Il sogno americano e… l'altra America 8882311058


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Il sogno americano e… l'altra America
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Vincenzo D’Acquaviva

II SOGNO AMERICANO E... I°AI TRAMERICA

A. bauquart

EDIZIONI GIUSEPPE LATERZA

di Giuseppe Laterza

L’angoscia, il dolore, la fatica, Tonia la sopportazione, la speranza, la nostalgia, la

paura, la ribellione solitaria. Questi i fantasmi sentimentali che passano incessantemente sullo schermo dell’anima di ogni emigrato italiano, meridionale, negli Stati Uniti d’A-

merica, oggi come cinquant'anni fa. Come forse anche un secolo fa, e anche più.

È cambiata quella emigrazione negli ultimi decenni, e cambia tuttora. Vincenzo D’Acquaviva, che ne è stato protagonista e vittima, ne segue i tracciati sociali ed economici; ne rileva le variazioni con un’attenzione quasi scientifica; informa gli ignari, spiega a chi si lascia ingannare dalle apparenze. Ma, prima di tutto, racconta.

Il suo libro scorre fra autobiografia e riflessione critica, fra esperienza personale e notazione storica. Passa dalla narrazione della vicenda particolare alla rappresentazione scenografica dell’insieme, dalla vita del singolo | alla visione del collettivo, dal dire io a dire essi.

Ha un andamento “epico”, come epico è il fenomeno stesso di questo grande trasferi‘ mento di uomini e di vite, decennale, secolare, da un continente ad un altro.

Il fascino della lettura di questo volume consiste proprio in questo: conoscere meglio il fenomeno storico scoprendone i riflessi nella vita del protagonista, della sua famiglia, dei suoi compaesani, dei suoi amici. Degli emigrati italiani in America! È un libro destinato a suscitare grande interesse: in chi non è personalmente investito del fenomeno, ma vorrebbe saperne di più. E in chi nell’emigrazione vive o ha vissuto, a cui il libro presta elementi di autocoscienza. E li indica nella verità della loro esperienza, nella loro sofferenza, nella loro discreta, celata, grandezza d’animo, nella loro autenticità.

Giovanni Papapietro

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Vincenzo

D’ Acquaviva

II SOGNO AMERICANO E... L°AL TRAMERICA

EDIZIONI GIUSEPPE LATERZA di Giuseppe Laterza BARI

© Diritti Riservati Edizioni Giuseppe Laterza di Giuseppe Laterza Sas Bari, 2000

. Uno spirito levantino di genere diverso da quello comunemente inteso ha portato D’Acquaviva a varcare e superare i confini della sua città, facendosi interprete e portatore in territorio straniero dei valori dei suoi padri. Ma, alla fine, di fronte al rischio della contaminazione totale, ha

prevalso in lui il desiderio di non tradire le proprie memorie. Attratto sin da piccolo dalla magia dei racconti di chi era stato “all’America”, l’autore ha alimentato in sé il mito di quella terra come luogo di sviluppo, di successo, di modernità. Ma il desiderio del ragazzo si è rivelato un miraggio per l’adulto che ha fatto la scelta di rincorrere il sogno americano. Miraggio, in quanto, al di là degli stereotipi, incombe la minaccia dell’omologazione dei valori insita nei processi di globalizzazione, già evidenti nell’America degli anni ‘70. La logica illusoria del progresso a tutti i costi obbliga ad “andare avanti”, sempre e comunque. A questa logica D’Acquaviva, ormai disincantato, si ribella con una scelta coraggiosa: quella di riattraversare il mare. Una scelta libera, non un rimpianto ideologico, né tantomeno il ri-

piego del vinto. Essere uomo del Sud non significa essere uno sconfitto. Se non lo permettiamo.

Non significa essere “portatore sano” dei germi dell’arretratezza economica e culturale, del clientelismo e della criminalità organizzata. E non bisogna permetterlo. Per troppo tempo questi luoghi comuni hanno oscurato le virtù private delle nostre popolazioni, virtù che sono state travisate al pun-

to da essere scambiate come le vere cause dei vizi pubblici dei meridionali. Dall’altra sponda dell’oceano D’Acquaviva ha avuto modo di ripensare in positivo alle sue radici molesi. Riattraversare il mare non è stato, quindi, un nostalgico rifugio nel passato, ma la consapevolezza delle potenzialità ancora inespresse della nostra identità meridionale. Con la possibilità di progettare il futuro attingendo a tante “materie prime” nobili che riscattano il nostro passato: i valori della famiglia, dell’amicizia, della solidarietà, radicati nella società rurale e nel vicinato del paese. Valori ereditati per tradizione, che rimangono ancora pressoché intatti nella loro autenticità proprio nella nostra realtà locale. E che ora appaiono all’autore come una straordinaria e troppo a lungo trascurata ricchezza. E questo bel libro ne è la prova. Enzo Cristino Sindaco di Mola di Bari

Presentazione

Non pochi libri e spettacoli da una cinquantina d’anni a questa parte hanno come tematica principale l’american way, e quegli aspetti della vita americana che porgono il fianco alle denunce e alle contestazioni, spesso violente. Alcuni addirittura, col pretesto della fantascienza, proiettati come sono nel futuro, prevedono scenari ed esiti catastrofici,

i cui segni premonitori sono appunto le attuali crepe che si notano con bella evidenza nella società americana. Nel giro di alcuni decenni del nuovo millennio l’ America perderebbe la sua posizione di leadership mondiale e si avvierebbe ad una fisiologica decadenza, così come é accaduto ad altri grandi imperi. Non è questo il centro ispiratore del presente volume il cui autore lascia ad altri il ruolo di profeta, anche perché, é ormai condiviso da tutti, specie dopo la caduta del muro di Berlino, le previsioni in campo storico non sono state mai azzeccate. Diciamo subito che l’autore del presente volume non é un sociologo, né un regista cinematografico, né uno scrittore di fantascienza o di altro. Vincenzo D’ Acquaviva è uno dei tanti emigranti che ha creduto nel sogno americano: sbarcato in America giovanissimo, con poche lire in tasca e con una modesta formazione scolastica, ha cercato di in-

serirsi, così come hanno fatto migliaia e migliaia di suoi conterranei, nel mondo del lavoro e nella complessa realtà sociale di un paese tanto diverso dal suo. Ha cercato di seguire l’esempio dei suoi parenti ed amici, adattandosi ai lavori più diversi con lo stesso spirito di sacrificio della sua gente, ma il suo spirito critico di anno in anno lo ha portato a riflettere sull’assurdità di un sistema che gli è sembrato la negazione dei suoi principi e ha avuto il coraggio di dire basta. Questo volume è prima di tutto la vicenda personale di uno dei tanti perdenti o falliti che dir si voglia, tornati senza un soldo in tasca dal-

la terra ricca, ma è anche il libro di un vincente che ha visto in faccia

la realtà e invece di farsi fagocitare dal mostro ha avuto il coraggio di mettere il dito nelle varie piaghe. Non é un iperbole parlare di coraggio: per gli altri emigranti suoi conterranei Vincenzo D’ Acquaviva é “u nennille”, cioè lo scansafatiche che non accetta la dura legge del lavoro e dei sacrifici che soli possono riempirti la tasca di dollari. È difficile per l’autore far capire ai suoi che egli non rifiuta né il lavoro né i sacrifici, ma il sistema disumano che porta agevolmente all’arricchimento di qualcuno e allo sfruttamento della massa. Ma ‘IL SOGNO AMERICANO’ di Vincenzo D’ Acquaviva è molto più di questo: dalla sua vicenda personale e dalle microstorie che orbitano intorno, l’autore, che ormai non è più il semianalfabeta sbarcato in America (é riuscito ad inserirsi nel mondo del lavoro al suo paese e,

pur con una famiglia a carico, a conseguire la laurea e l’abilitazione per l’esercizio della professione di avvocato) trae lo spunto per delle riflessioni di carattere politico/sociale etc. che potrebbero essere giustamente considerate la parte propositiva del volume non solo nel vasto oceano della problematica riguardante l’emigrazione. Vincenzo D’ Acquaviva parte come emigrante da Mola di Bari, una cittadina sulla costa pugliese a pochi chilometri da Bari, fatta costruire e ripopolare da Carlo I d’ Angiò nel 1277. Il re assegnò alla città un territorio col raggio di tre chilometri; territorio che già nel 1700, malgrado una gravissima pestilenza che decimò la popolazione nel 1691, doveva rivelarsi insufficiente tant'è che si calcola in molte migliaia il contributo dato all'emigrazione da parte di Mola. Il fatto che il paese d’origine viene citato più e più volte, (anzi spesso l’autore sta, come si suol dire con un piede in America e con l’altro nel suo paese), potrebbe essere considerato superfluo nella vasta problematica affrontata, estraneo e forse un tantino fastidioso per

chi non é conterraneo dell’autore. Questa considerazione potrebbe essere superata agevolmente se si pensa che gli emigranti hanno un’anima anch'essi, e quindi dei sentimenti. Il ricordo più prezioso per loro, anche se costretti a separarsi dalla loro terra per un tozzo di pane che gli é stato negato, é quello del paese natio del quale conservano i colori, i suoni, le memorie storiche. AI di là del valore sentimentale, l’opera di Vincenzo D’ Acquaviva,

come testimonianza diretta e dettagliata di un determinato contesto

storico, offre un prezioso contributo alla storia dell'emigrazione del nostro meridione. Un'ultima annotazione: il giudizio severo dell’autore su alcuni aspetti della società americana, specie nei momenti in cui si fa più cocente la delusione di chi ha lasciato la patria per una situazione migliore, potrebbe indurre chi legge ad una visione totalmente pessimistica e negativa della vita americana. Ma il lettore avveduto, anche se prevenuto dal luogo comune di un materialismo cementato nella fede del dio dollaro, saprà cogliere fra le righe, ma anche in diverse descrizioni, il riconoscimento da parte dell’autore di quanto 1’ America abbia da offrire come modello agli altri popoli. Il ritorno in America in visita turistica e la conclusione del libro, redatta in tempi in cui la delusione è ormai guarita, sono la testimonianza dell’ammirazione verso l’

“opera creativa - sono parole del filosofo Jaques Maritain - e il processo di autocreazione attraverso cui essa incessantemente continua” di quel crogiuolo di popoli che è l’ America. Michele Calabrese

Prefazione

Dopo il rientro in Italia nel maggio del 1980, i motivi per raccontare in qualche modo l’esperienza vissuta in America non sono certamente mancati. In tanti hanno chiesto le ragioni che mi avevano indotto a lasciare un paese ormai diventato un mito per la gran parte delle persone che vivono sparse un po’ in tutto il mondo. Oltre all’aver pensato di testimoniare attraverso lo scritto le vicende vissute in sette anni e passa, quelle domande mi hanno invogliato e stimolato a raccontare gli avvenimenti legati a quel periodo che oserei definire fantastico ed irripetibile. Ho dato vita, pertanto, a questo lavoro, anche se in maniera discontinua, dal giorno dopo il rientro, dapprima trascrivendo alcuni dei ricordi su pezzi di carta, poi scrivendo alcuni articoli nei quali riportavo a grandi linee le varie microstorie che mi avevano visto protagonista di una esperienza molto significativa della mia esistenza. Quindi, in occasione dell’impegno per il conseguimento del diploma di scuola media superiore, pensai di far leggere quei fogli scritti a macchina, che si andavano via via accumulando, alla professoressa Rosanna Sardella, docente di lettere presso l’IPSAM di Monopoli, Istituto nel quale ho conseguito il titolo di studio superiore, ritornando sui banchi di scuola a quarant'anni, insieme ai ragazzi non ancora diciottenni. Costei, dopo aver letto quelle note raccolte in ordine sparso, mi suggerì di dare a quegli scritti un taglio di tipo autobiografico. Ed è quello che feci. L’impegno universitario per conseguire la laurea mi ha costretto a rinviare il tutto per riprenderlo subito dopo la conquista di quell’importante traguardo. Lo stimolo più forte, tuttavia, l’ho ricevuto a seguito della pubblicazione del bellissimo libro dell’amico Giovanni Ricciardelli dal titolo ‘Molesi d’ America’, edito da Schena e presenta-

to nel settembre 1998. 1l

Nell'estate del 1994, a distanza di oltre quattordici anni, ho avuto occasione di ritornare negli Stati Uniti per una breve vacanza. Ho rivisto Manhattan, Brooklyn, Queens e Staten Island, nello Stato di New

York. È stato un viaggio molto interessante, che ha riconfermato il mio modo di vedere l’ America e le sue tante contraddizioni. Nelle pagine che seguono ho inteso ripercorrere le tappe fondamentali di quella che è stata la mia esperienza di emigrante dal novembre del 1972 al maggio del 1980. Una testimonianza che ho la presunzione di definire unica, originale e non omologabile. Tuttavia, non è da e-

scludere la eventualità che taluno ne possa condividere, in parte, i contenuti. Un arco di tempo che, per la intensità con cui è stato vissuto,

appare sufficientemente lungo per consentirmi di esprimere alcune riflessioni su quel grande paese. Si tratta di un racconto in chiave autobiografica delle esperienze di lavoro e sociali vissute in quel non breve lasso di tempo. Anche se queste rappresentano l’architrave del ‘racconto’, non mancano, tuttavia, riferimenti di natura socioculturale, politica e affettiva. In questa ottica ho voluto inquadrare più compiutamente, anche se non in maniera esaustiva, ‘la mia America’

incardinandola, per certi aspetti, in

un filone letterario sconosciuto ai più e che va sotto una denominazione singolare: ‘l’altra America’, the other America. Una letteratura che preferisce soffermarsi a parlare dei perdenti; di coloro che non ce l’hanno fatta, che non hanno trovato il successo che, magari, anch'essi

avevano inseguito. Parlare dei vincenti, di quanti si sono arricchiti ed hanno raggiunto livelli alti nei vari campi, sarebbe stato ripetitivo se si pensa che dei vincenti si parla spesso anche a sproposito. Da qui la decisione di un titolo quale IZ Sogno Americano e ... l’altramerica. Proprio a voler significare quello che tanti hanno inseguito rimanendo delusi e ritrovandosi a convivere in una realtà alquanto diversa. Sin dall’inizio l’intento è stato, infatti, quello di raccontare

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merica che, il più delle volte, non troviamo. ‘LAMERICA’ così vicina e opulenta, che gli Albanesi vedono nell’Italia, egregiamente rappresentata da Gianni Amelio nell’omonimo film. L’ America intesa nel senso di appagamento delle aspirazioni che ognuno di noi spera di poter realizzare facendo delle scelte che, non sempre, si rivelano ‘vincenti’. È naturale che non tutti possono riuscire nella vita ed avere ‘successo’, pur essendo bravi in qualche campo produttivo o umanistico. 12

La trama della storia che volevo far conoscere è stata sin dall’inizio ben delineata: raccontare qualcosa sull’ ‘Altra America”. Non l’America da tutti mitizzata e osannata bensì quella che si preferisce tenere ai margini perché fatta di storie tristi e drammatiche. Esiste, nell’immaginario collettivo, un modello ideale di vita dove

la felicità e il benessere appaiono alla portata di tutti. O, quantomeno, di coloro disposti a guadagnarselo con un lavoro onesto e dignitoso. Per noi Italiani quel modello è stato rappresentato, nel tempo, prima dall’ America

del Sud, quindi dall’ America del Nord e dalle tante ame-

riche che ciascuno ha inteso raggiungere realmente o idealmente. Ancora oggi, forse più di ieri, molti popoli sono alla ricerca della loro ‘America’. Per gli Albanesi, i Curdi, i Kosovari, i Marocchini,

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grebini, i Tunisini e altri extracomunitari l’Italia rappresenta la terra promessa: l’ America! Per altri i vari paesi dell'Europa come la Germania o la Francia. Tutti alla ricerca della improbabile felicità lontano dal proprio paese. Ognuno alla spasmodica ricerca della propria America. Per quanto mi riguarda ho voluto offrire un contributo diretto a diradare la nebbia fitta che avvolge ancora l’argomento dell’emigrazione italiana. Vorrei, però, suggerire di rifuggire da facili e convenienti generalizzazioni. Queste, anche se fortemente accattivanti, conducono inevitabilmente, come spesso accade, a conclusioni non pro-

priamente rispondenti alla realtà. La confusione e la disinformazione tuttora esistenti sono probabilmente figlie di questa cultura. Da qui l’e-sigenza di sgomberare il campo dai tanti luoghi comuni di cui sono lastricate le strade che portano in realtà inesistenti. Esiste, per esempio, una corrente di pensiero secondo la quale, un contesto socioeconomico e culturale più favorevole come può essere, per certi aspetti, quello statunitense, riesce necessariamente a fare emergere e valorizzare compiutamente quei talenti che, in altre circostanze, in altri luoghi e situazioni, non otterrebbero i medesimi risultati. Questo non è sempre vero in termini assoluti. Vi sono capacità intellettive, imprenditoriali, artistiche ed altro che riescono ad emergere, indipendentemente dall’ambiente fisico in cui interagiscono. Non si scopre nulla di nuovo quando si afferma che vi sono persone che sono riuscite a emergere in tutti i campi e a fare soldi senza aver mai visto l'America del Nord o del Sud.

È opportuno sottolineare che, da quando sono rientrato dagli Stati Uniti, oltre all’aver continuato ad annotare riflessioni e considerazioni su quella esperienza, non ho mai smesso di interessarmi del fenomeno legato all’emigrazione. Ho raccolto informazioni su testi e giornali, ho continuato ad avere stretti contatti e un assiduo scambio di informazioni con parenti, amici e conoscenti. Tutto ciò mi ha consentito di seguire da vicino l’evolversi del fenomeno migratorio per gli Stati Uniti oltre che quello legato con l’emigrazione di ritorno e dell’immigrazione nel nostro Paese. Un fatto, quest’ultimo, certamente non margi-

nale emerso prepotentemente da alcuni anni a questa parte. Limitatamente a coloro che sono rientrati definitivamente in Italia,

non mancano esperienze e testimonianze di chi, non essendo riuscito a reinserirsi nel tessuto sociale e produttivo della nazione, ha ripetuto l’amara esperienza dell’emigrazione, una seconda e anche una terza volta. Probabilmente in maniera vieppiù traumatica. Da qui la sollecitazione a non lasciarsi influenzare da facili entusiasmi, come spesso avviene, rispetto a esperienze qualificanti e ‘vincenti’ che hanno trovato una soluzione appagante o comunque positiva. A queste fanno da contraltare altrettante storie di ‘ordinaria emigrazione’, vissute con drammaticità per tutta una vita. L'esempio più eclatante di questa indiscutibile realtà fatta di chiaroscuri è rappresentata in maniera evidente dalle vicissitudini degli immigrati presenti in Italia. Le condizioni di vita dei primi emigranti non erano tanto diverse da quelle che vediamo quotidianamente in televisione o che leggiamo nelle cronache dei giornali. Quante e quali siano le ragioni di un fallimento non è facile dire. Questo lavoro vuole esprimere ai meno fortunati un atto di solidarietà e di comprensione nei confronti di coloro che, dall'esperienza migratoria, in America e in altre realtà del mondo, hanno ricevuto, in cambio, soltanto disillusioni e tanta amarezza.

In ultima analisi, queste pagine, per taluni aspetti anche provocatorie, rappresentano uno stimolo e un incoraggiamento ad arricchire, con altre testimonianze in questo filone inesplorato, un patrimonio culturale degno di rilievo che non può andare perduto. È bene sottolineare, ad ogni buon fine, che se è vero che l’ America ha dato tanto agli italiani, è altrettanto vero e indubitabile che gli italiani hanno dato tantissimo all’ America. Quest'ultimo inciso dovrebbe

farci riflettere di più rispetto al fenomeno migratorio che stiamo conoscendo a causa dei tanti immigrati che arrivano giornalmente in Italia 14

in cerca di una vita migliore. Una aspirazione legittima, sempre presente in ognuno di noi e in coloro che, negli anni, sono emigrati nei paesi più sperduti del mondo. E, infine, le tante ‘Americhe’ che con

ogni mezzo i meno fortunati, quotidianamente, cercano di raggiungere sbarcando sulle nostre coste. Tutti alla ricerca di un sogno che, per taluni diventa realtà. Per altri si risolve in tragedia!

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Ringraziamenti

Quando si arriva alla fine di un grosso impegno quale può essere, appunto, quello di raccontare una storia di qualsiasi genere, il numero delle persone che, in qualche modo, sono state coinvolte (anche loro malgrado) e che devi ringraziare, sono tantissime. A tal uopo, se dovessi annotare tutti coloro che, a vario titolo, mi hanno

aiutato nella realizzazione di questo lavoro, dovrei farne un elenco infinito. Preferisco, perciò, limitarmi a dire grazie di cuore a tutti quelli che mi sono

stati vicini e mi hanno incoraggiato a portare avanti questa fatica. Non posso esimermi, però, dal ricordare quelle persone che hanno dato un contributo determinante alla realizzazione di questo volume: Antonio Ingravallo, il primo ad aver letto il dattiloscritto e da me individuato come ‘il lettore medio’, un test essenziale per continuare a credere nella validità del

‘prodotto’. Preso coraggio, ho sottoposto il dattiloscritto al prof. Michelino Calabrese, autore di quella pregevole e inimitabile opera dal titolo “Mola di Bari - Colori, suoni, memorie di Puglia” (Gius. Laterza & Figli, 1987), il

quale, dopo una prima lettura, ha avuto modo di esprimere un giudizio positivo al punto da anticipare in una trasmissione radiofonica, da lui curata, la

notizia della pubblicazione. Ringrazio gli amici Enzo Cristino, Sindaco di Mola, per i suggerimenti e per il patrocinio accordato da subito; Vito Rizzi per la collaborazione e per il servizio fotografico realizzato alla 129.ma strada di New York; un grazie immenso a Mike Pesce, Vito Pietanza e Rosa Riccio per il continuo soste-

gno, le tante indicazioni utili e per avermi fornito le piantine di Brooklyn e Manhattan, utilissime per ripercorrere i vari itinerari ormai sbiaditi a distanza di tanti anni. Un debito di riconoscenza sento di avere nei confronti dell’amico Giovanni Papapietro per avere accettato di buon grado di leggere il dattiloscritto, per i preziosi consigli e il contributo ineguagliabile. Infine, non potrò mai ringraziare a sufficienza mio fratello Alberto e la sua fervida intelligenza e lungimiranza per avermi indicato per tempo la redazione di questo lavoro, regalandomi la foto di copertina. Un grazie infinito all’ America e ai tanti italoamericani che mi hanno offerto gli stimoli necessari per portare a termine questo importante impegno.

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La scoperta e la quota: cenni storici

Prima di addentrarci nella narrazione delle vicende strettamente legate all’esperienza vissuta in America, è opportuno far precedere il tutto da alcuni cenni storici, con particolare riferimento a quell’aspetto, abbastanza singolare e poco conosciuto, che va sotto il nome di ‘quota’. Subito dopo la colonizzazione del nuovo mondo per opera di una serie infinita di paesi e di uomini pronti a tutto pur di accaparrarsi le presunte ricchezze dell’Eldorado scoperto da Cristoforo Colombo, questo fenomeno andò via via trasformandosi assumendo il connotato di una immigrazione sempre più massiccia che non mancò di incidere profondamente nel tessuto socioeconomico del continente, intrecciandosi e determinando in maniera pe-

culiare le vicende storiche di quel Paese. Approfondendo le conoscenze e la storia americana, abbiamo ‘scoperto’, non senza meraviglia, che se il merito della scoperta ufficiale di quel grande Paese va ascritto al navigatore genovese e al suo approdo a San Salvador nel lontano

12 ottobre 1492, al contempo non vanno dimenticati i tanti che vi

giunsero, almeno secondo gli studiosi, a cominciare addirittura dai fenici per proseguire con i vichinghi ed altri ancora. Quello che, però, interessa la nostra storia è piuttosto la ‘scoperta’ che, negli anni, hanno fatto coloro che ci hanno preceduto nell’esperienza dell’emigrazione in America arrivando nel nuovo mondo nei modi più impensati e alla ricerca di migliori condizioni di vita. Da qui il numero sempre crescente di uomini, donne e bambini che abbandonavano i paesi di origine per sfuggire alle persecuzioni e alle guerre e alla ricerca della ‘tranquillità’. Come in Italia oggi viene sollecitata una legislazione più restrittiva per disciplinare l'afflusso di una immigrazione sempre più massiccia, proveniente da vari paesi: prima dal terzo mondo e ultimamente dai Balcani e dalle zone martoriate dell’Est, altrettanto veniva realizzato negli Stati Uniti per frenare in qualche modo l’esodo che pareva inarrestabile. E, a questo fine, i legislatori di inizio secolo pensarono bene di introdurre il meccanismo della

quota. 19

Fino a non molto tempo addietro, almeno fino a tutti gli anni Settanta, era frequente ascoltare frasi del tipo: “sto aspettando la quota”; oppure: “quando arriva la nostra quota potremo partire per l'America”. La quota è il numero di persone, assegnato dalla legislazione statunitense, a ciascun paese interessato all'emigrazione in America. In base a ciò si aveva il numero di coloro che potevano ottenere il visto dal competente Consolato. Fino al 1920, a parte una serie di Chinese Exclusion Acts, diretti a impedire l'immigrazione dalla Cina, e altre limitazioni nei confronti di persone

colpite da malattie infettive (i poligami, le prostitute, gli anarchici e chiunque sostenesse idee rivoluzionarie contro il governo americano), l’emigrazione negli Stati Uniti non aveva fatto registrare, da parte delle autorità federali di quel Paese, restrizioni degne di nota. Quelle poc'anzi accennate erano ritenute misure indispensabili per la sicurezza della Nazione. Il numero di persone approdato negli Stati Uniti dagli inizi del secolo a quella data può essere considerato, senza esagerare, di proporzioni bibliche. Negli Stati Uniti e in particolare a New York, arrivavano migliaia di individui provenienti da ogni parte del pianeta che andavano a ingrossare le fila dei tanti già immigrati negli anni precedenti. Il denominatore comune di questo esodo di massa era l’aspirazione a una esistenza più dignitosa e la fuga da quei paesi in cui venivano fortemente limitate le libertà fondamentali che, l’ America, invece, era in grado di assicurare. Almeno apparentemente. In moltissimi casi, però, quello che costoro trovavano nel nuovo paese non era certamente migliore di ciò che avevano lasciato alle proprie spalle. La povertà e le misere condizioni di vita costringevano la maggior parte degli immigrati a vivere in squallidi sobborghi, meglio conosciuti col termine ‘slums’ (autentiche topaie assimilabili a quelle in cui sono costretti a vivere, attualmente in Italia, un numero alquanto elevato di extracomunitari). Con l’atte-nuante, per l’ America, che in quel Paese l’immigrazione è iniziata almeno un secolo prima e le condizioni igieniche e sanitarie di quel tempo non possono certamente paragonarsi a quelle attuali. Ogni grande città americana aveva i suoi quartieri di immigrati, miseri e affollatissimi. Il lower east side di Manhattan, la parte bassa ad est della città, in cui vivevano sterminate masse di Irlandesi, Tedeschi, Ebrei e Italiani

rappresentava sicuramente l’esempio più tipico del ghetto. Probabilmente al fine di porre un freno e regolamentare questo esodo di massa ma, soprattutto per ragioni di natura razziale, il governo americano introdusse, nel 1921, la prima forma rudimentale di quota. Questa disciplina fu modificata nel 1924 con apposito emendamento e assunse la sua forma base col nome di Immigration Act. In seguito, a distanza di circa trent'anni, nel 1952, prese il nome di Immigration and Nationality Act.

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Questa legislazione assegnava a ciascun paese dell’emisfero orientale una quota numerica di persone che potevano espatriare negli Stati Uniti. Tale disciplina, tuttavia, presentava una discriminante di non poco conto. Il riferimento numerico considerato per la determinazione della quota (in termini quantitativi) spettante a ogni singolo paese, era rappresentato dalla consistenza numerica dei residenti negli Stati Uniti riconducibile a ciascuna nazione con riguardo all’anno 1920. Alla luce di una clausola siffatta era evidente la scelta squisitamente politica che privilegiava quei paesi i quali potevano vantare un numero più alto di residenti negli USA e che, quindi, avevano diritto a una quota maggiore. Infatti i paesi che da questo sistema iniquo trassero i benefici maggiori furono la Gran Bretagna, l’Irlanda e la Germania. Ovviamente questa metodologia di assegnazione della quota vedeva fortemente danneggiate altre nazioni come l’ Asia, l'Africa e i paesi del sud Europa, tra cui anche l’Italia. Nel 1965, sotto 1’ Amministrazione di Lyndon B. Johnson, le limitazioni furono abolite. A quella data, in cui fu varata una diversa normativa, conosciuta con la sigla RH 2580, la quota complessiva riferita a tutti i paesi del nostro emisfero ammontava a circa 158 mila unità; mentre, relativamente alle nazioni indipendenti dell’emisfero occidentale come il Canada, il Brasile, il Cile, eccetera, non esisteva, invece, alcuna limitazione numerica!.

Per quel che riguarda la gente di colore, da quando negli Stati Uniti era stata abolita la schiavitù”, i negri erano sempre stati considerati potenziali concorrenti sul mercato del lavoro. Da qui la scelta di limitare il loro ingresso. Anche in considerazione del fatto che, diversamente dal periodo d’oro dello schiavismo?, quando non si badava al numero da caricare sui piroscafi in quanto forza lavoro a basso costo, adesso, i negri dell’ Africa, bisognava retribuirli, anche se in misura ridotta.

' Con l’adozione della legge HR 2580 anche a questi paesi fu posto un tetto massimo di 120 mila persone alle quali poteva essere rilasciato il visto per l'emigrazione in America. ? Alla fine della guerra si secessione (1861-1865), con il XIII emendamento del 1865 veniva

abolita questa triste quanto inumana realtà. ? Il fenomeno deprecabile della schiavitù non è per nulla scomparso come si sarebbe portati a credere. La cattiveria e la malvagità dell’uomo in senso lato, hanno soltanto cambiato fisionomia e modo di essere. Lo sfruttamento si è evoluto e modificato adeguandosi ai tempi moderni. Non più i negri che lavorano nelle piantagioni di cotone o al servizio dei grandi proprietari terrieri degli stati del Sud. Questa abominevole manifestazione dell’uomo ha trovato collocazione tra i reati del nostro codice penale (articolo 600) sotto la rubrica di ‘riduzione in

schiavitù’. Una tale scelta legislativa si è resa necessaria per combattere le realtà più allucinanti che maggiormente colpiscono l’opinione pubblica con riguardo agli episodi legati alle nuove e moderne forme di oppressione che si presentano attraverso le modalità più variegate. Tra queste, lo sfruttamento della prostituzione e del lavoro minorile, rappresentano solo le più conosciute.

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All’Italia, in base a questa ripartizione di quote, entrata in vigore nel 1924, fu assegnata una quota annuale di 3.845 persone, risultando così tra quei paesi mediamente penalizzati. La penalizzazione nei confronti dell’Italia presentava un duplice profilo: uno riconducibile a ragioni squisitamente razziali, l’altro di tipo politico. Il caso di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzet-

ti, in proposito, è sintomatico per illustrare il clima di tensione che portò all’adozione di quella legislazione alquanto restrittiva. Gli americani vedevano nella libera emigrazione e nel radicalismo legato al fenomeno anarchico proveniente da oltre oceano, due pericoli di uguale natura. I due anarchici italiani, accusati di aver derubato e ucciso il ragioniere e il guardiano di una ‘fattoria’' di scarpe nella città di South Braintree, nello Stato del Massachusetts,

il 15 aprile 1920, furono processati e giustiziati il 23 agosto 1927 per 1 reati loro ascritti’. Soltanto nel 1988, a distanza di circa settant'anni, la giustizia

americana ha riabilitato la memoria di questi nostri connazionali riconoscendo la loro innocenza e gli errori commessi dal tribunale dell’epoca. Da quanto detto innanzi, a proposito della quota, è facile comprendere perché fino alla fine degli anni Cinquanta (prima della riforma del 1965, entrata in vigore nel 1968), bisognasse attendere anni in lunghe liste di attesa per poter coronare ‘il sogno’ di emigrare in quella che veniva descritta come la terra promessa. A coloro che sono riusciti ad ottenere il visto per l’emigrazione in America, fanno da contraltare tante altre famiglie che hanno dovuto attendere invano per anni. Altro aspetto negativo della legislazione precedente la riforma, era rappresentato dal fatto che si richiedeva espressamente,

a coloro che intendevano raggiungere l’ America, di specificare nella domanda, la quota relativa alla nazione di nascita, indipendentemente dal paese di

residenza o dalla cittadinanza?. Invero, a fronte di talune restrizioni, esisteva la possibilità, per particolari categorie di persone, di poter emigrare indipendentemente dalla rispettiva quota di riferimento. Tra queste si possono citare il marito, la moglie e i figli minorenni non sposati di cittadini americani e rifugiati a vario titolo. Costoro entravano a far parte di una speciale quota che variava annualmente dalle trenta alle quarantamila unità. Per quanto attiene l’aspetto più tipicamente razziale, riconducibile alla differente ripartizione delle quote, i sostenitori di

quel sistema, basato sulle origini del paese di nascita, asserivano che, in que;Dall’inglese factory: una fabbrica o laboratorio artigianale. Il presidente del collegio giudicante, Webster Thayer, il quale aveva consentito alla pubblica accusa di imperniare il processo sul radicalismo esasperato, vantandosi coi compagni di golf ebbe a dichiarare di avergliela fatta pagare a quegli “anarchici bastardi”. Per esempio, un italiano che, a vario titolo, avesse acquisito la cittadinanza inglese, irlandese o tedesca, non poteva emigrare facendo riferimento alle quote assegnate a quei paesi, bensì unicamente in ragione della quota assegnata al paese di origine.

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sto modo, si poteva limitare il flusso migratorio da quelle realtà i cui abitanti potevano creare difficoltà nel processo di assimilazione della società americana. È opportuno far notare come questa mentalità si adeguava perfettamente a quella che è sempre stata e, per alcuni versi permane ancora oggi, la cultura predominante dei così detti WASP, White Anglo-Saxon and Protestants,

bianchi, anglo-sassoni e protestanti. Una cultura intesa a imporre ai ceti più deboli (nella fattispecie le minoranze in senso lato) il proprio modello socioeconomico e culturale. Grosso modo quello che talune minoranze propugnano di adottare in Italia. Questo /eit motiv è sempre stato una costante della storia americana, a partire dall’XI secolo con la scoperta del nuovo continente da parte del vichingo Leif Erikson’. È proseguita, quindi, nel periodo risalente ai viaggi compiuti da Cristoforo Colombo, per affermarsi, poi, compiutamente con i Pellegrini del Mayflower, sbarcati nel dicembre 1620 sulle sponde dell’attuale città di Plymouth. Per farsi un’idea di come i colonizzatori e i loro successori intendevano quelle terre e i loro abitanti, basterà richiamare alla memoria le vicissitudini che hanno determinato il sistematico sterminio degli indiani d’ America. Rei soltanto di voler continuare a vivere di caccia e di pascolo e di occupare, da sempre, quei territori che, i nuovi venuti, ritenevano loro riservati per una sorta di predestinazione o diritto divino. Il concetto di democrazia e di giustizia di cui, comunque, erano ferventi propugnatori i primi coloni, poggiava le proprie fondamenta sulla sopraffazione e l’elimi” LEIF ERIKSON (figlio di Erik Thorwaldson, ‘il rosso’, scopritore, a sua volta della Groenlandia intorno agli anni 982-985, a seguito del suo esilio dall’Islanda) raggiunse casualmente le coste del Labrador nel 1003 a causa di una tempesta che lo trascinò alla deriva su quelle sponde. La cosa non è del tutto inverosimile considerato che la distanza di 165 miglia marine misurata nel 1968, da Wonder Strands, punto di partenza di Erikson, in Groenlandia, fino

all’approdo presumibile, avvenuto su Belle Isle (denominata VINLAND dal navigatore vichingo perché ricca di tralci di vite), nel Canada settentrionale, non è poi impossibile se si pensa alle forti imbarcazioni che i vichinghi erano in grado di costruire a quell’epoca. Vedi sull’argomento la vasta letteratura: MICHAEL C. BOLAND, They all discovered America; SAMUEL E. MORISON, The European Discovery of America; The Northern Voyages, A.D. 5001600. New York: Oxford University Press, 1971, pagg. 38-41+. È utile ricordare che, dal 1959, a seguito di un proclama emanato dal Governatore Rockefeller, il 9 ottobre è stato dichiarato ‘Leif Erikson Day” nello stato di New York. Inoltre, il

Congresso americano, con una risoluzione delle due Camere risalente al 1965, nel riconoscere ufficialmente l’apporto dell’esploratore vichingo, confermava la data indicata da Rockefeller e fissava nel secondo Lunedì di ottobre la data per le celebrazioni del Columbus Day. Sennonché nel 1978 il 9 ottobre coincise con il secondo lunedì e le due festività si sovrapposero. A quell’epoca ci fu una levata di scudi e il quotidiano italiano lanciò una campagna epistolare di protesta, culminata con una lettera del Governatore di New York, Hugh L. Carey, il quale impegnò la delegazione congressuale del suo stato a sollecitare il Governo Federale a ripristinare la data del 12 ottobre per la festività dedicata a Cristoforo Colombo. Vedi, in proposito, Il Progresso Italo Americano, Venerdì 3 novembre 1978, pag. 1.

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nazione fisica di tutti coloro che, in qualche modo, si frapponevano sulla strada del (loro) ‘progresso’ e della (loro idea di) ‘libertà’. Questi ultimi valori intesi, ovviamente, dal solo punto di vista di chi arrivava in quelle terre

vergini per imporre la propria cultura e il proprio modello socioeconomico. Provate a immaginare, per un momento, l’arrivo di qualcuno a casa vostra che ritiene di dover affermare il proprio modo di vita e quant'altro’. I fautori della cultura appena descritta, che affonda le proprie radici sulla prepotenza, si dichiaravano favorevoli all’immigrazione dei Britannici, degli Irlandesi e dei Tedeschi ritenuti, per ragioni culturali e caratteristiche razzia-

li, più facilmente assimilabili nel sistema statunitense. Questi signori erano altresì convinti, e ciò non deve sorprendere più di tanto, che i bianchi del

nord Europa appartenessero a una razza superiore. Naturalmente, non mancavano coloro che avversavano argomenti di questo genere. Tesi che, oltre ad essere sostanzialmente ingiuste, rappresentavano un’offesa nei confronti di quei cittadini americani originari proprio di quei paesi i cui abitanti erano ritenuti inferiori come il sud Europa, l’ Asia e l'Africa. Costoro, a sostegno

delle proprie opinioni, mettevano in rilievo la discriminante nei confronti di nazioni come l’Italia, la Grecia, il Portogallo, la Polonia, ed altre che, a fron-

te di una quota molto limitata, potevano vantare lunghe liste d’attesa di gente desiderosa di stabilirsi in America. Al contrario, la Gran Bretagna, la Ger-

mania e l’Irlanda, pur avendo a disposizione un numero maggiore di visti, facevano registrare richieste di gran lunga inferiori alla quota loro spettante. Nel 1965, ad esempio, su un totale di 108.931 unità assegnato a queste tre

nazioni, le richieste di espatrio furono di circa la metà; e precisamente 59.250. I visti inutilizzati da parte di questi paesi andavano perduti. Tra l’altro, non era possibile smistare il numero inevaso in favore di quelle nazioni che presentavano un numero di richieste maggiore, né questi resti potevano essere sommati alla quota totale per l’anno seguente. Fu proprio il sistema della quota, riformato a distanza di oltre quarant’anni, a favorire non solo la mentalità di cui si è detto, ma anche, e questo è ancor più importante, a determinare alcune maggioranze etniche che agirono in modo da poter gestire il potere politico, culturale, economico e sociale del paese. Questo modo di pensare si è protratto per svariati decenni con risultati che possono farsi risalire, appunto, ad un contesto come quello appena descritto. Le incrostazioni legate a quelle sovrastrutture sono ancora presenti in tutte le attività e manifestazioni dei settori portanti della società americana, anche se in maniera poco visibile ad occhi poco attenti. Molti anni dovranno

Se vi è capitato di trovarvi nello scompartimento di un treno e di come viene visto chi arriva per ultimo e pretende di aprire o chiudere il finestrino, di accendere o spegnere la luce, di fumare una sigaretta, eccetera, sarà facile comprendere la nostra riflessione.

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ancora trascorrere prima che i gruppi etnici minoritari siano in grado di scalfire concretamente le innumerevoli ramificazioni tentacolari di questa presenza strisciante. L'entrata in vigore della disciplina introdotta con la legislazione HR 2580 abolì finalmente il sistema precedente, iniquo e discriminatorio, introducendo nuovi limiti per l'immigrazione negli Stati Uniti. Per tutti i paesi dell’emisfero orientale fu fissato un tetto di 170 mila unità in ragione d’anno; mentre per l'emisfero occidentale il nuovo limite si attestava, per la prima volta, a 120 mila unità. Fermi restando i limiti di cui si è detto, ogni paese

non poteva superare il tetto delle ventimila unità nell’arco di un anno. Le nuove quote, infine, erano ripartite in base a un sistema di preferenze’ e secondo un criterio che risentiva chiaramente delle pressioni, di tipo anche politico, esercitate dalle nazioni interessate.

Il riferimento ad alcuni dati statistici, anche se di per sé aridi e poco piacevoli, si è reso necessario per fornire elementi utili affinché si possa com-

prendere in maniera più compiuta oltre che il fenomeno migratorio, soprattutto, il modo con cui si sono formate le maggioranze politiche di quel Paese che ha contribuito a condizionare, e continua a farlo, il modello socioeconomico dell’intero pianeta.

I metodi alternativi per conquistare l’America L’America, proprio per il fascino che ha sempre esercitato e che tuttora è in grado di suscitare presso vasti strati sociali, ha rappresentato una meta da raggiungere, un obiettivo da conseguire, una terra ‘da conquistare’ e, per taluni aspetti, un esempio da imitare. Attualmente, come avremo modo di vedere più avanti, il numero degli Italiani che emigra negli Stati Uniti si è azzerato. Negli ultimissimi tempi, a seguito del notevole sviluppo economico che ha portato l’Italia ad essere annoverato tra i sette paesi più industrializzati dell’occidente ma, soprattutto, perché le nuove generazioni non hanno trovato particolarmente allettanti le prospettive socioeconomiche esistenti negli Stati Uniti, l’attrattiva e la voglia di andare a vivere e lavorare in quel Paese sono diminuite al punto che difficilmente si apprende di qualcuno che emigra in America. È appena il caso di ricordare che, a partire dalla metà degli anni Settanta, si andava affermando un altro fenomeno: quello dell’emigrazione di ritorno e, ancor più importante, a quest’ultimo si associava, in maniera drammatica, quello dell’immigrazione proveniente dai paesi extracomunitari. Nei primissimi tempi Marocchini, Tunisini, Magrebini, Nigeria? Vedere in appendice Le preferenze per l’emigrazione.

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ni, Polacchi, Senegalesi, eccetera. Ultimamente si assiste al fenomeno degli sbarchi di clandestini sulle coste della Puglia da parte di Albanesi, Curdi e,

con l’inizio del conflitto nei Balcani, di profughi Kosovari ed altri. Che strano destino quello della nostra regione: al primo posto in Italia come terra di emigranti e, attualmente, di immigrati a vario titolo! I tempi sono radicalmente cambiati. Fino all’incirca la fine degli anni Cinquanta, quando le possibilità di poter emigrare erano scarse o inesistenti e l’Italia aveva appena cominciato a conoscere un periodo di forte espansione economica, l’attrazione verso una terra ricca e dispensatrice di benessere

era stata sempre molto sentita. All’occorrenza, pur di riuscire a raggiungere il nuovo mondo, ormai divenuto un mito che in molti celebravano e osanna-

vano, si faceva ricorso a vari espedienti pur di poter realizzare il sogno americano, The American Dream.

All’inizio degli anni Sessanta, a seguito del così detto miracolo economico realizzatosi nel nostro Paese, la parabola legata al fenomeno migratorio ha subito una drastica flessione inclinandosi decisamente verso il basso. Ma vediamo quali erano i sistemi e i vari metodi escogitati per raggiungere l’ America. Uno dei più diffusi ai primi del Novecento e che, per le sue modalità vedeva quali protagonisti principali i marittimi, soprattutto meridionali, era quello della diserzione. L'interessato, una volta avuta la possibilità di mettere piede sul suolo americano, tentava di rimanervi senza fare più ritorno sulla nave che lo aveva portato in quel porto. Uno zio di nostro padre, Alberto Cicorella, figlio di Antonio Cicorella'’, non mancava di raccontare spesso le sue peripezie e disavventure dei primi tempi, quando arrivò a Brooklyn da disertore. Anche chi scrive fu tentato, nel lontano dicembre 1963, di seguire quell’esempio una volta giunto per la prima volta nel porto di New York, imbarcato su una nave mercantile che trasportava minerale ferroso. Il progetto non si realizzò sia perché non vi era abbastanza convinzione da parte mia, sia per mancanza di entusiasmo da parte di zia Giovanna che avrebbe dovuto provvedere oltre che all’ospitalità a fornire spiegazioni a mia madre (sua sorella).

ioaor È 3 DEA Bisnonno dell’autore, ritornato dagli Stati Uniti dopo sei anni di permanenza come emigrante per sfuggire alle persecuzioni del periodo fascista, “Fu il primo che organizzò in sindacato i contadini e i muratori e che fondò il Circolo Socialista in uno scantinato di via Pascasio. Dopo alcune settimane, Cicorella organizzò un comizio per festeggiare l’evento e chiamò a Mola, da Conversano,

l’On. Di Vagno che tenne il suo discorso all angolo del

“Caffè Roma” e che poi fu ammazzato, in via Loreto (l’attuale Via Di Vagno, n.d.r.) mentre se ne tornava al paese sulla sua carrozza”. GIOVANNI RICCIARDELLI, Molesi d’America, Schena editore, 1998, pag. 47.

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Non è da escludere che lo si facesse per spirito di emulazione: nei decenni successivi al Novecento quella di disertare dalla nave era diventata quasi una moda. È opportuno ricordare che i funzionari americani (incaricati di rilasciare ipermessi per ‘scendere a terra’ e andare in franchigia) erano i primi a mettere piede sui piroscafi in arrivo. Costoro non andavano molto per il sottile e, in questa delicata materia, facevano ricorso spesso a un loro metro di discrezionalità: difficilmente rilasciavano il pass per scendere a terra, a quelli che, a loro insindacabile giudizio, erano considerati ‘a rischio”.

Ricordo perfettamente la sfilza di domande alle quali fui sottoposto in occasione del mio arrivo in un porto statunitense per la prima volta con una nave carboniera denominata Bonassola. Il comandante Luigi Bozzo, un genovese sornione e parolaio, provvedeva a fare da interprete in quelle circostanze. I marinai più anziani affermavano che per non avere problemi era opportuno fingersi disinteressato all’espatrio negli USA, dichiarando, magari, di avere la fidanzata al paese natio oppure altri interessi particolari. Ciò affinché le ragioni per ritornare in Italia apparissero più pregnanti rispetto ai motivi per rimanere in America. Alcune testimonianze raccolte proprio dai marittimi più anziani, appaiono particolarmente interessanti e significative al riguardo. Si tratta di casi verificatisi realmente e con una certa frequenza nel passato. Taluni soggetti, ritenuti potenziali disertori, venivano costretti nelle proprie cabine per tutto il periodo di permanenza della nave in quel porto. Altri ancora, pur avendo la possibilità di potersi muovere liberamente a bordo del piroscafo, erano impediti dal mettere piede a terra perché privi del relativo ‘permesso”. Il ricorso alla restrizione della libertà personale da parte delle autorità americane rappresentava un fenomeno oltre che frequente, un aspetto poco edificante che si è protratto fino alla fine degli anni Sessanta ed oltre. La motivazione addotta in proposito era quella di impedire l’immigrazione clandestina. Tuttavia non si può non condannare e denunciare il ricorso a misure così drastiche poste in essere dai funzionari di un Paese da sempre pronto a sbandierare il concetto di libertà all’estero, salvo poi negarlo sul proprio territorio. Se le giustificazioni possono apparire condivisibili (l'immigrazione clandestina in Italia e il risvolto criminale a questo connesso, sono lì a testimoniare le implicazioni negative del fenomeno), è difficile non essere solidali con quelle persone alle quali, dopo lunghissimi giorni di navigazione, veniva, di fatto, impedito di potersi rinfrancare nello spirito e nel morale, trascorrendo qb che ora sulla terra ferma. Per quanto ci riguarda, è probabile che l’attuale istituto degli arresti domiciliari previsto dal nostro codice di procedura penale, risulti più accettabile rispetto a quel tipo di restrizione. Con la differenza che, mentre chi viene sottoposto a tale misura restrittivaè ritenuto non completamente innocente, 27

chi, invece, veniva costretto a rimanere a bordo, era sicuramente innocente e

solo potenzialmente un clandestino. Un altro sistema per ‘conquistare’ 1’ America era rappreséntato dal matrimonio o da quello che, apparentemente, aveva il crisma di questo sacramento. Interessati a questo tipo di espediente erano, ancora, in prevalenza, i marittimi o, raramente, clandestini arrivati negli Stati Uniti sempre via mare nascosti nelle stive o in altri modi. Questi, una volta avuta l'occasione di mettere piede a terra, cercavano di contrarre matrimonio con una cittadina ameri-

cana al fine di legalizzare la propria posizione di illegal, illegale. È bene precisare che, nel caso in cui un marittimo non faceva rientro a bordo, il comandante del piroscafo, dopo un lasso di tempo prestabilito, aveva il dovere di denunciarlo per diserzione alle autorità consolari competenti. A questo punto si metteva in moto un meccanismo che vedeva impegnate le autorità italiane e americane con l’obiettivo di riacciuffare il malcapitato e rispedirlo al paese di origine. Se la nave era ancora nel porto, costui veniva rispedito in patria con la stessa. Nell’ipotesi, poi, che, a distanza di tempo, lo stesso individuo avesse fatto ritorno in un porto americano, sarebbe stato sottoposto a quel regime di restrizione della libertà personale di cui si è già detto. Difficilmente, però, il disertore veniva scoperto. Questo avve-

niva, il più delle volte, a seguito di una soffiata. Sono stati riferiti casi di denunce fatte da concittadini o da compaesani in danno di altri. I motivi che portavano a questo tipo di comportamento erano i più diversi. Il più delle volte si trattava di rivalità, invidia, competitività nel campo lavorativo, ecce-

tera. Le autorità americane non avevano molto interesse a ritrovare gli illegali. Al contrario. Da un punto di vista strettamente economico, i clandestini

rappresentavano una risorsa e davano un grosso contributo a quel Paese in quanto, oltre ad essere sottopagati offrivano agli imprenditori notevoli vantaggi sotto il profilo fiscale e della produttività. Le esperienze degli extracomunitari in Italia sono abbastanza sintomatici a questo proposito. Relativamente ai matrimoni finalizzati all’acquisizione dello status di residente legale, vi è da aggiungere la circostanza secondo la quale, a tal fine, nacquero delle vere e proprie ‘agenzie’. Le stesse fungevano da intermediari per la buona riuscita di quel genere di operazioni. Le donne interessate a questa singolare attività, il più delle volte prostitute, si prestavano volentieri alla bisogna al fine di ricavare un po” di denaro. A distanza di ventiquattro ore dal matrimonio e dalla ‘luna di miele’ (da trascorrere fuori dal territorio degli Stati Uniti, come prevedeva la legislazione americana), colui che si era ‘imbarcato’ in una simile avventura, ac-

quisiva il diritto di rimanere in America. L’istituto del divorzio avrebbe provveduto, in un momento successivo, a rimettere ogni cosa al suo posto.

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Non pochi erano, invece, coloro che, sia per risparmiare sia perché inconsapevoli di questo procedimento, convolavano a ‘giuste nozze’ con la prima donna che capitava loro a tiro. Anche qui, erano soprattutto i marittimi quelli che percorrevano questa scorciatoia al fine di potersi costruire una nuova vita o, per mettere da parte un po’ di dollari per poi fare ritorno al proprio paese. Va da sé che questa pratica, alquanto diffusa prima degli anni Cinquanta, presentava, insieme all’aspetto positivo (riuscire a lavorare e guadagnare denaro), anche risvolti decisamente negativi. Ci riferiamo a coloro che, dopo aver impalmato una donna del posto, si pentivano di quella scelta e, tuttavia, non avendo la forza di disimpegnarsi, restavano legati per il resto della loro esistenza con persone che li rendevano infelici. Per non parlare di quei casi in cui ci si sposava con un’altra donna, pur avendo già una famiglia al proprio paese. Di questi ultimi, molti sono quelli che non hanno più fatto ritorno in patria, dando luogo al fenomeno delle ‘vedove bianche’, molto diffuso e conosciuto nel Mezzogiorno fino a non molto tempo addietro. Ancora. Alcune persone formavano addirittura due famiglie; una al paese d’origine e l’altra in quello di adozione. Ciò con una serie di conseguenze, sul piano psicologico e sociale, difficilmente valutabili per entrambi i nuclei familiari. La casistica di questo aspetto particolare è alquanto variegata. Tante e tali erano e continuano a permanere le situazioni anomale venutesi a determinare, che non è azzardato affermare come, da esperienze di questo genere, non poche famiglie siano state duramente provate e segnate; con esiti di varia natura e difficilmente determinabili. In questa rassegna non potevamo tralasciare il caso di quelle donne, e non erano poche, che a loro volta aspiravano ad andare in America. Le ragioni più frequenti che facevano scattare questa molla, vanno ricercate nella voglia di evadere dalla solita monotonia del piccolo paese contadino e dalla volontà di cambiare radicalmente modello di vita. Questo era particolarmente avvertito dalle figlie dei nostri agricoltori e braccianti per le quali emigrare significava affrancarsi dalla vita dura dei campi. E, comunque, per tutte, il deno-

minatore comune era rappresentato dal voler mutare la propria condizione esistenziale. Fin quasi alla fine degli anni Cinquanta, per la ragazza meridionale in generale e di quella molese in particolare, il matrimonio con un ‘americano’ era considerato il massimo della realizzazione personale. L’amore, lo si afferma da sempre, viene col tempo. Vi era ovviamente la preferenza per chi aveva acquisito la cittadinanza americana o che, quanto meno, era in posses-

so del così detto ‘va e vieni’, ovverosia del permesso di soggiorno. Quest’ ultimo era rappresentato da un tesserino plastificato di colore verde: la Alien Registration Card. Da noi la chiamavamo ‘la carta verde’, quasi a significare, con riferimento al colore, la libertà di passare il confine americano. Anco-

DO

ra oggi, questo documento viene rilasciato dalle autorità americane a coloro che, avendone i requisiti, entrano nel territorio statunitense. Cosa dire, infine, dei tanti casi di persone che riuscivano a conquistare l’ America passando prima dal vicino Canada. Va ricordato che la legislazione di quest’ultimo Paese in materia di immigrazione è sempre stata molto più flessibile rispetto a quella statunitense. Infine va rimarcato che, sia prima che dopo l’entrata in vigore della legge denominata HR 2580, la gran parte dei nostri concittadini emigravano in base alla terza preferenza e alla ‘specializzazione’ di giardiniere. Si trattava, in questi casi, prevalentemente di contadini o braccianti, con un livello culturale non molto elevato, quando non anche analfabeti. Questi agricoltori o presunti tali, una volta arrivati a destinazione, venivano adibiti, oltre che come

giardinieri, anche ad altre attività connesse al lavoro dei campi. Superfluo aggiungere che, costoro erano particolarmente ricercati in quanto sottopagati e perché andavano a riempire quegli spazi che gli americani avevano abbandonato. Né più né meno lo stesso fenomeno che si sta verificando in Italia da qualche anno a questa parte con gli extracomunitari. Potevano passare anche molti anni prima che questi sfortunati riuscissero a rendersi indipendenti, per poi potersi dedicare ad altre attività. Quelle prevalenti erano, naturalmente, di tipo manuale. Per lo più in settori quali l’edilizia, comunemente conosciuta come

‘la costruzione’, dall’inglese construc-

tion; ‘alla strada’ (lavori di manutenzione stradale in genere); ‘alla ruggine’ (consisteva nel picchettaggio della ruggine sulle navi mercantili); longshore (lavori al porto per operazioni di carico e scarico delle navi), venditori ambulanti e lustrascarpe. Non mancavano, peraltro, lavoratori semi specializzati nell’industria dell’abbigliamento, stuccatori e lavoranti su statue di gesso. E,

ovviamente, nel settore della ristorazione, quali lavapiatti, pizzaioli, camerieri e cuochi, nella migliore delle ipotesi. Le paghe erano relativamente più alte rispetto a quelle percepite dai lavoratori in Italia. Naturalmente, anche il numero degli incidenti sul lavoro era di gran lunga superiore. “... Un altro tipo di sfruttamento, tipico dei gruppi di immigrati dall’Italia, era il sistema del ‘padrone’ o ‘boss’: i nuovi arrivati, che non sape-

vano la lingua né conoscevano le condizioni di vita americane, erano aiutati da un loro compatriota a sistemarsi e a trovare lavoro, ma di fatto entravano a far parte di un sistema di subappalto di manodopera simile, per certi

aspetti, alla schiavità”"".

"! MALDWYN A. JONES, Storia degli Stati Uniti, Oxford University Press, 1983, pag. 289 e se-

guenti.

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Più o meno quello che avviene oggi con gli immigrati che sbarcano quotidianamente sulle nostre coste e che vanno ad infoltire un mercato del lavoro clandestino da dove attingono a piene mani imprenditori senza scrupoli. Tutto ciò si verificava, in massima parte, nei primi decenni del Novecen-

to e, quindi, agli albori dell’emigrazione italiana in terra d’ America. Affermare che gli stessi sistemi vengono oggi adottati dagli extra-comunitari in danno dei loro concittadini non è del tutto campato in aria. Anzi. Col passare del tempo cominciarono a riscuotere un certo interesse l’industria tessile e il settore della ristorazione e dell’alimentazione in genere. Per riuscire a mettere su un’attività commerciale occorrevano anni. Generalmente vi riuscivano prima coloro che erano arrivati in precedenza. La ‘sistemazione’, da un punto di vista economico e sociale, la si otteneva dopo anni di sacrifici (in tutti i sensi). Sacrifici ai quali i nostri emigranti si assoggettavano con malcelata rassegnazione. Indipendentemente dal modo in cui si era arrivati in America, da marittimo, da emigrante, eccetera, vi era un punto di riferimento in comune fino a

tutti gli anni Settanta che interessava prevalentemente i giovani e i meno giovani. Stiamo parlando dell’ Hotel Diplomat (il Diplomatico). Ubicato al centro di Manhattan, molto rinomato e ricercato da coloro che erano in cerca di avventure galanti. All’interno dell’albergo, al primo piano, vi era una sala da ballo, un ritrovo per italiani, immigrati e non, dove il venerdì e il sabato

sera un’orchestrina mediocre suonava vecchie canzoni melodiche italiane e alcune donne già avanti negli anni aspettavano che l’uomo ‘ideale’ le invitasse a ballare. Se il cavaliere non era gradito, il rifiuto era garantito. La prima volta che mi capitò di conoscere quel posto, vi fui trascinato da un amico d’infanzia. Costui utilizzò, quale argomento di persuasione, la certezza dell’avventura con donne abbastanza disponibili. A quel tempo non esistevano i problemi attuali come l’ Aids e, quindi, tutte le occasioni erano buone. Sta di fatto che, nonostante le apparenze e la scenografia tipica degli anni Trenta o Quaranta, non riuscivamo a fare colpo. Anche un giro di dan-

za, trattandosi di balli lenti, avrebbe significato un discreto risultato. Il mio compagno, per giustificarsi, non faceva che ripetere la stessa solfa: “è /a prima volta che mi capita di non riuscire a fare un ballo. Di solito ho sempre rimorchiato”. Ma guarda che sfortuna! Francamente non ho mai creduto al fatto che quel ritrovo facilitasse l’avventura. Mi consta, invece, che il Diplomatico era esattamente il luogo dove uomini e donne attempate ricorrevano quale ultima spiaggia per accasarsi.

ad

Brooklyn: Emigranti molesi impegnati nella costruzione di strade ferrate (inizio 1920). Foto: Bridge, 2/1997.

Emigranti conversanesi in partenza con il Rex da Napoli per New York (1933). Foto: Bridge, 2/1997.

Brooklyn: emigranti molesi consegnano il pane con il loro furgoncino (circa 1930). Foto: Bridge, 2/1997.

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II La riscoperta da immigrato

Arrivammo all’aeroporto Internazionale John Fitzgerald Kennedy di New York il sabato pomeriggio del 18 novembre 1972. Io e mio fratello Giannino (il maggiore di otto figli) avevamo già visto 1’ America, New York, Brooklyn e altre città negli anni precedenti, allorquando navigavamo con le navi mercantili. In questa circostanza, però, si trattava di cosa ben diversa: eravamo emigranti. Lo stato d’animo che ciascuno di noi avvertiva, in maniera unica per certi versi e identica per altri, era completamente diverso dallo stato d’animo che avevamo provato toccando il suolo americano da marittimi. Anche se la grande tristezza che avvertivo come un dolore allo stomaco a causa di quella separazione forzata dagli affetti più cari: la ragazza, gli amici, i parenti e il paese, era in qualche modo mitigata dall’aria irrespirabile di quegli ultimi mesi trascorsi a Mola. Ciò era dovuto alle frequenti manifestazioni di intolleranza tra gli opposti estremismi di destra e di sinistra che si scontravano nei luoghi più impensati. La partenza per l’ America era arrivata quasi come una sorta liberazione. I grattacieli, le strade sfavillanti di luci multicolori li avevamo già visti.

Eppure, nonostante tutto, riuscivano ancora ad esercitare il loro fascino su noi giovani protagonisti di un mondo proiettato verso un futuro tecnologico. Approdare in America con il ‘visto’ rilasciato dall’ Autorità consolare di Napoli è cosa ben diversa che arrivarci per qualsiasi altra ragione: per vacanza o lavoro; per motivi di studio od altro ancora. Essere emigrante è un unicum che difficilmente può essere avvertito da chi non ha fatto questa esperienza particolare. All’aeroporto trovammo ad attenderci nostro padre, lo zio Lillino (Reneo)

e Ivanna, la figlia maggiore di questi. Durante il tragitto in macchina verso Brooklyn si parlò del più e del meno. La nostra destinazione era la casa di zia Giovanna (una sorella di nostra madre emigrata negli anni Cinquanta) la quale, manco a dirlo, era raggiante di felicità. L'accoglienza che trovammo da parte degli altri cugini, Peter, Vincent e Michael fu veramente calorosa. La zia aveva preparato una cena favolosa e la tavola era riccamente imbandi33

ta. Per gli italoamericani la ‘ricchezza’ della tavola rappresenta il biglietto da visita e, quindi, sulla stessa non deve mancare nulla, o quasi. L'ospite deve cogliere con immediatezza un messaggio preciso ed inequivocabile: in America c’è tutto. Soprattutto c’è il superfluo. Quel ‘di più’ che, da qualche anno, è presente anche sulle nostre tavole. Il tema dominante della conversazione fu, naturalmente, la nostra collo-

cazione nel sistema produttivo al più presto. Negli Stati Uniti, a New York e, particolarmente tra gli immigrati di origine italiana di Brooklyn, la cosa più importante nell’esistenza di ciascuno è il lavoro. Immediatamente dopo, quanto si riesce a guadagnare. Più che la collocazione nella scala sociale è importante l'ammontare del check, l’assegno settimanale che si porta a casa. Più che le apparenze, quel che conta è la sostanza. Quella strana sensazione allo stomaco che avevo cominciato ad avvertire dal momento che avevo messo piede sul suolo americano si accentuò notevolmente allorquando, a fine serata, dopo esserci congedati dai parenti, varcammo la soglia dell’alloggio che nostro padre aveva preso in fitto. La nostra abitazione distava due isolati dalla casa di zia Giovanna. Era ubicata all’ultimo piano di un apartment house, una palazzina a quattro piani con due appartamenti per livello. L'alloggio consisteva di tre stanze più il bagno. Lo stabile, di proprietà dei fratelli Nicola e Peppino Comes (nostri concittadini), era situato sulla West Six Street. Dei tre vani, due erano stati destinati

a camere da letto. In uno dormivano nostro padre e Alberto (il quarto dei fratelli). Nel secondo, avrei dormito con Giannino. Infine, l’ultima stanza, era

adibita a cucina e soggiorno. Queste erano arredate alla meno peggio. I letti e i comodini facevano parte del mobilio che l’inquilino precedente, passato a . miglior vita, aveva lasciato. Tra le altre cose, nostro padre si era preoccupato di farci trovare un televisore. Anche a quei tempi, un’abitazione americana senza televisore era, a dir poco, un non sense. “L'ho trovato per strada”, disse rivolto a noi con un sorriso di soddisfazione mentre vi armeggiava vicino. “L’ho aggiustato in qualche modo e adesso si possono vedere due canali”. Stranamente e in quel preciso momento mi rendevo conto che nulla ti è dovuto. Niente ti viene offerto senza qualcosa in cambio. Eppure, chissà perché, avevo dato per scontate tante cose. Probabilmente anch’io ero stato indotto in errore dalla propaganda che si faceva dell’ America nel nostro piccolo paese. Una pubblicità veicolata consapevolmente da altri immigrati i quali non perdevano occasione per lodare la ricchezza di quella terra. Entrando in un supermercato non mancavano di additarti gli scaffali ripieni di mercanzie varie. Sul finire del 1972, la grande distribuzione al nostro paese non era ancora arrivata e le botteghe di generi alimentari non potevano certamente competere con quel sistema. Mi accorgevo, peraltro, in circostanze 34

come quelle, che bisognava incominciare da zero. L’ Americaè ricca, c’è quasi tutto. E, tuttavia, per qualsiasi cosa bisogna pagare un prezzo. Chi pensasse che l’ America ti regala qualcosa commetterebbe un grave errore. La mobilia della cucina comprendeva un tavolo e alcune sedie. A questo vano si accedeva direttamente dall’esterno. Il tutto era composto di armadietti in legno incassati nel muro, un frigorifero e la cucina a gas. Questi arredi fanno parte integrante della dotazione minima che il proprietario deve assicurare all’affittuario. È, questa, una prassi consolidatasi negli anni. Probabilmente per giustificare e far lievitare il prezzo del canone di locazione. Tutto sommato si trattava di un’abitazione confortevole. Particolarmente per il fatto che era ben riscaldata. Per noi, non abituati a quel tipo di comfort durante gli inverni degli anni trascorsi al nostro paese, era un notevole passo avanti. Va detto, però, che il gelo che avevamo trovato al nostro arrivo e, in

generale l’inverno nordamericano, sono tutt’altra cosa se paragonati al freddo del nostro meridione. Bisogna aggiungere che anche il costo del riscaldamento è a carico del padrone di casa. Forse per questa ragione la pigione mensile di quel periodo ammontava a 150 dollari (circa centotrentacinquemila lire del tempo). A quell’epoca lo stipendio medio di un operaio in Italia si aggirava intorno alle cinquecentomila lire mensili: cioè seicento dollari al mese. Quello che personalmente cominciai a guadagnare nei primi tempi non superava i cento dollari settimanali (circa 80 mila lire). Gli ambienti della nostra casa americana erano stati verniciati di fresco e,

i pavimenti erano ricoperti di linoleum di vario colore'. Quest'ultimo accorgimento è usato frequentemente per due motivi: non rovinare i pavimenti 0riginariamente in parquet (molto diffusi nelle abitazioni di Brooklyn e dell’area metropolitana in generale) o, più probabilmente, per coprire con facilità la carenza di manutenzione. Quello che non dimenticherò mai di quella prima abitazioneè il particolare tanfo che da questa emanava. Certamente era dovuto al calore che sprigionavano i termosifoni. Un tanfo che, ancora

oggi, a distanza di tanti anni, riesce difficile dimenticare. Il giorno dopo, domenica, ancora a pranzo dalla zia. Avevamo portato con noi un paio di chili di orecchiette fatte a mano da nostra madre. Poco prima di partire, ci aveva detto compiaciuta e soddisfatta: “le mangerete insieme a casa della zia”. Senza dimenticare, ovviamente, di dirci di abbracciare sua sorella per la quale nutriva un grande affetto. E, ancora una volta, potemmo constatare con quanta passione la zia aveva preparato non solo le

! sono di diversa colorazione e fantasie e vengono utilizzati per rivestire i pavimenti. Negli ultimi anni, mano a mano che le famiglie italiane hanno iniziato la scalata sociale e raggiunto una discreta condizione economica, il linoleum è stato sostituito dalle mattonelle in ceramica importate dall’Italia.

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orecchiette, ma tante altre leccornie e i piatti tipici ‘americani’ come le clams” origanate ed altro ancora. Non mancavano, naturalmente, la cake, il dolce, e il caffè. A quel-tempo, coffee and cake rappresentavano gli elementi che caratterizzavano il benessere e non dovevano mancare dalla tavola degli americani. Il caffè e il dolce, oltre ad interpretare il superfluo, davano con

immediatezza il connotato dell’opulenza della nazione e dei singoli nuclei familiari. Nel bel mezzo del pranzo, un altro episodio poco piacevole mi colpì in maniera particolare. Alberto (scomparso improvvisamente nel gennaio 1995), si dovette accomiatare da tutti noi perché doveva recarsi al lavoro.

Che si lavorasse anche la domenica non mi sorprendeva più di tanto. Sulle navi mercantili avevo fatto esperienze ben più traumatiche. Tuttavia, avrei tanto desiderato che, in quella particolare circostanza, in una occasione simi-

le e dopo un lungo periodo di lontananza, si potesse stare tutti insieme e godere il ricongiungimento del nucleo familiare. Ma tant’è. Avrei vissuto esperienze e situazioni ben peggiori. Nel pomeriggio, dopo il pranzo abbondante durato almeno due ore, unitamente a mio fratello Giannino che sapeva bene come spostarsi con il subway, ci recammo downtown Brooklyn, cioè nella parte bassa della città. Destinazione Carroll Street, nel quartiere di Carroll Gardens, il più popolato dai nostri concittadini negli anni Sessanta e Settanta. Si tratta di un rione che ha visto i primi arrivi dal nostro piccolo comune in provincia di Bari. La gran parte dei Molesi che metteva piede nella nuova terra cercava di ritrovarsi nello stesso quartiere. Probabilmente per sentirsi più vicini al paese d’origine. Ricreando, in questo modo, e in piccolo, tutto quello che avevano lasciato alle loro spalle. Questo posto rappresentava il primo approdo da parte di coloro che vi fecero scalo a partire dai primi decenni del Novecento. Si era costituito, così, nel tempo, un gruppo omogeneo che si inseriva in un più vasto mosaico composto dai tanti gruppi etnici che popolavano l’area metropolitana di New York. “Gli immigrati tendevano a riunirsi in gruppi di compaesani anziché di connazionali. Il desiderio di preservare la propria identità e di trovarsi emotivamente al sicuro in compagnia dei propri simili spiega anche perché ciascun gruppo di immigrati creasse proprie istituzioni sociali: chiese, scuole, giornali, società di mutuo soccorso e persino teatri”. Intere strade come President Street, quindi, First, Second, Third e Fourth Place, oltre che le vie adiacenti, erano abitate da Molesi. Queste arterie si intersecano con la via principale che sfocia nei pressi del tribunale della Con2 dor stri Frutti di mare simili alle vongole. 3 7 MALDWYN A. JONES, op. cit., pag. 289 e sg.

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tea di Brooklyn dal quale ha preso il nome di Court Street. All’altezza di First Place, angolo Court Street, si trovava e si trova ancora oggi, un bar diventato punto di riferimento perché frequentatissimo dai nostri compaesani. Davanti a quel bar, sul marciapiedi antistante, molto ampio, i Molesi erano soliti trascorrere gran parte del tempo libero. E fu proprio quel bar la nostra prima ‘fermata’. Tra le altre persone che si assiepavano a quell’ora del pomeriggio, molti amici e conoscenti che non vedevamo da anni. Quelli che ci conoscevano si mostrarono felici di rivederci! Almeno così apparivano ai nostri occhi. Dai loro volti traspariva una sorta di segreto compiacimento. Quegli occhi, quegli sguardi, davano l'impressione che dicessero: “adesso ci siete anche voi qui a soffrire”. Dalle loro facce si poteva cogliere chiaramente un certo malessere e, soprattutto, non riuscivano a nascondere la grande

nostalgia per il proprio paese. . Ci scambiammo le solite frasi di circostanza. Qualcuno ci chiese quando eravamo arrivati. Qualcun altro se avevamo trovato lavoro. Altri ancora chiedevano notizie di Mola. Se vi erano delle novità. Ci rendevamo conto,

non senza imbarazzo, di non avere alcunché di nuovo da riferire riguardo al nostro paese. Che ogni emigrante si senta in perenne trasferta era intuibile da quel primo impatto e da qualsiasi conversazione abbia quale riferimento il luogo di origine. Anche quando si è stati lontani decenni, diventa inevitabile fare paragoni. Si vive in bilico tra il paese che ti ha dato i natali e quello di adozione che ti ‘ospita’. Si parlò, ovviamente, delle loro attività lavorative. I nostri interlocutori

tenevano particolarmente a far sapere quanto guadagnavano. Inoltre, un concetto basilare emergeva costantemente dai loro discorsi: per i primi tempi bisognava sacrificarsi. Col passare del tempo, poi, anche noi avremmo potuto raggiungere un discreto benessere. L'America, sembrava di capire, era prodiga di cose buone e di un futuro migliore per tutti. Bisognava soltanto avere la pazienza di aspettare il momento opportuno. Ognuno aveva parole di elogio per quella ‘terra’. Una ‘terra’ che, nonostante tutto, aveva consentito a ‘tutti’ di farsi una posizione discreta e di migliorare la propria situazione economica. Ciò era impensabile in Italia. Particolarmente a Mola e, in generale, nel meridione. Dalle loro parole emergeva un profondo risentimento, una condanna senza appello nei confronti di un Paese, l’Italia, che li aveva costretti ad emigrare e vivere lontani dai loro affetti più cari: il loco natio, gli amici con i quali avevano trascorso gli anni più belli della fanciullezza e della spensieratezza. Erano discorsi molto appassionati dai quali traspariva oltre alla rabbia, una grande nostalgia. Un sentimento, questo, che ti accompagna sempre, indipendentemente dal numero di anni di lontananza. Alcuni manifestavano apertamente il desiderio di ri-

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tornare al paese per rimanerci definitivamente non appena le condizioni economiche lo avrebbero consentito. Il loro modo di esprimersi, le loro facce stanche, parevano trasmettere un che di malinconico. Era difficile non condividere quel modo di sentire e di pensare. Si aveva l’impressione che qualcosa di invisibile, di inafferrabile li preoccupasse tenendoli costantemente in ansia e trepidazione. Probabilmente si trattava dello stesso stato d’animo che avvertivo con mio fratello. Per certi versi, si poteva paragonare alla identica sofferenza che avevamo provato tutte le volte che avevamo dovuto lasciare il paese per andare a imbarcarci sulle navi. Con, in più, un certo non so che, di indescrivibile che ti prende e

ti accompagna sempre. Già al momento della partenza dalla stazione del nostro piccolo comune, ti aggrediva una tristezza che ti struggeva per un lungo lasso di tempo e non potevi fare altro che pensare al giorno del ritorno. Momenti come questi, i ricordi, mi facevano tornare indietro nel tempo e ripensare alle partenze che tanti anni prima avevano visto protagonisti, quelle stesse persone che, adesso, a distanza di anni, si trovavano lì davanti a noi.

Anche se erano passati alcuni lustri, era difficile dimenticare quanto avveniva, quasi giornalmente, negli anni Sessanta. A quell’epoca, i nostri emigranti si recavano a Napoli, da dove sarebbero ripartiti per New York con le navi della Società di navigazione ‘Italia”‘. Il lunedì mattina, di buon’ora, nostro padre ci accompagnò alla sede della Social Security, la previdenza sociale americana, ubicata downtown, nelle immediate vicinanze del tribunale, del municipio ed altri edifici pubblici del

Borough di Brooklyn. Gli uffici della Social Security erano una tappa obbligata. Per poter lavorare ‘regolarmente’ è indispensabile munirsi di questo importantissimo documento. Un tesserino di carta sul quale è riportato un numero: il social security number. Lo si può paragonare, per importanza, al numero di codice fiscale. Negli Stati Uniti, per qualsiasi pratica, per ogni esigenza ed evenienza, bisogna fare riferimento a questo numero. Per quanto riguarda l’attività lavorativa, il social security number riveste, poi, grande rilevanza ai fini del versamento dei contributi previdenziali. Quello stesso giorno, sempre accompagnati da nostro padre, ci recammo nel Queens. Dovevamo andare a ‘salutare’ un italoamericano molto ben inserito in quel sistema. Michele, il terzo dei fratelli, aveva lavorato alle sue di* Fin dal primo giorno del nostro arrivo non facevamo che ascoltare una cassetta di vecchie canzoni napoletane cantate da Massimo Ranieri. Nostro fratello Alberto l’aveva acquistata subito dopo aver toccato il suolo americano. Tra queste, Lacreme napulitane, era quella che più di ogni altra ci straziava il cuore. Il ritornello, “...E n’ge ne costa lacreme st’America, a nuie napulitane ...”, pareva scritto apposta per farti soffrire di più. L'America, oltre alle lacrime e ad altri sentimenti ancora, è costata non solo ai napoletani ma a tutti coloro che hanno vissuto l’amara esperienza dell’emigrazione.

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pendenze qualche anno prima in un villaggio turistico ubicato up state New York, sulle alture dello stato, denominato Villaggio Italia. Il suo nome era Aldo Dibelardino. Un grosso personaggio nel settore della ristorazione. CoStui, per il nostro arrivo in America, aveva depositato in banca duemila dollari per l’affidavit’. Un collaboratore del signor Dibelardino, un certo mister Bianchi, ci accompagnò negli uffici del primo. Questi si mostrò molto felice

di vederci e dichiarò tutta la sua disponibilità ad aiutarci. Disse a Bianchi di fare tutto il possibile affinché trovassimo un lavoro adeguato alle nostre aspettative. Dopo di che ci accomiatammo da quello che, per nostro padre, era un benefattore che avremmo dovuto tenere nella più alta considerazione. Il signor Bianchi ci diede appuntamento per il giorno seguente. Avremmo parlato del nostro avvenire e, ovviamente, della nostra più opportuna collocazione nel mondo del lavoro. Il giorno dopo, martedì, ci recammo nuovamente nel Queens. Il signor Bianchi ci aspettava per illustrarci quello che doveva essere il nostro lavoro e le prospettive che si aprivano per una famiglia come la nostra (ben otto figli), nel settore della ristorazione. Tra le altre cose si soffermò ad illustrare tutte le potenzialità che, in una terra ricca come l’ America, avremmo potuto cogliere con l’apporto inevitabile di capitali e di coordinamento che il signor Dibelardino avrebbe messo a nostra disposizione. Quel discorso aveva certamente avuto un peso su mio fratello, al punto che, impulsivamente e per sottolineare la gratitudine per l’aiuto che ci veniva offerto, dichiarò candidamente: “noi vi saremo grati per tutta la vita”. Il nostro interlocutore lo interruppe prima che potesse aggiungere altro. “No. Non dire cose di questo genere. La gratitudine per tutta la vita mi sembra un po’ troppo”. E, cam-

biando discorso, ci preannunciò che stavamo per recarci a New York per conoscere il nostro primo datore di lavoro. Dopo di che, col subway e accompagnati dal signor Bianchi, ci trasferimmo a Manhattan. Destinazione un ristorante italiano: la ‘Trattoria Gatti’. Un posto tipicamente italiano ubicato sulla quarantunesima strada, nell’ East side, la parte est della città, all'angolo con la seconda Avenue. Anche se l’aggettivo di trattoria può far pensare a qualcosa di secondo piano, si tratta-

va, invece, di un ristorante di buon livello. A quel tempo si mangiava molto bene. Giannino, grazie alla sua esperienza precedente (sulle navi mercantili aveva lavorato in cucina), fu assunto come cuoco. Il titolare del ristorante gli disse che poteva cominciare subito e che nello scantinato avrebbe trovato l’occorrente per cambiarsi e vestire i panni appropriati. Quelle parole ebbero ° È una deposizione scritta e giurata con la quale chi faceva l’atto di richiamo si impegnava a garantire la permanenza della persona richiamata. Poteva anche consistere nel deposito di una determinata somma di denaro o attraverso l’impegno di natura immobiliare.

pe)

l’effetto di una doccia fredda su mio fratello che volse lo sguardo verso di me come a cercare aiuto. Per parte mia, non avendo alcuna professionalità da far valere, sarei stato adibito come bus boy, una sorta di aiuto cameriere. Per

tale ragione ed anche perché dovevo procurarmi l’occorrente (pantalone e farfallino nero, camicia bianca e, soprattutto, una fascia nera per la vita), mi fu consentito di ritornare il giorno seguente. Il signor Nando Muscini, questo il nome del titolare, aggiunse che solo per qualche giorno avrei dovuto aiutarlo in lavori generici di pulizia. Il nostro datore di lavoro, un pezzo d'uomo grande e grosso, originario dell'Emilia (aveva lavorato in quel posto allorquando era arrivato in America come emigrante e, dopo aver sposato la figlia del proprietario, ne era diventato il titolare) ci disse di essere in procinto di aprire una pasticceria tipicamente italiana. Il salottino dove eravamo seduti era parte integrante della stessa. I locali di questa erano adiacenti al ristorante. Il grande salone dove ci trovavamo era arredato con tanti salottini in velluto: ve ne erano circa una decina. I futuri clienti avrebbero potuto degustare la pasticceria italiana stando comodamente seduti in un ambiente raffinato. Da qui la ragione di una simile richiesta di aiuto. Il tempo necessario per fare le pulizie generali degli ambienti, in previsione del grand opening, l’inaugurazione. Immediatamente dopo questo evento avrei potuto svolgere le mansioni di bus boy. Fui impegnato dal mercoledì fino al venerdì della settimana seguente, lavorando per circa dodici ore al giorno. Dalle sette del mattino alle sette di sera. Mi alzavo alle cinque del mattino per evitare di arrivare tardi e dare una brutta impressione. Una volta arrivato alla Grand Central Station, sulla quarantaduesima strada, entravo in un luncheonette, una caffetteria, per sorseggiare un caffè caldo e fumare alcune sigarette. Quindi mi avviavo verso il ristorante arrivando con largo anticipo. I locali destinati alla nuova attività erano diversi. Al piano terra, oltre al salone finemente ed elegantemente arredato con i salottini, vi era un’ampia sala adeguatamente attrezzata per la

vendita al pubblico. Quindi gli scantinati, a dir poco immensi. Questi occupavano tutta l’area sottostante al ristorante e alla pasticceria ubicati al piano terra. Vi erano state installate tutte le attrezzature per la lavorazione e la produzione. Tutto, o quasi tutto, era stato importato dall’Italia. Di tanto in tanto, Muscini, additandomi

un bancone o una delle macchine, mi informava del

costo di ciascuna, non senza una punta d’orgoglio. Non mancavano, ovviamente, i locali destinati a depositi, bagni e spogliatoi per il personale. Sotto

questo profilo i posti pubblici italiani erano, considerati i tempi e lo sono ancora per certi versi, distanti anni luce.

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Per i successivi sette giorni fui duramente impegnato. Fui costretto a lavorare anche nel giorno di Thanksgiving®. Non facevo che lavare pavimenti, lucidare vetrine e banconi e tutto quanto si trovava in quei locali grandissimi e che, sembrava, non dovessero finire mai.

Dopo le prime tre giornate Muscini mi domandò se me la cavavo con il lavoro di pitturazione. Risposi affermativamente. Avevo fatto non poca esperienza fin da ragazzo con questo tipo di attività, in special modo sulle navi. Mi chiese, pertanto, di dare una mano di vernice ad una impastatrice: forse una delle poche cose di seconda mano. Il risultato dovette impressionarlo favorevolmente al punto che, da quel giorno, non facevo altro che verniciare. Improvvisamente tutto aveva bisogno di una mano di pittura. Qualche porta, i muri delle scale interne all’edificio che portavano in terrazza, pareti di qualche locale ed altro ancora. In questa attività ero stato affiancato da un uomo di mezza età, di origine ispanica. Si chiamava Manolo e aveva preso il mio posto nelle pulizie. Costui, non faceva che ripetermi continuamente e con ossessione che, se avessi lavorato nel settore della pitturazione, avrei guadagnato molti più soldi: almeno dieci dollari l’ora. AI termine di oltre una settimana molto impegnativa, durante la quale avevo cercato di dimostrare e dare il meglio, il mio datore di lavoro mi consegnò il primo assegno, il check, tanto decantato. La somma riportata ammontava a poco meno

di cento dollari. Al cambio dell’epoca, novembre

1972,

meno di ottantamila lire. Negli Stati Uniti, per prassi consolidata, si viene retribuiti settimanalmente e, in qualche caso, ogni due settimane. Nel vedere l’importo di quell’assegno, ripassando in rassegna il numero di ore lavorate, la mole e il tipo di lavoro prodotto; tenuto conto che non risultava fossero stati versati contributi e che avevo lavorato anche in una giornata festiva come quella del thanksgiving, mi resi conto con immediatezza che la paga non rispecchiava certamente l’impegno che avevo profuso in quei giorni. Intanto non riuscivo a capire come fosse pervenuto a quella cifra dispari: novantotto dollari e quarantatré centesimi. Inoltre, a occhio e croce,

mi rendevo conto che, per lo stesso numero di ore, su una nave mercantile avrei guadagnato una somma di gran lunga superiore. Un altro elemento che aveva contribuito sicuramente ad alimentare una aspettativa maggiore erano state le conversazioni con Manolo.

© È una festività che cade l’ultimo giovedì di novembre. Si tratta di quello che comunemente viene definito come il giorno del ringraziamento e intende rinnovare la gratitudine del popolo americano per ciò che si verificò all’epoca dello sbarco dei pellegrini. Questi, stanchi e affamati, si imbatterono in uno stuolo di tacchini che vennero utilizzati per sfamarsi.

4l

Feci notare, in maniera garbata e con un filo di voce, non fosse altro che

Muscini (la sua corporatura era quasi il doppio della mia) il numero di ore e delle giornate che mi avevano visto iml’aver provveduto a verniciare per qualche giorno, l'importo mi sembrava insufficiente a ripagare le mie prestazioni. Peprecedenti, avevo avuto modo di conoscere quali fossero le paghe settimanali che, mediamente, venivano corrisposte per ogni settore laper la statura di che, considerato pegnato, nonché di quell’assegno raltro, nei giorni

vorativo, comprese le mansioni alle quali ero stato utilizzato.

Descrivere lo stupore che si stampò sul volto del mio datore di lavoro a quella osservazione non è facile. Costui sembrava a dir poco folgorato. La sua risposta, che non ammetteva repliche, mi lasciò alquanto perplesso: “sei appena arrivato dall'Italia ed hai già delle pretese? Mi dovresti ringraziare per averti dato un lavoro!” E già! Non avevo pensato a questo dettaglio. Quel particolare modo di pensare era molto diffuso nell'ambiente lavorativo

degli italoamericani”. Non ebbi la forza o la voglia di replicare alcunché. Era evidente che con il mio atteggiamento, oltre a sorprenderlo, lo avevo anche indisposto. Avrei voluto rispondergli per le rime, ma preferii non replicare e mi avviai in direzione dello spogliatoio. Mentre mi cambiavo d’abito per tornare a casa, non facevo che ripensare a quei minuti precedenti e alle parole di Muscini. Evidentemente costui pensava che, da noi, in Italia, 1 lavoratori portavano l’a-

nello al naso o giù di lì. Personalmente avevo acquisito una discreta coscienza sindacale per l’esperienza precedente sulle navi mercantili e l’iscrizione alla CGIL*. Ma, quello che più interessa a questo proposito, è che, per natura, sono sempre stato contro qualsiasi forma di sfruttamento. Almeno di quelle forme che la mia cultura e sensibilità riescono a percepire. Fin da ragazzo mi hanno sempre dato fastidio i potenti e i prepotenti con la loro arroganza. Mi sono sempre ribellato a tutto quanto appariva ingiusto ai miei occhi e al mio modo di pensare. Particolarmente quando qualcuno tenta di prevaricare facendosi scudo della posizione sociale rivestita.

” Non siamo ai livelli dell'episodio verificatosi a Gallarate, in provincia di Varese, il 23 marzo 2000. In tale circostanza un imprenditore edile ha dato fuoco a un lavorante rumeno dopo averlo cosparso di benzina perché costui gli aveva chiesto un aumento di paga. Tuttavia il modo di porsi degli italoamericani nei confronti dei connazionali immigrati non era molto diverso. In una occasione Muscini aveva minacciato mio fratello Giannino di rispedirlo in Italia se non avesse ubbidito a quanto gli veniva ordinato, senza discutere. * Un coetaneo originario di Venezia (città sulla cui ‘piazza’ mi recavo frequentemente in attesa di imbarco), segretario della locale camera del lavoro della CGIL, avendo conosciuto la mia indole ribelle, mi aveva fornito gli strumenti indispensabili per svolgere, previa iscrizione a quella organizzazione, il compito di delegato sindacale e portare avanti le rivendicazioni rivenienti dal contratto di lavoro.

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A distanza di qualche tempo, questo episodio, sarebbe diventato un argomento da opporre a quei datori di lavoro nostrani che avevano occasione di lamentarsi del fatto che: “gli italiani che arrivano in America non sono più quelli di un tempo. Adesso”, dicevano, “nessuno ha più voglia di lavorare. Conoscono solo i diritti e non i doveri”. A queste affermazioni non facevo che replicare osservando che, probabilmente, i giovani che arrivavano dall’Italia, non erano più gli stessi di qualche decennio addietro. Le nuove generazioni di immigrati volevano certamente lavorare ma non essere sfruttati come era avvenuto per anni. È ap-

pena il caso di ricordare, a questo proposito, il tipo di mentalità radicato presso alcuni imprenditori arrivati qualche decennio prima. L’essere stati sfruttati dai rispettivi datori di lavoro anziché porli nella condizione di capire ed evitare il perpetuarsi di tale fenomeno aberrante, li porta, al contrario, a fare altrettanto nei confronti dei propri dipendenti. Quasi una forma di vendetta. Più tardi, mentre ero in procinto di andare via, mi imbattei in Muscini

proprio sulla porta d’ingresso del ristorante. Lo salutai come se nulla fosse assaruta Egli ricambiò molto cordialmente e, con estrema calma, soggiune: “da domani non venire più”. Quelle parole furono come una mazzata e mi gelarono il sangue. Non dui a profferire parola. Lo guardai per un attimo non senza una punta di sorpresa e mi allontanai nella fredda sera di Manhattan. Mentre camminavo per raggiungere la stazione della metropolitana sulla quarantaduesima strada, mi rendevo conto di essere maledettamente solo. E ciò, nonostante mi trovassi in pieno centro e le strade, a quell’ora, brulicassero di gente. Dopo appena una settimana avevo già perduto la job, il lavoro. Immaginavo già la reazione di mio padre. Mi avrebbe rimproverato aspramente. I nostri rapporti non erano mai stati tanto buoni. Il gran via vai della gente intorno a me, le migliaia di luci sfolgoranti dei negozi e tutto il resto parevano non esistere. Mi sentivo come sprofondato chissà dove. È una sensazione incredibile e difficile da descrivere quella della solitudine più assoluta anche quando si è attorniati da tantissime persone. Una volta a casa raccontai a mio padre come erano andate le cose. Inutile dire che andò su tutte le furie e mi fece una ramanzina, anche se, in linea di

massima condivideva il mio comportamento.

Dopo tutto ero suo figlio e,

proprio da lui avevo ereditato l’impulsività e la voglia di lottare contro coloro che sfruttano i lavoratori. Dopo la sfuriata iniziale, mi fece osservare, tra

le altre cose, che: “qui non siamo in Italia. In questa terra, agli inizi, bisogna fare molti sacrifici e pensare solo a lavorare”. E soggiunse: “poi, quando ti sarai fatte le spalle forti” (nel senso di farsi prima una posizione 0

acquisire la indipendenza dagli altri) “potrai permetterti di dire la tua”. 43

L’inizio dell’avventura americana non era molto incoraggiante. La prima esperienza non iniziava certamente sotto una buona stella. Feci notare di non condividere quel modo di pensare, anche se mi rendevo conto che quella mentalità era molto diffusa tra i nostri concittadini e tra gli immigrati di origine italiana. Qualche giorno più tardi e grazie ancora alla benevola intercessione del signor Dibelardino, fui assunto presso il ristorante ‘Marchi’. Mister Bianchi aveva

condiviso la mia reazione nei confronti di Muscini, il quale, peraltro,

non era stato ai patti. Bianchi mi accompagnò nuovamente a New York quale latore di Dibelardino. Il Marchi’s Restaurant, dal nome della famiglia di origine friulana che lo aveva messo su nei primi decenni del Novecento, era ubicato sulla trentatreesima strada East, angolo seconda Avenue, a pochi iso-

lati di distanza dalla Trattoria Gatti. Bianchi mi presentò a Mario Marchi. Il primogenito della famiglia che, con il fratello John e la vecchia madre Francesca, gestivano il ristorante.

Con ogni probabilità, ai più, questo ricorso a terze persone al fine di trovare un lavoro o un impiego potrà apparire inverosimile. Tuttavia, va detto che, anche negli Stati Uniti, per trovare una collocazione lavorativa bisogna essere introdotti o raccomandati da qualcuno. Raramente si riesce a trovare lavoro senza rivolgersi a qualche amico o conoscente. Non si tratta comunque di raccomandazioni di tipo politico.

Mario Marchi, dopo aver accertato la mia discreta (molto discreta per la verità) conoscenza della lingua inglese, appresa un po’ a scuola e un po’ durante l’esperienza sulle navi, mi assicurò che sarei stato adibito, da subito,

nelle mansioni di bus boy. Il tutto consisteva sostanzialmente nell’apparec- . chiare e sparecchiare i tavoli, servire il pane, il burro e l’acqua in una caraffa piena di cubi di ghiaccio. Aiutare, inoltre, i camerieri nel servizio e, una serie

di altre incombenze. Quello che, invece, è essenziale evidenziare a proposito di questa nuova attività, sono alcuni aspetti certamente non marginali. In primo luogo riuscivo a guadagnare molto di più rispetto all’occupazione precedente, a fronte di un numero

di ore notevolmente

inferiore. L’orario di servizio, infatti, era

dalle tre pomeridiane alle undici di sera. Al sabato, giornata in cui si registrava l'affluenza maggiore, si era impegnati dalle due del pomeriggio fin verso la mezzanotte e, a volte, anche oltre. Era senza dubbio la più lunga e stressante in quanto si superavano i seicento coperti. Tuttavia, a fine serata, potevamo concederci il piacere di trascorrere le ore piccole in qualche ritrovo notturno tra i tanti che pullulano nella grande mela e bere qualcosa insieme ai compagni di lavoro. La domenica era dedicata al riposo settimanale e,

per questa ragione, al sabato sera, ci si poteva trastullare sapendo di poter stare a letto fino a tardi il giorno dopo.

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Chi ha svolto e svolge questa particolare attività in America, e in particolare a Manhattan, sa bene quanto sia avvertita la necessità di rinfrancarsi con una bevanda in uno dei tanti locali disseminati nella grande mela. Fu così che cominciai a conoscere New York by night, di notte. Anche se, paradossalmente, nel 1972, sia la vigilia di Natale che quella del nuovo anno,

coincisero con altrettante domeniche”. Già da alcuni giorni prima di Natale erano stati collocati sui tavoli del ristorante dei bigliettini con i quali si informavano i clienti (e indirettamente il personale) che il locale sarebbe stato aperto in coincidenza delle due vigilie, e ovviamente,

nei giorni di Christmas

e New

Year. La signora Francesca

Marchi, nel giorno dell’antivigilia di Natale, dopo essersi avvicinata al tavolo dove eravamo intenti a pulire i fagiolini verdi, domandò se eravamo disposti a lavorare nelle giornate prefestive e festive. Nessuno ebbe il coraggio di contraddirla. Mi ritrovai, così, impegnato per tre settimane senza un giorno di riposo e attendere venti lunghissimi giorni prima di poter riassaporare il tanto decantato e agognato saturday night della grande metropoli americana sfavillante di luci. Indimenticabili rimarranno le serate di sabato trascorse in alcuni locali latino americani frequentati da belle ragazze ispaniche in compagnia di Mario, l’altro bus boy che condivideva con me lo stesso tipo di lavoro e che, per le sue origine colombiane, aveva una buona conoscenza

di quei posti e non poche amicizie tra il gentil sesso. La peculiarità del ristorante Marchi era quella di servire all’affezionata clientela sempre lo stesso identico menù a prezzo fisso per tutti i giorni dell’anno. Era come un rituale che si ripeteva tutte le sere, tranne la domenica, dalla fine degli anni Trenta. Anche se ai più potrà sembrare strano, i clienti che frequentavano quel posto appartenevano a tutte le classi sociali. Ma quello che più mi colpì fu il clima di timore misto a terrore che aleggiava tra il personale. Incredibile a dirsi, vi era da parte di tutti una paura tremenda di perdere il lavoro da un momento all’altro. E questo, appare ancor più singolare se si pensa alla relativa facilità con la quale era ed è possibile trovare una nuova occupazione in una grande città come, appunto, la metropoli nuovaiorchese. Questo è quanto si affermava e si sostiene ancora oggi. Il datore di lavoro appariva, agli occhi della gran parte dei dipendenti, come qualcuno da riverire e ossequiare perché ti consentiva di lavorare e, quindi, di vivere. Chi aveva in mano leredini di tutto era l’anziana mamma cgadiuvata dai suoi due figli, John e Mario, entrambi nati negli Stati Uniti. La donna, molto energica nonostante gli oltre settant'anni d’età, esercitava

con fermezza ‘materna’ il proprio ruolo di datore di lavoro. Un episodio particolare può, forse, dare la misura del clima che si respirava in quella realtà. ? Guarda caso, esattamente come nel 2000, anno di questa pubblicazione.

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In una delle tante serate tutte uguali come il menù e dopo aver terminato il servizio, eravamo intenti a consumare (gli avanzi della serata) in cucina, al

tavolo riservato al personale. In quel posto non si buttava via quasi nulla. Tutto quello che poteva essere riciclato andava prelevato dai piatti e rimesso / in circolo. Giuseppe Marranzano, un uomo anziano originario della Sicilia, era addetto a questo particolare tipo di attività. Nello svuotare i piatti prima di metterli nella lavapiatti, prelevava i pezzi di pollo rimasti intatti in quanto, debitamente tritati e aggiunti al ragù, davano quel sapore particolare alla lasagna da tutti ritenuta ineguagliabile. È difficile dimenticare l’inveterata abitudine di costui nel prelevare alcune fette di provolone già tagliate facendole scomparire sotto il giubbotto. A quell’epoca non facevo molto caso a quelle cose. Non era certo da mangiare che mancava in casa nostra. Peraltro, lavorando tutti nei ristoranti, potevamo contare sul vitto riservato al personale. Dopo qualche tempo mi resi conto che quel modo di arrangiarsi tipicamente italiano consentiva notevoli risparmi che si aggiungevano agli altri. E, in una famiglia dove le bocche da sfamare sono tante, qualcosa di extra aiuta certamente ad arrotondare a fine mese. La signora Francesca, dopo essersi avvicinata, esordì in termini perentori e con parole che non ammettevano repliche: “domani tutto il personale deve presentarsi con i capelli tagliati”. E, senza attendere risposta (era certa che nessuno avrebbe osato discutere i suoi ordini), soggiunse: “chi non arriva con i capelli tagliati lo rimando a casa”. Impossibile essere più chiari e categorici di così. Bisognava solo ubbidire. Va detto che, non solo in quel ristorante, ma nella gran parte dei luoghi di lavoro gestiti da italiani, il denominatore comune era rappresentato, tranne pochissime eccezioni, dalla mancanza di dialogo tra i lavoranti e il datore di lavoro. Per i dipendenti, quest'ultimo, veniva visto come un benefattore che, per la sua infinita bontà, aveva offerto la possibilità ad alcune persone di poter vivere. In assenza di questi soggetti così altruisti e buoni, l’alternativa poteva essere la fame se non addirittura la morte! Naturalmente è una esagerazione. La realtà, tutta-

via, non era poi tanto diversa da quella appena descritta. A distanza di qualche anno, in occasione della mia visita

a New York,

nell’estate del ‘94, almeno in alcuni posti, l'atmosfera era radicalmente mutata, in meglio, ovviamente. Anche se le eccezioni non mancano. L’aver rimpiazzato i cuochi Italiani, bravi ma esigenti sotto il profilo della retribuzione,

con personale originario del centro America, meno bravo e malpagato, ha comportato uno scadimento nella qualità della cucina italiana, da sempre molto rinomata e ricercata. Il tutto trova una propria giustificazione riconducibile ai profitti che i proprietari non sono disposti a vedere ridotti, a fronte dell’investimento iniziale nel settore.

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E, proprio la mancanza di un rapporto più umano, l’assenza di dialogo nonché la barriera che veniva innalzata tra i lavoratori subordinati e il titolare dell’azienda da parte di quest’ultimo, furono le cause principali che contribuirono a far si che, anche questa nuova esperienza si concludesse dopo pochi mesi. Il tutto si svolse, a grandi linee, nel modo che segue. Intanto è opportuno ricordare che tra le altre incombenze giornaliere del personale di camera, vi era quella di ‘pulire’ alcuni chili di fagiolini freschi da servire bolliti ai clienti quale contorno; apparecchiare i tavoli nelle varie sale; preparare un numero imprecisato di ‘caffettiere’ per servire il caffè americano, il regular coffee; provvedere a riempire e pulire con la massima cura le oliere e le saliere dei singoli tavoli, nonché affettare del provolone importato dall’Italia. Tranne che per i fagiolini, alla cui pulitura si provvedeva tutti insieme seduti intorno allo stesso tavolo, le altre incombenze venivano fatte seguendo il criterio della rotazione. Come già avvenuto altre volte nei mesi precedenti, quella settimana mi toccava affettare il provolone. Sta di fatto che, probabilmente a causa dell’alta temperatura interna di quel giorno, le fette, che dovevano avere uno spessore di circa un centimetro, anziché essere perfettamente lisce, avevano la

superficie un tantino ondulata o scabra. A fine serata, John Marchi, approfittando della circostanza che le sale erano semivuote, e proprio all'altezza del bar, in prossimità della cucina, mi apostrofò in malo modo facendomi osser-

vare che il provolone che avevamo servito quella sera, lasciava molto a desiderare esteticamente. Tentai di giustificarmi in qualche modo adducendo, a motivazione di quell’inconveniente, l’alta temperatura che aveva reso il prodotto più soffice. Quindi la difficoltà oggettiva nell’affettarlo e il conseguente risultato poco soddisfacente. John non mi diede nemmeno il tempo di concludere che, con un sibilo di voce, stravolto in viso e adirato come un osses-

so, imprecò testualmente: fuck you, vai a fare in culo. Devo confessare di essere rimasto di stucco e senza avere la forza o la prontezza di replicare e reagire. Indubbiamente la presenza di qualche cliente mi trattenne da una qualsiasi reazione. Non saprei dire. Mi limitai, perciò, a ingoiare quella volgarità in silenzio. Dentro di me, in quel preciso momento, era ormai maturata una decisione irrevocabile: in quel posto, dopo quella sera e a seguito di quello spiacevole episodio, non ci avrei più rimesso piede. Continuai, pertanto, a svolgere il mio compito come se nulla fosse accaduto, per il resto della serata.

Quando, a fine giornata, andai negli spogliatoi per poche cose che mi appartenevano e che tenevo in un profferire parola con alcuno, mi chiusi la porta di quel consapevole che un’altra esperienza lavorativa in quella 47

cambiarmi, presi le armadietto e, senza ristorante alle spalle terra si era conclusa.

A distanza di alcuni giorni, nella cassetta della posta, trovai un assegno

per un importo di circa quaranta dollari quale compenso dell’ultima settimana di attività lavorativa prestata presso il Marchi’s Restaurant. Va precisato che il guadagno settimanale di circa duecentocinquanta dollari era comprensivo anche di quella somma, quale minimo salariale a carico dell’azienda previsto per legge. Il resto del reddito era rappresentato dalle mance, i tips che, giornalmente, dividevamo tra camerieri e bus boy. Era il momento più interessante di quel lavoro. Per inciso, ai bus boys spettava il sessanta per cento dell’importo riservato ai camerieri. Come è facile intuire la retribuzione scarsa (o nulla) veniva arrotondata con le mance.

Un altro grosso vantaggio di quel particolare tipo di lavoro e di tutte le attività che, in America, hanno alla base il cash, il contante, risiedeva e risiede

nella estrema facilità di evadere il fisco. Di tutte le mance percepite ne dichiaravamo soltanto una minima parte. Negli Stati Uniti, come del resto in Italia, quando si opera con denaro contante, l’evasione è una pratica oltre che

agevolata, in qualche modo incoraggiata. Lo fanno tutti. Evadere le tasse rappresenta qualcosa cui fanno ricorso particolarmente gli esercizi commerciali come, appunto, ristoranti, pizzerie, bar, pasticcerie, eccetera. Da qui la ragione principale di tanti facili arricchimenti, molto spesso reclamizzati con eufemismi del tipo: ‘capacità imprenditoriale’, ‘grande manager’, ‘particolare versatilità e intraprendenza nelle attività economiche’.

O, ancora:

“per-

sonaggio che si è fatto da solo partendo da zero e lavorando ventiquattro ore al giorno” e via di questo passo. Niente di più falso. Quelli che, invece, vengono poco o molto raramente pubblicizzati, sono i casi (e non sono pochi) di fallimenti o di personaggi finiti nei modi più impensati a causa di situazioni economiche non altrettanto pubblicizzate e fantastiche. Senza voler necessariamente generalizzare, si può affermare, senza tema di smentite che, gran parte delle risorse finanziarie di tanti personaggi, tra cui non vanno esclusi nostri connazionali e concittadini, altro non sono che il risultato dell’evasione fiscale selvaggia e, molto spesso, frutto dello sfruttamento perpetrato in danno dei propri dipendenti. Ovviamente denunciare questi fatti non è cosa che ti faccia diventare simpatico agli occhi di coloro che, invece, preferiscono affermare la validità della tesi secondo cui la ricchezza deriverebbe unicamente dalle capacità individuali di alcuni che altri non hanno. Va da sé che l’antica pratica di celare i guadagni è in rapida crescita se consideriamo che: “Le condizioni in cui si è sviluppato il turbocapitalismo"° negli Stati Uniti favoriscono enormemente l’evasione fiscale. Con l’abolizione, ormai da 10, ‘Lo chiamano N e î USE S3ECR il libero mercato, ma io lo definisco invece capitalismo sovralimentato, 0 più semplicemente turbocapitalismo, perché nella sostanza è diverso dal capitalismo rigorosa-

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tempo, di gran parte delle regolamentazioni di carattere commerciale (ma è in vigore una gran quantità di normative ambientali d’altro genere) e con la scarsa necessità di chiedere il rilascio di licenze, gli esattori delle imposte hanno poche informazioni su cui basarsi. Inoltre, il sistema fiscale poggia in larga misura su dichiarazioni dei redditi autocertificate, in contrapposizione alle imposte sul valore aggiunto in vigore in Europa, che sono invece documentate ufficialmente”"'. Relativamente alla pratica molto antica dello sfruttamento, va rimarcato un aspetto di notevole importanza. Potrà apparire strano ma, questa realtà, è strettamente proporzionata al grado di parentela, di amicizia, di appartenenza allo stesso gruppo etnico, alla stessa regione, allo stesso comune di provenienza, eccetera. A dimostrazione di ciò, è sufficiente prendere ad esempio il fenomeno dei cerchi concentrici. Al centro il cerchio più piccolo a rappresentare il legame più stretto (per esempio l’appartenenza alla stessa famiglia); all’esterno quello più grande a significare un vincolo meno intenso (ad esempio, lo stesso gruppo etnico). Man mano che dalla periferia (cerchio più esterno) ci si avvicina verso il centro, aumenta, in termini inversamente pro-

porzionali ed esponenziali, il tasso di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. I diretti interessati, con particolare riguardo a coloro che a questa pratica fanno frequente ricorso, allorquando gli viene mosso un tale addebito, si di-

fendono fornendo le giustificazioni più impensate e inverosimili. Una delle più ricorrenti è quella secondo cui, essendo stati a loro volta sfruttati quando lavoravano per conto terzi, diventa gioco forza praticare nei confronti degli altri lo stesso trattamento e, quindi, un modello da perpetuare. Per quel che attiene, invece, più specificamente il fenomeno

connesso

con l’evasione fiscale, appare utile il riferimento a un caro amico, di nome Gino Vaccaro. Grande lavoratore e fervente propugnatore delle idee comuniste fino alla fine degli anni Sessanta, quando era ancora in Italia. Costui, lavorando tenacemente, è riuscito a mettere su una catena di pizzerie in varie

città. Parlando in materia di evasione e alla relativa facilità con la quale riusciva ad aprire nuovi business, ebbe modo di affermare candidamente: “ dollari che dovrei pagare al governo americano per costruire arsenali da guerra e armi che procurano la morte, preferisco spenderli per soddisfare le mie esigenze e quelle della mia famiglia”. Solo un feroce guerrafondaio 0 chi è contrario al bene della famiglia e ai suoi valori più pregnanti potrebbe trovare insensata una motivazione così profondamente umanitaria e antimiliprearn - cltessi cnniuzlna ni ao prora (gio pare iaia mente controllato che ha prosperato dal 1945 fino agli anni Ottanta e che ha regalato la sensazionale innovazione della ricchezza di massa alle popolazioni di Stati Uniti, Europa Occidentale, Giappone e di qualunque altro paese ne hanno seguito le orme”. EDWARD N. LUTTWAK, La dittatura del capitalismo, Mondadori, I edizione aprile 1999, pag. 42. !! EDWARD N. LUTTWAK, op. cit., pag. 28.

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tarista. Difficile dare torto a chi pone il problema dell’evasione in questi termini.

Gli italoamericani e il razzismo Quando si parla di razzismo con gli italoamericani, questi chiamano in causa

il compianto presidente americano John Fitzgerald Kennedy, assassinato a Dallas, Texas, nel novembre del 1963. La ragione di ciò risiede nel fatto che,

la gran parte degli emigranti residenti in America, collega la problematica del razzismo e la graduale libertà acquisita dai negri con le scelte politiche fatte da John Kennedy nel periodo della sua presidenza. A questo personaggio (riconosciuto quasi unanimemente come uno dei più grandi statisti della storia degli Stati Uniti), viene rimproverato, non senza risentimento, di esse-

re stato il maggiore artefice e responsabile in tema di diritti civili e, soprattutto, reo di aver dato ‘troppa libertà’ alle persone di colore. Infatti, mentre la popolarità di questo presidente è sicuramente il risultato degli innegabili successi in politica estera e interna, per gli italoamericani in generale, e per i Molesi in particolare, il suo nome viene associato unicamente a quelle scelte ritenute da molti ‘sbagliate’. In queste pagine utilizzerò esclusivamente l’aggettivo negro e non altri eufemismi, convinto come sono che sia più giusto chiamare le cose con il loro vero nome. Intanto, è fuori discussione il fatto che certamente John F. Kennedy ebbe un ruolo non secondario nell’incoraggiare il movimento guidato da Martin Luther King, Junior!" per la conquista dei diritti civili alla ‘ gente di colore. Tuttavia, fu durante la presidenza di Lyndon B. Johnson che il Congresso degli Stati Uniti approvò, nel 1964, il Civil Rights Act, la legge sui diritti civili. Questa legislazione rappresenta indubbiamente l’architrave e una tra le conquiste più importanti introdotte nell’ordinamento giuridico americano. Tale disciplina fu varata per porre fine, o quanto meno per arginare, la discriminazione razziale che imperava nei luoghi pubblici in genere per motivi legati soprattutto al colore della pelle, alla razza, alla religione, e alle origini. Tra l’altro, questa normativa - a dir poco rivoluzionaria per quel periodo - prevedeva la sospensione dei finanziamenti statali a quelle amministrazioni locali che avessero continuato a mantenere la segregazione razziale nelle scuole. Il malessere, ancora fortemente radicato in vasti strati della popolazione rispetto a questa problematica, affonda le proprie radici in una par12

; Leader nero, propugnatore della lotta non violenta. Pastore protestante e capo del movimento antisegregazionista statunitense. Insignito del premio Nobel per la pace nel 1964, fu ucciso in un attentato nel 1968 nella città di Memphis (Tennessee).

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ticolare cultura secondo la quale il negro è un essere inferiore. I più radicali, ancora oggi nel paese culla della democrazia, li ritengono anche peggio degli animali. Da qui la parziale presa sul grande pubblico di una legge che, sotto diversi profili, ha incontrato non poche difficoltà ad essere pienamente rece-

pita, almeno su un piano più squisitamente culturale. Ma quello che non deve sorprendere in questa delicata materia è il fatto che i più razzisti tra i gruppi etnici residenti nell’area metropolitana di New York sembrano essere proprio gli italoamericani. Gli incidenti, anche mortali, verificatisi negli ultimi anni nei quartieri abitati dagli italiani sono lì a testimoniare l’insofferenza di questi ultimi verso i negri.

Senza voler evocare le nefaste e nefande gesta legate con il fenomeno ri-

conducibile alla tristemente famosa sigla del Ku Klux Klan", non è esagerato affermare che gli Stati Uniti, non sono ancora riusciti ad affrancarsi da que-

sto dramma sociale. Anche se, bisogna ammetterlo, è molto più facile scrivere di queste cose che vivere giornalmente a stretto contatto con persone nei confronti delle quali si nutrono pregiudizi. Tuttavia, è forse opportuno richiamare alla mente le parole del rivoluzionario francese Danton: “la rivoluzione bisogna farla prima nelle teste e poi nelle strade”. Il continuo progresso compiuto dai negri negli ultimi trent'anni, la loro presenza sempre più marcata nei settori vitali del sistema americano, li ha resi via via sempre più antipatici presso quei bianchi che intravedono nell’ascesa politica ed economica di costoro, un serio pericolo per la (loro) sicurezza, per il (loro) posto di lavoro e, non è una esagerazione, per la (loro) stessa sopravvivenza. I negri sono particolarmente invisi presso quegli strati sociali più abbienti. Per esempio, tra coloro che, magari, sono riusciti a raggiungere una posizione economica di rilievo. Ma tant'è. I negri sono ritenuti i maggiori responsabili delle tante cose che non funzionano. I più intolleranti li giudicano, oltre che incivili, direttamente responsabili dell’aumento della criminalità in quei quartieri dove gli stessi vanno ad insediarsi. Sono altresì indicati come la causa scatenante del depauperamento che vede interessati ciclicamente ora questo ora quel rione della grande mela. Fino a non molto tempo fa andava ancora in voga un vecchio adagio, mai caduto in disuso: /f you're white, you're right, if you’re black, stay back!, Sei bianco, hai ragio-

ne, sei negro? Sta indietro".

N Sigla di due società segrete sorte negli Stati Uniti, la prima nella seconda metà dell’Ottocento, la seconda nel 1915, con programmi di discriminazione contro i negri, gli ebrei e i cattolici. !4 Ovviamente in inglese suona meglio perché c’é la rima.

SI

Lundberg, facendo riferimento ai club esclusivi americani, dove si ritrova

il fior fiore della finanza, dell’imprenditoria e della politica, ha avuto occasione di affermare: “Non credo che all’ammissione ai club sia mai stato proposto un negro, ma sarebbe sbagliato dire che i negri sono esclusi. Sono semplicemente ignorati. Per i negri ci si regola secondo l’ultimissima normativa integrazionista: non vengono discriminati in quanto negri, ma si dà il caso che non abbiano le carte in regola per colpa di una storia tragica su cui i manovratori di leve di oggi non hanno purtroppo il controllo retroattivo. Ecco il punto: non potrebbero essere socialmente bene accetti neppure se facessero il viaggio sulla luna e ritorno in aquilone. Oltre a ciò, per quanto riguarda i club, i negri non soltanto sono privi di sostanze patrimoniali (a differenza di qualche ebreo), ma è anche difficile che qualcuno di loro cominci a possederne prima di un paio di secoli e mez-

zo: da chi mai potrebbe ereditare un negro?”” Molti italoamericani non riescono a condividere il modo di vivere dei negri e rifiutano pregiudizialmente tutto quanto li riguarda. Per esempio, non è neanche proponibile che questi possano vivere negli stessi quartieri abitati dai bianchi. Talvolta la sola presenza, anche casuale, dovuta a una ragione qualsiasi, può essere motivo di intolleranza che sfocia nella violenza più abominevole e che, come è stato detto, ha causato la perdita di non poche vite

umane. La tendenza è quella di pensare in termini di eliminazione fisica del ‘ “diverso”. È altrettanto usuale sentir fare ricorso alla equazione: negro uguale sporco. Conseguentemente, affinché un quartiere, un rione o una zona in particolare, possa mantenersi ‘pulita’, deve essere abitata esclusivamente da bianchi. Talvolta, avventurarsi a trattare argomenti di questo genere, significa suscitare reazioni molto forti, tali da mettere in discussione anche legami

affettivi e di parentela molto stretti. Ancora oggi, in alcuni quartieri di Brooklyn (e non solo in questo immenso agglomerato urbano) è impossibile per un negro acquistare una casa per andarci a vivere e finanche prenderla in fitto. Qualsiasi motivo è sufficiente per passare dalle parole ai fatti. Anche l’incendio dell’abitazione posta in vendita, come ai ‘bei tempi’. Tutto ciò viene ritenuto lecito e, soprattutto,

“serve per far capire a questi cialtroni puzzolenti che non devono avvicinarsi alle zone bianche”. Questa ed altre affermazioni similari sono all’ordine del giorno. Al più, quelle persone che non intendono passare per razziste e che tengono alla loro immagine di persone illuminate e di larghe vedute, so-

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FERDINAND LUNDBERG, Ricchi e straricchi, Feltrinelli, Milano 1969, pag. 210. L’autore e-

sprimeva questi concetti intorno alla metà degli anni Sessanta. Tuttavia non sarebbe errato affermare che le cose non sono cambiate gran ché, nonostante siano trascorsi oltre trent’anni.

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stengono con sereno distacco che, pur non avendo motivi di pregiudizio nei confronti dei negri, tuttavia, sarebbe opportuno che ognuno vivesse con quelli della propria razza. Ovverosia: i bianchi con i bianchi, i negri con i negri e così via. Per cui in un contesto multirazziale come quello americano si dovrebbero innalzare delle barriere, anche se invisibili, per delimitare gli ambiti territoriali dove ogni gruppo etnico e razziale gestisce la propria esistenza come un orticello ubicato sul retro della propria casa. Quello che in America è comunemente chiamato il back yard, giardino sul retro!°. Tutto questo, ovviamente,

a scapito dei teorizzatori del Melting Pot o

‘erogiolo’, in una società pluralista e multietnica come quella americana. Una teoria secondo la quale si sarebbe dovuto realizzare l’Homo Americanus quale risultato dell’assimilazione di altri gruppi etnici da parte del gruppo preesistente o, per intenderci, l’americanizzazione. Per Handlin

“Il Melting

Pot è una estrema formulazione dell’idea di porre i nuovi arrivati nella società assimilandoli”". Una opinione discutibile che tra gli altri aspetti negativi tende a negare i fondamenti dell’etnicità e della peculiarità di una determinata cultura. Ogni gruppo etnico, a nostro parere, deve poter fare riferimento, invece, alla propria storia, alle proprie tradizioni e al proprio modo di essere e di pensare. “È la verità dire che in America quasi nessuno incoraggia la coscienza etnica. La Chiesa, le scuole, il governo, i mass media incoraggiano l’americanizzazione cosicché i giovani sono meno consci della loro etnicità ma ciò non vuol dire che non la abbiano o che provino un senso di gioia e libera.

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zione”.

La carica di razzismo di cui ogni gruppo etnico è portatore rispetto ad altri è data da ragioni di varia natura tra cui spiccano quelle di carattere storico, culturale e socioeconomiche. Ogni gruppo etnico vede nell’altro il nemico da combattere. Un avversario potenziale che attenta alla propria rappresentanza sotto il profilo del potere politico e sociale. Tuttavia, mentre tra i diversi gruppi etnici esiste una forma più o meno velata di reciproca sopportazione, quando entra in gioco il colore (nero) della pelle, indipendentemente dal paese d’origine, scatta una molla repulsiva che ha sconfinamenti inimmaginabili.

16 Gli italoamericani vanno fieri del loro orticello sul retro, back yard. Lo mostrano orgogliosi a chiunque gli capiti a tiro facendo vedere come coltivano gli ortaggi e le dimensioni gigantesche dei fagiolini, delle zucchine, eccetera. Un modo come un altro per sentirsi vicini al proprio paese e combattere la perenne nostalgia. !7 OSCAR HANDLIN, The new Comers, Cambridge: Harvard University Press, 1959, pag. 49. 18 DOMENICO PINTO, Analisi del gruppo etnico italo-americano: il caso di Brooklyn. Tesi di laurea a.a. 1984/85, facoltà di Sociologia, Università degli Studi di Trento, pag. 28 e seguenti.

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Mi sarebbe piaciuto non poco seguire da vicino le fasi della campagna elettorale nella città di New York, culminata con l’elezione (novembre 1989)

del negro David Dinkins alla massima carica della città (primo sindaco di colore nella storia della grande mela). Da quanto detto innanzi, ipotizzare un primo cittadino che amministri solo i quartieri abitati dai negri appare poco praticabile oltre che improponibile. Quel risultato, dunque, andrebbe analizzato molto attentamente. Non vorremmo, per esempio, che buona parte dell’elettorato bianco, attraverso quella scelta, abbia optato, in tale circostanza, per il male minore. Infatti, la bocciatura dell’altro candidato, l’italoamerica-

no e procuratore di Manhattan, Rudolph Giuliani (attuale sindaco di New York), potrebbe essere giustificato dalla volontà di penalizzare sul piano politico un personaggio distintosi per la lotta portata avanti contro la criminalità organizzata. Una motivazione del genere, non del tutto fuori luogo, potrebbe avere indotto un numero non trascurabile di elettori a votare per Dinkins o, comunque, optare per l’astensione dal voto. Sono certo che in pochissimi si sono avventurati a dare la preferenza al candidato negro. I nostri con“cittadini, alla stregua di tanti altri emigranti, pur potendo esercitare il diritto Ì

di voto, molto difficilmente vi fanno ricorso, ritenendolo una futilità e una

inutile perdita di tempo. Non va sottaciuto, peraltro, che nel 1993, Dinkins on è stato rieletto. Giuliani, invece, è riuscito a spuntarla e ha potuto coro-

are con successo le sue aspirazioni di guidare l’amministrazione della metropoli americana negatagli nelle precedenti consultazioni. Non è errato affermare che, probabilmente, alcuni settori che contano negli ambienti politici americani, abbiano fatto convogliare i voti sull’ex procuratore pensando, così, di poter scegliere, tra i due mali, quello minore. Meglio sindaco che pro- . curatore. “Come era logico attendersi, nel 1998 la criminalità è parsa in regresso in molte città statunitensi, quasi a rendere giustizia alla mano pesante usata contro la delinquenza dal sindaco di New York Giuliani e dai suoi emuli un po’ ovunque negli Stati Uniti. Tuttavia il miracolo è spiegabile anche in base . adaltri fattori, quali il temporaneo calo della popolazione giovanile, il creTe della popolazione del baby boom, la migrazione del crimine verso aree nelle quali si sono trasferiti in massa sia i delinquenti sia le loro vittime . Ma in larga misura la criminalità era destinata a calare comunque, per la semplice ragione che molti potenziali delinquenti erano già al fresco (1.800.000 detenuti secondo i dati più recenti). Secondo le proiezioni, questo dato crescerà ancora fino a due milioni nel 1999”,

! EDWARDN. LUTTWAK, op cit., pagg. 36 e 75.

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L'eccezione delle unioni miste, i negri e la povertà Volendo addentrarci più a fondo nell’argomento razzismo è opportuno evidenziare una circostanza che, rispetto a quanto esposto finora in tema di discriminazione razziale, può rappresentare un fatto eccezionale. Uno dei miei fratelli, Rocco, l’ultimo di cinque maschi, ha deciso già da diversi anni, di condividere la propria esistenza con una donna di colore, originaria del Perù. Il suo nome è Cecilia Tajadillo. Da questa unione sono nate due bambine bellissime. La prima, Pamela, nata nel settembre del 1989 e Katia, nata nel

1992. Non posso fare a meno di esternare in questo lavoro il senso di grande ammirazione che nutro per Rocco. Egli ha giudicato l’amore per la sua donna di gran lunga più importante rispetto alle piccole cose del nostro mondo. Certamente,

chi scrive, non avrebbe avuto la stessa forza. Ovviamente, in

famiglia, non tutti hanno condiviso questa sua scelta, anche se la bellezza delle due nipotine è tale da far passare in secondo piano la problematica riconducibile al colore della pelle. Probabilmente chi teorizzava il Melting Pot o crogiolo, pensava a casi di questo genere moltiplicati per un numero illimitato di volte. Per Pinto: “ ... questo processo immaginava la crescente nazione americana come un enorme calderone bio-sociale nel quale una grande varietà di razze biologiche e di cultura vengono fuse e mescolate in una nuova mistura socialet:20

Tuttavia, nessuno potrà mai togliere a Rocco, a Cecilia, a Pamela e Katya, la loro individualità etnica e culturale. Va soggiunto, inoltre, che, pur

avendo eletto a sindaco di New York il negro Dinkins, e nonostante quest’ultimo abbia avuto occasione di amministrare la grande mela per una intera legislatura, i cittadini della grande metropoli difficilmente potranno cambiare radicalmente idea in tema di razzismo. Questo, nonostante il passare del tempo e pur in presenza di una legislazione che garantisce uguali diritti. Per le coppie miste e per i loro figli, i problemi e le umiliazioni non mancheranno di ripresentarsi in futuro così come è stato per il passato. Da qui, la necessità di esprimere, attraverso queste pagine, il sostegno morale alla loro unione che, pur rappresentando l’eccezione, è proiettata nel futuro dell’ America e di altri paesi. A dire il vero, all’inizio della loro storia, Rocco e Cecilia erano andati a vivere nel quartiere di Jackson Heights, nel Queens, abitato prevalentemente da negri. Va da sé che quella di risiedere in quel rione si era rivelata una scelta obbligata per la difficoltà oggettiva di poter trovare un alloggio altro20 DOMENICO PINTO, op. cit., pag. 30.

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ve. Nel 1993 hanno acquistato una casa ubicata sempre nel Queens, nel rione di Hill Crest. Quest'ultimo quartiere, che ho avuto l’opportunità di visitare in occasione del mio viaggio, è abitato per la gran parte da bianchi e, comunque, sotto il profilo della tolleranza, appare abbastanza tranquillo. Last but not least, infine ma non ultimo, va detto che, fino a non molto

tempo addietro, quando Cecilia si recava a Brooklyn per fare visita a mia sorella Rosa (residente nel quartiere residenziale di Dyker Heights), alle inevitabili domande dal tono inquisitorio dei vicini che chiedevano informazioni su quella negra, si vedeva costretta a rispondere che trattavasi della donna di servizio. Una risposta diversa avrebbe significato quasi certamente una reazione imprevedibile e sicuramente non pacifica che poteva manifestarsi nelle forme più impensate. Non deve essere molto allettante vivere in un Paese ‘libero come l’America ed essere condizionati nella libertà di movimento o di abitare dove ti pare. Invero, generalmente i negri vivono nei quartieri più poveri come Harlem?', la Bowery e la 129.ma strada di Manhattan. Tipici rioni dove è facile vedere una serie di slums, catapecchie, tutte allineate. Per Harrington: “«..uno slum non è soltanto un’area di abitazioni decrepite. È un fatto sociale. Esistono quartieri in cui gli stabili sono cadenti, ma chi li occupa non mostra lo stato d’animo di rassegnato abbandono tipico dell’Altra America. Di solito, essi possiedono una ricca vita comunitaria che fa perno intorno ad una cultura o religione nazionale: esempio caratteristico Chinatown, a New York. Lo slum diviene veramente pernicioso quando assurge ad ambiente della civiltà della miseria, ed è per i suoi abitanti una realtà spirituale e personale non meno che una zona di sfacelo materiale e fisico: in altri termini,

quando diventa terreno di coltura del delitto e del vizio, la matrice di uomini perduti a se stessi e alla società intera. Così, vi sono negli Stati Uniti vecchi slums in cui le abitazioni sono squallide e cadenti; e nuovi slums nei quali la civiltà della miseria è stata trapiantata nella cornice di quartieri moderni. Entrambi fanno parte dell’Altra America””. Finite le vacanze americane del 1994 e, in procinto di partire per l’Italia,

all’aeroporto Kennedy fui colpito da una foto e dal titolo di apertura in prima pagina del New York Times: “Nell’isolato di Harlem, la Speranza è Divorata dal Decadimento”. Acquistai una copia del quotidiano che riportava il

' “Abitare ad Harlem significa essere un negro; essere un negro significa appartenere a una civiltà della miseria e della paura, le cui radici sono assai più profonde di qualunque legge pro 0 contro la discriminazione”. MICHAEL HARRINGTON, L’Altra America, Il Saggiatore, 1963, pag. 74.

?° MICHAEL HARRINGTON, op. cit., pag. 146.

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primo di tre articoli a firma di Felicia R. Lee. Si trattava di un servizio sugli slums moderni e sul depauperamento che ciclicamente colpisce interi quartieri nel paese più ricco della terra. La didascalia della foto non ammetteva repliche: il mondo sulla 129.ma strada tra Malcom X Boulevard e la Fifth Avenue di Harlem è fatto di povertà, violenza e disperazione. L’occhiello, abbastanza significativo e sintomatico, sintetizzava la cruda verità: “La vita sulla 129.ma

Un’Altra America”. L'autrice, tra le altre cose, puntava l’ac-

cento su una realtà che sembra non appartenere a un paese ricco e opulento alle soglie del duemila: ‘... È un isolato nell’altra America, l’America dei neri e della classe emarginata. È un luogo - e potrebbe trovarsi a Chicago, Miami o Los Angeles - con propri valori, le proprie regole e la propria economia. Mentre gli esperti discutono della riforma dello stato sociale, dell’istruzione e della formazione professionale, intere generazioni vivono e muoiono in questo isolato, un mondo a parte”. A centro pagina un servizio dall’ Avana”, in contraddizione con quello

precedente, riferiva dell’apprensione dei parenti residenti negli Stati Uniti dei circa trentamila Boat People, poveri disperati che, nel mese di agosto, da

Cuba avevano iniziato l’esodo su fragili imbarcazioni diretti in America alla ricerca di una vita migliore. Più o meno quanto si verifica ogni giorno sulle coste della Puglia. Gente diseredata che vede nel paese vicino e ‘ricco’ una meta da MACSRESSTE: Qualche ‘amico’ o lettore più arguto potrebbe obiettare che la visione dell’ America rappresentata in queste pag pagine non è obiettiva ovvero che, attraverso la denuncia di ‘alcune’ cose che non vanno, si tenderebbe a giustificare l’insuccesso di chi scrive o dei tanti sfortunati appartenenti all’altra America. Costoro fanno parte della categoria dei ‘tifosi’ della terra delle opportunità e del paese più ricco della terra. Tuttavia, se ci sono alcuni aspetti che lasciano a desiderare non è certo da ascrivere a colpa di coloro che ne fanno denuncia. Non tutti hanno i cromosomi identici e messi insieme in maniera tale da ottenere lo stesso risultato. Cioè il successo. Vi sono soggetti che hanno semplicemente una visione del mondo diversa o che, pur mettendocela tutta, non riescono a farcela. Li vogliamo eliminare tutti? Oppure riteniamo opportuno discuterne per verificare le possibilità di cambiare qualcosa nel senso di una società più a misura d'uomo? Si tratta soltanto di intendersi. Quando riferiamo della povertà non lo facciamo per mero divertimento. I dati riportati e gli articoli dell’autorevole New York Times non sono il frutto della nostra fantasia e non possono essere confutati. °3 THE NEW YORK TIMES, Giovedì 8 settembre 1994, pag. 1 e pag. B8, colonna 1 e seguenti. 24 TIM GOLDEN, The New York Times, cit., pagg. 1 e 10, colonna 1.

DI

Questa piaga che affligge anche i paesi ricchi esiste e non si può far finta di nulla. Possiamo convivere come del resto facciamo da decenni. Non si può, però, pensare di criminalizzare e dare del fannullone a tutti coloro che denunciano le contraddizioni di una società molto ricca e, al tempo stesso,

con un alto numero di persone che vivono di stenti. Le statistiche non sono una mia invenzione o di altri che la pensano in maniera diversa da coloro che non vogliono ammettere la tragica realtà che ci circonda. “Ora è il turno degli accademici dell’economia nel campo delle tendenze teoriche, scettici davanti all’asserzione che il turbocapitalismo frantumi le società sebbene rafforzi le economie. Essi liquidano ogni protesta contro la prospettiva di un acuirsi delle disparità a lungo termine o contro l’evidente persistere del fenomeno della povertà; sono “falsi problemi”, mere illusioni ottiche causate da statistiche fuorvianti. Quando ammettono l’esistenza di alcuni problemi al riguardo, li imputano a fattori culturali completamente al di fuori del controllo di qualsiasi politica economica, oppure controbattono che, se problemi vi sono, questi sono comunque ben avviati a una soluzione.

È quanto accaduto con la povertà negli ultimi anni”. Se i dati sulla povertà negli Stati Uniti sono allarmanti, il dato italiano non è tuttavia incoraggiante. Anzi. Negli ultimi anni un numero sempre maggiore di persone vive al di sotto della soglia di povertà. Gli ultimi governi stanno cercando di porvi rimedio con provvedimenti tampone e settoriali che non risolvono il problema alla radice”°. È sufficiente pensare in proposito 5

i

EDWARD N. LUTTWAK, op. cit., pag. 114.

ia pretesti i iii siiipia Numero dei poveri ________ % sul totale della popolazione_ esi 1995 tar 36:425.000 (al) sfréii Donisi_otot 13,9)_JNt9mA.. ter innd9oncn dal Saga 36:529.000, 14 Lode ite di13,7. Anno

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Numero di poveri

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% sul totale della popolazione *

Ire al di sotto dei 18anni ________ dietà inferiore a 18 anni

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10.97sg

e*

Internet Tables “Poverty 1996” e “Poverty 1994”.

°° È sufficiente evidenziare il persistere di una scelta a dir poco singolare. Ci riferiamo al fatto che i figli, al momento del compimento del diciottesimo anno vengono considerati autosufficienti e in grado di pensare a se stessi. Quindi, il genitore perde il diritto al mantenimento degli assegni familiari. Tutto ciò, nonostante a quell’età i ragazzi frequentino ancora la scuola, hanno esigenze maggiori e, soprattutto, difficilmente riescono a trovare un lavoro. Almeno nel meridione d’Italia. Tutti i rappresentanti politici affermano di conoscere la piaga della disoccupazione che affligge il Sud. Tuttavia, al momento di tutelare la famiglia e il monoreddito in particolare, le scelte di politica economica che riescono a produrre sono quelle appena descritte. Senza pensare che diventa alquanto difficile per un genitore far capire al figlio che non è possibile realizzare tutti i desideri. I giovani sono portati a fare i confronti con coloro

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che i dati dell’ISTAT, pubblicati a luglio del 1999, indicavano in due milioni 558 mila le famiglie italiane che vivono in condizioni di povertà, pari cioè

all’11,8 per cento del totale”. Mentre, il dato relativo ai singoli individui è

ancora più disarmante: sette milioni e 423 mila persone, pari al 13 per cento della popolazione. Naturalmente il Sud risulta essere il più penalizzato con il 64,7 per cento di famiglie povere rispetto al 23 per cento del Nord e al 12,3

per cento del Centro.*

Negli stati Uniti, nel Paese più ricco della terra, un tasso di povertà così alto è a dir poco scandaloso. E tuttavia, nonostante le denunce continue provenienti da vari settori, laici e religiosi, questo triste fenomeno è in continua e inesorabile crescita. Non si può non condividere l’affermazione secondo cui: “La miseria genera il caos sociale, e anche solo il problema poliziesco di impedirle di divenire talmente esplosiva da turbare i sonni degli abbienti costa. In termini freddamente mercantili, l’abolizione degli slums negli Stati Uniti si tradurrebbe in un risparmio a lunga scadenza. In termini umani, significherebbe la restituzione alla società di milioni di individui, messi final-

mente in grado di darle un contributo personale”.

Le partenze da Mola (41°04’ latitudine Nord) destinazione Brooklyn (41°25’ latitudine Nord) A differenza di non molti anni prima, ai grandi transatlantici si erano sostituiti i veloci, moderni e comodi Jumbo 747. Apparivano lontanissime nel tempo le partenze per l’ America degli anni Cinquanta e Sessanta. In quel torno di tempo lo sfondo statico, che faceva da scenario immutabile al mo-

mento cruciale del distacco, era rappresentato dal grande marciapiedi della stazione ferroviaria di Mola di Bari o di tanti altri comuni del meridione d’Italia. Il treno con cui gli emigranti raggiungevano Napoli era stato soprannominato ‘degli americani’. Per significare, appunto, i soggetti che erano interessati a quel convoglio e a quell’ora in particolare: le ventidue e tren-

che stanno meglio anziché guardare quelli che stanno peggio. Sovente, il rischio è quello di litigare con tutte le conseguenze che ciò porta con sé.

?? Il totale delle famiglie italiane risulta essere di 21 milioni 770 mila 664. Quelle povere am-

montano a 2.600.112, secondo i dati più recenti. °° Nel mese di luglio 2000 l’ISTAT ha fornito nuovi dati che vedono in costante e inesorabile aumento il numero dei poveri. L'incremento riguarda le famiglie residenti al Centro-Sud della penisola. I poveri ‘assoluti’ superano i 3 milioni. ° MICHAEL HARRINGTON, 0p. cit., pag. 161.

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ta. Il giorno dopo, una volta giunti nella città partenopea, si sarebbero imbarcati sul ‘vapore’ che li avrebbe portati a Nuova York. Rammento ancora lucidamente le scene patetiche e commoventi che caratterizzavano quelle partenze. In quegli anni Via Giacomo Matteotti era l’unica arteria che portava alla stazione. Le partenze per l'America avevano una loro particolarità. Interi nuclei familiari erano interessati in qualche modo a quell'evento, direttamente o indirettamente. L’ ‘accompagnamento’, a sua volta, faceva parte di una sorta

di cerimoniale: era composto da parenti, amici, conoscenti e curiosi che si univano a quella che appariva una specie di via crucis, se si pensa al dramma che, in vario modo, vivevano quelli che partivano e coloro che restavano. Lo stato d’animo di quelli che emigravano era dipinto sui loro volti: era come una smorfia di sofferenza che si poteva palpare. Già la lunga traversata oceanica, di per sé, metteva un ché di timore. Il ‘dopo’, ciò che avrebbero trovato

dall’altra parte dell’ Atlantico, rappresentava una grossa incognita. Si partiva in cerca di ‘fortuna’. AI momento del commiato, difficilmente l’anziana madre o la giovane moglie riuscivano a trattenere il pianto dirotto mentre abbracciavano i propri cari”. La prima vedeva partire il figlio, da solo o, talvolta, con l’intera famiglia; la seconda, il marito. Costui, in un secondo momento, dopo aver trovato

una ‘adeguata sistemazione’, avrebbe provveduto a fare l’atto di richiamo per il coniuge e per i figli. A meno di incappare in situazioni del tipo descritte in altra parte. A volte il capo famiglia faceva una ‘scelta’ o, forse, era costretto a partire e quindi arrangiarsi da solo a lavorare vivendo da singleman”, singolo, inviando al paese il frutto del proprio lavoro. Le rimesse degli emigrati hanno

° “Sono nato a Bari l’11 ottobre 1943 da genitori molesi, Natale e Caterina Maisto. Ultimo di seifratelli, a 11 anni sono emigrato negli Stati Uniti, da allora vivo e lavoro in quella terra anche se molto spesso mi piace tornare a Mola. Ero appena un ragazzino, ma quel lontano ricordo non può cancellarsi perché è ben “timbrato” nella mia memoria. Ricordo la stazione, quando eravamo in attesa del treno, il pianto di mia madre e il mio al momento dei saluti. Un momento intenso, il distacco dalle persone care, dai luoghi dove si è vissuta la propria infanzia. Poi mia madre ci ha successivamente raggiunti in America, l’ultima della famiglia a lasciare Mola”. Da una intervista a PASQUALE CAPUTO (imprenditore di Chicago e neo presidente della Pallacanestro Olimpia Milano) raccolta da ANTONIO PANZINI, “La Sveglia”, pag. 26, Numero 63, ottobre 1999.

“Impiegarono molto tempo, quella sera del 30 gennaio del ‘55, i miei e tutti gli altri parenti prima di trovarmi e di ficcarmi nella macchina che ci avrebbe condotti alla stazione. Per la verità fui io stesso, alla fine, ad uscire dall’angolo buio del giardino in cui mi ero nascosto e a guadagnare, a capo chino, l’automobile che ci stava attendendo”. Dai ricordi di DICI PESCE, raccolti da GIOVANNI RICCIARDELLI, op. cit., pag. 104. 3! Vedere in proposito il paragrafo intitolato La solitudine e i singlemen.

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rappresentato per molti anni una fonte considerevole di danaro fresco per la nostra economia. Danaro impiegato nei modi più disparati, prevalentemente nel settore dell’edilizia: per comprare casa o per costruirne una; oppure per l’acquisto di un pezzo di terra da coltivare per un eventuale ritorno. Già, il ritorno. Era questo l’obiettivo e la prospettiva dei più. Per chi, come noi, emigrava negli anni Settanta, la partenza era diventata quasi una routine. Quanto meno avevamo la ‘certezza’ che, un giorno non molto lontano, avremmo fatto ritorno al nostro paese con un po’ di dollari in tasca, magari in occasione di una vacanza. Anche l’arrivo a New York era stato, per noi, di gran lunga diverso rispetto a chi ci aveva preceduto tanti anni prima. La facilità del viaggiare avanti e indietro si era notevolmente incrementata negli ultimi tempi. La stessa cosa non si può dire per coloro che emigrarono tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni di questo secolo; particolarmente nel periodo a cavallo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. A quell’epoca le cose stavano molto diversamente da oggi. Ritornare senza un risultato concreto significava la sconfitta. Non aver fatto i dollari in America comportava essere bollati come falliti. E chi aveva il coraggio di ripresentarsi al paese senza poter dimostrare di aver fatto fortuna? Se gli altri vi erano riusciti e qualcuno no, voleva dire che costui non aveva voglia di lavorare e di fare sacrifici. Sicuramente si trattava di un buono a nulla, di un fannullone. Cosa dire, poi, dei costi proibitivi dei biglietti di

viaggio. Meglio fimanere, magari con la sofferenza nel cuore e contro la propria volontà. Nei pochi casi in cui si faceva ritorno a mani vuote il ‘fallimento’ veniva giustificato in mille modi. Ricordo, quando ancora ragazzino, assistevo alle discussioni vivaci tra coloro che si schieravano a favore dell’ America, maga-

ri senza averla mai vista, e il singolo individuo che si sforzava di evidenziare quegli aspetti che lo avevano deluso. I paragoni si sprecavano. Si mettevano a confronto due sistemi e modelli di vita completamente diversi. Ciò che prevaleva, nella gran parte dei casi, era l'elemento riconducibile al guadagno e alla facilità di trovare lavoro. Quest'ultimo aspetto, sempre attuale e oggetto di ampio dibattito tra economisti e politici di varia estrazione, è certamente concreto. Le possibilità di trovare una occupazione in America, in una

grande metropoli, sono infinitamente più numerose. Peraltro, le opportunità di emergere se si ha talento sono, rispetto all’Italia, oltre che illimitate, quasi una certezza. Si può affermare senza tema di smentite che, se nel nostro Paese avere successo rappresenta ancora l'eccezione, in America è quasi la regola. E, tuttavia, è inevitabile che non tutti possano riuscire nella vita pur avendo ottime capacità. Va rimarcato però che, mentre i vincenti sono visibili perché fanno di tutto per farsi notare (o ci sono altri che hanno interesse a 61

farli apparire) pochi hanno voglia di farsi vedere perdenti e quasi nessuno è disponibile o ha voglia di perdere tempo a scrivere o lavorare per fare emergere ciò che non funziona e che, in qualche misura, ci vede corresponsabili. Ritornando all’esperienza del nostro viaggio, quello che mi aveva maggiormente colpito all’aeroporto, subito dopo lo sbarco dall’aereo, era stata la coda che si era formata agli sportelli dell’ufficio immigrazione. Per i cittadini americani non sussisteva questo problema perché il loro numero era di gran lunga inferiore a quello di chi emigrava e non dovevano ‘subire’ lo stesso iter che vedeva, invece, protagonisti coloro che vi arrivavano per la prima volta, in ordine alle formalità di carattere burocratico e amministrati-

vo. Bisogna tuttavia evidenziare che attualmente, anche per i non cittadini, le cose sono migliorate di molto e l’organizzazione connessa con tali adempimenti risulta estremamente semplificata anche per i nuovi arrivati. In questo e in altri campi, dove entra in gioco la funzionalità e l’efficienza dell’amministrazione pubblica, si può affermare che 1’ America, vista da un italiano del meridione, è come un altro pianeta. A quel tempo, invece, dovemmo

andare incontro a una serie di adempi-

menti e di formalità che si concretizzarono nel rilascio di un tesserino plastificato di colore verde: si trattava dell’ Alien Registration Card, la così detta carta verde. -. Diversamente da noi e da coloro che arrivavano in America nell’ultimo periodo (anni Sessanta e Settanta), gli immigranti che ci avevano preceduto in varie epoche, fin dagli inizi del Novecento, non avevano alcuna certezza del ritorno. Non sono pochi coloro che non hanno più rivisto il proprio paee, i vecchi amici e i loro cari. Tra questi, chissà quanti non hanno avuto la possibilità economica

per farlo. Non è da escludere che, taluni, siano de-

ceduti con il desiderio irrealizzato di ritornare per rivedere il paese o loco natio. Anche gli abbracci che si scambiavano a quell’epoca, al momento della partenza, avevano, con ogni probabilità, un significato affettivo diverso. Forse più profondo e genuino dell’abbraccio che avevamo scambiato noi con i nostri cari e gli amici all’aeroporto di Bari-Palese. Nei decenni precedenti, chi partiva aveva provveduto a svendere tutti i suoi averi ed anche quel po’ di mobilia acquistata a prezzo di enormi sacrifici per potersi pagare il biglietto. Ancora, ai tempi della nostra partenza, le autorità consolari americane di Napoli ci avevano suggerito di non vendere le masserizie. Ciò al fine di evitare quello che si era verificato in tante circostanze. Alcuni emigranti, non avendo trovato di proprio gradimento la terra sognata, avevano fatto ritorno in Italia ritrovandosi più poveri di prima.

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Sui volti di quelli che partivano nei decenni precedenti era facile leggere una sorta di rassegnazione a quella che appariva la fatalità e il destino, anziché una scelta obbligata e una lacerazione: la ricerca di un lavoro che in Italia era impossibile trovare. Una decisione molto spesso sofferta e senza prospettive sicure per l’avvenire. Ci si abbracciava con l’intima promessa di fare ritorno al più presto. Nell’animo la speranza di rivincita nei confronti di quel Paese che, simile a una matrigna, li costringeva all’esilio. I visi smarriti

e spauriti dei bambini, troppo piccolieinconsapevoli della tragedia che stava per abbattersi su di loro. Incoscienti e all'oscuro di una ‘scelta’ (ma era davvero tale?) che si faceva per “il loro bene”, per “il loro avvenire”, “per trovare loro una strada per un futuro migliore”. Un futuro che l’Italia non sembrava in grado di offrire. Motivazioni che li vedevano protagonisti, ma di cui rimanevano vittime inconsapevoli senza volerlo. Per alcuni, ad esempio i giovani scapoli (e non solo per questi), la partenza per l’ America era vista e vissuta come una sorta di avventura. Quanti avrebbero dato chissà cosa per poter andare negli Stati Uniti. Avrebbero finalmente potuto ammirare, dal parapetto della nave, la statua della libertà, proprio all’ingresso del porto di New York. L’immagine imponente di quella figura di donna col braccio destro teso verso l’alto a brandire una fiaccola illuminata e, nella mano sinistra, una tavola con su impressa la fatidica data dell’indipendenza americana (4 luglio 1776). Sicuramente più eccitante vederla dal vero. I più non avevano lapiù pallida idea di quello che li aspettava dopo quella fantastica visione. Fino al 1943 gli emigranti che arrivavano nel porto di Nuova York erano sottoposti a unatrafila che poteva apparire in stridente contraddizione con la libertà che quella immagine, invece, intendeva trasmettere e, in qualche modo, indicare. Li aspettava un periodo di quarantena a Ellis Island”, per essere sottoposti a una serie di visite mediche al fine di accertare lo stato di salute di ognuno. Una malattia contagiosa o un male ritenuto tra quelli ‘a rischio’ erano motivi di non ammissione. Un ingresso fuori dalle ferree regole ri°° Conosciuta dai tedeschi col nome di Oyster Island, chiamata anche Bucking Island e Gibbett Island prima di essere denominata a nome di Samuel Ellis che l’ha posseduta intorno al 1770. Questa isola, che si trova nella baia di Manhattan, definita anche ‘la porta d’oro’ o della

‘speranza’, è stata utilizzata quale maggiore stazione del Paese per l'immigrazione dal 1892 al 1943 e, quale luogo di detenzione per gli stranieri e i deportati fino al 1954. Nel 1965 Ellis Island è diventata parte integrante del Monumento Nazionale della Statua della Libertà ed è stata riaperta ai visitatori nel 1975. Quali fossero i trattamenti riservati agli emigranti di quel periodo non è facile dire. Si può affermare, comunque, che non erano certamente dei migliori. Questi venivano trattati alla stregua di carne da macello prima di ottenere il visto di ingresso in quel Paese. Non pochi erano coloro che venivano rispediti indietro dopo una esperienza paragonabile, per una serie di cose, e per certi aspetti, a un campo di concentramento.

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schiava di essere configurato come un ‘attentato alla sicurezza della Stati Uniti d’ America’. Uno dei reati più gravi contemplati dal codice penale.

Negli ultimi anni molte cose sono cambiate. Fortunatamente in meglio. Fino a non molti anni addietro, la visita medica aveva luogo presso il Consolato americano di Napoli, per i residenti nelle regioni meridionali. Ricordo che, dopo le visite mediche, fummo invitati a prestare giuramento alla bandiera a stelle e strisce”. La ‘cerimonia’ non era altro che una formalità. Il funzionario addetto (a quel tempo una donna negra) recitava in lingua inglese alcune frasi, per noi, incomprensibili. Io e mio fratello, fortemente imbarazzati e a disagio in una situazione siffatta, dovemmo farfugliare qualcosa per dare l’impressione di partecipare con attenzione e di condividere non solo quel rito così importante, ma soprattutto il contenuto del giuramento. Il fenomeno della emigrazione italiana negli Stati Uniti, nel Sud America e in molti altri paesi dell'Europa, fu una scelta obbligata dalla miseria che affliggeva la nostra penisola. La tragedia più grande di questo esodo imponente era rappresentata dal fatto che l’emigrazione divideva nettamente il nucleo familiare. Come se a una mamma le si porta via il bambino appena nato. Un’ultima, fuggevole occhiata a un’altra madre, l’Italia, che si disfaceva dei suoi figli, la si dava dal parapetto del bastimento sovraffollato di gente proveniente da ogni dove per l’ultimo saluto ai propri cari. Quando l’ultimo filo di lana, che teneva legati i familiari si spezzava, insieme a questo si spezzava il cuore di chi partiva e di coloro che restavano. Veniva reciso il cordone ombelicale che li aveva tenuti legati fino a quel momento. Non rimaneva altro che l’immagine della banchina piena di gente che continuava a sventolare i fazzoletti variopinti e ad agitare le mani in segno di saluto.

SI può ranquillsmente aMerinare che, per certi versi, l’immigrazione può essere paragonata alla nascita ovvero a una ‘rinascita’. Il nuovo arrivato ha,

infatti, bisogno di tutto. A differenza del bambino che viene allevato dalla madre naturale che gli offre tutta se stessa, nel nostro caso, il protagonista

9 Gli americani tengono in maniera particolare al giuramento, almeno sotto un profilo formale. Fino a non molto tempo addietro, tutti dovevano prestare giuramento prima del rilascio del visto di espatrio da parte delle autorità consolari statunitensi. Stessa cosa dicasi per coloro che decidono di acquisire la cittadinanza americana. Si tratta, però, di una formalità che riveste un significato non indifferente se si pensa che nelle scuole americane il giuramento alla bandiera è stato istituzionalizzato. Infatti, ogni mattina, gli studenti di tutte le scuole pubbliche fino alla High School, mano destra posata all'altezza del cuore e mano sinistra in alto, devono recitare il Pledge of Alligeance di cui si riporta uno stralcio: / pledge alligeance to the flag of United States of America and to the Republic for which it stands: one nation under God, with liberty and justice for all. La traduzione italiana suona più o meno come segue: Giuro fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d’America e alla Repubblica che essa rappresenta: una nazione nel nome del Signore, che garantisce libertà e giustizia per tutti.

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non potrà ricevere tutte quelle attenzioni riservate alla creatura appena nata. Anzi. Egli dovrà lottare per ottenere quello di cui ha bisogno. Una lotta fmpari se si pensa che l’immigrato si ritrova, improvvisamente, in un ambiente nuovo, del tutto sconosciuto e, per certi versi, ostile. Una situazione come

quella appena descritta che diventa ancor più drammatica per colui che viene ‘adottato’ singolarmente. Diversamente da quelli che emigrano unitamente al nucleo familiare e quindi con i genitori, chi vi arriva da solo, avrà un gran da fare per superare tutti gli ostacoli che, inevitabilmente, gli si presenteranno. Così come il bambino ha bisogno di essere tenuto per mano quando comincia a muovere i primi passi, anche chi arriva in una terra straniera necessita di avere un qualche punto di riferimento certo. Deve imparare tutto daccapo. Una lingua sconosciuta, un nuovo modello di vita, una cultura e una storia diverse da quelle che si è lasciato alle spalle. Per tutte queste complicanze si avverte l’esigenza di stare insieme a quelli che provengono dallo stesso paese, che parlano la stessa lingua, lo stesso dialetto. Insomma si va alla ricerca di tutte quelle persone che ti facciano sentire non molto lontano spiritualmente da quel modello culturale e di vita che ti appartiene. Ed è essenzialmente per queste ragioni che il nuovo arrivato tende a stare in mezzo ai suoi concittadini per un periodo di tempo più o meno lungo. Per sentirsi più sicuro, meno isolato e per condividere, insieme agli altri, un'esperienza che li accomuna. Ecco il perché delle tante little Italy disseminate in quella grande metropoli chiamata New York con i suoi quartieri omogenei di razze diverse. Ecco perché i Molesi andavano a stabilirsi nella parte bassa di Brooklyn che, per una coincidenza geografica si trova sulla stessa latitudine di questo immenso agglomerato urbano. Se da un certo punto di vista una scelta del genere può apparire logica e ineluttabile, dall’altro, la stessa ha i suoi risvolti negativi che, a volte, lascia-

no un marchio indelebile in chi non ha la forza necessaria di liberarsi da una condizione di soggezione. Una soggezione che si avverte latente, nei confronti di coloro che detengono una qualche forma di potere che si esplica dall’essere arrivati per primi, di aver messo su una qualche attività commerciale, imprenditoriale od altro.

Quando si parla di ambiente ostile ci si riferisce prevalentemente all’elemento della competitività in tutti i campi. Il nuovo arrivato viene visto con sospetto da chi si trova sul posto già da tempo. Rappresenta il rivale che attenta alla condizione soggettiva in termini occupazionali e di condivisione della ricchezza di quella nazione. Potrà apparire strano, ma anche i tuoi stessi concittadini ti guardano con gli occhi di chi vede in te un concorrente nel mercato del lavoro che può portargli via un pezzo del sogno americano e della sua ricchezza. 65

Mola di Bari: Via G. Matteotti (Archivio N. Capozzi)

Mola di Bari: Piazza della Repubblica (Archivio N. Capozzi)

Mola di Bari: la Stazione Ferroviaria (Archivio N. Capozzi)

66

II Alle dipendenze del compaesano ‘benemerito’! |

n

La decisione di ‘piantare’ il ristorante Marchi aveva avuto quale logica conseguenza quella di rimanere senza lavoro. Nel giro di pochi mesi ero rimasto disoccupato per la seconda volta. Va da sé che, francamente, non me ne importava più di tanto. Ero sicuro di avere agito nel migliore dei modi e questo era sufficiente per farmi sentire tranquillo con la mia coscienza. È pur vero ingoiare bocche il lavoro è estremamente importante e che, spesso, bisognai coni amari. Altrettanto importante è, però, quella che iromani chiamavano la dignitas personale. Per quanto mi riguarda, sono un estremo fautore della difesa della dignità a tutti i costi. Particolarmente da quando valori più pregnanti sono stati sostituiti dall’avidità, dall’arrivismo e dall’arricchimento ad ogni costo. La difesa della dignità vale a maggior ragione per i poveri, essendo rimasta l’unica ricchezza da contrapporre quale valore insostituibile a quelli prima menzionati. Quando, però, per una ragione o l’altra, la dignità viene scambiata con altri valori squisitamente materialistici e per ragioni di mera convenienza, il povero si trasforma in un poveraccio. Al contrario dei ricchi, che della dignità possono fare a meno (sempre senza generalizzare), ai poveri non resta nulla a cui fare riferimento nel momento in cui hanno rinunciato alla dignitas. Quest'ultima, nel paese delle opportunità, è stata da tempo soppiantata dal denaro e dal vecchio adagio a cui i più si sono adeguati: money talks and bullshit walks, i soldi contano, il resto sono chiacchiere. Il periodo di inattività lavorativa durò solo pochi giorni. Frequentando il Gran Caffè Italia, ubicato

sulla

18.ma Avenue, nel quartiere di Bensonhurst

(luogo di ritrovo di tanti Molesi ed altri immigrati provenienti da altre parti d’Italia e collocati ai vari gradini della scala sociale) ebbi modo di parlare della mia situazione a Giuseppe Clemente. Un concittadino che conoscevo da tempo e con il quale avevo anche lavorato al paese alle sue dipendenze anni prima. Costui, molto cortesemente, si offrì di aiutarmi e di parlarne ad una per-

sona influente nell’ambito della comunità molese. Il risultato non si fece attendere. Il giorno dopo, infatti,

ritrovandoci nello stesso posto, Peppino (lo

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chiamavamo così) mi riferì che potevo presentarmi l’indomani mattina pres-

so la sede dell’azienda di Corrado (Joe) Manfredi. Un compaesano che non avevo ancora conosciuto, né sentito nominare prima di allora. Il mio amico

mi informò del fatto che costui gestiva una concessionaria della Toyota, ubi-

cata sulla Coney Island Avenue, sempre a Brooklyn. Il mattino seguente, all’ora convenuta, mi presentai nell’ufficio di Manfredi. Questi era un pezzo d’uomo che ispirava subito simpatia. Fui accolto con calore e mi fu offerto anche da bere. Mi sentivo veramente come a casa. Egli, molto affabilmente, mi informò della circostanza che Peppino gli aveva parlato di me e del mio bisogno di trovare una occupazione. Gli era stato riferito che ero un bravo ragazzo e che, dal momento che glielo aveva chiesto un amico, era disposto ad offrirmi una job, un lavoro. Superfluo dire che fui

molto soddisfatto del trattamento e dell’accoglienza riservatami. Manfredi sprizzava cordialità da tutti i pori e, più che un imprenditore e datore di lavoro, dava proprio l’impressione di essere un amico. Tutto ciò, unito al fatto che avevo risolto in breve tempo il problema occupazionale, mi riempiva di una grande gioia. La job che mi veniva offerta all’interno dell’azienda consisteva essenzialmente nel ‘lucidare’ le automobili nuove che arrivavano dalla fabbrica,

essendo queste ultime ricoperte da una leggera patina di cera invisibile. Inoltre, all’occorrenza, dovevo provvedere a lavare le auto usate, parcheggiate in uno spiazzo proprio di fronte allo show room, la sala di esposizione, delle auto nuove. Quest’ultima era proprio adiacente all’officina-garage dove, altri tre addetti (tutti Molesi), operavano con varie mansioni, per mettere le auto vendute su ‘strada’. Tra gli altri compiti, vi era quello di provvedere alle pu- . lizie giornaliere della stessa sala di esposizione e degli uffici amministrativi, compreso quello di Joe Manfredi. “Per cominciare ti darò cento dollari la settimana”, proclamò con enfasi il mio nuovo datore di lavoro assumendo l’aria del benefattore. Si vedeva chiaramente che quel ruolo gli era congeniale e che ci si trovava a proprio agio. In effetti, in tale circostanza, ai miei occhi costui appariva come qualcuno che ti sta facendo un grosso favore e verso il quale non puoi non sentirti in debito di riconoscenza. Di quel particolare momento: avermi dato un lavoro e ridato una iniezione di fiducia, gli sono grato ancora oggi. Nei pochi giorni in cui ero rimasto disoccupato avevo percepito, in tutta la sua drammaticità, il significato, la tristezza e la frustrazione di far parte della schiera di coloro che non producono. Restare senza lavoro negli states era e rimane un fatto quasi inconcepibile. Un controsenso. Chi emigra negli Stati Uniti non lo fa certamente per rimanere inattivo; bensì per lavorare e guadagnare. Nient'altro. Se, da noi, in Italia, e particolarmente nei piccoli

comuni del meridione, la condizione di disoccupato può apparire la ‘norma68

lità’, fortemente condizionata dalla mancanza di lavoro; in America, a Bro-

oklyn e con particolare riguardo al contesto socio culturale nostrano, l’inattività, oltre all’essere una circostanza

‘anormale’,

viene considerata fuori

dall’ordinario e, giudicata in termini decisamente negativi. Quindi da condannare. Dopo un periodo più o meno lungo (erano trascorsi alcuni mesi da quan-

do avevo cominciato a lavorare con Manfredi), caratterizzato da una situa-

zione alquanto tranquilla sul fronte dell’attività lavorativa, cominciarono ad addensarsi le prime nuvolaglie. Vi era tra noi dipendenti e il nostro datore di lavoro un rapporto amichevole e aperto. Fu così che un giorno, discutendo del più e del meno, spostai il dialogo su un piano più strettamente economico chiedendo un aumento. Manfredi rispose che, quanto prima, avrei ricevuto cinque dollari in più nel check settimanale “anche perché”, furono le sue parole, “te li meriti”. Qualche giorno più tardi, per ragioni che riguardavano la squadra di calcio del Caduti di Superga Mola - di cui Corrado Manfredi era il presidente Peppino Clemente venne a far visita al nostro datore di lavoro. Prima di andare via si fermò presso l’officina per salutarmi. Mi chiese come andavano le cose e, in particolare, come mi trovavo in quel posto. Mi informò, peraltro, che Manfredi gli aveva parlato di me in termini più che lusinghieri. Va da sé che fin dal primo giorno di lavoro avevo sempre fatto il mio dovere con coscienza. Era questo, a mio parere, il modo migliore per esprimere la mia gratitudine nei confronti di chi mi aveva aiutato nel momento del bisogno. Dissi al mio interlocutore che non avevo gran che da lamentarmi se non per il fatto di meritare un piccolo aumento. Cosa questa, avevo aggiunto, che, pur essendomi stata solennemente promessa, tardava a concretizzarsi. Motivai quella mia aspettativa con una maggiore produttività che riuscivo a realizzare grazie non solo all’esperienza acquisita nel tempo, ma soprattutto nell’aver impostato i ritmi di lavoro in modo da risparmiare tempo. Inoltre, misi in risalto il dato, certamente non secondario, dell’aumentato costo della vita. Oltre tut-

to, se mi si riconoscevano dei meriti a parole, e considerato’che Manfredi era il titolare dell’azienda, perché non far seguire alle parole i fatti? Ovverosia, mi ritrovavo a mia volta a parlare di soldi e di guadagno. Ero stato preso nell’ingranaggio in cui molti erano stati travolti? Oppure era giustificata una richiesta di aumento perché ritenuta meritata? Ovvero ancora, se non si è tanto legati ai soldi perché chiedere aumenti? Era sufficiente accontentarsi di quello che passava il convento. La risposta del mio amico fu una ripetizione di quanto avevo già sentito da altri. “In questa terra bisogna avere molta pazienza. Non avere fretta. Vedrai che dopo i sacrifici iniziali, col tempo, le cose cambiano”. Quel tipo di argomentazioni non mi sorprese più di tanto. Mi sembrava di riascoltare i 69

sermoni di mio padre e di altre persone che affermavano di volermi bene. Strano modo di voler bene! “Anch'io”, soggiunse Peppino, “ho dovuto fare

tanti sacrifici nei primi tempi”. E dopo un profondo sospiro, come per dare più enfasi alle sue parole, continuò: “adesso non posso lamentarmi. Ho comprato la casa; ho l’automobile e, thank God, grazie a Dio, non mi manca quasi nulla”. Quindi, con voce suadente e pacata, proseguì: “Non ti preoccupare! Vedrai che anche tu, fra non molto, potrai raccontare un sacco di bene di questa nazione”. E quasi come un ritornello molto in voga, concluse solennemente: “God bless America!”, Dio benedica 1’ America. Queste ultime parole fanno parte del patrimonio letterario e culturale di tutti i residenti negli states, anche di coloro che non conoscono la lingua. Vengono spesso utilizzate per sottolineare la grandezza di quel Paese. Una frase pronunciata, spesso, anche a sproposito e per futili motivi. Peppino proseguì nel magnificare gli Stati Uniti facendo alcuni esempi di persone che, ‘dal nulla’, avevano fatto fortuna. L’esempio più immediato e concreto era rappresentato dal nostro datore di lavoro. A distanza di un mesetto dagli avvenimenti poco sopra descritti, Corrado Manfredi, il quale aveva deciso di trasferire la sede degli uffici amministrativi sul retro della nostra officina, ci chiese se, “per piacere” (sic!), poteva-

mo dargli una mano nelle operazioni di trasloco dei mobili e delle suppellettili da un posto all’altro. A quelle incombenze fummo interessati in tre: io, Giovanni (John) Caputo' e Pippuccio Pesce. Naturalmente quel trasferimento doveva avere luogo,dopo il normale orario di lavoro. Difficile dire no al compaesano, al benefattore, al presidente della squadra di calcio del Caduti di Superga Mola che, tanto volentieri e spassionatamente, ti aveva dato un lavoro! Come negare l’aiuto al filantropo, sempre pronto ad aiutare le persone in difficoltà considerato che, in questo caso, era proprio costui ad aver bisogno di aiuto? E, cosa più importante, lo chiedeva per piacere! Il trasferimento degli arredi ed altri ammennicoli dalla vecchia alla nuova sede ci vide impegnati per le serate del venerdì e del sabato per un tempo complessivo di circa sei-sette ore. Oltre allo spostamento delle masserizie da un lato all’altro della Coney Island Avenue, dovemmo fare anche alcuni viaggi con un camioncino per scaricare del materiale di risulta. La discarica, non controllata, era ubicata a circa un quarto d’ora di macchina, in direzione

del grande luna park di Coney Island. AI termine della prima serata, così come ci era stato indicato, passammo dal Circolo Caduti di Superga. In quella sede trovammo lo stesso Manfredi che, nel frattempo, si era preoccupato di farci trovare alcuni sandwiches, paEra addetto alla installazione degli impianti di aria condizionata sulle nuove vetture, recentemente scomparso in giovane età. Una delle tante vittime del male del secolo.

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nini imbottiti, e relative bevande. Anch’egli si unì a noialtri in quella parca cena, certamente stimolante data l’ora tarda della sera. Il giorno seguente, dopo gli ultimi ritocchi, le operazioni terminarono nella sede dove erano sor-

ti i nuovi uffici. Joe - era questo in nomignolo affettuoso col quale molti lo chiamavano - ordinò un paio di pizze, di quelle americane per intenderci, da una vicina pizzeria: una ‘napoletana’, del diametro di circa cinquanta centimetri e una ‘siciliana’ o square, di forma quadrata, di circa duecento centimetri quadrati. Naturalmente non mancavano le bevande. A questa ‘festa’ si unirono i salesmen, addetti alla vendita delle automobili. Mangiammo tutti con grande appetito. Anche Manfredi partecipò soddisfatto a quella ‘abbuffata’ - in piedi perché non c'erano sedie - e, alla fine del pasto, ci ringraziò della collaborazione oltre che del nostro attaccamento all’azienda. La sorpresa - almeno da parte mia fu tale - la ebbi quando, alla consegna dell’assegno settimanale, mi avvidi che l’importo era identico a quello delle settimane precedenti. Domandai a John Caputo se anche il suo check non presentava variazioni. Costui rispose affermativamente senza però mostrarsi sorpreso. Si meravigliava, se mai, del fatto che gli ponessi una domanda del genere. Probabilmente non avevo capito ancora nulla di come funzionassero le cose in America. Almeno in termini di retribuzione. Anzi, sicuramente ero

in torto. Quello stesso giorno, poco prima del break, la pausa per il lunch, il pasto di metà giornata, Manfredi fece capolino da noi. Come al solito, era di buon umore. Ne approfittai per far notare che, nell’assegno di quel giorno avevo sperato di trovare un aumento di paga e/o*comunque un incremento connesso con il lavoro straordinario effettuato in quelle due serate dedicate al trasloco. Al contempo, e con un sorriso sulle labbra, gli rammentai l’impegno che egli aveva assunto in precedenza circa un aumento sulla paga settimanale di cinque dollari. A quelle mie richieste egli parve cascare dalle nuvole. Le rivendicazioni, per me legittime, avanzate in modo così sfrontato, evidentemente, lo lasciarono, a dir poco, sbalordito. Era stupito al punto che, probabilmente, gli dovevo apparire simile a un marziano. Come dare torto a coloro i quali sostengono la necessità di mantenere le distanze tra i lavoratori e il datore di lavoro! Diversamente può accadere che l’essere in rapporti confidenziali può { sconfinare in un comportamento impertinente da parte dei dipendenti con ri- ) \. chieste assurde come, per esempio, quello di un aumento di paga. Per i so- ,t Genin di questa tesi, i lavoratori non sono altro che persone ingrate e incapaci di riconoscere il bene che gli è stato fatto dandogli la possibilità di lavorare. Per costoro, la richiesta di un aumento deve rappresentare il colmo.

Dopo essersi ripreso e con atteggiamento sconsolato e pieno di rammarico, dichiarò: “ma io, ve lo avevo chiesto per piacere”! A quelle parole fui io a restare di stucco. Soprattutto dal candore con cui Joe Manfredi aveva pro71

nunciato quelle parole. Non nascondo che, per un momento, mi sentii un ingrato. Tuttavia non riuscii a trattenermi dal fargli notare che, quando mi recavo a fare compere nei negozi, non potevo certamente fare ricorso alla formula magica da lui tanto bene conosciuta e praticata: per piacere. Una formula che, peraltro, in America, avevo appreso non esistere. Da qui, a mio modo di vedere, la stridente contraddizione. Anzi, quella era ed è ancora la ‘terra’ che non ti da nulla senza chiedere qualcosa in cambio. E un Paese dove, se possibile, ti farebbero pagare anche l’aria che si respira. Dal canto suo Manfredi fece ricorso ad argomentazioni del tipo che avevo già avuto modo di ascoltare altre volte. Naturalmente si soffermò sugli inevitabili sacrifici, parlò di pazienza e, soprattutto, fece riferimento al fatto che

bisognava saper aspettare il proprio momento. Evidentemente avevamo un diverso modo di intendere le cose della vita. Chi scrive certamente era condizionato dalla giovane età e, dal fatto connaturato con gli anni, di voler rag-

giungere subito risultati concreti. Sicuramente ero io a sbagliare, ma non lo avrei mai ammesso. Vi è da dire che, a fronte della diversità di opinioni e una concezione strettamente personale circa il compenso adeguato al lavoro svolto da parte del lavoratore, la conversazione si mantenne su binari di estrema cordialità. Alla fin fine non mi restò che chiedere scusa, considerato

che gli altri due colleghi, anche se non in maniera apparente, si erano schierati contro di me. Mi rendevo conto, col passare del tempo che, probabilmente, dovevo riconsiderare molte cose che credevo punti fermi del mio modo di

pensare e di essere. Comunque, la goccia che fece traboccare il vaso e che provocò un ulteriore motivo di conflitto ad una relazione già precaria, si verificò a distanza di qualche giorno da quell’episodio. Un signore, proprietario di una bella macchina sportiva (un Camaro della Chrysler) passò dall’officina per lasciare da noi la sua vettura usata. Questa era in ottime condizioni e mi piaceva moltissimo. Era il tipo di automobile utilizzata da James Garner, protagonista di una serie di telefilm dal titolo The Rockford Files. L’attore interpretava il ruolo di un investigatore privato che mi sarebbe piaciuto imitare. Domandai al proprietario se, per caso, fosse lì per venderla. La sua risposta fu affermativa. E, senza nascondere il proprio disappunto, soggiunse di averla già venduta a Manfredi qualche minuto prima per mille e cinquecento dollari. Un vero peccato! Ad ogni buon conto, anche se in ritardo, potevo sempre rimediare. Possedere una macchina di quel genere rappresentava fin dall’arrivo la più grande aspirazione. Per cui non mi scoraggiai più di tanto. Quell’automobile doveva rappresentare anche per me, una sorta di status symbol. O, quanto meno, doveva servire a dimostrare ai miei concittadini che avevo a mia volta iniziato la scalata verso il ‘successo’. D'altronde, fino a quel momento, ero riuscito a 72

mettere in banca all’incirca quattromila dollari. Questo discreto gruzzoletto altro non era che il frutto del lavoro svolto durante il periodo in cui ero stato impegnato presso il ristorante Marchi. Con Manfredi riuscivo a risparmiare qualcosa, ma non molto se rapportato ai guadagni del ristorante. Tuttavia, potevo realizzare, anche se ad un livello più basso, il ‘mio’ american dream,

il sogno americano. Per la verità possedevo già una utilitaria che mi aveva regalato lo zio Lillino. Costui aveva comprato per sé una macchina nuova e aveva deciso di regalare a me la sua vecchia carcassa. Devo dire, però, che nonostante gli

anni e gli acciacchi, quella vettura si dimostrava ancora utile alla bisogna. Difatti, mentre i primi giorni mi recavo alla shop, all’officina, a piedi, negli ultimi tempi mi servivo di questa automobile. Il Camaro, ovviamente, era tutt'altra cosa. Inoltre, e questo era l’aspetto fondamentale, mi accingevo a comprare quel mezzo di locomozione con ‘i miei soldi’. Finalmente avrei potuto ‘mostrare’, non senza una punta d’orgoglio e in maniera ‘visibile’, quanto ero riuscito a realizzare in poco più di nove mesi. E, tutto ciò, nel nostro ambiente, non era cosa da poco. Decisi, seduta stante, di andare dal mio datore di lavoro e metterlo a parte

del fatto che avevo intenzione di comprare quell’auto sportiva. Appena entrato nel suo ufficio, e senza giri di parole, dissi a Manfredi di essere interes-

sato all’acquisto di quell’automobile che aveva appena comprato. Avvertivo una forte emozione che non riuscivo a contenere. Manfredi mi osservò con aria compiaciuta e, dopo aver sfoderato un sorriso luminoso e di compiacimento, disse: “nice car”, bella macchina! Risposi affermativamente con un

cenno del capo. Mi rendevo conto di essere nelle sue mani perché non riuscivo a nascondere il mio stato di grande eccitazione. Manfredi non mancò di fare ricorso a tutta la sua esperienza di venditore di auto usate. “/t°s like new”, è quasi nuova, soggiunse con aria accattivante e quel suo sorriso stampato sulle labbra. “Vedrai che capolavoro verrà fuori dopo che l’avremo controllata a puntino e lucidata a dovere”. Quest'ultima incombenza faceva parte integrante del mio mansionario. Per cui, per la ‘mia’ automobile avrei fatto l’impossibile. Il presidente (a Manfredi piaceva molto essere chiamato in quel modo), continuò a magnificare le virtù di quella vettura. Per parte mia, non stavo più nella pelle e miravo al sodo. Approfittai di un momento di pausa per chiedere il prezzo a bruciapelo. Manfredi mi guardò fisso negli occhi facendo passare alcuni secondi. Quindi sciorinò ancora una serie di apprezzamenti in favore del Camaro.

Subito dopo, con fare amichevole e confidenziale, senza

perdere la sua sicurezza di uomo d'affari, dichiarò: dammi duemilacinquecento dollari”.

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“tanto chesset* tura

Descrivere lo stato d'animo che mi assalì non è facile. Non saprei dire il tipo e le reazioni interiori che quell’ultima frase era riuscita a suscitare. Ero a dir poco sorpreso e sbigottito. Pensai tra me: “meno male che si tratta di me!” E, ancora: “cosa avrebbe mai chiesto se si fosse trattato di qualcun altro?” A questo punto ogni ulteriore commento appare superfluo. Dopo essermi ripreso dallo shock, non potei resistere dal riferirgli di avere parlato con l’ex proprietario e che, costui, mi aveva informato del prezzo che gli era stato pagato. A queste parole a rimanere di sasso fu il boss. Tuttavia, la sua sorpresa non durò che pochi istanti. Dalla capacità con la quale riuscì a riprendersi e a controllare le sue reazioni, capii la sua bravura di businessman,

uomo d'affari. Fece ricorso a una miriade di motivazioni di varia natura per sostenere le ragioni che avevano portato a quella richiesta. Una serie di interventi tra cui il check-up, il controllo completo al motore, alle parti meccaniche, elettriche e alla carrozzeria. Inoltre non potevo dimenticare i costi di gestione e via di questo passo. Pensai bene di andargli incontro ricordandogli altre voci che, magari, poteva aver dimenticato. In buona sostanza e senza tergiversare più di tanto, gli comunicai che, tutto sommato e alla luce degli ultimi avvenimenti, ritenevo più opportuno non lavorare più nella sua azienda. La reputavo la decisione migliore. Restare ancora, dopo quell’ inconveniente alquanto increscioso per me, non avrebbe fatto altro che deteriorare ulteriormente i nostri rapporti. Era preferibile che, questi, si mantenessero discreti, almeno apparentemente. Joe reagì con calore sostenendo che non era proprio il caso di prendersela

tanto. Dopo tutto se ero veramente interessato a quel car potevamo sempre . trovare l’accordo sul prezzo. Vi erano ancora margini per una trattativa. Non

saprei dire se Manfredi fosse in buona fede. Probabilmente sì. Risposi affermando che non era il caso di dover fare ulteriori sacrifici. Poteva ben rivenderla a un altro acquirente che gli avrebbe consentito di guadagnare ‘qualche dollaro in più’. Da come si erano messe le cose non potei fare a meno di avanzare un'ultima richiesta. Gli chiesi di favorirmi dichiarando al labor department, ufficio del lavoro, che il rapporto si era interrotto ‘causa il licen-

ziamento da parte sua’°. E così, ancora una volta, dopo aver lavorato un’intera estate a lucidare

automobili, mi ritrovavo nella condizione di dover trovare una nuova occupazione. Quello che, però, mi dispiaceva in maniera particolare risiedeva nel * Questa motivazione è estremamente importante per poter fruire dell’assegno di disoccupazione. Come vedremo meglio più avanti, il prestatore di lavoro, non ha diritto a tale beneficio qualora l’interruzione del rapporto sia da addebitare alla sua volontà. A questo proposito, va evidenziato che l'ammontare del beneficio settimanale ammontava a circa il cinquanta per cento della paga percepita durante l’attività lavorativa degli ultimi sei mesi.

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fatto che, con l’arrivo dell’autunno e quindi del freddo, non avrei potuto ‘godere’, si fa per dire, del clima favorevole in una attività dove, il requisito più importante era unicamente ‘l’olio di gomito”. E, quando si lavora sodo, è sempre meglio una temperatura più moderata e, soprattutto, un tasso di umidità meno elevato di quello che comunemente caratterizza l’area metropolitana di New York durante il periodo estivo. Chi ha avuto modo di sperimentare il caldo umido dell’estate nuovaiorchese, sa bene cosa significhi sudare copiosamente anche da fermi; figurarsi quando si deve svolgere una qualsiasi attività fisica.

Il businessman e le pubbliche relazioni Una delle prime cose che l’uomo d’affari in genere percepisce quasi istintivamente e, a tutte le latitudini, è l’importanza che rivestono le pubbliche relazioni. Anche se, almeno nel caso dei businessmen di casa nostra, il loro

può apparire un modo goffo e poco signorile di allacciare e mantenere relazioni interpersonali, non per questo i risultati sono meno significativi. Certo, esiste una bella differenza rispetto al capitano d’industria della grossa azienda a livello nazionale o al grande capitalista per antonomasia di cui 1’ America può vantare una componente molto nutrita e variegata. Per quanto riguarda i limiti del presente lavoro ci limiteremo ad analizzare, anche se superficialmente, quello che può essere definito l’uomo d’affari per eccellenza riconosciuto dai nostri concittadini residenti a Brooklyn. Il presidente, il filantropo, il cavaliere, the man of the year, l’uomo dell’anno,

per diversi anni: Corrado (Joe) Manfredi. Costui impersona degnamente e in maniera compiuta il tipico businessman che si è fatto da solo. Difficilmente rifugge dal contatto e dai rapporti con le persone meno abbienti. Anzi. Costoro sono le sue ‘amicizie’ preferite e ricercate. Infatti, pur disponendo di un discreto conto in banca l’uomo d’affari nostrano non disdegna di frequentare coloro che, di soldi, ne hanno pochini. Personaggi del tipo che abbiamo descritto sono comunemente attorniati da leccapiedi di varia estrazione sociale. Se, per esempio, vi capita di trovarvi in loro compagnia o, meglio ancora,

a casa loro, questi fanno di tutto per mettervi a vostro agio. In primo luogo vi offrono da bere e, perché no, anche da mangiare. Non mancano di mostrarvi

i tanti ammennicoli più o meno preziosi che fanno parte dell’arredamento. Insomma, sono molto socievoli e alla mano. Se poi, per caso, avete bisogno di soldi, si mostrano molto disponibili ad aiutarvi. Vi è soltanto un piccolo

neo che contrasta con un mare di bontà tutto di facciata. Tutto è fatto con un obiettivo ben preciso. Ovvero, per dirla con un vecchio adagio nostrano: 75

“senza niente non si fa niente”. Tanto per fare un esempio, costoro, non credono, nella bontà altrui, ma unicamente nella loro.

Nel caso di Manfredi, personaggio che ho avuto modo di conoscere più da vicino e in momenti diversi, anch’egli si rifà al detto: “quando non puoi battere il tuo avversario, compralo”. Ne consegue che, costui, ha pochissimi nemici dichiarati. Tutti, almeno apparentemente, lo ammirano e apprezzano. Nemmeno chi scrive è suo nemico. Anzi, sono sempre stato un fervente ammiratore del mio ex datore di lavoro. E, come si fa a non avere simpatia per

chi ha un curriculum invidiabile come il suo. Pensate: “diplomatosi nel 1958 con la qualifica di meccanico specializzato venne in breve tempo a prendere le redini della concessionaria Rambler sita sulla Coney Island Avenue in Brooklyn coprendo la carica di ‘Manager’. Promosso a ‘General Manager’ (una sorta di direttore generale, n.d.r.) nel 1959 dall’America Motors, era responsabile di 35 dipendenti”. È incredibile cosa sia riuscito a fare costui nel giro di un anno. Sfido chiunque a dimostrare le stesse capacità manageriali. L'autore di questa biografia, Joe Rizzi, riporta una serie di pregi da far impallidire un premio Nobel: “Nel 1957, con un gruppo di appassionati molesi residenti a New York, fondò la prima Società Calcistica che nel 1958 fu battezzata con il nome di ‘Caduti di Superga Mola’. Nel 1962 Corrado (Joe) Manfredi viene eletto membro del direttivo della Lega Italo Americana di Calcio e Segretario Generale l’anno successivo. Nel 1964 viene eletto Vice Presidente, seguito da molti anni di presidenza fino al 1972, quando viene eletto Tesoriere della ‘Southern New York State . Soccer Association’ (Associazione calcistica della sezione sud dello Stato di New York).

La sua ascesa continuò fino ad essere eletto membro dell’Esecutivo dell’Associazione Calcistica degli Stati Uniti. Il suo interesse per il calcio lo portò ad essere uno dei fondatori della squadra calcistica del ‘New York Cosmos’ nel 1971. Insieme a Clive Toy riuscì a fare indossare al leggendario Pelè la maglia della sua squadra. Nel frattempo Joe Manfredi fu dirigente di vari sodalizi molesi e non molesi fra i quali il ‘Pozzallo Soccer Club’ ed il ‘Brooklyn Italians Soccer Club”. La sua devozione a tutte queste associazioni gli hanno fatto meritare il titolo di presidente onorario a vita.

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JOE RIZZI, Un uomo ... una storia ... Corrado Manfredi”, Corriere Italo Americano, numero

unico del luglio 1986.

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I suoi sentimenti particolari per l’Italia e gli italiani l’ha reso promotore di attività di assistenza dall’alluvione di Firenze del 1968 ai terremoti in Sicilia, nel Friuli e in Irpinia. Il signor Manfredi, che continua tutt'oggi ad essere un’ispirazione per i giovani e per l’intera comunità italoamericana, ha istituito borse di studio per la Brooklyn College. È stato il promotore della tournée della squadra del ‘Caduti di Superga’ nel 1984 per cui ha stanziato anche ifondi necessari. E per la stessa ragione ha patrocinato anche il gruppo teatrale del ‘Circolo Culturale di Mola”. Corrado Manfredi (Joe), che si è distinto nei vari campi, gode dell’onorificenza di ‘Man of the year® (Uomo dell’anno) di innumerevoli organizzazioni ed è stato anche riconosciuto come tale dall'Assemblea Generale dello Stato di New York. Il signor Manfredi ha raggiunto molte mete, ma la più ‘dolce’ è quella di aver fatto parte nell’istituzione della ‘Mola Foundation’ di cui è il Presidente” Negli anni in cui risiedevo a Brooklyn, spesso mi recavo, come tanti altri Molesi e Italiani in genere, al Gran Caffè Italia, ubicato sulla 18.ma Avenue

(ribattezzata Cristoforo Colombo Boulevard) per trascorrere il tempo libero. Quest'ultima arteria era densamente popolata di emigranti. I Molesi, dopo un primo periodo più o meno lungo di residenza downtown Brooklyn, non appena ne avevano la possibilità, si trasferivano nei pressi di quella importante strada'. Su quella Avenue, vi sono ancora il Gran Caffè Italia e il Caffè Mille Luci”. Allorquando Manfredi faceva la sua comparsa in uno di questi ritrovi non mancava mai di offrire da bere a tutti gli avventori, Molesi e non. Anche a chi lo teneva in antipatia. È un uomo così generoso che ti riesce difficile credere a tanta bontà. Ciò che suscita meraviglia e spirito di emulazione per questi personaggi è riconducibile al fatto che, pur dando via molto denaro in beneficenza e per le ragioni più varie, diventano sempre più ricchi. Come si fa a non avere ammirazione e, perché no, un pizzico d’invidia, nei confronti di chi ha trovato la ricetta segreta della ricchezza? Con questa tecnica semplice ma collaudata negli anni, Manfredi e altri businessmen riescono a conquistarsi, oltre alla simpatia e alla gratitudine, ‘ Nei primi anni Novanta i residenti della zona oltre a essersi trasferiti in maniera massiccia nello Staten Island, lamentavano l’insediamento in massa di cittadini Russi in quel quartiere. Ciò veniva visto con sfavore dagli italoamericani perché incoraggiato e facilitato attraverso notevoli aiuti da parte del governo statale e federale per l’acquisto della casa e di sussidi finalizzati all'integrazione lavorativa e sociale. É Quest'ultimo di proprietà del compianto Giovanni Gentile, anch’egli scomparso recentemente.

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anche l’asservimento di non poche persone in perfetta buona fede. I casi non mancano. Infatti, difficilmente si riesce a negare un favore a personaggi così influenti. A questi bravi imprenditori che danno lavoro a tanta gente, che fanno tanta beneficenza in maniera disinteressata, che sono al centro dell’interesse e dell’ammirazione della comunità. Come si fa ad essere scortesi nei confronti di persone come queste, dedite all’altruismo e a fare del bene al

prossimo? Impossibile rifiutare loro un favore quando te lo chiedono con tanto garbo e dopo averti offerto da bere! Proprio per la loro particolare condizione socioeconomica, questi signori, hanno frequentemente bisogno dell’aiuto dei vari artigiani presenti sulla piazza. Dal falegname all’idraulico, dal fabbro all’elettricista e comunque di chi gli possa dare una mano di aiuto a verniciare la stanza del bambino o riparare il bagno e cose del genere. Come si fa, per esempio, a non fare lo sconto a chi, in una o più occasioni ti ha pagato da bere o, magari ti ha portato fuori a cena? E poi, se si tratta di piccola cosa, perché chiedere il pagamento a chi fa tanto bene alla collettività! A chi è così solidale, quando occorre, con chi è in stato di bisogno oppure in difficoltà! Si rischierebbe di essere tacciati di ingratitudine o peggio. Con tutti gli inconvenienti che una nomea del genere può comportare in un contesto sociale ‘chiuso’, quale era ancora nel 1994 e perché no, ancora oggi, quello molese e comunque il novero dei gruppi etnici originari del meridione. Questi personaggi dispongono, proprio per il loro modo di essere e per la posizione che occupano nella comunità italoamericana, di una fitta rete di ‘amicizie’ e di ‘conoscenze’ pronte a tutto pur di difendere l’immagine pubblica dei loro ‘padrini’ e ‘benefattori’. Costoro sarebbero i primi a rimprove- . rarvi un comportamento poco riconoscente: “dopo tutto quello che hanno fatto per te!” È difficile immaginare le conseguenze che potrebbero derivare a chi, per avventura, venisse la malaugurata idea di schierarsi contro uno di questi signori così in vista. Se mai questo lavoro dovesse vedere ‘la luce’, è

facile prevedere le contumelie cui sarà fatto oggetto chi scrive da parte di tanti concittadini per avere osato tanto. Se non altro, tutto ciò, servirà a dare

un'idea di come è intricato e sottile il potere che questi hanno e il raggio di azione di cui dispongono oltre che confermare quanto stiamo sostenendo. Anche se il confronto può apparire esagerato, F. Lundberg, a proposito dei ricchi e delle loro pseudo elargizioni (fatte per la gran parte attraverso le

foundations®), afferma, tra l’altro: ° Termine anglosassone con cui viene indicata un’entità, normalmente un college o un ospedale, costituito senza finalità di lucro. Nell'ordinamento statunitense il termine può essere riferito anche ad una particolare persona giuridica con scopi di beneficenza e senza fini di lucro; essa è strutturata in modo molto simile ad una società commerciale, ma la caratteristica

che la distingue da quest’ultima è data dalla destinazione degli utili che statutariamente devo-

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“Perché non dovrebbero desiderare di beneficiare il mondo quando anche loro, nel mondo, devono vivere? E ogni atto benefico da loro compiuto, frutta un gran credito, (che si rifrange sulle loro aziende in termini di vendite), esalta la loro posizione sociale, li fa onorevoli cittadini della terra. E in ogni caso possono contare sul plauso di deferenti mass media”. Con riguardo a quest’ultima affermazione, anche queste pagine non fanno altro che fornire una pubblicità gratuita anche se non deferente. Nel maggio del 1986 il Presidente della Repubblica italiana, Francesco Cossiga, ha insignito Corrado Manfredi del titolo di Cavaliere della Repubblica. È opportuno far notare la disinvoltura con la quale queste onorificenze vengono elargite nel nostro Paese. Infatti,è sufficiente essere ammanigliati con qualcuno che conosce le persone giuste perché un ‘cavalierato’ si possa ottenere con relativa facilità. E poi, perché rifiutare un riconoscimento a chi fa tanto per la collettività italiana! AI più, il nostro benemerito concittadino è riuscito a ottenerlo grazie al partito di maggioranza relativa della prima Repubblica il quale non ha mai negato a nessuno questo tipo di onorificenze ed altro ancora. Recentemente Corrado Manfredi è stato nominato ‘consultore’ della Regione Puglia e fa parte della Consulta per l'emigrazione. L’articolo 7 della legge regionale n. 65 del 1969 indica la composizione di questo importante organismo. Mentre il successivo articolo 8 dispone che “Ai componenti la Consulta è corrisposto, ad eccezione del Presidente un gettone di presenza per ogni seduta nella misura stabilita dalla legge regionale”. Non ci sarebbe da meravigliarsi se a costoro gli fosse riconosciuto il rimborso per le spese di viaggio e quant'altro.

La disoccupazione, il tempo libero e ‘gli altri” Se in un piccolo comune come può essere Mola di Bari o un qualsiasi paesino del meridione, il disoccupato riesce a sbarcare il lunario frequentando altri soggetti nella stessa, identica condizione, o trascorrendo il tempo in maniera meno traumatica, in una metropoli americana ciò non è possibile per diverse ragioni. Intanto per la difficoltà oggettiva di incontrare persone conosciute e, in particolare, altri disoccupati con cui scambiare pareri e opinioni su argomenti vari. Inoltre, chi è senza lavoro, cerca di nasconderlo, per quanto è possibile. Il senso di colpa, poi, è così forte da farti star male anche r__’ rter __ N ___ no essere sempre devoluti ad opere di beneficenza. Dizionario giuridico enc., Ed. Simone 1992, pag. 520. FERDINAND LUNDBERG, 0p. cit., pag. 323.

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fisicamente. Mentre tutt'intorno è un brulichio di attività, tu stai nel bel mez-

zo di tanta produttività senza fare alcunché. Il contesto che ti circonda sembra creato apposta per scoraggiare l’ozio e la possibilità perfino di pensare. Anche l’incontro casuale con qualcuno del tuo stesso paese presso 1° Unemployment Office, V Ufficio di Collocamento, per la sottoscrizione, a set-

timane alterne, dell’assegno di disoccupazione, può diventare un momento di turbamento interiore non indifferente. Uno stato d’animo che può anche tradursi, talvolta, nel fare finta di non riconoscere queste persone. Gente che sta lì per la stessa ragione e che, a sua volta, assume gli atteggiamenti più strani: l’indifferenza, la diffidenza, far apparire di trovarsi in quel posto casualmente e, infine, il timore di essere additati al pubblico ludibrio.

È stato detto più volte che il tema dominante di una qualsiasi conversazione tra amici, in famiglia e con conoscenti, è sempre e prevalentemente in materia di lavoro. E, manco a dirlo, quanto si guadagna per settimana. Tutto il resto, gli affetti, la cultura, le relazioni sociali, i rapporti interpersonali,

l’impegno civile e politico, sono tutti argomenti non catalogati nella scala dei valori. Questi, in America, per la gran parte degli immigrati, sono tutte

cose senza senso. Anche se la paga offertami da Manfredi poteva apparire un passo indietro rispetto al guadagno del ristorante, in compenso, anche le ore di lavoro erano in numero inferiore: cinque giorni la settimana (dal lunedì al venerdì) per otto ore al giorno. Finalmente, dopo circa sei mesi di permanenza, potevo assaporare il significato del week-end, il fine settimana, sabato e domenica liberi. E, questo, non era poco. Almeno per me che, fino a quel momento, a-

vevo avuto ben poche occasioni per guardarmi in giro e godere, per quanto possibile, le innumerevoli attrattive che la grande metropoli nuovaiorchese è in grado di offrire. Insomma, bisognava anche viverla la vita. Dopo tutto a-

vevo ancora venticinque anni. Cosa dire, per esempio, del saturday night! Tipica serata dedicata dai giovani e dai meno giovani al ballo e ai divertimenti più variegati. Il poter frequentare alcune delle tante discoteche disseminate in tutta l’area metropolitana rappresentava un notevole passo avanti. Anche se, adesso, mi vedevo costretto a rivedere i miei programmi. Se, al momento dell’arrivo, l’obiettivo prefissatomi era stato quello di guadagnare tanti bei soldoni ve tempo possibile con la prospettiva di un ritorno al mio paese anni, a distanza di pochi mesi e alla luce delle poche esperienze a quel momento, l’obiettivo iniziale era radicalmente cambiato.

nel più bredopo alcuni vissute fino Ero deciso a

‘vivere’ in quella realtà così diversa una vita ‘normale’. Avevo, cioè, inten-

zione di integrarmi in quel contesto sociale per farne parte a pieno titolo. Nel frattempo, probabilmente a causa della lontananza, i rapporti epistolari con la ragazza che avevo dovuto lasciare a Mola, si erano via via dirada80

ti, per interrompersi del tutto. Questo si era verificato senza tanti problemi o traumi da entrambe le parti. Avevo saputo (è incredibile come le notizie arrivino in America con estrema velocità) che Giulia aveva preso a frequentare un altro ragazzo. Dal canto mio, non ero rimasto indifferente alle occasioni che si erano presentate. In quegli anni si notava in maniera più marcata ed» eclatante la differenza di mentalità e libertà nei rapporti sessuali tra i coetanei emigrati dal meridione e i giovani residenti a Brooklyn, americani e non. Quelli come noi rappresentavano il prodotto di un sistema ‘chiuso’ che, nonostante il boom economico e la fase di crescente industrializzazione del Paese, rimaneva ancora abbagbicato al proprio passato, ad un retaggio e a una cultura tradizionalista îa cui dominava fortemente la rassegnazione e il fato. Negli Stati Uniti, nella grande metropoli, ci si scontrava con un sistema ‘a-

perto’ dove, almeno apparentemente, tutto era possibile. Bastava averne la disponibilità economica per realizzare qualsiasi desiderio! Chi aveva voglia di esperienze nuove e in contrasto con l’idem sentire della maggioranza non disdegnava di ‘provare’ per curiosità a fumare una sigaretta di marijuana, magari per il solo gusto della trasgressione. Gli amici ti invitavano volentieri a fare un ‘tiro’. Come dimenticare quei volti, abbruttiti e allucinati mentre aspiravano profondamente, trattenendo il fumo nei polmoni fino a farsi venire attacchi di tosse che, francamente, trovavo in-

comprensibili*. Naturalmente, se questo impatto e diversità di mentalità e di culture li avvertivano quelli che, come noi, bene o male, avevano conosciuto altre realtà,

altri paesi e altre società - con riferimento agli anni trascorsi sulle navi mercantili - acquisendo un minimo di apertura mentale, ancor più problematica doveva essere la condizione psicologica di quei giovani che, dal paese natio non si erano mai allontanati. Particolarmente per quanto riguardava le ragazze italiane e, nel nostro caso, quelle meridionali. Anche vivendo in America,

a New York, per costoro, non vi era stato un grande cambiamento rispetto al costume, alla mentalità e alle tradizioni ancora fortemente radicate del proa prima e unica volta che ho provato a ‘fumare la roba’ è stato in una circostanza particolare. Dopo aver visto una commedia di Eduardo De Filippo, rappresentata dal gruppo studentesco italiano presso la New York University, ci recammo tutti in casa di un amico nel Greenwich Village. L'atmosfera era ideale ed eravamo tutti euforici dopo aver bevuto un po’ di vino e mangiato spaghetti seduti in terra in circolo. La presenza di ragazze italiane disinibite era coinvolgente. Mi passarono una ‘cicca’ che aveva preso a circolare nel gruppo. Non potevo certamente rifiutare o far vedere di non essere al passo coi tempi. Aspirai profondamente e la passai alla mia vicina. Risultato: preferii accendere una delle mie sigarette ‘normali’ che mi davano più ‘piacere’. Questo riferimento sta a significare che, a volte, si può iniziare una esperienza con risvolti imprevedibili e negativi senza rendersene conto e solo perché ci si è trovati, casualmente, in un particolare contesto e giusto per fare una prova e non essere da meno degli altri.

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prio paese. Anzi! Nella realtà di Brooklyn le ragazze avevano conosciuto una ulteriore ‘stretta’ alla loro già limitata libertà di movimento. I genitori dei giovani emigranti vivevano in una perenne contraddizione. Se da un lato la libertà di movimento della figlia poteva essere giustificata per recarsi al lavoro - anche a distanze notevoli - non altrettanto si verificava allorquando vi era la richiesta di una semplice passeggiata, di un ballo 0 quella di andare al cinema con le amiche. Stando così le cose, per le ragazze,

la carenza di libertà era maggiormente avvertita perché vissuta in maniera contraddittoria rispetto all'ambiente circostante. Per quanto riguarda, poi, le ripercussioni in termini affettivi legati con l’esperienza emigrazione, di per sé già penosa, vi sono tante storie di rapporti molto ben consolidati che hanno cono$cifitò un epilogo poco felice. La fine ‘indolore’ della mia storia d’amore - sarebbe più corretto parlare di rapporto affettivo - era ben poca cosa se paragonata ad altre situazioni molto più drammatiche. Penso a quei nuclei familiari disgregati per ragioni legate esclusivamente al fenomeno migratorio. Non credo esista uno studio che abbia affrontato in maniera organica e approfondita questo particolare aspetto. Oltre alle situazioni familiari che ho avuto modo di conoscere personalmente, ve ne sono altre di cui ho potuto avere contezza attraverso la testimonianza dei diretti interessati. Per non menzionare le tantissime storie ascoltate da questo o da quella. Sicuramente un crogiolo di drammaticità e virulenza: nessun prezzo che possa ripagare la soffèfénZa di tantissime tragedie familiari. Mi riferisco alle separazioni forzate - mariti che hanno abbandonato la propria consorte e i figli per rifarsi una vita con altre donne -; di mamme costrette dagli eventi più svariati a sacrifici inenarrabili per sopravvivere e dar da mangiare ai tanti figli rimasti a loro carico senza un sostegno economico. Sarebbe un’impresa a dir poco ardua voler elencare soltanto le tante tragedie consumate sull’altare del dio denaro e legate al fenomeno dell’emigrazione. Il lavoro alle dipendenze di Manfredi mi consentiva di avere l’intera serata libera. Colsi così l'occasione per iscrivermi e frequentare i corsi serali per adulti presso la New Utrecht High School di Brooklyn?. Avevo deciso, tra le altre cose, di imparare l’inglese e conseguire un titolo di studio. Anche se, spesso, oggetto del mio studio erano le tantissime ragazze che frequentavano la scuola. Mi rendevo conto che la conoscenza della lingua rappresentava il primo e indispensabile passo per raggiungere l’inserimento nel sistema socioeconomico, culturale e politico della realtà americana. Va da sé che, fino a quel momento, vi era stata una sorta di rifiuto psicologico e pregiudiziale I compaesani che frequentavano i corsi serali erano tanti. Tra gli altri Pasquale (Lino) Benso con il quale abbiamo condiviso lo stesso banco per un periodo di tempo. Anche lui, come tanti, è ritornato al paese definitivamente e ha messo su un’attività di parrucchiere per uomo.

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verso tutto quello che non era italiano. Anché dover apprendere una lingua diversa, cosa di primaria importanza quandg si va {a vivere in un paese straniero, si traduceva in una violenza al proprio mado di essere. L'ambiente

circostante, le tante attrazioni culturali e félcloristithe americane rimanevano del tutto estranee e prive di un qualsiasysignificatò. L'America, gli americani e tutto quanto riguardava quel Paesé, non mi ifiteressavano più di tanto €, fino a quel momento, le avevo rifiutate. Oggi, a distanza di circa trent’ayni da quel périodo, la decisione di ritornare a scuola e riprendere gli studi/potrebbe anche essere giudicata con favore - almeno dai più illuminati - che risiedono in America. A quell’epoca, invece, i più sostenevano che tutté il tempo liberò dovesse essere impiegato in attività lavorative finalizzate fare soldi. Chi intraprendeva la strada della scuola in età più avanzata rischiava di essere deriso e additato alla stregua di un fannullone 3 o di uno scansafatiche. ___———T—T

Per la gran parte degli immigrati, chi emigra in una terra straniera non deve fare altro che utilizzare tutto il tempo disponibile per lavorare, guadagnare e, soprattutto, risparmiare. Non pochi erano quelli che, per conseguire maggiori entrate, rinunciavano a qualche ora di sonno in più oppure sacrificavano un po’ di tempo da trascorrere con i figli e gli affetti familiari. Di conseguenza erano tanti coloro che, oltre al primo lavoro - quello principale, per intenderci - ne avevano un secondo e, talvolta anche un terzo. Le attività lavorative in cui ci si impegnava erano le più disparate: dai lavori di manovalanza generica, a quella del verniciare (in proprio o per conto terzi); dal

lavare i piatti nei tanti ristoranti italiani e non, all’attività di cameriere nelle ore serali e/o durante il fine settimana; dal pizzaiolo part time al fornaio; dal muratore al pasticciere; dal lavoro a cottimo in fabbrica - nella factory del

settore tessile finire i merletti, cospicua somma è qualcosa che versità culturale

a quella in casa propria a confezionare bambole ovvero a rieccetera. Il tutto con il fine precipuo di mettere da parte una di denaro. Anzi, un bel mucchio di dollari. Che, si badi, non si vuole criminalizzare. Si vuole soltanto evidenziare la diconnaturata con l’immigrato non appena mette piede in una

terra straniera. Il denaro, i ‘dollari’, dovevano servire, prima di ogni cosa, a

comprare la casa. Quello dell’abitazione in proprietà rappresenta ancora oggi il sogno prioritario di ogni italiano. Non altrettanto si può dire, per esempio per i negri, indipendentemente dal paese d’origine. Per questi lo status symbol è rappresentato dal possesso di una automobile di grossa cilindrata: una Cadillac o qualcosa di simile. Successivamente, diventava gioco forza ed inevitabile acquistare una se-

conda casa. Molto spesso il bungalow in the country, la casa in campagna. Possibilmente a Long Island o nei pressi di una spiaggia rinomata. Quindi,

perché no, una terza abitazione da dare in fitto e così via. Importante era ‘far 83

vedere’, ‘mostrare’ e dimostrare in tutti i modi possibili che si produceva a

pieno ritmo e che, l’acquisto di case od altri beni immobili e non, insomma l’investimento nei settori più svariati, altro non era che il frutto di enormi sacrifici fatti col lavoro. Agli inizi della emigrazione molese in America e, per quanto ci interessa, a Brooklyn nei primi decenni del Novecento, erano pochi gli emigranti disposti o interessati a investire i propri risparmi e il frutto del sudato guadagno per far studiare i figli e offrire loro un avvenire migliore. Questi, anche in America - e forse soprattutto in America - erano visti unicamente come una fonte di reddito. Da qui quella che si potrebbe identificare come la fase primaria o originaria dello sfruttamento, quello dei genitori nei confronti dei figli, e riconducibile al cerchio più interno, con riguardo all’esempio dei cerchi concentrici. Superfluo aggiungere che anche questo modo subdolo di sfruttamento trova la sua giustificazione nel principio indimostrato secondo cui il tutto viene fatto per il bene dei figli stessi. |

I fratelli Alberto e Sallustio Cicorella

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The Bronx: la 125.ma strada. (Foto Vito Rizzi)

Alla ricerca di qualche pezzo di ricambio in una discarica improvvisata di Manhattan. (Foto G. D’Acquaviva)

Un viaggiatore in un treno moderno della subway di New York. (Foto: G. D’Acquaviva)

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The Bowery (Chinatown)

(Foto Vito Rizzi)

The Bronx: la 129.ma strada (Foto Vito Rizzi)

The Bronx: la 129.ma strada

(Foto Vito Rizzi)

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IV 1973: il Circolo Culturale di Mola

Sul finire dell’estate del 1973 ebbe luogo un incontro che si sarebbe rivelato decisivo per i mesi a seguire. Mi trovavo presso il Gran Caffè Italia quando fui avvicinato da due vecchie conoscenze:

Vito Cassano e Mino Giliberti,

entrambi di Mola. Costoro, arrivati in America qualche mese prima, mi prospettarono un progetto che mi piacque immediatamente. Si trattava di dare vita a un circolo un tantino diverso dai soliti già esistenti nell’area metropolitana di New York e al quale avrebbe potuto aderire chiunque, indipendentemente dalle origini. Le attività preminenti di questo nuovo sodalizio, che mi si chiedeva di contribuire a far nascere, avrebbero avuto un taglio preminentemente culturale. Tra le iniziative di rilievo di cui si parlò emergevano la pubblicazione di un periodico, la rappresentazione di opere teatrali, gite 4 scopo istruttivo e ricreativo. Ci saremmo dotati, inoltre, di una biblioteca per consentire ai soci e ai frequentatori di poter approfondire le proprie conoscenze e il proprio livello culturale. Fravamo consapevoli che l’eventuale adesione e la partecipazione al gruppo presupponeva, tra l’altro, il dover rinunciare al tempo libero. Insomma ognuno di noi doveva impegnarsi a cambiare radicalmente le proprie abitudini per dedicarsi, invece, a tempo pieno nelle attività del circolo. Ritenni immediatamente valida quella iniziativa. La vedevo piena di prospettivee significati interessanti, al punto che non ebbi alcuna esitazione a dichiarare la totale disponibilità e a qualsiasi condizione. A distanza di alcuni giorni Cassano mi telefonò per comunicarmi la data, l’ora e il luogo dove si sarebbe svolto il primo incontro. La sede in cui ci riunimmo era quella del Circolo Caduti di Superga sulla ventesima Avenue, nel quartiere di Bensonhurst, al civico 7021, proprio all’angolo con la 71.ma strada e a due isolati di distanza dalla 18.ma Avenue. A quella data esistevano altri tre circoli molesi. Quello di cui si è appena fatto cenno, ubicato in un quartiere dove, a partire dagli inizi degli anni Sessanta, i nostri concittadini avevano cominciato a trasferirsi in numero sempre crescente, dopo aver acquistato abitazioni del tipo a ‘due famiglie’. Queste 87

costruzioni sono costituite dal basement', un appartamento al piano rialzato (utilizzato normalmente come zona notte o, all’occorrenza, quando vi sono visite di un certo tipo, per ricevere gli ospiti nel vano soggiorno) e, infine, di un appartamento al primo piano da dare in affitto. ‘Anche l’edificio del Caduti di Superga, acquistato dagli stessi soci in forma cooperativa, rispondeva a questi requisiti. Unica variante, il basement era completamente interrato. l Altri due circoli, il Van Westerhout e il Circolo Cittadini Molesi” erano dislocati downtown "Brooklyn, Tel quartiere di Carroll Gardens. Esisteva ed esiste ancora un altro circolo, al civico 65 di Woodhull Street - la Congrega

di Maria SS. Addolorata - ma questo, si limita ad organizzare la processione della Madonna, per le strade di quel quartiere che ha visto insediarsi i primi Molesi arrivati a Brooklyn. Questi circoli avevano ed hanno in comune la caratteristica di essere prevalentemente di tipo ricreativo e dopolavoristico. Inoltre, ognuno di questi, organizzava ed organizza ancora, annualmente, un dinner and dance, un veglione, con il fine precipuo di rimpinguare le casse del rispettivo sodalizio. Tra l’altro, di particolare interesse risulta essere quello dei Cittadini Molesi. Il loro VCZUDIE è rinomato perché in quella occasione viene eletta la ‘miss Mola”. Il Caduti di Superga, dal canto suo, era conosciuto per la partecipazione al campionato di calcio della L.I.A.C. (Lega Italo-Americana Calcio). Ed è proprio con la dirigenza di quest’ultima organizzazione che Cassano e Giliberti si erano accordati in precedenza, al fine di ospitare il nascente circolo culturale nei loro locali. Dagli accordi intervenuti preventivamente, il nostro club avrebbe trovato alloggio nel basement costituito da una grande stanza e un bagno. Questi prendevano aria da una inferriata posta sul marciapiedi e da una finestra sul retro. Si trattava della cantina. La sede del Superga era ubi- cata al piano terra e il piimo piano dello stabile, infine, era affittato.

A quell’importantissimo appuntamento eravamo presenti all’incirca una quindicina di persone di entrambi i sessi’. La presenza femminile era la pri' Il basement non è altro che un alloggio seminterrato che affiora alla superficie per circa un metro. Spesso viene suddiviso in varie stanze in cui il proprietario risiede abitualmente utilizzandolo come zona giorno. ? Sorto nel 1967 col nome di Young Citizen of America, giovani cittadini d’ America, era ubi-

cato al numero 345 di Smith Street, nel quartiere di Carroll Gardens. Nel 1973, dopo un breve periodo di crisi e grazie all’impegno di alcuni giovani, fu costituita una squadra di calcio composta interamente da molesi alla quale fu dato il nome di Adriatica che partecipò al campionato di serie B della Lega Italo-Americana Calcio (LIAC) di New York. Nel 1976 vi è stata una fusione tra questo sodalizio e il più antico e rinomato Van Westerhout Mola, intitolato all'omonimo musicista molese. Infine, un’altra fusione tra quest’ultimo circolo e il Mola Socu Club, ubicato a un isolato di distanza da quello, risale a qualche anno prima. ° Oltre all’autore di queste pagine e ai due promotori, erano presenti a quell’incontro Vito Rizzi, Tina Cassano (sorella di Vito), Giuseppe Scorcia, Pina Fanciullo (originaria della

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ma grossa novità che caratterizzava il nostro gruppo. Mai, precedente-mente, era stata riscontrata, in altri circoli - anche di altre comunità italiane - la partecipazione diretta delle donne Questa presenza, ovviamente, rappresentava un’attrattiva in più se si pensa che, diversamente dalle abitudini tutte nostrane, dove le varie piazze del paese rappresentano altrettanti luoghi di incontro per i giovani, in America e a New York in particolare, non esiste alcunché di questo genere. I posti per ritrovarsi sono altri: i bar, le discoteche, gli angoli delle strade e così via. Dopo quel primo incontro vi furono altre riunioni, anche quotidiane, che vedevano, di volta in volta, aumentare il numero dei partecipanti. Diversamente dalla prima volta, gli incontri successivi avvenivano nel basement del Caduti di Superga, che cortesemente ci ospitava. Col passare del tempo e a seguito dell’affidamento delle cariche sociali, le cose cominciarono ad assumere la fisionomia propria di una organizzazione. Cassano venne eletto presidente del neo costituito circolo per ovvie ragioni: intanto per essere stato l’artefice principale di quel progetto ed anche perché, tra tutti noi, era l’unico che aveva le idee chiare circa il ruolo che questa nuova entità avrebbe dovuto rappresentare nel contesto socioeconomico e culturale della comunità molese di Brooklyn. Che l’elemento dominante e caratterizzante il nuovo sodalizio fosse l’inesperienza, è dato dal fatto che nessuno pensò alla prima cosa veramente importante da fare: darsi delle regole che dovevano presiedere a questa nuova organizzazione, approvando uno statuto. Perciò, anche se il circolo risulta essere fondato il 1° novembre del 1973, trascorsero non pochi anni prima dell’approvazione di uno statuto nel quale vennero fissate le finalità e le regole alle quali il circolo e i singoli soci dovevano uniformarsi. Da una copia non definitiva di questo documento che l’amico Leonardo Campanile mi fece gentilmente tenere qualche anno addietro, si legge: I propositi del Circolo sono: 1)Sviluppare gli interessi culturali nella comunità molese (si premette che il Circolo è aperto a tutti gli italiani d'America ed a tutti coloro che nel suo sviluppo mostrano interesse). 2) Pubblicazione dell’IDEA, organo di diffusione del Circolo. 3) Attività socio-ricreative.

Campania), Carmela Barravecchio (una simpaticissima ragazza siciliana), Ernesto Sopracasa (il genovese), Rosa e Tony Renna, Angela Maria Casucci, Vito Susca (il dottore), Teresa Franzese e i miei fratelli Giannino e Alberto. Probabilmente, come spesso accade, avrò di-

menticato qualcuno, al quale colgo l'occasione per chiedere scusa.

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4) Il Consiglio Esecutivo rimane in carica dal primo giorno di febbraio

all’ultimo giorno di gennaio*. Per quel che riguarda le origini del sodalizio va sottolineato che la direzione del periodico ‘L’Idea’ fu affidata, ad interim, al presidente Cassano.

Chi meglio di lui poteva rappresentare quella neonata organizzazione? Lo stesso, unitamente a Giliberti, nel primo numero, indicò le ragioni che ave-

vano stimolato l’iniziativa e quelle che sarebbero state le linee direttrici che avrebbero caratterizzato le attività del Circolo Culturale. Sintomatico appare, a questo proposito, il ricorso a pseudonimi o simili. Infatti, proprio i fautori della nascita di quella idea, firmarono il pezzo con Vito C. e Mino G. Per onestà intellettuale è opportuno aggiungere che, al di là dei pregi o dei difetti

{)

di cui ognuno di noi è portatore, a Vito Cassano, principalmente, va ricono-

sciuto gran parte del merito (o del demerito, a seconda dei punti di vista) per la riuscita di quell’esperienza pur con tutti i limiti a questa riconducibili. La elezione alla carica di vice presidente fu alquanto laboriosa e contrastata. Segno che, già in embrione, cominciavano a nascere le inevitabili e naturali rivalità legate con la nascita di gruppi più o meno organizzati al nostro interno. Ma, questo, va visto in termini positivi. L’unanimismo non ha mai prodotto nulla di buono. Peraltro, se affioravano difficoltà di varia natura,

queste non potevano essere affrontate e risolte adeguatamente proprio per la mancanza di regole e di uno statuto al quale fare riferimento. Ed è proprio in =. ’ occasione di tale nomina che cominciarono ad emergere i dissapori e le prime schermaglie rivelatrici di come andavano le cose. Candidati a quell’incarico eravamo

in due: io e Giliberti. L'assemblea dei presenti, in numero

pari, evidenziò una netta spaccatura a seguito della prima votazione e conse-

guente primo scrutinio. Entrambi riportammo lo stesso numero di voti. Furono necessarie diverse elezioni per addivenire ad un risultato definitivo. Infatti, a seguito di un ennesima consultazione, riuscii a spuntarla per un solo voto. Segno evidente che uno dei votanti aveva cambiato la sua preferenza. Per quanto attiene, poi, l'aspetto legato col nome da dare al nascente periodico, questo, fu un vero rompicapo, tanto da vederci impegnati per diverse riunioni. Avremo modo di vedere più in dettaglio con quale risultato nel capitolo seguente dedicato in modo specifico all’organo di informazione del circolo: L’/dea.

* All’interno vengono indicate: la composizione del Consiglio Esecutivo, le funzioni specifiche dei singoli componenti, le modalità di elezione degli stessi; quindi, l'accettazione dei nuovi e degli ex membri; i loro doveri e le modalità di espulsione; i requisiti per i candidati al consiglio esecutivo e le dimissioni dei componenti il medesimo stesso e, infine, le modalità per modificare lo statuto.

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Più articolato e vivace si rivelò il dibattito in merito al nome che avremmo dovuto dare alla nuova organizzazione. Le proposte, naturalmente, non mancarono e furono le più disparate e diversamente motivate. Alla fine si

registrò un’ampia convergenza intorno a quella che, in seguito, sarebbe stata la denominazione definitiva: Circolo Culturale di Mola. La ragione principale che aveva fatto pendere il favore dei più in direzione di tale proposta era costituita dalla circostanza che, la maggior parte dei partecipanti era originaria di Mola di Bari. Tuttavia, uno dei principi basilari posti a fondamento del nuovo sodalizio, oltre che il più significativo, fu quello secondo il quale tutti potevano far parte del circolo senza distinzione alcuna. Principio che, come abbiamo visto, viene ripreso al primo punto dello statuto approvato qualche anno più tardi. Relativamente agli altri elementi fondanti la nuova organizzazione, quali possono rilevarsi dall’articolo a firma di Vito C. e Mino G., apparso nel primo numero, spiccano, la partecipazione delle famiglie e la voglia di mettere al bando il gioco delle carte e quant'altro. Si trattò, come è facile intuire, unicamente di dichiarazioni di intenti che, col tempo, furono disattese o poco

osservate sul piano sostanziale. Dopo esserci dati un organigramma e un programma di massima, si trattava di passare alla fase operativa. Quindi, mettere in pratica le tante idee che ci avevano visti impegnati a discutere per giorni e giorni. Al fine di evitare confusioni, si decise, in un primo momento, di affidare a gruppi distinti le varie attività che si aveva intenzione di portare avanti. Per cui ad un gruppo fu affidato il compito di mettere insieme un corpo redazionale per la realizzazione del giornale. Un altro si impegnò a portare avanti il discorso delle rappresentazioni teatrali; un altro ancora si fece carico della nascente biblioteca. L’entusiasmo iniziale ci vedeva impegnati intensamente anche su più fronti. Ognuno si sforzava di dare tutto quanto era nelle sue possibilità per vedere decollare quello che, inizialmente, appariva come un traguardo diffi cilissimo ed irraggiungibile. Vi fu un periodo più o meno lungo che potremmo definire di rodaggio. Si cominciò a provare una commedia dal titolo Non tutti i ladri vengono per nuocere, di Dario Fo. Mano a mano che il tempo passava cominciavano a concretizzarsi i primi risultati. La biblioteca si arricchiva di numerosi libri provenienti dalle collezioni private degli aderenti al circolo mentre, anche se con notevoli difficoltà, si riuscì a raggiungere il primo grosso risultato con la pubblicazione del primo numero del giornale. Nonostante i vari aspetti, in positivo e in negativo, di cui quel gruppo era portatore, la nascita del Circolo Culturale risultò indubbiamente benefica per la comunità molese. Quella nuova realtà, pur nella sua eterogeneità e peculiarità di fondo, rappresentò, oltre alla voglia di alcuni giovani di voltare pa91

gina con il tipo di cultura e mentalità fondamentalmente conservatrice imperante, una rottura con le incrostazioni del passato e con tutto ciò che conti-

nuava a perpetuarsi in maniera costante negli anni. ‘A questo proposito È opportuno evidenziare che iMolesi, come pure altri Italiani originari di altre regioni, anche se non in maniera così marcata come in passato, tendevano a riprodurre e a mantenere al di là dell’oceano, un modo di pensare e di agire proprio del paese di provenienza. Insomma, un modello culturale e di vita indirizzato a trapiantare, in quella realtà così diversa, il microcosmo della piccola comunità rurale. Un paradigma comportamentale dove tutto, o quasi tutto, era rimasto immutato negli anni e nei decenni. Una realtà, quella delle comunità meridionali di Brooklyn, in netta contrad-

dizione con la cultura aperta e moderna che imperava nella grande mela. Anche se erano trascorsi non pochi lustri da quando i primi Molesi si erano stabiliti in America e, in particolare a Brooklyn, ciò che colpiva il nuovo arrivato era proprio il mantenimento di usanze e costumi tradizionali che, al paese d’origine, ormai, non usavano più da tempo. Probabilmente ciò rappresentava una forma di autodifesa rispetto ad un ambiente estraneo, con una lingua, una storia e una cultura diverse e, perché no, con un tasso di violenza otevolmente più elevato se paragonato alla tranquillità dei piccoli comuni italiani dello stesso periodo. Mentre a livello istituzionale si tentava di imporre un modello di vita di tipo anglosassone - abbiamo fatto cenno alla teoria del Melting Pot o crogiolo - a questo, si affiancavano e si intrecciavano altre culture di cui erano portatori i tantissimi gruppi etnici presenti in un contesto sociale multirazziale. La tendenza a chiudersi a riccio e su se stessi non faceva che posticipare nel tempo l’integrazione sociale del gruppo etnico italoamericano. Una mentalità che ha comportato un notevole ritardo nell’imporsi all'attenzione del paese come gruppo etnico a se stante e fiero della propria storia, della propria cultura e tradizioni. A Mola, come del resto negli altri comuni del meridione, con gli anni, erano cambiate tante cose. Era mutata, soprattutto, la mentalità dei giovani e il costume si era evoluto con notevoli trasformazioni in direzione della modernità. Pur tuttavia, nonostante il contesto sociale americano fosse all’avanguardia in tema di libertà individuali, non si aveva lo stesso riscontro nell’ambito della comunità italiana in generale e di quella nostrana in particolare. Da un lato il paese ospitante progrediva a ritmi sempre più sostenuti, dall’altro inostri concittadini restavano ancorati al proprio passato, alle proprie origini contadine e marinare. I nuovi immigrati, invece, per lo più giovani, avevano avuto la possibilità di andare a scuola e di avere, quindi, un bagaglio di conoscenze più elevato. Peraltro, alcuni avevano vissuto, anche se in forma passiva, l’esperienza del

‘68. Non ci sarebbe da meravigliarsi se oggi, a distanza di oltre trent'anni da 92

quell’epoca, molti nostri concittadini ignorassero cosa ha rappresentato quel periodo. Cosa ha significato per l’Italia (nel bene e nel male) il movimento culturale nato in quel particolare contesto storico. Si è trattato di un fenomeno internazionale che ha prodotto una svolta epocale nella vita di quei paesi che l’hanno conosciuto. Per quel che concerne l’Italia, quel movimento, pur con tutti i suoi limiti

e le sue degenerazioni, ha avuto il merito di avviare ed accelerare il processo di democratizzazione ancora in atto. Basti pensare al divorzio e ai diritti civili acquisiti da vasti strati della popolazione e, in particolare da parte delle donne. Non è errato affermare essersi trattato di una grossa spinta riformatrice per il nostro Paese. Nello stesso torno di tempo, per esempio, gli Stati Uniti erano impegnati militarmente nel Vietnam. Gli studenti americani - e tra costoro molti italiani - manifestavano con grande determinazione contro quel conflitto e l’amministrazione americana guidata dal presidente Lyndon B. Johnson. Ad eccezione dei pochi ‘non inquadrati’ e dei ‘liberi’, non siamo lontani dalla realtà

quando sosteniamo che la gran parte degli emigranti era rimasta passiva spettatrice - nella migliore delle ipotesi - rispetto a quegli importanti avvenimenti. Anche in America molte cose sono cambiate grazie alla presa di coscienza degli americani relativamente alle tematiche legate all’intervento armato nel Sud Est asiatico. Buona parte dei nostri conterranei, già atavicamente apatici a una qualsivoglia forma di partecipazione, probabilmente non ha avvertito quanto si stava verificando intorno a loro in quel particolare momento storico. Quello che interessava maggiormente la gran parte degli immigrati era il lavoro e il conseguente guadagno. Si può ben dire, a questo punto, che gli emigranti arrivati a Brooklyn durante il decennio 1970 - 1980, si caratterizzavano per una peculiarità: erano i rappresentanti dell’ultimo flusso migratorio che avrebbe determinato il cambiamento. Nel contesto sociale ‘chiuso’ dei Molesi, solo una forza prove‘mente dall’esterno avrebbe potuto dare avvio a quel processo che, diversa“mente, si sarebbe realizzato chissà quando. Lo scontro generazionale, inevitabile, tra il vecchio e il nuovo, all’interno della comunità molese, rappresen-

tato dalla coabitazione del nostro gruppo in seno al Caduti di Superga, non si fece attendere a lungo. Dopo i primi mesi di ‘felice’ convivenza, o sarebbe

più corretto dire di reciproca sopportazione, cominciarono a manifestarsi i primi dissapori e le inevitabili incomprensioni. In buona sostanza, alcuni soci del circolo ospitante non vedevano di buon occhio la nostra presenza sotto lo stesso tetto. Indubbiamente non digerivano la circostanza che in quella stessa ‘casa’, la loro, dovessero convivere due anime, due gruppi diversi. Effettivamente si trattava di due associazioni con nomi distinti e finalità diverse. E, questo, non garbava molto a coloro che coltivavano, da tempo, la spe| ria e ces

Li

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ranza di poter riunire i vari circoli molesi sotto lo stesso tetto. Il ‘loro’, naturalmente. A questo proposito, i medesimi, non perdevano occasione per far rilevare che, a differenza degli altri clubs, ‘loro’ potevano vantare la proprietà dell'immobile dove sorgeva il Caduti di Superga. Come è stato già detto, l’edificio dove era ubicata la sede del Superga era stato acquistato dagli stessi soci i quali detenevano ciascuno un certo numero di azioni. Da qui la logicità del loro ragionamento: perché avere più circoli? A che scopo pagare il fitto per questi locali quando si poteva contare su una ‘casa comune”? Il nome da dare alla nuova associazione, che doveva riunire

le diverse anime esistenti, e altre questioni erano dettagli che potevano essere facilmente superati. La cosa fondamentale era la fusione dei sodalizi che dovevano avere una sede unica, una direzione e una sola amministrazione. Il sogno di egemonizzare tutto non è ancora stato realizzato anche se non sono mancati altri tentativi di riavvicinamento. "A tal uopo, appare particolarmente difficile realizzare una fusione di tutti f i circoli. E, questo, per una ragione molto semplice. L’area metropolitana è ( molto vasta. Brooklyn, per esempio, risulta al quarto posto negli Stati Uniti — in quanto a superficie urbana. Quindi, gioco forza, vi è la tendenza ad avere un luogo di ritrovo il più vicino possibile alla propria abitazione. Immaginare che un lavoratore, d’inverno, abbia la voglia di mettersi in macchina per

raggiungere un altro rione è, quanto meno, arrischiato. Diverso è ipotizzare un nome identico sotto il quale far convergere i vari clubs disseminati nell’area metropolitana riuniti in federazione. Ovviamente lasciando a ciascuno la possibilità di poter gestire quelle attività che riterrà opportuno promuove-

re’. Relativamente alle vicende del passato, va detto che noialtri sentivamo di avere creato una diversa entità, al punto da avvertire la necessità di autotassarci. Ciò al fine di poter contare su un fondo da cui attingere per le spese immediate ed inevitabili che si sarebbero presentate. Almeno da questo punto di vista era importante conseguire con immediatezza l'autonomia. Inoltre, al fine di prevenire incomprensioni, anche perché avevamo bisogno di mantenere buoni rapporti con chi ci aveva ospitato, fu deciso di destinare una quota di quelle somme per pagare, almeno simbolicamente, una sorta di pigione al Caduti di Superga. Col passare dei giorni i contrasti si verificavano con sempre maggiore frequenza. Ogni situazione diventava un pretesto, un’occasione, per recrimi-

° In tema di fusione è sufficiente richiamare le scissioni che si sono consumate tra il Caduti di Superga e il Circolo Culturale. La prima nel lontano 1974; 1’ ultima, in ordine di tempo, quella del 1992. I due circoli, nel 1994, erano ubicati a un isolato di distanza. Circa cinquanta metri l’uno dall’altro.

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nare da entrambe le parti. Per capire i termini del disaccordo è sufficiente richiamare la circostanza secondo cui i nuovi aderenti al Circolo Culturale dovevano ottenere una sorta di benestare da parte della dirigenza del Caduti di Superga. Come dimenticare, l’imposizione di escludere dalle riunioni una persona da loro non gradita; anche se è passato molto tempo e il fatto si concluse senza il nostro intervento, il solo ricordo della situazione spiacevole in

cui fummo coinvolti, è per me motivo di sconforto e perfino di rabbia ancora oggi. Le ragazze che frequentavano la nostra organizzazione, tutte nubili e giovani, erano guardate con un misto di piacere e un tantino di sospetto. Il loro impegno, la loro presenza tra gli uomini, l’atteggiamento disinvolto e la naturalezza con la quale si comportavano, rappresentavano evidentemente altrettanti motivi per infastidire le persone più anziane, non abituate a quel genere di convivenza. Ben presto, e non poteva essere diversamente, le contumelie e il pettegolezzo più becero ebbero il sopravvento. Ancora una volta la cultura paesana si manifestava nelle sue espressioni più negative e in tutte le sue sfumature tendenti a demolire una qualsiasi possibilità di cambiamento. L’epilogo di quella coabitazione, fondata sul sospetto e sulla reciproca sopportazione, si ebbe nell’estate del 1974. Non era ancora trascorso un anno da

quando ci eravamo riuniti per la prima volta. Nel frattempo, da qualche settimana, avevamo preso l’abitudine di incontrarci, la domenica pomeriggio, presso un parco ubicato all’intersezione della 75.ma strada con la Bay Parkway. Un ampio viale alberato che conduce fin sulle sponde dell’ Hudson River dove si può ammirare il ponte che porta il nome di Giovanni Da Verrazzano. Si voleva, in quel modo, importare a Brooklyn la passeggiata domenicale comunemente conosciuta come ‘lo struscio’. Un’ antica consuetudine ancora molto in voga al paese?. Le cose precipitarono al punto che, una domenica sera, mentre la gran parte dei soci si trovava a passeggio in quel parco, pervenne la comunicazione di una assemblea straordinaria e perciò senza il crisma della convocazione ufficiale. Ma tant'è, le cose andavano avanti alla bene meglio e senza regole. In quella riunione fu deciso, non senza qualche momento di tensione tra i presenti, di separarci dal Caduti di Superga e trasferirci presso una sede diversa. Ovviamente non tutti condividevano una scelta così drastica, peraltro

già decisa, proprio da coloro che avevano avuto il merito di quell’iniziativa. Il distacco avvenne in maniera traumatica. Non mancarono gli scontri verbali e anche fisici tra alcuni componenti i due circoli. Va da sé che, in se° Era stato Gioacchino Di Giorgio ad avere quell’idea, a quel tempo incaricato delle attività ricreative e attualmente uno degli speaker, annunciatore, di Radio Azzurra, una emittente che trasmette per tutta l’area metropolitana, con sede nel New Jersey.

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guito, su quell’episodio, si pensò opportuno stendere un velo pietoso. A distanza di un mese o giù di lì, grazie alla tenacia e alla testardaggine di Cassano, il Circolo Culturale di Mola riaprì ufficialmente la propria sede al civico 6110 della 20.ma Avenue; tra la sessantunesima e la sessantaduesima strada. Ad appena otto isolati di distanza dai ‘nemici’ di alcuni di noi. L’apertura di quella sede, nonché una ubicazione così ravvicinata fu interpretata dai più intransigenti e facinorosi del Superga, come un affronto, una sfida o un dispetto nei loro confronti. Superfluo dire che tutto ciò non rispondeva al vero. Avevamo avuto, anzi, la disponibilità di un locale quasi di fronte alla sede del Superga. In quella circostanza non avevamo ravvisato l’opportunità di utilizzarlo proprio in ragione dell’estrema vicinanza. La nuova dislocazione e la ‘libertà’ di poter decidere delle nostre azioni e del nostro futuro, rappresentavano, senza dubbio, elementi decisivi e positivi. Potevamo, finalmente, operare senza condizionamenti, apparenti o meno, al-

lo scopo di poter realizzare quegli obiettivi che ci auguravamo di raggiungere attraverso tutta una serie di iniziative da mettere in cantiere. Frattanto, il nostro periodico, L’/dea, dopo quella pausa forzata di breve durata, riprese le pubblicazioni con cadenza bimestrale. Furono organizzate mostre di pittura”, altre gite e, grazie alla maggiore disponibilità di Giuseppe Scorcia - nominato direttore per le attività teatrali, a seguito del rinnovo del consiglio esecutivo del 24 novembre ‘74 - , ripresero le prove della commedia di Dario Fo”. La rappresentazione della medesima, dopo alterne vicende, si concretizzò intorno alla fine del 1977. La stessa va in scena nei giorni 9, 10 e 11 dicembre 1977 come annunciato nel numero 24 dell’Idea. Come è facile constatare, la rappresentazione teatrale fu realizzata a distanza di ben quattro anni dalla nascita del Circolo Culturale. È vero, infatti, che, col passare del tempo, l’entusiasmo, la tensione e la volontà di fare, che

avevano caratterizzato i primi mesi di vita, cominciavano pian piano a scemare per lasciare il posto all’ozio e al disinteresse. Anche nel nostro club, nel frattempo, avevano preso piede quel tipo di attività che hanno ben poco di istruttivo. Si preferivano, alle iniziative più squisitamente intellettuali, il gioco delle carte che, in un primo tempo avevamo bandito; venivano organizzate spesso feste da ballo, partite di calcio, gite al mare o in montagna. Insomma venivano privilegiati gli aspetti tipicamente socio-ricreativi, senza dubbio importanti, mentre si perdeva di vista, col passare del tempo, il vero scopo per cui avevamo dato vita a quel nuovo sodalizio. Le persone disposte La prima in ordine di tempo vide quale protagonista il concittadino Natale Rotondi. E utile ricordare che i primissimi protagonisti di quella commedia, sempre con la regia di Scorcia, furono, oltre all’autore di queste pagine, Angela Maria Casucci e Carmela Barravecchio.

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a collaborare o a dare un contributo fattivo per iniziative nuove, ma soprattutto per continuare a portare avanti quelle già esistenti come il giornale, erano sempre meno. Proprio L’/dea, per esempio, continuava a sopravvivere grazie all’impegno di pochissime persone che, proprio per questo, avvertivano un senso di emarginazione dal resto del gruppo e di frustrazione per un impegno misconosciuto. Questo stato di cose non prometteva nulla di positivo. Fu per questa ragione che in occasione del rinnovo delle cariche sociali, sul finire del 1974,

mi candidai alla presidenza dichiarando formalmente che, in caso di elezione, quale primo atto irrinunciabile, avrei eliminato l’aggettivo ‘culturale’ che campeggiava sull’insegna all’esterno dei locali. Ciò in sintonia con la mancanza assoluta di iniziative riconducibili in qualche modo a qualcosa che avesse un intento di quel tipo. Naturalmente non fui eletto a quella carica. Altrettanto avvenne relativamente alla proposta di candidatura alla vice presidenza. In quella stessa circostanza, però, il comitato di redazione mi nominò direttore responsabile del periodico. Tale scelta, evidentemente, era motivata non da ragioni di cuore bensì da questioni di altra natura. Certamente non per motivi di bravura, quanto di affidabilità. Di persone brave che avrebbero potuto scrivere cose più interessanti ce n’erano diverse. Nel prosieguo della vita del circolo non mancarono di verificarsi episodi poco edificanti oltre che manifestazioni di insofferenza e intolleranza dettate da quelle che si potrebbero definire eufemisticamente debolezze umane. È vero, infatti, che man mano che il tempo passava, prendevano il sopravvento comportamenti diametralmente opposti alle finalità di cui avevamo sempre menato vanto. Il Circolo Culturale era diventato, ormai, simile a un ritrovo

mondano, l’ultima spiaggia. Il luogo dove darsi convegno con la propria ragazza per trascorrere un po’ di tempo in dolce compagnia. Naturalmente i matrimoni che maturarono grazie al circolo sono stati diversi, e, per quanto

ci consta, tutti riusciti. Almeno sotto questo profilo il club si è dimostrato un elemento ‘unificante’ e socializzante. Il problema più spinoso e che cresceva come un bubbone, era rappresentato dal fenomeno sempre più accentuato del pettegolezzo e della maldicenza. Questi ‘ingredienti’ avevano finito col soppiantare 1 sani principi iniziali. I risultati nefasti di quel modo di fare e di pensare non tardarono a manifestarsi in tutto il loro squallore. La vera essenza della nostra cultura provinciale, di una maniera singolare di interpretare i rapporti sociali, la incapacità di assolvere alle più elementari regole della civile convivenza, avevano preso il sopravvento su tutto il resto. Si arrivò al punto che, proprio gli ideatori di quel progetto che, inizialmente, appariva rivoluzionario, furono espulsi dal

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circolo a seguito di un modo peculiare e personalistico di intendere i rapporti interpersonali. Un altro elemento meno importante, ma non per questo ininfluente, era dato dal fatto che i membri disposti a fare le pulizie dei locali diminuivano man mano che il tempo passava. Si da il caso che in una qualsiasi associazione, indipendentemente dal contesto sociale in cui questa interagisce, vi è la necessità di adempiere a compiti che possono anche apparire poco qualificanti, ma che sono indispensabili, come appunto la pulizia degli ambienti. A tal uopo fu deciso che coloro che non partecipavano a questa incombenza avrebbero dovuto pagare una sovrattassa da devolversi in favore di chi, invece, si accollava questo onere. Naturalmente si verificò quello che era facile prevedere: un numero sempre maggiore di persone preferiva pagare la multa anziché effettuare il proprio turno di pulizie. Si può ben dire che, da quelle parti, principi quali la correttezza, la serietà e un comportamento improntato in termini civili, appartenevano a un altro pianeta. In altre parole, quando non si riusciva a sbarcare il lunario da qualche altra parte, l’alternativa era, appunto, la sede del Circolo Culturale di Mola. Questo modo di fare si amplificò al punto che, per le elezioni del 1975,

non vi erano candidati disponibili ad assumere alcuna carica dirigenziale. Candidarsi significava automaticamente dover assumere determinati impegni e, di conseguenza,

attivarsi per la loro realizzazione. Invero, a distanza di

due anni dalla nascita del circolo, vi era stato un notevole ricambio tra i soci che continuavano a rimanere in numero costante senza mai superare le trenta unità. Alla luce di quanto appena descritto e per altre ragioni che vedremo meglio nel capitolo seguente, decisi di disimpegnarmi da ogni attività e rinunciai a candidarmi a qualsiasi carica. Ormai avevo preso a frequentare il club sempre più saltuariamente, partecipando a quelle iniziative che ritenevo valide dal punto di vista sociale e ricreativo. Non era certamente quello il tipo di impegno che avevo prefigurato al momento di aderire a quella ‘idea’. Tuttavia la realtà, di cui non potevo fare a meno di prendere atto, aveva plasma-

to le cose in quel modo. Va aggiunto, infine, che, nel 1989 i due circoli maggiormente citati in questa breve cronistoria, si erano uniti dando vita a una nuova organizzazione che aveva assunto la denominazione di ‘Caduti di Superga - Circolo Culturale di Mola, Inc.”. A distanza di qualche anno, tuttavia, come è stato già ricordato, si registrava una nuova rottura dei rapporti tra queste due anime in eterno conflitto. I soci che facevano riferimento al Circolo Culturale decidevano di trasferire la propria sede all’angolo della 70.ma strada sempre sulla 20.ma Avenue. Infine, nel mese di marzo del 1999, ho appreso che il Circolo Culturale di Mola aveva chiuso i battenti ormai da tempo. 98

AR, 09 Una casa per abitare ... e per lucrare! A partire dalla fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, si è avviato un processo di ridislocazione sempre più marcato con massicci trasferimenti dal quartiere di Carroll Gardens verso Bensonhurst e Bay Ridge. I nostri concittadini sono stati tra i maggiori protagonisti di questo ‘trasloco di massa’ dal quartiere che li aveva visti arrivare poveri in canna, ma con tanta voglia di migliorare. I Molesi che si trasferivano lo facevano prevalentemente perché acquistavano un’abitazione in proprietà, realizzando così l’obiettivo principale e lasciandosi alle spalle le vecchie brownstone houses: edifici in stile vittoriano, simili a casermoni, che li avevano ospitati per tanti anni dopo l’arrivo dall’Italia nel nuovo mondo. A distanza di qualche anno trascorso all'insegna di grossi sacrifici per mettere da parte un po’ di soldi, potevano finalmente coronare un sogno inseguito per tanto tempo. Un traguardo che, per gli italiani, rappresenta, da sempre, la realizzazione della propria esistenza: possedere una casa. Il significato sotto un profilo più sociologico può essere ricercato dalla esigenza fortemente avvertita, di riscattarsi nei confronti di un passato caratterizzato dalla povertà e andare a vivere in una dimensione diversa. In primo luogo scegliendo un rione residenziale e, quindi, con un ruolo da proprietario e non da affittuario; il che non è poco se si considera il dato socioeconomico di partenza. Il tipo di abitazione che riscuoteva maggiore consenso tra i nostri concittadini e tra gli altri emigrati di origine italiana in genere, era la casa così detta ‘a due famiglie’. Non mancavano, altresì, coloro che acquista-

vano case a tre o a quattro famiglie. Eccezionalmente si preferivano gli apartment houses, edifici con un numero di alloggi variabile da otto ed oltre, i quali richiedevano un investimento iniziale più consistente. Coloro che, in-

vece, potevano permettersi di acquistare l’abitazione a una famiglia si potevano contare sulle dita di una mano. Abbiamo già visto in precedenza la predisposizione dei vari livelli di cui è costituita la casa a due famiglie. Il basement, seminterrato e utilizzato come zona giorno dal proprietario. Il piano rialzato (la parte più importante della casa) destinato a zona notte e da mostrare a parenti e amici. Da questa devono emergere chiaramente le condizioni socioeconomiche dei proprietari. Oltre ai servizi, cucina e bagno,

vi si trovano le stanze da letto in numero di

due od anche tre, a seconda della grandezza dell’abitazione stessa. Immancabile il salone, il living room, utilizzato, all'occorrenza, come soggiorno 0 sala da pranzo. Naturalmente vi possono essere variazioni a seconda dell’ampiezza della superficie, del numero dei componenti il nucleo familiare e

delle variegate esigenze di ogni singola famiglia. Il tutto, ovviamente, indirizzato al tipo di messaggio che si intendeva e si intende trasmettere ai cono99

scenti attraverso la disposizione degli interni e dell’arredamento. Un dato abbastanza diffuso è comunque quello che il piano di cui ci stiamo occupando, deve essere mantenuto sempre curato e pulito ad evitare che l’eccessiva presenza o il calpestio possano pregiudicarne l’estetica e, quindi, l’immagine di chi vi abita. Tutto questo, a distanza di anni, non ha subito grandi trasformazioni se non per quanto attiene ristrutturazioni interne o esterne dirette a mantenere l’abitazione al passo con i tempi e in grado di reggere il mercato immobiliare in costante e inesorabile aumento. Va detto subito che anche dalle nostre parti le cose non sono poi tanto diverse, almeno per quanto riguarda il mantenimento di alcuni ambienti ‘finemente’ arredati, mai utilizzati perché conservati, a certi livelli, ad esclusivo ‘uso’ dei visitatori.

Il piano superiore, come già ricordato, è destinato all’inquilino o agli inquilini nel caso di abitazione a tre famiglie. Il padrone di casa, per prassi, è tenuto a fornire l’abitazione da locare di un frigorifero, del piano cucina e degli armadietti o dei pensili, nel migliore dei casi; sulla falsariga delle nostre cucine componibili, oltre che del riscaldamento necessario per rendere la stessa confortevole durante il periodo invernale. Un discorso a parte meritano i pavimenti. Questi, solitamente, vengono ricoperti da tappeti di linoleum che l’inquilino acquista a proprio piacimento. Superfluo osservare che, tanto più le condizioni dell’alloggio sono buone, tanto maggiore potrà essere la richiesta di fitto nei confronti dei potenziali affittuari. Nel 1980 il canone di locazione di un appartamento di media grandezza tre vani più i servizi - in particolare nelle zone di Bensonhurst e Bay Ridge, oscillava da un minimo di duecento dollari fino a superare, in qualche caso, i .

trecento dollari mensili. Attualmente quei valori sono più che raddoppiati. Vi sono alloggi il cui fitto sfiora anche i mille dollari al mese; intorno ai due milioni al cambio attuale. Il tutto in relazione, naturalmente, al quartiere dove è

ubicata l’abitazione. Negli ultimi tempi, per esempio, con l’arrivo di altri gruppi etnici quali i Cinesi, i Russi, gli Jugoslavi, eccetera, che si sono riversati proprio nei dintorni della 18.ma Avenue, i prezzi tendono a mantenersi stabili. Anche se, va detto che, quegli arrivi, hanno prodotto l’allontanamento degli italoamericani, verso altri quartieri meno affollati e più ‘ricerca-

ti°. I più si sono trasferiti nello Staten Island, al di là del ponte di Verrazzano, ai confini con lo Stato del New Jersey.

Per quel che riguarda le case a tre o quattro famiglie, per restare ancora nel tema della descrizione, troviamo le seguenti varianti. Nel primo caso (casa a tre famiglie) al primo piano gli alloggi sono due: quindi per due inquilini. Nel secondo caso (quattro famiglie) a parte il basement, quasi sempre ad uso esclusivo del proprietario, troviamo due appartamentini al piano rialzato; di cui uno si affaccia sulla strada, solitamente ad uso del padrone di casa, e 100

uno sul retro per l’affittuario. Idem al primo piano. In conclusione, l'aspetto che più caratterizza queste case, e che le rende più o meno interessanti sotto un profilo economico, è dato dalla entità delle rents, delle pigioni, che i proprietario riesce a percepire ogni mese. Da quanto detto, è facile intuir quale sia la casa che richiede un capitale più consistente: nella gran parte de casi, quella a quattro famiglie e così via. Ciò in ragione dell’alto investimen to iniziale, pur se attenuato dal discreto introito legato con il numero maggiore di canoni. Il valore dell’immobile, infine, viene influenzato non poco dalla presenza o meno della tanto decantata yard, il giardino, e del garage. Relativamente alla yard vi sono abitazioni disegnate in modo tale da avere il verde sia davanti alla casa che sul retro. Come pure dicasi dei garage. Solitamente ve n’é uno, ma non mancano abitazioni con due garage e, in alcuni casi, anche più. Una connotazione che caratterizza l’urbanistica di Bro-

oklyn, così come degli altri Boroughs, borghi, come il Queens, il Bronx e lo Staten Island, è l'assenza dei balconi. Caratteristica, questa, prevalente delle

brownstone houses di cui si è detto in precedenza. La costruzione può avere o meno una sorta di veranda, il porch, sul davanti o sul retro ma, niente balconi. Inoltre non vi è il lastrico solare e, quindi, lo sciorinio dei panni avvie-

ne all’interno della casa - in inverno - o servendosi di funi volanti all’esterno, nel periodo estivo. Naturalmente non mancano le abitazioni dove sono presenti le asciugapanni. Infine, tutte le case sono costruite prevalentemente in legno, ad eccezione delle strutture portanti. Questo spiega la ragione dell’alto tasso di incendi che si registrano annualmente. Gli apartment houses, proprio per i tanti appartamenti di cui sono costituiti - ve ne possono essere anche più di trenta - richiedevano e richiedono una somma iniziale non alla portata di tutte le tasche. Ma c’è di più. Se questo consente la riscossione di un numero superiore di canoni di affitto, per converso, presenta, oltre all’inconveniente di avere numerosi inquilini con

tutte le problematiche a ciò connesse, la necessità di una maggiore attenzione per tenere l’edificio nelle condizioni migliori. Senza parlare della esigenza ineludibile di fare ricorso ad un superintendent, un sovrintendente, al quale affidare la manutenzione ordinaria dello stabile, inclusa quella alla caldaia per il riscaldamento e l’approvvigionamento del combustibile. Ciò in cambio dell’alloggio gratuito per l’interessato. A prescindere dalle caratteristiche dei diversi tipi di case, quello che interessa sottolineare in questa sede è l’aspetto squisitamente economico relativo all’acquisto e al conseguente pagamento. Come abbiamo visto, le caratteristiche delle costruzioni americane sono pensate per agevolare e facilitare l’acquisto dell’abitazione. Anche se questo, per certi versi, si consuma a scapito dell’inquilino. Non è errato affermare che la casa è fatta per abitare e per lucrare al tempo stesso. Ovviamente, tutto ciò è possibile per ragioni di scel101

te politiche macroeconomiche. Vediamo per quali ragioni, seguendo l’iter attraverso il quale siamo arrivati a formulare una tesi che può apparire ideoogicamente orientata.

Vi è certamente un periodo iniziale non facile per l’acquirente, il quale deve far fronte, in primo luogo, al down payment, l’acconto, da versare all’alienante al momento della compravendita. Quindi si devono pagare le rate del mutuo alla banca che ha concesso il prestito. Il problema maggiore è dato oltre che dal dover fronteggiare subito la situazione con una discreta i somma, anche dalla instabilità del posto di lavoro che caratterizza la realtà del mercato in America. Infatti, nella maggior parte dei casi, quasi nessuno può fare affidamento su un reddito certo come lo si intende in Italia dove,

come sappiamo, vi è una maggiore stabilità lavorativa. Come avremo modo di vedere nei capitoli seguenti la realtà produttiva degli Stati Uniti è caratterizzata da un notevole turn over, ricambio, dei lavoratori, da forte mobilità e da una flessibilità quasi illimitata. Quindi, in America, il rischio, per chi decide di acquistare la casa, è sicuramente più elevato

rispetto a chi sceglie di vivere in affitto. Ancora più rischioso può rivelarsi se si pensa che, in caso di infermità, può venire meno l’unica fonte di reddito. Anche se si lavora prevalentemente in due, non mancano i casi di nuclei familiari monoreddito. Tuttavia, eccettuate le situazioni di cui ci siamo appena occupati, nel lungo periodo, quello dell’abitazione si rivela un investimento altamente produttivo. Dopo i primi anni di immancabili sacrifici per il pagamento delle rate mensili, in seguito, quando le entrate delle pigioni cominciano a superare le uscite legate alle spese complessive della casa, la strada è tutta in discesa. Ma c’è di più. Man mano che passano gli anni, aumentano sia il reddito riveniente dai canoni, sia quello da lavoro e diminuiscono, per converso, le uscite. Si perviene, in questo modo, al raggiungimento di uno stadio per cui, una volta pagata la rata del morfgage, l’ipoteca, l'acquisto dell’abitazione si traduce in una ulteriore fonte di guadagno. I più ‘esigenti’, per esempio, decidevano di utilizzare per sé, soltanto il piano rialzato, dando in locazione anche il basement al fine di garantirsi un

reddito più elevato. Tutto ciò, naturalmente, a scapito di una esistenza più decente e dignitosa. Tale espediente è ancora diffuso anche se non in maniera così accentuata come nel passato. Se si considerano per un momento quelle situazioni dove l’inquilino ha abitato la stessa casa per un lungo periodo di | tempo- venti o anche trent'anni - , non è azzardato ipotizzare che il costo \complessivo di quella abitazione è stato pagato al cinquanta per cento da \quest’ultimo. Con non poche differenze sostanziali. Il proprietario, a parte la \responsabilità e il sacrificio iniziali di cui si èè detto, ha rischiato una deterai somma che, dopo un certo numero di anni, può raddoppiare, triplica102

re e, in alcuni casi, anche decuplicare. Inoltre ha potuto godere del garage, del giardino, del ‘rispetto’ dell’inquilino e del vicinato oltre che dei proventi rivenienti dal reddito o dai redditi degli alloggi, a seconda che si tratti di uno O più appartamenti. A quest’ultimo proposito appare interessante riportare quanto afferma Lundberg: “Mentre il locatario paga, sotto forma di canone d’affitto, tutte le spese della casa, compresi gli interessi ipotecari e le tasse che dovrebbero gravare sul locatore, il residente in casa propria può detrarre dal reddito, ai fini fiscali, gli interessi passivi sul mutuo ipotecario e le imposte per valore locativo da corrispondere all’amministrazione municipale”. In buona sostanza per l’inquilino si è trattato unicamente di ‘buttare’ letteralmente dalla finestra una considerevole somma di denaro. Ma, di questo,

non vorremmo attribuire alcuna colpa o responsabilità a chi ha avuto il coraggio di rischiare o, peggio ancora, di chiedere un grosso prestito e dover lavorare ventiquattro ore al giorno per poterlo restituire. Si voleva soltanto far notare come talune scelte di politica economica di un paese possono rivelarsi positive per taluni cittadini e negative per altri. È chiaro che, in ultimo, chi governa deve operare delle scelte nelle varie materie. Ecco perché, non appena si è nelle condizioni di poterlo fare, bisogna investire su un immobile. A Brooklyn, come nella gran parte dell’area metropolitana, il mercato immobiliare si è sempre dimostrato, tra i vari investimenti produttivi, il più redditizio. Chi ha avuto l’accortezza di acquistare una casa negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta e l’ha poi rivenduta - anche se a distanza di poco tempo - ha potuto capitalizzare, in un lasso di tempo molto breve, guadagni rilevantissimi. Sono consapevole di aver commesso un grossissimo errore nel non aver investito per l’acquisto di una abitazione. Avendo avuto tale accortezza, magari rinunciando ad altre cose meno importanti e con l’aiuto di qualcuno, la situazione economico finanziaria, al rientro

in Italia sarebbe stata di gran lunga più positiva. In conclusione, non poche persone, disponendo di un piccolo capitale iniziale, si sono tuffati anima e corpo nel settore immobiliare facendo un sacco

di quattrini. Il sistema era e rimane quello di acquistare immobili - preferibilmente ubicati in aree degradate, quindi a bassissimo costo - , ristrutturarli alla meno peggio e rivenderli non appena i prezzi riprendono a salire. Molte grosse imprese edili che possono contare su una liquidità rilevante e una affidabilità discreta presso le banche, usano questo sistema ben rodato. Il meccanismo è più o meno il seguente. In un primo momento, talune aree abitate interamente da bianchi cominciano con l’essere ‘accerchiate’ - nel senso che Sci

? FERDINAND LUNDBERG, op. cit., pag. 267.

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alcune case vengono acquistate o date in fitto a gente di colore - e, col tempo, abbandonate dagli originari abitanti. A questi si sostituiscono i negri, i portoricani ed altri gruppi etnici che, per la loro cultura e, probabilmente, per ragioni socioeconomiche, contribuiscono inevitabilmente al depauperamento del quartiere. A ciò si aggiunge il disinteresse delle autorità municipali che, sembrano interessate a che le cose vadano nel senso appena descritto. Quando la zona in questione ha raggiunto il massimo degrado, intervengono acquisti a catena da parte di personaggi che pensano a rimodernare e ristrutturare il tutto. Talvolta radendo al suolo quanto è rimasto, realizzando, al ter-

mine dell’operazione, favolosi guadagni con il benestare delle amministrazioni locali. È proprio vero quanto sostiene in proposito Richard F. Hamilton (sociologo politico della Princeton University): “sono molti gli imprenditori di ogni genere che hanno scoperto che nella miseria c’è nascosto un mucchio di soldi”. Un'ultima annotazione è utile evidenziare per quel che riguarda, invece, le case a una famiglia. Cioè quelle abitazioni utilizzate esclusivamente dal proprietario. Questo tipo di investimento si è sviluppato intorno agli anni Settanta in sintonia con l’aumentato stato di benessere della società americana in genere e legato anche alla vendita delle vecchie abitazioni. L’area che, almeno negli ultimi tempi, ha incontrato il favore dei Molesi e degli italiani in genere è quella dello Staten Island che ha conosciuto recentemente un intensissimo sviluppo urbano al punto da essere quasi irriconoscibile. 3 È importante, a questo proposito, fare una breve digressione per dire che proprio nello Staten Island abbiamo potuto visitare, durante la nostra vacanLI

za, la casa di Antonio

Meucci, considerato il vero inventore del telefono".

L’originaria abitazione di Meucci, trasformata attualmente in museo è ubica- | ta al numero 470 di Tompkins Avenue, nel quartiere di Rosebank, proprio nella parte bassa e più antica di Staten Island. In quel luogo ha trovato ospitalità per un breve periodo Giuseppe Garialdi, l'eroe dei due mondi, dal 1850 al 1854, subito dopo la sconfitta delle

forze romane repubblicane nel 1849. Meucci offrì ospitalità a Garibaldi nella Quando alla New Utrecht High School di Brooklyn, dove l’autore ha frequentato i corsi serali per adulti, si arrivava a trattare l’argomento telefono, si finiva inevitabilmente col litigare

con persone originarie del posto, per le quali il programma della CUNY (City University of New York) e i testi indicati dalla scuola erano indiscutibili. Per gli ‘americani’ (e tra questi non mancano anche figli di Italiani) l'inventore del telefono è soltanto Graham Bell. Il nome di Meucci non viene menzionato dalla Encyclopaedia Britannica nemmeno tra coloro che, in qualche modo, hanno dato un contributo all’invenzione di questo importantissimo strumento

di comunicazione. Va sottolineato che il Circolo Culturale attraverso le pagine del periodico L’Idea, ha portato avanti strenuamente la battaglia per il riconoscimento di Antonio Meucci, sostenendo la lotta ultratrentennale di John La Corte, presidente della Italian Historical Society.

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sua casa dove l’eroe dei due mondi lavorò nella fattoria di candele di proprietà dello stesso Meucci. Nel 1854 Garibaldi ritornò in Italia per capeggiare la spedizione dei Mille che avrebbe portato all’unificazione della penisola.

La festa della Madonna Ogni anno, ormai da diversi lustri, la Congrega Maria SS. Addolorata, ubicata al numero 65 di Woodhull Street, nel quartiere di Carroll Gardens, organizza la processione della Madonna Addolorata. La statua, partendo dalla chiesa di S. Stefano, in Summit Street, viene portata in processione attraverso le strade della zona. L’ Addolorata è la patrona di Mola e, per tale ragione, le viene dedicata, nel mese di settembre di ogni anno, la ‘festa grande’ del paese. La medesima cosa avviene a Brooklyn in quanto, la stessa Madonna è anche la patrona dei Molesi d’ America. Anche al di là dell’ Atlantico la processione ha luogo il mese di settembre e il giorno del venerdì santo. Nel caso di Brooklyn il cerimoniale è alquanto suggestivo e singolare. Oltre alla statua della Madonna viene portata in processione anche quella del Cristo morto, contenuta in una bara di cristallo il-

luminata. Questa viene sostenuta a spalla da alcuni giovani Pozzallesi e Palermitani che, per l’occasione, indossano i loro costumi caratteristici. Le due

statue, dopo aver percorso itinerari divergenti per le strade adiacenti, si incontrano, in fine, sul sagrato della chiesa. A quel punto, prima di rientrare, a

queste viene riservato un cerimoniale che non può non destare una qualche emozione.

Le stesse, vengono fatte avvicinare e allontanare di alcuni passi

per tre volte. Il tutto si svolge, come è facile intuire, in un'atmosfera particolarmente solenne e suggestiva. A questo tradizionale appuntamento fanno da cornice l’illuminazione di alcune strade e le immancabili bancarelle che diffondono gli odori più accattivanti (o stomachevoli) che promanano dall’arrosto di salsicce e peperoni oltre a quelle che vendono ammennicoli di ogni genere. Insomma, vengono miscelati insieme il sacro e il profano. Ogni occasione per celebrare una qualsiasi festività diventa il pretesto per trasformare il tutto in mercato rionale dove vendere le cose più impensate. Questo avviene, da secoli oramai, anche in occasione delle feste patronali che si celebrano nei comuni del meridione d’Italia. Per i Molesi e, anche per i non Molesi, questa festa è molto attesa e rappresenta un modo come un altro per sentirsi legati al proprio paese e alle proprie tradizioni. Ma, la festa della Madonna significa, soprattutto, l’occasione per potersi rivedere a distanza di tempo. Talvolta un anno e anche più. Ed è proprio attraverso questo momento folclorìstico che si realizza in 105

maniera più compiuta la riproposizione e la riproduzione di usanze e costumi tipici che fanno parte integrante di quel particolare tipo di mentalità tutta nostrana che si ricorda con struggente nostalgia. Questa, più di ogni altra, diventa l’evento principale per rivedersi e scambiare qualche frase, magari di circostanza, ma è importante per ricordare la comune appartenenza a un piccolo paese del meridione che ciha visti nascere, partire, e poi ... ! Il numero dei partecipanti èè notevole. In queste occasioni è possibile rivedere persone che si sono perse di vista da anni e, forse da decenni. Girare

per quelle strade è una sorpresa continua. Non dimentichiamo che la solennità si svolge proprio in quelle vie dove i primi emigranti Molesi hanno messo piede per la prima volta a partire dai primi anni del Novecento. Sono tanti i concittadini che, pur essendosi trasferiti nel Queens, a Long Island, nello

Staten Island e in altre zone della metropoli, non possono fare a meno di recarsi downtown Brooklyn, per ritrovarsi con i parenti, gli amici, i conoscenti e i paesani. Questa necessità che si rinnova ogni anno ha un significato molto profondo. Probabilmente un modo come un altro per dire agli altri e a se stessi che si esiste ancora. Nonostante tutto! Anche se in

terra d’ America

/ molti valori sono andati perduti per lasciare il posto a quel valore cui molti ‘agognano: il denaro. Quindi, ritrovarsi nuovamente per significare che, noaa il ‘benessere’ materiale, esiste ancora qualcosa che ci fa sentire be\\ne. Stare insieme per qualche ora dopo tanto tempo non è cosa da poco. Sono queste le pochissime circostanze che si hanno per riallacciare rapporti sociali a tutti i livelli. Il modello di vita nella grande metropoli e la cultura di quel paese vanno in tutt'altra direzione: sicuramente verso l’assenza dei rapporti interpersonali e del dialogo e dove, molto spesso, la gente vive immersa nel più assoluto anonimato. Si può ben dire che la festa della Madonna rappresenta, per i Molesi, quello che per i Napoletani è la festività di San Gennaro, celebrata nella Little Italy, la piccola Italia, nella zona bassa di Manhattan, a Mulberry Street oppure come la solennità di Santa Rosalia per i Siciliani, sulla 18.ma Avenue. Per non parlare delle tante comunità italiane originarie di questo o quel comune italiano che hanno una propria festa religiosa e particolari tradizioni da rinnovare. Cosa dire, poi, del rilievo e dell'importanza che assume per i Molesi d'America la festività della Madonna che si celebra a Mola la seconda domenica di settembre. Questa ricorrenza è, da sempre, un punto di riferimento

quando si deve dare un minimo di organizzazione ai propri ritmi di vita. In tema di vacanze al paese natio, per esempio, inevitabilmente, si finisce per parlare della festa della Madonna. Molti sono coloro, in particolare le persone più anziane, le quali annettono a questa ricorrenza un significato peculiare per ritornare al paese tutti gli anni. In questo modo hanno la possibilità di ri106

vedere i vecchi amici, i parenti rimasti che, col passare del tempo, diminuiscono sempre più. Le vecchie conoscenze e persone emigrate in altri paesi /con i quali si sono persi di vista anche da ‘una vita”. È affascinante ripartire per l’America con negli occhi ancora le immagini della Madonna, della piazza gremita di gente, della fantastica illuminazione

che incornicia la vasca monumentale", dei bellissimi fuochi pirotecnici, delle lunghe e salutari passeggiate per le nostre strade, delle immancabili abbuffate di seppioline, di cozze crude ed altro ancora. Anche se ci sono alcuni che si ostinano a dire che in America c’è tutto. Si. C’è tutto! Quello che manca nella frutta, nel pesce, eccetera è quel sapore particolare tutto nostrano e inconfondibile che non è dato trovare da nessun’altra parte. Tutto ciò ha un significato che non è facile definire per chi vive all’estero e continua a rimanere legato al proprio paese. Un paese che sarà anche brutto e arretrato, pieno di gente antipatica e poco accogliente, senz'acqua d’estate e priva delle tante comodità di cui 1’America è ricca; però, che nostalgia, che richiamo, che tenerezza ripensare, di tanto in tanto, a quel piccolo agglomerato di case dove siamo nati!

Processione della Madonna Addolorata downtown Brooklyn, Henry Street. Fine anni ’40. (Archivio Nicola Capozzi)

particolare e !! Nella foto di copertina, mio fratello Alberto ha inteso rappresentare in maniera le di irrealizzabi sogno il : l’emigrante ovunque a accompagn suggestiva lo stato d'animo che a. dell’infanzi ricordi i e natio paese il con benessere il e America 1’ riunire

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In alto: il Comitato Festa. In basso: foto di gruppo dei primi soci del Circolo Culturale di Mola. Da sinistra, in piedi: Anna Vitulli, Maria, Nicola, Tonia e Marco Furio, Teresa Franzese, Rosa Tanzi, Alberto D’Acquaviva, Tony Renna, Vito Susca, Anna Marinelli, Gaetano De Leonibus, Vincenzo Demonte, Giovanni D’Acquaviva, Ernesto Sopracasa, Pina Fanciullo, Vito Cassano, Mino Giliberti, l’autore, Vito Rizzi, Rosa Renna.

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V Gennaio 1974: primo numero de L’Idea

In un primo tempo gli avvenimenti e le vicende riguardanti il Circolo Culturale e il periodico L’/dea erano parte integrante del medesimo capitolo. Quasi a voler significare il loro intreccio collegato con la nascita e le vicende del primo. Ed è in questo modo che vanno letti il capitolo precedente e il presente. L’Idea, infatti, è nata dal circolo e le vicende dei protagonisti sono inse-

parabili. Come abbiamo avuto occasione di accennare, erano state fatte svariate proposte a proposito del nome da dare al giornale. Tra le tante vi era anche quella di mio fratello Alberto, il quale aveva pensato a una denominazione alquanto singolare: /{ Braciere. Questo titolo doveva simboleggiare i futuri incontri che avremmo avuto intorno a un tavolo per dibattere le problematiche che vedevano interessate la comunità molese in America e quella italiana più in generale'. L’obiettivo che ci si proponeva, attraverso il giornale e l’informazione, era quello di allargare il dibattito interno alla nostra comunità oltre che sensibilizzare altre collettività di italiani rispetto alle tematiche socio-culturali. Si trattava, quindi, di ampliare l’orizzonte di interessi più variegati, altrimenti riconducibili esclusivamente a quegli aspetti materialistici quali il lavoro, i soldi, l'acquisto della casa, dell’elettrodomestico, dell’automobile, eccetera.

Anche questa proposta, che in un primo momento appariva riscuotere alcuni consensi, fu scartata al pari di tante altre. Quella che, invece, apparve subito più idonea e che incontrò il favore dei più, fu avanzata da Anna Marinelli che, all’uopo, aveva pensato bene di trascrivere una sorta di presentazione. Probabilmente fu proprio l’aver curato quell’aspetto introduttivo che

| Un tavolo che, per noi e i nostri lettori, doveva ricordare e rappresentare il tipico recipiente di rame - un tempo largamente in uso al paese in cui si teneva la brace accesa per scaldarsi durante l’inverno -. Naturalmente la continuità del fuoco oltre che del calore da irradiare, do-

veva essere demandato al giornale e alla nostra capacità di allacciare e mantenere un dialogo con la comunità degli immigrati.

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fece pendere l’ago della bilancia dalla sua parte con l'accoglimento della sua ‘Idea’. La presentazione iniziava con alcune parole molto semplici, accattivanti e indimenticabili: “Ciao: Chi sono? L’Idea ...!” E continuava su quella falsariga. Per l’autrice della proposta, quel tipo di approccio doveva essere contenuto nell’articolo di apertura. Tuttavia, mentre la titolazione fu fatta propria dall’ assemblea, non altret-

tanto si verificò per il pezzo citato che Anna aveva avuto la cura e la pazienza di preparare. Si trattò, a mio avviso, di un grosso errore. In primo luogo perché costei non si cimentò più nello scrivere e, soprattutto, perché i contenuti del primo numero non erano poi il non plus ultra se paragonati a quel pezzo scartato con troppa fretta. Ma tant'è, le cose andavano così. Il lettore che avesse voglia e, perché no, la curiosità di sfogliare quella prima edizione del gennaio 1974, non mancherà di notare che, tutto somma-

to, trattasi di un prodotto messo su in maniera artigianale ma, forse per questa ragione, più apprezzabile. È vero, infatti, che non avevamo alcuna esperienza nel campo giornalistico. Eppure i contenuti erano senz'altro più interessanti rispetto all’ Idea ultima maniera, caratterizzata da troppa enfasi. Non va sottaciuto, inoltre, che il costo per una eventuale impaginazione affidata ad una tipografia (come avviene attualmente) era ben al di là delle nostre limitatissime possibilità economiche. A questo proposito e su espresso incarico di Vito Cassano, avevo contattato alcune tipografie di Brooklyn per verificare, appunto, sotto il profilo dei costi, la possibilità di fare impaginare il foglio in maniera più professionale. Se non altro, la veste tipografica avrebbe potuto, in parte, compensare la bassa qualità dei contenuti. Invero, causa soprattutto la non conoscenza della nostra lingua da parte delle aziende contattate, i costi stimati erano a dir poco esorbitanti. Qualcuno si starà chiedendo come mai, in America, vi erano queste problematiche! Ebbene si.

Come è anche vero che con una maggiore disponibilità finanziaria avremmo potuto offrire un prodotto migliore, quanto meno dal punto di vista graficoestetico. La realtà di quel particolare momento storico era tale che non sarebbe stato praticamente possibile fare diversamente e meglio. Attualmente il giornale viene pubblicato con una diversa e più elegante veste grafica. Il risultato estetico è certamente migliorato. Per quel che riguarda gli articoli, probabilmente erano più interessanti quelli dell’Idea prima maniera. Adesso, vengono privilegiate le pubbliche relazioni e dato ampio spazio alle foto che ritraggono i responsabili del giornale insieme a personalità politiche, fornendo della ‘rivista’ e dei redattori una immagine sdolcinata e autoreferenziale: più che badare ai contenuti viene promossa l’immagine di coloro che in varia

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misura contribuiscono a mantenerlo in vita, utilizzandolo, magari, come trampolino di lancio in vista di possibili quanto imprevedibili risultati?. Il primo numero dell’Idea era composto di sei facciateì. Si denota, in primo luogo, l’impegno e lo sforzo compiuto dai protagonisti dell’ epoca. Vi era in ognuno dei partecipanti uno stimolo e un entusiasmo particolari diretti a dare un taglio col passato. Si aveva tanta voglia di realizzare un foglio che desse voce alle aspirazioni, alle idee - per la verità ancora poche e confuse e, soprattutto, al desiderio di cambiare. Ognuno avvertiva un qualcosa che cominciava a maturare, prima a livello individuale, e quindi in seno alla nostra comunità in modo particolare. Per la cronaca è opportuno menzionare che, qualche anno prima (nel biennio 1965/67) vi era stata un’altra esperienza editoriale. Promotore di

quella iniziativa, indubbiamente meritevole e, ancor più eccezionale se si considerano i tempi, era stato Mike Pesce. Il foglio in questione aveva una testata abbastanza singolare e molto significativa. Stiamo parlando de LA VETTA di cui furono pubblicati otto numeri‘: la prima iniziativa del Circolo Mola club Van Westerhout sorto nel 1960 nel quartiere di Carroll Gardens?. ? “Ebbene, cogliamo l’occasione della fine di questo millennio/secolo/decade, e ovviamente del nostro ventiseiesimo anno di vita, per annunciarlo al mondo intero: L’IDEA sarà il portavoce ufficiale delle attività socioculturali italiane dell’area Nuova York/Connecticut per il 2000 e si propone d’essere la vostra voce, cari italiani residenti negli USA, per tanti anni ancor più”. TIZIANO T. DOSSENA, L’Idea, pag. 9, n. 75, gennaio 2000. “Dal mese di aprile 2000 L’IDEA diventerà un organo di stampa nazionale che parlerà agli italiani e non solo ai molesi. Unico giornale in lingua di livello nazionale in America con il patrocinio del Ministero degli Esteri”. L. CAMPANILE, da una intervista rilasciata a MICHELE CALABRESE nella trasmissione radiofonica Mosaico di Radio Gabbiano di Domenica 20 febbraio 2000. Ogni commento é superfluo. ? Il lettore che per motivi di studio, ricerca od altro, volesse prendere visione dei primi 24 numeri de L’/dea potrà consultarne la raccolta, rilegata in volume, presso la biblioteca comunale di Mola di Bari, donata a suo tempo all’allora sindaco Giovanni Padovano in occasione della sua visita in America nell’aprile del 1980. 4 Da una lettera di MIKE L. PESCE inviata al giornale e pubblicata sul numero 3 dell’Idea del marzo 1974, pagina 7. Con quella nota Pesce inviò due delle otto edizioni pubblicate dal 1965 al 1967. vet prima iniziativa del circolo fu quella di pubblicare un periodico dal significativo titolo, “La Vetta”, che inviammo in abbonamento a circa milleduecento famiglie di molesi residenti a Brooklyn e negli altri quattro borghi dell’area metropolitana di New York. A Manhattan, a Queens, nel Bronx e, soprattutto, a Staten Island, dove, da qualche tempo, molti compaesani avevano preso a sistemarsi con le loro famiglie”. GIOVANNI RICCIARDELLI, op. cit., pag. 1 10. Anche quella rappresenta una testimonianza importantissima per la storia e la cultura della emigrazione molese in America, alla quale va riconosciuto il giusto rilievo e valore. Sarebbe oltremodo opportuno poter raccogliere quei pochi numeri pubblicati, sicuramente a costo di enormi sacrifici, per conservarle al patrimonio legato al fenomeno migratorio più in generale. Un patrimonio di grande valore se si considera il numero limitato di copie esistenti e, per que-

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Per quel che riguarda più in particolare L’/dea, ricordo con grande nostalgia e commozione il giorno in cui cominciammo l'impaginazione del materiale per il primo numero. Alcuni soci avevano scritto dei pezzi su argomenti vari. Nessuno, però, aveva la più pallida idea di come si dovesse impostare un giornale, anche se si trattava di qualcosa senza pretese come, appunto, quel nostro primo esperimento. Fortunatamente, è stato già detto, vi era tra i componenti Vito Rizzi: anche lui tra i fondatori del circolo, lavorava

nel campo della grafica e, contrariamente a tutti gli altri, aveva le idee abbastanza chiare, almeno limitatamente agli aspetti estetici che il giornale doveva avere. In primo luogo ci indicò la necessità di ‘spaziare’ gli articoli in modo da incolonnarli. Sulla stessa falsariga di quanto vediamo su un comune giornale. Inoltre, si assunse il non facile compito di impaginare quel ‘foglio’. Va anche soggiunto che, nei giorni immediatamente precedenti, Rizzi aveva sottoposto alla nostra attenzione alcune varianti della testata realizzata da Joel Kadel (un suo collega di lavoro, che nessuno ha mai avuto il piacere di conoscere). Quella che, in seguito, fu adottata per volontà della maggioranza dei soci, si presentava a i nostri occhi, ottima sotto ogni profilo. Oltre tutto, si trattava di una scelta obbligata considerata la mancanza di alternati-

ve per un eventuale raffronto. Superfluo dire che, al momento dell’uscita della prima edizione, la sola cosa che colpiva favorevolmente era proprio la testata. Il primo numero del periodico fu realizzato nel basement del Caduti di Superga. Era il dicembre del 1973. Nei primissimi giorni, impegnati intorno ad un tavolo enorme - ricavato da un foglio di truciolato - non meno di venti persone indaffaratissime. Assistere a quel nostro armeggiare doveva essere certamente singolare e interessante. Vi era chi scriveva a macchina e chi manualmente; chi ritagliava da giornali e riviste materiale utile per la titolazione od altro; chi suggeriva o dettava appunti su questo o quell’argomento; chi fantasticava del più e del meno, eccetera. Il tutto, comunque, senza alcuna sistematicità od ordine. Sarebbe più corretto dire che si lavorava nel massimo disordine. Infatti, nonostante il numero elevato di addetti e un rilevante

impiego di risorse umane, non si riusciva ad ottenere più di tanto in termini di produttività e qualità del lavoro. Un dato emergeva su tutto: l’entusiasmo e la volontà di ognuno a veder realizzato quello di cui avevamo parlato e fantasticato per giorni e giorni. Era come se ognuno avesse scommesso con se stesso. Perdere quella scommessa avrebbe significato una grossa sconfitta personale.

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