dall’aula!». E la stessa voce, ancora più indisponente: «Lo faccia!» Era a quel punto chiaro anche per la Hellman che la sua lettera era stata ben accolta dai giornalisti, cosa di cui non era affatto sicura. Questo fatto, ha scritto, le dette nuova energia per continuare l’interrogatorio. Tavenner: «La lettera della signorina Hellman dice quanto segue: ( È data lettura della lettera e della risposta della presidenza). Ora le è stato chiesto se ha partecipato o meno a questa riunione del Partito comunista, descritta da Martin Berkeley. » Hellman: «Rifiuto di rispondere perché potrebbe risultare incriminante per me. » Tavenner: «Conosceva J. Jerome?» Hellman: «Rifiuto di rispondere per gli stessi motivi. » Tavenner: «Conosceva John Howard Lawson?»

Hellman: «Rifiuto di rispondere per gli stessi motivi. » Tavenner: «È membro del Partito comunista ora?» Hellman: «No. » Tavenner: «È stata iscritta al Partito comunista?» Hellman: «Rifiuto di rispondere per gli stessi motivi. » Presidente Wood: «Vediamo se possiamo darci una mano vicendevolmente. Lei ha appena testimoniato di non essere iscritta al Partito comunista al momento attuale. A motivo del fatto che ciò potrebbe incriminarla, si è rifiutata di rispondere se è mai stata iscritta al Partito in passato. Ciò che vorrei sapere è se lei può fissare una data, un periodo dell’immediato passato, durante il quale intende testimoniare di non essere stata iscritta al Partito. » Hellman: «Rifiuto di rispondere per gli stessi motivi. » Presidente Wood: «Lo era ieri?» Hellman: «No, signore. » Presidente Wood: «L’anno scorso di questo periodo?» Hellman: «No, signore. » Presidente Wood: «Lo era cinque anni fa?» Hellman: «Devo rifiutarmi di rispondere. » Presidente Wood: «Lo era due anni fa?» Hellman: «No, signore. » Presidente Wood: «Lo era tre anni fa?» Walter: «Era iscritta al CpUsa a metà del giugno 1937?» Hellman: «Rifiuto di rispondere, signor Walter, per gli stessi motivi. » Walter: «Se ben ricordo la sua lettera al Presidente, lei non voleva testimoniare per non “causare dei problemi” alle persone i cui nomi potrebbero essere fatti in relazione alla sua testimonianza. Dato che Martin Berkeley ha già ammesso di essere stato iscritto al CpUsa; che problemi pensa di causargli se ammette di essere stata a quella riunione a casa sua?»

Bastava che la testimone rispondesse a una sola domanda che riguardasse terze persone per non potersi più appellare al Quinto ed evitare, così, domande su altri. Anche se la scrittrice non era una giurista, ricordava bene cosa non doveva fare: Hellman: «Resto sulle posizioni della mia lettera. Ci ho lavorato molto, e ho cercato di spiegare esattamente cosa intendevo dire. Vi rimando a essa, a questo punto. » […] Tavenner: «Il 12 febbraio 1948 il National Institute of Arts and Letters si rivolse al Presidente del Congresso per protestare contro le inchieste sull’infiltrazione comunista nell’industria cinematografica, in quanto sconvolgimento del tradizionale senso del fair play americano e dell’umana decenza. Tra i firmatari di questa lettera c’è il suo nome. Questo nel febbraio del 1948. Era membro del Partito comunista allora?» Hellman: «Rifiuto di rispondere per gli stessi motivi. » Tavenner: «In una risposta a una domanda rivoltale da uno dei membri di questa Commissione lei ha affermato di non essere stata iscritta al CpUsa tre anni fa, se ho capito bene. » Avv. Rauh: «Mi scusi, signor Tavenner. » Tavenner: «Due anni fa. Ma poi si è rifiutata di rispondere se era iscritta al Partito tre anni fa. C’è un gran vantaggio tra questi due periodi [sic] che è molto importante, secondo me, e intendo chiederle se ha un particolare significato in relazione alla sua risposta. »Hellman : «Non credo. » Tavenner: «Che cosa è accaduto, se è accaduto qualcosa, che la rende disponibile a testimoniare di non essere più iscritta al CpUsa da due anni?» Hellman: « Devorifiutare di rispondere per gli stessi motivi, signor Tavenner. » [Corsivo nostro]

Ovviamente la Hellman avrebbe voluto ribattere la verità, ossia che non era mai stata iscritta al Partito comunista in quanto di radicate convinzioni liberali, ma ancora una volta preferì mantener fede a un suo principio piuttosto che scagionarsi da quel sospetto davanti all’Hcua. Il Presidente si accorse dell’uso di quel verbo «devo» detto quasi a denti stretti, e prontamente intervenne:

Presidente Wood: «Lei non è affatto costretta, lei può rifiutarsi, non deve. » Hellman: «Mi spiace molto, signor Presidente, è il mio modo di parlare, immagino. Mi riesce difficile controllarmi. » Presidente Wood: «Ma non posso permettere che dai resoconti appaia che lei è sottoposta a qualche pressione. » Hellman: «Cercherò di starci attenta. » Presidente Wood: «Allora risponda se lei intende rifiutarsi di rispondere in base al privilegio costituzionale e in particolare al Quinto emendamento. » Hellman: «Sì signore. »79

E così l’interrogatorio Hellman si concluse. La commediografa aveva superato la prova più dura, era riuscita a non fare nomi e a non essere accusata di vilipendio. In una telefonata tra lei e il suo avvocato, pubblicata nel saggio Scoundrel Time, c’è la spiegazione data dal legale di quella «vittoria»: Loro volevano tre cose. Prima i nomi, che tu non volevi fare. Secondo, calunniarti, accusandoti di essere una «comunista da Quinto emendamento». Questo non l’hanno potuto fare perché tu nella tua lettera ti sei offerta di parlare di te stessa. E terzo, un processo che non hanno potuto fare perché ci hanno costretto ad appellarci al Quinto emendamento. Hanno avuto abbastanza buon senso da capire che si erano messi in una brutta situazione. Li abbiamo battuti, ecco tutto. 80

Il 25 maggio 1952, il «New York Post» pubblicò un lungo editoriale sulla deposizione Hellman, elogiando la caparbietà e la classe con la quale la donna puritana e borghese aveva saputo tener testa ai mastini della Commissione, dando un esempio per tutti i futuri chiamati al banco81. In ogni caso, neanche la Hellman potè evitare l’inserimento nella lista nera, e negli anni successivi alla sua deposizione fu costretta a vendere quasi tutte le sue proprietà, compresa la fattoria di famiglia, e andare a lavorare come commessa in una catena di grandi magazzini. Le udienze del 1951-’53 erano, in definitiva, semplicemente un’operazione di rifinitura della Commissione. La domanda che serpeggiava negli ambienti hollywoodiani non era più «saranno schedati i testimoni ostili?» ma «quanti finiranno sulla lista nera?». Il silenzio fu così pesante durante tutto il periodo delle nuove udienze, soprattutto da parte delle associazioni sindacali degli artisti che anzi spesso si schierarono chiaramente in favore delle nuove indagini82 , che Sondergaard, Da Silva e Salt spesero grosse somme per pagarsi un’inserzione su «Variety» con cui criticavano l’indolenza dei loro colleghi83. Come ha scritto Larry Ceplair: Se questo secondo attacco dell’Hcua al mondo dello spettacolo era di gran lunga più ampio delle udienze del 1947, esso era però molto più attentamente calibrato. […] Nelle udienze del 1951-’53 vi fu un atteggiamento deliberatamente molto più cauto nei confronti dei produttori, cercando di non coinvolgerli direttamente nelle udienze. La riunione del Waldorf aveva insegnato che era molto più comodo mettere sotto processo degli individui che non una intera industria. 84

I dirigenti erano disposti a sacrificare anche i loro più quotati artisti ma non tolleravano che si mettesse in discussione l’immagine, la reputazione o l’ortodossia ideologica del loro prodotto, perché questo avrebbe danneggiato il mercato e ridotto i profitti.

4.12. La differenza tra le udienze del ’47 e quelle del ’51-’53 La prima cosa che risalta nel paragonare i verbali delle udienze del 1951-’53

a quelli del 1947 è il gran numero di testimoni amichevoli alla Commissione, spesso presentatisi volontariamente. La presenza di questi artisti collaborazionisti non deve però far pensare a una radicale diffusione nel mondo dello spettacolo degli ideali d’anticomunismo cari al nuovo presidente dell’Hcua, Wood. Gli eventi di politica estera che si succedevano contribuivano tuttavia in tutta America a diffondere un senso d’insicurezza e di timore verso il comunismo e chiunque fosse accostabile alla sinistra. La vera motivazione che spinse molti nomi famosi a piegarsi alla logica della Commissione, a non ripararsi dietro i propri diritti costituzionali e spesso a trasformarsi in delatore dei propri amici, fu meramente economica. Non è un caso che nel lungo elenco dei nuovi testimoni amichevoli si possano trovare nomi del calibro di Kazan, Odets, Ferrer, Robinson, Schulberg, Burrows ecc. , tutti molto noti al pubblico americano perché sulla cresta dell’onda. Furono questi personaggi, ricchi e famosi, a temere più di ogni altra cosa il potere della Commissione di compromettere per sempre il loro futuro lavorativo a Hollywood. Come disse Orson Welles: «I testimoni amichevoli parlano per difendere le loro piscine», e il concetto non era troppo fazioso: si trattava di gente abituata a vivere da anni con un alto tenore di vita, tra ville costose, belle macchine, vestiti firmati e viaggi, tutto originato dalla propria fama di attore, di attrice o di stella dell’industria cinematografica. Aspettarsi un comportamento politicamente coraggioso e civilmente onesto da chi aveva la preoccupazione di difendere i propri privilegi materiali sopra ogni altra cosa, era un’ingenuità. Dopo i primi interrogatori completi, che dettero l’esempio di come si poteva superare la Commissione continuando a lavorare e a far soldi nel proprio ambiente, al prezzo di una caduta di stile sul piano umano e civile, quasi nessun grande nome del cinema volle ergersi a martire. La stessa Lillian Hellman, che fra tutti gli artisti famosi fu quella che ebbe la determinazione di porre dei precisi paletti all’autorità della Commissione, d’altro canto dovette riconoscere quell’autorità e con essa la legittimità del suo operato, rispondendo alle domande che la riguardavano in prima persona, anche quando toccavano le idee più personali. Tuttavia, resta l’esempio più brillante di come una persona di cultura e di idee liberali potesse mostrarsi contraria all’indagine, riuscendo a non diventare complice della Commissione e dei suoi metodi pur sacrificando il proprio diritto a non rispondere. Al contrario, tra quei 48 nuovi testimoni ostili, incontriamo solo nomi di personaggi di secondo e terzo piano, sconosciuti al grande pubblico, che di conseguenza dovevano rischiare meno dei loro colleghi più fortunati sia in termini materiali che di notorietà. Durante le udienze del presidente Wood, la Commissione avrebbe potuto indagare sulla storia degli intellettuali liberali nel mondo dello spettacolo, ma non lo fece. Praticamente tutti gli artisti furono schedati per opinioni o posizioni politiche del passato, alle volte risalenti addirittura a vent’anni prima, ma senza inquadrare quelle idee nel contesto politico e culturale dell’epoca. Vennero così fuori accuse di «antifascismo prematuro», tra le più usate dai commissari, che nella loro chiarezza evidenziano l’assoluta carenza di senso e di contenuto riguardo i sospetti su cui si basava l’intera vicenda.

Al momento degli interrogatori, la maggioranza dei testimoni ostili condivideva una forte disillusione verso le idee comuniste, ma non volle piegarsi alla pubblica abiura ordinata da Wood e soci. Se non vi sono dubbi sull’effettiva vicinanza di molti «ostili» al credo marxista e stalinista durante gli anni ’30, è altrettanto sicuro che quando i crimini e le purghe del regime sovietico vennero alla luce anche nel mondo occidentale, quasi tutti ne presero atto denunciando il sistema e le sue deviazioni, ammettendo le proprie colpe e i propri errori nell’aver creduto alla dottrina comunista di stampo staliniano. Azzardando poi una valutazione sulla condotta della maggioranza degli avvocati dei testimoni ostili, appare chiaro che quasi tutti sbagliarono nel preparare i loro clienti allo scontro con la Commissione, e non seppero prevedere le conseguenze relative al comportamento dei loro assistiti.

4.13. La deposizione sarcastica di Zero Mostel Dopo le udienze della prima parte del 1953, la Commissione, ora sotto la presidenza di Harold H. Velde, spostò la sua lente d’ingrandimento da Hollywood al resto dell’industria dello spettacolo, concentrandosi sulla televisione85, la radio e il teatro. Tuttavia, una piccola parte di personaggi del cinema fu chiamata ancora tra il 1953 e il 1955, ma queste testimonianze rappresentarono per lo più delle code dell’inchiesta precedente, costituite di solito da artisti che sceglievano di piegarsi all’Hcua per tornare a lavorare, oppure chiamati davanti alla Commissione per delle performance date fuori dallo schermo, in occasioni pubbliche di raccolta di fondi per associazioni non gradite ai commissari. Un esempio tra i più surreali e divertenti lo fornì l’interrogatorio dell’istrionico attore comico Zero Mostel, che affrontò i commissari il 14 ottobre 1955 ironicamente, mettendoli in ridicolo: […] Tavenner: «Potrebbe riassumere brevemente alla Commissione che genere di lavori ha fatto dal 1935 a oggi?» Mostel: «Nel 1935 ero un pittore, un artista, e ho lavorato per la Wpa (Work Progress Administration) come pittore. Sono diventato un attore comico nel 1942. Da allora sono sempre rimasto nel campo dello spettacolo. » Tavenner: «Dal 1935 al 1942 lei era un artista?» Mostel: «Beh, mi definivo così. Forse sono l’unico che lo faceva. Ma ho anche fatto una miriade di lavoretti che mi permettessero di andare avanti con la pittura. » Tavenner: «Qual è stato il suo primo impiego come artista?» Mostel: «In un night club di New York. » Tavenner: «Quale night club?» Mostel: «Il Café Society Downtown. » Tavenner: «Per quanto ha lavorato lì?» Mostel: «Circa un anno, credo. » Tavenner: «E dopo dove ha lavorato?» Mostel: «In diversi night club, film, teatri, balletti… quel genere di impieghi… cinema. » Tavenner: «Quando e dove ha cominciato a lavorare per il cinema?» Mostel: «Il mio primo contratto fu per la Mgm, un film intitolatoDu Barry was a Lady (1943, di Roy Del Ruth). Il secondo si chiamavaBandiera gialla ( Panic in the Streets, 1950, di Elia Kazan). » Tavenner: «Si trovava a Hollywood o nello Stato di California successivamente al 1942, per portare avanti la sua carriera di artista?» Mostel: «Oh sì. Ho fatto diversi film per… film indipendenti per la Columbia, la Warner e firmai anche un contratto per la 20th Century Fox. O è la Eighteenth Century Fox? Non mi ricordo…»

Visto l’atteggiamento conservatore della casa cinematografica contro i Dieci, perché non approfittare per fare un po’ di ironia? Ma Tavenner non volle cogliere. Tavenner: «Quando è venuto a lavorare qui in California?» Mostel: «Beh lavorai come free-lance fino alla firma di quel contratto e dopo sono rimasto qui per il periodo ivi stabilito. » Tavenner: «Il suo lavoro le richiedeva di essere qui di tanto in tanto?» Mostel: «Sì. Oh, non ho fatto solo film, qui. Ultimamente ho anche recitato in una commedia teatrale, intitolataLunatics and Lovers. » Tavenner: «Quel che sto cercando di capire è se il suo lavoro, dal 1942 a oggi, le ha richiesto di essere presente in California, di tanto in tanto. » Mostel: «Di tanto in tanto. » Tavenner: «Saltuariamente. » Mostel: «Oh sì, certo. » Tavenner: «Direbbe almeno una volta l’anno?» Mostel: «Ci fu un bell’intervallo tra il film fatto nel 1942 eBandiera gialla , che fu girato a New Orleans. E dopo di ciò – in altre parole, credo il 1940, 1941, 1951 [sic] – è circa sette anni, no? Dunque direi che la volta successiva in California sia stata otto anni dopo, per uno dei più bei capolavori che mi è mai passato sottomano:La città è salva ( The Enforcer, 1951, di Bretaigne Windust), con Humphrey Bogart. » […] Tavenner: «Lei ha dichiarato che il suo primo impiego nel mondo dello spettacolo fu presso il Café Society, nel 1943. » Mostel: «Nel 1942. » Tavenner: «Chi l’ha aiutata a ottenere quel lavoro?» Richard Gladstein (avvocato di Mostel): «Se qualcuno lo ha fatto. » Mostel: «Nessuno mi ha aiutato. Feci il provino, e passò un sacco di tempo prima di venire assunto. » Tavenner: «Chi la assunse?» Mostel: «Beh, credo fu Barney Josephson. » Tavenner: «Barney Josephson era il proprietario del Café Society, all’epoca?» Mostel: «Sì. » Tavenner: «Ivan Black era in qualche modo collegato col Café Society, all’epoca?» Mostel: «Era l’addetto alle pubbliche relazioni. » Tavenner: «Ebbe qualche peso nella sua assunzione?» Mostel: «Beh, la gente dice ogni sorta di cosa sugli artisti, ma io sono un artista, e non so che parte abbia avuto nella mia assunzione. Venni pagato dalla Café Society Corporation. » Tavenner: «Lei è anche noto come “Zero”, dico bene?» Mostel: «Sì signore. Dalla mia nota situazione finanziaria permanente…» Tavenner: «Non fu Ivan Black a darle questo soprannome?» Mostel: «Beh, anche questa è una storia. Non so chi mi affibbiò per primo questo soprannome, in realtà. [Black] sostiene di essere stato lui, credo. Magari ha ragione, non lo so. »

La parte che l’attore aveva scelto di recitare di fronte alla Commissione era quella dell’artista con la testa fra le nuvole. Un modo come un altro per poter essere sufficientemente vago in termini di nomi e circostanze. Tavenner: «Conosceva già Ivan Black prima di essere assunto al Café Society?» Mostel: «Nossignore. » Tavenner: «Lei era un membro della Lega della gioventù comunista, prima di essere assunto al Café Society?» Mostel: «Questo non ha niente a che vedere con la mia assunzione – ovviamente mi riferisco alla sua domanda. » Tavenner: «La mia domanda è se lei è stato o no membro della Lega della gioventù comunista, prima di essere assunto. » Mostel: «Mi rifiuto di rispondere sulla base delle garanzie offerte dal Quinto emendamento. » Tavenner: «Nell’anno in cui lei lavorava per il Café Society, aveva buoni rapporti con Ivan Black?»

Mostel: «Direi che ero in rapporti nel senso che erano rapporti di lavoro. Devo dire che il mio atteggiamento verso i press agent non è dei più lusinghieri, e pensavo che lui fosse utile per chi lavora nel mondo dello spettacolo. Non era un mio grande amico, ma era di certo un amico. » Tavenner: «Mentre lavorava per il Café Society, sapeva che Ivan Black era un membro del Partito comunista?» Mostel: «Posso consultarmi con il mio avvocato?» (Il testimone parla con il suo legale) Mostel: «Vi dispiace se prendo un attimo di tempo?» Doyle: «Prego. » Mostel: «Mi sembra che abbiamo un problema. Ecco perché sono indeciso su come rispondere riguardo a domande che indagano su opinioni private. Certe cose non mi sono del tutto chiare, ma sarò lieto di rispondere a qualunque domanda che non imponga di parlare di altre persone. »

La stessa strategia adottata da Lillian Hellman, ma con un più marcato uso del Quinto emendamento, come vedremo. Tavenner: «Posso chiedere che il testimone sia invitato a rispondere?» Doyle: «Questa sua ultima risposta non ci soddisfa, signor testimone, per cui la invito a rispondere alla domanda. » Mostel: «Beh, allora mi rifiuto di rispondere alla domanda in virtù dei privilegi costituzionali che ho, incluso il Quinto emendamento. » Tavenner: «Conosce un certo Martin Berkeley?» Mostel: «Ci risiamo? Non so come rispondere perché non mi ricordo di averlo mai incontrato. Non so chi sia. Ho sentito di lui dai giornali, ovviamente, ma non so se lui mi conosca, non so se l’ho mai incontrato o se lui abbia mai incontrato me. Ma devo rifiutarmi di rispondere sulle basi che ho spiegato prima. » Tavenner: «Vuole dire per lo stesso motivo?» Mostel: «Sì, il Quinto emendamento. » Tavenner: «Il signor Berkeley ha dichiarato di fronte a questa Commissione il 29 gennaio 1952, dicendo di lei: “Zero Mostel, lo conobbi a Hollywood, direi intorno al 1938…”» Mostel: «Questa è una…» Tavenner: «Bene. » Mostel: «Non ero…» Tavenner: «Va bene. Come risponde ora?» Mostel: «Niente, signore. Non mi ha ancora posto la domanda. » Tavenner: «Se non sbaglio, lei ha dichiarato di non essere stato qui nel 1938. » Mostel: «Non sono mai stato qui prima del 1942. » Tavenner: «Conosce Lionel Stander?» Mostel: «Sissignore, un grande attore e un uomo di talento. »

Mostel alternava risposte ironiche ad atteggiamenti bruschi e di grande determinazione contro gli intenti della Commissione. Il cocktail finale, scoppiettante, ha reso la sua udienza una tra le più frizzanti e anche per questo è stata poi inserita nello spettacolo teatrale di tipo documentaristico Hollywood On Trial, del 1972, dove molti personaggi chiamati alla sbarra recitavano se stessi durante gli interrogatori. Tavenner: «Riprendendo la testimonianza di Martin Berkeley, leggo: “Zero Mostel, lo conobbi a Hollywood, direi intorno al 1938, a casa di Lionel Stander. Era durante un incontro del gruppo degli scrittori a cui ho presenziato, e lui era tra la gente lì riunita”. » Mostel: «Penso che il signor Berkeley si sbagli completamente. Non sono mai stato qui nel 1938. Non conoscevo il signor Stander nel 1938. Allora facevo il pittore. » […] Tavenner: «È mai stato a nessun incontro in casa di Lionel Stander, nel quale anche il signor Berkeley fosse presente?» Mostel: «Non sono mai stato in una casa di Lionel Stander in nessuna delle città dove l’ho incontrato. » Tavenner: «Ha mai partecipato a un incontro del Partito comunista in casa di Lionel Stander nel 1942 o in qualunque altro periodo?» Mostel: «Mi pare di avere già risposto alla domanda precedente, quando le ho detto che non

sono mai stato in casa di Stander in vita mia. » Tavenner: «Lei era un membro del Partito comunista nel 1942?» Mostel: «Mi rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei diritti che ho citato prima, signore, libertà costituzionali che so essere garantite a tutti, in questa nazione. » Tavenner: «E che la Commissione non mette in discussione. » Mostel: «Sono sicuro che non lo faccia. » Tavenner: «Signor Mostel, lungo il corso delle nostre udienze di agosto a New York, e anche durante altre udienze, la Commissione ha raccolto prove dell’aiuto dato da molte persone al Partito comunista intervenendo in spettacoli patrocinati dal Partito, prestando la propria fama per feste o incontri pubblici che servivano a finanziarlo, partecipando ai cosiddetti incontri per la causa, come sono stati chiamati, organizzati dal Partito comunista e anche presenziando ad assemblee di organizzazioni note come paracomuniste. » Mostel: «E molti altri incontri organizzati per combattere il cancro, le malattie cardiache, i danni dal freddo eccetera eccetera. » Tavenner: «Sì, immagino che le stesse persone che hanno partecipato a iniziative del Partito comunista abbiano preso parte a molte altre organizzazioni e gruppi vari. La Commissione ha avuto prova da George Hall, per esempio, che il suo ruolo a New York era di aiutare con gli spettacoli il Partito comunista nelle sue campagne di finanziamento. » Mostel: «Che è un concetto ben lontano dall’accusa che la sola funzione dei comunisti sia di rovesciare il Governo. »

L’attore si era lasciato andare, e aveva difeso apertamente l’operato del CpUsa. Una difesa che non passerà inosservata, come vedremo più avanti. […] Tavenner: «Ho qui davanti una fotocopia della pagina 31 della testata “New Masses”, datata 21 dicembre 1943. C’è una grande pubblicità, grande circa un terzo di pagina, intitolataFondo per la libertà , siglato dal Comitato per i rifugiati antifascisti uniti. Lo spettacolo di finanziamento si sarebbe tenuto il 26 dicembre dello stesso anno. Si ricorda di aver aiutato il Comitato per i rifugiati antifascisti uniti?» Mostel: «Potrei vedere? Magari mi rinfresca la memoria. » Tavenner: «Sì. » Mostel: «Non si tratta di una delle organizzazioni inserite dal ministro per la Giustizia nell’elenco dei gruppi sovversivi?» Tavenner: «Sì. » Mostel: «Allora devo rifiutarmi di rispondere. » Tavenner: «Le mostro ora una pubblicità della Gioventù americana per la democrazia (American Youth for Democracy), intitolataSostieni i lavoratori marittimi. Parla di uno show che doveva tenersi il 14 giugno del 1946. È chiamato “Youth Rally”. Tra i nomi degli artisti che dovevano intervenire c’è anche il suo, Zero Mostel, stando alla pubblicità. Può dargli un’occhiata e dirci se lei prese o no parte a questo programma della Gioventù americana per la democrazia?» Mostel: «Posso parlare col mio avvocato?» Doyle: «Certo, lei può consultarsi col suo legale in ogni momento. Ne siamo lieti che voglia farlo. » (Il testimone si consulta con il suo legale. ) Mostel: «Non ricordo affatto questa cosa, signore. Ma anche questa organizzazione non è stata inserita dal ministro della Giustizia nella lista dei gruppi sovversivi?» Tavenner: «Sì. […]» Mostel: «Ebbene, allora devo rifiutarmi di rispondere alla domanda. […] Oh, sia detto per inciso, leggo dei gran bei nomi su questa pubblicità del Comitato antifascista: [Jimmy] Durante, Milton Berle, Georgia Sothern…»

Erano alcuni degli artisti che più si erano schierati in favore delle indagini dell’Hcua. Mostel aveva tutta l’intenzione di tirarli in ballo davanti alla stampa e alla Commissione. Jackson: «Nessuno di loro è stato mai identificato in seduta pubblica come iscritto al Partito comunista, tuttavia. » Mostel: «Ma signore, il Comitato per i rifugiati antifascisti uniti, è nella lista del Ministero della Giustizia…» Jackson: «Non c’è dubbio, ma sono molti gli artisti che sono stati coinvolti pur essendo del

tutto sinceri nelle loro motivazioni e che non sapevano nulla del Partito comunista. Oserei dire che se i signori Durante e Berle fossero al posto suo oggi, non avrebbero avuto alcuna difficoltà a negare di essere stati iscritti al Partito comunista. C’è una bella differenza nella natura della testimonianza. » Mostel: «Quel che voglio dire, è che l’organizzazione per la quale loro apparentemente appaiono su questa pubblicità – sebbene non abbia un chiaro ricordo della cosa – è stata dichiarata sovversiva e inclusa nell’elenco del Ministero della Giustizia molto tempo dopo l’inizio…» Jackson: «Certamente, ma tornando al punto, se il signor Mostel sostiene che non era presente in quel tempo, mi pare un cattivo uso dell’emendamento costituzionale, poiché una risposta alla domanda non tenderebbe a incriminarlo. » Doyle: «Giusto. » Jackson: «E alla luce di ciò, sono piuttosto scontento del ricorso all’emendamento, per cui chiedo alla presidenza di invitare nuovamente il testimone a rispondere alla domanda di poco fa. Se il signor Mostel non era qui in quel tempo, se non era nella città di Los Angeles, allora una risposta veritiera alla domanda non potrà certo incriminarlo. »

Jackson giocava sul filo del diritto, ma Mostel era molto attento a non dire niente di sbagliato che lo costringesse ad abbandonare lo scudo del Quinto emendamento: Mostel: «Ho risposto a una domanda e ho risposto a un fatto, quando mi avete chiesto se fossi membro di alcune organizzazioni – ora non ricordo quali, nel particolare – ho invocato i miei privilegi costituzionali. Ma nego recisamente di essere stato presente a questo incontro di cui state parlando, poiché era fisicamente impossibile. Quindi, penso di invocare i miei diritti costituzionali. Non sono una gran mente nel campo giuridico. » Jackson: «Era membro del Partito comunista o di una fazione comunista del Partito nel 1938 in California?» Mostel: «Potrei rispondere a questa domanda in molte maniere. Ovviamente non sono mai stato prima del 1942 in California, ma in risposta a qualsiasi domanda riguardante le mie simpatie politiche, desidero invocare i miei privilegi costituzionali così come garantiti dal Quinto emendamento. » Jackson: «Chiedo alla presidenza di ottenere la completa risposta alla domanda, dal momento che il testimone ha dichiarato di non essere stato a Los Angeles o in California nel 1938. » Doyle: «Lei capisce, signor testimone, non siamo soddisfatti della risposta che lei ha appena dato, in quanto non completa. Quindi la invitiamo a rispondere pienamente alla domanda. » Mostel: «Mi rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei miei diritti costituzionali. » Jackson: «Sia messo a verbale che non sono soddisfatto della risposta e che trovo sia un uso improprio del Quinto emendamento. » Doyle: «Sia messo a verbale che la penso allo stesso modo. »

Le cose si mettevano su una brutta china per il testimone. Gladstein, l’avvocato di Mostel, decise di provare una carta nuova: Gladstein: «Posso farvi una domanda, signori? So che di solito non lo permettete, ma viste le circostanze, dal momento che tutti e due avete appena fatto mettere a verbale di non essere soddisfatti dalla risposta del mio cliente, volete concedergli la cortesia di spiegare semplicemente il motivo?» Doyle: «Ovviamente, come lei sa, avvocato, non abbiamo né il tempo né l’opportunità di entrare in argomenti legali. » Gladstein: «Vi ringrazio. » Doyle: «Questa Commissione non è una corte, e ha il dovere – come ha stabilito la Corte Suprema e come lei sa, avvocato – di far sapere al testimone quando non è soddisfatta di una sua risposta, ed è quanto abbiamo appena fatto. » Jackson: «Il testimone ha rilasciato una dichiarazione spontanea sostenendo di non essere stato presente nella città di Los Angeles o nello Stato di California al tempo in cui si pensa che certi eventi abbiano avuto luogo. Questa dichiarazione, lo ripeto, non era in risposta ad alcuna domanda diretta della Commissione. Una chiara dichiarazione spontanea e volontaria. Quindi non sono soddisfatto dell’uso del [Quinto] emendamento in risposta a una domanda che riguarda lo stesso specifico periodo di tempo. Se il testimone sostiene volontariamente di non essere stato in questa zona durante quel periodo, e poco dopo rifiuta

di rispondere sostanzialmente alla stessa domanda barricandosi dietro al [Quinto] emendamento, trovo sia un uso improprio dell’emendamento. » Mostel: «Posso dire una cosa?» Doyle: «Certamente. » Mostel: «Da quel poco che posso capire – e ho apprezzato molto il suo ragionamento, signor Jackson – non lo so. Capisco perfettamente il suo punto di vista, signore. Penso che quando mi chiedete qualcosa sulla mia presenza fisica in un posto preciso, allora devo dirvi se ero presente o no, a seconda delle circostanze; ma se mi chiedete come fatto fisico se ero in un determinato posto ed era fisicamente impossibile per me esserci, devo dirvi la verità in questo caso. » Doyle: «Ovviamente penso che lei debba sempre dire la verità. » Jackson: «Ma se lei non era nello Stato di California in quel periodo, la risposta a ogni insinuazione non potrebbe incriminarla, secondo la mia modesta opinione. » Tavenner: «Signor Mostel, l’ultimo documento che le è stato mostrato era relativo alloyouth rally tenuto dalla Gioventù americana per la democrazia. È mai stato membro della Gioventù americana per la democrazia?» Mostel: «Beh, mi rifiuto di rispondere alla domanda sulla base di quanto detto poco fa, invocando i miei diritti costituzionali. » Tavenner: «Sapeva che in un resoconto sulla Gioventù americana per la democrazia avuto da questa Commissione nel 1948, è venuto fuori che lei era un membro di detta organizzazione?» Mostel: «Rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei miei diritti costituzionali. » Tavenner: «Signor Mostel, lei ha fatto i nomi di diverse persone collegate con il flano pubblicitario del Comitato per i rifugiati antifascisti uniti. Poco prima ci aveva dichiarato di non avere intenzione di fare alcun nome di altre persone. Immagino che abbia riconsiderato la sua posizione. Quindi vorrei fare un passo indietro e tornare alla domanda se lei sapeva che Ivan Black fosse un membro del Partito comunista. »

L’ennesimo tranello di Tavenner. Ma Mostel ribattè prontamente: Mostel: «Beh, stavo semplicemente leggendo quei nomi, senza dire se li conoscevo o no. Sulla domanda riguardante Ivan Black, rifiuto di rispondere sulla base dei miei diritti costituzionali. Ho dimenticato di dirlo. » Tavenner: «Ho qui una fotocopia di una pubblicità fatta dal Comitato per la libertà di parola (Voice of Freedom Committee) per un appuntamento e uno spettacolo che doveva tenersi a Town Hall, giovedì 8 maggio 1947, a New York. Nell’annuncio pubblicitario appare il nome di Zero Mostel tra i vari intrattenitori. Si ricorda di essere stato ingaggiato per quell’occasione?» Mostel: «Posso vedere? Quest’associazione non è nella lista dei gruppi sovversivi stilata dal Ministero della Giustizia?» Tavenner: «Sì. » […] Mostel: «Rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei miei diritti costituzionali. » Jackson: «Si tenne l’8 maggio 1947. » Mostel: «Oh, alle otto e un quarto di sera, dice. »

L’attore era tornato nei panni dell’oca giuliva. […] Tavenner: «Ho qui un’altra fotocopia, stavolta di una lettera del 24 ottobre 1945, su carta intestata dell’Appello per i rifugiati spagnoli, del Comitato per i rifugiati antifascisti uniti (Spanish Refugee Appeal of the Joint Anti-fascist Refugee Committee). Nel testo si citano a mo’ di sponsor i nomi di diversi personaggi famosi. Potrebbe controllare se per caso legge anche il suo nome, tra gli altri?» Gladstein: «Il documento parla da solo, non basta?» Mostel: «Rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei soliti diritti costituzionali. » Tavenner: «Quest’altra fotocopia invece è di una lettera datata 21 gennaio 1946 su carta del Comitato americano per la libertà della Spagna (American Committee for Spanish Freedom). È una lettera scritta da detto Comitato al Presidente di questa Commissione. » Mostel: «Veramente un’azione pazzesca. » Tavenner: «Vuole leggere l’elenco di sponsor che appare a pagina 2…» Mostel: «Sì, certo» Tavenner: «E dirci se il suo nome appare o meno come uno degli sponsor. » Mostel: «Rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei miei diritti costituzionali. »

Tavenner: «Altra fotocopia: è di una parte di pagina 12 della rivista “Pm”, del 30 aprile 1947. Rappresenta una grande pubblicità del gruppo Arte, scienza e professioni per il May Day (Arts, Sciences and Professions for May Day). Potrebbe dare uno sguardo al documento e dirci se il suo nome appare tra gli sponsor?» Doyle: «Se non sbaglio c’è una sottolineatura in rosso sotto il nome di Zero Mostel. »

Evidentemente una prova certa di collaborazione col nemico, per l’onorevole Doyle… Mostel: «Speravo fosse in blu. Rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei miei diritti costituzionali. » […] Tavenner: «Durante la sua carriera, signor Mostel, è mai diventato membro dell’Associazione per l’equità degli attori (Actors Equity Association), di New York?» Mostel: «Beh, sono membro dell’Equità, altrimenti non potrei lavorare sul palcoscenico. » Tavenner: «È anche diventato membro della Federazione americana degli artisti radiotelevisivi (American Federation of Television and Radio Artists)?» Mostel: «No, signore, sono finito nella lista nera, per la televisione. » Tavenner: «È mai stato al corrente dell’esistenza di un gruppo organizzato di membri del Partito comunista a New York che erano membri – o almeno, la maggioranza di loro era membro – dell’Equità?» Mostel: «Rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei miei diritti costituzionali. » Tavenner: «Ho ancora un paio di domande da farle. È mai stato membro del Partito comunista quando era membro dell’Associazione per l’equità degli attori?» Mostel: «Rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei miei diritti costituzionali. » Tavenner: «Oggi è iscritto al Partito comunista?» Mostel: «No. » Tavenner: «Non lo è?» Mostel: «No. » Tavenner: «Era iscritto al Partito comunista il 7 luglio 1955, quando ha ricevuto il primo invito a comparire di fronte a questa Commissione?» Mostel: «Rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei miei diritti costituzionali. » Tavenner: «Era iscritto al Partito comunista quando il suo avvocato ha richiesto un rinvio della sua udienza di fronte a questa Commissione, stabilita per il 17 agosto 1955?» Mostel: «Rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei miei diritti costituzionali. » Tavenner: «Era iscritto al Partito comunista quando ha ricevuto il secondo invito a comparire qui oggi?» Mostel: «Rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei miei diritti costituzionali. » Tavenner: «Era iscritto al Partito comunista quando è entrato in quest’aula stamattina?» Mostel: «No. »

Questa risposta giunse inaspettata sia per i membri della Commissione sia per l’avvocato del testimone. Le domande tambureggianti di Tavenner avevano ottenuto un cedimento dell’attore. Tavenner: «Quando ha smesso di essere un membro del Partito comunista?» Mostel: «Rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei miei diritti costituzionali. » Tavenner: «Era iscritto al Partito comunista fino a ieri?» Mostel: «Rifiuto di rispondere alla domanda sulla base dei miei diritti costituzionali. » […] Doyle: «Sappiamo che nel nostro paese ci sono dei sovversivi che sostengono, quando conviene loro, il rovesciamento con la forza e la violenza del nostro governo. Lei si ricorda quando il signor Tavenner le ha chiesto se conosceva George Hall? Tavenner le ha riportato la testimonianza dello stesso Hall sul suo ruolo nel Partito comunista, di artista coinvolto negli spettacoli di finanziamento del Partito. » Mostel: «Sì, mi ricordo. » Doyle: «Sono rimasto colpito dalla sua risposta, al punto che la ho anche trascritta. Ecco qui, credo sia testuale, e di certo molto interessante. E spontanea, per di più: “È molto diverso dall’accusa che l’unico scopo del Partito comunista sia di rovesciare con la violenza il governo”. Devo essere franco: una frase del genere per me ha un valore piuttosto importante, signor testimone. Si ricorda di aver detto questa frase?» Mostel: «Sì. »

Doyle: «Perché ha detto spontaneamente questa frase? Nessuno le aveva chiesto niente a riguardo. Le stavamo chiedendo del ruolo degli spettacoli di George Hall. Non le stavamo chiedendo niente riguardo a forza o violenza. » Mostel: «Se ricordo bene, il signor Tavenner non mi aveva posto alcuna domanda, era una mia considerazione spontanea. » Doyle: «Lo so che era spontanea. Ma perché aveva tutta questa ansia e premura di sottolineare che quel tipo di spettacolo fosse così lontani dall’accusa che il Partito comunista voglia rovesciare con la forza il governo?» Mostel: «Beh, l’ho detta perché, da quanto ho letto, questa Commissione crede che invece quello sia l’unico scopo del Partito comunista, mentre avevamo appena accennato a un altro scopo, che mi aveva incuriosito e l’ho voluto sottolineare. Mi dispiace di averlo fatto. » […] Doyle: «Signor Mostel, dalla sua testimonianza di oggi – devo dirle – ricavo la sensazione che ci sia stato un periodo della sua vita in cui lei era iscritto al Partito comunista, poiché, secondo quanto lei stesso ha dichiarato, quando è entrato in quest’aula non lo era. » Mostel: «Questa è una sua sensazione, non una cosa di cui ha prova. » Doyle: «Certo, una sensazione, non una conclusione. Non è una cosa di cui ho conoscenza diretta. » Gladstein: «Voi sapete di Harvey Matusow, e di altri come lui, che hanno ammesso di aver dichiarato il falso accusando altre persone di essere iscritte [al Partito comunista, N. d. A. ]. » Doyle: «Harvey Matusow non è di fronte alla Commissione in questo momento. Sto semplicemente parlando francamente a un altro cittadino americano. » Gladstein: «Lo vedo, e ogni cittadino americano deve essere messo in guardia sulla differenza tra un processo e una persecuzione. »

La tensione della lunghissima deposizione aveva tradito anche la classica impassibilità dell’avvocato Gladstein. Jackson: «Ordine, signor Presidente. » Doyle: «Aspetti un momento, signor Gladstein. » Gladstein: «Mi scuso. » Mostel: «Fate i bravi, ragazzi. » Doyle: «Ora, abbiamo ascoltato tantissimi testimoni che hanno dichiarato di non essere iscritti al Partito comunista, nel momento in cui sono apparsi di fronte a questa Commissione. Ne posso dedurre, a livello personale, che rispondendo in quella maniera sottendessero di esserlo stati in un altro momento della loro vita. » Mostel: «Ma non è il giudice [Earl] Warren che ha deciso… non ricordo la sentenza…» Doyle: «Vuole dire uno di quei tre casi recenti?» Mostel: «Quando ha dichiarato che non bisogna dedurre niente di quel genere di cose. Se si tratta degli affari privati di un uomo, ha motivi privati per fare quel che decide di fare. » Doyle: «Sì, giusto, sono contento che lei abbia familiarità con quei tre casi, perché…» Mostel: «Non ho familiarità, ne sono casualmente a conoscenza. » Doyle: «Sì, casualmente. Beh, ci siamo attenuti a quelle sentenze per anni. Non sono niente di nuovo per noi, quei tre casi. Ma posso dirle una cosa? Lei è un grande…» Mostel: «Alle volte. » Doyle: «Lei è un grande uomo di spettacolo per il pubblico americano. Da adesso in poi, perché non vuole allontanarsi decisamente da gruppi che si sa sono dominati o controllati dai comunisti, quel genere di roba lì? Perché non se ne allontana così chiaramente che il pubblico americano non potrà mai avere alcun dubbio sul fatto che lei sia mai stato o che mai sarà un membro del Partito comunista?» Mostel: «Ho…» Doyle: «Perché non si libera da queste voci, signor Mostel? Lei sa che potrebbe essere amato molto di più dal popolo americano se fosse chiaro a tutti che non c’è una singola goccia, non una macchia, non un puntino né un atteggiamento di favore da parte sua nei confronti della cospirazione comunista?»

Domande retoriche fin troppo facili per Mostel: Mostel: «Mio caro amico, io credo nell’antiquata idea che un uomo è apprezzato nel suo lavoro per l’abilità professionale e non per le opinioni politiche. Non ho delle forti idee politiche, ma comunque non ne parlerei a nessuno, a meno che lei non fosse un mio buon

amico e si trovasse intorno al tavolo di casa mia. » Doyle: «Non le sto chiedendo di…» Mostel: «E badi bene: faccio un orribile caffè solubile, voglio metterla in guardia. » Doyle: «Non le sto chiedendo delle sue opinioni politiche. » Mostel: «Mio caro amico, io credo nell’idea che un essere umano debba andare sul palcoscenico per intrattenere al meglio delle sue possibilità, potendo dire tutto quel che gli viene in mente di dire, perché viviamo, spero, in una nazione libera. » Doyle: «Giusto, e noi siamo pronti a combattere per il suo diritto a poterla pensare come vuole, a essere quello che vuole e a fare come vuole, ammesso che sia all’interno dei confini della Costituzione. Non trova che sia suo dovere, come grande uomo di spettacolo, di accertare, almeno in questa sede, se il denaro che lei ha aiutato a raccogliere è andato o meno in favore di una causa sovversiva contro la forma costituzionale di governo che vige nel nostro paese? Non pensa – almeno dopo questa sorta di udienza, se non prima – vedendo gli effetti che questi documenti hanno sul pubblico, non pensa che dovrebbe…» Mostel: «Vede, ho sì un’opinione mia, ma è talmente privata che, onestamente, non posso parlare di questi documenti. » Jackson: «Signor Presidente, posso dire di non conoscere modo migliore di rendere pubbliche le proprie idee politiche se non apparendo sotto gli auspici della nota rivista comunista “Mainstream”, che ringrazia Dalton Trumbo, Hanns Eisler, John Howard Lawson, W. E. B. DuBois, Dorothy Parker, Howard Fast e Zero Mostel per aver partecipato [alla festa di raccolta fondi della rivista, N. d. A. ]. Signor Mostel, lei si è rifiutato di confermare o smentire se ha partecipato a tale manifestazione, ma io ho ragione di credere che anche qualora lei non abbia partecipato, è contento che il suo nome appaia in quella lista, perché lei sostiene le idee comuniste [di “Mainstream” N. d. A. ]. »

A questo ennesimo attacco, segue la famosa «difesa della farfalla» di Mostel. Un pezzo di prontezza e ironia che è rimasto nella storia del maccartismo: Mostel: «Apprezzo molto la sua opinione, ma vorrei dire che – sa com’è – resto delle mie idee, anche se affermarlo è impolitico o non saggio da parte mia. E se fossi apparso [alla manifestazione] e avessi fatto l’imitazione di una farfalla che, stanca di tanto volare, si riposa? Non credo sia un crimine far ridere la gente. Non mi importa neanche sevoi ridiate di me. » Jackson: «Se la sua imitazione della farfalla che si riposa ha portato soldi nelle casse del Partito comunista, lei ha contribuito direttamente alla propaganda di quel Partito. » Mostel: «Hum, e supponiamo che io debba imitare una farfalla che si riposa dove gli capiti?» Doyle: «Si, ma per favore, quando ha una tale impellenza non la faccia riposare da qualche parte dove possa portare soldi alle casse del Partito comunista. Faccia riposare la farfalla da qualche altra parte, la prossima volta. » Jackson: «Suggerisco di mettere a riposo quest’audizione della farfalla…» Gladstein: «Giusto per rendere il verbale più completo, posso aggiungere, onorevole Jackson, che non leggo nessun riferimento al Partito comunista nell’annuncio. Dice solo che [lo spettacolo] era sotto gli auspici di “Mainstream”. » Jackson: «I biglietti, comunque, erano venduti guarda caso alla libreria Jefferson, che trovo sia una nota libreria comunista, e alla Libreria dei lavoratori. Non erano in vendita da [i grandi magazzini] Macy’s…» Mostel: «Potrebbero esserlo stati. » Jackson: «… o alla biblioteca pubblica. Se lo erano, non sono stati pubblicizzati. » Doyle: «Il testimone è licenziato. Grazie, signor Mostel. Si ricordi quel che le ho detto. » Mostel: «Si ricordi lei quel che le ho detto io!»86

La Commissione, ha scritto Robert Vaughn, ha usurpato le funzioni del Grand Jury senza la segretezza protettiva di quell’organo, lanciando accuse pubbliche nell’evidente tentativo di ottenere altre informazioni. La Commissione è riuscita a punire persone per atti o affiliazioni che non sarebbero stati giudicati criminali in un qualunque tribunale. In questo senso l’Hcua ha condotto processi più che udienze, e la sua giuria era composta da quei cani da guardia autoproclamatisi difensori della sicurezza nazionale quali gli estremisti di destra dell’American Legion. […] In nessuna circostanza durante le udienze dei presidenti Thomas, Wood o dei loro successori

sulle infiltrazioni comuniste a Hollywood, la Commissione è mai riuscita a dimostrare che le idee comuniste fossero propagandate al popolo americano mediante l’industria dello spettacolo. Più che un’inchiesta sulle infiltrazioni sovversive fu solo una persecuzione personalistica contro determinati artisti. 87

In conclusione, la «vittoria» dell’Hcua su Hollywood, anche nella seconda tornata inquisitoria, fu determinato dal comportamento di quei testimoni amichevoli che non si fecero scrupoli nel rinnegare il proprio antico impegno nelle organizzazioni di sinistra o liberali dell’industria dello spettacolo.

4.14. L’American Legion e l’industria della «clearance» Il primo round delle nuove udienze a Hollywood si concluse il 12 settembre 1951. Come temevano i dirigenti dell’industria, l’interesse delle organizzazioni politiche sul comunismo a Hollywood tendeva ad aumentare. In prima linea, come abbiamo più volte detto, vi era l’American Legion. Nel novembre del 1951 la sezione di Hollywood della Legione propose al proprio dipartimento californiano il picchettaggio delle sale che proiettavano film in cui avessero lavorato testimoni ostili alla Commissione per le attività antiamericane. Più tardi, la sezione sostenne risoluzioni che chiedevano la creazione di un comitato locale per un collegamento stabile con l’industria del cinema. Le risoluzioni non furono adottate, ma fanno capire gli obiettivi di alcuni gruppi88. Nella sua convenzione nazionale del 1951, l’American Legion ordinò ai suoi ufficiali di intraprendere un «programma di informazione pubblica» per diffondere dati sulle «associazioni comuniste» nell’industria dello spettacolo89. Nel dicembre 1951, in risposta a questa direttiva, l’«American Legion Magazine» pubblicò un articolo che preoccupò molto gli industriali del cinema. L’articolo, scritto da J. B. Matthews, ex membro dello staff dell’Hcua, si intitolava Did the Movies Really Clean their House? [Il cinema si è davvero ripulito?] 90. Matthews sosteneva che Hollywood non si fosse ripulita dai rossi fino in fondo, come invece aveva promesso nella Dichiarazione del Waldorf del 1947. A controprova, Matthews elencò i nomi di 66 «comunisti dichiarati» che avevano ugualmente lavorato in film girati nel 1951. La natura del comunismo di queste 66 persone variava dall’avere segnalato un amico ai Dieci di Hollywood per la difesa presso la Suprema Corte, fino all’appartenenza al Partito comunista. Matthews non solo elencò le persone ma anche i film in cui avevano collaborato, nonché le ditte produttrici. Nove film erano attribuiti alla 20th Century Fox, 11 alla Columbia, 8 alla Mgm, 9 alla United Artists, 5 all’Universal, 6 alla Warner Bros. e 3 alla Paramount – un totale di 52 film. «Solo un’opinione pubblica avvertita può esercitare le pressioni necessarie per sradicare tutte le influenze comuniste», concludeva l’articolo. Se quella pressione fosse stata realmente diretta contro quei 52 film i risultati sarebbero stati gravi. La Legione contava 17. 000 sezioni, 2. 800. 000 membri e un altro milione di ausiliari91. Se un boicottaggio nazionale proveniente anche solo dalla Legione avesse preso piede, avrebbe potuto avere effetti drastici sul botteghino. Quando cominciarono le udienze del 1951, la situazione dell’industria cinematografica era già in brutte condizioni: il numero degli spettatori era

crollato del 40% dal 1946 e le sale chiudevano a centinaia in tutta la nazione. Il Consent Decree approvato dalla divisione antitrust del dipartimento di Giustizia, aveva stabilito nel 1948 e 1949 la separazione della proprietà delle sale dalla distribuzione dei film causando altre grandi perdite. Per questo cattivo andamento economico, tra il ’48 e il ’51 migliaia di lavoratori dell’industria dello spettacolo furono licenziati. Il «Daily People’s World» lamentò che la forza lavoro a Hollywood era calata di 13. 000 unità, su un totale stimato dalla Dichiarazione del Waldorf in 30. 000 unità92. Nel 1947 l’industria del cinema era ancora forte e aveva tentato una resistenza, seppure insufficiente. Nel 1951 si rinunciò del tutto a resistere: la sola domanda che ci si pose era quanto lunga dovesse essere la lista nera. Il 31 marzo del 1952 a Washington Dc si tenne un incontro tra i rappresentanti dell’American Legion e i produttori: Ronald L. Wilson, comandante nazionale dell’American Legion, e James F. O’Neil capo ufficio stampa (l’uomo che aveva detto a chiare lettere a Eric Johnston quello che era l’atteggiamento della Legione nel 1947) per la Legione; Nicholas Schenk, presidente della Low’s Inc. , Barney Balabam, presidente della Paramount, Y. Frank Freeman, vicepresidente in carica per la Paramount, Nate Spingold, vicepresidente della Columbia, William H. Clark, tesoriere della Rko, John O’Connor, vicepresidente della Universal, Theodor Black, consigliere generale della Republic, Spyros Skouras, presidente della 20th Century Fox, Samuel Schneider, vicepresidente della Warner Bros. per i produttori. Non vi erano rappresentanti della Goldwin e della United Artists. I produttori chiesero alla Legione di dar loro «tutte le informazioni che avessero, grandi o piccole, che potevano riguardare qualunque dei loro impiegati coinvolti nel comunismo» e la Legione fu ben contenta di collaborare. Quindi i produttori fecero un’aggiunta alla loro solenne promessa della Dichiarazione del Waldorf. In quel documento, ricordiamo, avevano detto che «non avrebbero assunto nessun comunista riconosciuto», ma nei successivi quattro anni era apparso chiaro che era impossibile sapere chi fosse davvero comunista. Pochissimi ammisero di essere iscritti, e dimostrare in tribunale l’adesione al comunismo di chi negava ogni affiliazione, o si rifiutava di rispondere, si era rivelato estremamente difficile. Molti di coloro che erano apparsi come quasi certamente ex comunisti o comunisti, si erano efficacemente trincerati dietro il Quinto emendamento quando era stato loro chiesto «lei è mai stato membro del Partito comunista?». Così la frase che i produttori aggiunsero alla Dichiarazione del Waldorf, in accordo con la Legione, fu: «O chi abbia fatto ricorso al Quinto emendamento». Quindi i produttori posero alla Legione un problema che non avevano saputo risolvere: che fare con quegli artisti che non avevano trovato un «forum» davanti al quale potersi difendere dal sospetto dell’appartenenza comunista? Molti lavoratori avevano addosso l’ombra del sospetto ma non erano mai stati accusati pubblicamente di essere comunisti. L’Hcua aveva ammesso di avere a malapena il tempo per ascoltare chi era stato membro del Partito comunista e di non poter raccogliere anche le testimonianze di chiunque avesse sostenuto un’associazione paracomunista o fosse diventato sospetto in qualche altro

modo. L’uovo di Colombo fu trovato dal produttore Spyros Skouras. Skouras, nel 1951, aveva ingiunto ai «sospetti» impiegati nel film Viva Zapata! (id. , 1952, di Elia Kazan) di spiegargli per iscritto i motivi per cui avessero sostenuto le associazioni a cui erano stati collegati, cosicché se la compagnia fosse stata attaccata a causa del loro impiego nel film, lui avrebbe potuto giustificare le loro azioni passate. Skouras, in accordo con Nate Spingold, contattò George E. Sokolsky, il famoso editorialista della «Hearst» che tanto aveva scritto sui «rossi di Hollywood», chiedendogli un consiglio sul come «ripulire» queste persone. Sokolsky disse a Spingold e Skouras che le dichiarazioni che aveva richiesto ai lavoratori erano un’occasione eccellente per venire a conoscenza del loro passato politico. Nell’incontro del marzo 1952, Skouras chiese ai rappresentanti della American Legion di riconoscere queste dichiarazioni scritte come un valido mezzo per riscattarsi. Il comandante si disse d’accordo e poi offrì le sue strutture per la distribuzione delle dichiarazioni. Pochi giorni dopo quest’incontro, L’American Legion dette a tutte le major un elenco delle associazioni paracomuniste che avevano affiliato circa 300 persone tra i lavoratori del cinema. Da parte dei 300 sospettati partì subito una raffica di lettere: vere e proprie domande di nullaosta per giustificare il loro passato. Solo pochi rifiutarono di piegarsi, anche se non erano mai stati iscritti al Partito comunista. Nel frattempo voci di corridoio avevano fatto sapere che la Legione si avviava ad agire come un’agenzia centrale di censura per gli studios. Per mettere a tacere queste voci, e allo stesso tempo per risolvere la questione di eventuali picchettaggi davanti alle sale, ci fu un secondo incontro tra la Legione e i produttori nell’estate del 1952. Da questo incontro uscì un’intesa in base alla quale la Legione non sarebbe diventata un’agenzia di censura, a patto che ciascuna compagnia avesse individualmente «scremato» i propri lavoratori. La campagna delle dichiarazioni scritte, nel suo insieme, sembrò raggiungere i suoi obiettivi. Nel luglio del 1952 un rappresentante della American Legion proclamò che delle 300 persone nell’elenco della Legione, tutte tranne 30 avevano spiegato in modo soddisfacente i loro passati legami politici paracomunisti. La maggioranza delle persone elencate, disse, erano «buoni americani; nella maggior parte dei casi l’etichetta di comunista è stata ingiustamente appiccicata loro addosso. Altri erano stati un po’ superficiali e nessuno di loro avrebbe sofferto le conseguenze delle proprie azioni.

4.15. Le altre agenzie di «clearance» Nel 1956 John Cogley pubblicò per il Fund for the Republic il suo Report on Blacklisting, in due volumi, denunciando l’esistenza della lista nera e la creazione di un’industria nell’industria, relativa al meccanismo della clearance, termine intraducibile che identifica il modo di uscire dalla lista di proscrizione moralmente ripulito. La denuncia causò un’indagine parlamentare93, guidata dal deputato Richard Arens, che interrogò lo stesso Cogley accusandolo di essersi inventato

tutto. Cogley, per mantenere segrete le sue fonti, non riuscì a dimostrare che il motivo per cui diversi artisti non lavorassero più da anni era adducibile a motivazioni politiche, né che bastasse pagare una certa somma, in termini di denaro e di moralità, per usufruire della clearance e tornare a essere chiamati dai produttori. Oggi sappiamo che le accuse di Cogley erano veritiere. Le agenzie di clearance erano composte principalmente da gente senza scrupoli che aveva deciso di sfruttare la lista nera e le difficoltà create agli schedati per guadagnarsi la giornata. Per questioni di spazio, non posso qui trattare come si dovrebbe l’intricato tema dell’industria della clearance. Mi limito dunque a ricordare le principali sigle che operavano in questo settore, svolgendo le mansioni più disparate, dalle indagini private alle consulenze per ottenere la ripulitura della propria immagine e il reinserimento nel mondo dello spettacolo: a) La American Business Consultants (Abc)94, formata nel 1947 da tre ex agenti dell’Fbi (John G. Keenan, Theodore C. Kirkpatrick e Kenneth M. Bierly), pubblicava la rivista «Counterattack» che segnalava i sospetti e garantiva il nullaosta a coloro che avessero pagato una tassa nel timore di essere stati schedati. Nel giugno 1950 stampò la «bibbia» delle liste grigie, Red Channels, un elenco di 151 artisti con annessa indicazione delle attività paracomuniste nelle quali erano impegnati. b) Il Wage Earners Committee, fondato nell’ottobre 1951, pubblicava il giornale «National Wage Earner», che riportava ogni mese nuovi nomi di personaggi «sovversivi» e diffondeva circolari diffamatorie. c) Il Motion Picture Industry Council di Roy Brewer, lo studio legale di Martin Gang. d) La Anti-Defamation League di Arnold Forster95. e)La Aware Inc. , costituita da Vincent Hartnett, fuoriuscito da «Counterattack», che non solo pubblicava la rivista «Confidential Notebook», ma fece anche stampare e diffondere nel maggio 1952 una piccola guida, The Road Back che, come suggerisce il titolo, dava ai «peccatori» la possibilità di tornare sui propri passi, «rinascendo» come americani patriottici. Riportiamo il programma di fede anticomunista in dodici punti: The Road Back (Self-Clearance). A Provisional Statement of View on the Problem of the Communist and Communist-Helper in Entertainment Communication who Seeks to Clear Himself [Ma a quelli] predicavo di convertirsi e di rivolgersi a Dio, comportandosi in maniera degna della conversione. Atti 26,20

In questo agile pamphlet troverai la strada per redimerti dal tuo peccato comunista, compiendo la Strada che ti riporterà alla realtà, alla verità, all’amore della nostra Patria. Perché odiare il comunismo è come odiare il peccato e l’errore: è un obbligo morale. Ma questo non significa odiare i singoli comunisti. Significa «informare» nel nobile senso del termine, di mettere in guardia, educare, consigliare. L’informatore peccatore vende per soldi o vantaggio egoista quel che sa essere nel giusto. Vediamo allora insieme quali sono i 12 passi da compiere per chi voglia abbandonare il diavolo del comunismo: 1 . Domande da fare a se stessi: amo il mio paese? Credo che il mio paese sia in pericolo? Posso fare qualcosa per diminuire questo pericolo? Dirò tutta intera la verità senza alcuna adulazione? 2. Riconoscere che, qualunque fosse l’intenzione del soggetto a quel tempo, il suo nome, i suoi sforzi, il suo denaro hanno portato aiuto alla cospirazione comunista. 3. Elenco completo e franco in forma scritta di tutte le connessioni passate e presenti con elementi od organizzazioni sovversive; accludere documentazione pertinente, corrispondenza, registrazioni di contributi finanziari, programmi, pezzi di giornale o altro materiale documentario. Identificare coloro che stilarono il progetto; identificare coloro che furono coinvolti (quest’elenco può essere usato pubblicamente o privatamente, a seconda di come indicano le circostanze). 4. Un’intervista volontaria e cooperativa con l’Fbi sulla base del precedente elenco completo e franco. Il contenuto di tale intervista rimarrà segretato dall’Fbi. 5. Un’offerta scritta di cooperazione come testimone o sorgente di informazioni con: a) l’Hcua, stanza 225A, Old House Office Building 25, Dc; b) Sottocommissione alla sicurezza interna del Senato, Palazzo uffici, Washington 25 Dc; c) Ufficio controllo delle attività sovversive, Washington Dc; d) qualsiasi altra commissione del Congresso interessata; e) ogni altra agenzia di sicurezza federale; f) ogni commissione statale investigante sulle attività sovversive; g) ogni autorità locale (dipartimenti di polizia, Grand Jury, pubblici ministeri di contea o di distretti federali, interessati alle attività sovversive). 6. Relativamente ai sindacati, deve rendere la sua nuova posizione sul comunismo chiara attraverso lettere nelle pubblicazioni sindacali ecc. Qualunque cosa egli possa fare non deve sostenere elementi comunisti o cripto-comunisti, non importa quanto possano apparire insignificanti. Le questioni sindacali devono essere dibattute senza interferenze sovversive. 7. Il soggetto deve rendere pubblica la sua nuova posizione sul comunismo con tutti i mezzi possibili: dichiarazioni nelle pubblicazioni commerciali, lettere all’editore, corrispondenza personale a chiunque sia interessato: come ad esempio organizzazioni di giornalisti anticomunisti, impiegati, amici e colleghi. 8. Al di fuori del campo della comunicazione e dello spettacolo ci sono molte opportunità per fare conoscere la nuova posizione: circoli civili, politici e sociali, organizzazioni degli insegnanti e dei genitori, commissioni scolastiche e di biblioteca, gruppi culturali e religiosi. Essi possono insistere per aumentare il numero degli oratori anticomunisti, libri, lezioni, candidati ecc. 9. Sostenere gruppi, persone e organizzazioni anticomuniste. 10. Il soggetto deve mantenersi informato abbonandosi a valide riviste anticomuniste, leggere libri anticomunisti, i rapporti del governo e altra letteratura anticomunista. 11. Il soggetto deve sostenere la legislazione anticomunista facendosene responsabile carico. 12. Se le nuove convinzioni del soggetto lo portano, o lo riportano, alla religione è ancora meglio; avrà così le migliori ragioni per opporsi al comunismo. Egli può diventare attivamente anticomunista nella sua chiesa o nelle altre organizzazioni religiose. Nei gruppi di chiesa, come dovunque, egli può combattere sia il neutralismo che l’antianticomunismo. 96[Corsivi nostri]

Questo atto di fede anticomunista può forse farci sorridere, ma di certo non faceva sorridere chi doveva sottoporvisi per poter trovare lavoro. Particolare importanza era conferita al tono pentito della lettera di abiura e alla auspicabile iscrizione a qualche organizzazione antisovversiva. Alla base di questo progetto vi era l’ex comunista, cattolicissimo Matthews.

4.16. La lista grigia e la composizione della lista nera

La Dichiarazione del Waldorf auspicava che i produttori non si sarebbero lasciati prendere la mano dall’isteria, per «non colpire persone innocenti». Con la Dichiarazione avevano promesso di prestare attenzione «contro questo pericolo, questo rischio, questa paura» e avevano invitato le organizzazioni di Hollywood a «eliminare i sovversivi e a proteggere gli innocenti». Inoltre avevano chiesto al governo di emanare una legge che «incoraggiasse l’industria del cinema a liberarsi dai collaboratori sleali». Le altre organizzazioni di Hollywood non stilarono alcun programma per collaborare coi produttori e proteggere gli innocenti. Di conseguenza, i produttori cedettero alle pressioni politiche e persone innocenti furono effettivamente messe nella lista nera. Il temine «innocente» qui impiegato non significa che qualcuno fosse colpevole se fosse risultato iscritto al Partito comunista. Ci sono molti aspetti morali, sociali, politici e legali in un’appartenenza al Partito comunista, e la questione di «colpevolezza» è un problema di responsabilità personale. «Innocente» nel senso da me usato significa soltanto che una persona era nella lista nera pur non rientrando nelle categorie che gli stessi produttori, alla riunione del Waldorf, avevano additato come causa di perdita dell’impiego, ossia «un comunista o un membro di ogni partito o gruppo che operasse per rovesciare il governo degli Stati Uniti con mezzi illegali o incostituzionali. » Secondo la Dichiarazione del Waldorf , solo persone così avrebbero dovuto essere escluse dal cinema. Gli «innocenti», quelli al di fuori da questa categoria, non avrebbero dovuto essere colpiti. In pratica, anche questi innocenti furono coinvolti, ma non si sa in quale numero. John Cogley, nel suo Rapporto sulla lista nera (vol. I) riporta che il solo avvocato Martin Gang difendeva 25 persone che «mai erano state comuniste eppure erano state schedate negli studios» (p. 88). Dore Schary, che era nella posizione di sapere, disse che casi di errori di identità accadevano «molto, molto spesso»97. Molti hanno protestato dichiarandosi innocenti pur essendo inclusi nella lista nera. Sembra che ci fossero due specie di «innocenti»: a) persone che erano state confuse anagraficamente con altre; b) persone che appartenevano alle cosiddette associazioni paracomuniste ma non erano iscritte al Partito comunista. È comprensibile che alcune persone siano state iscritte nella lista nera per un errore di identità, poiché la gran parte delle «prove» di appartenenza al Partito comunista erano verbali, non scritte. Quindi con molti errori di spelling riguardo ai nomi. Gli iscritti al Partito comunista non erano abituati a corrispondere su fatti che riguardassero il Partito o sulle loro relazioni politiche: preferivano discutere di politica a quattr’occhi. Così per colpa della volatilità della comunicazione verbale, specialmente quando ricordata dopo vari anni, si creò una grande confusione su come fosse lo spelling dei nomi. Aggiungendo a ciò le imprecisioni di trascrizione degli stenografi della Commissione per le attività antiamericane, è chiaro che gli errori erano molti, specialmente in presenza di elenchi di centinaia di nomi. Su 30. 000 impiegati nel cinema nel 1947, i casi di omonimia erano piuttosto frequenti. Vi era poi un secondo tipo di «innocenti»: chi, pur non iscrivendosi mai al

Partito comunista, aveva partecipato ad attività comuniste e aveva militato in diverse organizzazioni poi etichettate come «paracomuniste». Alcuni di questi «innocenti» ebbero difficoltà a trovare lavoro, ma è impossibile determinare con precisione quanti siano stati. In alcuni casi, come quello dello scrittore Howard Kock, messo nella lista nera perché creduto iscritto al Partito comunista, l’esclusione fu totale. Per altri, detti «schede grigie», l’ostracismo venne solo dagli studios più «prudenti», riuscendo comunque a trovare impiego presso quelli più liberali98. Lo schedato «innocente», dopo essersi reso conto del suo status, aveva almeno modo di cambiare la situazione. Non appena si vedeva escluso dal giro che contava, poteva tentare di provare la sua innocenza. Occorreva però stabilire un meccanismo formale per permettere a queste persone di riscattarsi, qualcosa che mantenesse «la corda al collo dei colpevoli». Il meccanismo fu escogitato nel marzo del 1952. Era evidente la difficoltà di stabilire chi fosse comunista e chi no. Se si fossero dovuti includere tutti quelli che avevano firmato una volta una qualche petizione scritta da organizzazioni comuniste, il numero sarebbe stato di molte migliaia, incluse centinaia di persone anticomuniste che pure si erano trovate a sostenere qualcuna delle attività collaterali del Partito. All’altro estremo, se la lista nera avesse dovuto includere solo quelli che erano comunisti confessi o provati, la lista sarebbe stata così corta da essere praticamente invisibile e ciò avrebbe spinto l’American Legion a tornare sulle sue accuse di connivenza di tutta l’industria. Senza contare che nessuna organizzazione aveva l’abitudine di schedare i propri affiliati. Anche per quelli «riconosciuti» come comunisti il problema delle prove della loro affiliazione al Partito era quindi insormontabile. Molti furono accusati di «comunismo» da privati cittadini o da giornali, ma con nessuna prova che potesse stare in piedi in un tribunale. C’erano moltissime voci sull’appartenenza comunista di vari elementi di Hollywood, così come ce n’erano tante altre su chi poteva essere alcolista, omosessuale o ninfomane, ma non si poteva licenziare sulla base di un pettegolezzo. Del resto qualcuno doveva essere cacciato via – il problema era stabilire chi. Era insomma necessario ideare un sistema preciso sul quale la lista nera potesse basarsi. Così come Eric Johnston aveva temuto, sarebbe stato proprio un Comitato ad arrogarsi il diritto di stabilire chi fosse comunista; ma questo sarebbe stato a Washington, non a Hollywood. Il 28 dicembre del 1952 fu pubblicato il rapporto annuale dell’Hcua99. In questo rapporto la Commissione riassumeva l’esito delle udienze a Hollywood sotto il titolo L’infiltrazione comunista nell’industria del cinema di Hollywood. Da pagina 41 a pagina 56, l’Hcua elencava in ordine alfabetico coloro che erano stati « identificati come membri presenti o passati del Partito comunista» [corsivo nostro]. Dei 110 testimoni chiamati in giudizio nella tornata 1951-’52, 58 denunciarono un totale di 902 loro conoscenti o amici; di questi, circa 700 erano nomi già noti alla Commissione. Tra i più citati, il record andò a John Howard Lawson, nominato 27 volte. Il 6 febbraio del 1954 fu pubblicato il rapporto per il 1953: nella sezione intitolata L’indagine sulle attività comuniste nell’area di Los Angeles, l’Hcua allungava la sua lista dalla

pagina 28 alla pagina 53. Questi due documenti contengono virtualmente i nomi di tutti coloro che furono schedati dall’industria del cinema a Hollywood. Nedrick Young, che citò per ultimo i produttori con l’accusa di aver stilato una lista nera nel 1960, ha sostenuto che le udienze dell’Hcua del 1951-’53 resero la Dichiarazione del Waldorf «applicabile a più di 200 persone» 100. John Howard Lawson, uno dei Dieci, ha stimato che «nel suo momento di massima espansione la lista nera comprendesse circa 300 artisti». Alvah Bessie, un altro dei Dieci, nel suo saggio Inquisition in Eden sostiene che «almeno 200 lavoratori del cinema furono schedati», sebbene in un’altra parte dello stesso libro dica che sono stati «più di 300». Herbert Biberman, un altro dei Dieci, dice nel suo saggio che «circa 200 uomini e donne di Hollywood furono schedati». Adrian Scott è stato più specifico. Nel 1955 sostenne che la lista nera includeva circa 214 artisti e professionisti «tuttora ostracizzati»: tra loro 106 sceneggiatori, 36 attori, 3 ballerini, 11 registi, 4 produttori, 6 musicisti, 4 cartoonisti e altri 44 professionisti. La cifra di 214 è più di una rozza stima. La rivista «Frontier»,in un articolo di Elizabeth Poe, nel 1954 sottolineò che 324 persone «identificate come comunisti di Hollywood» davanti all’Hcua, erano state schedate nei resoconti annuali del 1953-’54. Da questo numero tuttavia Poe escluse coloro che «non avevano mai lavorato nell’industria del cinema o della radio, o che non stavano lavorando quando furono fatti i loro nomi. Escludendo le mogli dei professionisti e altri che non hanno mai lavorato nel cinema, restano 212 persone schedate che effettivamente lavoravano a Hollywood». Howard Suber elenca i nomi101 di 214 persone indicate come «comunisti di Hollywood». Questi nomi sono stati desunti dal rapporto annuale del 1953 e del 1954 e sono presumibilmente lo stesso gruppo di persone che formavano la lista nera dei produttori. Ovviamente per dimostrare che uno era comunista non sarebbe dovuta bastare l’accusa di un testimone né si sarebbe dovuto intendere l’appello al Quinto emendamento come un’ammissione di colpa; l’intera lista pubblicata dall’Hcua non prova a noi nulla riguardo le idee politiche dei suoi elencati. Ma nel clima dell’epoca la lista rappresentava quelli che erano creduti comunisti nella testa dei produttori, e tanto bastava. Nicholas Schenk, il più influente manager dell’industria del cinema, disse circa la presenza di un nominativo sulla lista: «La gente è convinta che sia garanzia di comunismo». Eric Johnston fu ancora più chiaro: «C’è l’impressione che, se non sono tutti comunisti, agiscano come se lo fossero. Questo getta discredito su tutto il cinema»102. L’evidenza del fatto che bastasse essere chiamati comunisti in una delle udienze dell’Hcua per finire sulla lista nera è data dall’elenco presentato da Suber. Qui troviamo almeno cento persone che avevano regolarmente lavorato in molti film prima di essersi rifiutate di rispondere alle domande della Commissione, mentre subito dopo nessuno di loro lavorò più fino alla fine degli anni ’50. È chiaro che erano stati tutti discriminati. Per un’altra parte degli schedati è difficile stabilire se furono esclusi dal lavoro: si tratta magari di carpentieri, musicisti, pubblicitari o altri che di solito non figurano nei titoli dei film. Ma tutti quelli che svolgevano i più importanti lavori creativi – registi,

attori, sceneggiatori – cessarono di lavorare subito dopo le udienze dell’Hcua. Possiamo quindi concludere con sicurezza che tutti quelli dell’elenco della Commissione siano stati esclusi dal lavoro anche quando non ne abbiamo prove certe. Come abbiamo visto, dalla lista nera era possibile «autoriscattarsi». Qualche volta, come nel caso di Edward Dmytryk e Robert Rossen, dopo essere stati messi nella lista nera per avere dato una testimonianza «non soddisfacente» davanti all’Hcua, si poteva essere cancellati in seguito a un’udienza «soddisfacente». Negli ultimi anni della lista nera, qualcuno riuscì a farsi cancellare semplicemente firmando una dichiarazione al proprio datore di lavoro103. Rimasero nella lista quelli che, come disse B. B. Kahane, vicepresidente della Columbia, «non avevano cambiato la loro posizione o si erano trincerati dietro il Quinto emendamento»104. Nel 1945, John Rankin, un congressista dell’Hcua, aveva dichiarato: «Hollywood è il più grande covo di comunisti degli Stati Uniti»105, ma nel 1953 la Commissione per le attività antiamericane, nel rapporto annuale, poteva proclamare che: «Può essere stabilito con sufficiente autorità che forse nessuna grande industria nel mondo impiega oggi così pochi comunisti come Hollywood»106. Anche questa dichiarazione può essere considerata come una prova dell’efficacia della lista nera a Hollywood. Lascio la conclusione del capitolo alle parole di Albert Einstein, del quale il 12 giugno 1953 il «New York Times» pubblicò una lettera in risposta al professore di liceo William Frauenglass, che lo aveva consultato per sapere come porsi di fronte alle indagini del Congresso: Il problema che gli intellettuali di questo paese devono affrontare è molto serio. Politicanti reazionari sono riusciti a insinuare nella gente il sospetto verso tutti gli intellettuali, terrorizzandoli con pericoli inesistenti. Hanno avuto successo, e ora si apprestano a sopprimere la libertà di insegnamento e licenziano, per ridurli alla fame, coloro che non si sottomettono. Che cosa deve fare la minoranza degli intellettuali contro questa vergogna? Posso solo immaginare una rivoluzionaria resistenza passiva, in senso gandhiano. Ogni intellettuale chiamato davanti a una commissione si rifiuti di testimoniare; sia pronto a rischiare per questo la prigione e la propria ricchezza materiale nell’interesse del benessere culturale del paese. Tuttavia, per evitare l’autoincriminazione, il rifiuto di testimoniare non deve essere basato sul Quinto emendamento, ma sull’idea che è semplicemente vergognoso che cittadini senza colpe siano sottoposti a una simile, anticostituzionale inquisizione. Se un numero sufficiente di persone sono pronte a questo duro passo, alla fine vinceranno. In caso contrario, non si meriteranno altro che la schiavitù in cui si sta cercando di metterli. Albert Einstein107 P. S. Questa non è una lettera confidenziale.

Rispetto alla versione originale della missiva, il quotidiano ritenne di omettere il riferimento al Quinto emendamento. L’invito alla resistenza gandhiana del grande scienziato non passò inosservato sulla stampa americana. I. F. Stone, famoso editorialista, si schierò dalla sua parte, lamentando che la voce del fisico fosse «l’unica nel deserto». Quando, due anni dopo, Einstein morì, Stone volle ricordare anche questa sua ultima coraggiosa presa di posizione, «tipica di uno spirito che ha combattuto ogni forma di fascismo incontrata nella sua vita, e che si era fatto recentemente interprete di una visione jeffersoniana del Primo emendamento».

1 Questa organizzazione fu poi schedata come comunista dalla Commissione. Da quando il

processo dei Dieci cominciò, fu la voce di protesta più forte della California del Sud contro l’Hcua. Il Comitato per il Primo emendamento organizzò un volo charter di stelle del cinema per seguire le udienze di Washington direttamente nell’aula, ma una volta terminate il Comitato si sfaldò rapidamente. 2 «The Los Angeles Examiner», 3-5 novembre 1947. 3 Cfr. California Legislature, Senate, Fact–Finding Committee on Un-American Activities, 4th Report, Communist Front Organizations,1948, che contiene i frutti delle indagini di Tenney durante tutto il 1947: circa 400 pagine di nomi e associazioni. Fu qui che per la prima volta il Comitato per il Primo emendamento fu attaccato come organizzazione paracomunista. 4 Alle elezioni sindacali del novembre 1947, si opposero essenzialmente due fazioni, la «Lester Cole» e la «All Guild», la prima proponeva il massimo di sostegno ai Dieci, la seconda era apertamente contraria. Alla fine stravinse la «All Guild» con 668 voti contro 60, a testimonianza di quanto, anche nella Swg, contasse poco l’influenza della sinistra o del Partito comunista. 5 «Daily Variety» ,17 novembre 1947. 6 Affidavit di J. Robert Rubin, vicepresidente e consigliere generale della Loew’s Inc. , del 10 luglio 1951, in Cole, et al. versus Loew’s Inc. , et al. , Usdcsd, California, Civil Action n. 8005Y, p. 21. 7 Intervista di Dore Schary a Howard Suber del 20 agosto 1965. Riportato in Howard Suber, The 1947 Hearings of the House Committee on the Un-American Activities into Communism in the Hollywood Motion Picture Industry,Tesi di laurea discussa alla University of California, Los Angeles, a. a. 1966. 8 Affidavit di J. Robert Rubin cit. , p. 21. Crum disse anche a Rubin di essere convinto che Trumbo e Cole non fossero comunsiti. 9 «Daily People’s World», 17 dicembre 1948. 10 Eddie J. Mannix, deposizione nel processo Cole, et al. versus Loew’s Inc. , et al. ,California Superior Court, LA County, n. 541. 446, pp. 5-9. Quando l’Hcua disse privatamente a Mannix che Trumbo e Cole erano comunisti, rispose: «Non me ne frega nulla se sono comunisti o no» (p. 33). Le deposizioni di altri leader dell’industria sono simili, sebbene molto più sobrie. Nicholas Schenk, in particolare, espresse in un’altra udienza un concetto che riassumeva bene l’atteggiamento di molti suoi colleghi: «Il pubblico dà per scontato che siano comunisti». Eric Johnston dichiarò che «l’impressione è che se non sono comunisti, si comportino come tali, e così facendo portano discredito all’industria tutta». Riportato anche da Howard Suber, The 1947 Hearingscit. ,pp. 290-291. 11 Deposizione di Mayer in Cole, et al. versus Loews’ Inc. , et al. cit. , p. 31. Riportato anche in Howard Suber, The 1947 Hearingscit. ,p. 291. 12 Ivi,p. 33. 13 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltration of Hollywood Motion Picture Industry,83rd Congress, 1st Session, p. 522. 14 Deposizione di Mayer in Cole, et al. versus Loews’ Inc. , et al. cit. , p. 36. Riportato anche in Howard Suber, The 1947 Hearingscit. ,p. 291. 15 Ivi,p. 37. 16 Copia della lettera di conferma del contratto della 20th Century Fox a Lardner nell’archivio Kenney Morris, Wisconsin. 17 «Daily Variety», 14 novembre 1947. 18 «The Hollywood Reporter», 18 novembre 1947. 19 «New York Sun», 21 novembre 1947. 20 Us, Congressional Record,80th Congress, 2nd Session, 1947, p. 10880 e sgg. Albert Maltz fu il primo a essere giudicato dopo la stabilita ora di dibattito. Il risultato finale fu: 346 in favore della citazione per oltraggio, 17 contro, 69 non votanti. Dopo la prima votazione, l’interesse dei deputati scemò e quando si passò a giudicare la posizione di Ring Lardner jr. erano rimasti in aula appena 30 membri, come riporta il «Daily Variety», 25 novembre 1947. 21 Tra i presenti c’erano Joseph M. Schenk, Barney Balaban, Y. Frank Freeman, Henry Ginsberg, Harry Cohn, Jack Cohn, Samuel Goldwyn, Dore Schary, Eric Johnston, Donald Nelson, Walter Wanger, Robert Rubin, E. J. Mannix, Ed Cashelman, Earl Hammond, Micheal G. Mitchell, Herbert Freston, Ned Depinet, Herbert J. Yeats, Donald Russell, Nate Blumberg, William Goetz, Robert S. Benjamin e Lew Schrieber. Purtroppo non esisitono verbali della

riunione, per cui le uniche fonti disponibili sono relative ai resoconti della stampa o agli affidavit e alle dichiarazioni rilasciate da alcuni degli intervenuti. Cfr. deposizione di L. B. Mayer e E. J. Mannix in Cole, et al. versus Loew’s Inc. , et al. cit. 22 Capo, come abbiamo visto, dell’Associazione produttori e dell’Associazione del cinema. 23 Robert Kenny, uno degli avvocati dei Dieci, sostiene però il contrario. Riporta Suber che nel carteggio Kenny-Morris alla State Historical Society del Wisconsin è raccolta una parte degli editoriali della stampa americana, sia politica che specialistica, che sosteneva ancora la battaglia contro l’indagine dell’Hcua. 24 Bisogna ricordare che l’industria dello spettacolo dipendeva per più del 40% dai guadagni dei mercati esteri. Le nazioni guidate da governi comunisti avevano già messo al bando i film statunitensi, se anche i paesi anticomunisti avessero seguito lo stesso esempio, sarebbe stato un disastro economico per Hollywood. 25 E. J. Mannix, deposizione in Cole, et al. versus Loew’s Inc. , et al. cit. , pp. 21-22. I produttori valutarono che se anche potevano esser condannati in tribunale a pagare le penali ai Dieci, sarebbe stato senz’altro un danno economico minore rispetto a quello di dover fronteggiare un boicottaggio nazionale dei loro film. 26 Deposizione di Goldwyn del 14 marzo 1950 in Cole, et al. , versus Loew’s Inc. , et alcit. 27 Intervista di Dore Schary a Howard Suber, 20 agosto 1965. Schary era molto amareggiato di essere rimasto l’unico produttore a dichiarare ufficialmente durante le udienze dell’Hcua del 1947 ciò che aveva già sostenuto in precedenza, ossia che un uomo dovesse essere assunto solo sulla base delle sue personali capacità a ricoprire un incarico, e non per le sue idee politiche. 28 Così riporta Schary nell’intervista sopra menzionata, ma Herbert Biberman in Salt of the Earthfornisce una versione totalmente differente. 29 Intervista di Dore Schary a Lillian Ross, Onward and Upward with the Arts, «The New Yorker», 21 febbraio 1948, p. 48, in cui il produttore dichiara: «Avevo una sola alternativa possibile all’appoggiare la decisione presa dai miei colleghi: dimettermi e trovare un altro lavoro. Ma anche questo non li avrebbe certo fatti desistere, ogni mia posizione sarebbe stata del tutto inutile a quel punto. E così, poiché mi è sempre piaciuto il mio lavoro e non volevo essere messo fuori dall’industria del cinema, accettai. Speravo anche che, rimanendo all’interno, avrei potuto addolcire in futuro certe scelte illiberali». 30 Dichiarazione del Waldorf Astoria, pubblicata sul «Daily Variety» del 26 novembre 1947 e su molti altri giornali dello stesso giorno. Traduzione parziale in Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema americano, 1930-1960, Editori Riuniti, Roma 1981. 31 Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywoodcit. , pp. 429-430. 32 Lillian Hellman, Pentimento. A Book of Portraits, Little, Brown and Company, Boston2000 ; Scoundrel Time, Bantam Books, New York 1977 (trad. it. Pentimento e Il tempo dei furfanti, Adelphi, Milano 1978). 33 Lester Cole, Adrian Scott, Edward Dmytryk, Ring Lardner jr. e Dalton Trumbo erano i soli dei Dieci ad avere un contratto fisso. La Mgm, secondo quanto dichiarato da Robert Rubin in Cole, et al. , versus Loew’s Inc. , et alcit. , p. 23, si limitò a sospendere Cole e Trumbo perché erano da tutti ritenuti non comunisti, e si pensava che si sarebbero difesi da tale accusa senza problemi. 34 Ci furono dei tentativi in extremis da parte di alcuni dei Dieci per salvare il salvabile. Due giorni dopo la pubblicazione della Dichiarazione del Waldorf sui giornali, Lester Cole firmò un affidavit alla Mgm nel quale affermava solennemente di aver provato a far inserire nei verbali delle udienze dell’Hcua la sua dichiarazione sotto giuramento, ma senza riuscirci. Cole riportava nell’affidavit un frammento della sua dichiarazione (cfr. «Appendice»), dove diceva: «Io sono un cittadino americano leale che sostiene la Costituzione degli Stati Uniti, che non crede nella violenza e che non vuole rovesciare con la forza il nostro governo. Non sono un agente di una potenza straniera». Questa dichiarazione è anche citata nella deposizione di Robert Rubin in Cole, et al. , versus Loew’s Inc. , et alcit. Dal momento che Cole non volle rispondere alla domanda se era o no comunista, alla quale il suo datore di lavoro prestava tanta attenzione, Cole fu ugualmente sospeso il 2 dicembre 1947. 35 I cinque avevano un contratto fisso e vinsero: Scott versus Rko,Civil n. 7983BH, SD, Cal. ; Lardner versus 20th Century Fox,Civil n. 8003BH, SD, Cal. ; Dmytryk versus Rko,Civil n.

7982BH, SD, Cal. ; Cole versus Loew’s Inc. ,Civil n. 8005Y, SD, Cal. ; Trumbo versus Loew’s Inc. ,Civil n. 7922BH, SD, Cal. Le due ultime cause furono accorpate in una sola. I produttori sfruttarono il momento di bisogno economico dei due scrittori e offrirono un accordo di indennizzo di complessivi 125. 000 dollari. «La somma che avrebbero dovuto pagarci», ricorda Lester Cole nella sua autobiogragfia, «era ben al di sopra di 300. 000 dollari, ma dovevamo sostenere le spese processuali per evitare la galera sia in Corte d’appello che in Corte suprema. Così accettammo, e siccome cinque dei Dieci erano ormai sul lastrico, decidemmo di dividere in parti uguali tra tutti quei 62. 500 dollari a testa che prendemmo». Lester Cole, Hollywood Red. The Autobiography of Lester Cole, Ramparts Press, Palo Alto 1981, p. 301. 36 La storia dei vari appelli intentati dai Dieci è tracciata nel resoconto di 650 pagine: Dalton Trumbo, appellant versus United States of America, appelle,n. 9873, nell’archivio della Corte di Appello degli Stati Uniti per il Distretto di Columbia. 37 Herbert Biberman ed Edward Dmytryk furono condannati soloa sei mesi di prigione, tutti gli altri a un anno. L’unica ragione apparente per questo sconto di pena è che il giudice che li riconobbe colpevoli valutò il loro reato meno grave di quanto fecero i giudici che condannarono gli altri. Adrian Scott e Samuel Ornitz entrarono in carcere qualche mese dopo la data prevista perchè erano malati. 38 Lester Cole, Hollywood Redcit. , p. 320. 39 Robert Kenny, My First Years in California Politics(Los Angeles, programma di storia della Ucla, 1964) p. 381. Albert Maltz, in My Life on the Blacklist, un’intervista del 14 giugno 1965 al «Saturday Evening Post», sostenne la stessa tesi di Kenny. Ring Lardner jr, in un’altra intervista comparsa sullo stesso giornale il 14 ottobre 1961, dice che fino alla primavera del 1951 «la lista nera […] riguardava solo noi Dieci e pochi altri che avevano parteggiato per noi in modo molto esposto». D’altro canto, Alvah Bessie in Inquisition in Eden, Seven Seas, Berlin 1967, >p. 226, sostiene che dopo le udienze del 1947 la lista nera «già includeva tutti gli altri testimoni che nonerano neanche stati chiamati al banco», così come gli appartenenti alla «lista grigia», un centinaio di persone i cui nomi erano stati fatti dai testimoni amichevoli. Questa dichiarazione di Bessie tuttavia non risulta dagli altri documenti che ho analizzato: John Cogley, nel suo Report on Blacklisting,vol. I, Fund for the Republic, New York 1956, p. 77, dice che «tra i nove [dei «Diciannove ostili», i nove che non furono chiamati al banco, N. d. A. ] che continuarono a lavorare per gli studios di Hollywood, alcuni dovettero firmare delle dichiarazioni in cui garantivano di non essere membri del Partito comunista. Gli altri subirono gli effetti della Dichiarazione del Waldorf immediatamente». Cogley aggiunge, a p. 78, che «la minaccia della schedatura non era limitata ai restanti “ostili”» ma non prova che tale minaccia si fosse mai trasformata in realtà. Analizzando il curriculum lavorativo dei nove ostili che non testimoniarono nel 1947, si evince che tutti quelli che furono schedati nel 1951 riuscirono a lavorare nel periodo tra il ’47 e il ’51. 40 «Daily Variety» e anche «The Hollywood Reporter» ,15 maggio 1950. 41 Cfr. Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltration cit. ,82nd Congress, 1st Session, pp. 55-738, 1415-1882, 2053-2126; in 2nd Session, pp. 2307-2433, 3453-3549, 4249-4282. In realtà il ritorno della Commissione a Hollywood non rappresentava stavolta che una parte della nuova stagione di inchiesta e terrore riguardante tutto il mondo dello spettacolo: radio, teatro, musica ricevettero tutti le stesse attenzioni inquisitorie riservate al cinema e alla televisione negli anni precedenti; i politici maccartisti, battezzarono questa operazione come lo «scrutinio antisovversivo», lasciando intendere che voleva essere esteso quanto appunto un’elezione. 42 «Daily Variety», 14 marzo 1951. 43 Tratto da Loyal Actors Call for Film Industry Purge all Subversives , «Los Angeles Evening Herald & Express» ,23 marzo 1951; riportato anche in Eric Bentley (a cura di), Thirty Years of Treason. Excerpts from Hearings Before the House Committee on Un-American Activities, 1938-1968, Viking Press, New York 1973 (nuova edizione: Nation Books, 2002), p. 299. 44 Nell’agosto 1948 Whittaker Chambers testimoniò davanti all’Hcua. Chambers, redattore della rivista «Times,» disse alla Commissione che in passato era stato comunista e aveva avuto dei collegamenti clandestini. Fece il nome di dieci suoi ex complici – il numero ricorre! – tra i quali il più noto era Alger Hiss, già alto funzionario del Dipartimento di Stato. Chambers accusò Hiss di avergli dato dei documenti segretissimi e dichiarò di averli tenuti dentro una

zucca nella sua fattoria del Maryland. Hiss venne denunciato, processato due volte, e tenuto in prigione per quasi quattro anni. Lo stesso presidente degli Stati Uniti, Nixon, lo attaccò duramente, dichiarando in televisione che l’America si trovava davanti al più grave scandalo di spionaggio della sua storia. Nel 1975 si scoprì che le carte segrete nascoste nella zucca non contenevano niente di segreto, niente di riservato. In realtà si trattava di carte «non classificate», che a Washington vuol dire che chiunque le chieda può averle in visione. 45 Il McCarran Internal Security Act prevedeva la schedatura di tutti i comunisti e di tutte le organizzazioni filocomuniste a opera di un’apposita agenzia, il Comitato di controllo delle attività sovversive, e la possibilità di dichiarare «periodi di emergenza per la sicurezza interna» in cui era prevista l’incarcerazione di elementi «sovversivi» o presunti tali. 46 Anche noto come Alien Registration Act, fu approvato già nel 1940, ma la Corte Suprema lo valutò legittimo nel famoso caso Dennis versus Us. Fu la prima legge del decennio a porre seri limiti alle attività politiche antigovernative, punendo severamente ogni atto giudicato sovversivo. 47 I due coniugi furono accusati di spionaggio dal fratello di Ethel e condannati a morte nonostante la penuria delle prove. Solo nel 1995 si è potuta dimostrare la loro effettiva colpevolezza. 48 Tra il 1948 e il 1950 lo Stato di California si distinse nell’approvazione di leggi quali la Levering Act (che prevedeva la sospensione dallo stipendio per quei dipendenti pubblici che si rifiutassero di giurare di non far parte al momento, e di non aver fatto parte nel passato, di un’organizzazione sovversiva, cioè tra quelle incluse nell’elenco di 625 associazioni pericolose stilato dal procuratore generale), il Dilworth-Luckel Act (che prevedeva il licenziamento di insegnanti e dipendenti pubblici che si rifutassero di rispondere a domande sulle loro opinioni o attività politiche davanti a commissioni inquirenti istituite dai consigli didattici, dai parlamenti statali o dal Congresso) e altre, alle quali anche il municipio, il consiglio dei supervisori della contea di Los Angeles e il consiglio di amministrazione dell’Università di California decisero di piegarsi imponendo ai propri membri e impiegati di controfirmare un giuramento di fedeltà alla nazione, pena il licenziamento. 49 Ne fece le spese anche il celebre film italo-francese Don Camillo(1952, di Julien Duvivier), che il capo della censura della Paramount, l’italo-americano Luigi Luraschi, pensò bene di denunciare all’attenzione della Cia alla stregua di «una di quelle pellicole comuniste o comunque favorevoli ai comunisti, che mostravano come fosse in fondo possibile convivere coi rossi in un clima quasi di amicizia». Il film con Gino Cervi e Fernandel aveva vinto il premio alla regia alla Mostra di Venezia, il Nastro d’argento della Critica cinematografica italiana all’attore francese, in Germania era stato insignito del riconoscimento di Stato quale «Pellicola fondamentale per lo sviluppo del pensiero democratico» e inoltre aveva ottenuto un incredibile successo di pubblico, per cui Luraschi era preoccupato che potesse assicurarsi anche l’Oscar come miglior film straniero. Se così non fu, una parte della responsabilità va attribuita allo zelante censore. 50 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltrationcit. , parte I, 21 marzo 1951. Riportato in Eric Bentley (a cura di), Thirty Years of Treasoncit. , p. 308 e passim. 51 Quinn versus Us, 349 Us 155, Emspak versus Us, 349 Us 190 e Bart versus Us, 349, Us 219, le cui sentenze furono tutte emesse nel maggio 1955. 52 Come ha scritto il celebre storico costituzionale Leonard W. Levy, nel suo studio sul Quinto emendamento: «Soprattutto, il Quinto riflette il giudizio dei Padri fondatori per il quale in una società libera, basata sul rispetto dell’individuo, la determinazione di colpevolezza o innocenza mediante giuste procedure, per le quali l’accusato non voglia rilasciare delle dichiarazioni che potrebbero ritorcersi contro di lui, fosse più importante che punire il colpevole». Leonard W. Levy, Origins of the Fifth Amendment, Oup, New York 1968, p. 432. 53 Lillian Hellman, Pentimento e Il tempocit. 54 Riportato in Robert Vaughn , Only Victims. A Study of Show Business Blacklisting, Putnam, New York 1972, p. 126. 55 Sulla base di questa risposta l’investigatore Doyle propose l’incriminazione per attentato alla Costituzione. Cfr. Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltrationcit. , 82nd Congress, 1st Session, 1951, parte I, p. 55. Successivamente citato come Hcua, udienze del 1951. 56 Il dizionario Webster, oltre a essere il dizionario più diffuso in tutto il Nord America, è considerato come la bibbia della lingua americana. Ogni anno, i nuovi termini inseriti nella sua

edizione di aggiornamento segnano la legittimità dei neologismi. Gli americani, inoltre, quando usano l’espressione «non sei d’accordo con il Webster» intendono che qualcuno sta cambiando il significato delle parole pur di avere ragione. 57 Hcua, udienze del 1951. 58 Robert Vaughn , Only Victimscit. , p. 142. 59 Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywood. La caccia alle streghe negli anni ’50, Feltrinelli, Milano 1979, p. 71 60 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltrationcit. , 82nd Congress, 2nd Session, 25 aprile 1951. Anche in Eric Bentley (a cura di), Thirty Years of Treasoncit. 61 Edward Dmytryk, Odd Man Out. A Memoir of the Hollywood Ten, Southern Illinois University Press, Carbondale 1996, pp. 1-2. 62 Dmytryk si riferiva qui allo scontro feroce che aveva contrapposto le due confederazioni sindacali del cinema: l’ International Association of Theatrical and Stage Employees(Iatse) e la Conference of Studio Unions. Il primo era il sindacato più antico (1893) e potente, i cui capi George Brown e Willlie Bioff però, sin dagli anni ’30, erano collusi con la mafia di Lucky Luciano e Al Capone, oltre che corrotti dagli studios al fine di tenere basso il costo del lavoro e impedire il proliferare degli scioperi. La Csu era invece quella che oggi chiameremmo un «comitato di sindacati di base», nato nel 1937 sotto la guida del pittore Herbert K. Sorrell in polemica per la linea troppo accondiscendente dello Iatse e divenuto celebre nel 1941 in seguito a un vittorioso sciopero contro la Walt Disney Productions. Quando, sempre nel 1941, i capi dello Iatse finirono suicidi o in galera con l’accusa di corruzione ed estorsione, la Csu visse una stagione d’oro che la portò a sostenere il drammatico e divisivo sciopero di otto mesi del 1945 contro gli studios per l’innalzamento dei salari e della qualità del lavoro. Anche quella protesta fu infine vittoriosa, ma al prezzo di una giornata di sangue (Black Monday) e di scontri tra lavoratori della Csu, del Sindacato sceneggiatori, della Gilda dei disegnatori e maestranze del Cio da una parte, contro i lavoratori dello Iatse, la polizia e guardie private della Warner dall’altra. A qual punto lo Iatse – ora guidato da Richard Walsh, che era stato condannato con Brown ma poi graziato dal presidente Truman – lanciò una campagna per bollare di comunismo i «rivali» della Csu. La campagna ebbe successo grazie all’aiuto dei capi degli studios, della Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals e del Sindacato attori guidato da Reagan, che proprio alla fine del 1946 si spostò nel campo dello Iatse. L’importante presa di posizione del Sindacato attori avvenne in un’assemblea organizzata il 19 dicembre 1946 all’Hollywood Legion Stadium, nella quale Reagan tenne uno dei suoi migliori discorsi pubblici in grado di convincere la maggioranza degli intervenuti – tra cui Sterling Hayden, che nell’aprile del 1951 avrebbe ammesso all’Hcua di aver fatto parte del Partito comunista americano per spostare a sinistra il Sindacato attori – a firmare un documento di condanna della politica sindacale della Csu, cosa che di fatto segnò l’inizio del declino del sindacato di base. Sorrell convocò ancora nel 1947 un altro discusso sciopero, che ebbe il solo risultato di aggiungere violenza senza ottenere miglioramenti. Come risposta, nel marzo 1947, dei gangster probabilmente al soldo di Walsh, aggredirono Sorrell a Glendale, lasciandolo mezzo morto sulla Mulholland Drive. La sua creatura, la Conference of Studio Unions, si sarebbe sciolta nel 1949, lasciando lo Iatse come unico referente sindacale del mondo di Hollywood. 63 David Platt, «New York Daily Worker», 15 novembre 1951. 64 Edward Dmytryk, Odd Man Outcit. , p. 176. 65 Ivi,p. 177. 66 Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywoodcit. , pp. 71-72. 67 Conservando il termine «Dieci» ora si include Bertolt Brecht ed esclude Edward Dmytryk. 68 Riportato in Eric Bentley (a cura di), Thirty Years of Treasoncit. , p. 482 e passim. 69 Tra i nomi fatti da Kazan ricordiamo: Clifford Odets, Paula Miller, Morris Carnovsky, Edward J. Bromberg. 70 Elia Kazan, A Statement, «The New York Times», 12 aprile 1952. Riportato anche in Albert Fried (a cura di), McCarthyism. The Great American RedScare. A Documentary History, Oup, New York-Oxford 1997; in Victor S. Navasky, Naming Names, Viking Press, New York 1980 e da Eric Bentley (a cura di), Thirty Years of Treasoncit. , p. 482 e passim. 71 Cfr. Arturo Zampaglione, 50 anni fa la caccia alle streghe,«La Repubblica», 28 ottobre 1997; Antonio Monda, Sul «delatore» Elia Kazan l’America litiga ancora, «La Repubblica», 28

ottobre 1997 e L’Oscar a Kazan, la scelta di Spielberg, «La Repubblica», 2 febbraio 1999. 72 Riportato in Victor S. Navasky, Naming Namescit. , p. 207. 73Ronald Reagan, Richard C. Hubler, Where’s the Rest of Me?, Doubleday, Doran and Co. , New York 1965, p. 245. Riportato anche in Lary May, The Big Tomorrow, University of Chicago Press, Chicago 2000, p. 195. 74 Lillian Hellman, Pentimento e Il tempocit. 75Buchman si presentò alla Commissione e duellò con gli investigatori per tre ore, ammettendo la propria iscrizione al CpUsa ma rifiutandosi sia di fare nomi di altri compagni sia di appellarsi al Quinto emendamento. Alla fine dell’interrogatorio, per motivi mai spiegati, il rappresentante repubblicano della California, Donald Jackson, lasciò l’aula delle udienze facendo mancare il numero legale ed evitando l’incriminazione per oltraggio al testimone ostile. 76 Lillian Hellman, Pentimento e Il tempocit. 77 Ivi, pp. 265-266. 78 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltrationcit. ,parte VII, pp. 3545-3546. 79 Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltrationcit. Riportato tradotto in Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywoodcit. , appendice. 80 Lillian Hellman, Pentimento e Il tempocit. , pp. 280-281. 81 Murray Kempton, Ritratto di signora, «New York Post», 25 maggio 1952. 82 La Screen Actors Guild, ora guidata da Ronald Regan, aveva addirittura scelto di seguire la stessa strada della Commissione: nell’ottobre 1950 il suo esecutivo aveva redatto, assistito dalla Mpapai, un giuramento di fedeltà simile a quello già in uso nelle forze armate e nelle industrie della difesa. Nel luglio del 1953 gli iscritti della Sag votarono a grande maggioranza per l’espulsione immediata dal Sindacato di noti comunisti. 83 «Variety», 5 marzo 1951. 84 Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema americano, 1930-1960, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 472. 85 Riguardo alle udienze della Commissione sui personaggi televisivi, dobbiamo almeno accennare alla coraggiosa deposizione dell’attore Lionel Stander, che affrontò la questione a testa bassa, il 6 maggio 1953, accusando i commissari di essere loro i sovversivi. L’audizione gli costò quindici anni di schedatura. 86 Hcua, Investigation of Communist Activity in the Los Angeles Area,vv. 2, 4-6, 84th Congress, 1st session, giugno-luglio 1955 e aprile 1956, Washington Dc, Us Government Printing Office, 1955-’56. 87 Robert Vaughn , Only Victimscit. , pp. 174-176. 88 Cfr. Harold Horowitz, Loyalty Test for Employment in the Motion Picture Industry, «Stanford Law Review», maggio 1954, pp. 456-57. L’articolo è particolarmente interessante per analizzare le attività della Al nel 1951-’52 e per presentare anche le attività di altri gruppi minori che picchettavano le sale. 89 Ivi, p. 457. 90 J. B. Matthews, Did the Movies Really Clean their House?, «American Legion Magazine», dicembre 1951. 91 Le stime sono tratte dalla testimonianza di James O’Neil per l’Hcua, in Investigation of SoCalled «Blackilisting» in Entertainment Industry - Report of the Fund for the Republic Inc. ,Washington Dc, 1956, p. 5257. 92 «Daily People’s World»k, 20 marzo 1950. 93 Hcua, Investigation of So-Called Blacklisting in the Entertainment Industry - Report of the Fund for the Republic Inc. ,Washington Dc, 1956. 94 Sulle attività della Abc, dei suoi soci fondatori e sulle loro pubblicazioni «Counterattack» e Red Channels, si consiglia in particolare il libro di Merle Miller, The Judges and the Judged, Doubleday & Co. , Garden City (N. Y. ) 1952, capitoli 3, 4 e 5. 95 Cfr. Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywoodcit. , pp. 498-502. 96 Riportato in Stefan Kanfer, A Journal of the Plague Years, Atheneum, New York 1978. 97 Intervista di Howard Suber a Dore Schary del 20 agosto 1965. 98 Riportato in Howard Suber, The 1947 Hearingscit. 99 Hcua, Annual Report for the year 1952,3 gennaio 1953. 100 Queste cifre sono tratte da Howard Suber, The 1947 Hearingscit.

101 Ivi. Lo stesso elenco è disponibile tradotto in italiano anche in Sciltian Gastaldi, Il maccartismo e il cinema americano, 1947-1967. Tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Scienze Politiche, a. a. 1998-1999, app. I. 102 Dichiarazione di Johnston in Cole, et al. versus Loew’s Inc. , et al. cit. 103 Riportato dal giornalista Murray Schumach sul «New York Times», 5 settembre 1960. 104 Lettera di B. B. Kahane all’editorialista del «Los Angeles Times», pubblicata il 22 dicembre 1959. 105 Walter Goodman, The Committee. The Extraordinary Career of the Huac,Farrar, Straus & Giroux, New York 1968, p. 172. 106 Hcua, Annual Report for the year 1953,17 febbraio 1954, p. 23. 107 Letters to the Editor, «New York Times», 12 giugno 1953.

Capitolo 5 Gli effetti della lista nera: il mercato nero

5.1. Paria in patria, eroi all’estero La lista nera si estese in breve a tutti quelli che avevano aiutato i Dieci a sopravvivere a Hollywood. Ring Lardner jr. lavorò in un film1 diretto da Joseph Losey e fu pagato in contanti dal regista, che però venne a sua volta schedato2. Albert Maltz cercò di aiutare Alvah Bessie, prima che entrasse in prigione, trovandogli un lavoro in un film diretto da Robert Rossen3. Ma nel giugno del 1951 anche Rossen venne chiamato davanti alla Commissione, si appellò al Quinto emendamento e finì sulla lista nera4. Hugo Butler, che aveva preso in considerazione la sceneggiatura di Trumbo Cowboy, venne schedato dopo che il suo nome era stato fatto nel 1951 da Frank Tuttle5. Logico quindi che i Dieci non trovassero più nessuno che li volesse aiutare a Hollywood. Essere chiamati davanti alla Commissione o essere accusati di comunismo durante le udienze era, come abbiamo visto, un fatto traumatico per tutti. Per quelli che venivano dichiarati «testimoni ostili» significava la fine della carriera nel cinema e del tipo di vita fino ad allora vissuto. Come ha spiegato Lester Cole nella sua autobiografia6: «Essere associati al comunismo significava tra le altre cose perdere il saluto dei vicini di casa, avere le proprie finestre bersagliate da lanci notturni di pietre, trovare croci in fiamme in giardino, consolare i figli presi in giro a scuola dai loro compagni, quando non dagli stessi professori». «To be a commy», essere comunista, era dunque una macchia che si estendeva a tutta la famiglia, un disonore che dai padri ricadeva sui figli. Molte amicizie s’infransero in quel periodo, in parte per convinzioni ideologiche ma molto di più per paura di venire coinvolti7. Guy Endore, uno sceneggiatore di successo e romanziere che più tardi lasciò il Partito comunista americano, riassunse la sua esperienza così: «Sembrava non esserci fine alla caduta, io inciampavo in ogni persona che incontravo e cadevo a faccia in giù!»8. Tuttavia la lista nera non significò la fine permanente di ogni carriera. Molti aspettarono tempi migliori continuando a lavorare segretamente e la loro professionalità, quando fu di nuovo possibile, tornò a emergere. Questo valse specialmente per registi e sceneggiatori, che al contrario degli attori potevano scegliere tra una serie di opzioni per continuare a lavorare, come: 1. andare all’estero 2. lavorare in nero 3. lavorare per la televisione

4. lavorare per una produzione indipendente. Spesso per sopravvivere si usarono tutte queste soluzioni insieme. Se le possibilità di continuare a lavorare nel cinema si erano ridotte, restavano dunque aperte altre strade, che furono battute ostinatamente dagli artisti schedati. Il veto di Hollywood portò per esempio Lester Cole ad avvicinarsi al teatro facendogli scoprire di «poter scrivere cose assai più impegnate politicamente che nel passato». Samuel Ornitz aveva già lasciato Hollywood tre anni prima della lista nera e si era dedicato allo studio delle cause dell’antisemitismo9. Più tardi trovò il tempo di comporre un romanzo che aveva sempre rimandato10. John Howard Lawson, che come sceneggiatore guadagnava 2500 dollari a settimana, era molto insoddisfatto del suo lavoro a Hollywood, e aveva già rotto nel 1945 il suo contratto remunerativo con la Columbia per una lite con Harry Cohn. I suoi interessi si spostarono sul saggio che stava scrivendo sulla storia della cultura americana11. Una volta schedato poté terminare il suo libro, comporre un amaro attacco contro Hollywood, tenere dei discorsi sul comportamento dei Dieci alla sbarra, aggiungere una nuova parte nel suo libro sulle sceneggiature e scrivere (senza firmarla) per Zoltan Korda la sceneggiatura di Cry, the Beloved Country(1951)12. Albert Maltz, come Lawson, voleva abbandonare Hollywood da molto tempo. Per lui scrivere per il cinema era solo un modo di far soldi, dunque tornò volentieri a creare romanzi e pièce teatrali. Da schedato, vendette i diritti del suo romanzo Il viaggio di Simon McKeever (The Journey of Simon McKeever) alla 20th Century Fox per 35. 000 dollari13. Anche Ring Lardner jr. volle tornare a scrivere per il teatro, anche se si guadagnava meno, ma impiegò alcuni anni prima di trovare una produzione per una sua commedia14. Da schedato, Dalton Trumbo ultimò una commedia Il piu gran ladro della citta (The Biggest Thief in Town) che venne rappresentata a Broadway nel 1949. Parlò a nome di tutti quando dichiarò: «La Commissione ha compiuto il più grande favore che si potesse fare ai Dieci, per portarli a scrivere romanzi o commedie di grande successo»15. I lavori teatrali degli «ostili» non furono grandi successi negli Stati Uniti, come accadde invece in Inghilterra. Edward Dmytryk se ne andò a Londra alla fine del 1948 e là produsse due dei più bei film della sua carriera 16. Una reazione di forza e di orgoglio, da parte di chi all’improvviso si trovava spinto fuori dalla torre di cristallo hollywoodiana. Reazione che non tutti riuscirono a mettere in atto: Alvah Bessie, che aveva scritto una trentina di sceneggiature ma ne aveva viste realizzate solo quattro17, una volta sulla lista nera cadde in depressione e, come racconta nell’autobiografia, si trovò a «guardare fisso fuori dalla finestra senza più sapere che fare della sua vita»18. Herbert Biberman, che tutto sommato non aveva mai avuto una grande carriera a Hollywood, lasciò per un lungo periodo la scrittura per dedicarsi a organizzare la difesa dei Dieci19. Adrian Scott si scoprì completamente incapace di reagire. I suoi guadagni dal 1947 al 1952 «diminuirono fin quasi a zero». Nel 1949 andò in Francia per metter su una produzione ma il Dipartimento di Stato americano gli rifiutò il rinnovo del passaporto e dovette tornare negli Stati Uniti.

Un rimedio alla lista nera era dunque quello di abbandonare gli Stati Uniti, accettando l’idea di un esilio volontario, dettato maggiormente dalle esigenze più che dalle convinzioni. Due le ragioni principali per andarsene: 1) paura di nuove e più drastiche misure contro gli iscritti nella lista nera; 2) il desiderio di continuare la propria carriera. Molti lasciarono gli Stati Uniti convinti che stesse sorgendo un nuovo tipo di fascismo e che la lista nera non fosse semplice propaganda ma l’inizio di una più severa repressione. Credevano che una nuova forma di totalitarismo fosse passato dalla Germania agli Stati Uniti. Dmytryk narra che Howard Fast, andando a trovare i Dieci nel loro periodo di prigionia, avesse loro detto che non ne sarebbero mai più usciti, perché dopo la prigione sarebbero stati «trasferiti in un campo di concentramento che si stava allestendo in Montana»20. Alvah Bessie racconta che un membro del Partito comunista polacco gli disse: «Queste prime condanne saranno di grande aiuto per i compagni americani»21. Quando Albert Maltz uscì dal carcere, riparò in Messico. Andò a visitarne le prigioni e scrisse a Herbert Biberman che avrebbe preferito, se proprio necessario, scontare la pena in quel paese anziché negli Stati Uniti, poiché si aspettava che quell’anno di prigione fatta fosse solo l’inizio della persecuzione. A Hollywood presero a circolare voci secondo cui anche le mogli degli schedati erano in pericolo, e che le loro proprietà stavano per essere confiscate dal governo, tanto che qualcuno cominciò a intestare i propri beni a gente fuori dal giro22. Come prova che gli Stati Uniti stessero diventando un paese repressivo, gli schedati portarono i processi dello Smith Act, attraverso cui i capi del Partito comunista americano furono incarcerati con l’accusa di voler rovesciare il governo degli Stati Uniti e la Legge McCarran-Walter, che prevedeva la messa in opera di «campi di detenzione» in caso di guerra con l’Urss e le restrizioni in aumento contro i viaggi dei cittadini all’estero messi in atto dal Dipartimento di Stato. Nella contea di Los Angeles, da sempre una delle più reazionarie, fu approvata una legge secondo cui gli iscritti al Partito comunista americano non potevano spostarsi da una città all’altra senza prima avvisare la polizia. Anche se poi questa legge fu abrogata perché anticostituzionale, il fatto che localmente fosse approvata la dice lunga sull’atmosfera che si respirava in quei giorni a Hollywood23. In contrasto con quella che sembrava essere una situazione sempre più minacciosa negli Stati Uniti, gli schedati confidavano in altri paesi più democratici e ospitali. L’Inghilterra, per esempio, non aveva mai sognato di inventarsi un Comitato contro le attività antibritanniche e paesi come la Francia e l’Italia poi, avevano grandi partiti comunisti che dominavano in intere aree della nazione. Inoltre, essere chiamato comunista non influiva negativamente nell’esercizio delle arti. In America, il Messico aveva appoggiato i lealisti durante la guerra di Spagna e ospitava ancora molti rifugiati. Non avendo un trattato di estradizione con gli Usa, il Messico poteva dunque diventare un posto

tranquillo per gli uomini della lista nera. L’idea di andare a vivere in un altro paese attrasse molti degli schedati: in diverse nazioni erano considerati eroi invece che paria, come in patria. Del resto, molti erano ben conosciuti anche all’estero. Maltz, per esempio, non potendo trovare lavoro a Hollywood passò diversi anni in Messico traendo grande conforto dal fatto che nella Germania dell’Est un suo testo teatrale andasse in scena e venisse mostrato come esempio agli aspiranti scrittori; che lo stesso pezzo fosse in cartellone al Teatro Nazionale di Bulgaria; che una seconda edizione di 50. 000 copie di suoi racconti uscisse in Polonia; che una delle sue opere teatrali andasse in scena in Francia per opera di compagnie di non professionisti. E ancora: che la BBC avesse realizzato un’intera trasmissione basata sul suo libro La freccia di fuoco, che in Romania venissero stampate 18. 000 copie del suo libro La legione nera (The Underground Stream), e infine che altre sue opere uscissero in Cina, Urss, Danimarca, Cecoslovacchia e Ungheria, con buon successo. Questi riconoscimenti stranieri furono di conforto per molti degli autori schedati sulla lista nera. Un’opera di Lester Cole tenne il cartellone per tutto il 1951 nella Germania dell’Est e un’altra fu messa in scena in molte nazioni d’Europa. Alvah Bessie fu pubblicato in Cecoslovacchia, Polonia, Germania dell’Est e in altri paesi comunisti e un suo radiodramma, The Un-Americans, fu mandato in onda dalla Bbc. Herbert Biberman scrisse un libro sulle esperienze cinematografiche di Il sale della terra (Salt of the Earth, 1954) e mandò il manoscritto nei paesi comunisti, dove venne pubblicato molto prima che negli Stati Uniti. Di questo film, destinato a diventare un monumento di celluloide alla cultura dell’eguaglianza, parlerò meglio nel prossimo paragrafo. Sempre in Germania Orientale, ebbe un gran successo, nel 1955, il romanzo di Ring Lardner jr. The Ecstasy of Owen Muir, pubblicato anche negli Stati Uniti ma in piccola tiratura. Infine John Howard Lawson, che stette due anni in Urss, scrisse Parlor Magic, che se anche non fu messo in scena negli Stati Uniti, lo fu invece nella Germania dell’Est, a Mosca, a Leningrado, a Kiev e nei teatri di provincia dell’Urss. Qualche volta, tuttavia, anche i paesi comunisti vietarono la diffusione di alcune opere per considerazioni politiche. Per esempio, Lungo giorno di una breve vita (A Long Day in a Short Live)di Maltz. In generale tuttavia i paesi filosovietici accolsero i lavori degli schedati americani a braccia aperte. Questo convinse molti di loro che era meglio lavorare fuori dagli Stati Uniti. L’Inghilterra fu il posto favorito in virtù della lingua e della vicinanza dei costumi, così molti sperarono di poter continuare a lavorare lì per il cinema. La colonia di emigranti si strinse intorno al regista Joseph Losey, che era stato dichiarato comunista da un solo teste, Leo Towsend, il 18 settembre del 1951. La moglie di Losey, Louise, era stata accusata di comunismo dallo stesso Towsend, accusa poi confermata dalla moglie di Towsend nel 195324 Ma anche prima del 1951, Losey aveva cominciato a vedere gli effetti della lista nera sul suo lavoro. Nel 1948, proprio mentre stava iniziando il suo più grande film , Il ragazzo dai capelli verdi (The Boy with Green Hair), Adrian Scott fu licenziato dal produttore della Rko per essersi rifiutato di rispondere alle domande della Hcua circa la sua appartenenza o meno al Partito

comunista americano25. Subito dopo questo film, Howard Hughes iniziò una campagna tesa ad allontanare dalla Rko tutti quelli che erano sospettati di comunismo. Una delle tattiche era quella di offrire la regia del film Ho sposato un comunista, una sorta di paradigma dell’anticomunismo, con venature di razzismo sociale. Losey non accettò e così fecero altri 13 registi. Questo bloccò Losey, che alla fine chiese alla Rko di essere sciolto dal contratto26. Losey girò Linciaggio (The Lawless) nel 1949 per Pine-Thomas, un film a basso budget per la Paramount, poi firmò un contratto con Stanley Kramer e Carl Foreman per girare Letto matrimoniale (The Four Poster, 1952, di Irving Reis), Mezzogiorno di fuoco (High Noon, 1952, di Fred Zinnemann) e Il selvaggio (The Wild One, 1954, di Lazlo Benedek). Anche Foreman finì nella lista nera nel 1951 e non lavorò più col suo nome fino a che riuscì ad avere una «amichevole» udienza davanti alla Commissione nel 1956 27. Nonostante questi contratti firmati, Losey era consapevole che «l’ascia stava cadendo tutto intorno a me ed ero sicuro che mi avrebbe colpito di lì a poco… Sembrava che tutti sapessero che presto sarei stato impiccato»28. Una clausola nei contratti di Losey prevedeva che se lui «fosse stato coinvolto politicamente in qualche modo», il contratto era nullo. Losey fu coinvolto da Towsend e i suoi contratti puntualmente tutti annullati29. Nel 1951, l’anno prima di finire in lista nera Losey era all’apice della carriera e girò tre film: Sciacalli nell’ombra (The Prowler), «M»(M),e The Big Night. Ma il regista del Wisconsin non fu l’unico degli artisti «schedati» che riuscì a lavorare più o meno clandestinamente anche lungo i primi anni ’50: Dalton Trumbo aveva scritto segretamente la prima versione di Sciacalli nell’ombra proprio prima di entrare in prigione nel 1950, e Hugo Butler, il cui nome come comunista venne poi fatto nel 1951, finì la sceneggiatura. Il lavoro di Trumbo fu tenuto così segreto che egli non scrisse mai lettere al riguardo, né rispose alle telefonate, obbligando Losey e Spiegel ad andare da lui di notte per tenere riunioni di sceneggiatura30. Il 1951 fu l’anno in cui uscì il film « M», a cui collaborarono Waldo Salt, Howard Da Silva e Karen Morley, tutti di lì a poco sulla lista nera. L’ultimo film di Losey girato a Hollywood fu The Big Night, da una sceneggiatura di Hugo Butler, interpretato da Howland Chamberlain e Dorothy Comingore. Tutti e tre finirono poco dopo nella lista nera, essendo tra gli attaccati dalla American Legion nell’articolo di J. B. Matthews citato nel capitolo precedente31. Non appena Butler fu inserito nella lista nera, Losey si ritirò con lui in uno chalet di montagna dove poterono lavorare in pace e subito dopo Butler andò a vivere in Messico32. Dopo la partenza di Butler, Ring Lardner jr. fu chiamato a finire la sceneggiatura. Alla fine del 1951 sembrò che per Losey e i suoi collaboratori i giochi fossero chiusi. Il suo film successivo, Imbarco a mezzanotte (Stranger on the Prowl, 1952), venne girato in Italia usando lo pseudonimo di Andrea Forzano. La sceneggiatura era di un altro schedato, Ben Barzman, che condivise lo pseudonimo usato dall’amico regista33. Alla fine del 1953, Losey, lavorando sotto lo pseudonimo di Victor Hanbury, cominciò The Sleeping Tiger (1954) da una sceneggiatura di Harold Buchman e Carl Foreman, entrambi sulla lista nera34. Nel 1956, sotto il nome di Joseph Walton, Losey diresse L’amante misteriosa (The Intimate Stranger) da una

sceneggiatura dello schedato Howard Koch35. Dal 1957 il regista del Wisconsin si stabilì a Londra dove tutti lo consideravano un brillante maestro e poté di nuovo lavorare col proprio nome. Continuò a impiegare colleghi schedati come Ben Barzman, Millard Lampell e Hugo Butler. Tuttavia col passare del tempo, ormai integrato nell’industria inglese, utilizzò sempre meno artisti schedati. Altri due registi presenti nella lista nera ebbero grande successo fuori dagli Usa: Edward Dmytryk e Jules Dassin. Dmytryk aveva avuto la nomination all’Oscar nel 1947 per il suo film Odio implacabile, il primo film che affrontasse il problema dell’antisemitismo. Dopo aver rifiutato di rispondere alla Commissione fu iscritto nella lista nera e, non potendo più lavorare a Hollywood, se ne andò in Inghilterra dove girò due film per la Eagle-Lion: Cristo fra i muratori (Give Us this Day, 1949) e Vendico il tuo peccato (Obsession, 1949). Il primo film venne quasi interamente finanziato dai sussidi al cinema del governo inglese36. Ben Barzman scrisse la sceneggiatura di Cristo fra i muratori e ottenne grande apprezzamento dai critici sia in Inghilterra che negli Usa. Dopo il successo, il maestro di origini ucraine ebbe molte proposte dai produttori inglesi e si vociferò che qualcuno avesse perfino offerto un finanziamento a un produttore americano affinché facesse lavorare il regista37. Prima che potesse cominciare un altro film, Dmytryk fu avvisato dal Dipartimento Usa che doveva tornare in patria per rinnovare il passaporto38. Il regista obbedì e fu incarcerato per sei mesi per oltraggio al Congresso. Come sappiamo, uscito di prigione il regista cedette e testimoniò davanti alla Commissione, riuscendo così di nuovo a lavorare nel suo paese. La decisione del governo americano di bloccare i passaporti alle persone accusate di comunismo, ebbe un ruolo chiave nella storia degli esiliati da Hollywood. Quando Dmytryk fu costretto a tornare dall’Inghilterra nel 1949 con la scusa del rinnovo del suo passaporto, Adrian Scott fu con lo stesso motivo costretto a rientrare dalla Francia dove stava per metter su una produzione39. Ring Lardner jr. , andato in Svizzera per scrivere un film per Lazar Wechsler40 , scoprì anch’egli che non gli era permesso di restare all’estero. Come il governo gli scrisse «non era nell’interesse degli Stati Uniti che certe persone vivessero all’estero»41. Le restrizioni sui passaporti furono poste in essere dal governo americano dopo la fuga dell’attore Gerhardt Eisler, agente comunista negli Usa, a bordo di una nave polacca. Nello stesso periodo molti leader del Partito comunista americano si erano accordati sulla pena e poi erano scomparsi42. Il governo temeva quindi che tutti i comunisti evitassero la pena, nonché la propaganda negativa che questa gente avrebbe potuto fare all’estero; la soluzione più semplice sembrò quella di impedire loro di lasciare il paese. Una delle persone di cui Dmytryk fece il nome alla Commissione dopo essere uscito di prigione, fu quello del suo allievo regista Jules Dassin43. Finché Dmytryk non fece il suo nome, Dassin fu una delle promesse di Hollywood: aveva girato Forza bruta (Brute Force) nel 1947 e La città nuda (Naked City) nel 1948. Come molti altri, Dassin aveva deciso di andare a lavorare all’estero prima di essere accusato da qualcuno di comunismo. Alla

fine del 1949, Dassin diresse in Inghilterra I trafficanti della notte (The Night and the City), e nel 1950 cominciò a lavorare a un progetto per un film in Italia44. La notizia di essere finito nella lista nera lo danneggiò anche in Europa, dove non riuscì più a girare un film e passò qualche anno a Parigi a scrivere per il teatro. Ma nel 1955, Dassin girò il famoso thriller Rififì (Du rififì chez les hommes)45 che vinse la Palma d’Oro per la regia al Festival di Cannes. Dopodiché girò Colui che deve morire (Celui qui doit mourir, 1957) a Creta. Questo film fu ancora più applaudito e Dassin ebbe un’offerta dagli Stati Uniti46. Alla fine del decennio poté quindi girare Pote tin kyryaki (in America intitolato Where the Hot Wind Blows e da noi Mai di domenica, 1960), film che vinse la Palma d’Oro a Cannes per la migliore attrice (Melina Mercouri, moglie di Dassin) nonché l’Oscar per la canzone Never on Sunday, e gli diede fama mondiale.

5.2. «Il sale della terra»: nascita di un mito Il sale della terra è a tutt’oggi il film più censurato della storia del cinema, per questo poco noto al grande pubblico. Anche conosciuto con il nome di Sfida a Silver City, è una pellicola che rappresentò un guanto di sfida alla cappa reazionaria dell’America maccartista, e che solo nel 1993 è stata parzialmente risarcita con l’inclusione da parte della Biblioteca del Congresso statunitense nella graduatoria delle cento «opere cinematografiche da salvare per i posteri». Il regista Herbert Biberman e il produttore Paul Jarrico idearono il film assieme a Simon Lazarus, dopo aver fondato nel 1951 una compagnia tutta loro, la Independent Production Company (Ipc). La Ipc voleva essere una ciambella di salvataggio per gli artisti danneggiati dalla lista nera e, nelle parole di Lazarus, «il modo per sopperire all’assenza di film d’argomento sociale ormai tipica di Hollywood». Sfortunatamente questo tentativo di dare inizio a un filone neorealista statunitense fallì, e Il sale della terra rimase l’unico prodotto della Ipc. Il film racconta la vera storia dei 15 mesi di sciopero organizzati tre anni prima dal Sindacato dei minatori nelle miniere di zinco della New Jersey Company, a Bayard, nel New Mexico. Lì, sul caldo confine del Rio Grande, alla questione lavorativa – gli operai chiedevano maggiori misure di sicurezza sul lavoro e l’allacciamento dell’acqua corrente alle loro abitazioni – si associava una dura questione razziale, relativa alle disparità di trattamento dei minatori di origine messicana. Il «sale della terra» è quindi quello degli operai, che avevano sospeso ogni attività e bloccato l’unica via di accesso al campo minerario. Dopo i primi mesi di picchettaggio, un tribunale aveva ingiunto agli uomini in sciopero di sgomberare la strada, pena l’arresto. Il blocco della via era però l’unica arma che i minatori disponevano per evitare di essere licenziati e sostituiti da altra manodopera. L’impasse fu risolta dalle mogli dei minatori: le donne, che fino a quel momento non avevano diritto di partecipazione alle assemblee del Sindacato, si offrirono di sostituire i mariti nei picchettaggi. La proposta segnava una rivoluzione nelle regole del Sindacato, e per discuterla si decise di concedere il diritto di voto alle stesse donne, che vinsero la ritrosia della

maggioranza dei loro compagni. Una volta in lotta, le mogli dettero prova di determinazione anche fisica resistendo alle cariche violente degli sceriffi locali. La notizia di una protesta in gonnella si diffuse rapidamente nelle contee vicino a Silver City, attirando centinaia di altre donne. La sceneggiatura del film, firmata da Michael Wilson, già premio Oscar per Un posto al sole (A Place in the Sun, 1951, di George Stevens) ma poi finito nella lista nera, sottolinea con sapienza il rovesciamento dei ruoli tra i due personaggi principali, i coniugi Ramon ed Esperanza. Lui – interpretato da Juan Chacon, minatore prestato allo schermo per l’occasione – si trova dunque a dover sbrigare le faccende domestiche mentre lei – Rosaura Revueltas, unica attrice professionista assieme all’ostracizzato Will Geer, nei panni dello sceriffo – raggiunge tutti i giorni le compagne in lotta e finisce anche in carcere con il figlio più piccolo in braccio. Il messaggio, tanto chiaro quanto dirompente per il 1953, anticipava di 15 anni il movimento femminista e portava per la prima volta sul grande schermo il tema dell’uguaglianza dei sessi e del diritto a uguali condizioni di lavoro fra lavoratori statunitensi e stranieri. Il film si conclude restando fedele ai fatti della realtà: quando l’azienda mineraria prova a sfrattare dalle abitazioni di sua proprietà le famiglie protestatarie, la minaccia di una sommossa popolare di grandi dimensioni (etichettata nel 1954 dalla rivista di cinema «Sight and Sound» come «un chiaro esempio di propaganda comunista»), costringe i proprietari delle miniere a giungere a patti con le istanze dei lavoratori. Ce n’era abbastanza perché l’America maccartista facesse di tutto per impedire la produzione di Il sale della terra. Le difficoltà, per la produzione, furono di ogni genere: nel dicembre 1950, ancor prima dell’inizio delle riprese, l’«Hollywood Reporter» sparò a zero denunciando che «un film comunista» stava per essere girato in New Mexico, «su preciso ordine del Kremlino». Puntuale arrivò il boicottaggio della Iatse, la gilda delle maestranze del cinema facenti capo al reazionario Roy Brewer, che costrinse i produttori a ricorrere a molti attori e tecnici non professionisti. Quindi, l’opposizione del Congresso e le infiltrazioni nella troupe di informatori dell’Fbi. Infine, l’ostracismo dei proiezionisti. Il fatto che tra i finanziatori principali della pellicola figurasse il Sindacato dei minatori, espulso nel 1950 con l’accusa di essere filocomunista dalla Cio, la confederazione sindacale statunitense, non aiutò le cose. Nel febbraio del 1953, il senatore repubblicano Donald Jackson presentò un’interrogazione al Congresso chiedendo il blocco delle riprese, condotte secondo lui da «noti comunisti, guarda caso proprio nei pressi dei laboratori atomici di Los Alamos». L’accusa, esplicitata sulla stampa, era che il film fungesse da copertura per il furto di segreti scientifici da passare all’Urss. Bocciata la proposta di Jackson, l’Fbi di Edgar Hoover riuscì a infiltrarsi nella troupe del film e a far sospendere per un paio di settimane le riprese. In un secondo momento, il Federal Bureau of Investigations convinse baristi e commercianti a non fornire il vettovagliamento alla troupe. Quindi sobillò la popolazione di Silver City, luogo del set, e indusse la gente comune a prendere letteralmente le armi contro il cast, difeso a sua volta dal severo servizio

d’ordine del Sindacato dei minatori. Nonostante vari attentati dinamitardi contro le strutture della troupe e la sede del Sindacato, le riprese continuarono fino alla fine. Il film non si fermò neanche quando Hoover fece espellere l’attrice principale, la messicana Rosaura Revueltas, per la mancanza di un timbro sul passaporto. Le scene mancanti del personaggio furono dunque girate con una sostituta ripresa di spalle e poi doppiata in Messico dalla Revueltas. Terminati i ciak, la fase di postproduzione fu ancora più sofferta. Otto sale di montaggio di Hollywood chiusero le loro porte e i produttori dovettero arrangiare il primo montaggio clandestino e itinerante della storia del cinema Usa. Tra i vari luoghi bizzarri dove la pellicola venne messa insieme, ricorda Biberman in un libro sul film, ci fu anche la toilette delle signore di una sala cinematografica abbandonata. Peggio della produzione, andò la distribuzione. Il sale della terra debuttò nei cinema statunitensi nel marzo del 1954. I critici, all’anteprima, rimasero stupiti nel constatare che il film non presentava alcunché di antiamericano, ma era semmai un inno all’uguaglianza delle donne e un attacco contro la discriminazione sul lavoro. Tuttavia, gli esercenti che rifiutarono di proiettare l’opera di Biberman & Jarrico furono centinaia e poi migliaia. Le pochissime sale – appena tredici in tutti gli Stati Uniti, concentrate a San Francisco e New York – che ospitarono Il sale della terra, vennero sistematicamente picchettate dai proiezionisti iscritti alla Iatse. Quasi tutti i giornali indipendenti ne rifiutarono la pubblicità e, dopo un mese, la pellicola fu ritirata dal mercato americano, segnando un flop di tali dimensioni da stroncare i progetti della Independent Production Company. Il film trovò giustizia nel suo debutto all’estero: nel 1954 vinse il Festival di Karlovy Vary; nel 1955 il premio internazionale dell’Académie du Cinéma de Paris; partecipò poi al Festival di Edimburgo e a quello di Toronto, dove ricevette menzioni d’onore. Forte di questi riconoscimenti e delle polemiche sollevate in patria, la pellicola approdò finalmente, a partire dal 1965, nelle sale dell’Asia e dell’Europa, registrando un enorme successo di pubblico. In particolare, ricorda il produttore Paul Jarrico, « Il sale della terra ha riempito i cinema di Francia e Unione Sovietica per dieci mesi, ed è stato proiettato ininterrottamente per la bellezza di quindici anni in Cina, diventando così contemporaneamente il film più censurato della storia e il più visto in sala di tutti i tempi». Di recente, lo sdoganamento di Il sale della terra è venuto dalla messa in onda da parte della Tv in Canada, in mezza Europa e negli Stati Uniti. Nel febbraio del 2003 l’Università di Santa Fe gli ha dedicato quattro giorni di dibattiti per celebrarne il mezzo secolo di vita.

5.3. L’interrogatorio di Arthur Miller Nel frattempo in America la caduta di Joseph McCarthy, che dal 1953 aveva intrapreso la sua delirante campagna di accuse di antiamericanismo contro i più alti gradi dell’esercito, aveva fatto molto rumore, specialmente sulla stampa dei paesi esteri. La Commissione per le attività antiamericane aveva comunque ripreso una

nuova stagione di interrogatori (1953), prendendo di mira Harvard e l’ambiente universitario in generale, Broadway, e il mondo della danza e del teatro nel quale alcuni attori di Hollywood si erano inseriti, sperando di scampare all’inquisizione. Anche se non fa parte del tema di questo saggio, sarebbe ingiusto non accennare all’udienza di Arthur Miller, il più grande commediografo del momento, chiamato di fronte alla Commissione il 21 giugno 1956 da parte del nuovo presidente, Francis E. Walter. Miller affrontò l’interrogatorio con lo stesso scrupolo etico di Lillian Hellman: Arens: «Bene signor Miller, le siamo grati della sua testimonianza su questi incontri avuti con altri scrittori comunisti. Ora vuole dirci chi ne faceva parte, oltre a lei?» Miller: «Signor Presidente, capisco la filosofia alla base di questa domanda, ma vorrei che lei capisse la mia. Voglio sia chiaro a voi tutti che non ho intenzione di coprire comunisti o il Partito comunista americano. L’unica cosa che sto cercando e cercherò di proteggere qui dentro è una certa idea che ho di me stesso. Non potrei mai farvi i nomi di nessuno, poiché questo vorrebbe dire causare dei grossi problemi alle persone citate. A queste riunioni partecipavano semplicemente scrittori e poeti e, per quanto ne so, la vita di uno scrittore, a prescindere da quello che alle volte può apparire, è già di per sé abbastanza dura. Non ho intenzione di contribuire a renderla ancora più dura. Per cui, devo chiedervi di non domandarmi nulla che riguardi altre persone. (Si consulta con l’avvocato). Potete chiedermi qualunque cosa che riguardi me, e vi risponderò, come vi ho risposto fin’ora. Sarò estremamente franco su qualunque cosa io abbia fatto o detto; mi prendo tutta la responsabilità delle mie azioni, ma non posso assumere la stessa responsabilità per un altro essere umano. »47 […]

Per quanto nobile, è giusto inserire la presa di posizione del grande commediografo nell’anno in cui fu fatta, il 1956. In questo senso, considerando anche l’aura che circondava il nome di Miller, mi sembra giusto fare le debite proporzioni con la posizione della Hellman, che tenne testa alla Commissione in tempi nei quali per dissentire occoreva ben maggiore coraggio. A ogni modo, i commissari mostrarono ugualmente la faccia feroce all’artista: […] Scherer: «Non accettiamo i motivi per cui si rifiuta di rispondere, signor Miller. Questa Commissione ritiene che se lei si ostina a non rispondere alla domanda su chi si trovava a questi incontri comunisti, lei si macchierà di oltraggio al Congresso. Questo è un ammonimento formale che la Commissione le fa, in accordo con la decisione della Corte Suprema. Ora, signor Presidente, le chiedo di indurre il testimone a rispondere alla domanda dei nomi. » […] Arens: «Era forse Arnaud d’Usseau il presidente di questa riunione di scrittori affini al Partito comunista, a cui anche lei prese parte nel 1947?» Miller: «Tutto quel che posso dire, signori, è che la mia coscienza non mi permette di fare il nome di un’altra persona. »48

L’interrogatorio proseguì ancora a lungo, ma Miller seppe mantener fede alla sua promessa. Verso la fine dell’udienza, il commissario Arens tirò fuori una fotocopia di una pagina del giornale comunista «Daily Worker», che pubblicizzava una recita della pièce You’re Next, di Arthur Miller, messa in scena direttamente dal Partito comunista. Il testo, del 1946, rappresentava il rito degli interrogatori della stessa Hcua e per Arens era una prova inconfutabile della vicinanza del commediografo al CpUsa. Davanti a quell’accusa, Miller sbottò con una famosa risposta: Miller: «Non potete accusarmi anche di questo! I miei lavori hanno fatto il giro del mondo e sono stati rappresentati praticamente da tutti, incluso il Governo spagnolo [franchista, N. d. A. ], che ha messo in scena Morte di un commesso viaggiatore (Death of a salesman) al Teatro centrale di Madrid più a lungo di ogni altra opera nella storia della commedia

moderna. Non mi sento responsabile per chi mette in scena i miei lavori più di quanto la General Motors si senta responsabile per chi guidi le sue Chevrolet. »49

5.4. «Vamos a Mexico!» La nuova frontiera dei Dieci Oltre all’Europa, abbiamo visto come anche il Messico divenne un santuario per le persone della lista nera, soprattutto le città di Cuernavaca e Mexico City. Dal momento che pochi degli schedati parlavano bene lo spagnolo, la lingua rappresentò uno dei problemi più seri affinché i rifugiati potessero integrarsi nell’industria cinematografica messicana. In realtà stando in Messico, a poche ore di aereo da Hollywood, gli esiliati lavorarono più che altro per il mercato nero statunitense. Il Messico aveva anche altri vantaggi rispetto all’Europa, oltre la vicinanza a Hollywood. La vita era meno cara e non occorreva il passaporto per viverci, bastava rinnovare il permesso di soggiorno ogni sei mesi. Il Dipartimento di Stato Usa divenne via via sempre più restrittivo nel concedere i passaporti ai cittadini schedati, finché nel 1958 la Corte Suprema degli Stati Uniti non stabilì che era oltre le competenze del Dipartimento negare i passaporti in base a sospetti e credenze immotivate50. Per queste ragioni la colonia dei rifugiati americani in Messico crebbe per quasi tutti gli anni ’50. C’erano fra gli altri: Dalton Trumbo, Hugo Butler, Robert Rossen, Herbert Biberman, John Wexley e Ring Lardner jr. Tuttavia, dovunque si fossero rifugiati, gli artisti della lista nera arrivavano sempre alla stessa conclusione: dovevano trovare il modo di tornare a casa. Mentre molti dei perseguitati cercarono di far dimenticare il loro attivismo politico, se mai ne avevano avuto uno, Daltron Trumbo non smise il suo impegno neanche durante gli anni più bui della lista nera. Nel 1970 volle raccogliere a testimonianza di ciò, una porzione significativa delle lettere pubbliche e private che scrisse dal 1942 al 196251. Una delle più significative è la seguente, diretta al presidente Eisenhower: Al Presidente Dwight D. Eisenhower Los Angeles, California 24 gennaio 1957 Caro signor Presidente Mi hanno consigliato di scrivere una serie di articoli su alcune pubblicazioni (non comuniste né anticomuniste), in Inghilterra e in Francia, per spiegare come centinaia di artisti americani siano stati allontanati dalla loro professione e privati dei diritti civili dagli organi legislativi, giudiziari, esecutivi del Governo federale. Si spera che questo tipo informazioni possano giovare agli intellettuali europei che desiderano conservare nei loro paesi quella tradizionale indipendenza culturale che in America è stata soppressa. Credo che le ingiustizie spesso vengano commesse semplicemente perché non sono note a chi detiene l’autorità. Prima di acconsentire a scrivere questa serie di articoli, come mi hanno consigliato, ho pensato che avevo l’obbligo di informarla di certi fatti che riguardano la lista nera in vigore nell’industria del cinema americano. La lista nera inizia quando l’artista viene chiamato a giudizio dinanzi alla Commissione governativa per le attività antiamericane. E là, in opposizione a quanto enunciato chiaramente nel Primo emendamento, gli si comanda di rivelare le sue idee politiche, le sue simpatie e affiliazioni.

Se si rifiuta di rispondere è citato per disprezzo del Congresso, accusato, arrestato, processato in una Corte distrettuale federale, dichiarato colpevole, multato e inviato in una prigione federale. Se invoca le garanzie costituzionali in modo corretto, sfugge a un’accusa in penale, ma molto spesso viene pubblicamente marchiato come bugiardo, sovversivo e traditore da parte della Commissione o della pubblica accusa. Sia che sfugga all’imputazione o no, egli viene immediatamente licenziato dal suo impiego nell’industria cinematografica e informato che non verrà assunto di nuovo, finché non compaia dinanzi alla Commissione e non si pieghi a rispondere alle domande che gli vengono poste. La Commissione mantiene, a spese del contribuente, un investigatore permanente a Hollywood che consiglia ai dirigenti del cinema chi può essere assunto e chi no. Se l’artista incluso nella lista nera ha in mano un contratto di lavoro con una ditta produttrice di film, egli può intentare una causa presso una Corte federale per stabilire la validità del suo contratto. In tutti i verdetti emessi finora, le giurie si sono pronunciate a favore del postulante incluso nella lista nera e contro la compagnia cinematografica che lo aveva ostracizzato. Ma ogni verdetto della giuria è stato sovvertito dalle Corti superiori. Poiché il potere esecutivo del governo lo include nella lista nera e il potere giudiziario gli nega giustizia, l’artista si rivolge all’esecutivo per avere il passaporto che gli permetterebbe di continuare il suo lavoro all’estero. Il rifiuto del Dipartimento di Stato fa scattare l’ultimo anello della catena dell’autorità federale e così distrugge la carriera dell’artista. Alcuni produttori dell’industria cinematografica mi hanno detto che non volevano le epurazioni e che non le vogliono neppure adesso, che le mantengono soltanto perché temono rappresaglie della Commissione che le ha istigate. Lei, signor Presidente, ha più influenza di chiunque altro sui suoi compatrioti. Se trova che quanto ho scritto in questa lettera corrisponde a verità, basterà che lei dica una parola pubblicamente perché l’industria del cinema abbandoni per sempre una pratica che è odiosa al mondo intero.

La lettera non ottenne la risposta sperata. Non abbiamo traccia della missiva firmata dal consigliere di Eisenhower che s’incaricò di interloquire con Trumbo, ma è interessante la successiva replica di quest’ultimo: Al signor Gerald D. Morgan Consigliere speciale del Presidente Los Angeles, California 12 tebbraio 1957 Caro signor Morgan, La ringrazio per la sua lettera del 5 febbraio in risposta alla mia comunicazione al Presidente del 24 gennaio. Come dicevo nella mia lettera, la lista nera dell’industria cinematografica americana è resa vigente dai tre poteri di governo degli Stati Uniti. L’espansione del cinema americano in tutta l’Europa si è portata appresso la lista nera, gli scrittori stranieri ora sono preoccupati che la politica repressiva americana, avvalendosi del potere finanziario, non venga imposta a paesi ove questi sistemi sono odiati. Rispettabilissime pubblicazioni in Inghilterra e in Francia mi hanno chiesto di trattare questo argomento e ritengo sia mio dovere farlo. Tuttavia, ho sentito che per prima cosa avevo l’obbligo di portare i fatti essenziali alla conoscenza del capo del mio governo, nella speranza di poter ottenere giustizia. Cosi ho fatto, e lei mi ha informato che il Presidente non ha commenti da fare. Avendo adempiuto ai miei obblighi morali, procederò, con la coscienza a posto, ad avvertire gli intellettuali e gli artisti dell’Europa occidentale di resistere con tutte le loro forze alla

politica dell’inquisizione, della prigionia, dell’ostracismo, del rifiuto del passaporto che in America ha distrutto centinaia di artisti e li tiene sotto l’incubo della paura. 52

5.5. La fine dell’esilio e l’inizio del mercato nero Quando, negli anni ’30, scrittori e registi scapparono da Germania, Francia e Spagna per cercare rifugio negli Stati Uniti, si trattava per lo più di viaggi senza ritorno. Fortunatamente, per i rifugiati americani in fuga dagli Stati Uniti, l’esilio fu solo temporaneo. Albert Maltz, Hugo Butler e John Wexley a Cuernavaca, Ben Hertzman, Michael Wilson e Jules Dassin a Parigi, Ring Lardner jr. , Ian McClellan Hunter e Howard Koch in Inghilterra non rinunciarono mai alla cittadinanza statunitense per assumere quella dei paesi che avevano dato loro asilo. Tutti sognavano di tornare negli Stati Uniti da dove erano stati costretti ad andarsene. Anche Howard Lawson, quando finalmente ottenne un visto nel 1961 per visitare l’Unione Sovietica, si sentì straniero in terra straniera e volle tornare in quella Hollywood che aveva odiato con tutte le sue forze. Appena fu possibile, tutti gli esuli scelsero il ritorno in patria. Il ritorno sembrò a tutti necessario come lo era stata la fuga. Questo non significa che essi fossero semplicemente nostalgici di casa: erano persone dalla mente aperta e si sentivano cittadini del mondo. Per molti di loro il ritorno fu piuttosto un atto politico, come lo era stato la fuga. La voce di Herbert Biberman, che era rimasto negli Stati Uniti, suonò come quella della Coscienza Tradita, quando nei suoi ripetuti appelli sostenne che il dovere degli schedati era di restare in patria e combattere la giusta battaglia, cercando di coinvolgere la propria gente. L’esilio poteva essere un espediente, ma tutti gli artisti sentivano che il loro posto era nella società americana. Chi decise di tornare negli Stati Uniti, non lo fece con la speranza di riprendere a lavorare apertamente nel cinema: chi non era mai partito era lì a dimostrarlo. Ma era altrettanto evidente che si poteva ottenere qualche lavoro al mercato nero. È stato calcolato che, nel 1959, circa il 15% dei copioni di Hollywood fosse opera degli schedati53. Non c’è certezza sulla cifra, dal momento che il mercato nero era coperto dal segreto e tutti avevano giurato di tacere. La percentuale sembra comunque realistica, soprattutto se riferita ai soli sceneggiatori. Come scrisse Trumbo in un articolo del 1957: «Le case produttrici, pur rispettando ufficialmente la lista nera, in realtà non smisero di acquistare storie e sceneggiature, con la sola avvertenza di non fare apparire i nomi dei loro autori nei film» 54. Quando l’esistenza del mercato nero fu resa pubblica all’intero paese, sembrò che un bel numero delle migliori sceneggiature fosse opera di gente schedata sulla lista nera. In realtà non erano poi tante, ma nell’immaginazione popolare diventarono «tutte», tant’è vero che si disse che Dalton Trumbo avesse scritto la gran parte della produzione di Hollywood!55 Non si può escludere che Trumbo incoraggiò queste voci in suo favore per eliminare la lista nera. Per quel che se ne sa, l’attività in nero di Trumbo non fu tanto importante nella storia del cinema americano, ma egli era il più famoso tra gli schedati e

quindi nella fantasia popolare era il massimo rappresentante di essi. Trumbo tornò dal Messico nel 1954, poiché aveva fatto un accordo di lavoro con Michael Wilson, schedato dal 195156. Nell’accordo fu stabilito che Wilson scrivesse la trama della storia, delineasse azione e caratteri e poi Trumbo fornisse i dialoghi57. La cosa inusuale in questa collaborazione fu la velocità del loro lavoro: i due sfornarono una sceneggiatura ogni cinque settimane per circa 18 mesi58. Trumbo disse poi di avere scritto 30-35 sceneggiature durante il suo periodo «nero». Howard Suber59 , controllando presso la Wisconsin Historical Society, ha scoperto che Trumbo portò a termine 31 copioni senza firmarli, mentre per alcuni altri egli diede solo la sua supervisione o riscrisse alcune scene. Trumbo è sicuramente l’autore di Arcipelago in fiamme (Air Force, 1943, di Howard Hawks, con lo pseudo C. F. Demaine), La più grande corrida (The Brave One, 1957, di Irving Rapper, con il quale vinse l’Oscar per la sceneggiatura dietro lo pseudo di Robert Rich!), The Boss (1957, di Byron Haskin, pseudo Ben L. Perry), The Green-Eyed Blonde (1957, di Bernard Girard, pseudo Sally Stubblefield), Il mostruoso uomo delle nevi (The Abominable Snowman, 1957, di Val Guest, pseudo C. F. Demaine, Silvaja Chandra e Robert Rich), L’occhio caldo del cielo (The Last Sunset, 1957, di Robert Aldrich, pseudo Sam Jackson anche se poi appare pure il vero nome dello sceneggiatore). Per il pubblico italiano il film più celebre scritto «clandestinamente» da Trumbo, almeno per quanto riguarda il soggetto, fu Vacanze romane (Roman Holiday, 1953, di William Wyler). Con questo lavoro «Dalton il rosso» vinse il suo primo Oscar, che però fu assegnato a Ian McLellan Hunter, in quella circostanza suo prestanome nonché principale sceneggiatore del film (collaborarono anche Ennio Flaiano e Suso Cecchi d’Amico). Hunter a sua volta schedato nel 1955, avrebbe poi dichiarato: «Avessero premiato Vacanze Romane anche per la sceneggiatura, mi sarei potuto prendere una bella fetta del merito, ma così… » e quindi girò il cachet ricevuto dalla Paramount al legittimo autore. A eccezione di Vacanze romane, Trumbo sembra non avere scritto film importanti durante il suo periodo «nero». Questo evidenzia come il mercato clandestino riguardasse essenzialmente piccoli film. Ci fu un distributore della costa Est che tentò di entrare nella produzione approfittando del lavoro di Lawson e Lindemann60 , gli sceneggiatori meglio pagati di Hollywood prima della lista nera. Ma dopo alcune settimane pagò i due e abbandonò l’idea. Per chi lavorava in nero c’era il problema di trovare chi ufficialmente firmasse il proprio lavoro. I produttori, dopo una prima stesura del copione, avevano bisogno di tenere dei meeting a cui partecipassero ufficialmente gli scrittori, incontro allargato anche ai distributori e agli attori. Qualcuno doveva dunque figurare quale autore della sceneggiatura… Non era facile trovare chi si prestasse a questo. Fu interpellato Ray Bradbury, il quale si offrì di aiutare gli autori schedati ma sostenendo pubblicamente le loro opere. Il tentativo di Bradbury cadde nel nulla 61. Leo Towsend, che era stato iscritto al Partito comunista ma era diventato un testimone «amichevole» della Commissione fin dal 195162 , accettò di collaborare con Lester Cole firmando da solo la sceneggiatura come favore personale63. Pochi mesi dopo fece lo stesso con Dalton Trumbo64. C’erano poi

anche problemi economici: il prestanome prendeva di solito il 10% del compenso, ma a volte arrivava a pretendere il 50%; inoltre la paga di un copione al mercato nero era inferiore della metà di quanto gli sceneggiatori più celebri erano soliti prendere, e a volte scendeva fino a un decimo. Dalton Trumbo, per esempio, vendette il suo primo copione in nero per soli 3750 dollari mentre il suo compenso prima della lista nera arrivava a 75. 000 dollari65. E anche quando «riemerse» scrivendo Exodus (id. , 1960, di Otto Preminger), percepì solo i due terzi del suo abituale compenso, ossia 50. 000 dollari66 , che non era molto rispetto ai più alti compensi di Hollywood ma era pur sempre una fortuna rispetto a quanto si poteva guadagnare scrivendo in nero. Philip Stevenson, dopo essere stato schedato, fu pagato 2500 dollari per una sceneggiatura nel 1953, ma anche nel 1959 non riuscì a ottenere più di 6500 dollari per un copione completo. E i diritti di un racconto di Albert Maltz vennero ceduti da un produttore in fallimento per appena 2000 dollari. Il maggior crollo dei prezzi lo subì Lawson. Egli era abitualmente pagato 2500 dollari a settimana negli anni ’40 e, dopo essere stato messo nella lista nera, passò a 50 dollari a settimana. La sopravvivenza degli schedati dipendeva più da chi si conosceva che non da cosa si sapesse fare. La Commissione aveva spesso accusato i «comunisti» di Hollywood di nepotismo, affermando che si sostenevano l’un l’altro a scapito dei «non-comunisti». Questa accusa era vera. In un’industria che ha sempre avuto una grande offerta di lavori qualificati tra cui scegliere, il nepotismo era largamente praticato, al di là di ogni considerazione politica. Era una delle ragioni per cui la vita sociale di Hollywood era strettamente connessa all’esistenza artistica ed economica dei suoi componenti. I cosiddetti «comunisti» seguivano una tradizione già largamente praticata. Chi, tra gli schedati, non aveva sufficienti connections, se la passava davvero male. Murray Schumach, in The Face on the Cutting Room Floor67 , ha spiegato in dettaglio l’operazione da lui chiamata «The Hollywood Underground», in cui il circolo di amici formatosi intorno a Trumbo e a Wilson, composto tra l’altro da altri schedati come Hy Kraft, Albert Maltz, Ian McClellan, Ring Lardner jr. , Hugo Butler, Gordon Kahn, John Howard Lawson, Guy Endore, Paul Jarrico e Joseph Losey, abbia dato a tutti aiuto reciproco68. Quando un lavoro veniva commissionato a uno dei membri che per qualunque ragione non poteva o voleva eseguirlo, subito veniva passato a un altro. Tutti si tennero sempre in contatto in questa catena di mutuo aiuto. Nonostante ciò non c’era abbastanza lavoro per tutti nel cinema.

5.6. Il ruolo dei produttori La lista nera condizionava non solo le sue vittime ma anche i produttori, suoi indispensabili indiretti artefici; ciò appare chiaro soprattutto quando esaminiamo il fenomeno del mercato nero. Considerato il clima dell’epoca, la presenza di pochissimi produttori indipendenti che sfidassero il diktat della lista nera, non poteva sorprendere: chi avesse osato utilizzare i servizi degli schedati si sarebbe messo in un gioco pericoloso. Se qualcuno ne fosse venuto a conoscenza, la carriera del

produttore coraggioso sarebbe stata rovinata. I suoi futuri film non avrebbero più trovato finanziamenti né distribuzione, sarebbe stato personalmente attaccato dalla stampa e dalle organizzazioni patriottiche e, infine, se i suoi lavori fossero stati distribuiti sarebbero stati boicottati nelle sale. Ecco perché i produttori famosi non ingaggiarono mai uno schedato. Eppure, qualcuno che trasgredì all’ordine costituito ci fu. Esamineremo qui brevemente soltanto la King Brothers e la Kirk Douglas’ Bryna Productions. È stato provato che la maggioranza degli artisti in nero lavorò in film distribuiti da una sola compagnia: la United Artists. Per capire il perché il mercato nero si sviluppò in questa sola direzione, bisogna dare un’occhiata a come era organizzata l’industria di Hollywood, partendo dai quattro aspetti riguardanti il ruolo del produttore e il mercato nero: 1) la funzione dell’Associazione del cinema e quella dei produttori; 2) la definizione e il ruolo del produttore a Hollywood; 3) la natura dei contratti di distribuzione; 4) l’importanza dei titoli di testa. Negli Usa, molte industrie hanno delle organizzazioni volontarie aperte a tutte le aziende che producono un dato prodotto. Queste organizzazioni servono per creare una buona immagine del settore, imporre certi standard minimi di etica ai membri stessi e organizzare degli incontri per scambi di idee e informazioni. Al dunque, si occupano soprattutto di public relation ma hanno scarso impatto sulle singole imprese. Le aziende di Hollywood si sono sempre considerate totalmente dipendenti dalle pubbliche relazioni. «Il cinema è divertimento», hanno sempre sostenuto i produttori, «e la gente non vuol essere divertita da qualcuno che non gli piaccia». L’intera storia dell’industria di Hollywood può essere vista come lo sforzo di far sì che il suo pubblico, americano e straniero, fosse soddisfatto o almeno non contrariato. Alle prese con qualcosa di intangibile come i gusti della gente, è comprensibile l’attenzione maniacale con cui i produttori cinematografici curassero la loro immagine pubblica. L’Associazione produttori e distributori del cinema insieme al suo «Codice Hays» di autoregolamentazione fu, come abbiamo visto nel secondo capitolo, un risultato concreto del tentativo di rispondere alle pressioni del pubblico. L’Associazione venne poi sostituita da altre due organizzazioni: l’Associazione del cinema (Mpaa) con sede a New York e quartier generale a Washington Dc, e la Association Motion Picture Producers (Ampp) con sede in California. Abbiamo già parlato di queste associazioni nel secondo capitolo, ma è utile riassumere qui alcuni concetti per approfondire il ruolo dei produttori in quel periodo. Come detto, durante gli anni della lista nera, Eric Johnston era a capo di entrambe le organizzazioni. Il doppio ruolo di Johnston è indicativo della sovrapposizione delle due organizzazioni. L’Associazione produttori avrebbe dovuto servire i più grandi produttori preoccupandosi delle relazioni fra di loro. Una delle sue maggiori funzioni era di negoziare per conto delle aziende a essa iscritte coi sindacati e le gilde. L’Associazione svolgeva anche il ruolo di ufficio centrale di casting, che garantiva un’affidabile fornitura di comparse e piccoli attori alle varie

compagnie affiliate. Con poche eccezioni, i produttori erano associati a entrambe le sigle. L’Associazione del cinema era un’organizzazione più vasta che includeva anche i distributori. Si occupava delle relazioni tra l’industria cinematografica e il mercato, estero e interno, da cui provenivano i guadagni per le aziende. Era questa che amministrava le regole del Codice. Generalmente, produttori e pubblico non distinguevano le due organizzazioni, ma per gli schedati la differenza c’era eccome. La famosa Dichiarazione del Waldorf, al primo rigo diceva: « I membri della Ampp deplorano l’azione dei Dieci che sono stati per questo accusati di oltraggio al Congresso» [corsivi nostri]. Dunque la dichiarazione veniva soltanto dalla Ampp. In questa associazione c’erano tutte le più grandi aziende cinematografiche di Hollywood ma restavano fuori alcuni produttori indipendenti e la United Artists Corporation69 : assenze che si sarebbero rivelate importanti. Lo sviluppo del mercato nero degli schedati è parallelo a quello dei produttori indipendenti, i quali magari erano membri della Mpaa e della Indipendent Motion Picture Producers Association ma non della Ampp. Così questi produttori indipendenti e la United Artists non erano tenuti a rispettare la Dichiarazione del Waldorf, pietra miliare della lista nera. Nel 1945 gli studios avevano 804 attori sotto contratto; nel 1955 erano ridotti a 209. I registi sotto contratto nel 1945 erano 152, solo 79 dieci anni dopo. Lo stesso per gli sceneggiatori, il più grande gruppo di proscritti sulla lista nera: 490 sotto contratto nel 1945, solo 67 nel 195570. Questo drastico calo nei ruolini di paga degli studios mostra la crisi che colpì il cinema americano dopo la seconda guerra mondiale. La causa fu, in parte, lo sviluppo della televisione, che ridusse della metà la gente al botteghino e che comportò la chiusura di molte sale. Un’altra causa della crisi fu l’azione antitrust promossa contro alcune grandi compagnie cinematografiche. Il governo aveva cominciato questa azione nel 1938 ma la concluse solo dieci anni dopo. La Warner Bros. , la 20th Century Fox, la Mgm e la Paramount non soltanto producevano i loro film ma li distribuivano e li proiettavano nei loro cinema. Nel 1949, tuttavia, venne ordinato a queste aziende di vendere le loro sale71. Ciò significava perdere la garanzia su quanti e quali cinema avrebbero proiettato le pellicole da loro prodotte, e senza questa garanzia il numero dei film prodotti cominciò a calare. Ci furono anche altri fattori che produssero questa crisi a Hollywood, come i vantaggi fiscali di cui godevano gli attori o i registi che mettevano su una loro produzione personale, o gli incentivi offerti da paesi esteri per produrre fuori dagli Usa. Per questi e altri motivi la produzione di film nei primi anni ’50 si indirizzò verso produttori indipendenti. Paul Mayersberg ha scritto: «Tra tutti i lavori a Hollywood, quello del produttore è il più misterioso, inconcludente e difficile da descrivere»72 ; pur trovandoci abbastanza d’accordo con tale asserzione, per quanto ci proponiamo qui il ruolo dei produttori è cruciale. Per «produttore» a Hollywood si intendeva: 1) un produttore individuale assunto da uno studio, salariato o a percentuale sui profitti del film, o entrambe le cose; 2) un produttore indipendente che trovava i finanziamenti e la distribuzione

di un proprio film, comprando i diritti della storia, assumendo tecnici, maestranze e attori; 3) un’azienda produttrice, come la Mgm o la Warner o la Columbia. Dopo la seconda guerra mondiale, i produttori indipendenti crebbero per numero e importanza mentre la figura del produttore salariato tese a sparire. Ciononostante le major di Hollywood non perdettero affatto di importanza, come spesso si crede e per capire perché dobbiamo esaminare la relazione che intercorre tra produzione e distribuzione.

5.7. 1960: la fine della lista nera I mesi tra il 1959 e il 1960 segnano l’anno di morte della lista nera. Ben Barzman, John Berry, Ben Maddow, Millard Lampell e Donald Ogden Stewart furono alcuni degli artisti «ostili» che improvvisamente riapparvero nei titoli di testa dei film americani, sia pure per lavori girati all’estero73. Poco tempo dopo Nedrick Young, Michael Wilson, Dalton Trumbo e Herbert Maltz furono riassunti a Hollywood pubblicamente. Quando un premio Oscar fu dato ufficialmente a uno degli schedati, si cominciò a capire che la lista nera, e il conseguente mercato nero, erano ormai fatti superati. L’American Legion fece causa all’Accademia del cinema e delle arti e a qualche produttore, qualche film fu ancora boicottato nelle sale. Ma nel 1960 l’intera faccenda venne nuovamente dibattuta apertamente. È impossibile stabilire il perché di questo improvviso cambiamento; le forze in gioco erano molte e complesse, non ci fu alcuna campagna per sopprimere la lista nera. Esaminiamo in maggior dettaglio i fatti che avvennero tra il 1959 e il 1960.

Gennaio-aprile 1959 Gli Oscar. Gli artisti accusati di comunismo erano fra quelli di maggior successo a Hollywood. Una prova viene scorrendo il numero di nomination agli Oscar da loro ottenute, molto superiore alla media. Se si legge la lista delle nomination tra il 1940 e il 1959, si trovano i nomi dei seguenti personaggi finiti nella lista nera (un * segna i nomi di chi poi vinse l’Oscar): 1940: Hugo Butler, Dalton Trumbo e Donald Ogden Stewart. 1941: Paul Jarrico, Sidney Buchman*, Lillian Hellman. 1942: Ring Lardner jr. *, Sidney Buchman. 1943: Lillian Hellman. 1945: Alvah Bessie, Leopold Atlas, Guy Endore, Philip Stevenson, Albert Maltz. 1947: Dorothy Parker, Abraham Polonsky. 1949: Robert Rossen, Carl Foreman, Sidney Buchman. 1950: Bernard C. Shoenfeld, Carl Foreman. 1951: Michael Wilson*. 1952: Michael Wilson, Carl Foreman. 1953: Isabel Lennart. 74 Fin qui la lista dei premi ufficiali. Negli anni ’50 furono assegnati almeno altri cinque Oscar a persone inserite nella lista nera e che avevano firmato con pseudonimi o tramite prestanome75. Tuttavia solo nel 1959 l’Academy decise

di affrontare questo problema a viso aperto. Nel novembre del 1957, Nedrick Young aveva terminato The Defiant Ones, una sceneggiatura che aveva scritto con Harold Jacob Smith, che non era sulla lista nera. I produttori che si servivano degli schedati lo facevano tramite agenti. Young e Smith si affidarono per vendere la sceneggiatura all’agenzia Preminger-Stuart. Un mese dopo Stanley Kramer comprò il copione per 75. 000 dollari più il 3% dei profitti agli autori76. Tuttavia il nome di Nedrick Young non apparve come autore insieme a quello di Smith: si era firmato «Nathan E. Douglas». Dopo alcuni mesi dall’acquisto di questa sceneggiatura, Kramer firmò un contratto con i due scrittori (Nedrick sempre sotto pseudonimo) per due nuovi lavori: … e l’uomo creò Satana (Inherit the Wind, 1960, di Stanley Kramer) e My Glorious Brothers. I primi due furono distribuiti dalla United Artists77 , il terzo non andò in produzione. Alla fine del 1958, «Nathan E. Douglas» e Jacob Smith ricevettero il premio del New York Film Critics’ Writing per la loro sceneggiatura e La parete di fango (The Defiant Ones, 1958, di Stanley Kramer) ricevette il premio come miglior film. Nello stesso anno la sceneggiatura ricevette anche la nomination agli Oscar. Sul finire del 1958 il «New York Times» rivelò che sotto lo pseudonimo di «Nathan E. Douglas» si celava Nedrick Young78. L’Academy era nei guai. Era stata duramente criticata quando nel 1952 Michael Wilson aveva avuto l’Oscar per la sceneggiatura per il film Un posto al sole79 >; nel 1957, quando Michael Wilson aveva avuto la nomination per La legge del Signore (Friendly Persuasion 1956, di William Wyler) e nel 1958, per la rivelazione di Trumbo di essere l’autore della sceneggiatura premiata nel 1957: La più grande corrida. Quando Wilson vinse il premio nel 1952, l’Academy non potè fare nulla, ma nel 1954 era stata già firmata tra i produttori e la gilda degli autori la clausola con cui si permetteva di omettere il nome degli autori schedati nei titoli di testa. L’Academy non aveva regole che proibissero di dare il premio a una sceneggiatura nel 1954, ma nel 1957 era stato stabilito che non si dovevano dare premi Oscar a quelli della lista nera. Ciononostante, Wilson ebbe la nomination all’Oscar, ma essendo uno di quelli che si erano appellati al Quinto emendamento non poteva vincerlo. L’Oscar lo vinse così il signor «Robert Rich» per il film La più grande corrida ma, quando nessuno si presentò a ritirare il premio, fu chiaro a tutti che dietro quel nome sconosciuto si celava qualcuno schedato nella lista nera. A peggiorare le cose, cominciò a girare voce che Michael Wilson e Carl Foreman erano i veri autori di Il ponte sul fiume Kwai (The Bridge on River Kwai, 1957, di David Lean), Oscar per la migliore sceneggiatura nel 1957. Apparentemente non c’era modo per l’Academy di evitare di premiare qualcuno degli schedati. Quando, sul finire del 1958, La parete di fango vinse il premio della critica a New York, sembrò che l’Academy stesse per ripetere la brutta esperienza degli anni 1952, 1954, 1957 e 1958. Per chiarire la situazione, due rappresentanti dell’Academy andarono segretamente a pranzo con Nedrick Young e Jacob Smith nel gennaio del 1959. Ammisero che l’atteggiamento dell’Academy verso gli schedati non poteva continuare in quel modo. Era chiaro che Young e Smith avevano grandi

probabilità di vincere quell’anno l’Oscar per la miglior sceneggiatura. L’Academy avrebbe potuto impedire a Young di ricevere il premio ma non poteva impedire nulla a Smith, che non era sulla lista nera. Si trovava quindi in una situazione imbarazzante. I due rappresentanti decisero che avrebbero tentato di cancellare quell’assurda «regola di squalifica» e in cambio ottennero la promessa dei due autori che nel frattempo non avrebbero fatto nulla che potesse mettere in maggior imbarazzo l’Academy. I due accettarono. Poco dopo l’Academy dichiarò pubblicamente che gli Oscar sarebbero andati a chiunque lo avesse meritato. Young era quindi perfettamente qualificato per vincerlo80. Quando Nedrick Young fu pubblicamente riconosciuto autore di La parete di fango, sul finire del 1958, preferì attenersi ancora alla prassi, dichiarando che Kramer aveva acquistato le sceneggiature non conoscendo la sua vera identità81. Il sotterfugio era sembrato ancora necessario, tuttavia la decisione dell’Academy di premiare chiunque lo meritasse indicò che le cose stavano per cambiare. Ci furono anche altre indicazioni. Lew Irwin, un radio commentatore di Los Angeles, dichiarò che la lista nera era finita, non tanto perché fosse mutato il sentimento o fosse sbagliata l’accusa di antiamericanismo, ma semplicemente perché «Hollywood aveva bisogno di buone sceneggiature». Irwing riportò la dichiarazione di Ward Bond, l’attore che aveva messo su la Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals: «Sono tutti al lavoro, tutti quei comunisti che si erano appellati al Quinto emendamento. Non c’è niente da fare. Abbiamo semplicemente perduto la nostra battaglia». Questo non significò che i sostenitori della lista nera ammisero subito la loro sconfitta: Siegel della Mgm dichiarò ancora che la sua compagnia «non avrebbe mai fatto affari con loro». Ma se la Mgm non voleva concludere affari con gli schedati, appariva ormai evidente che molti altri invece erano disposti a farlo. Il 23 gennaio del 1959, il «Daily Variety» intitolava: La lista nera è svanita, e spiegava come i produttori, specialmente televisivi, stavano assumendo molti degli schedati. Il 6 aprile 1959, l’Academy premiò lo sconosciuto Nathan Douglas, ma ormai tutti sapevano che si trattava di Young. Il fatto che egli abbia continuato a usare lo pseudonimo fa capire l’atmosfera che ancora si respirava a Hollywood. Anche l’anno dopo, quando … e l’uomo creò Satana apparve sugli schermi, la sceneggiatura rimase firmata da Douglas e Smith.

Giugno-agosto 1959 L’American Legion. L’Al intensificò la sua lotta contro i «sovversivi» del cinema. Nel giugno del 1959, nella riunione californiana, fu aspramente criticata l’Academy che aveva lasciato cadere la proibizione di dare l’Oscar a personaggi inclusi nella lista nera. Fu adottata una risoluzione82 da sottoporre poi alla convenzione nazionale della Legione. Ecco il testo: Siccome alcune compagnie assumono di nuovo elementi di provata slealtà in violazione della pubblica richiesta di Johnston; poiché l’American Legion condanna queste violazioni fatte in danno al popolo Americano in accordo con la politica dell’American Legion, chiediamo che: – I produttori di film facciano immediatamente i passi necessari per riguadagnarsi la fiducia del pubblico americano, cancellando ogni influenza comunista dai film. – Che questa risoluzione presa dal Dipartimento dell’Al della California sia urgentemente

adottata dalla convezione nazionale dell’American Legion. Il lassismo di alcuni produttori non è aderente ai richiami fatti dall’American Legion e ai suoi ordini di agire contro il pericolo di una ristabilita influenza comunista nell’industria del cinema83

La difesa dell’industria. Come già avevano fatto in passato, i membri della Ampp e dell’Academy cercarono di placare la Legione, e il «Daily Variety» riportò che alcuni produttori stavano tentando silenziosamente di persuadere la Al ad abbassare i toni dei suoi richiami. Si sperò perfino di riuscire a bloccare la risoluzione prima che fosse sottomessa alla convention nazionale di Minneapolis84. In agosto la convenzione iniziò. B. B. Kahane, vicepresidente della Columbia, era appena stato eletto nuovo presidente della Ampp; egli si disse fortemente dispiaciuto dal tono della risoluzione della Legione e sostenne che dei 264 artisti segnati nella lista nera, appena quattro erano tornati ufficialmente al lavoro. Charlie Chaplin85 , bersaglio preferito della Al, non lavorava più da molti anni nell’industria cinematografica americana e, per quanto mai nessuno lo avesse pubblicamente accusato di comunismo davanti alla Commissione, era ormai completamente estraneo a Hollywood, a eccezione di una sua piccola compagnia che tentava la riedizione dei suoi vecchi film. Jules Dassin, secondo bersaglio preferito dalla Al, stava invece lavorando per una piccola compagnia indipendente e non associata alla Ampp86. Nedrick Young, ammise Kahane, aveva venduto una sceneggiatura intitolata Il delinquente del Rock & Roll (Jailhouse Rock, 1957, di Richard Thorpe) alla Mgm, ma si trattava di un vecchio copione scritto prima che Young si appellasse al Quinto emendamento, ed era stato prodotto nel 1957 solo dopo essere stato riscritto da altri sceneggiatori. Per quanto riguardava Stanley Kramer, che aveva assunto Young per scrivere La parete di fango, Kahane deplorò il fatto ma aggiunse che egli era un indipendente. Per quel che riguardava le voci che Dalton Trumbo stesse lavorando sotto copertura per la Kirk Douglas’ Bryna e la Universal-International, Kahane negò semplicemente ogni conoscenza di tale copertura. Infine a proposito di Carl Foreman, riassunto alla Columbia, Kahane rivelò che si era appena ripresentato davanti alla Commissione che lo aveva riabilitato per la sua testimonianza «amichevole» e che aveva rinunciato a qualsiasi legame col comunismo. «Noi vogliamo tenere i comunisti fuori da Hollywood proprio come voi» aggiunse Kahane, suggerendo che l’azione della Legione andasse semmai diretta contro gli indipendenti e non contro l’industria cinematografica nel suo insieme87. La difesa di Kahane ebbe successo. La Legione approvò una risoluzione che elogiava le grandi compagnie e condannava i piccoli indipendenti che assumevano comunisti88. Kahane concluse che «la dichiarazione originale fatta al Waldorf nel 1947, era stata confermata nel 1952 da Eric Johnston e dalla quarantunesima convention della Legione»89.

Settembre-dicembre 1959 Nel settembre del 1959, meno di un mese dopo questa nuova condanna contro i «rossi», venne invitato a Hollywood il comunista più potente del mondo: il premier sovietico Kruscev. Al sontuoso pranzo dato in suo onore si accalcarono ben 400 importanti personaggi dello spettacolo90. L’ironia della situazione non sfuggì ai cronisti: come potevano i magnati di Hollywood pretendere di tener fuori i «piccoli» comunisti locali se poi spalancavano le braccia al leader comunista più importante del mondo, tributandogli una delle più calorose cerimonie di accoglienza degli ultimi anni? Ci furono altri fatti che resero il clima sfavorevole al mantenimento della lista nera: il governo degli Stati Uniti firmò un accordo per uno scambio culturale con l’Urss, includendo anche la produzione cinematografica. Così, in pochi mesi, il pubblico americano poté assistere alle proiezioni di film sovietici come Tikhij Don [Dove volano le Cicogne, 1957, di Sergei Gerasimov]. Ampiamente pubblicizzati, questi film comunisti vennero ben accolti dal pubblico mentre ancora si negava lavoro ai presunti comunisti americani. In Urss, Boris Pasternak, vincitore del Nobel per la letteratura nel 1958, fu perseguitato per le sue attività «antisovietiche», e costretto a rinunciare al premio. La somiglianza tra la persecuzione sovietica per «antisovietismo» e quella americana per «antiamericanismo», apparve chiara a molti91. Il 18 dicembre 1959 la lista nera ebbe un altro duro colpo. L’autore Louis Pollock rivelò in una conferenza stampa presso la gilda degli scrittori di essere stato perseguitato ingiustamente per cinque anni. La storia era penosamente semplice: era stato confuso con un altro il cui nome suonava uguale ma che si scriveva Pollack! Fin dal 1954, quando Pollack si era appellato al Quinto emendamento, Pollock non aveva più potuto lavorare a Hollywood finendo sul lastrico92. Sull’onda di questa rivelazione sorse spontanea la domanda: quanti altri innocenti erano finiti nella lista nera? Cominciò a essere evidente che la lista nera era stata soltanto inutile e dannosa, avendo creato guai e dolori non solo a chi non condivideva le idee politiche della destra americana, ma anche a molti «innocenti». Quindi, nonostante la risoluzione dell’American Legion e delle affermazioni dell’Associazione produttori, il tempo era maturo per decretare la morte della lista nera.

Gennaio-febbraio 1960 All’inizio del 1960 gli scrittori iniziarono uno sciopero contro i produttori che durò sei mesi: il più lungo sciopero nella storia del Sindacato sceneggiatori. Era in discussione l’art. 6 dell’accordo relativo al minimo sindacale. Questo articolo era stato rivisto quando Howard Hughes aveva ottenuto di poter omettere nei titoli di testa gli autori della lista nera e, approfittando della debolezza degli sceneggiatori, aveva stabilito che loro dovessero aiutare i produttori a eliminare i comunisti. Ma la revisione di tale articolo aveva a lungo turbato le coscienze degli scrittori che sentivano come questo fosse contro lo spirito della gilda, la quale sosteneva che ogni scrittore dovesse essere giudicato solo in base alla propria abilità. Inoltre era stato dimostrato che grandi sceneggiatori, come Young e

Trumbo, potevano essere comunque identificati in base proprio alla loro bravura. Gli scioperanti, quindi, chiedevano il ripristino del diritto di apparire nei titoli di testa agli autori che avevano scritto i copioni. Nello stesso periodo anche i produttori agivano sfidando la lista nera. Quasi ogni mese un produttore veniva coinvolto nell’assunzione di uno schedato o nel mercato nero. Quello che si era finto di ignorare, adesso veniva pubblicamente discusso e non solo dentro l’industria cinematografica. Il primo a muoversi pubblicamente fu Otto Preminger che spesso si mostrava nelle vesti dello sfidante93. Il 20 gennaio, sulla copertina del «Daily Variety» apparve un articolo intitolato Trumbo scriverà «Exodus». In esso campeggiava la dichiarazione di Preminger: «Io non posso mentire, penso che nascondere l’autore sia un modo per truffare il pubblico. L’unica cosa onesta è dire la verità». Il «New York Times» assunse subito il punto di vista di Preminger: l’annunciata assunzione di Trumbo era la prima sfida formale alla lista nera. Il «Times» aggiunse che tutti sapevano che Trumbo aveva anche scritto Spartacus (id. , 1960, di Stanley Kubrick) e Vacanze romane94. La risposta delle grandi compagnie fu immediata: esse non intendevano cambiare la loro politica di discriminazione contro i sospetti di comunismo per colpa di Preminger95. Una delle grandi compagnie non associata all’Ampp, la United Artists, prese invece una posizione diversa, dichiarando che Preminger poteva scegliere chi voleva per far scrivere Exodus e che loro non avevano alcun diritto, ne intendevano averlo, per interferire nella sua scelta96. Finalmente era accaduto: una grande casa di distribuzione aveva ufficialmente dichiarato che avrebbe distribuito un film scritto da uno degli autori segnati sulla lista nera. Anche se non era iscritta all’Ampp la cosa creò un precedente importante per tutti. Il 9 febbraio del 1960, tre settimane dopo la dichiarazione della United Artists, la Paramount annunciò di aver pagato 480. 000 dollari per distribuire il film inglese Blind Date (chiamato Chance Meeting negli Stati Uniti e L’inchiesta dell’ispettore Morgan, 1959, di Joseph Losey, da noi)97. Il film era diretto da Joseph Losey, scritto da Ben Barzman e Millard Lampell, tutti schedati nella lista nera. La Paramount però aggiunse che al momento dell’acquisto non sapeva nulla su chi avesse lavorato nel film e che a ogni modo lo avrebbe distribuito. Irritata dalla dichiarazione di Preminger, la Legione dichiarò una «guerra di informazione» destinata a combattere «la rinnovata invasione di film fatti da uomini indottrinati dai sovietici»98. Ma il primo bersaglio della Legione non fu né Preminger né la Paramount, ma Stanley Kramer che, molto prima, aveva dato l’incarico a Nedrick Young di scrivere … e l’uomo creò Satana. Poche ore dopo l’attacco della Legione, Kramer restituì il colpo. La Legione, disse, cercava di costringere il cinema americano in un conformismo che avrebbe fermato e distrutto i film più maturi. Continuò: Quelli che si costruiscono la loro propria pietra di paragone possono usarla solo verso loro stessi. Se invece vogliono infliggere il loro punto di vista ad altri usando pressioni economiche per ottenerne l’accettazione, sono contro la democrazia proprio come la gente

che, sbagliando, appoggiò il Partito comunista negli anni ’30 e ’40.

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Un attacco così forte contro l’American Legion risultò ancora più traumatico dell’annuncio di Preminger. Una cosa era assumere un tizio sfidando la Legione, un’altra era attaccare la Legione stessa. Due giorni dopo, la Legione rispose a Kramer e condannò Preminger e Kirk Douglas. «L’American Legion» – dichiarò Martin B. McKneally, comandante nazionale – «non vuole cooperare con il signor Kramer o chiunque altro nella cospirazione del silenzio, tradendo il pubblico e nascondendo i fatti alla gente. » I «fatti», si desume dal contesto, sarebbero stati i nomi di Trumbo e Young sui film prima della loro apparizione davanti alla Commissione. «La Legione» – continuò il comandante – «ha cooperato con le grandi compagnie di Hollywood per aiutare chi fosse stato ingiustamente accusato di comunismo. Gli studios hanno fatto pulizia pur sopportando grandi spese per questo. Ma un nucleo duro di comunisti è rimasto. Adesso dei produttori indipendenti vogliono far soldi col lavoro di quegli artisti per i quali le grandi compagnie hanno impegnato fondi ed energie per liberarsene. »100 Le settimana seguente ci fu un dibattito tra Kramer e il Comandante nazionale della Legione davanti alle telecamere della Cbs. McKneally negò che la Legione fosse favorevole a una lista nera o contro l’uso del Quinto emendamento, e che voleva semplicemente mantenere il popolo informato sul pericolo di sovversione. «Tutto quel che la Legione vuole» – egli disse – «è che l’industria mantenga l’accordo preso al Waldorf e non assuma comunisti. » «I comunisti», disse «non credono in quello che crediamo io e te, credono l’opposto. Può darsi che qualcuno si redima ma deve mostrare un certo pentimento. »101 La posizione di Kramer fu che lui era impegnato in un’industria che era anche arte, e gli artisti dovevano avere la libertà di esprimersi; lui, del resto, come imprenditore aveva tutto il diritto di assumere chi in coscienza si sentiva di assumere. Inoltre Kramer sottolineò il fatto di non avere affatto sottoscritto il patto del Waldorf102.

Marzo-aprile 1960 Molti giornali pubblicarono articoli ricapitolando quello che era successo durante le udienze della Commissione. In febbraio, il giornale della Legione pubblicò un articolo in cui ci si chiedeva se era giusto che dei produttori indipendenti usassero gli scritti di Trumbo per fare soldi. In aprile un altro articolo si chiedeva: «La gente vuole che i rossi tornino nel cinema?». Si accusava la United Artists, la Paramount e la Universal-International per le loro assunzioni di sovversivi, mentre si ricordava che la maggior parte delle altri grandi compagnie avevano rispettato l’accordo del Waldorf e che probabilmente stavano pregando che i film con questi «rossi» facessero bancarotta per giudizio del pubblico. L’articolo precisava che non si trattava affatto di una questione politica o di patriottismo, ma di denaro: «Se Spartacus, Exodus, L’inchiesta dell’ispettore Morgan e … e l’uomo creò Satana faranno molti soldi, la Dichiarazione del Waldorf sarà dimenticata e si ripeterà l’incubo dell’infestazione comunista nel cinema come negli anni ’30 e ’40, uno spettro che produttori incoscienti stanno riportando indietro». La Legione

dunque lanciò il suo invito al boicottaggio, mettendo in guardia i suoi aderenti che solo un pubblico informato poteva reagire correttamente. La battaglia era ancora incerta, quando, il 21 marzo 1960, anche Frank Sinatra diventò un produttore indipendente che sfidava la lista nera. Sinatra aveva da poco firmato un contratto con la United Artists per alcuni film che avrebbe interpretato e prodotto. Decise di fare il primo lungometraggio da un romanzo di Huie sull’unico soldato fucilato per diserzione durante la seconda guerra mondiale, e chiamò Albert Maltz per la sceneggiatura. Poiché «The Voice» era una delle star più grandi di Hollywood, il «New York Times» sottolineò che l’assunzione di uno dei Dieci minava alla radice la logica della lista nera103. Sinatra aveva già lavorato con Maltz, vincendo un Oscar, nel film The House I Live in, durante la guerra. Nel 1947 il celebre cantante aveva assunto una posizione dura contro l’inquisizione della Commissione104 e, coinvolto nella politica, nel 1960 appoggiò la candidatura di John Fitzgerald Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti. I giornali degli Stati Uniti, specialmente quelli della catena di Hearst, si interessarono molto della faccenda Sinatra-Maltz, cosa che non avevano fatto per le questioni Kramer-Young, Preminger-Trumbo o Douglas-Trumbo. Il «Los Angeles Examiner» iniziò un’inchiesta fra politici e importanti personaggi di Hollywood per scoprire quello che pensavano dell’assunzione di Maltz. Il senatore Karl Mundt, l’unico membro dell’Hcua nel 1960 che fosse stato anche nella Commissione del 1947, davanti alla quale era apparso Maltz, si dichiarò «scioccato» da quest’assunzione, e in generale l’inchiesta concluse che a Hollywood erano tutti contrari a Maltz. Quel «tutti» in realtà si riferiva a quattro intervistati: Robert Taylor, Frank Gruber, Henry King e Robert Lippert105. La Catholic War Veterans propagandò il boicottaggio del film di Sinatra dichiarando che «l’aver assunto Maltz è un affronto per ogni Americano […] noi non vogliamo che nessuno vada a vedere il film […] noi chiediamo a Sinatra di ripensarci e assumere un vero americano»106. A Hollywood, il comando californiano dell’Associazione dei veterani di guerra (AmVets) non solo propose il boicottaggio del film ma anche di tutte le altre attività di Sinatra, concludendo che: «In questi tempi di guai ogni americano deve erigersi contro la pratica insidiosa dell’industria del cinema che permette l’infiltrazione dei nemici del nostro paese con la loro propaganda comunista»107. L’American Legion dichiarò che Sinatra «aveva abbattuto lo steccato che i capi responsabili del cinema avevano innalzato per proteggere il pubblico»108. Ma il più ignominioso di tutti fu un articolo del «Journal-American» di New York che riportava come la sottocommissione del Senato per la Sicurezza interna intendeva mandare investigatori a Hollywood entro la settimana e che dai risultati di queste indagini si sarebbe deciso se riprendere le udienze come nel 1947109. Sinatra non rimase con le mani in mano. Comprò intere pagine sui giornali per far sapere che il film era assolutamente in linea coi valori americani e che li esaltava, invitando a sospendere ogni giudizio fin dopo la visione del film, del quale si assumeva la responsabilità. Inoltre Sinatra insinuò che si volesse

colpire lui, per colpire il candidato John Kennedy, che egli sosteneva. Dichiarò che «questo è un modo di fare politica colpendo sotto la cintura» e che lui faceva film e non chiedeva certo a Kennedy chi dovesse assumere e chi no. Né Kennedy chiedeva mai a lui come dovesse votare in Senato. Sinatra concludeva con una frase che, tempo dopo, gli avrebbe causato qualche imbarazzo: «Sono pronto a sostenere i miei principi e aspettare il verdetto del popolo americano quando avrà visto il film The Execution of Private Slovik» 110. La campagna dei giornali di Hearst cominciava a dare i suoi frutti. Molti giornali locali riprendevano gli articoli critici ma poi apparvero anche editoriali in difesa di Sinatra. Così mentre il «Journal-American» ordinava a Sinatra di licenziare Maltz e assumere un vero americano, il «New York Post» proponeva Sinatra per un Oscar visto che «gli insipienti apparentemente han dichiarato guerra totale a Sinatra». Gli editoriali si annullarono gli uni con gli altri. La cosa che più disturbò la mecca del Cinema fu che si tornasse a parlare dei «rossi di Hollywood». La battaglia durò due settimane, poi Sinatra annunciò di aver licenziato Maltz per rispetto del popolo americano: «Finora ho difeso il lavoro di Maltz perché lo ritengo perfettamente in linea coi valori americani, tuttavia poiché il pubblico americano ritiene che il licenziamento di Maltz sia un fatto morale cruciale, accetto l’opinione della maggioranza»111. Non si sa quali siano state le pressioni esercitate su Sinatra per fargli cambiare idea. Non risulta che abbia fatto alcun sondaggio di opinione e in realtà l’opinione pubblica era divisa. Come disse Maltz, «per fare cambiare idea a un uomo testardo come Sinatra, le pressioni su di lui devono essere state enormi»112. Hedda Hopper affermò che l’esercito e il Dipartimento della Difesa rifiutarono di collaborare al film e questo aveva una sua forza. La giornalista Dorothy Kilgallen sostenne che fosse stato proprio Kennedy a convincere Sinatra, temendo che la campagna contro di lui potesse danneggiarlo nella corsa alla Casa Bianca. Quale sia stata la causa, il repentino cambiamento del grande cantante sollevò echi controversi proprio come aveva fatto l’assunzione di Maltz e il «New York Post» titolò Sinatra capitola davanti ai Signor Nessuno del cinema e del giornalismo. E la capitolazione fu completa: Sinatra pagò la metà del pattuito a Maltz e poi rivendette i diritti del film. Tutto questo senza parlare con lo sceneggiatore, che non era negli Stati Uniti e apprese di essere stato cacciato leggendo i giornali113.

Maggio-agosto 1960 La lista nera ricevette altri tre duri colpi fra il maggio e il giugno del 1960, e questa volta non vennero da produttori indipendenti ma da grandi compagnie. Il 12 maggio 1960, la Mgm annunciò che avrebbe distribuito il film La Legge (La Loi, 1958) di Jules Dassin. Nello stesso giorno la 20th Century Fox andò oltre, assumendo Sidney Buchman114. Il caso di Buchman era inusuale. Egli era apparso davanti alla Commissione nel 1951 e in principio era sembrato che volesse essere un testimone «amichevole». Confessò subito di essere stato membro del Partito comunista dal 1938 al 1945 e spiegò il perché115. Ma quando gli venne chiesto: «In quali case vi riunivate?», Buchman rispettosamente si rifiutò di dirlo adducendo il fatto che mai aveva assistito a

qualche atto illegale durante quelle riunioni, che la Commissione già conosceva gli altri nomi e che «era ripugnante per un cittadino americano fare la spia contro i propri concittadini». Buchman non aveva fatto appello al Quinto emendamento, aveva rifiutato di rispondere in base a un principio116. Quando l’American Legion discusse in Tv con Kramer qualche mese prima, affermò che chi era stato comunista avrebbe anche potuto tornare a lavorare nel cinema, ma dopo un atto di pentimento. Pentimento significava ammettere di avere sbagliato quando ci si era iscritti al Partito comunista americano e fare i nomi dei «compagni». Quindi Buchman non si era mostrato «abbastanza» pentito nella sua testimonianza. Era stato convocato altre due volte ma non aveva mai voluto far nomi. Fu quindi accusato di oltraggio al Congresso e la Camera approvò con 316 voti a favore e zero contrari. L’avvocato di Buchman, Edward Bennet Williams, riuscì a dimostrare che quando Buchman non aveva risposto alla Commissione, in essa mancava il quorum delle presenze, e così Buchman ebbe la pena sospesa e una multa di 150 dollari117. Ma tutto questo non venne riportato dalla stampa che si limitò ad affermare che l’assunzione di Buchman era un duro colpo alla lista nera. La reazione dell’American Legion non fu violenta. Forse cominciava a serpeggiare la stanchezza per questa lunga inutile battaglia, fatto sta che il «New York Times» commentò che l’American Legion aveva risposto «con una pacca sulla schiena invece che con un gancio al mento»118. Il comandante McKneally dichiarò che non gli sembrava che l’infiltrazione sovversiva stesse crescendo e, pur non credendo che questi comunisti fossero tornati al lavoro firmando semplicemente una dichiarazione di abiura, tuttavia non riteneva che si dovessero picchettare le sale e boicottare i film. Un atto così, disse, era contro la politica della Legione. Se qualche dipartimento locale voleva boicottare i film, poteva farlo ma questo non era un ordine della Legione119. In giugno fu evidente che la corrente stava cambiando. La Screen Writers Guild interruppe lo scioperò e firmò un nuovo accordo sul minimo sindacale. L’articolo 6 fu revisionato. I produttori non erano più autorizzati a cancellare il nome degli autori dai titoli di testa solo perché sospetti di comunismo. Essi non erano colpevoli se qualcuno sottoponeva loro delle sceneggiature sotto falso nome. Un altro forte colpo alla lista nera venne da Sam Spiegel, il produttore di uno dei più grandi e costosi film di Hollywood Lawrence d’Arabia (Lawrence of Arabia, 1962, di David Lean), il quale dichiarò che la sceneggiatura era stata scritta da Michael Wilson e ciononostante la Columbia si apprestava a distribuire il film120. Nello stesso periodo, «Variety» pubblicò uno scritto di Dalton Trumbo il quale sosteneva di sapere benissimo che gli sarebbe bastato scrivere una lettera dichiarando di non essere comunista per essere cancellato dalla lista nera, ma che riteneva che i propri convincimenti politici fossero solo affari suoi e quindi aveva sempre resistito a tutte le pressioni in tal senso, in particolare quelle esercitate dai produttori. Alla fine di giugno ci fu la convention della divisione californiana dell’American Legion e tutta l’industria di Hollywood, con l’eccezione della Walt Disney e dalla Allied Artists, fu accusata di «assistenza alla cospirazione

comunista». La Warner Bros. rispose di non avere mai assunto comunisti né di volerlo fare in futuro, ma nessun altro replicò alla provocazione della Legione. A metà agosto anche Kirk Douglas uscì allo scoperto. Era stato pesantemente attaccato per aver assunto, apparentemente a sua insaputa, Trumbo come sceneggiatore di Spartacus. Ma era ovvio che Trumbo fosse l’autore e dovesse comparire nei titoli di testa. Una prima versione di Spartacus era stata scritta da Howard Fast ma Douglas l’aveva trovata non buona, così aveva chiamato Trumbo che l’aveva riscritta in due settimane. Il regista Stanley Kubrick e molti attori del film sapevano che Trumbo era l’autore della sceneggiatura, per avere partecipato con lui a tante riunioni e discussioni sul copione stesso121. Quelli della Universal tuttavia avevano paura di mettere il nome di Trumbo nei titoli, perché se il film fosse andato male la Compagnia sarebbe stata in grossi guai. Così tergiversarono per un anno anche se Trumbo, mesi dopo Spartacus, aveva scritto Exodus e Preminger l’aveva annunciato pubblicamente godendo anche della pubblicità gratuita per essere stato il primo a infrangere il tabù della lista nera. La questione venne risolta da Howard Fast, che chiese un arbitraggio per ottenere il suo nome come co-autore; l’arbitraggio della Screen Writers Guild stabilì che l’unico autore fosse Trumbo122. Non c’era più niente che Douglas o la Universal potessero fare. Trumbo aveva firmato con lo pseudonimo di Sam Jackson, ma ormai era stupido usarlo e avrebbe solo aumentato l’irritazione di quelli contrari.

Settembre-dicembre 1960 A metà settembre il film di Jules Dassin Mai di domenica uscì a New York ed ebbe buone critiche123. Poche settimane dopo Dassin tenne una conferenza stampa per parlare del suo nuovo film e del lungo contratto che aveva appena firmato con la United Artists124. All’inizio di ottobre Spartacus uscì a New York: era il primo grande film associato a un nome degli schedati. Un grande test per la pubblica opinione. Le critiche non furono molto buone. Ma non erano critiche politiche. L’Universal si dichiarò dispiaciuta per le cattive recensioni ma quel che contava era il botteghino125. E i risultati arrivarono uno dopo l’altro: Chicago, Los Angeles, Boston, Filadelfia, San Francisco, dovunque il film registrava incassi altissimi126. Ci furono anche dei picchettaggi davanti ai cinema, per esempio a San Antonio in Texas, ma il successo del film era ormai segnato. Alla fine del 1960 ci furono ancora sforzi da parte di quelli che volevano mantenere in vigore la lista nera, ma ormai non avevano più molto effetto. Il 19 ottobre il congresso nazionale dell’American Legion condannò Spartacus, … e l’uomo creò Satana, L’inchiesta dell’ispettore Morgan e Exodus e invocò «mezzi legali per fermare questi film che mostravano caratteri sovversivi o erano stati fatti da sovversivi», e riuscì a organizzare alcuni picchettaggi in Texas. Ma boicottato o no, Spartacus divenne un grandissimo successo commerciale127. Il 3 novembre, Eric Johnston convocò a Washington l’assemblea della Mpaa. Erano presenti rappresentanti della Allied Artists, Columbia, Walt Disney, Mgm, Paramount, Universal, Warner Bros. e United Artists. Nessuno della 20th Century Fox perché si stava ritirando dall’Associazione128.

Poteva venirne fuori un’altra dichiarazione tipo Waldorf Astoria o il suo ripudio, invece si giunse a una decisione ambigua: si stabilì che nessun membro della Mpaa avrebbe assunto un comunista (e questo sembrava una conferma del 1947) ma poi si aggiunse che spettava a ogni singolo membro stabilire chi fosse comunista o no. Il che significava svuotare di significato il lavoro della Commissione129. Ai primi di dicembre Exodus uscì a New York e il successo fu immenso. Finalmente il verdetto del pubblico era chiaro: usare gente che si era appellata al Quinto emendamento e che fosse o fosse stata comunista non influiva minimamente sugli incassi al botteghino. Il 21 dicembre Exodus ebbe la sua prima a Hollywood. Fuori dal cinema c’erano picchetti di persone che protestavano contro Trumbo. Dentro, invece, quando il nome di Trumbo apparve sullo schermo, scoppiò un lungo applauso130. Al party che ne seguì al ristorante Romanoff, Otto Preminger entrò sottobraccio a Dalton Trumbo e la moglie Cleo ottenendo grandi applausi da tutti, tra cui quelli di Sinatra e di Peter Lawford, cognato del presidente Kennedy. Applaudirono anche Gary Cooper e signora, già appartenenti all’associazione per la difesa degli ideali nell’industria cinematografica: la lista nera era definitivamente morta.

5.8. Il rientro degli schedati Gli artisti finiti sulla lista nera furono in realtà aiutati dal mutamento del clima politico generale, fino ad allora decisamente ostile nei loro confronti. L’elezione di John Fitzgerald Kennedy alla Casa Bianca, seppure avvenuta per il rotto della cuffia, segnò l’inizio della «coesistenza pacifica» con l’Unione Sovietica, determinando ulteriori segnali di liberalizzazione e di apertura nel panorama politico americano. Se il 1947 può essere considerato a ragione l’anno di spartiacque tra l’America della seconda guerra mondiale – liberale, progressista e democratica – e l’America della Guerra Fredda – reazionaria, conservatrice e spaventata –, il 1960 può ben essere scelto come la nuova cesura tra un’era e l’altra. Senza dubbio, i cambiamenti che determinarono e furono determinati dall’avvento dei Kennedy al potere segnarono un mutamento radicale nella mentalità delle classi dirigenti come delle nuove generazioni americane, che non avrebbero accettato supinamente più alcuna isteria politica collettiva verso determinate minoranze, né avrebbero più avallato qualunque comportamento autoritario proveniente dall’alto. La lista nera è stata qui definita come l’elenco di professionisti che non poterono più ottenere lavoro per ragioni che non avevano nulla a che vedere con la loro abilità professionale. Abbiamo poi visto come alcuni degli schedati abbiano potuto ancora lavorare usando pseudonimi o teste di legno. Per 13 anni nessuna delle grandi compagnie di Hollywood si arrischiò a sfidare la lista nera. I membri della Ampp che avevano promulgato la lista, non osavano neppure di nascosto assumere qualcuno degli schedati, ma quando Preminger, Douglas e Kramer osarono sfidarla apertamente e i loro film furono dei successi di pubblico, la lista nera perse la sua spina dorsale: la paura dei produttori di vedersi danneggiati economicamente.

Questo non significò che immediatamente tutti gli schedati poterono tornare a lavorare a Hollywood; molti erano scomparsi, altri avevano cambiato mestiere. Il processo fu lento, ma costante: nel 1961 Cyril Endfield, Guy Endore a Lillian Hellman riapparvero nei titoli di testa dei loro film, nel 1962 fu la volta di Morris Carnovsky, Howard Da Silva, Will Geer, Howard Koch, Marguerite Roberts e Waldo Salt; nel 1963 riapparvero sugli schermi i nomi di Leonardo Bercovici, Jean e Hugo Butler e Jeff Corey. Nel 1965 quelli di Ring Lardner jr. , Lionel Stander e Harold Buchman. Nel 1966 il nome di Ludwig Donath e nel 1967 quello di Abraham Polonsky. Alcuni nomi non riapparvero mai sugli schermi. Lester Cole lavorò al film Operazione Eichmann (Operation Eichmann, 1961, di Robert G. Springsteen) ma firmò con uno pseudonimo. Lo stesso nel film Nata libera (Born Free, 1965, di James Hill), dove apparve come Gerald L. C. Copley. Adrian Scott continuò a lavorare in nero fino a quando, nel 1963, diventò uno dei produttori per la Mgm, senza peraltro riuscire a concretizzare alcuna produzione. Ring Lardner jr. lavorò in nero fino a che Preminger lo assunse per scrivere Genius. La Legione cercò ancora di ostacolare questa assunzione scrivendo una lettera a Preminger per esortarlo a scegliere un altro scrittore, ma Preminger rispose che poiché ora i nomi di questi scrittori erano ben chiari sui titoli di testa, chi voleva poteva non andare a vedere i loro film, e che lui era contro le segregazioni e le liste nere. Il film non fu fatto e Lardner dovette attendere Cincinnati Kid (The Cincinnati kid, di Norman Jewison) nel 1964 per rivedere il suo nome nei titoli di testa di un film. Albert Maltz, dopo essere stato scaricato da Sinatra, aveva continuato a scrivere in nero. Ma nel 1966 il «Daily Variety» annunciava che dopo 19 anni di segregazione, Maltz avrebbe riavuto il suo nome nei titoli nel film Un magnifico ceffo da galera (Scalawag, 1973, di Kirk Douglas) prodotto da Malcom Stuart e recitato da Kirk Douglas. Ma il copione non fu accettato e Maltz scrisse The Seven File per la United Artists. Herbert Biberman si era ritirato a New York ma nel 1967 tornò a firmare il film Slaves, poi terminato nel 1969. John Howard Lawson non lasciò mai il suo status di schedato, ancora nel 1962 dovette firmare un contratto con la United Artists in cui rinunciava ad apparire. Trovò questo così umiliante che decise di non lavorare mai più per Hollywood. Alla fine degli anni ’60, quasi tutti gli schedati erano tra i più attivi autori di Hollywood. Questo valeva per gli scrittori e i registi. Gli attori purtroppo non poterono lavorare in nessun modo nel cinema durante il periodo nero, così parecchi si diedero al teatro. Quando la lista nera fu cancellata, per molti di loro era troppo tardi per rientrare nel cinema. «È inutile affannarsi a cercare cattivi ed eroi perché non ce ne furono», ha dichiarato Trumbo nel 1970, accettando con commozione il prestigioso premio Laurel assegnatogli dalla Writers Guild of America West. «Ci furono solo vittime. »131 La frase «solo vittime» non piacque affatto a molti colleghi di Trumbo tra i Dieci né alla sinistra in genere. Maltz, ad esempio, reagì

aspramente: Dire che coloro che plaudirono e aiutarono quelle commissioni, piegandosi alla loro volontà, sono «vittime» alla stessa stregua di coloro che invece si opposero a esse e di conseguenza furono pubblicamente umiliati, subirono calunnie, furono posti nella lista nera ed ebbero la carriera rovinata, significa dire una grossa sciocchezza e dimostra una totale mancanza di discriminazione morale. 132

Credo che l’interpretazione di Maltz della frase di Trumbo sia stata viziata da un fraintendimento. Considerando la storia di Trumbo e quanto ha lasciato scritto nel suo libro di memorie, pare difficile credere che dicendo «ci furono solo vittime» egli intendesse equiparare in qualche modo le responsabilità di tutti i personaggi che furono coinvolti nei meccanismi perversi della Commissione per le attività antiamericane. Sembra più probabile che – restando implicito il differente giudizio su chi accettò di cooperare con la Commissione, e su chi di quella cooperazione fu vittima – lo scrittore volesse ricordare che le vere responsabilità erano da attribuirsi a quegli uomini, politici e non, che decisero di iniziare un simile tipo di inquisizione. Per quanto riguarda poi la questione dell’eroismo, mi trovo sostanzialmente d’accordo con quanto concluso da Ceplair ed Englund: Senza dubbio i «lista nera» sono stati considerati degli eroi dalla sinistra; e in anni recenti (diciamo dal 1975 in poi) la loro immagine e la loro mistica è riuscita a permeare di sé lo spirito della «nuova» Hollywood. […] Se per eroismo si intende la dimostrazione di ampie doti di coraggio, intelligenza, generosità, fedeltà e solidarietà di fronte a un attacco contro i fondamentali diritti democratici, in una situazione in cui l’assunzione di un tale atteggiamento comporti sofferenze, perdite materiali e senso di insicurezza, allora quasi tutte le persone messe nella lista nera possono essere definite eroi. Ma se, invece, con questo termine si vogliono denotare qualità plutarchiane o addirittura omeriche di purezza, forza, altruismo e onniscienza, allora tutti indistintamente si dimostrarono carenti di questi attributi. 133

Un dato che infine mi pare giusto registrare, è che nessuno dei firmatari della Dichiarazione del Waldorf Astoria ha mai fatto ammenda per aver rovinato così inutilmente vite e carriere di cittadini americani e di bravi artisti. E solo nel 1998, a distanza di più di mezzo secolo dall’inizio dell’inquisizione, la direzione della Screen Writers Guild ha deciso di reintegrare 16 scrittori che tra il 1950 e il 1969 furono costretti a firmare 21 film con degli pseudonimi in quanto schedati.

1 The Big Night(1951, di Joseph Losey). 2 Cfr. Joseph Losey, Losey on Losey, Doubleday & Company Inc. , Garden City (N. Y. ) 1968,a cura di Tom Milne. 3 Bessie, in Inquisition in Eden(pp. 159-162) spiega come fu aiutato da Rossen prima che questi finisse sulla lista nera. 4 In quell’anno Rossen fu individuato come membro del Partito comunista da Richard Collins (12 aprile), Meta Rois Rosenberg (13 aprile), Anne Ray Frank (10 settembre), Leo Townsend (18 settembre) e Martin Berkeley (19 settembre). Rossen fuggì in Messico per diversi mesi dopo che il suo nome venne fatto per evitare il mandato di comparizione dalla Commissione. Cfr. Alan Casty, The Films of Robert Rossen, «Film Quarterly»,inverno 1966-1967. Quando, tornato in patria, comparve al banco dei testimoni, invocò la protezione del Quinto emendamento per non rispondere alla domanda riguardante la sua iscrizione al Partito. Successivamente tornò in Messico. Nel maggio 1953 si trovò di nuovo davanti alla Commissione e questa volta cedette, ammettendo la sua militanza decennale nel CpUsa dal 1937 al 1947, affermando di aver versato circa 40. 000 dollari nelle sue casse. Quindi fece un elenco di ben 57 persone che ricordava come compagni di partito. Cfr. Hcua, Investigation of Communist Activities in the New York City Area,83rd Congress, 1st Session, pp. 1454-1500.

5 Murray Schumach, The Face on the Cutting Room Floor, William Morrow and Company, New York 1964, individua Trumbo come il vero autore di Cowboy. 6 Lester Cole, Hollywood Red. The Autobiography of Lester Cole, Ramparts Press, Palo Alto 1981,pp. 306-307. 7 È da notare che il Partito comunista adottava le stesse tecniche di isolamento contro i suoi nemici. Spiegando come un «delatore» doveva essere trattato, Alexander Goldberg [J. Peters] in The Communist Party: A Manual on Organization(p. 22), suggerisce ai compagni fedeli di «coinvolgere moglie e figli nel boicottaggio per rendere ogni istante della sua vita miserabile; bisognava organizzare picchettaggi davanti ai negozi nei quali sua moglie faceva la spesa; dite ai vostri ragazzi di canzonare il traditore o gli altri membri della famiglia, urlando insulti come “spione”, “topo”; scrivete col gesso sul portone di casa sua “il Tizio che vive qui è una spia”. Ordinate ai vostri figli di evitare i suoi figli» ecc. 8 Guy Endore, Reflections, Ucla Library, Oral History Program, Los Angeles 1964, p. 157. 9 Dichiarazione di Samuel Ornitz al suo editore, Rinehart & Company, probabilmente degli inizi del 1950. 10 Samuel Ornitz, Bride of the Sabbath, Rinehart & Company, New York 1951. I primi due volumi dovevano essere parte di una trilogia, mai completata a causa della morte dell’autore nel marzo del 1957. 11 John Howard Lawson, The Hidden Heritage, The Citadel Press, New York 1950. 12 Il suo attacco a Hollywood è contenuto in Film in the Battle of Ideas, Masses and Mainstream, New York 1953. Il suo saggio Theory and Technique of Playwriting,pubblicato una prima volta nel 1936, è stato ripubblicato nel 1949 con una sostanziosa aggiunta sotto il titolo di Theory and Technique of Playwriting and Screenwriting, G. P. Putnam’s Sons, New York 1949. La paternità della sceneggiatura di Cry, the Beloved Country,è stata dichiarata in un’intervista del febbraio 1965. 13 Riportato dal «Daily People’s World» del 1° giugno 1949. La Fox fu inondata di lettere di protesta da parte di vari «gruppi patriottici» e cancellò la produzione. Quando una cooperativa di produzione capeggiata da Walter Huston si offrì di rilevare i diritti del romanzo dalla Fox, questa si rifiutò, scatenando le ire della stampa di sinistra che parlarono di «controllo del pensiero». Cfr. i numeri del «Daily People’s World» della primavera estate del 1949. 14 La commedia si chiamava Foxye fu scritta da Lardner stesso in collaborazione con un altro schedato, Ian McClellan Hunter. 15 Il testo della commedia è in «Theatre Arts», gennaio 1950. 16 Give Us This Day,anche conosciuto come Christ in Concrete(Cristo fra i muratori ) del 1949 e The Hidden Room,chiamato anche Obsession(Vendico il tuo peccato ) sempre del 1949. 17 In questa cifra si includono i lavori del mercato nero di Bessie, riportato in Alvah Bessie, Inquisition in Eden, Seven Seas Publishers, Berlin 1967. 18 Ivi, p. 232. 19 Uno dei progetti più importanti fu Hollywood on Trial, Boni & Gaer, New York 1948, che porta il nome di Gordon Kahn ma fu depositato da Biberman, autore di contributi fondamentali. Biberman parla delle sue attività di quel periodo in Salth of the Earth, Beacon Press, Boston 1965. 20 Intervista di Howard Suber con Edward Dmytryk, 7 luglio 1965, riportato in The 1947 Hearingscit. 21 Alvah Bessie, Inquisition in Edencit. ,p. 10. 22 Intervista di Howard Suber con Edward Dmytryk cit. 23 Il giuramento di lealtà della contea di Los Angeles (Los Angeles County Loayalty Oath) del 5 dicembre 1949, fu uno dei primi provvedimenti di quel tipo approvati in sede locale in tutti gli Usa. Il 4 novembre 1952 un referendum abrogativo dell’articolo 5, che racchiudeva gli elementi caratterizzanti dell’intero progetto, fu sconfitto per 2. 902. 695 voti a 1. 359. 970, ponendo la California del Sud nella prima linea della legislazione anticomunista. 24 La testimonianza di Leo Townsend appare in Hcua, Communist Infiltration of Hollywood Motion Picture Industry,82nd Congress, 1st Session, pp. 1508-1541. La testimonianza di Pauline Townsend appare nelle «dichiarazioni esecutive» dell’Hcua, Investigation of Communist Activities in the Los Angeles Area,83rd Congress, 1st Session, pp. 953-963. Joseph Losey, Losey on Loseycit. ,p. 91, ammette di aver partecipato a gruppi di studio sul marxismo

e di avere contribuito a diverse attività del Partito, ma nega di essersi mai iscritto. 25 Joseph Losey, Losey on Loseycit. ,pp. 66, 90. 26 Ivi,p. 76. 27 Foreman fu individuato come membro del CpUsa da Martin Berkeley (19 settembre), Melvin Levy (28 gennaio 1952) e da Stanley Roberts (20 maggio 1952). Apparve davanti alla Commissione il 24 settembre 1951 e si appellò al Quinto emendamento per non rispondere alla domanda sulla sua iscrizione al Partito, sebbene avesse consegnato alla Commissione una dichiarazione firmata per la Screen Writers Guild, datata 1950, in cui affermava di non essere membro del Partito. Cfr. Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltration of Hollywood Motion Picture Industry,82nd Congress, 2nd Session, pp. 1753-1771. Tra i suoi lavori clandestini del periodo del mercato nero (1951-1956) troviamo Il ponte sul fiume Kwai. 28 Joseph Losey, Losey on Loseycit. ,p. 90. 29 Ivi. 30 Ivi,p. 93. 31 J. B. Matthews, Did the Movies Really Clean Their House?, «American Legion Magazine»,dicembre 1951. 32 Joseph Losey, Losey on Loseycit. , p. 153. 33 James Leahy, The Cinema of Joseph Losey, A. S. Barnes & Co. , New York 1967. Il film fu montato e musicato contro le direttive di Losey, impossibilitato a seguire l’edizione a causa della denuncia dell’Hcua. 34 Ivi. Anche Buchman, apparso davanti all’Hcua il 17 aprile 1951, ha invocato il Quinto emendamento per non rispondere sulla sua affiliazione al Partito. Cfr. Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltration of Hollywood Motion Picture Industry,82nd Congress, 2nd Session, pp. 312-317. 35 Koch, che non fu mai individuato come comunista da nessun ex membro del Partito, e che non fu mai chiamato davanti alla Commissione, fu ugualmente inserito nella lista nera. Per The Intimate Stranger(1956, di Alec C. Snowden), usò il nome di «Peter Howard». Cfr. James Leahy, The Cinema of Joseph Loseycit. , p. 169. 36 Riportato dal «Daily Peolple’s World»,31 agosto 1949. 37 «Daily Peolple’s World»,21 novembre 1949. È interessante osservare quanto la stampa comunista idolatrò Dmytryk in questo periodo e quanto lo denigrò quando divenne un testimone amichevole. Come sempre in politica, niente è peggio di un ex membro del proprio partito. 38 «Daily Peolple’s World»,29 giugno 1949. 39 «Daily Peolple’s World»,18 novembre 1949. 40 «Daily Peolple’s World»,18 febbraio 1949. La rubrica «The Tattler», che apparve sul giornale dal 1949 al 1950, è fondamentale per chi voglia seguire i progressi dei membri del Partito e dei simpatizzanti. «The Tattler» sottolineava ogni più piccolo film nel quale avesse avuto un ruolo chi era vicino alle posizioni del CpUsa. 41 Ring Lardner jr. , My Life on the Blacklist, «Saturday Evening Post»,14 ottobre 1961. 42 Il primo processo dei famosi procedimenti dello Smith Act si aprì il 17 giugno 1949 davanti al giudice Harold R. Medina. Cfr. David A. Shannon, The Decline of American Communism, Harcourt, Brace and Company, New York 1951, pp. 197-203. I primi processi per lo Smith Act terminarono nell’ottobre 1949, con la condanna di 11 leader nazionali del CpUsa al carcere. Poco prima di apparire davanti alla Corte Federale del Distretto di New York per la condanna, otto di loro scomparvero dopo aver pagato 80. 000 dollari di cauzione. Come Irving Howe e Lewis Coser riportano in The American Communist Party, Praeger, New York 1957, questo fatto contribuì più di ogni altro a far scemare la simpatia verso il Partito tra la gente che dubitava della legalità eutilità del procedimento federale. 43 Dassin fu anche denunciato come comunista dal regista Frank Tuttle il 24 maggio 1951. Tuttle stesso era stato nominato da Dmytryk, il quale dichiarò che lui, Dassin, Tuttle, Biberman, Jack Berry e Bernard Vorhaus fossero gli unici comunisti della Swg, che contava allora circa 225 iscritti. Cfr. Huac, Hearings Regarding Communist Infiltration of Hollywood Motion Picture Industry,82nd Congress, 1st Session, pp. 408-441. 44 «Daily People’s World» 13 dicembre 1949. 45 Dassin, che per la prima volta girava in Francia, nella pellicola recita anche la parte di Perlo Vita, esperto di casseforti.

46 «Time», 31 ottobre 1949. Il contratto non fu portato a termine. 47 Riportato anche in Eric Bentley (a cura di), Thirty Years of Treason. Excerpts from Hearings Before the House Committee on Un-American Activities, 1938-1968, Viking Press, New York 1973 (nuova edizione: Nation Books, 2002), p. 791 e passim. 48 Ivi. 49 Ivi. 50 Walter Goodman, The Committee. The Extraordinary Career of the Huac, Farrar, Straus & Giroux, New York 1968, p. 402. 51 Dalton Trumbo, Additional Dialogue, Manfull Helen M. Evans & Co. , New York 1970 (trad. it. Lettere dalla Guerra Fredda, Bompiani, Milano 1977). 52 Ivi. 53 Elizabeth Poe, Blacklisting and Censorship in Motion Pictures, «Mass Media»,luglio 1959. La signorina Poe, giornalista della rivista «Frontier», conosceva diversi schedati personalmente e contribuì al lavoro di John Cogley, Report on Blacklisting, Fund for the Republic, New York 1956. Come riporta Kenneth McGowan in Behind the Screen, Delacorte Press, New York 1965, nel 1961 le major produssero solo 102 film e ne importarono 60. Dal momento che vi erano ancora un centinaio di sceneggiatori schedati, la percentuale del 15% è credibile, anche se, come vedremo più avanti, quasi tutta l’attività del mercato nero si concentrò all’interno della United Artist e della King Brothers Productions. 54 Dalton Trumbo, Blacklist=Black Market, «The Nation», 4 maggio 1957. 55 Ring Lardner jr. , My Life on the Blacklistcit. 56 Wilson fu uno dei pochi che decise di comparire davanti alla Commissione prima di essere pubblicamente denunciato come membro del Partito. Cfr. Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltration of Hollywood Motion Picture Industry,82nd Congress, 1st Session, pp. 1674-1679. 57 Murray Schumach, The Face on the Cuttingcit. 58 Ivi. 59 Howard Suber, The 1947 Hearings of the House Committee on the Un-American Activities into Communism in the Hollywood Motion Picture Industry,Tesi di laurea discussa alla University of California, Los Angeles, a. a. 1966. 60 Lindemann fu denunciato dagli ex comunisti Paul Marion e Owen Vinson il 2 ottobre 1952. Cfr. Huac, Hearings Regarding Communist Activity Among Professional Groups in the Los Angeles Area,82nd Congress, 2nd Session, pp. 4072-4107. 61 Ray Bradbury, Oral History, Ucla Oral History Program, Los Angeles 1965. 62 Huac, Hearings Regarding Communist Infiltration of Hollywood Motion Picture Industry,82nd Congress, 1st Session, pp. 1508-1541. Townsend dichiarò di essere stato iscritto dal 1943 al 1948. 63 Ivi,p. 1526. 64 Ivi. 65 Robert C. Jennings, The Hollywood 10 Plus Twenty, «The Los Angeles TimesWest Magazine»,3 settembre 1967. 66 Riportato nell’intervista di Robert Jennings con Trumbo, 20 dicembre 1960. 67 Murray Schumach, The Face on the Cuttingcit. ,pp. 130-140. 68 Questi non erano ovviamente gli unici membri del gruppo, ma quelli di cui si ha la certezza. 69 AA. VV. , Motion Picture Production Encyclopedia, The Hollywood Reporter Press, Hollywood 1950. 70 Kenneth McGowan Behind the Screencit. ,le cifre riportate sono prese da Jack Alicoate (a cura di), The 1945 Film Daily Year Book of Motion Pictures,«The Film Daily», New York 1945; Jack Alicoate, The 1955 Film Daily Year Book of Motion Pictures, «The Film Daily», New York 1955. 71 La causa che fece scaturire la legge antitrust fu United States of America versus Loew’s Inc. , Warner Bros. Pictures Inc. , WB Picture Distributing Corporation, WB Circuit Managment Corporation, 20th Century Fox Fil Corporation, National Theatres Corporation, Columbia Pictures Corporation, Screen Gems Inc. , Columbia Picture of Louisiana Inc. , Universal Corporation, Universal Pictures Company Inc. , Universal Film Exchangers Inc. , Big U Film Exchange Inc. and United Artists Corporation,Us District Court, Southern District of New York, Equity n. 872-73. Da qui in poi citato come Us versus Loew’s Inc. , et al. Alle

compagnie cui venne ordinato di alienare le loro strutture di distribuzione vennero dati 3 anni per portare a termine la separazione. Per uno studio sugli effetti di questa azione federale cfr. Michael Conant, Antitrust in Motion Picture Industry, Ucp, Berkeley 1960. 72 Paul Mayersberg, Hollywood The Haunted House, The Penguin Press, London 1967. Mayersberg analizza diversi aspetti della nascita del produttore indipendente negli anni ’50. 73 Barzman è comparso come autore di He who Must Die, e, assieme a Lampell, di L’inchiesta dell’ispettore Morgan;a Berry, di Tamango;a Maddow, di The Unforgivene The Savage Eye ecc. 74 Di questi, furono testimoni amichevoli: Robert Rossen, Carl Foreman, Bernard C. Shoenfeld, Stanley Roberts, Budd Schulberg e Isabel Lennart. 75 A Dalton Trumbo dovrebbero essere attribuiti due premi Oscar in più dell’unico ufficialmente ritirato per La più grande corrida. Lo stesso Trumbo ha sempre detto nelle sue interviste di averne vinto almeno un altro. Michael Wilson e Carl Foreman furono i veri autori della sceneggiatura di Il ponte sul fiume Kwai, anche se il premio fu ritirato da Pierre Boulle. Cfr. Ring Lardner jr. , My Life on the Blacklistcit. Il quinto premio sarebbe quello di Nedrick Young, co-sceneggiatore di La parete di fango. 76 Affidavit di Nedrick Young in Nedrick Young, et al. versus Mpaa, et al. cit. 77 Ivi. 78 Ivi. 79 Harry Brown fu il co-sceneggiatore. Wilson si appellò al Quinto davanti alla Commissione il 20 settembre 1951. 80 Affidavit di Nedrick Young in Nedrick Young, et al. versus Mpaa, et al. cit. 81 Murray Schumach, The Face on the Cutting cit. Il codice d’onore degli schedati prevedeva di non rilevare le loro attività di mercato nero se non con il permesso dei produttori coinvolti. Questo uso è stato rispettato fino alla metà degli anni ’80, a lista nera cancellata da tempo. 82 «Daily Variety», 1º luglio 1959. Alcuni produttori protestarono duramente contro questa risoluzione e chiesero ai presidenti delle loro associazioni di contrattaccare la Al. 83 Riportata in«Daily Variety»,7 luglio 1959. 84 «Daily Variety»,12 agosto 1959. 85 Al di là di un discorso pronunciato da Chaplin durante una manifestazione in supporto della Russia che chiedeva di aprire un secondo fronte, non vi sono prove di un suo impegno politico di sinistra. Tuttavia, come abbiamo visto, quando nel 1952 si recò in Europa fu raggiunto da una comunicazione dell’Avvocato di Stato americano che lo invitava a non ripresentarsi negli Usa, più che altro per i suoi «discutibili comportamenti morali». Cfr. Charles Chaplin, My Autobiography, Simon and Schuster, New York 1964. 86 Il riferimento è alla compagnia di Iliya Lopert, che distribuì Mai di domenica. La Lopert fu poi assorbita dalla Ua. 87 La dichiarazione di Kahane è stata riportata in Nedrick Young, et al. versus Mpaa, et al. cit. 88 Cfr. «Variety»,26 agosto 1959. 89 Riportato in Nedrick Young, et al. versus Mpaa, et al. cit. 90 Cfr. Murray Schumach, The Face on the Cutting cit. , che tra l’altro commette un errore grossolano, facendo risalire la visita di Kruscev al 1960, mentre avvenne l’anno prima. 91 E in particolare a Herbert Biberman, che scrisse una lettera al premier sovietico sottolineando il parallelo tra la sua posizione e quella di Boris Pasternak. Quando nel giugno del 1960 Pasternak morì, il «New York Herald Tribune» dedicò un lungo editoriale alla sua memoria, rivendicandone le battaglie sostenute contro il regime; negli stessi anni i giornali del blocco di Varsavia scrivevano appelli in favore degli schedati. La Guerra Fredda era anche questo. 92 Affidavit di Louis Pollock, in Nedrick Young, et al. versus Mpaa, et al. cit. 93 Come quando sfidò il Codice di produzione distribuendo La vergine sotto il tetto(The Moon is Blue, 1953, di Otto Preminger) e L’uomo dal braccio d’oro(Man with Golden Arm, 1955, di Otto Preminger). 94 Vacanze romane non era stato scritto da Trumbo ma dall’altro schedato Ian McClellan. 95 «New York Times», 20 gennaio 1960. 96 Ivi. 97 «New York Times»,9 febbraio 1960. 98 «New York Times»,7 febbraio 1960.

99 Ivi. 100 «New York Times»,10 febbraio 1960. 101 «New York Times»,15 febbraio 1960. 102 Ivi. 103 «New York Times»,21 marzo 1960. 104 Sinatra fece un discorso alla radio contro l’Hcua già nel 1947: «E quando questa Commissione avrà epurato Hollywood, quale sarà il prossimo settore? Magari vorranno occuparsi della libertà delle frequenze?… Vogliono spaventarci? Temo che se questa Commissione otterrà il consenso degli americani oggi, non sarà possibile il prossimo anno fare una trasmissione libera come questa». Aderirono all’attacco alla Commissione molti nomi famosi di Hollywood, tra cui Judy Garland, Humphrey Bogart, Gene Kelly, Burt Lancaster, Lucille Ball ecc. Riportato in Albert Fried (a cura di), McCarthyism. The Great American Red Scare. A Documentary History, Oup, New York-Oxford 1997. 105 «Los Angeles Examiner», 22 marzo 1960. 106 «New York Journal American»,25 marzo 1960. 107 Ivi. Il comandante dell’AmVets di California giunse a fare un appello che invitava al boicottaggio di tutte le attività artistiche di Sinatra. 108 «New York Journal American», 23 marzo 1960. 109 Ivi. 110 La lettera aperta si intitolava A Statement from Frank Sinatrasull’«Hollywood Reporter» del 28 marzo 1960 e A Statement of Fact from Frank Sinatrasul «New York Times» del giorno dopo. 111 «New York Times», 12 aprile 1960. 112 Intervista di Howard Suber a Albert Maltz, estate 1965. 113 Intervista di Robert C. Jennings con Albert Maltz, inverno 1967. 114 «New York Times», 12 maggio 1960. 115 Cfr. Hcua, Hearings Regarding Communist Infiltration of Hollywood Motion Picture Industry, 82nd Congress, 1st Session, pp. 1856-1882. 116 Il gesto non fu comunque apprezzato dagli altri compagni di partito. 117 Cfr. Edward Bennet Williams, One Man’s Freedom, Popular Library, New York 1964 e Walter Goodman, The Committee cit. 118 «New York Times», 29 maggio 1960. 119 Ivi. 120 «Variety»,29 giugno 1960. 121 Murray Schumach, The Face on the Cutting cit. 122 «New York Times», 27 luglio 1960. 123 Cfr. ad es. «Variety»,21 settembre 1960. 124 «Variety»,12 ottobre 1960. 125 Ivi. Qualche critica politica vi fu, ad esempio sulla conservatrice « Films in Review»,novembre 1960. 126 «Variety»,19 ottobre, 26 ottobre, 2 novembre, 9 novembre, 8 dicembre 1960. 127 «Variety»,11 gennaio 1961. 128 Affidavit di Nedrick Young in Nedrick Young, et al. versus Mpaa, et al. cit. 129 Ivi. 130 «Time Magazine», 22 dicembre 1960. 131 Cfr. , tra gli altri, Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema americano, 1930-1960, Editori Riuniti, Roma 1981; Robert Vaughn, Only Victims. A Study of Show Business Blacklisting, Putnam, New York 1972 ; Victor S. Navasky, Naming Names, Viking Press, New York 1980. 132 Victor S. Navasky, Naming Names cit. 133 Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood cit.

Capitolo 6 Conclusioni

6.1. Perché Hollywood Fin qui abbiamo analizzato quali sono stati gli effetti del «lungo maccartismo» – che ho fatto iniziare con l’anno di istituzione della prima Commissione per le attività antiamericane nel 1938, e terminare con l’elezione del presidente John Fitzgerald Kennedy, nel 1960 – sul cinema americano e sulla sua industria, prima ancora che sulla produzione cinematografica. Cerchiamo ora di capire le motivazioni che originarono l’inchiesta della Commissione per le attività antiamericane proprio sulla cittadella del cinema. L’obiettivo ufficiale dell’indagine era quello di smascherare la propaganda comunista e sovversiva inserita esplicitamente o implicitamente nei film da parte degli artisti politicizzati. Possiamo oggi dire con tranquillità che questo obiettivo fu soltanto di facciata. Infatti, una vera inchiesta sulle infiltrazioni comuniste in un settore delicato come quello dell’intrattenimento cinematografico avrebbe dovuto in primo luogo analizzare direttamente e ripetutamente i prodotti di quel settore, vale a dire i film. È un fatto che nessuna delle presidenze della Commissione si prese mai la briga di vedere le opere di quegli sceneggiatori, attori o artisti che furono accusati di tentare la sovversione. Né Thomas, né Wood, né altri commissari ritennero utile, ai fini delle loro inchieste, procurarsi un’attenta filmografia. Quei politici agirono da commissari e da censori pur non avendo mai visto i film che contestavano. Quale fu allora il vero obiettivo che dette origine all’intera indagine? La Commissione riprese le sue attività dopo la seconda guerra mondiale su iniziativa dell’onorevole Rankin, che era rappresentante dell’ultradestra repubblicana, ed era personalmente antisemita e razzista. La Commissione nacque col proposito di smascherare qualunque tipo di attività sovversiva, ma di fatto ignorò le associazioni parafasciste, che pure esistevano nella società americana, come per esempio il Ku Klux Klan (di cui, anzi, si diceva che l’onorevole Rankin fosse un adepto), per concentrarsi esclusivamente sui settori radicali di sinistra. Hollywood non fu scelta per caso, né la Commissione vi fu chiamata dagli esponenti di quelle associazioni ultraconservatrici come l’Alleanza cinematografica per la difesa degli ideali americani. Studiando la produzione cinematografica di quegli anni si può affermare, senza timori di smentite, che non è riscontrabile alcun tipo di offensiva propagandistica comunista. Inoltre, chiunque non sia totalmente digiuno dei meccanismi di funzionamento di un’industria cinematografica, e in particolare di quella così strettamente

capitalista di Hollywood, sa che il potere decisionale di uno sceneggiatore o di un attore sul prodotto finale è sempre condizionato dal volere del produttore, ossia di colui che finanzia il film e ne rende possibile la realizzazione e l’uscita. Ancora oggi, a quindici anni dalla caduta del Muro di Berlino, uno sceneggiatore che volesse introdurre un messaggio politico in un suo lavoro dovrebbe avere il placet del proprio produttore; nella Hollywood della Guerra Fredda il controllo era molto più rigoroso: in una sceneggiatura non poteva passare una sola battuta di sapore politico che non fosse autorizzata dal produttore. E costoro, come abbiamo visto, erano imprenditori che badavano esclusivamente ai propri profitti, preoccupati di attrarre il più alto numero possibile di spettatori e di non incorrere nelle ire di nessun tipo di organizzazione: sociale, civile, politica o religiosa che fosse. Abbiamo inoltre visto, riportando frammenti della deposizione di Jack Warner e di altri grandi produttori, quali fossero le inclinazioni ideologiche di questi uomini: capitani di industria, spesso disinteressati alla politica, attenti a non dispiacere i commissari per non perdere la loro indipendenza. Che poi persero comunque, come prova la Dichiarazione del Waldorf, anche se più che una deposizione si trattò di un’abdicazione, poiché quel documento per i suoi estensori si pose come una scelta «autonoma» delle major. Tuttavia la Commissione per le attività antiamericane dedicò pochissimo tempo a indagare sui produttori. Ne ascoltò alcuni nella prima parte del 1947 e poi, soddisfatta dalla loro risposta del Waldorf, si concentrò esclusivamente su quegli artisti che dipendevano, in molti sensi, dai loro datori di lavoro. Considerando questi fatti, possiamo concludere che il disegno della Commissione, e delle sue indagini sul cinema, rispondeva all’esigenza di attaccare la cittadella più in vista del paese per sfruttare l’enorme pubblicità che ne sarebbe derivata, come già aveva mostrato l’attacco al Federal Theatre di New York alcuni anni prima. Nessun altro settore della società americana, sottoposto allo stesso tipo d’inchiesta, avrebbe potuto garantire una maggiore attenzione da parte dell’opinione pubblica nazionale e straniera. Dunque, il primo motivo che spinse la classe politica conservatrice e reazionaria contro Hollywood fu quello della sua straordinaria visibilità. Secondo un sondaggio Gallup del 19471 , otto americani su dieci erano al corrente delle indagini della Commissione sul mondo dello spettacolo, una percentuale di notorietà non raggiunta neanche dalla concomitante approvazione del «piano Marshall». Le audizioni di Washington delle star davanti alla Commissione furono seguite, come abbiamo detto, in diretta radiofonica integrale, con parziale copertura televisiva e riassunte in tutti i cinegiornali dell’epoca. L’aula dove gli artisti vennero ascoltati era sempre stracolma di giornalisti, fotografi ma anche gente comune, curiosi accorsi in massa per poter vedere da vicino quelle che erano le icone cinematografiche del tempo. «L’industria dei sogni» proponeva un film mai visto prima, recitato non da pochi volti famosi, ma da tutti i grandi e piccoli personaggi dello schermo, nelle parti dei testimoni, degli accusatori o dei sostenitori. Come per molti eventi seguiti in massa dalla popolazione, l’opinione in merito si spaccò. Decine di sondaggi vennero svolti durante il 1947 e poi dal

1951, sul gradimento dell’operato della Commissione e sul comportamento dei testimoni ascoltati. Le percentuali variavano molto, influenzate dall’ultima audizione riportata, dal carisma dei testimoni o degli inquirenti. Hollywood aveva creato delle nuove star: i deputati membri della Commissione, tra i quali si distinse, come abbiamo visto, il giovane e brillante avvocato Richard Nixon. L’altro grande motivo per cui la Commissione si concentrò su Hollywood era prodromico a un disegno più sottile. Con la motivazione ufficiale di voler preservare l’industria cinematografica dalle infiltrazioni propagandistiche di stampo sovietico-comunista, si intendeva in realtà mettere dei «consulenti politici», garanti del «vero americanismo», a fianco dei produttori. Si mirava cioè a mettere le mani sull’industria che più poteva influire e condizionare l’opinione pubblica, per piegarla a quello da cui si diceva di volerla salvare: il controllo politico di una fazione. In questo intento, la destra americana fallì, per due motivi concorrenti: 1) La nascita e la diffusione della televisione causò una forte flessione del pubblico cinematografico e spostò l’attenzione dei politici sulla nuova arma di propaganda. Questa, però, si prestava molto meno a un possibile controllo, perché non aveva un unico centro di produzione e decisione riconosciuto e consolidato, com’era per il cinema, e non possedeva un sistema oligarchico come era quello delle major hollywoodiane. Trasferire sulla televisione il progetto di controllo politico fallito sul cinema si rivelò improponibile, non solo per la impreparazione degli uomini politici nei confronti del mezzo televisivo, ma anche per la forza della stampa americana liberal e conservatrice, che seppe intuire prima di altri le potenzialità della televisione e ne divenne il suo cane da guardia. 2) Il tentativo di imporre una produzione anticomunista e antisovietica, che fu raggiunto grazie alla compiacenza dei produttori delle major più che all’effettiva pressione politica, si risolse in un fiasco economico. Il pubblico semplicemente non andava a vedere film carenti sul piano della sceneggiatura e della storia2 , che apparivano più incentrati sulla censura di ogni problema sociale anziché all’intrattenimento degli spettatori. Come riportano Ceplair ed Englund, gli studios fecero passi da gigante all’indietro nella rappresentazione della guerra, del crimine, delle figure femminili e delle istituzioni, mentre la quasi completa esclusione di personaggi poveri, operai, neri o di altre minoranze etniche (con la notevole eccezione degli indiani [d’America], che esistevano però solo sotto forma di corpi urlanti che facevano da bersaglio per le uniformi azzurre della cavalleria e per cowboy dal grilletto facile) era la muta riprova che gli studios erano stati arruolati come truppe ausiliarie dal blocco conservatore che aveva scatenato la Commissione. 3

Hollywood si riprese dalla crisi dei botteghini degli anni ’50 cambiando l’organizzazione e lo stile delle produzioni cinematografiche, tornando ad affrontare argomenti di attualità non necessariamente da un punto di vista patriottico e inaugurando film kolossal o di fantascienza, dai grandi effetti speciali. A partire dalla metà degli anni ’70, cambiò il punto di vista del cinema americano anche sui temi storico-razziali, come mostrano i film sui «nativi americani» della nuova generazione, molto più problematici e rispettosi dell’antica cultura pellerossa (hanno cambiato anche il termine che li identifica, in ossequio alla concezione della politically correctness degli ultimi

venti anni).

6.2. L’indagine come processo politico e suoi effetti L’opinione pubblica americana si riferiva alle indagini della Commissione sul cinema come al «processo di Hollywood». Al di là dell’uso popolare di questo termine, è interessante capire se l’attività della Commissione sulla cittadella del cinema è effettivamente classificabile come «processo politico». Questa domanda si intreccia con quelli che furono gli effettivi risultati dell’inchiesta, al centro di molti dibattiti. È stato fatto notare da molti come gli interrogatori non scavassero davvero nelle attività del Partito comunista o delle altre organizzazioni ritenute sovversive, ma si accontentassero di stabilire se i sospettati fossero stati o fossero ancora membri di tali gruppi. La famosa «domanda da 64 dollari», come fu chiamata, sarebbe dovuta essere la prima di una lunga serie di questioni inerenti episodi precisi, contestazioni puntuali che la Commissione avrebbe dovuto portare in aula. Chi avrebbe fatto cosa, quando e perché: questo è l’unico funzionamento corretto di una corte o di una commissione inquirente. La giustificazione che è stata fornita riguardo questa lacuna, classifica le audizioni non come un processo tout court, ma come una semplice indagine parlamentare. A nostro parere questa spiegazione è superficiale poiché – al di là di come venne interpretata l’inchiesta dall’opinione pubblica e dagli stessi attori delle udienze (inquisitori e «testimoni») – chi era chiamato a presentarsi davanti alla Commissione doveva rispondere di accuse politiche, fornite dagli schedari dell’Fbi, di associazione a organizzazioni ritenute sovversive, tra le quali il Partito comunista, l’Associazione per la pace atomica, il Sindacato sceneggiatori e altre 621 sigle classificate dagli uomini di Hoover, McCarthy o della American Legion. Già quest’unico elemento può identificare le inchieste della Commissione per le attività antiamericane su Hollywood come un processo politico. E un processo politico dei meno garantiti, che si basava nella migliore delle ipotesi su «prove»4 raccolte dall’Fbi riguardo a fatti accaduti dieci o vent’anni prima, come la partecipazione a una marcia, o l’aver atteso a riunioni in favore della Russia durante il periodo di alleanza militare contro Hitler. Più spesso si basavano su voci di corridoio, sentito dire, denunce anonime, che portarono alcune decine di cittadini americani in galera (ufficialmente per vilipendio al Congresso) e sconvolsero l’esistenza di centinaia di famiglie, costringendole sovente a fuggire all’estero o a trovare lavoro clandestino reinventandosi una vita. Fu un processo politico che non riconosceva una serie di diritti elementari agli indagati, quale quello del controinterrogatorio degli accusanti, o quello dell’intervento diretto del proprio collegio di difesa. Fu infine un processo politico che mise in discussione non solo la libertà di opinione e di parola di centinaia di persone, ma lo stesso valore costituzionale del Primo e del Quinto emendamento della Costituzione. In questo, la Commissione si avvalse della complicità della maggioranza dei giudici della Corte Suprema, che arrivarono, nella storica sentenza del 4 giugno 1951 Dennis versus United States, a dichiarare legale la persecuzione di Eugene Dennis, colpevole di essere il segretario del Partito comunista americano, sulla base dello Smith Act. In tale

occasione, altrettanto storica rimane la dichiarazione di dissenso del giudice Black: «C’è da sperare, comunque, che in tempi più tranquilli, quando le pressioni, le passioni e le paure di oggi saranno solo un ricordo, questa stessa Corte o quella che sarà in carica sia in grado di restaurare le libertà del Primo emendamento all’alto grado che compete loro in una società libera»5. Questi fatti ci portano a concordare con la conclusione della grande maggioranza degli studiosi del periodo, ossia che il «processo di Hollywood» fu fatto eminentemente con un intento politico punitivo nei confronti di quei personaggi noti come progressisti, new dealers, liberal e radicali. In un primo tempo, gli Stati Uniti del dopoguerra guardarono alle indagini su Hollywood con curiosità più che preoccupazione. Ovviamente non fu così nel mondo dello spettacolo, sebbene molti avessero, agli inizi, sottovalutato il potere della Commissione (come ricorda Walter Bernstein nel suo saggio Inside Out 6 ) e soprattutto nei settori decisionali dell’industria, colpiti direttamente nelle loro libertà e nella loro autonomia da ogni potere politico. Gli appelli, gli allarmi sulla «fascistizzazione» della società statunitense contro la libertà artistica di espressione, ma anche di parola e opinione, da parte delle organizzazioni radical, prontamente schedate come sovversive, ma anche solo liberal, si moltiplicarono fino al 1950 ma poi tacquero quasi del tutto, per riprendere corpo solo dal 1958 in poi7 , quando le indagini si spostarono dal mondo dello spettacolo verso altri settori e il nuovo rapporto Kennedy-Kruscev allentò un poco la paura e la conflittualità della guerra fredda. Come abbiamo visto, gli anni ’50 furono densi di paura: dopo la «perdita» della Cina e l’inizio della guerra di Corea, l’opinione pubblica americana, spaventata dalla possibilità di una terza guerra mondiale combattuta con le nuove potenti armi di sterminio atomico, subì una svolta reazionaria. In quegli anni, malgrado la continuazione dei progressi economici, l’americano medio maturò un nuovo atteggiamento verso la politica: più fazioso, di chiusura e di paura. Riprese alla grande la red scare, la fobia rossa, che si nutriva dei radicati sentimenti isolazionisti e americanisti che già aveva mietuto vittime nel 1919-’20 e nei primi anni ’40, sino alla rottura del patto RibbentroppMolotov. In un simile clima, cambiò il modo di recepire i fatti di Hollywood. Dal 1951 calò l’attenzione alle istanze liberali che venivano richiamate da chi si rifiutava di cooperare con la Commissione. L’opinione della stampa, che negli ultimi anni ’40 era in maggioranza favorevole ai testimoni ostili, divenne fortemente critica. La grande massa dei liberali di Hollywood e dell’intera nazione, inclusi i più progressisti, decise di fare marcia indietro e di trasformare i propri appelli in favore della libertà d’espressione dapprima in un lungo complice silenzio, poi in una aperta condanna. In questo senso è esemplare il comportamento di Humphrey Bogart e soprattutto di Elia Kazan. Come sostiene Victor Navasky nel suo illuminante saggio8 , al cambio della cornice storica internazionale, che vide passare gli Usa da potenza continentale a superpotenza mondiale in concorrenza con la minaccia comunista, corrispose un cambio culturale: l’informatore divenne una figura apprezzata nella società americana, visto come il primo difensore della patria, mentre l’intellettuale, l’artista, il personaggio che aveva il coraggio di prendere una posizione

eccentrica era guardato con sospetto. È proprio in questi anni che l’Fbi di Edgar Hoover raggiunse il massimo della sua estensione e del suo potere, controllando, senza un ordine congressuale, direttamente o indirettamente milioni di «individui sospetti», primi fra tutti gli stessi superiori di Hoover, compresi i presidenti degli Stati Uniti. Prima che le inchieste della Commissione tornassero a infastidire l’opinione pubblica, trascorsero lunghi anni bui per i progressisti di Hollywood e d’America. La mozione di censura contro il senatore McCarthy votata dai suoi colleghi nel 1954, ebbe un peso relativo nell’allentamento della tensione verso i sospettati di comunismo, essendo ormai diventato l’anticomunismo una categoria dello spirito di ogni buon cittadino americano. Il Partito comunista americano, ridotto nel 1954 a circa 19. 000 iscritti, scesi ulteriormente in occasione dell’invasione sovietica d’Ungheria, arrivò nell’estate del 1958 al suo minimo storico: circa 4500 membri, ossia lo 0,002% della popolazione – molti meno di quanto siano oggi gli adepti alle società sataniche – di cui, per giunta, un 10% composto da agenti dell’Fbi infiltrati e praticamente nessun aggancio con Hollywood. Quando la voce dei liberali tornò timidamente a farsi sentire durante il secondo mandato della presidenza Eisenhower, dopo le crisi dell’anno 1956, le liste nere erano ormai una realtà consolidata. Tuttavia, le autorità non le riconoscevano, come mostra l’inchiesta sulla «cosiddetta lista nera nell’industria dello spettacolo», ingenerata dalle denuncie del Rapporto sulla lista nera di Eric Bentley9. Ciò che mise fine alle inchieste della Commissione sia su Hollywood che sul resto della società fu il cambio di mentalità che si osservò a partire dal 1960, in concomitanza con la presidenza Kennedy. Il progetto di nuova società, che sarebbe stato applicato nella pratica solo dal suo successore Johnson, fu in grado di aiutare quel passaggio generazionale che avrebbe dato origine alla cultura della new left, della contestazione giovanile e del fenomeno degli hippy, culminante con gli avvenimenti del 1968, le nuove lotte per i diritti civili delle minoranze e le successive manifestazioni per il ritiro dalla guerra del Vietnam.

6. 3. Fascismo americano? A mio parere, le categorie politiche nate per descrivere i movimenti europei difficilmente si adattano alle società non europee; per capire la sinistra amarxista e la destra afascista americane è necessario addentrarsi nello studio del pensiero liberale collegato ai precetti dell’etica protestante. Tuttavia non sono rari i casi in cui la storiografia e la politologia europea tentano di applicare le categorie tipiche del vecchio continente agli Usa. Recentemente uno studioso spagnolo ha sostenuto che la violenta purga che colpì l’industria cinematografica americana tra il 1947 e il 1953, decimando intellettualmente le file dei suoi talenti più validi, sia ascrivibile al vasto programma storico della crescita e del consolidamento in aree del potere politico nordamericano di diverse forme dell’ideologia fascista, che è stata sempre presente nella società capitalista statunitense e che ha raggiunto particolare virulenza nei periodi successivi alle due grandi guerre mondiali10. Non voglio qui soffermarmi su tutti gli aspetti di una affermazione tanto

impegnativa, che presenterebbe diverse possibilità di discussione. Vorrei invece fornire un contributo a una polemica famosa, richiamata dalla citazione dello studioso iberico e sostenuta anche da una parte della sinistra radicale statunitense: fu il maccartismo un periodo definibile come «fascismo americano»? Prima di rispondere a tale domanda, mi sembra utile ripercorrere brevemente il profilo politico della destra americana. La società politica statunitense ha sempre avuto al suo interno una consistente fazione di estrema destra che si è rifatta via via ai temi più disparati, quando non opposti: dall’isolazionismo al proibizionismo, dall’americanismo come nazionalismo patologico al mito della conquista e della colonizzazione culturale, nonché al rispetto più integrale del liberismo economico e dell’individualismo esasperato. All’interno di questo panorama così vasto hanno trovato terreno, negli anni, anche la discriminazione contro pellerossa, neri, ebrei, gay, comunisti e, fino alla prima parte del secolo, cattolici. Tutto ciò che non era strettamente Wasp veniva considerato come potenzialmente pericoloso, al punto che l’integrazione (più o meno riuscita) che si sarebbe poi verificata nel tempo, spesso ha avuto bisogno dei progetti federali contro il volere degli stati, ossia dei rappresentanti più diretti del popolo americano. Il «sogno americano», in altri termini, non ci pare nato dal basso ma piuttosto abilmente presentato da parte delle élite culturali e della classe dirigente del paese come un traguardo da raggiungere. Una «nuova frontiera», per dirla con John Fitzgerald Kennedy, che lentamente ha saputo sedurre le speranze e le aspettative di una popolazione variegata altrimenti difficilmente volta alla condivisione di obiettivi comuni. Queste élite hanno dunque saputo camminare davanti al paese anticipando un progetto a lungo termine di maggiore cooperazione sociale e civile, mitigando uno degli aspetti più caratteristici e contraddittori del Dna americano: quell’individualismo che per troppo tempo è stato declinato in disinteresse e diffidenza verso ciò che accadeva oltre la proprietà personale, curando solo i mercati e le transazioni economiche e finanziarie. Fino all’ingresso nella prima guerra mondiale, infatti, la nazione americana non rivestì un ruolo di primaria importanza nel panorama politico internazionale, anche se già godeva di una forte posizione di prestigio negli scambi commerciali con l’estero e anche, in valore assoluto, al proprio interno. Una comunità economica coesa prima che una potenza mondiale. Una nazione ancora troppo impegnata a sfruttare le nuove risorse dell’Ovest per permettersi di guardare con volontà di partecipazione a ciò che si verificava nel Vecchio Continente o nella lontana Asia. La destra statunitense, che aveva contrastato sempre ogni apertura verso la comunità internazionale, passò poi da «l’America è tutto» a «tutto è America». Questa concezione della nazione statunitense come monade del bene universale vuole una rigida e organizzata difesa dei suoi valori fondamentali, a discapito di qualunque tradizione liberale e democratica. In questo senso, a mio parere, si può parlare di una essenza «nazionalconservatrice» di alcuni settori della società americana, risalente a una scarsa propensione al confronto tra diversità e all’atavica voglia di giustizialismo

senza possibilità di ravvedimento del «peccatore» – del reo – tipica delle prime culture protestanti. Ma da questo nazionalismo americanista ultra-conservatore, arrivare alla tipologia «fascista» mi sembra francamente un passo azzardato. Il concetto di «fascismo», infatti, identifica una categoria politica ben determinata, nascente da elementi sociali, giuridici e politici precisi che senza dubbio non si sono mai riscontrati all’interno della società statunitense. Caratteristiche comuni ai vari fascismi europei sono state, come sappiamo, la critica ai regimi parlamentari e democratici, con la dottrina del partito unico; la concezione totalitaria dello stato, spesso identificato nello stato corporativo; l’opposizione totale all’ideologia e ai partiti marxisti, il richiamo alle tradizioni nazionalistiche, il razzismo e l’antisemitismo (accentuatosi in un secondo periodo). Ancora, nelle stesse parole di Benito Mussolini per l’edizione dell’enciclopedia Treccani curata da Giovanni Gentile, alla voce «Dottrina del fascismo» troviamo: «Caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello Stato, della sua essenza, dei suoi compiti, delle sua finalità. Per il fascismo lo Stato è un assoluto, davanti al quale gli individui e i gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono pensabili in quanto siano nello Stato»11. Una concezione radicalmente lontana dalla realtà americana di qualunque epoca, come lontani sono anche gli elementi prima ricordati che caratterizzano l’esperienza fascista. Quindi, l’anticomunismo nazionalista dell’epoca della Guerra Fredda non ci può portare a parlare di un «fascismo americano», ma tutt’al più di una stagione illiberale che presentò venature di autoritarismo, nella quale potevano circolare liberamente solo le opinioni di una maggioranza, per altro consistente.

6.4. Dopo l’11 settembre: neo-maccartismo? Graham Greene scriveva che «Usa» sta per «United States of Amnesia». Un paese a due tempi: l’oggi e il domani, fondamentale per l’avanzare del progresso scientifico ma annoiato dalla Storia e dal passato. «Il motivo per cui l’americano medio non è interessato alle piramidi egiziane o al Colosseo», mi spiegava alcuni anni fa un professionista di San Francisco, «è che qui noi stiamo costruendo le nostre piramidi e il nostro Colosseo». Storia e passato uguale elementi culturali tipici da Vecchia Europa, relegati negli ambienti accademici e ignorati tanto dall’uomo della strada quanto, purtroppo, dalla classe dirigente. Un esempio mortificante di ciò è dato proprio dal profilo culturale dell’attuale primo cittadino americano, quel presidente George W. Bush laureatosi con grande difficoltà12 in Storia a Yale «perché era il corso più abbordabile», e che non perde occasione per commettere gaffe internazionali che rivelano un’ignoranza drammatica del passato e delle tradizioni dei popoli del mondo, inclusi quelli delle Americhe. Questa scarsa propensione al ricordo e alla comprensione del passato, si riflette in una sorprendente ciclicità della storia statunitense rilevata, tra gli altri, dai celebri saggi di Arthur Schlesinger13 e di Richard Hofstdater14. Come ha ricordato anche Roberto Festa nell’introduzione al suo recente saggio antologico15 , sono molti i periodi di «sonno del diritto» conosciuti nei

duecentotrent’anni di storia a Stelle e Strisce: dall’Alien Act del 1798, che autorizzava il Presidente a «deportare tutti gli stranieri che giudicherà pericolosi», al Chinese Exclusion Act del 1882, che consentiva la deportazione e il respingimento alla frontiera «per i cinesi», fino ai Palmer Raids del 1919’20, durante i quali furono arrestrati oltre 10. 000 comunisti, socialisti e anarchici per reati di opinione, negando loro le garanzie costituzionali e i diritti alla difesa. Nelle pagine di questo libro abbiamo visto come gli Stati Uniti, sotto la pressione della seconda guerra mondiale, siano arrivati a ordinare16 e poi giustificare17 v la deportazione e l’incarceramento di cittadini americani sulla base della loro origine etnica (orientali, italiani, tedeschi). Abbiamo ricordato le leggi liberticide che permisero la costruzione, in tempo di pace, di campi di concentramento per i sospetti di comunismo18. Abbiamo analizzato in profondità le udienze dell’Hcua e visto come divennero in breve processi politici. Abbiamo chiarito come la follia maccartista si diffuse in tutta la nazione, con atteggiamenti discriminatori anche nel tessuto microsociale, come quando le biblioteche dell’Indiana bandirono le avventure «protocomuniste» di Robin Hood in quanto «evidentemente comunista e sovversivo»19 , o quando la squadra di baseball Cincinnati Reds decise di cambiare il suo nome in «Redlegs» per evitare di essere confusa con gli altri rossi. La cultura del sospetto negli anni ’50 era diventata immanente: con il boom delle vendite porta a porta dei rifugi antiatomici, a mo’ di particolare polizza d’assicurazione sulla vita. Nacquero movimenti di controspionaggio e di vigilanza a livello rionale e associazioni spontanee di difesa contro il «grande complotto comunista internazionale» in grado di rivendicare le istanze più assurde (esemplare il gruppo che si opponeva all’aggiunta di fluoro nell’acqua potabile in quanto «elemento insinuato per distruggere i cervelli degli americani e renderli permeabili ai complotti socialcomunisti»20 ). Sono dovuti trascorrere molti anni perché l’America si risvegliasse dalla sua più recente «narcolessia giuridico-civile». Il terrore del lungo maccartismo, come sappiamo, è sopravvissuto alla fine politica del senatore McCarthy e ha visto infrangere le sue consuetudini giuridiche soltanto a partire dal 1957, grazie ad alcune famose sentenze della Corte Suprema21 , per essere poi smantellato dal Congresso22 nel 1971. Non resta che augurarsi che il prossimo risveglio dall’odierna nuova «narcolessia» giunga in meno tempo. Il punto d’inizio dell’ultimo ciclo, infatti, è indubbiamente rappresentato dall’attentato al World Trade Center dell’11 settembre 2001, evento divenuto un modo di dire e un neologismo sotto la dicitura di «Nine-Eleven». Da quella data, come ha scritto in un suo recente saggio23 David Cole, professore di Legge alla Georgetown University, «è cambiato tutto» e l’America è ripiombata nelle atmosfere cupe di un neo-maccartismo, incentrato stavolta contro i musulmani: L’11 settembre ha cambiato tutto. Con l’eccezione della sola libertà di possedere armi da fuoco, sarebbe ben difficile citare una sola libertà che non sia stata ridotta o violata [dall’Esecutivo] in nome della protezione della nostra sicurezza. La privacy è stata messa da parte per lasciare spazio a indagini segrete prive di vertenza giudiziaria, alla possibilità che l’Fbi possa vigilare sulle pratiche religiose o sulla vita privata degli immigranti attraverso il

programma Total Information Awareness24. Il tentativo di risalire alla scoperta di qualunque terrorista potenziale ha resuscitato il concetto di colpevolezza per associazione e siamo tornati alla preparazione di liste nere clandestine. La libertà fisica dell’individuo e il principio giuridico dell’ habeas corpus sopravvivono solo fin quando il Presidente non etichetta qualcuno come «nemico combattente» [ enemy combatant >]. Persone innocenti sono state imprigionate senza alcuna spiegazione, senza un interrogatorio, senza la contestazione di un singolo reato, sulla base di prove segrete. Il principio che ognuno ha diritto a un’eguale protezione davanti alla legge ha ceduto al principio della schedatura su base etnico-razziale. Le conversazioni riservate col proprio avvocato possono ora essere registrate senza un mandato o del tutto negate quando i militari pensano che quello scambio col mondo esterno possa in qualche modo pregiudicare la forza di persuasione dei propri metodi di interrogatorio in isolamento. Il diritto a un processo pubblico resiste solo al piacere del ministro della Giustizia. E il diritto di sapere cosa stia facendo il nostro Governo è stato soppresso in nome del bisogno di tenere Al-Qaeda all’oscuro di tutto, proprio come noi altri. 25

L’America degli anni ’90, specie dopo l’approvazione dell’Immigration Act del 1990 che aveva ripudiato i principi di esclusione ideologica instaurati dall’obsoleto McCarran-Walter Act del 1952, era tornata a essere la culla del costituzionalismo, del razionalismo, del liberalismo individualista e dei diritti civili di moltissime minoranze. Era nuovamente il paese col più alto tasso di immigrazione e di richieste di asilo politico del mondo, dove a nessuno veniva chiesto da dove venisse o di chi fosse figlio, ma solo cosa sapesse fare. Un paese dove non esistevano carte d’identità, e il rispetto della proprietà privata e della privacy dell’uomo qualunque raggiungeva una dimensione assoluta. Un’America davvero molto lontana da quella di oggi, in molti sensi un’America di un altro secolo. La caduta delle Twin Towers di New York ha di fatto portato gli Stati Uniti in uno stato di guerra contro un nemico, il terrorismo internazionale, che è latente e difficilmente individuabile. Questo stato di guerra, certificato una settimana dopo l’11 settembre da una legge del Congresso che ha attribuito al Presidente il potere di «usare tutta la forza necessaria e appropriata contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che egli ritenga abbiano organizzato, autorizzato, commesso o aiutato gli attacchi terroristici» o «abbiano dato ospitalità a quelle organizzazioni o persone per prevenire ogni altro futuro attacco di terrorismo internazionale contro gli Stati Uniti»26 , ha condotto l’ordinamento giuridico americano in un regime che possiamo definire «quasi marziale». In realtà le prime avvisaglie dell’involuzione legislativa si erano già avute in occasione dell’Antiterrorism Act del 1996, a sua volta prodotto isterico di altri due episodi di terrorismo interno: l’esplosione nel parcheggio sotterraneo del World Trade Center del 1993 e l’attentato drammatico dell’Oklahoma City Buliding del 1995, che costò la vita a 147 persone, a opera di Timothy McVeigh, cittadino americano Wasp. James Dempsey, vicedirettore del Center for Democracy and Technology ed ex consigliere della Sottocommissione della Camera dei Rappresentanti ai Diritti civili e costituzionali, ha definito l’Antiterrorism Act voluto dall’Amministrazione Clinton come: Uno dei peggiori assalti alla Costituzione in decenni, che ha resuscitato il concetto [maccartista] della colpevolezza per associazione [ guilt by association >] come principio di diritto penale e dell’immigrazione. Ha anche istituito un tribunale speciale per creare prove segrete da usare per deportare o espellere cittadini stranieri etichettati come «terroristi». […] Infine, sotto questa legge, il Dipartimento di Stato ha stilato secondo criteri di selezione

politica una lista di «organizzazioni terroriste straniere» per la quale anche la donazione di aiuti umanitari o assistenziali rappresentava un reato federale. 27

Ma senza dubbio il completamento di questa involuzione si è avuto con il passaggio di alcuni pacchetti legislativi liberticidi (il Patriot Act28 del 2001, l’Apprehension Iniziative29 del 2002 e lo Special Registration Program30 del 2003) di cui accenneremo meglio più avanti e soprattutto con la rinascita di una isteria collettiva nei confronti del «pericolo olivastro» che ha sostituito il «pericolo rosso» degli anni ’50. Come in tutti i periodi di crisi attraversati dagli Stati Uniti, si sono messi tra parentesi i valori jeffersoniani alla base della Costituzione e si è andati alla crocifissione ideologica di un nuovo nemico, che il cittadino americano medio ha individuato più nel mondo arabo tout court, tradotto quotidianamente nel vicino di casa con la pelle olivastra e i baffi neri, che nei volti31 dei capi storici del terrorismo internazionale. A nulla sono valse le distinzioni compiute a parole dai vertici politici del paese, che hanno cercato di distinguere tra movimento integralista islamico, e paesi arabi e islamici vicini agli interessi del mondo occidentale. Mentre queste giuste distinzioni venivano fatte in televisione, si sono moltiplicati in tutto il paese gli episodi di razzismo contro gli americani di origine araba32 e soprattutto, come riporta John Le Carré in un terribile articolo apparso su «Repubblica»33 , si sono registrati i primi casi di sequestro di persona a opera delle agenzie di stato ai danni di persone «sospette» residenti sul territorio americano. Dal giorno alla notte centinaia di cittadini di etnia araba o nordcoreana – riporta Le Carré – sono scomparsi nel nulla. Quando i loro parenti riescono a rintracciarli, li scoprono reclusi in qualche carcere federale, provati da arresti segreti, detenzione coatta e, spesso, atti di tortura utilizzati «to name names», per far fare i nomi, come e peggio rispetto agli anni del maccartismo qui raccontati. Fatti tremendi, che ci portano alla memoria l’Argentina dei desaparecidos. Ha scritto Roberto Festa, nel suo splendido reportage Il mondo da Sheinkin Street: Circa 1200 persone sono finite in carcere dopo l’11 settembre: 752 per problemi di visto. I loro nomi sono rimasti segreti, i loro casi discussi a porte chiuse. Soltanto quattro, a Detroit, sono stati incriminati con l’accusa di progettare attentati sul territorio americano. […] Quando chiedi ai funzionari dell’American Civil Liberties Union quante persone, nell’estate del 2002, sono ancora in carcere senza nome e processo, ti rispondono: «Non lo sappiamo con certezza. Un centinaio circa». 34

E il dato riportato da Festa si riferisce solo all’ultima cifra resa nota (1182 incarcerati) dal ministero della Giustizia americano35 il 5 novembre 2001. Sommando a quel dato i circa 1100 stranieri detenuti a causa della Absconder Apprehension Iniziative36 , che richiama espressamente la necessità di deportazione di 6000 cittadini non americani di origine araba o musulmana presenti in America, e i 2747 stranieri incarcerati in virtù dello Special Registration Program37 , che ha reso molto più severe le conseguenze per chi violi anche solo di un giorno gli obblighi temporali di registrazione per gli stranieri non residenti su territorio americano, arriviamo a un numero di incarcerati che supera le 5000 unità38. Una situazione se possibile ancora più grave, giuridicamente parlando, la stanno subendo quei cittadini non americani39 imprigionati sotto l’etichetta di «nemici combattenti» nella prigione della base militare americana di

Guantanamo, a Cuba. Secondo gli ultimi dati disponibili, a Guantanamo sono reclusi 595 cittadini non americani arrestati all’estero e accusati di essere in qualche modo connessi con l’organizzazione terroristica di Al-Qaeda o col regime dei talebani afgani. Queste 595 persone sono rinchiuse sulla base di meri sospetti, senza alcuna prova, tenuti in regime di isolamento totale, per un periodo di tempo indeterminato40. Per due anni a nessuno di loro è stato riconosciuto il diritto di comunicare con chicchessia, meno che meno di parlare con dei legali. Una foto diventata celebre li ha raffigurati legati in ginocchio alle loro gabbie di quattro metri quadri, con manette e cavigliere, bendati e con delle mascherine da chirurgo sulla bocca41. Questo tipo di regime di sequestro, contrastante diversi articoli della Costituzione americana, è stato deciso dal presidente Bush nel gennaio 2002, quando ha dichiarato ufficialmente che i detenuti di Guantanamo non erano titolari di alcun diritto, tanto meno quelli internazionalmente riconosciuti ai prigionieri di guerra dalla Convenzione di Ginevra. Le Corti di giustizia americane lo hanno in un primo tempo convalidato, sostenendo che poiché Guantanamo non era territorio statunitense, non si potevano applicare le garanzie dell’ordinamento giuridico statunitense. Una giustificazione ridicola, dal momento che in diritto la giurisdizione di un paese vige ovunque batta la sua bandiera. Per rovesciare quei giudizi infamanti si è dovuto attendere la sentenza della Corte Suprema Hamdi, et al. vs Rumsfeld, Secretary of Defense 42 del 28 giugno 2004, con la quale il giudice Sandra Day O’Connor ha dichiarato: «Uno stato di guerra non è un assegno in bianco al Presidente» e ha stabilito l’illegittimità della decisione presidenziale di non concedere ai detenuti di Guantanamo il diritto alla difesa e il giusto processo in un tribunale federale. L’amministrazione Bush, per tutta risposta, ha deciso di istituire dei Tribunali speciali43 che vaglieranno la situazione dei 595 detenuti, offrendo a ciascuno di loro l’assistenza legale di un militare «non avvocato». Così facendo, il governo guadagna altro tempo, ma va chiaramente contro alla sentenza della Corte Suprema. Oggi, come durante gli anni bui del lungo maccartismo, la reazione dell’opinione pubblica americana si è fatta sentire con grande ritardo. Il popolo americano, ancora una volta terrorizzato dal fluire degli eventi, prima e dopo l’11 settembre ha cambiato idea in massa su alcuni dei principi cardine della propria nazione, come per esempio se sia auspicabile o no schedare i cittadini sulla base dell’etnia di appartenenza (un sondaggio Gallupp44 tenuto il 9 dicembre 1999 dava l’80% del campione contrario a questa possibilità; lo stesso sondaggio ripetuto nell’ottobre 2001 dava un 60% di favorevoli in caso che il gruppo da schedare fosse di cittadini americani di orgine araba o musulmana) e si è adeguato all’idea che il governo istituisse un «doppio standard giuridico» per i sospetti di terrorismo non statunitensi. Così lo scandalo di Guantanamo ha fatto molto più scalpore all’estero che in patria, almeno sino a quando le autorità hanno assicurato l’opinione pubblica che quel tipo di regime riguardava «soltanto dei cittadini non americani catturati all’estero in azioni di guerra». Quando anche questa foglia di fico è caduta con il diffondersi della notizia che in quel carcere federale si trovavano anche dei prigionieri di cittadinanza americana, si è avuta una scossa maggiore, ma

l’americano medio resta per gran parte ignorante o incurante di quel che il suo governo sta compiendo a Guantanamo. Molto più vivace è stato (ed è) invece il dibattito sulla legittimità del cosiddetto Usa Patriot Act, che di fatto ha reintrodotto il concetto di «dissidente antiamericano», proprio come ai tempi del maccartismo. La società statunitense del XXI secolo è così tornata a mettere in discussione pubblicamente, negli show televisivi o nei dibattiti sulle maggiori testate giornalistiche, l’uso della tortura o la validità del Primo emendamento. In poche parole, gli Usa oggi si pongono il dilemma se sia meglio continuare a vivere in una liberaldemocrazia che garantisca i basilari diritti civili, o se non sia preferibile virare verso una forma di stato di polizia, dove non vi sia spazio non solo per i diritti civili delle minoranze, ma neanche per il dissenso. In questo, un contraccolpo durissimo lo ha ricevuto il mondo del giornalismo americano, che ha abbandonato la sua proverbiale oggettività e separazione tra fatto e opinioni in favore di una partigianeria patriottica smaccata. Sul tema, ancora Roberto Festa: «Molti americani hanno ancora negli occhi il viso terreo di Dan Rather, ospite del David Letterman Show. Gambe accavallate, vestito grigio scuro, l’icona del giornalismo televisivo americano esclama: “George Bush è il Presidente. Le decisioni le prende lui, ditemi solo dove devo allinearmi”. Poi scoppia in lacrime»45. Da questa nuova stagione di paura collettiva – che a mio modo di vedere giustifica pienamente l’etichetta di nuovo maccartismo, specie se si tiene conto delle pressioni esercitate dall’Esecutivo su tutti i gruppi dissenzienti – ancora una volta non è immune Hollywood. A differenza degli anni ’50, stavolta le pressioni del mondo politico sulla cittadella di celluloide sono state franche e dirette: nel novembre 2001 il presidente Bush in persona ha voluto incontrare i capi delle major per ottenere un impegno del mondo del cinema in favore della propaganda americana, sia interna che esterna. Lo sceneggiatore Bryce Zabel, intervistato da Festa, ha dichiarato in proposito: «Non mi piace chiamare [quel che il Presidente ci ha chiesto] né propaganda né censura. La parola che mi piace è patrocinio. A Hollywood vogliamo diventare patrocinatori, avvocati del messaggio americano»46. Gli effetti di questo nuovo desiderio di «patrocinio» nella produzione cinematografica statunitense si sono tradotti per un lato in un’insieme di film d’evasione ( Master and Commander [ id. , 2003, di Peter Weir], L’ultimo samurai [ The Last Samurai, 2003, di Edward Zwick]), di fantascienza ( MIB II [ >id. , 2002, di Barry Sonnenfeld], Timeline [ id. , 2003, di Richard Donner]) e addirittura in una piacevole riscoperta del genere musical; ma dall’altro in un forte impegno di Hollywood – intesa più come i volti celebri che le major – contro le scelte politiche del presidente George W. Bush e alla rinascita di un cinema indipendente, impegnato politicamente come mai prima.

6. 5. Hollywood dopo l’11 settembre: il ritorno alla politica Come abbiamo visto, proprio a seguito delle indagini del 1947, il rapporto tra star del cinema e impegno politico è rimasto per un ventennio in sordina, per il timore dei personaggi di Hollywood di essere additati tra gli artisti «facinorosi» o «comunisti». A partire dal 1968, e in particolare durante gli

ultimi anni della guerra del Vietnam, attori, registi e sceneggiatori famosi sono tornati a esporsi sui fatti politici interni e internazionali, in alcuni casi anche attraverso azioni eclatanti, come quando Jane Fonda, nel 1972, volò in Vietnam e si fece fotografare vicino a una mitragliatrice terra-aria per protestare contro l’invasione americana. Come ha sottolineato Darrell West, professore di Scienza politica e direttore del Center for Public Policy and American Institution della Brown University, nel suo recente saggio Celebrity Politics 47 , «c’è sempre stata una certa attrazione tra le celebrità e l’impegno politico, ma negli ultimi tempi questa attrazione è diventata qualcosa di davvero forte». Un dato di fatto confermato sia dalla recente elezione a governatore della California del popolarissimo attore Arnold Schwarzenegger, che ricalca le orme di Ronald Reagan, sia dai sorprendenti risultati al botteghino di tutta una serie di «docu-film» che hanno permesso di coniare un neologismo efficace: la stagione del «mockumentary», forse traducibile come «sfottimentario». Questa stagione rappresenta un aspetto nuovo nella storia di Hollywood. Non ci troviamo infatti dinanzi a film a carattere velatamente sociale o civile come ne sono quasi sempre esistiti, a parte nei momenti più bui del maccartismo, ma davanti a veri e propri documentari o film di denuncia che fanno della critica civile e politica la loro stessa ragion d’essere, attaccando esplicitamente il Presidente e altri poteri forti. L’autore che ha contribuito più di qualunque altro al rilancio del genere del documentario è stato Michael Moore. Il cinquantenne regista del Michigan – di cui parleremo approfonditamente più avanti – già con la sua opera prima, Roger & Me (id. ), uscita in America nel 1989, registrò un inaspettato record di pubblico, classificandosi come il documentario più visto al cinema di tutti i tempi. Roger & Me racconta la depressione economica abbattutasi sulla cittadina natale di Moore e sul bacino circostante, in seguito alla chiusura della grande fabbrica della General Motors che dava lavoro a due terzi degli abitanti della zona. Il cortometraggio, in cui tra le altre cose si vedono Moore stesso e la sua troupe in vari tentativi di intervista con il manager della GM Roger Smith, oltre al grosso successo di pubblico, fu premiato in moltissimi festival americani, diventando uno dei documentari più premiati e redditizi della storia di Hollywood. Più recentemente, lo stesso autore ha surclassato il record che già gli apparteneva con Bowling a Columbine (Bowling for Columbine, 2002) e soprattutto con Fahrenheit 9/11 (2004), primo documentario a vincere la Palma d’Oro al Festival di Cannes48 , il cui immenso successo ha convinto altri cineasti (non solo americani)49 a cimentarsi nello stesso settore. Tra i titoli di quella che i giornali hanno chiamato «la Nouvelle Vague a Stelle e Strisce» ricordiamo qui The Corporation (2003) di Mark Achbar, Jennifer Abbott e Joel Bakan, vincitore del Premio del Pubblico per la sezione documentari al Sundance Film Festival 2004 e premiato in altri sei festival internazionali. Il docu-film, con interviste a Chomsky, Howard Zinn e lo stesso Michael Moore, traccia la genesi del potere delle multinazionali ed è strutturato come un eccezionale processo contro di loro. Nel sito ufficiale del film gli autori invitano il pubblico «a organizzare gruppi di visione per poi

discutere del messaggio del film e rispondere alla domanda “che cosa posso fare io contro tutto ciò?”». Gli contende il primato al botteghino Super Size Me (2004), di cui Morgan Spurlock è «produttore, regista e cavia» come affermato nel sito internet ufficiale. L’idea alla base di questo lavoro è tanto semplice quanto geniale: denunciare gli effetti dell’alimentazione da fast food, in America molto popolare specie tra i più giovani, attraverso il resoconto filmato di quel che accade al regista dal momento in cui decide di nutrirsi per un mese soltanto con gli hamburger di McDonald’s. Dopo un mese di «cura McDonald’s», il regista è costretto dai suoi medici a interrompere l’esperimento: è ingrassato di dieci chili e si sta avvelenando con tassi di colesterolo e trigliceridi mortali. Il documentario, il cui titolo si rifà a uno slogan pubblicitario della catena della multinazionale, del tipo «paghi uno mangi due», ha vinto al Sundance Film Festival 2004 il premio alla regia. A cavallo tra documentario e fantascienza si piazza A Day Without a Mexican (2004) di Sergio Arau, che immagina la California privata per un giorno dei circa 11 milioni di messicani che vi risiedono, risucchiati via da una strana nuvola densa che lascia i ricchi bianchi alle prese con i lavori umili ormai destinati stabilmente alla comunità di origine ispanica. I risultati sono insieme comici e drammatici e il documentario finisce con i bianchi raccolti in veglie di preghiera nelle strade e cortei che invocano il ritorno degli «amigos». Arau ha girato questo docu-film come una forma di risposta al razzismo montante di matrice Wasp contro i concittadini messicani. Più distanziato in termini di biglietti venduti, ma acclamato dalla critica è The Fog of War (2003) di Errol Morris, che si basa invece su una lunga intervista «a tu per tu» con Robert McNamara, ex ministro della Difesa durante la guerra del Vietnam. Il documentario, descritto dal suo autore come «una favola del XX secolo», racconta attraverso i ricordi di uno dei massimi testimoni politici statunitensi, il sogno americano di un bambino di umili origini che è riuscito ad arrivare ai vertici della nazione. McNamara ripercorre quasi cento anni di storia, dalla Grande Depressione a oggi, ammettendo tra le altre cose: «Se non fossimo la nazione più potente e temuta della Terra, saremmo di certo davanti a un tribunale di Norimberga». Ultimo, ma non ultimo, Liberty Bound (2004) , opera prima di Christine Rose, che attraverso una lunga intervista a un veterano del Vietnam omonimo del regista Michael Moore, preso di mira dall’Fbi per la sua intensa attività di scrittore di e-mail critiche nei confronti dell’Amministrazione Bush, denuncia gli effetti perversi e liberticidi del pacchetto di leggi speciali Patriot Act. Assieme a questi (e altri) docu-film, non si contano gli episodi pubblici che hanno visto grandi artisti al centro dell’attenzione generale non per i loro lavori ma per gli attacchi politici all’esecutivo in carica. Il motivo di questa esplosione di passione civile da parte di tante celebrità è senza dubbio dovuto a tre fattori: il modo discusso in cui il presidente George W. Bush è stato eletto nel 200050 , l’attentato dell’11 settembre 2001 e la politica fatta dall’amministrazione repubblicana per rispondere alla nuova stagione di terrore. Non potendo in queste pagine dare conto di ogni singolo episodio che ha

visto contrapporsi famosi attori o registi a George W. Bush, ci limiteremo a considerare brevemente l’opera del solo autore Michael Moore, accennando per ultimo ai recenti episodi di discriminazione che hanno visto vittime alcuni nomi famosi, colpevoli di avere espresso la loro opinione critica nei confronti dell’amministrazione repubblicana in carica.

6. 6. La guerra di Michael Moore contro Bush W. Il caso di Moore è di gran lunga il più importante e rappresenta per ora un unicum nella storia del cinema americano. Mai prima d’ora, infatti, un uomo di spettacolo aveva messo tutta la sua arte al servizio di una causa politica: quella di impedire la rielezione dell’attuale Presidente degli Stati Uniti. Autore, produttore e attivista politico, Moore ha sviluppato un personalissimo stile nell’affrontare i grandi temi di politica interna e internazionale con un acuto senso dell’umorismo e un atteggiamento da ragazzo della porta accanto. Questo approccio lo ha aiutato nel farsi una reputazione di umorista velenoso e di commentatore politico senza paure. Nato nel 1954 a Davison (Michigan) da una famiglia di operai cattolici irlandesi, Moore ha sempre avuto la politica nel sangue, arrivando a essere a soli 18 anni il più giovane rappresentante eletto nel Consiglio del distretto scolastico della sua zona. Al cinema vi arriva attraverso il giornalismo militante, che lo ha distolto dai suoi studi all’Università del Michigan-Flint. Nella metà degli anni ’70 fondò e diresse il settimanale alternativo «Flint Voice», distribuito dapprima nella sola zona universitaria e poi in tutto lo stato sotto il nome di «Michigan Voice». Dopo una breve e burrascosa collaborazione con il celebre mensile «Mother Jones» (1986) e una parentesi come militante di Ralph Nader – il futuro candidato del Partito dei verdi alle presidenziali del 2000 – Moore nel 1989 si è cimentato per la prima volta nella produzione di un cortometraggio dal sapore socio-politico. Si tratta di Roger & Me e, come abbiamo detto poco sopra, fu un successo enorme e inaspettato. Forte di questa vetrina, Moore ha ideato, co-prodotto e co-diretto con Kevin Rafferty il documentario Blood in the Face (1991), che affronta uno dei temi più delicati della società contemporanea statunitense, il ruolo dei gruppi di potere dei bianchi estremisti d’America. Della prima parte degli anni ’90 è invece Pets or Meat: The Return to Flint (1992) , una sorta di «seconda puntata» di Roger & Me, nel quale si fa il punto sui cambiamenti intercorsi tra la fine del primo documentario e l’inizio del secondo. Dello stesso periodo è la sua prima opera di fiction, Canadian Bacon, una commedia satirica nella quale un poco credibile Presidente americano entra in «guerra fredda» col Canada. Nel 1994 Moore ha fatto il suo debutto in televisione, collaborando al programma satirico TV Nation, trasmesso dalla Nbc per una sola stagione. All’attività di autore cinematografico di successo, Moore ha alternato anche l’impegno come scrittore di saggi e libelli polemici sulla cronaca politica che hanno avuto un’enorme diffusione e scatenato vivaci polemiche in campo repubblicano. Il suo primo libello, Downsize This!: Random Threats from Unarmed America51, uscito nel 1996 negli Usa, ha subito registrato un imponente successo di vendite. Durante la tournée per propagandare il libro,

l’autore ha filmato le differenti realtà di moltissimi stati al fine di mettere insieme il suo nuovo documentario, The Big One (1998), votato «miglior documentario» al Festival di Aspen e a quello di Denver, che sottolinea le grandi differenze economiche tra una zona e l’altra degli Usa. Dopo una seconda esperienza in Tv con il programma The Awful Truth, trasmessa in Gran Bretagna sul network di Channel Four e in America via cavo sul canale Bravo, Moore si è nuovamente dedicato alla scrittura e nel 2001 è uscito il suo long-best-seller Stupid White Men52 , in cui attacca duramente il presidente George W. Bush. Il libro, che sarebbe dovuto uscire proprio pochi giorni dopo l’attentato delle Due Torri, è stato cancellato dalla pubblicazione da parte dell’editore, la Random House, che ha improvvisamente valutato il tono e i contenuti delle accuse troppo dissacranti per la nuova America del dopo 11 settembre. Grazie a una imponente campagna di e-mail a opera dei librai di tutta America, il saggio è poi venuto alla luce per la HarperCollins Publishers nella primavera del 2002, vendendo milioni di copie in tutto il mondo. Nell’inverno dello stesso anno, Moore ha concluso il suo quarto docu-film, Bowling for Columbine, una disamina impietosa dell’ossessione statunitense per le armi da fuoco e la violenza. Bowling for Columbine, infelicemente tradotto in italiano con Bowling a Columbine, è stato il primo documentario, dopo 46 anni, a essere messo in competizione al Festival di Cannes, dove ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria. L’anno dopo, Bowling for Columbine è entrato nella storia come il documentario col più grande incasso di tutti i tempi (almeno fino al luglio 2004), ottenendo una pioggia di riconoscimenti internazionali e nazionali, incluso l’Oscar come miglior documentario. Nel brevissimo discorso di ringraziamento all’Academy, Moore si è scagliato violentemente contro la politica del presidente Bush. Attacco strutturato in forma di documentario con l’ultima fatica del regista di Flint, Fahrenheit 9/11, uscito il 25 giugno 2004 dopo una logorante polemica con la casa distributrice originaria, la Miramax-Disney, preoccupata per i contenuti «inadatti al pubblico delle famiglie»53 , e inoltre «sostanzialmente differenti» da quanto Michael Moore avrebbe concordato con i suoi produttori prima dell’inizio delle riprese. Moore ha invece sostenuto come la Disney abbia cercato di censurare l’uscita del film per non pregiudicare i rapporti con il governatore della Florida, Jeb Bush. A riguardo il regista ha rilasciato una lunga dichiarazione nel suo sito internet, poi ripresa anche dalla Cnn e dal resto della stampa, e di cui riporto un frammento: Nell’aprile del 2003 ho firmato un contratto con la Miramax, una divisione della Walt Disney Company, per la produzione e la distribuzione del mio prossimo film, Fahrenheit 9/11 (il primo produttore si era appena ritirato, ma vi racconterò questa storia un’altra volta). Nel mio contratto era scritto nero su bianco che la Miramax avrebbe distribuito il mio film negli Stati Uniti attraverso il braccio distributivo della Disney, la Buena Vista Distribution. Il contratto dava anche alla Miramax il diritto di distribuire e vendere il film in tutto il mondo. Un mese dopo, a riprese ormai iniziate, Michael Eisner [amministratore delegato della Disney, N. d. A. >] ha voluto incontrarsi col mio agente, Ari Emanuel. Eisner era furioso per il fatto che mi avessero offerto un contratto. Disse che non avrebbe mai consentito al mio film di essere distribuito attraverso la Disney, e lo disse senza aver prima visto un solo metro della pellicola girata, né letto neanche una sinossi del soggetto. Eisner spiegò al mio agente che non voleva far arrabbiare Jeb Bush, il governatore della Florida. Il film, disse, avrebbe complicato la situazione dei rapporti correnti e futuri della Disney in Florida e avrebbe pregiudicato alla compagnia la possibilità di ottenere incentivi e uno scudo fiscale

per milioni di dollari. Tuttavia, Michael Eisner non ha mai chiamato la Miramax per ordinare lo stop delle riprese. Non solo, ma nel corso dell’anno successivo sono arrivati alla produzione del film la bellezza di altri sei milioni di dollari dalle casse della Disney. La Miramax mi ha così assicurato che non c’era alcun problema di distribuzione per il mio film. Ma poi, poche settimane dopo che Fahrenheit 9/11 fu scelto per partecipare al Festival di Cannes, la Disney ha inviato a New York un direttore di produzione di secondo piano per visionare il girato (ancora a oggi Michael Eisner non ha visto il film). Questo agente della Disney è rimasto entusiasta di quanto ha visto. Ha riso, pianto e alla fine ci ha ringraziato: «Questo film è una bomba», ha esclamato, e abbiamo preso quel commento come un segnale positivo. Ma «una bomba» per quel genere di direttori di produzione è un termine positivo solo se associato ai tiri che si fanno al bowling. Il nostro tipo di «bomba» era qualcosa dal quale volevano tirarsi fuori il più presto possibile. La Miramax ha fatto del suo meglio per convincere la Dinsey ad andare avanti col progetto, così come pianificato. La Disney, per contratto, può fermare la Miramax dal distribuire un film solo se ottiene un «vietato ai minori di 17 anni», mentre il nostro ha ottenuto solo un divieto per i minori di 13 anni. Secondo il «New York Times», la direzione della Disney ha affrontato il tema della rottura del contratto su Fahrenheit 9/11 soltanto ieri. Hanno deciso che non dovevano più distribuire il nostro film. Proprio all’inizio di questa settimana abbiamo avuto l’ultima puntata della vicenda: la Disney non distribuirà Fahrenheit 9/11. Quando la storia è arrivata sui giornali, la Disney anziché dire la verità si è trasformata in Pinocchio. 54

Il documentario – il cui titolo riprende quello del celebre romanzo di fantascienza di Ray Bradbury, Fahrenheit 451, ovvero la descrizione di una immaginaria società in cui vengono messi al rogo i libri (451 gradi Fahrenheit è la temperatura alla quale la carta brucia) – alla fine ha trovato un’altra casa di distribuzione nella partnership fra tre società: la Fellowship Adventure Group, la Lions Gate e la Ifc, ed è uscito il 25 giugno in mille cinema degli Stati Uniti. Nel primo weekend di programmazione Fahrenheit 9/11 – nonostante le fortissime polemiche subite prima della sua uscita, o forse anche grazie a quelle – è schizzato in testa alla classifica generale dei film più visti e ha polverizzato il record del precedente Bowling for Columbine, totalizzando in due giorni 21,8 milioni di dollari di incasso, ossia più di quanto abbia fatto Bowling in nove mesi e più di quanto totalizzarono nel primo weekend film di cassetta come Rocky III ( id. , 1982, di Sylvester Stallone) e Il ritorno dello Jedi ( Star Wars - Return of the Jedi, 1983, di Richard Marquand). A causa di questo formidabile successo di pubblico, la pellicola ha raddoppiato le sale di proiezione e «Time Magazine»55 del 12 luglio 2004 ha dedicato a Moore la copertina, titolando La guerra di Michael Moore: l’autore di «Fahrenheit 9/11» surriscalda l’anno delle elezioni con un nuovo tipo di arma politica. È un bene per l’America?. Tra le altre cose, nella lunga inchiesta firmata a otto mani, il redattore della rivista ha scritto: Possiamo guardare al grande successo della prima settimana [di Fahrenheit 9/11 >] nel modo in cui oggi consideriamo il dibattito televisivo presidenziale fra John Kennedy e Richard Nixon, ossia come un momento nel quale per la prima volta ci rendiamo conto della potenza di un mezzo di comunicazione di massa – in questo caso il cinema – nell’influenzare in nuovi modi la politica americana. 56

Il docu-film è girato secondo le classiche tecniche di Moore: un mix tra saggezza popolana, cultura pop, tattiche da telereporter d’assalto, domande ingenue rivolte alle persone potenti e un’ombra di populismo. Usando materiale d’archivio, Moore mostra il presidente Bush W. ora come un politico determinato e apprezzabile, ora come un personaggio goffo, un opportunista superficiale, arrivato al soglio presidenziale solo in quanto ricco figlio di una

delle famiglie più potenti d’America. Alla fine, è proprio il Presidente a diventare la star comica del documentario, mentre a Moore, che anche stavolta appare in prima persona, è lasciata la parte dell’uomo qualunque. Come anche in Bowling for Columbine, l’autore ha saputo magistralmente mescolare momenti di commedia e di tragedia, riuscendo a scatenare nel pubblico emozioni contrastanti, di risate e di pianto. Con il suo inconfondibile stile, l’autore-attore ricostruisce la genesi delle irregolarità organizzate per manipolare il risultato delle elezioni presidenziali del 2000 in Florida, quindi passa ad analizzare i legami tra la famiglia Bush e la famiglia Bin Laden, per poi concentrarsi sul conflitto d’interessi in campo petrolifero con i dittatori dell’Arabia Saudita. Un altro tema su cui Moore spinge molto, sono i frequenti periodi di riposo che il Presidente si è concesso prima dell’assalto terroristico dell’11 settembre e le diverse occasioni di smarrimento pubblico mostrate dall’uomo politico dopo la caduta delle Torri. Quindi, il regista esprime la sua opinione sulla guerra in Iraq, che secondo lui è un conflitto illegale nato dalla paura e dal fraintendimento del nemico, il cui risultato è stato solo «di aggiungere sangue al sangue e lacrime alle lacrime», infangando quel sogno americano che si proponeva di difendere. Il film non è obiettivo né pretende di esserlo. Moore si diverte a prendere in giro il Presidente commentando con la sua voce fuori campo le immagini che mostrano Bush assorto in momenti di apparente vuoto di pensiero, suggerendo frasi che tendono a inquadrarlo come un uomo sprovveduto, profondamente ignorante e del tutto inadatto al ruolo. Il regista-autore appare meno che nei suoi precedenti film; sebbene la sua voce fuori campo sia presente quasi per tutto il documentario, si fa inquadrare meno del solito. A volte, le sue imprese servono a chiarire bene un punto di vista, come quando avvicina i membri del Congresso per la strada e offre loro pieghevoli sul reclutamento, nel caso in cui volessero arruolare i loro figli nell’esercito. Altre volte, le sue stravaganze sono un puro e semplice diversivo comico. Dopo essersi lamentato che la Casa Bianca aveva varato l’Usa Patriot Act a scatola chiusa, Moore aggiusta la situazione leggendo ad alta voce il disegno di legge al Congresso, girando intorno al Campidoglio su un carretto dei gelati e declamando le norme con un altoparlante. La pellicola racchiude molti filmati di attualità presi in prestito, che sono generalmente sorprendenti e qualche volta scioccanti, mescolate a immagini di cultura popolare, che Moore riporta a scopo di sarcasmo o di parodia (come quando fa una versione del western Tv Bonanza che diventa l’avventura di Bush in Afghanistan); interviste a mezzobusto con commentatori esperti, come l’ex capo del controterrorismo Richard Clarke, l’ex agente dell’Fbi Jack Cloogan e il senatore Byron Dorgan; una serie di testi e grafici; pezzi di riprese in diretta; e, più importanti di tutti, incontri filmati con cittadini comuni, che hanno l’inquadratura pressoché per se stessi mentre Moore sta silenziosamente fuori dalla scena. Il più importante di questi, quello che porta alla parte finale del film, è Lila Lipscombe di Flint, mamma del sergente Michael Pederson, che serviva in una unità di elicotteri in Iraq e venne ucciso in azione qualche tempo dopo «il completamento delle più importanti operazioni di guerra». La signora Lipscombe è una donna piacevolmente

robusta di modesti mezzi, patriottica e cristiana nelle convinzioni, semplice nei modi, il cui ruolo nella polemica è semplice: lei è destinata a incarnare la disillusione. Avendo una volta disprezzato tutti i manifestanti contro la guerra, pensando che stavano compiendo un affronto ai soldati, ora è addolorata per il figlio morto, la cui ultima lettera spedita a casa diceva di Bush: «Ci ha fatto venire qui per niente». In una successione di scene magistralmente scaglionate, che costituiscono la terza schiacciante accusa del film contro Bush, la signora Lipscombe parla delle magre prospettive disponibili per la maggior parte dei giovani di Flint; ricorda di aver incoraggiato i suoi stessi figli a entrare nell’esercito, credendo fosse una buona cosa da fare e una buona opportunità; e alla fine, disperata, con Moore che la segue, visita la Casa Bianca e dice che è contenta di essere là, poiché è il luogo in cui esprimere la sua rabbia. Come ha scritto il critico cinematografico Stewart Klawans: La signora Lipscombe diventa una testimone molto efficiente – ma è un difficile e complesso personaggio del film. Non si adatta esattamente al progetto di Moore, che di solito confida sull’aspetto economico per spiegare il comportamento dell’élite e sulla psicologia per spiegare il comportamento della gente comune. […] Ma quando si arriva alla signora Lipscombe, Moore (con suo grande merito) dimentica le categorie standard. Probabilmente per la prima volta nella sua carriera, mostra qualcuno con una personalità ben definita, animata da convinzioni e devozioni che non necessariamente condivide ma che deve rispettare; e così permette alle emozioni della donna di sopraffare la sua bravura. 57

Fahrenheit 9/11, ha scritto Michael Wilmington sul «Chicago Tribune», è un film più vicino al «Saturday Night Live» show di David Letterman, o al Dottor Stranamore che [al programma giornalistico] «60 minuti» di Ken Burns. C’è una voce di sottofondo che commenta ogni singola scena, alle volte in modo scherzoso e altre, come nella scena dell’intervista con la mamma di un soldato morto in Iraq, Lila Lipscomb, o nei peana alle classi lavoratrici preponderanti negli Usa, con un tono carico di amarezza ed eloquenza. Fahrenheit 9/11 non è un pezzo di giornalismo inoppugnabile, né una pagina di storia filmata, ma è senza dubbio un prodotto cinematografico superbo. […] Per una parte del pubblico il documentario apparirà come banale propaganda, e per un’altra parte come un fiero e moderno j’accuse >. Ma uno non deve condividere il punto di vista politico di Moore per vedere il suo documentario. Se l’anno scorso Fahrenheit 9/11 è stato insignito della Palma d’Oro a Cannes e ha avuto l’onore del più lungo applauso in piedi nella storia del Festival (25 minuti) non è certo stato a causa del cliché dell’antipatia francese nei confronti degli Stati Uniti. In ogni caso, è chiaro che ci troviamo di fronte a uno dei massimi film dell’anno. L’abilità di Moore a gettare le basi di un dibattito generale – anche su argomenti scivolosi – resta senza prezzo. […] Inoltre, il feroce candore che caratterizza le sue domande lo inscrive di diritto nella tradizione classica dell’umorismo scettico americano che fu di Mark Twain. 58

Che Moore abbia girato il suo docu-film con tutt’altro spirito rispetto al consueto atteggiamento apolitico mostrato dagli autori di Hollywood, è del resto esplicitato nell’intervista che l’artista ha rilasciato all’«Hollywood Reporter» del 17 maggio 2004: Giornalista >: «Allora l’idea di influenzare le elezioni è proprio nelle intenzioni del film?» Moore >: «Ma certo e di influenzare gli eventi dopo le elezioni perché i problemi che abbiamo saranno ancora con noi a prescindere da chi vincerà la Casa Bianca. Non ho sentito John Kerry spiegare quale sia il piano di disimpegno [dall’Iraq]. Così, sono sicuro che tra un anno saremo ancora con l’esercito in Iraq, o almeno questa è la mia triste opinione. Il film non è solo incentrato sul fatto di liberarsi di Bush; io stesso non andrei a vedere un film che parli solo di questo. Il mio tempo è poco e non mi va di andare a sedermi per due ore in un cinema a farmi dire che Bush deve andarsene. Abbiamo deciso di non fare quel tipo di film, noioso e prevedibile. Abbiamo deciso di farlo su un argomento più vasto, cercando di capire

dove siamo finiti noi, come popolo, dopo l’11 settembre. Il film passa molto tempo a porre domande, non sempre suggerisce delle risposte, ma chiede al pubblico di riunirsi e tentare di capire quali possano essere le risposte. Quando abbiamo lanciato il film nel Midwest, la gente era commossa profondamente e lasciava le sale pensando alla loro responsabilità personale in termini di “fare qualcosa” e comportarsi come cittadini di uno stato democratico. Sono stato capace di penetrare a fondo nel pubblico medio americano e questo, credo, è il motivo per cui ho trovato tutti questi problemi di distribuzione e di tentata censura. Ricordiamoci che viviamo in un paese dove il 50% della popolazione non va a votare. Se riesco a convincere anche solo un 10%, a dar loro un motivo per risvegliarsi e presentarsi ai seggi il 2 novembre, ecco quello sarebbe un risultato portentoso, che a molti di una certa parte non piacerà ed è il motivo per cui c’è tanto nervosismo attorno al mio film. »59

6. 7. Hollywood dopo l’11 settembre: le nuove liste nere Abbiamo detto che nessuno come Michael Moore ha messo la sua arte al servizio della militanza contro la rielezione del presidente George W. Bush. E tuttavia, il numero di personaggi celebri che hanno ritenuto di schierarsi pubblicamente contro l’Esecutivo dal dopo 11 settembre a oggi è davvero molto esteso. L’acme di questa opposizione civile da parte delle star del cinema si è raggiunto il 10 dicembre 2002 con la firma di una lettera aperta a Bush ideata dagli attori Martin Sheen e Mike Farrell e intitolata Keep America Safe - Win Without War [Tenere al sicuro l’America - Vincere senza la guerra] organizzata dal gruppo «Artists for Winning Without War». Ecco cosa dice il testo della lettera-petizione: I discorsi di guerra che vanno per la maggiore a Washington sono allarmanti e non necessari. Siamo americani patriottici convinti che a Saddam Hussein non debba essere consentito possedere armi di distruzione di massa. Sosteniamo rigorose ispezioni dell’Onu che assicurino l’effettivo disarmo dell’Iraq. Pensiamo però che un’invasione preventiva dell’Iraq scatenerà gli interessi nazionali dell’America. Una guerra simile farà aumentare la sofferenza umana, accrescerà l’animosità contro il nostro paese, farà aumentare la possibilità di nuovi attacchi terroristici, danneggerà l’economia e minerà il nostro profilo morale nel mondo. Ci farà sentire meno – e non più – sicuri. Rigettiamo la dottrina, che rovescia una tradizione americana di lungo corso, che il nostro paese abbia il diritto di lanciare il primo attacco. L’obiettivo degli Usa e dell’Onu di disarmare Saddam Hussein può essere raggiunto attraverso mezzi diplomatici. Non c’è bisogno di una guerra. Concentriamo invece le nostre risorse per il miglioramento della sicurezza interna e il benessere della nostra gente e di quella di tutto il mondo. 60

La petizione è stata sostenuta da un numero altissimo di artisti di Hollywood; tra gli altri firmatari, si leggono i nomi di Kim Basinger, Matt Damon, Olympia Dukakis, Mia Farrow, Janeane Garofalo, Danny Glover, Ethan Hawke, Anjelica Huston, LaTanya Richardson, Jessica Lange, Tim Robbins, Susan Sarandon e molti altri. A distanza di un anno, il 3 ottobre 2003, a guerra ormai iniziata, altri artisti hanno ribadito la loro opposizione a Bush firmando un altro documento pubblico, la petizione Not in our name (Nion), stavolta di critica molto più radicale. Come sempre, a fronte di una forte opposizione, ha fatto seguito una altrettanto forte reazione da parte sia di artisti di idee repubblicane che da parte di quell’area di gente comune che sostiene il Presidente. I metodi della reazione sono sorprendentemente analoghi a quelli di cinquanta anni fa, aiutati però da internet e dalla facilità del passaggio delle informazioni. Così, già lo stesso giorno della petizione ideata da Martin Sheen e da Mike Farrell,

su internet è apparsa una contropetizione intitolata Citizens Against Celebrities «Pundits» [Cittadini contro le celebrità «erudite»] che ha di fatto segnato la nascita di un movimento civile – per lo più di fedeli militanti repubblicani, ma anche di americani della middle class, non particolarmente appassionati di politica – che ha cominciato a tempestare i giornali di lettere di protesta contro le cosiddette «celiberties» (gioco di parole tra «celebrità» e «liberal»). Il testo della prima parte della contropetizione recita: Noi, cittadini americani firmatari di questa petizione intendiamo opporci alle benestanti celebrità di Hollywood che abusano del loro status per parlare per nostro conto. Non troviamo che questi signori abbiano un’idea chiara di come noi viviamo, di quello di cui abbiamo paura e di ciò in cui crediamo. Pensiamo che personaggi famosi come Martin Sheen, Mike Farrell, Tim Robbins, Rob Reiner, Barbara Streisand e altri, approfittino della loro fama per interferire con la difesa del nostro paese. Pensiamo che questi personaggi di Hollywood usino le loro ricchezze per far conoscere il proprio punto di vista mentre l’americano medio non avrà mai le risorse per potere alzare la voce in questo modo. Sosteniamo il presidente Bush nei suoi sforzi per difendere la nostra patria, per difendere la democrazia e per prendere qualunque misura che possa porre fine alla minaccia del terrorismo. Noi non pensiamo di saperne più di nessun altro e in particolare più del presidente Bush. Abbiamo eletto un Presidente di cui ci fidiamo e che sappiamo saprà prendere le decisioni giuste sulla base dei fatti disponibili alla sua conoscenza e non noti a noi altri. […] Questa petizione, e le sue firme, sarà pubblicata dove possible e/o sarà spedita ai signori Martin Sheen e Mike Farrell. 61

Dalla protesta civile si è purtroppo passati alle lettere di ricatto contro le ditte che utilizzano per testimonial i volti degli artisti progressisti, fino alle lettere e telefonate di minacce personali e infine, attraverso decine di siti internet spesso tra loro collegati, all’organizzazione di una vera e propria «lista nera» di artisti da boicottare perché «colpevoli» di aver criticato il Presidente62. Particolarmente interessante il sito Pabaah! (Patriot Americans Boycotting Anti-American Hollywood), per altro uno dei pochi siti a dare nuova vita al discusso termine di «Un-American». Questo sito, diretto dall’omonima organizzazione, oltre a fornire una «boycott list» di 107 persone in ordine alfabetico (secondo il nome di battesimo degli artisti) che specifica, accanto al cognome di ciascuno, il motivo per cui è stato inserito nella lista nera, si preoccupa anche di organizzare campagne di altro tipo, sempre concentrandosi solo sugli artisti di Hollywood. Nel momento in cui scrivo, il sito raccoglie firme per chiedere al ministro della Giustizia Ashcroft di inquisire il regista Michael Moore per il reato di tradimento. Riproduco qui una porzione della lunga lista nera del sito Pabaah, alla quale si può accedere solo previa registrazione, per sottolineare i punti di contatto con altre iniziative dell’epoca maccartista che iniziarono sempre a livello amatoriale e poi assunsero le dimensioni dell’industria della clearance: Le seguenti celebrità hanno tradito l’America nel momento del bisogno e sono state inserite in una lista di proscrizione che sta circolando in internet. Non compreremo più i loro prodotti e non li sosterremo oltre! Alec Baldwin perché ha dichiarato che avrebbe lasciato la nazione se Bush fosse divenuto presidente; Alexandra Paul in quanto firmataria della petizione Artists for Winning Without War; Alfre Woodard in quanto firmataria della petizione Artists for Winning Without War; Ani DiFranco per aver affermato: «È difficile svegliarsi tutte le mattine con la sensazione che ti vergogni del tuo paese»; Anjelica Huston in quanto firmataria della petizione Artists for Winning Without War;

Barbara Streisand per aver dichiarato: «Com’è possibile che un uomo così distruttivo sia tanto popolare tra il popolo americano?»; Danny Glover perché ha condannato il Presidente e «la sua amministrazione di bugiardi e assassini»; Dave Matthews in quanto firmatario della petizione Artists for Winning Without War; David Duchovny in quanto firmatario della petizione Artists for Winning Without War; Dustin Hoffman per aver dichiarato: «Credo che l’amministrazione abbia sfruttato gli eventi dell’11 settembre e abbia manipolato il rancore della nazione»; Ed Asner in quanto attivista pacifista; Ed Harris per aver detto: «Abbiamo questo ragazzotto alla Casa Bianca che pensa di essere un uomo»; Ed Norton per aver detto: «Spero che la comunità internazionale continui a parlare e a fare pressioni sul governo americano»; Ed O’Neill in quanto firmatario della petizione Artists for Winning Without War; Elliott Gould in quanto firmatario della petizione Artists for Winning Without War; Esai Morales in quanto firmatario della petizione Artists for Winning Without War; Ethan Hawke in quanto firmatario della petizione Artists for Winning Without War; F. Murray Abraham in quanto firmatario della petizione Nion; George Clooney per aver dichiarato: «Bush è un guerrafondaio che vuole invadere l’Iraq»; Gillian Anderson in quanto firmataria della petizione Artists for Winning Without War; Helen Hunt in quanto firmataria della petizione Artists for Winning Without War; Hugh Grant in quanto firmatario della petizione Nion; Jackson Browne in quanto firmatario della petizione Artists for Winning Without War; James Whitmore in quanto firmatario della petizione Artists for Winning Without War; Jane Fonda dobbiamo dire di più del nome? Jennifer Aniston per aver detto: «Bush è un fottuto idiota»; Jeremy Piven in quanto firmatario della petizione Nion; Jessica Lange per aver detto: «Lo odio [G. W. Bush]»; Jill Clayburgh in quanto firmataria della petizione Artists for Winning Without War; Joan Cusak militante pacifista; Julia Roberts per aver detto: «L’uomo è imbarazzante. Non è il mio Presidente e non lo sarà mai»; Kevin Bacon in quanto firmatario della petizione Nion; Kevin Spacey per aver dichiarato: «Se facessimo quello che Bush dice di fare, andremmo giù per una strada dalla quale non sapremmo mai tornare indietro e la cosa farebbe scattare una reazione a catena per tutto il mondo. Vivo nella speranza che questo non succeda»; Kim Basinger in quanto firmataria della petizione Artists for Winning Without War; Martin Scorsese per aver parlato male di Bush al Festival di Berlino; Martin Sheen per aver detto: «George W. Bush è un deficiente»; Matt Damon in quanto firmatario della petizione Artists for Winning Without War; Melina Kanakaredes in quanto firmataria della petizione Artists for Winning Without War; Melissa Gilbert in quanto firmataria della petizione Artists for Winning Without War; Mia Farrow in quanto firmataria della petizione Artists for Winning Without War; Michael Moore per la sua battaglia contro il Presidente; Oliver Stone in quanto firmatario della petizione Nion; Olympia Dukakis in quanto firmataria della petizione Artists for Winning Without War; Renée Zellweger per aver dichiarato: «Perché entriamo in guerra? Sono confusa!»; Richard Gere per aver detto: «I piani di guerra di Bush sono un incubo bizarro»; Robert Altman per aver dichiarato: «Trovo disgustoso l’odierno governo Americano»; Robert Redford per aver detto: «Bush sta perseguendo un piano di autodifesa pericoloso» e anche: «Bush soffre di mancanza di leadership»; Robin Williams per aver detto: «Bush? Dice sempre “dobbiamo liberarci dai dittatori”, ma in realtà è un dittatore egli stesso»; Spike Lee per aver detto: «I governi di Germania e Francia dovrebbero essere premiati per la loro opposizione alla guerra»; Woody Harrelson per aver dichiarato: «Questa è una guerra razzista e imperialista». 63

Per considerare la cancellazione dalla lista, sono richieste scuse pubbliche e la denuncia delle proprie precedenti affermazioni. Come si vede, per entrare nella lista nera è sufficiente avere espresso pareri

anche solo dubbiosi dell’operato presidenziale. Al momento non sembra che questa attività di boicottaggio politico organizzato su internet (e non solo) stia dando dei frutti significativi, ma è certo che il movimento sta facendo breccia a livelli anche più istituzionali, come testimoniato dall’articolo esplicito del noto commentatore politico Joseph Farah Bring Back Hollywwod Blacklist, [Ridateci la lista nera contro Hollywood] apparso sul quotidiano on-line «WorldNetDaily. com»64. Farah, un editorialista piuttosto seguito, i cui pezzi vengono ripresi da centinaia di giornali di provincia, nel suo articolo offre tra l’altro una difesa della lista nera maccartista, sostenendo che sia stato il modo giusto di liberarsi dalle influenze comuniste nel cinema dell’epoca. Quindi conclude il suo articolo tornando all’attualità e scrivendo: Non credo che questa gente debba andare in galera per le sue opinioni antiamericane. Penso solo che non debbano mai più lavorare nell’industria dello spettacolo. Se preferiscono tanto altri paesi [all’America], che andassero a fare i loro show e i loro film in quei paesi. Siccome non mi aspetto che gli studios di Hollywood e le multinazionali dell’intrattenimento possano piantarla di dar da mangiare a questi reprobi, stavolta, cara America, la lista nera dipende da te. Fatevi la vostra lista di proscrizione personale e non sostenete più quei film, quegli show televisivi, quegli sponsor, quelle compagnie di registrazione eccetera che assumono questi gaglioffi. 65

Non sono tuttavia mancati dei casi (per ora isolati) in cui a questo o a quell’artista sono stati annullati dei contratti all’ultimo minuto «per questioni d’immagine», che altro non erano che motivazioni ideologiche. È quanto accaduto all’attrice Janeane Garofalo, che dopo aver rilasciato dichiarazioni pesanti contro la politica dell’esecutivo in Iraq è stata al centro di una campagna di e-mail e telefonate minatorie che hanno coinvolto anche il network televisivo Abc, dove l’attrice lavorava, fino a convincere la direzione della rete a cancellare la nuova edizione della sit-com Slice o’life che aveva lei per protagonista. I dirigenti della Abc si sono difesi in modo candido, sostenendo che la cancellazione è stata decisa sulla base dei timori di perdere spettatori e sponsor66. Altri casi celebri sono occorsi proprio all’attore Martin Sheen, che si è visto stracciare il contratto per uno spot pubblicitario di una carta di credito, all’attrice Susan Sarandon, che è stata depennata dalle personalità invitate a parlare in occasione di un incontro pubblico in Florida per conto dell’organizzazione di carità «United Way»; al di lei marito, l’attore Tim Robbins, al quale è stato ritirato l’invito per partecipare alla cerimonia per il 15° anniversario dell’uscita del suo film sul baseball Bull Durham - Un gioco a tre mani ( Bull Durham, 1988, di Ron Shelton). La cerimonia doveva tenersi alla National Baseball Hall of Fame, presieduta da un ex addetto stampa del presidente Reagan, che ha ritenuto la presenza dell’attore «inadatta» all’occasione dopo le sue dichiarazioni sulla guerra in Iraq. Le campagne di boicottaggio e gli inviti all’odio non hanno risparmiato, ovviamente, anche altri artisti non di Hollywood che hanno osato criticare il Presidente; il caso più eclatante è sicuramente quello del trio di musica country The Dixie Chicks, la cui leader, Natalie Maines, ha dichiarato in un concerto a Londra del marzo 2003 di «vergognarsi di venire dallo stesso stato, il Texas, del presidente Bush». A seguito di questa affermazione pubblica, le vendite del gruppo musicale sono colate a picco e la catena radiofonica Cumulus Media ha risposto organizzando un «rogo» di compact disc, nastri musicali e videocassette del gruppo, schiacciati da un trattore in pubblico.

Segnali che hanno giustamente fatto preoccupare i dirigenti del Sindacato attori, che per bocca della sua presidente Melissa Gilbert ha denunciato un’atmosfera simile a quella del maccartismo degli anni ’50. La Abc ha dedicato al tema del «ritorno dei tempi della lista nera a Hollywood» una puntata del suo programma di approfondimento giornalistico, intervistando vari attori nonché la stessa Gilbert. Le risposte dei volti celebri sono state tutte sulla stessa linea: «Non siamo disponibili a starcene zitti solo perché siamo attori; siamo cittadini americani come tutti gli altri e siamo liberi di esprimere le nostre opinioni, quali che siano», ha spiegato per tutti Bradley Whitford. Melissa Gilbert ha concluso ammonendo: «A nessun artista dovrà essere negato un lavoro sulla base del suo credo politico. Questo paese non dovrà tollerare anche solo un’ombra di ritorno alla lista nera». Una frase pubblicata anche sul sito del Sindacato, e appena tre ore dopo l’associazione è stata inondata dal solito diluvio di e-mail minatorie. Assistiamo dunque a una nuova stagione di maccartismo a Hollywood? Dal punto di vista giuridico la situazione non è certamente paragonabile a quella del 1947. Infatti non esiste, o non esiste ancora, una Commissione del Congresso incaricata di indagare sulle affiliazioni politiche dei personaggi di Hollywood. Certo, esistono delle leggi speciali, che restringono i diritti individuali garantiti dalla Costituzione. Esistono anche delle liste nere che girano con una certa fortuna e popolarità in internet, ma, almeno per il momento, manca anche una Dichiarazione del Waldorf Astoria tra i produttori, che permetta all’Amministrazione Bush quel che fu permesso alla Commissione per le attività antiamericane nel 1947. C’è anche, e questo è senza dubbio il dato più preoccupante, una rinascita a Hollywood e in tutti gli Usa di un clima di insicurezza e di paura, che finisce per coinvolgere anche i volti noti. Non si può al momento dire a cosa porterà questa nuova campagna di boicottaggio ideologico, ma è certo che i punti di contatto non istituzionali con il 1947 cominciano a essere preoccupanti. 1 Gordon Kahn, Hollywood on Trial. The Story of the 10 who were Indicted, Boni & Gaer, New York 1948. 2 Spesso con un intreccio banale tutto teso a ostentare il maggior grado di anticomunismo possibile. Wilson ha calcolato che tra il 1948 e il 1954 Hollywood produsse la bellezza di 40 film chiaramente anticomunisti, tra cui The Whip Hand e I was a Communist for the Fbi. Cfr. Wislon, Edmund, The Fifties, Straus and Giroux, New York 1986, p. 317. 3 Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema americano, 1930-1960, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 539. 4 Abbiamo visto quanto spesso erano false queste prove fornite dall’Fbi, come in occasione delle tessere d’iscrizione al Partito comunista per i Dieci di Hollywood, quando il CpUsa non ha mai emesso una sola tessera, proprio per evitare che potessero essere usate contro i loro iscritti, di cui si cercava in tutti i modi di conservare l’anonimato. 5 341 Us 579 - 81. Riportato in Albert Fried (a cura di), McCarthyism. The Great American Red Scare. A Documentary History, Oup, New York-Oxford 1997. 6 Walter Bernstein, Inside Out. A Memoir of the Blacklist, Alfred A. Knopf, New York 1996, cap. 1. 7 Esemplare è la storia del Committee for the First Emendament, di cui al capitolo 2 e 3. 8 Victor S. Navasky, Naming Names, Viking Press, New York 1980. 9Eric Bentley (a cura di), Thirty Years of Treason. Excerpts from Hearings Before the House Committee on Un-American Activities, 1938-1968, Viking Press, New York 1973 (nuova edizione: Nation Books, 2002). 10 Román Gubern, McCarthy contra Hollywood. La caza de brujas, Anagrama, Barcellona

1970. 11 Riportato in Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, vol. III, Ottocento e Novecento, Paravia, Torino 1989, p. 146. 12 Vittorio Zucconi, George. Vita e miracoli di un uomo fortunato, Feltrinelli, Milano 2004. 13 Arthur Schlesinger, the Cycles of the American History, Houghton Mifflin Company, New York 1987 (trad. it. I cicli della politica americana, Studio Tesi, Pordenone 1991). 14 Richard Hofstadter, The Paranoyd Style in American Politics and Other Essays, University of Chicago Press, 1979. 15 Roberto Festa (a cura di), Cosa succede a un sogno. Le nuove tesi dei «neoprog» Usa, Einaudi, Torino 2004. 16 Executive Order 9066 del 1942, con cui Franklin Delano Roosevelt disponeva la deportazione di 122. 000 cittadini americani di origine giapponese. 17 La celebre sentenza della Corte Suprema Korematsu vs. United States, 323 Us 214 (1944), poi confermata anche da Hirabayashi vs. United States, 320 Us 81 (1943); Yasui vs. United States, 320 Us 115 (1943). Sentenze giudicate «infamanti» in tempi più recenti e rovesciate dalla Legge 100-383, 102 Stat. 903 (1988) che ha definito una «fondamentale ingiustizia» l’incarceramento e la deportazione sulla base dell’appartenenza etnica e ha provveduto alla restituzione dei beni confiscati dallo stato ai legittimi proprietari. 18 Internal Security Act, titolo II, 1952. I campi di concentramento autorizzati e costruiti «per sospetti sovversivi» furono sei, in Arizona, California, Florida, Oklahoma e Pennsylvania. Nessuno fu mai effettivamente detenuto in questi campi, ma di certo ebbero un potere di pressione psicologica su un’opinione pubblica già di per sé terrorizzata. 19 Cfr. Richard M. Fried, Nightmare in Red - The McCarthy Era in Perspective, Oup, New York-Oxford 1990. 20 Fobia indimenticabilmente parodizzata nel 1964 dal genio di Kubrick nel celeberrimo Il dottor Stranamore (Doctor Strangelove ), in cui il personaggio del generale Ripper beve appunto «solo acqua piovana, per difendere la purezza dei fluidi vitali». 21 Yates vs. United States, 354 Us 298, 324-25 (1957); Service vs. Dulles, 354, Us 363 (1957); Watkins vs. United States, 354 Us 178 (1957); Sweezy vs. New Hampshire, 354 Us 234 (1957). Per un’analisi dettagliata di queste sentenze, passate per i critici sotto il nome di «le sentenze del lunedì rosso», cfr. Arthur J. Sabin, In Calmer Times: The Supreme Court and Red Monday, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1999, pp. 27-28. 22 Legge n. 92-128, §2, 85 Stat. 347 (1971), codificata dal 18 UsC §4001. 23 David Cole, Enemy Aliens. Double Standards and Constitutional Freedoms in the War on Terrorism, The New Press, New York 2003. 24 Si tratta della Public Law numero 108-7 §111 (2003) approvata dal Congresso in modo restrittivo rispetto a quanto proposto dal Pentagono. Il Total Information Awareness, nella sua versione originale doveva consentire al Pentagono di infiltrarsi in qualunque database pubblico o privato per trovare le prove di comportamenti sospetti da parte di chiunque. Il Congresso ha ristretto l’efficacia del provvedimento liberticida nei confronti dei soli «non cittadini statunitensi». 25 David Cole, Enemy Aliens cit. , p. 18. 26 Authorization for Use of Military Force, 115 Stat. 224. 27 David Cole, James X. Dempsey, Terrorism and the Constitution. Sacrificing Civil Liberties in the Name of National Security, The New Press, New York 2002. 28 Questo pacchetto di leggi, il cui nome è, con sfoggio di fantasia, l’acronimo di «Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism», proposto dal ministro della Giustizia Ashcroft e approvato dal Congresso il 26 ottobre 2001, riconosce all’Fbi il diritto di indagare in qualunque messaggio di posta elettronica, di inserirsi in ogni tipo di database anche medico, di intromettersi nel rapporto avvocato-cliente, di sorvegliare qualunque tipo di comunicazione prima ritenuta privata: dalle conversazioni telefoniche alle chiacchierate via chat. Il Patriot Act ha esteso il concetto di «terrorismo» al «terrorismo interno», che può potenzialmente essere utilizzato come accusa contro qualunque gruppo politico di opposizione al governo Bush. 29 Si tratta di un memorandum del 25 gennaio 2002 varato dal viceministro alla Giustizia all’immigrazione in collaborazione con l’Fbi, lo Us Marshals Service, e vari poteri locali. Il proposito del progetto è di «localizzare, venire a conoscenza, intervistare e deportare […]

qualunque latitante». Per «latitante», il memorandum intende: «Qualunque straniero che, sebbene ingiunto a lasciare il territorio degli Stati Uniti, abbia resistito attivamente o passivamente all’ordine». Sempre secondo il memorandum, nel 2002 erano presenti sul territorio Usa almeno 314. 000 «latitanti». Nel testo si legge che la causa di questo giro di vite è la necessità di concentrarsi sui «latitanti prioritari», ossia diverse migliaia di individui «provenienti da paesi dove ci sia stata la presenza o l’attività di Al-Qaeda». Il memorandum ha anche stabilito la creazione di liste di latitanti. 30 Lo Special Registration Program è parte del National Security Entry-Exit Registration System (Nseers) che ha lo scopo di definire per il 2005 un complesso nuovo sistema di entrata e uscita dagli Usa per praticamente tutti i visitatori stranieri. Al 25 marzo 2003, il programma ha permesso la registrazione di 110. 534 individui provenienti da 149 nazioni. Secondo il ministro della Giustizia, John Ashcroft, attraverso questo nuovo sistema sono stati arrestati otto esponenti «sospettati di essere terroristi, incluso un noto membro di Al-Qaeda». 31 È per altro interessante come l’Amministrazione Bush abbia puntato a identificare texanamente tutte le responsabilità sul volto del leader di Al-Qaeda, Bin Laden, contro il quale è stata mossa guerra al regime talebano dell’Afghanistan che lo ospitava. Quando poi l’Afghanistan è stato liberato dai talebani ma Bin Laden è rimasto wanted, l’apparato propagandistico americano è riuscito a trasporre nell’immaginario collettivo le responsabilità dell’11 settembre sul volto di un altro dittatore, l’irakeno Saddam Hussein, contro il quale è stata scatenata quella che doveva essere una blitzkrieg, una guerra-lampo, ma che ha sempre di più i connotati di una guerriglia di logoramento, anche dopo la cattura del genocida. 32 Secondo il Council on American-Islamic Relations, al settembre 2002 ne sono stati denunciati 1719 casi. La stima del sommerso, si calcola, è circa tre volte superiore. 33 John Le Carré, Il mondo piegato all’ordine americano, «La Repubblica», 16 gennaio 2003, pp. 1, 40-41. 34 Roberto Festa, Il mondo da Sheinkin Street. Reportage sulle libertà civili, Elèuthera, Milano 2002, p. 15. 35 Cfr. Dan Eggen, Susan Schmidt, Count of Released Detainees is Hard to Pin Down, «Washington Post», 6 novembre 2001; Amy Goldstein, Dan Eggen, Us to Stop Issuing Detention Tallies , «Washington Post», 9 novembre 2001. 36  Cfr. nota 23. Dati presi da: David Cole, Enemy Aliens cit. 37 Cfr. nota 24. Dati presi da ivi. 38 «The War on Terrorism: Immigration Enforcement Since September 11», discorso preparato da Michael T. Dougherty, direttore delle operazioni, dinanzi alla Commissione della Camera dei Rappresentanti sullo Judiciary Subcommittee on Immigration, Border Security and Claims , « Federal News Service», 8 maggio 2003. 39 In realtà tra i detenuti di Guantanamo sono finiti anche due cittadini americani, Yaser Hamdi e José Padilla, e questa è stata paradossalmente una fortuna, perché proprio il loro status giuridico di cittadini statunitensi gli ha consentito di lasciare la prigione a Cuba, di essere trasferiti negli Usa, di subire un processo e di muovere a loro volta causa al governo americano per le condizioni inumane di incarceramento a cui erano stati sottoposti. Le sentenze relative, sono valse anche per i loro ex compagni di detenzione non statunitensi. 40 Tra le altre riforme liberticide operate dal governo Bush, c’è stata l’estensione di quello che potremmo chiamare il «fermo di polizia» (ossia il numero di ore massimo in cui si può essere trattenuti in arresto prima di ricevere la formulazione del motivo) da 24 ore all’indefinito «periodo di tempo ragionevole in tempi di emergenza». Cfr. 8 CFR §287. 3 (d) (2000) (pre-september 11 regulation); 66 Fed. Reg. 48,334 (sept. 20, 2001) (amending 8 CFR §287. 3 [d]). 41 La foto è stata scattata da Rhoda Baer e messa a disposizione del circuito internazionale AP/WideWorld Photos ed è stata utilizzata come copertina del saggio di David Cole, Enemy Aliens cit. 42 Hamdi, et al. vs. Rumsfeld, Secretary of Defense, 542 Us 03-6696 (2004). 43 Battezzati Combatant Status Review Tribunals. 44 Roper Center for Public Opinion Research, Do you Approve or Disapprove of the Use of «Racial Profiling» by Police?, Gallupp Poll, 9 dicembre 1999, disponibile in Westlaw, UsGallupp 120999 R6 009. 45 Ivi, p. 36.

46 Ivi, p. 43. 47 Darrell West, John Orman, Celebrity Politics, Prentice Hall, Boston 2002. 48 La giuria che ha deciso l’assegnazione della Palma d’Oro al documentario di Moore era presieduta dal regista americano Quentin Tarantino e composta dall’attrice francese Emanuelle Béart, l’attrice britannica Tilda Swinton, l’attore belga Benoît Poelvoorde, il critico finlandese Peter von Bagh, e il regista di Hong Kong Tsui Hark. Fahreneit 9/11 è stato insignito anche del Premio della critica internazionale. 49 Un esempio è il francese William Karel, del quale nel luglio 2004 è uscito in Francia il documentario Le monde selon Bush, un vero e proprio j’accuse contro «il peggior Presidente nella storia degli Stati Uniti: stupido, ignorante e bugiardo». 50 In seguito a un voto di maggioranza per 5 a 4 della Corte Suprema (che ha interrotto il riconteggio delle schede contestate nello stato-chiave della Florida, governato dal fratello del candidato Presidente, Jeb Bush) e ha nominato George W. Bush «presidente». I democratici avevano chiesto l’intervento della Corte in virtù dei pochissimi voti di scarto fra il loro uomo, Al Gore, e quello repubblicano, sottolineando la possibilità di uno scrutinio irregolare e l’attribuzione a Bush di voti non suoi. Due dei cinque giudici che votarono in favore della convalida del voto della Florida, il giudice David Hackett Souter e il giudice Clarence Thomas, erano stati nominati alla Corte Suprema dal presidente George Bush, padre di George W. Bush. Al momento del cruciale voto, la composizione della Corte era per sei noni di nomina repubblicana. Per un approfondimento sull’incredibile storia delle elezioni presidenziali truccate del 2000, cfr. Michael Moore, Stupid White Men, HarperCollins Publishers, New York 2001 (trad. it. Stupid White Men, Mondadori, Milano 2003, pp. 23-49: «Un colpo di stato molto, molto americano»). 51 Michael Moore , Downsize This!: Random Threats from Unarmed America, HarperCollins Publishers, New York 1996. 52 Michael Moore, Stupid White Men cit. 53 Disney’s Crafen Behaviour, «The New York Times», 6 maggio 2004, New York (pagina degli Opinions-Editorial). 54 Articolo comparso sul sito www. michaelmoore. com il 7 maggio 2004. 55 Richard Corliss, Desa Philadephia, Jeffrey Ressner, Jackson Baker, Betsy Rubiner, John F. Dickerson, Adam Zagorin, James Poniewozik, The World According to Michael; Taking Aim at George W. ; A Populist Agitator Makes Noise; News and a New Kind of Political Entertainment, «Time Magazine» , 12 luglio 2004. 56 Ivi. 57 Stewart Klawans,By Way of Deception, «The Nation»,17 giugno 2004. 58 Michael Wilmington, Movie Review: Fahrenheit 9/11, «The Chicago Tribune», Chicago 12 luglio 2004. 59 Gregg Kilday, Dialogue with Michael Moore, «The Hollywood Reporter», Los Angeles, 17 maggio 2004. 60 La petizione si trova sul sito internet: http://www. mikefarrell. org/Farrell/WinWithoutWar. html 61 Il testo completo è pubblicato sul sito: http://www. ipetitions. com/campaigns/hollywoodceleb/ 62 La lista è di solito facilmente consultabile, ma in alcuni casi è necessario passare un complicato sistema di iscrizione che dovrebbe, nelle intenzioni degli organizzatori dei siti, scoraggiare l’ingresso di «provocatori democratici». Questi sono gli indirizzi dei principali siti impegnati nella lotta contro le «celiberties» di Hollywood: http://www. marchonhollywood. com http://www. hollywoodhalfwits. com http://www. celiberal. com http://www. famousidiot. com http://www. boycott-hollywood. net http://www. hollywood-hero. us http://www. celebrityhypocrites. com http://www. ipetitions. com/campaigns/hollywoodceleb/ http://www. 0cents. com http://www. pabaah. com

63 Sito http://www. pabaah. com, «The Boycott List», elenco inserito dall’utente-moderatore JonAlvy44, il 6 giugno 2003. 64 Joseph Farah, Bring Back Hollywood Blacklist, «WorldNetDaily. com», 4 settembre 2003. 65 Ivi. 66 Andrew Gumbel, Hollywood’s New Blacklist: Hollywood Revives McCarthyist Climate By Silencing and Sacking War Critic, «Pop Cult Media», 22 aprile 2003, http://www. polarity1. com/pcrr48. html

Appendice

Le dichiarazioni dei Dieci di Hollywood Questa sezione contiene le sette dichiarazioni d’apertura dei Dieci di Hollywood che, giudicate non pertinenti e offensive, non furono messe a verbale dalla Commissione. La traduzione è stata effettuata sulla base del testo pubblicato nel libro Hollywood on Trial di Gordon Kahn.

1. Dichiarazione di John Howard Lawson Da una settimana, questa Commissione conduce un processo illegale e indecente contro cittadini americani che ha selezionato e messo alla berlina pubblicamente macchiandone l’onore. Non sono qui per difendermi, o rispondere all’agglomerato di falsità che sono state ammucchiate su di me. Credo che gli avvocati descrivano questo materiale, in modo piuttosto neutro, come «prove verbali». Per il pubblico americano, ha un nome più chiaro: immondizia. Persone razionali non dovrebbero discutere di immondizia. Mi sento come un uomo su cui sia stato scaricato addosso un autocarro carico di lordura. Ora mi si chiede di parlare, difendermi, mentre altri camion di immondizia mi vengono scaricati sulla testa. No, non si discute di immondizia. Si cerca di scoprire da dove venga per fermare il diluvio di sporcizia prima che seppellisca te e altri. La fonte immediata è ovvia. Le cosiddette «prove» vengono da una parata di neurotici usati come specchietti per le allodole, pagliacci che cercano pubblicità, agenti della Gestapo, informatori pagati, e alcuni artisti di Hollywood ignoranti e spaventati. Non discuterò di queste testimonianze di spergiuri. Lascerò che queste persone vivano con le loro coscienze, sapendo che hanno violato i principi più sacri del loro paese. Questi individui non hanno importanza. Come individuo, anch’io non sono importante. Il fatto evidente che questa Commissione stia tentando di distruggermi personalmente e professionalmente, spogliarmi del mio sostentamento e della cosa a cui tengo più di ogni altra ossia del mio onore di americano, acquista significato perché dà il via alla possibile distruzione di qualsiasi cittadino che questa Commissione voglia scegliere per annientare. Non insisterò sulla violazione pesante della Costituzione degli Stati Uniti e, in particolare, del suo Primo e Quinto emendamento che sta avvenendo qui. La prova di tale violazione è così enorme che non ha bisogno di nessuna elaborazione. La Commissione delle attività antiamericane sarà giudicata dall’opinione pubblica. Qui voglio parlare come scrittore e cittadino. Non sorprende che scrittori e artisti siano stati selezionati per questa sceneggiata indecente. Scrittori, artisti, scienziati, educatori sono sempre le prime vittime di quelli che odiano

la democrazia. Lo scrittore ha una responsabilità speciale, deve servire la democrazia, favorire il libero scambio di idee. Sono orgoglioso di essere attaccato da uomini evidentemente desiderosi, per loro propria ammissione, di soffocare idee e instaurare censure. Qui voglio parlare dell’integrità dello scrittore, l’integrità etica e professionale che è stata contestata così irresponsabilmente in queste udienze. Nel suo tentativo illegale di stabilire una dittatura politica sull’industria del cinema, la Commissione ha tentato di giustificare il suo colpire il pensiero e la coscienza di alcuni cittadini accusandoli di inserire nei film scene o battute «sovversive». Quest’accusa per un autore di film suona come qualcosa di fantastico, roba da Mille e una notte. Ma è anche un’accusa che intacca l’integrità dello scrittore. Quando vengo assunto per scrivere un film, il mio solo scopo è creare una storia vitale, divertente, descrivendo un pezzetto di vita. Molti problemi sorgono quando si scrive una sceneggiatura. Come scrittore, non scrivo mai una battuta, o sviluppo una situazione, senza discuterne il significato con gli incaricati della produzione. Se una battuta o una situazione danno luogo a opinioni controverse esigo sempre una piena discussione, perché tali problemi concernono la politica della casa produttrice e la sperata popolarità del film. Le mie vedute politiche e sociali sono note a tutti. La mia profonda fede nel film come arte popolare è altresì ben conosciuta. Non cerco di ficcare messaggi politici nei miei lavori. Non faccio mai un contratto per scrivere un film se non sono convinto che serva la democrazia e gli interessi degli americani. Non permetterò mai che quello che scrivo e penso sia soggetto a ordini di dittatori autonominatisi tali, statisti ambiziosi o controllori del pensiero stile Gestapo, né di qualsiasi forma di censura questa Commissione possa concepire. La mia libertà di parlare e scrivere non è in vendita in cambio di un benestare firmato dal signor Thomas J. Parnell che dica: «Ok. Da usare fino al prossimo avviso». I film che ho scritto sono stati visti e approvati da milioni di americani. Dovreste citare in giudizio tutti quelli che hanno goduto questi film e li hanno riconosciuti come onesti ritratti della nostra vita americana. La mia integrità come scrittore è quindi una parte fondamentale della mia integrità come cittadino, e come cittadino qui non sono solo. Non soltanto sono uno dei diciannove uomini che avete citato in giudizio, ma sono costretto a rappresentare qui centotrenta milioni di americani perché la condotta illegale di questa Commissione mi unisce con ogni cittadino. Se posso essere distrutto io, nessun americano è sicuro. Voi potete citare in giudizio un contadino, un tagliaboschi, un operaio, un dirigente, potete spogliarli dei loro mezzi di sostentamento, togliergli l’onore di essere americani. Nessuno pensi che questa sia un’asserzione esagerata o avventata. Questo è il corso che la Commissione per le attività antiamericane ha iniziato. Milioni di americani non ne sono ancora consci ma presto capiranno il senso di questo mio avvertimento. Letteralmente nessun americano sarà più al sicuro se non viene fermata l’azione illegale di questa Commissione. Io, come la maggior parte degli americani, mi sento offeso quando si cerca di interferire con la mia coscienza e il mio pensiero. Io, come la maggior parte

degli americani, intendo avvalermi del mio diritto di servire il paese nel modo che sembra a me più utile ed efficace. Io, come la maggior parte degli americani, credo che la lealtà agli Stati Uniti e il provare orgoglio per le nostre tradizioni siano il principio guida della mia vita. Io, come la maggior parte degli americani, ritengo che una lealtà parziale – che è un altro modo per dire tradimento – sia il crimine più spregevole del quale si possa accusare un cittadino. È mia profonda convinzione che è proprio perché credo in tutto ciò che sono stato trascinato di fronte a questa corte illegale. Sono questi i valori che la cosiddetta Commissione per le attività antiamericane sta cercando di sradicare per sovvertire il nostro governo e instaurare una dittatura autocratica. Non sto suggerendo che J. Thomas Parnell aspiri a diventare un dittatore. Lui è un piccolo uomo di stato che sta servendo forze più potenti, che stanno tentando di introdurre il fascismo in questo paese. Loro sanno che l’unico modo per imbrogliare gli americani spingendoli ad abbandonare i loro diritti di libertà sta nel fabbricare un pericolo immaginario, spaventare la gente, facendo loro accettare leggi repressive, spacciandole come necessarie alla loro protezione. Chiunque abbia familiarità con la storia conosce bene questo modello per la conquista del potere da parte dei tiranni. Accuse fabbricate contro i «reds», «i comunisti», «i nemici della legge e dell’ordine» si sono ripetute durante il corso dei secoli. Dalla Star Chamber nell’Inghilterra degli Stuart fino al rogo del Reichstag nella Germania nazista, le accuse hanno colpito chi aveva salde convinzioni democratiche, e sempre tali accuse erano false e sono state usate per coprire una presa arbitraria del potere. Nell’onda terribile di repressione che colpì l’Inghilterra alla fine del XVIII secolo, Charles James Fox fece una semplice domanda: «Abbiamo visto e abbiamo sentito di rivoluzioni negli altri stati. Avevano forse libertà le opinioni popolari? La gente poteva riunirsi liberamente? No, signori, tutto questo era negato». Gli scrittori e i pensatori che furono incarcerati e fatti tacere a quel tempo vennero tutti riabilitati pochi anni dopo. Il grande scienziato Priestley, a cui bruciarono la casa, fu costretto a fuggire in America dove fu onorato come apostolo di libertà. Le persecuzioni fatte in base all’Alien and Sediction Act nel nostro paese nel 1798 furono dichiarate atti irresponsabili fatti da un partito reazionario che cercava di mantenere il potere. Il Congresso rimborsò ufficialmente tutte le multe pagate per effetto di tale legge. Si abbaiò di nuovo alla sedizione nel 1919 per creare l’illusione di un’emergenza nazionale e giustificare così pesanti violazioni del Bill of Rights, schiacciare i lavoratori, evitare la partecipazione americana nella Società delle Nazioni, e mantenere un potere reazionario. Oggi, fronteggiamo una crisi seria nella determinazione della politica nazionale. L’unico modo di risolvere questa crisi è una libera discussione. Gli americani devono conoscere i fatti. L’unica trama contro l’incolumità americana è quella tesa a celare fatti. Io vengo infangato perché mi capita di essere un americano che esprime opinioni e questo non piace alla vostra Commissione. Ma le mie opinioni non sono il problema: il problema è il mio

diritto ad avere opinioni. La logica della Commissione è evidente: le opinioni di Lawson devono giustamente essere soggette a censura perché lui scrive per l’industria del cinema che produce film per gli americani che ne possono essere influenzati. È quindi la mente della gente che volete censurare e controllare. Perché? Chi è J. Thomas Parnell e quali interessi serve, di chi ha paura? Ha paura degli americani. Voi volete mettermi la museruola. Volete mettere la museruola all’opinione pubblica. Volete mettere la museruola alla Voce della democrazia. Perché voi state cospirando contro il modo di vivere americano. Volete tagliare lo standard di vita, impoverire la società, eliminare il diritto al lavoro, attaccare negri, ebrei, e le altre minoranze, guidarci in una guerra disastrosa e non necessaria. La lotta tra chi vuole controllare il pensiero della gente e chi lotta per la libertà di espressione è la lotta tra il popolo e una minoranza antipatriottica avida che odia e teme i cittadini. Desidero presentare come parte integrante di questa dichiarazione, una carta che lessi a una conferenza sul Controllo del Pensiero negli Stati Uniti tenutasi a Hollywood dal 9 al 13 luglio. La carta presenta lo sfondo storico della situazione minacciosa che fronteggiamo oggi, e mostra che l’attacco alla libertà di comunicazione è, e sempre è stato, un attacco ai cittadini americani. Gli americani sapranno come rispondere a questo attacco. Loro vogliono conservare la libertà e proteggere i loro diritti.

2. Dichiarazione di Dalton Trumbo Signor Presidente: come hanno dimostrato le notizie della scorsa settimana provenienti da paesi stranieri, gli occhi del mondo sono focalizzati oggi su questa Commissione per le attività antiamericane. Queste udienze saranno riportate in ogni città del mondo. Da quello che accade durante questi procedimenti, i popoli della terra impareranno quello che l’America vuole dire, quando richiama ad alta voce la comunità delle nazioni a rispettare la libertà della stampa, la libertà di espressione, la libertà di coscienza, i diritti civili di uomini accusati da agenzie statali, la vitalità e la forza dell’impresa privata, il diritto inviolabile di ogni uomo alla libertà di pensare, a organizzare e riunirsi come più gli aggrada e a votare con voto segreto i politici che più gli piacciono. La qualità della nostra devozione a questi principi sarà vagliata sopratutto da tutti quelli che sono stati spinti a emulare il modo americano di vita. Ciò che questa Commissione farà qui verrà assunto a prova vivente di quello che realmente intendiamo come democrazia. Per questo abbiamo qui oggi una responsabilità molto pesante. Non mi soffermerò perciò sulle dicerie e le calunnie di testimoni che voi avete classificato come amichevoli, e sull’evidenza del loro spergiuro e della falsità della loro testimonianza. Richiamo solamente la vostra attenzione sulla coincidenza politica che quasi tutti i testimoni cosiddetti amichevoli chiamati a comparire davanti a questa Commissione sono contrari agli ideali di Wendell Willkie e Franklin Roosevelt, mentre senza eccezione i testimoni che definite ostili appoggiano quegli ideali. Non commenterò le gelosie professionali grandi e piccole, le contese private dentro le imprese cinematografiche che

sono state qui elevate a dignità di prova. E solamente con riluttanza e vergogna trovo necessario sottolineare come questa Commissione si sia complimentata con chi ha proposto che tutti quelli di idee differenti dalle proprie vengano privati della cittadinanza e abbandonati alla mercé di questi delinquenti. Ci sono tre punti principali su cui desidero porre l’accento nella mia dichiarazione a questa Commissione: Primo : nel corso di queste udienze la Commissione ha lanciato un attacco diretto sui diritti costituzionali di proprietà e di direzione del sistema che chiamiamo libera impresa privata. Voi avete tentato di costringere le imprese ad assumere o a licenziare secondo il vostro volere, senza alcun riguardo per i diritti e gli accordi già stabiliti tra le imprese e i lavoratori dell’industria del cinema. E oltre questo, avete tentato di dettare all’industria quali film deve fare e quali invece non può fare. Ognuno può capire che se questa Commissione può usurpare i diritti di libera gestione in un’industria, stabilisce un precedente per cui si potranno usurpare i diritti di libertà in ogni altra industria. La storia moderna rivela molti esempi all’estero, dove lavoratori di industrie private hanno difeso risolutamente i diritti alla libertà di gestione contro gli abusi dello stato. Sono certo che anche in questo paese i lavoratori difenderanno tale libertà contro il tentativo in atto ora. Secondo : la Commissione nelle sue udienze ha attaccato costantemente le garanzie costituzionali della stampa libera che è anche garanzia di libero schermo. Il film americano, come mezzo di comunicazione, come fornitore di idee è completamente al di fuori dei poteri di indagine di questa Commissione. Nessuna Commissione del Congresso può dettare all’industria del cinema quali idee essa debba o non debba mettere nei propri film, né può dettare quali idee gli americani possano o non possano vedere sugli schermi dei loro cinema di quartiere. Ma non avete attaccato esclusivamente il principio di un cinema libero. Nel passato, avete cercato di intimidire i lavoratori della radio. E avete ringraziato durante queste vostre udienze chiunque abbia testimoniato contro il teatro, l’editoria e la stampa stessa. Questo atteggiamento costante tenta di interferire gratuitamente con i diritti di ogni mezzo di espressione e rivela chiaramente la vostra intenzione di schiavizzare il cinema piegandolo agli standard culturali del signor J. Thomas Parnell e alle convinzioni di John E. Rankin. Terzo : la Commissione attraverso tutte le sue udienze ha approvato anche gli attacchi più pesanti al diritto dell’artista di esprimere liberamente e onestamente le sue idee nelle sue opere. Similmente, avete cercato di attaccare il suo diritto a partecipare alle organizzazioni sindacali per la difesa dei propri interessi. Ora state attaccando il suo diritto di pensare cercando con un’inquisizione pubblica di tirargli fuori le sue idee più intime e le sue convinzioni più private e personali. Nessuna istituzione sulla terra possiede questo potere sui cittadini americani. Voi violate i principi più elementari delle garanzie costituzionali quando richiedete a chiunque di sottoporre alla vostra approvazione le sue opinioni su razza, religione, politica, o qualsiasi altra

questione. Dobbiamo ricordare inoltre sempre che la difesa dei diritti costituzionali non è semplicemente qualcosa da invocare quando serve, ma è un obbligo chiaro e continuo imposto a tutti noi in ogni momento. Siamo, come cittadini, letteralmente tenuti a difendere la Costituzione contro ogni abuso e a difendere la barriera protettiva che essa pone tra il cittadino e gli inquisitori del governo. Già i gentiluomini di questa Commissione e altri come loro hanno prodotto in città un’atmosfera politica acre fatta di paura e repressione; un posto in cui l’antisemitismo trova un sicuro rifugio dietro a esami segreti sulla lealtà; una città nella quale nessun leader sindacale può più fidarsi del suo telefono; una città nella quale i vecchi amici esitano a salutarsi l’un l’altro in luoghi pubblici; una città nella quale uomini e donne che dissentono anche di poco dall’ortodossia che cercate di imporre, si fidano a parlare solo dentro le automobili o all’aria aperta. Voi avete prodotto una città che è alla vigilia del suo rogo del Reichstag. C’è puzza di fumo in questa stanza per quelli che ricordano la storia tedesca dell’autunno del 1932.

3. Dichiarazione di Herbert Biberman Ho ascoltato, assistito e letto i verbali delle cosiddette «testimonianze», delle cosiddette «udienze», della cosiddetta «Commissione per le attività antiamericane», che il caricaturista inglese Low ha definito come «una versione da dieci centesimi del modo di vita americano». Non penso che questa Commissione sia stupida; penso che sia malvagia. Non è del comunismo che avete paura, ma della mente umana, della ragione. Non è sulla violenza che questa Commissione sta investigando, ma sui cittadini più onesti. Questa Commissione non vuole mandare all’aria Karl Marx, ma il modo costituzionale di vita americana. Intimidazioni e angherie politiche sono sempre un orribile male. Contro tale male in America c’è, e c’è sempre stata, solo una protezione: la legge fondamentale, la coscienza, la mente e il cuore degli americani, incarnati nella Costituzione degli Stati Uniti e nei suoi dieci emendamenti successivi, il Bill of Rights. Se questa Commissione fosse stata attiva un secolo fa non c’è dubbio che avrebbe votato contro il Bill of Rights, e sarebbe finita nella spazzatura della storia insieme ai tories di quel tempo. Ma adesso c’è la Costituzione che vi ostacola nel vostro percorso, e così cercate di sopprimerne l’effetto, angariando i cittadini americani affinché vengano meno al loro rispetto per la libertà individuale. Questa Commissione, trascurando il diritto dell’individuo di pensare ciò che più gli piace almeno con la stessa libertà con cui sceglie la sua marca di sigarette, tenta di deviare dalle regole del Bill of Rights stabilendo delle «regole di accusa». Coccola perciò il signor Adolphe Menjou per il suo infido consiglio: «Non durerai a lungo se sei identificato come comunista» e lo ringrazia per la sua collaborazione nella sovversione del concetto americano di libertà dell’individuo. Il Bill of Rights non fu concepito per proteggere lo status quo. Quelli che vinsero la guerra per l’indipendenza nazionale capirono molto bene che lo

status quo è sempre in grado di badare alla sua propria sicurezza. Il Bill of Rights fu concepito per quelli che ne hanno più bisogno, quelli con visioni più larghe che lo status quo mai rappresenta. A quelli che vedono più lontano, che sognano orizzonti più vasti per lo sviluppo dell’America, che credono nella perfettibilità dell’uomo e nella fratellanza, per loro è stato scritto il Bill of Rights, per garantire loro la calma, la tranquillità mentale e la dignità personale necessaria per espandere il sogno americano difendendolo e spingendolo per una sua più piena realizzazione. Contro questo diritto di vedere, la Costituzione e il Bill of Rights stabiliscono che non possono essere opposti altri diritti. Ma la Commissione ora sta tentando di schiacciare questo inalienabile diritto e porre fine alla calma, alla sicurezza, e alla dignità personale di cui si alimenta. Ciò è stato tentato spesso nella storia del nostro paese, da vari gruppi di burocrati. Tali tentativi hanno avuto i loro momenti, le loro ore, anche i loro anni ma non sono mai riusciti a durare per un intero decennio nella lunga vita della Repubblica. L’America cambierà, ma non nel suo contrario. Gli americani hanno sviluppato un senso di accesso facile ai fori pubblici di ogni livello e questo ci ha abituati a discutere molto naturalmente, continuamente e appassionatamente dei nostri sentimenti, delle nostre opinioni e dei nostri desideri. Non sono mai stato un patito dei comizi. Mi sono sempre sembrati ottusi, non creativi e tesi a fregare la gente. La mia visione di questo o quel problema spesso non coincide con l’accettazione popolare. Alla luce della Storia qualche volta ho verificato che ero in errore, ma mai ho sentito la necessità di scusarmi per tale errore, o vantarmi per un successo, perché mi sono sempre sentito unito ai miei concittadini nel lento faticoso lavoro per migliorare le nostre condizioni sociali nell’ambito delle nostre leggi. Se fossi colpevole di atti di forza e violenza non sarei stato chiamato di fronte a questa Commissione. Sarei davanti ai tribunali. E se fossi colpevole di tali atti contro il mio paese è nei tribunali che dovrei essere condannato. È perché non ho commesso atti contro il mio paese che sono qui. È perché sono stato un cittadino attivo che sono qui. Nessun cittadino accidioso, pigro, soddisfatto o cinico è stato portato qui, con l’eccezione di quelli venuti per servire e che seguono le idee dei membri di questa Commissione. Sono qui perché amo, credo e rispetto, e ho una fede illimitata nei miei concittadini. Sono stato portato qui perché confido in loro e credo che sapranno realizzare una vita sociale ed economica più ricca sotto la Costituzione, eliminando ogni pregiudizio e ineguaglianza nonostante gli sforzi per prevenirli di questa Commissione. Sono stato portato qui perché credo che il popolo americano non interromperà la santa lotta per un mondo in pace, non si farà coinvolgere in una guerra isterica. Non sono stato portato qui perché ho fatto questi sogni ma perché ho commesso il peccato di dedicare dieci anni [della mia vita] a sostegno della mia fede nel popolo americano sotto il nostro Bill of Rights. Per questo ho guadagnato l’odio di questa Commissione, e di tale odio sono specialmente orgoglioso. Poiché la mia vita professionale e la mia vita come uomo libero è stata così

irreprensibile, questa Commissione per le attività antiamericane tenta di imbarazzarmi e intimidirmi, senza potere o autorità dalla Costituzione, creando categorie come «agente straniero», «sovversivo». Cercate di impressionarmi spaventando gli americani e mettendoli contro di me e contro i molti, molti altri americani che, con inesorabile, forte e paziente persistenza, hanno tentato di essere cittadini effettivi nei loro poteri. Tra questa Commissione e i diciannove testimoni «ostili» vi è un abisso non superabile. Noi siamo il polo opposto della vita americana. O questa Commissione sarà abolita o sarà lei ad abolire il Bill of Rights e l’ american way of life. Questa questione non sarà sciolta dalla Commissione o da noi ma dal popolo americano. E la decisione sarà una decisione per la continuazione del governo costituzionale e popolare nel nostro paese. In questa audizione non mi baserò solo sulla Costituzione, lotterò per lei e la difenderò contro qualunque intimidazione possibile. Anche in quest’aula io sono un uomo libero, abituato alla calma, dura, paziente e appassionata difesa di quello che penso essere americano. C’è un inno che cantiamo, che insegna ai nostri bambini a cantare, che dice così: My Sweet Of Land Land From Let Freedom ring!

country

‘tis land thee

where

our of every

of of I fathers Pilgrim’s mountain

thee liberty sing died pride side

4. Dichiarazione di Adrian Scott Non credo sia necessario che io alzi la voce contro la guerra aperta che questa Commissione per le attività antiamericane ha dichiarato contro le libertà civili e la libertà del cinema. Voci più eloquenti della mia si sono già espresse. Desidero parlare d’altro. Gradirei parlare della «guerra fredda» che questa Commissione ha dichiarato contro gli ebrei e i neri. Le prove sono chiare e incontrovertibili. Edward Dmytryk, che diresse Odio implacabile, e io, che fui il produttore di Odio implacabile, abbiamo invitato la Commissione a visionare il film. I nostri inviti sono stati ignorati o rifiutati. Abbiamo fatto quel film e ne siamo orgogliosi. Siamo orgogliosi di prestare le nostre voci, ancorché di poco conto, nella lotta enorme mossa per distruggere la pratica antiamericana dell’antisemitismo. Noi detestiamo l’antisemitismo, detestiamo l’anticattolicesimo, detestiamo l’antiprotestantesimo, detestiamo qualunque pratica che degradi qualsiasi minoranza o religione o persona. Ci aspettavamo che la Commissione rifiutasse il nostro invito a visionare e discutere Odio implacabile. Ci aspettavamo che rifiutassero di discutere le misure per abolire l’antisemitismo. Farlo sarebbe stato incompatibile con la nota bigotteria della Commissione e di chi li sostiene. Individualmente, un membro di questa Commissione potrebbe protestare dicendo di non essere antisemita. Potrebbe dirci che alcuni dei suoi migliori amici sono ebrei, o che alcuni dei suoi migliori elettori sono ebrei. O potrebbe dire che ama le persone di colore e che le persone di colore lo amano, e che,

nel suo circondario elettorale l’uomo di colore sa che lui l’ama. Ma nonostante queste eventuali affermazioni di innocenza individuale, l’evidenza della colpevolezza della Commissione nel suo insieme è cinicamente chiara. Lasciamo che il commissario ci dica che lui non è antisemita. Eppure la folla selvaggia che sostiene l’antisemita Gerald K. L. Smith sostiene anche lui. Lasciamo che il commissario ci dica che lui non è contro le persone di colore. Eppure il Ku Klux Klan e tutti i gruppi dell’odio lo amano e lavorano per lui. Lasciamo che il commissario bisbigli dietro le quinte che disapprova lo spargitore d’odio John Rankin del Mississippi. Ma l’ha disconosciuto pubblicamente? Ha ripudiato la sua dottrina razzista? Ha, cosa più importante, richiesto una legge contro le dottrine razziste di John Rankin? Lasciamo che il commissario ci dica che lui è contrario al trattamento inumano delle minoranze e alla cattiva edilizia dei ghetti antigienici. Ma che misure ha promosso il commissario per cambiare tutto ciò? Quali misure evidenti ha proposto per assistere le minoranze? Che ha fatto per incentivare l’occupazione? Lasciamo che il commissario ci dica che lui non è antisemita. Ma lasciamo che i verbali registrino che lui fa gli interessi degli antisemiti. Lasciamo che il commissario ci dica che lui non è antinegro. Ma lasciamo che i verbali registrino che lui fa gli interessi del Ku Klux Klan. Oggi questa Commissione prende parte nel tentativo di distruggere diciannove testimoni citati in giudizio. La storia di questi uomini è chiara. Hanno sempre rappresentato problemi che sono comuni alla grande massa delle persone americane. Molte volte nei loro film hanno presentato l’ebreo e il nero (e anche altre minoranze) in termini lontani dagli stereotipi. Hanno obbedito alla regola intransigente di trattare tutte le minoranze con dignità. Questi uomini si oppongono attivamente a Gerald K. L. Smith, al Ku Klux Klan, alla Black Legion, ai Columbians e a tutti i tipi di gruppi dell’odio. Non solo sono contro l’oppressione delle minoranze, ma fanno anche qualche cosa al riguardo. La Commissione ora sta tentando di spogliare questi diciannove uomini del loro lavoro, per stabilire una lista nera. Con la calunnia, l’oltraggio, la Commissione sta tentando di spaventare e intimidire questi uomini e i loro datori di lavoro per far tacere quelle voci che hanno parlato per l’ebreo e l’uomo di colore e gli altri. La Commissione vuole zittire queste voci eloquenti. Questa è la guerra fredda ora mossa dalla Commissione per le attività antiamericane contro le minoranze. La prossima fase – guerra totale contro le minoranze – non necessita di alcuna elaborazione. La storia ci ha mostrato quel che è accaduto nella Germania nazista. Io e i miei colleghi non ci faremo intimidire. Non ci faremo spaventare. Non faremo mettere la sordina alle nostre voci. Non permetteremo di sbatterci in campi di concentramento. Noi continueremo a prestare la nostra voce per ottenere giustizia per gli ebrei, i neri e per tutti i cittadini. Ecco un parziale profilo delle opere di questi uomini sulle minoranze:

Robert Rossen ha scritto il film contro il linciaggio Vendetta ( They won’t Forget, 1937, di Mervyn LeRoy). Il suo ultimo film è Anima e corpo ( Body and Soul, 1947) che tratta il nero e l’ebreo con la dignità di uomini liberi. Howard Koch ha scritto Casablanca ( id. , 1942, di Michael Curtiz) e In questa nostra vita ( In this our Life, 1942, di John Huston). Il nero è trattato onestamente come un uomo libero. Albert Maltz ha scritto C’è sempre un domani e The House I Live in in cui canta Frank Sinatra. Entrambi i film condannano l’antisemitismo e l’intolleranza religiosa e razziale. Waldo Salt ha scritto The Commington Story, per l’Owi. Un attacco all’antisemitismo. Ring Lardner jr. , ha scritto Brotherhood of Man (1945, di Robert Cannon), che chiede più tolleranza tra le religioni. Herbert Biberman ha prodotto La città del jazz ( New Orleans, 1947, di Arthur Lubin), salutato dalla stampa della gente di colore come trattamento intelligente di tematiche afroamericane. Lewis Milestone ha diretto Uomini e topi ( Of Mice and Men, 1939) rappresentando l’uomo nero con dignità. E, non dimentichiamocelo, l’esercito nazista fermò nel 1931 l’uscita in Germania del suo film pacifista All’ovest niente di nuovo. Lester Cole ha scritto Nessuno sfuggirà ( None Shall Escape, 1944, di André de Toth) denunciando la brutalità nazista contro gli ebrei. Richard Collins ha scritto Don’t be a Sucker (1943) per l’esercito, poi uscì nel resto del paese. Denunciava l’antisemitismo e gli odi dell’etnia. Irving Pichel ha diretto L’ombra dell’altro ( A Medal for Benny, 1945) trattando la minoranza messicana con dignità. Il popolo americano permetterà a questa Commissione bigotta di giudicare questi uomini e le loro opere?

5. Dichiarazione di Edward Dmytryk Credo fermamente che la democrazia viva e prosperi solo nella libertà. Questo paese ha sempre adempiuto più completamente al suo destino quando il popolo, attraverso i propri rappresentanti, ha permesso di legiferare con grande libertà. I periodi scuri nella nostra storia sono stati quelli nei quali le nostre libertà sono state soppresse. Alcune di quelle ombre esistono oggi nella continua oppressione di certe minoranze. Nei miei ultimi anni a Hollywood mi sono dedicato, con film come Odio implacabile, a una lotta contro queste oppressioni razziali e pregiudizi. Il mio lavoro parla per me. Credo che parli abbastanza chiaramente da permettere al popolo di questo paese e a questa Commissione, che non ha diritto a indagare nelle mia idee politiche, di giudicare i miei pensieri e le mie idee dalle mie opere, e solo da loro. La libertà che è così necessaria per il progresso di una nazione democratica è anche indispensabile per il pieno sviluppo di qualsiasi istituzione all’interno della nazione che abbia a che fare con idee e ideali. Perché senza l’espressione libera delle idee, sia pro che contro, nessuna nazione può avere speranza di rimanere libera. Questo principio è stato affermato molto tempo fa, con parole migliori delle mie. È una vergogna che debba essere ripetuto qui davanti a questa Commissione.

Ma l’intenzione è chiara. Questa Commissione ha richiesto che i produttori «pulissero la loro casa», sotto la soprintendenza dei membri della Commissione. Loro individueranno i nomi e i produttori dovranno inserirli in una lista nera. Ma dove finirà questa lista? La storia è troppo chiara sulle procedure di questo genere. Non c’è fine. Un membro della Commissione è antisemita? Costringerà i produttori a mettere in lista nera chi deplora l’antisemitismo. Un membro della Commissione è contro il Sindacato? Costringerà i produttori a includere in lista nera chi è in favore del Sindacato. Un membro della Commissione è contro il piano per l’edilizia per i poveri? Costringerà i produttori a mettere in lista nera chi ne è a favore. E così riuscirà, anche senza una legislazione speciale, a strozzare artisticamente e finanziariamente, una delle industrie più grandi degli Stati Uniti. Per lui sarà possibile, attraverso minacce e intimidazioni, censurare efficacemente uno schermo che solo negli ultimi anni ha cominciato a emergere da un mondo di fantasia, realizzando opere che ricordano le proprie responsabilità alla gente di questa nazione e del mondo. Si sta facendo questo tentativo di censura, con un tocco di umorismo nefasto, proprio nel momento in cui, come è stato rimarcato da ogni critico responsabile nel paese, film stranieri hanno grande successo proprio a causa del loro libero approccio ai problemi dell’uomo del moderno. Gli uomini che sono stati attaccati qui, e altri innumerevoli a Hollywood, hanno prodotto un insieme di opere che esprime il loro punto di vista e che sono completamente aperte a qualsiasi ispezione. Loro hanno sempre cercato di capire. Loro hanno predicato anche l’eliminazione di certe istituzioni, sì! L’eliminazione dell’istituzione della povertà, quella della cassa malattia, dell’intolleranza razziale e di tutto quel fanatismo che impedisce agli uomini di vivere in pace capendosi l’uno con l’altro. Se la Commissione riesce a costringere i produttori a schedare questi uomini ciò può produrre solamente la distruzione dell’industria nella quale ora lavorano. Perché la perdita di questi uomini condurrà inevitabilmente all’appiattimento delle idee che li rappresentano, e che hanno mostrato in grandi film come I migliori anni della nostra vita ( The Best Years of Our Life, 1946, di William Wyler) , C’è sempre un domani, Odio implacabile ecc. Il deterioramento che ne risulterà alla qualità del cinema americano porterà all’estinzione dell’industria, sia come espressione artistica che come guadagno. Non posso unirmi alla svendita del principio di libera espressione ma, insieme ai miei colleghi, devo battermi nell’interesse dell’industria intera.

6. Dichiarazione di Ring Lardner jr. Voglio parlare brevemente di due questioni che mi sembrano molto pertinenti a questi procedimenti. La prima è una dichiarazione che è stata contestata da alcuni dei vostri testimoni. Mio padre era uno scrittore della migliore tradizione letteraria americana. Quella tradizione è molto vicina all’ideale democratico della vita americana. Non solo io ma anche i miei tre fratelli sono stati scrittori. Due di questi fratelli sono morti ammazzati in battaglie diverse della stessa grande lotta per preservare quell’ideale democratico: uno è morto come membro della Brigata

di Abramo Lincoln in Spagna nel 1938, l’altro, corrispondente di guerra, è morto in Germania nel 1944. Io non voglio vantarmi del genio di mio padre o del coraggio dei miei fratelli, ma sostengo che tutto ciò che ho fatto e ho scritto è stato in linea con lo spirito che guidò le loro opere, la loro vita e la loro morte. La mia occupazione principale è quella di sceneggiatore. Ho scritto molti film tra cui La donna del giorno ( The Woman of the Year, 1942, di George Stevens) per il quale ricevetti un premio Oscar. Ho scritto Lorena’s Cross, sull’antifascismo in Francia durante la guerra, la versione per lo schermo del dramma Tomorrow’s World, sugli effetti dell’educazione nazista e l’opera eroica del nostro Ufficio dei Servizi Strategici. Ho scritto un cartoon intitolato La fratellanza umana, basato sull’opuscolo, Le razze umane demolendo il mito che esista una qualsiasi differenza fra persone dalla pelle di colore diverso o di diversa origine geografica. Non mi importa sapere che genere di documenti assurdi producono i vostri investigatori da fonti innominate e che descrivono così perversamente mie affiliazioni; addirittura sotto il torvo pseudonimo di «Ring L. ». In tutti i miei lavori non troverete una sola parola contro la democrazia, nessuna espressione di antisemitismo, o contro i neri o di opposizione ai principi democratici americani come io li intendo. Veniamo alle pretese attività antiamericane a Hollywood. L’atmosfera là, dove vivo da dieci anni, è notevolmente diversa da quella che respiro in questi piccolo consesso di Washington a cui sono esposto da dieci giorni. Ci sono là alcune persone spaventate: uomini come Adolphe Menjou e John C. Moffitt che gettano così tanti sguardi furtivi alle loro spalle che corrono un serio rischio di slogatura. I sentimenti antiamericani sono espressi liberamente e i loro portavoce si congratulano di cuore. C’è qui una tale paura degli effetti della libertà di parola che a molti è impedito di leggere le proprie dichiarazioni o vengono interrotti a metà di una frase affinché non possano spiegare troppo a chi segue le udienze quello che sta accadendo. Quello che più mi preoccupa è il risultato ultimo che verrebbe dal conseguimento del vostro scopo. Il Presidente martedì ha detto che c’era materiale sovversivo nei film e ha proposto per il futuro una lista nera nell’industria. I produttori non hanno detto se sono disposti a farsi incastrare in questo modo, ma se mai lo facessero, il fatto che io non potrei più svolgere la mia professione sarebbe di poco conto. L’effetto veramente importante sarebbe che i produttori perderebbero controllo sui loro film, e che poi lo stesso destino toccherebbe alla scuola, alla radio e ai giornali. A Hollywood siamo già soggetti a una censura che la maggior parte degli artisti vede come vuota e infantile. Sotto il genere di censura che questa inquisizione minaccia, un attore non potrà più dire neanche «ti amo» senza una dichiarazione autenticata che verifichi che l’attrice è di pura razza bianca, protestante e magari dell’antico stock dei confederati!

7. Dichiarazione di Lester Cole Voglio dire dall’inizio che sono un americano fedele, che difendo la Costituzione del mio paese, che respingo l’uso della forza e della violenza, e che non sono un agente di un paese straniero.

Questa Commissione ha annunciato molte volte il suo interesse nei fatti pertinenti all’inchiesta. Credo che molti di quei fatti siano chiariti da questa asserzione. Sono uno sceneggiatore per il cinema dal 1932. Ho scritto trentasei drammi per lo schermo, i titoli degli stessi e i nomi delle compagnie che li hanno prodotti sono scritti sulle pellicole. Stavo lavorando a Hollywood nel 1933 quando gli sceneggiatori dovettero fronteggiare un taglio arbitrario nei loro salari del 50%, e per poter trattare coi produttori gli scrittori formarono il Sindacato sceneggiatori. All’inizio ci furono gruppi nell’industria che tentarono di creare conflitti con la stessa tecnica che state usando voi della Commissione. Dopo anni di tentativi falliti da parte di James Kevin McGuinness, di Rupert Hughes e altri dei vostri amichevoli testimoni per disgregare il Sindacato sceneggiatori, e con essa l’industria, un appello disperato fu fatto a Martin Dies, il primo Presidente di questa Commissione. O forse fu Martin Dies a fare l’appello; in ogni caso l’indagine cominciò. Quando l’inchiesta di Dies fallì a causa della resistenza unita degli uomini e donne dell’industria, si iniziò una tattica nuova. Willie Bioff e George S. Browne furono chiamati nella baruffa. Questi due uomini, Browne e Bioff che diressero la Iatse, l’unione che fu rappresentata qui l’altro giorno dal signor Roy Brewer, si assunsero il compito di creare caos nell’industria. Misero grandi annunci pubblicitari dichiarando la loro intenzione di conglobare tutte le gilde indipendenti di Hollywood, chiaramente per un solo scopo: lo sradicamento del comunismo. Come Al Capone, che prima di essere incarcerato fece appello al popolo affinché «sradicasse» tutte le influenze antiamericane e sovversive dalla vita americana, incluso il comunismo. Anche l’annuncio di Browne e Bioff fu pubblicato per una strana coincidenza poco prima che fossero incarcerati per l’estorsione di enormi somme di denaro: una scossa per l’industria del cinema. Da quindici anni questi uomini hanno calunniato, sparso pettegolezzi malevoli, hanno diffamato e usato ogni metodo tranne la procedura democratica americana. Come negli anni passati si sono accordati con Martin Dies, e poi con gli estorsori Browne e Bioff, oggi McGuinness crede di potersi servire della Commissione come di un servo sciocco ed è invece vero il contrario. Da quello che ho visto e ho sentito in questa udienza, la Commissione lavora solo a una cosa e a una cosa solamente, assai diversa da ciò che preoccupa l’industria del cinema; volete semplicemente dominare il cinema o mandarlo in rovina. Questa Commissione è determinata a seminare paura con la lista nera per intimidire la produzione, distruggere le gilde democratiche e i sindacati interferendo coi loro affari interni e attraverso la loro distruzione portare caos e conflitto in un’industria che sta solo cercando metodi democratici per risolvere i suoi problemi. Questa Commissione è portatrice della guerra fredda contro la democrazia. Io so che la gente del cinema non vi permetterà di riuscirsi.

Bibliografia

Per l’elenco completo delle fonti e della bibliografia, rimando alla tesi di laurea su cui questo lavoro si basa,Il maccartismo e il cinema americano (1947-1967), discussa il 22 marzo 1999 presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università «La Sapienza» di Roma. Una copia della tesi è disponibile presso l’archivio tesi del Dipartimento di Studi storici della stessa facoltà.

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Pellicole accusate di contenere un «messaggio comunista» Afraid to Talk(1932), regia di Edward L. Cahn, sceneggiatura di Albert Maltz e George Sklar. Soak the Rich(1932), regia e sceneggiatura di Ben Hecht e Charles McArthur. Marco il ribelle (Blockade , 1938), regia di William Dieterle, sceneggiatura di John Howard Lawson. Sinners in Paradise(1938), regia di James Whale, sceneggiatura di Harold Buckley. We who are Young(1940), regia di Harold S. Bucquet, sceneggiatura di Dalton Trumbo. Miss V. from Moscow(1943), regia di Albert Herman, sceneggiatura di Sherman L. Lowe e Arthur St. Claire. The North Star(1943), regia di Lewis Milestone, sceneggiatura di Lillian Hellman. Song of Russia(1943), regia di Gregory Ratoff, sceneggiatura di Richard Collins e Guy Endore. Tender Comrade(1943), regia di Edward Dmytryk, sceneggiatura di Dalton Trumbo. Counter Attack(1945), regia di Zoltan Korda, sceneggiatura di John Howard Lawson. Odio implacabile(Crossfire, 1947), regia di Edward Dmytryk, sceneggiatura di Adrian Scott e John Paxon.

Pellicole apertamente anticomuniste Ninotchka(id. , 1939), regia di Ernst Lubitsch, sceneggiatura di Charles Brackett, Billy Wilder, Walter Reisch. Il sipario di ferro(Behind the Iron Curtainalias The Iron Curtain, 1948), regia di William Wellman, sceneggiatura di Igor Gouzenko e Milton Krims. Sofia(1948), regia di John Rheinhardt, sceneggiatura di Frederick Stephani. Bells of Coronado(1949), regia di William Witney, sceneggiatura di Sloan Nibley. Alto tradimento(Conspirator, 1949), regia di Victor Saville, sceneggiatura di Sally Benson. Guilty of Treason(1949), regia di Felix E. Feist, sceneggiatura di Emmet

Lavery. Schiavo della violenza(I Married a Communist, 1949), regia di Robert Stevenson, sceneggiatura di Robert H. Andrews. Danubio rosso(The Red Danube, 1949), regia di George Sidney, sceneggiatura di Gina Klaus. The Red Menace(1949), regia di Robert G. Springsteen, sceneggiatura di Albert DeMond. Walk a Crooked Mile(1949), regia di Gordon Douglas, sceneggiatura di George Bruce. I was a Communist for the Fbi(1951), regia di Gordon Douglas, sceneggiatura di Crane Wilbur. The Whip Hand(1951), regia di William Cameron Menzies, sceneggiatura di George Bricker. Arctic Flight(1952), regia di Lew Landers, sceneggiatura di George Bricker e Robert Hill. Assignment: Paris(1952), regia di Robert Parrish, sceneggiatura di William Bowers. The Atomic City(1952), regia di Jerry Hopper, sceneggiatura di Sydney Boehm. Marijuana(Big Jim McLain, 1952), regia di Edward Ludwig, sceneggiatura di Richard English e James Grant. Corriere diplomatico(Diplomatic Courier, 1952), regia di Henry Hathaway, sceneggiatura di Peter Cheyney e Liam O’Brien. Red Snow(1952), regia di Harry Franklin e Boris Petroff, sceneggiatura di Orville Hampton e Tom Hubbard. The Steel Fist(1952), regia di Wesley Barry, sceneggiatura di C. K. Kivari. La spia(The Thief, 1952), regia di Russell Rouse, sceneggiatura di Clarence Greene. Walk East on Beacon Street(1952), regia di Alfred Werker, sceneggiatura di Leonard Heideman. My Son John(1953), regia Leo McCarey, sceneggiatura di Myles Connolly. Salto mortale(Man on a Tightrope, 1953), regia di Elia Kazan, sceneggiatura di Robert Sherwood. Arrivò l’alba(Never Let me Go, 1953), regia di Delmer Daves, sceneggiatura di George Froeschel. Savage Drums(1953), regia di William Berke, sceneggiatura di Fenton Earnshaw. I ribelli dell’isola(Savage Mutiny, 1953), regia di Spencer Gordon Bennet, sceneggiatura di Sol Shor. Gente di notte(Night People, 1953), regia di Nunnally Johnson, sceneggiatura di Jed Harris. Prisoner of War(1954), regia di Andrew Marton, sceneggiatura di Allen Rivkin. L’imputato deve morire(Trial, 1955), regia di Mark Robson, sceneggiatura di Don Mankiewicz. The Commies are Coming, the Commies are Coming(1957), regia di George Waggner, sceneggiatura di Vincent Fotre.

Pilota razzo e la bella siberiana(Jet Pilot, 1957), regia di Josef von Sternberg, sceneggiatura di Jules Furthman. La bella di Mosca(Silk Stockings, 1957), regia di Rouben Mamoulian, sceneggiatura di Abe Burrows.

Pellicole che hanno rappresentato una reazione all’Hcua Miracle(Luci del varietà, 1950), regia e sceneggiatura di Federico Fellini e Alberto Lattuada. Mezzogiorno di fuoco(High Noon, 1952), regia di Fred Zinnemann, sceneggiatura di Carl Foreman. Viva Zapata!(id. , 1952),regia di Elia Kazan,sceneggiatura di John Steinbeck. The Caine Mutiny(L’ammutinamento del Caine, 1954), regia di Edward Dmytryk, sceneggiatura di Stanley Roberts. Il sale della terra(Salt of the Earth, 1954), regia di Herbert Biberman, sceneggiatura di Michael Biberman e Michael Wilson. Les sorcières de Salem(1957), regia di Raymond Rouleau, sceneggiatura di Jean-Paul Sartre. Un re a New York(A King in New York, 1957), regia e sceneggiatura di Charlie Chaplin. Intrigo internazionale(North by Northwest, 1959), regia di Alfred Hitchcock, sceneggiatura di Ernest Lehman.

Pellicole che hanno segnato la rivincita degli inquisiti di Hollywood M. A. S. H. (M*A*S*H, 1970), regia di Robert Altman, sceneggiatura di Ring Lardner Jr. E Johnny prese il fucile(Johnny Got his Gun, 1971), regia e sceneggiatura di Dalton Trumbo. Azione esecutiva(Executive Action, 1973), regia di David Miller, sceneggiatura di Dalton Trumbo. Come eravamo(The Way we Were, 1973), regia di Sydney Pollack, sceneggiatura di Arthur Laurens. I tre giorni del condor(Three Days of the Condor, 1975), regia di Sydney Pollack, sceneggiatura di Lorenzo Semple Jr. Il prestanome(The Front, 1976), regia di Martin Ritt, sceneggiatura di Walter Bernstein, con Woody Allen, Zero Mostel. Fellow Traveller(1989, film per la Tv) regia di Philip Saville, sceneggiatura di Michael Eaton. Indiziato di reato(Guilty by Suspicion, 1991), regia e sceneggiatura di Irwin Winkler.

Documentari The Hoaxters(1952), regia e sceneggiatura di Herman Hoffman McCarthy: Death of a Witch-Hunter(1971), regia di Emile DeAntonio. Hollywood on Trial(1976), regia di David Helpern, sceneggiatura di Arnie Reisman. Considerato uno dei migliori documentari sulle attività dell’Hcua a Hollywood, si avvale della voce narrante di John Huston. Red Scare(1983), regia di Marc Pilvinsky, sceneggiatura di Troy Grant. Roger & Me(1989), regia e sceneggiatura di Michael Moore, con Michael

Moore, Roger B. Smith, Ronald Reagan, Ronda Britton. Citizen Cohn ( 1992) regia di Frank Pierson, sceneggiatura di David Franzoni. Red Hollywood(1996), regia di Thom Andersen e Noël Burch. Bowling a Columbine(Bowling for Columbine, 2002), regia e sceneggiatura di Michael Moore, con Michael Moore, Charlton Heston, Bill Clinton, George W. Bush. Fahrenheit 9/11(2004), regia e sceneggiatura di Michael Moore, con Michael Moore, George W. Bush, Lila Lipscombe.

Siti internet http://www. lib. berkeley. edu/MRC/blacklist. html http://www. bampfa. berkeley. edu/ http://www. lib. washington. edu/exhibits/AllPowers/film. html http://www. crocker. com/~blklist/about_the_show. html http://www. lib. msu. edu/spc/digital/radicalism/subj_struct. html#Hollywood http://us. imdb. com/ http://www. english. upenn. edu/~afilreis/50s/home. html http://www. moderntimes. com/palace/blacklist. htm http://www. cobbles. com/simpp_archive/linkbackups/huac_blacklist. htm http://www. spartacus. schoolnet. co. uk/UsAhollywood10. html http://www. pbs. org/newshour/bb/entertainment/july-dec97/blacklist_10-24. html http://www. english. uiuc. edu/maps/mccarthy/blacklist. html http://www. rajuabju. com/literature/hollywoodblacklist. html

Indice

Introduzione Prefazione di Oliviero Diliberto 1. L’epoca maccartista 1. 1. 1. 1.

1. 2. 3. 4.

Il «maccartismo» prima di McCarthy (1938-1946) La situazione dopo il secondo conflitto mondiale (1947-1950) McCarthy e il «maccartismo» (1950-1954) Il «Progetto Venona» e le nuove polemiche

2. La nascita della lista nera anticomunista a Hollywood

2. 1. Le liste nere di Hollywood 2. 2. «Hollywood Babilonia» 2. 3. Il «Codice Hays» 2. 4. Le prime influenze comuniste e l’organizzarsi dell’opposizione 2. 5. La nascita dell’Alleanza cinematografica per la difesa degli ideali americani (Mpapai) 2. 6. Maggio 1947: l’inchiesta a porte chiuse prende il via 2. 7. Giugno 1947: l’assemblea dei produttori 2. 8. Settembre 1947: la Commissione sceglie i testimoni 2. 9. La tattica difensiva dei diciannove testimoni «ostili» 2. 10. Il dilemma degli «ostili»: Primo o Quinto emendamento? 2. 11. 20 ottobre 1947: l’inchiesta prende il via 2. 12. I testi «amichevoli»: le deposizioni di Jack Warner e Adolphe Menjou 2. 13. Gli «amichevoli»: la deposizione di Gary Cooper 2. 14. Gli «amichevoli»: la deposizione di Ronald Reagan 2. 15. Gli «amichevoli»: la deposizione di Walt Disney

3. I Dieci di Hollywood. «Have you or have you ever been…?» 3. 3. 3. 3. 3. 3. 3. 3. 3.

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Gli «ostili»: la deposizione di John Howard Lawson La deposizione di Dalton Trumbo La deposizione di Albert Maltz Le deposizioni di Alvah Bessie, Samuel Ornitz e Herbert Biberman Le deposizioni di Edward Dmytryk e Adrian Scott Le deposizioni di Ring W. Lardner jr. e Lester Cole La particolare deposizione di Bertolt Brecht L’interruzione delle udienze dell’ottobre 1947 L’indagine del 1947: una valutazione

4. Le conseguenze delle udienze del 1947 4. 4. 4. 4. 4. 4. 4. 4.

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Gli studios prendono tempo e cercano di salvare l’immagine L’accusa di oltraggio e la Dichiarazione del Waldorf Le conseguenze della Dichiarazione del Waldorf 1951: il ritorno della Commissione per le attività antiamericane Il lunghissimo interrogatorio di Larry Parks La deposizione dotta di Paul Jarrico La deposizione «ingenua» di John Garfield La seconda deposizione del pentito Edward Dmytryk

4. 4. 4. 4. 4. 4. 4. 4.

9. La deposizione volontaria del pentito Elia Kazan 10. Il ritorno di Ronald Reagan 11. La deposizione di Lillian Hellman 12. La differenza tra le udienze del ’47 e quelle del ’51-’53 13. La deposizione sarcastica di Zero Mostel 14. L’American Legion e l’industria della «clearance » 15. Le altre agenzie di «clearance» 16. La lista grigia e la composizione della lista nera

5. Gli effetti della lista nera: il mercato nero 5. 5. 5. 5. 5. 5. 5. 5.

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Paria in patria, eroi all’estero «Il sale della terra»: nascita di un mito L’interrogatorio di Arthur Miller «Vamos a Mexico!» La nuova frontiera dei Dieci La fine dell’esilio e l’inizio del mercato nero Il ruolo dei produttori 1960: la fine della lista nera Il rientro degli schedati

6. Conclusioni 6. 6. 6. 6. 6. 6. 6.

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Perché Hollywood L’indagine come processo politico e suoi effetti Fascismo americano? Dopo l’11 settembre: neo-maccartismo? Hollywood dopo l’11 settembre: il ritorno alla politica La guerra di Michael Moore contro Bush W. Hollywood dopo l’11 settembre: le nuove liste nere

APPENDICE

1. Dichiarazione di John Howard Lawson 2.Dichiarazione di Dalton Trumbo  Bibliografia