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Italian Pages 167 Year 2015
Res ardua vetustis novitatem dare, novis auctoritatem, obsoletis nitorem, obscuris lucem, fastiditis gratiam, dubiis fidem, omnibus vero naturam et naturae suae omnia. Plinio
Dario Ianneci
L’analfabetismo degli alfabeti Il liceo classico tra declino e rinnovamento
© 2015 Dario Ianneci [email protected] www.darioianneci.it
Questo libro è dedicato ad Alessandro, precario lettore, provetto videogamer
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L’ANALFABETISMO DEGLI ALFABETI
1.1 PAURA DELLA CRISI E DIFESA DELL’UMANESIMO
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Introduzione
Il liceo classico corre oggi il rischio di corrispondere effettivamente alla definizione data nel 1923 dallo storico Luigi Salvatorelli (1886-1974) il quale in un suo scritto polemico esprimeva un severo giudizio sulla mentalità della piccola borghesia umanistica italiana che proveniva dalla scuola classica caratterizzata dalla cosiddetta “cultura generale” che poteva ben definirsi “l’analfabetismo degli alfabeti”. 1 La borghesia tecnica non esisteva in Italia a causa dell’arretratezza dell’economia e la scuola italiana, da poco riformata da Gentile, impedendo lo sviluppo di una seria formazione scientifica e tecnologica, poneva al vertice del sistema dell’istruzione una cultura umanistica che era poco più di un’infarinatura storico-letteraria, condita di retorica, e che poteva considerarsi, appunto, l’analfabetismo della piccola e media borghesia italiana, conservatrice ed antiprogressista. Una scuola, in definitiva, inutile per lo sviluppo in chiave moderna della nazione e dannosa per il culto retorico del passato, della storia e della parola che la caratterizzava. Oggi al liceo classico torna ad essere mossa un’accusa press’a poco simile: di essere, cioè, una scuola socialmente inutile, molto lontana dalle esigenze formative di una naL. SALVATORELLI, Nazionalfascismo, Einaudi, Torino, 1977 (Libero, Roma, 2004), p. 27.
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zione che stenta a trovare il passo della modernità, una scuola inutilmente gravosa per il difficile e poco gratificante apprendimento di nozioni quasi esclusivamente teoriche. Nella nostra società delle “competenze” (per quanto questa espressione possa essere invisa o guardata con sospetto da qualcuno), il liceo classico è, o perlomeno appare, la scuola delle “incompetenze”, la scuola in cui si finge di conoscere il latino e il greco senza conoscerlo; la scuola delle conoscenze storico-letterarie sempre più superficiali per le sempre più limitate conoscenze di base possedute dai giovani delle nuove generazioni; la scuola che, in una società tutta fondata sulla matematica e sulle scienze, assicura una quasi totale ignoranza matematica e scientifica; una scuola avulsa dalla realtà economica, sociale, produttiva, culturale del mondo contemporaneo; una scuola poco utile per gli studenti che la frequentano, i quali permangono in uno stato di sostanziale analfabetismo rispetto ai saperi richiesti dal mondo attuale. Queste accuse non provengono solo dalla gente comune, dai genitori - non più tanto sicuri, negli ultimi anni, che l’iscrizione alla scuola classica sia la scelta migliore per il futuro dei propri figli - e dai figli stessi in genere spaventati dalla fatica di uno studio giudicato inutilmente gravoso. Anche personalità autorevoli, uomini di cultura ritengono oggi il liceo classico una scuola datata, addirittura per certi aspetti “ingannevole, insufficiente ed iniqua”, come l’ha definita l’economista Andrea Ichino in uno dei tanti “processi”, più o meno spettacolari, relativi al liceo classico che si sono moltiplicati in questi mesi di dibattiti e di confronti sulla questione. Alcuni giudicano queste diffuse critiche mosse al liceo classico, e alla cultura umanistica che vi si insegna, come ingiustificati e strumentali attacchi portati dalla cultura neoliberista ad una scuola nobile e formativa, necessaria ed insostituibile nel sistema scolastico italiano.
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A mio giudizio, le ragioni del declino del classico non dipendono dai supposti attacchi provenienti dal sistema neoliberista, ma sono da ricercare in una crisi storica ben più profonda e complessa, di valore epocale, che richiede un’analisi articolata. Il punto di partenza di ogni riflessione al riguardo deve essere la considerazione della realtà storica in cui si vive. Il tempo in cui oggi siamo immersi è un tempo di rapide, profonde, irreversibili mutazioni in ogni campo della vita dell’uomo. Davanti a questi cambiamenti si levano tante voci perplesse, si sviluppano paure, prendono corpo remore a volte irrazionali, timori di “perdere” irrimediabilmente qualcosa che ci appartiene. In passato, di fronte alle novità di norma si manifestava entusiasmo, fiducia per la storia che evolveva, dischiudendo nuovi orizzonti, nuove possibilità, rendendo disponibili per un numero sempre maggiore di individui nuove risorse e nuove opportunità. Oggi, al contrario, perlopiù si guarda ai cambiamenti in atto con un senso di timore che a volte si fa apprensione quasi angosciosa. Bisogna certo guardarsi dalla retorica del progresso. Ma ugualmente pericolosa è la retorica del passato, il mito del buon tempo andato, in cui tutto era bello, umano, ed ogni cosa nel mondo occupava un posto definito e riconoscibile. La retorica della decadenza e della perdita è tipica delle società che l’antropologia culturale chiama “società fredde”, società che non vogliono allontanarsi da un modello archetipo presunto perfetto. Dietro i rapidi cambiamenti in atto, storicamente irreversibili, sembra ad alcuni di intravedere un “potere”, variamente definito, che trasformando il volto del mondo minaccia di tagliare le radici stesse della nostra familiare dimensione di uomini occidentali. Alcuni vedono accamparsi oscure minacce alla libertà e all’indipendenza degli individui. Altri intravedono insidie alle libertà politiche e sindacali. Altri paventano la ridu-
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zione della dignità dei lavoratori salariati e la loro involuzione verso una condizione semiservile. Altri temono la cancellazione della tradizione culturale dell’Occidente invaso da altre culture, con le quali non è sempre agevole rapportarsi, oppure temono la cancellazione della “cultura” tout court, con i suoi libri, le sue scuole, la sua arte plurisecolare, le sue strutture educative e la sua organizzazione sistemica. Altri temono tutte queste cose insieme. “Conservare”, “mantenere”, “preservare”, “difendere” diventano allora le parole d’ordine di un gruppo non esiguo di uomini di cultura, professori, intellettuali, scrittori; sono questi i termini più ricorrenti utilizzati contro la mutazione, contro l’idea stessa di mutazione, della metabolé, per dirla con termine greco, che tutto coinvolge, assimila, modifica, scompone, cancella, rinnova, senza che questo processo – che altro non è che la storia - possa essere arrestato dalla volontà politica dell’uomo. Tre le molte significative novità, in questo momento storico di trasformazione epocale, c’è il fatto che la nostra civiltà contemporanea richiede in misura assolutamente straordinaria, mai conosciuta prima in passato, competenze specialistiche, in ogni suo settore. Richiede, al contempo, che questi saperi, queste competenze iperspecialistiche si trasformino in servizi, prodotti, strumenti, organizzazioni logistiche o ordinamenti e procedure amministrative che possano essere utilizzate dal maggior numero possibile di persone. Una richiesta democraticamente corretta. Nel nostro mondo attuale ogni cosa, per essere apprezzata e riconosciuta come sensata, valida, degna di essere socialmente sostenuta e perseguita, essere deve avere un fine riconoscibile, una sua utilità reale, una sua usabilità concreta, individuale o collettiva che sia. Dobbiamo condannare questa pretesa utilitaristica che caratterizza oggi tutte le società avanzate? Si deve necessariamente pensare che questa richiesta, più o meno esplicita, di una utile ricaduta sociale di ciò che si studia, si
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scopre, si inventa, si crea, sia il portato di menti diaboliche che vogliano asservire il mondo ai loro meccanismi di produzione? Oppure è possibile pensare che essa possa essere anche la manifestazione di una più ampia ed ormai universale pretesa “di compartecipazione e di uso” di tutti i prodotti della cultura e della tecnica, pretesa che si è venuta progressivamente consolidando nel corso del tempo, nella trasformazione delle idee politiche, economiche e sociali del mondo contemporaneo? Magari alla gente comune potrà non interessare “il come” ed “il perché”, le ragioni e le cause, di una certa scoperta o di una certa tecnologia; si potranno ignorare le cause ed i principi teorici che sono alla base; possono essere ignorate le ragioni scientifiche di una creazione, ma la gente attribuisce un valore alle idee, alle scoperte, alle novità quando esse cambiano, organizzano, strutturano la vita degli individui, entrano nella loro vita reale, recano beneficio ai singoli, circolano come fatti materiali dai quali nessuno, neppure i misoneisti più radicali, riescono poi a prescindere. Gli stessi detrattori delle tecnologie digitali di comunicazione, ad esempio, utilizzano comunque queste stesse tecnologie per diffondere le loro idee; un po’ come Platone, il quale per negare il valore della scrittura e del libro come sistemi validi per la conoscenza autentica era costretto ad affidare queste sue idee proprio alla scrittura e ai libri. Non poteva fare diversamente. La medicina, l’ingegneria, l’informatica, la biologia sono discipline iperspecilizzate. I loro “prodotti” sono universalmente apprezzati e presenti a tutti i livelli degli interessi umani: dalle medicine alle apparecchiature diagnostiche, dalle vie comunicazione alla telematica, dall’agricoltura alla pesca, dai ponti alle carrozze ferroviarie, dai prodotti per la bellezza agli alimenti. Il prodotto, invece, di quello che usiamo chiamare “cultura umanistica” non può vantare una simile universale approvazione nel sentire comune della gente. Il fine ed il frutto di quello che definiamo generalmente “il sapere
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umanistico” non è immediatamente individuabile. Questo sapere non riscuoterà lo stesso successo degli altri perché oggi sembra non essere in grado di riguardare effettivamente un gran numero di persone. E non riscuoterà mai la stessa approvazione se esso non verrà percepito e sentito dagli uomini come elemento positivo di crescita reale, di miglioramento dell’anima degli individui e della società nel suo complesso. Se il sapere umanistico non sarà percepito come strumento utile alla crescita personale e all’ordinato vivere civile delle comunità, non potrà più tanto facilmente essere socialmente preservato e coltivato e sarà destinato a soccombere. La cultura umanistica praticata oggi nelle facoltà di lettere delle università italiane e nella scuola classica nazionale mostra una marcata tendenza a chiudersi in una dimensione autistica. Le discipline classiche sono diventate statiche e autoreferenziali. I docenti titolari di cattedre accademiche umanistiche, di filologia, trovano del tutto naturale pretendere di essere remunerati “per il solo fatto che studiano”, con competenza, la loro disciplina (alla quale ammettono quei pochi che essi ritengono, a torto o a ragione, dotati della loro stessa competenza). Ma questo diritto ad essere remunerati in ogni caso, solo perché si è competenti in una data disciplina, non sembra essere più tanto scontato nei paesi a capitalismo avanzato. Si tende piuttosto a giudicare inutilmente dispendiosa per la società la presenza di tanti studiosi di discipline che vivono solo per se stesse. Nel sentire comune, non si riesce più a vedere alcun rapporto utile tra il sapere umanistico, il culto e la preservazione del passato, così come attualmente coltivato nelle nostre università e nelle scuole classiche, e la vita delle persone comuni in questo nostro mondo contemporaneo di-
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latato, plurilinguistico, multietnico, produttivo ed efficientista. Né basta rispondere genericamente che tale rapporto non deve neppure essere richiesto perché gli studi umanistici hanno da sempre, di per sé, un carattere “disinteressato”. Anche la matematica e l’astrofisica, infatti, sono studi “disinteressati”, ma sono generalmente da tutti riconosciuti socialmente validi e necessari perché più produttivi, nel breve e nel lungo periodo, rispetto agli studi letterari e umanistici in generale. Nessuno pensa, infatti, di proporre l’abolizione dello studio della fisica, della matematica o dell’astrofisica dal sistema dei saperi. Eppure, nonostante tutto, l’interesse per l’umanesimo, per la riflessione su ciò che riguarda l’uomo, la sua storia, la sua natura, la sua essenza, non manca neppure in questa nostra società a dominio scientifico e tecnologico. Le forme, però, di questo interesse sono molto mutate. In primo luogo non è più la scuola la sede deputata per coltivare l’interesse e la conoscenza per il sapere umano e per l’umanesimo; e, a mio avviso, non lo sarà mai più. Le fonti del sapere, come pure i modelli paideutici, non sono più nella scuola, ma altrove. Da questo punto di vista la scuola ha esaurito la sua tradizionale funzione di sistema di istruzione. Ecco che vengono richieste ad essa attività diverse ed eterogenee, che in passato non sono mai state nel suo campo di attività: prevenzione sanitaria sotto forma di educazione alla salute, prevenzione del crimine sotto forma di educazione alla legalità, prevenzione dei comportamenti devianti e violenti sotto forma di educazione alla socialità, prevenzione del degrado ambientale sotto forma di educazione all’ecologia, ecc. La conoscenza oggi è dappertutto a causa della pervasività dei mezzi di comunicazione. I promotori di discorsi umanistici non sono più i professori, ma coloro che sono in grado di comunicare e parlare efficacemente alle grandi masse; sono i grandi comunicatori pubblici inseriti nei grandi sistemi di comunicazione collettiva.
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Per avere un’efficace lezione di umanesimo che abbia respiro, che riesca a coinvolgere e suscitare interesse, ci si rivolge ad un comunicatore efficace, capace di insegnare, di emozionare, di far riflettere un gran numero di persone. Le aule del liceo classico, invece, restano luoghi in cui il processo di apprendimento si arena in una stanca ripetizione di dati, spesso priva di entusiasmo, di coinvolgimento, di curiosità. La comunità o società educante è uno degli elementi antropologicamente nuovi della società contemporanea. Roberto Benigni si esibisce in piazza o in televisione recitando e spiegando la Divina Commedia, col suo sterminato universo di filosofia, poesia, morale, storia, teologia, davanti a folle che mai riempirebbero le piccole salette delle varie lecturae Dantis nelle sonnolente città di provincia. Quando poi parla di Dio, ragionando sui Dieci Comandamenti, milioni di persone lo seguono per ore, con ammirazione, applauso, approvazione, riconoscimento ed interesse nella piazza telematica della televisione. Il papa cita nei suoi discorsi le riflessioni umanistiche del grande comunicatore. E’ forse dai tempi degli aedi, dei poeti lirici corali, dei tragediografi dell’antica Grecia che non si assiste ad un fenomeno comunicativo strutturalmente simile: un “sapiente” che con parola potente, attrezzata, efficace, insegna, comunica, educa una comunità attenta e partecipe. Allo stesso modo in YouTube canzoni e liriche di grande qualità letteraria e grande valore poetico, opere per nulla inferiori alle opere dei grandi del passato, registrano otto, nove, dieci milioni di visualizzazioni… E’ facile prevedere che nei prossimi anni simili lezioni o performaces avranno raggiunto decine di milioni di visualizzazioni. Finanche alcuni manuali scolastici cominciano ad accorgersi, in un’ottica di letteratura comparata, che in tanti testi e nell’arte stessa dei cantautori moderni sono presenti elementi strutturali, comunicativi, sociologici, tematici analoghi per valore e importanza sociale a quelli che si possono rinvenire nella comunicazione poetica del mondo
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della Grecia arcaica. Si comincia ad affermare che, strutturalmente, le moderne soap opera – tanto denigrate dalla cultura alta come fatti di sub-cultura popolare – dovrebbero essere considerate alla stregua delle antiche saghe omeriche, e che il successo “umanistico” di Omero nell’antichità non fosse qualitativamente e funzionalmente diverso da quello che oggi coinvolge milioni di persone nella saga di Beautiful, moderna epica borghese con le sue lotte tra ricchi, contese tra famiglie, seduzione di donne dalla bellezza leggendaria e celebrazione di temi che non sono tipologicamente diversi da quelli omerici. 2 Il mondo attuale nelle forme che gli sono proprie, continua ad essere interessato all’umanesimo, continua a prendere in considerazione l’uomo, le sue passioni, la sua fantasia, le sue idee, la sua storia perfino, quando essa si mostra viva, coinvolgente; quando la percepisce come un utile arricchimento dell’anima; quando parla un linguaggio vicino alla sensibilità di tutti; quando riesce a “sapere di uomo”. La cultura umanistica tradizionale, invece, scolastica ed universitaria, che si pretende “alta” e accademica, rischia di languire asfittica, chiusa, irrelata. Il sapere letterario a livello universitario vive in una dimensione autistica come “sapere chiuso”, riservato, che circola, si autoalimenta, si autoreplica tra pochi adepti. Languisce anche nelle aule dei licei classici nazionali, dove quasi tutto ristagna immobile, quasi uguale ai decenni passati, con le sue cattedre, le lavagne, i banchi disposti in file ordinate, i programmi, l’organizzazione, i metodi, le procedure ed i rituali di derivazione ottocentesca. Nell’incapacità o nella non volontà di cambiare, le idee si isteriliscono nella solita ripetitiva lamentatio senza costrutto sulle sempre più limitate capacità degli studenti, sulla perdita di autorità dei docenti, sull’ostilità delle fa2 F. DUPONT, Omero e Dallas. Dall'Iliade alla soap-opera, Donzelli, Milano, 2006.
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miglie, sulla società che non apprezza e non ricompensa adeguatamente la fatica degli insegnanti… Un piagnisteo senza senso, che non conduce da nessuna parte, incapace di dare risposte efficaci alle esigenze del sistema. Il senso della disaffezione verso questa scuola è palese, come dimostrano in modo lampante i numeri. Le iscrizioni calano costantemente sia ai licei che alle facoltà di lettere. I dati statistici, infatti, col loro realismo, ci dicono che in Italia gli studenti delle facoltà umanistiche sono diminuiti in dieci anni del 66,8%.3 Il latino ed il greco, le materie caratterizzanti della scuola classica nazionale, nel sentire comune, sono recepiti come discipline remote, lontane dagli interessi reali degli uomini e delle donne. Discipline quasi impossibili da apprendere e coltivare per i giovani dotati di normali capacità e normale impegno. Possiamo certo pensare che questa valutazione negativa espressa dalla gente comune derivi da una mancata comprensione dell’alto valore di questi studi, valore che solo noi, élite culturalmente qualificata, riusciamo invece ad attribuire in modo adeguato. Ma questo non salverà il liceo classico dalla sua fine. Anzi accentua il senso della chiusura e dell’autoreferenzialità. Più che difendere la situazione presente, più che rimpiangere una supposta perduta qualità degli studi classici “di una volta”, più che chiudersi a respingere il nuovo che in realtà è già presente e già segna il futuro, bisogna lasciare mutare le cose e trovare, pur nelle incertezze dei vari esperimenti, una nuova dimensione agli studi umanistici, per coltivarli adeguatamente ma in modo compatibile con il moderno assetto sociale, culturale, educativo del nostro tempo.
3 Anche negli Stati Uniti il calo è considerevole: l’università di Harvard ha perso il 36% di iscritti rispetto al 1952.
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Se bisogna chiamare alla armi docenti, studenti, genitori per difendere l’umanesimo, in quanto valore culturale necessario per una formazione equilibrata dell’uomo, occorre non ostinarsi a difendere la tradizione, ma piuttosto ridefinire con coraggio tutto il quadro della formazione umanistica alla luce dei tempi attuali. In questo mondo in continua evoluzione, in cui gli uomini sono disposti a riconoscere valore sociale solo a quanto di buono venga apportato dai saperi alla vita, devono essere opportunamente rinegoziate, riformulate e ridefiniti anche per chi lavora del campo dell’umanesimo le “regole di ingaggio”, il profilo e la collocazione professionale, le responsabilità, i fini, le metodologie, gli strumenti da utilizzare; ed anche gli assetti lavorativi e le prestazioni, in termini di ore e di contratti, di tutti coloro che, giustamente, pretendono investimenti pubblici ingenti nel campo della formazione umanistica e della salvaguardia della tradizione culturale più in generale. Tutto deve essere messo in discussione. Tutto deve essere sottoposto coraggiosamente ad un serio vaglio critico per modificare, senza remore, tutto quello che bisogna modificare. La difesa nostalgica o, peggio, faziosamente ideologica, del liceo classico “così com’è”, eretto quasi a simbolo indiscutibile della cultura umanistica e della tradizione, rappresenta paradossalmente la via più sicura per accelerarne la fine. Sembra però che la maggior parte dei docenti del liceo classico, non consideri necessario aprire nuovi percorsi, rivedere il proprio ruolo istituzionale, mutare la propria azione in relazione al diverso contesto in cui essi oggi si trovano. Formati in anni lontani, quando il mondo era molto diverso, non accettano facilmente il dato di fatto che lo scenario oggi è radicalmente mutato, come sta mutando rapidamente il sistema di lavoro.
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Essi considerano ogni tentativo compiuto nella direzione delle riforme un regresso, una perdita, una minaccia ad uno standard professionale e culturale che non dovrebbe mai essere posto in discussione. Come se la storia si fermasse ad un certo punto del suo corso, e non fosse invece quell’incessante moto che nega oggi validità a quello che ieri era vero, travolgendo inesorabilmente il presente quando questo non è più rispondente agli assetti e agli interessi sociali che le forze economiche e produttive vincenti hanno determinato. Bisogna portare fuori dal tradizionale assetto accademico e didattico l’insegnamento delle discipline umanistiche, sperimentare nuove vie, aprire nuovi scenari, rinnovare i curricoli scolastici, abbandonare vecchi schemi e vecchie scansioni, lasciare che entrino nuovi contenuti, favorire l’introduzione di nuove pratiche, favorire soprattutto il rinnovamento dei metodi, abbandonare paradigmi cognitivi superati, e non adeguati alla nuova comunità dei discenti, alfabetizzare ai nuovi linguaggi, in particolare linguaggi digitali e multimediali, dominare in modo adeguato tutti i principi e tutte le tecniche relative alla scrittura, alla gestione e alla distribuzione dei contenuti digitali; conoscere le logiche di programmazione che sono sottese; avvicinare e “contagiare di umanesimo” anche i settori più tipici delle scienze e delle tecnologie iperspecializzate, piuttosto che difendere semplicemente l’antica scuola umanistica da contrapporre al dilagare di scienze e tecnologie iperspecializzate.
Capitolo 1. La cultura umanistica
1.1 Paura della crisi e difesa dell’umanesimo Nella odierna crisi mondiale che stringe l’Occidente, si ripropone, come in ogni periodo di crisi, la riflessione sul valore dei modelli culturali ed educativi che sono alla base della società. Si ripropone perciò la riflessione sulla scuola e sul suo assetto. La crisi si manifesta oltre che come crisi economicofinanziaria, anche come violenza ed intolleranza religiosa, corruzione diffusa, contaminazione del suolo, degrado degli ambienti naturali, squilibri nella distribuzione delle risorse e della ricchezza, crisi del lavoro salariato. Mentre il mondo diventa più grande e più complesso, ci si interroga su quali siano gli strumenti culturali più idonei per capirlo e cercare di governarlo e quali siano i modelli educativi e l’organizzazione degli studi più idonea a fronteggiare i nuovi bisogni della società in evoluzione. Per l’Occidente libertà di pensiero e di espressione, indipendenza critica, immaginazione, creazione artistica, scienza politica e cultura storica sono elementi tanto antichi e forti, costruiti con un lungo processo storico, da essere considerati elementi di un formidabile modello culturale di riferimento al quale non si può facilmente rinunciare, pena l’irreparabile perdita dell’identità stessa degli uomini che abitano questa parte del mondo. Sono sempre più numerose perciò le voci di coloro che oggi vedono insidiati e messi in pericolo questi elementi a
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causa della soverchiante forza dell’economia, della finanza, delle tecnologie, dall’assetto generale del mondo moderno finalizzato quasi esclusivamente a sostenere produzione nel quadro si un sistema fortemente interdipendente. Si crede che la tradizione culturale umanistica occidentale sia oggi insidiata e messa in discussione come “cultura inutile” a causa del prevalere le istanze tecnologiche (o tecnocratiche) ed economico-finanziarie che distruggerebbero il senso critico, la capacità di giudizio e di pensiero dell’uomo, la sua disciplina mentale, i suoi sforzi di interiorizzazione, i suoi ideali di libertà, giustizia e solidarietà. Lottare per la difesa della cultura umanistica, pertanto, è anche lottare politicamente contro un particolare modello di società basato sul primato dell’iperspecializzazione scientifica e tecnologica e sul primato dell’economia. Torna così a profilarsi uno scontro inutile e dannoso, che si credeva appartenesse orami al passato, tra un paradigma educativo umanistico, orientato al primato dell’anima, della letteratura, della fantasia, dell’arte, ed uno tecnico-scientifico, orientato al mondo reale, alla produzione, allo sviluppo. In Italia la difesa di questa cultura umanistica prende oggi soprattutto la forma della difesa del liceo classico che, per ragioni storiche, è il simbolo stesso della cultura umanistica nazionale. Per alcuni abbandonare o riformare la scuola umanistica nazionale, il liceo classico, con il suo latino, il suo greco, la sua vocazione allo studio di discipline meramente teoriche, significa cedere all’affermazione del modello economico-sociale neoliberista che tutto vorrebbe sottomettere alla logica della produzione e del consumo, annullando capacità critica e riflessiva. Il liceo classico diventa, così, l’ultimo bastione, l’ultima ridotta del nostro sistema educativo contro il dilagare della cultura neoliberista con il suo culto del pragmatismo, dell’efficienza e della competenza. In questo si trovano
1.2 L’UMANESIMO: AZIONE, LIBERAZIONE, SIMPATIA
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singolarmente unite tanto la cultura cattolica quanto la cultura della sinistra radicale. 1.2 L’umanesimo: azione, liberazione, simpatia E’ difficile naturalmente dare una definizione generale ed univoca di cosa sia la cultura e la formazione umanistica che possa essere facilmente condivisa da tutti. Diverse volte nella storia occidentale, in contesti assai diversi tra loro, il termine umanesimo è stato utilizzato per definire la realtà spirituale, morale, politica ed intellettuale dell’uomo. Nell’accezione scolastica più diffusa, nel linguaggio comune degli uomini di cultura e di scuola, per cultura umanistica si intende generalmente “la tradizione secolare di pensiero, opere di letteratura e di filosofia, di arte e di lingua” che ha caratterizzato la storia Europea degli ultimi duemilaottocento anni. E’ preferibile, però, proporre la definizione più generale e più ampia della conoscenza e della cultura umanistica data da John Dewey (1859-1952), filosofo e pedagogista americano del Novecento, coetaneo di Benedetto Croce (1866-1952): “La conoscenza è umanistica nella qualità, non perché riguarda i prodotti umani del passato, ma per via di quel che fa per liberare l’intelligenza e la simpatia umana. Qualsiasi argomento che raggiunge questo risultato è umano, e qualsiasi argomento che non lo raggiunge non è nemmeno educativo”. 4
Secondo la lezione di Dewey, non bisogna pensare alla cultura umanistica come qualcosa di statico, che “verte su”, che “riguarda” o che “pertiene a” un certo mondo o universo passato, ritenuto interessante, educativo o istrut-
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J. DEWEY, Democrazia e educazione, Firenze, 1916, p. 295.
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tivo “in sé”, e perciò degno di essere insegnato, trasmesso in modo immutabile nel tempo. La cultura umanistica è una cultura dinamica, una cultura che “fa”, “opera”, “agisce” in direzione dell’esaltazione e della liberazione dell’intelligenza dell’uomo; è un modo di vivere capace di creare nell’uomo idee che si formano in modo autonomo e che sono relative sempre alle situazioni e ai contesti reali, ossia al proprio tempo, al tempo presente in cui egli vive ed opera; idee aperte e tese a governare quel mondo naturale che è l’unica realtà in cui l’uomo può realizzare la sua peculiare natura. Non può considerarsi veramente umanistica una cultura che si limita solo a “preservare”, “custodire” il ricordo di un insieme di idee, dottrine, opere letterarie e filosofiche di una data epoca remota, ancorché queste siano di straordinaria importanza per la storia, anzi siano alla base del mondo (di quella “piccola parte” di mondo) in cui oggi ci troviamo, per puro caso, a vivere; umanistica è una cultura che agisce, trasforma, modifica il mondo in direzione del soddisfacimento dei bisogni reali dell’uomo così come si determinano nel tempo storico in cui egli vive. La cultura umanistica non risiede in un tipo particolare di scuola né nell’insegnamento di particolari discipline. Non è la conoscenza, lo studio, la difesa e la tradizione di un canone letterario, storico, filosofico fissato una volta per tutte. Essa è innanzitutto azione, ossia capacità di trasformazione del mondo presente. E’ inoltre liberazione, ossia, illuministicamente, capacità di promuovere in sé e negli altri l’indipendenza da qualsiasi forma di sottomissione e di schiavitù, materiale ed intellettuale. E’, infine, “simpatia”, ossia capacità di assumere il punto di vista dell’altro, ponendosi nelle sue condizioni psicologiche, intellettuali, politiche, morali. Altri definiscono l’umanesimo come quel tipo di cultura che abbia i caratteri della cultura “disinteressata”. Credo
1.3 L’UMANESIMO NON È UN PARADIGMA ASSOLUTO
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che non esiste per l’uomo possibilità di “disinteresse” dal mondo se non per sfociare nell’ascetico comtemptus mundii, nel disprezzo della realtà tipico della mentalità medievale. Una mentalità che considerava, com’è noto, l’unica e vera realtà, la realtà celeste, la vita ultraterrena. La rivoluzione culturale dei grandi intellettuali dell’umanesimo storico, tra Quattrocento e Cinquecento, fu invece proprio il superamento di questa mentalità. L’uomo è sempre “interessato” al mondo. Gli aspetti naturali e materiali del mondo storico, la realtà del lavoro, la produzione, il commercio, lo scambio dei beni, l’invenzione e l’impiego delle risorse, la conversione delle risorse e del lavoro in ricchezza, l’investimento della ricchezza prodotta, sono parte ineludibile della realtà umana. Tutti questi aspetti della realtà interessano fortemente l’uomo; non possono essere né ignorati né disprezzati né classificati come aspetti deteriori o secondari della vita dell’uomo. L’idea di un umanesimo come “studio disinteressato” rischia di essere un dispositivo retorico. Non è mai esistito infatti uno studio “disinteressato” né dell’umanesimo in generale né del latino e del greco in particolare, né in Europa né in Italia. Di norma quello che noi consideriamo lo studio umanistico, con il latino ed il greco, è stato storicamente, fino a tempi molto recenti, uno strumento per l’affermazione sociale ed economica, per collocarsi ai vertici della piramide sociale. 1.3 L’umanesimo non è un paradigma assoluto In un mondo completamente aperto, integrato, globalizzato ed economicamente interdipendente, razze, culture, lingue, costumi assai diversi tra loro si confrontano, spesso si scontrano violentemente, sullo scenario mondiale. Dopo la fine della seconda guerra mondiale a nessuna cultura è riconosciuto, almeno in linea di principio, il diritto di poter affermare la propria superiorità sulle altre.
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La cultura “umanistica”, lo stesso termine humanitas, ha connotati ben definiti e individuabili a livello storico, ma è assai in dubbio che essa possa esprimere oggi, nel mondo attuale, a livello universale ed in modo esclusivo il concetto stesso di “uomo” e di “cultura dell’uomo”, almeno nella forma in cui tradizionalmente siamo abituati a pensare al significato di questa espressione. L’idea di umanesimo latino occidentale tante volte proposto come paradigma assoluto di cultura e di civiltà, con la sua esaltazione della “virtù” e della “canoscenza”, rischia di diventare una narrazione retorica. Non sono poche le voci che mettono criticamente in discussione il supposto valore universale assoluto di questo umanesimo europeo occidentale che ha cominciato a prendere forma consapevole verso la fine del I secolo a.C e, attraverso diverse elaborazioni delle epoche successive, si è imposto – o è stato imposto – come cultura superiore a tutte le altre culture del mondo. E se è vero che tutte le civiltà hanno conosciuto orrori, stragi, abiezioni e crudeltà, non sfugge a questa realtà neppure la grande civiltà umanistica europea. Anche se a molti potrebbe non piacere ricordarlo, bisogna pur sempre dire che la distruzione violenta delle civiltà precolombiane è operata dai figli della più matura cultura umanistica del vecchio continente del XVI secolo. Il genocidio dei pellerossa nativi americani nel Nord America è messo in atto da civilissimi bianchi che avanzavano nelle praterie dell’Ovest. L’abiezione di Auschwitz germina nel seno della dottissima e assai umanistica Germania, e non c’è revisionismo che tenga a riguardo. Anniek Cojean, giornalista francese di Le Monde, ricorda le parole di un preside di una scuola americana sopravvissuto alla Shoah che ogni anno, all’inizio delle lezioni, avvertiva i suoi docenti che l’educazione umanistica che ha incivilito l’Europa non è, di per sé, garanzia di umanità:
1.4 LE CONOSCENZE IPERSPECIALISTICHE
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“Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleni da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università. Diffido quindi dell’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani”.
E’ riduttivo pensare che possa esistere una scuola specifica a cui affidare il ruolo di istituzione educativa preposta a preservare, coltivare, custodire la tradizione umanistica occidentale intesa come la migliore educazione per l’uomo. Tutte le scuole e tutte le agenzie educative possono e devono essere umanistiche all’interno di un mondo irreversibilmente globalizzato e multietnico, nel quale si impone come necessità storica, oltre che etica, il rispetto di tutte le culture e di tutte le tradizioni. 1.4 Le conoscenze iperspecialistiche Il filosofo Nicola Abbagnano, a proposito del concetto di cultura, scrive: “Nell’età del trionfo dell’industria la società moderna esige soprattutto da ognuno dei suoi membri il rendimento nel compito o nella funzione che gli è stata affidata; e il rendimento dipende non già dal possesso di una cultura generale disinteressata, quanto piuttosto da quelle cognizioni specifiche e approfondite in qualche ramo particolarissimo di una disciplina specifica”. 5 5 N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, Utet, Torino, 1993, s.v. “Cultura”.
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Questo è il nocciolo della questione. La società industriale è la forma storica della società nella quale ci troviamo a vivere. Non sono poche le voci di dissenso verso questa società della produzione e del consumo. Si moltiplicano le riflessioni critiche negative verso la nostra civiltà industriale e dei consumi. Emergono posizioni fortemente critiche del valore umano della civiltà industriale e postindustriale (Chomsky, Klein, Nussbaum), soprattutto in relazione al dominio della tecnologia. Già nel 1956 Gunther Anders sosteneva che l’età della tecnica ci induce a vivere in un "totalitarismo morbido" globale. 6 Ma rimane il fatto che in questa civiltà della tecnica più evoluta noi ci troviamo a vivere, e questa civiltà e questa realtà sociale bisogna governare e gestire. Questa realtà storica, osserva Abbagnano, “non può essere ignorata o minimizzata da coloro che si occupano del problema della cultura. E’ pertanto perfettamente inutile erigersi, con spirito profetico, contro di essa, contrapponendole l’ideale classico della cultura nella sua purezza e perfezione, come formazione disinteressata dell’uomo aristocratico alla vita contemplativa”. Il tratto caratterizzante di questa nostra società ipertecnologica e super-scientifica è costituito dal fatto che in essa tutto è “competenza” e “specializzazione”. I due termini fanno subito nascere negli uomini di formazione umanistica diffidenza o ripulsa. Credo che competenza e specializzazione non siano espressione di una decadenza sociale o del pensiero critico generale, non siano la resa incondizionata ad un malvagio “piano tecnocratico” preordinato da chi vuole asservire l’uomo ai bisogni produttivi dell’industria, come alcuni pensano. Né sono fattori che comportano inevitabilmente la rinuncia al pensiero critico. 6
G. ANDERS, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
1.4 LE CONOSCENZE IPERSPECIALISTICHE
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Competenza e specializzazione sono la conseguenza storica dell’innegabile processo di evoluzione e trasformazione del mondo, delle sviluppo di risorse, delle conoscenze, degli strumenti e dei requisiti necessari ad utilizzarle. Alcune discipline richiedono impiego di tecniche e di competenze in misura maggiore di altre. Le stesse discipline umanistiche non possono essere coltivate adeguatamente oggi senza specializzazione tecnologica e competenza operativa. Nel campo del latino e del greco, ad esempio, per rimanere nell’ambito a cui è dedicata questa riflessione, non è più pensabile, a nessun livello, di poter leggere, indagare, studiare i testi antichi senza dominio completo di tecnologie, strumenti e pratiche operative, senza conoscere oggi perfettamente la natura e l’uso delle base-dati e degli archivi testuali, i metodi di indagine linguistico-computazionale con i suoi indici di frequenza, i vari tools di analisi morfosintattica, i dizionari elettronici. Non è possibile per un cultore professionista dell’antichità studiare, ad esempio, i papiri senza conoscere almeno i principi base della fotografia digitale che, utilizzando le specifiche funzioni di contrasto cromatico, consente in molti casi una chiarezza di lettura dei testi papiracei impensabile vent’anni fa. E’ recente la notizia che l’Istituto per la Microelettronica e i microsistemi (IMM) del CNR di Napoli ha messo a punto un sistema di lettura virtuale a raggi X dei papiri ercolanesi che consente la lettura dell’unica biblioteca antica a noi pervenuta senza apertura dei fragilissimi papiri e senza rischi per la loro conservazione. Acquisire per tempo un’adeguata formazione in tal senso è necessario e doveroso per chiunque, anche per chi ha a che fare con la cultura umanistica. Nonostante nella scuola ci sia da qualche tempo una maggiore consapevolezza di tutte queste nuove esigenze di formazione specialistica, da cui è stolto pensare di poter prescindere, sono ancora molto numerosi coloro che considerano la trasmissione dei meri contenuti storico-letterari come l’unico ed esclusivo “fatto qualificante” della scuola classica.
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L’ANALFABETISMO DEGLI ALFABETI
In genere si obietta che la formazione specialistica non è un fatto che riguarda il liceo classico ma solo le scuole tecniche e che, in ogni caso, non riguarda gli adolescenti che dovranno in età più adulta acquisire le competenze specifiche. Si afferma, a mio giudizio sbagliando, che agli studenti del liceo classico debba essere riservata la sola cultura generale. Io penso, invece, che anche in questa scuola si debba procedere insegnando il pensiero critico insieme alle competenze specifiche in relazione all’uso di strumenti, risorse, procedure che non possono essere ignorate in quanto elementi fondamentali della società e della vita contemporanea. Occorre inoltre creare quanto prima un abito intellettuale, una cultura della specializzazione e della competenza, senza ovviamente con questo inaridire i percorsi formativi con la mera capacità di eseguire compiti meccanici. Diversamente si corre il rischio di continuare a riproporre la lezione rituale di sempre, sul presupposto, falso, della sua incontrovertibile superiorità formativa. Le conoscenze disciplinari, le tecniche specialistiche, il loro utilizzo esperto, unitamente a capacità critica e riflessione consapevole, costituiscono oggi un unico insieme che bisogna necessariamente sia posseduto da chiunque voglia esercitare un lavoro ed una professione in qualsiasi campo delle attività umane. La scuola non fa eccezione, neppure la scuola classica. Né la conoscenza di tali tecniche, anche in campo umanistico, può essere demandata a figure specifiche (i tecnici) di rango erroneamente supposto inferiore rispetto a quello del docente-studioso. Il docente-studioso, a qualsiasi livello, deve essere scienziato, tecnico ed operatore al tempo stesso, secondo il livello standard di conoscenza richiesto dal tempo storico nel quale ci si trova a vivere. Anche lo studio delle materie umanistiche, dunque, esige una competenza adeguata, in relazione alle risorse tec-
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nologiche disponibile e alla procedure di studio messe a punto e rese disponibili dalla comunità scientifica. Non è giustificabile in alcun modo il rifiuto da parte di un docente universitario o di un professore di liceo di una adeguata competenza relativamente a tutti i nuovi strumenti specialistici, le pratiche, le procedure relative alle discipline di cui essi sono cultori. E’ grave, al contrario, che si ostenti indifferenza, ignoranza o addirittura disprezzo verso questi nuovi requisiti professionali.
1.5 L’apprendimento continuo Contro il predominio delle conoscenze specialistiche in genere si obietta che il liceo classico è un ottimo antidoto con il suo programma basato sulla “cultura generale” non specializzata, perché solo questo tipo di formazione sarebbe in grado di mantenere viva la capacità critica, mentre le competenze specialistiche invecchiano presto, diventano obsolete, e pertanto non è utile puntare su di esse per la formazione dei giovani. Si può rispondere a questa obiezione osservando innanzitutto che il fatto che una conoscenza specifica corra il rischio di invecchiare presto, per effetto delle novità e delle trasformazioni che subentrano, non è una buona ragione in sé e per sé per rinunciare ad insegnarla e ad apprenderla, in una società che ne necessità in maniera tanto marcata da non poterne fare a meno. Se, per fare un esempio banale, un martello è destinato inevitabilmente ad essere presto sostituito da un altro tipo di attrezzo, più nuovo, diverso, non per questo bisogna rinunciare a sapere come sia fatto e come debba essere utilizzato qui ed ora. E’ ovvio che bisogna al tempo stesso essere pronti e capaci di imparare ad utilizzare tutti gli innumerevoli nuovi modelli che saranno disponibili.
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Questo è ciò che definiamo longlife learning, apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita, concetto fondamentali dell’apprendimento moderno e, più in generale, dello sviluppo della conoscenze nella nostra società, a tutti i livelli. Si tratta in definitiva di un concetto che poi non è tanto recente come sembra. Se ne può rintracciare un antecedente storico nell’opera di Comenio (1592-1670), il grande pedagogista moravo che già nel Seicento, nell’ambito del suo ideale pedagogico pansofico, sottolineava la necessità di insegnare tutto a tutti (omnia omnibus omnino) e di procedere con un insegnamento ciclico che conducesse alla ricerca del sapere lungo tutta la vita. In ogni caso non è più pensabile oggi limitare ad un periodo, più o meno lungo, la propria formazione che, una volta capitalizzata, resti poi sostanzialmente inalterata nel tempo e consenta di esercitare poi un’attività lavorativa, pratica o professionale per tutta la restante parte della vita. Non esiste più la possibilità di un processo formativo generale “preventivo” rispetto alla fase lavorativa o professionale, distinto e separato da essa. Il concetto di longlife learning suggerisce che gli uomini devono oggi formarsi in continuazione, senza sosta, durante tutta la vita, dalla nascita alla morte, già prima della fase scolastica e oltre il termine della vita attiva. L’argomento, dunque, che la cultura generale sia preferibile a quella delle competenze in quanto “meno soggetta ad usura” non può più essere proposto, dal momento che imparare continuamente tecniche, processi e strumenti è un fatto obbligatorio in qualsiasi settore della nella nostra società contemporanea. Tutti devono imparare sempre, per tutta la vita, tutte le abilità necessarie per lo svolgimento dei compiti lavorativi e di quelli necessari alla vita sociale quotidiana. Tutti devono essere sempre in grado di apprendere qualsiasi conoscenza utile.
1.5 L’APPRENDIMENTO CONTINUO
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Il concetto di longlife learning non si limita, naturalmente, alle semplici competenze pratiche ma riguarda anche le pratiche professionali. Anche per questo aspetto, infatti, ciascuno deve, con un processo spesso volontario, intenzionale e determinato, essere capace di acquisire sempre nuovi ruoli in relazione alla propria attività professionale, modificando e sostituendo conoscenze e procedure acquisite prima e non più adeguate alla realtà mutata, non più rispondenti ai reali bisogni sociali e lavorativi, i quali si impongono per effetto della mutazione continua delle società, in questa fase storica e in questo contesto geografico del sistema a capitalismo avanzato. L’apprendimento continuo non è pertanto un vezzo dell’efficientismo contemporaneo, non è una rinuncia allo spirito critico e alla cultura generale per piegarsi all’efficientismo preteso dal mondo contemporaneo, né è finalizzato, come nelle scuole popolari degli anni ’30, a migliorare la capacità e la resa produttiva degli operai delle industrie. L’apprendimento continuo è una esigenza ineludibile, una condizione necessaria dell’individuo per lo sviluppo organico ed inclusivo della società, oggi basata, in misura assolutamente superiore che in qualsiasi altra epoca storica, sulla conoscenza e sulla gestione della conoscenza. L’apprendimento continuo, in definitiva, è necessario per garantire la coesione sociale. Senza una formazione in grado di assicurare il continuo aggiornamento dei saperi, delle conoscenze, degli strumenti, delle pratiche e delle procedure, si rischia di avere un gran numero di esclusi, di disadattati e di disoccupati. L’Italia, purtroppo, è uno dei paesi dove queste categorie sono drammaticamente numerose, soprattutto nelle regioni Meridionali, dove il ritardo nello sviluppo di un organico sistema di longlife learning è abissale, nonostante i passi in avanti compiuti negli ultimi anni, prevalentemente grazie all’utilizzo dei Fondi Europei e dove, paradossalmente, è più alto il numero dei licei classici.
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E’ importante d’altro canto sottolineare come, in un valido sistema di longlife learning, non si tratta semplicemente di fornire di volta in volta le istruzioni spicciole inerenti i diversi campi del sapere e delle attività. Si tratta anche, e soprattutto, di determinare la condizione generale dell’apprendimento; ossia di fornire un adeguato approccio teorico che consenta di affrontare senza eccessiva difficoltà il momento e l’idea stessa del cambiamento. Riuscire ogni volta a riassestare il proprio sapere, modificandolo, adattandolo, sostituendolo nelle parti obsolete o comunque non più rispondenti alle esigenze del tempo storico in cui si è immersi, è lo scopo principale dei tutti i percorsi formativi che vengono progettati nella nostra società. Queste finalità e questi scenari sono assunti e codificati anche nei documenti politici generali delle grandi assise europee nelle quali si fissano le linee fondamentali dello sviluppo delle politiche comuni in fatto di formazione ed educazione dei cittadini degli stati membri per i decenni futuri. 7 1.6 Le idee generali Se le conoscenze iperspecialistiche sono ineliminabili dalla società contemporanea, se di conseguenza è necessario il loro apprendimento continuo, bisogna, però, anche riconoscere, con lo stesso Abbagnano, che le competenze, le abilità, la precisione e la destrezza nell’uso di strumenti – anche se indispensabili – non sono sufficienti da sole a garantire la “formazione completa” dell’uomo ossia “la realizzazione dell’uomo nella sua autentica forma o natura umana”. Tra i numerosi documenti a riguardo, per una visione di sintesi, si può leggere utilmente il Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente, della Commissione Europea, del 30 Ottobre 2010, che presenta riferimenti a tutti i documenti comunitari relativi prodotti in precedenza.
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1.6 LE IDEE GENERALI
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Il rischio, infatti, è di avere per “eccesso di specializzazione” una persona sbilanciata, incapace di affrontare problemi che vanno oltre i suoi interessi e le sue capacità particolari; oppure di incorrere nella chiusura in un mondo troppo ristretto, senza interesse, curiosità o tolleranza per gli altri individui che di quel mondo non fanno parte. Questo è un problema molto serio. Un eccesso di specializzazione chiude la visuale, accorcia gli orizzonti, non ci fa cogliere il senso della lontananza nel tempo e nello spazio, il senso della diversità, assolutizza il nostro sapere tecnico facendolo diventare l’unico angolo da cui guardare la realtà. E’ dunque necessario trovare punti di contatto, ponti, intersezioni tra le varie discipline che non sempre possono essere stabilite solo con la mera competenza in un singolo ambito tecnico-specialistico. E’ necessario avere quella visione più ampia ed articolata, quella capacità di comparazione, di confronto, di sintesi che la iperspecializzazione in una sola disciplina non riesce ad offrire. Le competenze specialistiche, dice Abbagnano, vanno perciò completate dallo sviluppo di quelle che egli chiama le “idee generali”. La storia, la filosofia, la letteratura, in particolare (ma anche l’arte, la musica) forniscono appunto queste “idee generali”, questa visione ampia e prospettica del mondo. L’idea di Abbagnano, sulla quale mi sembra ragionevole concordare, è che “la considerazione storicoumanistica del passato e lo spirito critico e sperimentale della ricerca scientifica sono ugualmente necessari”. Se non si può e non si deve negare l’esigenza di specializzazione e competenza anche all’interno dei sistemi educativi, a tutti i livelli, non si deve rifiutare di dare il giusto valore alle “idee generali” ossia ad una visione ampia dei fatti, dei pensieri, delle invenzioni, della fantasia e della creazione umana, di tutte le epoche e di tutte le aree del mondo. Abbagnano, però, non crede che la conciliazione tra competenze e idee generali possa essere realizzata me-
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diante “un curriculum di studio unico per tutti e che comprenda discipline di informazione generica”, che sarebbe impossibile ed inutile al tempo stesso. Pensa, piuttosto, ad un progetto di lavoro e di studio “coordinato” con le attività specializzate, “complementare” a loro, che possa arricchire, ampliare l’orizzonte dell’individuo e mantenere l’equilibrio della personalità umana. Realizzare a livello formativo un sistema capace di tenere insieme le competenze operative specifiche, il dominio di strumenti e pratiche tecniche con il possesso di “idee generali”, declinate con un’adeguata considerazione storica e con spirito critico, può ragionevolmente rappresentare un’ideale umanistico moderno che può essere posto all’attenzione di tutti, soprattutto di coloro cui spetta riformare il sistema dell’istruzione, programmare e gestire i sistemi educativi per le nuove generazioni. Anziché rimanere impantanati, per paura di cambiare, in una situazione vischiosa e triste come quella che in questi anni costringe i licei classici a vere e proprie campagne di marketing per allettare i giovani ad iscriversi ad una scuola vecchia che non viene considerata rispondente ai tempi, è opportuno rinnovare questa scuola. Per meglio valutare la necessità di trasformare e rinnovare oggi il liceo classico nei contenuti, nei metodi, nei processi didattici, è utile avere consapevolezza della storia della formazione classica in Italia: come sia sorta la scuola classica, che cosa abbia significato il liceo classico tra Ottocento e Novecento come sistema educativo funzionale ad una data realtà sociale e politica.
Capitolo 2 – La scuola classica italiana
2.1 Le origini della scuola classica L’umanesimo storico italiano, nel Cinquecento, aveva elaborato il suo ideale di cultura intesa come formazione dell’uomo “nel suo mondo”, cioè “come quella formazione che consente all’uomo di vivere nel modo migliore e più perfetto nel mondo che è suo”. 8 Il lavoro, il fare, il produrre, la “vita attiva” insomma, comincia in quest’epoca ad essere valutata positivamente, a trovare considerazione, accettazione e dignità sociale, pur entro limiti a cui la società del tempo restringeva questi aspetti della vita dell’uomo. E’ noto quale impulso dette, in pieno Rinascimento, il calvinismo allo sviluppo dell’attività economica e finanziaria tanto da essere considerato una delle chiavi interpretative dell’affermazione in Europa del capitalismo moderno. 9 Sul piano più strettamente culturale, bisogna ricordare come per gli umanisti le discipline, le materie non avevano valore di fine, ma rappresentavano solo il mezzo per la formazione di una coscienza umana. In secondo luogo gli umanisti riconoscevano un grande valore alla natura vista come elemento importante della vita dell’uomo, da indagare, conoscere, manipolare ed utiN. ABBAGNANO, cit., s.v. “Cultura”. M. WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano, 1991. 8 9
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lizzare in ogni suo aspetto. Le indagini di Telesio, di Giordano Bruno, di Campanella, i tentativi operati dalla magia e dall’aristotelismo rappresentano una componente importante dell’umanesimo storico europeo ed una chiara premessa dello sviluppo della scienza moderna nel secolo successivo. Con un atteggiamento di apertura straordinariamente moderno, gli antichi umanisti, riconoscendo all’uomo un posto centrale nella natura, gli riconoscono anche il diritto di dominarla, usarla e piegarla ai propri fini, anche economici. Rivalutano le arti, i mestieri, le attività utilitarie che, sia nell’antichità che nel medioevo, era rimaste quasi completamente nella categoria delle attività banausiche, tipiche degli schiavi. Anche il rapporto con l’antichità, ristabilito con la riscoperta dei testi antichi, mira non alla semplice imitazione e riproposizione di modelli esemplari (fatto che pure ebbe notevole spazio nella cultura umanistica) ma anche e soprattutto alla ricerca del “significato” autentico delle opere degli antichi. Interrogare gli antichi per scoprire le leggi del presente, per rimarcare la sua “alterità”. Nella celebre lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, Machiavelli narra di questo amorevole dialogo con gli antichi, fatto di domande e di risposte, di investigazione e di ricerca: “… entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro”
Su questa base di investigazione e ricerca, nei secoli successivi, le nuove discipline scientifiche dilatano enormemente i domini del sapere umano. I saperi diventano sempre più scientifici, acquistano autonomia e diventava-
2.1 LE ORIGINI DELLA SCUOLA CLASSICA
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no progressivamente sempre più essenziali, a tutti i livelli, per la vita dell’uomo. La figura di Francesco Bacone (1561-1626) è assai emblematica dello spirito del tempo. Formatosi con studi in legge e giurisprudenza, Bacone divenne un sostenitore e uno strenuo difensore della rivoluzione scientifica, difese il metodo induttivo fondato sull'esperienza, esaltò l’indagine della natura, un’indagine volta al dominio della natura stessa per ritrovarne elementi applicativi utili per tutto il genere umano. Accanto a lui Athanasius Kircher (1602-1680), l’ultimo uomo del Rinascimento maturo, un gigante della conoscenza tra le personalità del tempo (oscurato poi dalla fama universale di Cartesio) che ha esplorato nelle sue opere tutti i campi del sapere naturalistico e scientifico del tempo. Nella medicina, Andrea Vesalio (1514-1564) aveva rigettato completamente tutta l’antica medicina, riscrivendo le conoscenze anatomiche sulla base della dissezione metodica dei cadaveri, rivoluzionando la medicina e la chirurgia. Mentre questa rivoluzionaria radice umanistica conduce progressivamente al trionfo del razionalismo, delle scienze, i cultori delle litterae, si chiudono sempre più nella contemplazione di un passato considerato esemplare, imitato, replicato, in una concezione statica e dogmatica della letteratura e della storia antica continuamente contrapposte al presente. Nasce così la “questione degli antichi e dei moderni” che è la questione del rapporto di una civiltà con la sua tradizione. Giambattista Vico (1668-1744), grande estimatore di Bacone, nella sua “difesa dell’umanesimo” si pone per la prima volta il fine dichiarato di superare l’opposizione tra il moderno modello scientifico cartesiano e lo statico culto dell’antichità.
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L’ANALFABETISMO DEGLI ALFABETI
Il filosofo napoletano, nel suo De nostri temporis studiorum ratione (1708), prolusione ad uno suoi corsi all’università di Napoli, dove egli ricopriva la cattedra di eloquenza (la meno prestigiosa tra le cattedre universitarie), se è vero che polemizza con la filosofia cartesiana e con la critica moderna, va oltre la tradizione, oltre Topica, la scolastica, la tradizione aristotelica, oltre la scuola della tradizione, la “scuola antica” che aveva il suo principale difetto nella passività: in essa gli studenti erano chiamati infatti “auditores” quasi a indicare che l’unica cosa richiesta agli studenti era di “audire” il verbum del maestro. Il dogmatismo tipico della tradizione, tuttavia, Vico lo vede presente anche nella moderna scuola cartesiana, allorquando questa costringe nel suo “sistema” ad accettare la realtà escludendo ogni contatto con l’esperienza che è maestra di verità. Vico, mentre critica l’antico, esalta le migliori conquiste del presente: l’induzione, il progresso, la liberazione da auctoritas dispotiche. Difende senza dubbio la necessità di un’adeguata conoscenza del passato, ma nella parte finale del suo discorso, è ancora dalla parte dei moderni nel ridimensionare il valore dei modelli, nel condannare i pericoli di una imitazione passiva degli exempla che possono avere i loro non inutili ma comunque modesti servigi pratici. Vico non loda certamente in modo incondizionato gli elementi della modernità del suo tempo come la stampa, i giornali, le università (ai quali riconosce molti limiti e difetti) ma neppure si ostina a difendere la tradizione “così com’è”. Propone piuttosto la necessità di una mediazione e di una conciliazione tra le esigenze del “metodo geometrico” cartesiano e la necessità di un umanesimo che è fondato su quel “verosimile” che è necessario alla vita equilibrata e “prudente” dell’uomo, a cui non può mancare immaginazione, fantasia, eloquenza. L’espressione più alta del ritrovato rapporto con l’antichità classica, è stato rappresentato dall’uso della lingua latina. La lingua di Roma, infatti, fu lingua veicola-
2.1 LE ORIGINI DELLA SCUOLA CLASSICA
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re e tecnico-strumentale utilizzata dalla scienza e dalla cultura, nelle relazioni politiche, diplomatiche, oltre che, naturalmente, all’interno della liturgia della chiesa cattolica. La conoscenza ed il dominio del latino era un requisito necessario per qualsiasi carriera. E anche se il latino rimase il segno distintivo, lo status symbol dell’elite aristocratica, non stupisce che anche mercanti, contadini, uomini della minuta borghesia avviassero i figli allo studio di questa lingua con la stessa naturalezza con cui oggi si iscrivono i ragazzi alle scuole di lingua inglese affinché si impadroniscano quanto prima di uno strumento che è considerato un requisito indispensabile per qualsiasi lavoro di un certo prestigio e di adeguata remuneratività. L’inglese è oggi innanzitutto la lingua franca della comunicazione multilivello che viene considerata indispensabile per la formazione di un giovane studente. Parlarla, comprenderla, dominarla rientra tra le finalità formative di oggi come accadeva per il latino nei secoli passati. Nel Cinquecento e nel Seicento era del tutto naturale per un padre di famiglia che volesse far avanzare il figlio verso una migliore posizione sociale facesse di tutto per fargli studiare il latino. Scriveva in proposito John Locke nel 1693: “E se chiedete loro [ai mercanti e contadini che fanno studiare il latino ai figli] perché lo fanno, essi troveranno questa domanda così strana come se domandaste loro perché vanno in chiesa. L’uso sta posto della ragione e ha consacrato questo metodo in tale maniera che coloro che lo seguono invece che per ragione lo osservano quasi per religione”. 10
Anche oggi del tutto naturalmente, i nostri figli, fin da piccoli, vengono iscritti “quasi per religione” ai corsi di inglese, studiano, imparano e praticano la lingua anglosas10 J. LOCKE, Of education, in F. WAQUET, Latino, l’impero di un segno (XVII-XX secolo), Feltrinelli, Milano, p. 329.
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sone, la comprendono e la usano correntemente, con grande padronanza, e possono mostrare nei propri curricula, i diversi gradi di competenza raggiunti, non per discutere dottamente del teatro elisabettiano o per leggere in lingua originale le opere di Joyce, ma per ottenere un posto in una banca o in qualche prestigiosa società a Bruxelles, a Londra o a Francoforte. Il latino era l’inglese del tempo. La lingua come requisito necessario a collocarsi nel mondo, nelle attività e nelle professioni umane, lingua necessaria per la comunicazione diplomatica, scientifica, culturale a livello internazionale. Il latino studiato ed ottimamente appreso nei collegi gesuitici, con una minuziosa padronanza del vocabolario, un pieno dominio dello stile (ciceroniano), era il segno della superiorità, del successo economico e della distinzione sociale del ceto nobiliare. Il volgare, invece, la lingua madre, restava la lingua ed il segno del rango sociale inferiore, subalterno alla nobiltà. Solo a partire dal Settecento, quando si cominciò a ritener utile una limitata istruzione anche per i ceti inferiori, venne a questi insegnato “il volgare” (l’italiano) che entra così, per la prima volta tra le materie scolastiche. 2.2 La scuola umanistica liberale Le cose cambiano profondamente quando nel maturo Ottocento si afferma la società borghese. La scuola liberale italiana muove i suoi primi passi con la legge Casati (13 novembre 1859), realizzata in quattro mesi tra l’estate e l’autunno del 1859. La scuola disegnata da Gabrio Casati (1798-1873) è una scuola nuova che, avversando la vecchia scuola aristocratica e nobiliare, punta ad educare il nuovo ceto medio, la borghesia, considerata la classe espressione di cittadini intelligenti, volenterosi, attivamente impegnati per il bene
2.2 LA SCUOLA UMANISTICA LIBERALE
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ed il progresso dello Stato: il cuore della nuova società civile. La struttura della scuola classica borghese continua a mantenere l’impronta e la scansione curriculare della vecchia ratio studiorum dei collegi gesuiti: sei anni di corso, i primi tre dedicati tutti alla grammatica inferiore, il quarto alla grammatica superiore, gli ultimi due (umanità e retorica) alla lettura dei grandi classici e allo studio dell’eloquenza. Successivamente il corso di studi fu portato ad otto anni; fu introdotta la distinzione tra ginnasio inferiore e ginnasio superiore, mentre i programmi di studio restavano completamente centrati sul nucleo tradizionale antico: grammatica, retorica e filosofia. In questa nuova scuola comincia a porsi la questione del latino: quale dovesse essere il suo valore, quale il metodo di insegnamento, quale il peso che esso dovesse avere in relazione alla funzione sociale e politica dell’istruzione classica all’interno del nuovo Stato borghese. Tutte domande a cui bisognava dare risposte nel momento in cui venivano delineati i nuovi percorsi dell’istruzione pubblica. La classe media, la borghesia, chiamata a gestire il nuovo Stato nazionale italiano, era composta da avvocati, medici, farmacisti, impiegati, cui spettava dirigere ed amministrate la nazione. Essa non è più caratterizzata dal possesso di titoli nobiliari ma dal possesso del “sapere” e, soprattutto, da quella “certificazione del sapere” che è il “titolo di studio”, il diploma. Come ha scritto in proposito Marco Meriggi il “sapere” di questa classe è “la forma specifica di una proprietà dalla quale il suo detentore si aspetta di trarre un utile, in termini di prestigio e, dunque, di distinzione sociale, e soprattutto di carriera”. 11
M. MERIGGI, Gli stati italiani prima dell’Unità, Il Mulino, Bologna, 2002.
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L’ANALFABETISMO DEGLI ALFABETI
Il conseguimento del titolo, la “certificazione del sapere”, che consente l’accesso alle professioni e agli incarichi pubblici, è lo scopo immediato per il quale le più o meno ricche famiglie borghesi inviano adesso i figli alla nuova scuola classica di Casati. Nella nuova scuola il latino, il greco, la letteratura italiana costituiscono elementi necessari al conseguimento della “certificazione del sapere” da capitalizzare poi nell’esercizio della funzione professionale. Lo studio di tali discipline scolastiche è innanzitutto un passaggio obbligato per la formalizzazione delle carriere burocratiche e per accedere agli impieghi statali, non più ormai appannaggio dei nobili. 12 Se dunque lo scopo della formazione scolastica è innanzitutto la carriera e l’impiego statale, non c’è più alcun bisogno di studiare il latino nei modi e con i metodi della tradizione gesuitica pre-borghese. La scuola gesuitica insegnava il latino come lingua d’uso da maneggiare con assoluta competenza, con un forte taglio stilistico-retorico, con un culto raffinato della forma ed una conoscenza minuziosa del lessico. La scuola borghese, invece, cambia completamente prospettiva, perché è cambiata la funzione sociale della formazione classica. Nella nuova Italia gli uffici statali vengono burocratizzati e vi accede non più per appartenenza alla classe nobiliare ma tramite un “concorso” amministrativo. Al latino, che resta un elemento irrinunciabile del curriculum formativo, deve poter accedere adesso un più vasto numero di persone. Viene a rompersi il legame tra elite nobiliare e studi classici. La nuova società borghese deve anche definire i contenuti irrinunciabili dell’educazione morale ed intellettuale dei cittadini della nuova Italia. Per questo aspetto la cultura classica viene proposta, oltre che come passaporto per 12
M. MERIGGI, cit., p. 65.
2.2 LA SCUOLA UMANISTICA LIBERALE
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la carriera burocratica, anche come valida proposta per la formazione di una cultura nazionale, con il compito di formare sopratutto la coscienza etica, estetica, intellettuale, morale delle nuove generazioni di quel ceto liberale che è la trave portante del progresso economico della nuova nazione. La nuova scuola classica deve innanzitutto formare buoni cittadini capaci di “rettamente pensare e sentire”: “Uomini nuovi, chiamati a compiere, or l’uno or gli altri, secondo le mutevoli vicende della fortuna, l’arduo ufficio del comandare e dello non men difficile dell’obbedire, senza protervia e senza viltà”. 13
Non c’è più necessità di scrivere e di parlare latino, non c’è più bisogno di apprendere lo stile ciceroniano, non c’è più bisogno di comporre in latino per comunicare in latino. E’ in questo passaggio storico che si afferma la pratica scolastica, ancora oggi in vigore nei licei, della “traduzione” contro la tradizionale “composizione” in latino che presupponeva invece l’uso attivo della lingua. La traduzione doveva essere ora l’esercizio principe dello studente della scuola classica. Non più conoscenza viva ed attiva della lingua latina, ma esercizio di “confronto” tra le lingue e gli universi spirituali che in esse si erano espresse. La storia vinceva sullo stile. La lingua latina cessava di essere “lingua” strumentale e veicolare a tutti gli effetti e diventava “documento” della storia e dei valori di un popolo. Il cambio di prospettiva è ben espresso da Giuseppe Müller (moravo di origine, torinese d’adozione e professore a Pavia, Padova e Torino) nella sua prefazione alla versione italiana degli Esercizi greci di Karl Schenkl (1869): Relazione a S.M. del Ministro della Pubblica Istruzione nell'udienza del 29 settembre 1872, sul decreto che ordina un 'inchiesta sulla istruzione secondaria maschile e femminile, in ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, Fonti per la storia della scuola, vol. III, L’istruzione classica (1860-1910), a cura di G. Bonetta e G. Fioravanti, p. 19. 13
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“Studiare la lingua d’un popolo val quanto vivere la vita di questo popolo, per ciò che sia appropriarsi del suo modo di pensare; ed è ormai ammesso universalmente, che tra il modo di pensare e d’esprimersi e tutte le altre manifestazioni della vita di un popolo sia relazione strettissima”. 14
Ora lo studio del latino e del greco serviva soltanto allo studio della storia e della letteratura, a comprendere i tempi e gli autori che le avevano utilizzate. La nuova scuola classica borghese è tutta proiettata nella storia, nello studio della storia e della lingua come strumento per conoscere la storia. “Conoscere” il latino, non più “utilizzare” il latino, è il fino dell’istruzione classica. Inoltre, nella nuova Italia unita in cerca di una coscienza nazionale, conveniva piuttosto esaltare la “tradizione nazionale” degli scrittori italiani che magnificare la bellezza dello stile ciceroniano. L’italiano, perciò, acquista progressivamente un’importanza sempre maggiore tra le materie d’insegnamento. Di qui l’inserimento nei programmi scolastici di tanti scrittori dell’aureo Trecento. Nel 1860 italiano, latino e greco impegnavano il 75% del monte orario settimanale della scuola classica. All’inizio l’italiano con 28 ore settimanali contro le 37 del latino perdeva nel confronto, ma alla fine del 1880 entrambe le materie ebbero 32 ore di attività. 15 La scuola classica italiana nasceva vecchia. Già prima dell’unità nazionale in verità gli studenti utilizzavano manuali che avevano più di cento anni: la diffusa Grammatica della lingua latina del Porretti era del 1729; ancora nel 1833 Francesco De Sanctis, alla scuola di Basilio 14 K. SCHENKL, Esercizi greci, Loescher, 1869, pref. di Giuseppe Müller, p. IV. 15 A. SCOTTO DI LUZIO, Il liceo classico, Il Mulino, Bologna, 1999 (ebook, nel capitolo Di fronte alla nazione).
2.2 LA SCUOLA UMANISTICA LIBERALE
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Puoti, studiava lingua italiana sulle pagine del padre barnabita Salvatore Corticeli autore del manuale “Regole ed osservazioni della lingua toscana, ridotte a metodo e in tre libri distribuite” che risalivano al 1745! La parte politica della scuola italiana, il Ministero della Pubblica Istruzione, nel ridefinire i programmi, insisteva a proporre gli autori “arcaici”, i trecentisti, senza nessuna apertura alle esigenze della modernità, senza nessuna accettazione delle proposte di Manzoni, il quale, più avvertitamente, più saggiamente, più storicamente accorto, aveva sostenuto la necessità di ricorrere al toscano moderno, parlato dalla borghesia colta piuttosto che agli scrittori dell’aureo Trecento. 16 I tentativi di ammodernamento furono tutti osteggiati. Ci volle tutta l’autorità ed il peso di una personalità come Carducci per far inserire nei programmi scolastici, tra il 1891 ed il 1892, "il moderno” Vincenzo Monti (con la sua traduzione dell’Iliade, che risaliva al 1810) al posto delle Storie di Enea del trecentista Guido da Pisa, la cinquecentesca traduzione dell’Eneide di Annibal Caro e la traduzione dell’Odissea di Ippolito Pindemonte (del 1822)! Dalla scuola e dalla cultura classica italiana erano sostanzialmente banditi o messi in secondo piano i giornali, i periodici, gli autori moderni, le riviste scientifiche, tutte risorse culturali moderne di straordinaria importanza che venivano invece relegate nella categoria delle letture “minori” e che rappresentavano un livello inferiore di conoscenza rispetto ai classici.
Nella sua relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, nel 1868, sollecitata dal ministro dell'Istruzione Emilio Broglio, Manzoni propose l’uso del toscano colto del tempo, l'impiego massiccio di maestri toscani nelle scuole, viaggi in Toscana per gli studenti e la redazione di un vocabolario della lingua fiorentina del tempo (Novo vocabolario della lingua italiana secondo l'uso di Firenze, redatto e pubblicato tra 1870 e 1897 a cura di G. B. GIORGINI ed E. BROGLIO). 16
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Non mancava di agire anche il motivo tipicamente classista dell’ “aristocrazia dello spirito” che solo nel culto dell’antico, del latino e del greco, poteva adeguatamente fiorire. Basta leggere quanto scrive il già citato Müller nella nuova edizione del testo di Esercizi greci per le scuole superiori. Per Müller, infatti, nel mondo moderno ci sarebbe solo barbarie e decadenza, mentre solo nel lavoro intellettuale, nello studio classico risiede il vero progresso: “In ultima analisi, poi, qual è la ragione vera di tutte le ostilità di cui son fatti segno gli studi classici ai giorni nostri? È quel medesimo spirito livellatore – falsa interpretazione del concetto democrazia – che osteggia tutti i fondamenti del moderno incivilimento, che vorrebbe abolita la così detta aristocrazia dello spirito, come, nelle sue più brutali manifestazioni, distruggerebbe i monumenti della passata grandezza delle nazioni, per condurci ad una novella êra di raffinata barbarie, in cui nulla più si sapesse delle sublimi creazioni dello spirito umano, ed unicamente si fosse intenti a creare un benessere materiale ed universale, pur sempre impossibile, perché il vero progresso dell’umanità dipende appunto dal lavoro intellettuale, a cui la gioventù deve essere educata con ogni cura”. 17
Sempre Müller, incarnando un pensiero comune, scriveva nel 1873 che l’utile pratico doveva essere bandito dalla scuola classica, la quale doveva servire a “vincere nella lotta per la vita”, a formare gli uomini “d’alto e nobile sentire”, capaci di “guidare le moltitudini”, “appianare la via al genio”: “Il vero ultimo fine delle scuole classiche è preparare le giovani generazioni per la vita, ma non già per una determinata carriera pratica. I ginnasî ed i licei non devono mai avere per mira l’insegnare alcunché, perché sarà d’utilità pratica per la vita […]. (La scuola classica) deve innanzi tutto addestraG. MÜLLER, Prefazione alla parte seconda degli Esercizi greci di K. SCHENKL, per la scuola superiore, Loescher, 1871. 17
2.2 LA SCUOLA UMANISTICA LIBERALE
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re per la lotta della vita, rendere abile a vincere in questa lotta. Essa si trova sul medesimo terreno collo stato nazionale, e non può che aiutarlo e servirlo […] formare uomini di alto e nobile sentire, atti a guidare le moltitudini, a coltivare l’ingegno, ad appianare la via al genio: la scuola classica, mi sia lecito il dirlo, è per sua natura un’istituzione aristocratica”. 18
Questi concetti (opposizione tra “falso progresso” fondato su “benessere materiale universale” e “vero progresso” spirituale, tra “uomini d’alto sentire” e “moltitudini” inette, tra “disinteresse aristocratico” degli studi classici e “carriera pratica”, ecc.) incredibilmente si sentono ripetuti, ribaditi e difesi ancora oggi quando di parla di scuola classica, di formazione classica, di senso e di scopo della formazione classica! Su questi bei fondamenti, nella sua autoesaltazione di scuola dell’aristocrazia dello spirito, nella retorica della sublimità dello “spirito umano”, la scuola classica nazionale è stata costruita quasi esclusivamente con grammatica latina e greca, con letture di vecchie cose auliche, con pagine e pagine di trecentisti. La parola e la poesia hanno avuto in essa il primato assoluto. Centoni, composizioni retoriche, poesie di ogni genere e di ogni metro abbondavano tra i banchi degli studenti e sulle cattedre dei docenti. Nel 1875 Antonio Mirabelli, per citare un caso famoso, professore universitario di latino nell’università di Napoli, compose la Petreide, un elefantiaco poema di celebrazione dell’apostolo Pietro in 24 canti e 37.000 esametri latini! 19 E ancora nel 1954 un dotto monsignore salernitano celebrava in forbita prosa ciceroniana il primo volo orbitale di Yuri Gagarin tra le stelle. 20 18 G. MÜLLER, Elementi di grammatica greca ad uso delle scuole, «RFIC» I 1873, pp. 183-185. 19 Dizionario Biografico degli Italiani, vol., 74 (2010), s.v. “Mirabelli, Antonio”. 20 L. GUERCIO, Itur ad astra, “Palaestra latina”, 1956, 154-155, pp. 73-80 e 140-147.
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2.3 L’insegnamento del greco antico Il principale elemento di novità della scuola classica nazionale è stato l’inserimento nel programma scolastico del greco antico. 21 Introdotto per la prima volta nella scuola superiore italiana con la legge Casati del 1859 (con una media oraria di 10 ore di lezione a settimana), il greco antico era sostanzialmente estraneo alla tradizione scolastica italiana, alla tradizione dei collegi gesuitici. Tra Settecento ed Ottocento pochissime in Italia erano state le figure di studiosi e di esperti di greco antico: Gaspare Garatoni (1747-1817), Clotilde Tambroni (17581817), Giacomo Leopardi (1798-1837), Amedeo Peyron (1785-1870), Angelo Mai (1782-1854) e pochi altri. Lo stesso Monti, traduttore dell’Iliade, non conosceva il greco. Le uniche università italiane in cui si insegnava greco antico erano Padova e Pavia, nelle province austriache del Lombardo-Veneto. Il greco antico entra come materia nel liceo classico perché rappresenta una novità, la cui introduzione è suggerita dall’indiscusso successo della filologia e della cultura classica tedesca, dal mito della superiorità politica e militare della Germania, dimostrata poi con le vittorie di Sadowa (1866) e poi di Sedan (1870), dall’idea che la forza di questa nazione derivasse proprio dal suo sistema formativo che aveva nel Gymnasium la sua scuola più celebre e in von Humbolt (1767-1835), fondatore dell’università di Berlino ed ideatore del suo corso di studi, un mito insuperato di eccellenza culturale e scientifica.
21 Un contributo alla storia dell’insegnamento del greco antico in Italia è quello di C. NERI, Il greco, ai giorni nostri…, ovvero: sacrificarsi per Atene o sacrificare Atene?, 2012, (consultabile in Internet al sito http://urlin.it/12e0fb).
2.3 L’INSEGNAMENTO DEL GRECO ANTICO
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La celebrata grammatica greca del tedesco Georg Curtius (1852), con le sue classi verbali, fu il testo da cui derivarono tutte le grammatiche successive. Tradotta in Italia nel 1867, la grammatica del Curtius si rivelò subito un testo molto difficile da usare in quanto ricorreva sistematicamente alla comparazione con le fonti indoeuropee e con il sanscrito. Per le scuole, nel 1868, fu introdotto un volume semplificato per gli studenti. Ma nonostante questo adattamento, non furono poche le perplessità, i dubbi, le proteste contro le “astruserie tedesche” approdate, secondo molti sciaguratamente, nella scuola italiana. In Italia l’insuccesso nello studio scolastico del greco fu la norma generale. L’insegnamento di questa materia presentò subito gravi difficoltà. Si svilupparono subito vivaci polemiche contro il “metodo tedesco” e la grammatica del Curtius, polemiche che finirono col riguardare anche il metodo di insegnamento della lingua latina. Le proteste venivano da numerosi docenti e soprattutto da parte di chi intendeva conseguire la tanto ambita “certificazione del sapere” che gli permetteva di entrare rapidamente nella vita sociale ed economica delle professioni, e che non voleva penare troppo tra aoristi e piuccheperfetti. Si contrapposero, da una parte, i più intransigenti docenti universitari come Müller, traduttore dei testi del Curtius, i quali pretendevano una preparazione filologica molto rigorosa degli insegnanti, dall’altra coloro che cercavano la via di una “semplificazione” e di un alleggerimento dei programmi, dei testi e dei metodi di insegnamento. Le perplessità sulla validità, l’opportunità, il metodo stesso di insegnamento del greco, sono rimaste sostanzialmente invariate dall’Ottocento ad oggi. La difficoltà nell’apprendimento di questa lingua sono state sempre le stesse. Non è affatto vero, come si sente
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L’ANALFABETISMO DEGLI ALFABETI
spesso ripetere, che ai nostri giorni ci sia stata una decadenza dell’apprendimento del greco rispetto a periodi in cui esso sarebbe invece fiorito nelle scuole italiane. Basta leggere quanto scrive nel 1875 (appena quindici anni dopo l’introduzione del greco come materia scolastica), Giovanni Maria Bertini (1818-1876), uno dei pochi valenti grecisti italiani del suo tempo: “I giovani all’uscir dal ginnasio sanno così poco di greco, che nel Liceo dovrebbero ancora consacrarvi una gran parte del loro tempo, per giungere a quel grado minimo di cultura, al di sotto del quale ogni tempo e fatica che si sia spesa nel greco si può francamente dichiarare perduta. Questa incredibile debolezza del greco proviene dal fatto che i giovani ne incominciano lo studio troppo tardi […] sette anni più tardi di quanto Antonio Mureto, Erasmo di Rotterdam, ed altri umanisti che s’intendevano delle istituzione de’ giovani, volevano […]. L’età della prima puerizia è quella in cui le fatiche di memoria materiale […] sono facilissime e si sostengono allegramente dai giovinetti, senza noia, senza tristi riflessioni, senza le interrogazioni così frequenti in bocca dei giovani più provetti: a che mi servirà il greco? E non potrei spender meglio il mio tempo?” 22
Non furono pochi i sostenitori dell’abolizione del greco antico dal curriculum classico o almeno della sua riduzione a materia facoltativa. Nel 1888, il ministro Boselli, del primo governo Crispi, concesse agli studenti l’opzione all’esame di licenza tra la prova di greco e quella di una materia scientifica, ma il suo tentativo di riforma fu annullato nel 1891 dal ministro Villari che impose nuovamente come obbligatoria per tutti la prova di greco. Le polemiche contro la scuola classica, la sua pretesa “superiorità” culturale, ed in particolare contro l’insegnamento del greco antico, non si placarono. G.M. BERTINI., Questione urgente sull’istruzione classica, “RFIC” III (1875), p. 275.
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2.3 L’INSEGNAMENTO DEL GRECO ANTICO
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Passiamo citare, tra le molte voci, quella di Giuseppe Chiarini, anch’egli letterato classicista, giornalista, critico letterario, amico e biografo di Carducci, il quale, avversando decisamente il filologismo e la grammatica tedesca, non riuscendo a capacitarsi delle ragioni di “seccare i ragazzi con la grammatica dello Schultz e gli esercizi del Gandino”, scriveva nel 1900: “Occorre innanzi tutto che la gioventù impari a conoscere il mondo e la società in mezzo a cui vive […]. Le scuole per la gioventù debbono mirare a ben altro che a formare dei latinisti, dei grecisti, dei dotti, dei poeti: i latinisti, i grecisti, i dotti, i poeti ci hanno da essere, ma quando in una nazione ce n’è l’uno per due, per tre, per quattromila, basta e n’avanza […]. Pretendere che la cultura letteraria in genere, e la classica in ispecie, abbiano il privilegio di formare le teste meglio che non le discipline scientifiche, è un pregiudizio!” 23
Nel 1904, con il ministro V.E. Orlando, gli studenti che erano stati promossi alla seconda classe del liceo potevano optare tra matematica e greco ed in terza avrebbero avuto facoltà di studiare a piacimento l’una o l’altra disciplina con dispensa dalla frequenza delle lezioni e dal sostenere gli esami nella materia non scelta. Nel 1911 fu anche concesso un “liceo moderno”, senza il greco e con un latino ridotto nei contenuti ed alleggerito nei metodi, il quale però fu istituito solo in poche città. Sempre nel 1911 furono varati nuovi programmi, ispirati da Giuseppe Fraccaroli (1849-1918), filologo e grecista, successore di Müller all’università di Torino. Con Fraccaroli si afferma una nuova concezione degli studi classici, intesi ora essenzialmente come “viatico al Vero e al Bello”. Furono eliminate le selezioni antologiche dei testi greci e fu introdotto l’obbligo della lettura in originale di interi libri di Omero, tragedie o commedie. G. CHIARINI, Intorno alla scuola classica: malinconia d’un burocratico, “Rivista d’Italia” (15 Marzo 1900), p. 442.
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Fraccaroli, contro il rigore filologico germanico, ed in polemica con il suo più acceso sostenitore, Girolamo Vitelli (1849-1935), suggeriva l’eliminazione di qualsiasi riferimento filologico nella didattica del greco nelle scuole italiane. 24 Ma la situazione dell’apprendimento del greco non mutò. Il generale e pressoché completo insuccesso nello studio del greco antico perdurò in tutti i decenni successivi. Così, nel 1923, Achille Cosattini, scriveva nella sua prefazione ad un intelligente libro per l’apprendimento del lessico greco: “Una delle ragioni infatti del poco, alle volte quasi addirittura punto, profitto di questo insegnamento è, a parere mio e certamente di quanti hanno conosciuto questa scuola, lo scarsissimo interesse che il giovane vi prende. Il greco è per lui qualche cosa di lontano, di molto lontano: si danno spesso troppe regole formali e non sempre si ha sufficiente cura di far apprendere il materiale della lingua. Così anche i giovani che conoscono direttamente la parte teorica della grammatica, quando si metta loro dinanzi un autore, sono, letteralmente, sbalestrati in un campo nuovo”. 25
Allo stesso modo Giorgio Pasquali (1885-1952) nel 1930 scriveva:
G. FRACCAROLI, L'educazione nazionale, Torino, 1917. Bisogna considerare che la polemica contro il metodo tedesco si accese soprattutto negli anni della prima guerra mondiale, quando l’adesione esaltata della cultura classica italiana alla filologia germanica poteva suonare come un tradimento dello spirito patriottico nazionale. Bisogna inoltre osservare che le idee di Fraccaroli (espresse, ad esempio, nel suo testo L’irrazionale in letteratura del 1903) rivelano numerose consonanze con l’Estetica di Benedetto Croce. 25 A. COSATTINI, Prefazione a B. TODT, Piccolo vocabolario metodico della lingua greca, Livorno, 1923. Il dizionario di TODT è a mio avviso un utile strumento di apprendimento del lessico, valido ancora oggi. 24
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“In pochi paesi del mondo studiosi di greco seri e perfino notevoli abbondano quanto da noi in Italia; eppure il greco nelle nostre scuole non si impara, si finge di impararlo. Questi pochi che hanno buona voglia e l’imparano per davvero, studiano poi per lo più lettere e divengono alla loro volta professori di greco, tanto più valorosi quanti più sforzi hanno dovuto fare per impadronirsi di questa lingua; e così il circolo e chiuso”. 26
Intanto, tra questi dibattiti, mentre l’Italia tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento costruisce per il ceto dirigente la sua scuola classica, infarcendola di retorica e poesia, il progresso scientifico e tecnologico compie ovunque in Europa passi da gigante in tempi molto rapidi e chiama la nazione a fare i conti con una modernità alla quale essa è sostanzialmente, e tragicamente, impreparata. 2.4 Il rifiuto della cultura scientifica e tecnologica La modernità nel mondo Occidentale ha il nome di positivismo. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, il positivismo afferma il primato del pensiero e alla mentalità scientifica, intesa anche come “fatto educativo” utile alla società moderna. A questo primato la cultura italiana oppose un rifiuto pressoché totale, rifiutandosi di accettare ed adottare nelle scuole nazionali un paradigma educativo in linea con l’evoluzione sociale, tecnologica, scientifica del tempo. Un ruolo determinante per questo aspetto ebbero le due massime figure della cultura italiana del tempo, Benedetto Croce e Giovanni Gentile.
26 G. PASQUALI, Paradossi didattici, in Pagine stravaganti di un filologo, Firenze, 1994, p. 158 sg.
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In polemica con l’affermazione del positivismo e con la sua esaltazione della scienza, Benedetto Croce, nel 1908, si lamentava che stava prevalendo “…il tipo d’uomo che ha conoscenze non poche, ma non ha la conoscenza; che è ristretto ad una piccola cerchia di fatti o dissipato tra fatti di più vasta sorta, ma che, così ristretto o così dissipato, è privo sempre di un orientamento o, come si dice, di una fede”. (…) Nell’ultimo mezzo secolo si è voluta elevare a ideale supremo di cultura la cultura naturalistica e matematica, cioè appunto quella forma che non rappresenta la concretezza della mente e che si esplica nel foggiare schemi vuoti o manipolare dati di esperienza. La qual cosa non si deve chiamare specialismo, ma naturalismo o positivismo”. 27
Sempre Croce, qualche anno dopo, nel congresso di Bologna della Società Filosofica Italiana (1911), definì “aritmetica e geometria” come incapaci di raggiungere “le alte vette dello spirito”. Negli stessi anni Giovanni Gentile, al quale si deve il primato del liceo classico nel sistema educativo italiano, condannò la scienza definendola “un mondo di spettri, dove l’anima sente il freddo della morte”: “la scienza, che toglie il respiro e suscita acuta la nostalgia della vita col suo fremito e dell’arte con l’impeto della sua lirica, dove l’animo si effonde liberamente, ignaro di tutto quello che non sia il suo mondo, il mondo del suo sentimento o della sua fantasia: quella scienza che coi suoi schemi, le sue formule, le sue leggi, i suoi tracciati, i suoi preparati, i suoi cadaveri e le sue piante disseccate e le sue bestie impagliate è come un mondo di spettri, dove l’anima sente il freddo della morte. 28
B. CROCE, Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, Laterza, Bari, 1914, pp. 22-23. 28 G. GENTILE, Sommario di pedagogia, 1912, vol. I, p. 230. 27
2.5 IL LATINO NON SI STUDIA PER IMPARARE IL LATINO
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Contro il prevalere di una cultura positivista che esaltava il primato del naturalismo e della matematica, Croce opponeva “l’armonica cooperazione della Filosofia e della Storia, intese l’una e l’altra nel loro vero e larghissimo significato”. Contro l’affermarsi del tipo d’uomo positivista, il quale aveva “conoscenze non poche”, ma che era “senza fede”, la cultura italiana rivendicò la superiorità ed il predominio della cultura umanistica, da coltivarsi particolarmente nella scuola classica. La riforma Gentile, realizzata con cinque decreti tra il 1922 ed il 1923, pose questa scuola, col il latino, il greco, la storia e la filosofia, in cima alla gerarchia dei saperi. Il liceo classico gentiliano fu considerato, nel sentire comune, come la massima espressione formativa della “vera cultura” universale a fronte di una collocazione della scienza e della tecnica a livello secondario, ancillare, strumentale, proprio negli anni in cui l’evoluzione storica conferiva a queste discipline un ruolo sempre maggiore nella strutturazione dei sistemi di produzione e della società in generale, ruolo che oggi è di assoluta ed incontrastata preminenza. 2.5 Il latino non si studia per imparare il latino Antonio Gramsci espresse una posizione fortemente critica verso la nuova scuola di Gentile. Nelle pagine dei Quaderni del carcere dedicate alla scuola italiana, Gramsci osserva che lo studio grammaticale del latino e del greco, nella vecchia scuola italiana pre-gentiliana, unito allo studio delle letterature e delle storie politiche rispettive, era un principio educativo per il fatto che l’ideale umanistico, incarnato da Atene e Roma, era diffuso in tutta la società ed era un elemento essenziale della vita e della cultura nazionale.
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La riforma Gentile, invece, era il portato di una mutata “intuizione della cultura”. Essa riservava soltanto a pochi lo studio del latino (e del greco), nel quadro di un approccio prevalentemente estetico e retorico alla lingua (già presente, come si è detto, nei programmi di Fraccaroli del 1911). Di fronte alla riforma di Gentile, Gramsci difendeva il precedente impianto della scuola italiana: una scuola fondamentalmente di “istruzione”, i cui programmi erano legati a “nozioni concrete”, alla grammatica meccanica, una scuola in cui – e questo era secondo lui il grande vantaggio e la migliore garanzia di qualità – queste nozioni non servivano mai per uno scopo pratico professionale immediato. Gramsci difendeva lo studio meccanicistico della grammatica ed affermava che c’era “molta ingiustizia e improprietà nell’accusa di meccanicità e di aridità” che a quei tempi veniva mossa allo studio del latino. Egli considerava utile, invece, “un certo dogmatismo”, intendendo con ciò un insieme di nozioni concrete, la logica formale e l’astrattezza dello studio grammaticale. Gramsci riconosceva un valore formativo a questo tipo di studio (pur lasciando vedere, però, che in generale non era poi sempre così). Pensava che si dovesse insegnare il latino perché questo sistema linguistico chiuso era “un formidabile tirocinio per i fanciulli”, a prescindere (almeno in un primo momento) dalla reale acquisizione di una competenza linguistica relativa alla lingua di Roma. Era il valore formativo del metodo analitico, sotteso allo studio della lingua latina, che interessava a Gramsci. Il suo pensiero a riguardo è molto chiaro: “Il latino non si studia per imparare il latino; il latino, da molto tempo, per una tradizione culturale-scolastica di cui si potrebbe cercare l’origine e lo sviluppo, si studia come elemento di un ideale programma scolastico, elemento che riassume e soddisfa tutta una serie di esigenze pedagogiche e psicologiche; si studia per abituare i fanciulli a studiare in un determinato modo, ad analizzare un corpo
2.5 IL LATINO NON SI STUDIA PER IMPARARE IL LATINO
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storico che si può trattare come un cadavere che continuamente si ricompone in vita, per abituarli a ragionare, ad astrarre schematicamente pur essendo capaci dall’astrazione a ricalarsi nella vita reale immediata, per vedere in ogni fatto o dato ciò che ha di generale e ciò che di particolare, il concetto e l’individuo”. 29
Nella scuola italiana, nota Gramsci, il latino è stato sempre presente non tanto per impararlo “come lingua”, ma piuttosto per studiarlo “come materia”. La valenza fondamentale di questa lingua era dunque di natura essenzialmente extralinguistica. Anche per Gramsci studiare il latino serviva per tuffarsi nella storia, “acquistare una intuizione storicistica del mondo e della vita, che diventa una seconda natura”. In ogni caso resta il fatto che il fine dello studio del latino anche per Gramsci non era il latino in sé, ma l’acquisizione, mediante lo studio del latino, di una dimensione storica che lo studio della lingua antica di Roma poteva assicurare ai giovani. Il latino, come tutte le lingue morte, per Gramsci è “un cadavere da anatomizzare” senza che la scomposizione dia “tanfate di cadavere”. Riservare il latino solo a poche menti elette del liceo classico in grado di affrontare la salita verso “le più alte vette dello spirito” era per Gramsci un’operazione pedagogicamente errata e comunque non facilmente realizzabile. Difficilmente, infatti, si sarebbero potute trovare altre materie o discipline di uguale forza per l’educazione e la formazione generale della personalità, proprio per il fatto che nell’età che va dalla fanciullezza alla scelta professionale, lo studio, secondo Gramsci, avrebbe dovuto essere “il più disinteressato possibile, senza scopi pratici immediati o troppo immediati”. Gramsci nutriva molti dubbi sulla vera natura democratica di una scuola che troppo, e troppo precocemente, A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, Vol. III, p. 1545.
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intendeva stabilire itinerari di tipo professionale che prendevano il sopravvento sulla scuola formativa immediatamente disinteressata. Una scuola troppo interessata all’immediato era per Gramsci una scuola antidemocratica, una scuola che non poteva “formare persone capaci di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige”, come invece la scuola di un paese democratico dovrebbe fare. 2.6 Sapere disinteressato, sapere aristocratico In quegli stessi anni in cui in Italia si affermava il paradigma crociano-gentiliano della cultura umanistica come via per il raggiungimento delle “più alte vette dello spirito”, l’americano Dewey scrisse le sue riflessioni sull’assurdità logica e storica di una cultura, come appunto la cultura italiana, che rifiutava per principio ideologico le conoscenze scientifiche come conoscenze essenziali per la formazione dei giovani e per la vita e lo sviluppo di una nazione. L’idea di fondo di un “sapere disinteressato”- osservava Dewey - è fondamentalmente la sopravvivenza di una concezione aristocratica e feudale della cultura. Considerare scolasticamente apprezzabile soltanto ciò che è teorico e che non è finalizzato ad alcunché di pratico, come avevano sostenuto generazioni di studiosi e di docenti italiani, a cominciare dal Müller, rivela una concezione aristocratica della vita per cui la “vera” cultura coincide sempre e solo con la pura teoria; un’idea elaborata dalla società antica che era una società basata quasi esclusivamente sul lavoro servile. Le attività pratiche spettano agli schiavi. Il sapere, pura astrazione, solo i nobili possono possederlo, solo i ricchi possono coltivarlo. Le attività pratiche sono attività banausiche sempre disdegnate come inferiori dal saggio il quale è sempre e soltanto un uomo
2.6 SAPERE DISINTERESSATO, SAPERE ARISTOCRATICO
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libero di condizione agiata. Il sapere è perciò sempre e soltanto una dote liberale: “L’idea che la conoscenza “applicata” sia in qualche modo meno degna della conoscenza “pura” era naturale in una società in cui tutto il lavoro utile era effettuato da schiavi e servi e nella quale la produzione era controllata dai modelli stabiliti dall’abitudine piuttosto che dall’intelligenza. La scienza e la conoscenza più elevata fu allora identificata con la pura teoria, astraendo da qualsiasi applicazione negli usi della vita, e la conoscenza relativa alla arti utili ha sofferto del marchio che accompagna le classi che vi sono impiegate […]. Adottando il criterio della conoscenza, promosso dalla cultura letteraria, distante dei bisogni pratici della massa, gli educatori che propugnano una educazione scientifica si pongono in una posizione di inferiorità strategica. Ma in quanto adottano l’idea della scienza appropriata al suo metodo sperimentale e ai movimenti di una società democratica e industriale, possono facilmente dimostrare che la scienza naturale è più umanistica di un preteso umanesimo che basa i suoi piani educativi sugli interessi specializzati della classe agiata. Poiché gli studi umanistici, quando sono opposti allo studio della natura sono inceppati, tendono a ridursi a studi esclusivamente letterari e linguistici, che a loro volta tendono a restringersi ai “classici”. Alle lingua morte. Siccome le lingue moderne potrebbe essere messe a servizio, sono messe al bando. Sarebbe difficile trovare nella storia qualcosa di più ironico dell’indirizzo educativo che ha identificato le “umanità” con una conoscenza esclusiva del greco e del latino. L’arte e le istituzioni greche e romane diedero dei contribuiti così importanti alla nostra civiltà, che dovrebbe essere facilitata al massimo la possibilità di studiarle. Ma il considerarle studi umanistici per eccellenza significa trascurare deliberatamente le possibilità educative di materie di studio accessibili alle masse, e tende a coltivare una snobismo ristretto di una classe colta, i cui titoli di superiorità sono dovuti unicamente al caso di una situazione privilegiata. La conoscenza è umanistica nella qualità, non perché riguarda i prodotti umani del passato, ma per via di quel che fa per liberare l’intelligenza e la simpatia umana. Qualsiasi argomento che raggiunge questo risultato è
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umano, e qualsiasi argomento che non lo raggiunge non è nemmeno educativo. 30
Dewey è americano; è figlio di una nazione democratica, nella quale è generalmente assente l’idea, o la prospettiva ideologica, che possano esistere materie privilegiate solo per le classi colte come in Italia il liceo classico di Gentile affermava. Se il mondo latino ed greco, le lingue di queste civiltà, la cultura che esse espressero, erano importanti per il contributo storico e culturale che hanno dato allo sviluppo del mondo intero, allora dovrebbero essere accessibili il più possibile a tutti. A torto si è detto che Dewey è un teorico di un’educazione intesa solo alla praticità e alla concretezza. L’idea di Dewey che “l’aula scolastica fosse da trasformare in uno spazio senza soluzione di continuità con il mondo esterno, un luogo dove si dibattono problemi concreti, dove il sapere trova attuazione pratica”, ancora oggi nella mentalità italiana suscita perplessità e difficile accettazione, a causa dell’eredità dello spiritualismo gentiliano e crociano. Eppure non c’è nella nostra età contemporanea un pedagogista che incarni meglio il profilo dell’antico umanista rinascimentale italiano che l’americano John Dewey. Dewey, come riconosce anche Martha Nussbaum, è un educatore “pienamente socratico”. 31 Egli certamente diffidava dai “grandi libri” classici in quanto erano da lui considerati come “una mera autorità” cioè dispensatori di verità chiuse e calate dall’alto anziché elementi di stimolo all’impegno e all’attività dal basso. Per Dewey il più grave limite dell’educazione tradizionale, basata solo sui classici, era nel metodo didattico tutto basato sull’apprendimento esclusivo e chiuso della J. DEWEY, cit., p. 294 sg. M.C. NUSSBAUM, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 80 sgg. 30 31
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materia, un metodo che induceva una sostanziale passività negli studenti. Una scuola come quella italiana si configurava come la scuola “dell’ascoltare ed assorbire”, dell’accettare le auctoritates dei “grandi libri”, così come cristallizzate dalla tradizione secolare (con gli studenti immobili nel ruolo di uditores passivi di cui già parlava criticamente Vico). A suo giudizio un atteggiamento di passività, l’assenza di fame intellettuale, se negativo per la vita in generale, era fatale per la democrazia. Anziché “ascoltare” la lezione, gli studenti fin da bambini, avrebbero dovuto riflettere sulle cose, ragionare e porsi e porre domande, partecipando con energia e vivacità al processo di apprendimento. L’indagine socratica, che nasce dallo svolgere un compito specifico ed immediato, nel porsi domande su quello che si sta facendo, è il metodo unico dell’apprendere per lui, è non solo l’espressione di un modo di essere intellettuale, ma anche un aspetto dell’impegno pratico. Dewey è un educatore che non pone mai al centro del processo educativo “materie” e “lezioni-conferenza” da ascoltare, ma sempre allievi che apprendono il senso della cittadinanza condividendo “progetti”. Quei “progetti” educativi che prevedono attività concrete, elaborative, pratiche che oggi hanno una parte così importante nella pratica didattica quotidiana delle scuole italiane e anche, finalmente, nel liceo classico. Si potrebbe dire che queste attività “alla Dewey”, benché ancora confinate perlopiù nel tempo scolastico extracurriculare, rappresentino la parte più coinvolgente, stimolante ed educativa dell’attività didattica. Nonostante nessuno possa pensare di cancellarle dal liceo classico, esse sono ancora guardate con un certo sospetto dalla parte più chiusa e conservatrice dei docenti i quali temono sempre la svalutazione della teoria, lo svilimento della materia, la dispersione dei saperi disciplinari… Nelle attività educative di tipo progettuale sono in gioco problemi da risolvere, parti da assumere, ruoli da svolge-
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re, il tutto in uno spirito rispettoso degli altri e critico verso l’attività che si svolge. Nei progetti entrano in gioco la cooperazione, lo spirito critico, la verifica dei risultati, il raggiungimento degli obiettivi, il saper scegliere i mezzi, adeguarli allo scopo. Inoltre per Dewey l’attività di apprendimento cooperativa aveva anche lo scopo di insegnare il rispetto del lavoro manuale, dell’attività commerciale. Ma proprio questa parte appunto suonava, e suona ancora, blasfema per la concezione spiritualista del liceo classico italiano. La scuola, la formazione non doveva avere nulla a che fare – e secondo alcuni ancora oggi non deve avere a che fare – con il lavoro e le attività manuali. L’attività economica e commerciale, poi, era un aspetto inferiore della vita dell’uomo, come se l’uomo non fosse stato da sempre, anche e soprattutto, homo oeconomicus. Le “alte vette dello spirito” da raggiungersi nelle aule del liceo classico non avrebbero avuto mai nulla a che fare con le bassure dell’attività pratica e dell’economia. Lo spiritualismo affermatosi in Italia con Croce e Gentile ricacciava nei territori dell’eresia le aperture di Dewey al fare, al cooperare, al mondo dell’attività pratica e dell’economia, che nel suo pensiero rappresentavano una via altamente utile da percorrere per affermare e far vivere una democrazia. Per Dewey invece considerare la cultura umanistica un sapere soltanto astratto e teorico, riservato peraltro a pochi eletti, ha una radice sociale inaccettabile. L’umanesimo del liceo classico gentiliano, che aveva dirottato nelle “scuole di scarico” migliaia di studenti, era per la mentalità di Dewey uno pseudo-umanesimo, fatto esclusivamente di latino e greco (infarcito di grammaticalismo) e di poche altre materie ritenute, a torto, “nobili”. Era, insomma, un modello educativo basato soltanto sugli interessi delle classi agiate, i cui titoli di superiorità erano dovuti “unicamente al caso di una situazione privilegiata”, finalizzato alla selezione sociale e a disciplinare l’accesso al gruppo dirigente.
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La cultura umanistica, invece, afferma Dewey, è tale solo se e solo quando opera “per liberare l’intelligenza e la simpatia umana” ed è destinata a tutti gli uomini. L’uomo colto, l’uomo umanista, è l’uomo aperto e libero, intelligente e “simpatico”, tollerante delle idee e delle credenze degli altri, e soprattutto operoso nel mondo reale, rispettoso del lavoro umano e della vita economica. L’umanesimo non si basa sul culto della materia, né è l’insegnamento di discipline particolari destinate a pochi eletti o a pochi capaci. Dewey aveva visto giusto. Se si guardava “ai movimenti di una società democratica e industriale” bisogna riconoscere con lui, contro Croce, “che la scienza naturale è più umanistica di un preteso umanesimo che basa i suoi piani educativi sugli interessi specializzati della classe agiata”. In verità anche in Italia non mancarono, in quegli stessi anni, uomini di cultura, docenti, politici attenti osservatori ed interpreti della realtà del proprio tempo, dotati di sensibilità pedagogica, di senso storico ed anche di buon senso, ai quali non sfuggiva l’importanza essenziale delle scienze, della tecnologia, la necessità del loro adeguato insegnamento nelle scuola italiana, da cui non bisognava prescindere per il corretto sviluppo civile, sociale ed economico, per il futuro, in una parola, della nazione. Questi intellettuali, anche senza rifarsi esplicitamente alla lezione di Dewey, guardavano con perplessità e disappunto a quella scuola riformata italiana che esaltandone in modo sconsiderato il ruolo “umanistico” introduceva il latino “un po’ ovunque” (cioè nel classico, nello scientifico, nell’istituto magistrale…). Augusto Monti (1881-1966), insegnante, scrittore e politico antifascista, avversò la riforma Gentile che aumentava “di 12 x 5 volte il numero si questi aspiranti, più o meno, coatti, alla nobiltà del qui quae quod” per garantire una specie di nobiltà alla classe dirigente”.
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Monti segnalava come un fatto grave per il futuro dell’Italia che la “scuola moderna” di Gentile, da lui chiamata “la novella scuola per galantuomini”, avesse spazzato via la sezione fisico-matematica dell’istituto tecnico, che non da molto tempo era stata istituita e avesse tarpato le ali alle scuole che avrebbero potuto essere il volano dello sviluppo economico ed industriale del paese: “Il fascismo, nella sua inettitudine a capire quanto è moderno, scientifico, industriale, “capitalistico”, ha fatto piazza pulita di quella che doveva essere nell’avvenire la scuola specifica dei capitani d’industria e dei tecnici di stile, e vi ha posto invece un doppione del liceo classico, a cui, per ironia, ha posto il nome di liceo scientifico […]”.
Luigi Salvatorelli (1886-1974), condannò senza mezzi termini questa idolatria della cultura umanistica (gravata, con l’avvento del fascismo, di una insopportabile veste retorica) e la definì “l’analfabetismo degli alfabeti”, indicando con questa espressione una cultura parolaia e superficiale caratterizzata da un’infarinatura storicoletteraria, l'esaltazione di Roma e dell'Impero Romano, e la celebrazione oleografica del Risorgimento. 2.7 Una scuola per dirigenti Con la riforma Gentile, la classe dirigente italiana di buona parte del XX secolo uscì uscita proprio dalle aule del liceo classico. E’ lecito interrogarsi allora su quale sia stata la qualità di questa classe dirigente uscita dalla formazione etico culturale ricevuta nelle aule del liceo classico. Mi pare si possa convenire sulla riflessione di Luigi Berlinguer, ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (…), ed autore di una sfortunata riforma del sistema dell’istruzione in Italia. Ragionando sulla scuola italiana, sul liceo classico in particolare, Berlinguer ha
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scritto al riguardo che al latino (e alla cultura classica in generale insegnata nei licei) è stato assegnato in Italia un triplice compito: “una funzione culturale, una sociale ed una tecnico formativa”. “Queste tre funzioni sono strettamente legate tra loro, sono non dissociabili e funzionali ad un unico scopo: “costituire contemporaneamente per “chi sa il latino” (ed il greco) una preminenza culturale, una metodologia formativa ed una specifica collocazione nella società; individuare e selezionare insieme chi (quale ceto), con quale cultura, preparato in che modo. […]. Bisogna prendere atto che allo studio delle lingue classiche è stato affidato un ruolo non di unificazione culturale del paese ma, al contrario, oggettivamente – forse non per esplicito proponimento - di divisione […]. Quel ruolo non è stato poi solo di divisione, ma anche gerarchico, di preminenza culturale. Il mondo della classicità, in buona misura ridotto a grammatica e sintassi della lingua morta, era stato prospettato come unico modo per raggiungere “le alte vette dello spirito”. 32
Ora, anche se non né possibile né corretto generalizzare, bisogna osservare che è con questa classe dirigente (il “chi” di Berlinguer), con una formazione culturale quasi esclusivamente dipendente dalla retorica umanistica del liceo classico (il “con quale cultura”), e con una preparazione esclusivamente teorica-astratta impartita da una didattica di tipo assolutamente passivo-ricettivo (il “preparato in che modo”) che l’Italia ha affrontato la rivoluzione tumultuosa della modernità novecentesca. Con questa “selezionata” classe dirigente si sono prodotti le manchevolezze, le inadeguatezze, i ritardi 32 L. BERLINGUER, Riflessioni di esperti per la scuola italiana del 2000 in Latino perché? Latino per chi? Confronti internazionali per un dibattito, “Questioni aperte” (TreElle), 1, maggio 2008, p. 51. Tutto l’interessante fascicolo di “Questioni aperte” dedicato al dibattito sull’insegnamento del latino (e del greco), sul valore della scuola classica, ai confronti con gli altri sistemi didattici europei è disponibile anche on line: http://www.treellle.org/files/lll/QA1.pdf .
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nell’ammodernamento delle strutture, dello sviluppo del pensiero scientifico e dell’innovazione tecnologica e produttiva. Mentre si esaltava il valore della dimensione critica degli studi umanistici, dell’educazione al Bello e al Vero celebrata da Fraccaroli, del carattere aristocraticamente disinteressato della cultura classica, della sua forte valenza etica, il liceo classico è rimasto lontano dalla percezione del mondo reale, della realtà produttiva di un paese in faticosa marcia verso la modernità. Mentre il mondo si evolveva rapidamente, la scuola umanistica italiana non è stata in grado di formare profili adeguati ad affrontare le complesse sfide della modernità. La classe dirigente nazionale, complessivamente considerata, si è rivelata molto al disotto di quanto necessario per dirigere il progresso della nazione verso la struttura complessa del mondo contemporaneo. Anche senza tener conto dei vizi tradizionali della società italiana (familismo, corruzione, illegalità diffusa), la classe dirigente uscita dal liceo classico e impiegata nel corpo burocratico e dirigenziale dello Stato, complessivamente considerata, sembra non essere stata all’altezza del compito. Scarsa o nessuna capacità di ideare, avviare e gestire le procedure della vita sociale, le innovazioni infrastrutturali, amministrative, organizzative e tecnologiche da parte di chi avrebbe dovuto, a tutti i livelli, interpretare la realtà e governare i processi di trasformazione, hanno portato l’Italia a scivolare progressivamente in fondo ad ogni tipo di graduatoria relativa al grado di sviluppo civile di una nazione. L’osservazione di Augusto Monti era dunque fondata: con la scuola umanistica di Gentile, mentre si diffondeva il culto del latino un po’ dovunque, si rinunciava al futuro della nazione, si rinunciava a capire “quanto è moderno, scientifico, industriale, capitalistico, distruggendo così le possibilità di avere una formazione specifica dei “capitani d’industria” e dei “tecnici di stile”. Né veri capitani
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d’industria, infatti, né vero capitalismo ha conosciuto l’Italia moderna. E’ sorprendente che dirigenti scolastici e docenti siano fermi oggi a difendere un sentiero tracciato ottant’anni da Gentile per selezionare pochi scelti per il gruppo dirigente, mentre non c’è indagine, dato statistico o indicatore numerico, che non segnali il grave ritardo della società italiana in tutti i settori della cultura scientifica, nell’uso sociale delle tecnologie, nell’organizzazione avanzata dei servizi, nelle strutture di inclusione e di promozione sociale, negli standard dei servizi sociali, della medicina, della prevenzione, della tutela del territorio e dei beni culturali, nella loro valorizzazione e nella gestione economicamente proficua ed utile per tutti… Una generale incapacità ed un ritardo, anche culturale, di agire in tutti quei settori che oggi sono considerati gli indici di sviluppo di una qualsiasi nazione moderna. E’ ben chiaro ovviamente che alla base del ritardo storico dell’Italia vi sono numerosi e complessi fattori, economici, produttivi, finanziari; elementi sociali e culturali di diversa natura, tali che non si può stabilire un legame così diretto ed immediato tra sistema formativo e sviluppo nazionale, che risulterebbe semplicemente forzato; ma non si può neppure passare completamente sotto silenzio l’incidenza che, per la sua parte, ha avuto l’assenza nella classe dirigente di una mentalità adeguata derivante da una formazione culturale meno “spirituale” e più fondata su competenze specifiche di taglio gestionale, scientifico, logistico. In un mondo radicalmente e definitivamente mutato nelle sue strutture profonde, la classe dirigente italiana resta ancora molto inadeguata alle necessità e ben al di sotto della preparazione richiesta per affrontare le sfide del presente. Ancorati ad uno schema formativo fondato sulla retorica della “alte vette dello spirito”, per carenza di mentalità
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tecnico-scientifica e di competenza operativo-gestionale, dirigenti, amministratori e responsabili della vita civile della nazione non riescono spesso né a gestire i complessi processi del tempo presente né ad immaginare il futuro, a proporre i nuovi scenari necessari per attuare interventi efficaci; non riescono a compiere i passi necessari a dare risposte alle nuove esigenze di una nazione che arranca e fatica a progredire in tutti i suoi settori e che è ancora lontana da quell’unità democratica e partecipata dei suoi cittadini che avrebbe dovuto rappresentare il pieno compimento del processo storico dell’Unità nazionale. Ad uscire dal grave ritardo storico italiano non serve la difesa della scuola classica nazionale “così com’è”. Essa, a mio avviso, ha definitivamente concluso il suo ruolo storico. L’opposizione ideologica a qualsivoglia tipo di riforma da parte di docenti e studenti finisce, paradossalmente, per costituire un fattore frenante dell’evoluzione del sistema scolastico nazionale più pericoloso della stessa inerzia dei vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni. I docenti dei licei classici corrono oggi il rischio di non vedere oltre l’orizzonte della propria dottrina, fondando inutili circoli per la difesa liceo “così com’è”, restando il più delle volte a disagio nelle complesse dinamiche della scuola moderna, incapaci di offrire risposte valide in relazione alle nuove esigenze del sistema che possono arrivare anche a mettere in discussione tutto quello che essi hanno fatto in passato per ottenere “il posto di lavoro a vita”.
Capitolo 3 – Docenti e studenti
3.1 Il professore “dotto” E’ ancora merito di Luigi Berlinguer aver affermato un concetto semplice che dovrebbe essere di chiara evidenza per tutti: che la cultura è sempre una “sintesi fra esperienza e riflessione razionale, fra osservazione diretta e teoria […], tra fare e saper fare”. Non può esistere l’una componente senza l’altra. In ossequio all’idea di una supposta superiorità del sapere “disinteressato” umanistico, i docenti del liceo classico sono piuttosto restii ad accettare questa evidente elementare verità. Non sono pochi quelli che protestano con molta determinazione all’idea che, nella scuola classica, debba essere accettata questa per loro “strana” idea di cultura: di una cultura, cioè, che comporta anche una “capacità operativa” a tutti i livelli. Da qualche anno – bisogna riconoscerlo - più di un docente di lettere del liceo classico comincia ad usare l’espressione “laboratorio”, “didattica laboratoriale”. Utilizzando questi termini si è presente in effetti l’idea di un insegnamento inteso sempre più come attività “da officina”, come lavoro sempre più aperto al “fare”, all’operare concreto, basato su osservazione, manipolazione e creazione di oggetti e di prodotti, reali o virtuali che siano. Ciò evidentemente è segno che si comincia a prendere coscienza che anche il liceo classico deve aprirsi al “fare”, al “saper fare”; che la società del nostro tempo non può più
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accettare figure di docenti formate soltanto per la lezione teoria e la riflessione astratta. Ci sono però ancora insegnanti che, in una posizione di radicale chiusura, nel continuo e sterile lamento sulla scarsa della preparazione degli allievi, non fanno altro che difendere la tradizione del liceo classico senza concedere nulla ad alcuna ipotesi di rinnovamento, anzi dichiaratamente propensi alla restaurazione del più puro spirito ottocentesco. Non sono pochi, infatti, coloro che invitano i docenti e gli alunni a mettersi “volontariamente e lucidamente in posizione ‘conservatrice’ e ‘anacronistica’”. I laudatores temporis acti, del resto, non sono mancati in nessuna epoca. Si tratta di solito o di docenti di una certa età presi dall’intramontabile mito del “buon tempo andato” al cui confronto il presente è solo ignoranza, desolazione, decadenza o di docenti che ideologicamente avversi alla società neoliberista fanno dell’opposizione alle ipotesi di rinnovamento scolastico una battaglia politica. Uno dei punti centrali di questa difesa ideologica e astorica della tradizione assume l’aspetto della difesa delle materie. Costoro affermano che da quando si è persa la “centralità delle materie” è cominciato il declino della scuola italiana. In tal senso una colpa grave l’avrebbe la cultura scolastica americana, con i suoi “progetti” alla Dewey, non inquadrati nel rigido programma scolastico basato sulle materie e sull’ora di lezione. La formazione basata sui “progetti” è solo dispersione nelle diverse attività pratiche di scarso valore e di nessun costrutto, distruttive più che formative. Nella scuola classica italiana, invece, dovrebbero esistere solo le “poche materie” della tradizione e “sempre le stesse” (essenzialmente italiano, matematica poca , filosofia, fisica, storia, geografia). Il sapere scolastico per i difensori della tradizione è e deve rimanere “esclusivamente teorico”. Solo questo sapere, infatti, può considerarsi a tutti gli effetti “il sapere” per eccellenza. Esso si conquista con l’esercizio nello studio solitario, prevalentemente svolto solo sui libri cartacei, allo
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scopo di conoscere i dati, le nozioni disciplinari, pena lo svilimento, la perdita, la dequalificazione della scuola e dell’istruzione. Solo in questo modo, solo con questo tipo di studio si perviene alla “Conoscenza” (crocianamente declinata soltanto al singolare) e perfino alla gioia della cultura. Per costoro, sufficit materia! Per i conservatori tutta la scuola è soltanto “la materia”. Il professore deve conoscere approfonditamente tutta “la teoria”, la scienza relativa alla materia che si professa a scuola. Non c’è bisogno di imparare altro. Basta essere un “dotto professore”, senza alcuna necessità di competenze pedagogiche né praticooperative di alcun tipo. Per costoro forse il docente di umanesimo potrebbe ancora essere simile al tipo delineato nel 1821 da William Hazlitt (1778-1830), scrittore, critico e saggista inglese, amico di Stendhal, Coleridge e Wordsworth, in un suo pungente scritto: “Il “dotto professore” ripete i nomi di Fidia e di Apelle, perché si trovano negli autori classici, e chiama “prodigiose” le loro opere perché non esistono più. Quando è di fronte ai più bei resti dell’arte greca se ne interessa soltanto per incominciare una disputa erudita (che è quanto dire un litigio) sul significato di una particella greca. E’ altrettanto ignorante di musica: dalle melodie del perfetto Mozart al piffero del pastore di montagna, le sue orecchie sono inchiodate ai libri, assordate dal suono del greco e del latino, e dal fracasso de dal fragore degli scolari in classe. Comprende forse meglio la poesia? Sa quanti piedi ci sono in un verso, e quanti atti in un dramma, ma dell’animo e dello spirito non sa niente. Traduce un’ode greca in inglese, o in epigramma latino in versi greci, ma lascia ai critici decidere se valeva la pena di farlo. Comprende forse “la parte pratica della vita” meglio di quella “teorica”? No. Non conosce arti né liberali né meccaniche, né il commercio né la professione; né i giochi di abilità, né quelli d’azzardo. La persona istruita non ha disposizione per l’agricoltura, l’architettura, i lavori in legno
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o in ferro; non sa fare utensili da lavoro, o usarli già fatti, non sa maneggiare né l’aratro né la vanga, né lo scalpello né il martello; non è pratico di segugi o di falconi, caccia o pesca, cavalli o cani, scherma o danza, lotta o bocce. Carte, tennis o qualsiasi altra cosa. Il “dotto professore” di ogni arte e di ogni scienza non sa praticarne neanche una, benché possa preparare un articolo su di essa per qualche enciclopedia. Non sa usare neanche mani e piedi, non sa né correre, né camminare, né nuotare, e considera uomini volgari e meccanici coloro che comprendono ed esercitano queste arti del corpo e della mente, benché per saperne anche una sola alla perfezione occorre molto tempo ed esercizio, capacità, forza e talento. Questo è più o meno quanto occorre al colto candidato per ottenere, attraverso uno studio faticoso, il titolo di dottore e una posizione; per poi mangiare, bere e dormire tutto il resto della vita!” 33
Una simile considerazione dei docenti di umanesimo, prima di Hazlitt, l’aveva espressa Diderot nel 1775: “Coloro che per sei o sette anni hanno studiato il latino diventano commercianti o militari […] oppure abbracciano la professione diplomatica o forense, il che significa che i diciannove ventesimi passano la loro vita senza leggere un solo autore latino e dimenticano tutto quanto hanno faticosamente appreso […]. E mi chiedo anche a chi queste lingue antiche possono essere di un’utilità assoluta. Oserei rispondere: a nessuno, a parte i poeti, gli oratori, gli eruditi e gli altri letterati di professione, cioè i ceti sociali meno necessari.
Si comprende il giudizio di Diderot dal momento che, com’è noto, l’Illuminismo era un movimento che ha dato grande risalto al lavoro umano e all’importanza del lavoro per il progresso della società. Ma anche prima dell’Illuminismo, nella stessa tradizione culturale italiana il lavoro, la creatività, le attività pra33 Opinioni illustri dal XVIII al XX secolo (a cura di R. DRAGHI) in Latino perché? Latino per chi? Confronti internazionali per un dibattito, “Questioni aperte” (TreElle), 1, maggio 2008, p. 139.
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tiche sono state enormemente valorizzate dall’umanesimo italiano ed europeo del Cinquecento. Se si considera l’umanesimo delle origini, vi può facilmente scorgere quale slancio, apertura, dinamismo, interesse anche per la fattiva operosità nel mondo, esso nutriva e propugnava. Dottissime figure dell’umanesimo europeo, grandi uomini di “conoscenze teoriche”, hanno anche fatto della loro vita un laboratorio costante di ricerca, ideazione, creazione, impresa, investimenti commerciali. Si pensi a personaggi come Cristoforo Plantin (15201589), il quale ebbe un ruolo decisivo in Europa per lo sviluppo dell’arte tipografica e per l’affermazione della cultura del libro stampato. I suoi libri di scienze, di diritto, di lettere, di linguistica, di liturgia, portati ad un elevatissimo livello estetico e tecnologico, si diffusero dappertutto in Europa. Jan Moretus (1543-1610), col quale collaborò un eccelso pittore del calibro di Rubens che illustrò le sue eleganti e preziose edizioni tipografiche, si assunse la totale responsabilità dell’edizione della Bibbia (1599), la cui versione è più vecchia della versione di Re Giacomo (1611). Nella dinamica città di Anversa, la casa editrice Plantin-Moretus, col figlio di quest’ultimo, Balthazar (15741641), giunse ad avere il monopolio della stampa e della distribuzione di libri liturgici in tutti i paesi soggetti alla Spagna. Entrambi curarono personalmente le edizioni tipografiche, aprirono e gestirono la prima libreria della storia aperta a tutti, un negozio nel quale anche un semplice privato poteva comprare un libro. Questi dinamici umanisti diedero vita ad un circuito economico che consentì all’impresa di esistere per generazioni fino agli inizi del XIX secolo. Si tratta di uomini di lettere, di “umanisti” pienamente inseriti nella storia culturale, economica, industriale e tecnica del loro tempo, che testimoniano il taglio originario, lo slancio, la dimensione anche imprenditoriale di una
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cultura attiva, capace di relazionarsi con la vita del proprio tempo, il lavoro, l’economia. Nella scuola classica italiana, invece, sono stati sempre piuttosto numerosi, particolarmente nelle aule del liceo classico, “i dotti professori” satireggiati da Hazlitt, i quali “tutto conoscono e niente sanno fare”. Non appartiene a queste figure una cultura ed una conoscenza moderna, quella necessaria sintesi di “sapere”, di “fare” e di “saper fare” di cui parla Luigi Berlinguer. Né, in genere, questi “dotti professori”, seduti sulle “alte vette dello spirito”, hanno in definitiva troppa voglia di imparare a “saper fare”. Spesso i tentativi di offrire ai docenti di litterae del liceo classico una nuova competenza o capacità operativa in relazione alle mutate esigenze professionali, imposte per forza di cose dall’evoluzione dei tempi (ad esempio, saper usare con destrezza il computer, saper parlare in modo accettabile una lingua straniera, saper utilizzare in modo pedagogicamente significativo i prodotti digitali e tutto il vario settore multimediale, saper utilizzare in modo esperto gli strumenti comunicativi e di condivisione, gestire dati e ricavarne informazioni, utilizzare nuovi linguaggi, ecc.) o si sono infranti in una incomprensibile opposizione di tipo puramente ideologico (nel convincimento che queste attività sono essenzialmente estranee alla “dottrina” della propria materia considerata l’unico vero requisito di un docente) oppure sono naufragati nell’inattuazione pratica, nell’incompetenza maldestra di non vuole davvero imparare. Viene da pensare, a volte, che abbia ragione lo scrittore inglese: una volta raggiunte “le più alte vette dello spirito” con quattro anni di faticoso studio universitario, conviene godersi il panorama e, se possibile, non essere troppo disturbati.
3.2 IL PROFESSORE “EROTICO”
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3.2 Il professore “erotico” Se il “dotto professore” è ormai considerato una figura superata dalla storia, si fa ricorso ad un altro modello di docente come “tipo ideale” di insegnante, in grado di risolvere tutti i problemi legati alla crisi della scuola e dell’insegnamento. Si tratta del modello del “professore appassionato”, il docente che sa avvincere gli studenti con la forza comunicativa della sua parola ed indurre in essi il desiderio di studiare. Contro la società e la scuola delle competenze, si tende a tessere l’elogio di questa figura di docente, capace di sviluppare “un’erotica della lezione”, di accendere in modo significativo la lezione attivando nel discente passione, volontà di sapere, dando linfa vitale a quel circuito misterioso e fondamentale della comunicazione docente-allievo che rappresenta l’unica base valida per qualsiasi apprendimento scolastico. La più recente (ma non l’unica) apologia di questo idealtipo di docente è stata fatta da Massimo Recalcati, nel suo libro L’ora di lezione, nel quale, contro la scuola moderna delle competenze, della valutazione, del saper fare, si esalta ancora una volta la scuola tradizionale centrata solo o prevalentemente sulla materia e sull’ “ora di lezione”. Recalcati elogia così la materia scolastica che si fa corpo (incarnazione) grazie all’azione virtuosa del docente che sa far nascere nell’allievo il desiderio di sapere che è l’unica condizione di ogni possibile sapere. 34 Questo, credo, è un assioma generale, valido sempre, non solo in ambito scolastico. Non c’è dubbio, infatti, a mio avviso, che il desiderio di sapere sia l’unico pre-requisito di ogni apprendimento, dentro e fuori la scuola. Imparare, infatti, è sempre possibile; non così l’insegnare.
34 M. RECALCATI, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino, 2014, p. 65.
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Già molti altri, prima di Racalcati, psicologi, scrittori, narratori, in diversa maniera, con diverse prospettive, con diversi toni, hanno sottolineato la necessità di questa componente “erotica” dell’attività di insegnamento come la componente centrale per la vitalità della lezione e della scuola. Lo stesso Recalcati si rifà alla figura di Socrate come il prototipo di tutti gli insegnati “erotici”. Ma potrei citare il più recente Francesco Alberoni, il quale già in un articolo del 1991, osservava come in tutti i processi scolastici vi fosse una carenza di eros che rendeva fredda, stanca ed improduttiva l’attività didattica, di quell’eros che, invece, agisce potentemente in tutte le altre manifestazioni della cultura e della società contemporanea.35 Anche Recalcati, poi, come molti altri, condanna la pedagogia e la didattica contemporanea che valorizza e sponsorizza “l’efficienza, la prestazione, l’acquisizione delle competenze come indici subordinati al criterio acefalo della produttività”. Come tanti docenti, anche Recalcati censura senza appello le attuali modalità del fare scuola, una scuola in cui: “l’economicismo che stravolge il processo educativo si accoppia paradossalmente all’esigenza di evitare il pensiero critico. Non bisogna chiedere ai giovani di pensare ma occorre interagire con loro, farli divertire, distrarli, mettere l’accento sul valore dell’essere in relazione in quanto tale. In questo modo la Scuola abbandona la sua funzione e scivola verso qualcosa di inedito, che la riduce ad una sorta di parco giochi dove si è esentati da ogni rapporto impegnativo col sapere”.
Come i più pessimisti analisti della realtà scolastica moderna, anche Recalcati vede la scuola piombata
35
F. ALBERONI, Eros e scuola, “Il Corriere della Sera” (03/06/1991).
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“da una parte l’economicismo e il culto dell’efficienza della prestazione, dall’altra un edonismo fatuo e senza responsabilità”
Il rimedio a tutto questo, la via giusta che viene proposta, allora, sarebbe l“erotica dell’insegnamento”, ossia la capacità del docente di suscitare un amore per il sapere senza il quale non c’è sapere capace di essere in relazione con la vita, sapere utile alla vita. Il bravo insegnante non è più così l’insegnante dotto, l’esperto della sua disciplina, ma l’insegnante che letteralmente “incarna” uno stile, inteso non come un insieme di competenze, né come “un particolare carattere o personalità”. Lo stile è, per Recalcati, il modo con cui un insegnante entra in rapporto con il sapere e con il modo di trasmettere il sapere, che da questo rapporto scaturisce, la cui espressione più caratteristica è la voce. L’insegnante che ha stile ha un “carisma”, è un insegnante che “fa vibrare” il sapere che trasmette ai suoi allievi. La sua voce è “seducente”, non esce dal corpo ma è corpo. Nella voce appare l’eros, il corpo, la carne della parola.36 Queste idee di Recalcati appaiono affascinanti, calde, emozionali. Ma non convincono. Il suo discorso inclina ad una sorta di “mistica dell’insegnamento”. Quando, infatti, si parla di “carisma”, di “forza seduttiva” della parola, di parola che misteriosamente “si trasforma”, si fa eros, si fa corpo fisico, di una parola che è corpo fisico, si usa un lessico tipico del misticismo e della religiosità o perlomeno si fa riferimento ad una componente quasi “magica” della parola. Non che questa dimensione non abbia una sua verità e fondatezza, ma è molto improbabile, a mio avviso, che ciò possa considerarsi un tratto tipico, generalizzato, organico di un “sistema” scolastico moderno, di una grande organizzazione che coinvolge migliaia e migliaia di insegnanti, di diverso 36
M. RECALCATI, cit., pp. 104-105.
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carattere, indole ed inclinazioni; un sistema fatto di burocrazia e di routine. Se l’attività dell’insegnante per risultare efficace deve trarre forza soltanto dallo stile come lo intende Recalcati, avrebbero allora ragione coloro che considerano questa professione una “vocazione” a cui devono avere accesso solo pochi, una vocazione non troppo diversa da quella a cui sono chiamati i sacerdoti ed i religiosi, da vagliare in rigorosi “seminari” per docenti... Non si danno, infatti, queste virtù (carisma, seduzione, eros) in modo indistinto e generalizzato nelle migliaia di persone che scelgono l’attività docente semplicemente come una semplice attività professionale come le altre, un lavoro come tutti i lavori di questo mondo. Per essere docenti occorre, dunque, essere “erotici”? Incarnare sempre la capacità seduttiva della parola? Essere sempre carismatici? Sono requisiti questi che possono essere chiesti a tutti coloro che esercitano questo mestiere che, a mio avviso, ha più dell’attività artigianale che della forza visionaria del profeta? Nel romanzo autobiografico La lingua salvata, Elias Canetti raccontando dell’influsso “carismatico” che la scuola in particolare, con i suoi professori, i suoi libri, le sue letture, ha esercitato sulla sua personalità, sottolinea come la sostanza intellettuale di un giovane sia formata dall’insieme di autori, opere, personaggi, storie, assorbiti nei primissimi anni di vita, soprattutto nella scuola: “Questi influssi formano un’entità unica che ha una sua densità ed un suo spessore indivisibili. Da allora, da quando avevo dieci anni, è per me un articolo di fede credere che sono fatto di molte persone della cui presenza in me non mi rendo assolutamente conto. Credo che siano loro a decidere ciò che mi attira o mi respinge negli uomini e nelle donne che mi capita di incontrare. Sono stati il pane
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ed il sale della mia prima età. Sono la vita segreta del mio spirito”. 37
Lo stesso Recalcati ricorda l’incontro fortunato a scuola con insegnanti che iniziarono lui, ragazzo difficile, alla lettura semplicemente leggendo in classe le Lettere dal carcere di Gramsci, il gesto di Ettore dall’Iliade. E questo fu per lui “l’apertura di un mondo” che lo portò poi a leggere, in un solo fiato, il suo primo vero libro: Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern: “Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato….Il mondo era sempre quello di prima, ma l’incontro con la letteratura lo aveva reso per sempre diverso da prima”. 38
Non una di queste letture potrebbe oggi funzionare, se non con molta difficoltà e molto stento anche al liceo classico. Mancano ai giovani quasi tutti i riferimenti enciclopedici ai contesti che consentirebbero di decifrare la situazione e di collocare la storia; è quasi del tutto impossibile per la grandissima parte degli alunni collocare in modo correttamente significativo l’esperienza di Gramsci e della sua detenzione, o gli alpini italiani in Russia, per non dire di Ettore e dei suoi gesti; figurarsi come potrebbe essere possibile “sublimare” oggi queste storie in modo tale che esse possano farsi “carne e sangue”, corpo e linfa, odore e sapore, visione e sogno, ovvero “sostanza intellettuale”, per dirla con Canetti, grazie alla vis erotica del docente! La crisi della scuola è infatti anche la crisi della storia, della conoscenza storica. Ecco allora l’enorme successo tra gli adolescenti della letteratura fantasy, con le sue storie fiabesche di esseri di altri mondi, di tempi distorti, di esseri immaginifici, che consente evasioni romanzesche nei territori irreali della fantasia, oppure, in alternativa, la 37 38
E. CANETTI, La lingua salvata, Bompiani, Torino, 1985, p. 123. M. RECALCATI, cit., p. 133.
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più limitata conoscenza di libri che narrano vicende di stretta attualità del mondo contemporaneo, della quale qualche eco pure giunge agli adolescenti attraverso le immagini dei media; manca, infine, in un mondo pervaso dal video e dal digitale, l’abitudine alla lettura e la tecnica stessa dell’atto della lettura. Un ritorno al Medioevo, alla cultura bardica, orale, certo. Il declino della forma-libro connesso al declino della forma-scuola. Il declino della storia, certo. Ma questa è la realtà con cui bisogna confrontarsi e nella quale bisogna agire ed operare. Il docente ideale richiesto da Recalcati fa assomigliare i professori “carismatici” ed “erotici” più a profeti ispirati, a predicatori o sacerdoti, ad attori o comunicatori di massa che a semplici insegnanti che lavorano quotidianamente, in una società frantumata, dispersa e senza troppi orizzonti, tra routine e difficoltà burocratiche, come semplici impiegati dello Stato. E’ certamente possibile che singole personalità abbiano quelle virtù e quello stile “erotico”. Tutti noi abbiamo probabilmente conosciuto nel corso dei nostri studi superiori o universitari qualche personalità di docente che aveva stile, forza, eros, di cui si ricordano ancora i tratti, la voce, il fascino della parola. Il calore della passione che li accendeva nell’ora di lezione, e che noi ancora ricordiamo più o meno distintamente come il tratto caratteristico del loro essere docenti, poteva essere certamente garanzia di umana autenticità. Ma non con questo soltanto essi hanno potuto essere validi docenti. Recalcati o immagina una scuola che non è mai esistita (neppure quando il mondo non conosceva ancora le biasimate parole “efficientismo”, “economicismo” e “cognitivismo” e simili) oppure immagina una scuola utopistica che mai ci sarà, con professori-vati capaci di accendere mondi e aprire visioni interiori agli alunni. Nella nostra moderna scuola di massa, è un mito, questo del docente dotato di una erotica forza comunicativa:
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una figura che dovrebbe esercitare la missione di “risvegliare le coscienze”, aprire finestre nelle anime e portarle sulle più alte vette dello spirito; una figura che può, eccezionalmente, incontrarsi talvolta, ma che non può essere la regola del sistema di una scuola nella sono presenti quale migliaia e migliaia di insegnanti. Essi non possono essere altro che figure professionali tecnicamente ben preparate ed operativamente ben attrezzate per svolgere un ruolo e una funzione. Non troppo lontana dalla prospettiva della “parola che si fa corpo” di Recalcati, è la strada indicata dal filosofo Luigi Lombardi Vallauri. Negli anni ’90, esprimendo sinteticamente il suo pensiero sulla scuola in alcune sue conferenze relative allo “star bene a scuola”, Lombardi Vallauri delineava la scuola come una “potenziale comunità di contemplazione” ovvero “un’astronave di assorti”: la scuola che deve trasformarsi “in opera poetica, in laboratorio di contemplazione, in balcone aperto sull’infinito (…) in luogo di risveglio”. “Che la paura ministeriale divenuta paura dell’insegnante divenuta paura dell’alunno riduca così spesso l’insegnamento a una trasformazione del mirabile ontologico in compito per giovedì”. “La scuola umana nella sua essenza è un’astronave di assorti (…) ed è la specola dove grazie ai linguaggi – questi geni intermedi (o intermediari) tra il visibile e l’intellegibile – l’universo diventa, nell’uomo, a seconda dell’uomo, cosciente di se stesso”. 39
Qui i linguaggi assumo il valore che Platone assegna ad Eros: un demone intermedio tra il mondo umano (il visibile) e il mondo divino (l’intellegibile).
39 Scuola e contemplazione. Progetto per uno star bene a scuola. Appunti da una conferenza del prof. L. LOMBARDI VALLAURI (Corso di aggiornamento per docenti, Paestum (SA), 23/24 Novembre 1995).
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Anche qui, in modo diverso da Recalcati, troviamo ancora la prospettiva della parola che si fa eros, forza che mette in comunicazione l’universo. La scuola dovrebbe diventare per Lombardi Vallauri il luogo in cui si può coltivare la scienza “per via mistica”: “Così concepita e vissuta la scuola può svolgere ben al di là dei ruoli informativo, utilitaristico e di controllo sociale, anche il suo ruolo “preventivo”. Una scuola che sia beatitudine mentale da risveglio linguistico e contemplativo al multiforme mistero presente dell’essere, può promuovere salute nel senso di benessere psico-spirituale, non ricorrendo a specialisti della salute, a commandos, per così dire, di teste di cuoio della salute, ma semplicemente facendo scuola, scuola secondo l’essenza, la scuola può fare prevenzione del malessere, promozione della salute. Fino a quando la scuola si sposta nell’uomo interiore, si condensa in sfera di cristallo vicino al cuore nella quale far apparire, quasi in uno radio solis, tutto l’essere cosmico e storico. Allora io divento scuola a me stesso, omnia mea mecum porto. Allora sono io, coscientemente, matematica, io fisica, io biologia molecolare, io paleontologia, io e preistoria e storia, io geografia e linguistica e letteratura, io e scienze e arti… Allora la scuola finisce perché ha raggiunto il suo scopo: diventare vita più alta”. 40
Per quanto entrambe molto suggestive, sia la prospettiva “erotica” di Recalcati sia quella “mistica” di Lombardi 40 L’idea di LOMBARDI VALLAURI è che a scuola si possa e si debba cercare di coltivare la scienza (sapere, comprendendo anche la poesia, l’arte) come via mistica la quale è in grado di portare gli alunni e gli uomini in generale a suscitare, dentro di sé, la meraviglia (θαυμάζειν). La meditazione di cui parla Vallauri, destinata a docenti ed alunni, produce non evasione psichedelica, ma benessere vero perché fondato nella verità e nella volontà; produce “amicizia sapienziale” e porta con sé conseguenze etiche e sociali altamente apprezzabili. Gli stessi insegnanti, opportunamente preparati, potrebbero favorire presso gli alunni la coltivazione della scienza (sapere) come via mistica, utilizzando una serie di ambienti e di strutture appositamente pensate e realizzate allo scopo, favorendo un circolo virtuoso tra apprendimento nozionale e realizzazione contemplativa.
3.3 IL LAMENTO SULLA CONDIZIONE DEL DOCENTE
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Vallauri, non possono, a mio avviso, rappresentare elementi sistemici e strutturali di un’organizzazione complessa come la scuola contemporanea. Non l’eros della parola seducente che si fa corpo in un docente né la contemplazione mistica possono essere, oggi, nella moderna scuola di massa che noi conosciamo e viviamo come la nostra forma storica del sistema formativo, le strade da percorrere, ma piuttosto il qualificato e minuto lavoro artigianale di un docente, la sua capacità di progettare e realizzare un insieme strutturato di occasioni e situazioni qualificate di apprendimento, in linea con il contesto in cui opera, con i bisogni soggettivi degli allievi e con le esigenze generali della società nella quale si vive, utilizzando di volta in volta strumenti, tecniche e procedure appropriate, come solo un competente artigiano può fare. 3.3 Il lamento sulla condizione del docente Il lamento sul condizione dei docenti è dovunque diffuso all’interno della scuola, ed è una delle tipiche espressioni del corporativismo della categoria. I docenti favoleggiano, a torto, di un tempo in cui “il signor professore” era una figura importante della società e il cui stipendio era adeguato e soddisfacente. Si afferma che oggi come non mai gli insegnanti subiscono “un processo di proletarizzazione economica”, di “disintegrazione identitaria” e di “spoliazione di significato pubblicamente riconosciuto alla loro funzione”. 41 Ora, che i docenti in generale guadagnino poco, è vero; che abbiano una scarsa considerazione sociale è altrettanto vero. I giornali riportano spesso tabelle di raffronto tra le diverse retribuzione dei docenti in Europa. I professori italiani non sono certamente ai primi posti. Come per tutte le categorie di lavoratori, è giusto pertanto che ci si im41
M. RECALCATI, cit., p. 32.
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pegni per migliorare, in relazione ai tempi, la propria situazione economica, che si discuta di retribuzioni adeguate al costo della vita, tali da consentire una vita dignitosa. Ma affermare che in passato i docenti avevano migliori condizioni economiche e sociali, mentre oggi la loro condizione sia peggiorata a causa di qualche recente riforma ministeriale, è falso. Si può comprendere l’uso di questo tema in chiave di polemica politica contro questo o quel provvedimento governativo o, più in generale, di polemica ideologica contro un sistema politico e socio-economico, ma è sostanzialmente falso affermare, come fanno alcuni, che la responsabilità della decadenza economica e sociale dei docenti sia da attribuire ai provvedimenti legislativi che, mirando scientemente a distruggere la scuola pubblica italiana e svilendo l’importanza delle materie e dei contenuti disciplinari, hanno causato il regresso economico e sociale dell’intero dei docenti fino a ridurli, come si legge in qualche polemico pamphlet, “a poveracci degni solo, a seconda delle inclinazioni, di compassione o disprezzo”. 42 Si arriva poi addirittura ad affermare che il degrado della scuola, causato dalle riforme, mette in pericolo “la stessa sicurezza fisica dei docenti”: “E’ chiaro infatti che una scuola intesa come grande parcheggio per i ragazzi non ha più alcuna barriera che la protegga della degradazione del sociale. Gli episodi di violenza nelle scuole, di cui leggiamo sui giornali, sono anch’essi collegati a quella negazione del ruolo specifico della scuola che è l’anima della riforma BerlinguerMoratti, e sono destinati ad aumentare di numero e gravità”. 43 42 M. BADIALE, Lettera aperta ai docenti della scuola italiana, articolo del 15/11/2006 al sito: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=6634 (consultato il 03/01/2015). 43 M. BADIALE, cit.
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In maniera comica, il fenomeno della violenza a scuola (che è un fenomeno molto serio, dalle cause complesse e stratificate) viene qui collegato addirittura a qualche timida riforma governativa la quale, per aver cercato si sminuire il valore della tradizionale “scuola-materia”, sarebbe anche la causa dello svilimento della figura stessa del docente che si troverebbe, così, esposto alla violenza fisica degli studenti! Ma, anche a prescindere da simili ridicole affermazioni, non sono pochi coloro che immaginano un tempo in cui il docente sarebbe stato una figura rispettata, socialmente considerata e di condizione economica agiata. Storicamente, le cose non sono mai state così per la professione dell’insegnante. Se in passato il docente è stato tenuto in qualche maggiore considerazione sociale, questo è dipeso solo dal valore che, ad ogni livello sociale, aveva il principio di autorità e della gerarchia, principio base che assicurava una certa considerazione, almeno apparente, per tutti coloro chiamati ad esercitare un potere: autorità paterna, autorità militare, autorità ecclesiastica, autorità scolastica. La scuola ha sempre avuto storicamente, fino a tempi molto recenti, un struttura simile al carcere e alla caserma. Il principio di autorità, come principio regolatore fondamentale dei rapporti tra le generazioni, è entrato definitivamente in crisi alla fine degli anni ’60 del Novecento, e con esso anche l’autorità del docente. In tempi più recenti poi è mutato profondamente il rapporto tra le generazioni ed è venuto meno il “patto generazionale con i genitori” in virtù del quale esisteva un salda alleanza generazionale tra genitori ed insegnanti che oggi non c’è più. I genitori “…sono sempre più complici ed alleati di figli sempre meno riconoscenti e sempre più pretenziosi; (genitori che) anziché sostenere l’azione educativa della Scuola, di fronte al primo ostacolo, preferiscono spianare la strada ai loro figli, evitare l’inciampo, per esempio cambiando scuola
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o insegnanti, insomma recriminando continuamente contro l’Altro come fanno i loro stessi figli. Un tempo l’alleanza generazionale tra genitori e insegnanti non era mai in discussione”. 44
Storicamente la figura del docente è stata sempre caratterizzata da debolezza sociale, assenza di prestigio e modesta condizione economica, in ogni epoca ed in ogni luogo. Gli stessi termini “docente” o “insegnante”, che fanno riferimento ad una funzione professionale, vengono introdotti nel tardo Ottocento proprio per cancellare i sostantivi “pedagogo” o “precettore” che nel corso dei secoli si erano caricati di un senso riduttivo, sminuente, addirittura denigratorio. Nell’antichità greco-romana gli insegnanti era generalmente tratti dalla classe servile. In Grecia e a Roma erano perlopiù gli schiavi ed i prigionieri di guerra a svolgere la funzione di maestri. Nel mondo antico il mestiere di pedagogo era il mestiere di chi era caduto in disgrazia. Un’espressione tratta forse da una commedia antica citata nei Proverbi di Zenobio (II sec.), ci informa di ateniesi prigionieri di guerra dei siracusani costretti per sopravvivere a fare gli insegnanti: “O è morto o insegna l’abbiccì”. (Detto) di quelli che combatterono con Nicia in Sicilia; alcuni perirono, altri furono presi prigionieri e insegnarono ai figli dei siracusani” 45
Diogene Laerzio, nella biografia di Epicuro, ricorda come Epicuro da fanciullo aiutava nei loro lavori la madre e il padre, il quale insegnava l’alfabeto “per una mercede da nulla”. 46
M. RECALCATI, cit., pp.65-66. Zenobio, Prov., IV, 17 46 Vitae philosophorum, X, 4 44 45
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Luciano di Samosata a proposito della umilissima condizione sociale dei maestri e dei pedagoghi parla di “schiavitù volontaria” (ethelodouléia) in cui essi, umili salariati, si pongono, costretti a subire vessazioni, umiliazioni e sfruttamento (De mercede conductis). Lo stesso autore, in un altra sua opera, per descrivere il capovolgimento di sorte che nell’Ade attente re e satrapi, un tempo ricchi e potenti, li pone nella condizione disgraziata dei pescivendoli o degli insegnanti (“praticano tra loro l’accattonaggio e per la povertà o vendono pesci o insegnano l’abbiccì, e sono presi a sberle in faccia dal primo che capita”). 47 Gli insegnanti, diversamente dai grandi esperti della comunicazione sociale, dei tecnici della parola, come Protagora (di cui si dice che prendesse fino a diecimila dracme per alunno per un corso di preparazione), sono stati sempre persone decadute o pitocchi costretti ad insegnare per sfuggire alla povertà. A Roma i pedagoghi furono sempre schiavi stranieri o liberti, pochissimo considerati e pagati. Orazio irride nella sua satira i figli dei grandi centurioni che, a Venosa, andavano a scuola portando, alle Idi del mese, i miseri otto assi per il loro insegnante! 48 Il retore Floro (II sec.) racconta l’episodio dell’incontro con un suo ammiratore il quale, saputo che egli viveva facendo professio litterarum, ossia l’insegnante di lettere, esclama: “O cosa indegnissima! E con che animo sopporti di sedere a scuola e insegnare ai ragazzi?” 49 Luciano, Menipp., 17. Orazio, Sat. I, VI, 75. 49 L. Annaei Flori Epitomae libri II et P. Annii Flori fragmentvm De Vergilio oratore an poeta, edidit O. Rosseach, Lipsiae, 1896, p. 186. Floro risponde che, dopo che anche lui aveva a lungo pensato che non ci fosse una condizione più misera per un uomo che fare 47 48
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Agostino (IV-V sec.) racconta come a Roma gli studenti spesso rifiutassero di pagare il compenso dei maestri e talvolta si mettevano d’accordo passando in massa ad un altro insegnante senza pagare al precedente gli onorari dovuti. Un documento ufficiale come l’Editto sui prezzi delle cose venali di Diocleziano, del 301, nella parte de mercedibus operariorum, ci consente di confrontare i compensi dei docenti nel IV sec. con quelli di altre figura professionali. E’ molto facile constatare come la retribuzione di un avvocato o giurisperito fosse fino a 20 volte superiore a quello di un insegnante: 50 “Al massaggiatore per ciascun discepolo, denari mensili 50. Al pedagogo, per ciascun discepolo, denari mensili 50. Al maestro insegnante l’alfabeto, per ciascun fanciullo, denari mensili 50. Al maestro di calcolo, per ciascun fanciullo, denari mensili 50. Al copista o antiquario, per ciascun discepolo, denari mensili 50. Allo stenografo, per ciascun discepolo, denari mensili 75. al grammatico greco o latino e al geometra, per ciascun discepolo, denari mensili 200. All’oratore o sofista, per ciascun discepolo, denari mensili 250. All’avvocato o giurisperito, come onorario per una petizione, denari 250, per una causa 1000. All’architetto insegnante, per ciascun discepolo, denari mensili 100”.
l’insegnante, aveva poi mutato parere, ed era giunto a pensare che tutto sommato fosse “cosa da re sedere in cattedra e insegnare i buoni costumi”. 50 Edictum de praetiis rerum venalium, VII, 66-73
3.3 IL LAMENTO SULLA CONDIZIONE DEL DOCENTE
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Tra le testimonianze relative all’epoca moderna, si può citare la gustosa orazione di Melantone, De miseriis paedagogorum, del 1528. Questo discorso del praeceptor Germaniae è tanto impietoso nel descrivere la deprimente condizione economica, morale e sociale dei docenti nel Cinquecento che alcuni critici hanno pensato dovesse essere interpretato in senso ironico. Quest’opera ci offre il ritratto della considerazione sociale del docente alla metà del Cinquecento. In essa si rinvengono sostanzialmente le stesse lagnanze, gli stessi temi polemici riproposti ancora oggi da chi lamenta un declino della scuola e della condizione dei docenti. Leggiamo in Melantone il lamento sulla svilita e triste condizione di vita di un insegnante: fanciulli già corrotti dal contesto familiare dalla rilassatezza dei costumi (domestica indulgentia), alunni che non hanno alcun interesse per lo studio e che nutrono invece grande disprezzo verso i docenti (contemptus magistrorum); insegnanti che si sostengono appena economicamente avendo come unico e reale compenso la derisione; studenti privi di ingenium, di voluntas discendi, di pudor. Alla fine di tutto la fame (fames) e l’ingratitudine degli scolari e dei genitori sono in genere l’unico corrispettivo per le fatiche dell’insegnante! Troviamo, insomma, nel De miseriis pedagogorum del 1528 tutti i più tipici temi di lagnanza sulla vita e la professione dei docenti, che ancora oggi vengono spesso stancamente ripetuti da docenti scontenti. Nel Settecento è emblematico il caso di Giambattista Vico il quale penò la sua vita di insegnante universitario a Napoli con lo stipendio assai modesto di docente della cattedra di eloquenza, cattedra umanistica per eccellenza (e proprio per questo la meno remunerativa), la cui retribuzione era sei volte inferiore rispetto a quella della cattedra di diritto romano che preparava i giovani alle più remunerative professioni legali.
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Per l’Ottocento basterebbe dare una semplice scorsa alle decine di opuscoli, di diari, di memorie dei docenti della scuola italiana a partire dai primi decenni dell’Italia Unita per avere il quadro sconfortante delle misere e deludenti le condizioni morali, materiali, sociali ed economiche di una classe di dipendenti statali, i professori, che di poco si distinguevano per benessere economico e condizioni di vita dagli artigiani, sempre notevolmente inferiori per censo, per reputazione, per agiatezza a medici, avvocati, farmacisti, ingegneri o possidenti terrieri. Per tutto il secondo Ottocento ed oltre, sono innumerevoli i docenti che raggiungono a dorso di mulo gli sperduti ginnasi di piccoli centri del Mezzogiorno (ma anche del Nord) istituiti solo per soddisfare le pressanti richieste di qualche notabile locale. Sono tutti giovani intellettuali che sulle cattedre di mezza Italia vivono la loro vita ombrosa, misera, povera. Per quest’aspetto forse il più bel racconto della misera vita del docente è il diario del piemontese Placido Cerri, Le tribolazioni di un insegnante di Ginnasio, vera denuncia delle condizioni derelitte in cui versavano tutti gli insegnanti in Italia nella seconda metà dell’Ottocento. In questo piccolo diario (pubblicato nel 1873) viene narrata la misera vita del giovane professore Cerri, laureato a Torino, specializzato a Lipsia in sanscrito, traduttore di una parte del Mahabharata, e inviato come professore a Bivona, uno sperduto paese in provincia di Agrigento e morto prematuramente. Un racconto toccante che apre uno squarcio verista sulla realtà della vita penosa degli insegnanti italiani in contesti difficili ed arretrati, quale quello del Mezzogiorno della nuova Italia uscita dal Risorgimento. Come Cerri, anche Giovanni Pascoli fece il suo tirocinio da docente nella sperduta Matera nel biennio 1882-1884, e centinaia di altri giovani docenti, filologi preparati e colti, languirono in una condizione sociale sempre misera e in una professione sempre poco remunerativa.
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Dai diari della gioventù italiana dei primi anni del Novecento leggiamo di padri che tremano all’idea che i figli potessero concepire di dedicarsi all’attività di insegnante, e fanno di tutto per evitare che essi, invaghiti, suggestionati dalle “belle lettere”, intraprendano gli studi letterari e la professione di insegnante invece di quella ben più lucrosa e socialmente prestigiosa di medico o di avvocato. Luigi Pirandello, dopo il dissesto economico della famiglia, fu costretto per vivere ad insegnare in una scuola superiore. Scrivendo una lettera all’amico Angiolo Orvieto, si lamenta che il modesto stipendio gli basta appena “per campare la vita”: “Il misero stipendio di professore straordinario all’Istituto Superiore mi basta appena per pagar la pigione di casa. Bisogna che m’ajuti con le mani e coi piedi, per guadagnare, scrivendo”.
Tuttavia, nonostante la scarsa considerazione sociale ed il modestissimo stipendio, l’aspirazione ad un “posto da insegnante” è stata una delle aspirazioni più ricorrenti della piccola borghesia italiana dall’Unità nazionale fino a tempi piuttosto recenti. La ragione fondamentale è costituita dal fatto che la scuola italiana ha sempre offerto ai docenti un posto di lavoro sicuro, non troppo gravoso, con poche responsabilità e limitati impegni: l’ideale per la piccola borghesia alla ricerca di stabilità e sicurezza, sia pure con una modesta retribuzione. In genere, negli anni passati, gli insegnanti hanno vissuto decorosamente incrementando il modesto stipendio con le lezioni private, in anni in cui la funzione selettiva della scuola rappresentava un momento importante della vita scolastica e pertanto imponeva ai meno capaci e ai meno volenterosi un’adeguata preparazione in vista del successo scolastico.
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Ho conosciuto valenti professori miei concittadini che erano in grado di dirmi esattamente quante “ore di lezione” era costato il piccolo appartamento nel quale abitavano: bastava dividere il costo per mille (lire), il compenso orario di una lezione negli anni Sessanta. Le lezioni private di latino, di greco, di matematica, ma anche di italiano, di filosofia, di storia, di chimica hanno rappresentato per generazioni di insegnanti fino a tempi relativamente recenti una forma di integrazione dello stipendio statale, necessaria per vivere dignitosamente, per far studiare i figli, per pagare il mutuo della casa in costruzione. Solo in questi ultimi anni si sta sviluppando un discorso nuovo che mira a professionalizzare la figura del docente, per fare dell’attività di insegnante una professione iperspecializzata come le altre, da svolgere con alti livelli di competenza operativa, con adeguata preparazione tecnica e con piena padronanza di risorse, strumenti e procedure, all’interno di un sistema di apprendimento e di aggiornamento continuo, ben oltre quindi i quattro anni di studio iniziale necessari a conquistare il titolo legale per l’accesso alla professione e ben al di là del livello delle mere conoscenze disciplinari. Solo percorrendo questa strada è possibile pensare che i docenti possono domani avanzare le giuste rivendicazioni di miglior trattamento economico e vedersi al contempo riconosciuta una maggiore considerazione da parte della società. 3.4 La femminilizzazione del liceo Secondo alcuni la scarsa rimuneratività della professione di insegnante, in una società in cui le altre professioni assicurano oggi redditi notevolmente maggiori che in passato, spiegherebbe anche il progressivo abbandono di questa professione da parte dei maschi e il conseguente
3.4 LA FEMMINILIZZAZIONE DEL LICEO
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processo di femminilizzazione dei licei, a partire dal secondo dopoguerra. Le donne, infatti, avrebbero trovato nel lavoro scolastico una specie di lavoro part-time: un orario di lavoro tutto sommato sostenibile a fronte di una bassa retribuzione, con periodi di ferie mediamente superiori a quelli di altri dipendenti pubblici. Il liceo italiano, come la scuola in genere, è stato per decenni essenzialmente maschile, soprattutto durante il fascismo. Nel 1926 le donne furono addirittura escluse dalla cattedre principali dei licei e nel 1929 vennero escluse anche dai concorsi di ammissione alla Normale di Pisa. Contro l’ingresso delle donne nel sistema dell’istruzione valevano, allora, le ragioni ideologiche gentiliane: la scienza, scrive Gentile nel 1932, doveva essere necessariamente governata “come la vita da una legge che non si piega ai mezzi termini cari alla pietà dei cuori teneri”. Per la scuola gentiliana occorrevano cuori forti e virili, non cuori femminilmente dolci. Insegnare, come comandare, era per la scuola di Gentile un fatto essenzialmente “virile”. In questa temperie, anche Giorgio Pasquali affermava nel 1940 che “l’educazione degli uomini italiani doveva essere virile”. Nonostante l’ideologia virile del fascismo, la femminilizzazione dell’insegnamento si intravede già negli anni ’30. Nel 1937 lo storico Franco Venturi (1914-1994), polemizzando anche lui contro la diffusione di quel latino reso artificiosamente importante nella scuola italiana a seguito della riforma Gentile, affermava: “Non c’è bisogno di essere grande conoscitore delle facoltà di lettere in Italia, per sapere che esse sono frequentate quasi esclusivamente da signorine e da preti” 51
La crisi delle vocazioni religiose nei decenni successivi ha fatto sparire anche i preti dalle facoltà di lettere, laOpinioni illustri dal XVIII al XX secolo (a cura di R. DRAGHI), cit., p. 151.
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sciandone la frequenza quasi esclusivamente alle signorine. Dopo la fine del fascismo e della guerra, riammesse le donne a tutte le cattedre dei licei nel 1945, e alla Normale di Pisa nel 1952, il processo di femminilizzazione della scuola italiana accelera, con la conseguente progressiva scomparsa delle figure maschili alle scuole elementari, alle scuole medie e, più di recente, dalle scuole superiori. La donna, nei decenni della sua emancipazione economica e lavorativa, ha potuto trovare nel lavoro di insegnante una collocazione ideale, dal momento che esso rendeva possibile la sua valorizzazione in termini economici e sociali e, al tempo stesso, l’assolvimento del tradizionale ruolo di gestore della vita domestica familiare e di responsabile dell’educazione dei figli. Negli anni ’60-’80, infatti, il lavoro dell’insegnante, innanzitutto per l’orario settimanale di lavoro, mediamente inferiore rispetto a quello degli altri impieghi pubblici, e con periodi di vacanza in genere più prolungati, si prestava ottimamente a conciliare attività lavorativa e vita familiare. A queste condizioni, a fronte di un ridotto impegno di servizio preteso dallo Stato, era accettabile anche una retribuzione piuttosto contenuta. Migliaia di donne, di tutti i ceti sociali e di tutte le regioni, soprattutto delle regioni meridionali, tra gli anni ‘60 e gli anni ’80, hanno trovato nell’insegnamento possibilità di indipendenza economica e collocazione sociale senza necessità di sacrificare eccessivamente il tradizionale ruolo di responsabilità nella gestione della vita domestica. Nel Mezzogiorno centinaia di ragazze dalla Calabria, dalla Basilicata, dalla Puglia hanno affollato le facoltà di lettere nelle università di Napoli o di Bari, e poi in quella di Salerno, per laurearsi in lettere e, dopo un periodo più o meno lungo di precariato in piccoli paesi di provincia, e per trovare finalmente la sospirata sistemazione statale con l’immissione in ruolo.
3.4 LA FEMMINILIZZAZIONE DEL LICEO
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Figure quasi eroiche di giovani insegnanti che per anni hanno affrontato disagevoli e lunghe trasferte in treno, in pullman, in auto per recarsi in lontane sedi di servizio. Professoresse che si alzavano al mattino prima che si levasse il sole, ancora nel buio della notte, per prendere un treno che le portava a duecento chilometri a svolgere qualche ora di lezione, per poi riprendere il treno alla fine della mattinata scolastica, ripercorrere la strada in senso inverso e tornare a casa nel pomeriggio inoltrato per accudire i figli, per essere presenti nella vita familiare. Donne che per anni hanno percorso migliaia di chilometri per ottenere un lavoro che avrebbe costituito per loro motivo di progresso economico, di emancipazione, di affermazione sociale, di incremento del reddito familiare, nonostante uno stipendio piuttosto modesto. Il numero delle insegnanti è cresciuto mentre è diminuito sempre più il numero dei professori maschi. La professione docente non è più una professione maschile da almeno trent’anni. Ricordo l’affermazione di una preside di un liceo classico la quale, ricevendomi il primo giorno di servizio, sottolineò il fatto che evidentemente io dovevo essere mosso da una profonda passione per le discipline che insegnavo, altrimenti non si spiegava come mai io, in quanto maschio, avessi scelto una professione tipicamente femminile come quella di insegnante. Qualcuno ha anche ipotizzato l’esistenza di una correlazione tra la femminilizzazione dei licei ed il primato negativo che l’Italia detiene nella graduatoria delle donne attive nel lavoro,“segregate nel mercato dell’insegnamento dove arrivano “al posto fisso” alla veneranda età media di 39 anni”. Anche la composizione delle classi del liceo classico mostra la prevalenza della componente femminili in questa scuola, dati confermati anche dalle iscrizioni per il prossimo anno scolastico 2015-2016. Se il corpo insegnante è quasi completamente femminile, la percentuale delle studentesse iscritte al liceo classico
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arriva oggi quasi al 70%, mentre in tutte le altre scuole secondarie la consistenza numerica delle ragazze sul totale degli iscritti è mediamente del 49%. E’ singolare questa prevalenza femminile, che si è accentuata ulteriormente in questi ultimi anni e soprattutto nelle regioni meridionali, e bisognerà indagarne adeguatamente le ragioni. E’ opportuno intanto ricordare che la nostra società vanta la più alta percentuale di donne escluse dal mondo del lavoro. Con questo non si intende ovviamente stabilire una relazione diretta, di causa-effetto tra preparazione classico-umanistica e disoccupazione femminile, ma neppure si può nascondere il fatto che la cultura generalista, per quanto improntata a spirito critico, capacità dialettica, tendenza all’introspezione, non sembra favorire la collocazione nel mondo produttivo, e costringe a completare o a reindirizzare il proprio percorso formativo in una fase più avanzata della vita, magari seguendo master, altri corsi di istruzione e formazione superiore, con oneri e spese economiche di non piccola entità. 52
3.5 Gli studenti del liceo classico La credibilità dei docenti non risiede più né nel principio di autorità né nella conoscenza disciplinare. In passato gli insegnanti erano i depositari della scienza, della conoscenza di una disciplina che solo essi potevano dispensare più o meno efficacemente. Oggi, invece, il sapere disciplinare non è più il patrimonio esclusivo e tipico di un insegnante, dal momento che un’enorme massa di informazioni, di notizie, di dati, anche di grandissima qualità scientifica, è ovunque e sempre disponibile grazie al web. Chiunque abbia interesse e voglia Per tutti questi aspetti si veda R. DRAGO, in Latino perché? Latino per chi? Confronti internazionali per un dibattito, cit., p. 102 sgg. 52
3.5 GLI STUDENTI DEL LICEO CLASSICO
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di informarsi, acculturarsi, conoscere, studiare qualsiasi argomento, disciplina può accedere ad Internet: dalle più modeste pagine personali, a lezioni di altri docenti, ad informazioni bibliografiche, ad intere biblioteche, tutto è disponibile a tutti. E’ vero che l’autoformazione basata sulle tecnologie è anch’essa un mito e che non rappresenta un sistema formativo adeguato per i giovani. Ma è altrettanto vero che gli studenti sanno di più e più facilmente rispetto ai loro coetanei di qualche decennio fa. A volte conoscono in modo diverso, in forme diverse, in ambiti diversi. A volte, forse, non sanno di sapere e le conoscenze restano irrelate e non sistemate in un quadro educativamente significativo. In ogni caso la considerazione sociale del docente non è più in rapporto alle sue conoscenze e al suo sapere. Al docente compete oggi non l’erogazione delle conoscenze, la gestione delle informazioni soverchianti, la loro organizzazione in un sistema significativo di conoscenze. La sua capacità fondamentale sta nel selezionare e disporle come mezzi ed occasioni di un percorso individuale di crescita per studenti che non sono più, fortunatamente, “i pochi” selezionati della borghesia italiana. Oggi tra i banchi del liceo classico siedono soprattutto ragazzi i cui genitori hanno studiato a loro volta al liceo classico o che riconoscono in questa scuola un carattere di serietà e completezza formativa che lo caratterizza ancora quasi come un logo o uno status symbol. Tuttavia la mancata riforma di questa scuola spesso autorizza gli studenti a vivere, con una ipocrisia tipicamente italiana, una vita scolastica spesso basata sull’imbroglio e sulla disonestà intellettuale, per diverse ragioni. Mentre, infatti, si proclama a gran voce da tanti, la necessità di ripristinare la severità ed il rigore degli studi, si è costretti a favorire tacitamente l’elusione della preparazione proprio in quelle discipline che dovrebbero essere “caratterizzanti” il corso di studi classico, lasciando agli studenti una sorta di “opzionalità clandestina”, come l’ha
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definita Drago 53, circa lo studio del latino e del greco, nella non dichiarata ma chiara consapevolezza della insostenibilità della didattica alla vecchia maniera di queste due materie.
3.6 Opzionalità clandestina per gli studenti Il numero di studenti che giunge all’esame finale avendo riportato negli anni precedenti uno o più debiti proprio nelle materie classiche (latino e greco), ossia nelle materie cosiddette caratterizzanti del liceo, è altissimo. Dalle statistiche generali (confermate anche a livello di istituto dove insegno) si evince che, mentre per tutte le altre materie la percentuale di alunni promossi con debito si attesta al 10% circa, per il latino ed il greco questo valore è quattro volte superiore e giunge a superare talvolta il 40% degli studenti. Il greco, in particolare, risulta la più ostica tra tutte le discipline. Del resto, come abbiamo detto in precedenza, fin dalla sua prima introduzione in Italia nell’Ottocento, sulla scorta del mito educativo tedesco, questa disciplina ha suscitato forti perplessità e proteste da parte di docenti e di genitori che rischiavano di vedere rallentato il cammino verso il titolo finale proprio a causa del greco. Nel liceo classico attuale, i cosiddetti “corsi di recupero” (fino a quando sono stati adeguatamente finanziati) sono stati dedicati interamente - e quasi sempre con nessun risultato utile - al latino e al greco, con un certo malumore, peraltro, dei docenti delle altre discipline che vedevano assorbire la quasi totalità dei fondi disponibili da parte dei soli insegnanti di materie classiche. Se i docenti di latino e greco fossero davvero inflessibili e severi sul piano della valutazione dei risultati degli alunni in queste due discipline, quasi la metà degli stu53
R. DRAGO in Latino perché? Latino per chi?, cit. p. 106.
3.6 OPZIONALITÀ CLANDESTINA PER GLI STUDENTI
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denti di tutti i licei classici non riuscirebbe a sopravvivere alla selezione annuale. La valvola che ha permesso di salvare capre e cavoli, in questa scuola come in tutte le altre, è stato il noto meccanismo bizantino della cosiddetta “sospensione del giudizio”: i numerosi studenti con insufficienze, anche gravi o gravissime non vengono “respinti” a fine anno né “rimandati” a settembre. Per loro la scuola si chiude in una pia reticenza. Si rinvia la sentenza finale, concedendo loro un periodo di tempo supplementare nel quale essi dovrebbero recuperare le lacune nella preparazione. Una sommaria verifica settembrina deve stabilire se gli aoristi, i perfetti, i versi di Omero, le pagine di Platone siano state adeguatamente assimilate per deliberare il varo alla classe successiva. Quasi sempre lo studente risulta promosso. Dobbiamo allora riconoscere che esiste effettivamente una “opzionalità clandestina” che gli studenti, di fatto, esercitano per queste materie difficili. Il sistema stesso poi deve accettare questa realtà, diversamente non potrebbe neppure sopravvivere dovendo “bocciare” ogni anno quasi la metà degli studenti per gravissime insufficienze in latino e greco. Vien da pensare, stando ai numeri degli insuccessi, che queste due materie - come scrive con immagine cruda ma vera Drago - siano oggi poco più che “un marchio di fabbrica” neppure buono, orami, per la pubblicità, ma che di fatto non “caratterizzano” affatto la preparazione disciplinare degli alunni, incapaci perlopiù, dopo centinaia di ore di studio, di comprendere e tradurre un brano anche semplice scritto in una di queste due lingue. Anche alle gare nazionali di traduzione (i numerosi certamina proliferati negli ultimi decenni) i professori e gli esperti di latino e greco chiamati a valutare i lavori di traduzione dei campioni selezionati e presentati dalle varie scuole sempre più spesso affermano che c’è poco da stare
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allegri se i lavori che essi hanno avuto sotto gli occhi sono opera dei migliori alunni! 3.7 Le possibili alternative Se questa è la realtà bisogna riflettere seriamente circa la possibilità di offrire agli studenti una “opzionalità legale” del latino e del greco, il che significa trasformare queste due materie da discipline obbligatorie a facoltative. Qui ci sarebbero poi varie alternative: offrire l’opzionalità legale dello studio della materia (per cui un alunno potrebbe scegliere o meno di studiare latino e greco) oppure offrire la possibilità di scelta tra studio della civiltà classica unitamente allo studio delle lingue antiche e studio della sola civiltà classica con lettura e studio in italiano dei testi letterari antichi. Oppure – come terza via – modificare in modo radicale la didattica di queste due discipline introducendo sistemi più sostenibili dai giovani che intraprendono oggi il percorso di studio. La trasformazione di queste materie in facoltative comporta la loro quasi certa scomparsa come materie scolastiche. E’ assai facile, infatti, prevedere il crollo del numero degli studenti che sceglierebbero di studiare queste due materie. L’esperienza degli altri paesi lo dimostra. Dove, infatti, lo studio del latino e del greco è ormai da tempo opzionale, la percentuale degli studenti che sceglie di impegnarsi nello studio delle lingue classiche è molto bassa: si attesta all’1% negli Stati Uniti, tra il 5% e l’8% in Germania, al 3% nei licei francesi… E’ facile prevedere, perciò, che anche in Italia il numero degli studenti che sceglierà di studiare latino e greco si ridurrà almeno di dieci volte e potrebbe passare dall’attuale 41% (2005) ad un prevedibile 4-5%. Si avrebbe come conseguenza anche un problema di esubero di docenti di discipline classiche, di inserimento dei nuovi docenti attualmente in formazione presso le uni-
3.7 LE POSSIBILI ALTERNATIVE
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versità; e forse, in prospettiva, problemi di sopravvivenza delle stesse cattedre universitarie, con la loro piccola e ben selezionata schiera di docenti, ricercatori ed assistenti. Come soluzione mento traumatica, si potrebbe offrire la scelta di studiare queste due materie con esclusione dello studio linguistico. Esistono eccellenti manuali scolastici, ben fatti sotto tutti i punti di vista, ed ottime traduzioni dei testi classici; si potrebbero leggere proficuamente e con interesse intere opere degli autori antichi, capirne le idee e l’arte anche senza conoscere necessariamente la lingua. Piuttosto che continuare a fingere che “tutti” studino il latino ed il greco, con fatica enorme e scarsissimi risultati, si potrebbe portare a molti la cultura classica in lingua italiana e valorizzare la competenza e la bravura di altri, anche se meno numerosi, che scelgono di applicarsi anche allo studio delle lingue antiche. Si avrebbero classi di lingua latina e greca più omogenee, formate da studenti che hanno volontariamente e consapevolmente scelto di impegnarsi in un particolare tipo di percorso. La qualità dello studio sarebbe valorizzata; i risultati sarebbero migliori; la motivazione degli studenti e dei docenti stessi ne uscirebbe probabilmente molto rafforzata. La terza opzione, che esamineremo in dettaglio nel prossimo capitolo, prevede un radicale cambiamento del metodo di insegnamento. Richiede il coraggioso abbandono della tradizione didattica formatasi nell’Ottocento, e l’adozione di un sistema didattico di tipo anglosassone che, benché non facile da recepire per la mentalità italiana, potrebbe risultare più adeguato e più utile.
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Capitolo 4 – Oltre la tradizione
4.1 Necessità del cambiamento Negli ultimi anni è apparso sempre più difficile convincere i giovani delle scuole medie ad iscriversi al liceo classico. Essi percepiscono orami questa scuola come astrusa, anacronistica, faticosa. Anche in passato, in realtà, è stato così. E’ stato così sempre. Ma in passato la formazione classica era anche selezione classista e opportunità lavorativa qualificata. E questo rendeva sicuramente vincente la formazione classica. Nel Mezzogiorno, fino ai primi anni ’80 si poteva scegliere il liceo classico e poi la facoltà di Giurisprudenza con la quasi certezza di poter superare un concorso pubblico, quale che fosse, ed ottenere così un posto di lavoro ed uno stipendio statale. Non è un caso del resto la forte meridionalizzazione del liceo classico: nell’area con maggior problemi di sviluppo economico del paese si trova il numero più alto di liceo classici. Oggi le cose non stanno più così. Molti credono giustamente che questi studi siano utili per la formazione critica e per l’apertura mentale, ma quasi nessuno li considera in linea con le esigenze formative della società moderna. Le famiglie più agiate provvedono con lezioni integrative a completare la formazione classica ricevuta a scuola, durante o dopo gli anni del liceo; la disponibilità economica consente di spostare più avanti le formazione specialistica dei figli, di completarla opportunamente con l’acquisto di titoli, certificazioni, master, diplomi, ecc. Ma
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per molti altri, che non hanno altrettante risorse economiche, le perplessità circa l’utilità del faticoso percorso classico aumentano. I Fondi Sociali europei hanno integrato la formazione curriculare del liceo classico con programmi di formazione linguistica, digitale, espressiva, laboratoriale, con stages ed esperienze internazionali che sono risultate estremamente utili per tanti studenti meno agiati e che hanno consentito di abbattere gli alti costi che le famiglie avrebbero dovuto sostenere se avessero voluto offrire centinaia di ore di attività formativa qualificata ai loro figli. Di fronte al calo delle iscrizioni, i dirigenti ed i docenti, spinti anche da necessità pratiche di sopravvivenza, si affannano a configurare autonomamente nuovi profili per rendere allettante il corso di studi ed evitare la soppressione delle scuole. Fanno, insomma, quello che dovrebbe fare lo Stato in ogni periodo di crisi e di mutazione: riformare il corso di studi per offrire un profilo più in linea con la realtà contemporanea. Ecco allora tante nuove denominazioni e ingegnose architetture di curricoli: il “classico della comunicazione”, il “classico della danza”, “il classico dello sport”, ecc. Insomma, il “classico-classico” della tradizione, con latino e greco, filologia e storia, con le materie “pesanti” da studiare per ore ogni giorno, nella solitudine della propria stanza, è già scomparso. Laddove sopravvive si può dire che esso sopravvive “nonostante” il classico. In un certo senso, infatti, proprio l’attività scolastica aggiuntiva extracurriculare rappresenta oggi la parte più significativa e più motivante per gli studenti, in quanto ridimensiona e pone in diversa luce le materie e la didattica tradizionale: questa parte è costituita essenzialmente dalle attività teatrali, musicali, giornalistiche, di espressione artistica, di educazione alla salute, di conoscenza del territorio, di formazione linguistica, di orientamento, tutte le attività, insomma, “alla Dewey”,
4.1 NECESSITÀ DEL CAMBIAMENTO
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che coinvolgono gli studenti, consentendo loro partecipare attivamente, di esprimersi, di sviluppare competenze, di mettersi alla prova, di scoprire le proprie inclinazioni, di sviluppare abilità operative pratiche anche al liceo classico. Bisogna prendere atto che lo scenario sociale e culturale del mondo è completamente mutato e partire da un’attenta considerazione della realtà per proporre quelle riforme necessarie a rinnovare il liceo classico, ridare slancio, in forma nuova, alla scuola classica, riconnettendola pienamente alla società contemporanea, lasciando che sia contaminata il più possibile dal tempo presente, per non chiuderla in una dimensione di sopravvivenza stentata con pochi decine di iscritti ogni anno. Non esiste più, infatti, quella realtà storica, quel mondo sociale e quell’idea che erano alla base di questa scuola e della sua funzione sociale e politica nel momento in cui, agli inizi del Novecento, essa è stata strutturata nella sua forma attuale. Se nei decenni passati era certamente il livello di scolarità (il diploma, la laurea) ad aprire le porte all’accesso immediato, sicuro e relativamente facile alle professioni, oggi le cose non stanno più così. Tutti istintivamente sanno che l’ascesa ed il progresso sociale, l’affermazione professionale, l’agiata posizione, non dipendono più dalla preparazione e dalla selezione scolastica (che del resto non esiste, nonostante la finta severità e di finti richiami in tal senso). Con percorsi di studio più facili e più spediti si può accedere ugualmente all’Università, alla laurea e proseguire poi verso le proprie mete. La formazione classica non rappresenta la condizione migliore per il raggiungimento di un qualche traguardo lavorativo e professionale Non ci si può accontentare di una scuola declinante, inadeguata ai tempi; una scuola che perde iscrizioni, nella quale la fatica dello studio impegnativo non è compensata da alcunché di spendibile né in termini professionali né in termini di adeguate competenze.
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Né si può opporre ancora il vecchio ritornello dello studio disinteressato o dell’aristocratica superiorità di chi cammina verso “le più alte vette dello spirito”, in un sistema in cui le “certificazioni” di vario tipo (informatiche, linguistiche, di comunicazione), richieste nel prosieguo degli studi, nel mondo del lavoro, ai concorsi e nelle graduatorie pubbliche, valgono più del diploma di maturità classica. Le università spesso richiedono titoli che attestino le competenze di inglese (o di altra lingua straniera) e di informatica, acquisite al di fuori del sistema della formazione pubblica. I conservatori potranno continuare ad esaltare la bellezza, i valori, la dimensione etica e critica del liceo classico, ma il discorso rischia di suonare sempre meno credibile, comunque non vincente sul piano concreto delle scelte scolastiche. E non bisogna meravigliarsi perché, come si è visto, anche nell’Ottocento l’aspetto concreto del corso di studi, ossia il conseguimento del “pezzo di carta”, la certificazione, il diploma finale, era una naturale preoccupazione ed aspirazione delle famiglie che anch’esse spesso non sopportavano la disciplina rigorosa e lenta che la serietà degli studi classici richiedeva. Anche allora i genitori a volte subissavano di improperi e di invettive, di proteste e di ricorsi professori e presidi troppo esigenti verso i figli che erano “impegnati in una faticosa scalata sociale e che Senofonte e il greco minacciavano di ripiombare nella morta gora dalla quale provenivano”. 54 Non c’è da meravigliarsi che oggi come allora si vada alla ricerca di un titolo che abbia un qualche valore concreto, che sia spendibile in vista della prosecuzione degli studi, della selezione professionale, della “capitalizzazione” dei saperi acquisiti in cinque anni di studio.
54 A. SCOTTO DI LUZIO, Il liceo classico, Il Mulino, Bologna, 1999 (ebook, nel capitolo Di fronte alla nazione).
4.1 NECESSITÀ DEL CAMBIAMENTO
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Nell’assenza di una seria riforma statale dell’impianto di studio, acquistano un ruolo sempre maggiore enti e società private, network linguistici internazionali, associazioni informatiche, università private, aziende, che rilasciano, dopo esami più o meno rigorosi, costosi diplomi e certificati, lauree e master. Al prezzo di mercato la preparazione al conseguimento di una semplice certificazione informatica costa all’incirca tra i 500 ed i 700 euro, a cui bisogna aggiungere le spese di esame per la certificazione finale che possono aggirarsi intorno ai 200 euro. Allo stesso modo una certificazione linguistica di medio livello costa centinaia di euro. Le spese di certificazione finale altrettanto. La stessa laurea non sembra esaurire il processo formativo e le famiglie devono spendere altri soldi per master postlaurea che possono arrivare a costare alcune migliaia di euro. Molto si fa, nel Mezzogiorno, utilizzando i Fondi Europei, ma essi non dureranno per sempre. Né d’altronde può essere considerata democratica una società che lascia invariato il sistema scolastico senza offrire quei titoli, quelle risorse, quella preparazione che, in relazione ai tempi, vengono considerati elementi necessari alla formazione di un giovane. Perché questi o altri saperi, questi nuovi “titoli” che hanno oggi un notevole “mercato” nella società moderna, se ritenuti davvero utili e necessari, non vengono portati dallo Stato “dentro” l’istruzione pubblica? Perché si continua a difendere la vecchia struttura scolastica ottocentesca che rilascia un titolo finale considerato da molti inutile senza avere il coraggio di rinnovarla per adeguarla alle esigenze dei tempi? Sarebbe allora più opportuno che i docenti del liceo classico, anziché rifiutare qualsiasi riforma per pregiudizio ideologico, per ossequio retorico alla tradizione, per pigrizia intellettuale o per spirito corporativo, arroccandosi in una difesa ad oltranza della scuola “così com’è”, consideri-
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no la realtà dei tempi, discutano e propongano le riforme necessarie. 4.2 Superare l’inerzia e la chiusura Il film l’Attimo fuggente (1989) ci offre una buona rappresentazione della chiusura delle scuole umanistiche occidentali alla metà del Novecento. Il film di Peter Weir è anche una metafora del coraggio che bisogna avere in un ambiente chiuso per aprire nuove prospettive che meglio valorizzino la personalità e l’umanità degli individui, per non soffocare negli schemi educativi di una scuola chiusa ed autoreferenziale. Salire in piedi sul banco per guardare il mondo da un’altra angolazione o stracciare il libro di testo assume il carattere di un gesto rivoluzionario di sfida al potere costituito; incoraggiare i giovani a vivere le proprie passioni, senza censurarle, è un gesto di ribellione ad un sistema educativo chiuso e soffocante. L’Attimo fuggente è una efficace rappresentazione artistica dei limiti e delle angustie delle scuole fondate sulla retorica dell’umanesimo, ma in realtà o funzionali ad un dato sistema sociale e politico oppure definitivamente rese insignificanti dall’evoluzione dei tempi. Si cerca di contrastare il declino dell’impianto tradizionale introducendo anche al liceo classico nuovi setting operativi: attività laboratoriali, flipped classroom, classi 2.0 o 3.0, traduzioni contrastive, ecc.. Lo scopo è sempre lo stesso: superare i programmi ed i metodi che hanno avuto, e spesso hanno ancora, al loro centro uno studio di carattere quasi esclusivamente teorico, astratto, centrato prevalentemente sulla grammatica e sulle regole del latino e del greco, sulla traduzione, sulla versione in classe, a cui oggi, diciamolo chiaramente, nessuno – neppure i docenti stessi - riesce più a dare veramente senso e valore.
4.2 SUPERARE L’INERZIA E LA CHIUSURA
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Da qualche tempo però si vedono, finalmente anche al liceo classico, docenti che intraprendono nuove vie. Sono sempre più numerosi gli insegnanti che con intelligente e faticosa ricerca ed iniziativa individuale, provando e sperimentando, realizzano attività meno teoriche e nozionistiche e più tese ad integrare il conoscere con l’attività pratica ed espressiva, progettando attività parallele alle lezioni d’aula che consentono al liceo classico di sopravvivere. Nella totale inerzia di iniziative politiche di rinnovamento, nel timore di costruire nuovi modelli e sperimentare nuovi assetti, si cerca la via di una riforma dal basso, di una revisione dall’interno di questa scuola, approvando progetti ed attività che possano connettere il liceo classico alla realtà dei nostri giorni. D’altro canto, le proteste studentesche, con le loro iniziative di “autogestione” o di “occupazione”, che si sviluppano puntualmente ogni anno sotto tutti i governi di qualsiasi colore politico, sono poco più di un colorito rito collettivo. Esse non sembrano seguire una precisa linea politica, una ben definita visione della scuola che si vorrebbe, con idee nuove e programmi di rinnovamento chiari. Le manifestazioni studentesche sfociano quasi sempre o in uno sterile ribellismo che non va oltre gli slogan ed i luoghi comuni o in forme allegramente inconcludenti di contestazione/occupazione con cui sembra che si voglia negare senso alla forma-scuola in generale piuttosto che delineare una precisa e ben definita proposta di riforma. Durante queste proteste si assiste allo sviluppo di diverse forme di “attività alternative”, a “giornate dello studente” in cui spuntano e trovano cittadinanza tutti i temi del tempo storico che i giovani vivono: l’economia, il lavoro, la creatività, l’arte, la moda, la tolleranza, la diversità, il giornalismo, ecc. Ma nella maggior parte dei casi gli studenti replicano pari pari lo schema della lezione-conferenza, riproponendo
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la classica figura del docente assiso in cattedra che parla ad un gruppo più o meno numeroso di auditores. E anche i contenuti, in definitiva, sono spesso piuttosto scontati: filosofia, letteratura, storia e cultura contemporanea, il tutto condito di powerpoint e un po’ di musica. Se questo rappresenta la novità… Ho potuto notare che gli stessi studenti del classico, quando si prospetta loro l’ipotesi di una riforma della scuola tradizionale che introduca modifiche strutturali al loro vecchio curriculum, appaiono dubbiosi, incerti, perplessi, con idee vaghe e indefinite se non apertamente contrari, chiusi anch’essi, come la maggior parte dei docenti, “in difesa”. Occorre invece riprogrammare il liceo classico, aprendolo maggiormente ad un’educazione fattiva, operosa, sensata, motivante, capace di produrre elevate competenze, abilità e destrezza, senza rinunciare all’apertura mentale e allo spirito critico, che del resto sono elementi che non possono essere esclusivi di un ordine di scuola, ma devono essere presenti come elementi educativi in tutti i rami dell’istruzione pubblica. Il sistema liceale classico nei decenni passati ha significato soltanto conoscere regole e forme linguistiche senza saper parlare o comprendere davvero alcuna lingua, né antica né moderna; ha significato conoscere biografie e opere di artisti senza saper tracciare una riga sul foglio, saper conoscere formule chimiche senza sperimentare alcunché in un laboratorio (una struttura, del resto, che solo di recente grazie a finanziamenti europei è entrata ufficialmente anche nei licei classici, mandando al macero vecchi ed inutilizzabili “gabinetti” scientifici), senza sollecitare mai curiosità, attenzione ai fenomeni, senza mai portare gli alunni a “vedere”, a provare, ad applicare, ad elaborare, a tentare soluzioni, ad apprendere “facendo qualcosa”.
4.2 SUPERARE L’INERZIA E LA CHIUSURA
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Negli anni Novanta le cosiddette “sperimentazioni”, insieme allo sviluppo dei “progetti” extracurriculari, rappresentarono un momento di apertura del liceo classico alla modernità. Furono creati corsi con il doppio di ore di matematica, con ore di informatica, furono aumentate le ore di storia dell’arte e di lingua inglese, furono finanziati diversi progetti formativi per l’ampliamento dell’offerta formativa. Giustamente è stato rilevato che il carico di studio era diventato eccessivo per gli studenti a causa dell’aggiunta di ore disciplinari senza aver ridotto al contempo il curriculum tradizionale. Certamente 32-36 ore rappresentavano un peso notevole per lo studio di uno studente di medie capacità. Tuttavia il liceo classico, così configurato, sembrava almeno più aperto e in qualche modo moderno. La sciagurata contro-riforma del ministro Gelmini, varata tra il 2008 ed il 2010, invece, ha riportato indietro le lancette della storia della scuola classica ai tempi di Croce e di Gentile. Eliminando tutte le novità introdotte dalle sperimentazioni, si è creduto di restaurare la formazione “umanistica” per antonomasia in stupida opposizione al liceo scientifico. Si è tornati, così, alla scuola dell’analfabetismo degli alfabeti, accelerando il declino del liceo classico, nella compiaciuta soddisfazione di certa sinistra radicale che in questi provvedimenti del ministro berlusconiano ha potuto finalmente esultare per veder realizzato il tanto sospirato “ritorno a Gentile”! La conseguenza è stata l’immediata diminuzione degli studenti che hanno scelto di studiare al liceo classico. Il liceo classico gelminiano avrebbe avuto il grigiore di una scuola fuori dal tempo se la volontà e l’impegno di tanti docenti non avesse reso possibile in qualche modo la prosecuzione delle attività progettuali extracurriculari e di ampliamento dell’offerta formativa, naturalmente senza alcun riconoscimento e senza alcuna rimunerazione da parte dello Stato.
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4.3 Rapportarsi alle nuove forme della cultura Fuori dalle aule scolastiche, la realtà quotidiana è sempre più colorata, rutilante, scintillante, attraente, in un modo tale che nessuno avrebbe potuto prima immaginare. Immagini stupefacenti, suoni perfetti, potenti, avvolgenti; un mondo che sorprende, coinvolge e avvolge col suo frastuono. Una diversità profonda si è determinata tra la vita quotidiana e la vita nelle aule scolastiche, mai prima d’ora sperimentata nella storia. Fino a qualche decennio fa gli ambienti scolastici, l’aula, le stesse strutture fisiche che qualificavano lo spazio dell’apprendimento, erano tutto sommato più o meno “in linea” con la realtà esterna della vita di tutti i giorni. Oggi, invece, in molti casi, varcando la soglia di una scuola superiore si ha l’impressione di fare un salto indietro nel tempo: edilizia fatiscente, corridoi bianchi desolatamente spogli o scalcinati, aule spesso mal messe, con arredi vecchi, pseudo-biblioteche inservibili sistemate alla bell’e meglio in aule o in corridoi, senza servizi, senza strutture, finestre aperte su cortili spogli o sul nulla. Un abissale divario fisico e materiale tra due spazi esistenziali, nel quale la scuola è assolutamente perdente. Di qui la necessità di rimodulare anche lo spazio fisico della scuola. Di qui la necessità di interventi per migliorare innanzitutto il decoro e l’attrattività degli istituti con arredi, rimodulazione degli spazi di lavoro, suppellettili, pareti colorate, giardini e spazi esterni attrezzati E’ completamente cambiato il concetto stesso di cultura. Storceranno il naso i difensori della scuola “così com’è”, gli irriducibili sostenitori della superiorità di una “cultura alta” da opporre alla “non-cultura” della vita quotidiana di milioni di persone. Eppure oggi rappresentano un “fatto culturale”, più di quanto di possa credere, anche Dilan Dog, Omer Simpson e videogiochi.
4.3 RAPPORTARSI ALLE NUOVE FORME DELLA CULTURA
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La cultura ludica ha acquisito una tale ampiezza che anche in letteratura didattica si comincia a parlare di gamification come uno degli elementi nuovi della vita scolastica: l’introduzione di elementi mutuati dai giochi e dal game design in contesti originariamente non riservati al gioco. La cosiddetta cultura pop da molti decenni ormai afferma il suo diritto ad essere riconosciuta come cultura a tutti gli effetti. Qualcuno ne proclama la superiorità rispetto alla cultura accademica, fredda, arcaica, autistica, chiusa in un linguaggio di difficile comprensione, ai limiti dell’incomunicabilità, una cultura sostanzialmente morta. 55 I temi della cultura pop, i suoi orizzonti, le sue musiche, i suoi testi, i suoi film, i suoi giochi, i suoi personaggi potrebbero rivelarsi non meno “umanistici” delle aristìe omeriche o delle liriche di Pindaro per la loro capacità di creare mondi complessi, coinvolgenti, di suscitare emozioni e simpatia. E anche temi e motivi tipici della cultura accademica tradizionale si comprendo meglio, o forse unicamente, se riversati in forme espressive contemporanee di grande bellezza e qualità che non possono più essere classificate come sotto-cultura. Gli esempi al riguardo sono infiniti in tutti i campi. Dalla fine degli anni ‘70 si afferma il genere della graphic novel, ovvero romanzo a fumetti, che coinvolge milioni di lettori in tutto il mondo, che trasposta il racconto a fumetti dalla letteratura di intrattenimento in narrazione letteraria complessa, diventando un vero e proprio genere letterario nuovo, che coinvolge un pubblico adulto e “letterato”. Possiamo citare il caso di Ugo Pratt per l’Italia con il suo Corto Maltese ed il ricco repertorio di personaggi “riconoscibili e apertamente dichiarati” da Omero a Shakespeare a W. Somerset Maugham a Lyman Young, da 55 F. BOLELLI, Cartesio non balla. Definitiva superiorità della cultura pop (quella più avanzata), Garzanti, Milano, 2007.
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Borges a Yeats. La rivista di Corto Maltese “tira” tra le cinquanta e le sessantamila copie; i volumi vendono 350.000 copie all’anno. Nel 1986 un importante ministro della cultura francese, Jack Lang, lungimirante promotore della cultura in tutte le sue espressioni (è sotto la sua guida che si realizza l’Arche della Défense, la Cité de la Musique, il Grand Louvre con la Pyramide dell'architetto Ieoh Ming Pei, l'Opéra Bastille) inaugura un’esposizione al Museo Nazionale del Grand Palais di Parigi (e poi Milano, Parigi, Buenos Aires) con la quale il fumetto viene riconosciuto ufficialmente come “espressione artistica” anche dalla cultura ufficiale. Alla British Library, uno dei monumenti simbolo della tradizione culturale “alta” dell’Occidente europeo, accanto alla partitura del celebre Spem in alium, mottetto per quaranta voci, di Thomas Tallis (1505-1585) e di altre partiture celebri della musica colta, si trovano solennemente incorniciati ed esposti anche i testi autografi di Yesterday e di Michelle dei Beatles. Migliaia di persone ammirano questi documenti che sono un cult della cultura pop del Novecento. Milioni di dollari sono stati investiti per la creazione e la distribuzione di un videogioco come Assassin's Creed. Un videogioco d'azione che coinvolge centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, in cui si mescolano temi storici e personaggi leggendari, la terza crociata (1191), i crociati, gli Assassini, Riccardo Cuor di Leone, i Templari, il Saladino. La Divina Commedia, allo stesso modo, entra in un altro videogioco, Dante's Inferno, un videogioco avventura uscito il 5 febbraio 2010, liberamente ispirato alla cantica dell'Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri, che coinvolge un gran numero di giocatori adulti nelle sue dinamiche come in vero proprio libro di avventura per costruire di volta in volta scenari e trame diverse.
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Dobbiamo respingere questo universo fatto di eroi epici, di storie, di colori, di effetti speciali, di testi letterari, graphic novel, film, musiche, nelle terre della “non cultura”? Dobbiamo continuare a ignorarlo o a parlarne in termini di subcultura o di squalificata cultura popolare a cui contrapporre la “cultura alta” delle aule scolastiche? Dobbiamo pensare che tutto il mondo nel quale viviamo sia l’effetto rovinoso di un programma di imbarbarimento culturale messo in atto per fini commerciali da ristrette oligarchie dell’industria del divertimento? Dobbiamo continuare a considerare “vera cultura” soltanto quel ristretto numero di testi e di altre opere selezionato e trasmesso dalla tradizione accademica occidentale nel corso dei secoli? Dobbiamo ancora respingere come scandalosa la qualifica di “poeta” attribuita nel 1963 da Umberto Eco in Opera aperta a Charles M. Schulz creatore del noto cartoon americano Peanuts nella sua introduzione alla prima raccolta italiana del celebre fumetto americano?: Se “poesia” vuol dire capacità di portare tenerezza, pietà, cattiveria a momenti di estrema trasparenza, come se vi passasse attraverso una luce e non si sapesse più di che pasta sian fatte le cose, allora Schulz è un poeta.
Oggi, nel 2015, esce la versione filmica dei Peanuts (Snoopy & Friends - The Peanuts Movie), basato appunto sul celebre cartoon di Schulz, nella quale Charlie Brown, come è stato osservato, incarna le umane qualità della perseveranza quotidiana…il rimettersi in piedi con atteggiamento positivo verso la vita. La storia ha una sua dimensione drammatica e comunicativa non inferiore ai testi letterari del canone tradizionale.56 In queste nuove forme espressive della cultura contemporanea non c’è meno umanesimo che nella cultura tradi56 M. CAVNA, You’re a Good Plan, Charlie Brown: A peek into the meticulous vision behind 2015′s ‘Peanuts’ feature film, in “The Washington Post” (07/04/2014).
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zionale. In esse si sviluppa e si afferma oggi la riflessione l’immaginazione, la fantasia, la sensibilità artistica degli uomini del XXI secolo, non meno degna di studio e di considerazione. Negli anni ’90, per citare un altro esempio celebre, si affermano i manga giapponesi, genere al quale non pochi oggi attribuiscono un vero e proprio valore letterario, con la sua varietà di tematiche, di stili, dei storie. In alcune serie di cartoons si rinnovano addirittura tematiche antropologiche e letterarie tipiche della cultura classica occidentale. Cito, ad esempio, il manga Neon Genesis Evangelion (conosciuto più brevemente come Evangelion oppure Eva), del regista Hideaki Anno, considerato uno dei registi ed animatori più importanti degli ultimi decenni, in cui rivive il tema del dionisismo e delle baccanti. Le canzoni di Franco Battiato non sono meno significative degli antichi carmi di Callimaco, di cui peraltro riprendono perfettamente struttura e regole del gioco espressivo. I canti di Fabrizio De Andrè sono quadretti poetici non troppo diversi dai carmi stereotipati della poesia epigrammatica antica. Sbaglia, quindi, chi continua ad stabilire una differenza qualitativa tra la cultura alta e la cultura pop. Le differenze ci sono, naturalmente, ma vanno colte unicamente sul piano storico e dei codici letterari. Del resto, a ben guardare, oggi nella scuola classica, nell’insegnamento, si tende a privilegiare in modo particolare il tema della “fortuna” e della “sopravvivenza” dei classici, piuttosto che lo studio di taglio filologico, forse proprio per “salvare il salvabile”; si tende in genere a considerare educativamente praticabile ed insegnabile solo quello che riesce ad avere una qualche “rispondenza” con il tempo presente. I succinti paragrafi dei vecchi testi di letterature che riportavano brevi indicazioni sul destino di questo o di quell’autore latino o greco sono oggi dilatati fino a costruire percorsi approfonditi che arrivano fino al cinema, al musical, alle riscritture contemporanee.
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La filologia, insomma, sta abbandonando le aule scolastiche a favore della “riscrittura” e della “reinterpretazione” dei testi antichi, dalle tragedie di Euripide alle commedie di Aristofane, da Plauto a Virgilio. Non può essere diversamente. Dalle università, dall’accademia che dovrebbe essere la fonte di produzione ed elaborazione del sapere, non arriva più nulla che possa essere utilizzato nelle aule di un liceo classico, come accadeva invece in passato. La comunicazione tra le facoltà di lettere ed il liceo classico è inesistente, salvo sporadiche eccezioni. L’università, autoreferenziale, coltiva il suo orto filologico. Non si trovano oggi quattro studenti di vent’anni nelle adunanze dell’”Associazione Italiana di Cultura Classica”, e neppure i docenti stessi del liceo classico, mentre centinaia di migliaia di persone accorrono ad “eventi” spettacolari che sul piano emozionale e del messaggio diventano “fatto culturale”. Il liceo classico deve chiedersi quale possa essere il suo ruolo nel mondo contemporaneo, quale il suo nuovo profilo. Bisogna prendere atto che il mondo è profondamente ed irreversibilmente mutato. Bisogna considerare che scenari inediti, imprevedibili fino a qualche anno fa, si aprono come sfondo antropologico profondo della realtà nella quale viviamo; che le categorie tradizioni del sapere, della cultura e della sua trasmissione sono definitivamente frantumate. Non sappiamo, né ha senso chiederselo, se questo è bene o male. La storia è ininterrotta, incessante mutazione. Si perdono categorie culturali che sembravano conquiste eterne. Ma non bisogna pensare a tutto questo in termini di decadenza. Forse sparirà la lettura e la scrittura nelle forme in cui noi le abbiamo conosciute, la civiltà gutenberghiana del libro sarà spazzata via da nuove e diverse possibilità che si aprono per le nuove generazioni. Ma non ciò non significa fine o decadenza. E’ molto probabile che i giovani conoscano e sappiano molto di più di quanto sa-
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pesse un giovane cinquant’anni fa. Probabilmente non sa di sapere o sa in altra forma ed in altra modalità. Forse il cultore del citato manga Neon Genesis Evangelion non sa che nell’episodio in cui l’unità umanoide Eva 01 smembra e squarta l’unità Eva 03 e poi divora Eva 04 si sta parlando e riproponendo, in moderna chiave splatter, lo sparagmos e l’omofagia dionisiaca rituale dell’antica Grecia. Lo specialista, il tecnico della cultura antica dovrà pur sempre continuare a studiare le elegie di Solone, certo, affinarne la conoscenza e l’interpretazione, come è giusto che la scienza faccia. Ma è sempre più in dubbio che lo studio filologico di un’elegia di Solone sia oggi un’istanza educativa valida, una strada praticabile per la formazione culturale di un giovane. Mentre noi chiudiamo gli occhi su un mondo profondamente mutato, senza guardare nel gorgo della mutazione che ci avvolge, e che impone oggi un nuovo assetto complessivo degli studi classici, ogni anno agli esami di Stato, con pigra indolente inerzia, continuiamo a sollecitare gli alunni a ripetere la cantilena di frasi fatte sul tema della malattia di Zeno Cosini in Italo Svevo e sul sentimento del contrario in Pirandello, presentati alla commissione d’esame come le ultime più interessanti novità della letteratura italiana contemporanea!
4.4 Superare i luoghi comuni Nella discussione sul liceo classico sono sempre presenti diversi luoghi comuni che condizionano il ragionamento. Una felice definizione di luogo comune l’ha data Luciano Canfora. Parlando delle tecniche dell’antica oratoria greca, Canfora definisce il luogo comune come la summa dell’etica media degli ascoltatori. Quando una persona dotata di autorevolezza afferma pubblicamente qualcosa che esprime il sentire comune, l’etica media degli ascoltatori,
4.4 SUPERARE I LUOGHI COMUNI
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costoro la riconoscono come valida e l’approvano senza riflettere troppo. Così, con una serie di infinite articolazioni e variazioni del luogo comune fondamentale del liceo classico, qualsiasi affermazione provenga da una fonte autorevole a difesa del latino, del greco e della cultura umanistica, trova immediato riscontro di “veridicità” nell’etica media di tutti i protagonista della community del liceo classico (genitori, alunni, docenti, dirigenti) e viene approvata senza troppo rifletterci su. Ecco allora genitori che ricordano la bellezza ed il valore formativo del liceo “dei loro tempi”, docenti che rimpiangono la perfezione dei loro maestri quali modelli irripetibili, dirigenti che attribuiscono la causa della decadenza alla scarsa preparazione dei docenti attuali, passando per gli innumerevoli e stucchevoli luoghi comuni della superiore capacità in matematica degli studenti che hanno studiato il latino e il greco, del particolare valore logico della lingua latina, dell’unica via per conoscere le proprie radici, ecc. Il più famoso luogo comune, mai scientificamente provato, è l’idea che gli studenti del liceo classico siano più bravi in matematica proprio in virtù allo studio del latino e del greco! Se così fosse bisognerebbe inserire esami di latino e greco anche nei corsi di laurea in matematica. Questa idea la si trova espressa già da Giuseppe Bottai nel 1939: “Cautamente prima,e poi esplicitamente proprio i cultori di scienze esatte hanno avvertito una carenza spirituale che offuscava l’intelligenza, additandone l’origine nella mortificazione della umanità greco-latine. L’esperienza ha dimostrato che l’umanità non conosce, finora, mezzi efficienti di organizzare un quadro di insegnamento formativo senza lo studio delle cosiddette lingue morte. E oggi non solo i filologi, ma anche i tecnici e gli scienziati più eminenti, chiedono come sostrato insostituibile della scienza e della tecnica un fondo comune di cultura grecolatina.
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Il latino prepara alla matematica e alla fisica meglio della matematica e della fisica stessa. Si può dire che l’avvenire delle intelligenze, in tutti i domini dello spirito, è strettamente legato la processo formativo del latino e del greco. La matematica, la fisica, la chimica, la storia naturale, l’astronomia e la sociologia riunite, non costituiscono un uomo, meno ancora uno scienziato”.
Per poter valutare questo dato, occorrono dati statistici omogenei e adeguatamente comparabili che non possediamo. Si continua invece ad esaltare una supposta intrinseca forza logica del greco come superiore a quella della matematica stessa. In passato, quando il liceo classico aveva un carattere classista che oggi, fortunatamente, non ha, la riuscita scolastica degli allievi anche nei settori scientifici era dovuta alla migliore struttura culturale e alle risorse che essi avevano a disposizione nelle famiglie di provenienza. In virtù di questo essi sarebbero riusciti adeguatamente bene in qualsiasi campo si fossero applicati, e non certo per le virtù taumaturgiche dello studio del greco effettuato al liceo classico. Occorre insomma liberarsi da generici luoghi comuni, liberarsi anche dalle memorie personali con cui leghiamo la validità del modello formativo al nostro vissuto, alla nostra esperienza di studenti. Occorre guardare la realtà storica nella quale viviamo, le condizioni sociali della nazione, le esigenze richieste dallo sviluppo delle generazioni future. Occorre prendere in considerazione le mutazioni profonde intervenute nelle modalità stesse della lettura, della scrittura, del reperimento, dell’uso e della diffusione delle informazioni, interpretarle e valutarle criticamente per proporre le conseguenti necessarie riforme nella consapevolezza che tutto cambia nella corrente profonda, anche se insensibile, della storia.
4.5 DAVVERO “BASTA LA MATERIA”?
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4.5 Davvero “basta la materia”? Per molti docenti del liceo classico la materia è e deve ancora rimanere il fondamento, il principio, il fine ed il mezzo del percorso formativo. Nella profonda conoscenza della materia dispensata da un docente si realizza la formazione del discente. Unico dovere dell’insegnante, di qualsiasi insegnante, sarebbe quindi la conoscenza approfondita della propria disciplina. La didattica – considerata di solito una pseudoscienza - avrebbe un valore molto limitato. Questo atteggiamento di diffidenza verso il problema del metodo didattico è tipico in modo particolare dei docenti del liceo classico e deriva dall’impostazione della scuola classica ottocentesca. Gli insegnanti di latino e greco della nuova scuola nazionale, che magari si erano formati in Germania, al culto della filologia e della linguistica tedesca, avevano a cuore dei loro interessi esclusivamente le novità filologiche e linguistiche portate dalla cultura tedesca e non avevano la minima idea del concreto fare didattico. Nelle aule di lezione dei licei delle piccole città italiana, nelle scuole delle lontane provincie in cui venivano inviati ad insegnare restavano schiacciati dal peso della loro stessa vasta preparazione. Gli insegnanti, invece, della “vecchia” scuola preunitaria, legati ad un sapiente pragmatismo didattico, erano assai meglio attrezzati e capaci nel rapportarsi agli alunni. Dall’Ottocento in poi, questa specie di “idolatria della materia”, intesa come insieme di nozioni, concetti, dati disciplinari il più vasto possibile, si è trasmessa al Novecento, con l’esaltazione della centralità della mera competenza filologica, della necessità di una preparazione esclusivamente o prevalentemente teorica come unico presupposto indispensabile dell’insegnamento. Ancora fino a tempi recentissimi, ai docenti di latino e greco, non è mai stata offerta dai piani di studio delle va-
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rie università italiane alcuna seria, organica e moderna formazione pedagogica, metodologica e didattica, nonostante la rapida evoluzione dei tempi e la consapevolezza che erudizione e filologia, per quanto apprezzabili sul piano scientifico e della cultura personale, non possono essere da sole valide risorse per l’efficacia dell’insegnamento. Mentre le nuove generazioni di studenti hanno modificato profondamente la loro realtà esistenziale, psicologica, cognitiva; mentre sono cambiati atteggiamenti e comportamenti secondo il modificarsi della struttura economica, sociale, culturale della nazione, nelle aule delle nostre facoltà di lettere classiche non si è dato nessuno spazio serio e sistematico alla riflessione pedagogica, ai problemi metodologici, alla ricerca per l’innovazione didattica, se non negli anni più recenti. Anche il sistema universitario, dunque, è responsabile per parte sua dei gravi ritardi sul piano della competenza professionale in cui si trovano oggi i docenti di lettere classiche. Le facoltà di lettere classiche sono state esclusivamente il luogo della scienza e dell’accademia; solo secondariamente, ed in modo molto limitato, sono state anche attente alla formazione professionale dei nuovi docenti. I docenti di materie umanistiche che oggi sono in cattedra si sono formati in corsi universitari in cui sono state discusse, spesso con eccellenti maestri, varianti e lectiones difficiliores di codici e manoscritti medievali; si sono analizzarti frustuli di papiri scavati dalle sabbie di Ossirinco; si sono studiate complesse strutture metriche della lirica alcaica o del teatro plautino; si è indagata in tutti i suoi aspetti la correptio iambica in Plauto; si è privilegiato insomma sempre ed esclusivamente la conoscenza della materia, senza mai tenere in considerazione in che modo tutto ciò avrebbe potuto riversarsi nelle aule del liceo. Come nell’Ottocento, concentrando tutto l’impegno solo sulla preparazione filologico-grammaticale, i futuri docenti di materie umanistiche, destinati dopo la laurea ad insegnare latino e greco nei licei, non hanno mai avuto alcuna
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seria conoscenza degli stili cognitivi, dell’evoluzione dei metodi didattici, del rapporto difficile ma pure necessario da stabilire con le tecnologie, sul modo insomma in cui le nozioni filologiche apprese all’università potessero poi trovare senso, interesse, utilità formativa ed educativa all’interno di un discorso didattico moderno e “sostenibile” dai giovani di una società profondamente trasformata. La pedagogia contemporanea, la docimologia, la didattica non hanno avuto posto nella formazione dei docenti di latino e greco che oggi hanno mediamente cinquant’anni e che costituiscono una larga parte dei docenti di materie classiche. L’unico modello riconosciuto valido nel liceo italiano è stato il modello istruzionista: trasmettere un sapere trasmettendo istruzioni con autorità; agli studenti spetta assorbire le istruzioni. Cosa significasse comportamentismo, cognitivismo, costruttivismo non ci fu dato di sapere nelle facoltà di lettere classiche. La conoscenza dei principali paradigmi pedagogici della formazione e dell’educazione umana non fanno parte oggi del bagaglio professionale di un docente di latino e greco. I risultati più recenti delle neuroscienze, utili a capire come la mente apprende, cos’è sia la conoscenza e, di conseguenza, la cultura, come si interpreta il mondo giovanile, di cosa vive, come esso sia mutato nei suoi modi di essere, quali siano le strategie didattiche più opportune in relazioni ai tempi, sono cose del tutto ignote al docente di materie umanistiche. Gli insegnanti di discipline umanistiche sono rimasti svantaggiati da molti punti di vista: privi di serie cognizioni psicopedagogiche, senza una adeguata formazione linguistica moderna che li rendesse esperti in una lingua straniera, impacciati nei viaggi all’estero per difetto di conoscenza delle lingue straniere, impacciati nell’aggiornamento professionale non potendo accedere se non ai libri scritti in italiano e a quei pochi testi stranieri tradotti – di solito con molto ritardo – in Italia, costretti di solito a lunghi periodi di un precariato che scoraggia la
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partecipazione a qualsiasi iniziativa di seria formazione professionale… A questi docenti, una volta immessi nel lavoro quotidiano in classe, non è restato altro che replicare sostanzialmente ed il più fedelmente possibile lo schema didattico tradizionale che essi avevano sperimentato a scuola quando erano alunni, “doppiare” le figure dei propri docenti, riprodurre la tipica lezione-conferenza di stampo ottocentesco. Nella dottrina di questa lezione-conferenza si apprezzava la bravura di un docente di lettere. Norberto Bobbio racconta la lezione del suo professore Umberto Cosmo, delliceo “D’Azeglio” di Torino, il quale nella prima lezione di italiano impiegò l’intera ora nel commento del solo primo verso dell’Inferno di Dante! Una lezione leggendaria, la lezione liceale! Una lezione che era una conferenza, un’esibizione di dottrina, di letture infinite; una lezione che oggi sarebbe “insostenibile” per chiunque in qualsiasi aula scolastica. Eppure in molti casi questo è ancora il principale metodo di lezione nel liceo classico: il docente entra in aula, magari un po’ in ritardo, e per quarantacinque minuti parla della questione omerica o dell’interpretazione dell’Ode della gelosia di Saffo o dell’origine della satira. Negli ultimi minuti rimasti chiede a qualche ragazzo di ripetere a voce alta il contenuto della sua precedente lezioneconferenza (lamentandosi magari che “l’ora è fuggita” e che il tempo assegnato alla sua materia risulti sempre tanto scarso e limitato). Poi passa nell’aula accanto, ricominciando daccapo con una nuova lezione-conferenza. Per i più critici verso le riforme scolastiche, per i più accesi difensori della tradizione tutto il lavoro del professore dovrebbe essere soltanto questo. Il successo della sua attività di docente poggerebbe solo sulla profonda conoscenza della materia! Gli studenti disciplinatamente seduti tra i banchi dovrebbero seguire 30 ore di lezioni-conferenze alla settimana, tutte teoria e astrazioni, senza fare altro null’altro che ascoltare, ripetere a casa e conferire alla cattedra.
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Per molti insegnanti la scuola è veramente scuola se mette al suo centro solo ed esclusivamente le materie e la lezione-conferenza. Ecco allora gli appelli, i manifesti, le “lettere aperte” che fondano la difesa l’umanesimo su una chiusura assurda e riduttiva dell’idea di scuola e di formazione. 57 La materia, affermano costoro, è l’essenza stessa della scuola; solo la materia sarebbe, di per sé, veramente e quasi taumaturgicamente educativa. Senza le materie (poche e solo teoriche) non esisterebbe più né scuola né educazione né formazione. Le materie umanistiche in particolare, poi, avrebbero “una pregnanza culturale ed umana tale che solo attraverso il loro insegnamento” è possibile perseguire i fini educativi e sociali che la scuola deve avere. Tutta la virtù educativa del docente, di conseguenza, finisce così nel risiedere esclusivamente nella conoscenza dei contenuti. Lo schema della lezione-conferenza viene difeso ancora oggi da molti contro ogni tentativo di scardinare l’impianto tradizionale. Nel liceo classico dovrebbe aver centralità solo lezione intesa come “un’organizzazione concettuale fornita da uno studio serio e approfondito di materie come la lingua italiana, la storia, una disciplina scientifica”. Il resto non conta. Il docente non deve prendere in considerazione gli alunni a cui sta parlando, non deve tenere in considerazione chi sia la persona che abbia di fronte a sé in aula; né in quali anni egli stia esercitando la sua professione; né in quale contesto territoriale, sociale, economico, storico egli agisca. Basta che conosca bene i contenuti e che tutta l’attività scolastica resti chiusa e ben concentrata su questi contenuti: i contenuti sono l’oggetto, il fine ed il mezzo della scuola. L’essenza stessa della scuola. Il docente deve semplicemente “trasferirli” ai discenti, dispensando opportune istruzioni. Per far questo non serve null’altro se non la loro perfetta conoscenza.
57
BADIALE, art. cit.
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Il discorso su strategie, mezzi e metodi, per costoro, non serve a nulla se non a generare distrazione e confusione che sviliscono il lavoro del docente. I contenuti esistono come entità oggettive che formano la cultura, la quale – così come ci è pervenuta dalla tradizione - è uguale per tutti e deve essere definita e strutturata in un programma unico a livello nazionale. Se poi gli alunni non riescono ad assorbire questi contenuti programmatici, il docente “serio” deve sanzionare la loro mancata acquisizione e “sospendere” in qualche modo, almeno provvisoriamente, l’alunno dal cammino scolastico, fino a quanto costui non mostri di aver assorbito in misura ritenuta idonea “la materia” insegnata dal docente. Penso che questa idea della scuola e del processo formativo così riduttiva, anacronistica, fuorviante e contraria alla realtà storica, oltre che al semplice buon senso, sia un relitto storico che sopravvive solo nel liceo classico. Innanzitutto essa concentrando tutto il valore della formazione sulla “materia” e sulla lezione del docente riduce o nega addirittura il concetto di “persona”, di “individualità” della persona discente che il docente ha di fronte, portatore di bisogni diversi, espressione di interessi diversi, di stili cognitivi diversi e soggettivi, di tempi di apprendimento personali, ecc. Questa specie di idolatria della materia è una sopravvivenza dell’idealismo romantico che, travasato sul piano dell’educazione e della formazione, ha bloccato per novant’anni la scuola italiana e la sua evoluzione verso un sistema più moderno. L’idealismo romantico che ha prevalso in Italia nei primi decenni del Novecento “negava la diversità delle persone, ritenendole unite nello Spirito universale, e identificava pertanto lo sviluppo personale dell’uomo con lo sviluppo universale dello Spirito”. Sempre Gentile negava autonomia alla pedagogia, o meglio la risolveva nella filosofia: “Quando per spirito non si intende se non appunto lo svolgimento, la formazione, l’educazione, insomma dello Spiri-
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to, la filosofia stessa (tutta la filosofia, posto che la realtà sia concepita assolutamente come Spirito) diventa pedagogia e la forma scientifica dei singoli problemi pedagogici diventa filosofia”.58
Credo che non sia più possibile per un docente professionista rinunciare ad affrontare seriamente il tema dei metodi, rinunciare a discutere di teorie, di mezzi didattici, del loro uso, soprattutto a sperimentarne di nuovi, senza liquidarli troppo in fretta come didatticismo e perdita di tempo. La materia non è tutto, e forse negli ultimi tempi non è più quasi niente. Sappiamo che sono sempre esistite storicamente società in cui sistemi educativi (scolastici in senso lato) funzionavano perfettamente per la formazione complessiva e critica dei suoi membri anche “senza materie”. Lo studio delle società primitive, ma non solo di esse, lo studio di forme di civiltà storiche, ha dimostrato come in tutte le società sono sempre esistiti “fatti educativi” che hanno avuto pieno valore pedagogico prescindendo da qualsiasi idea di materia. Si potrà obiettare, con argomento eurocentrista ed occidentale, che nessuna società e nessun sistema ha dato però frutti migliori al progresso, all’incivilimento e allo spirito umano che la nostra società ed il nostro sistema occidentale che ha inventato “la scuola con le materie”. Ma anche in Occidente, dall’epoca antica fino ai nostri giorni, il discorso “sui fini” dell’educazione è stato sempre accompagnato anche dalla riflessione “sui mezzi”, ossia sulla didattica e sugli strumenti didattici. Locke (1632-1704), Rousseau (1712-1778), Pestalozzi (1746-1827), Frobel (1782-1852), Herbart (1776-1841) e tanti altri hanno affinato l’indagine teorica sulla pedagogia, alla ricerca di nuovi metodi educativi, nuovi mezzi didattici, nuove procedure di insegnamento in relazione alle diverse concezioni filosofiche che via via la cultura andava elaborando. 58
G. Gentile, Sommario di storia della filolosia, II, 1912, p. 15.
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La riflessione continua ancora oggi. Anche se si dichiara spesso la morte della pedagogia, nella realtà complessa in cui viviamo teorici, esperti dell’educazione, docenti continuano a riflettere, ad elaborare teorie, a mettere a punto metodi e strumenti che siano in linea con i tempi. Non è corretto liquidare tutto come “didatticismo”. Il problema nuovo è che oggi è si è fatta molto meno chiara e molto meno definibile il concetto dei fini dell’educazione e dei contenuti della cultura. I fini educativi, oggi, non possono essere presentati se non in forma ipotetica, non più con quella determinazione assoluta e dogmatica con cui venivano presentati nella tradizione. Lo stesso concetto di cultura appare assai sfuggente e non è più così chiaramente unitario e definibile come in passato, ma rappresenta un concetto fluido, aperto e relativo, secondo l’idea che l’antropologia moderna ne da dato. In relazione ai diversi concetti di “fini educativi”, esistono diverse teorie nel campo dell’educazione, della pedagogia e della didattica, alcune maggiormente note e condivise, altre meno: comportamentismo, cognitivismo, costruttivismo, ecc. Tutte teorie che hanno la loro dignità scientifica ed autonomia epistemologica. I vari metodi didattici di cui si discute oggi, convergenti, multipli o speculari, necessitanti sempre di revisione e di adattamenti, discendono di volta in volta dai sistemi elaborati da una riflessione teorica molto seria alla cui base c’è il tentativo di mettere a punto strumenti operativi congruenti con le diverse modalità con cui la mente umana si accosta alla conoscenza. Dalle riflessioni scientifiche teoriche nascono le concrete pratiche didattiche, le modalità operative che ciascun docente dovrebbe conoscere, sia per valutarle criticamente sia per utilizzarle nel suo lavoro quotidiano, verificandone la forza e la validità. Chi nega validità scientifica alla riflessione sul metodo, chi vorrebbe limitare il processo educativo e formativo all’insegnamento di “poche e ben definite materie tradi-
4.5 DAVVERO “BASTA LA MATERIA”?
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zionali”, ripetendo lo schema della lezione-conferenza del dotto professore, difende un’idea quasi sacrale della cultura e della trasmissione della cultura, tipica delle società chiuse per le quali l’educazione è semplicemente la trasmissione di comportamenti e di sistemi di pensiero e di approccio alla conoscenza, o di modalità di organizzazione del lavoro, della produzione, in modo quasi immutabile. Secondo l’idea di Abbagnano, un’educazione moderna ed “aperta” deve basarsi piuttosto sulla formazione di individui capaci di correggere, mutare, inventare, perfezionare, alterare, modificare la realtà secondo le proprie esigenze e di modificare le tecniche stesse dell’educazione, superando inerzia e timore. 59 Personalmente inclino ad un’idea di tipo costruttivista. Amo credere che “la conoscenza" non esiste separatamente dal conoscere. Né esiste una realtà indipendente dagli esseri viventi o lo Spirito assoluto. Non esiste, perciò, in senso oggettivo, una "storia della letteratura greca" definibile e definita una volta per tutte nei suoi contenuti e nel suo valore, alla cui conoscenza il “dotto docente” deve semplicemente condurre un alunno e valutare poi in che mi misura si sia avvicinato a possedere questa conoscenza. Amo pensare che si può imparare solo quello che “si costruisce" soggettivamente, attraverso esperienze, tentativi, teorie e processi diversi per ciascuna persona, diversi nel tempo, nello spazio, nelle diverse società; processi rispetto ai quali la materia disciplinare è solo uno degli elementi, e neppure il più importante, che concorre a definire l’apprendimento. Quello che resta valido, alla fine di tutto, è solo la strategia che ciascuno riesce a sviluppare per sé, a conquistare per sé, per raggiungere un obiettivo personale.
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N. ABBAGNANO, cit., s.v. “Educazione”.
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Ritorno a Vico: “... la verità umana è ciò che l’uomo conosce costruendolo con le sue azioni, e formandolo attraverso di esse”. 4.6 Superare il grammaticalismo Uno dei più gravi problemi nel rinnovamento del liceo classico sembra essere il perdurare di un’impostazione quasi esclusivamente grammaticale nell’insegnamento del latino e del greco. La grammatica normativa delle lingue classiche si è imposta nelle scuole a partire dalla metà dell’Ottocento. Il “sistema prussiano”, forte anche dei successi politici e militari della Germania nella seconda metà dell’Ottocento, divenne il punto di riferimento di tutte le grammatiche scolastiche in Europa. Per il latino, il modello generale del sistema normativotraduttivo (con la grammatica, le frasi da costruire secondo l’ordine sintattico italiano, le traduzioni parola per parole) risale al tedesco Heinrich Gottfried Ollendorff (18031865). Tutti i metodi scolastici per l’insegnamento del latino introdotti nei decenni successivi si rifanno a questo modello. Allo stesso modo il sistema grammaticale alla base dell’insegnamento del greco deriva, come si è visto, dall’opera di Curtius, tradotta in Italia nel 1867 ed adattata per le scuole nel 1868. A partire da questa epoca, dunque, si è creata quella “tradizione” metodologica nello studio del latino e del greco che non si vuole abbandonare, anche di fronte all’evidenza innegabile che né al liceo né all’università gli studenti riescono ad imparare molto di latino e greco. Ma già a quell’epoca non tutti gli insegnanti erano convinti dell’efficacia del sistema grammaticale-traduttivo tedesco.
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Alla fine dell’Ottocento e in modo più convinto nei primi anni del Novecento si levarono, in Italia e, soprattutto, nei paesi anglosassoni, molte critiche verso il “sistema prussiano” e si propose il ritorno al “metodo diretto”. Dell’inefficacia dello studio grammaticale del latino e del greco in Italia se ne accorse addirittura il Ministero dell’Istruzione che nel 1893 istituì una specifica commissione per individuare i motivi degli sconfortanti risultati degli studenti, tanto disastrosi che già in quegli anni si parlava della “grave crisi” del latino e del greco in Italia. La Commissione ministeriale indicò proprio nel metodo grammaticale una delle cause del desolante livello di apprendimento delle lingue classiche nella scuola italiana: “Il metodo adottato nelle scuole italiane è il più difficoltoso ed il meno redditizio; serve poco alla conoscenza della lingua, serve anche meno alla conoscenza dello spirito letterario (…)”
La stessa Commissione indicava nella grammatica e nell’eccesso di filologismo i due errori fondamentali che stavano alla base del fallimento didattico: Il primo, ed il più grave e il più frequente, e quindi anche quello che più comunemente viene lamentato, è di prendere le mosse da un insegnamento sistematico della grammatica per introdurre alla conoscenza della lingua, e poi di continuare ad insistere con esso come se nell’apprendimento delle regole sue e nelle ripetute esercitazioni per applicarle consistesse tutta la ragione dello studio della lingua stessa. L’altro errore, pure frequente, ma meno generale, è di estendere oltre la conoscenza e i bisogni propri della scuola secondaria l’erudizione filologica e l’analisi grammaticale, morfologica e sintattica, della parola, della frase, del periodo in guisa che la parola per sé diventi l’obiettivo principale dell’istruzione linguistica”.
Anche Pascoli espresse il suo giudizio alla Commissione ministeriale nel 1894:
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“Si legge poco e poco genialmente, soffocando la sentenza dello scrittore sotto la grammatica, la metrica, la linguistica. I più volenterosi si svogliano, si annoiano, s’intorpidiscono; e ricorrono ai traduttori non ostinandosi più contro difficoltà che, spesso a torto, credono più forti della loro pazienza. E l’alunno, andando innanzi, si trova avanti ostacoli sempre più grandi e numerosi; a mano a mano che la via si fa più erta e malagevole, cresce il peso sulle spalle del piccolo viatore. Le materie di studio si moltiplicano, e l’arte classica e i grandi scrittori non hanno ancora mostrato al giovane stanco pur un lampo del loro divino sorriso. Anche nei Licei, in qualche Liceo, per lo meno, la grammatica si stende come un’ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li aduggia. Il giovane esce, come può, dal Liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! de’ quali ogni linea, si può dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio.” 60
Ma fu fuori d’Italia che si ebbero le iniziative migliori. Nel 1904 Otto Jespersen (1860-1943), linguistica e glottologo danese, distingueva il valore della traduzione dalla capacità di “sentirsi a casa” in una lingua: due cose completamente diverse. Altre vie didattiche, diverse dal “metodo traduttivo”, furono proposte e praticate in Inghilterra da William Henry Denham (W. H. D.) Rouse (1863-1950), che fu tra i fondatori della famosa Loeb Classical Library, e da Appelton, a Londra, nei primi decenni del ‘900. Questi studiosi, convinti che il metodo grammaticaletraduttivo fosse inefficace per gli studenti per “sentirsi a casa” nelle lingue classiche, essi fondarono nel 1913 in Inghilterra una associazione (ARLT - Association for the reform of Latin teaching), tuttora esistente, che si proponeva di contrastare l’introduzione e la diffusione del metodo grammaticale-traduttivo nelle scuole inglesi, avviando la pubblicazione di libri, manuali e sussidi per Relazioni sull’insegnamento del latino nella scuola media, in G. Pascoli, Prose, Milano 1946, vol. I, p. 592-593.
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l’insegnamento del greco e del latino che risultano, a mio avviso, molto utili ancora oggi.61 L’Associazione di Rouse è oggi ancora molto attiva in Gran Bretagna con pubblicazioni, convegni, scuole estive ed una miriade di altre iniziative finalizzate alla promozione della conoscenza della lingua latina secondo il principio del “metodo diretto”. 62 Il Cambrigde Latin Course, oggi uno dei più famosi corsi di lingua latina in Inghilterra, è in qualche misura erede delle teorie di Rouse e della sua Associazione. La via seguita in Italia, invece, è stata ispirata sempre al “sistema prussiano”, ossia al sistema grammaticaletraduttivo, basato sullo studio analitico preventivo della grammatica normativa. Nelle grammatiche normative si segue una scansione progressiva che prende le mosse dai costituenti più minuti della lingua per arrivare a quelli più complessi: si comincia a studiare la fonetica, poi la morfologia, quindi la sintassi semplice (la sintassi dei casi e la sintassi del verbo) ed infine la sintassi complessa (sintassi del periodo). Lo studio e l’apprendimento del lessico non hanno alcun posto in questo sistema didattico. Nella realtà, però, l’apprendimento di qualsiasi lingua segue il percorso contrario. Per avere una buona conoscenza della lingua bisogna conoscere innanzitutto il lessico (le parole) e la sintassi (come le parole si organizzano). Nell’apprendimento spontaneo basta, al limite, la sola parola per intendere o farsi intendere. Il passo successivo è la composizione della frase, l’organizzazione delle parole all’interno della struttura sintattica.
L’utile testo di ROUSE per l’avviamento allo studio del greco con un metodo naturale e non grammaticale-traduttivo, “A Greek boy at home”, è disponibile oggi in numerosi siti web: https://archive.org/details/greekboyathomest01rousuoft 62 Cfr. il sito web dell’ ARLT (http://www.arlt.co.uk). 61
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Lo studio della grammatica è sempre un fatto successivo all’apprendimento della lingua in essere, ossia dei testi. Dall’Ottocento ad oggi, in Italia, l’approccio al latino e al greco è stato sempre meramente traduttivo, basato sull’uso sistematico del vocabolario, a partire da una serie di “frasi”. La traduzione di un passo più o meno lungo di un’opera di un autore, senza contesto e senza riferimenti storici o letterari, rappresentava, e rappresenta tuttora, nella maggior parte dei casi, il fine supremo dell’insegnamento delle lingue classiche, compresa la famigerata prova di traduzione all’esame di Stato. La versione in classe è tuttora il temuto “momento della verità” dello studio linguistico. Abbandonare la traduzione col vocabolario significa ritornare ad una didattica viva della lingua latina. Significa abbandonare il “sistema prussiano” e riproporre, in parte, il sistema del collegio gesuitico, con il latino capito, scritto, appreso con la lettura diretta ed intensiva dei testi antichi, pur senza l’ossessione dello stile ciceroniano. La maggior parte dei docenti del liceo classico italiano, salvo alcune sporadiche eccezioni, sono ancora oggi prevalentemente schierati in difesa del “sistema prussiano” in quanto consacrato dalla tradizione. Eppure è evidente che i risultati dell’apprendimento non sono soddisfacenti né per il latino né per il greco. Già Giorgio Pasquali notava “l’ignoranza di lingua” che imperava ai suoi tempi nei licei, nonostante tutte le grammatiche scientifiche e nonostante la severità orbiliana dei docenti. Il grande filologo italiano condannava con parole sferzanti questo assurdo ed acritico “rispetto della tradizione” – che serviva solo a risparmiare agli imbecilli “la fatica di pensare” - ed esortava a cercare altre vie, altri sistemi didattici:
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“A superare (…) quest’ignoranza di lingua, che può talvolta ammantarsi d’irreprensibile sapienza morfologica, vale la pena di escogitare un mezzo efficace, anche quand’esso debba andare contro la “tradizione”, parola cara agli imbecilli ai quali risparmia la fatica di pensare”. 63
Anche a voler mantenere invariato l’impianto grammaticale-traduttivo dello studio del latino e del greco, oggi si incontrano ulteriori e nuove difficoltà perché sono ormai venuti meno i pre-requisiti necessari per condurre efficacemente, nel primo biennio del liceo classico, un adeguato studio grammaticale delle lingue classiche. Come sostiene Pier Cesare Rivoltella, i giovani digital native, arrivano al primo anno di liceo con una mente assai poco strutturata per lo studio grammaticale. 64 Essi sono figli di un modalità cognitiva in cui le regole di un qualsiasi sistema non vengono mai apprese “prima” del suo funzionamento, ma solo durante il suo uso. I videogiochi che rappresentano la realtà quotidiana dei bambini e dei giovani, sono sistemi ludici che hanno anch’essi una 63 G. PASQUALI, Paradossi universitari. Prima il greco, poi il latino, “Pegaso”, Luglio 1930, p. 191. Il testo di Pasquali è un insuperato saggio di riflessione critica, di buon senso didattico, a volte di argute osservazioni, di grandissima onestà intellettuale sulle pessime condizioni didattiche dell’insegnamento del greco in Italia con il metodo grammaticale-traduttivo basato sull’uso scriteriato del vocabolario. “Il greco - scrive Pasquali - è, checché si dica da maestri di scuole medie che si vogliono dare l’aria di studiosi profondi, molto più difficile del latino. Ma la letteratura greca è molto più giovanile, e in senso buono si potrebbe dire puerile, della latina”. Pasquali propone di anticipare lo studio del greco alla prima ginnasiale (prima media), e di posticipare il latino di tre anni, sopprimendo il greco nell’ultima classe di liceo: “Omero – scrive - è più giovanile di Virgilio, la tragedia più di Orazio, Aristofane più di Plauto, anche Platone più di qualunque filosofo romano. I Romani presentano una maggiore complessità di valori umani, quali solo un ragazzo grande può in qualche modo intuire, solo un uomo adulto intendere”. 64 Spiega molto bene questo processo P.C. RIVOLTELLA nei suoi vari libri dedicati alla rivoluzione digitale in rapporto alla didattica e ai processi di apprendimento. Tra le molte pubblicazioni interessanti segnalo qui Neurodidattica. Insegnare al cervello che apprende, Cortina, Milano, 2012 e La previsione. Neuroscienze, apprendimento, didattica, La Scuola, Brescia, 2014.
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loro “grammatica”, ossia un insieme di regole che presiedono al funzionamento del sistema e che bisogna conoscere per potervi entrare e prender parte al ludus proposto. Le regole esistono, quindi, ma sono sempre “implicite” al gioco. Non esistono manuali che “spiegano” preventivamente o descrivono il funzionamento del gioco, le regole della sua grammatica. I giovani imparano le regole di un sistema dal suo interno mentre giocano. A mano a mano conoscono e diventano esperti delle regole che presiedono il funzionamento del sistema (in questo caso ludico) con cui hanno a che fare. Il sistema di apprendimento del latino e del greco, invece, propone un lungo studio preventivo della grammatica che bisogna studiare ed assimilare con un percorso lungo e difficile (almeno due o tre anni) “prima” di poter tentare di entrare nello scenario del gioco letterario, ossia nella lettura estensiva ed autonoma di testi significativi che dovrebbe costituire il fine di tutto. Gli studenti capiscono presto, dopo le prime settimane di studio, che senza la mediazione del docente o dei traduttori interlineari è impossibile arrivare a comprendere i testi latini e greci, anche semplici, nonostante il lungo tirocinio grammaticale preventivo… Con questo non si vuole dire che la grammatica non sia importante come fatto scientifico e come fatto formativo. Tutt’altro. La grammatica rappresenta uno strumento formidabile per la comprensione scientifica della struttura di qualsiasi lingua. Consente un alto grado di astrazione e di formalizzazione e rappresenta un elemento imprescindibile di qualsiasi percorso di formazione. Ma essa deve costituire un momento “avanzato”dello studio linguistico, e non, invece, il metodo esclusivo per introdurre un ragazzo alla conoscenza del latino e del greco. Anche per questo aspetto, quindi, bisogna aprire il liceo classico a nuovi percorsi che debbono essere ben conosciuti dai docenti nei loro presupposti teorici e nell’articolazione
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didattica, con adeguata formazione, conoscenza delle risorse e degli strumenti. Il metodo naturale applicato all’insegnamento del latino e del greco rappresenta forse la migliore via didattica praticabile nel contesto scolastico attuale, per far accostare con profitto i ragazzi alla conoscenza delle lingue antiche e a condurli in modo più rapido, diretto e forse anche più piacevole alla comprensione dei testi classici. Se si vuole avvicinare i ragazzi dei licei italiani ad una conoscenza più immediata, e allo stesso tempo più significativa, dei testi degli autori antichi e di altre epoche storiche, bisogna abbandonare definitivamente l’impianto dell’insegnamento grammaticale, della traduzione di frasi e versioni ed utilizzare, adattandola alla realtà italiana, qualcuna delle altre vie messe a punto dalla glottodidattica fin dai primi decenni del Novecento, soprattutto nel mondo anglosassone. Esistono diversi metodi alternativi. Tra i principali si possono segnalare qui il reading method, basato sul principio della “sola lettura”, diretta, continua ed estensiva dei testi al fine di sviluppare capacità di comprensione intuitiva del senso); i vari sistemi meccanicistico-orali, basati sull’idea dell’apprendimento linguistico come “abitudine comportamentale” per cui attraverso domande e risposte, imitazione e confronto, memorizzazione progressiva di modi espressivi si assimilano i meccanismi linguistici di una lingua); il metodo “globale-audiovisivo”, nel quale ha notevole importanza la simulazione di un contesto concreto come occasione di presentazione della cultura e della civiltà di cui la lingua è espressione; il “metodo diretto”, detto anche metodo naturale, che si fonda sul concetto che l’insegnamento linguistico è tanto più efficace quanto più avviene in modo naturale, ossia col contatto diretto con la lingua da apprendere. Esistono poi molti altri metodi analoghi, che hanno in comune il fatto di privilegiare come punto di partenza per un valido apprendimento linguistico la presenza di un “contesto comunicativo” significativo, il dialogo, la simulazione, l’oralità, gli aspetti fonico-uditivi,
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la scrittura, l’imitazione, tutti elementi essenziali per l’apprendimento di una qualsiasi lingua. Il metodo naturale, in particolare il latino, è utilizzato in molte scuole europee, mentre è ancora piuttosto ignorato in Italia. Gli insegnanti che, con un po’ di coraggio, l’hanno sperimentato, sono stati considerati spesso eccentrici, talvolta anche un po’ derisi. Ma in qualche realtà scolastica più accorta ed avveduta sono stati organizzati seri progetti sperimentali in tal senso, con reti di scuole, monitoraggio e condivisione dei risultati. Il metodo naturale assomma in sé diversi aspetti dei diversi modelli glottodidattici di cui si è detto sopra: in particolare la lettura estensiva dei testi (reading method), il ricorso alla simulazione e alla contestualizzazione (metodo orale e audiovisivo), la collaborazione (Community Language Learning), il principio dell’apprendimento per via induttiva, per inferenza, per progressiva scoperta personale (Silent Way). Poter capire in tempi relativamente rapidi testi latini e greci anche di una cerca lunghezza e, soprattutto, significativi sul piano del contenuto, crea notevole fiducia nelle possibilità di poter imparare queste lingue. Poter leggere testi, e non lacerti di brani e frasi isolate, spesso stucchevoli, prive di qualsiasi interesse per un giovane di normale intelligenza, dà forza e slancio allo studio. Certamente non possono suscitare interesse in un ragazzo di quattordici anni le classiche frasi del tipo: “I generi areranno le terre dei suoceri” oppure “Le ancelle orneranno l’altare delle dee con le rose”; o ancora “Il contadino ara il campo impugnando il manico dell’aratro” (il mitico buris). In queste frasi c’è abbastanza noia per spegnere subito, dopo la prima settimana di studio, ogni volontà di apprendere… Essere in grado, invece, di capire un testo dotato di significato, inserito in una storia-romanzo unica, continua, interessante, contribuisce a dare senso allo sforzo che co-
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munque bisogna compiere nell’apprendimento della lingua. Qualche regola in meno, e una maggiore capacità di capire direttamente i testi, senza la difficile mediazione dell’analisi, del vocabolario e della traduzione, possono costituire un bilancio tutto sommato più che accettabile per un principiante che si avvia alla conoscenza della lingua e della letteratura latina. E lasciamo pure che si perdano i vari ravis, buris, accipiter con il loro corteggio di rosae e di ancillae, di “generi” e “suoceri” sconosciuti che arano terre ignote in luoghi ignoti… Uno degli aspetti più importanti dell’uso del metodo naturale è la scomparsa della pratica (e dell’idea stessa) della “traduzione” col vocabolario, il superamento di questa pratica introdotta a scuola nella seconda metà dell’Ottocento. Con il metodo naturale non si deve usare il vocabolario, se non in casi eccezionali. Il lessico viene appreso, infatti, progressivamente, con la lettura intensiva, seguendo il filo della storia, legando le parole e le espressioni, via via più complesse, alle situazioni, utilizzando costantemente l’inferenza logica, con un processo attivo, partecipativo e al limite ricco di entusiasmo. Il testo deve essere “compreso in latino”, senza mediazione alcuna se non quella del latino stesso, e non “tradotto dal latino”. Il vero centro dell’insegnamento è la comprensione diretta del testo, non la sua traduzione. Per poter comprendere agevolmente la maggior parte dei testi latini classici, per poter leggere senza eccessiva difficoltà i classici, l’alunno dovrebbe conoscere le circa tremila parole che gli studi di linguistica computazionale hanno oggi permesso di definire come corpus che forma l’80% delle opere maggiori della latinità classica. E’ perfettamente inutile, quindi, conoscere buris, ravis, rosa, ecc. ed altri termini peregrini, che magari compaiono una sola volta in tutta la letteratura (spesso, invece, l’alunno conosce questi termini per lo studio delle “particolarità” grammaticali, mentre ignora il significato di sostantivi e
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verbi assolutamente fondamentali e straordinariamente ricorrenti e pur conoscendo la regola dell’ablativo assoluto non è in grado di solito di cogliere direttamente il significato di una semplice espressione latina come proelio commisso). Nel metodo naturale l’apprendimento del lessico non avviene in maniera artificiosa: tutti i termini sono presenti “in situazione”, fanno parte di una storia unica, continua, dotata di senso, e non di frasi assolutamente sconnesse che fanno somigliare gli esercizi più a rebus che a testi. I termini sono continuamente reintrodotti, ripresentati all’alunno insieme a termini nuovi (per ogni lezione compaiono non più del 10% di termini nuovi, accanto a quelli già noti e memorizzati). Lo sforzo di memorizzazione è limitato. In modo naturale, agganciando il termine al suo contesto, l’alunno ritiene saldamente nella memoria il significato di tutte le parole, e diviene rapidamente in grado di formare con esse semplici frasi dotate di senso. L’insegnante pone delle semplici domande, in latino, per verificare se l’alunno ha “compreso” il senso della pagina. Controlla la risposta, sempre in latino, che l’alunno fornisce. Invita a utilizzare sinonimi o antonimi dei vari termini utilizzati. Chiede di fare un riassunto o una parafrasi, sempre in latino ovviamente, delle pagine studiate. Gli altri allievi intervengono a correggere o ad integrare. Si sviluppa così un dialogo che coinvolge tutta la classe, per tutta l’ora di lezione. Il latino davvero suona in aula, alto, chiaro, intelligibile a tutti, come deve essere per una vera lingua. Non è vero che con metodo naturale bisogna rinunciare allo studio della morfologia e della grammatica. Lo studio formale della lingua è comunque richiesto, ma viene spostato il momento della sua trattazione: prima la comprensione dei testi, l’assimilazione del lessico e poi la “sistemazione” astratta grammaticale, per comprendere
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scientificamente e profondamente la struttura della lingua. Lo studente che segue un corso di latino con questa tecnica apprende inizialmente quasi per imitazione, seguendo il discorso dell’insegnante, in maniera induttiva, si impossessa del lessico e delle strutture espressive elementari. Quando una base linguistica è già saldamente posseduta, si passa alla riflessione metalinguistica, allo studio grammaticale. Lo studio grammaticale trova il suo giusto momento di trattazione, in quanto diventa “sistemazione” teorica, categoriale e riflessione scientifica relativamente ad un bagaglio linguistico che “già” è posseduto saldamente, di una lingua che è “già” nota e compresa. In Europa sono diffusi numerosi testi scolastici ispirati al metodo naturale che sarebbe opportuno che i docenti di latino e greco conoscessero. Tra questi bisogna segnalare innanzitutto due celebri corsi di latino: il Cambrige Latin Course e l’Oxford Latin Course, ambedue articolati in vari volumi, che presentano una serie graduata di letture latine, con diverse storie ambientate nell’antico mondo romano. 65 In Italia è stato introdotto il corso Lingua Latina per se illustrata, sviluppato nel 1955 dal danese Hans H. Ørberg (1920-2010), con la collaborazione di molti autorevoli e famosi linguisti e filologi. Simile per struttura al Cambridge Latin Course, il corso di Ørberg presenta centinaia di pagine latine in cui si narra la storia quotidiana di una famiglia romana (1. Familia Romana) e una vera e propria storia di Roma dalla Repubblica all’Impero (2. Roma Aeterna). Attraverso la lettura continua ed intensiva di pagine prima adattate, poi sempre rappresentate da testi di autoE’ utile per conoscere la ricchissima messe di materiali legati al CLC consultare il sito di riferimento, con numerose risorse per studenti e docenti: http://www.cambridgescp.com/Upage.php?p=clc^top^home
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re), seguendo il filo delle vicende narrate, l’alunno giunge alla comprensione e all’assimilazione del lessico necessario a leggere in modo corrente la maggior parte delle opere degli autori latini dell’età classica. I termini sono introdotti con studiata ricorrenza per favorire la memorizzazione spontanea. Le illustrazioni, molto numerose e ben curate, non hanno valore esornativo, ma servono a far comprendere induttivamente il significato delle parole nuove introdotte a mano a mano nel testo, ed illustrate appunto da immagini e vignette, come già accadeva nei testi didattici di Comenius. 66 Il corso di Ørberg è stato presentato nella scuola italiana negli anni Novanta e diffuso tra lo scetticismo e la diffidenza della stragrande maggioranza dei docenti, molto restii a sperimentare altre possibilità didattiche diverse dall’insegnamento tradizionale e molto legati al tradizionale metodo grammaticale-traduttivo. Luigi Miraglia, direttore dell’Accademia Vivarium Novum, appassionato alfiere della divulgazione in Italia del metodo naturale, ha promosso e curato l’edizione per le scuole italiane del corso di Ørberg, con l’aggiunta di un manuale per gli alunni, di una raccolta di esercizi aggiuntivi, di dialoghi latini, di una guida per i docenti e, a mano a mano, di una serie di classici latini adattati al metodo. 67 Lo stesso Miraglia ha patrocinato l’introduzione di un corso di greco ispirato allo stesso principio didattico del metodo naturale, Athénaze, una trasposizione italiana del celebre corso Reeding Greek di Cambridge, ma guardato allo stesso modo del corso di latino con molto scetticismo da quasi tutti i docenti. Nel corso degli anni sono stati messi a punto numerosi volumi di classici latini e greci ispirati alla metodologia 66 Comenius illustrò con suoi personali disegni il suo celebre manuale per la didattica del latino Orbis sensualium pictus (1653). 67 Per tutto ciò che riguarda i testi relativi alla didattica con il metodo naturale in Italia è opportuno consultare il sito dell’Accademia Vivarium Novum (www.vivariumnovum.it).
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naturale. Oggi la disponibilità di materiali didattici congruenti con il metodo naturale, e pensati in modo specifico per la tradizione scolastica italiana, è piuttosto ampia. Non sono mancati, soprattutto nel web, vivaci ed interessanti dibattiti sugli aspetti positivi e sui limiti del nuovo metodo, e certamente si potrà fare ancora molto per mettere a punto ulteriori risorse o per calibrare ancora meglio i testi sulle necessità della scuola italiana, ma vale la pena di provare a percorrere una strada diversa. 4.7 Imparare facendo Un altro elemento importante che bisogna introdurre nel liceo classico è una didattica che sappia potenziare negli alunni la capacità di fare, la capacità operativa. Bisogna abbandonare l’idea che al liceo classico si debba praticare solo la conoscenza teorica, astratta, fatta di regole, concetti, declinazioni, eccezioni, regole, biografie, opere, ascolto silenzioso di lezioni-conferenze e studio in solitudine. Non è più pensabile limitarsi ad insegnare concetti ed astrazioni, senza fare mai ricorso alla pratica, alla creatività, al coinvolgimento, ai tentativi, alle prove e alle esperienze pratiche, senza usare i più vari e diversi strumenti per qualsiasi tipo di attività finalizzata all’apprendimento. L’uso dei sensi, per la formazione, è altrettanto necessari dell’intelletto. Se non vogliamo far ricorso allo slogan anglosassone learning by doing, possiamo citare almeno il medievale San Tommaso: nihil est in intellectu quod prius non fuit in sensu, la conoscenza arriva all’intelletto dopo essere passata per i sensi. Se il sensus è mortificato, l’intellectus non può avere vita. Credo si possa ragionevolmente convenire sul fatto che, se è indubbiamente vero che nessuna formazione può essere davvero valida se prescinde dall’astrazione e dalla razionalizzazione, l’astrazione e la razionalizzazione da sole non possono rappresentare una via valida per
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l’apprendimento né possono realizzare una formazione equilibrata della personalità. Si impara meglio e più rapidamente facendo, operando, sviluppando capacità pratiche. Diversi passi in avanti sono stati fatti per questo aspetto. Oggi, infatti, nei licei si sviluppano attività teatrali, di musica corale, esperienze formative pratiche, si organizzano stages, spettacoli, performances artistico-espressive, si esce dalle aule per conoscere dal vivo i beni culturali della propria città e del proprio territorio, si simulano attività d’impresa, si sviluppano programmi radiofonici, televisivi, si strutturano presentazioni multimediali; si cerca un equilibrio tra studio teorico ed esperienza pratica. Passi ulteriori in questa direzione possono e devono essere compiuti, nonostante il conservatorismo e l’opposizione dei più tenaci difensori della tradizione, dal momento che gli effetti di un potenziamento delle attività pratico-operativo sul piano della qualità della formazione non può che essere positivo. Un esempio tipico di rivoluzione pedagogia benefica con passaggio dallo studio meramente teorico al concreto “fare ed operare” ci viene offerto dall’educazione musicale. Da qualche decennio finalmente anche in Italia si è deciso che è più utile insegnare ai ragazzi a “fare musica”, a suonare uno strumento, insegnando soltanto gli elementi minimi della teoria e della grammatica musicale che servono per potersi esprimere con le note, piuttosto che insegnare la teoria musicale. Finalmente si diffondono “scuole civiche” di musica in diverse città al fine di insegnare la pratica della musica anche ai bambini di pochi anni d’età. Dagli anni Novanta ad oggi si sono moltiplicati ovunque i cori polifonici, le orchestre studentesche che hanno trovato nella pratica della musica e nell’espressione musicale un’occasione qualificata di crescita personale, culturale e sociale. Nella vecchia scuola media italiana, si studiava musica imparando soltanto la biografia dei musicisti illustri, si
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praticava la difficile arte del solfeggio parlato, si ascoltava sporadicamente senza capire niente, su vecchi giradischi gracchianti, qualche brano di Paganini, di Verdi o di Prokofiev. Anche in questo campo, l’Italia ha dovuto apprendere dalle teorie e dai metodi pedagogici di altre nazioni, nelle quali, a differenza che da noi, si insegnava a “fare musica”, a praticare uno strumento, piuttosto che studiare la teoria musicale perlopiù senza costrutto. Il caso più famoso è quello di Zoltán Kodály (1882-1967), che in Ungheria fin dai primi decenni del Novecento aveva fissato le linee di un nuovo metodo di didattica della musica, interessandosi al problema dell'educazione musicale dei giovani e della diffusione della pratica della musica tra i giovani come di un elemento centrale di un progetto educativo umanistico. Il suo lavoro in quest'ambito ebbe un notevole effetto sulla didattica della musica non solo in Ungheria ma in uttto il mondo. Per Kodály la musica non doveva essere un fatto elitario, un’arte riservata a pochi individui privilegiati, ma proprio in quanto fatto altamente umanistico doveva essere portata a tutti, entrare nella cultura di tutti i giovani. Il metodo didattico elaborato da Kodály consiste in una serie di principi da seguire nell'insegnamento della musica in modo che tutti i ragazzi, e non solo i pochi iscritti ai conservatori, potessero essere capaci di leggere con facilità la notazione musicale “a prima vista”, senza conoscere preventivamente tutta la “grammatica musicale”, entrando direttamente ed immediatamente nel mondo musicale. Il metodo del grande maestro e pedagogo ungherese sarà poi ripreso e reinterpretato in Italia da Roberto Goitre nel suo metodo didattico “Cantar leggendo”. Il grande vantaggio di queste nuove impostazioni di Kodaly e di Goitre sta nel fatto che con un’adeguata pedagogia musicale tutti i ragazzi potevano “fare” musica piuttosto che “studiare” musica. Il senso musicale sviluppato da piccoli, la conoscenza e la pratica diretta dello strumento coinvolge ed educa i giovani. I più motivati ed i
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più capaci, se interessati, avrebbero trovato poi da soli gli stimoli per proseguire, sistemando ed approfondendo lo studio. Allo stesso modo per la lingua inglese, la rivoluzione didattica operata negli anni ’80 ha portato direttamente gli studenti “dentro” la lingua, li ha avviati alla conoscenza diretta di essa, alla pratica dell’inglese, alla comunicazione a vari livelli, utilizzando della teoria grammaticale solo gli elementi necessari all’uso corretto della lingua e riservandone la trattazione in un momento sempre successivo allo studio intuitivo e pratico della lingua. 4.8 Competenza nei linguaggi E’ ragionevole pensare che un adeguato dominio di tutte le forme dei linguaggi, di tutte le forme di scrittura e lettura, di tutte le forme di comunicazione, sia un elemento centrale di una formazione umanistica moderna. Un giovane che abbia studiato lettere oggi, sia al liceo che all’università, dovrebbe essere in grado innanzitutto di dominare efficacemente tutte le forme ed i livelli di comunicazione letteraria e non letteraria, di codifica e decodifica dei testi, di manipolazione, di uso e di riuso. Non basta più quindi soltanto una limitata capacità di analizzare testi letterari o di scrivere un articolo di giornale, come richiesto da una delle tipologie della prova finale dall’esame di Stato. E’ necessario sviluppare una più ampia ed organica competenza nella comunicazione ad ogni livello. Il giornalismo è oggi una modalità del sapere e della comunicazione dalla quale non si può prescindere. Una cultura giornalistica deve comprendere una adeguata conoscenza di tutti gli aspetti professionali del settore, dalla redazione di un semplice articolo alla creazione di reportage fotografici, dalla gestione di una rubrica culturale in un giornale on line al giornalismo d’inchiesta.
4.9 IL DIGITALE PER GLI UMANISTI
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Ma anche la comunicazione radiofonica, la comunicazione video, la comunicazione mediata dalle tecnologie digitali possono avere parte nella formazione umanistica moderna di uno studente del liceo classico del XXI secolo. Competenza nel campo delle lettere oggi deve significare anche adeguata conoscenza di tutto questo nuovo settore, dalla redazione di un manifesto alla realizzazione di una sceneggiatura, dalla produzione di un video-spot, alla narrazione per immagini, dal giornalismo di inchiesta alla divulgazione culturale, dalla critica d’arte… Ben oltre, quindi, lo studio della storia della letteratura e della critica letteraria, che pure naturalmente bisogna conoscere. Già oggi non sono poche le esperienze che ogni anno si realizzano a scuola in questo settore. Quanti laboratori di scrittura creativa, di sceneggiatura, di teatro, di cinematografia, di inchieste, esperienze di videocomunicazione, di radiofonia, di attività multimediali si svolgono ogni anno in tutti i licei classici d’Italia! Attività impegnative che, con lo sforzo di docenti volenterosi e competenti, vengono portate a termine spesso in maniera eccellente con approvazione e soddisfazione generale, dei docenti, degli studenti e delle famiglie, . Tutto questo lavoro di grande qualità oggi deve occupare la seconda fascia del tempo scuola del liceo classico; deve essere collocato nel pomeriggio, tra le attività extracurriculari, per non intaccare il nocciolo duro delle materie tradizionali, oppure deve essere svolto in ore sottratte più o meno clandestinamente all’attività curriculare “nobile” della trattazione storico-letteraria. 4.9 Il digitale per gli umanisti Cultura digitale non è la semplice capacità di utilizzare passivamente un computer. Oggi cultura digitale significa capacità di agire in prima persona come autore e come attore della società dell’informazione e della conoscenza, partecipando e gestendo con competenza attiva i processi
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comunicativi, con capacità critica di gestire le informazioni, riutilizzarle, combinarle, condividerle. Tutto questo scenario dovrebbe essere considerato campo privilegiato, a mio avviso, proprio degli umanisti, e non competenza deteriore di figure tecniche subalterne, come ancora si è inclini a pensare al liceo classico dove non è raro incontrare ancora spesso docenti che non sono neppure in grado di redigere e di impaginare correttamente un documento utilizzando il pc e che magari vorrebbero dei “tecnici” al loro servizio per queste che considerano incombenze secondarie. L’informatica umanistica non è istruzione tecnologica di livello deteriore, né un vezzo tecnologico. L’informatica umanistica è, e deve essere, parte integrante di un percorso formativo di un liceo classico moderno. Si dà spesso per scontato che i ragazzi siano esperti di computer, mentre in realtà essi utilizzano quasi esclusivamente ed in modo passivo lo smartphone, senza conoscere alcunché della logica digitale di base. Non sanno a volte neppure salvare adeguatamente un testo scritto nel formato più opportuno per l’uso che bisogna farne; né conoscono le più elementari regole della scrittura al computer. Mentre qualche Stato, come ad esempio la Finlandia, dichiara di rinunciare ad insegnare ai bambini delle scuole elementari la scrittura a mano corsiva minuscola, i ragazzi non sono ancora in grado di produrre testi adeguatamente redatti al computer. L’introduzione delle tecnologie digitali a scuola non rappresenta, come alcuni vanno ripetendo, il cedimento alla tecnocrazia imposta dalle lobbies finanziarie internazionali produttrici di strumenti digitali. La tecnologia digitale è un fatto storico-culturale epocale della nostra società dal quale non si può e non si deve prescindere. Tanto più la scuola non può esimersi dal farne un fatto educativo. Gli studenti di una scuola umanistica moderna non solo non devono essere analfabeti in questo settore ma devono esserne i massimi esperti, proprio per l’enorme importanza che il digitale riveste oggi
4.9 IL DIGITALE PER GLI UMANISTI
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nel settore della conoscenza e della gestione della conoscenza. Devono conoscere approfonditamente le forme e le regole della scrittura digitale e della comunicazione digitale: saper correttamente creare e gestire ogni tipo di documenti digitale, creare indici e sommari automatizzati di un testo, convertire testi da un formato all’altro a seconda delle esigenze personali, gestire l’impaginazione di un testo, saper distribuire correttamente le informazioni, in qualsiasi formato digitale esse siano e attraverso i canali più adeguati in relazione allo scopo prefissato. Devono conoscere la teoria della macchina digitale ed il coding, il linguaggio formale che presiede alla realizzazione dei diversi programmi digitali. Uno studente, un docente, un professore universitario non possono non avere competenze adeguate nella gestione e nella produzione di documenti multimediali. Devono perciò conoscere tutte le forme dei nuovi media e le forme di comunicazione multimediale, le regole dell’elaborazione audio-video, ecc. Podcast, video didattici, lezioni, tutorial, uso e gestione di piattaforme didattiche e di sistemi di condivisione di contenuti, sono strumenti e risorse orami tanto diffusi nella società contemporanea che non è possibile che un docente ne ignori l’esistenza o consideri irrilevante la loro adeguata conoscenza ed il loro utilizzo. Andando avanti nella formazione e nel lavoro, gli studenti si imbatteranno sicuramente in lavori di ricerca di informazioni. Come è possibile pensare che questi giovani escano, dopo cinque anni di studi secondari, completamente ignari di come sia strutturata una base-dati e come essa funzioni; come sia fatto un archivio di testi, come lo si consulti in maniera efficace e produttiva? Molti docenti del liceo classico, invece, non solo non insegnano, per fare un esempio, l’uso corretto dei dizionari elettronici, ma addirittura lo proibiscono agli studenti ap-
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punto perché elettronico e perché “faciliterebbe” la traduzione! Come si può accettare questo assurdo modo di pensare? Lo studente non deve forse essere “facilitato” nel suo lavoro da uno strumento che la tecnologia ha reso disponibile? E’ naturale, infatti, che l’uomo utilizzi gli strumenti disponibili per facilitare e migliorare il suo lavoro. In futuro gli avvocati ed i magistrati avranno a che fare con il fascicolo processuale elettronico, i medici con la cartella clinica elettronica. Già oggi i giudici costruiscono le loro sentenze consultando anche i database della Corte di Cassazione. Altri grandi database offrono la possibilità di elaborare atti giudiziari sulla base di sentenze e di fonti giuridiche disponibili in immensi archivi digitali. Non si vede perché gli studenti di un liceo classico non debbano già nei banchi di scuola familiarizzare con simili dispositivi, tecniche e procedure, non debbano studiarne e comprenderne la logica ed i principi di funzionamento. 4.10 Liceo classico luogo di professionismo Se la nostra società oggi ricerca e premia essenzialmente “il saper fare”, il mettere al servizio di tutti il frutto dello studio e della formazione, è possibile immaginare un liceo classico ed una formazione umanistica che possano avere valore anche per questo aspetto? E’ possibile, cioè, pensare ad una scuola classica anche come “luogo di professionismo”, una scuola che, oltre a consentire ai suoi studenti la prosecuzione degli studi universitari, com’è ovvio, possa licenziare giovani con competenze reali in questo specifico ambito di saperi? E’ possibile, insomma, ricercare anche nel settore classico-umanistico una pertinenza del percorso formativo con le esigenze ed i bisogni della società? Oppure questa scuola deve necessariamente rimanere per sempre una scuola non connessa con la realtà, finaliz-
4.10 LICEO CLASSICO LUOGO DI PROFESSIONISMO
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zata soltanto, come si ripete con stucchevole ritornello, allo studio “disinteressato” al quale peraltro nessuno più veramente crede? Io credo che sia possibile immaginare una scuola nuova che, ben strutturata nei contenuti e nei percorsi, profondamente rinnovata nella didattica, senza rinunciare alla qualità formativa, possa fornire anche concrete opportunità ai suoi diplomati in tanti settori della cultura, della storia, dell’arte, dei beni culturali, dell’archeologia, dei servizi di istruzione e di informazione diffusi a livello territoriale, anche a prescindere dalla prosecuzione degli studi all’università. Esiste oggi, a differenza che in passato, un mercato dei “prodotti culturali” in generale che richiede nuove capacità di gestione ed offre inedite possibilità lavorative. Uno studente di un nuovo liceo classico potrà certamente continuare gli studi universitari in qualsiasi settore, come è ovvio, ma potrebbe anche utilizzare una sua specifica competenza per una miriade di altre attività congruenti con il percorso di studio, sia nel settore privato che nel settore pubblico. Lo Stato, naturalmente, dovrebbe fare la sua parte ripensando le sue politiche formative e giovanili. Ma è anche necessario che il sentire comune, a partire dai professori e degli studenti del liceo classico stesso, vada oltre lo sterile conservatorismo, superi inerzia e immobilismo, metta fine ai piagnistei inconcludenti. Occorre che si ragioni in modo nuovo e si creino nuovi scenari. Bisogna che nuove logiche, diverse da quelle che hanno dominato il secolo precedente, presiedano alla regolamentazione dei rapporti di lavoro, del settore dei tirocini formativi, dell’apprendistato del volontariato culturale e del servizio civile. Con una scuola umanistica rinnovata, basata su una formazione seria, reale, approfondita, competente, non si capisce perché un studente adeguatamente formato al liceo classico non possa essere utilizzato nel settore dei ser-
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vizi culturali avanzati, ad esempio nella valorizzazione dei beni culturali del proprio territorio. Si potrebbe, ad esempio, utilizzare la competenza storica e artistica di uno studente diplomato al liceo classico per la promozione delle innumerevoli risorse culturali ed ambientali locali (chiese, castelli, palazzi, centri storici, siti e località archeologiche) di cui le città ed i paesi italiani abbondano. Si potrebbe utilizzare la preparazione di un diplomato del liceo classico, adeguatamente formato, per la sistemazione e la promozione in chiave moderna delle biblioteche e mediateche civiche, o per la gestione, la sistemazione e la valorizzazione di tanti musei demo-etnografici presenti come risorse culturali in tanti paesi d’Italia. Si potrebbe utilizzare la competenza storica dei diplomati in discipline umanistiche per il lavoro di primo livello negli archivi pubblici, a cominciare dagli archivi comunali che versano in gravi condizioni di abbandono. Una competenza reale relativa alla conoscenza della storia antica potrebbe consentire di svolgere ottimamente il lavoro di guide e animatori culturali nei centri e nei siti archeologici più o meno minori, dove spesso questo servizio è inesistente. Si potrebbero valorizzare e rendere disponibili alla fruizione di tutti tante risorse del patrimonio nazionale. Imparare le procedure più avanzate in campo di restauro e valorizzazione dei beni culturali dovrebbe fornire un più facile accesso ai laboratori, ai centri di restauro. Adeguate competenze nel settore della biblioteconomia potrebbero essere aggiunte alla formazione umanistica di base e facilitare l’accesso ai grandi centri di digitalizzazione, di inventarizzazione e di informatizzazione del patrimonio librario nazionale; luoghi in cui può trovare adeguata collocazione, per un percorso di tirocinio-lavoro, un giovane studente diplomato al liceo classico, che sia padrone, oltre che dei contenuti culturali generali, anche delle tecniche informatiche applicate nel settore umanistico.
4.10 LICEO CLASSICO LUOGO DI PROFESSIONISMO
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Il modello educativo cooperativo (cooperative learning) noto come peer to peer education, sperimentato con successo in diverse scuole su base volontaria, potrebbe far immaginare il varo di un vero e proprio sistema strutturato di assistenza allo studio e di orientamento scolastico dei ragazzi in ingresso a scuola, al fine di fornire un prezioso servizio scolastico ausiliario istituzionalizzato, sistematico, organico, a favore degli agli studenti in difficoltà ed ampliando così l’offerta di servizi scolastici. Almeno per ora, però, tutto è fermo. Nessuna vera riforma, nessuna reale apertura, nessuna audace sperimentazione, nessun percorso realmente innovativo viene proposto né dall’amministrazione né dai docenti né dagli studenti per muoversi verso il futuro, in cui tutto, com’è prevedibile, avrà cambiato volto. La riforma Gelmini, come si è detto, ha inchiodato il liceo classico al suo vecchio autismo e lo ha condannato al declino, sulla base della considerazione che questa scuola deve rimanere la tradizionale “scuola dei letterati”, il che significa dire la scuola dell’ “l’analfabetismo degli alfabeti” secondo la felice immagine usata a suo tempo da Luigi Salvatorelli. Solo il lavoro volontario di tanti docenti tiene ancora in vita, nonostante tutto, le varie attività educative e formative moderne che si svolgono nel liceo classico: teatro, attività musicali, servizi di assistenza allo studio, formazione digitale, corsi di economia, studio e conoscenza dei beni culturali del proprio territorio, giornalismo, cinematografia, gestione di una web radio o di un giornale on line, grafica computerizzata… Tutte attività che alunni e genitori considerano utili e che richiedono considerandole necessarie per una formazione adeguata. Sono proprio queste attività parallele che consentono al liceo classico di sopravvivere ancora nonostante la continua chiamata alle armi, da parte dei conservatori e dei
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nostalgici, ad una irragionevole difesa della tradizione tout court. Una difesa, tuttavia, a mio avviso già sconfitta e superata dalla realtà dei fatti.
EPILOGO
La notte e l’alba del classico Il 16 gennaio 2018 si è celebrata in tutta Italia la “Notte Nazionale del Liceo Classico”, una manifestazione in difesa della scuola classica, in difesa cioè della tradizione nazionale dell’insegnamento umanistico. Dirigenti, docenti ed alunni di tanti istituti classici, da Torino a Palermo, hanno voluto affermare il valore educativo, formativo e socialmente utile del liceo classico e dire “no” a temuti progetti di riforma e di rinnovamento che a loro dire stravolgerebbero irreparabilmente l’impianto di questa antica scuola nazionale. Questa veglia notturna ha avuto certamente un grande successo: una caleidoscopica e multiforme serie di “eventi” si è sviluppata in tanti licei italiani dal tramonto a notte inoltrata: balletti, “quadri viventi”, rappresentazioni teatrali con riproposizione in chiave moderna di tragedie antiche, scenette mimiche in costume, brevi concerti di musica classica e più lunghe esibizioni di gruppi rock e pop, performances di arte digitale e immancabili proiezioni di slides di PowerPoint su grandi schermi, trasmissioni in diretta radiofonica e interviste in streaming video, non senza degustazioni di antiche pietanze romane oppure di più sapidi prodotti locali. All’inizio e alla fine del rito collettivo, pochi minuti dedicati alla fugace lettura di qualche verso di Saffo e di Alcmane, per ricordare il logo e il brand di questa scuola.
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Chi era presente ha potuto notare come, paradossalmente, la difesa della severa tradizione umanistica nazionale ha finito con l’assumere il carattere di una tipica kermesse “all’americana”… Più che la celebrazione dell’austera “disciplina mentale” e del severo “sforzo di interiorizzazione” - secondo l’idea tipica dei difensori della tradizione umanistica -, è andato in scena un grande e colorato show delle notevoli capacità dei docenti e degli studenti di adattare i contenuti culturali delle discipline classiche alle più comprensibili e diffuse forme attuali dell’edutainment (il ludendo docere che a volte sembra tanto scandalizzare). Si può dire che la Notte del classico, forse contro le stesse intenzioni dei promotori e degli organizzatori, ha fatto da levatrice ad una nuova scuola che ormai si afferma, chiaramente diversa dal vecchio liceo che pure si cerca ostinatamente di difendere nonostante i tempi mutati. Anche chi è stato sempre molto contrario a qualsiasi ipotesi di rinnovamento del liceo classico ha dovuto prendere coscienza che “le cose antiche” possono, sì, essere ancora pensate, studiate, proposte, ma non più nei modi tradizionali. Spettacolo, scenografia, recitazione, musica, colori, suoni, sapori, word art e grafica computerizzata subentrano all’antico dominio “spiritualista” della mera teoria, dei meri concetti, della mera disciplina mentale, della mera materia da interiorizzare. La manifestazione della Notte del classico è stata fatta perlopiù da cose che “si vedono”, “si ascoltano”, “si toccano”, “si gustano”… Tutte cose che coinvolgono soprattutto fortemente i sensi, la corporeità stessa delle persone, mettono in gioco la manualità, l’espressività, la creatività più o meno estemporanea, l’abilità pratica degli alunni e dei docenti. Una scuola di corporeità e di avventura. Un docente di qualche decennio fa stenterebbe forse a riconoscere in questa scuola il vecchio liceo nel quale insegnava!
LA NOTTE E L’ALBA DEL CLASSICO
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La festosa e colorata veglia in difesa della tradizione ha reso evidente che le parole-chiave sono essenzialmente spettacolo e performances, attualizzazione, esibizione, comunicazione, multimedialità ed edutainment, tutte cose afferenti più al “sapere fare” di cui parlava Luigi Berlinguer che al puro conoscere di ascendenza gentiliana e crociana. Credo che se la difesa del classico fosse stata affidata ad un ciclo di convegni, con letture filologiche di testi latini e greci, dibattiti filosofici, analisi storiche e criticoletterarie, la colorata notte degli studenti del classico si sarebbe risolta in una grigia e deserta veglia di pochi asceti. Con la Notte nazionale del liceo classico la scuola di Casati, di Croce e di Gentile ha definitivamente concluso il suo ciclo storico, almeno nella forma in cui l’abbiamo conosciuto fino ad oggi. Nell’alba spuntata dopo la festa notturna si è intravista la nuova scuola: contro ogni volontà di conservazione e di restaurazione, contro ogni resistenza alla mutazione, ogni chiamata alle armi in difesa della grammatica, del riassunto, della versione e della filologia, contro ogni difesa della lezione-conferenza e della materia, la transizione ad un nuovo corso del liceo classico sembra si stia già realizzando. E’ tempo di acquistare nuova consapevolezza. E’ tempo di avere il coraggio di scendere dalle “più alte vette dello spirito” della ormai deserta montagna del vecchio liceo classico, e senza paura, senza remore, navigare “per l’alto mare aperto” della ormai irreversibile civiltà contemporanea, con i suoi nuovi scenari antropologici, le sue nuove risorse, le sue nuove sfide, cercando di tracciare con ragionevolezza le possibili rotte da seguire. Nell’inarrestabile flusso del cambiamento spariranno presto scuole, materie e contenuti che, diventati insignificanti in relazione ai tempi e alle esigenze pubbliche, non reggeranno il confronto con la trasformazione della società nel suo divenire storico.
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Aumentare la coesione sociale, affermare più alti livelli di democrazia, promuovere la tolleranza, il rispetto dei diritti umani, l’umana “simpatia”, tutelare la dignità del lavoro, includere tutti i cittadini nei processi della vita comunitaria restano le finalità fondamentali di qualsiasi scuola di domani. Dove saranno questi valori sarà comunque umanesimo, anche senza il liceo classico.
INDICE DEI NOMI
Abbagnano, Nicola; 27; 34; 35; 37; 131 Alberoni, Francesco; 78 Anders, Gunther; 28 Anno, Hideaki; 118 Appelton; 134 Bacone, Francesco; 39 Benigni, Roberto; 16 Berlinguer, Luigi; 66; 71; 86 Bobbio, Norberto; 126 Bottai, Giuseppe; 121 Bruno, Giordano; 38 Campanella, Tommaso; 38 Canetti, Elias; 80; 81 Carducci, Giosué; 47 Caro, Annibal; 27; 47 Casati, Gabrio; 42; 50 Cerri, Placido; 92 Chomsky, Noam; 28 Cojean, Anniek; 26 Corticeli, Salvatore; 47 Cosattini, Achille; 54 Cosmo, Umberto; 126 Croce, Benedetto; 23; 54; 55; 56; 57; 64; 65; 113
Curtius, George; 51; 132 da Pisa, Guido; 47 Dewey, John; 23; 60; 62; 63; 64; 65 Diderot, Denis; 74 DRAGO, ROSARIO; 98; 101 Eco, Umberto; 117 Fraccaroli, Giuseppe; 53; 54; 58 Frobel, Friedrich Wilhelm August; 129 Gelmini, Mariastella; 113 Gentile, Giovanni; 9; 55; 56; 57; 58; 62; 64; 65; 66; 68; 95; 113; 128 Goitre, Roberto; 147 Gramsci, Antonio; 57; 58; 59; 81 Hazlitt, William; 73; 74; 76 Herbart, Johann Friedrich; 129 Humbolt, Wilelhm von; 50
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Ichino, Andrea; 10 Jespersen, Otto; 134 Kircher, Athanasius; 39 Klein, Naomi; 28 Kodály, Zoltán; 147 Lang, Jack; 116 Locke, John; 41; 129 Lombardi Vallauri, Luigi; 83; 84; 85 Machiavelli, Nicolò; 38 Manzoni, Alessandro; 47 Melantone; 91 Mirabelli, Antonio; 49 Miraglia, Luigi; 144 Monti, Vincenzo; 47; 65; 66; 68 Moratti, Letizia; 86 Moretus, Jan; 75 Nussbaum, Martha C.; 62 Ollendorff, Heinrich Gottfried; 132 Omero; 17; 53; 101; 115 Ørberg, Hans H.; 143; 144 Pasquali, Giorgio; 54; 55; 95; 136
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Pestalozzi, Johann Heinrich; 129 Pindemonte, Ippolito; 47 Pirandello, Luigi; 93; 120 Plantin, Cristoforo; 75 Porretti, Ferdinando; 46 Pratt, Ugo; 115 Puoti, Basilio; 47 Recalcati, Massimo; 77; 78; 79; 80; 81; 82; 84; 85; 87; 88 Rigoni Stern, Mario; 81 Rouse, William Henry Denham; 134; 135 Rousseau, Jean-Jacques; 129 Salvatorelli, Luigi; 9; 66 Schulz,Charles Monroe; 117 Stendhal; 73 Svevo, Italo; 120 Tallis, Thomas; 116 Telesio, Bernardino; 38 Tommaso, san; 145 Venturi, Franco; 95 Vesalio, Andrea; 39 Vico, Giambattista; 39; 40; 63; 91 Vitelli, Girolamo; 54 Weir, Peter; 110
SOMMARIO
INTRODUZIONE CAPITOLO 1. LA CULTURA UMANISTICA 1.1 Paura della crisi e difesa dell’umanesimo 1.2 L’umanesimo: azione, liberazione, simpatia 1.3 L’umanesimo non è un paradigma assoluto 1.4 Le conoscenze iperspecialistiche 1.5 L’apprendimento continuo 1.6 Le idee generali
11 23 23 25 27 29 33 36
CAPITOLO 2 – LA SCUOLA CLASSICA ITALIANA 2.1 Le origini della scuola classica 2.2 La scuola umanistica liberale 2.3 L’insegnamento del greco antico 2.4 Il rifiuto della cultura scientifica e tecnologica 2.5 Il latino non si studia per imparare il latino 2.6 Sapere disinteressato, sapere aristocratico 2.7 Una scuola per dirigenti
39 39 44 52 57 59 62 68
CAPITOLO 3 – DOCENTI E STUDENTI 3.1 Il professore “dotto” 3.2 Il professore “erotico” 3.3 Il lamento sulla condizione del docente 3.4 La femminilizzazione del liceo 3.5 Gli studenti del liceo classico 3.6 Opzionalità clandestina del latino e del greco 3.7 Le possibili alternative
73 73 79 87 96 100 102 104
CAPITOLO 4 – OLTRE LA TRADIZIONE 4.1 Necessità del cambiamento 4.2 Superare l’inerzia e la chiusura 4.3 Rapportarsi alle nuove forme della cultura 4.4 Superare i luoghi comuni
107 107 112 116 122
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4.5 Sufficit materia? 4.6 Superare il grammaticalismo 4.7 Imparare facendo 4.8 Competenza nei linguaggi e nella comunicazione 4.9 Il digitale per gli umanisti 4.10 Liceo classico luogo di professionismo
125 134 147 150 151 154
EPILOGO La notte e l’alba del classico
159 159
INDICE DEI NOMI
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