Crisi e rinnovamento tra mondo classico e cristianesimo antico 8869230112, 9788869230110

Il contesto contemporaneo sembra essere definito dal termine "crisi". Il vocabolo che è attribuito a fenomeni

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Crisi e rinnovamento tra mondo classico e cristianesimo antico
 8869230112, 9788869230110

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DISCI

DIPARTIMENTO storia culture civiltà

Studi antropologici, orientali, storico-religiosi

Collana DiSCi Il Dipartimento di Storia Culture Civiltà, attivo dal mese di ottobre 2012, si è costituito con l’aggregazione dei Dipartimenti di Archeologia, Storia Antica, Paleografia e Medievistica, Discipline Storiche Antropologiche e Geografiche e di parte del Dipartimento di Studi Linguistici e Orientali. In considerazione delle sue dimensioni e della sua complessità culturale il Dipartimento si è articolato in Sezioni allo scopo di comunicare con maggiore completezza ed efficacia le molte attività di ricerca e di didattica che si svolgono al suo interno. Le Sezioni sono: 1) Archeologia; 2) Geografia; 3) Medievistica; 4) Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico; 5) Storia antica; 6) Studi antropologici, orientali, storico-religiosi. Il Dipartimento ha inoltre deciso di procedere ad una riorganizzazione unitaria di tutta la sua editoria scientifica attraverso l’istituzione, oltre che di una Rivista di Dipartimento, anche di una Collana di Dipartimento per opere monografiche e volumi miscellanei, intesa come Collana unitaria nella numerazione e nella linea grafica, ma con la possibilità di una distinzione interna che attraverso il colore consenta di identificare con immediatezza le Sezioni. Nella nuova Collana del Dipartimento troveranno posto i lavori dei colleghi, ma anche e soprattutto i lavori dei più giovani che si spera possano vedere in questo strumento una concreta occasione di crescita e di maturazione scientifica.

Crisi e rinnovamento tra mondo classico e cristianesimo antico a cura di Angela Maria Mazzanti

Bononia University Press

Bononia University Press Via Ugo Foscolo 7 40123 Bologna tel. (+39) 051 232882 fax (+39) 051 221019 © 2015 Bononia University Press ISSN 2421-0099 ISBN 978-88-6923-011-0 ISBN online 978-88-6923-511-5 www.buponline.com [email protected] I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. In copertina:William Congdon, Venice, 14 Lagoon, part., 1957 © The William G. Congdon Foundation, Milano www.congdonfoundation.com Progetto grafico: Irene Sartini Impaginazione: DoppioClickArt – San Lazzaro (BO) Stampa: Global Print – Gorgonzola (MI) Prima edizione: marzo 2015

Sommario

Introduzione 7 Angela Maria Mazzanti Il linguaggio della crisi fra mondo classico e cristianità dei primi secoli 13 Moreno Morani Crisi e profezia nella concezione etrusca della storia 23 Alfredo Valvo An deus de sola bonitate censendus sit. Qualche riflessione su ira divina e crisi dell’uomo in ambito patristico 33 Leonardo Lugaresi Eresia e dogma: la crisi del pensiero di fronte all’Evento 71 Giulio Maspero Caelum omnibus unum, unus et oceanus. I beni comuni e la differenza degli spiriti 87 Christian Gnilka Il concetto di crisi nella cultura antica e in quella moderna e contemporanea: elementi di continuità e discontinuità 105 Ivo Colozzi Autori

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INTRODUZIONE

Angela Maria Mazzanti

L’indagine affrontata nel Seminario Internazionale di Studi “Crisi e rinnovamento tra mondo classico e cristianesimo antico”1 ha avuto origine dall’esigenza di individuazione lessicale e concettuale del termine “crisi” tramite sia ricerche relative alla radice del lemma, sia taluni sondaggi in ambiti differenziati nei primi secoli della nostra era. La rilevante importanza assunta dal vocabolo nel contesto contemporaneo sollecita infatti una verifica. Attualmente la nozione non ha corrispondenze con un singolo fenomeno, ma è applicata a più fenomeni in contesti diversificati. R. Koselleck analizza in modo approfondito l’argomento2. Lo studioso definisce come epocali3 le variazioni di caratterizzazioni attribuite al termine e, descrivendone il processo in epoca moderna, scrive: «È stato in questo periodo [la fine del XVIII secolo] che, sulla base della sua polivocità metaforica e della sua duttilità, “crisi”   Il Seminario si è svolto il 3 dicembre 2013 presso il Dipartimento Storia Culture Civiltà – Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. 2   Il rimando più immediato è a Koselleck, 1972-1997, vol. 3 (tr. it., 2012). In relazione a Carl Schmitt, di cui subisce l’influenza, R. Koselleck considera la “concretezza” dei concetti espressi in atto linguistico, e ritiene che un concetto non sia legato solo ad un ambito particolare ma sia connesso a vari elementi fra cui il versante delle circostanze, delle esperienze e dell’orizzonte delle aspettative presenti nel contesto. Di qui si esplicitano le nozioni inerenti alla ricerca storica che si basa sul linguaggio per comprendere gli elementi esperienziali soggiacenti: lo studio del lessico e delle fonti è volto alla cognizione del senso insito, dei dati esperienziali e del successivo svolgimento, procedendo oltre ciò che viene enunciato verbalmente. La relazione fra semantica e investigazione storica comporta quella connessione fra la “semasiologia” che, secondo R. Koselleck, tende a individuare i significati assunti da un certo lemma nella storia e l’“onomasiologia” che cerca i vari vocaboli inerenti a qualche fatto storico, producendone un certo esito nei confronti del fatto storico stesso. Il termine “crisi” è studiato secondo questo orizzonte interpretativo (G. Imbriano, S. Rodeschini nell’“Introduzione” alla traduzione italiana, p. 14). 3   Ivi, p. 51. 1

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Angela Maria Mazzanti

ha cominciato ad assumere sfumature di significato differenti. Essa è penetrata nel linguaggio ordinario e si è trasformata in una parola d’ordine. Nel nostro secolo non c’è ambito della vita che si sottragga agli accenti gravidi di decisione impressi da questa espressione»4. L’analisi semantica prende necessariamente l’avvio dal mondo greco e, in particolare, dall’ambito giuridico legato alla creazione del diritto, quindi, di conseguenza, dalle valenze politiche, e si estende all’uso del vocabolo nei testi biblici in cui l’individuazione della peculiarità del giudizio si coniuga con la prospettiva salvifica connessa alle attese apocalittiche. L’importanza assunta, in concomitanza, nel corpus ippocratico, comporta il senso di diagnosi radicale, che permane a lungo in ambito medico, influenzando anche altri contesti. Nella forma latinizzata crisis e iudicium R. Koselleck, coglie, in particolare, l’estensione metaforica dell’ampliamento semantico in ottiche politico-sociali. Recente è l’ulteriore passaggio alla dimensione della filosofia della storia che emerge dopo l’ingresso del concetto nelle lingue nazionali, nel XVIII secolo. La crisi assume vari contenuti: è considerata la «determinazione processuale fondamentale del tempo storico» o corrisponde a reiterati eventi in cui comunque è presente «una fase di passaggio storicamente unica»5 o coincide con la prospettiva escatologica. L’identificazione di crisi con la concezione inerente all’accelerazione del tempo, peculiare dell’epoca moderna, secondo lo studioso, si connette con l’idea concernente l’abbreviazione apocalittica in vista del giudizio finale6 e comporta l’esigenza imprescindibile di trovare una risposta nel tentativo di impedire tale esito. È opportuno aggiungere, e L. Lugaresi ne fa cenno in apertura del suo intervento, che la semantica del termine si è sempre più di frequente attestata, nelle formulazioni più ravvicinate nel tempo, sulla concezione inerente tout court alla destabilizzazione rispetto ad una realtà antecedente, la cui compaginazione consolidata è stata turbata, sconvolta. Da questa anteriorità, che permane come realtà di riferimento rispetto al fenomeno “crisi”, si origina l’emergenza di un decadimento travolgente a catena e senza possibile schematizzazione o configurazione legata ad un processo. Ignorando la dimensione del criterio, della valutazione, del discrimine, della “crisi”, la ricerca di una prospettiva è più facilmente proiettata verso tentativi di soluzioni problematiche e incerte, talora inquietanti, perché immancabilmente non contemplano, nell’attuale orizzonte ideologico, né esiti in qualche modo individuabili di uno sviluppo rispetto al passato, né modalità di un ritorno ad una qualche stabilità sperimentata7. Il contributo di Ivo Colozzi considera il tema “crisi” nell’ottica delle scienza sociali. Lo studioso rileva che, ad un’ipotesi positivista, implicante la formulazione di un’analisi diagnostica e il conseguente rinvenimento di soluzioni tramite l’affinamento di metodologie di ricerca intorno a fenomeni ricorrenti, in funzione della   Ivi, p 31.  Ivi, p. 51. 6   Ivi, p. 29. 7   Vittadini 2013, pp. 20-21. 4 5

Introduzione

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ricostruzione della coesione e dello sviluppo, è subentrata l’affermazione dell’assenza di modelli di riferimento e la constatazione dell’inesistenza di orizzonti universalistici. La teoria luhmanniana su cui il sociologo si sofferma, reputa la crisi un fenomeno costante in rapporto a sotto-sistemi funzionali volti a garantire se stessi, privo di prospettive di riformulazione organica. L’orizzonte antropologico ne risulta totalmente disatteso. La questione, lungi dal determinare la prevaricazione della dimensione dell’esperienza odierna sul passato, interroga non solo lo storico moderno e contemporaneo, ma, altresì, lo storico del mondo antico. La consapevolezza dei mutamenti o delle eventuali persistenze di una tradizione culturale analizzata in alcune fasi cruciali, in cui concetti ed eventi siano posti in un’interrelazione reciproca, permette, in rapporto ad analogie, al di là di ogni generalizzazione, l’approfondimento del dato singolo e della peculiarità di un certo contesto in tutti i suoi aspetti. Per quanto riguarda il cristianesimo delle origini è opportuno inoltre considerare, come scrive C. Gnilka, esaminando un caso specifico, la valenza non solo contestuale, ma paradigmatica di taluni elementi e, in particolare, il significato archetipico di conflitti emersi fra orizzonti culturali diversi. Il saggio di Moreno Morani analizza il termine crisi a partire dall’uso greco, biblico e, in seguito, nella letteratura latina, per poi coglierne il riapparire nel XIV secolo, prima sempre in latino, successivamente nelle lingue dell’Europa occidentale. Dall’ambito medico prevalente si sviluppano le concezioni metaforiche che assumono un rilievo sempre più ampio. Interessante è quella ricerca onomasiologica tramite la quale Morani rintraccia nel lessico latino una pluralità di espressioni, in qualche modo assimilabili alla concezione attuale di crisi, ma non identificabili. A fronte di determinazioni inerenti alla persona, si segnala la presenza di individuazioni pertinenti al tempo storico con relative valutazioni specifiche di perturbamento, negatività, presagio estremo. Addentrandosi in ricerche storiche che attestino circostanze di crisi, lo studio di Alfredo Valvo esamina la “Profezia di Vegoia”, un documento di origine etrusca, conservato fra i testi degli antichi gromatici la cui datazione risale agli anni della guerra sociale. È affermata la drammatica situazione determinata dal mutamento dei confini territoriali che erano stati posti originariamente da Iuppiter, secondo la ricostruzione mitica della cosmogonia etrusca. Il rischio dello sconvolgimento della terminatio, istituita perché non predominassero l’avarizia e la cupidigia terrena e collegata con il tempo lineare attribuito al nomen Etruscum, segna successivamente l’avvento del novissimum saeculum, cioè dell’ottavo e ultimo secolo. Si prospetta la fine della storia di un popolo che non intravede possibilità di futuro. La crisi profetizzata comporta la connessione fra il sovvertimento della tradizione religiosa e la rovina di una civiltà. Le connotazioni dell’idea di crisi come giudizio in ambito cristiano, secondo l’analisi di L. Lugaresi, ha fondamenti teologici. Il giudizio, pronunciato da Dio, è già stato espresso in modo esaustivo nella venuta del Figlio che costituisce la salvezza discriminante ed esprime una certezza evidente per l’uomo. La valutazione caratte-

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rizza l’opera di Dio in ogni manifestazione: ne è paradigma la creazione connessa, scrive Tertulliano, ad una considerazione che ne riconosce la bellezza e la bontà e, secondo Basilio, la conformità alla progettualità, alla razionalità (logos) dell’azione stessa. L’essenzialità del nesso bontà e giustizia divina è significativa. Di qui anche il rilievo del tema dell’“ira di Dio”, su cui si soffermano alcuni testi patristici, talora in polemica con gli gnostici. Tale concezione, problematica in relazione alle nozioni teologiche sull’immutabilità e quindi soggetta a tentativi di “interpretazione”, in altri scritti (l’Autore analizza passi di Tertulliano, di Clemente Alessandrino e di Origene) individua, senza necessariamente determinare una variazione ontologica, l’affezione singolare di Dio nei confronti dell’uomo, quel rapporto di amore riversato da Dio sulla persona cui corrisponde comunque a parte hominis un timore significativo perché attestante l’inadeguatezza della propria risposta. Si svela così, secondo J. Daniélou, citato da L. Lugaresi, l’intensità dell’esistenza di Dio non confrontabile con la natura umana. Ne emerge quindi l’esistenza di un piano provvidenziale. Il giudizio di Dio che coincide con la fine e, nel contempo, il fine della storia, per citare termini formulati da K. Barth, è coessenziale alla fede e inerisce a quella identità dell’uomo e della cultura occidentale che ha assunto significato specifico nel rapporto con il cristianesimo. La necessità della “crisi” è chiaramente documentata negli scritti cristiani anche da Christian Gnilka: si tratta di crisi come discrimine, come differenziazione alternativa implicante scelte consequenziali. Lo studioso si sofferma a considerare il principio dei communia: affermato nel diritto e più volte espresso nella letteratura latina come dato esperienziale, assume nella filosofa stoica la giustificazione teorica. La presenza del logos che permea il tutto costituisce la natura razionale di ogni uomo, da cui si origina il diritto oggettivo di fruizione dei beni inerenti alla vita. La parola di Gesù Cristo, esprimendo motivazioni peculiari, ribadisce la possibilità di partecipazione condivisa delle ricchezze del creato, opera del Dio unico, personale: la natura, rimandando alla presenza e all’essenza di Dio, offre utilità senza porre distinzioni. Ne deriva un insegnamento per gli uomini. Ma la aequitas (e particolarmente significativi sono le analisi concernenti i passaggi semantici della lingua latina nell’uso dei primi cristiani su cui C. Gnilka si sofferma) divina e umana non è concepibile come mancanza di distinzione e quindi come annullamento del giudizio. A fronte dell’uguaglianza antropologica, dell’utilizzazione di ciò che la natura elargisce è chiaramente constatabile quella inequalitas umana che richiede la patientia di Dio e il manifestarsi di una definitiva sentenza. La deduzione, tratta dalla constatazione del possesso dei communia e concernente l’indifferenziazione sulle concezioni della verità attestate dagli uomini che Q. Aurelio Simmaco proclama in una famosa orazione tenuta nel 384, è profondamente arbitraria. E C. Gnilka considera la contestazione espressa nel secondo libro del Contra Symmachum dal poeta Prudenzio. La possibilità dell’uso dell’acqua, dell’aria da parte di tutti non conforma gli uomini che non solo si differenziano nella morale, a partire dal riconoscimento del vero Dio, ma sono diversi sia sul piano giuridico, etnico e culturale. La luce di

Introduzione

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Dio non muta, dovunque si manifesti, ma la ricerca esistenziale degli uomini non ha valenze indifferenziate. In opposizione alle molte vie è chiara l’affermazione che la via è una. L’alternativa antitetica presentata nell’analisi esemplificativa è evidente in forza del giudizio critico, fondamentale nella realtà ecclesiale. La crisi interna ad ambiti religiosi, in questo caso relativa al primo cristianesimo, o, secondo una disamina comparativa, a contesti filosofici che si configurano come comunità in cui vige una tradizione, è indagata da Giulio Maspero. Ne emerge quell’accostamento con il concetto di eresia che implica, nel contempo, una differenziazione di contenuti: se αι̕ρéω significa “scegliere per sé”, “distinguere rispetto al tutto”, scrive lo studioso, a κρίνω spetta il senso di “giudizio che fa riferimento al reale”. A fronte di un evento nuovo se il giudizio è esatto, l’originarsi dell’eresia è invece fattore di negatività. La comparazione fra i due contesti, esaminati tramite un’analisi paradigmatica, esplicita differenti connotazioni. La “crisi”, evinta dal passo di Gregorio di Nissa (Contra Eunomium I, 109,10-110,6), comporta per il cristiano la sollecitazione ad una nuova conoscenza, ad una valutazione della realtà a partire dalla rivelazione, in cui l’evidente incapacità umana trova nel rapporto con Dio la possibilità di comprensione. Il termine “eretico” è attribuibile a colui che non si basa, nel tentativo di conoscere il mistero, sul dato ontologico inerente alle differenze fra realtà umana e divina e, nel contempo, alla loro relazione. Le dimensioni cognitiva e unitiva sono infatti inseparabili. Il passo di Giamblico (De vita Pythagorica, 34, 246,10-247,7) riguardante un certo Ippaso, allontanato dalla convivenza e dalla vita pitagorica a motivo della divulgazione di una conoscenza di teorie, delinea la rottura di quell’orizzonte di armonia legata al concetto di misura caratterizzante la cultura greca. Eretico è quindi chi, soffermandosi su dimensioni gnoseologiche del mistero, considerato di per sé definito e legato alla necessità, esplora con il proprio pensiero e si allontana dalla tradizione. Ne consegue l’assenza di ogni riferimento alla natura della persona e al suo essere relazione con l’oggetto del conoscere. Le analisi svolte nelle relazioni presentate al Seminario di Studi costituiscono un primo sondaggio di una ricerca che apre questioni rilevanti. L’individuazione, in particolare in alcuni fenomeni religiosi8 del mondo antico, di prospettive di mutamenti, di contrasti, di “rotture”9, identificabili attualmente con l’accezione polivalente di “crisi”, attesta il verificarsi di processi imprescindibili. L’approfondimento sulla semantica relativa al lessico può aprire cognizioni sulle valenze attribuite agli   L’attribuzione di “religiosi” non vuole circoscrivere la valenza degli eventi limitandone l’orizzonte interpretativo ad un aspetto, ma coglierne fondamenti significativi. 9   Si fa riferimento al titolo del volume 4 del Trattato di antropologia del sacro diretto da J. Ries, Crisi, rotture e cambiamenti (ed. it.), Milano 1995, in cui vari studiosi: U. Bianchi, A. Cheng, O. Clément, D.M. Cosi, J.C. Margolin, P. Massein, L. Paolini, J. Ries, G. Sfameni Gasparro, J.P. Sironneau, affrontano approfondimenti su fasi inquiete, seguite da metamorfosi che hanno condotto a esiti positivi o a squilibri, a perturbazioni o rotture con lo sguardo volto, come scrive J. Ries nell’Introduzione (pp. 17-23), all’uomo, alla concezione dell’uomo. 8

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eventi. L’indagine sull’origine della frattura comporta la ricerca sulle caratteristiche dell’assetto antecedente e pone domande sulla “tradizione”, sull’affermarsi di formulazioni concettuali e di strutture consolidate. Fondamentale è la rilevazione concernente l’evento che determina il cambiamento interpretato secondo una fisionomia recessiva o caotica, priva di segni o come opportunità esatta in prospettiva antropologica e storica. Su questa valutazione si gioca la crisis, secondo la semantica originaria, quella crisis inerente essenzialmente alla realtà che l’ottica della fede cristiana concepisce come fondamentale. Bibliografia Koselleck 1972-1997 = R. Koselleck, Krise, in O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck, Klett-Cotta (herausg.), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Stuttgart, 19721997, vol. 3 (tr. it., Crisi. Per un lessico della modernità, Introduzione a cura di G. Imbriano, S. Rodeschini, Postfazione di A. Zanini, Verona 2012). Ries 1995 = J. Ries, Introduzione, in U. Bianchi et al., Crisi, rotture e cambiamenti (ed. it.), Milano 1995, volume 4 del Trattato di antropologia del sacro diretto da J. Ries. Vittadini 2013 = G. Vittadini, Introduzione, in G. Sapelli, G. Vittadini (a.c.), Alle Radici della crisi. Le ragioni politiche, economiche e culturali di un processo ancora reversibile, Milano 2013, pp. 11-21.

IL LINGUAGGIO DELLA CRISI FRA MONDO CLASSICO E CRISTIANITÀ DEI PRIMI SECOLI

Moreno Morani

Questa comunicazione si propone di descrivere brevemente le vicende di una parola che ha avuto una sorte singolare di specializzazione, morte e resurrezione in altra forma, e in questa nuova forma si è poi diffusa in modo straordinario divenendo una delle parole più usate della moderna cultura occidentale. Parlo della parola “crisi”, la cui esplorazione è alla base di questa giornata di studi. Il punto di partenza è il greco κρίσις. La parola permette un’analisi trasparente: è un nome di azione formato col produttivo suffisso -ti- sulla base di una radice che, al di là di qualche incertezza nella definizione precisa della forma primitiva, trova corrispondenze precise in varie tradizioni indeuropee1, a partire dal lat. cernō. Come risulta dalla lettura dell’articolo del Liddel-Scott, la parola ha il significato di ‘giudizio’ in tutte le sue possibili implicazioni: dal giudizio intellettuale al giudizio di un tribunale, dal giudizio in corso di formazione al giudizio già definito e formulato nonché alla scelta o alla condanna che ne consegue, dalla discussione all’interpretazione dei sogni e delle profezie. Rileveremo solamente (per l’importanza che avranno nel successivo sviluppo della parola) la presenza di una paio di valori tecnici molto particolari: nella lingua dell’anatomia κρίσις indica il punto centrale della colonna vertebrale e nella lingua medica indica il punto decisivo del decorso di una malattia, il punto cioè in cui si decise se la malattia sta per avere uno svolgimento favorevole o negativo. Questo lo schema che troviamo nel lemma di LSJ: A. separating, distinguishing 2. decision, judgement   Pokorny, IEW, p. 938 (che presenta un’esorbitante quantità di materiale messo insieme però in modo piuttosto confuso); LIV 2, p. 366 (a partire da una base *kreih1).

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3. choice, election 4. interpretation of dreams or portents II. judgement of a court. b. result of a trial, condemnation. c. hēméra kríseōs Day of Judgement, Ev. Matt. 10.15. 2. trial of skill or strength. 3. dispute. III. event, issue. 2. turning point of a disease, sudden change for better or worse. IV. middle of the spinal column. A integrazione di quanto detto finora aggiungiamo alcuni punti. a.  Il significato della parola fondamentale è nitido, ma può modificarsi sensibilmente in composti (p. es. σύγκρισις ‘confronto’, ὑπόκρισις ᾿finzione᾿, διάκρισις ‘separazione’, ἀπόκρισις ‘risposta’ [il sostantivo è tardo e raro, ma il verbo corrispondente è di uso comune] e altri). b.  La parola è presente in tutto il corso della Grecità linguistica, da Pindaro in avanti. c.  A partire dall’età ellenistica κρίσις subisce la concorrenza di κρίμα2: quest’ultima parola, di formazione anch’essa trasparente, non offusca l’importanza e la diffusione di κρίσις, assumendo un impiego tendenzialmente ufficiale (‘decisione istituzionale, delibera’) per poi passare nel lessico cristiano al significato di ‘peccato’. Nel greco cristiano l’accento è posto in maniera molto chiara sul giudizio finale3. Pur conservando tutti i valori acquisiti nel corso della storia linguistica precedente, κρίσις è usato con frequenza e intensità per indicare il giudizio di Dio sul mondo e sull’uomo: esempi di questo significato si trovano copiosamente disseminati nei testi cristiani, a partire dal passaggio di Matteo in cui Gesù predice una fine peggiore di quella di Sodoma e Gomorra per la città che non abbia accolto gli apostoli del Signore4. Nella letteratura latina, di crisis abbiamo una sola attestazione sicura in un testo letterario, più un’occorrenza dubbia: in entrambi i casi la parola ha la sembianza di un termine tecnico appartenente a un lessico settoriale (come si sa, le lingue settoriali sono inclini all’accoglimento delle parole straniere in misura superiore alla lingua comune). La presenza di crisis in una satira di Lucilio è frutto di un’emendazione (molto probabile) proposta da Marx nella sua edizione di questo autore: crisis, immediatamente 2   Parrebbe esistere anche una forma con vocale lunga in Eschilo, Suppl. 397, dove si ha l’interessante gioco di parole οὐκ εὔκριτον τὸ κρῖμα· μή μ’ αἱροῦ κριτήν: ma si dovrà probabilmente leggere κρεῖμα, supponendo un’antica forma a grado normale κρεῖμα, perfettamente sovrapponibile a lat. crīmen. 3   Lampe, s.v. (p. 779 s.). 4   Mt 10,15 (ἐν ἡμέρᾳ κρίσεως).

Il linguaggio della crisi

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accostato a iudicium, si configura come termine tecnico della scienza grammaticale e indica la selezione di parole che l’autore deve compiere nella produzione di un testo: horum est iudicium, crisis ut discribimus ante, hoc est, quid sumam, quid non, in quoque locemus.

Nel seguente passaggio di Seneca crisis, che compare all’accusativo nella forma greca crisin, ha il puro e semplice significato di ‘malattia’: Seneca (Ep. mor. 83, 4-5) parla di un suo piccolo allievo5, il cui nome è tramandato con grafia incerta nei manoscritti: ormai Seneca non è più in grado di seguirlo nelle sue corse, e il bambino gli dice che tutti e due soffrono della stessa malattia, perché ad entrambi cadono i denti: Hic quidem ait nos eandem crisin habere, quia utrique dentes cadunt.

Nel mondo latino la parola compare in poche attestazioni in scritti di medicina (Celio Aureliano, Oribasio, pseudo-Sorano), sempre come termine tecnico. Il carattere poco diffuso del termine è assicurato dal fatto che in un repertorio di termini tecnici medici (CglLat III 599, 22) compare una glossa di crisin come declinatio valetudinis. L’ultima attestazione di crisis prima della sua completa eclissi si trova in un’etimologia di hypocrita che ci dà Alcuino nel trattato De orthographia (GLK VII, 303, 21): Hypocrita graece, latine simulator: hypo enim graece falsum, crisin iudicium interpretatur.

Come si vede la parola greca, ripresa nella sua forma accusativale, è citata nel suo significato primario di ‘giudizio’. La completa sparizione del termine in epoca medievale è assicurata da un paio di paretimologie che troviamo in scrittori dell’epoca. La prima è un’etimologia di apocrisiarius data da un glossografo citato dal Du Cange: Apocrisiarii dicuntur nuntii Dom. Papae, q. Secretarii, nam crisis quandoque dicitur secretum.

È evidente che il glossografo ignora il significato della parola. Gli apocrisiari sono messi inviati dal pontefice o dall’imperatore con un mandato preciso: oggi diremmo degli “incaricati d’affari”. La parola è diretta derivazione del greco tardo apocrisis nel senso di ‘risposta’. Il collegamento con secretum sembra fatto a orecchio, sulla   Progymnastas meos quaeris? unus mihi sufficit Pharius, puer, ut scis, amabilis, sed mutabitur: iam aliquem teneriorem quaero. Hic quidem ait nos eandem crisin habere, quia utrique dentes cadunt. Sed iam vix illum adsequor currentem et intra paucissimos dies non potero: vide quid exercitatio cotidiana proficiat. Cito magnum intervallum fit inter duos in diversum euntes: eodem tempore ille ascendit, ego descendo, nec ignoras quanto ex his velocius alterum fiat. Mentitus sum; iam enim aetas nostra non descendit sed cadit.

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Moreno Morani

base probabilmente di un richiamo a termini come secretarius o simili: chi tratta le incombenze del Papa o dell’imperatore è sicuramente a conoscenza di segreti, e dunque l’etimologizzazione di apocrisiarius a partire da un presunto valore di ‘segreto’ è parso legittimo al nostro glossografo. Un caso ancora più interessante di paretimologia è quello proposto da Heiricus Autissiodurensis, un autore del IX secolo (Homiliae per circulum anni. Pars aestiva hom. 20): Hypocrita etiam dici potest subauratus: ‘hypo’ namque grece latine dicitur ‘sub’, ‘crisis’ aurum.

Qui ha giocato evidentemente l’omofonia di crisis con χρυσός ‘oro’. Le due parole avevano assunto una pronunzia simile, poiché nel latino tardo e parlato χ del greco era normalmente scritto e realizzato /k/ fin dai tempi antichi (si pensi a calice e, con palatalizzazione, a braccio, macina) e la pronunzia itacistica del greco aveva portato alla confusione fra /i/ originaria e /y/. Dell’esistenza di una voce criseus ‘dorato’ fa fede p.es. la medievale Passio Sanctae Catherinae (un testo poetico del XII secolo di un Ricardus quidam6), in cui leggiamo: Mira uidentur: Angelus astat ei tante seruus faciei Menti solamen prestans, carni medicamen, Aspera complanans et carnis uulnera sanans. Virginis ante thorum stabat cetus seniorum Miri candoris, fragrans spiramen odoris. Ex uno quorum sumens diadema decorum Fulgoris crisei uenturi signa trophei Regine donat, caput ambit, eamque coronat.7

Dopo questa lunga eclissi crisis riappare nel latino del XIV secolo e poi nelle lingue dell’Europa occidentale a partire dallo stesso periodo. Nella Continuatio anonyma Thomae a Kempis troviamo così descritto il pio trapasso di un monaco morto di peste: De hoc fratre memoriale exemplum fertur, quod tertia die, postquam tactus fuit pestilentia, et vidisset ultimam crisim mortis, quam vulgares maculas mortis appellant, forti adhuc mente et viribus petiit afferri sibi tunicam, in qua secundum consuetudinem ordinis sepeliri deberet.   Ricardus quidam, Passio sanctae Catharinae (‘Ut super omne melos’), CM 119 (A.P. Orban 1992), pp. 165-259. 7  Nel Du Cange troviamo registrata una voce criseus ‘grigio, livido’: ma si tratta evidentemente di una voce di origine e significato diverso. 6

Il linguaggio della crisi

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Qui crisis vale esattamente ‘sintomo di prossima morte’, e la parola viene qualificata come termine tecnico, contrapposta alla denominazione corrente di maculae mortis. Mi sembra chiaro che la parola è stata recuperata dalla lettura della trattatistica medica latina, dove, come già detto, la parola compare sporadicamente. La prima attestazione di crisis in una lingua europea appare in italiano in un volgarizzamento di Zucchero Bencivenni (inizio XIV secolo) da un’opera medica araba, il cosiddetto Mesue volgarizzato: Flusso di sangue dalle nare, avvenente a loro dopo per la crisi, non dovemo restringere.

La parola viene utilizzata anche al di fuori dei contesti medici, ma si deve aspettare fino alla fine del XVII secolo per vederla registrata nei Vocabolari della Crusca: nell’ediz. 1691 leggiamo infatti: Termine di medicina; ed è quel nuovo periodo, che piglia il male, quando la natura vuole sgravar l’ammalato. Lat. crisis. Gr. κρίσις. Esempio: Bern. rim. E purga i mali umor per quella via: Quel, che i medici nostri chiaman crisi, Credo, che appunto quella cosa sia8. Esempio: Segn. Crist. Instr. p. 3. 182. Che quando l’ammalato fa crisi, non si smuova, non si sbatta9.

L’edizione successiva (1729-1738) registra anche la variante crise accanto a crisi. Più o meno contemporanee a quella italiana le prime attestazioni di crise in francese. Nelle più antiche attestazioni la parola appare nella forma crisin, indizio evidente del fatto che è stata ripresa di peso dalle opere latine di argomento medico. Leggiamo crisim nella Practica seu Lilium medicinae di Bernard de Gordon e poi crise nella Grande Chrurgie di Gui de Chauliac10. In inglese la parola arriva più tardi per due vie: o attraverso il francese nella forma crise /kri:z/, con la variante grafica creeze, o direttamente dal latino nella forma crisis /krʌisis/. Le prime attestazioni di entrambe le forme sono pressoché contemporanee, e nel periodo più antico anche qui l’uso è ristretto al solo contesto della medicina (e spesso in traduzioni di opere antiche) e la documentazione precisa il carattere tecnico della parola e la sua scarsa diffusione: 1541 R. Copland, trad. da Galeno, They have wel and parfytly knowen the contemplacyon of the Cryse. 1543 B. Traheron, Interpr. Straunge Wordes: Crisis sygnifyeth iudgemente, aind in thys case, it is used for a sodayne chaunge in a disease.

  Il riferimento è alle Rime burlesche di Francesco Berni.   Il riferimento è al trattato Il cristiano istruito di Paolo Segneri. 10   Per esempio par voye de crise, p. 286 dell’edizione di Parigi 1890. 8 9

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L’uso metaforico di crisi si diffonde anzitutto in ambito francese. Si possono sinteticamente indicare i passaggi seguenti: –  Crisi come momento di svolta di una malattia, o momento decisivo in cui la malattia manifesta tutti i suoi sintomi prima di eventualmente regredire: da qui –  Crisi come accesso improvviso, inizialmente in senso patologico (crisi di nervi), poi anche in senso traslato o morale (crisi religiosa, crisi mistica). –  Crisi come momento di cambiamento in cui si crea un conflitto individuale (crisi di coscienza, crisi di valori) sociale (crisi di civiltà, crisi di culture) –  Momento in cui si preannuncia una svolta. –  Momento di difficoltà, sia morale (crisi matrimoniale, la tua risposta mi ha messo in crisi) sia politica (il governo è prossimo alla crisi, la crisi del regime) sia fisica (la squadra è in crisi). Il punto di irradiazione per l’assunzione di questi valori metaforici dovrebbe essere la Francia: è dalla Francia che si diffonde il sintagma crise de nerfs, e l’espressione francese si trova anche in testi inglesi e viene citata come tale dai lessici («also in various French phrases, esp. crise de (or des) nerfs» nell’OED). Gli usi metaforici cominciano ad apparire, e a farsi sempre più frequenti, a partire dal XVII secolo: negli usi più antichi l’appartenenza di crisi al linguaggio della medicina è abbastanza trasparente. P.es. in una lettera (22/9/1643) del teologo e storico scozzese Robert Baillie (1602-1662): this seems to be a new periode and crise of the most great affaire.

Anche nel linguaggio politico, dove crisi è diventato termine tecnico per indicare la fine di un governo o di un regime, si parte da una metafora medica, come in questa citazione dalla Historical Collection di John Rushworth (1612-1690): This is the Crisis of Parliaments; we shall know by this if Parliament live or die.

Ma non ci addentreremo ora negli svariati usi di crisi nel lessico moderno. Ci limiteremo a due osservazioni. Innanzitutto un cenno agli usi popolari del termine, utili da considerare perché ci permettono di osservare quali ambiti semantici sono contigui all’uso di crisi. In area francofona crise ha dato vita nei dialetti della Svizzera Romanda a un verbo e un aggettivo derivati: l’estensione semantica della parola è limitata e specifica: crise viene assunto nel suo valore di ‘accesso improvviso (di nervi)’ e ne derivano l’aggettivo criseux ‘collerico, irritabile’ (detto soprattutto di bambini) e il verbo criser ‘avere un accesso di collera’, con valore medio (‘irritarsi, andare in collera’; faire criser le maître). In area inglese la parola ha assunto nel linguaggio popolare il valore di ‘momento, attimo’ nell’espressione at the present cris. La seconda osservazione riguarda la vera e propria esplosione nell’uso della parola che si osserva negli ultimi secoli e, in misura ancora maggiore, negli ultimi

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decenni. Crisi è una parola che si adatta a qualunque situazione di cambiamento, individuale o sociale, rapido o lento, in peggio o in meglio. Nessuno esprime questo in concetto in modo più sintetico e autorevole di Goethe (nel Wilhelm Meisters Lehrjahre, VIII libro, I cap.): alle Übergänge sind Krise, und ist eine Krise nicht Krankheit?

Questa straordinaria diffusione della parola è comprovata dall’elevatissimo numero di prestiti della parola che si trovano in svariate lingue di ogni continente. Una rapida scorsa a lessici di diverse lingue ha dato il seguente risultato, che ha un valore puramente indicativo: portogh. crisis; catalano crisi; rumeno criză; basco krisia; oland. crisis; danese krise; sved. kris; finland. kriisi; russo кризис; polacco kryzys; bulgaro e macedone криза; serbo-cr. kriza; alban. krizë; lituano krizė; lettone krīze; estone kriiz; turco kriz; filippino krisis; georg. krizisi; indones. e malese krisis; e moltissime altre.

Ma la cosa più singolare è che l’uso moderno di crisi ha finito per influenzare anche gli usi greci, vale a dire la culla dove è la parola è nata e nella quale aveva mantenuto sempre il suo significato originario di ‘giudizio’. Infatti il greco moderno possiede la parola κρίση, con significati analoghi a quelli riscontrati nelle lingue dell’Europa occidentale. Scorrendo la voce κρίσις nel grande repertorio del Dimitraku (vol. 8, p. 4132) gli ultimi due punti del lemma riferiscono, come significato assunto in epoca moderna, il valore di ‘scelta decisiva’ e di ‘situazione critica’, e più precisamente l’ultimo punto aggiunge il valore (nella lingua moderna e dimotiki) di ‘periodo di situazione anomala, difficile, pericolosa’, anche in senso etico ed economico.

Se questa è la storia della parola crisi, ed è una storia tutta moderna, sorge inevitabile la domanda: come si potrebbe rendere crisi in lingue antiche?

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La risposta non è semplice. Non vi sono parole latine che corrispondano anche approssimativamente a questa parola moderna. Per il greco si potrebbe pensare a μεταβολή, per il latino a discrīmen: sono le soluzioni indicate dai principali lessici moderni, ma sono soluzioni di ripiego. La verifica e contrario lo dimostra. Per quanto discrīmen, parente alla lontana di κρίσις, in quanto corradicale della parola greca, abbia alcuni valori che ritroviamo in crisi (‘momento decisivo, situazione di rischio’) non sembra che si possa ravvisare nella parola latina quella gamma di significati traslati e di usi astratti che troviamo nella parola moderna. È vero che, come avverte Forcellini, discrimen «saepissime ponitur pro periculo», perché indica una situazione in cui breve è l’intervallo che separa dall’insuccesso o dalla morte, ma questo non coincide esattamente coi valori di crisi. Tra gli esempi raccolti, l’unico nel quale saremmo disposti a dare a discrimen il valore di ‘crisi’ è un’iscrizione tombale (CIL VI 25697) in cui L. Giunio Avito, un amico di Plinio il Giovane, ricorda della consorte Rutilia Priscilla di avere vissuto insieme con lei per nove anni sine ullo discrimine: ‘senza nessuna crisi’. Ho tentato di fare un’ulteriore verifica. Ho preso una traduzione moderna e molto scorrevole di diversi passaggi di S. Agostino, in cui ricorre più volte la parola crisi e ho cercato il testo latino corrispondente. Dò conto solamente di alcuni passaggi notevoli, indicando la traduzione italiana e il corrispondente testo del passaggio in cui compare (dovrebbe comparire!) crisi: civ. Dei 17, 13 Infatti nell’incessante crisi delle cose umane a nessun popolo fu consentita tanta sicurezza da non temere gli attacchi che amareggiano questa esistenza. in tanta mobilitate rerum humanarum de ord. 1, 2 e frattanto la vita umana è travagliata e sconvolta dal succedersi d’innumerevoli crisi cum interea humana vita innumerabilium perturbationum inconstantia versetur et fluctuet sermo in Ioh. 12 È già superfluo ricordare che Cristo è superiore agli angeli. Colui per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte, è incomparabilmente superiore ad ogni creatura. Ma Cristo si propone di mettere in crisi la superbia dell’uomo: Tu sei maestro d’Israele e ignori queste cose? Si diceretur maior Christus quam Angeli, ridendum erat: incomparabiliter enim maior omni creatura, per quem facta est omnis creatura. Sed exagitat superbiam hominis: Tu es magister in Israel, et haec ignoras? Sermo 46 (in Ezech.) Nessuno raccoglie uva dagli spini né fichi dagli sterpi –, ma non per questo tu devi recriminare contro il tuo Signore dicendogli: Signore, tu mi metti in crisi, poiché mi dici che è impossibile raccogliere uva dagli spini e poi, nei riguardi di certe persone, mi esorti a fare ciò che mi dicono, pur evitando di fare ciò che fanno

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non potest quidem uva de spinis legi; nam et ipsa Domini sententia est: Nemo colligit de spinis uvam et de tribulis ficus –, nec ideo tamen quasi calumnieris Domino tuo et dicas: “Domine noluisti me, quia fieri non potest de spinis legere uvam; et rursus dixisti mihi de quibusdam: Quae dicunt facite; quae autem faciunt facere nolite.

Come si vede, in tutti e quattro i passi citati la traduzione con “crisi” costituisce di fatto una sovrapposizione di mentalità moderna alle parole dell’autore antico. Nel quarto passaggio l’espressione tu mi metti in crisi corrisponde a noluisti me, il cui valore è molto più concreto: non mi hai voluto, non mi permetti di capire. Negli altri casi si tratta di traduzioni moderne in contesti in cui si afferma una situazione di difficoltà: Dio vuole creare fermento nella coscienza dell’uomo che si insuperbisce: la versione con mettere in crisi corrisponde al pensiero dell’autore, ma vi corrisponde con parole moderne che Agostino non possedeva. I primi due passaggi alludono a situazioni di mobilità e di perturbazione: anche qui dunque l’uso della parola crisi sembra essere una parafrasi più che una traduzione diretta del passo greco. Per restringere il campo all’ambito latino, vi sono innumerevoli passaggi in cui svariati autori fanno riferimento alle difficoltà dei tempi e della situazione: si accenna alla extremitas temporum (pro extremitatibus temporum, Tert. Ad nat. I 1), alla praesentium temporum qualitas (Tert. Apol. 39), alle angustiae temporum (Tert., de cultu fem. I 9), ma anche i pagani possono descrivere delle atrocitates temporis (Suet., Tib. 48, Cal. 6, p.es.); Ammiano ci parla (XXI 14, 1) di un presagio che permutationem temporum indicabat e poi, a più riprese, di amaritudo temporum (XXI 16), di temporum rabies (XXXI 10), di una caligine temporum da correggere (XXIX 2), e così via; Macrobio (Sat. I 14, 2) ci ricorda che C. Caesar omnem hanc inconstantiam temporum vagam adhuc et incertam in ordinem statae definitionis coegit (dovette affrontare e risolvere la crisi dei tempi?), e potremmo riferire molte altre citazioni di contesti che rievocano al lettore moderno l’idea della crisi, e tutte queste espressioni che si addicono bene a una situazione di crisi di valori e di incertezza potrebbero ben essere incluse nella nostra definizione di crisi, ma a nessuna di esse la nostra parola si attaglia in modo chiaro e risolutivo. Concludendo, gli autori dei primi secoli dell’era cristiana, pagani e cristiani, vivono in un’epoca di crisi in cui si stanno confrontando due culture e due civiltà, una prossima a morire, lasciando però gli aspetti migliori di sé, e l’altra destinata a creare una nuova cultura e civiltà. Vivono un’epoca di crisi, ma sembra che non abbiano una parola precisa che descriva e qualifichi in modo univoco e sintetico questa situazione.

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Appendice L’iscrizione di Rutilia Priscilla (CIL VI 25697)

CRISI E PROFEZIA NELLA CONCEZIONE ETRUSCA DELLA STORIA

Alfredo Valvo

L’invito ad una riflessione sulle crisi della storia, in particolare del mondo antico – talvolta conclusive solo di un periodo, talvolta invece definitive – induce a rileggere con rinnovata attenzione un documento che è stato oggetto di analisi alcuni anni or sono: la cosiddetta “Profezia di Vegoia”1. Nella scelta del tema sono tornate alla memoria, a titolo di monito ma anche di incoraggiamento, le parole severe di Arnaldo Momigliano sulle scarse attitudini storiche di coloro che ritengono certi problemi ormai risolti, in un certo senso ormai sterili per la ricerca storica2. Per questo, nonostante il documento abbia suscitato e tuttora susciti scarsa attenzione, sembra opportuno rimettere mano all’argomento, che si rivela indicativo della concezione etrusca della storia, in particolare della fine di essa attraverso la crisi finale del nomen Etruscum3. 1.  Gli studiosi di storia etrusco-romana conoscono bene il brano conservato nella raccolta dei Gromatici Veteres, edita dal Lachmann nel 1848 (vol. I, p. 350 ss.)4, tramandatoci, appunto, col titolo di “Profezia di Vegoia”. Il brano è stato da tempo riconosciuto come la traduzione latina di un testo scritto originariamente in lingua etrusca ed è il frammento più ampio di letteratura etrusca conservatoci5. Per sotto  Valvo 1988.   Momigliano 1987, pp. 15-24. 3   Sul significato politico in generale del nomen Etruscum: Perl 1990, pp. 101 ss.; Aigner Foresti 1994, pp. 327-350. 4   I due principali manoscritti che conservano il testo della “Profezia” sono il Palatinus, Vatic. Palat. lat. 1564 (ff. 120-120v; sec. IX ¼), e il Gudianus, Guelferb. Gud. lat. 105, conservato nella Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel (ff. 77-77v [pp. 153-154]; sec. IX ¾). Il brano è conservato anche negli excerpta gromatica contenuti nel Bruxellensis, ms. lat. 10615-10729, e nel Leidensis, Voss. lat. F. 53, entrambi apografi del Palatinus, come il Gudianus. 5   Rinvio per le singole questioni al mio lavoro La “Profezia di Vegoia” (vd. nota 1). 1 2

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lineare l’importanza del documento ricorderò che i testi più ampi in lingua etrusca sono epigrafici: la Tegula di Capua6, la tabula bronzea ritrovata alcuni anni fa a Cortona (Tabula Cortonensis)7 e soprattutto il liber linteus di Zagabria, documento noto anche col nome di Agramer Mumienbinde8. Si tratta di testi contenenti, con tutta probabilità, due calendari rituali e un contratto di vendita fondiaria (l’iscrizione rinvenuta a Cortona). Altri importanti documenti in etrusco sono il c.d. Cippo di Perugia, il Disco di Magliano e le lamine d’oro di Pyrgi. Il testo della “Profezia di Vegoia” è assai probabilmente di origine aruspicale, di tenore ostile all’aristocrazia agraria etrusca, e sarebbe stato finalizzato alla conservazione dell’ordine, alla tutela della proprietà fondiaria privata in tempi di rivolgimenti politici e sociali profondi, come furono l’anno del tribunato di M. Livio Druso, il 91 a.C., e gli anni immediatamente successivi della guerra sociale (91-89 a.C.). A questo periodo, secondo J. Heurgon e la maggioranza degli Studiosi9, risale il contenuto della “Profezia”. Per dare maggior peso all’intimazione di non alterare i confini delle proprietà fondiarie l’anonimo autore, o chi ha disposto i brani all’interno della raccolta di testi gromatici, attribuisce alla ninfa Vegoia, una delle entità “intermedie” fra uomini e dei del mondo etrusco10, popolato da démoni e spiriti ignoti alla religione romana, la rivelazione dell’ordine cosmico voluto da Iuppiter, nel quale rientra anche la conservazione dei limiti di proprietà (limitatio) e quindi la proibizione di rimuovere i segni di confine (terminatio), pena terribili punizioni divine. Ciò che conosciamo del diritto etrusco è sostanzialmente questo, oltre a quanto sappiamo da Servio circa l’infrazione del giuramento (di cui parla anche la P.d.V.: fallax e bilinguis), punita con l’esilio senza possibilità di ritorno11. Riporto qui il testo della P.d.V. del quale ci riguardano più da vicino le prime righe:   Cristofani, 1995. Risalente probabilmente alla I metà del V secolo a.C., il testo della tavola è il più lungo conosciuto scritto in lingua etrusca dopo quello della Mummia di Zagabria (vedi più sotto). Il testo conserva probabilmente un calendario rituale suddiviso in dieci mesi. 7   Vi è incisa un’iscrizione in lingua etrusca, la terza più lunga conosciuta dopo quella della Mummia di Zagabria e quella della Tavola Capuana. La tavola doveva fare parte di un archivio notarile privato (tabularium). Essa descrive probabilmente un atto notarile di vendita di una proprietà oppure un atto di arbitrato su una eredità contestata: Pandolfini, Maggiani 2002 e la rassegna di Wallace 2003; Torelli 2005, pp. 323-331. 8  Il Liber Linteus di Zagabria, città dove è conservato, è il testo in lingua etrusca più lungo che conosciamo (circa 1200 parole) e il solo libro in lino esistente. Utilizzato per bendare la mummia di una donna del periodo Tolemaico ritrovata in Egitto a metà del XIX secolo, fu riportato dall’Egitto come cimelio. Il testo reca un calendario rituale che fu riconosciuto come tale solo alla fine del secolo XIX. 9   Heurgon 1959; Valvo 1988, pp. 19-53, 103 ss. 10  Su Vegoia (Lasa Vecu), Vegoë, Begoës: Wissowa 1937; Weinstock 1955, cc. 577-581. 11   Serv. ad Aen. I 2: eum qui genus a periuris duceret, fato extorrem et profugum esse debere: è l’insegnamento di Tages conservato nel libro rituale qui inscribitur terrae iuris Etruriae. Cfr. Valvo 1988, p. 28. 6

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Idem [ex libris Magonis et Vegoiae auctorum] Vegoiae Arrunti Veltymno. Scias mare ex aethera remotum. Cum autem Iuppiter terram Aetruriae sibi vindicavit, constituit iussitque metiri campos signarique agros. Sciens hominum avaritiam vel terrenum cupidinem, terminis omnia scita esse voluit. Quos quandoque quis ob avaritiam prope novissimi octavi saeculi data sibi homines malo dolo violabunt contingentque atque movebunt. Sed qui contigerit moveritque, possessionem promovendo suam, alterius minuendo, ob hoc scelus damnabitur a diis. Si servi faciant, dominio mutabuntur in deterius. Sed si conscientia dominica fiet, caelerius domus extirpabitur, gensque eius omnis interiet. Motores autem pessimis morbis et vulneribus efficientur membrisque suis debilitabuntur. Tum etiam terra a tempestatibus vel turbinibus plerumque labe movebitur. Fructus saepe ledentur decutienturque imbribus atque grandine, caniculis interient, robigine occidentur. Multae dissensiones in populo. Fieri haec scitote, cum talia scelera committuntur. Propterea neque fallax neque bilinguis sis. Disciplinam pone in corde tuo.

Accenno solo brevemente alla correzione testuale12 suggerita dal Thulin e dal Latte, che hanno proposto di correggere aethera in e terra: perciò scias mare e terra remotum, correzione rifiutata dal Piganiol, che coglie nella lezione tràdita ex aethera un puntuale richiamo all’analogia tra il fondamento della limitatio, la definizione dei confini e l’ordine del mondo. Il testo dell’esordio – le prime cinque parole della P.d.V. – riflette probabilmente la conoscenza diffusa di un motivo cosmogonico. Secondo il Piganiol esso non è da collegare necessariamente al racconto del secondo giorno della creazione del libro della Genesi ma è tuttavia possibile che costituisca l’affermazione dell’opera di un demiurgo che abbia posto fine al caos iniziale, come avviene nella tradizione di origine semitica sulle origini del mondo. Ciò anche per il richiamo all’opera ordinatrice di Iuppiter ricordata subito dopo. In proposito il lessico Suda, sotto la voce TurjrJhniva13, riferisce una tradizione di origine etrusca relativa alla creazione del mondo nella quale si ricorda che l’Universo è opera di un demiurgo che l’aveva portata a compimento nel corso di sei periodi di mille anni ciascuno (chiliadi) e aveva lasciato altri sei periodi di uguale lunghezza alle generazioni umane fino al compimento definitivo: mevcri th sunteleiva. Complessivamente si raggiungeva così il numero di dodici chiliadi, sottoposte alle dodici costellazioni. Sebbene il testo della Suda presenti l’opera del demiurgo più come una integrale creazione (poihsai) e non parli esplicitamente di separazione degli elementi, il Latte considera la tradizione riferita dalla Suda un motivo della tarda religiosità etrusca (per la quale l’idea di creazione non doveva essere del tutto estranea alla cosmogonia) che può confermare la correzione da lui suggerita al testo del Lachmann, men  Per quanto segue rinvio al mio lavoro: Valvo 1988, pp. 1-18.   IJstorivan de; par jaujtoi e[mpeiro ajnh;r sunegravyato: e[fh ga;r to;n dhmiourgo;n twn pavntwn qeo;n ib jciliavda ejniautwn toi pasin aujtou filotimhvsasqai ktivsmasi, kai; tauvta diaqeinai toi ib j legomevnoi oi[koi: ktl.

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tre il Piganiol, che come si è detto rifiuta ogni correzione al testo, avvicina anch’egli il testo della “Profezia” al racconto della Suda, sebbene qui non si parli esplicitamente di saecula14, e ritiene la frase iniziale della “Profezia” una prova della presenza antica nel patrimonio religioso etrusco di una simile concezione, ma riconosce nelle dodici chiliadi del testo della Suda lo schema caldeo della dodecaeterìs, il cosiddetto “anno caldeo”, costituito di dodici “grandi anni”, su cui è da vedere quanto scrive Censorino, De die natali 18, 6-7: Proxima [Pythia] est hanc magnitudinem, quae vocatur dodecaeteris ex annis vertentibus duodecim. Huic anno Chaldaico nomen est… Sulla questione si è espressa anche M. Sordi che considera il racconto della Suda un «incontro fra teorie etrusche e idee giudaiche e cristiane» ma sicuramente di origine etrusca: infatti lo schema delle sei chiliadi risponde pienamente alla concezione etrusca della storia, secondo la quale ad ogni popolo e ad ogni individuo era assegnato un tempo definito destinato a concludersi con una “crisi” irreversibile15. In conclusione, il brano della Suda sarebbe da ricondurre, se pur lontanamente, al genere delle profezie etrusche, nelle quali con frequenza erano annunziate catastrofi di ogni genere, e può essere attribuito all’eclettismo dell’aruspicina di tarda età imperiale, che assimilava le idee cristiane più vicine alla disciplina Etrusca. 2.  Ritorniamo adesso al testo della “Profezia” e ai caratteristici aspetti di crisi che essa contiene. Ciò che segue immediatamente all’esordio, da cum autem Iuppiter… a signarique agros, svolge nella “rivelazione” di Vegoia una duplice funzione (si passi questo termine, “rivelazione”, considerando che il fondamento della Etrusca disciplina venne rivelato da Tages, saggio come un vecchio, all’aruspice Tarconte, mentre questi arava; caso unico fra le religioni occidentali, insieme al Cristianesimo, di dottrina fondata su una verità rivelata e come tale non soggetta alle varianti “umane”)16. La prima funzione, naturale conseguenza della rivendicazione da parte di Iuppiter della Terra Etruria (Iuppiter terram Aetruriae sibi vindicavit) dopo la separazione degli   Sull’idea etrusca di saeculum vedi la nota seguente.   Sordi 1972, p. 792 nt. 37. La definizione di saeculum “etrusco” è in Censorino, De die natali 17, 5-6: Sed licet veritas in obscuro lateat, tamen in unaquaque civitate quae sint naturalia saecula, rituales Etruscorum libri videntur docere, in quis scriptum esse fertur initia sic poni saeculorum. Quo die urbes atque civitates constituerentur, de his qui eo die nati essent eum qui diutissime vixisset die mortis suae primi saeculi modulum finire, eoque die qui essent reliqui in civitate, de his rursum eius mortem, qui longissimam aetatem egisset, finem esse saeculi secundi. Sic deinceps tempus reliquorum terminari. Sed ea quod ignorarent homines, portenta mitti divinitus, quibus admonerentur unumquodque saeculum esse finitum. Haec portenta Etrusci pro haruspicii disciplinaeque suae peritia diligenter observata in libros retulerunt (sic). Quare in Tuscis historiis, quae octavo eorum saeculo scriptae sunt, ut Varro testatur, et quot numero saecula ei genti data sint et transactorum singula quanta fuerint quibusve ostentis eorum exitus designati sint continetur. Itaque scriptum est quattuor prima saecula annorum fuisse centenum, quintum centum viginti trium, sextum undeviginti et centum, septimum totidem, octavum tum demum agi, nonum et decimum superesse, quibus transactis finem fore nominis Etrusci. 16  Cic. de div. II 23, 50; cfr. v. Tages, in Kl. Pauly V 495.

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elementi17, è una implicita rivendicazione delle origini divine del popolo etrusco, in un momento drammatico quale erano i prodromi della guerra sociale (se si accetta la datazione del documento a quegli anni); in secondo luogo, viene attribuito valore divino a limitatio (metiri campos) e terminatio (signari agros) perché volute da Iuppiter e perciò poste sotto la sua protezione (si può ricordare l’appellativo di Terminus sotto il quale si venerava l’immagine di Iuppiter nelle proprietà fondiarie e il sacello destinato al culto di Terminus al quale era riservato uno spazio a cielo aperto nel tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio)18. Che la terminatio e quindi l’istituzione o almeno la tutela del diritto di proprietà siano, nel mito, prerogativa di Iuppiter è confermato, in ambito romano, da numerosi autori latini: Tibullo, Ovidio, Seneca e soprattutto Virgilio19, i quali concordano nel ricordare che l’età di Saturno – presentata come età dell’oro, quindi primordiale nella successione delle età “metalliche” che simboleggiano il percorso della storia umana ed anche il suo deterioramento progressivo (Hes. Op. 106-201) – ignorava ancora i segni di confine, e imputano invece all’età di Iuppiter di averli introdotti nell’uso, annoverandoli fra i vizi legati ad avaritia e terrenus cupido. Ovidio, in particolare (Her. IV 131 sgg.), indica esplicitamente in Iuppiter il responsabile della fine della vetus pietas: vetus pietas, aevo moritura futuro, rustica Saturno regna tenente fuit. / Iuppiter esse pium statuit, quodcumque iuvaret, / et fas omne facit fratre marita soror. Il richiamo ad avaritia e terrenus cupido della “Profezia”, elementi centrali della crisi, trova inatteso riscontro in alcuni passi del libro II delle Divinae Institutiones di Lattanzio (Div. Inst. VII 15, 7 ss.; 16, 1, 5 s., 11; 18, 2, cfr. Epit. 66 [71], 1 s.), in uno dei quali si menzionano esplicitamente come fonte gli Oracoli di Hystaspes20, imperniati sull’iniquitas saeculi extremi, in un contesto di vizio e di peccato assai prossimo a quello della “Profezia”, ed anche per questo avvicinabile all’avaritia prope novissimi octavi saeculi della P.d.V.: ad esempio, Div. Inst. 15, 7 s.: humanarum rerum statum commutari necesse est et in deterius nequitia invalescente prolābi; iniquitas et malitia usque ad summum gradum crevit; avaritia et cupiditas et libido crebrescet; confundetur omne ius et leges interibunt; audacia et vis omnia possidebunt. Si tratta probabilmente di topoi legati all’escatologia che fa da sfondo ad ogni fine ma che nella P.d.V. non ha un ruolo marginale o topico bensì funzionale alla dottrina “secolare” etrusca, come sappiamo ancora da Censorino (De die natali, 17, 5-6, citato), la fonte più ampia, che dipende, tramite Varrone, dalle Tuscae Historiae, che assegnavano al nomen Etruscum la durata di 10 saecula. Di dieci saecula parlano anche un passo della Vita di Silla di   Su Terra Etruria e Terra Italia: Sordi 2003, pp. 127-134; Urso 1994, pp. 223-236; Valvo 1997, cc. 9-20 = 2003, pp. 273-284. 18   Piccaluga 1974. 19  Sull’argomento: Valvo, 1995, pp. 1185-1201. Tib. Carm I 3; 35 s.; 43 s.; 49; Ovid. Amor. III 8; 35 s.; 42; Sen. Phaedr. 525 ss.; Verg. Georg. I 125 ss. 20   Valvo 1988, pp. 58 ss.; 86 ss. 17

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Plutarco21, contemporaneo alla “Profezia”, e una notizia proveniente dal De vita sua di Augusto conservata da Servio (Danielino) ad Verg. Buc. IX 46 (= H.R.R. II p. 56): Vulcatius aruspex in contione cometen esse [i.e. sidus Caesaris], qui significaret exitum noni saeculi et ingressum decimi. Sed quod invitis diis secreta rerum pronuntiaret, statim se esse moriturum, et nondum finita oratione in ipsa contione concidit22. 3.  Si è detto dell’insistenza dei poeti, soprattutto augustei, sull’istituzione dei segni di confine come la conseguenza che caratterizza di più la fine dell’età di Saturno – età dell’oro, “mitica” età felice che Augusto prometteva di rinnovare; essa rappresenta un tema da rileggere alla luce del disegno augusteo di costruire un impero universale, nel quale non ci sarebbero state più divisioni né barriere ideologiche e neppure segni di confine a indicarle. Il contrasto fra la “Profezia di Vegoia”, nella quale la terminatio è rivestita della più alta positività, e i passi dei poeti augustei, nei quali l’età di Saturno è simbolicamente identificata dall’assenza dei segni di confine, che perciò rivestono un carattere di esemplare negatività, è legato alla successione dei regni divini (Saturno e Iuppiter), entrata molto probabilmente nella cultura romana dopo che il poeta Ennio ebbe tradotto l’opera di Evemero, Sacra scrittura o Storia sacra, nella quale si raccontava che in un tempo remoto gli dei avevano abitato sulla terra, come già narravano Ecateo ed Erodoto. La successione dei regni divini giunse al suo compimento con Virgilio, almeno per quanto riguarda le vicende del regno di Saturno. Tuttavia, essa presenta analogie ed è strettamente collegata con la successione degli imperi o delle età metalliche (il regno di Saturno è collegato con l’età dell’oro); quest’ultima, delineata già da Esiodo, rappresenta la forma più antica di storia universale ed era ampiamente conosciuta in tutto il Mediterraneo antico. 4.  Sia nella “Profezia” che negli Autori latini la terminatio, sia che assuma valore positivo (nella “Profezia”, e quindi per gli Etruschi) che valore negativo (per gli Autori latini), è connessa con avaritia e terrenus cupido; anzi, nella “Profezia” la terminatio è strettamente collegata con l’avvento del novissimum saeculum, l’ottavo e ultimo (se novissimum è da intendere come ‘ultimo’), che, solo nella “Profezia”, sembra essere quello conclusivo del nomen Etruscum. L’avvento del novissimum saeculum avrebbe segnato la fine della storia del popolo etrusco. Questo momento è probabilmente identificabile con la carneficina dei primores etruschi che concluse la guerra di Perugia, nel 40, quando si sarebbe compiuto il decimo ed ultimo secolo, il più breve di tutti, di soli quattro anni, che era incominciato nel 44, come sappiamo dal testo di Servio citato poc’anzi: Vulcatius aruspex… in ipsa contione concidit. Da quanto è stato detto fin qui si riconosce, anche se sommariamente, la concezione etrusca della storia che emerge dalla “Profezia di Vegoia”, completata soprat Plut. Sulla 7, 6-9. Valvo 1988, pp. 137 ss.   Ibid.

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tutto dalle notizie di Censorino, De die natali, e dalla Suda. La storia – intendendo qui per “storia” il tempo di vita concesso al genere umano – si può definire con certezza “lineare” e “a termine”. Gli Etruschi non sembrano ritenere possibile una palingenesi, e quindi un rinnovamento o una ripresa della storia, come invece si riconosce nella concezione romana. Né agli Etruschi è familiare, per quanto sappiamo, l’applicazione allo sviluppo della storia della espiazione che, per i Romani, rende possibile un nuovo patto fra uomini e dei (la pax deorum) e quindi la speranza di un rinnovamento. Tale possibilità è subordinata all’esercizio della pietas, tema dominante nella poesia civile di Orazio e di Virgilio, che anticipa e annunzia la nuova era, che sarà una nuova età dell’oro. Secondo la concezione etrusca, la crisi estrema, la fine della storia umana, avviene improrogabilmente allorché si è esaurito il periodo di tempo concesso dagli dei, anche se da Censorino pare che ciascuno intenda a modo suo la durata dei saecula e che molto sia lasciato all’interpretazione degli indovini. 5.  A questo punto è lecito domandarsi se la “Profezia” non restituisca traccia di una dottrina secolare “ibrida”: la successione dei saecula etruschi forse si intersecava con la successione dei regni divini e delle età metalliche, ampiamente conosciute, in ambito etrusco-romano, da uomini di punta della cultura romana del II secolo a.C., peraltro poco conosciuti, come Aemilius Sura, che conosciamo solo di nome attraverso Velleio Patercolo (I 6, 6), e del I secolo a.C., come Nigidio Figulo, contemporaneo di Cicerone ed esperto di aruspicina. Dalla “Profezia” sappiamo inoltre che Iuppiter volle per sé l’Etruria e questo motivo è quasi certamente legato allo sviluppo di un mito delle origini. 6.  Al quadro abbastanza complesso che si è cercato di delineare è forse da aggiungere una nuova testimonianza: un frammento di Servio a commento di Aen. IX 561, conservato in forma leggermente più ampia presso i Mitografi latini (Corpus Christianorum, serie latina 91), dove, fra l’altro, si afferma: Iuppiter et Saturnus reges fuerunt, sed dum Iuppiter cum Saturno patre haberet de agris contentionem, ortum bellum est. Il brano, inserito in un contesto mitologico estraneo all’ambito etrusco (la guerra contro i Giganti), è destinato a spiegare l’origine dell’aquila come insegna militare. Da Lattanzio (Div. Inst. I 11, 64 s.), che conserva un passo di Ennio, veniamo a conoscenza che l’episodio sarebbe accaduto sull’isola di Naxos, mentre Giove si apprestava a combattere i Titani. Il brevissimo passo di Ennio in Lattanzio costituiva un’appendice della lotta fra Giove e Saturno conclusasi con la fuga di quest’ultimo in Italia. Nell’evoluzione del mito è possibile che proprio Ennio ambientasse in Italia la contentio de agris, all’origine della vicenda di Saturno in Italia che, come si è visto, risalirebbe alla Storia sacra di Evemero. L’elemento che pare collegare questo episodio alla “Profezia di Vegoia” è dato dalla contentio de agris, sorta mentre Saturno e Giove regnavano insieme. Essa non ha riscontro nella mitologia tradizionale e ugualmente unica è l’attribuzione a Iup-

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piter dell’istituzione dei segni di confine che troviamo nella “Profezia”. Può trattarsi in entrambi i casi di un’ambientazione etrusca, “agraria”, trasferita nel mito che, per gli Etruschi come per i Greci e i Romani, era una specie di “deposito” di contenuti religiosi ai quali si faceva naturale riferimento. Il passo di Servio presenta una spiegazione inattesa dell’inizio della storia ma sempre coerente con la successione di età legate al regno degli dei sulla terra. La contentio de agris, cioè la lotta per il possesso della terra Etruria, avrebbe caratterizzato l’inizio della storia del popolo etrusco e contemporaneamente sarebbe stata all’origine del diritto legato ad essa per difenderne l’integrità. Sembra anche per questo, in vista di una conclusione del nostro discorso, che la “Profezia” sia ugualmente inserita nella successione dei regni divini (e delle età metalliche) e nella successione dei saecula. C’è da domandarsi, tra le altre questioni che rimangono aperte, in cosa consistesse principalmente la differenza fra Etruschi e Romani nella concezione della storia, ammesso che si possa parlare di una concezione “omogenea” della storia. L’espiazione delle guerre civili consentì a Roma di rinnovarsi evitando che il declino e la crisi si trasformassero in una decadenza irreversibile. A permettere questa ripresa, suggerisce Orazio, sarà la pietas, non frutto di un sentimento ma espressione della coscienza che la grandezza di Roma dipende dalla benevolenza degli dei, e Cicerone soggiunge: eorum numine hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum, pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus (De haruspicum responsis, 19). Diversamente dal destino del nomen Etruscum i Romani stabilirono con gli dei un patto fondato sulla pietas, che sarà perciò stabile e definitivo come dirà Virgilio (Verg. Aen. I 279): imperium sine fine dedi.

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Leonardo Lugaresi

Qualche riflessione su ira divina e crisi dell’uomo in ambito patristico

Il significato fondamentale di krisis, in ambito neotestamentario, è quello di “giudizio”. Più precisamente, krisis è il giudizio che separa, che distingue il bene dal male1. È evidente che questo punto di vista apre una prospettiva sul concetto di crisi molto diversa, per non dire opposta, rispetto a quella in cui prevalentemente si muovono gli uomini di oggi: per quanto vario, ubiquo e sfuggente sia l’uso che si fa di questo termine nel lessico della contemporaneità, ci pare indubbio che la sua semantica si agganci ormai soprattutto all’idea di “rottura di un equilibrio”, “destabilizzazione” o “risoluzione traumatica di una situazione di instabilità”, “destrutturazione di un sistema” eccetera2, e che la sua connotazione sia avvertita nella maggioranza dei casi come decisamente negativa, fino a sovrapporsi, almeno in parte, all’idea di “declino”, “crollo”, “collasso”3. Non solo, ma proprio in quanto designa il precipitare di una situazione precaria, che richiede perciò decisioni di “emergenza”, la crisi implica solitamente una “contrazione temporale” che di per se stessa sembra escludere la possibilità del giudizio, o quanto meno di un giudizio ben meditato: nell’emergen Cfr. Büchsel 1969, in particolare coll. 1060-1077; Rissi 1998, coll. 103-111; Morani in questo volume, pp. 13-22. 2   Per una mappatura della semantica di crisi nelle sue occorrenze moderne, si veda Koselleck 2012, pp. 617-650 che si arresta però sulla soglia della babele odierna, limitandosi a osservare, al termine della sua analisi, che «da qualche tempo si registra un’inflazione dell’uso del termine nei media» e che ormai l’«ambivalenza caratterizza nel complesso l’uso del termine. […] La vecchia capacità del concetto di porre alternative insuperabili, nette e non mediabili, si è volatilizzata nell’incertezza di alternative arbitrarie» (p. 92). 3   Un solo esempio: nella pagina web dedicata a Krise sul sito dell’«Interdisziplinäre Begriffsgeschichte Zentrum für Literatur-und Kulturforschung» di Berlino (http://www.begriffsgeschichte.de/doku. php?id=krise) il solo rimando interno è al lemma “Katastrophe”. 1

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za bisogna “fare” qualcosa “ora”, bisogna decidere subito, anche se non ci sono le condizioni per poter distinguere, ponderare, giudicare. Siamo così passati, se ci è concessa la battuta, dalla crisi come giudizio alla crisi senza giudizio. Mi sembra che una delle piste che il lavoro di ricerca avviato con il seminario odierno dovrebbe seguire sia appunto quella che ci porta ad indagare come questo passaggio sia avvenuto e quale utilità possa avere, per il dibattito culturale contemporaneo, il contributo di una riflessione sul concetto cristiano di “crisi come giudizio”. Il mio intervento cercherà di andare in questa direzione, considerando l’argomento da un punto di vista apparentemente eccentrico, quello del tema patristico dell’“ira di Dio”, di cui però confido che alla fine risulterà chiara la pertinenza rispetto al focus della nostra giornata di studi. 1.  La bontà del giudizio divino come fondamento del mondo La connotazione originaria dell’idea di giudizio, nel cristianesimo, è assolutamente positiva. Lo è perché il giudizio per eccellenza, quello divino, si rivela al credente come giudizio di salvezza: questo è parte integrante del nucleo essenziale della “buona notizia” cristiana. Ma forse si può anche dire che la positività dell’idea di giudizio si fonda su qualcosa che, in un certo senso, viene prima del suo contenuto specifico, e cioè sul suo essere un giudizio “già dato” una volta per tutte: noi non siamo angosciosamente sospesi all’incertezza di una sentenza che deve ancora essere emessa, perché «il tempo è stato compiuto» (Mc 1,15) e «questa è la krisis, che la luce è venuta nel mondo» (Gv 3,19)4. Dio si è espresso, in modo irrevocabile, mandando suo Figlio non per condannare ma per salvare il mondo e il fatto che questa krisis di salvezza sia al tempo stesso la condanna di coloro che rifiutano Cristo non toglie nulla al suo carattere di inequivocabile certezza. Ma questa confortante mancanza di ambiguità, questa sorta di basic trust (se ci è permesso mutuare un termine della psicologia di Erikson) con cui l’uomo può rapportarsi alla realtà che lo circonda, ha il suo primordiale fondamento in quel giudizio iniziale di Dio sul mondo che accompagna l’opera stessa della creazione: il Dio della Bibbia, infatti, non si limita a creare l’universo ma, mentre crea, giudica ciò che sta creando e lo approva esplicitamente riconoscendone la bontà-bellezza5, come per ben otto volte ripete il testo di Genesi 1,1-31.   Se da una parte l’espressione di Marco, che è non a caso la prima parola pronunciata da Gesù nel suo vangelo, evidenzia da subito la feconda tensione tra l’affermazione che il kairos – cioè il tempo decisivo, il tempo del giudizio – è già compiuto e la fiducia che «il regno è vicino», nell’orizzonte di quella “escatologia in via di realizzazione” ( Jeremias) che sembra caratterizzare la predicazione di Gesù, dall’altra l’idea che il mondo sia “già” giudicato è un concetto chiave nel quarto vangelo, «per molti aspetti […] il miglior esempio nel NT di escatologia realizzata» (Brown 1999, p. cxlii). Sul tema della krisis che è già qui, si veda, oltre a Gv 3,17-19, anche 12,31.46-48; 16,11. 5   Tov è il termine ebraico, che la LXX traduce con καλός. 4

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Dio crea giudicando, ed è appunto la presenza di questo giudizio divino a contraddistinguere il Dio creatore della Bibbia, rendendolo inconfondibile con qualunque altra “causa prima” la speculazione filosofica antica possa avere immaginato. I Padri della chiesa hanno chiaramente avvertito questo tratto distintivo dell’agire divino. Basilio di Cesarea, ad esempio, nella prima Omelia sull’Esamerone osserva che «molti […] riconoscono che Dio è la causa del mondo, ma una causa involontaria, come il corpo lo è dell’ombra e il corpo lucente del chiarore», invece «Egli non fu per questo semplice causa del mondo, ma nella sua bontà creò ciò che è utile, nella sua sapienza ciò che è bellissimo, nella sua potenza ciò che è grandissimo»6. A partire da questa coscienza, il nesso tra “bontà” e “giustizia” come chiave dell’agire divino nella creazione appare essenziale. Esso viene lucidamente messo a fuoco da Tertulliano in una pagina del suo trattato Adversus Marcionem – un’opera su cui ritorneremo più avanti, quando toccheremo direttamente il tema dell’ira divina – con queste parole: Fin dall’inizio il creatore fu tanto buono quanto giusto. Le due cose sono procedute di pari passo. La sua bontà ha creato il mondo, la sua giustizia lo ha governato; essa già allora pensò che si dovesse creare il mondo per mezzo di buone cose, perché lo giudicò mediante un piano di bontà. È opera di giustizia il fatto che sia stata pronunciata una separazione tra la luce e le tenebre, tra il giorno e la notte, tra il cielo e la terra, tra l’acqua superiore e quella inferiore, tra l’insieme del mare e la mole della terraferma, tra le luci maggiori e le luci minori, diurne e notturne, tra il maschio e la femmina, tra l’albero della conoscenza e della vita, tra il mondo e il paradiso, tra gli animali acquatici e quelli terrestri. Tutte queste cose, come la bontà le concepì, così la giustizia le distinse. Tutto ciò è stato disposto e ordinato da un giudizio. Ogni condizione, situazione degli elementi, ogni effetto, movimento, stato, origine, fine dei singoli elementi sono dovuti al giudizio del creatore, perché tu non creda che lo si debba considerare giudice solo da quando è cominciato il male e tu possa così accusare la giustizia a causa del male7.   Basilio di Cesarea, Hom in Hexaem. 1,7,4-5, (traduzione di Naldini 1990, p. 25). A misurare la distanza che tante volte separa noi moderni da questa idea forte di “creazione giudicata” valga la folgorante espressione di cui va molto fiero Ulrich, il protagonista de L’uomo senza qualità di Robert Musil: «Dio fa il mondo e intanto pensa che potrebbe benissimo farlo diverso». Per un primo ragguaglio sull’importanza di questo tema nella teologia contemporanea si può ricorrere al recente saggio di Kehl 2009), che peraltro nella sua parte storica considera, per l’età patristica, solo Ireneo (pp. 171-191) e Agostino (pp. 192-221). Per Kehl, «nella teologia odierna […] la bontà del mondo viene ricondotta soprattutto al sì che essa (nella sua totalità e particolarità), anche nelle sue strade sbagliate che portano all’autodistruzione, riceve in maniera incondizionata e permanente da Dio. Questo sì del Creatore si riflette in maniera irrevocabile sul volto della creazione» (p. 30). 7  Tertulliano, Adv. Marc. II, 12, 1-3 (SCh 368, pp. 84-86): A primordio denique Creator tam bonus quam iustus. Pariter utrumque processit. Bonitas eius operata est mundum, iustitia modulata est, quae etiam tum mundum iudicavit ex bonis faciendum, quia cum bonitatis consilio iudicavit. Iustitiae opus est, quod inter lucem et tenebras separatio pronuntiata est, inter diem et noctem, inter caelum et terram, inter aquam superiorem et inferiorem, inter maris coetum et aridae molem, inter luminaria maiora 6

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Dalle parole di Tertulliano si capisce bene come il giudizio divino sulla bontà-bellezza del mondo creato non sia concepito dai Padri appena come un apprezzamento estetico, come la mera espressione di un piacere che Dio prova osservando la sua opera, ma rappresenti una vera e propria approvazione, una sorta di “dichiarazione di conformità” di quell’opera alle intenzioni dell’artefice. Ciò è molto chiaramente espresso in questi due passi tratti sempre dall’Esamerone basiliano: bello è ciò che è compiuto secondo le regole dell’arte e mira all’utilità dello scopo. Colui che aveva stabilito con chiarezza il fine delle cose create, con attenzione ai singoli postulati dell’opera sua, li approvò (ἀπεδέξατο) in quanto tutti e singoli concorrevano all’adempimento del fine. […] qui Dio ci viene descritto proprio come un abile artefice che tesse l’elogio delle sue opere in ogni loro parte8. E Dio vide che ciò era bello. La Scrittura non dichiara con questo che del mare si offriva a Dio un aspetto piacevole. Il Creatore non guarda con occhi umani le bellezze della creazione, ma contempla con la sua ineffabile sapienza gli esseri creati. Certo, è una veduta (θέαμα) piacevole un mare biancheggiante, su cui regna profonda quiete; è piacevole anche quando, increspato in superficie da soavi brezze, presenta allo sguardo colori di porpora e d’azzurro: quando non batte con violenza la riva vicina, ma la stringe, per così dire, in pacifici amplessi. Ma non bisogna credere che secondo la Scrittura il mare sia apparso anche agli occhi di Dio così bello e piacevole: qui il bello si giudica con la ragione che ha guidato l’opera creatrice (τὸ καλὸν ἐκεῖ τῷ λόγῳ τῆς δημιουργίας κρίνεται)9. et minora, diurna atque nocturna, inter marem et feminam, inter arborem agnitionis – mortis – et vitae, inter orbem et paradisum, inter aquigena et terrigena animalia. Omnia ut bonitas concepit, ita iustitia distinxit. Totum hoc iudicato dispositum et ordinatum est. Omnis situs habitus effectus motus status ortus occasus singulorum elementorum iudicia sunt Creatoris: ne putes eum exinde iudicem definiendum, quo malum coepit, atque ita iustitiam de causa mali offusces. La traduzione impiegata è quella di Moreschini 1974, pp. 373-374. Braun 1990, nella nota 3 a p. 85 dell’edizione “Sources Chrétiennes”, documenta l’origine stoica dell’idea che la categoria di giustizia si applichi soprattutto alla divisione in parti, citando fra l’altro un detto di Zenone che si trova in Plutarco, de virt. mor. 2, 441 A, secondo cui «la prudenza si chiama giustizia quando si tratta di cose da dividere», ma sottolinea la particolarità – a suo avviso «non sans sophisme» – dell’applicazione cosmologica fattane da Tertulliano. 8   Basilio di Cesarea, Hom in Hexaem. 3,10,1-3 (trad. Naldini 1990, p. 103). 9   Ivi, 4,6,1-3 (p. 125). Sulla “bellezza-come-bontà” del mare vedi anche 4,7,1. Notiamo, en passant, che è proprio questo carattere iniziale del giudizio creatore, “previo” rispetto allo svolgersi della storia del mondo con tutti i suoi accidenti, che conferisce alla realtà mondana in ogni sua parte quella stabilità, quella consistenza ontologica che poi, definitivamente confermata dalla diretta implicazione di Dio col mondo attraverso l’incarnazione del Figlio, fornirà la sola base epistemologica in grado, secoli dopo, di fondare – come aveva ben visto Kojève 1964, pp. 295-306 – la possibilità di uno studio veramente “scientifico” del mondo terreno, che appariva invece al pensiero greco così cangiante ed effimero da non meritare lo stesso tipo di attenzione. È questa idea che – come osserva Young 1991, pp. 139-151, qui p. 140 – «broke the hold of ‘necessity’ or ‘chance’ which crippled other cultures […] ultimately permitting the rise of modern science and the exploitation of modern technology».

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L’indagine e la riflessione su questa bella e ordinata stabilità del mondo, fondata sull’atto creativo e critico di Dio10, ispirano un importante filone della letteratura patristica, quello esameronale11, che, nel suo doppio registro esegetico e apologetico, non per nulla assume spesso e volentieri i tratti non solo della celebrazione retorica dell’opera divina ma anche quelli, che ci piace definire quasi scientifici, di una considerazione seria ed attenta della struttura materiale del mondo12, rifuggendo, più di quanto non accada in altri contesti, dalle tendenze allegorizzanti di un’interpretazione del cosmo che trascende troppo facilmente la materia per vedere nelle cose del mondo solo i simboli di un alfabeto spirituale13. 10   Parliamo di atto critico nel senso dell’implicazione del giudizio, benché nel racconto di Genesi 1 non si tratti di krisis nel senso proprio di separazione tra bene e male, perché tutto ciò che viene evocato all’essere dall’approvazione divina è per definizione bello-buono. Tuttavia si rifletta sul fatto che l’idea di “separazione”, nel senso della differenziazione, è fondamentale nel racconto della creazione e, come abbiamo visto sopra, già Tertulliano, con grande acutezza, aveva colto proprio in questo aspetto il nesso tra giustizia e creazione. Sulla creazione come separazione, il riferimento principale rimane quello a Beauchamp 20052, il quale osserva come nella concezione biblica «Dieu est transcendant, ce monde n’est pas une emanation de Dieu, mais il est traversé par la parole de Dieu et par sa Loi, inscrite en chaque creature et la séparant. Il ne suffit pas de dire que Dieu est un et séparé: il est un et séparant. La notion de totalité n’est pas absente de Gn 1, mais elle est orientée négativement comme finitude: “et furent terminés le ciel et la terre et toute leur armée”, en même temps que positivement par l’appréciation emphatique (“très bon”) donnée a toute l’oeuvre. […] La creation est bien une totalité, puisque Dieu vit “toute l’oeuvre qu’il avait faite”, mais c’est celle d’une multiplicité agencée, nullement encore celle d’une multiplicité convergente. Son principe d’unité n’est pas en elle-même, mais dans le plan qui est la raison transcendante de sa construction. Ainsi, cette créature ne voit pas sa propre bonté: c’est le créateur qui la voit» (pp. 339-340 e 372). 11   Per un orientamento generale sul tema, si vedano la rapida ma completa rassegna di fonti di Hamman, 1968, pp. 1-23 e 97-122, e la voce enciclopedica di van Winden, Hexaemeron, coll. 1250-1269. Tra la bibliografia recente, segnaliamo in particolare le importanti monografie di Köckert 2009, pp. 223-544 (su Origene, Basilio e Gregorio di Nissa), e di Bouteneff 2008, (anch’essa solo sulla patristica greca, con l’eccezione di Tertulliano), e la raccolta di saggi curata da Vannier 2011, che invece riguarda anche autori come Ambrogio, Agostino, Efrem Siro e si apre a interessanti confronti con il pensiero contemporaneo (H. Arendt). 12   Una panoramica su molti aspetti di questa “attenzione naturalistica” alla realtà del mondo creato nella letteratura patristica, si ricava dai contributi raccolti in La cultura scientifico-naturalistica nei Padri della Chiesa (I-V sec.), XXXV Incontro di studiosi dell’antichità cristiana 4-6 maggio 2006 (“Studia Ephemeridis Augustinianum” 101), Roma 2007. 13   Cfr. Basilio, Hom in Hexaem. 9, 1,2-3: «Conosco le leggi dell’allegoria, anche se non sono stato io a inventarle, ma le ho trovate negli scritti laboriosi di altri. Coloro che non accettano i significati comuni della Scrittura, dicono che l’acqua non è acqua ma qualche altra sostanza, e interpretano le parole piante e pesce nel senso che piace a loro […]. Ma io, quando sento parlare di erba, penso all’erba, e anche la pianta, il pesce, l’animale selvatico e quello domestico, prendo tutto così come viene detto» (Naldini 1990, pp. 271-273). Nettamente percepibile nel corpus basiliano delle Omelie sull’Esamerone, questa tendenza lo è anche nella di poco successiva Apologia sull’Esamerone di Gregorio di Nissa, su cui vedi ora Costache 2012, pp. 53-81; Id. 2013, pp. 1-28. DeMarco 2013, pp. 332-352, osserva peraltro che nell’opera del Nisseno la tendenza all’allegoria è più marcata rispetto al modello basiliano. Il precipuo interesse di Basilio per gli aspetti materiali della creazione, in confronto all’approccio più legato a

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È il caso di sottolineare che questa sorta di “certificato di garanzia” divino non vale solo per alcune parti della realtà, ma legittima e “copre” tutto, appunto perché ogni cosa esiste in quanto è creata (e perciò approvata) da Dio. Qualcuno potrebbe anzi obiettare che il giudizio creatore non è veramente “critico”, nel senso proprio di una krisis che separa il bene dal male, perché esso non scarta nulla ma anzi dal nulla chiama tutto all’esistenza. Forse «la bontà infinita ha sì gran braccia» che accoglie tutto senza distinguere? A questo proposito, c’è un’acuta osservazione di Origene, nella prima Omelia sulla Genesi, che vale la pena di riportare. Commentando Gn 1,21-23 il grande esegeta afferma: A questo punto uno potrebbe chiedere come mai i grandi cetacei e i rettili siano interpretati in male e i volatili in bene, dal momento che di tutti è stato detto: “E Dio vide che erano cose buone” Proprio ciò che si oppone ai santi è bene per loro, perché lo possono vincere e, una volta che abbiano vinto, diventano più gloriosi presso Dio. […] In effetti, come ci potrebbe essere lotta, se non ci fosse chi resiste? Non si riconoscerebbe quanto sono grandi la bellezza e lo splendore della luce, se non l’interrompesse l’oscurità della notte. Come si loda la castità degli uni, se non perché si condanna l’impudicizia degli altri? Come si potrebbero esaltare gli uomini forti, se non ci fossero i deboli e i vili? Se prendi qualcosa d’amaro, il dolce attira lodi maggiori; se avrai guardato il nero, ti apparirà gradevole il chiaro. In breve, dalla considerazione del male risulta più luminosa la bellezza del bene. Perciò, di tutte queste cose la Scrittura dice: “E Dio vide che erano buone”. Perché mai tuttavia non è scritto: Dio disse che erano buone, ma: “Dio vide che erano buone?” Vide cioè la loro utilità e il motivo per cui, pur essendo tali di per sé, queste cose potevano rendere ottimi i buoni14.

L’approvazione divina, dunque, non implica una visione indifferenziata in cui tutte le distinzioni e i gradi di valore si annullano, ma nella prospettiva che essa delinea anche gli elementi apparentemente negativi della realtà mondana trovano la loro giustificazione in quanto strumenti di una “funzione critica” che gli uomini sono chiamati ad esercitare, ad un doppio livello: da una parte in quanto servono a mettere alla prova la virtù dei buoni (e quindi anche a certificarla: di nuovo il giudizio!); dall’altra perché permettono di riconoscere, per contrasto, le virtù e i beni che ad essi si oppongono15. I “mali” (apparenti) del mondo sono dunque recuperati in nome di temi di edificazione morale da parte di Giovanni Crisostomo, che pure adotta un’esegesi letteralista, è bene messo in rilievo da Sandwell 2011, pp. 539-564. 14   Origene, in Hom. in Gen. 1,10. Trad. Danieli 2002, p. 57. A proposito della concezione origeniana del giudizio divino, si veda quanto scrive Prinzivalli 2000, pp. 208-209: «La dinamica interna al pensiero origeniano porta alla relativizzazione del giudizio retributivo e al suo inquadramento nella perenne azione provvidenziale di Dio. […] A ben vedere, secondo O. ogni momento della vita umana presuppone un giudizio di Dio, in rapporto costante con la variabilità delle disposizioni della creatura e che costantemente dispensa premi e punizioni adatti alla particolare situazione». 15   Per il primo aspetto si veda anche Hom. in Num. 14,2 e Contra Celsum 4,76.78. Per il secondo, che riprende un motivo stoico (anche il “male” è compreso nell’armonia cosmica, come strumento per far risaltare per opposizione il bene), si veda Hom. in Num. 9,1 e Contra Celsum 4,70.

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una loro utilità strumentale, ma nell’interpretazione origeniana sembrerebbe aprirsi la strada ad una distinzione che in qualche modo li mette ai margini (se non proprio li esclude) dalla piena bontà-bellezza della creazione sancita dal placet divino. Infatti Origene, nel momento in cui pure riconosce, sulla scorta del testo di Genesi, la fondamentale bontà di tutte le cose create, sente però il bisogno di precisare e in un certo senso di attenuare la portata di questa affermazione quando si riferisce, ad esempio, a rettili e mostri marini, derubricando in questo caso l’approvazione divina da esplicita dichiarazione a semplice presa d’atto: Dio “ha visto”, ma non “ha detto” che certe cose sono buone. Notazione che andrà peraltro intesa con l’avvertenza – su cui insiste Tertulliano – che quello di Dio creatore non è un semplice “vedere” di conoscenza, ma di approvazione16. 2.  Le “crisi” nell’assetto del mondo come espressione della collera di Dio. L’interdetto filosofico contro l’ira divina Ma allora, come si rapporta questa “garanzia divina” sul mondo con la presenza di “rotture” nell’assetto mondano provocate dall’intervento stesso di Dio? Se la krisis divina è il fondamento dell’ordinata stabilità del mondo e dell’uomo, perché Dio provoca delle “crisi” intervenendo a destabilizzare quello stesso ordine mondano (di cui, non si dimentichi, fa parte l’uomo e la sua opera) che è stato posto in essere dalla sua parola creatrice? Perché Egli sembra a volte mettere in crisi il prodotto della sua krisis primigenia? Perché «sradica, distrugge e annienta»?17 Viene qui in primo piano il tema, scottante e imbarazzante dell’“ira di Dio”. Doppiamente imbarazzante, perché si parla di ira e perché si osa attribuirla a Dio. «Ira», ha scritto Peter Sloterdijk, è «la prima parola dell’Europa»18, riferendosi alla rimarchevole circostanza che il primo verso dell’archetipo poetico dell’Occi Tertulliano, Adv. Marc. II, 4, 2: “et vidit Deus quia bonum”, non quasi nesciens bonum nisi videret, sed quia bonum, ideo videns, honorans et consignans et dispunges bonitatem operum dignatione conspectus. 17   Cfr. Origene, Hom. Ier. 1,15: «È dunque un’opera della bontà di Dio, dopo avere sradicato, distruggere ciò che è stato sradicato, e dopo aver distrutto, annientare ciò che è stato distrutto». 18  Cfr. Sloterdijk 2007, pp. 7-17. Nelle pagine introduttive del suo saggio, intitolate appunto “La prima parola dell’Europa”, l’autore osserva, fra l’altro, che «nei versi di invocazione dell’Iliade si stabilisce in modo inequivocabile come i Greci – popolo modello della civilizzazione occidentale – debbano affrontare l’irruzione dell’ira nella vita dei mortali – con lo stupore che si conviene a un’apparizione» (p. 8). Nella percezione omerica, l’ira viene celebrata come «una forza che libera gli uomini dall’intontimento vegetativo e li pone sotto un cielo illustre che li osserva» (p. 11). Se l’ira merita di essere cantata dall’aedo, è perché essa è memorabile, rappresenta qualcosa di grande. «Il canto dell’energia eroica di un guerriero, con cui inizia l’epos degli antichi, innalza l’ira al rango di sostanza da cui il mondo è prodotto, se […] con “mondo” si indichi il circolo delle forme e delle scene dell’antica vita, guerriero-aristocratica, ellenica» (p. 12). Nel seguito del suo stimolante saggio, Sloterdijk analizza il cambiamento di mentalità che avviene allorché «dopo il passaggio della psiche greca da virtù eroicoguerriera a privilegio cittadino, l’ira scompare gradualmente dalla lista dei carismi» e «rimangono 16

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dente, l’Iliade, si apre appunto con questa parola: «L’ira, cantami o dea, di Achille il Pelide…». Da quell’inizio pieno di furore, tuttavia, molte cose sono cambiate: prima di Cristo, la cultura filosofica antica aveva già percorso un lungo, determinato e combattivo cammino di ridimensionamento, controllo e infine di vera e propria censura dell’ira, il cui esito troviamo esemplarmente rispecchiato – proprio all’inizio dell’era cristiana e da parte di un autore che gli stessi cristiani hanno talora immaginato di poter avere come naturale controparte nel loro dialogo con la cultura greco-romana – nell’implacabile requisitoria dei tre libri de ira di Seneca, dove è recisamente negata la sua pertinenza alla natura umana: non est naturalis ira19. L’altra posizione filosofica, di matrice aristotelica, più aperta e inclusiva, che annoverava l’ira tra le naturali passioni umane e considerava un difetto l’incapacità di adirarsi (ἀοργησία), concentrandosi piuttosto sulla necessità di sottometterla al governo della ragione, qui appare ormai decisamente superata da una visione che la esclude completamente dall’orizzonte umano. Negato all’uomo, il diritto all’ira a maggior ragione viene tolto agli dèi, che nell’antico mito ne avevano usato (e abusato) ampiamente. Che Dio non sia (e non possa essere) collerico è dunque un dogma indiscusso per il pensiero filosofico, quando i cristiani si accingono a prendere la parola per dire la loro nello spazio pubblico greco-romano. Non è il caso qui di moltiplicare le citazioni; ci basti l’espressione di un grande divulgatore eclettico come Cicerone, qui particolarmente significativa proprio perché quando scrive che «è certamente opinione comune di tutti i filosofi, non solo di quelli che dicono che la divinità è inattiva e non si prende cura degli uomini, ma anche di quelli che affermano che sempre agisce e provvede a tutto, che essa non si adira mai e non fa danno alcuno»20, non esprime un pensiero originale, ma dà quasi per scontato un sentire comune. C’è dunque, nel mondo civile antico (come nel mondo civile contemporaneo!), un vero e proprio interdetto contro l’ira divina, e chi si azzarda a violarlo viene sanzionato. Ai nostri tempi, chi ne parla rischia addirittura l’esclusione dal novero delle solo gli entusiasmi spirituali, come vengono enumerati nel Fedro di Platone» (p. 19), sino alla tesi stoica che l’ira sia in fondo “innaturale” perché contrasta la razionalità umana. In tale processo, «la concezione socratico-platonica del thymós costituisce una pietra miliare sulla via della domesticazione morale dell’ira […] a metà fra la venerazione omerica della menis semi-divina e la condanna stoica di ogni impulso violento e d’ira» (p. 32). 19  Seneca, De ira, 1, 6,5. Prima di Seneca l’argomento, topico quant’altri mai, era stato affrontato da tanti: Teofrasto, Bione di Boristene, Antipatro di Tarso, Posidonio di Apamea, Filodemo di Gadara, Sozione di Alessandria (di cui Seneca ascoltò le lezioni) sono solo alcuni degli autori di cui sappiamo che vi avevano dedicato trattazioni specifiche. Sul tema, si veda Harris 2001. Più in generale, su diversi aspetti del trattamento dell’ira nella letteratura greco-romana (con prevalente attenzione all’epica, da Omero a Stazio e Silio Italico) vertono i saggi raccolti da Braund, Most 2003. 20  Cicerone, De officiis, 3, 102: hoc quidem commune est omnium philosophorum, non eorum modo qui deum nihil habere ipsum negotii dicunt, nihil exhibere alteri, sed eorum etiam qui deum semper aliquid et moliri volunt, numquam nec irasci deum nec nocere.

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persone legittimate a prendere la parola nell’arengo del dibattito pubblico. Certo va riconosciuto, a scanso di equivoci, che la goffa e ottusa improntitudine con cui certa letteratura fondamentalista, di tanto in tanto, prova a brandire questo tema per fanatismo o per bassi scopi di polemica e di propaganda politico-religiosa non aiuta a farne un oggetto di riflessione serena (sine ira ac studio, è il caso di dire!) come esso invece meriterebbe. Comunque sia, oggi è abbastanza chiaro che, tra “persone per bene”, è meglio non sollevare la questione21. Resta però il fatto “scandaloso” che di ira di Dio parla moltissimo non solo l’Antico Testamento ma anche, con buona pace dei marcioniti e degli gnostici di ieri e di oggi, il Nuovo Testamento22. Che fare, dunque, di questa imbarazzante evidenza documentale, che riflette un’istanza profondamente radicata nel cuore della rivelazione biblica? Possiamo davvero cavarcela riducendo tutte le occorrenze bibliche dell’ira di Dio ad antropomorfismi da spiritualizzare in sede di esegesi e predicazione23; a modi di dire immaginosi da inquadrare nella cultura arcaica che li ha prodotti, e che noi possiamo tranquillamente guardare dall’alto in basso, per aderire senza riserve al dogma comune che “Dio non si arrabbia”? A prima vista sembrerebbe di sì, e comunque è ciò che il più delle volte succede, non solo nel più ampio contesto della cultura contemporanea, ma anche nella pubblicistica religiosa e nella pratica pastorale delle maggiori confessioni cristiane, che appaiono spesso concentrate in modo quasi esclusivo (e per giunta con toni edulcorati) sul tema della pazienza, della misericordia e della tenerezza di Dio. Ma si può aggirare così il dato biblico della collera di Dio? Si può pensare di renderla innocua, quando essa ci viene presentata nella Scrittura come una forza   Vorrà dire qualcosa il fatto che l’ultimo volume della prestigiosa (e dettagliatissima) Theologische Realenzyklopädie, vol. 36 (Wiedergeburt-Zypern), Berlin-New York 2004, non contempli neppure la voce Zorn Gottes ma si limiti a rinviare il lettore a Eschatologie, a Gericht Gottes o addirittura a Gott? Come osserva McCarthy 2009, pp. 845-874, qui p. 845, «in our own age […] reference to supernatural rage seems particularly liable to abuse», con l’interpretazione strumentale che certi gruppi religiosi minoritari fanno di eventi catastrofici letti come segno dell’ira divina e, dall’altra parte, la reazione delle chiese istituzionali che tendono, nella predicazione e nella catechesi, a censurare l’argomento (pp. 849-851). 22   Si rimanda, per una trattazione generale dell’argomento, alla lunga e dettagliata voce del Kittel: Kleinknecht et alii 1972. 23   Sulla questione dell’antropomorfismo divino si vedano le bellissime pagine di Chrétien 1985, pp. 92-104, per il quale «le fondement de l’anthropomorphisme biblique ne peut jamais, si la Bible est bien la parole de Dieu, se réduire à une initiative humaine imposant violemment et arbitrairement à Dieu des traits qui ne sauraient en aucun sens être les siens. Ce n’est pas l’homme qui parle le premier de Dieu en termes humains, mais Dieu: l’anthropomorphisme est d’origine divine […] cet anthropomorphisme se fonde en une anthropomorphose divine, sur l’initiative de Dieu prenant la forme ou les traits de l’homme pour aller vers l’homme et lui parler. […] le plus grand anthropomorphisme, entendu cette fois comme initiative purement humaine, n’est-il pas de vouloir libérer Dieu de tout anthropomorphisme? N’est-ce pas, au nom d’une conception purement humaine de ce que doit être la transcendence divine, destituer Dieu de sa vie et de sa liberté?» (pp. 93-94). 21

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immane, tendenzialmente annichilente24, talmente distruttiva che sembra addirittura mettere in dubbio la parola iniziale di Jahvé e contraddire la krisis fondativa che aveva legittimato e garantito stabilmente l’esserci del mondo? O forse nel concetto di ira divina, per quanto ostico alla mentalità dell’uomo civile ieri come oggi, c’è invece una grande ricchezza da riscoprire, come già suggeriva genialmente tanti anni fa Jean Daniélou? Poche altre espressioni urtano maggiormente le pudiche orecchie moderne. Già i Giudei alessandrini ne arrossivano dinanzi ai filosofi greci e si sforzavano di attenuarne il significato. Oggi essa appare insopportabile ad una Simone Weil che, come un tempo Marcione, contrappone il Dio d’amore del Nuovo Testamento al Dio di collera dell’Antico. Purtroppo, come già notava Tertulliano, l’amore si trova anche nell’Antico Testamento e la collera si ritrova nel Nuovo. Bisogna dunque accettare le cose così come sono: la collera è uno degli atteggiamenti del Dio biblico. E diremo di più: questa espressione apparentemente antropomorfica è forse quella che contiene nel suo nocciolo la carica più densa di mistero e che ci aiuta a penetrare più a fondo nella trascendenza divina25.

Chiediamoci allora come si sono comportati riguardo a tale questione i Padri, nel loro incontro con la cultura greco-romana. Si direbbe con un po’ di imbarazzo, almeno all’inizio, se si guarda all’apologetica greca del II secolo, dove in effetti sembra che a questo tema scomodo si metta la sordina: «noi siamo consacrati al Dio ingenerato e privo di passioni (θεῷ δὲ τῷ ἀγεννήτῳ καὶ ἀπαθεῖ ἀνεθήκαμεν)», si preoccupa di chiarire Giustino, schierandosi subito dalla parte dei filosofi contro gli dèi iracondi e suscettibili della mitologia26, e l’apparente identità di posizione tra filosofi e cristiani, contro la tradizione mitologica, è sostenuta un po’ da tutti gli apologisti greci27. Questa tendenza, secondo la storiografia tuttora prevalente, proseguirebbe ed anzi si consoliderebbe nell’ambito della scuola alessandrina, dove la scabrosa questione dell’ira di Dio verrebbe in qualche modo “depotenziata”, se non evacuata, attraverso la sua spiritualizzazione, sempre a causa della preponderante influenza del pensiero filosofico greco, mentre ci sarebbe un’altra linea, romana e africana, che  Cfr. Fichtner 1972 ὁργή B III 3 col.1126: «Nella sua azione radicale l’ira di Jahvé tende all’annientamento, alla distruzione completa». 25   Daniélou 1963, pp. 168-169. 26  Giustino, Apol. 1, 25. 27   Cfr. ad esempio Atenagora, Suppl. 21. Altri riscontri in Pohlenz 1909, pp. 17-18. Si veda anche l’articolo di Roukema 2002, pp. 15-31, per il quale «là où Dieu leur semblait trop humain, montrant des passions humaines, plusieurs Pères disaient qu’au fond la vraie essence de Dieu (l’Être) nous échappe, puisqu’elle est cachée dans la ténèbre. Cela veut dire que si, dans l’Écriture, Dieu se manifeste d’une manière passionnée, fâchée, jalouse, il s’adapte à ceux qui ont besoin de ces représentations plutôt humaines. En fin de compte, il y a Dieu au-delà de Dieu. Il est toujours plus transcendant que les hommes ne le croient» (p. 25). 24

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riaprirebbe in qualche modo il discorso dando più spazio al tema dell’ira di Dio28. Non per nulla, si fa notare, l’unico trattato patristico specificamente dedicato al nostro tema porta la firma di Lattanzio, agli inizi del IV secolo29. Certo, a leggere il lungo e un po’ tedioso carme De ira di Gregorio Nazianzeno, uno dei più illustri esponenti di quella corrente patristica che, nel solco tracciato da Clemente e da Origene, ha maggiormente approfondito il confronto con la cultura umanistica pagana, non si può non restare colpiti dalla sua perfetta omogeneità rispetto a quel “discorso filosofico comune” di matrice soprattutto stoica che era dominante nella cultura del tempo30. L’ira contro l’ira – scrive il raffinato poetateologo cristiano – è l’unica giusta, perché la collera è un male talmente grande che va combattuto con tutte le forze; la ragione ci è stata data da Dio per dominare le passioni, che vanno contrastate fin dai loro esordi; l’ira è il più vergognoso dei vizi, perché a differenza degli altri è completamente esposto alla vista di tutti; essa deforma l’aspetto dell’uomo, allontanandolo dall’immagine divina, perché «è proprio di Dio la mitezza e la dolcezza»; se non bastano i ragionamenti per convincerci a ripudiarla, ci sono tanti esempi di uomini grandi che hanno dato prova di mitezza, da Samuele a Davide, a Pietro (che accettò la parresia di Paolo nei suoi confronti) e Stefano, ma anche Aristotele, Alessandro e Pericle, fino ad arrivare all’imperatore Costanzo. Questa, in sintesi, la serie de luoghi comuni che il carme gregoriano ripercorre diligentemente per gran parte del suo svolgimento: nel filo di questo discorso, anche uno spunto tipicamente cristiano come il richiamo all’ammonimento di Gesù «Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a 28   Questa è l’impostazione del saggio di Pohlenz citato sopra, che rimane un’opera di riferimento per il nostro tema. Che le conclusioni di Pohlenz siano da considerarsi «sans doute définitives pour l’essentiel» è opinione espressa ancora da Fredouille 1972, p. 161, il quale ritiene che «hormis Lactance […] les Pères se sont ralliés à la doctrine de l’impassibilité divine» (ibid.). Ma vedi, più di recente, per una discussione di questo approccio interpretativo, il notevole articolo di Grosse 2001, pp. 147167, che coglie invece giustamente una continuità fra le posizioni di Origene e di Tertulliano (oltre che, in misura minore, di Lattanzio) in quanto accomunate da una concezione di fondo, essenziale al cristianesimo, che considera l’ira di Dio come un aspetto della sua misericordia. «Diese Auffassung kann aufs erste so bestimmt werden, daß die Menschen, denen Gott zürnt, durch seinen Zorn seinem Erbarmen zugetrieben werden» (p. 149). Le differenze che indubbiamente vi sono, tra un Origene e un Tertulliano, vanno attribuite non tanto al diverso influsso della filosofia greca sul loro pensiero, quanto dalle «Gesprächsituationen» in cui si collocano le loro affermazioni. Per Origene è un contesto apologetico oppure esegetico, per Tertulliano il contesto è quello della polemica antimarcionita. 29   A cui, se si vuole, si può al massimo aggiungere la modesta epitome senecana di Martino di Braga, della seconda metà del VI secolo, ora riproposta all’attenzione degli studiosi dalla recente edizione commentata a cura di Torre 2008. 30   Gregorio Nazianzeno, Carm. I, 2,25 (PG 37, 813-851). Se ne veda il commento di Oberhaus 1991. Che questo carme, e quello che lo precede (1,2,24), siano «impegnativi e pretenziosi, ma letterariamente non riusciti […] pesanti nello stile e monotoni» e caratterizzati da «prolissità e grigiore» è giudizio severo ma del tutto condivisibile di un grande studioso del Nazianzeno come Claudio Moreschini, in Gregorio Nazianzeno, Poesie / 1, Roma 1994, pp. 36-37.

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giudizio» (Mt 5,22), che giunge quando siamo ormai a tre quarti del componimento, appare in completa continuità con tutto ciò che lo precede e come un po’ avulso dal radicalismo evangelico del discorso della montagna. È solo a questo punto che il tema dell’ira di Dio fa la sua comparsa, ma unicamente perché Gregorio possa prevenire e smontare un’obiezione specificamente cristiana che il suo lettore potrebbe muovergli: «Leggendo nelle Scritture che Dio si adira», dice il Nazianzeno, «non fare di ciò una giustificazione per il vizio da cui sei avvinto. […] Infatti Dio non prova le sensazioni che io provo. Egli, infatti, non si allontana mai da quella che è la sua natura. […] la natura di Dio è immutabile: questo è certo»31. L’ira divina di cui parlano le Scritture, si affretta a spiegare il padre cappadoce, è solo una figura retorica, un tropo usato per «spaventare l’anima delle persone più semplici»: non veramente di collera si tratta, ma solo della giusta punizione dei cattivi. 3.  L’ira di Dio attiene alla relazione Dio-uomo, non alla natura divina in quanto tale. L’ira come forma “privilegiata” della cura divina riservata agli uomini È tutto qui quello che i Padri hanno da dire in proposito? In realtà, se consideriamo un po’ più attentamente il problema nel suo insieme ci accorgiamo che non sempre il pensiero patristico ha avuto tutta quella ripugnanza a staccarsi dal dogma filosofico dell’impassibilità divina che spesso gli viene attribuita (impassibilità che costituisce l’imprescindibile presupposto per negare a fortiori che Dio possa essere affetto da una passione tanto detestabile quanto l’ira)32. E le eccezioni riguardano non solo certi suoi esponenti più animosamente portati allo scontro con la filosofia pagana, come Tertulliano, ma si possono riscontrare anche nella riflessione teologica di quelli normalmente considerati più “greci” e più “filosofi”, come appunto Clemente Alessandrino e Origene33.   Gregorio Nazianzeno, Carm. I, 2,25, vv. 370-381 (PG 37, 838-839), trad. I. Costa.   L’opinione tradizionale che «les Pères ont tous proclamé en effet l’impassibilité divine» (come dice per esempio Spanneut 1957, p. 292) è meglio articolata e sfumata, ma sostanzialmente confermata da Frohnhofen 1987. Una messa in discussione dell’approccio tradizionale al problema è ora rinvenibile nell’interessante monografia di Gavrilyuk 2004, non del tutto convincente nell’affermazione che «there was nothing in the Hellenistic world amounting to a universally endorsed ‘axiom of divine impassibility’» (p. 172) ma sicuramente apprezzabile nel suo tentativo di tracciare un percorso dialettico attraverso il quale la chiesa antica, confrontandosi con tre modi sbagliati di risolvere il problema del rapporto tra impassibilità divina e incarnazione rappresentati dal docetismo, dall’arianesimo e dal nestorianesimo, sarebbe arrivata a elaborare una concezione della paradossale “impassibilità sofferente” del Dio cristiano, del tutto nuova rispetto ai presupposti filosofici ellenistici. Dati i limiti del nostro contributo, in questa sede non entriamo nel merito del problema dell’impassibilità divina in generale, ma ci limitiamo a qualche osservazione sul punto specifico dell’ira. Per questo non ci occupiamo dell’unico testo patristico dedicato al tema, che è l’Ad Theopompum attribuito a Gregorio Taumaturgo, rinviando all’articolo di Crouzel 1963, pp. 269-279, e alle pp. 213-220 della citata monografia di Frohnhofen 1987. 33   Contro la tesi sostenuta nel sopra citato saggio di Pohlenz 1909. 31 32

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Il primo dei due, ad esempio, nel Pedagogo dapprima ci rassicura che «Dio non si adira (οὐκ ὀργίζεται τὸ θεῖον), come pensano alcuni, ma la maggior parte delle volte minaccia e sempre esorta […]» e dice che quando arriva a infliggere un castigo non lo fa mai sotto l’effetto dell’ira, bensì avendo di mira la giustizia34; ma poi soggiunge, citando il Siracide, che pietà e collera gli appartengono ugualmente35 e che anche il sentimento della collera (τὸ ἐμπαθὲς τῆς ὀργῆς), se bisogna chiamare collera la sua correzione (νουθεσίαν), è [un segno dell’] amore per l’uomo da parte di Dio che accondiscende a [prendere] passioni [umane] a causa dell’uomo (φιλάνθρωπόν ἐστιν είς πάθη καταβαίνοντος τοῦ θεοῦ διὰ τὸν ἄνθρωπον), per il quale anche il Logos di Dio si è fatto uomo36.

Dunque un’ira divina c’è ed è una vera e propria passione, che Dio assume, sia pure in un suo modo particolare, per l’economia della salvezza. Per amore dell’uomo, Dio in qualche modo partecipa delle passioni umane. In questa prospettiva – che è quella del divino pedagogo che, nella sua multiforme tecnica di impiego della paura per la cura degli uomini37, rinuncia alla pura bontà, «retta, secondo natura, immutabile ed incrollabile»38, per inseguire e raggiungere, con le armi della giustizia, i peccatori nei loro percorsi tortuosi – Clemente può spingersi a parlare francamente (e audacemente) di un συμπαθὴς θεὀς e addirittura di un Dio che per «compassione» di noi assume dei tratti “femminili” e diventa nostra madre39.   Clemente Alessandrino, Paed. I, 8,68,3. Queste affermazioni si trovano in un capitolo tutto dedicato alla polemica contro «quelli che pensano che il [Dio] giusto non è buono», cioè gli gnostici e i marcioniti, e sono solidamente motivate dal ragionamento che le precede: Dio non odia nulla perché se odiasse qualcosa quel qualcosa non esisterebbe, dunque nulla di ciò che esiste è odiato da Dio (I, 8,62,3-4). In modo speciale Egli ama l’uomo e si occupa attivamente di lui, educandolo attraverso il Logos (I, 8,63,1-3). In questa azione, il divino pedagogo deve essere anche severo, ma se biasima e punisce è solo per guarire l’uomo (I, 8,64,4-65,3). Del resto, il più delle volte si serve delle parole prima di passare ai fatti (I, 8,68,2) e ammonisce e rimprovera più che punire. 35   Ivi, I, 8,72,1. La citazione è da Siracide 16,11-12. 36   Ivi, I, 8,74,4. 37   Di περὶ τόν φόβον αὐτοῦ τεχνολογία a proposito dell’attività del Logos pedagogo, Clemente parla a I, 9,81,3, al termine di un lungo passo in cui ha enumerato e distinto ben dodici forme di rimprovero o di richiamo con cui Dio si rivolge all’uomo: νουθέτησις, ἐπιτίμησις, μέμψις, ἐπίπληξις, ἔλεγχος, φρένωσις, ἐπισκοπὴ, λοιδορία, ἔγκλησις, μεμψιμοιρία, διάσυρσις, κατανεμέσησις. 38   Ivi, I, 9,85,4. 39   Come fa, rispettivamente, in Paed. III, 1,2,3 e in Div. salv. 37,2-4, dove adopera letteralmente queste espressioni riferendole al Padre: καὶ τὸ μὲν ἄρρητον αὐτοῦ πατήρ, τὸ δὲ εἰς ἡμᾶς συμπαθὲς γέγονε μήτηρ. ἀγαπήσας ὁ πατὴρ ἐθηλύνθη. Sul tema della passibilità divina in Clemente, con riferimento soprattutto ai suoi riflessi sull’antropologia, si veda ora Dainese 2012, per il quale «una delle premesse fondamentali dell’antropologia di Clemente è quella della passibilità divina, inaccettabile, se presa alla lettera, a qualsiasi filosofo pagano a lui contemporaneo. Per l’Alessandrino, infatti, il Logos divino in quanto pedagogo compie in questo caso la funzione di ἡγεμονικόν dell’anima umana» (p. 103). «Si può dire infatti che il caposaldo della dottrina clementina dell’anima è la relazione tra l’anima umana e 34

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In modo sostanzialmente non dissimile, ma forse con ancor maggiore forza, si esprime Tertulliano, nel II libro dell’Adversus Marcionem, prendendo di petto quei cristiani che ammettono sì il giudizio di Dio, ma si scandalizzano all’idea che Egli abbia moti d’animo e sentimenti: Noi che crediamo che Dio sia vissuto anche in terra e che abbia assunto l’umiltà della condizione umana per il bene della salvezza umana, siamo ben lontani dal parere di coloro che non vogliono che Dio si occupi di alcuna cosa. Da qui è venuta anche agli eretici una definizione di questo genere: se Dio prova sentimenti di ostilità e di ira e si esalta e si inasprisce, allora si corromperà, allora potrà anche perire. Bene, allora, che è proprio dei cristiani credere che Dio è anche morto e tuttavia vive nei secoli dei secoli40.

Se crediamo in un Dio che è morto, perché mai dovremmo avere paura dell’idea di un Dio che patisce? L’argomentazione di Tertulliano, stringente come al solito, conferisce alla questione delle passioni divine (tra cui in primis l’ira) un valore dirimente per la stessa fede nell’incarnazione. Se Dio si è veramente fatto uomo come può non aver vissuto sentimenti umani? Chi glieli nega, non crede fino in fondo all’incarnazione. Ma ora sentiamo come Origene sviluppa lo stesso concetto in uno stupendo (e celebre) passo delle Omelie su Ezechiele, parlando prima del Figlio e poi del Padre: Egli è disceso in terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se infatti non avesse patito non sarebbe entrato in rapporto con la condizione umana. Prima ha patito, poi è disceso ed è stato visto. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore. Anche lo stesso Padre, e Dio dell’universo, longanime e molto misericordioso e compassionevole, non soffre forse anche lui in qualche modo? Ignori che quando governa le cose umane, condivide la passione umana? […] Lo stesso Padre non è impassibile. Se viene pregato, prova misericordia e compassione, soffre d’amore e si immedesima in quei sentimenti che, data la grandezza della sua natura, non potrebbe avere; per causa nostra sopporta le passioni umane41. un Dio Padre-Primo principio passibile proprio come espressione più alta della sua perfezione. Si tratta di una passibilità che concerne soprattutto l’attività (ἐνέργεια) di Dio, più che la sua sostanza (οὐσία) e probabilmente questa è la differenza principale tra la metafisica clementina e quella gnostica. […] In ogni caso la passibilità di Dio Padre è un cardine del pensiero di Clemente […]» (p. 231). 40  Tertulliano, Adv. Marc. II, 16,3: Qui credimus Deum etiam in terris egisse et humani habitus humilitatem suscepisse ex causa humanae salutis, longe sumus a sententia eorum, qui nolunt Deum curare quicquam. Inde venit ad haereticos quoque definitio eiusmodi: si Deus irascitur et aemulatur et extollitur et exacerbatur, ergo et corrumpetur, ergo et morietur. Bene autem, quod Christianorum est etiam mortuum Deum credere et tamen viventem in aevo aevorum. La traduzione citata è di Moreschini 1974, con qualche modifica. 41  Origene, hom. Ez. 6,6 (SCh 352, pp. 228-230): Descendit in terras miserans humanum genus, passiones perpessus est nostras, antequam crucem pateretur et carnem nostram dignaretur assumere; si

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L’attacco al dogma filosofico dell’impassibilità divina – come si vede – non potrebbe essere più esplicito: il Figlio “patisce” anche prima dell’incarnazione, e “patisce” lo stesso Padre. Questa seconda affermazione è la più radicale, perché con essa viene esclusa (ma in realtà su questo non mancano, nei nostri autori, oscillazioni e incertezze)42 anche quella sorta di via di compromesso – più accettabile dal punto di vista della filosofia antica – che consisterebbe nell’assegnare al “secondo dio” il carico delle passioni umane, preservandone il “Dio sommo”43. L’altro punto fermo della strategia cristiana, nel confronto con la concezione filosofica della divinità impassibile, è però quello di affermare con nettezza l’idea dell’immutabilità di Dio. Abbiamo visto sopra come Tertulliano ritorca genialmente l’obiezione marcionita che un Dio non impassibile sarebbe un Dio che può corrompersi e morire rivendicando che sì, in effetti “Dio è morto”; il Dio dei cristiani è appunto il dio che è morto e risorto. Ma questa non è l’unica risposta che i Padri danno: quella prevalente è che la passione, in Dio, non compromette affatto la sua eternità. Possiamo cogliere molto bene questo aspetto del discorso patristico sulle enim non fuisset passus, non venisset in conversatione humanae vitae. Primum passus est, deinde descendit et visus est. Quae est ista quam pro nobis passus est passio? Caritatis est passio. Pater quoque ipse et Deus universitatis, longanimis et multum misericors et miserator, nonne quodammodo patitur? An ignoras quia, quando humana dispensat, passionem patitur humanam? […] Ipse Pater non est impassibilis. Si rogetur, miseretur et condolet, patitur aliquid caritatis, et fit in iis in quibus iuxta magnitudinem naturae suae non potest esse, et propter nos humanas sustinet passiones. La traduzione citata è quella di R. Antoniono, con qualche modifica. Si noti che quando Origene qui parla del Padre che «quodammodo patitur» supera di slancio, con l’audacia teologica che caratterizza il suo pensiero, un limite che era sembrato incutere soggezione anche a Tertulliano, il quale talvolta aveva finito per schiacciare il suo discorso su una distinzione tra il Padre e il Figlio volta ad attribuire, in modo un po’ schematico (e col rischio di una deriva subordinazionistica), la passibilità al secondo preservando l’impassibilità more philosophico del primo. Così, in Adv. Marc. II, 27,6: Igitur quaecumque exigitis Deo digna, habebuntur in Patre invisibili incongressibilique et placido et, ut ita dixerim, philosophorum deo, quaecumque autem ut indigna reprehenditis, deputabuntur in Filio et viso et audito et congresso, arbitro Patris et ministro, miscente in semetipso hominem et deum, in virtutibus deum, in pusillitatibus hominem, ut tantum homini conferat quantum deo detrahit [Perciò tutte quelle cose che esigete degne di Dio, si riterrà che esistano nel Padre, invisibile, non incontrabile, placido e, per così dire, dio dei filosofi; tutte quelle azioni, invece, che voi criticate come indegne, saranno attribuite al Figlio, che è stato visto e udito e incontrato, esecutore e ministro del Padre, che unisce in se stesso l’uomo e la divinità, Dio nelle potestà, uomo nelle umiliazioni, in modo che tanto attribuisce all’uomo quanto toglie a Dio]. Passo nel quale, se non si riscontra quella «Kapitulation vor dem ‘Philosophengott’ Markions» di cui parla Pohlenz 1948, p. 440, si avvertono comunque le tracce di un certo sbandamento in direzione di un subordinazionismo influenzato dalla concezione di divinità intermedie tra il Dio sommo e il mondo propria delle filosofie religiose contemporanee, come mostra Cantalamessa 1962, pp. 38-42. 42   Vedi il passo di Tertulliano, Adv. Marc. II, 27,6 riportato nella nota precedente. 43   Non è uno spunto isolato, in Origene, ma un pensiero che ritorna più volte. Si veda, ad esempio, come commenta l’autodefinizione divina di Es 20,5 («Io sono un Dio geloso») in Hom. Ex. 8,5: Vide benignitatem Dei, quomodo, ut nos doceat et perfectos faciat, ipse fragilitatem humanorum non recusat affectuum. Quis enim audiens Deum zelantem non continuo miretur et humanae fragilitatis vitium putet? Sed omnia propter nos et agit et patitur Deus […].

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passioni divine nella trattazione, di schietta impronta origeniana (e che prendiamo quindi come surrogato delle pagine del maestro che purtroppo qui ci mancano), che Ilario di Poitiers fa nel suo Commento ai salmi, a proposito di Sal 2,5 (Tum loquetur ad eos in ira sua / Et in indignatione sua conturbabit eos). Prima di mostrare quale sia (il senso del) discorso ispirato all’ira e di questo sconvolgimento provocato dall’indignazione, bisogna avvertire i lettori e gli ascoltatori di non credere che in Dio avvengano cambiamenti provocati dalle passioni e turbamenti prodotti da moti dell’animo. Infatti nulla di nuovo accade in quella eterna e perfetta natura, e colui che è tale quale è, lo è sempre, senza mai essere diverso, né può diventare niente altro da quello che è sempre.44

Dopo aver ribadito a lungo il concetto dell’immutabile perfetta bontà di Dio, Ilario si sofferma a chiarire quello della libertà dell’uomo (c. 16) che può rifiutarsi di amare Dio. E conclude: E così, la punizione applicata a coloro che, per la libertà della loro volontà, hanno preferito il male, passa per essere la collera (di Dio), non perché la natura di Dio immutabile e quieta si riscaldi per effetto di un impulso violento, ma perché colui che subisce una punizione che è stata decisa sente l’autore di quella decisione come irato verso di lui. La pena per colui che la subisce passa per essere l’ira di colui che la decide.45

Il gioco delle due prospettive, quella per così dire ex parte patientis e quella ex parte decernentis, gli consente abilmente di distinguere e al tempo stesso tenere unite, come due facce della stessa medaglia, immutabilità e collera di Dio, ma il rischio – lo si avverte tra le righe del testo di Ilario – è sempre quello di intendere questa collera come una figura retorica, come se fosse una sorta di una veste che il giudizio di Dio, di per sé imperturbabile, indossa per “fare paura” agli uomini: ira esse creditur. Allora forse non di vera collera si tratta? Per inquadrare adeguatamente il nostro problema e collocare al suo giusto livello la questione della collera di Dio, ci sembra cruciale il dibattito fra Celso e Origene   Ilario di Poitiers, Comm. in Ps. II, 13 (SCh 515, p. 234): Ac priusquam, qui sit iste irae sermo et quae haec indignationis perturbatio sit, ostendimus, admoneri legentes atque audientes oportet, ne aliquas demutationes passionum perturbationesque motuum cadere in Deum credant. Nihil enim in aeternam illam et perfectam naturam novum incidit neque qui ita est, ut qualis est, talis et semper sit, ne aliquando non idem sit, potest effici aliquid aliud esse quam semper est. 45   Ilario di Poitiers, Comm. in Ps. II, 17 (SCh 515, p. 240): Itaque his quibus ex voluntatis libertate malitia magis placuit ultio constituta ira esse creditur, non quia indemutabilis illa Dei et quieta natura motu impetus turbidi incalescat, sed quod ille qui per constitutionem poenae maneat in poena, sentiat sibi auctorem huius constitutionis iratum. Poena enim patientis ira esse creditur decernentis […]. Subito dopo egli torna a martellare sull’idea dell’immutabilità di Dio (c. 18) e sul fatto che la collera divina non mette in discussione tale immutabilità; poi passa in rassegna diversi passi dell’AT e del NT in cui viene presentata la fenomenologia dell’ira divina: cc. 19-21 (SCh 515, pp. 244-248). 44

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sulla teodicea, nel IV libro del Contra Celsum. In quel contesto l’Alessandrino, criticando l’opinione di Celso che Dio non può entrare nel mondo perché ne sovvertirebbe l’ordine e non ha del resto alcun bisogno di farlo perché «i beni e i mali nelle cose mortali non potrebbero né aumentare né diminuire […] e Dio non deve fare una nuova riforma (οὔτε τῷ θεῷ καινοτέρας δεῖ διορθώσεως)», afferma invece che Egli «impedisce all’onda del male di espandersi ulteriormente» ed è sempre all’opera per riparare i difetti del mondo46. Certo Dio in origine ha fatto tutte le cose nel modo migliore, ma poi il mondo a causa del peccato è stato sottoposto alla corruzione e c’è dunque bisogno dell’intervento divino per curarlo. Qui Origene ricorre al paragone topico con il medico e con il contadino che curano rispettivamente i corpi e i campi adattando sapientemente la loro azione terapeutica alle diverse circostanze47. Ora, il punto che ci preme far notare è che questa cura è anche una “critica”, perché si esplica in una riforma che separa il bene dal male ed espelle quest’ultimo48: e infatti proprio qui si innesta la polemica sulla “collera di Dio”, che Celso mette in ridicolo49. A questo proposito Origene, dopo aver spiegato che il linguaggio della Scrittura si adatta alle capacità degli uditori (4,71), chiarisce che «quando noi parliamo della collera di Dio, non parliamo di un sentimento di Dio, ma di un qualcosa che egli impiega per correggere con una certa severità (οὐ πάθος … ἀλλά τι παραλαμβανόμενον εἰς τὴν διὰ σκυθρωποτέρων ἀγωγῶν παίδευσιν) quelli che hanno commesso peccati di ogni specie ed in gran numero»50. Quindi la «cosiddetta collera (καλουμένη ὁργὴ)» e «quello che viene chiamato furore (ὀνομαζόμενος θυμὸς)» hanno un fine pedagogico, non contrastante con il Logos. La cosa essenziale per Origene è chiarire che 46  Origene, C.Cels. 4,69. Origene qui riprende la stessa espressione impiegata da Celso: Θέλει οὖν διὰ καινοτέρας διορθώσεως ἀεὶ ὁ θεὸς τὰ σφάλματα ἀναλαμβάνειν. 47   Chi, anche fra i cristiani, si scandalizza della collera di Dio, non capisce che anch’essa fa parte di quella necessaria dispensatio con cui il Creatore cura la manutenzione della sua opera, come Origene spiega in hom. in Ez. 1,2 (SCh 352, p. 42): Sed sit forsitan aliquis qui ipso nomine irae offensus criminetur eam in Deo. Cui respondebimus non tam iram esse iram Dei quam necessariam dispensationem. Audi quod sit opus irae Dei: ut arguat, ut corrigat, ut emendet […]. Poco più avanti torna il paragone con il medico: Medicus est Deus (p. 44) . 48   L’idea del giudizio “tranchant” con cui la bontà divina agisce criticamente sulla storia è bene espressa da Origene anche in hom. Ier. 4,4, dove cita Rom. 11,22 («considera dunque la bontà e la severità di Dio») commentandolo così: «[Dio] infatti non è buono (χρηστὸς) senza essere severo (ἀπότομος), né severo senza essere buono; perché, se fosse solamente buono senza essere severo noi avremmo disprezzato la sua bontà; se invece fosse stato severo ma non buono, probabilmente avremmo disperato per i nostri peccati. Ora, in quanto Dio – siamo infatti noi uomini che chiediamo (χρῄζομεν) la sua bontà convertendoci e la sua severità persistendo nei peccati – Dio è sia buono che severo». 49   Il nesso tra krisis e orgé è presente in maniera esplicita in CCels 8,32, dove Origene, riferendosi all’azione degli angeli malvagi che provocano danni e calamità nel mondo, afferma: «Ciò testimonia il salmista, cioè che ci sono alcuni angeli malvagi che, per divino giudizio (θείᾳ κρίσει), producono direttamente i grandi malanni, nel passo in cui dice “mandò su di loro l’ira del suo sdegno, lo sdegno e l’ira e la tribolazione, tutto inviato attraverso gli angeli del male” (Ps. 87,49)». 50   Ibid. 4,72.

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la collera non è un sentimento di Dio, ma ciascun uomo se la procura per mezzo dei peccati che commette (οὐ πάθος τοῦ θεοῦ ἐστιν ἡ ὀργὴ, ἀλλ᾽ ἕκαστος αὑτῷ ταύτην δι᾽ ὧν ἁμαρτάνει κατασκευάζει)51.

Dunque la collera non è una componente dell’essere divino, non attiene a Dio in se stesso, ma è un “fatto” della relazione tra Dio e l’uomo. Appartiene dunque all’ordine dell’economia divina, in quanto è una modalità del rapporto tra Dio e l’uomo; si direbbe anzi che essa è in qualche modo “provocata” dall’uomo, che quasi se la procura (Origene usa il verbo κατασκευάζειν) in Dio. Questo è, a mio avviso, il nodo fondamentale della questione e Origene lo coglie, come sempre, genialmente. Qualcosa del genere, sia pure in modo più implicito, lo aveva già detto Tertulliano: io dichiarerò che Dio non avrebbe potuto affrontare i rapporti umani, se non avesse assunto, di umano, anche i sentimenti e gli affetti, per mezzo dei quali temperare con l’umiltà la forza della sua maestà, certamente intollerabile per la bassezza umana. Umiltà senza dubbio indegna di lui, ma necessaria per l’uomo, e dunque degna di Dio, perché niente è così degno di Dio quanto la salvezza dell’uomo52.

Bellissimo anche qui il gioco delle prospettive: quei sensus et adfectus che, in una visione astrattamente teologica, sono indegni di Dio, in quanto resi necessari dall’economia appaiono invece assolutamente degni di lui. Il concetto chiave della teologia greca del θεοπρεπές qui subisce la massima torsione cristiana richiesta dalla logica dell’incarnazione. Altrettanto suggestiva e pregnante è la formula con cui – dopo un passo in cui, come si è visto, aveva pericolosamente oscillato verso una riduzione subordinazionistica della compromissione divina con l’uomo alla sola pertinenza del Figlio, per preservare la “quiete filosofica” del Padre – Tertulliano confessa orgogliosamente la sua fede in un Dio che non si ritrae di fronte al dedecus dell’umana  Origene, CCels. 4,72. Cfr. Comm. In Iohan. Fr.51: «In molti passi della Scrittura le punizioni dei malvagi vengono chiamate ira di Dio» [seguono cit. di Es 15,7; 1 Ts 2,16 e Rm 2,5]. «Non si deve pensare che quella che viene chiamata ira di Dio sia una passione a cui va soggetto. Come ci può essere infatti una passione in chi è impassibile? Occorre invece, dal momento che Dio non va soggetto a passioni perché è immutabile, interpretare nel modo che s’è detto quella che viene chiamata la sua ira». In Princ. 2,4,4 controbattendo la tesi gnostica che oppone il dio dell’AT, soggetto a passioni come l’ira, al vero Dio che deve essere concepito come impassibile, nota che anche nel NT sono contenute affermazioni simili, ad esempio in Mt 21,33 ss. (l’ira del padrone della vigna contro i vignaioli malvagi) o in Lc 19,11-14.27 e argomenta che sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento queste espressioni vanno intese in senso spirituale, rimandando per una più ampia spiegazione ad un perduto commento al Salmo 2: «Di questo argomento, secondo la nostra pochezza, abbiamo discusso quando abbiamo spiegato come debba essere inteso il versetto del Salmo II che dice: Allora parlerà loro nella sua ira e nel suo furore li riempirà di spavento». 52  Tertulliano, Adv. Marc. II, 27,1: […] proponam Deum non potuisse humanos congressus inire, nisi humanos et sensus et adfectus suscepisset, per quos vim maiestatis suae, intolerabilem utique humanae mediocritati, humilitate temperaret, sibi quidem indigna, homini autem necessaria, et ita iam Deo digna, quia nihil tam dignum Deo quam salus hominis. La traduzione citata è di C. Moreschini, con qualche modifica. 51

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condizione, in quanto sacramentum di umana salvezza: Totum denique dei mei penes vos dedecus sacramentum est humanae salutis (Tutto il disonore del mio dio ai vostri occhi è il sacramento dell’umana salvezza)53. Tornando a Origene, sottolineiamo ancora una volta che, nel dibattito con Celso, egli si spinge a dire che questo fatto della divina economia che è la collera viene, in un certo senso, provocato dall’azione dell’uomo. Infatti, commentando Rom. 2,4-5 dove Paolo usa l’espressione «accumuli la collera per te stesso nel giorno dell’ira», l’esegeta si chiede come possa ciascuno accumulare questa collera divina se essa viene intesa come un sentimento54. La collera, invece, per Origene è parte essenziale della “cura” di Dio nei confronti dell’uomo peccatore, che quindi in qualche modo può accumularla su di sé55. Non comprendendo questo e continuando a pensare la collera in termini di sentimento divino, Celso non si capacita che Dio, «mossosi ad ira e a disdegno e lanciando minacce non arriva che a mandare il figlio suo, e questi soffre quel che ha sofferto»56. Origene gli obietta che i Giudei però hanno subito una dura punizione (con la distruzione di Gerusalemme) per aver ucciso Gesù e che essi non hanno sofferto tali cose per alcun’altra collera, se non per quella che hanno accumulato da se stessi, essendo giunto su di loro il giudizio di Dio (τῆς τοῦ θεοῦ κατ’ἀυτῶν κρίσεως) per la volontà di Dio: giudizio che vien chiamato “ira” secondo una certa tradizione ebraica57.

Che il tema della collera di Dio nella visione di Origene sia essenzialmente inerente alla più ampia prospettiva della cura divina per il mondo e, in modo specialissimo, per l’uomo, lo si capisce chiaramente dal fatto che subito dopo egli dà il via ad una puntigliosa e sistematica confutazione (4,74-80) della tesi di Celso volta a negare «che Dio ha compiuto ogni cosa per l’uomo». Alla posizione di Celso, che Origene definisce epicurea, egli contrappone una sorta di asse stoico-cristiano basato sull’idea di Provvidenza, in cui si saldano, come un tutt’uno, da un lato l’affermazione dell’esistenza di un disegno razionale della creazione contro la casualità di un atomismo meccanicistico58; dall’altro quella di un intervento attivo di Dio volto a curare la condizione dell’uomo operando una sorta di manutenzione dell’ordine creato per fare in modo che funzioni come Lui lo ha pensato.  Tertulliano, Adv. Marc. II, 27,7.  Origene, CCels. 4,72. 55   Vedi anche Comm. In Iohan. 6,58,300: «è possibile che siamo corretti da Dio talvolta anche con la sua ira e ammaestrati con il suo furore (egli infatti a causa del suo immenso amore per gli uomini [τὸ εἰς ὑπερβολὴν φιλάνθρωπον] non lascia nessuno privo della sua correzione e del suo ammaestramento)». 56  Origene, CCels. 4,73. 57   Ibid. 58   Ivi, 4,75: «ci dica dunque Celso senza ambagi che la diversità delle cose germogliate dalla terra non è opera della provvidenza, ma che invece una combinazione fortuita di atomi ha creato tante qualità ecc.». 53 54

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Nel piano divino, l’uomo è il centro, o se si vuole il culmine, di tutta la creazione: così a 4,76, all’obiezione di Celso che Dio ha creato molti animali più forti dell’uomo, Origene risponde con il classico argomento che l’indigenza e la debolezza della condizione umana sono state volute da Dio proprio come stimolo benefico per stimolare l’intelligenza e l’industria dell’uomo59, ma aggiunge che all’inizio della storia del mondo, quando la natura umana non aveva ancora sviluppato le arti che poi le avrebbero permesso di imporsi sulle belve selvagge, Dio intervenne maggiormente nella vita degli uomini per aiutarli a sopravvivere60. Si sviluppa, a questo punto, una dura polemica contro quello che proporrei di chiamare l’“animalismo” di Celso61, cioè la sua convinzione che «l’uomo di fronte a Dio non è affatto diverso dalle formiche o dalle api» (4,81), anzi, a ben vedere, gli animali (o almeno alcuni tra essi) sono più vicini degli uomini alla divinità. Di formiche e di api si parla a lungo, in questa parte del Contra Celsum (4,81-85), e Origene ipotizza, fra l’altro, che Celso in effetti ritenga questi animali dotati di un’anima non diversa da quella dell’uomo (4,83) e cita un passo da cui si evince l’idea del filosofo pagano che vi sia nelle formiche «pienezza di ragione (λόγου συμπλήρωσις)» poiché possiedono un vero e proprio linguaggio (4,84). Aquile e serpenti, per Celso, sono pari se non superiori agli uomini in quella che egli chiama «scienza magica (γοητεία)», cioè nella conoscenza di certi rimedi naturali (4,86); gli uccelli poi, secondo lui hanno una qualche nozione della divinità poiché attraverso di essi giungono agli uomini previsioni ed auspicii soprannaturali e gli elefanti sono fedeli ai giuramenti e devoti alla divinità, mentre le cicogne e la fenice eccellono nella pietà filiale e così via: su tali questioni Origene si sofferma a lungo (4,88-98), con una dettagliata trattazione tutta volta a controbattere l’opinione di Celso che Dio non si occupi in modo particolare dell’uomo ma esercita la sua cura nei riguardi di tutto l’universo in modo uguale, ed anzi «gli animali privi di ragione non soltanto sono più sapienti della natura umana, ma persino più cari a Dio» (4,97)62. Cura che, del resto, nella concezione di Celso appare molto generica e, per così dire, “all’ingrosso”: diversamente dal Dio della Bibbia, che guarda, ama e approva, una per una, tutte le opere della sua creazione, il dio di Celso «si prende cura dell’insieme (καὶ μέλει τῷ θεῷ τοῦ ὅλου) e questo la provvidenza non lo abbandona mai» (4,99) così che il mondo non si deteriora mai e non c’è alcun bisogno che Dio di tanto in tanto   Cfr. Platone, Protagora 320a-322d; Virgilio, Georg. 1, 121 ss.  Origene, CCels. 4,80. 61   L’etichetta è, ovviamente, anacronistica e un po’ provocatoria, ma mi permetto di farne uso perché suggerisce, come vedremo, una sorta di sotterranea correlazione, un nesso sorprendente e attualissimo tra due dogmi del sentire comune contemporaneo: quello del rifiuto del concetto stesso di ira divina e quello dell’esaltazione acritica degli animali a preferenza dell’uomo. 62   Un’illustrazione dei contenuti di questa sezione del Contro Celso si può trovare in Bacci 2007, pp. 109-126, che peraltro nega vi sia, da parte di Celso, un particolare interesse o una simpatia per gli animali, chiamati in causa solo in funzione della sua polemica contro l’antropocentrismo. 59 60

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lo richiami a sé. Quindi Dio non si adira né a causa degli uomini, come neppure delle scimmie e dei topi!63 Su questo la polemica di Origene si fa acuminata, con una rivendicazione della “eccezione uomo” che ci pare estremamente significativa. Infatti, dopo aver puntualizzato che a Dio sta a cuore non solo il mondo nel suo insieme come sostiene Celso, ma «ciascun essere razionale in particolare»64, e che, di conseguenza, poiché le singole parti del mondo possono degenerare a causa degli errori degli esseri razionali, la provvidenza divina bene spesso interviene per riparare tali guasti, egli afferma implicitamente (ma a mio avviso in modo inequivocabile) che l’ira di Dio è, in un certo senso, il “privilegio” dell’uomo: proprio il fatto che Dio si adira con l’uomo e non con gli animali dimostra l’irriducibile diversità di condizione e la superiore dignità del primo rispetto ai secondi. Dio inoltre non si muove a sdegno (ὀργίζεται), né per le scimmie, né per i topi; ma è vero invece che egli impone agli uomini un giudizio e una punizione, quando essi hanno trasgredito le tendenze naturali. Egli formula minacce a costoro per mezzo dei profeti, e per mezzo del Salvatore giunto a noi per il bene di tutta l’umanità, affinché quelli che intendono le minacce si convertano, e quelli invece che trascurano le esortazioni alla conversioni paghino le pene commisurate all’errore. Ed è giusto che Dio, nella sua volontà di provvedere al bene dell’universo intero, infligga queste pene agli uomini che hanno bisogno di un trattamento e di una correzione di tal natura e di tale gravità65.

Non penso ci sia bisogno di spendere molte parole per mostrare la straordinaria attualità di un passo come questo: anche ammesso che tutte le altre ragioni per rivendicare una superiorità dell’uomo sugli animali vengano smantellate dalla filosofia e dalla scienza (esattamente come oggi una certa scienza e una certa filosofia tendono a fare), resta comunque all’uomo il “privilegio” di essere l’unica creatura terrestre capace di suscitare, nel drammatico incontro tra due libertà, l’ira di Dio come risposta dell’amore ferito dalla ribellione dell’uomo. L’ira divina appare così, para Origene, Contra Celsum, 4,99: οὐδ᾽ἀνθρώπων ἕνεκα ὀργίζεται, ὥσπερ οὐδὲ πιθήκων οὐδὲ μυῶν.   Ibid.: Μέλει δὲ τῷ θεῷ οὐχ, ὡς Κέλσος οἴεται, μόνου τοῦ ὅλου ἀλλὰ παρὰ τὸ ὅλον ἐξαιρέτως παντὸς λογικοῦ. 65   Ibid. Che la collera divina sia, paradossalmente, l’espressione più intensa e appassionata del suo amore per l’uomo peccatore lo ribadisce, a contrario, l’affermazione che il suo venir meno rappresenta il segno della fine del rapporto tra Dio e l’uomo a causa del rifiuto definitivo della salvezza da parte di quest’ultimo. Il peccatore incallito – come l’animale, anche se per ragioni diverse – è fuori dall’orizzonte dell’amorosa collera di Dio. In hom. Ex. 8,5, riferendosi all’immagine biblica della donna che ha tradito il marito fino al punto che questi proclama: «per questo la mia gelosia si allontanerà da te e non mi adirerò più con te» (Ez. 16,42), Origene commenta: Vide misericordiam et pietatem boni Dei. Quando vultu misereri, indignari se dicit et irasci […] miserantis Dei vox est, ubi irascitur, ubi zelatur, ubi adhibet dolores et verbera. […] Vis autem audire indignantis Dei terribilem vocem? […] [segue la citazione di Os. 4,14] Hoc est terribile, hoc extremum, cum iam non corripimur pro peccatis, cum iam non corrigimur delinquentes. Tunc enim cum excesserimus peccandi modum, Deus zelans avertit a nobis zelum suum […]. Cfr. Chrétien 1985, pp. 115-116. 63 64

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dossalmente, come lo stigma della dignità della creatura razionale e, di converso, la “pacifica” conformità degli animali al progetto divino, che li esclude dalla collera del creatore, ne segna anche il limite ontologico. Il nesso tra questi due temi – la difesa dell’ira di Dio e la critica all’ideologia dell’animalismo – è presente anche nel De ira di Lattanzio, che sembra riprendere, sia pure in modo leggermente diverso, lo spunto origeniano ora accennato. Nel capitolo 7 del suo trattatello, il retore africano dice infatti che nessun filosofo ha mai osato sostenere la tesi che tra l’uomo e gli animali non vi sia alcuna differenza (7,1), ma che certi imperiti atque ipsis pecudibus simillimi lo fanno per potersi meglio abbandonare agli istinti carnali. Ora, è interessante notare come, nel confutare tale opinione, Lattanzio eviti di insistere troppo su tutti gli altri attributi che potrebbero differenziare l’uomo dagli animali perché è disposto ad ammettere che anche gli animali ne siano in certa misura dotati66, e riconosca invece come unico fattore assolutamente discriminante il “senso religioso”: sulla scorta di Cicerone, leg. 1,24 (nullum est animal praeter hominem quod habeat notitiam aliquam dei), è molto deciso nell’affermare che l’uomo è «il solo che è stato dotato di sapienza, affinché lui solo capisca la religione, e questa è la principale se non l’unica differenza tra l’uomo e gli animali»67, per poi ribadire, a conclusione del ragionamento, che «se anche negli animali si coglie qualche somiglianza rispetto a tutte queste qualità che vengono solitamente attribuite all’uomo, appare chiaro che la religione è la sola cosa di cui negli animali non è possibile trovare alcuna traccia e nemmeno una vaga idea»68. Ma la religio – prosegue subito dopo Lattanzio – per esistere implica necessariamente il culto, cioè una relazione dell’uomo con Dio basata sulla giustizia, e chi non pratica alcun culto si aliena dalla condizione umana e vive, appunto, una vita da bestia69. Quale relazione si può mai avere con una divinità come quella a cui pensa Epicuro? In una concezione del genere, il culto è destituito di ogni senso: come può infatti l’uomo rapportarsi con giustizia con un dio che non si prende cura di nulla e a cui il mondo è totalmente indifferente? La religio non può mantenersi senza il timore (8,7) e il timore non si dà quando nessuno si adira (metus autem non est ubi nullus irascitur), perciò se si nega a Dio l’ira si distrugge la religione e si riduce la vita umana all’indifferenza della condizione animale70.  Lattanzio, De ira, 7,7: Nam cetera quae videntur esse homini propria, etsi non sunt talia in mutis, tamen similia videri possunt. Nel seguito (7,7-11) dettaglia questa affermazione con riferimento al linguaggio, al riso, al ragionamento, alla capacità di prevedere il futuro. 67   Ivi, 7,6: solus enim sapientia instructus est ut religionem solus intellegat, et haec est hominis atque mutorum vel praecipua vel sola distantia. 68   Ivi, 7,12: Quod si horum omnium quae ascribi homini solent in mutis quoque deprehenditur similitudo, apparet solam esse religionem cuius in mutis nec vestigium aliquod nec ulla suspicio inveniri potest. 69   Ivi, 7,13: cultus […] quem qui non suscipit, hic a natura hominis alienus vita pecudum sub humana specie vivit. 70   Ivi, 8,8: Sive igitur gratiam deo sive iram sive utrumque detraxeris, religionem tolli necesse est, sine qua vita hominum stultitia scelere inmanitate conpletur. 66

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Tornando ancora una volta ad Origene, il senso profondo di questo “privilegio della collera”, se così possiamo dire, di cui l’uomo, nella sua dignità incomparabile con quella degli animali, è fatto oggetto dalla cura di Dio, ci appare più chiaro se teniamo presente anche questo passo dell’Omelia XX su Geremia, in cui viene messo a fuoco il nesso tra ira e logos in Dio: La sua ira non è senza frutto ma, come la sua parola educa, così anche la sua ira educa (ὡς ὁ λόγος αὐτοῦ παιδεύει, οὕτως καὶ ἡ ὀργὴ αὐτοῦ παιδεύει): quelli che non sono stati educati dalla parola li educa con l’ira, ed è necessario che Dio si serva di quella che viene chiamata ira (τῇ καλουμένῃ ὀργῇ) come si serve della parola [propriamente] detta (τῷ ὀνομαζομένῳ λόγῳ). E la sua parola non è come la parola di tutti: di nessuno, infatti, la parola è “vivente”; di nessuno, la parola è “Dio”; di nessuno, la parola “in principio era presso” colui del quale era la parola […] Così anche l’ira di Dio è un’ira [che non assomiglia all’ira] di nessuno che sia in collera, e come la parola di Dio ha qualcosa di diverso (ξένον) rispetto alla parola di chiunque altro […], così quella che viene chiamata la sua collera, poiché per una volta viene applicata a Dio, ha qualcosa di diverso e di estraneo (ἀλλότριον) rispetto a ogni [tipo] di collera di qualcuno che si adira, e così anche la sua animosità (θυμός) ha qualcosa di proprio […]71.

L’ira di Dio verso l’uomo non è rottura del rapporto, interruzione del dialogo, silenzio che prende il posto della parola. Al contrario, essa è intimamente unita alla parola con cui Dio si rivela, in un certo senso “è” parola essa stessa. Come scrive Jean-Louis Chrétien, «la violence de la colère divine est en définitive une violence de la parole. Mais elle est aussi une violence pour la parole», perché non mira a ridurre al silenzio colui che colpisce, ma piuttosto a «briser le silence de son péché, d’ouvrir brutalement l’espace d’une réponse possible»72. Ma la parola di Dio, ci avverte Origene, non è come la parola di chiunque altro, perché è una persona: è il Logos, il Figlio generato eternamente dal Padre e perciò la sua comunicazione all’uomo non è soltanto la rivelazione di una conoscenza su Dio o di una volontà di Dio ma, molto più profondamente, dona all’uomo la partecipazione alla vita intradivina. Rivolgendo all’uomo la sua Parola, Dio lo fa entrare nel dialogo d’amore che eternamente si svolge tra il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Qui Origene, per un attimo, sembra voler spingere l’analogia tra λόγος e ὀργὴ fino all’estremo limite, perché afferma che come la parola di Dio è diversa da ogni altra parola così anche la sua ira è qualcosa di completamente “altro” rispetto a ogni forma di passione umana. C’è però a questo punto una essenziale differenza, che non consente di andare oltre. Per usare ancora le parole di J.-L. Chrétien: Tout ce qui est en Dieu est Dieu, et dès l’instant où l’on est fondé à parler d’amour ou de colère de Dieu, il faut dire que Dieu est colère comme il est amour. Mais l’a Origene, Hom. Ier. 20,1 (GCS 238, pp. 250-252).   Chrétien 1985, p. 106. Tutte le pp. 105-127 di questo libro, dedicate al tema della “violenza dell’amore” in Origene, sono da leggere attentamente. 71 72

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mour a en Dieu une réalité personelle que n’a pas la colère. L’essentielle dissymétrie de la colère et de l’amour doit être établie à partir de la vie divine elle-même. […] Il y a un amour intra-divin, il n’y a pas de colère intra-divine73.

L’ira divina, come già abbiamo osservato, non appartiene all’ordine della “teologia”, bensì a quello dell’economia divina, ma su questo piano il suo essenziale nesso con il Logos dà pienamente ragione del fatto che, proprio come la parola, anch’essa è riservata alle creature dotate di logos. Chi altri potrebbe intenderne il significato? 4. Contro il Dio “solo buono” di Marcione, Tertulliano rivendica il valore essenziale dell’ira di Dio Sconveniente e vergognosa per i pagani colti e “filosofi”, la nozione di ira divina suscita scandalo anche all’interno della comunità cristiana. Essa viene espunta dal cristianesimo di Marcione, che contrappone il dio iracondo dell’Antico Testamento al Dio “tutto e solo buono” di Gesù Cristo, il quale non è certo indifferente e insensibile alle sorti umane come lo erano gli dèi di Epicuro, ma è assolutamente esente dalla collera. Considerando come la sensibilità religiosa più elevata sia, oggi come allora, a disagio con l’idea biblica dell’ira divina, saremmo forse portati a chiederci se proprio la propaganda in favore di un Dio tutto e solo buono non sia stata uno dei fattori del successo del marcionismo74. In ogni caso, questo viene sentito, dalla coscienza della “grande chiesa” (o perlomeno della sua gerarchia) come un punto delicatissimo del contrasto con il marcionismo, sul quale è urgente intervenire per evitare confusioni. Già Ireneo, pur senza approfondire specificamente il tema dell’ira di Dio, esprime una posizione che coglie perfettamente qual è il nocciolo di tutta la questione: il Dio solo-buono di Marcione (ma più in generale – potremmo aggiungere – il Dio superiore a tutto e distaccato da tutto degli gnostici) è incapace di relazione con l’uomo e con il mondo; è un Dio che non fa nulla, e che dunque non “è” nulla75.   Ivi, pp. 102-103.   Un Dio solo buono, che soffre per i mali dell’umanità ma sembra impotente ad opporvisi, è ormai l’immagine più familiare a molti credenti del nostro tempo (“dopo Auschwitz”, come si usa dire). Il tema della sofferenza divina, come nota acutamente Canobbio 2005, pp. 15-16, è diventato ormai un luogo comune della “nuova ortodossia” teologica contemporanea, obliterando quasi completamente il vecchio paradigma dell’impassibilità divina. Tuttavia, con assai minore coerenza rispetto ai Padri, per noi quello della collera divina rimane un tabù. Dio può soffrire, ma non andare in collera: può, anzi deve patire per i mali del mondo, ma non adirarsi contro coloro che li provocano… In questo senso possiamo sostenere che la ripresa del tema dell’ira divina vale anche come antidoto a quell’idea riduttiva del “Dio debole” contro cui Canobbio nel suo saggio prende posizione, rivendicando il fatto che Dio salva l’uomo solo se è più forte della sua sofferenza. 75   Cfr. Ireneo, Adv. Haer. III, 24,2-25,3. Sul fatto che la teologia di Marcione privi anche il “suo” Dio della vera bontà, perché rende impossibile la relazione con la realtà creata, vedi IV, 33,2. 73 74

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Essi hanno sognato al di sopra di questo [scil. il Dio creatore] un Dio che non esiste per dar l’impressione di aver trovato un grande Dio che nessuno può conoscere, che non comunica con il genere umano e non amministra le cose della terra (quem nemo possit cognoscere humano generi communicantem nec terrena administrantem): evidentemente essi hanno scoperto il Dio di Epicuro, che non serve a niente né per sé né per gli altri (neque sibi neque aliis aliquid praestantem), cioè che non ha cura di nessuna cosa (id est, nullius providentiam habentem). […] E ancora, per togliere al Padre il potere di rimproverare e di giudicare (ut increpativum aufferent a Patre, et judiciale), considerandolo indegno di Dio che non si adira ed è buono (et sine iracundia et bonum), affermano che uno giudica e l’altro salva, senza accorgersi di togliere a tutti e due intelligenza e giustizia. […] Dunque Marcione, che divide Dio in due, e dice che l’uno è buono e l’altro capace di giudicare (alterum judicialem dicens), sopprime Dio da una parte e dall’altra (ex utrisque interimit Deum). Infatti il Dio che giudica, se non è anche buono, non è Dio, perché non può essere Dio colui al quale manca la bontà; e viceversa il Dio buono, se non è anche capace di giudicare, subirà la stessa sorte del primo: anche a lui sarà sottratta la possibilità di essere Dio76. […]

Sarà l’ardens vir Tertulliano – un autore quanto mai sensibile, anche per inclinazione caratteriale, alle diverse valenze che il tema della collera può assumere sia nel campo dell’etica che in quello della retorica77 – a concentrare l’attenzione sull’ira di Dio, dandole un ruolo centrale nel contesto della sua polemica antimarcionita, che è, come è noto, una delle prime imprese a cui egli si dedica dopo la sua conversione, sentendone evidentemente tutta l’urgenza. Il frutto più importante di questo impegno è il trattato Adversus Marcionem, che è stato verosimilmente redatto nella sua definitiva versione in cinque libri nel periodo che va dal 207/208 al 211/21278. Vediamo, molto schematicamente, i punti più notevoli della sua argomentazione, con riferimento al tema che ci interessa e limitatamente ai primi due libri. Anzitutto Tertulliano individua proprio in questa “scoperta” della pura bontà di Cristo la genesi dell’intero sistema di Marcione, il quale, credendo di trovare nel Cristo un’altra economia, di sola bontà, completamente diversa da quella del Creatore, che rivendica per sé anche i mali (cfr. Is 45,7: Ego sum, qui condo mala), parte da questa constatazione per concludere che allora quella di Cristo è una divinità nuova, che non ha nulla a che fare con il dio dell’Antico Testamento79.  Ireneo, Adv. Haer. III, 24,2; 25,2; 25,3.   Si veda per questo Fredouille 1972, pp. 159-170. Sul tema della collera si misura tutta la distanza tra una cultura come quella classica di Cicerone, che ammette la collera solo come finzione retorica dell’oratore finalizzata a movere più efficacemente il pubblico, e quella cristiana di Tertulliano, che rifiuta la finzione, ma ammette e anzi valorizza la “giusta collera”, cioè l’indignazione provocata dalla menzogna e dal male. 78   Cfr. l’introduzione di Braun 1990, pp. 11-19. 79  Tertulliano, Adv. Marc. I, 2,3: Et ita in Christo quasi aliam inveniens dispositionem solius et purae benignitatis, facile novam et hospitam argumentatus est divinitatem in Christo suo […]. 76 77

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Rispetto a questo assunto, è alla presunta bontà del dio di Marcione che Tertulliano rivolge la sua prima critica, dimostrandone l’inconsistenza sotto il profilo della mancata eternità (perché si è manifestata così tardi mentre prima è rimasta tanto a lungo inoperosa?) e della razionalità (perché si indirizza ad un uomo che è totalmente estraneo a quello stesso dio?)80. Non essendoci relazione ontologica tra il Dio nuovo-e-buono di Marcione e l’uomo, che è stato creato dall’altro Dio e quindi non gli appartiene, la radicale estraneità che ne deriva rende impossibile un’autentica relazione d’amore. Né giova obiettare che l’amore di Dio si rivela proprio in questo, che si dirige verso i più lontani: Tertulliano replica che questa bontà verso ciò che è lontano non può darsi se non come sviluppo e riverbero della prima bontà, quella per ciò che è prossimo: Perciò, siccome la prima razionalità della bontà è il mostrarsi, come vuole la giustizia, in ciò che le compete, la seconda invece è il mostrarsi in quello che non le compete, come vuole una giustizia superiore a quella degli Scribi e dei Farisei, come si può assegnare il secondo grado di razionalità a quella bontà cui manca il primo, perché non possiede un suo uomo e per questo è misera? Se è misera, in quanto non possiede ciò che è suo, come può sovrabbondare su un uomo a lei estraneo?81

Detto ancor più chiaramente: se il dio di Marcione non ha nessuno di proprio da amare, come potrà amare ciò che non gli è proprio? Il dio di Marcione, continua Tertulliano, quando si rivela entra come un estraneo in un mondo che non gli appartiene (deus Marcionis, inrumpens in alienum mundum …82). È tempo di prendere di petto la questione se la sola bontà caratterizzi Dio. Ormai conviene quindi discutere anche questo, se Dio debba essere considerato unicamente in base alla sua bontà, negati tutti gli accidenti dei sentimenti e degli affetti, che i Marcioniti tolgono al loro dio e rigettano sul creatore, mentre noi li riconosciamo nel Creatore come degni di Dio83.

In realtà, prosegue Tertulliano, Marcione ha dato il nome di «Cristo» a un dio della scuola di Epicuro, e perché non desse fastidio a nessuno gli ha tolto severità e forza   Ivi, I, 23,2: Nego rationalem bonitatem dei Marcionis iam hoc primo, quod in salutem processerit hominis alieni. 81   Ivi, I, 23,5: Igitur cum prima bonitatis ratio sit in rem suam exhiberi ex iustitia, secunda autem in alienam ex redundantia iustitiae super scribarum et Pharisaeorum, quale est secundam ei rationem, cui deficit prima, non habenti proprium hominem ac per hoc quoque exiguae? 82   Ivi, I, 23,8. Questo in realtà è l’ostacolo in cui ogni monoteismo si imbatte quando vuole pensare un “vero” amore di Dio per ciò che non è dio: il dio solitario, le grand celibataire dei monoteismi assoluti come può farsi una famiglia e chiamarsi veramente Padre degli uomini? Solo l’idea trinitaria di un Dio che è da sempre Padre (e Figlio e Amore dei due) permette di uscire da questa aporia. 83  Ivi, I, 25,2: Iam enim et hoc discuti par est, an deus de sola bonitate censendus sit, negatis ceteris adpendicibus sensibus et adfectibus quos Marcionitae quidem a deo suo abigunt in Creatorem, nos vero et agnoscimus in Creatore ut deo dignos. 80

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di giudizio e se lo è immaginato «immobile e torpido (immobilem et stupentem)»84. Ma questo dio non ha nulla a che fare con Cristo, molesto et Iudaeis per doctrinam et sibi per crucem, secondo la forte espressione tertullianea85. Se invece si ammette che anche il dio di Marcione dei moti dell’animo li debba avere – e non può non averli, per il fatto stesso che ha voluto salvare l’uomo, e non si dà volontà senza desiderio e senza cura (I, 25,4-5) – dato che poi nel suo entrare in rapporto con l’uomo deve per forza contendere con un avversario, il dio creatore, ecco che ne consegue necessariamente una rivalità (aemulatio) e questa porta con sé le affezioni correlate, la prima delle quali è l’ira86. A questo punto Tertulliano spinge più a fondo il suo attacco e arriva ad affermare che un dio solitariae bonitatis, di sola bontà, è un’assurda perversione (I, 26,1). Se non contende e non si adira, se non si oppone al male, non ha più senso nulla: i comandamenti, le norme morali … tutto è uguale, tutto è permesso, perché anche se un dio del genere proibisce qualcosa, tacite permissum est quod sine ultione prohibetur87. Chi non è offeso se viene fatto ciò che ha proibito è stupidissimus88. Ma se c’è l’offesa, deve esserci anche l’ira. Né vale la tesi secondo la quale Dio vuole sì certe cose (o non le vuole), ma non per questo sarebbe “mosso” dal fatto che la sua volontà non venga eseguita. Infatti – replica il Nostro – già l’avere voluto o non voluto qualcosa è un moto dell’animo: perché mai il principio dell’immutabilità di Dio dovrebbe valere solo quando si tratta di giudicare e punire la disubbidienza?89 Ammettiamo pure che, come forse qualche difensore del dio solo buono di Marcione potrebbe sostenere, che Dio rifiuti bensì il male e lo condanni con i suoi giudizi, ma perdoni e assolva senza punire (dimittit autem non vindicando et absolvit non puniendo) i peccatori. Qui la retorica tertullianea si scatena in una vituperatio di questa caricatura di Dio: O Dio disonesto verso la verità, ingannatore della sua stessa decisione! Ha paura di condannare quello che condanna, ha paura di odiare quello che non ama; accetta,

 Ivi, I, 25,3: aliquem de Epicuri schola deum adfectavit Christi nomine titulare, ut quod beatum et incorruptibile sit neque sibi neque alii molestias praestet (hanc enim sententiam ruminans Marcion removit ab illo severitates et iudiciarias vires) […]. 85   Ibid. Sulla precisa lezione di questo passo si veda però la nota di Braun 1990 a p. 278 della edizione sopra citata: «per crucem» è congetturale, al posto di «per Iesum» della tradizione manoscritta, che è stato mantenuto da alcuni editori e variamente corretto da altri. 86   Ivi, I, 25,6: Proinde autem aemulationi occurrant necesse est officiales suae in ea quae aemulatur: ira, discordia, odium, dedignatio, indignatio, bilis, nolentia, offensa. 87   Ivi, I, 26,3. 88   Ibid.: Stupidissimus ergo qui non offenditur facto quod non amat fieri, quando offensa comes sit frustratae voluntatis. 89   Ivi, I, 26,4-5. 84

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una volta compiuto, quello che non permette che si faccia; preferisce indicare quello che non vuole piuttosto che dimostrare di non volerlo90.

La bonitas imaginaria di questo dio pusillanime, che non si azzarda a punire chi gli disobbedisce, porta a riflettere sul rapporto fra timore e amore di Dio. Tertulliano dice che un dio come quello di Marcione gli uomini possono onorarlo oppure no, a loro piacimento, dato che comunque non vuole essere temuto91. La tesi marcionita che si deve temere un dio cattivo, ma un dio buono lo si deve solo amare, è insensata, perché in realtà l’amore è inseparabile dal timore: come si può amare veramente, infatti, se non si ha il timore di non amare (I, 27,3: Aut quomodo diliges, nisi timeas non diligere?). Prova ne sia che un padre e un maestro si amano e si temono: sono invece i falsi maestri, i seduttori e i ciarlatani che si “amano” senza provarne timore alcuno92. È un’osservazione molto fine, che ci rimanda alle riflessioni sulla vacuità delle relazioni “irresponsabili”, che lo stesso Tertulliano ha introdotto nel pensiero cristiano affrontando la questione degli spettacoli e che saranno poi magistralmente approfondite da Agostino93. Se si ama l’altro senza alcun senso di responsabilità (e quindi senza il timore di non corrispondere adeguatamente alle esigenze poste dal rapporto con lui) – come tipicamente avviene nella relazione tra lo spettatore e il divo del teatro o del circo – lo si ama «non come se stesso, ma come un giumento, o come i bagni o come un uccellino variopinto e cinguettante»94, cioè come un trastullo di cui si compiace. Senza il timore, anche la religio diviene un’attrazione per anime pie. Ma in una relazione siffatta, che cosa mai avrebbe il potere di impedirci di fare il male e di abbandonarci ad altri piaceri, come appunto quelli degli spettacoli95, o addirittura di rinnegare la fede sotto la persecuzione, una volta che è stato tolto il timore di offendere Dio? È stato più volte osservato che, nella concezione di Tertulliano, i fattori costitutivi del rapporto tra l’uomo e Dio sembrano essere, dalla parte dell’uomo, paura e interesse piuttosto che l’amore96. Questo può forse scandalizzarci; possiamo vedere la posizione di Tertulliano come una riduzione del vero cristianesimo, una 90   Ivi, I, 27,1: O deum veritatis praevaricatorem, sententiae suae circumscriptorem! Timet damnare quod damnat, timet odisse quod non amat, factum sinit quod fieri non sinit, mavult ostendere quid nolit quam probare. Hoc erit bonitas imaginaria […]. 91   Ivi, I, 27,2: In vobis est si velitis illi obsequium subsignare, ut honorem deo habuisse videamini; timorem enim non vult. 92   Ivi, I, 27,4: Sic denique plagiarii diliguntur, non etiam timentur. Non enim timebitur nisi iusta et ordinata dominatio. Diligi autem potest etiam adultera; sollicitatione enim constat, non auctoritate, et adulatione, non potestate. 93  Cfr. Lugaresi 2008, pp. 377-427 (per Tertulliano) e 535-694 (per Agostino). 94   Così si esprime Agostino, De vera religione, 46, 87. 95   Non è dunque casuale che qui compaia, come esempio di cattiva condotta, proprio il riferimento alle voluptates spettacolari: Quid non frequentas tam sollemnes voluptates circi furentis et caveae saevientis et scaenae lascivientis? (Adv. Marc. I, 27,5). 96  Cfr. Rambaux 1979, capitoli I-II, pp. 35-127.

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paradossale omologazione dell’etica cristiana ai principi di una filosofia sin troppo umana nel suo utilitarismo; sino ad arrivare a dire, con Rambaux, che «s’il se limite à jouer sur la crainte et sur l’intéret, c’est qu’il n’a pas vraiment découvert lui-même l’amour et sa force»97. A parte l’opinabilità di tale giudizio, non dovrebbe comunque sfuggirci la concretezza dell’approccio di Tertulliano, che concepisce in modo estremamente pragmatico e stringente la relazione tra Dio e l’uomo e, chiamando in causa direttamente due fattori determinanti del comportamento umano come la paura e l’interesse, punta a sottrarla in questo modo al rischio di ogni sorta di astratta idealizzazione o di riduzione ad una forma di volontarismo sentimentale. Nel secondo libro, dopo aver ribadito la bontà del Dio creatore e la sua innocenza rispetto alla caduta di Adamo e a tutti i mali successivamente commessi dagli uomini, Tertulliano ne esalta la giustizia, che si manifesta nella severità dei suoi giudizi: quella severitas che i Marcioniti scambiano per saevitia, crudeltà. Anche per lui, come per Origene, la collera “appartiene” a Dio non per essenza (secundum naturam), come la bontà, ma secundum causam, cioè in rapporto alla sua azione salvifica nel mondo. Fino al peccato dell’uomo, Dio è esclusivamente buono; dopo il peccato originale diviene anche un giudice severo, che colpisce con durezza i peccatori. Perciò prima viene la bontà di Dio, secondo la sua natura, poi la sua severità, secondo la causa. Quella è innata, questa accidentale, quella è propria, questa adattata, quella è spontanea, questa richiesta. Né la natura divina, infatti, avrebbe dovuto trattenere la sua bontà senza che agisse, né un motivo di punizione sarebbe dovuto sfuggire alla severità di Dio, tenuta nascosta per finzione. Dio esercitò la prima per sé, la seconda per quel motivo concreto98.

Questo però non significa affatto che bontà e giustizia possano essere separate – come appunto accade nell’errore di Marcione: abbiamo già visto sopra come il nesso essenziale tra bontà e giustizia operi sin dall’inizio della creazione (a primordio denique Creator tam bonus quam et iustus) e come sia sbagliato, per Tertulliano, pensare che Dio diventi giudice solo in funzione del male, quando invece ogni sua parola creatrice è tale in quanto è anche un giudizio di approvazione di ciò che fa esistere. Ciò che cambia è solo che, dopo l’irruzione del male nel mondo in seguito al peccato, la giustizia deve dirigere la bontà divina ad agire in contrasto con il male che le si oppone99. Da allora in poi l’opera della giustizia è, se così pos  Ivi, pp. 126-127.  Tertulliano, Adv. Marc. II, 11,1.2: Igitur usque ad delictum hominis Deus a primordio tantum bonus, exinde iudex et severus et, quod Marcionitae volunt, saevus […]. Ita prior bonitas Dei secundum naturam, severitas posterior secundum causam. Illa ingenita, haec accidens; illa propria, haec accomodata; illa edita, haec adhibita. Nec natura enim inoperatam debuit continuisse bonitatem nec causa dissimulatam evasisse severitatem. Alteram sibi, alteram rei Deus praestit. 99   Ivi, II, 13,1: ut malum postea erupit atque inde iam coepit bonitas Dei cum adversario agere, aliud quoque negotium eadem illa iustitia Dei nacta est, iam secundum adversationem dirigendae bonitatis […]. 97 98

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siamo dire, la “gestione della bontà” (procuratio bonitatis) nelle forme appropriate alle circostanze, comprese quelle del giudizio, della condanna e della punizione che sembra crudele100. Proprio perché il bene è sempre in lotta con il male, il timore (dell’ira di Dio) è necessario all’uomo, che altrimenti, se non fosse sostenuto dall’aiuto che gli viene dal timore, nella sua debolezza non avrebbe la forza di fare il bene. Quella che Marcione male interpreta come una contraddizione tra la giustizia del Dio dell’Antico Testamento che castiga duramente gli uomini e la bontà del Dio di Gesù Cristo che tutto perdona è invece un’ “ambivalenza” dell’unico Dio: In ogni cosa, è lo stesso identico Dio che ti viene incontro: colpendo, ma anche guarendo, mortificando ma anche vivificando, umiliando ma anche esaltando, producendo i mali ma anche facendo la pace, tanto per rispondere, anche su questo punto, agli eretici che dicono: «Ecco, lui stesso confessa di essere il creatore dei mali quando dice “Sono io che creo i mali” (Is 45,7)»101.

Marcione e i suoi seguaci non distinguono tra i due significati diversi della parola «male»: sofferenza e male morale (II, 14,2: mala dicuntur et delicta et supplicia) e prendo il versetto di Isaia come prova della “cattiveria” del Dio creatore. La corretta distinzione tra malum delicti e malum supplicii, cioè tra colpa e pena, permette invece di attribuire la prima al diavolo e riconoscere il giusto senso della rivendicazione divina di essere «l’autore dei mali». Si noti, inoltre, che la sequenza percutiens-sanans che Tertulliano qui impiega corrisponde all’esperienza esistenziale che l’uomo, nella condizione storica seguita al peccato originale, fa di essere colpito e poi, attraverso la sofferenza, condotto a guarigione da Dio; ma in prospettiva ontologica tale sequenza può anche essere invertita: Dio, infatti, come si è detto, fonda sin da principio l’ordine delle cose, il “sano assetto nel mondo”, e poi, quando lo vede adulterato dal peccato dell’uomo, lo percuote e lo abbatte (per restituirlo di nuovo all’uomo). C’è dunque una sorta di doppio registro nell’azione premurosa di Dio verso il mondo, per cui sostiene l’umanità (che senza di Lui non potrebbe reggersi neppure per un istante) e al tempo stesso la colpisce togliendole le (false) certezze su cui pretende di basare la propria sicurezza. Lo stesso Dio che dà fondamento alle cose umane è colui che continuamente le destabilizza. Se è buona la durezza (severitas) di Dio in quanto è parte integrante della sua giustizia, ne consegue che sono buoni anche i “sentimenti ausiliari”, se così possiamo definirli, di tale severità, cioè quelli che ne sono, in certo senso, gli strumenti   Ibid.: Ita omne hoc iustitiae opus procuratio bonitatis est: quod iudicando damnat, quod damnando punit, quod, ut dicitis, saevit […]. 101   Ivi, II, 14,1: Ad omnia tibi occurrit Deus idem: percutiens sed et sanans, mortificans sed et vivificans, humilians sed et sublimans, condens mala sed et pacem faciens, ut etiam et hic respondeam haereticis. “Ecce, enim inquiunt, ipse se conditorem profitetur malorum dicens: Ego sum qui condo mala”. 100

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attuativi: l’ira, l’ostilità e la crudeltà102.Questi sentimenti, d’altra parte, quando sono riferiti a Dio non vanno intesi a partire dall’esperienza umana, perché anche se i nomi restano gli stessi cambiano significato quando sono applicati alla sostanza divina. È assurdo, quindi, attribuire a Dio qualità umane, come se Dio fosse fatto a immagine dell’uomo e non l’uomo a immagine di Dio (II, 16,4-5). L’ira di Dio è dunque diversa dall’ira dell’uomo, anche se neppure la retorica tertullianea riesce ad essere molto efficace nel descrivere la fenomenologia di questa diversità103. Il fatto è che, vista dalla parte dell’uomo (che è l’unica parte da cui noi la possiamo vedere) la manifestazione della collera divina ha tutti i tratti di una “vera” collera (cioè di una collera umana) e la sofferenza che ci infligge è una “vera” sofferenza: il tentativo di immaginarla “dalla parte di Dio”, gettando per così dire uno sguardo nel profondo della vita intradivina, non può andare oltre il balbettio. Il punto forte di tutta l’argomentazione di Tertulliano contro Marcione è l’altro, che si basa appunto su qualcosa che l’uomo può percepire benissimo, dal suo punto di vista, perché attiene invece all’economia divina, ed è la coessenzialità della giustizia – di cui l’ira, come ormai dovrebbe essere chiaro, è parte integrante in funzione di strumento attuativo – e della bontà. Questo concetto viene ancora una volta ribadito dall’autore all’inizio del capitolo 17, prima di dedicare il resto del libro (II, 1826) all’esame di una serie di questioni relative alla legge mosaica e alla storia biblica su cui la polemica marcionita insisteva particolarmente. Una volta chiarite bene, queste cose mostrano che tutta l’economia del Dio giudice serve e, per parlare più degnamente, protegge la sua somma e universale bontà che i Marcioniti, avendola separata da ogni senso di giustizia e [posta] in una sua isolata purezza, non vogliono riconoscere in quello stesso Dio; [bontà] che fa piovere sui buoni e sui cattivi e fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti [cfr. Mt 5,45], cosa che non è assolutamente un altro dio a garantire104.

La bontà di Dio creatore, catholica et summa, che elargisce a tutti gli uomini i beni comuni – quella bontà che Marcione gli nega, cancellando per questo dal suo vangelo perfino la testimonianza di Cristo, ma che è indelebilmente impressa nell’ordine del mondo e omni a conscientia legitur – non significa però in alcun modo   Ivi, II, 16,1: Item cetera bona, per quae opus bonum currit bonae severitatis, sive ira, sive aemulatio, sive saevitia. Segue, nel testo, il paragone topico con il medico, a cui non si può rimproverare di incidere, amputare, bruciare il corpo del malato, poiché lo fa per il suo bene. 103   Ivi, II, 16,7: Irascetur enim, sed non , exacerbabitur, sed non periclitabitur, movebitur sed non evertetur. Omnia necesse est adhibeat propter omnia, tot sensus quot causas: et iram propter scelestos et bilem propter ingratos et aemulationem propter superbos […]. Quae omnia patitur suo more, quo eum pati condecet, propter quem homo eadem patitur, aeque suo more. 104   Ivi, II, 17,1: Haec itaque dispecta totum ordinem dei iudicis operarium et, ut dignius dixerim, protectorem catholicae et summae illius bonitatis ostendut, quam semotam a iudiciariis sensibus et in suo statu puram nolunt Marcionitae in eodem deo agnoscere, pluentem super bonos et malos et solem suum oriri facientem super iustos et iniustos, quod alius deus omnino non prestat. 102

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indifferenza o relativismo perché è sostenuta e protetta dal giudizio. Misericordia e giudizio, nella concezione cristiana, non si oppongono mai, ma sono le due facce della stessa realtà dell’amore divino105. Lo capirà anche Marcione, quando si renderà conto, alla fine dei suoi giorni, che la stessa pazienza di Dio nei suoi confronti “è” ciò che lo giudica: et erit haec ipsa patientia Creatoris in iudicium Marcionis …106. 5.  A mo’ di conclusione e come viatico per proseguire: tre voci contemporanee sull’ira di Dio e sul valore della crisi Quello che abbiamo presentato è soltanto l’abbozzo di un percorso di ricerca, da considerarsi ancora del tutto aperto e di cui vogliamo soltanto, a mo’ di conclusione, riprendere due snodi essenziali, lasciandoci provocare dalle parole di due grandi teologi del Novecento. Il primo spunto di ulteriore riflessione ci viene da un testo di Jean Daniélou, pervaso di linfa patristica come sempre le pagine di questo autore, che ci richiama al fatto che la “cosiddetta collera di Dio” (tanto per mutuare l’espressione origeniana), con le crisi che ne conseguono nella vita dell’uomo e del mondo, altro non è che l’espressione dell’intensità della sua forza vitale. Dio, il Vivente, “non sta a posto”, cioè non si lascia imprigionare e bloccare nel ruolo che la religione e la filosofia degli uomini gli vogliono assegnare: La collera non è dunque il risentimento di un amor proprio ferito. È il rifiuto di venire a patti con ciò che non può essere ammesso. Così, in Dio, essa è l’espressione della sua incompatibilità con il peccato. Ma bisogna forse andare più innanzi. Nel suo fondo stesso, il θυμός greco, l’ira latina non esprimono neppure, direttamente, una relazione a qualcosa. Essa è semplicemente l’espressione della vitalità di un essere, del modo in cui si afferma. […] Così, nella sua essenza più profonda, la collera di Dio è l’espressione dell’intensità dell’esistenza divina, della violenza irresistibile con la quale travolge tutto quanto si manifesta. In un mondo che continuamente si allontana di lui, Dio rivendica, talvolta, con violenza la sua esistenza. […] Lungi dal renderlo simile a noi, questa espressione ci ha fatto attingere in Lui ciò per cui egli è più diverso da noi, ossia, in sostanza, l’intensità della sua esistenza, senza proporzione con la nostra. Si può dire che nulla esprima meglio ciò della parola di Cristo a Santa Caterina da Siena: “Io sono colui che è, tu sei colei che non è”. Il che significa   La sintesi più efficace e pregnante di questo concetto mi pare sia quella che Tertulliano formula alla fine del II libro: utraque pars, bonitatis atque iustitiae, dignam plenitudinem divinitatis efficiunt omina potentis (II, 29,1). In Lattanzio, il nesso tra ira e misericordia di Dio, così presente in Origene e in Tertulliano, per cui l’ira divina è il fattore che, stimolando e assecondando la paenitentia dell’uomo peccatore, gli consente di attingere alla misericordia, è molto meno sottolineato. Cfr. Grosse 2001, p. 156: «Genau dieses Zusammenwirken von Zorn und Erbarmen Gottes kommt bei Laktanz kaum in den Blick». 106  Tertulliano, Adv. Marc. II, 17,2. 105

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che di fronte alla violenza dell’esistenza divina l’uomo prende coscienza della nullità della propria esistenza107.

Anche la seconda riflessione, che, venendo da un autore come Karl Barth assai più estraneo all’influenza del pensiero patristico rispetto a Daniélou, potrebbe forse sembrare fuori luogo qui, risulta in effetti del tutto pertinente al senso del percorso che abbiamo cercato di tracciare. Siamo infatti partiti dal “giudizio buono” di Dio che legittima la realtà creata e le dà fondamento e stabilità, per poi osservare come l’ira divina sembri “mettere in crisi” quello stesso ordine che la krisis creatrice di Dio aveva fondato e il peccato dell’uomo minacciava di adulterare. La bontà e la giustizia – che Marcione separava identificandole nei due dèi del suo sistema, reciprocamente ignari l’uno dell’altro – coesistono invece nell’ambivalenza di un rapporto tra l’unico Dio e il mondo in cui, come Origene ci ha mostrato, λόγος e ὀργὴ sono intimamente legati. Barth, meditando sulla Lettera ai Romani, scrive che la più radicale liquidazione della storia, il “No” sotto il quale cade ogni carne, la crisi assoluta che Dio significa per il mondo degli uomini, del tempo e delle cose, è anche il filo rosso che si stende attraverso il suo esserci e il suo essere così. Il corruttibile, quando sia riconosciuto come tale, è veramente il simbolo dell’incorruttibile. La sottomissione definitiva all’ira di Dio è la fede nella sua giustizia. Poiché come Dio sconosciuto, Dio è veramente conosciuto. Egli appunto come tale non è una cosa in sé, una essenza metafisica accanto ad altre essenze, non è un secondo, un altro, uno straniero accanto ad altri dati che esisterebbero anche senza di lui, ma l’eterna, la pura origine di tutto ciò che è, e in quanto è il non-essere delle cose, è il loro vero essere. Dio è fedele. […] Dio stesso non è forse arbitrariamente sovrano, non è forse un io superiore degno di essere addirittura temuto per il suo carattere criminale? La sua ira […] non testimonia allora contro di lui? Lo stato del mondo e dell’uomo non è forse allora la vera espressione della più intima essenza di Dio, che è una insondabile, capricciosa tirannia? […] Ma il vero Dio è l’origine non oggettiva della crisi di ogni oggettività, il Giudice, il non essere del mondo (incluso quel “Dio” della logica umana). Appunto di quel vero Dio, del Giudice del mondo, che non è egli stesso parte del mondo, noi parliamo108.

Da tutto questo, un viatico per l’auspicabile prosecuzione del nostro cammino e una terza autorevole voce del Novecento. Un passo ulteriore che, partendo di qui si potrebbe tentare, e che vorrei suggerire come indicazione per il lavoro di Patres, è quello di un diverso uso della categoria di crisi nell’interpretazione della storia cristiana. Credo infatti che, da un punto di vista storiografico che abbia chiara la nozione di “crisi come giudizio” e sappia fare i conti in modo non ideologico con l’idea patristica di “ira di Dio” che in questa sede abbiamo tentato di chiarire, diven  Daniélou 1963, pp. 168-170.   Barth 2002, pp. 51-52.

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ga possibile un uso diverso da quello che si fa abitualmente del concetto di crisi del cristianesimo e nel cristianesimo. In tale prospettiva, quantomeno, la crisi può non essere più vista come un fattore esterno, che si “aggiunge“ in qualche modo al nucleo della vita cristiana e lo destabilizza, lo destruttura o al limite lo trasforma in altro da sé, ma come il modo normale in cui, nella la sfida posta continuamente della realtà, l’esperienza cristiana vive. La crisi, in questo senso, sarebbe coessenziale alla fede, e non esisterebbe un cristianesimo possibile se non in stato di crisi. Quest’idea ha poi una connessione profonda – su cui non possiamo soffermarci ora, ma che andrebbe ugualmente indagata – con la convinzione, più volte autorevolmente manifestata nel magistero di Giovanni Paolo II, che «le crisi dell’uomo europeo sono le crisi dell’uomo cristiano. Le crisi della cultura europea sono le crisi della cultura cristiana»109. Bibliografia Bacci 2007 = L. Bacci, Api, formiche e altri animali nel Contra Celsum di Origene (IV, 74-99), in Studia Ephemeridis Augustinianum 2007, pp. 109-126. Barth 2002 = K. Barth, L’Epistola ai Romani, trad. it. Milano 2002 (= Zürich 1954). Beauchamp 2005 = P. Beauchamp, Création et séparation. Étude exégétique du chapitre premier de la Genèse, Paris 1969, 20052. Bouteneff 2008 = P.C. Bouteneff, Beginnings: Ancient Christian Readings of the Biblical Creation Narratives, Grand Rapids 2008. Braun 1990 = R. Braun (a c.) in Tertullien, Contre Marcion, Paris 1990 (SCh). Braund, Most 2003 = S. Braund, G.W. Most, Ancient Anger. Perspectives from Homer to Galen, Cambridge 2003. Brown 1999 = R.E. Brown, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, trad. it., Assisi 1999.   Giovanni Paolo II, Discorso ai vescovi d’Europa del 5 ottobre 1982, n.3. Immediatamente prima della frase citata, il papa aveva affermato che l’Europa e il cristianesimo «Sono due realtà intimamente legate nel loro essere e nel loro destino. Hanno fatto insieme un percorso di secoli e rimangono marcate dalla stessa storia. L’Europa è stata battezzata dal cristianesimo; e le nazioni europee, nella loro diversità, hanno dato corpo all’esistenza cristiana. Nel loro incontro si sono mutuamente arricchite di valori che non solo sono divenuti l’anima della civiltà europea, ma anche patrimonio dell’intera umanità. Se nel corso di crisi successive la cultura europea ha cercato di prendere le sue distanze dalla fede e dalla Chiesa, ciò che allora è stato proclamato come una volontà di emancipazione e di autonomia, in realtà era una crisi interiore alla stessa coscienza europea, messa alla prova e tentata nella sua identità profonda, nelle sue scelte fondamentali e nel suo destino storico. L’Europa non potrebbe abbandonare il cristianesimo come un compagno di viaggio diventatole estraneo, così come un uomo non può abbandonare le sue ragioni di vivere e di sperare senza cadere in una crisi drammatica. È per questo che le trasformazioni della coscienza europea spinte fin alle più radicali negazioni dell’eredità cristiana rimangono pienamente comprensibili solo in riferimento essenziale al cristianesimo». 109

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ERESIA E DOGMA: LA CRISI DEL PENSIERO DI FRONTE ALL’EVENTO

Giulio Maspero

1. Introduzione Eresia e dogma sono spesso presentati in modo dialettico, come se si potesse distinguere in buoni e cattivi, dove i ruoli dipendono della concezione positiva o meno del Magistero da parte di chi li assegna1. Ma la dialettica manca la verità, perché tende a ridurla ad un’unica posizione teoretica. Il rapporto tra eresia e dogma dovrebbe, invece, essere concepito in senso relazionale. Infatti l’esperienza insegna che non ci sono solo il bianco ed il nero, ma si può e si deve superare la contrapposizione elementare tra il bianco ed il nero, non semplicemente ricorrendo ai grigi, ma accogliendo in sé i rossi, i gialli, i verdi, gli azzurri, e tutta la svariata gamma di colori che si riverberano nella rivelazione divina. La questione di fondo è la seguente: l’incontro con Dio ha portato l’uomo a scoprire una nuova ontologia, una nuova comprensione non di un aspetto particolare, ma dell’essere stesso, del senso del tutto. In particolare, la sconcertante verità dell’incarnazione del Figlio, confermata dalla resurrezione, ha obbligato a ricomprendere il Primo Principio in termini di relazione e non più soltanto di essenza. Dio è Padre e Dio è Figlio. Dio non è semplicemente “come” un padre, ma Dio “è” Padre, è Padre in sé, in modo tale che non ci si può approssimare a Lui se non attraverso il Figlio. Ma ciò implica che l’ordinario modo di conoscenza umana, con la teoria gnoseologica ad essa legata, vada in crisi di fronte all’evento e, per questo, deve essere rivisto radicalmente per adeguarsi alla scoperta di questo nuovo oggetto, che è Soggetto. Le eresie sono momenti di questo processo di adattamento.   A volte si legge il rapporto tra eresie ed ortodossia in termini meramente sociologici e di rapporto tra cultura e religione: cfr. Lyman 2003, pp. 209-222.

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Non si vuole negare che le eresie siano errori, ma si desidera mettere in evidenza che lo sono perché esse non sono riuscite a superare una logica dialettica e necessaria, che funziona per opposizione e rischia di sottomettere la novità rivelata ai preconcetti filosofici. Si tratta di una logica che rischia di opporsi radicalmente a quella di Cristo, in quanto pone la necessità al di sopra della libertà, e per questo rischia di opporsi al Dio uno e trino, che è amore, umiltà e vita. La questione dell’eresia, quindi, non si può liquidare classificando gli eretici né come cattivi né come vittime incomprese. Nel rito dell’esorcismo, in vigore fino al Concilio Vaticano II, il demonio viene definito doctor haereticorum, in quanto l’eresia non coglie e, quindi, mina la comunione: l’etimo stesso della parola diavolo si rifà, infatti, al δια-βάλλω, che significa letteralmente separazione, disunione e quindi inganno e calunnia. Così, nel Nuovo Testamento stesso è annunciato il futuro sviluppo di eresie: Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi2.

Il vescovo è chiamato a vegliare sulla comunione nella sua Chiesa, perché alcuni cercheranno di risolvere la salutare “crisi” del pensiero di fronte all’evento provocando una vera crisi con la rottura dell’unità, magari radicalizzando una posizione che in origine era in parte corretta. Costoro vengono definiti «falsi maestri, i quali introdurranno fazioni che portano alla rovina» (ψευδοδιδάσκαλοι, οἵτινες παρεισάξουσιν αἱρέσεις ἀπωλείας)3. Il διαβάλλω si traduce, così, nell’αἱρέω, che segna l’agire del falso maestro, il quale perde la relazione, perché separa, e quindi perde la verità per eccesso di convinzione in una parte, perde la ragione per seguire delle ragioni parziali. Come ha scritto R. Knox, l’eretico è sempre un entusiasta4. 2.  Una provocazione In modo provocatorio si possono confrontare due testi. Il primo è tratto dal Contra Eunomium I di Gregorio di Nissa. Nella parte iniziale di questo trattato, scritto di getto in 17 giorni al ritorno da Sebaste nel 380, per difendere la memoria e la teologia di Basilio morto nell’autunno del 3785, si dice:   At 20,28-31.   2 Pt 2,1. 4  Cfr. Knox 1970, pp. 7-17. 5   Cfr. Gregorio di Nissa, Epistula 29, 2: GNO VIII/2, 87. Sulla cronologia della polemica con Eunomio, si veda: Cassin 2012, pp. 11-17. 2 3

Eresia e dogma: la crisi del pensiero di fronte all'Evento

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Ma anche Eunomio ha mentito e qual è la menzogna? Il travisare la verità stessa. Dice, infatti, che Colui che sempre è un tempo non era e insegna che Colui che veramente è il Figlio ha un nome falso, dichiara che il creatore di ogni cosa è creatura e fattura, e chiama servo Colui che è Signore dell’universo, equiparando Colui che per natura ha la Signoria alla natura che è serva.6

Il vescovo di Nissa si rivolge all’eretico Eunomio con parole dure,7 ma il riferimento è alla verità e, in concreto, alla distinzione tra l’ontologia di Dio e quella degli uomini. La crisi del pensiero nasce proprio da questa distinzione, cui fa riferimento il verbo κρίνω, in quanto frutto di giudizio. Dalla realtà, dagli eventi, si evince una nuova conoscenza del reale, a partire dalla rivelazione di un ambito di per sé inaccessibile alle sole forze della ragione umana, non per la sua debolezza, ma perché si tratta di una dimensione personale e radicalmente appartenente ad un’altra ontologia. Il Mistero cui si fa qui riferimento è, dunque, legato ad un nuovo ambito di osservazione che la relazione personale con Dio uno e trino permette al cristiano, il cui pensiero entra, così, in “crisi”, cioè è spinto a giudicare, distinguendo i due piani ontologici. Il secondo esempio si riferisce all’ambito pagano e vuole mostrare come l’eresia sia un fenomeno non solo cristiano, ma riguardi qualsiasi comunità che condivida conoscenza e tradizione. Giamblico scrive a proposito di un certo Ippaso del VI sec. a.C.: Colui dunque che per primo rivelò la natura della commensurabilità e della incommensurabilità a quelli che erano indegni di partecipare alle dottrine dicono che fu detestato in modo tale da non essere solamente bandito dalla comune convivenza e vita, ma da essergli costruita una tomba come di uno veramente allontanatosi dalla vita degli uomini, lui che un tempo ne fu compagno. Altri dicono che anche la divinità si è sdegnata con coloro che hanno reso di pubblico dominio le dottrine di Pitagora. Perì infatti in quanto reo di empietà nel mare colui che ha rivelato che l’icosaedro, duale del dodecaedro, una delle cosiddette cinque figure solide, si distende in una sfera. Altri dissero che patì questo colui che parlò apertamente della irrazionalità e della incommensurabilità8.   ἀλλ΄ ἐψεύσατο καὶ Εὐνόμιος͵ καὶ τί τὸ ψεῦδος; αὐτῆς τῆς ἀληθείας παραγραφή. τὸν ἀεὶ ὄντα ποτὲ μὴ εἶναι λέγει͵ τὸν ἀληθῶς υἱὸν ψευδώνυμον ἔχειν τὴν προσηγορίαν κατασκευάζει͵ τὸν κτίστην πάντων αὐτὸν κτίσμα εἶναι καὶ ποίημα διορίζεται͵ τὸν κυριεύοντα τῶν ὅλων δοῦλον προσαγορεύει͵ τὸν ἐκ φύσεως τὸ ἄρχειν ἔχοντα τῇ δουλευούσῃ φύσει συγκατατάσσει (Gregorio di Nissa, Contra Eunomium I, 109,10-110,6: GNO I, 59, 19-25). 7   Sulla polemica con Eunomio, i suoi toni e i suoi contenuti, si vedano: Capone 2010, pp. 103-119 e Leemans, 2008, pp. 127-143. 8   τὸν γοῦν πρῶτον ἐκφάναντα τὴν τῆς συμμετρίας καὶ ἀσυμμετρίας φύσιν τοῖς ἀναξίοις μετέχειν τῶν λόγων οὕτως φασὶν ἀποστυγηθῆναι͵ ὡς μὴ μόνον ἐκ τῆς κοινῆς συνουσίας καὶ διαίτης ἐξορισθῆναι͵ ἀλλὰ καὶ τάφον αὐτοῦ κατασκευασθῆναι͵ ὡς δῆτα ἀποιχομένου ἐκ τοῦ μετ΄ ἀνθρώπων βίου τοῦ ποτε ἑταίρου γενομένου. οἳ δέ φασι καὶ τὸ δαιμόνιον νεμεσῆσαι τοῖς ἐξώφορα τὰ Πυθαγόρου ποιησαμένοις. φθαρῆναι γὰρ ὡς ἀσεβήσαντα ἐν θαλάσσῃ τὸν δηλώσαντα τὴν τοῦ εἰκοσαγώνου σύστασιν· τοῦτο δ΄ ἦν δωδεκάεδρον͵ ἓν τῶν πέντε λεγομένων στερεῶν σχημάτων͵ εἰς σφαῖραν ἐκτείνεσθαι. ἔνιοι δὲ τὸν περὶ τῆς ἀλογίας καὶ τῆς ἀσυμμετρίας ἐξειπόντα τοῦτο παθεῖν ἔλεξαν (Giamblico, De vita Pythagorica, 34, 246,10-247,7). 6

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Il mondo greco era fondato sul concetto di misura, come si può scorgere sia nella letteratura che nell’architettura. La misura aveva un valore religioso, perché era ritenuta segno e cammino per risalire la scala ontologica che univa il mondo umano e quello divino. Ippaso rivelò una scoperta che aveva turbato questa armonia, perché i circoli pitagorici si erano accorti che esistono misure, come quella della diagonale del quadrato, che non sono razionali, cioè che non possono essere espresse come frazioni di altre grandezze, ma richiedono una serie infinita di numeri dopo la virgola o una serie infinita di frazioni. Ciò metteva in crisi la visione del mondo greca e per questo doveva essere tenuto nascosto. Colui che divulgò questa scoperta venne per questo escluso dalla comunione. Cioè venne trattato come un “eretico”. Si possono individuare punti comuni e una differenza radicale tra Eunomio ed Ippaso, tra l’eresia come è concepita nel cristianesimo e quella che caratterizza ogni comunità fondata su una conoscenza e tradizione comuni. In sintesi estrema, si può dire che ciò che distingue nettamente i due esempi è il concetto di “mistero” che sottosta al processo conoscitivo nei due ambiti: nel caso greco si tratta della dimensione gnoseologica, necessaria e finita del mistero, nel caso cristiano invece si è di fronte alla sua dimensione ontologica, libera ed infinita. Nel primo caso, Ippaso ha scoperto la verità e chi lo esclude dalla comunità rischia di assumere la posizione di un retrogrado che per paura frena il progresso: si tratta, infatti, di conoscere l’ambito necessario del mondo, quell’ambito che ogni uomo può potenzialmente esplorare con il proprio pensiero in quanto non tocca il dominio della volontà e della libertà, e quindi della persona e della relazione. Nel caso cristiano, invece, nella posizione del retrogrado rischia di porsi proprio l’eretico, perché rifiuta di aprirsi alla novità rivelata e continua a ragionare in termini di necessità e finitezza, quando invece si trova di fronte al puro dono fondato sulla libertà e la bontà infinita di Dio. L’eretico rompe la comunione, rompe la relazione che lo unisce alla sorgente della novità, rimanendo ancorato al pensiero meramente umano, escludendosi di fatto dalla possibilità di conoscere il mistero ontologico, che non può mai essere posseduto e compreso appieno, ma al quale solo si può partecipare nella comunione con la Chiesa e nella relazione9. Nel caso greco la dimensione relazionale riguarda solo il soggetto conoscente, in quanto l’uomo conosce sempre in modo storico e quindi attraverso una tradizione, nel secondo caso, invece, la dimensione relazionale è insita nell’oggetto stesso studiato, che è il Dio uno e trino. Nel primo caso la relazione entra in gioco per il limite del soggetto, nel caso cristiano essa è intrinseca al processo conoscitivo stesso e chi abbandona la comunità si preclude la stessa possibilità di attingere l’oggetto che aspira a conoscere.

  Per quanto riguarda l’esempio proposto, relativo alla discussione tra Eunomio e Gregorio di Nissa, il ruolo essenziale dell’apofatismo è ben evidenziato in Laird 2004 e Ojell 2007.

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3.  Crisi o eresia L’etimologia stessa del termine “eresia” indica questo: esso deriva dal greco αἵρεσις, che a sua volta ha la sua origine in αἱρέω e αἱρεόμαι, che significano rispettivamente “scegliere” o “prendere”. Il termine veniva utilizzato già in ambito precristiano per indicare la scelta di una determinata scuola filosofica, senza che ciò avesse alcun senso negativo. Solo in ambito ebraico eresia acquista un senso peggiorativo, per indicare chi si allontana dalla tradizione e dalla comunità. Fu applicato in primo luogo dagli ebrei ai cristiani e poi assunto dai cristiani per identificare coloro che rompevano la comunione seguendo dottrine estranee al deposito della fede10. È significativo che solo nell’ambito giudaico e cristiano il termine acquisti senso negativo, perché solo in questo contesto la dimensione di comunione diventa vincolante, in quanto la verità è attinta nella relazione personale e storica con il Mistero stesso che si rivela. In ambito cristiano l’eretico si autoesclude dalla comunità perché sceglie la parte al posto del tutto, perché sceglie il pensiero necessario e finito del singolo, al posto del pensiero autentico che si può attingere solo nella comunione d’amore. Qui sta la prossimità e la netta differenza tra αἱρέω e κρίνω: il primo verbo si riferisce ad uno scegliere per sé, a un distinguere rispetto al tutto, mentre il secondo dice un giudizio che fa riferimento al reale. Crisi ed eresia si richiamano, dunque, come i due verbi, nel senso che in presenza di un evento radicalmente nuovo serve un approfondimento del giudizio, ma tale giudizio non deve essere “eresia”, non può, cioè, separare e rompere la relazione, che, alla luce della rivelazione cristiana, è elemento fondante dell’essere stesso. L’eretico, invece, si pone in una prospettiva che nega la relazione e per questo non può più cogliere l’oggetto della conoscenza, che per rivelazione sappiamo essere essenzialmente comunione di tre Persone divine nell’unità perfetta dell’Amore. Da qui nasce l’esigenza molto sentita nella Chiesa antica di redigere liste di eresie e la percezione della difficoltà di definirle, come è evidente negli elenchi di Epifanio di Salamina e nella lettera 222 di Agostino11. Ciò spinge anche a cercare di superare la possibile comprensione delle eresie e delle affermazioni dei Padri come contrapposizione di partiti politici, mero confronto di opinioni. Anche i più recenti risultati della ricerca nell’ambito cristiano antico, in particolare nel contesto anglosassone, mettono in evidenza il pericolo di ricostruire lo sviluppo storico del dogma in base alla contrapposizione di partiti nettamente definiti12. Questo tipo infausto di ricostruzione deve la sua esistenza principalmente a due ragioni: a) l’esigenza di semplificazione didattica; b) una  Cfr. Grossi 2006-2008, c. 1716.   Cfr. Epifanio, L’ancora della fede, 13-14 e Agostino, Epistola 222. 12   Si veda, ad esempio, la ricostruzione della disputa ariana e neoariana realizzata da Lewis Ayres e le interessantissime conclusioni tratte nell’ultimo capitolo per i rapporti tra dogmatica e patristica: Ayres, 2004. 10 11

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non piena concezione teologica del dogma stesso, legata ad una teologia che non ha sempre colto la specificità gnoseologica della sua ricerca propria rispetto a quella filosofica13. La questione è evidenziata in modo magistrale nella parte trinitaria di Introduzione al cristianesimo, dove Joseph Ratzinger abbozza la discussione delle conseguenze gnoseologiche della nuova visione ontologica sorta dalla rivelazione trinitaria. Ciò porta in primo piano la dimensione apofatica della dottrina trinitaria stessa, che non può essere ridotta a formule proprio perché il suo oggetto è un soggetto che trascende radicalmente il mondo e l’uomo: Non possiamo per altro dimenticare che qui stiamo sfiorando un settore in cui la teologia cristiana deve mostrarsi consapevole del suoi limiti, assai più di quanto sinora spesso non abbia saputo mostrarsi. Ci troviamo dinnanzi ad un campo, in cui ogni falso conato diretto di volerne saper troppo finisce necessariamente per diventare una minacciosa follia; ad un campo, in cui solo l’umile ammissione della propria ignoranza può essere vera sapienza, e solo l’attonito arresto di fronte all’ineffabile mistero può costituire la giusta modalità di credere in Dio. L’amore è sempre un mysterium: è un mistero più profondo di quanto si riesca a scandagliare e a comprendere quando se ne discute in teoria. Di conseguenza, l’Amore per antonomasia – vale a dire l’eterno ed increato Iddio – deve per forza essere mistero in supremo grado: deve essere il Mistero per eccellenza14.

Siamo di fronte al fondamento stesso della libertà, perché se Dio fosse perfettamente conoscibile cadrebbe sotto il dominio della necessità e non potrebbe essere Amore. In questo senso lo studio delle eresie ha come scopo proprio difendere la libertà e la possibilità di amare, nel preservare l’affermazione della profondità infinita del Mistero. Il punto, come osserva Joseph Ratzinger, è che quello che affermiamo per fede non è stato ottenuto grazie alla riflessione filosofica, ma grazie all’incontro personale con il Dio uno e trino che si è donato all’uomo. La dottrina trinitaria protegge proprio la possibilità di entrare in relazione libera con questo Dio che è relazione. Se le Persone non sono mere maschere e non sono pure emanazioni di un potere assoluto, allora l’adorazione e la preghiera sono reali, autentiche e costituiscono l’unico modo per entrare in rapporto con Dio stesso. Quello che è in gioco nella difesa del dogma non è un problema di formule, ma la possibilità stessa di salvezza. La questione in gioco non è la parte, ma il tutto, cioè l’essenza stessa della fede15.

  L’origine razionalista dell’eresia è messa in luce nella sintesi di B. Studer, dove si cita anche la funzione di stimolo che essa ha svolto nei confronti della riflessione teologica: Studer 1989, pp. 217-225. 14   Ratzinger 1969, p. 121. 15   Ivi, pp. 122-123. 13

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4.  Eresie e vita spirituale Per questo le eresie presentano sempre una dimensione spirituale e non appartengono mai solo al passato: esse costituiscono delle tentazioni costanti dello spirito umano il quale tende a ridurre il Mistero secondo scorciatoie costanti, ricadendo nella apparente semplicità della necessità, che è comoda, ma non libera e non salva. L’accesso alla realtà è, dunque, possibile solo attraverso una autentica conversione, nell’abbandono delle proprie sicurezze. Ha scritto J. Daniélou: In ogni conversione particolare, in ogni progresso della vita, si trova questa conversione di fondo: apertura alla realtà fondamentale delle Persone divine, scoperta che in esse risiede la pienezza dell’essere, appello a trovare in esse la nostra sufficienza e il nostro tesoro nel tempo e nell’eternità. Perciò la contemplazione è prima di tutto un certo modo di penetrare più a fondo la realtà. E, al contrario, il peccato è mancanza di apertura alla vera realtà, è limitazione nel mondo esteriore e superficiale, il mondo del nostro egoismo16.

La necessità di una gnoseologia autenticamente teologica, che non separi la dimensione conoscitiva e quella unitiva, è espressa molto bene dalla seguente lettera di S. Caterina da Siena a Giovanni di Parma, il quale le aveva manifestato la sua preoccupazione per un libro da lui letto, che gli sembrava “eretico”. Per tutta risposta, nel suo italiano del Trecento, la santa gli indica il vero “libro” dove studiare la fede, il Corpo di Cristo, “libro” composto di tre capitoli, i piedi trafitti, il costato aperto e il volto amato: E hacci dato il libro scritto, cioè il Verbo del Figliuolo di Dio; il quale fu scritto in sul legno della croce, non con inchiostro ma con sangue, con capoversi delle dolcissime e sacratissime piaghe di Cristo17.

Dio può essere conosciuto solo attraverso il Figlio incarnato, quindi solo attraverso la carne e l’umiltà di Colui che ha dato se stesso per salvare l’uomo, ogni uomo. L’essenza stessa di Dio è, infatti, radicale e totale apertura all’altro, nelle reciproche relazioni eterne delle tre Persone divine, che si donano all’uomo nel tempo per comunicare quella Vita e quella Comunione che costituisce il loro stesso essere. Al logos necessario e finito che caratterizzava la Grecia si è, così, sostituito il Logos Persona e Relazione, in modo tale che il senso della realtà non può essere altro che la relazione stessa18. Ciò implica che non si possa conoscere veramente se non in relazione. L’eresia, quindi, si preclude la possibilità stessa di conoscere il reale, perché il fondo dell’essere è comunione e il vero non può essere conosciuto se non in comunione.   Daniélou 1989, p. 9.   Caterina da Siena, Lettera 309. 18  Cfr. Maspero 2012, pp. 197-219. 16 17

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Questo approccio ontologico, in senso trinitario, rivela quanto la concezione “partitica” delle eresie sia sbagliata. Infatti, il conflitto tra il demonio e Dio – come quello tra l’errore e la verità – non è un conflitto reale, poiché Dio è trascendente. Si tratta, invece, di un conflitto “di principio”, perché il demonio introduce e segue il principio gerarchico del potere, dove ogni cosa necessariamente ha il suo posto in modo corrispondente alla forza che ha. Si tratta di un principio di legge esterna necessaria che si infrange contro Cristo e la redenzione, perché Dio ama la sproporzione e nella sua infinita magnanimità non è riducibile alle nostre logiche. Per avvicinarsi al Dio uno e trino bisogna aprirsi radicalmente alla possibilità che Dio stesso si metta a lavarti i piedi; che colui che è infinito ed onnipotente possa colmare l’abisso che ci separa da Lui, perché ama entrare in relazione con noi; alla possibilità che Colui che è l’impassibile compatisca. Si tratta della logica paterno-filiale, che sgorga non da una legge esterna, ma dalla legge interna dell’essere stesso, quella legge che ci fa essere quello che siamo e che è l’autentica essenza di ogni uomo. Si tratta della “legge” costituita dalla relazione libera tra il Padre ed il Figlio, che eternamente si donano l’Uno all’Altro nello Spirito Santo, che è il loro Amore mutuo. Di fronte a ciò la logica umana deve aprirsi ad una nuova “logica”, secondo la quale nulla è impossibile a Dio, nemmeno il perdono del peccatore, nemmeno il diventare una cosa sola con lui, nemmeno il morire in Croce per Lui. È la logica alla quale si apre Maria con il Suo “sì”, quando accoglie nel Suo seno il Logos stesso, diventando per sempre Regina del Pensiero e Baluardo contro ogni eresia. 5.  La teologia negativa di Joseph Ratzinger A tale nuova logica si riferisce Joseph Ratzinger nella sezione trinitaria del suo Introduzione al cristianesimo19, dove offre una sintesi estremamente interessante a questo proposito del rapporto tra ontologia e gnoseologia trinitaria. Ovviamente il suo oggetto diretto di analisi sono le eresie su Dio, ma il ragionamento si può estendere ad ogni ambito dogmatico. Innanzitutto, egli riconduce queste eresie ai due elementi fondamentali del subordinazianismo e del monarchianismo, presentandoli come due versanti lungo i quali il pensiero può scivolare, mettendosi in un vicolo cieco: L’estesa e ramificatissima lotta dei primi secoli si può ricondurre, alla luce dei rilievi sin qui fatti, all’aporetica di due direttrici di marcia che si sarebbero dovute poi riconoscere sempre più chiaramente per vie senza sbocco: subordinazianismo e monarchianismo. Ambedue queste soluzioni sembrano logiche, mentre in realtà, con le loro traditrici semplificazioni, finiscono per distruggere tutto. La dottrina ecclesiale, così come viene insegnata nella formula “Dio uno e trino”, comporta in definitiva la  Cfr. Ratzinger 1969, pp. 121-146.

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rinuncia a qualsiasi scappatoia e il fermo permanere in un mistero insondabile all’intelletto umano. In realtà però, la professione di fede in questo mistero rappresenta unicamente un’autentica rinuncia alla presunzione della saccenteria, che rende tanto seduttrici le soluzioni comode e lisce, calcando la mano sulla loro falsa modestia.20

La ricerca teologica deve quindi fondarsi sull’umiltà, nella rinuncia a qualsiasi forma di soluzione facile che possa ridurre e appiattire la profondità insondabile del Mistero. Come ha scritto J. Daniélou: «un Dio che fosse totalmente intelligibile all’uomo non sarebbe un vero Dio»21. Ciò potrebbe essere riformulato nei seguenti termini: un Dio che non ti mette in crisi, che non mette in “crisi” il tuo pensiero, non è un vero Dio, ma un idolo. Da qui nasce la necessità di impostare la ricerca teologica a partire dall’apofatismo che ha sempre caratterizzato il grande pensiero trinitario, dai Padri greci fino a Tommaso. Ciò è essenziale per evitare gli strascichi della crisi razionalista che ha segnato la modernità. Con parole di Ratzinger: Dando uno sguardo panoramico all’intero assunto, si giungerà a constatare che la forma ecclesiale della dottrina trinitaria risulta giustificabile in primo luogo e soprattutto per via negativa, come prova lampante della mancanza di qualsiasi possibile sbocco per le altre vie. Questo rilievo è forse addirittura l’unico che qui possiamo realmente fare. La dottrina trinitaria andrebbe allora intesa in maniera essenzialmente negativa, come unica forma permanente di abdicazione ad ogni brama di conoscenza approfondita, come “cifra” indicante l’insolubilità del mistero di Dio. Diventerebbe subito problematica, qualora di sua iniziativa pretendesse tramutarsi in smania di sapere prettamente positiva. Se c’è una cosa che la faticosa storia delle lotte umane e cristiane attorno a Dio dimostra sino all’evidenza, è che ogni tentativo di afferrare Iddio col nostro povero comprendonio conduce infallibilmente all’assurdo. Possiamo parlare di lui nel debito modo, unicamente rinunciando in partenza alla pretesa di comprenderlo e lasciandolo invece sussistere nella sua incomprensibilità. La dottrina concernente la Trinità non potrà quindi mai vantare il diritto di essere una comprensione acquisita di Dio. Sarà invece sempre un asserto-limite, un gesto indicatore che addita l’ineffabile: mai una definizione che comprime una cosa nei casellari della conoscenza umana; e mai nemmeno un concetto, che porterebbe la cosa nel raggio captativo dello spirito umano22.

Il dogma trinitario avrebbe quindi una funzione essenzialmente di rimando all’Ineffabile, proteggendo il Mistero di Dio dall’intemperanza della ricerca umana, che pretende di ridurlo a categorie astratte e concettuali. In questo senso non si può concepire la dottrina trinitaria se non come teologia negativa, nel senso dato dai Padri. Questa affermazione può essere dedotta dalla stessa storia del dogma:   Ivi, p. 126.  Daniélou 1967, p. 55. 22   Ratzinger 1969, p. 129. 20 21

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Questo carattere di mera allusione, in cui il concetto diviene solo povero accenno, la comprensione un semplice conato verso l’incomprensibile, si potrebbe dedurre esattamente analizzando le stesse formule ecclesiali e la loro preistoria. Ognuno dei grandi concetti basilari della dottrina trinitaria è stato almeno una volta condannato; tutti quanti sono stati accettati solo dopo aver attraversato questo doloroso travaglio d’una condanna; ed ora valgono solo in quanto vengono al contempo qualificati come inetti, sì da risultare leciti soltanto come miserabile balbettio, e nulla più23.

L’osservazione fa riferimento ai concetti prosopon, homoousios e probole o processione, che erano stati utilizzati dai modalisti e dagli gnostici. Questo testo di Joseph Ratzinger è particolarmente prezioso, perché permette di rileggere il dogma non a partire dai termini usati, ma dalle relazioni tra i termini. Il dogma stesso avrebbe una struttura di comunione, in quanto ogni suo elemento da solo è stato condannato, mentre esclusivamente nel loro rapporto sinfonico le categorie trinitarie riescono a rinviare efficacemente al Mistero. Si pensi alla formula “una sostanza e tre ipostasi”: i due termini ousia ed hypostasis partono inizialmente come sinonimi ma l’approfondimento teologico avvenuto nella seconda metà del sec. IV porta ad una loro differenziazione, che è pienamente espressa proprio nella formula citata grazie all’accostamento con i numerali diversi. In questo modo, diventa chiaro come tali concetti non valgono in sé, ma solo nella loro relazione mutua. Da questa prospettiva, le eresie non possono essere lette come meri errori del pensiero o del linguaggio umano, ma hanno un valore legato al ruolo della storia e alla struttura comune del pensiero e del cuore dell’uomo: Allorché si esamini la storia dogmatica della dottrina trinitaria, così come essa ci viene rispecchiata da un moderno manuale di teologia, questa ci si presenta come un cimitero di eresie, le cui insegne vengono tuttora trascinate avanti dalla teologia come gloriosi trofei di battaglie vinte. Con una constatazione del genere, però, la cosa non risulta ancora affatto ben compresa, giacché tutti i tentativi intrapresi nel corso d’una lunga lotta, e infine messi fuori gioco come aporie e quindi eresie, non rappresentano solo dei meri monumenti sepolcrali d’una vana ricerca umana, delle lapidi funerarie guardando alle quali possiamo constatare quante volte il pensiero umano abbia miseramente fallito, dei cippi mortuari che ora noi dovremmo contemplare – in definitiva senza alcun frutto – con curiosità meramente retrospettiva. Ogni eresia incarna invece, sotto forma di “cifra”, una perenne verità che noi dobbiamo solo conservare in perfetta armonia con altri asserti ugualmente validi, scardinata dai quali essa offre una visione falsa della realtà. Per dirla in altre parole, tutte queste affermazioni sono pietre da costruzione d’una cattedrale, piuttosto che cippi funerari; sono blocchi che servono però unicamente quando non restano sparpagliati, ma vengono invece inseriti al loro posto nell’edificio più grande. Allo stesso modo, anche le formule positivamente accettate valgono unicamente quando mantengono al contempo la consapevolezza della loro insufficienza24.   Ivi, pp. 129-130.   Ivi, pp. 130-131.

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La dottrina trinitaria è presentata come una cattedrale, le cui pietre sono appunto pietre, ma che nel loro reciproco appoggiarsi le une alle altre formano quel meraviglioso edificio che dà gloria a Dio, aiutando le anime ad innalzarsi a Lui. Il dogma trinitario non si presenta, quindi, solo come la risposta giusta rispetto agli errori degli eretici, ma si presenta come luogo della lode, come spazio dove l’uomo può incontrare Dio. Nella prospettiva della relazione, l’apofatismo da negazione diventa affermazione. Quello che qui è in gioco è una gnoseologia essenzialmente diversa rispetto a quella positivista nella quale siamo immersi. Una gnoseologia che nasce dalla profondità ontologica del Mistero di Dio e che arriva a Ratzinger attraverso Agostino e la patristica: Sappiamo oggi che, nell’esperimento di natura fisica, entra e s’impegna anche l’osservatore stesso, il quale solo così riesce a conseguire una nozione sperimentale fisica. Ne consegue che la pura oggettività non esiste nemmeno in fisica, giacché anche lì l’esito dell’esperimento, la risposta della natura, dipende dalla domanda che ad essa vien rivolta. Nella risposta infatti è sempre incluso anche un brandello della domanda e dello stesso richiedente, sicché essa non rispecchia soltanto la natura nella sua costituzione intrinseca, nella sua pura oggettività, ma riflette anche una traccia dell’uomo, del suo genio particolare, riverberando così una parte del soggetto umano. Ora, anche questo trova corrispondenza nel nostro indagare sul problema di Dio. Il puro e freddo osservatore non esiste, come non esiste la pura ed assoluta oggettività. Si potrebbe anzi persino affermare che, quanto più alto è un oggetto d’osservazione umana, quanto più esso interessa il centro soggettivo ed impegna l’animo dello spettatore, tanto meno probabile risulta il freddo distacco della pura oggettività. Pertanto, ogni qualvolta ci si imbatte in una risposta spassionatamente oggettiva, in un asserto che si erge definitivamente al di sopra d’ogni prevenzione pietistica esprimendosi in modo piattamente positivo e scientifico, bisogna dire che il suo portavoce è caduto in un autoinganno. Questo tipo di oggettività è costituzionalmente interdetto all’uomo. Egli non può esistere né tanto meno indagare, da semplice e freddo osservatore. Chi cerca a tutti i costi di essere un mero osservatore, non impara nulla. Anche quella realtà che si chiama “Dio”, può entrare nel raggio visivo solo di colui che s’impegna di persona nell’esperimento da fare con Dio: in quell’esperimento che noi chiamiamo fede. Solo impegnandovisi, s’impara e si prova qualcosa; solo prendendo direttamente parte all’esperimento ci si premura d’indagare, e solo chi cerca e interroga riceve una risposta25.

Dire che in ogni risposta è incluso sempre un brandello della domanda rinvia proprio alla affermazione ratzingeriana della necessità di studiare i Padri della Chiesa per avvicinarsi alla Scrittura, in quanto solo coloro che testimoniano la “Risposta” (Antwort) possono portarci ad una comprensione della “Parola” (Wort), poiché essa è stata rivolta a qualcuno26. Da qui anche la necessità di non separare l’Antico ed   Ivi, p. 133.  Cfr. Ratzinger 1993, p. 157.

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il Nuovo Testamento, di non opporre pensiero greco e rivelazione cristiana e, per quanto riguarda l’oggetto del presente studio, di non concepire dialetticamente eresia e dogma. A fondamento di questa visione, si può rintracciare una affermazione profonda della dimensione relazionale dell’Essere stesso, che è stata denominata «ontologia trinitaria»27, in quanto solo grazie alla Rivelazione del Dio uno e trino l’uomo ha riconosciuto la relazione, e quindi la Persona, come elementi eterni e costitutivi, insieme all’essenza, dell’Essere di Dio. 6.  Ontologia e gnoseologia trinitarie La forza delle affermazioni di Joseph Ratzinger sopra riportate sembra risiedere nell’approfondimento teologico del rapporto tra ontologia e gnoseologia, a partire dalla sua penetrazione del pensiero agostiniano e dalla sua sensibilità teologicofondamentale. Egli parla esplicitamente della dimensione relazionale come di un nuovo piano dell’essere: Con quest’idea di correlazione esprimentesi nella parola e nell’amore, indipendente dal concetto di “sostanza” e non catalogabile fra gli “accidenti”, il pensiero cristiano ha trovato il nucleo centrale del concetto di “persona”, che dice qualcosa di ben diverso e infinitamente più alto della semplice idea di “individuo”. Ascoltiamo ancora una volta s. Agostino: In Dio non si danno accidenti, ma solo… sostanza e relazione. In questa semplice ammissione, si cela un’autentica rivoluzione del quadro del mondo: la supremazia assoluta del pensiero accentrato sulla sostanza viene scardinata, in quanto la relazione viene scoperta come modalità primitiva ed equipollente del reale. Si rende così possibile il superamento di ciò che noi chiamiamo oggi “pensiero oggettivante”, e si affaccia alla ribalta un nuovo piano dell’essere28.

Se Dio, cioè l’Ipsum Esse Subsistens, è relazione, allora la possibilità di conoscenza della profondità del reale non può venire svincolata dalla relazione stessa. Infatti, seguendo il filo dell’analogia dell’essere, che la dimensione apofatica protegge da ogni eccesso intellettualistico o razionalizzante, si possono distinguere tre livelli di relazionalità in gioco nella crisi del pensiero di fronte all’evento dell’incontro con il Dio trinitario: 1.  In primo luogo Dio stesso, cioè l’ultima profondità e il principio dell’Essere, è relazione, eterna, reciproca e libera, in quanto le tre Persone divine sono Se stesse 27   L’espressione ha assunto una notevole fama grazie all’opera di Klaus Hemmerle, del quale nel 2014 si celebrano i ventenni dalla morte. In particolare si veda il suo profondo dialogo con von Balthasar: cfr. Hemmerle 1976. Si veda anche, per una profonda introduzione: Coda 2005, pp. 1412-1416 e Coda, Žák 1998. 28   Ratzinger 1969, pp. 140-141.

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nel dono e nell’amore che costituiscono le due processioni, nelle quali il Padre genera il Figlio donandoGli perfettamente Se stesso e il Figlio restituisce il Dono eterno, che è la Vita e la Divinità stessa, al Padre, come “essere da” (Sein von) ed “essere per” (Sein für) Lui29; e nelle quali lo Spirito Santo è proprio tale Dono eternamente scambiato, il nexus Amoris, che, procedendo da entrambi, si identifica personalmente con la comunione stessa del Padre e del Figlio. 2.  Quindi, muovendosi dall’immanenza all’economia, la relazione si trova al livello di rapporto tra il Dio uno e trino e l’uomo, che è e conosce pienamente se stesso, in quanto creato ad immagine e somiglianza della Trinità, solo nella relazione personale con le tre Persone divine. 3.  Infine, la relazione si trova come riflesso nella dimensione ecclesiale dell’essere e della conoscenza del cristiano, poiché esclusivamente in tale contesto si può accedere al vero e a ciò che più propriamente è umano. Tutto questo si può leggere alla luce della crisi fondamentale cui si riferisce il testo di Gregorio di Nissa indirizzato ad Eunomio citato in apertura: il giudizio essenziale – la “crisi” che preserva dell’eresia – è l’atto del pensiero che accoglie la distinzione tra due diversi piani ontologici. Il primo è quello originario ed eterno, che si identifica con l’unica ed increata natura di Dio, la quale è relazione in sé ed assolutamente. Il secondo è il piano dell’ontologia creata, che era già studiata dalla metafisica classica. L’accesso e la conoscenza dell’ontologia divina può darsi solo grazie alla rivelazione e, quindi, nella relazione personale declinata negli eventi concreti della storia della salvezza. La dimensione apofatica protegge proprio tale relazionalità, che segna il rapporto tra l’uomo e Dio. Quindi, la natura e la comunione umane possono essere rilette alla luce di tale dimensione relazionale, che le illumina e ne è il fondamento. In questo modo, la rottura della comunione ecclesiale viene ricompresa non come sconfitta o vittoria in un processo dialettico di origine meramente sociologico, ma come caduta della condizione epistemologica essenziale per accedere all’essere stesso e, quindi, al vero. Per questo Jean Daniélou nel 1968 scriveva a proposito del Mistero del Dio Uno e Trino: Tocchiamo così il fondo dell’ontologia trinitaria cristiana. Uno dei punti in cui il mistero trinitario illumina meglio le situazioni umane. Ci indica che il fondo stesso dell’esistenza, il fondo della realtà, la forma di tutto perché ne è l’origine, è l’amore, nel senso della comunità interpersonale. Il fondo dell’essere è comunità di persone. Chi dice che il fondo dell’essere è la materia, chi lo spirito, chi l’uno: hanno tutti torto. Il fondo dell’essere è la comunione30.

Da questa prospettiva l’eresia è una questione essenzialmente ontologica ed epistemologica. Facendo salva tutta la complessità della trama storica, con i chiaroscuri   Ivi, p. 180.   Daniélou 1989, p. 37.

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che l’indagine scientifica molto opportunamente rinviene, nello stesso tempo non è possibile fermarsi a tali dati, senza trarre da essi stimolo pur un ulteriore approfondimento sul piano propriamente filosofico e teologico. Il pensiero cristiano, infatti, non afferma un principio ideologico assoluto, ma indica una relazione e, mediante essa, conduce verso la comunione tra gli uomini e con Dio. I Padri non hanno separato fede e ragione e sarebbe anacronistico leggere il fenomeno delle eresie a partire dalla dialettica moderna e contemporanea. Sia i filosofi del tardoantico, sia gli eretici, così come i Padri della Chiesa, erano tutti intenti nella ricerca del primo Principio e portavano avanti tale compito con la ragione. La differenza negli esiti delle loro indagini si fonda proprio nel valore ontologico assegnato alla relazione e, quindi, alla distinzione tra i due piani ontologici. Ricorrendo ad un’immagine imperfetta, ma che coglie il nucleo epistemologico del problema, è come se i Padri avessero provato a descrivere il nuovo orizzonte di realtà dischiuso dall’evento dell’incontro in Cristo con il Dio uno e trino mediante un’estensione della metafisica classica, che fu trasformata in una nuova concezione ontologica grazie alla rimozione di un concreto postulato: l’accidentalità della relazione31. Ciò può essere accostato a quanto avvenne agli inizi del XX secolo in ambito fisico con lo sviluppo della teoria della relatività, come estensione della meccanica classica. Anche in questo caso, infatti, la nuova teoria era fondata sulla rimozione di un concreto postulato della geometria euclidea32. Sia per la fisica che per la teologia lo sviluppo della nuova teoria non viene meno alle esigenze di coerenza e di rigore che caratterizzavano quella precedente. 7. Conclusione Tutto ciò riporta alla provocazione iniziale e all’accostamento di Eunomio e Ippaso. La dinamica dei due processi è molto simile, ma nel primo caso l’eretico del sec. IV d.C. sta resistendo ad un progresso epistemologico, mentre nel secondo caso il pitagorico del sec. VI a.C. sta additando una via che poi dovrà essere percorsa, mentre la sua comunità scientifica gli fa resistenza. Forse, tali considerazioni possono aiutare a mettere le eresie trinitarie nella giusta prospettiva: esse non sono solo errori di comprensione o soluzioni sbagliate, ma mancano il bersaglio perché rompono la comunione, in quanto la relazionalità è la condizione epistemologica essenziale per accedere a un oggetto di studio come Dio, che nello stesso tempo è un soggetto. Se Egli è comunione e relazione e l’essere è comunione e relazione, senza relazione e comunione non lo si può conoscere. Senza fede, senza la Chiesa, non si può fare teologia e non ci si può avvicinare al Mistero del Dio uno e trino, e quindi nemmeno all’essere. Solo nell’umiltà si può  Cfr. Maspero 2013.   Per una semplice ma profonda introduzione, si veda Musso 2011, pp. 253-347.

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incontrare la Verità, perché la Verità stessa è dono. Proprio tale dimensione relazionale e gratuita, sfugge all’eretico, che viola il velo apofatico, posto, come avveniva nel Sancta Sanctorum, a protezione dell’eccedenza del Mistero di Dio che attraverso l’Evento si fa presente nel mondo. Il rapporto tra essere e relazione può venire riconosciuto, così, come elemento essenziale in quel processo di giudizio che costituisce la “crisi” del pensiero di fronte all’Evento. L’apertura a una logica più grande, ma non per questo meno umana, permette di rileggere gli stessi momenti di crisi autentica di tale processo, e quindi le eresie, a partire dalla relazione e dalla comunione. La logica più grande, infatti, abbraccia la logica necessaria, riconoscendo, attraverso un’ontologia e una gnoseologia autenticamente trinitarie, il valore essenziale anche dei protagonisti di quei momenti dialettici, in quanto il pensiero cristiano si è configurato e ha superato la crisi in relazione e in dialogo con essi. Il rapporto tra eresia e dogma può essere, allora, illuminato da Maria di Nazareth e dalla sua risposta alla “crisi” del pensiero dell’uomo causata dall’Evento del Figlio di Dio che le chiede di farsi figlio dell’uomo nel suo grembo. Il giudizio unico e irrevocabile costituito dal suo “sì” ha aperto la storia alla “logica” di Dio, per il quale nulla è impossibile (cfr. Lc 1,37). Lo stupore di Maria permette che la logica di Dio si faccia logica dell’uomo, diventando fondamento e garanzia della ricerca che nasce dallo stupore di ogni uomo di cui Ella è Madre, lo stupore dei teologi, dei metafisici e anche degli eretici.

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CAELUM OMNIBUS UNUM, UNUS ET OCEANUS

Christian Gnilka

I beni comuni e la differenza degli spiriti*

1.  Con il titolo della mia relazione ho forse proposto un indovinello. Ma ne posso dare subito la soluzione, ricordando un episodio dalle Metamorfosi di Ovidio che certo a molti di noi è rimasto impresso nella memoria. Fuggendo la gelosia di Giunone Latona giunge con i suoi due gemelli, Apollo e Diana, in Licia. Esausta s’avvicina a uno stagno, per dissetarsi. Ma i contadini che lì stanno raccogliendo vimini, giunchi ed erbe palustri le impediscono di attingere l’acqua. La dea supplica. Invano. I contadini anzi la insultano e intorbidano intenzionalmente l’acqua saltando qua e là e sollevando la fanghiglia. La dea si riempie di collera e dà prova del suo potere trasformandoli in rane. È un poco la pena del taglione, cioè la talio analogica, con un lato umoristico, perché il saltellare e il gracidio delle rane fanno il contrappasso al comportamento malvagio dei contadini. Ma è anche una punizione severa. Qui Ovidio mischia aspetti seri e aspetti faceti. La gravità della pena corrisponde alla gravità della colpa, che si può misurare appieno quando si ascolta la supplica della dea1: Perché mi vietate l’acqua? L’uso delle acque è di tutti (usus communis aquarum est); e la natura non ha reso proprietà esclusiva il sole, l’aria né la dolce onda: io sono venuta a doni comuni a tutti (ad publica munera veni) e, tuttavia, vi chiedo e vi supplico di concedermeli … *  Per la traduzione italiana ringrazio il Sig. Bruno Argenton. Una versione molto più ampia di questa relazione, completata da un commento ai versi di Prudenzio Contra Symmachum II 781-842, si trova nel volume Chrêsis IX. Sieben Kapitel über Natur und Menschenleben, Basel 2005, pp. 9-81. Cito questo volume in forma abbreviata e così anche le pubblicazioni seguenti: Chrêsis I. Der Begriff des rechten Gebrauchs, II ed. ampliata, Basel 2012; Chrêsis II. Kultur und Conversion, Basel 1993; Prudentiana II. Exegetica, München/Leipzig 2001; Prudentiana III. Supplementum, München/Leipzig 2003. 1  Ov. met. 6,349-352.

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La dea si pone al livello dell’umanità: essa non chiede nulla di più di ciò che spetta ad ogni essere umano, che nessun uomo ha il diritto di ricusare all’altro. I contadini hanno oltraggiato il diritto naturale e in questo consiste la gravità del loro delitto. Il principio, che è dottrina sostanzialmente condivisa della giurisprudenza romana, è così formulato da Elio Marciano nelle sue Istituzioni2: «Comuni a tutti per diritto naturale sono queste cose: l’aria, l’acqua corrente, il mare, e, di conseguenza, i lidi del mare». A rigore, la richiesta di Latona travalica i limiti che il diritto pone ai communia, dato che in Ovidio non si tratta di acque piovane o fluviali, cioè di acque correnti, ma di un’acqua ferma. Ma al poeta è lecito considerare le cose con maggiore larghezza e inoltre la situazione giustifica pienamente la preghiera della madre assetata. In generale il principio dei communia è una massima d’esperienza che, in molteplici variazioni, si incontra anche in tutta la letteratura non giuridica e nella quale si può appunto perciò riconoscere un elemento del modo di vivere antico. Nel Rudens plautino due schiavi litigano per il possesso di un bauletto, che uno dei due ha ripescato dal mare. Quello che l’ha pescato sostiene il suo diritto affermando3: «Certo, il mare è di tutti» (mare quidem commune certost omnibus). Al che l’altro gli rigira le parole in bocca4: «E quindi il baule appartiene a te e a me insieme, perché viene dal mare che è di tutti» (in mari inventust communi). Ma un tal principio, replica il primo, significherebbe la rovina per i pescatori: nessuno comprerebbe più pesci al mercato ma semplicemente reclamerebbe la sua parte5: suam quisque partem piscium poscant sibi, Dicant in mari communi captos. La controversia si prolunga ancora per un po’ ed è per così dire una prova giocosa della generale diffusione di un principio sulla cui retta interpretazione i due qui appunto contendono. Il verso di un comico greco constata lapidariamente6: κοινὸν θάλασσ’, ἰχθῦς δὲ τῶν ὠνουμένων. 2.  La dottrina dei communia non avrebbe potuto radicarsi così profondamente nel diritto, nella vita e nella letteratura senza il soccorso della filosofia, in particolare della filosofia stoica. Secondo l’insegnamento degli Stoici tutti gli uomini costituiscono una comunità, che è fondata nella ragione comune a tutti gli uomini. Come la vita dei cittadini di uno stato è regolata dallo ius civile, così quella degli uomini in quanto cittadini del mondo è regolata dallo ius naturale che, essendo in vigore presso tutti i popoli, viene per lo più identificato con lo ius gentium7. Questo diritto oggettivo è fondato nella natura razionale dell’uomo, in definitiva cioè nel logos che tutto permea e governa, e prescrive che tutto ciò che la natura produce per il  Marcian. dig. 1,8,2,1.  Plaut. Rud. 975. 4   Ivi, 976 s. 5   Ivi, 980 s. 6   Phoenicides frg. 5; PCG 7,392. 7  Caius dig. 1,1,9: quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur. 2 3

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vantaggio dell’uomo è bene comune di tutti gli uomini e non può essere ricusato a nessuno. Cicerone discute il tema nel De officiis, là dove parla della beneficenza che, congiunta con la giustizia, costituisce per lui la seconda virtù cardinale8. L’esercizio della beneficenza soggiace a certe cautele, una delle quali consiste nel dovere di considerare bene i meriti del beneficiato9. Il merito si misura poi secondo diversi criteri, tra l’altro a seconda di quanto siano stretti i legami sociali tra chi dà e chi riceve: e la forma di società più ampia è la comunità del genere umano, creata dal logos che tutto unisce – in Cicerone ratio e oratio, la ragione e il linguaggio10. Entro quest’ampia cerchia della società tutti i beni che la natura produce per l’uso comune, sono da considerarsi patrimonio di tutti11: in qua (sc. societate) omnium rerum, quas ad communem hominum usum natura genuit, est servanda communitas. 3.  Nel riconoscimento del principio che esistono beni comuni a tutti era racchiuso un germe che presto avrebbe premuto per svilupparsi. Se tutto ciò che la natura crea, lo crea per il vantaggio di tutti, non è questo per gli uomini un modello di comportamento sociale che va al di là del semplice rispetto di quei communia? Il problema è sollevato da Seneca, in continuità col principio dell’etica stoica del secundum rerum naturam vivere et deorum exemplum sequi12 – che poi per lo Stoico sono la stessa cosa. Vivere secondo natura e seguendo l’esempio degli dei: cosa significa ciò per il nostro esercizio della beneficenza? fin dove arrivano le conseguenze pratiche di tale principio? Seneca formula il problema in forma di una immaginaria obiezione13: «Se imiti gli dei, devi rendere benefici anche agli ingrati: infatti il sole sorge anche per gli scellerati e il mare è aperto anche ai pirati»: nam et sceleratis sol oritur et piratis patent maria. Ma il filosofo non accetta questa conclusione. La sua risposta è14: gli dei danno molte cose buone anche agli ingrati, ma le hanno predisposte per i buoni; «e se toccano anche ai cattivi, ciò avviene perché non si possono separare (i cattivi dai buoni)». È infatti meglio giovare anche ai cattivi per amore dei buoni, che venire meno ai buoni a causa dei cattivi. E poi, letteralmente15: Così … il giorno, il sole, l’avvicendarsi dell’inverno e dell’estate e tra di essi le stagioni temperate della primavera e dell’autunno, le piogge, il bere alle fonti, il soffiare regolato dei venti: tutto questo gli dei hanno inventato a beneficio di tutti: non potevano escluderne dei singoli … Dio diede alcuni doni all’intero genere umano dai quali nessuno è escluso. Era infatti impossibile che un vento fosse favorevole ai buoni e  Cic. off. 1,20.   Ivi, 1,45. 10   Ivi, 1,50. 11   Ivi, 1,51. 12  Sen. benef. 4,25,2. 13   Ivi, 4,26,1. 14   Ivi, 4,28,1. 15   Ivi, 4,28,1-3. 8 9

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contrario ai cattivi, ed era invece un bene per tutti che il mare fosse aperto alla navigazione e il regno dell’umanità si estendesse. E alla pioggia non si poteva prescrivere per legge di non cadere sui campi dei malvagi.

Che i beni fondamentali della vita siano comuni a tutti appare dunque come una soluzione di ripiego da parte della natura o degli dei. Ed è per questa ragione che il principio del vivere secondo natura trova qui un limite. Dobbiamo porre una distinzione là dove la natura non ne fa alcuna. La conclusione analogica, che allo Stoico si sarebbe dovuta imporre quasi da sé, viene invece respinta, la funzione di modello della natura ridimensionata. Il sistema che indirizza questa domanda alla natura non è in grado di sopportare la risposta che essa dà. È commovente vedere come il filosofo getti qui, per così dire, uno sguardo su una terra nuova nella quale non può entrare. È come se per un istante si aprisse la nebbia davanti a lui, permettendogli di scorgere i contorni di una legge morale completamente diversa. Ma non la può trattenere, come un’apparizione che si mostra e subito dilegua. 4.  Ma all’epoca in cui Seneca scriveva era già comparsa nel mondo la nuova religione che, nei suoi atti, aveva messo le parole del suo fondatore16: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli ingiusti.

L’insegnamento viene qui tratto dalla natura. Ma il giovane cristianesimo non aveva bisogno di ricavarlo dalla considerazione della natura. Glielo aveva impartito la più alta autorità che esso riconoscesse, e la forma del comandamento escludeva ogni discrezionalità. E veniva messo in pratica con una nuova, sconvolgente consequenzialità. La richiesta imitazione della natura è ora imitazione del creatore della natura, del Dio unico, personale e trascendente che ha predisposto l’esempio della natura come rimando alla propria essenza. E poiché questa essenza si manifesta nell’amore del Padre, compito di coloro che vogliono essere Suoi figli è imitare la perfezione del Padre. Persino nel gradino più alto del suo sviluppo, che aveva raggiunto con la filosofia morale di Seneca, l’etica antica restò profondamente diversa dall’insegnamento del Vangelo. In rapporto alla filosofia ellenistica il comandamento di amare i propri nemici costituisce per così dire il salto di qualità che colloca la morale ad un livello che il pensiero filosofico non avrebbe potuto raggiungere nel proprio svolgimento. Ma con tutta la novità di questo comandamento, quanto esso esige non è qualcosa che sia imposto a forza al pensiero, senza alcuna relazione con la sapienza del mondo contro la quale fu scagliato. Per quanto inaudito fosse questo precetto, con il quale il Vangelo sorprese il mondo antico, in un punto essenziale si radicava   Mt 5,45.

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in un dato di fatto che era penetrato in profondità nella coscienza degli uomini, diventando un patrimonio intellettuale comune: appunto la consapevolezza che una natura benigna concede a tutti gli uomini senza distinzione i beni indispensabili alla vita e che questo ordinamento benefico non può che essere di origine divina. Poiché questo pensiero, che del resto non è solo del mondo antico ma rappresenta una generale sapienza umana, si era inciso così profondamente nella cultura in cui il cristianesimo fece la sua comparsa, – proprio per questo anche Paolo poté avvalersi di questa realtà nella sua predica missionaria a Listra, presentando tale fatto come una testimonianza che il Creatore dà di se stesso17: «ma anche allora non ha mai smesso di farsi conoscere, anzi si è sempre mostrato come benefattore. Infatti dal cielo vi ha mandato le piogge e le stagioni ricche di frutti, vi ha dato il nutrimento e vi ha riempito di gioia». Nonostante le differenze che separavano il vangelo e la filosofia, su questo punto l’affinità degli insegnamenti era chiara. E così fu inevitabile che l’Annuncio entrasse in relazione con la sapienza del mondo. L’Annuncio non poteva andare semplicemente per la propria strada ignorando ciò che era così simile alla verità, pur senza esserlo. Il cristiano aveva qui, come sempre, il dovere di prendere l’oro degli Egizi e di usarlo per glorificare l’unico Dio, così come un tempo su comando di Dio avevano fatto gli Israeliti18. Un semplice esempio a questo proposito ci viene dal primo considerevole poeta della cristianità latina. Giovenco riversò il vangelo, in particolare quello di Matteo, nella forma del verso epico. Il poeta cercò di attenersi strettamente al testo biblico, ed anzi a parere di Gerolamo aveva riversato «pressoché letteralmente» i vangeli in esametri19. Ma quando arrivò al passo del vangelo dove si parla del Padre «che fa sorgere il suo sole sui buoni come sui cattivi e fa piovere sui giusti come sugli ingiusti», si discostò, chiaramente e significativamente, dal testo biblico20: nam genitor noster communia lumina solis communesque dedit pluvias iustisque malisque. Poiché il genitore nostro dette come bene comune la luce del sole, come bene comune la pioggia ai giusti e ai cattivi.

Rispetto al testo biblico si afferma qui l’espressione communis, che ha un valore quasi terminologico; e questo non è un particolare senza importanza. Con la sua formulazione Giovenco, indirettamente ma in tutta chiarezza, ha rivendicato al cristianesimo la verità contenuta in quel principio generalmente accettato, ha per così dire preso possesso di un elemento di verità che trovava già nella sua cultura   At 14,17.   Es 3,21 s. 11,2. 12,35 s.; cfr. Gnilka 2012, pp. 94 s., 119 s., 132-140, 143, 153, 168 s., 228; Gnilka 1993, pp. 100 n. 35. 19  Hier. vir. ill. 84. 20   Iuvenc. 1,567 s. 17 18

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e lo ha restituito a Colui al quale appartiene. E così facendo lo ha al tempo stesso purificato e portato a compimento: questi i concetti usati dai pensatori della Chiesa per designare tale processo21. Con ciò essi intendono che un elemento germinale del Buono, del Vero e del Bello nella cultura precristiana, quando lo si collochi nel contesto opportuno, da un lato contribuisce ad illustrare un pensiero cristiano già presente, dall’altro si rende esso stesso trasparente verso una verità che era già racchiusa in esso, sebbene non riconosciuta oppure solo confusamente intuita22. Perché il principio dei communia sia vero, da dove tragga la propria legittimità e quali siano le conseguenze che ne risultano: tutto ciò, pensa il poeta, si riconosce non appena lo si guardi sotto la luce del Vangelo. 5.  Corrispondentemente al loro modo di pensare e di lavorare, i Padri, quando riprendono un termine della tradizione precristiana, amano ritrovarlo nella Sacra Scrittura, per giustificarne l’uso con l’autorità della Bibbia. Questo modo di procedere, riguardo al termine e al concetto dei communia, si può osservare in Cipriano. Nel suo scritto Sulle elemosine Cipriano parla ad un certo punto del modo di vivere dei primi cristiani e di come essi tenessero tutto in comune: fuerunt illis omnia communia, si legge negli Atti degli apostoli23. Questo è lo spunto per proseguire24: Questo significa diventare veramente figlio di Dio attraverso una nascita spirituale; significa, seguendo la legge che viene dal cielo, imitare il trattamento uguale (aequitatem) da parte di Dio Padre. Perché tutto ciò che è di Dio, in riguardo dell’uso è a noi tutti comune (in nostra usurpatione commune est). Nessuno è tenuto lontano dai Suoi benefici e dai Suoi doni, onde il genere umano usufruisca con uguaglianza (aequaliter) della bontà e della liberalità di Dio, così come ugualmente per tutti il giorno illumina, il sole manda i suoi raggi, la pioggia irriga e il vento spira. Il sonno è il medesimo per coloro che dormono, e lo splendore delle stelle e della luna è a tutti comune (communis). Chi, possedendo beni sulla terra, segue questo esempio di uguaglianza di trattamento (aequalitatis) e divide i suoi redditi e guadagni coi fratelli, ed elargendo gratuitamente si dà cura del bene comune degli altri e si fa giusto (communis ac iustus est), questi imita Dio Padre.

Anche Cipriano pone alla base del suo commento le parole di Gesù sul sole e la pioggia. E, come Giovenco, le spiega ricorrendo al principio antico dello usus communis. Il suo ragionamento si svolge però a partire dalla citazione dagli Atti, cosicché l’uso del principio viene giustificato, non solo nella sostanza ma anche terminologicamente, con il Nuovo Testamento e il pensiero tradizionale si fa ancora più   Reddere, – mundare, purgare, sopra citati n.*, Gnilka 2012 e Gnilka 1993. 22   Gnilka 1993, pp. 38, 70. 23   At 4,32 24  Cypr. elem. 25. 21

– liberare, consummare: v. gli indices dei voll.

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chiaramente trasparente verso il senso nuovo. Dopo essere stato ripetuto due volte, il termine communis ricompare una terza volta nel testo, con un senso modificato. Nella connessione communis ac iustus, communis designa una determinata attitudine virtuosa. In generale quest’uso dell’aggettivo non è ignoto al latino. Communis ha spesso il significato di ‘affabile’, ‘socievole’, ad esempio come sinonimo per comis, humanus. Ma qui l’accezione è diversa. Cipriano usa il termine, in un senso pregnante, per l’atteggiamento di chi seguendo l’esempio del Padre celeste tratta i beni come communia. C’è insomma uno spostamento semantico della parola. Uno spostamento analogo si può osservare sulla scorta di espressioni come aequitas, aequalitas, aequalis, che spiccano in più punti del testo. Nessuna delle accezioni che conosciamo è qui adeguata. Aequitas (aequalitas) non intende qui l’equità del giudice e neppure l’uguaglianza giuridica nel senso della ἰσονομία, ἰσοτιμία. Intende piuttosto la bontà di Dio, che tratta tutti gli uomini in maniera uguale e tutti ugualmente beneficia. Questa aequitas è senz’altro qualcosa di attivo ed è per questa ragione che ho tradotto aequitas ed aequalitas con ‘uguale trattamento’ e ‘uguaglianza di trattamento’. Il modo in cui queste parole vengono usate ci dà dunque un esempio della dislocazione semantica che in ampi tratti caratterizza il latino cristiano25. Il risultato è: il libro della natura, letto alla luce del vangelo, dà la regola per l’esercizio della carità. La comunità dei beni indispensabili alla vita è un esempio che ci viene da Dio e che deve essere imitato. Compiutamente imitato esso fu nella comunità dei primi cristiani; ma è necessario continuare ad imitarlo: non rinunciando ai propri beni – Cipriano qui non richiede questa massima rinuncia – ma dividendo i guadagni che derivano dal possesso. 6.  Le considerazioni di Cipriano che abbiamo appena esaminato ebbero una forte influenza su Lattanzio. Con le sue Istituzioni Lattanzio aveva cercato di redigere un’introduzione alla dottrina cristiana rinunciando alle citazioni bibliche e basandosi esclusivamente su elementi intellettuali del mondo spirituale precristiano. In due punti egli modificò l’esempio che trovava in Cipriano. Innanzitutto ampliò l’ambito in cui si esercita la aequitas divina: essa non si manifesta solo nel fatto che Dio concede ugualmente a tutti gli uomini i presupposti basilari dell’esistenza, ma anche nel fatto che tutti gli uomini ottengono la possibilità di pervenire alla “sapienza”, vale a dire: alla conoscenza di Dio e quindi alla vera pietas. E ottengono inoltre la possibilità di condurre una vita virtuosa e quindi di pervenire alla meta più alta della vita. Questo pensiero è espresso da Lattanzio nel bel tricolon26: eandem condicionem vivendi omnibus posuit. omnes ad sapientiam genuit, omnibus immortalitatem spopondit.   Teeuwen 1926. Qui però il termine aequitas non compare.  Lact. inst. 5,14,16.

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Con una fine gradazione crescente dei contenuti, questa serie ternaria constata che le condizioni dell’esistenza, della conoscenza e della vita eterna sono uguali per tutti gli uomini. Il fatto quindi che Dio abbia accordato a “tutti” gli uomini le condizioni basilari della vita è parte ed espressione della sua universale volontà salvifica. La seconda differenza rispetto a Cipriano sta nell’ulteriore sviluppo del concetto stesso di aequitas. Lattanzio rinuncia all’espressione communis e si opta decisamente per il secondo dei due termini guida di Cipriano, aequitas ed aequalitas e, corrispondentemente, inaequalitas. In questo modo può designare con la stessa parola l’esempio divino e la sua imitazione da parte dell’uomo: al trattamento uguale che Dio riserva agli uomini corrisponde la aequitas degli uomini tra di loro. Essa consiste nel fatto che l’uomo si fa uguale agli altri, si fa uguale anche ai suoi inferiori, anzi, nel caso migliore si abbassa umilmente al di sotto di essi27. Per quest’uso della parola aequitas nel senso di se cum ceteris coaequare, se inferioribus coaequare, parem se etiam minoribus facere Lattanzio si richiama all’uso ciceroniano di aequabilitas, ma non del tutto a ragione. Aequabilitas non ha questo significato in Cicerone28. L’aequitas di Lattanzio è sviluppata a partire non da Cicerone, ma da Cipriano, e precisamente con riguardo al comandamento dell’amore del prossimo. Con il suo concetto di aequitas inteso nel senso di un farsi uguale agli altri, Lattanzio cerca di approssimarsi al comandamento29: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Il fatto che ciononostante volesse stabilire un collegamento con l’uso linguistico di Cicerone, andrà valutato come il tentativo di attenersi anche in questo punto importante al proprio programma, di esporre cioè un contenuto cristiano per mezzo di elementi precristiani. 7.  Se il Padre tratta gli uomini in maniera uguale e pretende dai figli che essi si trattino l’un l’altro in maniera uguale, ciò non significa che siano annullate le differenze che sussistono tra gli uomini sotto il rispetto morale e religioso. La aequitas, divina e umana, non vuol dire mettere tutto su uno stesso piano, con il fine oppure con l’effetto dell’indifferenza. Al contrario. Se il Padre fa sorgere il Suo sole sui buoni e sui cattivi, se fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, con ciò è constatato che effettivamente vi sono buoni e cattivi, giusti e ingiusti; e se i figli del Padre, obbedendo al Suo esempio, devono amare i propri nemici e pregare per coloro che li perseguitano, ciò vuol dire che essi devono effettivamente aspettarsi nemici e persecutori. E come sussiste un’analogia tra la bontà del Padre e l’atteggiamento di coloro che vogliono essere Suoi figli, così sussiste un rapporto di reciprocità tra coloro che di fronte al Padre sono peccatori e coloro che perseguitano i Suoi figli. Anzi: in determinate   Ivi, 5,15,6.   Aequabilitas in Cic. rep. 1,43 è l’uguaglianza nella democrazia, la ; così anche off. 1,88: iuris aequabilitas; cfr. de or. 1,188; 2,209. Che il Thesaurus 1,992,84-993,2 s.v. aequabilitas inserisca il passo di Lattanzio inst. 5,14,5 sotto la rubrica “in iure” e accanto a citazioni da Cicerone è pertanto fuorviante. Più ampiamente Gnilka 2005, pp. 22 s. 29   Mt 22,39.

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circostanze esterne la reciprocità può manifestarsi visibilmente come identità e dar vita ad una grande antitesi storica. Tale fu il caso nel secolo al quale appartengono gli autori che stiamo considerando. Poiché a quell’epoca i cristiani stavano di fronte al seggio dei giudici come confessori e martiri, o perlomeno potevano vedere direttamente e personalmente come ciò accadesse, era inevitabile che per essi l’antitesi stabilita nel Vangelo dei giusti e degli ingiusti si trasformasse, al di là dei possibili casi singoli, nella testimonianza profetica della grande battaglia nel cui mezzo è posto il cristianesimo, e quindi nel documento della contraddizione che l’adorazione dell’unico Dio portava entro il mondo del culto degli dei. In questa situazione, nella bontà invariabile del Padre si palesava il modello di una virtù senza la quale non era possibile sostenere la lotta e per la quale la parola latina patientia è in tanto un’espressione così felice, in quanto in essa si riuniscono i significati della pazienza, della longanimità – della ἀνοχή, ὑπομονή, μακροθυμία – e della perseveranza, fino alla inspirata patientia dei martiri30. 8.  Tertulliano e Cipriano trattano di questa virtù nei loro scritti dedicati alla pazienza. Ambedue nominano come primo esempio e norma la patientia di Dio, che riversa i suoi benefici su coloro che «perseguitano il suo nome e la sua famiglia»31. Nel passo di Cipriano si mostra tutta la grazia della sua lingua sonora, che avrebbe entusiasmato i secoli seguenti e che perfino in traduzione si fa ancora sentire32: Invero, quale e quanta la pazienza di Dio, che sopporta sommamente paziente i templi profani innalzati dagli uomini a oltraggio della sua maestà e del suo onore, le statue fatte di terra, i sacrifici sacrileghi! Egli fa sorgere il giorno e levarsi la luce del sole in modo eguale (aequaliter) sia sui buoni che sui cattivi. Egli irriga con le piogge la terra e nessuno è escluso dai suoi benefici; sia ai giusti che agli ingiusti egli distribuisce le piogge senza discriminazione. Vediamo che con indifferenziata equanimità di pazienza (inseparabili aequalitate patientiae) ad un cenno di Dio le stagioni sono a disposizione dei riconoscenti e degli ingrati, dei religiosi e degli empi, di coloro che fanno il male e di coloro che non lo fanno; che gli elementi li servono e i venti spirano, le sorgenti danno acqua, le messi biondeggiano ubertose, l’uva matura nelle vigne, i frutti abbondano sulle piante, i boschi frondeggiano rigogliosi, i prati si ricoprono di fiori. E benché Dio sia esacerbato da frequenti anzi continue offese, tempera la sua indignazione e attende nella pazienza il giorno della resa dei conti che ha stabilito una volta per sempre. Pur avendo in suo potere la vendetta preferisce protrarre la sua pazienza …

Cipriano fa capire che la patientia divina è una μακροθυμία in senso peculiare: una longanimità che non prosegue all’infinito come una retta ma sfocia nel Giudizio.  Sulla inspirata patientia – la cosa e la parola – cfr. Lact. inst. 5,13,12.  Tert. pat. 2,3. 32  Cypr. pat. 4. 30 31

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Il fatto che Dio tratti gli uomini in maniera uguale non fa gli uomini uguali. Dio aspetta, dà occasione di emendarsi: ma a tutto sovrasta il giorno della resa dei conti e quindi la fine della patientia, tanto della patientia di Dio quanto di quella dell’uomo, perché anche questa poggia sulla certezza del Giudizio venturo: patientes facit de secutura ultione securitas33. In nessun’altro punto emerge con più chiarezza la diversità da Seneca e dallo stoicismo. 9.  Bontà, grandezza e pazienza di Dio si manifestano proprio nel fatto che i beneficiari dei suoi doni siano così disuguali quanto al riconoscimento del loro benefattore. È la inaequalitas degli uomini che fa risaltare la aequitas nella sua dimensione divina. Questo aspetto dei communia acquistò una particolare importanza quando verso la fine del IV secolo prese forma il tentativo di desumere, dall’uguaglianza dei beni indispensabili alla vita, l’uguaglianza delle religioni. È chiaro che questo tentativo non poteva venire da parte cristiana, i suoi presupposti spirituali sono affatto diversi. È però sorprendente vedere come quest’idea così universalmente diffusa dei communia, nella quale il mondo antico precristiano talvolta appare vicino come non mai al cristianesimo – come alla fine del mondo antico questa idea entri nella lotta spirituale che la chiesa dovette sostenere contro i capi della resistenza pagana. Nell’estate del 384 il praefectus urbi Q. Aurelio Simmaco comparve davanti al giovane imperatore Valentiniano II. Egli chiedeva la ricollocazione nella Curia della statua e dell’altare della Vittoria e l’annullamento dei decreti di Graziano, che avevano tolto al culto pubblico pagano le sue basi finanziarie. All’epoca la sua orazione fu considerata un capolavoro di eloquenza e, come manifesto del paganesimo morente, trova ancor oggi grande attenzione. Al centro della relazione si trovano alcune considerazioni che contengono una specie di giustificazione teoretica della petizione. Tra di esse le seguenti, celebri frasi34: È giusto ammettere che quel che tutti gli uomini venerano è uno stesso e unico essere. Contempliamo gli stessi astri, ci sovrasta uno stesso cielo, uno solo è l’universo che ci avvolge: che importa con quale dottrina ciascuno di noi cerca la verità? Non si può giungere per un’unica via a un segreto così profondo.

Queste frasi fecero allora grande impressione e la fanno tuttora. Tutti nel consistorium imperiale di Milano convennero con l’orazione, pagani e cristiani, tranne il giovane imperatore stesso, che per questo Ambrogio paragona a Daniele35. Nell’età moderna le frasi citate trovano un’adesione entusiastica: si sentirebbe in esse «qualcosa che commuove nel profondo»36. Come si spiega questo effetto? A mio parere  Cypr. Demetr. 17.  Symm. rel. 3,10. 35  Ambr. obit. Valent. 19. 36   Robert M. Ogilivie, cit. in Gnilka 2005, p. 32 n. 49; altri pareri nello stesso senso in Gnilka 1993, p. 22. 33 34

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esso ha due ragioni. Le frasi sono belle, e al tempo stesso vaghe. Siccome sono belle, piacciono, e siccome sono vaghe consentono svariati impieghi e una libera interpretazione. Rendono facile sorvolare le premesse dogmatiche, che pure hanno, e permettono di dimenticare le conseguenze concrete che ad esse si collegano37. È certamente vero che contempliamo gli stessi astri. Ed è vero anche quando si dice: «Sotto l’unico sole c’è posto per molti»38. Il problema è solo se le conclusioni che se ne traggono siano vere, se quei dati di fatto ci autorizzino a pensare che anche le nostre convinzioni siano uguali e che tutte in sostanza si equivalgano. Ma qui il dubbio tace, perché le frasi sono così belle. È la loro bellezza, in combinazione con la semplicità di fatti concepiti analogicamente, che esercita un tale fascino: eadem spectamus astra, commune caelum est, idem nos mundus involvit.

Qui domina la legge dell’isocolia. Il terzo membro è lievemente ampliato e presenta una variazione nel ritmo. La forte clausola finale mette in evidenza la fine del tricolon. Rispetto al contenuto, i sostantivi allargano il concetto di base: astra, caelum, mundus. La variazione dei verbi porta dalla semplice enunciazione spectamus e dalla sobria espressione commune est al metaforico (nos) involvit. Alla base c’è l’immagine del mantello del mondo39. Il cielo, o il cosmo è il manto sontuoso dai molti colori, il παμποίκιλον ὕφασμα, καλὸν ποίκιλμα che dio indossa (o gli dei)40, e del quale quindi si può anche dire che ci avvolge. Quando lo spirito è tenuto occupato con tali immagini, è facile che dimentichi di chiedere se le conclusioni che ad esse si collegano siano anche giuste. Il resto lo fa il costrutto asidentico delle frasi, che lascia indefinita la concatenazione logica dei pensieri, la quale è più suggerita che esplicitata. Anzi, non è neppur chiaro se il tricolon di Simmaco abbia qualcosa a che vedere con il vecchio tema dei communia. Se ne potrebbe dubitare, se non ci soccorresse una testimonianza coeva che ci solleva dall’interpretazione. Ambrogio, che replicò con due scritti alla petizione di Simmaco41 e nel secondo esaminò punto per punto il testo simmachiano, sorvola le frasi con le stelle, il cielo e l’universo. Senz’altro gli apparivano troppo vaghe. Chi invece le prese sul serio fu un poeta. Prudenzio scrisse contro Simmaco circa vent’anni più tardi, reagendo però ad una situazione in quel momento attuale42. Il suo secondo libro Contra Symmachum è una replica poetica alla celebre orazione del suo avversario. Per quanto rielabori pensieri di Sant’Am Cfr. Gnilka 1993, pp. 23-25.   Tosi 1991, nr. 667, pp. 319 s. 39   Eisler 1910, pp. 87 ss. 40   Cfr. Philo somn. 1,203. 207; Porphyr. antr. nymph. 14; Euseb. laud. Const. 6,6. 41  Ambr. epist. 72 (17 Maur.); epist. 73 (18 Maur.). 42  Cfr. Gnilka 2001, pp. 312-317, 576-578. 37 38

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brogio, si tratta però di un’opera autonoma, come dimostra tra l’altro il fatto che Prudenzio riprende ciò che il suo predecessore aveva omesso. Il vescovo, la cui risposta alla petizione dell’oratore pagano era la dichiarazione di un’autorità ecclesiastica, aveva manifestato la sua opinione sulle frasi citate passandole sotto silenzio. Ma il poeta avvertiva il fascino che esse comunque esercitano, e godeva della licenza di preparare, con la sua poesia, un antidoto. 10.  Forse fu solo la forma che Simmaco dette al secondo membro del suo tricolon: commune caelum est, che indusse il poeta a stabilire un collegamento con la dottrina dei communia. Si ha l’impressione che Prudenzio abbia cercato di dare alla vaga analogia di Simmaco un solido fondamento, che è la prima condizione per poter procedere a una critica. «Non nego» comincia il poeta «che tutti i viventi hanno in uso comune l’aria e le stelle, il mare, la terra e la pioggia»43: non nego communem cunctis viventibus usum aëris, astrorum, pelagi, telluris et imbris.

Il poeta riconosce esplicitamente la vecchia verità. Ma subito introduce l’antitesi biblica: «Anzi, il giusto e l’ingiusto vivono assieme sotto uno stesso cielo»44. A questa antitesi ne affianca altre. Si tratta di coppie di opposti per così dire ideologicamente neutrali, che in ogni fede costituiscono un’antitesi – l’empio e il pio, il casto e l’impuro, la meretrice e la sposa, il sacerdote e il gladiatore: tutti respirano la stessa aria45. Dall’aria passa poi all’acqua e dal piano della morale a quello del diritto: quando in primavera la pioggia cade, feconda tanto i campi del ladro quanto quelli dell’innocente colono; nella calura estiva al fiume si accostano tanto l’esausto viandante quanto il bandito; il mare serve tanto il pirata quanto il mercante e le sue onde sorreggono tanto il nemico quanto la pacifica nave46. A questo punto il poeta interrompe la serie degli esempi, perché le situazioni menzionate lo sollecitano ad una spiegazione47: la natura non differenzia gli uomini, essa ha avuto solamente l’ordine di fornire i beni fondamentali dell’esistenza: servit enim mundus, non iudicat. Il signore della natura ha riservato a sé il giudizio ad un tempo stabilito. Nel frattempo i doni della natura: fonti, fiumi, mare, pioggia e aria sono a disposizione dell’uomo alle medesime condizioni alle quali gli furono concessi una volta per sempre (cioè con la creazione). E così sarà fin quando gli elementi attenderanno al loro servizio (cioè fino alla fine del mondo), ed è questa la ragione per cui tanto l’uomo retto quanto il peggior delinquente usufruiscono delle stesse stelle, della benignità dello stesso cielo.  Prud. c. Symm. 2,781 s.   Ivi, 2,783 s. 45   Ivi, 2,784-787. 46   Ivi, 2,788-793. 47   Ivi, 2,794-806. 43 44

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11.  È certo impensabile che Simmaco avrebbe contestato l’esistenza delle antitesi presentate da Prudenzio, che avrebbe cioè messo sullo stesso piano il ladro e l’onesto contadino, il mercante e il pirata. Simmaco non avrebbe affermato che il cielo comune renda uguali il giusto e l’ingiusto, il diritto e il torto, ma avrebbe contestato che la religione – che per lui è la ricerca della verità – abbia qualcosa a che vedere col giusto e l’ingiusto. La differenza sta nel modo di concepire il giusto e l’ingiusto. Prudenzio, che prende le mosse dal vangelo, pone a fondamento della sua concezione il concetto biblico della giustizia. Da questo punto di vista gli ingiusti sui quali Dio fa sorgere il suo sole, sono anche coloro che non lo riconoscono come il vero Dio, anzi: questi sono gli ingiusti per eccellenza, come avevano spiegato Tertulliano e Cipriano. Sotto questa luce la contrapposizione di cristiano e pagano risulta un’opposizione fondamentale che, al pari delle altre antitesi, è estranea alla questione dei communia. Per mettere questo punto ancor meglio in evidenza il poeta procede ad una ulteriore dimostrazione, cambiando di nuovo piano: da quello morale e giuridico passa al piano etnico e culturale. I barbari calpestano lo stesso suolo come i romani, hanno lo stesso cielo al di sopra, sono circondati dallo stesso oceano che abbraccia la nostra ecumene48. Di più: anche gli animali bevono alle nostre fonti; la stessa rugiada che fa crescere il grano per noi fa crescere anche l’erba per l’onagro; il sudicio maiale nuota nel nostro fiume; in forma di respiro la nostra aria entra nei cani, anima i corpi delle fiere49. Prudenzio però non si accontenta di constatare delle differenze, ma le pone in reciproca relazione50: Ma la distanza tra romani e barbari è così grande come quella tra i quadrupedi e l’uomo bipede o tra gli animali muti e la creatura che parla: e tanto sono anche distanti coloro che seguono nel debito modo i comandamenti di Dio, e i culti stolidi e i loro errori. Aver l’aria e il cielo in comune non rende dunque uguali nell’esercizio della religione …

Questi versi non hanno giovato alla reputazione del poeta in età moderna. È quindi pressoché inevitabile che la loro spiegazione assuma tratti apologetici. Infatti spiegare vuol dire qui anche difendere. In uno dei suoi discorsi Wilamowitz ricorda che compito del critico è «capire, capire anche ciò che ripugna al nostro modo di pensare e di parlare, ed anzi anche ciò che è soggetto ad una giusta riprovazione»51. Queste frasi sono state pronunciate in tutt’altra occasione, ma mi sembrano perfettamente adeguate anche al nostro caso.

  Ivi, 2,808-811. Il verso [807] lo ritengo interpolato, cfr. Gnilka 2003, pp. 73 s.; Gnilka 2005, pp. 62 s. 49  Prud. c. Symm. 2,812-815. 50   Ivi, 2,816-821. 51  von Wilamowitz-Moellendorff 1912, pp. 617-622, qui p. 618.

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12.  Per prima cosa bisogna tener presente che il poeta parla di relazioni. In questione sono le distanze e bisogna evitare l’errore di equiparare, invece delle distanze, le grandezze di riferimento – con la sciagurata conseguenza di equiparare barbaro e animale, pagano e animale. Le distanze a loro volta sono il risultato di criteri diversi e non si trovano tutte sullo stesso piano52. Forse si potrebbe parlare, con Pascal, dei tre ordini della carne, dello spirito e della santità. Questi ordini pascaliani in verità non coincidono perfettamente con quelli di Prudenzio, ma ognuno di essi include una gerarchia che sussiste indipendentemente dalle altre53: e proprio sotto questo aspetto la gerarchia pascaliana è paragonabile al sistema di riferimento del nostro poeta – un sistema per il resto che è senz’altro conforme al modo di pensare dei Padri. Paragonare la cultura e l’ignoranza al rapporto che intercorre tra l’uomo e l’animale non è, al loro tempo, nulla di inaudito54, ed anche un’analoga relazione tra cristianesimo e paganesimo appariva giustificata. La donna siro-fenicia che nella regione di Tiro e Sidone si avvicinò al Signore pregandolo di guarire la sua figlioletta – Marco la definisce esplicitamente una pagana – ebbe come risposta: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini»55. Su un certo piano sussiste quindi effettivamente tra gli uomini una differenza che è paragonabile a quella tra l’uomo e l’animale. E poiché questa donna non negò la differenza ma esplicitamente riconobbe: «È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni»56, poiché essa dunque dimostrò con la fede di aver già superato il confine che così profondamente separa gli uni dagli altri – per questo la sua preghiera fu infine esaudita. Così la distinzione di principio e la relazione metaforica sono consacrate dalle parole e dagli atti del fondatore della religione. E poiché da sempre il cristianesimo si considerava il “vero Israele”, Prudenzio non fa nulla di illecito anzi: non fa neppure qualcosa di particolarmente ardito quando avverte e constata tra cristiani e pagani una distanza corrispondente a quella tra uomo e animale. 13.  Ma Prudenzio comprendeva molto bene qual è la forza delle immagini e sapeva che nella lotta delle immagini doveva rispondere con un mezzo adeguato. Per questo motivo ha riassunto a sua volta la propria argomentazione in un’immagine. A questo scopo si servì del paragone dei raggi del sole. Incontriamo per la prima volta questo paragone in un aneddoto su Diogene57. Quando qualcuno rimproverò al filosofo cinico di frequentare luoghi indecenti, questi replicò: καὶ γὰρ ὁ ἥλιος εἰς τοὺς   Su questi versi (816-821) v. Gnilka 2001, pp. 469, 594-596.   L’edizione da me utilizzata: Pascal, Les Pensées. Nouvelle Édition annotée par Adolphe Espiard, Paris s.d.: Bibliothèque Larousse, “Quatrième section, preuves de la religion”, pp. 156-158. 54  Cfr. Gnilka 2005, p. 69 s. sul verso 816. 55   Mt 15,26; cfr. Mc 7,26 s. 56   Mt 15,27; cfr. Mc 7,28. 57   Diog. L. 6,63. 52 53

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ἀποπάτους, καὶ οὐ μιαίνεται («il sole penetra anche nelle cloache, e resta puro»). Da allora il pensiero ricompare continuamente nella letteratura. I Padri della Chiesa lo mettono al servizio della teologia e lo usano in particolare per difendere il mistero dell’incarnazione58. Ma era comunque universalmente diffuso e in forma di proverbio sopravvive fin nel Medioevo: sol licet lustret cloacas, purus et putus manet59. Ora, è questo paragone che Prudenzio impiega, in maniera insolita e a quanto pare originale, per mostrare in un’immagine la vacuità delle metafore del suo avversario. Egli prende la cosa dall’altro lato. Se di solito si dice che la luce del sole non è macchiata dai luoghi nei quali cade, in un certo modo è vero anche il contrario: i luoghi non mutano per effetto della luce che li illumina, restano quello che sono. Prudenzio dice60: E così il raggio del sole, quando effonde la sua luce e illumina tutti i luoghi, colpisce i tetti dorati ma anche i comignoli sporchi e anneriti dal fumo. Entra nel campidoglio risplendente di marmi ma anche nelle fessure del carcere, negli orridi pozzi che racchiudono l’immondizia, nella stanza disgustosa del puzzolente bordello. Ma i tetri ergastoli non sono lo stesso dei lacunari dorati del palazzo imperiale, ornati di gemme. E ancor meno coloro che cercano la divinità nelle urne e nei tumuli e placano col sangue gli spiriti dei morti sono lo stesso di coloro che venerano il sommo signore del cielo e offrono la giustizia come sacrificio e adornano il tempio del cuore.

È diritto di una sana polemica creare antitesi che focalizzino in punti nettamente rilevati l’opposizione contro una veduta di cui si riconosce la falsità. Simmaco aveva affermato che non è importante secondo quale dottrina si cerchi la verità, Prudenzio si ferma su questa parola e le toglie il fascino dell’indeterminatezza presentando il culto dello spirito dei defunti come un cercare: l’andare in cerca della divinità nelle urne dei morti, e contrapponendo ad esso l’adorazione del Signore del cielo. Egli mostra cioè che cosa questo cercare di fatto sia. Quando Prudenzio polemizza in questi termini contro il culto degli dei inferi e dei lemuri, si potrebbe forse avere l’impressione che la sua lotta si riferisca solamente ad una fase storicamente limitata della religiosità non cristiana. Ma il poeta non ha inteso in questo modo il suo confronto con Simmaco. Respingendo il principio delle (molte) vie verso la verità egli ha chiarito che la via è Una e che tutte le altre portano fuori strada. 14.  Qualche tempo fa, in occasione di una giornata mondiale della pace, venne diffusa, per ricordare un incontro di preghiera delle religioni, un’immagine intesa ad illustrare il senso di quell’evento. Sul manifesto si vedevano un grande sole dorato e al di sotto, uno accanto all’altro su una stessa linea, i simboli di varie religioni: un campanile, un candelabro a sette bracci, un simbolo di Shiva, un palo totemico, un minareto, una pagoda; al di sotto ancora una serie di figure umane tratteggiate che,  Cfr. Gnilka 2005, pp. 76 s.   Walther 1967, nr. 29914 a s. 60  Prud. c. Symm. 2,821-842. 58 59

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tenendosi per mano, danzavano lietamente in cerchio61. Mi sono spesso chiesto come Simmaco da un lato e Prudenzio dall’altro avrebbero considerato questo manifesto. Io li immagino così: sul volto dell’aristocratico scivola un sottile sorriso di trionfo, ma la faccia del poeta spagnolo si fa molto seria. I suoi dubbi di certo non si sarebbero dissipati se avesse potuto leggere i testi che accompagnavano le immagini62: «Ciò che muove (gli uomini), che li fa liberi, l’unico sole, simbolo dell’unico Dio. Di lì essi ricevono luce, vita e gioia …» ecc. Difficilmente gli sarebbe sfuggito che la confessione dell’unico Dio da parte di religioni diverse, espressa inoltre con il simbolo del sole, non è lontana né nelle parole né nei contenuti dall’analogia di Simmaco. Vorrei evitare, dai testi che ho passato velocemente in rassegna, di trarre delle conclusioni nelle quali forse la maggioranza dei partecipanti a questo convegno non ritroverebbe i propri convincimenti. Tuttavia voglio concludere con tre osservazioni di natura generale: deve rallegrarci il fatto che nella letteratura antica scopriamo continuamente testimonianze di conflitti che hanno veramente carattere archetipico. E non dovremmo esitare a riconoscere e accettare questo carattere, perché una letteratura che sia solo oggetto di considerazione storica non possiede più una verità – o una non verità – attuale. La seconda osservazione: quanto è grande la forza di semplici analogie! E cresce ancora, quando alla forza delle immagini si accompagna la potenza della parola. E se poi immagine e parola assieme sono impiegate per dar voce ad opinioni gradite agli uomini, che solleticano le loro inclinazioni e fanno risuonare proprio quelle corde che ben s’intonano alla melodia dell’epoca, allora la forza di un simbolo sembra talvolta così grande da spazzar via gli ostacoli eretti dalla riflessione critica. E infine penso che ambedue le posizioni rappresentate da Simmaco e da Prudenzio si prestino bene, sorprendentemente, a sollecitare una presa di posizione. Sono due poli dalla grande forza di attrazione. Non consentono a nessuno di mantenersi durevolmente nel mezzo. Chi si allontana dall’uno, finisce prima o poi inevitabilmente nel campo di forza dell’altro, ancor prima forse di averne piena coscienza. Per concludere vorrei ancora una volta evidenziare il rapporto tra il tema da me scelto e il tema generale di questo simposio: la crisi nel senso originario della parola: la distinzione, soprattutto la distinzione da altre concezioni del mondo e religioni è un carattere essenziale della religione fondata da Gesù Cristo, che si spiega con la pretesa di questa religione e con la pretesa del suo fondatore: e in una situazione di crisi, cioè in una situazione pericolosa che può risolversi in un senso o nell’altro, in guarigione o in consunzione – in una situazione di crisi la Chiesa incorre ogni volta che non soddisfa questa esigenza fondamentale di distinguere, e non la rende pienamente visibile nella vita e nell’insegnamento.   Una riproduzione ridotta in bianco e nero in Dörmann 1988, p. 7.   L’intero testo della “meditazione” su questa immagine in Dörmann (come n. precedente), p. 8. Immagine e testo sono stati pubblicati dal Centro Interconfessionale per la Pace, Roma, e diffusi in occasione della giornata mondiale della pace, celebrata in tutto il mondo il 1. gennaio 1988 risp. la prima domenica del nuovo anno, il 3 gennaio. 61 62

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Addenda 1.  Se si riduce la religione cristiana ad un unico pensiero, questo è il pensiero che Dio si è fatto uomo. Questo afferma John Henry Newman ed io penso che abbia ragione. È un pensiero che introduce all’essenza del cristianesimo. Se quindi si vuole parlare seriamente del cristianesimo, è necessario prendere sul serio questo pensiero. Non affermo che lo si debba assolutamente tenere per vero, e che bisogni assolutamente credere alla divinità del fondatore della religione per poter parlare della Sua religione. Ma questo fatto deve essere riconosciuto come premessa di ogni discussione, perché non ha senso parlare di una cosa di cui non si coglie l’essenza. Ma una volta ammessa questa necessaria premessa, si deve concludere che questa religione non è paragonabile a nessun’altra, che è profondamente diversa da ogni altra. Si comprende allora immediatamente anche il fatto che questa religione non può mai mettersi su uno stesso piano con altre. Non può e non deve, perché altrimenti rinnegherebbe la propria essenza e ingannerebbe gli uomini. 2.  Paolo vieta al cristiano, «che ha la conoscenza», di sedere a tavola in un tempio di idoli (1 Cor 8,9/11). La sua vera mancanza non sta nel fatto di mangiare carne sacrificata agli idoli (idolothyta): infatti egli ha la conoscenza che gli dèi dei pagani sono nulla e che c’è un solo Dio. Il suo errore sta piuttosto nel fatto che il suo comportamento non rende questa conoscenza visibile, e che anzi può essere frainteso come un atto di culto degli idoli. Paolo formula così una legge che ha un significato più ampio ed anzi generale. Questa legge regola il comportamento del cristiano di fronte ad una religione non cristiana e ad una cultura non cristiana. Il punto non è soltanto se le nostre intenzioni siano buone e giuste, ma anche se dagli altri sono percepite come buone e giuste. Ciò vale in primo luogo per coloro «che hanno la conoscenza» o per coloro per i quali si ammette generalmente «che hanno la conoscenza». Su di essi grava una grande responsabilità. San Gerolamo riconobbe la validità universale di questa legge (cfr. epist. 21,13,7-9). Quando verso la fine del IV secolo la Chiesa fioriva nella pace, sussisteva il pericolo di una certa ricaduta nel paganesimo, a causa dell’ammirazione per gli autori classici; e c’erano uomini di Chiesa che mettendo in mostra la propria cultura classica davano un esempio pericoloso – uomini cioè che «stavano a tavola in un tempio di idoli». Essi stessi forse non ne avevano alcun danno, dato che avevano la conoscenza; ma inducevano in pericolo altri, che non possedevano la stessa conoscenza. Ogni epoca ha i suoi pericoli. La carne sacrificata agli idoli e gli autori classici non costituiscono oggi un pericolo. E tuttavia la vecchia legge non ha perduto nulla del suo significato. Bisogna quindi considerare quale sia l’effetto, quando le guide spirituali della Chiesa si riuniscono pubblicamente in preghiera con i rappresentanti di altre religioni: che pensieri si fanno gli uomini che vi assistono.

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Bibliografia Dörmann 1988 = J. Dörmann, Die eine Wahrheit und die vielen Religionen, Assisi: Anfang einer neuen Zeit (“Respondeo” 8), Abensberg 1988. Eisler 1910 = R. Eisler, Weltenmantel und Himmelszelt I, München 1910. Gnilka 1993 = Ch. Gnilka, Chrêsis II. Kultur und Conversion, Basel 1993. Gnilka 2001 = Ch. Gnilka, Prudentiana II. Exegetica, München-Leipzig 2001. Gnilka 2003 = Ch. Gnilka, Prudentiana III. Supplementum, München-Leipzig 2003. Gnilka 2005 = Ch. Gnilka, Chrêsis IX. Sieben Kapitel über Natur und Menschenleben, Basel 2005. Gnilka 2012 = Ch. Gnilka, Chrêsis I. Der Begriff des rechten Gebrauchs, II ed. ampliata, Basel 2012. Teeuwen 1926 = St. W.J. Teeuwen, Sprachlicher Bedeutungswandel bei Tertullian, Paderborn 1926. Tosi 1991 = R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano 1991. Walther 1967 = H. Walther, Proverbia sententiaeque Latinitatis Medii Aevi, Teil 5, Göttingen 1967. Wilamowitz-Moellendorff 1912 = U. von Wilamowitz-Moellendorff, Gedächtnisrede auf Johannes Vahlen, in «Sitzungsberichte der königlich-preussischen Akademie der Wissenschaften» 31, 1912, pp. 617-622.

IL CONCETTO DI CRISI NELLA CULTURA ANTICA E IN QUELLA MODERNA E CONTEMPORANEA: ELEMENTI DI CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ

Ivo Colozzi

Introduzione Non rientra tra gli obiettivi del presente contributo la presentazione analitica dei tanti e diversi significati attribuiti alla parola “crisi” nel lessico delle discipline che si interessano ai «sistemi ed ai comportamenti umani: dall’economia alla psicologia, dalla filosofia alla politologia, alla sociologia»1. Questo lavoro, infatti, è già stato egregiamente svolto, in Italia, da P. Ciocca e G.E. Rusconi per l’Enciclopedia Treccani delle Scienze Sociali2 e, più recentemente da C. Colloca nel contesto di un numero monografico della rivista «SocietàMutamentoPolitica» dedicato al tema “Crisi e mutamento sociale”3. Mi propongo, invece, di presentare in termini sintetici il percorso attraverso cui l’uso del termine crisi nelle scienze sociali, per quanto inflazionato sul piano quantitativo, abbia ormai assunto un significato profondamente diverso da quello che aveva nell’antichità e come l’esito di tale percorso renda oggi il termine poco significativo sul piano teorico. 1.  I significati del termine crisi tra antico e moderno: continuità o discontinuità? I molti e autorevoli studi dedicati all’analisi dei significati assegnati dalle culture antiche al termine crisi fanno emergere una sostanziale polarizzazione.   Rusconi 1992, p. 618.   Ora in http://www.treccani.it/enciclopedia/crisi_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/. 3   Colloca 2010. 1 2

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Ivo Colozzi

Nella cultura greca il termine è anzitutto riferito all’ambito sanitario nel contesto della medicina ippocratica. Crisi «indica un punto di svolta che si presenta durante una malattia, una repentina modificazione che può risolvere il decorso in senso favorevole o sfavorevole»4. Il medico, cioè un uomo specificamente formato e addestrato, deve saperne leggere il senso, attraverso i sintomi, e decidere come intervenire per condurla verso un esito positivo. Naturalmente il giudizio del medico è fallibile e le decisioni che assume possono essere sbagliate, per cui un esito negativo della crisi è sempre possibile. Nella cultura dell’Antico e, ancor di più, in quella del Nuovo Testamento, il concetto di crisis è inscindibilmente legato all’idea di judicium, ma il giudizio cui ci si riferisce è anzitutto quello di Dio che, nel giudizio universale, distingue e separa il bene dal male, i buoni dai cattivi e che incarnandosi in Cristo svela il segreto dei cuori. Tale giudizio non può non essere “giusto”, vero, infallibile5. L’ambizione delle scienze sociali, al momento del loro costituirsi, è stata di portare a sintesi entrambe le tradizioni trasponendo a livello umano l’infallibilità del giudizio divino. Il tentativo è stata favorito dal fatto che i nuovi scienziati sociali hanno continuato ad applicare alla società la metafora dell’organismo o del corpo umano tipica della tradizione classica6. Come questo a volte presenta fenomeni particolari che il medico può interpretare come sintomi di una situazione patologica (crisi) che urge la scelta di una giusta terapia, senza la quale la prospettiva è l’aggravamento della malattia o la fine stessa dell’organismo, così la società periodicamente attraversa momenti di difficoltà (tensioni, conflitti, contrapposizioni) che impongono degli interventi, senza i quali diventa possibile la disgregazione della stessa. Scopo (obiettivo) delle scienze sociali è fornire ai decisori, quali che siano, le indicazioni per fare le scelte giuste, cioè capaci di ricreare la coesione e l’ordine sociale7. Tali indicazioni saranno il frutto della analisi accurata delle precedenti situazioni di crisi e degli effetti, a volte positivi, altri negativi, prodotti dalle decisioni assunte in quei momenti dai responsabili. Per molto tempo l’ipoteca positivista che sta all’origine delle scienze sociali ha ipotizzato che lo sviluppo della ricerca e l’affinamento progressivo delle metodologie di analisi avrebbe consentito di scoprire le “leggi” di innesco e soluzione delle crisi, cioè di garantire l’“infallibilità” delle diagnosi, permettendo alle stesse di fornire   Galimberti 2006, p. 243.   Su questo punto si vedano in bibliografia Koselleck 2009 e Büchsel 1969. 6   Nel Secolo dei Lumi è Jean-Jacques Rousseau che caratterizza il significato medico del concetto di crisi come metafora per la politica. Egli parla della crisi che avrebbe colpito il «corpo politico», lo Stato, generando una condizione di anarchia, innescando imprevedibili disordini e rivoluzioni (Alatri 1970, p. 1169). 7   In alcuni casi la prospettiva è che gli scienziati sociali si sostituiscano ai decisori per garantire che la diagnosi corretta non venga distorta in sede di implementazione. Mi riferisco all’ipotesi “tecnocratica”, sostenuta, ad es, da A. Comte, cui si deve l’invenzione del termine sociologia.

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ai decisori i “protocolli tecnici” seguendo le indicazioni dei quali avrebbero avuto la possibilità di far superare sempre alle società i loro momenti di crisi e di rimetterle in salute per continuare a marciare sulla via dell’inevitabile progresso. Nello sviluppo di questo paradigma si è inoltrata soprattutto l’economia che con J.M. Keynes, ad esempio, ha prodotto una teoria completa la cui applicazione pratica avrebbe consentito ai paesi economicamente avanzati di uscire dalla “grande crisi” innescata nel 1929 dal crollo della borsa di New York ed estesasi, in tempi molto rapidi, a tutti i paesi industrializzati. Ma potremmo citare anche le centinaia di lavori dedicati da sociologi alla elaborazione di una “teoria” dello sviluppo o della modernizzazione che avrebbe dovuto spiegare con la stessa rigorosità delle leggi fisiche i fattori (cause) e i meccanismi attraverso cui sarebbe stato possibile avviare processi di modernizzazione nei paesi del Terzo Mondo e superare le inevitabili crisi a questi connesse 8. Come abbiamo anticipato, i presupposti epistemologici della posizione descritta sono il frutto del processo di secolarizzazione o immanentizzazione che l’Illuminismo ha operato nei confronti della teologia cristiana. In questa il giudizio con cui Dio separa il bene dal male non può non essere esatto e ricondurre la realtà al suo giusto ordine, proprio perché Dio è sommamente sapiente e infallibile. Nel paradigma scientifico positivista lo scienziato sociale, illuminato dalla ragione, è perfettamente in grado di “giudicare”, cioè di individuare quali sono i fattori che hanno prodotto la situazione di negatività momentaneamente vissuta dalla società e di indicare le scelte capaci di contrastare tali fattori e di riavviare l’intera società verso una condizione di salute, cioè di sviluppo. L’idea illuminista e positivista di ragione, infatti, non presuppone solo l’assoluta intelligibilità della realtà alla ragione dello scienziato sociale, ma anche l’universalismo dello stesso, cioè un orientamento etico che gli permette di prescindere dalla propria particolare posizione nella stratificazione sociale e di perseguire l’“interesse collettivo” o il “bene comune” della società9. 2.  Il significato contemporaneo del termine crisi: la rottura con la tradizione antica e moderna Questo paradigma, che ha rappresentato il mainstream nelle scienze sociali almeno fino alla metà degli anni ’60 del Novecento, ha progressivamente ceduto ad una serie di attacchi che hanno messo in discussione entrambi i suoi presupposti. Anzitutto quello della piena intellegibilità del reale.   Si può trovare una presentazione critica di tali teorie e dello schema logico che le fonda e sostiene in Boudon 2009. 9   Il primo termine si riferisce all’approccio utilitarista, il secondo a quello personalista-cattolico. 8

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Secondo Searle10, i fatti e gli eventi «intellettuali e non solo» che hanno progressivamente demolito questo presupposto sono stati: la Grande Guerra, prima causa della crisi; la teoria della relatività, che minò le nostre assunzioni fondamentali circa il tempo, lo spazio, la materie e l’energia; la scoperta dei paradossi nella teoria degli insiemi, che fece vacillare «la razionalità della cittadella stessa della razionalità: la matematica»; la psicologia freudiana, interpretata come «prova dell’impossibilità della razionalità stessa»; la dimostrazione di incompletezza di Gödel; la meccanica quantistica, «che almeno in certe interpretazioni sembrava semplicemente non assimilabile ai nostri concetti di determinatezza e di esistenza indipendente dell’universo fisico»; la filosofia della scienza di Kuhn e di Feyerabend, «i quali argomentarono che la scienza stessa era contaminata dall’arbitrarietà e dall’irrazionalità». Per Kuhn, infatti, ogni importante rivoluzione scientifica “crea” una realtà diversa. Dietro queste teorie epistemologiche si può riconoscere la lezione di Ludwig Wittgenstein, «il maggior filosofo del Novecento», che avrebbe dimostrato «che il discorso umano è costituito da una serie di giochi linguistici reciprocamente intraducibili e incommensurabili», privi di standard comuni di razionalità. L’esito di questo lungo percorso è il relativismo post-moderno. Sul piano della ricerca e dell’analisi, all’affermarsi di tale posizione è conseguita la sostituzione dei modelli deterministici (l’individuazione delle cosiddette “leggi”) con modelli probabilistici e la sempre maggiore diffusione di un atteggiamento “relativistico”, cioè consapevole che non esiste o non è, comunque, accessibile una one best way, un solo modo migliore di vedere la realtà, cioè di analizzare i problemi (le crisi) e di risolverli, ma tanti modi diversi che possono comunque funzionare, pur producendo esiti non equivalenti. Il secondo presupposto che è andato progressivamente in crisi è quello dell’universalismo. Ispirata ai lavori di Marx, si è sempre più diffusa l’idea che, essendo socialmente situato, ogni punto di vista (ogni analisi), non solo è razionalmente limitato11 ma non può non rappresentare interessi limitati, cioè particolaristici che confliggono con altri interessi12. Per chi sostiene questa posizione, ogni giudizio (analisi) e le scelte connesse non hanno come obiettivo il bene del tutto, cioè dell’organismo sociale, ma il prevalere di determinati interessi che, una volta affermatisi, tenderanno a presentarsi come “interesse collettivo” o “bene comune” sfruttando a questo scopo gli strumenti di manipolazione dell’opinione pubblica. Per tornare alla analogia da cui siamo partiti, oggi molti nelle scienze sociali potrebbero condividere l’affermazione che i medici non operano nell’interesse del   Searle 2000.   Il termine bounded rationality (razionalità limitata) è di Simon 1958. 12   Le “teorie del conflitto” rappresentano oggi un vero e proprio approccio sociologico. Tra i nomi più significativi, oltre a Marx e Weber, mi limito a citare L. Coser, R. Dharendorf, R. Collins, C. Wright Mills. 10 11

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paziente ma per massimizzare gli interessi della propria categoria, diagnosticando (o non diagnosticando) come “critica” una situazione in base ai vantaggi economici, reputazionali o di altro genere che ne possono ricavare13. La crisi del paradigma medico/giudiziario ha portato una parte significativa delle scienze sociali ad utilizzare il termine “crisi” in un significato che non ha riscontro né nella cultura antica né in quella della prima modernità. Mi riferisco alla teoria luhmanniana dei sistemi autopoietici-autoreferenziali che è divenuta oggi uno degli approcci più diffusi in ambito sociologico. Secondo il sociologo di Bielefeld, la società contemporanea non può più essere compresa tramite la metafora/analogia organicistica che considera i singoli sottosistemi (organi) in funzione dello sviluppo dell’organismo totale, ma può essere letta solo come una popolazione di sotto-sistemi funzionali ciascuno dei quali ha come obiettivo primario la propria sopravvivenza. Per soddisfare tale obiettivo, ciascun sotto-sistema deve rispondere ai mutamenti dell’ambiente adattandosi ad essi mediante azioni che rappresentano contemporaneamente processi di riduzione della complessità esterna e di aumento della complessità interna. L’ambiente di ciascun sotto-sistema funzionale è costituito dagli altri sotto-sistemi, oltre che dall’ambiente esterno. Perciò ogni mutamento in un sotto-sistema viene percepito dagli altri come un aumento di complessità da ridurre: potremmo dire, semplificando, come un momento di crisi che deve trovare una soluzione. Ma ciò che appare soluzione per un sotto-sistema funzionale (ad es. per il sistema politico) diventa di per sé fattore di crisi per gli altri sotto-sistemi che devono a loro volta ridurre la complessità indotta dal mutamento ambientale. Nel paradigma luhmanniano, quindi, la crisi è un fattore costante della vita sociale, in quanto intrinsecamente legato alla relazione sistema-ambiente, ma contemporaneamente diventa un concetto non più utilizzabile perché la teoria esclude l’idea stessa di un ordine da ripristinare attraverso un giudizio e una scelta o un insieme di scelte. Una delle parole chiave della teoria, infatti, è “contingenza”, termine col quale Luhmann indica la possibilità permanente che le cose si facciano diversamente da come si fanno nel momento presente perché nessuna delle alternative non selezionate va eliminata, ma si conserva come possibile scelta futura. La posizione luhmanniana è stata accolta con molto favore perché permette a prima vista un enorme aumento della libertà (di scelta). Per Luhmann tutto è possibile altrimenti; esiste sempre un equivalente funzionale di ogni forma e regola sociale. Va, però, sottolineato che questa libertà apparentemente infinita è vincolata in modo deterministico dai codici di funzionamento dei sotto-sistemi funzionali la cui logica binaria definisce i confini entro cui le scelte sono possibili. E i sistemi non solo non sono «uomini in grande» (Morandi 2010), secondo l’idea di società degli antichi, ma, secondo Luhmann, hanno ormai posto gli indi13   Per una interpretazione di questo tipo che “legittima” il successo delle organizzazioni non profit in sanità si veda Hansmann 1987.

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vidui nel loro ambiente in modo che la sopravvivenza dei sotto-sistemi funzionali non debba coincidere necessariamente con la crescita o con la valorizzazione dei soggetti umani14. 3. Conclusione Il sintetico percorso che abbiamo accennato ci porta a dire che oggi, nel momento in cui è divenuta una delle espressioni più usate dal linguaggio quotidiano, il termine crisi è divenuto un termine sostanzialmente inutilizzabile nell’ambito delle scienze sociali. I motivi che a mio parere spiegano questo apparente paradosso sono: a)  la perdita di fiducia nella ragione come intelligenza della realtà, sostituita da un atteggiamento di relativismo culturalmente determinato. b)  l’abbandono della metafora organicistica come strumento per descrivere i fenomeni sociali, sostituita dalla teoria sistemica della differenziazione funzionale. Ovviamente che in un momento come questo le scienze sociali non sappiano parlare di crisi o “dare un senso” ad essa non solo è paradossale, ma rappresenta un segnale del fatto che esse per prime sono in crisi. Perciò ritengo urgente mettersi alla ricerca di un nuovo paradigma che, andando oltre i limiti dell’organicismo ottocentesco, sappia ritrovare come criterio di riferimento una idea di società «pensata, raffigurata e praticata come un insieme di relazioni che valorizzano la persona umana»15. Bibliografia Alatri 1970 = P. Alatri, Scritti politici di Jean-Jacques Rousseau, Torino 1970. Boudon 2009 = R. Boudon, Il posto del disordine, Bologna 2009 (ed. or. 1984). Colloca 2010 = C. Colloca, La polisemia del concetto di crisi: società, culture, scenari urbani, in «SocietàMutamentoPolitica», n. 2, 2010, pp. 19-40. Ciocca 1992 = P. Ciocca, Crisi economica e finanziaria, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Treccani, Roma, 1992, vol. II. Donati 1993 = P. Donati, La cittadinanza societaria, Bari-Roma 1993. Ferrari 1983 = G. Ferrari, Su alcuni aspetti epistemologici della crisi, in G. Albertelli, G. Ferrari (a c.), Critica della crisi, Trento 1983. Freund 1980 = J. Freund, Dalla crisi al conflitto. Osservazioni su due categorie della dinamica polemogena, in M. D’Eramo (a c.), La crisi del concetto di crisi, Cosenza 1980.   «l’uomo non è più il metro di misura della società» (Luhmann 1990, p. 354).   Donati 1993, p. 194.

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Gagnebin, Raymond 1969 = B. Gagnebin, M. Raymond, Jean-Jacques Rousseau. Oeuvres completes, Paris 1969. Galimberti 2006 = U. Galimberti, Crisi, in Id., Dizionario di psicologia, Torino 2006. Habermas 1975 = J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Roma-Bari 1975 (ed. or. 1973). Hansmann 1987 = H. B. Hansmann, Economic Theories of the Non Profit Sector, in W. Powell (a c.), The Nonprofit Sector, Yale 1987, pp. 27- 42. Koselleck 1972 = R. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Bologna 1972 (ed. or. 1959). Koselleck 2009 = R. Koselleck, Il vocabolario della modernità, Bologna 2009 (ed. or. 2006). Luhmann 1990 = N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Bologna 1990 (ed. or. 1984). Morandi E. 2010 = E. Morandi, La società è un “uomo in grande”. Il “macro­ anthropos” per riscoprire la sociologia degli “antichi”, Torino 2010. Parsons 1965 = T. Parsons, Il sistema sociale, Milano 1965 (ed. or. 1951). Rusconi 1992 = G. Rusconi, Crisi sociopolitica, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Treccani, Roma, 1992, vol. II, pp. 618627. Sabbatini 2004 = P. Sabbatini Introduzione, in Keynes J. M. (a c.), Come uscire dalla crisi, Roma-Bari 2004. Searle J. 2000 = J. Searle, Mente, linguaggio, società. La filosofia nel mondo reale, Milano 2000 (ed. or. 1998). Simon 1958 = H. Simon, Il comportamento amministrativo, Bologna 1958 (ed. or. 1948). Zolo 1983 = D. Zolo, Crisi e complessità sociale nel capitalismo sviluppato, in G. Albertelli, G. Ferrari (a c.), Critica della crisi, Trento 1983.

AUTORI

Ivo Colozzi è professore ordinario di Sociologia generale e docente di Sociologia e Sociologia corso avanzato presso la Scuola di Scienze Politiche della Università di Bologna. È autore di numerosi saggi e monografie, tra cui Sociologia delle istituzioni (Napoli 2009), Sociologia della morale (Padova 2004) e Lineamenti di sociologia della religione (Padova 1999). Christian Gnilka è stato professore ordinario di Filologia classica e direttore dell’Istituto di Antichità Classica (1972-2002) presso la Westfälische Wihelms-Universität Münster, dove continua a lavorare e ad insegnare come professore emerito. Si segnalano le sue pubblicazioni sulla poesia romana: Philologische Streifzüge durch die römische Dichtung (Basel 2007); in particolare Prudenzio: Studien zur Psychomachie des Prudentius (Wiesbaden 1963); Prudentiana, 3 voll., (München-Leipzig 2000-2003); sulla tradizione e critica del testo e sulla letteratura e Geistesgeschichte del cristianesimo dei primi secoli: Aetas Spiritalis (Bonn 1972); Chrêsis: Die Methode der Kirchenväter im Umgang mit der antiken Kultur, 3 voll. (Basel 1984 [20122], 1993,2005). Leonardo Lugaresi ha conseguito il Dottorato in Scienze religiose all’Università di Bologna e all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Ha insegnato Letteratura cristiana antica all’Università di Bologna, sede di Ravenna, e Storia del cristianesimo all’Università di Chieti. È autore di una monografia Il teatro di Dio. Il problema degli  spettacoli nel cristianesimo antico (Brescia 2008) e di numerosi articoli pubblicati su riviste italiane e straniere. Ha curato l’edizione delle Orazioni IV e V di Gregorio Nazianzeno contro l’imperatore Giuliano (Firenze 1993 e 1997) e della Vita di Mauro di Pier Damiani (Cesena 2002). È membro dell’AIEP (Association

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Autori

Internationale d’Études Patristiques), del GIROTA (Gruppo Italiano di Ricerca su Origene e la Tradizione Alessandrina) e dell’Associazione “Patres. Studi sulle culture antiche e il cristianesimo dei primi secoli”. Giulio Maspero è professore straordinario presso la Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce (Roma). È membro ordinario della Pontificia Accademia di Teologia (PATH). Ha pubblicato principalmente su Gregorio di Nissa, sulla teologia trinitaria e sul rapporto tra filosofia e teologia. In particolare è autore di La Trinità e l’uomo (Roma 2004), Uno perché trino (Siena 2011) ed Essere e relazione (Roma 2013). Ha inoltre curato, con Lucas Francisco Mateo-Seco, Gregorio di Nissa, dizionario (Roma 2007) e Il mistero di Dio uno e trino (Roma 2014). Angela Maria Mazzanti è professore associato di Storia delle religioni presso l’Università di Bologna. È membro della International Association for History of Religions, del GIROTA (Gruppo Italiano di Ricerca su Origene e la Tradizione Alessandrina) e dell’Associazione “Patres. Studi sulle culture antiche e il cristianesimo dei primi secoli”, fa parte del comitato di redazione della rivista «Adamantius». I suoi interessi sono rivolti all’indagine, secondo una metodologia storico-comparativa, di tematiche teologiche e antropologiche nell’ambito del mondo tardo-ellenistico. Si è occupata di giudaismo della diaspora, di letteratura ermetica, di filosofia medioplatonica, di cristianesimo delle origini, pubblicando numerosi saggi. Ha dedicato vari studi ad analisi dell’opera di Filone di Alessandria. Ha curato di recente l’edizione del volume Il Logos di Dio e il logos dell’uomo. Concezioni antropologiche nel mondo antico e riflessi contemporanei (Milano 2014). Moreno Morani è professore ordinario di Glottologia all’Università degli Studi di Genova (dove è stato anche docente di Sanscrito), dopo essere stato docente di Glottologia e di Linguistica generale nelle Università di Catania e di Trento. Ha prodotto pubblicazioni in vari ambiti della linguistica (soprattutto linguistica storica e problematica della traduzione) e della filologia classica (ha edito la nuova edizione critica del De natura hominis di Nemesio); si è occupato di versioni di testi greci in lingue orientali antiche (armeno, antico slavo). Ha prodotto inoltre testi di interesse più generale (Cultura classica e ricerca del divino, in collaborazione con Giulia Regoliosi) e traduzioni da varie lingue (tra gli altri Eschilo, Kalidasa). Alfredo Valvo è stato professore ordinario di Storia romana e docente di Epigrafia romana presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ė autore di pubblicazioni su temi di storia e storiografia romana e di epigrafia repubblicana e imperiale. Ha coordinato progetti di ricerca sulla diffusione dell’eredità classica nell’età tardoantica e medievale. È socio corrispondente della Pontificia Accademia Romana di Archeologia.

Finito di stampare nel mese di marzo 2015 presso Global Print - Gorgonzola (MI)