Il cinema dopo il cinema. Dieci idee sul cinema americano 2001-2010 888012532X, 9788880125327

Siamo agli albori del nuovo secolo, eppure gli ultimi anni del Novecento sembrano preistoria. L'11 settembre, le gu

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Italian Pages 127 [124] Year 2014

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Il cinema dopo il cinema. Dieci idee sul cinema americano 2001-2010
 888012532X, 9788880125327

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Roj* Menarmi

Il volume contiene testi esclusivamente originali e presenta con­ tenuti inediti. L’autore ha tuttavia fatto tesoro di esiti occasionali, par­ ziali, preesistenti che hanno costituito la base di partenza per i dieci capitoli del libro. Desidero dunque ringraziare Mario Calderale e Se­ gnocinema, dove no potuto liberamente esercitare idee in abbozzo e primi approdi; gli amici, i redattori e i collaboratori della rivista che dirigo, (Sinergie, grazie ai quali ho certamente più imparato che inse­ gnato; le riviste Close-Up e La Valle dell’Eden-, il Premio Intemaziona­ le Sergio Amidei e il suo direttore Giuseppe Longo; gii amici e i col­ leghi del Dams di Bologna e della Laurea Magistrale in Cinema e Produzione Multimediale, e gli studenti del corso di Cinema e Studi Culturali, dove ho messo alla prova alcuni concetti chiave del libro; la redazione Cultura e Tempo Libero del Corriere della Sera - Corrie­ re di Bologna, sulle cui pagine la libera attività critica quotidiana mi ha consentito di maturare ulteriormente spunti e intuizioni; e, natu­ ralmente, il mio grazie va a tutto l’insostituibile, stimolante e affet­ tuoso gruppo di lavoro dell’università di Udine/Dams Cinema Gori­ zia, dalla cui esuberanza intellettuale ho tratto vantaggi incalcolabili.

Voglio poi ricordare in particolar modo il magistero di Franco La Polla, di cui spero questo studio non sia indegno, e dedicare alla sua memoria il presente volume, che tanto deve ai suoi insegnamenti. Ad Alice Autelitano il consueto ringraziamento per il confronto culturale.

Indice

Introduzione

1. 2. 3. 4. 5. 6.

7. 8. 9. 10.

Cinema, storia, identità 11 settembre 2001. Cinema e film Post-11 settembre 2001. Cinema e film Generi cinematografici I: il macrogenere fantastico • Generi cinematografici II: generi in transito Autori in America: i maestri Autori in America II: “novi e novissimi” Serialità e moltiplicazione: cinema (americano) infinito ■ Questione di stile: Hbllywood, studios, indipendenti • Dopo il cinema?Film e new media

Indice dei nomi e dei film

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Introduzione

Cominciamo dal titolo. Il cinema dopo il cinema potreb­ be far sospettare che l’autore sostiene la tesi della fine del cinema. In verità, come si leggerà nelle pagine che seguo­ no e come mi sembra ormai evidente, il tramonto del cine­ ma - sempre che avvenga davvero, prima o poi - è quanto meno in ritardo. In sala ci si va ancora, gli incassi non sono crollati quanto si pensava, anzi l’ultimo Natale del decen­ nio, il 2009 statunitense, ha fatto registrare il record di tutti i tempi per guadagni complessivi, soprattutto grazie ad al­ cuni blockbuster di enorme portata. Dunque, i grandi eventi e i grandi film sono ancora tra noi. E d’altra parte proprio la forma-film non sembra messa in discussione ne­ gli anni Duemila. La rivalità degli altri mezzi di comunica­ zione visiva - Internet in testa - è sempre più aggressiva ma ciò ha solamente moltiplicato i luoghi nei quali fruiamo di film, dall’I-phone allo schermo del laptop, dalla televi­ sione LCD ai dvd Blue-Ray, etc. E quindi? Perché II cinema dopo il cinema? Perché qual­ cosa è cambiato. Comunque. Perché il cinema ha costituito il mezzo espressivo primario del secolo scorso e ha rappre­ sentato l’arte del Novecento per eccellenza. Perché oggi deve negoziare la propria esistenza in un contesto mediale completamente nuovo. Perché la psicologia degli spettatori è profondamente mutata. Perché i mezzi cognitivi e antro­ pologici del nostro essere-al-cinema vanno riconsiderati uno per uno. Quel che rimane del cinema, dunque, è un’attribuzione di carisma, una considerazione insieme so­ ciale e culturale che - invece di scomparire - sta rafforzan­ do di anno in anno lo statuto di un’arte oggi più ricono­ sciuta di ieri. 9

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L’intenzione tutt’altro che postuma di questo libro viene per di più irrobustita dalla presenza della parola cinema, che tra titolo e sottotitolo del volume compare ben tre vol­ te. E altre tre compare nel volume “gemello”, che dedichia­ mo al cinema italiano. Due libri autonomi ma concepiti in­ sieme, l’uno con l’altro, e l’uno per l’altro. Pensati esplicita­ mente per colmare un vuoto, quello di una saggistica di­ vulgativa che faccia suoi mezzi di analisi accademica (lo studio culturale, l’approccio sociologico, l’interrogazione pragmatica dei fenomeni di consumo, l’interpretazione multidisciplinare) senza rinunciare alla critica, all’attribu­ zione di valori, alla visione d’insieme dei film e della loro estetica. La decisione di affrontare in blocco un decennio trova le sue ragioni esplicite nella ricerca di unitarietà e di finitezza. Anzitutto, i puristi obietteranno che le decadi si contano dallo 0 fino a 9. E avrebbero ragione. Nel nostro caso, vista la libertà compositiva, si è preferito indicare una data simbolica che non giustificasse solamente un cri­ terio di periodizzazione cronologica ma presupponesse un significato. La domanda, allora, diventa: questo decennio, in Ameri­ ca, possiede caratteristiche precipue? La nostra risposta non può che essere affermativa. Tanto è vero che abbiamo scel­ to come terminus a quo il 2001, alludendo all’ll settembre, e come terminus ad quem la fine del decennio, segnata dalla crisi economica e dal faticoso avviarsi della Presiden­ za Obama, oltre che dal Nobel per la Pace consegnato al primo presidente nero della storia statunitense. Pochi anni in cui il mondo è cambiato, in cui l’America è passata dal presidente più discusso, conservatore e bellicista, George W. Bush, a quello più imprevedibile, democratico e inno­ vativo, Barack Obama. Scopriremo presto - a futura memo­ ria - se le speranze di cambiamento si saranno rivelate in­ fondate o se l’America si risveglierà in un mondo migliore. Certamente, gli anni Duemila delle Torri Gemelle, dell’an­ trace, dell’Iraq, dell’Afghanistan, della crisi di Wall Street, della pandemia, non hanno rappresentato un periodo feli­ ce per gli Stati Uniti. Non si tratta, quindi, di una periodizzazione casuale e affascinante (che pure esiste: il nuovo millennio, gli anni 10

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Zero, la sensazione di novità travolgenti, e così via), bensì di un dovere storiografico. L’ambizione di questi volumi è quella di non rischiare l’obsolescenza. I metodi di indagine, le valutazioni, gli approcci potranno un giorno apparire an­ tiquati - questo lo decideranno i lettori - non il progetto in sé, costruito per durare. Così come oggi leggiamo libri complessivi che analizzano l’epoca del Watergate, o il tem­ po di Reagan, o l’era di Weimar e li riteniamo preziosi tut­ tora (proprio perché isolano un periodo di studio e non hanno necessità di aggiornarlo), questo non è un volume che andrà modificato nel 2011, nel 2012, nel 2013 e così via. Al contrario, esso si concentra sugli anni 2001-2010, in­ dipendentemente da ciò che accadrà dopo. Dall’11 settem­ bre al Nobel di Obama. Dal crollo delle Torri alla crisi eco­ nomica. Da Ground Zero ad Avatar. Mentre scriviamo, giornali e tv stanno stilando le classifi­ che del decennio. I migliori libri, i migliori dischi, le inven­ zioni più importanti, gli avvenimenti epocali, da Facebook ai mutui subprime, ognuno dice la sua su quel che ha con­ tato nella sua vita e in quella della collettività. Eppure il ci­ nema, ancora oggi, è in grado di parlarci di se stesso e del­ l’universo là fuori. De) mezzo espressivo e della società tutt’intomo. Dei film e delle profonde, invisibili conformazio­ ni culturali che modella e da cui è perennemente modella­ to. Ecco perché è sembrato opportuno lavorare in questa direzione, senza alcuna mitizzazione del grande schermo, ma anzi ogni volta mettendo sull’asse ciò che va considera­ to importante, valido o semplicemente indicativo di una tendenza, e mai mentendo sulle fragilità e debolezze di questo linguaggio così indefinibile. D’altra parte, esiste chi, non senza ragione, contesta or­ mai la definizione stessa di cinema americano, visto che si parla sempre più di una Hollywood globalizzata, di siner­ gie produttive tra vari paesi, di set sparsi per il mondo per garantirsi vantaggi fiscali, e così via. Per chi scrive, invece, l’identità del cinema statunitense, che per comodità conti­ nuiamo a chiamare Hollywood (come luogo dello spirito, ormai), continua ad apparire evidente, solida, riconoscibile a dispetto della dimensione da world cinema che ormai ha assunto, o forse proprio grazie ad essa. 11

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Qualche indicazione su come si è deciso di strutturare il volume. Il richiamo alle “Dieci idee” che il lettore trova sul­ la copertina va considerato una piccola civetteria. Potevano essere definiti “dieci percorsi”, o “dieci mappe”, o altro an­ cora, ma ci piaceva tornare romanticamente alla primitiva, ottimistica definizione creativa dell’attività intellettuale: l’i­ dea. Di conseguenza, ogni capitolo ruota intorno a un tema e alla sua trattazione, come un nucleo che irradia interpre­ tazioni intorno a sé. Per favorire la lettura e alleggerir^ il te­ sto, non sono state inserite note a piè di pagina. Alla fine di ogni capitolo, in compenso, il lettore trova - in forma sinte­ tica e in ordine cronologico - i dieci film da vedere e le dieci letture consigliate per approfondire l’argomento, se vuole. Tutti i film, i libri e i saggi citati appartengono alla produzione cinematografica ed editoriale degli anni Due­ mila, e riguardano nella maniera più diretta possibile i temi trattati nelle righe precedenti (a scanso di equivoci su even­ tuali assenze illustri o scelte opinabili, che comunque an­ dranno imputate alla scelta arbitraria dell’autore). Alla fine di questa introduzione, dieci consigli di lettura serviranno a ricordarci dove eravamo rimasti a fine secolo scorso e all’i­ nizio del nuovo, con alcuni testi fondamentali da conside­ rare propedeutici al percorso che inizia nelle pagine se­ guenti.

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Dieci letture introduttive

Vincenzo Buccheri, Sguardi sul postmoderno. Il cinema contem­ poraneo. Questioni, scenari, letture, ISU, Milano, 2000; Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano, 2000; Leonardo Gandini, Roy Menarmi, a cura di, Hollywood 2000.1.1generi e i temi. Panora­

ma del cinema americano contemporaneo e Hollywood 2000. I. Gli autori. Panorama del cinema americano contemporaneo, Le Mani, Recco (Ge), 2001; Geoff King, La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era del blockbuster, Einaudi, To­ rino, 2004; Franco La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Il Castoro, Milano, 2004; Francesco Casetti, L’oc­ chio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano, 2005; Philippe Dubois, Lucia Ramos Monteiro, Alessan­ dro Sordina, a cura di, Oui, c’est du cinéma/Yes, It’s Cinema -

Formes et espaces de I'image en mouvement/Forms and Spaces of the Moving Image, Campanotto, Udine, 2009; Carlo Antonelli, a cura di, Gli Anni Zero 2001-2009. Almanacco del decennio con­ densato, Isbn, Milano, 2009; Roberto De Gaetano, L’immagine contemporanea. Cinema e mondo presente, Marsilio, Venezia, 2009. Peppino Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mito­ logie, Il Saggiatore, Milano, 2009.

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1. Cinema, storia, identità

II Duemila americano comincia con la vittoria, contesta­ ta e dubbia, di George W. Bush su Al Gore e finisce (o rico­ mincia) con l’impensabile trionfo di Barack Obama alle ele­ zioni presidenziali del 2008. E il cinema statunitense? Come ha sedimentato e interpretato tutto lo sconvolgimento di questo decennio? Se è vero che gli anni Duemila sono rac­ chiusi tra due drammi - 1’11 settembre e la crisi di Wall Street - si può pensare che il cinema a stelle e strisce non abbia assorbito nulla di tutto questo? Il film di Michael Moore, Fahrenheit 9/11 (Jd., 2004) co­ mincia proprio così, con i festeggiamenti di Al Gore come nuovo Presidente degli Usa, presto rivelatisi frettolosi e pre­ maturi. Di lì a poco, la Corte Suprema e i riconteggi conse­ gnano la vittoria a Bush Jr., con un’operazione storica e spregiudicata che molti - Moore in testa - considerano frut­ to di brogli e complotti. La tesi di Fahrenheit 9/11 parte proprio da questa contestata elezione. L’idea di base è che la Presidenza Bush sia il punto di arrivo di una articolata strategia di presa del potere da parte di una fazione politica - i neoconservatori interni al partito repubblicano - dotati di dottrine ideologiche estreme e belliciste, e che Bush ne sia in qualche modo strumento utile e consenziente. Questa tesi, che all’apparenza sembrerebbe appartenere ai “radicai” di sinistra, è invece molto popolare negli Stati Uniti, e nel corso degli anni si è via via affermata fino a diventare uno dei cavalli di battaglia della propaganda - se non di Obama - dei suoi sostenitori e militanti. Fahrenheit 9/11 architetta dunque la propria invettiva a partire dall’elezione di Bush: da lì conseguono tutti i drammi e le guerre sofferti dal Pae­ se, compresa la crisi economica (oggetto invece di Capita­ lism - A Love Story, Id., 2009, ancora di Moore). Un regista 14

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notoriamente polemico, e assai incline alla controinforma­ zione, come Oliver Stone - nel suo bizzarro e non del tutto riuscito W. (Id., 2008) - opera anch’egli in questa direzione. Il suo Bush è un personaggio bieco, stupido, caratteriale. Intorno a lui i falchi dell’Amministrazione lo manovrano a piacimento. Ogni decisione e ogni scelta tradiscono una ve­ rità inconfutabile: Bush Jr. non è degno di occupare la pol­ trona presidenziale. Tutto questo spiega il clima di rovesciamento dell’ideo­ logia neoconservatrice che ha portato Obama a trionfare al­ le elezioni del 2008, dove - di quell’America nazionalista e patriottica - non è rimasto che uno zoccolo duro negli stati del Sud. Eppure, basta un flashback di pochi anni, per ac­ corgersi che il clima, dopo il settembre 2001 e negli anni immediatamente successivi, era ben diverso. La popolarità di George W. Bush sfiorava 1’80%, la scelta di dichiarare guerra all’Afghanistan veniva appoggiata da tutta la nazio­ ne, e - nel 2003 - contestare la seconda Guerra del Golfo significava essere bollati come traditori della patria (come accaduto ad alcuni divi americani “critici” verso le scelte del Governo, quali George Clooney, Matt Damon, Sean Penn, linciati a mezzo stampa con dossier e campagne de­ nigratorie degne del giornalismo nostrano). Bene. Questo ci serve a capire come in pochi anni (me­ no di un decennio), siano accadute così tante cose da scuotere nel profondo la società statunitense. Il cinema, mezzo “vibratile” per sua stessa tradizione, ne è stato pro­ fondamente impregnato. Ma, a differenza di quel che av­ venne nel decennio 1965-1975 per la guerra in Vietnam e gli omicidi politici interni allo Stato, negli anni Duemila non ci si è trovati di fronte a una “guerra civile strisciante”. L’opinione pubblica non si è spaccata in due rimanendo di volta in volta sulle proprie posizioni; piuttosto, ha oscillato di continuo, dapprima accordandosi alle idee di un gruppo politico (la minoranza neo-con repubblicana) per dare una forma drammatica ed esasperata al trauma dell’ll settem­ bre; poi riconoscendosi nuovamente in un sogno, quello di un presidente nero che sa parlare a tutte le razze, quasi a liberarsi di un sogno oscuro e sanguinoso, quello dello scontro permanente tra le civiltà. 15

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Il cinema americano ha dato un corpo a queste immagi­ ni fantasmaliche, ha offerto stile e narrazione a sentimenti e emozioni, ha incarnato in un linguaggio simbolico i discor­ si sociali che non possedevano precisi testi di riferimento; ha agito talvolta come argine alle spinte più estreme di questo periodo di pressione sociale, a volte ne ha enfatiz­ zato i sentimenti, spesso ne ha accolto i frantumi. Ha costi­ tuito, in buona sostanza, uno specchio della nazione. Uno specchio, però, rotto in tante piccole schegge. Pensiamo, ad esempio, a due film apparentemente in­ conciliabili tra loro, come Gran Torino (Id., 2009) di Clint Eastwood e Borat (Id., 2006) di Larry Charles. Nel primo caso, un cineasta che un tempo aveva incarnato l’America reazionaria, mostrando un pensiero radicale e creativo at­ traverso i molti film diretti o interpretati, costringe il suo personaggio conservatore ad aprirsi a una nuova America, multietnica e integrata. Persino a sacrificarsi per essa. Nel secondo caso, un comico inglese ebreo di sfrenata volgari­ tà - e di altrettanto pari talento - come Sacha Baron Cohen, traveste il suo protagonista da reporter kazako e - con gli occhi dello straniero - svela l’intimo orrore dell’America di Bush. Eastwood utilizza il suo stile ormai depurato e classi­ co, con il magistero di John Ford a guidarne i gesti cinema­ tografici; Charles e Cohen azzerano il linguaggio cinemato­ grafico, lo trasformano in una sorta di reality/youtube sen­ za più forme estetiche di alcun genere, per dirci qualcosa dello sprofondo culturale in cui si è immersi. Entrambi film politici - fatte le dovute proporzioni - Gran Torino e Boral sembrano la cronaca nascosta degli Usa di questi anni. Af­ fermano che la nazione va ricostruita, soffocata com’è da rigurgiti di razzismo, violenza, ignoranza e folclore isolazio­ nista. Eastwood lo spiega attraverso un film dolce e tragico, fragile come il suo veterano Kowalski, ex soldato in Corea, rendendo testamentario il proprio ruolo; Cohen utilizza le armi dello sberleffo e della crudeltà, finendo tuttavia a ope­ rare nello stesso luogo discorsivo. Non è un caso che il cinema americano di questi anni abbia riscoperto il concetto di confine. Si pensi a Le tre se­ polture (The Three Burials of Melquiades Estrada, 2005) di Tommy Lee Jones, dove una guardia di frontiera sfoga il 16

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proprio odio sociale uccidendo un emigrato messicano. Preso in ostaggio dal miglior amico della vittima, viene tra­ scinato in Messico - insieme al cadavere del suo “nemico” - fino al villaggio dove l’uomo desiderava essere sepolto. Il limite tra Stati Uniti e Messico, evidentemente, non va pre­ so alla lettera. È un simbolo, un luogo di transito, o forse di più - un “gradiente”, ovvero un elemento narrativo che funge da indicatore per le tensioni interne a una civiltà. An­ che Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men, 2007) di Joel ed Ethan Coen - interpretato, non per coinci­ denza, dallo stesso Tommy Lee Jones - interroga il confine e la storia. Parla di un’America assediata dal male (il killer Chigurh) e dalla violenza (la droga), di una nazione che i suoi custodi (lo sceriffo) non comprendono più, fino ad es­ serne spaventati, e finisce con alludere all’America di questi anni, altrettanto colpita da un mutamento antropologico sconvolgente. Ed è ancora Tommy Lee Jones che compie un gesto plateale e importante in Nella valle di Elah (In the Valley of Elah, 2007) di Paul Haggis, quale quello di innal­ zare la bandiera americana issandola al contrario, come si fa quando una comunità necessita di aiuto esterno, poiché da sola non riesce più a salvarsi. Persino i kolossal catastrofici - mettendo in scena il con­ sueto spettacolo apocalittico buono per tutte le stagioni di tensione storica - insistono sui confini. Si pensi a L’alba del giorno dopo (The Day After Tomorrow, 2004) di Roland Em­ merich (specialista del settore, ancor più sadico in 2012, [Id., 20091), dove gli americani colpiti da agenti atmosferici più feroci di Al Qaeda sciamano verso il Messico pur di sal­ vare la pelle. E, al confine, vengono respinti dalle autorità messicane, invertendo per una volta la direzione del flusso migratorio e la logica dei drammi umani subiti dai poverac­ ci che entrano in Texas. D’altra parte, messicana è buona parte della “nuova on­ da” di registi immigrati a Hollywood come Alejandro Gon­ zalez Inarritu, autore di trame intricate e narrativamente non cronologiche (21 grammi, 21 Grams, 2003; Babel, Id., 2006), dove destini di personaggi provenienti da luoghi lontani tra di loro si intersecano per caso o per destino. Gonzalez Inarritu è anche regista di uno dei più riusciti epi­ 17

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sodi del film collettivo 11 settembre 2001 (11’9'’O1 - Septem­ ber 11, Alain Brigand, 2002): nel segmento diretto da Inarritu, la tragedia delle Torri Gemelle viene raccontata per metonimia, attraverso il suono atroce del dramma, il nero delle immagini “irrappresentabili”, e brevi fotogrammi dei corpi che si lanciano nel vuoto dai piani alti del World Tra­ de Center, per sfuggire alle fiamme con la morte. Gonzalez Inarritu deve molto al suo sceneggiatore, lo scrittore Guil­ lermo Arriaga (autore dello script di Le tre sepolture, tanto per intrecciare percorsi ancora più fìtti), che ha poi esordito dietro la macchina da presa con The Burning Plain - Il con­ fine della solitudine (The Burning Plain, 2007), altra vicen­ da che ruota intorno al dentro/fùori il limite di quel che è "americano” e di quel che è "statunitense”. In fondo, i film di Gonzalez Inarritu e Arriaga possono essere letti tutti quanti come esplicita riflessione metacinematografìca sull’i­ dentità del cinema nazionale nordamericano. I confini, ovviamente, sono anche interiori, mentali. Su questo aspetto, il film più pertinente sembra essere A Hi­ story of Violence (Id., David Cronenberg, 2005), dove la violenza della Nazione è incarnata nel protagonista. La wil­ derness del suo passato, tenuta a freno da un’esistenza ri­ spettabile nella provinzia statunitense, riesplode quando nemici esterni lo attaccano. E così, la “storia di violenza del titolo” - più che rimandare forzatamente alla poetica di un regista in sensibile declino - allude con metafore aperte e fì troppo esplicite ai destini americani in periodo di guerra. Ed è proprio l’identità della nazione - o la continua “ri­ nascita di una nazione”, come ha scritto qualcuno - che gioca un ruolo importante in molti film, aperti o nascosti, sull’argomento. Come spesso è accaduto, sono i registi stra­ nieri a mostrare con più evidenza valori e disvalori dell’american dream. Quale film più “identitario” di La ricerca della felicità (The Pursuit of Happyness, 2006) di Gabriele Muccino con Will Smith? La storia narra di un cocciuto e sfortunato venditore porta a porta che sogna di sfondare nella grande finanza. Attraversa mille traversie, personali e sociali, finisce persino a fare il senza tetto portandosi ap­ presso il fìglioletto di cinque anni, poi - visto che chi la du­ ra la vince - riesce a conquistare un ruolo da stagista pres­ so una società di consulenza economica e infine ottiene la 18

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“felicità”, ovvero un lavoro da broker prestigioso e ben re­ tribuito. Questo sogno (materialista) americano, ambientato negli anni Ottanta di Ronald Reagan, è stato girato poco prima dell’esplosione della crisi finanziaria e dello scandalo dei subprime a Wall Street. Chissà se Muccino avrebbe po­ tuto realizzarlo anche solo un paio di anni più tardi; fatto sta che - sia pure denunciando le sperequazioni sociali americane - La ricerca della felicità appare come propa­ ganda capitalista, il non plus ultra della coincidenza felicità/ricchezza, secondo un’ideologia produttivistica che molto difficile da comprendere per lo spettatore europeo appare assai meno smaccata negli Stati Uniti. Will Smith, d’altra parte, conta - nel progetto - assai più del regista, se è vero che tende spesso a circondarsi di re­ gisti non particolarmente originali pur di proseguire una filmografia fortemente legata ai miti fondanti della società americana. Si pensi al finale “religioso” e assolutorio di lo sono leggenda (I Am Legend, 2007) di Francis Lawrence dove i sopravvissuti alla hybris umana costituiscono un nuovo nucleo sociale salutato dalle campane di una Chie­ sa - per capire dove va a parare la carriera del divo. Anche senza dare spazio alle voci che vogliono Smith adepto di Scientology insieme a Tom Cruise, si può co­ munque notare come le carriere dei due attori prevarichi­ no il senso delle singole pellicole e lo spazio di manovra dei singoli registi. Di Cruise vale la pena ricordare, infatti, L’ultimo samurai (The Last Samurai, 2003) di Edward Zwick, opera epica dove un capitano delle giacche blu, a fine Ottocento, finisce con il combattere fianco a fianco del nemico giapponese contro il suo stesso esercito. Si tratta, a ben vedere, di un film arditissimo e sconveniente neH’America patriottica di quegli anni, e tuttavia segnato da un senso dell’onore, da una mistica del guerriero, e da una retorica new age talmente espliciti che non è diffìcile scorgervi la dottrina del gruppo fondato da Ron Hubbard. Ognuno dei film che stiamo citando e analizzando con­ tribuisce, nel bene e nel male, a definire l’identità america­ na. Il sud degli Stati Uniti (Messico in testa) e l’est del mon­ do ne appaiono figure necessarie. L’orientalismo, infatti, rappresenta una delle più antiche forme esotiche utilizzate dal cinema hollywoodiano per 19

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scontornare la propria identità. Forse a questo rispondono le coproduzioni sino-americane come La tigre e il dragone {Couching Tiger, Hidden Dragon, 2001) di Ang Lee, ripro­ duzione in ampia scala dei wu xia hongkonghesi, con tan­ to di (legittima) delusione degli esperti del settore. Eppure, il taiwanese Ang Lee appare anch’egli regista straniero in grado di verificare con puntualità e attenzione gli stereotipi e le mitologie della società d’adozione, come dimostrano il fortunato I segreti di Brokeback Mountain {Brokeback Mountain, 2005) melodramma doloroso sui riti di esclusio­ ne operati dalla provincia tradizionalista della nazione, e il sottovalutato Motel Woodstock {Taking Woodstock, 2009), altrettanto lucido nello studiare le forme del capitalismo ru­ rale americano, quando si trova alle prese con un evento epocale. E, sempre studiando l’anagrafe dei registi, non si può non sottolineare come Hollywood abbia affidato a cineasti europei la realizzazione dei blockbuster epico-storici di questi anni: dal Troy {Id., 2004) di Wolfgang Petersen al 10.000A.C. {Id., 2008) di Roland Emmerich, fino ai due pe­ plum del britannico Ridley Scott {Ilgladiatore, [The Gladia­ tor, 20001, e Le crociate, [Kingdom of Heaven, 20051), e così via, eccezion fatta per il solito Stone che riesce a far diven­ tare il suo Alexander {Id., 2004), un trattato su un condot­ tiero gay, isterico e visionario. Negli altri casi, mass media e critici si sono sforzati nel trovare facili analogie con la si­ tuazione intemazionale e lo scontro di civiltà. Film come Le crociate, però, vanno presi con le dovute cautele. Le cro­ ciate schiera infatti i buoni e i cattivi a modello chiasmico: al centro si sfidano i due protagonisti saggi (Baliano e il Sa­ ladino), eroi che sanno quando bisogna far scorrere il san­ gue e quando invece è il caso di risparmiare la vita dei pro­ pri soldati; ai lati, invece, le ali estreme di massacratori, co­ loro che da una parte e dall’altra sono pronti a ogni eccidio in nome della religione e della guerra (i Templari, per esempio). Le crociate è “di destra” perché distingue tra guerre giuste e sbagliate, forgia eroi occidentali pieni di di­ scernimento ma tutt’altro che pacifici e accoglie di fatto, sa­ cralizzandolo, un mondo di violenza? Oppure è di sinistra perché invita alla comprensione tra le diverse civiltà, non 20

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esclude una convivenza con il mondo arabo e condanna ogni eccesso bellico? La risposta non esiste comunque. Il cosiddetto blockbuster multistandard è politicamente fles­ sibile, poroso, maneggiabile, discutibile. Se a livello narrati­ vo e formale non rimane molto da raccontare, a livello cul­ turale e interpretativo i tempi sono opachi, ad “ideologia elastica”. Forse solamente 300 (Id., 2007) di Zack Snyder ammette ed esibisce un discorso reazionario. Come si è da più parti notato, non importa tanto attribuire i ruoli - destra vs sini­ stra: gli spartani sono i marines americani alle prese con i tagliagole arabi? O al contrario gli spartani sono gli insorti iracheni alle prese con l’impero americano? - quanto nota­ re come in questo conflitto estetizzante, in una tale esplo­ sione di iconismo sospeso tra cinema, fumetto e arte digita­ le, non vi sia altro spazio che quello della guerra. Nessuna soluzione alternativa, nessun orizzonte divergente, nessuna terza via. Si combatte, e basta. Le suggestioni eroistiche di Zack Snyder - cineasta che si candida a rappresentare l’anima più creativa del pensiero neoconservatore sul grande schermo, come mostrato anche dal remake iper-capitalista L’alba dei morti viventi (Dawn of the Dead, 2004) - sembrano però anch’esse mutare di se­ gno solamente qualche anno dopo. Watchmen (Id., 2009) rappresenta - forte della straordinaria graphic novel di Moore e Gibbons - la storia degli Stati Uniti come una ucronia terribile e selvaggia (si veda l’eccezionale sequenza dei titoli di testa). Rimane la fascinazione per l’orrore e la violenza dei giustizieri, ma si infiltra un clima di decadenza e lutto come se si raccontasse, insieme alla vicenda degli eroi mascherati, una palingenesi nazionale. Ancora una volta, gli Stati Uniti negoziano la propria identità attraverso il passato (cinema epico e storico), i ge­ neri del presente (dramma e comico), le rappresentazioni di realtà alternative. Se ha senso dunque chiedersi quali siano i film “fedeli” al patriottismo e al misticismo imma­ nente della dottrina Bush - per esempio II buio nell'anima (The Brave One, 2007) di Neil Jordan o II mistero dei tem­ plari (National Treasure, 2004) e il sequel II mistero delle pagine perdute (National Treasure: Book of Secrets, 2007), 21

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entrambi di Jon Turtletaub, i film di Mel Gibson, su cui tor­ neremo -, o quelli assimilabili all’opposizione democratica - per esempio L’uomo dell’anno (Man of the Year, 2006) di Barry Levinson o Milk (Id., 2008) di Gus Van Sant -, è tutta­ via molto più utile individuare le strategie testuali, i luoghi di elaborazione culturale, i conflitti nascosti dentro il cine­ ma di questi anni. E così, come siamo partiti da due film tanto lontani per gusto, discorso, approccio (Gran Torino e Borat), altre due sono le pellicole con cui potremmo chiu­ dere questa prima “idea” - l’identità - sullo stato del cine­ ma Usa. Pensiamo, infatti, a Into the Wild (Id., 2007) di Sean Penn e I Simpson - Il film (The Simpsons Moine, 2007) di David Silverman. Nel primo caso, la fuga del protagonista Christopher McCandless avviene per lo più nei confini in­ terni degli Stati Uniti, alla ricerca di un impossibile sollievo umano dal soffocamento della società famigliare america­ na. Si tratta di un percorso erratico e privo di mete, una ri­ chiesta disperata di ascolto verso una nazione che fa del rapporto tra comunità e natura un perno della propria tra­ dizione storica, un grido di dolore che nessuno accoglie. Scambiato per una semplice esaltazione di un ribelle, il film di Penn mostra invece qualcosa di più: l’intima follia, per quanto affascinante, di un ragazzo che cerca di comportar­ si come un esploratore di frontiera quando tutto è ormai fi­ nito. Finito il tempo delle utopie sessantesche, finite le spe­ ranze di un rinnovamento sociale, finita ogni alternativa al pensiero dominante. Una volta scartate anche le comunità alternative - Chris durante il film le rifiuta una ad una, dai post-hippies alla casa del vecchio falegname - non rimane che lasciarsi morire, poiché la natura non perdona. E così Into the Wild diventa canto funebre di un’America che ha dimenticato il suo stesso territorio, i suoi stessi confini in­ terni; in una parola, la sua identità. I Simpson - Ilfilm, ben lontano dall’essere un macro-epi­ sodio televisivo (come certuni hanno pensato), è il corona­ mento monumentale (il film è in Cinemascope) di quasi venti anni spesi in una sorta di studio culturale suU’America mascherato da cartoon. La comunità di Springfield, nel lun­ gometraggio, viene a un certo punto chiusa da una cupola 22

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in plexiglass impossibile da perforare. Facile scorgervi, sot­ to traccia, l’esempio di una società imprigionata. La piccola civiltà sotto assedio riassume le caratteristiche statunitensi di questi anni Duemila mentre Homer - causa del disastro - viaggia alla ricerca di se stesso, prima di tornare a casa, nel più letterario e tradizionale dei coming home. Guardan­ do contemporaneamente a Frank Capra e Mel Brooks, i realizzatori di I Simpson - Ilfilm dimostrano di aver scritto il loro opus magnum intorno all’identità a stelle e strisce che da sempre parodizzano, senza negare quel pizzico di amor patrio mai venuto meno nel corso degli anni.

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Dieci film

Fahrenheit 9/11 (2004) Le crociate (2005) I segreti di Brokeback Mountain (2005) Le tre sepolture (2005) La ricerca della felicità (2006) 300 (2006) Borat (2006) Into the Wild (2007) I Simpson - Ilfilm (2007) Gran Torino (2009)

Dieci letture Thomas Torrans, The Mexican-American Border in Fiction, Film, and Song, Texas Christian University Press, Forth Worth, 2002-, Marco Beipoliti, Doppio zero. Una mappa portatile della contem­ poraneità, Einaudi, Torino, 2003; AA.W., L Asie à Hollywood, Fe­ stival di Locarno/Cahiers du Cinéma, Locarne/Paris, 2007; Matteo Albanese, L’idea di guerra nel pensiero neoconservatore, Ipoc, Roma, 2008; Edward Alden, The Closing of the American Border, HarperCollins, New York, 2008; Corrado Peperoni, a cura di, I Simpson. Il ventre onnivoro della tv postmoderna, Bulzoni, Roma, 2008; Michele Fadda, Caratteri del cinema contemporaneo, Ar­ chetipo-libri, Bologna, 2009; Federico Ferrone, Michael Moore, Il Castoro, Milano, 2009; Robert A. Saunders, The Many Faces ofSa­ cha Baron Cohen: Politics, Parody, and the Battle over Borat, Le­ xington Books, London, 2009; Valentino Sergi, Frank Miller. Mati­ te su Hollywood, Edizioni XII, Torre de’ Busi (LC), 2009-

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2. 11 settembre 2001. Cinema e film

Gli eventi dell’ll settembre 2001 hanno segnato l’intero decennio. Anche rinunciando ad analisi .sociostoriche che qui si ridurrebbero a spiegazioni sbrigative, non si può ne­ gare che tutto quel che è successo dopo, in campo artistico e culturale, appare fortemente segnato da quegli avveni­ menti. Il cinema americano ha reagito con maggior lentez­ za, a causa del fatto che gli attacchi aerei al WTC sono subi­ to sembrati tragicamente debitori della spettacolarità holly­ woodiana. Come se qualcuno di crudele fosse riuscito a mettere in scena sul serio l’innocuo catastrofismo di tante pellicole di genere. È nato, ben presto, un'senso di colpa in­ terno all’industria delle immagini, e una conseguente auto­ censura sull’elaborazione del lutto, che d’akra parte chiama­ va l’intero linguaggio audiovisivo a ragionare su se stesso. La decisione di dividere in due capitoli il tema - cinema dell’ll settembre e cinema post-11 settembre - significa so­ lamente operare una distinzione tra i film che hanno messo in scena direttamente il fatto e le sue conseguenze belliche, e i film che vanno considerati impregnati di echi, metafore, umori, simboli, allusioni ai drammi che hanno brutalmente aperto la decade. Il più tempestivo dei prodotti sull’attentato è 17 settem­ bre 2001, diretto nei 2002 da diversi registi provenienti da tutto il mondo. L’idea è stata quella di costruire undici cor­ tometraggi, o episodi, ciascuno della durata di 11 minuti, 9 secondi e 1 decimo, lasciando ampia libertà ai cineasti su come affrontare l’argomento. Ogni strategia viene persegui­ ta: Ken Loach mostra un altro 11 settembre, quello del gol­ pe contro Allende nel Cile del 1973; Amos Gitai mette in scena un attentato kamikaze nel cuore di Israele, luogo do­ ve ogni giorno può essere un 11 settembre; Lelouch inven25

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ta un 11 settembre visto di sguincio, anzi quasi non visto, da personaggi impegnati in un’esistenza complicata e diffi­ cile; e così via. Se di Inarritu abbiamo detto, poiché è stato l’unico dei registi selezionati ad utilizzare materiale docu­ mentario di quel giorno, rimane da citare l’altro cortome­ traggio americano, quello di Sean Perm. Non è un caso sia la terza volta in poche pagine che citiamo l’attore/regista, visto che ha incarnato forse la figura più militante e radica­ le del pensiero liberal hollywoodiano, finendo persino con l’andare in visita in Iraq prima della guerra e a New Or­ leans durante l’uragano Katryna. Così come la sua attività politica, anche il cortometraggio ha scatenato polemiche a non finire, poiché narra di un vecchio vedovo, dalla casa buia e triste, che - in virtù della caduta delle Torri - vede finalmente un po’ di luce entrare nel suo appartamento, con tanto di pianta sul davanzale improvvisamente risorta. Quel che si poteva leggere come un inno alla rinascita e al ciclo della natura, è diventato - agli occhi dei cosiddetti pa­ trioti - un film disgustoso che si compiace della morte di tremila americani. Oggi quei contrasti sono ormai sopiti e, nel giro di pochi anni, il senso opprimente di una tragedia collettiva ha assunto connotati meno brucianti: molti sono disposti a riconoscere finalmente nel piccolo haiku di Penn un gesto di amore e speranza. In ordine di tempo, è poi toccato a United 93 (Id., 2006), di Paul Greengrass, prodotto congiuntamente da Stati Uniti e Gran Bretagna, sancendo così l’alleanza di ferro tra Bush e Blair. Si tratta, come noto, del volo che finì distrutto a Shankville, in Pennsylvania, grazie alla reazione di alcuni passeggeri. Lasciando da parte, come è giusto (e come fare­ mo per l’intero complesso degli attacchi dell’H/9), le letture storiche alternative alla verità ufficiale, possiamo affermare che il film cerca di ricostruire in forma pseudodocumentaria gli avvenimenti di quel giorno. Tutta la prima parte della pellicola ricostruisce in maniera piuttosto originale la sor­ presa e l’inadeguatezza dei tutori dell’ordine e delle torri di controllo di fronte all’improvviso attentato. La seconda par­ te, invece, si concentra sull’interno dell’aeroplano, dove le notizie da Manhattan giungono in diretta e dove nascono la ribellione e il sacrifìcio dei passeggeri. United 93 sortisce 26

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un effetto eguale e contrario a quello del piccolo film di Perm. Dapprima salutato con un coro di lodi euforiche e sospette per unanimità, oggi - a distanza di qualche anno il film è stato archiviato, dimenticato e ormai derubricato a “instant movie". La ragione è semplice: il film di Greengrass poggia su basi cinematografiche inconsistenti e profonda­ mente sbagliate. Se 1’11 settembre ci ha insegnato qualcosa, è che anche nell’epoca delle nuove tecnologie e delle im­ magini alla portata di tutti, il cinema deve saper guardare il mondo. United 93, adottando la banale e fuorviarne strate­ gia del “quasi-vero” (ovvero utilizzando un linguaggio mi­ metico da cinéma-vérité), umilia la grandezza e la tragicità degli avvenimenti. L’idea, iconoclasta e punitiva, secondo la quale bisogna annientare ogni forma di spettacolo per poter adottare uno stile “finto-autentico” rispettoso degli avvenimenti “reali” (e garantire così la memoria delle vitti­ me) appare davvero ingiustificata. World Trade Center (Id) di Oliver Stone, uscito nello stesso anno, sorprende invece ribaltando le attese. Cono­ scendo la storia del regista, tutti avrebbero scommesso su un film provocatorio e rabbioso, da parte di un cineasta notoriamente antirepubblicano e di sinistra. Stone, però, ha da tempo abituato gli spettatori a improvvisi ribaltamenti di prospettiva, come quando ha “graziato” il nemico storico Nixon concedendogli lo status di personaggio elisabettiano nella visionaria biografia di oltre dieci anni prima (Gli intri­ ghi del potere - Nixon, \Nixon, 19951). Così questa volta, con WTC, si concentra esclusivamente sul cuore della tra­ gedia, ovvero sugli agenti di polizia e sui vigili del fuoco intrappolati tra le macerie. Gran parte del racconto è am­ bientata nel buco nero delle Torri, tanto da sembrare uno di quei vecchi “film di miniera”. Anzi, Stone si rivela più nazionalista del previsto quando mostra la comunità new­ yorkese, con tutte le sue etnie, impegnata nel lavoro di sal­ vataggio e quando offre al personaggio di un marine un ruolo salvifico, con qualche accenno di troppo alle guerre in arrivo. Come è naturale, WTC ha deluso le speranze di chi si augurava che Oliver Stone aprisse una breccia nel muro di retorica eretto da Bush c da buona parte della so­ cietà statunitense. Tuttavia, il suo film va visto senza acri27

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monte e apprezzato - con moderazione - per quello che è, ovvero un’opera sul sacrifìcio e sull’intima classicità degli Usa. Assai più polemico, Stone, lo è stato nei confronti del­ l’ex Presidente degli Stati Uniti. Il suo U7., girato con Bush ancora alla Casa Bianca e privato di qualsiasi distribuzione su territorio americano, appartiene al genere satirico più che al cinema civile. Il ritratto grottesco di Bush lo accredi­ ta come “utile idiota”, manovrato dal padre e dai poteri for­ ti del sud degli Stati Uniti, all’interno di un gigantesco con­ flitto di interessi. Secondo alcuni, ciò equivale a un’assolu­ zione del Presidente e a un generico, quanto insoddisfa­ cente, esame della storia recente. Tuttavia, l’insistenza di Stone intorno alla stupidità di Bush, alla malvagità dei suoi consiglieri, e alla teoria del complotto neo-con ordito ma­ novrando i fili di un burattino inconsapevole (W., appun­ to), viene collegata a un’idea inorridita del cursus honorum americano. Come a dire: non è un caso che Bush sia stato percepito dal cittadino medio e dal cittadino proletario co­ me uno di loro. Bush nasce dagli Stati Uniti meridionali, da una borghesia ricca ma contadina, da un luogo ancestrale di latifondisti capaci di trascinare con sé, in nome di una nazione bianca e conservatrice, molti strati sociali. Non si tratta quindi di un’anomalia di un sistema, ma del frutto pe­ culiare di una parte non secondaria di America profonda, inetta, incivile e sostanzialmente sprovvista di rispetto delle regole. Materiale narrativo da non liquidare con un’alzata di spalle. Citati, dunque, i film che più direttamente hanno rap­ presentato gli eventi - che, come si vede, nessuno ha osato affrontare mostrandoli, bensì ricordandoli attraverso meto­ nimie, allusioni, pudori narrativi - vanno ricordate le opere che hanno accolto il crollo delle Torri Gemelle nel tessuto diegetico. È il caso di La 25a ora (The 25th Hour, 2002) di Spike Lee, tratto da un romanzo di David Benioff, scritto precedentemente all’ll settembre, e trasformato dal cinea­ sta americano in una radiografìa di New York dopo l’attac­ co. Il personaggio di Monty - uno dei più riusciti nel cine­ ma contemporaneo - spacciatore d’alto bordo e dandy di gran gusto, deve salutare la sua comunità/città prima di fi­ nire in carcere per molto tempo. Questo addio lungo un 28

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film assume caratteristiche strazianti, proprio perché sem­ bra il saluto di un regista alla sua hometown, destinata a cambiare per sempre (lo stesso Monty, per evitare di essere sottomesso in carcere, si fa “cambiare” i connotati, per di­ ventare mostruoso e indesiderabile). Ci sono due sequen­ ze, nel film, che citano esplicitamente i fatti dell’11/9. Una è quella in cui i due protagonisti si affacciano da una poco credibile finestra che dà sul vuoto del WTC - ed è la prima rappresentazione ufficiale che il cinema offre del disastro delle Torri. Del resto, già sui titoli di testa, si vede lo skyli­ ne di NY orbato dei grattacieli vicini a Wall Street, sostituiti dai fasci di luce voluti dal sindaco Giuliani. La seconda se­ quenza, celebre, riprende Monty mentre dà vita a un’invet­ tiva furibonda allo specchio (nota come il “monologo del fuck”, tra i più cliccati su youtube), una giaculatoria contro tutto quel che compone il tessuto sociale newyorkese, dal­ le etnie (neri, ebrei, italiani), ai mestieri (broker, agenti di borsa, etc.), ai rappresentanti del potere (Bush in primis) via via fino ai terroristi come Bin Laden. Nessuno si salva, nella condanna di Monty della “sua” New York, sebbene lo sfogo serva soprattutto a chiarire il lutto di un innamorato verso la sua città. In seguito, molti altri film hanno inserito la sciagura di New York tra le motivazioni drammaturgiche dei protago­ nisti, come per esempio Reign Over Me {Id., 2007) di Mike Binder, dove un uomo che ha perso tutta la famiglia nell’at­ tentato si rifugia nel solipsismo e nella solitudine: solamen­ te un vecchio compagno di università si impegna per sal­ varlo dalla depressione. La produzione seriale statunitense, a sua volta, ha imposto in televisione molti temi scottanti legati all’11/9, come nel caso di Rescue Me (2004-), dedica­ to ai vigili del fuoco di NY e ai loro drammi quotidiani, o Brothers & Sisters - Segreti di famiglia {Brothers & Sisters, 2006-), dove una famiglia allargata vive - proprio nel ven­ tre parentale - una disgregazione politica a partire dai dif­ ferenti orientamenti ideologici post-11 settembre di madre e figlia. Inoltre, va citata anche una larga, e non sempre ispirata, produzione letteraria sul tema. Tra i romanzi più riusciti, vanno ricordati almeno Ken Kalfus, Uno stato particolare di disordine (A Disorder Peculiar to the Country, 2006) dove il 29

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dramma del divorzio di una coppia sembra acuito dall’at­ tentato, invece che attutito (con un finale a sorpresa); lan McEwan, Sabato (.Saturday, 2005), che apre una finestra su Londra e sugli effetti degli attentati in Gran Bretagna attra­ verso le sorprendenti vicende di un sabato qualunque; Jay McInerney, Good Life (Id., 2004), in cui il cantore della New York yuppie di Le mille luci di New York (Brights Lights, Big City, 1984) fa i conti con la città incupita e co­ perta di polvere del post-U/9; Jonathan Safran Foer, Molto forte incredibilmente vicino (Extremely Loud and Incre­ dibly Close, 2005) che imbastisce un commovente racconto d’infanzia e di elaborazione del lutto di NY. Se, però, ci allontaniamo dalla rappresentazione diretta o dalla narrativizzazione delle conseguenze psicologiche degli attacchi, bisogna aprire il discorso a un altro filone, non particolarmente fortunato in termini di pubblico, che origina dal precedente. Così come l’America entra in guerra con Afghanistan (prima) e Iraq (dopo), anche il cinema Usa si occupa di queste guerre e, più in generale, di terrorismo mediorientale negli anni successivi al 2001. Il war movie è uno dei generi più interessanti - insieme a fantascienza e orrore - per comprendere quel che avvie­ ne in termini culturali all’interno di una società. Inoltre, il cinema di guerra viene da sempre investito di questioni rappresentative ed enunciative. Ogni volta, per qualsiasi conflitto e per ciascuna epoca, si procede a nuove revisioni formali e narrative. Basti pensare al Leone d’Oro veneziano del 2009 - Lebanon (Id.) di Samuel Maoz - dove la guerra è vista dall’interno di un tank e attraverso lo spioncino del cingolato, per rendersi conto di come, anche dopo più di un secolo di storia del cinema, si possano sempre indivi­ duare nuove strategie di messa in scena. La seconda guerra del Golfo, drammatica e controversa, affrontata nell’era delle nuove tecnologie, ha presto suggeri­ to sperimentazioni cinematografiche originali. A raccogliere il guanto di sfida, Brian De Palma. Il suo Redacted (Id., 2007) riassume in un solo film le spinte eterogenee dei media odierni. Ne esce una specie di remake del suo stesso Vittime di guerra (Casualties of War, 1989) - dedicato a una storia simile di stupro e orrore in Vietnam - con mezzi adeguati al­ 30

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la guerra irakena. Teorico e programmatico come al solito, De Palma rinuncia ai soldi delle major e a una distribuzione capillare pur di girare il suo film più sentito, anche se non il più coinvolgente. Segno evidente che il conflitto mediorien­ tale stimola riflessioni sull’immagine superiori a quelle delle guerre precedenti, e il filo che le lega alla rappresentazione dell’ll settembre (ben più resistente di quello, smentito, con cui si è giustificato l’intervento in Iraq) si dipana di pellicola in pellicola. È come se De Palma, da autore autoriflessivo qual è sempre stato, si sia incaricato per primo - pagandone le conseguenze - di ragionare sui mezzi di rappresentazione della guerra all’epoca dei “tube”. Il ricorso ai frammenti di You Tube, ai blog, ai vlog, ai videodiari, alle riprese amato­ riali aggiorna il realismo bellico alle nuove frontiere del visi­ bile, con l’unica differenza che il cinema sembra poter sola­ mente fungere da catalizzatore discorsivo di linguaggi più rapidi e più interattivi. Senza arrivare a dire che De Palma sancisce il trionfo del film come morte del cinema, possiamo almeno sostenere che Redacted alimenta l’idea che il cinema di guerra per come lo conosciamo non può più operare in un terreno condivisibile (ovvero condiviso in termini sociali e culturali). E dove per la prima volta si può integrare, sia pure in termini potenziali, lo sguardo audiovisivo del solda­ to a quello del narratore esterno. Non è un caso che anche un film dall’impianto tutto sommato classico, Nella valle di Elah, racconti di un’indagi­ ne. E che questa indagine, gestita da un padre addolorato in cerca di una ragione per spiegare l’omicidio del figlio, ruoti intorno ad alcune immagini sporche: riprese offuscate da un videotelefonino, fotogrammi numerici da integrare con ricostruzioni digitali, eventi atroci suggeriti dalla bassa fedeltà di una riproduzione visiva manchevole. Qualcuno può obiettare che il film di Paul Haggis tende a demonizza­ re solamente la crisi in Iraq, sancendo di fatto la sopporta­ bilità del Vietnam (il protagonista anziano proviene da quella guerra, e cerca di dimostrare che a quel tempo, sì, che si era buoni soldati e che allora, sì, la nazione sapeva come reagire con dignità). La bandiera capovolta non era necessaria negli anni Settanta? Non è forse vero che tutte le guerre americane, Vietnam in testa, hanno prodotto una di31

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sgregazione del tessuto sociale causata da vittime e reduci tormentati? Tuttavia - pur con tutte le resistenze del caso il film di Haggis dimostra l’incalcolabile danno che la disav­ ventura irakena determina nella nazione statunitense. E ancora ricostruzioni e immagini fallaci o incerte guida­ no due opere meno interessanti, quali The Kingdom (Id., 2007) di Peter Berg e Rendition (Id., 2007) di Gavin Hood. Pur narrando in superfìcie storie diverse (l'indagine su un attentato nello Yemen, in un caso; la pratica dei rapimenti CIA, dall’altra), entrambi si basano sul problema della rico­ struzione degli avvenimenti. Gli agenti e gli analisti FBI di The Kingdom operano sul territorio con metodi scientifici che siamo abituati a vedere nella serialità televisiva di ge­ nere (tanto è vero che il film è stato ribattezzato "C.S.I. Ryad"') e cercano di spiegare la dinamica degli avvenimen­ ti e con essa la matrice dell’assalto. In Rendition ancora un attentato segna l’inizio e la fine della pellicola, che si fa ri­ cordare soprattutto per l’originalità narrativa. Utilizzando il sistema del montaggio parallelo, la sceneggiatura nasconde il fatto che una delle due curve diegetiche rappresenta in verità un racconto circolare e che si trova dunque in un dif­ ferente asse narrativo rispetto alla prima. A questo punto, anche le sotto categorie della guerra tornano di moda. I disinnescatori di bombe - quelli che un tempo si chiamavano “sminatori” - vengono romanzati con occhio clinico e con la consueta fascinazione tribale, antro­ pologica da Kathryn Bigelow in 'The Hurt Locker (Id., 2008), premiato da numerosi oscar; i reduci di tanto cinema di guerra, impastati di violenza e mancata integrazione nel tessuto sociale, sono i protagonisti nel primo film prodotto da MTV sulla guerra irakena, Stop-Loss (Id., 2008) di Kim­ berly Pierce, piuttosto pessimista e oscuro per essere un film di quella generazione. E non bisogna dimenticare due videoclip molto popolari, antimilitaristi e schierati contro l’intervento in Medio Oriente, ovvero Wake Me Up When September Ends (Samuel Bayer, 2005), dei Green Day, e Empty Walls (2007) di Serj Tankian, ex leader dei politiciz­ zati System of a Down. Processo eguale e contrario, è quello di tornare su even­ ti bellici del passato per spiegare qualcosa di quelli odierni: 32

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l’ambiguo, cattivo e non sempre onesto La guerra di Charlie Wilson (Charlie Wilson’s War, 2007) di Mike Nichols - de­ mocratico clintoniano tutto d’un pezzo - mostra come sia stata gestita la questione afgana e costruisce una filogenesi del gioco del domino che ha finito col favorire la Jihad fon­ damentalista nella regione. Lord of War (Id., 2005) di An­ drew Niccol offre panorami inquietanti che concentrano la polemica sulla vendita di armi e sui rapporti ambigui tra ca­ pitalismo e signori della guerra. Sempre a ritroso, Black Hawk Down (Id., 2001) di Ridley Scott rappresenta il tipico film in cui l’azione di guerra è destinata a restare attuale, mentre il suo portato simbolico oggi appare risibile e obso­ leto. I diciannove soldati Usa morti in una battaglia nell’epo­ ca di pace non sconvolgono più nessuno, dopo che sei an­ ni di guerriglia irakena hanno rispedito in America più di quattromila bare. L’ambiguità di Ridley Scott - cineasta spre­ giudicato quant’altri mai - viene sottolineata da numerosi dibattiti nei media americani per come ha rappresentato il combattente arabo nel già citato Le crociate, in Black Hawk Down e in Nessuna verità (Body of Lies, 2008), soporifero thriller internazionale dove si cerca di rendere credibile per­ sino un Leonardo Di Caprio travestito da mujaheddin. Come spesso accade in questi anni, è toccato alla seriali­ tà televisiva dare corpo più concreto ai fantasmi espliciti del terrorismo e della guerra. Impossibile non citare il caso di 24 (Id., 2000-), creato da Joel Surnow e Robert Cochran, prodotto e interpretato da Kiefer Sutherland. Il protagonista assoluto è Jack Bauer, agente dell’antiterrorismo (CTU; ov­ vero Counter Terrorism Unit), pronto a tutto per salvare il suo paese dai micidiali attacchi che vasti complotti ordisco­ no contro gli innocenti; ogni stagione narra le 24 ore di una singola giornata, dove si giocano le sorti della nazione; ogni puntata narra una sola ora di quella giornata, ovvero circa quaranta minuti più la pubblicità: in ogni caso si può parlare di “tempo reale” perché la vita dei personaggi scor­ re anche durante la messa in onda degli spot; in dispregio a ogni verosimiglianza, che pure rappresenta per altri versi una delle attrazioni del programma, le giornate tremende di Bauer e del CTU si susseguono di continuo: in America, al momento di scrivere, è in corso l’ottava stagione, e il 33

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successo della serie non accenna a calare; stilisticamente, 24 fa uso dello split screen e della camera a mano come stilemi unici e privilegiati. Pienamente consapevoli, gli au­ tori mettono in gioco praticamente tutti gli elementi di fo­ bia e terrore che un cittadino americano può aspettarsi, pongono a fronteggiarli uno strano eroe che al contempo assume le caratteristiche dell’uomo d’azione di destra e del martire cristiano di sinistra, e soffiano sul fuoco per far ac­ cadere le cose più terribili e imprevedibili lungo tutto l’arco della giornata. 24 del resto è una serie sadica. I personaggi sono continuamente posti di fronte a scelte radicali: sacrifì­ ci personali versus bene collettivo, comportamenti al di fuori di qualsiasi morale o morte degli innocenti. Secondo svariati analisti della serie, Jack Bauer è un personaggio chiaramente di destra. Votato all’azione violenta, è un eroe “all american”, crede nella nazione ed è disposto al sacrifi­ cio per la patria, non ha alcuna pietà nei confronti dei ne­ mici ed è capace di gesti clamorosi. Attraversa patimenti apocalittici (nella seconda stagione viene torturato fino alla morte apparente e poi viene rianimato appena in tempo, il tutto senza confessare; nella quarta si accoltella all’addome per fìngersi ostaggio di una doppiogiochista; nella settima rimane esposto a un micidiale virus; durante le varie stagio­ ni perde mogli, compagne, parenti, amici, colleghi) e ricor­ re sovente alla tortura. Dall’altro lato, però, è anche un eroe democratico: cerca di proteggere il maggior numero di innocenti, invita il Presidente degli Stati Uniti a non di­ chiarare frettolose guerre agli stati canaglia che potrebbero aver ordinato attacchi terroristici, combatte contro un pote­ re occulto che usa i servizi segreti per i propri scopi, è gui­ dato laicamente dal proprio sentimento di giustizia e da nessun’altra ideologia, non possiede il “phisyque du ròle” dell’uomo d’armi, essendo basso di statura e assai più por­ tato al ragionamento che non alla lotta, ha un totale disin­ teresse per il colore politico dell’amministrazione da cui prende ordini. Il suo ruolo è quello di salvare la nazione, e per farlo sa di dover spesso trascendere il codice. Attraver­ so 24, e grazie ai paradossali casi proposti, i realizzatori ci sottopongono al continuo gioco del "what if?” (che cosa succederebbe se...?), mettendoci spalle al muro. Nessuna 34

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soluzione e nessun comportamento codificato possono ga­ rantire la salvaguardia degli innocenti e il rispetto delle re­ gole. HE voi che cosa fareste? Che cosa chiedereste a chi vi protegge?”. La sensazione è che queste domande vengano poste contemporaneamente a uno spettatore democratico, che si vede così messo in crisi nelle proprie convinzioni, e a uno repubblicano, altrettanto spiazzato dalia friabilità del pensiero forte tradizionalista. Altri serial, come Over There Od., 2005) - ambientato (in contemporanea agli avvenimenti) tra i marines di stanza in Iraq -, The Unit (2006-2009), o Sleeper Cell (2005-2006), mostrano grande sagacia tecnica e qualche opportunismo di troppo, ma confermano la vivacità del linguaggio seriale televisivo, cui dedicheremo un approfondimento nel capi­ tolo dedicato.

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Dieci film

11 settembre 2001 (2002) La 25a ora (2002) United 53(2006) World Trade Center (2006) Nella valle di Elah (2007) Redacted (2007) Reign Over Me (2007) The Hurt Locker (2008) Nessuna verità (2008) Stop-Loss (2008)

Dieci letture Slavoj Ziiek, Benvenuti nel deserto del reale. Cinque saggi sull’l 1 settembre e date simili, Meltemi, Roma, 2002; Ben Dickenson,

Hollywood’s New Radicalism: War, Globalisation and the Movies from Reagan to George W. Bush, I.B. Tauris, London, 2006; Ken Kalfus, Uno stato particolare di disordine, Fandango, Roma, 2006; Lina Khatib, Filming the Modern Middle East: Politics in the Cine­ mas of Hollywood and the Arab World, LB. Tauris, London, 2006; Ian McEwan, Sabato, Einaudi, Torino, 2006; Jay McInerney, Good Life, Bompiani, Milano, 2006; Tim Jon Semmerling, Evil Arabs in American Popular Film: Orientalist Fear, University of Texas Press, Austin, 2006; Stephen Peacock, Reading 24: TV Against the Clock, I.B. Tauris, London, 2007; Jonathan Safran Foer, Molto for­ te incredibilmente vicino, Guanda, Milano, 2007; Douglas Kell­ ner, Cinema Wars: Hollywood Film and Politics in the Bush-Che­ ney Era, Wiley-Blackwell, Oxford, 2010.

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3. Post-11 settembre 2001. Cinema e film

Il romanzo L'uomo che cade {Falling Man, 2007), di Don De Lillo, ruota intorno a personaggi alienati e trauma­ tizzati dal disastro dell’ll settembre e contiene alcune pagi­ ne estremamente importanti dal punto di vista della perce­ zione degli avvenimenti, come quando alcuni superstiti osservando un quadro di Morandi - si rendono conto che, in quella densità di pittura, intravedono la forma delle Tor­ ri Gemelle. Come a dire che, dopo 1T1/9, non si può fare altro che rintracciare lo shock ovunque si volga lo sguardo. Si tratta di un’ottima metafora per il cinema del cosid­ detto “post-11 settembre”, ovvero la produzione di film in cui critici, studiosi e storici pensano di individuare caratteri ascrivibili al periodo sociale di riferimento. Il brano di De Lillo ci mette in guardia: guai a forzare le interpretazioni, si rischia di vedere 1’11 settembre dappertutto. Tuttavia, sa­ rebbe altrettanto paradossale e sbagliato negare l’evidenza, ovvero che lo shock - o {'infarto, come qualcuno ha sug­ gerito - storico subito dalla nazione americana abbia in­ fluenzato un intero decennio cinematografico. È proprio questo, in fondo, il terreno più eccitante degli studi cultura­ li: individuare i caratteri sociali e culturali presenti tra le pieghe (spesso nascoste), di una produzione testuale (spes­ so popolare). E distinguere, con le armi della metodologia di indagine e del semplice buon senso, ciò che può risulta­ re credibile da ciò che invece appare campato in aria. Di alcune cose si può essere certi. Per esempio che gli eventi storici dell’11/9 e la loro “discorsivizzazione" - il modo, cioè, in cui sono stati immessi e rielaborati dai me­ dia, dagli agenti sociali, dalla politica, dalle diverse comuni­ tà interpretanti - hanno giocato un ruolo fondamentale in questa produzione cinematografica. Esiste una funzione 37

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narrativa e di ricostruzione psicologica che ha assunto cer­ te caratteristiche e non altre. Esiste una storicizzazione de­ gli eventi che si è poi nutrita degli accadimenti successivi, quali la minaccia dell’antrace, la paranoia terroristica persi­ stente, la mediatizzazione del conflitto (con un ruolo preci­ puo del web nel divulgare la violenza), la crisi economica, posti in continuità da forme di “racconto sociale” gestite a vari livelli. Tanta carne al fuoco, certo, che qui siamo costretti a ri­ assumere così: ci sono vari livelli o vari strati su cui agisce il fantasma dell’ll settembre nel cinema americano. Po­ tremmo sintetizzare attraverso cinque categorie: allusione per slittamento, rifiuto del trauma, elaborazione del lutto, retorica della nuova barbarie, riconfigurazione sociale.

Allusione per slittamento Si tratta del metodo più esplicito. Il cinema mette in sce­ na fatti e contesti diversi ma riconoscibili perché echeggia­ no la situazione storica esistente e in questo modo alludo­ no a un discorso metaforico sul presente. In questo è mae­ stro Steven Spielberg, che sembra aver orientato la recente carriera a una continua rilettura dell’America post-11/9. Gli esempi sono presto fatti: Minority Report {Id., 2002) mostra il regista americano alle prese con un immaginario - quello di Philip K. Dick - non certo adatto a lui proprio per sag­ giare i confini della fantascienza sociologica e di anticipa­ zione. La società che utilizza la polizia “pre-crimine” per ar­ restare i colpevoli prima che colpiscano il nemico rimanda alla “guerra preventiva” di Bush, così come lo sfruttamento dei Pre-cog, esseri psichici che intravedono il futuro, chiari­ sce la sfiducia di un democratico come Spielberg nei con­ fronti dei richiami all’irrazionale e alla Bibbia da parte del governo statunitense. Ancora più esplicito, The Terminal {Id., 2004) racconta la paradossale storia di un cittadino dell’est europeo che si trova, per problemi di passaporto, a non poter uscire dall’aeroporto, dove comincia a vivere adattandosi al non-luogo per eccellenza. In tempi di psico­ si verso gli aeroporti e di controlli ossessivi anti-terrorismo, la vicenda interpretata da Tom Hanks appare come un sag­ 38

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gio narrativo sull’America senza più patria, sulla comunità assediata e sulla rappresentazione dello straniero nel post11/9. La guerra dei mondi (.The War of the Worlds, 2005), remake di un altrettanto “politico” film degli anni Cinquan­ ta (La guerra dei mondi, {The War of the Worlds, George Pal, 19531) suggerisce allusioni sempre più precise. I mostri spaziali che fuoriescono dalle viscere della Terra possono facilmente essere paragonati alle cellule dormienti di Al Qaeda-, la distruzione degli esseri umani trasformati in pol­ vere ricorda il fumo e il pulviscolo delle Torri Gemelle; il terrore di un attacco “senza precedenti” viene modellato sul trauma dell’11/9, e così via, senza bisogno di sforzarsi troppo per cogliere i rimandi: Spielberg li serve su un piat­ to d’argento. Infine, Munich (Id., 2005), forse l’opera più dura della carriera del cineasta, riparte da un altro 11/9, quello del Settembre Nero e degli attentati alle Olimpiadi di Monaco e narra la caccia spietata da parte degli agenti del Mossad nei confronti dei colpevoli palestinesi. Qui Spiel­ berg - oltre che andare alla foce delle tensioni internazio­ nali e delle reciproche vendette - fa i conti anche con il proprio ebraismo, finendo con una sequenza disillusa e mesta, con i protagonisti ormai non più innocenti, sullo sfondo dello skyline di New York ancora intatto. Se Spielberg sorprende per come si è fatto carico, nel ci­ nema spettacolare che gli è proprio, di molti umori nascosti della società statunitense, colui che è stato indicato come suo “allievo", M. Night Shyamalan, ha forse realizzato il film più esemplare. The Village (Id., 2004), con il celebre colpo di scena in cui si scopre che una comunità americana si è rifugiata in un simulacro di villaggio storico, rinunciando alla contemporaneità e mettendo in scena una gigantesca finzione sociale, rappresenta una delle più riuscite metafo­ re del presente di questi anni. Gli elementi in gioco sono parecchi: l’esperimento civile si nutre della paura, con tan­ to di falsi mostri che abitano appena fuori del confine (faci­ le individuare il bersaglio dell’isolazionismo statunitense e della fobia verso il terrorismo, alimentata ad arte dai gover­ nanti); da protesta verso una società divenuta troppo vio­ lenta, il tentativo dei “padri” della comunità si tramuta in esercizio dittatoriale e in totalitarismo defacto, con una cri39

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tica piuttosto chiara al Patriot Act e alle conseguenze dell’11/9; infine, sebbene sia facile intuire un motivo meta­ cinematografico (la sceneggiata dei mostri è ottenuta attra­ verso costumi, altoparlanti, luci, narrazione per immagini, etc.), pare più appropriato leggervi un attacco più esteso al sistema dei media e alla loro manipolabilità. Insomma, The Village - sia pure con qualche difetto di troppo (come exemplum fìctum ha il sapore di un progetto molto cere­ brale e poco spontaneo) - si candida a film-simbolo dell’America post-11/9- Più di recente, con E venne il giorno (The Happening, 2008), il regista di origine indiana ha voluto narrare una storia di fantascienza onorifica, in cui un miste­ rioso virus naturale spinge le persone al suicidio. Se, du­ rante il racconto, Shyamalan sembra ripercorrere stanca­ mente i consueti luoghi comuni sulla società statunitense paranoica e violenta, il tema del suicidio che - in epoca di kamikaze - contagia persino l’America, appare dotato di una forza non disprezzabile. Molti altri sarebbero i film da trattare. Basti nominare l’ottimo Zodiac (Id., 2007) di David Fincher, che fa finta di raccontare la vicenda del killer dello Zodiaco negli anni Settanta ma poi allude alle reazioni di una collettività nei confronti di un terrorista che invia messaggi oscuri, criptici e incomprensibili al pensiero occidentale; o il piccolo ma intenso The Mist (Id., 2008) di Frank Darabont, dove un vecchio racconto di Stephen King (ambientato in un super­ market intorno al quale si condensa una fitta nebbia piena di orrendi pericoli) diventa un pamphlet sul corpo sociale della provincia, all’epoca dell’immaginario apocalittico pro­ posto da Bush. Tuttavia, se dovessimo scegliere il film più originale e “spiritato” del decennio - sempre nel contesto di queste “allusioni per slittamento” - sceglieremmo senza dubbio II petroliere (There Will Be Blood, 2007) di Paul Thomas Anderson. In questo caso, la vicenda del proto-ca­ pitalista Plainview e della sua ricerca ossessiva del potere attraverso il petrolio potrebbe dirci qualcosa delle origini degli Stati Uniti. Ma, a far diventare il film un vero manife­ sto degli studi post-11/9, è l’alleanza che si instaura tra il minatore e il personaggio del sacerdote. Dotati entrambi di spregiudicatezza e pronti a ogni sopruso, intrecciano i pro­ 40

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pri percorsi fino a piegare l’intera società che vive sotto di loro, in spregio a ogni forma di governo. Petrolio e purita­ nesimo, insomma, dominano l’America. Ricorda qualcosa? Rifiuto del trauma Vale la pena ricordare che i fantasmi culturali, come li abbiamo chiamati per comodità, agiscono - oltre che sulle forme narrative e stilistiche - anche su quelle produttive. Si pensi, per esempio, al fenomeno del reboot, una delle for­ me più specifiche di serializzazione del cinema negli anni recenti. Il reboot a volte si può confondere col prequel (co­ me nel caso di Star Trek, {Id., 2009], di J.J. Abrams). A diffe­ renza del prequel, che formalmente narra gli avvenimenti che hanno portato al “grado iniziale” l’universo diegetico comune a tutti (come nel caso di Hannibal Lecter - Le origi­ ni del male, [Hannibal Rising, Peter Webber, 2007]), e a dif­ ferenza del remake (con cui tecnicamente si confonde), il reboot ha però il compito di riazzerare le mitologie cinema­ tografiche e riproporle da capo. Da una parte, si sfrutta la fama del capostipite (o meglio, della serie capostipite), dal­ l’altra si fa opera di palingenesi. Nel remake, l’edificio pre­ cedente viene - invece che abbattuto - svuotato degli aspetti più obsoleti, e rinnovato, mantenendo del predeces­ sore solamente le impressioni esteriori e la scia di discorsi sociali che ha lasciato dietro di sé. Nel reboot, l’ansia di obliterazione della memoria preesistente supera di gran lunga il richiamo verso la mitografia originaria. Forse il re­ boot più eloquente è Venerdì 13 {Friday the 13th, 2009) di Marcus Nispel, dove i primi venti minuti fungono da rema­ ke compresso del capostipite, e il resto del film - sia pure monotono e prevedibile - si preoccupa di riattualizzare l’efferata saga, ma si potrebbero citare tanti casi, dal nuovo James Bond interpretato da Daniel Craig alla saga di Bat­ man nella versione di Christopher Nolan. Il reboot risponde a un’esigenza industriale, spettatoriale, psicologica, storica, sociale e culturale allo stesso tem­ po, come sempre accade nei mutamenti tecnico-estetici di un mezzo espressivo come il cinema. Con il reboot si parte da capo. Tabula rasa. Con il reboot ci si disfa della società 41

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del replay (ovvero del remake), di quella gabbia ossèssiva che ha costretto il mondo intero - e i cittadini americani in particolare - a vedere e rivedere continuamente il crollo delle Torri. Con il reboot si dà vita a una nuova configura­ zione capace non di elaborare il lutto - il che sarebbe con­ sigliabile in una società più abituata a fare i conti con i traumi della Storia rispetto a quella statunitense, ancora particolarmente “giovane” - ma di sotterrarlo. Si aggiunga, per di più, che il reboot è bipartisan. Da una parte accontenta gli spiriti democratici, rooseveltiani e obamiani, poiché negozia una “nuova società narrativa" a partire dai racconti più rispettosi (lo Star Trek di Abrams, che abbiamo citato, impiega il doppio personaggio di Spock in funzione metanarrativa e imbastisce cosi una ri­ flessione conservatrice sull’eredità dei buoni, vecchi sistemi di rappresentazione); dall’altra accontenta però anche il pensiero repubblicano e biblico/tradizionalista, dilagante nell’epoca Bush, perché - in termini metaforici - suggeri­ sce che le tragedie come 1’11/9 siano utili a rifondare le ci­ viltà, come ci ha raccontato un certo, discutibile cinema conservatore statunitense in questi anni (Zo sono leggenda, Apocalypto, [Id., Mei Gibson, 2006), o 300, solo per fare qualche esempio). Tutto ciò fa pensare insomma al “rifiuto del trauma”. Il sospetto è, dunque, che anche le forme di serializzazione abbiano partecipato ai profondi e non sempre consapevoli sommovimenti d’immaginario del post-11 settembre. Piace, dunque, spingere più in là il ragionamento e pensare che il reboot - di per sé - possa rappresentare la più evidente ri­ sposta all’ineluttabilità, all’impossibilità di fare un “remake" della Storia in cui gli aerei non si schiantano sulle Torri Ge­ melle. Non è un caso che una certa produzione statuniten­ se abbia in questi anni proposto film e serie tv in cui la possibilità di prevedere gli avvenimenti e dunque di evitare il disastro diventa un elemento diegetico quasi ossessivo (si pensi a Déja-Vu, [Id., Tony Scott, 2006); a Next, [Id., Lee Tamahori, 2007); a Segnali dal futuro, [Knowing, Alex Proyas, 2009); a Heroes, [Id], o Flash Forward [Id], per ciò che ri­ guarda il piccolo schermo). Insomma, l’ossessione di ritor­ nare allo status quo e ripartire da capo rispunta dappertut42

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to nelle produzioni popolari americane: fin da subito, l’orri­ bile, infinita replica delle immagini degli aerei che affonda­ no nella struttura delle torri, e la conseguente caduta delle stesse, dava vita non tanto a una morbosa passione per il “replay” della tragedia quanto piuttosto al desiderio irrazio­ nale che ogni volta “qualcosa potesse cambiare” nella con­ catenazione del massacro. Elaborazione del lutto Differente e contraria, ci pare una produzione cinemato­ grafica che prende atto del disastro e ragiona con compe­ tenza e profondità intorno ai mutamenti - probabilmente non improvvisi - della società americana. Come anche per la categoria successiva, l’elaborazione del lutto consiste so­ prattutto nell’accogliere la dimensione della violenza come ineluttabile. Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men, 2007) di Joel e Ethan Coen, in questa direzione, espri­ me una posizione molto precisa. Adattando un riuscito ro­ manzo di Cormac McCarthy, i fratelli Coen se ne appropria­ no senza deferenza (che non sia quella narrativa) allo sco­ po di mettere in scena un attacco “astratto” della violenza contro la società. Disincarnato fino a diventare spettrale, il personaggio del killer Chigurh stritola e massacra tutto ciò che gli si para davanti. È l’ottusità del terrore, la cui unica logica diviene casuale (la monetina: testa sopravvivi, croce sei morto). Tutt’intorno, il reduce del Vietnam - ancora una volta indicata come guerra da cui tutto origina - e il vec­ chio sceriffo custode di un’America pionieristica che non è più, rischiano di venire travolti da un mutamento antropo­ logico più grande di loro. 1 Coen suggeriscono, però, che ciò non sia il frutto dell’11/9, ma - volendo leggervi in fili­ grana i temi che qui ci interessano - sia l’intima disonestà di una Nazione a spalancare poi le porte al Male più esteso e inarrestabile. Da grandi moralisti quali sono (non abba­ stanza studiati in tal senso), i Coen qui spiegano una volta per tutte la loro personale versione del Nichilismo con cui flirtano da anni, addossando a un personaggio di killer le mille sfumature della violenza umana. Spostandoci di asse, bisogna sottolineare come il cine­ ma hollywoodiano abbia atteso anni prima di poter “rap­ 43

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presentare” qualcosa di simile agli attentati delle Torri Ge­ melle. E dunque, un film come Cloverfield (Id., Matt Ree­ ves, 2008), in apparenza vicino ai film che alludono per slittamento all’ll settembre, diventa invece elaborazione del lutto. Invertendo ì'iconofobia che ha investito gli Stati Uniti nei primi anni Duemila, il film prodotto da J.J. Abrams (vero inventore di forme audiovisive della contemporanei­ tà) si autorappresenta come diario intimo di quel giorno. Lo fa astutamente, poiché separa, in maniera quasi isterica, forma e contenuto. Da una parte, la forma-videocamera non può che suggerire autenticità e realismo, grazie alla soggettiva insistita della “vittima”, in diretta dal disastro. Dall’altra, il mostro simil-Godzilla e i più piccoli carnivori sguinzagliati per Manhattan allontanano fantasiosamente ogni sospetto (legittimo) di hybris storiografica. Il mix che ne esce è contraddittorio, eccitante e privo di veri appigli per lo spettatore. Se lo si prende come divertissement, si ri­ schia la superficialità. Se lo si prende troppo sul serio, si ri­ schia di dimenticare la dimensione "scandalosamente” ludi­ ca del racconto. E dunque si tratta di un apax piuttosto elo­ quente dei tempi che corrono, dove immagini potentissime (la testa della Statua della Libertà che rotola vicino a Broad­ way) rivaleggiano con quelle drammaticamente reali dell’11/9. Con tutta evidenza, si tratta di uno dei più chiari tentativi di suturare il trauma, cucire le ferite, dimostrare che c’è ancora cinema spettacolare dopo il disastro, scuo­ tersi di dosso - in quanto hollywoodiani - il timore di ave­ re una “correità iconica” nell’11/9. Se pellicole come I figli degli uomini (Children of Men, 2006) di Alfonso Cuaròn si limitano - con grande efficacia, peraltro - a mettere in scena un futuro prossimo plasmato sulla guerra al terrore, e opere ambigue come Vper Ven­ detta (Vfor Vendetta, 2005) giocano con la dimensione anarchica e creativa del terrorismo, bisogna ricordare alme­ no un supereroe adottato dal cinema, Spiderman, come ve­ ro medico deU’America ferita. Al contrario degli altri, su cui ci soffermeremo più avanti, siano essi ingoiati dal gorgo della violenza (il Batman versione Nolan) o parte di una tri­ bù dilaniata (gli X-Men), l’Uomo Ragno vibra delle sensa­ zioni della sua città, ne è parte e ne diventa sofferente, 44

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concilia responsabilità e disperazione. E dunque, grazie al­ la sensibilità di Sam Raimi, sia Spiderman 2 (Jd., 2004) sia Spiderman 3 (Jd., 2007) recano i segni di un’elaborazione luttuosa infinita, perenne, malinconica. Nel terzo capitolo, poi, oltre a numerose allusioni esplicite, va enfatizzata la rappresentazione visiva del classico nemico Sandman, Uo­ mo di Sabbia, che diventa - nelle mani di Raimi - una for­ za violenta e incontrollata, nata (forse) dalla polvere delle macerie di Ground Zero. Retorica della nuova barbarie Eguale e contraria all’elaborazione del lutto, la “retorica” della violenza è figlia degli avvenimenti successivi all’11/9. Non tutto il cinema post-11 settembre guarda esclusivamente alla tragedia e alle sue conseguenze sulla società. Il rischio, infatti, potrebbe essere quello di confinare il fatto a un unico, decisivo momento drammatico. Invece, le suc­ cessive guerre e l’esponenziale aumento di immagini vio­ lente proposte dai media hanno contribuito a formare nuo­ ve sensibilità. Se da una parte la brutalità del terrorismo e la furia degli insorti in Iraq o Afghanistan hanno scioccato l’Occidente, attraverso insostenibili immagini di tortura e decapitazioni via web, l’America sembra aver voluto ri­ spondere giocando sullo stesso terreno. Le fotografìe di Abu Grahib, la rappresentazione dei cadaveri sfigurati dei figli di Saddam, infine l’impiccagione di Saddam stesso, astutamente fatta circolare dai media americani su tg e siti di grande popolarità, hanno confermato l’idea soggiacente di una “nuova barbarie”. Essa ha, paradossalmente, contro­ bilanciato un orrore virtuale, quello delle Torri Gemelle, in cui l’enormità della tragedia non possedeva altro che lo spettacolo mostruoso del World Trade Center in fumo e l’immaginazione sull’agonia delle vittime. Con la guerra al terrore, la risposta del terrorismo e l’ulteriore vendetta mediatica americana, invece, si combatte su un terreno assai più concreto, quello della violenza esibita, della tortura, della sofferenza del corpo umano. Inutile spiegare, dun­ que, perché la vigorosa rinascita dell’horror abbia risposto immediatamente a questi stimoli e perché questo genere, 45

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sempre presente nei momenti di tensione della storia statu­ nitense, si sia caricato di immagini tanto estreme. Fino a pochi anni prima, l’horror sembrava depotenziato di qual­ siasi energia critica, impegnato com’era a studiare se stesso e decostruire i propri meccanismi in senso postmoderno (si pensi alla saga di Scream). Qualche tempo dopo, ecco emergere il filone del cosiddetto torture porn, cruda serie di film che negli anni Settanta sarebbero stati confinati a un consumo radicale di nicchia e ora invece fanno bella mo­ stra nelle sale di prima visione, senza troppi problemi di censura. Le maglie del visibile si sono allargate. La soppor­ tazione della violenza, anche. Ma, forse, c’è in ballo qual­ cosa di più importante: rendere consumabili le immagini che giorno per giorno giungono dai luoghi di conflitto. Si tratta di una dimensione leggermente diversa da quella, classica, della catarsi. Un cinema sconvolgente può servire a far sopportare documenti audiovisivi non sopportabili? E se la risposta è positiva: che valore culturale assume questo cinema? Dipende dai film, naturalmente. Pensiamo alla serie di Hostel {Hostel, [Id., 20051; Hostel 2, [Id., 2007], entrambi di­ retti da Eli Roth) o a quella, artisticamente meno importan­ te ma più che degna, di Saw, di cui per brevità citiamo il capostipite Saw -L'enigmista {Saw, James Wan, 2004) e l’ul­ timo capitolo in ordine di tempo {Saw VI, [Jd., Kevin Greutert, 20091). In questi casi, il legame tra tortura e puritanesi­ mo, tra violenza e colpa, tra brutalità e condanna diffìcil­ mente rischia di sfociare in condivisione dei metodi più atroci, né di fornire alcuna giustificazione all’uso della fòr­ za. Lo scenario è sadico, certo, e la morbosità di certe se­ quenze supera ogni immaginazione. Tuttavia, questo è l’or­ rore nella sua versione più sincera. Ben peggio accade con pellicole apparentemente meno fosche, pensate per sfrutta­ re - una volta di più - la mania del remake. In alcuni casi, si assiste persino a uno svuotamento e a una riconversione preoccupante dei principali punti di forza dei capostipiti. I remake di film anni Settanta {L'alba dei morti viventi, The Fog - Nebbia assassina, [The Fog., Rupert Wainwright, 20051; Omen - Il presagio, [Tbe Omen, John Moore, 2006]; Le colline hanno gli occhi, [The Hills Have Eyes, Alexander 46

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Aja, 2006], solo per citare i più noti), ne costituiscono al tempo stesso la prosecuzione e il rifiuto. Prosecuzione poi­ ché scovano nel new horror anni Settanta il modello fonda­ mentale grazie al quale il genere fa vibrare le corde dell’a­ nalisi sociale, e rifiuto poiché ambiscono a rifondare l’horror senza ricorrere al calco più mainstream. Ma che tipo di rapporto instaurano i film succitati nei confronti dell’ideolo­ gia sottesa ai titoli originari? Probabilmente ci troviamo di fronte, più che a una ideologia del remake, a un curioso ca­ so di remake dell’ideologia. Ben che vada, i film che abbia­ mo citato si augurano che, insieme al testo di partenza, giunga a noi anche il contesto di “critica politica” che sottin­ tendevano. Mal che vada, invece, come nel caso di L’alba dei morti viventi, emerge il tentativo di invertire la rotta e trasformare il capostipite - manifesto anti-istituzionale e anti-capitalista ideato da George A. Romero - in un sottile elo­ gio del pensiero conservatore (si veda la figura dell’eroemartire) e in un attacco senza precedenti al nemico esterno (la figura degli zombi parificati a stranieri irregolari). Di una cosa si può essere certi, in ogni caso: l’aderenza consapevole al clima del post-U/9 anche per le pellicole più disimpegnate. Come si spiegherebbero, altrimenti, le trame di film dozzinali come Le colline hanno gli occhi 2 (The Hills Have Eyes 2, Martin Weisz, 2007), in cui una pat­ tuglia' di marines si esercita sulle montagne e viene invece attaccata dai mostri del luogo con tattiche da guerriglia? Riconfigurazione sociale Avevamo accennato poco sopra a film come Io sono leg­ genda, già trattato nel primo capitolo, e Apocalypto. Que­ st’ultimo film, diretto da Mei Gibson, ha suscitato clamore per la violenza rappresentata. In effetti, sebbene non ascri­ vibili al filone horror, i film diretti da Gibson sembrano par­ tecipare attivamente alla barbarie di cui sopra. La passione di Cristo (The Passion of the Christ, 2004) - caso clamoroso della storia recente del cinema: un’opera indipendente e misticheggiante di un estremista diviene testo centrale della contemporaneità, spingendo le massime istituzioni religio­ se a occuparsene - viene ricordato come il Vangelo più 47

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grandguignolesco e splatter mai narrato, con forte irritazio­ ne delle comunità ebraiche, sconvolte dall’evidente antise­ mitismo della pellicola. Apocalypto a sua volta, pur ambien­ tato tra i Maya nel ’500, ha l’ambizione di spiegare la fine della civiltà di oggi. La frase che apre il film (“Una grande civiltà viene conquistata dall’esterno solo quando si è di­ strutta dall’interno’’), non lascia dubbi. Nel lungo, imperter­ rito conflitto tra invasori e invasi - pieno di torture, sacrifici umani, omicidi - la civiltà Maya implode. Non appena la salvezza pare raggiunta, all’orizzonte compaiono le navi spagnole, per dominare quel che resta di un mondo auto­ distrutto. Gibson, maestro di ambiguità morale, sembra compiacersi del gore che mette in scena salvo poi condan­ narne le motivazioni. Ogni trauma storico porta a una ri­ configurazione sociale. Ogni trauma storico è il frutto di una corruzione etica interna alla civiltà che lo soffre. Ogni trauma storico è un momento di palingenesi. Si scorgono, in queste conclusioni facilmente leggibili nel film, le teorie della destra cristiana americana e del biblismo apocrifo ca­ ro al pensiero neoconservatore, di cui Gibson sembra per di più una scheggia impazzita. 11 cinema di area repubblicana e millenarista trova nel post-11/9 un terreno di espressione formidabile. Ciò non significa, sia chiaro, attribuire progetti politici a film di lar­ go consumo, né etichettare come “di destra” o “di sinistra” opere che hanno come unico scopo quello di guadagnare il massimo profitto possibile. Compito di una lettura cultu­ rale del cinema è, però, illuminare espressioni meno visibi­ li e sensi meno evidenti di pellicole altrimenti confinate nel puro intrattenimento. A proposito di recuperi dubbi del passato, pensiamo infatti al mal riuscito Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Scott Derrickson, 2008), anch’esso piuttosto sfuggente verso il messaggio pa­ cifista che pretende di custodire; o Invasion (The Invasion, Oliver Hirschbiegel, 2007) ennesima edizione del classico Invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956) di Don Siegei, che stavolta viene aggiornato all’epoca della guerra in Iraq, con ambigui rimandi al conflitto me­ diorientale e altrettanto confuse metafore nei confronti del­ le “copie umane” fabbricate dagli alieni. 48

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Del resto, un film come Disturbici (Id., 2007), di DJ. Ca­ ruso, modellato come esibita rilettura della Finestra sul cor­ tile (Rear Window, 1954) di Alfred Hitchcock, adegua il vo­ yeurismo del modello classico all’epoca delle cellule dor­ mienti. Lo spionaggio cui pare costretto il giovane protago­ nista - bloccato a casa da un braccialetto elettronico con­ trollato dalla polizia - altro non è che un congegno narrati­ vo di propaganda della delazione come metodo di convi­ venza civile. Non solo, infatti, il giovane eroe scopre un omicidio nella casa di fronte, ma dimostra che osservare le abitudini dei vicini e magari spiare la procace ragazzina in camera sua porta a buoni risultati: il male viene debellato e la bella adolescente ti corre tra le braccia, perdonandoti l’invasione della privacy. La stessa accoppiata tra regista e attore (Shia LaBoeuD si fa perdonare con un film di fanta­ politica, sia pur non memorabile, in cui i sistemi informati­ ci di controllo stile Echelon vengono aspramente criticati perché rischiano di nuocere ai cittadini innocenti (Eagle Eye, [Id., 20081). In tutti i casi, la riconfigurazione sociale parte dall'assun­ to che dopo 1’11/9 nulla è più lo stesso. Il cinema “pacifi­ sta” invita a una nuova stagione di concordia e umiltà; il ci­ nema “bellicista” ricorda che l’apocalisse è necessaria a for­ giare le nazioni. È per questo che - disastro aereo a parte una serie magnifica come Lost (ancora creata da J.J. Abrams) andrebbe studiata di episodio in episodio per co­ me mette in scena (in termini fantascientifici) i problemi di una comunità in condizioni estreme: scelta del leader, indi­ viduazione di nemici esterni e interni, confronto con l’irra­ zionale, discorsivizzazione della storia tribale, antropologia dei rapporti interpersonali, e così via. Su Lost torneremo ancora nel capitolo dedicato alla serialità.

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Dieci film The Terminal (2004) Saw (2004) L’alba dei morti viventi (2004) The Village (2004) Apocalypto (2006) Il petroliere (2007) Non è un paese per vecchi (2007) Disturbi# (2007) Cloverfield (2008) Star Trek (2009)

Dieci letture Wheeler Winston Dixon, Film and Television After 9/11, Southern Illinois University Press, 2004; Marco Beipoliti, Crolli, Einaudi, Torino, 2005; Giaime Alonge, Giulia Cariuccio, a cura di, La valle

dell’Eden (2007). Vol. 18: Dossier Americana. Cinema e televisio­ ne negli Stati Uniti dopo 1’11 settembre, Carocci, Roma, 2007; Da­ vid Simpson, 9/11. The Culture of Commemoration, University of Chicago Press, Chicago, 2006; Joseph Natoli, This Is a Picture and Not the World: Movies and a Post-9/11 America, State Univer­ sity of New York Press, New York, 2007; Marco Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze, 2008; Susan Faludi, Il sesso del terrore. Il nuovo maschilismo ame­ ricano, Isbn, Milano, 2008; Andrea Fontana, a cura di, Il cinema americano dopo 1’11 settembre, Morpheo Edizioni, Piacenza, 2008; Leonardo Gandini, Andrea Beliavita, a cura di, Ventuno x undici. Fare cinema dopo l’undici settembre, Le Mani, Recco (Gc), 2008; Martin Amis, Il secondo aereo. 11 settembre: 20012007, Einaudi, Torino, 2009-

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4. Generi cinematografici I: il macrogenere fantastico

Secondo teorie dei generi ormai acquisite, ha poco sen­ so distinguere in maniera tradizionale i vari filoni, specialmente quelli del cinema hollywoodiano, attraverso griglie storiche o tematiche. Non solo il rischio sarebbe quello di una rigidità di classificazione che non tiene conto delle rea­ li abitudini di scelta e consumo da parte dello spettatore, ma si finirebbe col perdere la visione di insieme. Ecco perché, come quarta “idea” del nostro viaggio nel cinema statunitense degli anni Duemila, c’è quella di dedi­ care - nella costellazione dei generi - un intero capitolo al macrogenere del fantastico, che sovrintende alla gran parte delle operazioni spettacolari a Hollywood e che probabil­ mente, almeno negli ultimi anni, coincide per lo più con la politica del blockbuster. Il fantastico americano, in buona sostanza, sembra es­ sersi disposto in sottogeneri e affluenti ben riconoscibili, che tuttavia appaiono unificati dall’aspetto esibito della macchina produttiva e dall’utilizzazione - oltre che dalla “promessa” allo spettatore - di un largo ricorso alle tecno­ logie digitali e infografiche: per intenderci, lo spettatore che si reca a vedere Troy (Id., Wolfgang Petersen, 2004) non di rado è lo stesso che paga il biglietto per II signore degli anelli - La compagnia dell’anello (The Lord of the Rings - The Fellowship of the Ring, Peter Jackson, 2001), poiché si tratta di film che fanno parte di un unico insieme fanta-storico (detta volgarmente, il “fìlmone” americano), ricolmo di avventura ed effetti speciali, dove la tradizionale suddivisione di genere tra film epico e film fantasy perde ogni senso. Del resto, chi potrebbe davvero definire la saga Twilight come un’opera horror? O La maledizione della pri­ ma luna (Pirates of the Caribbean: The Curse of the Black 51

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Pearl, Gore Verbinski, 2003), come una pellicola stretta­ mente di cappa e spada? Il trionfo internazionale dei multiplex ha fatto sì che sorgano meno dubbi sulla scelta indicativa della pellicola da distribuire e mostrare, con rare eccezioni che conferma­ no la regola: al multiplex situato nei dintorni delle città viene programmato il cinema mainstream e di grande eva­ sione, nelle sale “di scelta”, spesso urbanizzate, il cinema d’autore e di nicchia. Attraverso il multiplex, nel contesto di architetture e scenografìe vagamente futuribili, il consu­ mo di questi film viene facilitato, favorito e sostenuto. Grandi koiné spettacolari rappresentano i “congegni” di immaginario fantastico tipicamente contemporanei dove storia, mito, fantasia e tecnologia esasperata vengono fusi in un’unica attrazione. Persino l’accumulo narrativo, la modularità del racconto e le incertezze estetiche del digita­ le sembrano suggerire una lunga, e ancora incompiuta, fa­ se aurorale del cinema fantastico americano, al tempo stes­ so evoluto e primitivo. Per di più - forse per controbattere alla sempre più insi­ stente rivalità degli altri media e della lunga serialità televi­ siva - il cinema hollywodiano sembra alla ricerca di filiere orizzontali che coinvolgano altri media (dal fumetto al vi­ deogame, dal web all’area ludica tradizionale - e questa non è una novità) e persino l’industria letteraria, considera­ ta nuovamente strategica negli ultimi anni. Le operazioni di questo tipo sono ormai numerose. Negli anni Duemila, si è conclusa la triplice trasposizione del Signore degli anelli di Tolkien, un’impresa titanica condotta in porto da Peter Jackson, che ha rinunciato a molte delle caratteristiche che avevano reso originali e sorprendenti i suoi film per rispet­ tare al dettaglio l’iconografìa tolkieniana. Il successo otte­ nuto dalle tre pellicole, coronato dagli Oscar per il terzo episodio (// Signore degli anelli - Il ritorno del Re, {The Lord of the Rings: The Return of the King, 2004]), concessi a mo’ di risarcimento per tutta la saga, hanno decretato l’approva­ zione generalizzata di pubblico, media e critica nei con­ fronti del kolossal. In verità, con spirito un po’ più critico, i tre film denunciano vistosi limiti figurativi, uri eccessivo ruolo di effetti speciali non sempre all’altezza, e oscillazioni 52

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narrative incerte. Si sa, tuttavia, che i blockbuster non pos­ sono andare tanto per il sottile. E chi aveva sostenuto che in fondo una grande, infedele ed eretica trasposizione tolkieniana c’era già stata, con la prima trilogia di Guerre stel­ lari, si è trovato poi di fronte a una nuova trilogia lueasia­ na, anch’essa conclusa nei primi anni del nuovo secolo. Sia pure baciati da un prevedibile successo, i vari Star Wars: Episodio II - L'attacco dei cloni (Star Wars: Episode II - At­ tack of the Clones, 2002) o Star Wars: Episodio III - La ven­ detta dei Sith (Star Wars: Episode III - Revenge of the Sitb, 2005), non hanno funzionato, non si sono radicati nell’im­ maginario collettivo, e sono stati sconfìtti dalla saga rivale proprio sul piano dell’affetto e del culto degli spettatori. Per ciò che riguarda il nostro discorso, il fatto che le due narrazioni epiche siano state così spesso messe a confronto dimostra la bontà dell’assunto iniziale: non c’è grande diffe­ renza “di consumo” tra fantasy e fantascienza, o tra miti contemporanei. Bastava assistere alla movimentazione di decine di migliaia di fan sparsi nel mondo, impegnati a spodestare Lucas da Star Wars e proporre di affidare i nuo­ vi capitoli del prequel a Peter Jackson, per comprendere come le due epopee sembrino consanguinee agli occhi dello spettatore. In particolare, la nuova trilogia ha scontato una non feli­ cissima vena narrativa, la scelta di personaggi opachi (il giovane Obi Wan Kenobi) o profondamente sbagliati (il fa­ migerato Jar-Jar Binks di Star Wars: Episodio 1 - La minac­ cia fantasma, [Star Wars: Episode I - The Phantom Menace, 19991), un’estetica digitale spesso confusionaria, di puro ac­ cumulo. Inoltre, il problema di Lucas - rispettare l’icono­ grafìa originaria, rischiando il modernariato, e al contempo garantire l’avanguardia degli effetti speciali di ultima gene­ razione - non è stato risolto in nessuno dei tre capitoli. Se, dunque, // signore degli anelli ha vinto su tutta la li­ nea, non ci si poteva aspettare altro che una lunga serie di imitazioni. I produttori hanno presto comprato i diritti di saghe letterarie contemporanee alio scopo di pescare nello stesso bacino, amplissimo, di utenti. Ne sono uscite, preve­ dibilmente, pellicole dimenticabili - Le cronache di Namia - Il leone, la strega e l'armadio (The Chronicles of Narnia 53

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The Lion, the Witch, and the Wardrobe, Andrew Adamson, 2005) - o non sempre apprezzate dal grande pubblico (La bussola d’oro, {The Golden Compass], Chris Weitz, 2007). Il che ha immediatamente consigliato i produttori di attingere nuovamente a Tolkien, adattando - in due film distinti, at­ tesi per il 2011 - il lungo testo dello Hobbit, con la produ­ zione e supervisione del solito Peter Jackson, nel frattempo passato attraverso fasi di carriera interlocutorie con King Kong (Id., 2006) e Amabili resti (Lovely Bones, 2009) e la regia di Guillermo Del Toro, autore-star del cinema messi­ cano, giustamente apprezzato in America per Hellboy (Id., 2004), Hellboy - The Golden Army (Hellboy 2: The Golden Army, 2008), e II labirinto del fauno (El laberinto del fauno, 2006). E così, la vera, grande epopea cinematografica degli an­ ni Duemila risponde al nome di Harry Potter, che va intesa come coproduzione anglo-americana, alla cui base si trova­ no, come noto, i romanzi di J.K. Rowling. Le avventure del “maghetto” hanno condensato con abilità cultura pagana, passione per la magia (vero collante di questi tempi) e rac­ conto di formazione. I film, a loro volta, hanno scelto con astuzia di non pigiare troppo il pedale dell’iper-tecnologia per lasciare spazio alla narrazione, ai personaggi archetipici e alle discutibili virtù del cinema per famiglie. Inutile ricor­ dare il successo incontrastato di titoli come Harry Potter e la pietra filosofale (Harry Potter and the Philosopher's Stone, Chris Columbus, 2001), Harry Potter e il calice di fuoco (Harry Potter and the Globet of Fire, Mike Newell, 2005), o Harry Potter e l’ordine della fenice (Harry Potter and the Order of Phoenix, David Yates, 2007). La commercializzazione di altri contenuti su differenti media si è dimostrata una volta di più strategia vincente. Del resto, se pensiamo alla trilogia di Ipirati dei Caraibi che si compone, oltre al primo episodio, di Pirati dei Ca­ raibi - La maledizione del forziere fantasma (Pirates of the Caribbean: Dead Man‘s Chest, G. Verbinski, 2006) e di Pi­ rati dei Caraibi - Ai confini del mondo (Pirates of the Carib­ bean: At World’s End, G. Verbinski, 2007) - si scopre che l’origine produttiva dei film va individuata nel desiderio di rilancio dei parchi giochi Disney e degli intrattenimenti lu­ 54

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dici connessi. Anche in questo caso, film di pirati, fiaba, horror, avventura si mescolano senza alcuna soluzione di continuità, e senza che questo faccia gridare al tradimento dell’esperienza classica. Anzi, è Jpirati dei Caraibi che ac­ cede oggi alla categoria del classico per famiglie, in barba all’apparente spregiudicatezza dell’impasto e al ragiona­ mento commerciale che ne ha consigliato la realizzazione. Se, dunque, magia, occulto e fantasy tradizionale trion­ fano indisturbati in tutte le serie cinematografiche che ab­ biamo citato, rimane poco spazio per quella fetta della grande “torta" del fantastico che va sotto il nome di fanta­ scienza. Il genere fantascientifico, che non ha mai - Star Wars escluso - mostrato grande porosità nei confronti del soprannaturale magico (casomai ha ibridato la tradizione gotica e dell’horror), sembrerebbe un’altra vittima dell’ll settembre e di quella sensazione che la tragedia, nella sua orribile spettacolarità, abbia esaurito di colpo I’immaginario catastrofico e tecnologico. La fantascienza è davvero in crisi? La risposta deve esse­ re affermativa. Si pensi all’esito della trilogia di Matrix. Tan­ to il primo episodio (Matrix, \Id., Larry Wachowski, Andy Wachowski, 19991) ha costituito un punto di riferimento, quanto i secondi due - Matrix Reloaded (Id., 2003) e Ma­ trix Revolutions (Id., 2003), sempre ad opera dei fratelli Wa­ chowski - si sono rivelati meno importanti e intuitivi nel ruolo di elaborazione della tramontante epoca cyberpunk. Di mezzo, tra 1999 e 2002-2003, c’è stato lo sconquasso in­ ternazionale che lutti conosciamo e la fantascienza (prima software poi hardware) degli episodi due e tre ha lasciato ben poche tracce sulla cultura fantastica di questo periodo. Oggi, tuttavia, Matrix rimane l’opera più citata quando si vuole offrire un esempio di narrazione che migra da un medium ad altri, secondo il concetto di “transmedia story­ telling”, grazie alle code testuali in forma animata, web e videogame. Esse non sfruttano semplicemente il prototipo per allungare e allargare lo spazio ludico che ne consegue, bensì proseguono l’esperienza narrativa e propongono un arricchimento dell’universo diegetico. Uno dei temi preferiti della fantascienza, la duplicazione tecnica antropomorfa, sarebbe al centro di Transformers (Id., 2007) e Transformers - Ixi vendetta del caduto (Tran55

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sformers: Revenge of the Fallen, 2009), diretti entrambi da Michael Bay. Scriviamo “sarebbe”, perché - ispirati a una nota linea di giocattoli - gli enormi robot alieni delle due pellicole appartengono assai più a quello stesso immagina­ rio digitale e fantasioso di cui si sta parlando che non alla storia degli automi al cinema (rispolverati senza grande successo da Io, Robot, IZ, Robot, 20041, di Alex Proyas - da Isaac Asimov - e II mondo dei replicanti, {Surrogates, 20091, di Jonathan Mostow). E Mostow è anche regista del fallimentare Terminator 3 - Te macchine ribelli (.Terminator 3: The Rise of tbe Machines, 2003), uno dei film più costosi della storia del cinema, che ormai rischia di essere ricorda­ to solamente come l’ultima pellicola girata da Arnold Schwarzenegger prima di essere eletto ben due volte Go­ vernatore della California. Terminator Salvation - L’inizio della fine (Terminator Salvation, 2009) di McG, si offre in­ vece come rilancio della serie poiché finalmente scarta la consunta vicenda dei viaggi a ritroso nel tempo e ambienta una volta per tutte la battaglia nel mondo futuro, dominato dalle macchine. Se, tuttavia, davvero la fantascienza di oggi viene soffo­ cata dal fantastico più infantile e variopinto, esiste comun­ que qualcuno che ama ragionare su questi confini (scosce­ si) tra i generi. Pensiamo a Christopher Nolan che si è mi­ surato con la fantascienza, e in particolare con la corrente steampunk, in The Prestige (Id., 2006). La storia dei due prestigiatori che si sfidano fino alle estreme conseguenze, raccontata con un meccanismo ad incastro, porta a una messa in discussione delie apparenze e delle epifanie del reale; il tema diegetico (il gioco di prestigio) giustifica e raddoppia il trattato estetico-formale che ne sostiene il fa­ scino. In questo caso, dunque, la fantascienza si incarica essa stessa di riscoprire le radici del fantastico (il film è am­ bientato alla fine dell’800), arrivando a lambire un discorso metaforico sulle origini dello spettacolo cinematografico. Come noto, una parte della teoria classica del cinema so­ steneva la natura intimamente fantastica del cinema come mezzo espressivo. I film americani del macrogenere fanta­ stico sembrano quanto meno confermare che rincontro con il grande pubblico continua ad avvenire principalmen­ 56

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te su questo terreno. Se questo dato sia il frutto del con­ sueto desiderio di evasione della maggior parte degli spet­ tatori oppure l’effetto di un più acuto bisogno di fuga al­ l’interno di un decennio drammatico, non si può ancora di­ re con certezza. Si sa, però, che di fronte e periodi storici e sociali particolarmente travagliati, il fantastico fornisce - se non risposte - forme di rassicurazione simbolica da non sottovalutare. Aggiungiamo, infine, che le grandi corazzate produttive del fantastico nel cinema contemporaneo rappresentano il luogo più certo e concreto della globalizzazione hollywoo­ diana. Se Usa e Gran Bretagna fanno la parte del leone, molti di essi sono stati realizzati con forti contributi di altri continenti e altre nazioni (si pensi al ruolo della Nuova Ze­ landa per le trasposizioni da Tolkien). E non parliamo specie nelle sotto serie in stile Underworld (Id., Len Wise­ man, 2003) - ai set est europei che la fanno da padrone, così come agli incerti statuti di passaporto delle singole pellicole per ragioni fiscali. Segnale di ulteriore virtualizzazione del marchio hollywoodiano. Concludiamo ricordando che nel genere fantastico, ov­ viamente, trovano spazio anche i supereroi, custodi e pro­ tettori della comunità (ma spesso oscuri e attratti dal male). Ad essi, tuttavia, riserviamo spazio in un capitolo successi­ vo, dedicato alla serialità.

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Dieci film Il Signore degli anelli - La compagnia dell’anello (2001) Harry Potter e la pietra filosofale (2001) La maledizione della prima luna (2003) Matrix Revolutions (2003) Il Signore degli anelli - Il ritorno del Re (2003) Star Wars Episodio III - La vendetta dei Sith (2005) The Prestige (2006) Transformers (2007) Twilight (2008) Terminator Salvation - L’inizio della fine (2009)

Dieci letture Toby Miller, Nitin Govil, John McMurria, Ting Wang, Global Hollywood, BFI, London, 2001; Guglielmo Pescatore, a cura di, Matrix - Uno studio di caso, Alberto Perdisa Editore, Bologna, 2006; Renato Venturelli, a cura di, Cinema e generi 2006, Le Ma­ ni, Recco (Ge), 2006; (De)generi? La funzione dei generi nel cine­ ma contemporaneo, a cura di Simone Arcagni, Close-Up, n. 21, , Kaplan, Torino, marzo-giugno 2007; R. Venturelli, a cura di, Cine­ ma e generi 2007, Le Mani, Recco (Ge), 2007; T. Miller, N. Govil, J. McMurria, T. Wang, Global Hollywood N. 2, BFI, London, 2008; Maxime Scheinfeigel, Cinéma et magie, Armand Colin, Paris, 2008; R. Venturelli, a cura di, Cinema e generi 2008, Le Mani, Recco (Ge), 2008; R. Venturelli, a cura di, Cinema e generi 2009, Le Mani, Recco (Ge), 2009; Catherine A. Fawkes, The Fantasy Film, Wiley-Blackwell, London, 2010.

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5. Generi cinematografici II: generi in transito

Durante gli anni Ottanta e Novanta, complice una visio­ ne dei generi ancora troppo schematica, si insisteva molto sull’ibridazione dei codici classici, sulla reinvenzione delle classificazioni e delle tipologie narrative, sul pastiche di sti­ li espressivi. Ciò che investiva i generi cinematografici veni­ va inteso come elemento di postmodernità cinematografi­ ca, assai differente dal rapporto di ambivalenza (nostalgia/rifìuto dei generi) della generazione anni Sessanta/Settanta. Bene. E negli anni Duemila? La risposta è in parte conte­ nuta nel capitolo precedente. Esiste un macrogenere pragmaticamente fantastico che ingloba differenti tradizioni e forme di rappresentazione. Fuori da quello scenario, si no­ tano almeno due tendenze. La prima è quella che defini­ remmo “neoclassica”, ovvero una prassi linguistica che ten­ de a ripetere e attualizzare codici di genere e funzioni so­ cio-culturali abbastanza simili al passato. È il caso della commedia sentimentale, dove semmai la produzione holly­ woodiana soffre problemi di divismo: nessuna nuova attri­ ce - si chiami Kate Hudson (Come farsi lasciare in dieci giorni, \How to Lose a Guy in 10 Days, Donald Petrie, 20031; La ragazza del mio migliore amico, {My Best Friend’s Girl, Howard Deutch, 2008]), o Katherine Heigl (27 volte in bianco, {27 Dresses, Anne Fletcher, 2008]; La dura verità, {The Ugly Truth; Robert Luketic, 2009]) o Jennifer Garner (30 anni in 1 secondo, 123 Going on 30, Gary Winick, 2004]; La rivolta delle ex, [The Ghost of Girlfriend Past, Mark Waters, 2009D - ha saputo sostituire figure di grande identi­ ficazione (ma ormai troppo invecchiate per Ie parti richie­ ste) quali erano state Julia Roberts o Meg Ryan. E anche le attrici di passaggio tra anni Novanta e Duemila - pensiamo a Jennifer Aniston (...E alla fine arriva Polly, {Around Ca59

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me Polly, John Hamburg, 2004J; Ti odio, ti lascio, ti... {The Break-Up, Peyton Reed, 2006]), Jennifer Lopez (Un amore a 5 stelle, [Maid in Manhattan, Wayne Wang, 2002]; Quel mo­ stro di suocera, [Monster-In-Law, R. Luketic, 2005]), o San­ dra Bullock (Two Weeks Notice - Due settimane per inna­ morarsi, [Two Weeks Notice, Marc Lawrence, 2002]; Ricatto d’amore, [The Proposal, A. Fletcher, 20091) - non appaiono in grado di garantire standard di successo paragonabili a quelli delle colleghe degli anni Ottanta e Novanta. I fenomeni, si sa, sono sempre più complessi di quel che sembra. Non si tratta - ovviamente - di un semplice incanutimento di grandi star senza degna sostituzione, quan­ to di un ambiente meno ricettivo nei confronti di questo genere. Ancora una volta, la spiegazione più banale po­ trebbe sembrare quella dell’11 settembre e del clima di sfi­ ducia, scarsa serenità e cupezza che ha portato con sé. Bi­ sogna dire, però, che anche la spiegazione contraria avreb­ be dignità d’ascolto, visto che la commedia è spesso stata protagonista di momenti storicamente difficili della storia del cinema (la crisi degli anni Trenta in America o il fasci­ smo in Italia, solo per citarne due). Dunque, si tratta di un intreccio di fattori, tra i quali emerge l’ulteriore ringiovanimento del target anagrafico di Hollywood e la conseguente forza che il cinema adolescen­ ziale ha raggiunto nel corso degli anni. La commedia senti­ mentale è divenuta, più di quanto accadesse anche solo qualche anno fa, un genere adulto. Potremmo applicare la stessa definizione anche al cinema d’azione - nelle sue va­ rianti di thriller, poliziesco, action puro, etc. Non si può credere a un caso quando negli anni Duemila vediamo tor­ nare in azione i “vecchi” divi dei muscolari anni Ottanta. Sylvester Stallone è tornato a vestire i panni dei miti d’un tempo (Rocky Balboa, [Id., Sylvester Stallone, 2006]; John Rambo, [Rambo, S. Stallone, 2008)), Bruce Willis ha inter­ pretato nuovamente l’eroe Bruce McClane in Die Hard 4.0 (Id., Len Wiseman, 2008), Harrison Ford ha sguainato la frusta in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (In­ diana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull, S. Spiel­ berg, 2008). Di nuovi protagonisti nella costellazione del ci­ nema adrenalinico se ne contano sulle dita di una sola ma­ 60

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no, tra questi certamente lo smemorato agente Jason Bour­ ne, che - nella recente trilogia (TheBourne Identity, [Id., Doug Liman, 2002]; The Bourne Supremacy, [Id., P. Green­ grass, 2004]; The Bourne Ultimatum - Il ritorno dello scia­ callo, [The Bourne Ultimatum, P. Greengrass, 20071) - ha affascinato le platee per la spregiudicatezza post-Bond (co­ stringendo i produttori dei film di 007 a ripartire da capo con Agente 007 - Casinò Royale, [Casino Royale, Martin Campbell, 20061) e per la dimensione dell’amnesia: un per­ sonaggio letale senza sapere perché, una specie di metafo­ ra dell’azione a Hollywood, capace di bastare a se stessa senza più necessità di indossare stiracchiate convenzioni narrative. Vale la pena chiedersi se la figura dell’eroe non costitui­ sca uno specchio della crisi mitopoietica hollywoodiana, a cominciare dal fatto che - rispetto agli anni Ottanta - non si è avuto alcun ricambio attoriale e che Russell Crowe, Vin Diesel o Brad Piti non sono mai riusciti realmente a sosti­ tuire Schwarzenegger, Stallone, Willis, Gibson. Vero è che il corpo indistruttibile degli anni Ottanta si carica oggi di esperienza e criticità, assumendo su di sé anche le soffe­ renze della nazione nel frattempo intervenute, ma questa saldatura tra epoca Reagan e epoca Bush Jr. suggerisce qualcosa di importante. Il cinema americano di oggi è real­ mente privo di eroi, anche quando è pieno di supereroi. La televisione ha spazzato via ogni residuo di superiorità d’im­ maginario del cinema. È la serialità televisiva ad aver dimo­ strato che si può fare a meno dei generi “maschili” al cine­ ma. Sulla figura dell’eroe la Tv batte il cinema, prima anco­ ra che sulle strutture del racconto, di cui pure va enfatizza­ ta l’importanza, o s\i\Vambiente dell’azione. La figura centrale di questi anni, il già citato Jack Bauer di 24, costituisce la più grande innovazione eroistica del decennio. Ma anche Sydney Bristow di Alias ha declinato la figura dell’eroina combattente meglio e più del cinema, finendo il lavoro cominciato dai film di James Cameron e Kathryn Bigelow. E che dire del Doti. Jack di Lost, perso­ naggio che coniuga sapere lincolniano e coraggio da cow­ boy nel guidare una comunità articolata e riottosa nell’isola deserta? Queste figure della leadership, a differenza degli 61

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eroi solitari e insofferenti degli anni Ottanta, si confrontano continuamente con uno staff, un gruppo o un contesto professionale. Certamente lo disattendono, come fa Jack Bauer, o lo soffrono in quanto infido, come Sydney Bri­ stow, o lo vivono con disagio, come in Lost. Vi si legge una metafora della produttività televisiva, dove la figura dell’au­ tore a volte slitta su quella del creatore e a volte ridiventa genius of the system come durante la Hollywood classica, e nella quale comunque la collettività conta più di tutto. Generi neoclassici, si diceva. Stiamo, comunque, ragio­ nando ancora con vecchi schemi. Se ci riferiamo ai flussi di consumo cinematografico e a come veramente ragionano produttori e realizzatori, dovremmo segmentare l’orizzonte in ben altro modo. Di qui la seconda ipotesi, che spinge a recuperare opzioni di gender invece che di genere, e di anagrafe invece che di contenuti. Gli anni Duemila - forse per ricolmare il vuoto femminile che questo decennio di guerre e violenze tutte maschili ha lasciato - verranno ri­ cordati anche come il ritorno del women film. Il cinema al femminile (in gergo a stelle e strisce: chickflictè) ha offerto alcuni enormi successi tra i pochi che il cinema fantastico ha lasciato fuori di sé. Parliamo evidentemente di II diavo­ lo veste Prada (The Devil Wears Prada, David Frankel, 2006) e Mamma Mia! (Id., Phyllida Lloyd, 2008), entrambi segnati dal grande ritorno di Meryl Streep, diva richiamata alle armi con grande successo; di Sex and the City (Id., 2008), e Sex and the City 2 (Id., 2010), entrambi diretti da Michael Patrick King, e imitazioni (The Women, [Id., Diane English, 2008]); e di una folta produzione minore di pelli­ cole come In Her Shoes - Se fossi lei (In Her Shoes, Curtis Hanson, 2005), L'amore non va in vacanza (The Holiday, Nancy Meyers, 2006), Bride Wars - La mia miglior nemica (Bride Wars, G. Winick, 2009), e così via; bisogna però spingersi anche alla produzione più colta e salottiera di pellicole, per esempio i film “di malattia” come Awayfrom Her - Lontano da lei (Away From Her, Sarah Polley, 2006) o Quel che resta di mio marito (Bonneville, Christopher N. Rowley, 2008), i film di amicizia femminile e amore maturo come I sublimi segreti delle Ya-Ya Sisters (Divine Secrets of Ya-Ya Sisterhood, Callie Khouri, 2002), Mona Lisa Smile

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Od., M. Newell, 2003), Litigi d’amore (The (Ispide ofAnger, M. Binder, 2005), È complicato (It’s complicated, N. Meyers, 2010) i film della “terza età” come Amori in città... e tradi­ menti in campagna (Town & Country, Peter Chelsom, 2001), Tutto può succedere (Something’s Gotta Give, N. Me­ yers, 2003), e i drammi familiari (La neve nel cuore, [The Family Stone, Thomas Bezucha, 20051; Un segreto tra di noi, [Fireflies in the Garden, Daniel Lee, 2007]) e molti altri che - pur passando di volta in volta dal film in costume al giallo, dal dramma storico al mèlo - di fatto pescano nello stesso bacino di pubblico, di attese condivise e di aspettati­ ve culturali. Attrici come Keira Knightley, Anne Hathaway - per citare le più giovani - o Kate Winslet, Cate Blanchett, Sarah Jessica Parker, Cameron Diaz, più mature, rappre­ sentano quel che si dice un pantheon semi-divistico, tipico del periodo. Sia chiaro, nello stardom maschile le cose non sono molto diverse. Agli attori quasi cinquantenni di oggi, lan­ ciati negli anni Ottanta (Tom Cruise, Johnny Depp), e an­ cora più alla imbolsita generazione New Hollywood (Pacino/De Niro/Hoffman, tutti in caduta libera e autodistrutti­ va), non si è trovato vero ricambio. Anche i divi esplosi nei Novanta non sempre fanno centro al botteghino, e i grandi blockbuster, non a caso, sembrano fare allegramente a me­ no del divismo: nessuno va a vedere Harry Potter per Da­ niel Radcliffe, o // Signore degli Anelli per Elijah Wood, o Star Wars per Ewan MacGregor. I veri protagonisti sono gli effetti speciali e la narratività nella sua onnipotenza. Nel mondo degli adolescenti - questo sì un piatto più ricco e vivace - c’è più spazio per culti attoriali adeguati ai tempi. I reality e i talent show hanno di gran lunga ridi­ mensionato il giovane divismo cinematografico hollywoo­ diano, tuttavia - sebbene con una certa tendenza all’usa e getta - vi sono fenomeni interessanti, a cominciare da Ro­ bert Pattinson della saga di Twilight. Nei dieci anni che prendiamo in considerazione, parec­ chi teen movies o film dedicati ai twenty-something hanno conquistato le platee. Qualche esempio: Pretty Princess (The Princess Diaries, Garry Marshall, 2001), Ipassi dell’a­ more - A Walk to Remember Q4 Walk to Remember, Adam Shankman, 2002), A Time for Dancing (Id., Peter Gilbert, 63

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2002), Mean Girls {Id., M. Waters, 2004), Baciati dalla sfor­ tuna (Just My Luck, D. Petrie, 2006), Bandslam - High School Band (Bandslam, Todd Graff, 2008), (500) giorni insieme (500 Days of Summer, iMarc Webb, 2009), per non parlare della pre-adolescenza stile Disney, con l’esempio di High School Musical 3 - Senior Year (Id., Kenny Ortega, 2008) e 7 7 again (Id., Burr Steers, 2009). Si potrà obiettare che il ruolo della musica unisce film destinati a pubblici diversi. Ma possiamo davvero raggrup­ pare pellicole come Save the Last Dance (Id., Thomas Car­ ter, 2001) o Step Up (Id., A. Fletcher, 2006), e Chicago (Id., 2002) o Nine (Id., 2010) - entrambi diretti da Rob Marshall - chiamandoli tutti quanti musicali Naturalmente no. Forse esiste un solo genere che si può ibridare a fatica e che non può essere confuso con nessun altro, ed è il western, già da tempo tramontato e riscoperto solamente in occasione di exploit dedicati alla nicchia. I critici, di solito, si fanno se­ durre dal fascino d’antan e dal ritorno del mito. Va detto, tuttavia, che i pochi film degli anni Duemila ascrivibili a questo genere (Open Range - Terra di confine, [Open Ran­ ge, Kevin Costner, 20031; Appaloosa, Ud., Ed Harris, 2008)) non avrebbero sfigurato in epoca classica; e che l’unico davvero deludente - Quel treno per Yuma (3:10 to Yuma, James Mangold, 2008) - è un inopinato (e non richiesto) remake ufficiale dell’omonimo film di Delmer Daves del 1957. Va citato anche L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (The Assassination ofJesse James by the Coward Robert Ford, Andrew Dominik, 2006), film quasi sperimentale, ai limiti del non narrativo, dove la vi­ cenda di Jesse James e del suo carnefice diventa una disce­ sa brumosa nella psicologia di un bandito, divorato dalla paranoia e infine risucchiato dal nulla che stava lasciando dietro di sé. Discorso a parte meritano comico e farsa. Ci si chiede perché, di generazione in degenerazione, si sia approdati a sequenze come quella del fist fucking coatto a una mucca di Dimmi che non è vero (Say II Isn ’t So, James B. Rogers, 2001) o dell’orgia animal-gay simulata in American Pie - Il matrimonio (American Wedding, Jesse Dylan, 2003) o dei coiti anali con fallo di gomma in Bruno (Id., L. Charles, 2009), cercando di capire le forme di rappresentazione del­ 64

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la volgarità e magari separando un’oscenità liberatoria da un’oscenità conservatrice. È possibile immaginare una let­ tura culturale del fenomeno demenziale sullo sfondo delle caratteristiche dello spirito nazionale americano? Possiamo osare una “lettura interpretativa” dell’osceno nel genere farsesco? Pensiamo a Maial college {Van Wilder, Walt Becker, 2002), Quarantanni vergine (The Foruty-Year Virgin, Judd Apatow, 2005), ecc. L’ossessione del secondo neo-demen­ ziale (o, se si preferisce, del neo-neo demenziale) è la for­ ma scatologica dell’allusione pornografica. Il fuori-campo dell’XXX, di cui ogni spettatore del neo-neodemenziale è avido consumatore, spinge alle porte e viene fatto filtrare in tutti i modi. Lo sperma nei capelli di Cameron Diaz in Tutti pazzi per Mary (All About Mary, Bobby e Peter Far­ relly, 1998) fu il “turning point" (qualunque cosa si voglia pensare di questa fase del demenziale, bisogna ammettere che prima dei Farrelly sarebbe stato impensabile rappre­ sentare qualcosa di simile in un film commerciale) dopo il quale si sono considerate legittime bave, filamenti, liquidi organici, espressioni escatologiche quasi primitive. In Ame­ rican Pie, almeno negli episodi due (American Pie 2, \Jd., J.B. Rogers, 2001]) e tre (American Pie - Il matrimonio'), persino la struttura è quella del porno: narrazione rudimen­ tale, dialoghi da home movie, uomini arrapati e donne siliconate secondo un modello violentemente maschile, in at­ tesa delle sequenze maggiori (penetrazioni di torte, equivo­ ci orgiastici di cui si diceva sopra, descrizioni fisiologiche inaudite). In alcuni casi, come Scemo e più scemo - Iniziò così (Dumb and Dumberer: When Harry Met Lloyd, Troy Miller, 2003) si cerca di recuperare la lezione concettuale del nonsense, e il disordine mentale raggiunge vette stra­ zianti (la gag del cioccolato nella toilette, scambiato per sterco o quella della bevanda che anestetizza il volto e per­ mette di essere colpiti a ripetizione). Sacha Baron Cohen è, al contempo, colui che raccoglie la summa teorica del genere e l’artista che trasforma in pensiero i discorsi balbettanti delle origini. Gavetta televisi­ va a parte, con Borat e Bruno ha portato il demenziale a li­ miti inauditi, grazie a un lavoro molto teorico sulle strutture 65

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del linguaggio (il vero/fìnto reality film) e procedendo a un azzeramento consapevole di ogni forma e stilema cinema­ tografico in favore di una violenta espressività idiomatica. È questa, prima ancora dell’umorismo becero e razzista (in verità, provocatorio e selvaggiamente antirepubblicano), a irritare per lo più i commentatori. Invece, le parodie stile Scary Movie (Id., Keenen Ivory Wayans, 2000) e relativi sequel (Scary Movie 2, Ud., K.I. Wayans, 2001], Scary Movie 3, Ud-, David Zucker, 20031), Epic Movie (Id., Jason Friedberg, Aaron Seltzer, 2008) e così via, sono in verità veicoli di consenso verso gli apparenti bersagli. La stupidità e l’ottusità che esprimono, priva di qualsiasi vena eversiva, non può che trasformarli nel loro opposto. Non è semplice dunque decidere se è un bene o un ma­ le che i Farrelly deridano gli storpi, in Amore a prima svista (Shallow Hai, 2001) e Fratelli per la pelle (Stuck on You, 2003), poiché in verità deridono la società che fa finta di adorare i difetti fìsici. Tanto è, poi, che il loro film più cru­ dele e disperato - Lo spaccacuori (The Heartbreak Kid, 2007) - ha finito con l’essere ignorato da tutti, pubblico compreso. D’accordo, è diffìcile affermare - come hanno fatto seri docenti di università americane - che esista un demenziale di destra e uno di sinistra, eppure sarebbe un errore sottovalutare la funzione sociale del comico. Parodia e demenziale si appartengono e si specchiano e, quand’an­ che non producano rivoluzioni culturali, hanno pur sempre il merito di “scaricare a terra” tutto il non detto, il fuori campo, il convenzionalismo eufemistico che il cinema uffi­ ciale smercia nel 90% dei suoi prodotti. Più di recente, si parla di “universo Apatow”, alludendo al creatore più recente di contenitori comici. Dai Farrelly, Apatow - che come regista ha firmato tra gli altri gli ottimi Molto incinta (Knocked Up 2007) e quella summa dell’umo­ rismo demenziale ebraico che è Funny People (Id., 2009) ha preso la capacità di ibridare moduli da commedia di lunga durata e satira demenziale di breve respiro. Portando alle estreme conseguenze questa crasi estetica (ovvero fa­ cendo sì che i personaggi si muovano, chiacchierino e va­ ghino per il film come fosse un happening cassavetesiano, 66

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in verità immersi nel comico più pecoreccio), Apatow ha inaugurato un nuovo modo di fare cinema brillante. Se qualcuno ha parlato di “neo-conmedia” - affermando con questo gioco di parole che nei film di Apatow si fìnge tra­ sgressione ma alla fine si torna ai grandi contenuti mora­ leggianti - bisogna comunque ammettere che si è aperto un terrain vague nel quale cinema farsesco e stilemi “indie” o tipici della produzione non mainstream si sono incontrati - si pensi a SuXbad - Tre menti sopra il pelo (Suxbad, Gregg Mottola, 2007), Strafumati (.Pineapple Express, David Gordon Green, 2008), Non mi scaricare (Forgetting Sarab Marshall, Nicholas Stoller, 2009). Infine, il genere possiede finalmente un serbatoio di tipi, di volti e di caratteri, cosa che - come noto fin dai tempi della commedia all’italiana è consustanziale alla solidità del genere. Il cosiddetto “frat pack” è composto da: Jack Black, Will Ferrell, Vince Vaughn, Steve Carell, i fratelli Owen e Luke Wilson e, più di recente, Seth Rogen (forse il più dotato di tutti, anche autore e sceneggiatore), Michael Cera, Bradley Cooper, con Adam Sandler (50 volte il primo bacio, 150 First Dates, Peter Segai, 2004]; Zohan - Tutte le donne vengono al pettine, {You Don’t Mess With the Zohan, D. Dugan, 2008]) e Ben Stiller (che ha recuperato in versione comica De Niro e Hoffman con Mi presenti i tuoi?, {Meet the Fockers, Jay Roach, 2004], e poi guardato soprattutto al pubblico delle famiglie con Una notte al museo, {Night at the Museum, Shawn Levy, 2007]), in posizione di “chioccia”. I più smaliziati, poi, individuano 1’esistenza anche di una sorta di “genere Oscar”, destinato a mietere statuette e molto compromesso con logiche ferocemente commerciali anche quando fìnge un’apparente allure intellettuale. Su questo tipo di film, però, torneremo nel nono capitolo, quando parleremo di studio chic.

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Dieci film Chicago (2002) Open Range - Terra di confine (2003) Mi presenti i tuoi? (2004) Step Up (2006) Il diavolo veste Prada (2006) Molto incinta (2007) John Rambo (2008) Mamma Mia! (2008) Sex & The City (2008) Bruno (2009)

Dieci letture Steve Neale, Genre and Contemporary Hollywood, BFI, London, 2002; Timothy Shary, Generation Multiplex: The Image of Youth in Contemporary American Cinema, University of Texas Press, 2002; Mark Gallagher, Action Figures: Men, Action Films, and Contemporary Adventure Narratives, Palgrave Macmillan, Basing­ stoke, 2006; Roz Kaveney, Teen Dreams: Reading Teen Film and Television from Heathers to Veronica Mars, LB. Tauris, London, 2006; Paola Cristalli, Commedia americana in 100 film, Le Mani, Recco (Ge), 2007; Frat Pack - L’arte di far ridere, Dossier “Nocturno”, dicembre 2007; Ira Jaffe, Hollywood Hybrids - Mixing Genres in Contemporary Films, Rowman & Littlefield Publishers, London, 2007; Timothy Shary, Teen Movie - American Youth on Screen, Wallflower Press, 2006; Christopher Dekindt, Grégoire Perra, Du spirituel au cinema. Les arrière-plans du cinema d’ac­ tion américain, Editions Pic de la Mirandole, Lille, 2008; Stacey Abbott, Deborah Jermyn, a cura di, Falling in Love Again: Ro­ mantic Comedy in Contemporary Cinema, LB. Tauris, London, 2009.

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6. Autori in America: i maestri

Il sesto e settimo percorso che seguiamo sono quelli de­ gli autori. Va subito sgombrato il campo dagli equivoci. Parliamo di coloro che possiamo apertamente definire tali, e non dei tanti che la critica o i mass media hanno frettolo­ samente etichettato in questo modo. Ovviamente, per rico­ noscere un autore bisogna fare i conti con l’ambiguità della nozione. È facile capire perché si può parlare del cinema “di” Martin Scorsese o "dei" fratelli Coen. Lo è un po’ di meno quando parliamo di George Lucas o Robert Zemec­ kis: ciò accade per il semplice fatto che siamo abituati a preferire la patente di autore per quei cineasti che esibisco­ no una dimensione apertamente artistica e siamo portati a negarla a coloro che esprimono un gusto fortemente popo­ lare e commerciale. Quel che tuttavia possiamo serena­ mente affermare è che esistono autori a Hollywood. Ognu­ no di essi negozia la propria esistenza dentro un sistema storicamente poco propenso alla libertà individuale del re­ gista, ma per lo più il loro “marchio” è parte integrante del­ le strategie di promozione del prodotto cinematografico. Per questo motivo, l’autorialità rientra spesso e volentieri nel gioco dell’industria culturale e deve essere verificato dalla critica e dal pubblico. Detto questo, viene spontaneo raggruppare gli autori americani in gruppi storici, dove l’aspetto anagrafico si fon­ de quasi sempre con un periodo di appartenenza. Negli anni Duemila molti dei registi del passato hanno continuato a lavorare. Vale la pena distinguere, perciò, in due, più ampie, categorie: gli autori canonizzati (dalla New Hollywood a chi ha esordito intorno agli anni Ottanta) e gli autori più recenti (esplosi negli anni Novanta e nei Duemi­ la). A questa distinzione obbediscono i due differenti capi­ 69

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toli. All’interno di ognuno, è necessario - gioco forza operare scelte e trattare solamente alcuni nomi invece che altri, per il bene della sintesi e perché quella che avete tra le mani non è un’opera di storiografìa, bensì un testo di ra­ gionamento critico e teorico sul cinema americano. L’unica regola che vale, dunque, è che gli autori via via citati ab­ biano assunto un ruolo importante in questi dieci anni. Gli autori della New Hollywood, per esempio, si riconoscono facilmente perché sembrano quelli più in difficoltà a indivi­ duare un proprio spazio di manovra. In alcuni casi, è l’in­ dustria a metterli ai margini, poiché considera il loro cine­ ma obsoleto e inapplicabile al gusto contemporaneo (l’ulti­ mo Altman, ma anche Peter Bogdanovich, William Friedkin, Bob Rafelson o Paul Schrader). In altri casi, invece, l’a­ bilità degli autori nel trovare compromessi (più che legitti­ mi, s’intende) con il sistema hollywoodiano in perenne mutamento ha permesso loro di rimanere in sella e conti­ nuare ad essere esperiti come “maestri del cinema”. Sembra questo il caso di Scorsese, per esempio. Egli, da anni impe­ gnato in una divulgazione della storia del cinema che ruota intorno all’attività di conservazione e restauro della sua World Cinema Foundation, alla produzione di documentari eruditi sulla cultura statunitense (The Blues - Dal Mali al Mississippi, {The Blues - From Mali to Mississippi, 2002]; No Direction Home: Bob Dylan, [Id., 20051), e all’organizzazio­ ne di eventi e testimonianze sul passato, continua a realiz­ zare lungometraggi. Il dialogo con il nuovo divismo e con le nuove forme della produzione (che pure cura in prima persona) hanno modificato e attutito il furore stilistico e narrativo preesistente ma gli hanno comunque garantito un ruolo primario nel cinema di qualità. Film come Gangs of New York (Id., 2002), The Aviator (Id., 2004), The Departed Il bene e il male (The Departed, 2006) o Shutter Island (Id., 2010) mostrano un cineasta in parabola discendente eppu­ re ancora dotato di forza espressiva e momentanei guizzi di talento. Il caso opposto è quello di Clint Eastwood, il quale dopo aver incarnato, come attore e come cineasta, la contro-New Hollywood, quella conservatrice e virile - con gli anni ha saputo raffinare il proprio cinema fino a distillare 70

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film quasi perfetti. Mystic River (Id., 2003), Million Dollar Baby (Id., 2004), il dittico Flags of Our Fathers (Id., 2006) e Lettere da Iwo Jima (Letters From Iwo Jima, 2006), The Changeling (Id., 2008), Gran Torino (Id., 2009), sono solo alcuni dei capolavori eastwoodiani di questi anni. Impe­ gnato, a quanto pare, in una complessifìcazione e rilettura del tessuto sociale del paese e del suo stesso ruolo cultura­ le, l’anziano regista ha saputo gettare gambe all’aria ogni convenzione o previsione, toccando temi nevralgici della contemporaneità (eutanasia, guerra, vendetta, multietnicità, razzismo, condizione femminile...) senza mai perdere la strada della classicità. Anche Scorsese, ormai, è un classico, ed è per questo che - arrivati al 2010 - forse bisogna com­ prendere come nel cinema le categorie storiografiche ten­ dano a confondersi a seconda della prospettiva da cui os­ serviamo le cose. Basta guardare due minuti di Gran Tori­ no - film testamentario, dolente, democratico, negazione quasi in forma di commedia del nichilismo dell’Eastwood anni Settanta - per accorgersi che tra questa pellicola e un qualsiasi prodotto diretto da Michael Bay o Brett Ratner non c’è più nulla in comune, salvo che in entrambi i casi si tratta di immagini in movimento. La traiettoria che ciascuno di questi autori ha scelto, o trovato, dice qualcosa dell’incertezza con cui hanno voluto interpretare i nuovi tempi. Pensiamo a tre casi esemplari: Woody Alien, Francis Ford Coppola e Brian De Palma, ri­ gorosamente in ordine alfabetico. Alien ha rispettato inte­ gralmente il suo fare cinema, a dispetto dei mutamenti sto­ rici e sociali indotti dagli anni Duemila, e per questo moti­ vo viene tuttora rimproverato dai critici (l’accusa è quella di fare sempre lo stesso film); a ben vedere, Alien ha mostrato grande duttilità - accogliendo nuove formule produttive in Gran Bretagna, Spagna e Francia - e allontanandosi decisa­ mente dai clichè newyorkesi abituali. Se le storie e i perso­ naggi si inscrivono nel solco più riconoscibile della comici­ tà ebraica alleniana, in taluni casi un nuovo sguardo sulle classi sociali (Match Point, Id., 2005; Sogni e delitti, Cassan­ dra’s Dream, 2007) o ambientazioni inedite (Vicky Cristina Barcelona, Id., 2008) dicono di una filmografia tutt’altro che pigra. Certo, Alien è un regista americano solamente 71

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per motivi di passaporto, ormai. E lo stesso si può dire di Coppola. Ancor più disinteressato di Alien agli Stati Uniti degli anni Duemila, e finalmente in grado di raggiungere l’autarchia produttiva inseguita fin dagli anni Settanta, il re­ gista italo-americano sta inanellando opere autobiografi­ che, ermetiche, autoriali al massimo grado, sui rovelli del­ l’artista, del cineasta, del creatore di stili. Un ’altra giovinez­ za (Youth Without Youth, 2007) e Segreti difamiglia (Tetro, 2009) possono essere fruiti esclusivamente in senso autonaie, con tutti i pro e i contro che ciò comporta. Sorprende, dunque, che il più formalista e autoriflessivo dei cineasti neo-hollywoodiani, Brian De Palma, sia colui che ha voluto più degli altri mettere alla prova il senso e l’etica delle im­ magini audiovisive al tempo delle guerre post-11/9. Redac­ ted, prodotto ultra-indipendente e destinato alla nicchia, mescola ogni nuova forma di comunicazione per immagine (videodiari dei soldati, blog, vlog, documentari, reportage, etc.) e interroga dal profondo il cinema - a maggior ragio­ ne se si pensa che il film non è giunto praticamente in nes­ suna sala. È come se ogni autore della New Hollywood avesse rea­ gito a modo suo alla globalizzazione del cinema america­ no, chi facendone un’opzione, sia pure indipendente e al­ ternativa, chi rifiutandola e rifugiandosi nel nuovo scenario digitale low budget, chi erigendo le sue cattedrali alla setti­ ma arte, chissà quanto ascoltate. Sbaglierebbe, però, chi pensasse a una maggior flessibilità dei registi anni Ottanta. Più abituati dei colleghi a ragionare in termini di cinema popolare e cresciuti dentro un’industria infantilizzata, essi hanno tuttavia dovuto decidere che cosa fare da grandi. Tim Burton, per esempio - dopo un appannamento a fine anni Novanta e inizio Duemila - ha attraversato indenne le rivoluzioni in atto. Si è permesso un nostalgico film sulla fantasia (Big Fish - Le storie di una vita incredibile, {Big Fish, 20031), una bella trasposizione da Roald Dahl (La fab­ brica di cioccolato, [Charlie and the Chocolate Factory, 2005]), un musical horror (Sweeney Todd: il diabolico bar­ biere di Flee Street, [Sweeney Todd: The Demon Barber of Flee Street, 2008]), e si è adeguato alla tendenza 3D con l’incontro letterario più atteso e (per lui) archetipico, Alice 72

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in Wonderland (Id., 2010). Paradossalmente, le modalità narrative di Burton - spesso claudicanti e “attrazionali”, cioè interessate a mostrare più che a raccontare - si sono rivelate perfette per un pubblico spesso distratto e in cerca di stupefazione. L’alleanza, poi, col divo Johnny Depp e la naturale appartenenza a quel macrogenere fantastico di cui abbiamo detto hanno fatto il resto. Più sabotatore e irrive­ rente, Sam Raimi ha invece scelto di “nascondersi” dietro i blockbuster - la saga dell’Uomo Ragno - dove peraltro, an­ che mettendo in sordina gli eccessi giovanili, ha raggiunto un equilibrio formale e interpretativo tale da collocarlo an­ ni luce sopra gli altri film con supereroi. E poi, quando è stato il caso, ha regalato ai fan un assaggio di quel che po­ trebbe fare ancora oggi, se lasciato a briglia sciolta - parlia­ mo dello straordinario Drag Me to Hell (Id., 2009), saraban­ da d’orrore ad alta temperatura politica, con annessa meta­ fora sulla crisi finanziaria. Per il resto - tra un incerto Oliver Stone (Alexander, World Trade Center, per fare due esempi), una Bigelow so­ lo di recente tornata a dirigere qualcosa di interessante (an­ che lei alle prese con l’Iraq: The Hurt Locker), uno Zeme­ ckis sempre più interessato ai freddi prodigi della tecnolo­ gia di motion capture (Polar Express, [Id., 20041; La leggen­ da di Beowulf, [Beowulf, 20071; A Christmas Carol, [Id., 20091) e James Cameron tomato dopo dodici anni con Ava­ tar (Id., 2009), di cui tratteremo a parte - anche per questa generazione si deve prendere atto di una atomizzazione di percorsi diversi. Qualcuno, però, cerca comunque di mantenere lo status e per farlo è disposto a prendere dei rischi. Stiamo pensan­ do ai fratelli Coen e a Michael Mann. I Coen hanno mante­ nuto un prestigio e un carisma ineccepibili, anzi lo hanno persino incrementato ottenendo negli ultimi anni numerosi premi e riconoscimenti. A ben vedere, i Coen hanno attra­ versato alterni momenti di successo e stima generale. Se L'uomo che non c'era (The Man Who Wasn't There, 2001) aveva dimostrato quanta sostanza filosofica ci fosse sotto l’apparente citazionismo cinéphile, due sciocchezze come Prima ti sposo poi ti rovino (Intolerable Cruelty, 2003) e Ladykillers (The Ladykillers, 2004) sembravano smentire la serietà dell’opera precedente. Con l’andare del tempo, si è 73

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capito che i Coen talvolta fanno sul serio e talvolta ridanno fiato al concetto di “opera minore”. Non è un paese per vec­ chi rappresenta un momento eccezionale nella carriera dei due fratelli: film giusto al momento giusto, nella girandola di bottini e nella caccia spietata del killer Chigurh nasconde raffinate interpretazioni su un “male” tutto americano, la violenza. Così come A Serious Man {Id., 2009) mette espli­ citamente a confronto l’alto nichilismo coeniano con la tra­ dizione ebraica statunitense da cui provengono, con risul­ tati prodigiosi. In mezzo, Bum After Reading (id., 2008), con Clooney e Pitt - pur intelligente qua e là - fa cadere le braccia se confrontato agli altri titoli. Misteri dell’autore a due teste. Molto diverso il discorso per Michael Mann, cineasta amatissimo (anche troppo) da una frangia critica e appas­ sionala di spettatori. Mann è forse - tra i registi anni Ottan­ ta (anche se ha esordito nel 79) - l’unico a ripensare con costanza e credibilità agli statuti deH’immagine. Al tempo stesso inventore e responsabile di una deriva “chic” dell’au­ diovisivo patinato (la serie tv Miami Vice), ha preso negli ultimi tempi a realizzare opere di genere dall’aspetto spiaz­ zante. Così come all’epoca di Manhunter - Frammenti di un omicidio {Manhunter, 1986) o Heat - La sfida {Heat, 1995) era stalo capace di rovesciare cliché stilistici abusali, a colpi di allucinazioni urbanistiche, ora con Collateral {Id., 2004), Miami Vice (il film, Id., 2006) e soprattutto Nemico pubblico {Public Enemies, 2009) opera lo stesso strania­ mente a partire dalla macchina da presa digitale. Nemico pubblico porta alle estreme conseguenze la sperimentazio­ ne poiché da una parte incastona un gangster movie neo­ classico, elegante e pieno di riferimenti all’attualità, mentre dall’altra diventa brechtiano per come la grana dell’immagi­ ne digitale fa sembrare tutto artificiale, quasi documentari­ stico, e autentico. Un noir in forma di cinéma-vérité non si era davvero mai visto. Per fortuna dalla strada intrapresa con Alì {Id., 2001), rivelatasi priva di sbocchi e limitata da un genere (il biopic) di per sé stantio, Mann si è allontana­ to in fretta e furia. Il cinema americano a cavallo tra anni Settanta e Ottanta aveva però riservato altre sorprese nella categoria dell’autorialità. La New York no wave e post-punk, dove si sono 74

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formati Amos Poe o Jim Jarmusch, ha lasciato a un primo sguardo poche tracce. È vero che Jarmusch si è smarcato di recente dal minimalismo della prima parte della carriera, trovando impreviste svolte stilistiche (fin dagli anni Novan­ ta di Dead Man, [Id., 19951, ma anche con Broken Flowers, [Id., 20051, e Limits of Control, 2009), ma l’influenza cui stiamo pensando è altra: ovvero l’imperitura definizione di modelli narrativi e stilistici che hanno influenzato e tuttora influenzano il cinema cosiddetto indipendente e di area Sundance. Per questo motivo, tratteremo a parte l’argomen­ to, laddove metteremo a prova la nozione di “stile”, nel nono capitolo. Se, però, di autori indipendenti dobbiamo parlare, non possiamo dimenticare l’emergere del cinema afroamericano e del suo alfiere più importante, Spike Lee. Sempre più consapevole del suo ruolo di regista che sfrutta l’industria ai propri scopi, Lee ha negli anni Duemila persino girato un vertiginoso thriller - Inside Man (Id, 2006) - che spiega in termini allegorici, fin dal titolo, il suo lavoro interno al si­ stema. Nascosto, fuorilegge, ma apparentemente integrato, confuso agli altri tanto da non poter distinguere sfruttatori e sfruttati di Hollywood, in verità incuneato come un virus dentro la falsa botola del Capitale. Tutto questo, natural­ mente, fa parte del suo progetto poetico, e non sempre ciò significa che anche all’esterno tale nobiltà di intenti trovi ri­ scontro. Tanto il già citato La 25a ora fa comprendere le raffinate corde che il regista sa toccare quando vuole, quanto Lei mi odia (She Hates Me, 2005) o Miracolo a San­ t’Anna (Miracle at St. Anna, 2009), sia pure con ambizioni ben differenti, segnalano una mancata consapevolezza dei propri mezzi, e di quale direzione scegliere per sfruttarli al meglio. Tuttavia, ogni richiamo alla medietas per Spike Lee apparirebbe grottesco, se non persino controproducente. In fondo, i suoi capolavori del passato hanno convinto pro­ prio per l’energia figurativa, l’invenzione di un cinema nuo­ vo, pulsante, e per gli squilibri sensazionali che hanno fatto parlare di “cinema polifonico”, in contrasto con i legnosi codici hollywoodiani. Lee lavora con ogni “genere” audio­ visivo, dal web (l’impresa Babelgum) al videoclip, dagli spot ultra-chic ai documentari quasi insurrezionali (When 75

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the Leeues Broke: A Requiem in Four Acts, 2006, sull’uraga­ no Katryna), mantenendo al centro della discussione il ruo­ lo dei neri in America. Sostenitore di Obama fin dalla prima ora, anche Lee si trova ora a rinegoziare le proprie lotte ci­ nematografiche alla verifica del primo Presidente afroame­ ricano nella storia degli Stati Uniti. Ecco, dunque, un ulteriore esempio di autorialità, piena­ mente operativa in un sistema industriale liquido che si ar­ ricchisce con un cineasta “contro”, a sua volta orgoglioso delle astronomiche cifre guadagnate con pubblicità e vi­ deoclip. Insomma, come molti dei casi analizzati suggeri­ scono, l’autore americano - se esiste, e chi scrive pensa che esistano (purché se ne comprendano gli schemi opera­ tivi) - non somiglia quasi per nulla a quello europeo, e an­ cora meno alla figura dolente, pauperistica, solitamente in contrasto con modelli troppo industrializzati di cinema, con cui di solito dobbiamo confrontarci nella retorica critica. Ri­ mane da capire, nel capitolo che segue, se negli anni più vicini a noi qualcosa è cambiato.

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Dieci film

L’uomo che non c’era (2001) Gangs of New York (2002) Million Dollar Baby (2004) Match Point (2005) Broken Flowers (2005) Inside Man (2006) Non è un paese per vecchi (2007) Gran Torino (2009) Nemico pubblico (2009) Alice in Wonderland (2010)

Dieci letture Raffaele Donato, a cura di, Martin Scorsese- Il mio viaggio nel ci­ nema documentario, “Cineteca", Cineteca del Comune di Bolo­ gna, Bologna, 2005; Umberto Mosca, Jim Jarmusch, Il Castoro, Milano, 2006; Guglielmo Pescatore, L’ombra dell’autore. Teoria e storia dell’autore cinematografico, Carocci, Roma, 2006; Serafino Munì, Martin Scorsese, Il Castoro, Milano, 2007; Alberto Pezzetta, Clint Eastwood, Il Castoro, Milano, 2007; Massimiliano Spanu, Tim Burton, Il Castoro, Milano, 2007; Gianni Canova, a cura di, Robert Zemeckis, Marsilio, Venezia, 2008; Florence Colombani, Woody Alien, Cahiers du Cinéma, Paris, 2008; Mark Conard, The Philosophy of the Coen Brothers, The University Press of Ken­ tucky, Lexington, 2008; Giulia Cariuccio, a cura di, Clint East­ wood, Marsilio, Venezia, 2009.

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1. Autori in America II: “novi e novissimi”

Se gli anni Novanta sono stati il decennio “che non c’e­ ra” - diviso com’è stato tra l’onda lunga degli Ottanta e l’attesa del magnifico nouveau siede (tragicamente dissol­ ta dall’ll settembre) - si può almeno affermare che i regi­ sti americani di quel periodo si sono espressi all’interno di alcune linee molto riconoscibili. La cultura postmoderna, di cui tanto si è discusso, è certamente il luogo immagina­ rio, più che testuale, nel quale si è collocata l’opera di Steven Soderbergh e Quentin Tarantino. Poi si è fatta stra­ da una nidiata di auteurs giovani e irriverenti, dalle evi­ denti connotazioni letterarie, come Paul Thomas Ander­ son, Wes Anderson, Alexander Payne. E infine, dall’ormai maturo rapporto cinema/videoclip sono sbarcati - oltre a mille brocchi promossi da un’industria frenetica e confusa - anche registi di calibro come Michel Gondry, Spike Jonze e Charlie Kaufman (quest’ultimo soprattutto nel ruolo di sceneggiatore). Cercheremo, nel corso di questo capitolo, di rendere conto di queste traiettorie confrontandole con quanto avve­ nuto negli ultimi anni. Va detto che molti dei nomi citati, portati sul palmo della mano dai cinefili del decennio scor­ so, hanno saputo confermare il proprio valore, altri no. L’opera di Steven Soderbergh appare, con tutta probabi­ lità, quella più esemplare per chiarire gli strani rapporti tra cineasti e industria nell’epoca del cinema dopo il cinema. La caratteristica principale di Soderbergh è l’eclettismo. Te­ matico e produttivo. Personale e politico. Non bastassero i titoli del passato (da Sesso, bugie e videotape, [Sex, Lies and Videotape, 1991], a Traffic, \ld., 20001) a seminare il dubbio della discontinuità, la filmografia degli anni Duemila sareb­ be in grado di scoraggiare qualsiasi ricerca di unitarietà ar­ 78

Il cinema dopo il cinema. Dieci idee sul cinema americano 2001-2010

tistica. La trilogia di Danny Ocean (Ocean’s Eleven - Fate il vostro gioco, [Ocean’s Eleven, 20011; Ocean’s Twelve, [Jd., 2004]; Ocean’s 13, [Ocean’s Thirteen, 2007]), piena di divi, scherzi, colpi e strizzate d’occhio, ha fatto parlare di filmcesura per il crollo di Hollywood, che ogni qual volta si trova in difficoltà produce pellicole gonfie di star e prive di qualsiasi peso culturale (come del resto fu il capostipite da cui Soderbergh ha tratto il materiale per i remake, Colpo grosso, [Ocean’s Eleven, Lewis Milestone, I960]). D’altra parte, Soderbergh è anche il regista di Bubble (Id., 2005), opera a dir poco minimale e crudele, raccontata con un occhio a Camus e l’altro a Hopper, girata con tecnologia digitale, a basso costo, e lanciata come un prototipo ultra­ indipendente su varie piattaforme, dalle catene dei cinema underground all’home video e alla pay tv. Ma Soderbergh è anche quello che si mette in testa la folle idea di girare una biografìa fluviale su Che Guevara (Che - L’Argentino, [Che: Part One, 20081; Che - Guerriglia, [Che: Part TwO, 2008]), e ce la fa, con una produzione mista europea, cen­ tro e sud americana, tutto in lingua spagnola, fotografando e montando il film da solo, e trovando una “temperatura” morale e ideologica francamente inaspettata. E sempre So­ derbergh confeziona un progetto teorico e curioso come Intrigo a Berlino (The Good German, 2007), girato in bian­ co e nero e con le stesse attrezzature tecniche degli anni Quaranta, in modo da ottenere un perfetto calco stilistico di film come Casablanca (Id., Michael Curtiz, 1942) al cui modello chiaramente si ispira. Che dire? Ci si trova di fron­ te a un cineasta di genio, di inventiva senza pari, o a un truffatore astuto e commercialmente scafato? Sebbene i cri­ tici tendano a schierarsi dall’una o dall’altra parte, senza sfumature, entrambe le affermazioni sono vere. Se Soder­ bergh non può essere liquidato con un’alzata di spalle, non foss’altro per il valore rilevante di alcune sue opere (non ultimo il piccolo, velenoso The Informant! [Id., 20091, pamphlet comico sul valore della menzogna nella cultura statunitense), nemmeno si può far fìnta di non vedere la spregiudicatezza con cui è in grado di infilare - mettendo­ ci il “brand” della firma autoriale - sfilze di risultati medio­ cri senza batter ciglio (di cui Solaris, [Id}, e Full Frontal, 79

Roy Menarini

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