Karl Jaspers o della filosofia come amore 9788820759452, 9788820759469

Per Karl Jaspers – sulle tracce di Platone – la filosofia è amore e amore è filos­o­fo. Amore è la forza di attrazione e

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Italian Pages 264 [262] Year 2013

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Indice
Nota bibliografica
Capitolo primo – Un fulmine si è abbattuto ad Heidelberg
Capitolo secondo – Kierkegaard e Kant nel pensiero di Jaspers
Capitolo terzo – Dalla Psicologia alla Filosofia: solitudine, comunicazione, lotta amorosa, entusiasmo
Capitolo quarto – Verità, comunicazione, ragione, amore
Capitolo quinto – L'amore in Della Verità: "un elogio ampio e maestoso"
Capitolo sesto – Platonismo e neoplatonismo nel pensiero di Jaspers: la Trascendenza estranea
Conclusione
Testi
Dell'Amore (da Della Verità 1947, pp. 987-1021)
Da Filosofia II (1932)
Appendice
Lettera di Karl Jaspers alla moglie Gertrud Mayer per il suo ottantesimo compleanno
Necrologio di Karl Jaspers scritto da lui medesimo
Quarta di copertina

Karl Jaspers o della filosofia come amore
 9788820759452, 9788820759469

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Maria Luisa Basso

KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE Con brani scelti, tradotti e commentati

Liguori Editore

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Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, fatte salve le eccezioni di legge, è vietata senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa editrice Liguori è disponibile all’indirizzo http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche

Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2013 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Aprile 2013 Stampato in Italia da Liguori Editore, Napoli Basso, Maria Luisa : Karl Jaspers o della filosofia come amore. Con brani scelti, tradotti e commentati/Maria Luisa Basso Memo Napoli : Liguori, 2013 ISBN 978 - 88 - 207 - 5945 - 2 (a stampa) eISBN 978 - 88 - 207 - 5946 - 9 (eBook) ISSN 1972-070X 1. Eros, entusiasmo, matrimonio 2. Comunicazione esistenziale, Trascendenza I. Titolo II. Collana III. Serie Ristampe: —————————————————————————————————————————————————————————————————————————— 23 22 21 20 19 18 17 16 15 14 13 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 La carta utilizzata per la stampa di questo volume è inalterabile, priva di acidi , a ph neutro, conforme alle norme UNI EN Iso 9706 ∝, realizzata con materie prime fibrose vergini provenienti da piantagioni rinnovabili e prodotti ausiliari assolutamente naturali, non inquinanti e totalmente biodegradabili (FSC, PEFC, ISO 14001, Paper Profile, EMAS)

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INDICE

IX 3

Nota bibliografica Capitolo primo Un fulmine si è abbattuto ad Heidelberg

17

Capitolo secondo Kierkegaard e Kant nel pensiero di Jaspers

49

Capitolo terzo Dalla Psicologia alla Filosofia: solitudine, comunicazione, lotta amorosa, entusiasmo

67

Capitolo quarto Verità, comunicazione, ragione, amore

93

Capitolo quinto L’amore in Della Verità: “un elogio ampio e maestoso”

135

Capitolo sesto Platonismo e neoplatonismo nel pensiero di Jaspers: la Trascendenza estranea

159

Conclusione

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viii

INDICE

Testi Dell’amore (da Della Verità, 1947).

223

Da Filosofia II, 1932: Amore 225; Fede 228; Comunicazione e amore 233; Manifestarsi-realizzarsi 237; Lotta amorosa 239.

243

Appendice Lettera di Karl Jaspers alla moglie Gertrud Mayer per il suo ottantesimo compleanno 243. Necrologio di Karl Jaspers scritto da lui medesimo 249.

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169

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Tutte le opere di Jaspers cui facciamo riferimento sia nel nostro saggio che nelle note sono citate direttamente dall’edizione in lingua tedesca. Abbiamo tuttavia adottato, per comodità del lettore, titoli e sigle in lingua italiana. Ciò vale anzitutto per le opere fondamentali: indicata come Filosofia I, II, III

1)

Philosophie (1932): in tre volumi, Philosophische Weltorientierung, Existenzerhellung, Metaphysik, Piper, Monaco 19945 (Filosofia: Orientazione filosofica nel mondo, Chiarificazione dell’esistenza, Metafisica)

2)

Von der Wahrheit, Piper, Monaco 1947

indicata come Della Verità

3)

Die großen Philosophen (1957) Piper, Monaco 19955 (I grandi filosofi)

indicata come Grandi filosofi

4)

Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung Piper, Monaco 1962 (La fede filosofica di fronte alla rivelazione)

indicata come Rivelazione

Di tali opere non abbiamo segnalato le integrali o parziali traduzioni in lingua italiana, in tutto o in parte insoddisfacenti. Il criterio della citazione dal testo in lingua originale, con traduzione nostra, è stato seguito anche per le opere minori, per lo più rivolte al pubblico dei non specialisti. In alcuni casi, tuttavia, per facilitare al lettore un primo contatto con il pensiero dell’autore, abbiamo segnalato in nota alcune traduzioni, indicando sempre sia la pagina dell’edizione tedesca sia, di seguito, quella dell’edizione in lingua italiana:

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x

NOTA BIBLIOGRAFICA

1)

Die geistige Situation der Zeit (1931) de Gruyter, Berlino 1979 (La situazione spirituale del tempo)

indicata come Situazione spirituale

2)

Vernunft und Existenz (1935) Piper, Monaco 1987

indicata come Ragione ed esistenza

3)

Existenzphilosophie (1937) De Gruyter, Berlino 1964

indicata come Filosofia dell’esistenza

4)

Der philosophische Glaube Piper, Monaco 1948

indicata come La fede filosofica

5)

Einführung in die Philosophie (1950) Piper, Monaco 2004

indicata come Introduzione alla filosofia

6)

Vernunft und Widervernunft in unserer Zeit Piper, Monaco 1950 (Ragione e antiragione nel nostro tempo)

indicata come Ragione e antiragione

7)

Die Frage der Entmythologisierung Piper, Monaco 1954 (La questione della demitizzazione)

indicata come Demitizzazione

8)

Kleine Schule des philosophischen Denkens (1965) Piper, Monaco 1983 (Piccola scuola del pensiero filosofico)

indicata come Piccola Scuola (o PS)

9)

Chiffren der Transzendenz (1961) Piper, Monaco 1970 (Cifre della Trascendenza)

indicata come Cifre

Solo per i nn. 3/5/6/8/9 abbiamo a suo luogo segnalato l’edizione in lingua italiana e seguito il criterio suesposto della doppia indicazione – subito dopo la pagina del testo in lingua originale quella della traduzione (cui peraltro non ci siamo mai attenuti). Pure per la Psychologie der Weltanschauungen (1919) – che citiamo nella sesta edizione, Springer Verlag, Berlino 1990 – e di cui è ancora reperibile una più che dignitosa traduzione: Psicologia delle visioni del mondo, Roma, Astrolabio 1950 (per noi: Psicologia), abbiamo sempre fornito la doppia indicazione, tedesco/italiano. Per gli scritti di carattere autobiografico: per la Philosophische Autobiographie (1957), in buona traduzione presso l’editore Morano, Napoli 1969, ci siamo attenuti all’edizione tedesca del 1977 (Piper Verlag), ampliata con un capitolo su M. Heidegger (Autobiografia).

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NOTA BIBLIOGRAFICA

xi

Anche per Schicksal und Wille (Piper 1967) – il cui titolo ha subito nella traduzione italiana una curiosa inversione: Volontà e destino, il melangolo, Genova 1993 – ci siamo attenuti al testo originale. Per altri scritti o saggi brevi, contenuti in raccolte, abbiamo segnalato – qualora fossero disponibili – anche le traduzioni italiane, sempre con la doppia indicazione della pagina.

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Pure le opere di Kierkegaard sono citate nelle edizioni in lingua tedesca. In particolare: per: Der Begriff Angst (Il concetto dell’angoscia), Die Wiederholung (La ripetizione), Furcht und Zittern (Timore e tremore), Die Krankheit zum Tode (La malattia per la morte), e Philosophische Brocken (Briciole di filosofia) abbiamo fatto riferimento alle edizioni Europäische Verlaganstalt, Amburgo 20022004, a cura di Liselotte Richter. Invece per: Stadien auf des Lebens Weg (Stadi sul cammino della vita), Abschließende unwissenschaftliche Nachschrift zu den Philosophischen Brocken (Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia) e Einübung im Christentum (Esercizio di cristianesimo) ci siamo avvalsi della ormai classica traduzione di E. Hirsch, rispettivamente: GTB Siebenstern 1991, 2 voll.; GTB 1994, 2 voll.; Buchclub ex libris, Zurigo, ristampa dell’edizione Diederichs Verlag, Düsseldorf-Köln 1971. Di queste tre opere, tuttavia, abbiamo ritenuto utile segnalare le traduzioni in lingua italiana, rispettivamente: Bur, Milano 2001; Sansoni, Firenze 1972; Piemme, Casale Monferrato 2000, applicando il già menzionato criterio nelle indicazioni di pagina. Il Diario di Kierkegaard è stato invece citato nell’edizione italiana, a cura di Cornelio Fabro, in 12 volumi, Morcelliana, Brescia 1983. Per le opere di Kant: Prolegomeni ad ogni metafisica futura che voglia presentarsi come scienza; Fondazione della metafisica dei costumi; Critica della ragion pratica; La religione entro i limiti della mera ragione, abbiamo sempre fatto riferimento alle edizioni Rusconi-Bompiani, con testo tedesco a fronte; invece per la Critica del giudizio abbiamo tenuto presente l’edizione Laterza, pure con testo in lingua originale a fronte.

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xii

NOTA BIBLIOGRAFICA

Un’ampia e particolarmente dettagliata bibliografia delle opere di e su K. Jaspers – comprendente anche le traduzioni in lingua italiana – si trova in G. Cantillo, Introduzione a Jaspers, Laterza, Bari 2001.

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Nota sulla traduzione Lo scritto sull’amore viene tradotto qui per la prima volta. Il termine Umgreifende – che è usato da Jaspers in maniera sistematica solo dopo Philosophie, in particolare a partire da Vernunft und Existenz (1935) – racchiude in sé, come appare chiaramente nel testo sull’amore, i due significati di Allumfassende (onnicomprendente) e Begründende (che fonda e giustifica). Quando ci sembrava prevalesse il primo, lo abbiamo tradotto con: orizzonte circoscrivente, altrimenti abbiamo preferito il participio “abbracciante”, nel senso di qualcosa che, mentre circonda, anche dà sostegno e fondamento. Non facile è anche la traduzione del termine Dasein, che assume in Jaspers una vasta gamma di significati, complessivamente tutti riferibili all’ambito della realtà empirica o fenomenica, ma con sfumature diverse: anzitutto la polarità Dasein – mögliche Existenz racchiude la tensione, presente nella soggettività, fra fattualità e scelta, necessità e libertà. Dasein è l’uomo in quanto essere vivente, individuo di una specie; Existenz è il singolo, che si rapporta a sé e alla sua Trascendenza. In questo caso abbiamo tradotto Dasein con Esserci, parola entrata ormai da tempo nel linguaggio della filosofia dell’esistenza. Però Dasein rimanda anche, più in generale, all’orizzonte di ciò che può divenire oggetto per noi: allora abbiamo preferito renderlo con “realtà”, ma accompagnandolo sempre con un aggettivo che ne precisasse il carattere, ad esempio realtà oggettiva, realtà vitale ecc. Importante è anche la distinzione fra Realität (realtà in senso genericamente empirico) e Wirklichkeit (realtà sostanziale e autentica). Sia la Trascendenza, sia la nostra stessa libertà – entrambe inconoscibili – sono Wirklichkeiten, il che, per l’etimologia della parola, collegabile al verbo wirken, allude a una qualche forma di operatività e di efficacia. Infine: ringrazio Frau Beatrice Westrick, già console onorario della Germania a Bologna, per l’aiuto prestatomi nel reperimento dei testi in lingua tedesca; e Frau Mjriam Brückner per i preziosi consigli e il gentile interessamento.

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K. Jaspers o della filosofia come amore

Mi hai ferito il cuore mia sorella, sposa mi hai ferito il cuore con uno solo dei tuoi sguardi con una sola gemma della tua collana (Cantico dei Cantici, 4,9)

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a Giancarlo e Valentina

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I

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UN FULMINE SI È ABBATTUTO AD HEIDELBERG

Questo amore si abbatte nella manifestazione temporale come un fulmine, che nessuno vede. PS, p. 149; p. 134

Dolf Sternberger, versatile umanista e saggista politico tedesco, molto apprezzato anche in Italia, così ricorda il proprio incontro con il professor Karl Jaspers, avvenuto negli “aurei anni venti” del secolo scorso: Avevo appena vent’anni e iniziavo allora il mio quinto semestre, quando giunsi ad Heidelberg... Fino a quel momento avevo studiato un po’ di tutto, specialmente lingua e letteratura tedesca, apprendendo con curiosità e con piacere, ma allora, ad Heidelberg, si abbatté un fulmine, lo spirito s’infiammò. E ciò avvenne con le lezioni di filosofia di K. Jaspers… Udimmo parlare di situazioni-limite, di morte, di sofferenza, di colpa. E, soprattutto, di “comunicazione”. La parola ha perso tutto il suo incanto nell’uso linguistico odierno, dove designa solo la trasmissione di notizie. In quel luogo e in quel momento era una parola prediletta che ci colpiva nell’intimo… “Comunicazione” voleva dire una relazione fra i singoli: di fatto fra due, “da esistenza a esistenza”, come egli diceva. “Comunicazione esistenziale”: questo significava, certo, riporre le massime aspettative nell’amicizia, ma, soprattutto, nell’amore: riporre in esso la speranza, l’esigenza più alta, e cioè prendere l’amore sul serio, decidersi, e in un senso preciso e profondo…1. 1

D. Sternberger, Maestri del ’900, il Mulino, Bologna 1992, p. 29. La metafora del fulmine, presente anche nella lettera scritta per il compleanno della moglie (vedi Appendice), è spesso proposta da Jaspers per significare l’irruzione nel tempo dell’amore metafisico di coppia (vedi anche Antwort auf die Frage: Aus welchen Kräften leben Sie? in Wahrheit und Bewährung, Piper, München 1983, p. 204; trad. it. in Verità e verifica. Filosofare per la prassi, Morcelliana, Brescia 1986, p. 231).

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

Quel senso preciso e profondo, che si esprimeva in parole come “scelta”e “fedeltà”, inserendo la relazione amorosa in un’atmosfera d’incondizionatezza, veniva accolto dai giovani uditori come una sollecitazione a tradurre in vita gli insegnamenti del filosofo; accadde così – ricorda Sternberger – che si formasse una lunga teoria di coppie rapite ed entusiaste, pronte ad ispirare il loro amore a tale incondizionatezza, di modo che “in quell’ambiente, era come se erotismo ed etica fossero diventati una cosa sola”2. Riflettendo sull’esperienza d’allora, Sternberger osserva inoltre che il pensiero di Jaspers – una “filosofia dell’intimità” – evocava “la sfera della massima e della più fiduciosa prossimità” tra i soggetti, senza però cancellarne la realtà “di esseri separati”; infatti “lungi dal celebrare l’unione o la fusione, questa dottrina acuiva al massimo grado il senso per l’alterità dell’altro e per la peculiarità del prossimo”3. E, in effetti, al lettore delle numerose e belle pagine jaspersiane dedicate al tema della comunicazione (e a quello, ad esso collegato, dell’amore) non sfugge questo aspetto, rilevato già dai suoi studenti negli anni venti: per quanto nei diversi scritti – disseminati nelle voluminose opere di una vastissima produzione4 – possano variare gli accenti posti sulle diverse forme di relazione inter-soggettiva, e Jaspers sembri talora conferire più importanza alla comunicazione, talaltra all’amore, oppure, nel trattare della comunicazione ampli il discorso, fuoriuscendo dalla sfera dell’intimità e incentrandolo sulla ragione5: niente gli ripugna più del considerare il rapporto fra esseri 2

Ivi, p. 29 Ibid., p. 30. Come vedremo, secondo Jaspers noi non cerchiamo nell’altro una sorta di metà perduta, con cui ricostituire l’intero: ma il compagno o l’amico con cui diventare, ciascuno, uno con se stesso, entrando al contempo in relazione con l’Uno della Trascendenza. 4 “Con questa sua esistenza tipica dello studioso, minacciata dalla malattia sempre e talvolta dalla politica, ma per il resto tranquilla e povera di eventi, Jaspers creò oltre 30 volumi, nel corso di quasi sei decenni” (così H. Saner nel Portrait dedicato a Jaspers in Filosofi del Novecento, a cura di E. Nordhofen, Einaudi, Torino 1988, p. 110). Per una bibliografia delle opere di Jaspers, integrata con le traduzioni in lingua italiana, si può vedere G. Cantillo, Introduzione a Jaspers, Laterza, Bari 2001. 5 Di pari passo con lo sviluppo del tema della ragione, organo precipuo della filosofia, matura in Jaspers l’esigenza di una comunicazione estesa alle culture e alle religioni: questa esigenza universalistica è sottesa al progetto, solo in parte realizzato, di una Weltgeschichte der Philosophie (storia mondiale della filosofia) già avviata con la pubblicazione de I grandi filosofi (Die grossen Philosophen, Piper, München 1957; trad. it. Longanesi, Milano 1973). Che la ragione sia comunque già ben presente nel rapporto di intimità è quanto mette in evidenza Sternberger, quando descrive la lotta comunicativa come quella in cui le anime, “mediante la ragione”, si impediscono, ciascuna a se stessa e reciprocamente, “di ostinarsi e naufragare, quasi sforzandosi di trarsi l’una con l’altra fuori dal pantano” (cit., p. 62). Il fatto è che alla base della comunicazione, sia nella relazione di intimità che in quella più universale, 3

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UN FULMINE SI È ABBATTUTO AD HEIDELBERG

5

umani come mirante alla fusione o anche soltanto all’integrazione, niente gli è meno congeniale della pretesa di rimuovere la diversità, la separazione, la stessa solitudine, senza la quale, anzi, come vedremo, nessuna relazione personale può conseguire serietà e profondità. Anche Nicolaus Sombart6, giunto ad Heidelberg solo molto più tardi, nell’estate del 1945, individua fra gli elementi essenziali dello “spirito” del luogo una “erotische Atmosphäre”, non sappiamo fino a che punto ancora riconducibile alla filosofia dell’amore degli anni venti: l’eros – egli scrive nelle sue Heidelberger Reminiszenzen – consisteva niente di meno che nel “riconoscimento dell’elemento femminile come fattore decisivo nella condotta di vita, e come fermento della cultura politica”7. In ogni caso la cifra della città sarebbe stata riconducibile, anche nel dopoguerra, “alla cooriginarietà di liberalismo, liberalità e libertinaggio”: affermazione che, quanto meno per il riferimento alla “freie Liebe”8, avrebbe prodotto in Jaspers notevoli perplessità. si trova sempre la volontà di verità, che nei singoli si traduce nell’impegno per una reciproca, incondizionata veracità: ma tale impegno non può mai realizzarsi senza la ragione. 6 Vedi N. Sombart, Rendezvous mit dem Weltgeist – Heidelberger Reminiszenzen 1945-51, S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main 2000. Il libro contiene vivaci portraits di Alfred Weber e K. Jaspers, che Sombart – figlio del più celebre Werner, economista e sociologo – ebbe modo di frequentare come studente. Interessanti anche i ritratti di Benedetto Croce, conosciuto durante un soggiorno a Napoli, e di Max Weber, la cui “leggenda” costituiva ancora una parte cospicua dello spirito heidelberghese. 7 Cit., p. 41. Sul ruolo dell’elemento femminile nella vita sociale si possono leggere le considerazioni contenute nell’operetta di Jaspers Kleine Schule des philosophischen Denkens (Piper, München 1965, 1974; trad. it. Piccola scuola del pensiero filosofico, SE, Milano 1998) cui spesso faremo ricorso, in questo nostro lavoro, per illustrare sinteticamente i contenuti fondamentali del suo pensiero. Dopo aver tratto da Demostene la descrizione della prassi di vita presso i greci, ove la classificazione delle donne in etere, prostitute e mogli corrispondeva funzionalmente ed esplicitamente ai diversi scopi degli uomini, Jaspers osserva che l’ordinamento maschilista produce “un’atmosfera rovinosa” tanto per l’elemento maschile che per quello femminile. “L’esser-uomo è un’istanza – egli dichiara – che deve avere il primato sull’essere sessuato. Uomo e donna sono in primo luogo esseri umani, e solo secondariamente esseri sessuati”. Purtroppo però “gli antagonismi primordiali tipici della sessualità divenuta umana non si lasciano mai ricondurre a perfetta unità”. Questa è solo una delle conseguenze del fatto che “l’esser-uomo, che è per ognuno un compito, contiene l’alternativa della possibilità più alta o della degenerazione patologica (Erkrankung seiner selbst)” (ivi, p. 154; p. 138). L’espressione Erkrankung seiner selbst non rinvia evidentemente ad una patologia psicologica, ma a quella Krankheit zum Tode (malattia per la morte) che, per il Kierkegaard teologo, veniva a coincidere con il peccato. 8 Del periodo vissuto ad Heidelberg Sombart ricorda i molti incontri d’amore, di cui alcuni – egli dice “inspiegabilmente” – rimasti indelebili nella memoria. Allora certo, scrive, “non avevamo nessuna consapevolezza circa il fatto che il rapporto fra i sessi, la sessualità, sia la chiave per comprendere i rapporti sociali, il problema centrale nello sviluppo di una cultura”.

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

Iscrittosi alla facoltà di teologia, il giovane Sombart viene ben presto a contatto con la filosofia jaspersiana, che definisce – non senza una sfumatura d’ironia – “una teoria universalistica della comunicazione, una prosodia del Grande Colloquio, una poetica dell’Eterno Dialogo”. Eppure quando, in una breve digressione, tratta il tema dell’amore, gli sfuggono frasi che richiamano proprio la “prosodia” del maestro, del cerimonioso e grave Professore, che riceveva gli studenti nel modesto appartamento vicino all’Università, rimanendo seduto in un angolo – strategicamente lontano – della sua stanza da lavoro, e che, in ogni circostanza, “civettava con la sua scontrosità da tedesco del Nord”9. “L’amore – scrive Sombart – è tremendo. In ogni caso appartiene a un diverso registro, rispetto alla sessualità… L’amore è inferno o paradiso e si svolge nella testa… L’amore, si potrebbe pensare, è un patto per farsi reciprocamente soffrire in nome di un’idea elevata di solitudine a due che non è realizzabile… L’amore-passione rivendica per sé l’eternità, e questo può significare solo: la morte – una morte che è, d’altronde, eterna. L’esigenza di eternità significa una pretesa di totalità e assolutezza, che nessuna realtà può soddisfare, donde il rapporto di totalità e assolutezza con la morte […] È un parossismo in cui sembra possibile il passaggio ad un diverso grado di aggregazione, il passo oltre la finitezza verso qualcosa che può essere solo infinità, oltre la temporalità e i suoi confini, in uno stato in cui questa temporalità sarebbe tolta. Nessuno dovrebbe rinunciare all’esperienza di questi attimi estatici, solo si deve tempestivamente capire che sono, sempre, soltanto attimi”. Impossibile non avvertire in queste parole, da cui trapela, ci pare, un profondo disinganno, l’eco nemmeno troppo lontana di certe tesi del maestro circa l’amore metafisico di coppia, anche se rielaborate in chiave critica o, addirittura, nichilistica. La libertà sessuale, che i giovani uomini condividevano con le loro coetanee, era implicita nel più generale culto della libertà, criterio della coscienza politica e sociale di entrambi i sessi, ma non era oggetto di riflessione. “Quando la filosofia della storia diventa concreta – sostiene poi Sombart – si trasforma in sociologia. Ma quando quest’ultima diventa concreta, il suo problema centrale è la sessualità umana nel suo doppio versante” (cit., p. 74). In queste pagine si trova l’excursus sull’amore, da cui trarremo più avanti alcune curiose considerazioni. Che Jaspers comunque fosse tutt’altro che permissivo rispetto ai rapporti fra i sessi sottolinea invece G. Mann, nei suoi ricordi che avremo modo di citare (vedi nota 15). 9 “Egli interpretava un ruolo: il ruolo dello studioso tedesco, del professore tedesco, sempre sollecito nel suscitare un’impressione di dignità, di superiorità, di distacco” (cit., p. 229). Così “egli celebrava le sue lezioni nell’antica aula, piena fino a scoppiare, e celebrava i suoi seminari”. Alla fine però Sombart confessa di preferire quella “posa in abito talare” alla disinvoltura “in maniche di camicia” diffusasi nelle università tedesche negli anni settanta. E, con chiaro riferimento a Jaspers, conclude: “Io preferisco quei Professori che salutano i loro allievi alzando il cappello, a quelli che indossano scarpe da ginnastica” (cit., pp. 230-31).

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UN FULMINE SI È ABBATTUTO AD HEIDELBERG

7

In ogni caso, dovendo estrarre dai propri appunti alcune sentenze jaspersiane, a suo dire particolarmente evocatrici di quella “betörende Melodie” che affascinava gli uditori (“una musica del futuro”), pure Sombart privilegia il tema della comunicazione, anche se nella sua versione universalistica10. Jaspers sarebbe stato, in definitiva, in quanto “portavoce di un umanesimo universalistico”, il più puro rappresentante dello “spirito di Heidelberg”11 e comunque il pensatore che, anche dopo il volontario esilio dalla Germania, sarebbe rimasto, fino alla fine, la coscienza morale dei tedeschi. La convinzione di Sternberger, secondo cui per Jaspers il rapporto con la moglie Gertrud fu determinante nell’elaborazione dei temi dell’amore, della comunicazione e della fedeltà – Sternberger parla addirittura di una “filosofia del matrimonio”, intesa, evidentemente, come un filosofare non sul matrimonio, ma a partire dall’esperienza del suo matrimonio12 – è condivisa da Hans Saner, autorevole interprete di Jaspers e curatore del Nachlass, il quale d’altronde ritiene che, in complesso, “molti pensieri escogitati, creati… da Jaspers a titolo di ‘chiarificazione dell’esistenza’ costituiscono un tentativo di descrivere la natura della moglie”13. E racconta: […] C’erano alcune persone – pochissime – che non permetteva assolutamente di criticare. La relazione, nella sua integrità, era allora considerata assoluta. Erano, per quanto ho potuto constatare nella sua vecchiaia, tre donne: anzitutto la moglie, la compagna del suo lavoro e del suo pensiero per la vita; poi Hannah Arendt, l’amica intelligente e sempre fidata, ma molto bellicosa, e certamente anche Erna Möhrle, la governante… A nessuna di queste tre donne attribuì mai il valore di un semplice aiuto per la vita… esse consentivano… quella che egli considerava comunicazione: quella relazione stretta, che si conferma in un lungo processo, nella quale,

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Alcuni esempi: “Filosofare significa… ora: noi lavoriamo alle condizioni che rendano possibile una comunicazione universale”; o: “l’attualità di una storia mondiale della filosofia può divenire la cornice per la comunicazione universale” ecc. (cit., p. 232). 11 Sia Sternberger che Sombart riprendono a questo proposito una frase di Jaspers che, a distanza di tempo, suona come una sorta di lascito: “Es war in Heidelberg, als ob es sich um die Menschheit handle”: “ad Heidelberg era come se fosse in gioco l’umanità stessa dell’uomo” (Sternberger, Maestri del ’900, cit., p. 69; Sombart, Rendezvous mit dem Weltgeist, cit., p. 228). 12 Sternberger, Maestri del ’900, cit., p. 62. 13 H. Saner, Portrait, cit., p. 102. Anche nel Vorwort a Schicksal und Wille, raccolta di scritti autobiografici pubblicata da Piper nel 1967 (trad. it. Volontà e destino. Scritti autobiografici, il Melangolo, Genova 1993), Saner si dichiara certo che “quanto viene detto (da Jaspers) su comunicazione e amore sarebbe rimasto inespresso o almeno non sarebbe stato espresso con tale profondità senza il legame con la compagna della sua vita” (ivi, p. 13).

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con il dialogo e con l’azione, ciascuno diventa una persona indipendente e vera…14.

All’amore-amicizia per H. Arendt accenna invece Golo Mann, che ruppe una lunga, amichevole consuetudine con il maestro, proprio a causa dell’allieva da lui prediletta15. Sotto la guida di Jaspers, la Arendt aveva elaborato la sua dissertazione di laurea “sul concetto d’amore in Agostino”: la tesi era stata poi pubblicata nel 1929 nella serie delle Philosophische Forschungen, curata dal filosofo per l’editore Springer, presso il quale sarebbe di lì a poco, nel 1932, comparso l’opus maius dello stesso Jaspers16. Il fulcro della tesi su Agostino – sottolinea L. Boella nella Postfazione all’edizione italiana dello scritto arendtiano – consisteva nello sforzo di comprendere “che cosa significa amare Dio e se stessi e quale rilevanza ha il prossimo per un credente estraniato dal mondo e dai suoi appetiti”17. 14

H. Saner, in Filosofi del Novecento, cit., p. 103 G. Mann, Memorie e pensieri. Una giovinezza in Germania, il Mulino, Bologna 1988. Mann, terzo figlio di Thomas, si trasferisce ad Heidelberg nel 1929 e qui si laurea con K. Jaspers nel 1932, presentando una dissertazione sui concetti “del singolo, dell’io e dell’individuale in Hegel”. Anche dopo la guerra, durante il soggiorno negli Stati Uniti, l’amicizia con il suo maestro fu coltivata e mantenuta viva, fino alla rottura di cui egli racconta nel bel ritratto di Jaspers che, con le pagine dedicate ad Heidelberg, rappresenta per noi la parte più interessante di tutto il libro. Dalle pagine di Mann traspare l’affetto per il maestro, anche quando non gli risparmia osservazioni ironiche, per esempio a riguardo della sua compassata pruderie. In occasione dell’invio di una lettera di condoglianze alla compagna di A. Weber, per la morte di quest’ultimo, Jaspers, ad esempio, non aveva mancato di sottolineare la sua contrarietà, in linea di principio, a relazioni non inquadrate nel matrimonio, pur dichiarando di fare eccezione per il caso specifico... (ivi, p. 223). 16 La traduzione italiana dello scritto della Arendt è stata pubblicata, a cura di L. Boella, nel 1992, presso l’editore SE, Milano. L’opus maius di Jaspers è naturalmente Filosofia (1932), ora ripubblicata presso Piper, München 1994, 3 voll., dopo ben quattro edizioni presso l’editore Springer. La traduzione italiana dell’opera, purtroppo assai malfatta, e di cui sarebbe auspicabile una completa revisione, ha avuto come editori sia Utet – in volume unico – che Mursia – in tre volumi: Orientazione filosofica nel mondo; Chiarificazione dell’esistenza; Metafisica. 17 L. Boella, in H. Arendt, Il concetto di amore in Agostino, cit., p. 153. A proposito di Agostino, nel suo scritto giovanile la Arendt affermava: “egli fu sempre estraneo alla drastica alternativa tra autocoscienza filosofica e obbedienza religiosa alla fede, quale fu, per esempio, effettivamente vissuta dal giovane Lutero” (ivi, p. 18). È una chiave di lettura della personalità filosofica di Agostino che richiama indubbiamente Jaspers, anche se l’Agostino de I grandi filosofi era ancora di là da venire. Nella sua imponente opera di storico della filosofia – di cui rimane anche un ricco Nachlass – Jaspers collocherà Agostino fra Platone e Kant, definendoli i tre grandi del pensiero occidentale che non cessano di generare e alimentare l’indagine filosofica: in particolare Agostino è, insieme con altri filosofi cristiani, come il Cusano, un esponente di quella “fede pensante” che Jaspers distingue rigorosamente dalla pura “fede 15

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Il sodalizio fra la Arendt e il suo maestro non si sarebbe più interrotto, nonostante i tragici eventi della storia e le complesse vicissitudini personali: di questa molto vivace relazione comunicativa –che era insieme affettiva ed intellettuale – resta, notoriamente, un voluminoso epistolario, ricco di spunti filosofici e di considerazioni politiche ed esistenziali18. Quando, però, nel 1963 la Arendt pubblicò Eichmann in Jerusalem19, Mann, infastidito dal disprezzo dimostrato dall’autrice per la resistenza opposta dall’interno al nazionalsocialismo e dal tono generale del reportage giornalistico, a suo avviso “inadeguato alla questione”, stroncò il libro con una recensione feroce, che Jaspers, fedele all’amica, non gli perdonò. Fu la fine di un rapporto durato oltre trent’anni, fra il figlio di Thomas Mann e il filosofo, del quale il giovane Golo aveva ardentemente cercato – fin dai primi seminari – di guadagnarsi la stima, e di cui così splendidamente scrive, nelle sue memorie: filosofica”, pur senza contrapporle, ma anzi sforzandosi di mantenere fra le due una qualche forma di comunicazione. Vedi K. Jaspers, Die grossen Philosophen, cit. e Die grossen Philosophen Nachlass, Piper, München 1981, a cura di H. Saner, in due volumi. Sul rapporto fra fede filosofica e fede religiosa si veda, invece: K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, Piper, München 1962, 19843 (trad. it. La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970). 18 Vedi H. Arendt – K. Jaspers, Briefwechsel 1926-1969, Piper, München 1985. La Arendt tenne, presso l’Università di Basilea, il discorso commemorativo in onore di K. Jaspers, a pochi giorni dalla morte (si può leggere nella traduzione italiana del Carteggio, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 237-8). Grazie a Jaspers, disse la Arendt, “d’ora in poi noi potremo pensare questi tre termini: ragione, libertà, comunicazione non più come realtà separate, ma come una trinità” (ivi, p. 238). 19 Vedi H. Arendt, Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, Viking Press, New York (trad. it. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964). Contro la tesi della “banalità”, Golo cita le pagine della Chiarificazione dell’esistenza di Jaspers (Filosofia II, cap. 5, pp. 170-171: Der böse Wille). Ma in queste pagine Jaspers distingue una costruzione idealtipica del male, che “assolutizzando l’Esserci si rivolge contro la propria possibilità esistenziale e si rivela nell’odio contro tutto ciò che manifesta verità sul fondamento dell’esistenza possibile...”, da un’esperienza più comune e usuale, per cui il bene sarebbe voluto, ma a condizione di servire l’Esserci, e il male significherebbe allora “mancanza di incondizionatezza”; in ogni caso “nella vicenda temporale si passa attraverso figure mutevoli del male, che sempre di nuovo si manifesta” e fra queste mutevoli figure ben potrebbe collocarsi, a nostro avviso, ciò che la Arendt definisce, non certo con l’intento di minimizzare, “banale”. Per una più ampia e dettagliata analisi del tema si vedano altri scritti jaspersiani, che molto risentono soprattutto dell’apporto kantiano: K. Jaspers, Das Unbedingte des Guten und das Böse (1946) ora in Das Wagnis der Freiheit, Piper 1996, pp. 86-98; e Das radikal Böse bei Kant (1935), in Aneignung und Polemik – Gesammelte Reden und Aufsätze, Piper, München 1968, pp. 183-204. Sono comunque estranei al pensiero di Jaspers atteggiamenti di tipo manicheo o gnostico: egli è piuttosto incline a vedere nel male una falsa incondizionatezza, una caricaturale imitazione del bene, che è il solo vero incondizionato.

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Jaspers ha dato… qualcosa d’importante a innumerevoli persone: chiarimento nel senso più bello della parola. Anche a me… Quel che ho imparato da Jaspers: che l’uomo è sempre più di quanto possa sapere di se stesso, e che può quindi stupire se stesso con il suo proprio agire. Che vi sono problemi, che pur sensati, e addirittura inevitabili, non tollerano una risposta obbligata; che esistono conflitti d’opinione insolubili; che ogni preteso sapere totale è falso e, per di più, fonte di danno.

Grato, nonostante tutto, per l’insegnamento ricevuto, così Mann conclude il suo elogio: “Si tenga presente che Jaspers non era un agnostico e neppure io lo sono. Sapere che non si sa questo e quest’altro, perché non si può saperlo, è aspirazione al sapere, per conto mio socratica”20. E a Socrate – anzi, propriamente, al Socrate di Kierkegaard – sembra riallacciarsi pure Sternberger, quando, alludendo al “profeta filosofo” che, negli anni cinquanta, non disdegnava d’intervenire sulle grandi questioni d’attualità politica e sociale attraverso conferenze radiofoniche21 osserva: “Comunque, nel caso di Jaspers, il filosofo appare come un profeta che si rifiuti di fondare una comunità: egli ha sempre parlato ai singoli (e a quanti, come singoli, sono 20 G. Mann, Memorie e pensieri, cit., p. 233. Anche in H. Jonas – compagno di studi della Arendt negli anni venti, e pure allievo di Jaspers – la lettura di Eichmann in Jerusalem produsse una reazione fortemente negativa, non tale, tuttavia, come egli riferisce in un’intervista-conversazione del 1990, da indurlo a interrompere la loro solida amicizia. Jonas riferisce anche di un suo incontro con Jaspers nella Heidelberg liberata dagli alleati, con i quali egli stesso aveva combattuto, e di un Gespräch “memorabile”, in quell’estate del 1945, durante il quale, facendosi trascinare da certe sue ancora ingenue speranze, aveva confidato al filosofo di sognare una società dell’ozio, senza più né lavoro defatigante né conflitti. Jaspers lo aveva ascoltato in silenzio, concedendo infine solo un commento laconico: “Bellissimo, bellissimo, sì, probabilmente sarebbe bellissimo”. Difficile credere che Jonas avesse colto, sul momento, l’ironia celata in quella stringatezza: sta di fatto che nel suo successivo allontanamento dalle tesi dell’utopia, la jaspersiana filosofia del “limite” (e delle “situazioni-limite”) deve aver giocato un ruolo notevole, come si evince dalla lettura della sua opera più famosa (Das Prinzip Verantwortung, Insel Verlag, Frankfurt am Main 1979; trad. it. Il principio responsabilità, Torino, Einaudi, 1990) in cui la presenza di Jaspers è particolarmente avvertibile nei temi della “sfida prometeica”, dell’“idea di uomo” e del binomio libertà-responsabilità. Anche il breve saggio sulla teologia ebraica dopo l’Olocausto è interessante per un confronto con la teologia negativa di Jaspers (ma su questo torneremo in seguito). Le interviste ad H. Jonas cui abbiamo fatto riferimento si trovano raccolte in H. Jonas, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto fra uomo e natura, Einaudi, Torino 2000, pp. 49-54 e 82-89. 21 Fanno parte di questi interventi, realizzati attraverso i nuovi strumenti di comunicazione, ma in seguito sviluppati in vere e proprie opere, anzitutto Die Atombombe und die Zukunft des Menschen, Piper, München 1958 (1982); la Einführung in die Philosophie, Piper, München 1953 (2004); e la stessa Kleine Schule già citata, le cui lezioni furono approntate per la televisione bavarese, nel 1964 (trad. it. La bomba atomica e il destino dell’uomo, Il Saggiatore, Milano 1960; Introduzione alla filosofia, Raffaello Cortina ed., Milano 2010).

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sparsi tra la moltitudine), non ha mai voluto avere dei discepoli. È questo il paradosso esistenziale del suo ruolo”22. Anche la descrizione che, nella terza parte della utilissima monografia Rowohlt dedicata a Jaspers, Saner ci dà della figura (Gestalt) del filosofo, specialmente là dove si sofferma sullo stile del suo colloquiare, è assai indicativa dell’importanza che egli attribuiva all’incontro con l’altro e al dialogo, nonostante i limiti impostigli dai problemi di salute: “Dal momento che non poteva uscirsene nel mondo, aprì al mondo la sua casa. Riceveva numerose visite”. Fra i visitatori: studenti e colleghi, ma anche individui di quasi tutte le professioni. I colloqui che però lo coinvolgevano veramente erano quelli filosofici, riservati a pochi. In questi colloqui Jaspers non cercava affatto una conferma del proprio pensiero, bensì la lotta con il pensiero altrui...A tale scopo il colloquio comportava alcune precondizioni ideali: egli era un partner cavalleresco, la cui generosità consisteva nell’accettare l’altro come partner alla pari, pieno di riguardo nel valutare gli eventuali punti deboli di marginale importanza, naturalmente però ben deciso a prenderlo sul serio. Ascoltava con grande attenzione ed era aperto anche ai movimenti della ragione da lui più distanti. Alla disponibilità all’ascolto corrispondeva il suo esporsi nelle affermazioni. Per una radicale volontà di chiarezza, si spingeva, riflettendo sulle possibilità, fino a posizioni estreme, che però di nuovo abbandonava, quando era riuscito a mostrare la parte di verità in esse contenuta. Grazie all’atmosfera di franca spavalderia, liberava il 22 “La filosofia si rivolge ai singoli. Fonda la libera comunità di coloro che nella volontà di verità reciprocamente si affidano” (PS, p. 171; p. 155). Anche in Wahrheit und Bewährung, cit., p. 212 (trad. it. p. 238), in risposta all’interrogativo su quali siano le forze cui nel nostro tempo si può far ricorso per averne aiuto e salvezza, Jaspers risponde così: “Se dovessi impegnarmi nel tentativo vano di indicare tali forze, oggi visibili in modo oggettivo e affidabili, dovrei cooperare a far sorgere illusioni rovinose. A niente ci si può affidare, né allo Stato né alla Chiesa. Nel corso del ventesimo secolo, quasi sempre, i potenti, nelle situazioni concrete, hanno deluso in modo tanto amaro da superare ogni misura. Solo l’abituale smemoratezza può distoglierci da questo dato di fatto. Ci si poté affidare soltanto ai prossimi, agli amici e ai molti singoli, che ci vennero incontro come esseri umani”. Su questa diffidenza – tipicamente kierkegaardiana – per tutte le entità collettive (chiesa, popolo, stato, classe) molto insiste Sternberger, quando ricorda che alle lezioni di Jaspers: “udivamo che non nutriva altre attese all’infuori di questa: che tutt’al più dei singoli di nuovo, qui e là, tra la folla, venissero chiamati e colpiti segretamente, che cogliessero tale possibilità per una propria libera decisione e a proprio rischio” (cit., p. 43). Così anche G. Mann, Memorie e pensieri, cit., p. 237. Per il modello della “comunicazione indiretta” – della cui arte era esperto Socrate – la sola all’altezza del rapporto fra soggetti liberi e indipendenti, e in grado di salvaguardare la propria vita “dalla falsità più orrenda di tutte, che è quella di avere un seguace”, si veda S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, GTB, vol. I, p. 255; Sansoni, Firenze 1972, p. 401. Riprenderemo quest’ultimo tema nel capitolo successivo.

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partner da qualunque timidezza. Gli dava la libertà di sfidarlo, interrogando, per così dire, fino all’ultimo sangue, ed egli stesso provocava il partner con ostinazione, durezza, radicalità23.

In queste poche righe è descritta – ma sotto forma di esperienza vissuta – quella “lotta amorosa” ingaggiata per la verità che il filosofo presenta nei suoi scritti come ideale del processo comunicativo: esse confermano anche che vita e filosofia erano per lui indissolubilmente intrecciate e che la frase di Nietzsche – tanto spesso citata negli scritti di Jaspers24 – “la verità comincia in due”, non era relegata nel repertorio delle formule suggestive ma sideree. In modi diversi e con differenti sottolineature, allievi ed interpreti ci parlano, dunque, di un pensatore interessato in grado eminente alla relazione fra i singoli, intesa come costitutiva dell’essere dell’uomo e in essa impegnato attivamente, addirittura appassionatamente: e questo nonostante il temperamento apparentemente algido, da uomo del Nord (un vero “frisone di Oldenburg” lo definisce Sternberger) potesse indurre a ritenere, almeno di primo acchito, che fosse, come asserisce anche Saner, “egli stesso incapace di comunicazione, nella misura in cui quest’ultima non avvenisse solo nella forma linguistica”25. Ma per i suoi uditori e lettori resta comunque indimenticabile l’enfasi posta sull’esigenza incondizionata che in Jaspers – è sempre Sternberger a sottolinearlo – assurgeva a prospettiva non tanto di felicità, quanto piuttosto di “salvezza per l’anima, un salvataggio dalla fugacità e caducità di questa vita terrena: una redenzione che dovrebbe potersi compiere, addirittura soltanto e unicamente, qui ed ora, in questa vita terrena smarrita, abbandonata a sé sola”: una salvezza che si attua attraverso l’altro essere umano, con l’altro, nell’assoluta fedeltà all’altro26. 23

H. Saner, Jaspers, Rowohlt Verlag, Hamburg 1984, pp. 116-117. Per esempio proprio a suggellare il saggio sopra citato (Risposta alla domanda: di quali forze viviamo?), p. 213; p. 239. Il detto: die Wahrheit beginnt zu zweien – cui forse Nietzsche non attribuiva identico significato – è ripreso anche nella lettera alla moglie (vedi Appendice). 25 “In nessuna occasione – dichiara G. Mann – lo ricordo ridere di cuore, né durante “small talks”, né durante innocenti partite a carte o mentre ci raccontavamo scherzi” (cit., p. 240). Sombart parla del “sempre angosciato Jaspers” (der immer ängstliche Jaspers) ma forse intende alludere al pensatore che ovunque segnalava esiziali rischi e pericoli (cit., p. 34) per l’umanità dell’uomo. Saner, a sua volta, dopo aver riconosciuto che chi non aveva avuto modo di avvicinarlo davvero “per lo più vedeva solo le barriere che erigeva attorno alla sua persona”, aggiunge, smentendo in parte Mann: “peraltro chi lo conosceva più da vicino scopriva – ancorché con fatica – dietro tutto quel distacco e rifiuto, un uomo sereno e gaio, che rideva volentieri, e che era più che mai disposto a simpatizzare e partecipare” (H. Saner in Filosofi del Novecento, cit., pp. 101-102). 26 Particolarmente nuove e conturbanti risultavano per gli uditori certe affermazioni sulla 24

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Se, infine, gettiamo uno sguardo all’interno di quella famiglia di pensatori che, negli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale, hanno fatto rinascere la Existenzphilosophie in alcuni paesi europei, è Nicolaj Berdjaev, filosofo russo emigrato prima in Germania e poi in Francia, dopo la crisi rivoluzionaria, a dichiarare la propria affinità con Jaspers sui temi della comunicazione e del rapporto interpersonale, che egli compendia nell’espressione “sociologia metafisica”27. In un capitolo – dedicato all’io, alla solitudine e alla società – della sua opera più “esistenziale”28, dopo aver lamentato una certa carenza d’attenzione da parte dei filosofi, almeno “fino ad oggi”, per il problema della “comunicazione delle coscienze”, che egli considera invece d’importanza fondamentale, Berdjaev ricorda la significativa eccezione di Jaspers, che ampiamente ne aveva trattato nel secondo tomo di Filosofia; e in un altro passo, dopo aver rilevato l’interesse di Jaspers per le situazioni-limite, ma soprattutto per la questione del rapporto “fra ciascun io e gli altri”, dichiara di sentirsi, a tale riguardo, “più prossimo a lui che ad Heidegger”, dichiarazione del resto frequentemente ribadita anche nella sua intensa Autobiografia spirituale 29. Singolare è l’affinità dei percorsi speculativi morte della persona amata, come, ad esempio: “La morte della persona più vicina, più amata con cui ero in comunicazione, è la cesura più profonda nella vita fenomenica”, ed altre consimili, allora inusuali soprattutto in quanto pronunciate da una cattedra (così Sternberger, cit., p. 29; p. 58). È interessante constatare che anche un allievo di M. Scheler, Paul Louis Landsberg, morto nel 1944 in un campo di sterminio nazista, in uno scritto sul tema dell’esperienza della morte e del suicidio, pubblicato postumo in Francia nel 1951, cita Jaspers e la sua filosofia della comunicazione, trovando in quest’ultima le condizioni per una genuina comprensione della morte dell’altro, in quanto questa “appartiene essenzialmente alla mia esistenza personale, e non all’esperienza comune”. Per l’attenzione che rivolge al rapporto tra le esistenze, osserva Landsberg, Jaspers risulta molto avvantaggiato, nell’affrontare con concretezza quell’esperienza, rispetto ad Heidegger, in cui “il Mitsein rimane […] una nozione estremamente formalizzata” (vedi P. L. Landsberg, Saggio sull’esperienza della morte e problema morale del suicidio, Moizzi, Milano 1980, p. 22). 27 Si veda N. Berdjaev, Cinq méditations sur l’existence – Solitude, société et communauté, Paris, Aubier 1936, p. 113: “Heidegger ni ne pose ni par suite n’approfondit le problème de la sociologie métaphysique. C’est plutôt chez Jaspers qu’on le trouverait traité”. E, a p. 192 della stessa opera, a proposito del monadismo leibniziano – criticato anche da Jaspers – Berdjaev nota: “Jaspers dit avec raison que l’existence du moi suppose son éclosion à autrui, au ‘toi’”. 28 Ivi, p. 115. Il tema della prima meditazione è la situazione, definita tragica, della filosofia nel mondo contemporaneo, costretta a difendersi dagli attacchi convergenti della religione e della scienza, per cui il compito del filosofo sembra essere anzitutto quello di dimostrare il suo buon diritto ad esserci. In maniera del tutto identica inizia l’opera di Jaspers sulla fede filosofica, che raccoglie il testo di alcune lezioni tenute nel luglio del 1947 a Basilea, dove egli si sarebbe di lì a poco trasferito (vedi K. Jaspers, Der philosophische Glaube, Piper, München 1948; trad. it. La fede filosofica, Raffaello Cortina Ed., Milano 2005; ma la traduzione è inaffidabile). 29 Vedi: Essai d’autobiographie spirituelle, Buchet/Chastel, Paris 1992, p. 130. La traduzione

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di questi due autori – pur tanto diversi se si guarda alle loro personalità e allo stile nella composizione delle opere: sia Jaspers che Berdjaev muovono dalla filosofia kantiana, interpretata come filosofia della libertà e concludono approdando al platonismo e al neoplatonismo; nel caso di Jaspers a Plotino, cui si ispira la sua teologia negativa, mentre per il russo – che riprende la tradizione del cristianesimo orientale – l’approdo è Origene. Ulteriori differenze risalgono al fatto che Berdjaev sviluppa la sua filosofia esistenziale soprattutto con la mediazione di Schopenhauer e di Nietzsche, avendo incontrato Kierkegaard solo nell’ultima fase del suo soggiorno in Occidente, ma senza essersene mai veramente appropriato; invece Jaspers si è mosso da subito30 sulle tracce del grande danese, e l’influsso di Nietzsche sul suo filosofare non ha mai avuto un’importanza paragonabile a quello esercitato da Kierkegaard e, ancor meno, a quello che gli proveniva da Kant: tesi che ci pare incontestabile, nonostante il fondamentale studio su Nietzsche del 193631 ed altri scritti rilevanti sul pensiero nietzscheano32. italiana, a cura di A. Dell’Asta, è direttamente dal russo: Autobiografia spirituale, Jaca Book, Milano 2006, p. 104. L’opera fu pubblicata in Francia nel 1949, subito dopo la morte dell’autore. 30 Riferendosi al proprio “cammino filosofico” Jaspers, dopo aver ricordato Max Weber, che aveva conosciuto personalmente e gli era parso “l’autentico filosofo del nostro tempo”, fa il nome di Kierkegaard: la lettura delle sue opere, nel 1913, lo aveva condotto al “risveglio completo nei confronti della filosofia, intesa come un pensare consapevole e metodico, ma con un suo specifico fondamento. Fu allora che si pose il compito di riconquistare la filosofia del passato, estraendola dalle opinioni trasmesse, nel suo vero contenuto. Essendo stata deformata dalla sua mescolanza con le scienze, era necessario che essa tornasse ad essere efficace come origine indipendente, come ciò sul cui fondamento viviamo e pensiamo, e persino, comprendiamo il senso delle scienze” (Mein Weg zur Philosophie, 1951; ora anche in Was ist der Mensch?, Piper, München 2000, p. 75; trad. it. in Verità e verifica. Filosofare per la prassi, Morcelliana, Brescia 1986, pp. 13-22; p. 20). 31 K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophieren, de Gruyter, Berlin 1936 (trad. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano 1996). È nel verbo, usato in luogo del sostantivo filosofia, la chiave dell’interpretazione di Jaspers; e forse anche – insieme alla concretezza esistentiva di questo modo di pensare – l’elemento su cui fa leva per una appropriazione, limitata però da numerose riserve. 32 A proposito di Nietzsche, Jaspers scrive ancora nel 1941: “Soltanto tardivamente Nietzsche ha acquistato per me importanza, quale impressionante rivelazione del nichilismo e del compito di aprirsi un varco attraverso di esso (quand’ero giovane me ne ero tenuto lontano, respinto dalla sua ricerca dell’estremo, dell’ebbrezza, e dalla sua personalità proteiforme)”. (Über meine Philosophie, ora in Das Wagnis der Freiheit, Piper, München 1996, pp. 31-58; su Nietzsche, p. 36; trad. it. in La mia filosofia, Einaudi, Torino 1946, pp. 1-40; p. 11). Ma sia per il significato da attribuire al nichilismo, sia per le indicazioni circa il modo di attraversarlo, la posizione di Jaspers rimane notevolmente diversa da quella nietzscheana. La differenza risalta soprattutto sul tema della valutazione del cristianesimo, anzi di quella che Jaspers denomina “religione biblica”. Per questo particolarmente importante è il saggio di Jaspers su Nietzsche

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Nietzsche resta senz’altro, con Kierkegaard, il grande distruttore del razionalismo; ma Jaspers non si trova in consonanza con la “pars costruens” del suo pensiero, in particolare con le “cifre” del mondo dionisiaco, della volontà di potenza e dell’eterno ritorno – come del resto già emerge nello studio del 1936. Le parole conclusive di questa imponente opera – oscillante fra volontà di appropriazione e rifiuto – esprimono forse al meglio la Stimmung che caratterizza l’atteggiamento jaspersiano: “Davanti a Nietzsche cresce il timore (Scheu) come davanti all’incomprensibile, che può risultare trasparente solo per l’Origine, ma non per noi”.

e il cristianesimo (1938): Nietzsche und das Christentum, ora in Aneignung und Polemik, cit., pp. 332-388; trad. it., Christian Marinotti ed., Milano 2008. Altrettanto significativi sono i rilievi contenuti nella presentazione di Gesù fra i grandi filosofi (vedi Grandi filosofi, cit., p. 210). In quest’ultima, Jaspers, dopo avere respinto l’interpretazione della figura di Gesù proposta ne L’Anticristo, così scrive: “…se l’Occidente si definisce cristiano, questo elemento cristiano, quando non viene usurpato per sé da gruppi limitati – si tratti della Chiesa di Roma o delle sette – in quanto cristianesimo occidentale non è altro che la religione biblica, la quale racchiude in sé, in certo modo, tutte le confessioni cristiane e gli ebrei, come lo spirito di chi crede senza chiesa, e persino di coloro che si dichiarano non credenti. La religione biblica è allora quel tutto che nessuno abbraccia con lo sguardo e nessuno può rivendicare come suo possesso esclusivo, e che, da Abramo, giunge a noi attraverso i millenni. Di quel tutto si nutre, ad esso s’intona, e sul suo fondamento sceglie chi vive rapportandosi alla religione biblica. Soltanto con il dissolversi di tutte le forme della religione biblica l’Occidente cristiano sarebbe davvero alla fine”. Donde il progetto jaspersiano di una “riforma” della religione biblica, che lo impegna negli ultimi anni della sua attività di filosofo.

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KIERKEGAARD E KANT NEL PENSIERO DI JASPERS

Kierkegaard non è una posizione, è un modo di pensare. (Rivelazione, p. 519). In Kant c’è un duplice pathos, quello del conoscere in quanto sapere, che indagando progredisce nel mondo, e quello della libertà, che è presenza dell’essere autentico, divenuta certa nell’atto della realizzazione. Egli esige che non si confondano le due cose e che non si voglia sapere là dove, attraverso un sapere solo apparente, ingannerei me stesso e distruggerei la mia libertà. (Grandi filosofi, p. 525).

a) Kierkegaard Nessuno, fra i pensatori del secolo scorso, ha con più convinzione e sincerità di Jaspers raccolto l’eredità kierkegaardiana, e proprio con riferimento al modo in cui l’autore della grande Postilla delineava – in contrasto con l’idealismo e con ogni filosofare “oggettivo” – funzione, significato e metodo della filosofia. Nelle pagine dedicate da Climacus al pensatore “soggettivo” e al suo stile, ma anche in certe preziosissime pagine di Anti-Climacus1, si leggono quelle considerazioni che hanno ispirato Jaspers nel momento in cui, lasciata l’attività di scienziato nel campo della psichiatria, ha intrapreso il suo cammino filosofico2. 1 In particolare in Esercizio di cristianesimo, 1850 (Einübung im Christentum, E. Diederichs Verlag, Düsseldorf-Köln 1971, Piemme, Casale Monferrato 2000). 2 Vedi capitolo precedente, nota 30. Nell’Autobiografia (p. 117) Jaspers riconosce a Kierkegaard il merito di avere sviluppato metodicamente, con le sue riflessioni sulla comunicazione indiretta, la consapevolezza del modo di comunicare filosofico (Philosophische Autobiographie, Piper, München 1977; prima ed. 1957; trad. it., Morano, Napoli 1969). Le nostre citazioni si riferiscono sempre all’edizione ampliata del 1977 (nuova ed. 1984) in lingua tedesca.

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

Pensatore soggettivo era per Kierkegaard il singolo che, filosofando, vorrebbe comprendere se stesso e attuare se stesso: era colui che non dimentica – distrattamente – che il pensiero deve servire la vita e che la vita, cioè l’esperienza del singolo, è il tema infinito della meditazione filosofica3. Proprio quanto più il filosofare corrisponde alle vicende personali, alla storia, alle aspirazioni e agli interrogativi del singolo, tanto più riesce, paradossalmente, a comunicare, a toccare l’altro singolo, risvegliandolo al pensiero, rendendolo attento al proprio ineludibile compito4; e così avvia un dialogo sulle “verità essenziali”, sia pure in una forma di comunicazione indiretta. Per Kierkegaard la comunicazione indiretta (che è provocazione, sollecitazione, appello) è un’arte necessaria, anzi indispensabile, là dove chi legge o ascolta non può entrare in rapporto con ciò che si vuole comunicare se non in maniera soggettiva e personale. Le verità di ordine etico (o eticoreligioso) non possono lasciarsi solo passivamente ricevere: il “ricevente” deve fare qualcosa di più che limitarsi ad incamerarle: egli deve iniziare un movimento interiore mediante il quale qualcosa verrà deciso, una valutazione sarà compiuta, un’alternativa risolta, una trasformazione almeno tentata. L’appropriazione di verità del genere, insomma, è un vero e proprio agire interiore, e colui che parla o scrive vuol provocare l’uditore o il lettore a realizzarlo in sé; però ciascuno non può che realizzarlo per proprio conto, e a proprio rischio. La comunicazione indiretta (tramite l’ironia, come in Socrate, o l’umorismo, come in Climacus, ma anche tramite il discorso edificante, che scuote, turba e spinge a prendere partito, ad affrettarsi, a non perdere la tensione del divenire spirituale) è certamente quella più “in carattere”, per verità che 3 Nella lezione undicesima della sua Introduzione alla filosofia Jaspers scrive, con implicita allusione a ciò che Kierkegaard intendeva con il termine “reduplicazione”: “Al filosofo si chiede di vivere secondo la sua dottrina. Questa frase però esprime male quanto con essa si vuole intendere. Infatti il filosofo non ha una dottrina, nel senso di prescrizioni sotto le quali possono essere sussunti i singoli casi della vita reale, come le cose sono sussunte sotto specie empiricamente conosciute, o i fatti vengono sussunti sotto norme giuridiche. I pensieri filosofici non si lasciano applicare, piuttosto sono quel tipo di realtà di cui si può dire: nel compimento di tali pensieri vive l’uomo stesso, oppure: la vita è compenetrata dal pensiero. Da qui viene l’inseparabilità dell’esser-uomo e del filosofare (a differenza della separabilità dell’uomo dalla sua conoscenza scientifica) e la necessità, di fronte ad un pensiero filosofico, di non limitarsi a meditarci su, ma di penetrare in certo modo con questo pensiero l’essenza umana di quel filosofo che lo ha pensato” (ivi, pp. 97-98; trad. it. p. 109). 4 Che Climacus, nella Postilla, condensa nella formula “diventare se stessi di fronte a Dio”. Su questo compito universale e insieme singolarissimo, si fonda, per Kierkegaard, la vera uguaglianza fra gli uomini in senso etico ed etico-religioso. Socrate per primo ha posto il compito, che il cristianesimo, attraverso la messa in luce delle sue condizioni, ha successivamente sviluppato e reinterpretato.

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KIERKEGAARD E KANT NEL PENSIERO DI JASPERS

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sono da assimilare come un cibo, in modo da non poterle più distinguere da se stessi: ma si tratta anche del rapporto da spirito a spirito, il più nobile, e, insieme, il più arduo dei rapporti5. Rapporto da spirito a spirito equivale a: da libertà a libertà. Un essere privo di interiorità non è spirito; un essere incapace di innalzarsi a Dio non sarebbe capace di libertà; ma interiorizzarsi e innalzarsi non costituiscono un agire pubblico, oggettivabile: sono l’agire segreto dell’uomo, in cui nessuno è sostituibile da un altro, né può sostituirsi a lui. Per questo nella comunicazione indiretta il comunicante rimanda l’altro, in certo modo, alla sua responsabilità: con il gesto che era appunto di Socrate, il quale si rallegrava della propria respingente bruttezza, poiché non voleva sedurre, bensì aiutare a “partorire”, cioè non cercava seguaci ma amici. Chiusamente monologico è, invece, il pensiero “oggettivo”, che può trasmettersi direttamente perché astrae dalla singolarità ed è indifferente al suo compito, né è interessato alla “situazione esistenziale umana”: così, effondendosi in esso, il filosofo parla il linguaggio di una fantastica, impersonale egoità assoluta. Il pensatore oggettivo è paragonabile a un ventriloquo, la cui voce proviene da una forza celata nelle sue viscere; o forse è simile al fantoccio che il ventriloquo muove e fa parlare, il quale gesticola emettendo suoni non suoi, provenienti da un Io puro o da uno Spirito senza volto e senza nome, scaturiti dalla Scienza o dalla Dottrina universale. Non un filosofo dottrinario, ma un novello Socrate sarebbe desiderabile – sospira Kierkegaard – “in un mondo confuso dal troppo sapere”6; disgraziatamente, però, ciò di cui in uno stato confusionale più si avrebbe bisogno “è sempre quello a cui la confusione meno pensa – naturalmente, perché altrimenti non sarebbe confusione”. Certo l’inventore della maieutica era un maestro

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Frequente in Kierkegaard l’atteggiamento di rivolgersi al lettore, sia per trovare con lui un’intesa circa i propri scopi di scrittore – come avviene nelle pagine conclusive della Postilla in cui Climacus si dichiara “un povero singolo uomo esistente” alla ricerca di un maestro “nell’arte ambigua di riflettere sull’esistenza e di esistere”; sia con chiaro intento edificante, come Anti-Climacus nelle pagine iniziali della Malattia per la morte (“oh... quando tutto attorno a te è silente, come nell’eternità, che tu sia stato uomo o donna, ricco o povero, da altri dipendente oppure indipendente, fortunato o infelice; che tu abbia con maestà portato lo splendore della corona o, in un’umile oscurità, solo la fatica e l’arsura del giorno... l’eternità chiede a te e a ciascun singolo – fra tutti i milioni di milioni – una cosa unicamente: se sei vissuto da disperato oppure no...” (p. 27). 6 “Socrate, Socrate, Socrate! Ebbene sì, bisogna proprio ripetere tre volte il tuo nome, anzi, non sarebbe troppo ripeterlo dieci volte, se ciò potesse essere d’aiuto. Si pensa che il mondo abbia bisogno di una repubblica, si crede che sarebbe necessario un nuovo ordine sociale o che ci vorrebbe una nuova religione: però a nessuno viene in mente che proprio di un Socrate avrebbe bisogno questo mondo confuso per troppo sapere…” (cfr. La malattia per la morte, cit., p. 87).

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

paradossale: non solo la sua saggezza culminava nella consapevolezza di non sapere; non solo attirava respingendo; ma propriamente nulla insegnava, solo aiutava a ricordare…7. Lo scopritore, l’inventore, lo scienziato trovano8: talvolta la ricerca è lunga e travagliata, talaltra la scoperta giunge inattesa, del tutto casuale; il loro procedimento può, comunque, venir imitato, ripetuto, standardizzato, addirittura ridotto e semplificato; il risultato è ciò che conta, l’umanità è salva grazie al risultato. Ma le suddette verità essenziali – in virtù di cui uno può farsi ed essere diverso da come era prima – non tollerano distinzione, o, peggio, separazione fra il soggetto che se le appropria, il metodo o la via per conseguirle, e il risultato finale: qui, infatti, il risultato è la vita stessa del singolo, la via è il percorso che egli compie vivendo, mentre si rende simile alla verità che lo trasforma, rendendolo vero9. 7

“La filosofia non dà, essa può solo risvegliare” – scrive Jaspers nella sua Introduzione alla filosofia (cit., p. 41; it. p. 41) – “essa allora può aiutare a ricordare, consolidare, preservare. Ciascuno in essa comprende ciò che, propriamente, già sapeva”. Anche lo studio dei grandi filosofi ha, in fondo, questo scopo: “es soll uns entweder aufmerksam machen und erwecken, oder in Frage stellen” (deve o renderci attenti e risvegliarci, oppure porci in questione; ivi, p. 114; it. p. 128). L’espressione “aufmerksam machen auf” (rendere attenti a) richiama direttamente Kierkegaard, che si proponeva di rendere attento il suo lettore al grande equivoco del cristianesimo metafisicizzato e naturalizzato; ma anche l’espressione “erwecken” (risvegliare) rimanda al pietismo kierkegaardiano, nei discorsi edificanti e non solo (si pensi proprio al sottotitolo della Malattia: saggio di psicologia cristiana per edificazione e risveglio). Aufmerksam machen auf è però locuzione usata anche da Kant, nella Fondazione della metafisica dei costumi, per indicare il procedimento socratico nei confronti dell’idea etica (si vedano le considerazioni conclusive della prima Sezione dell’opera). Sempre sul tema della comunicazione indiretta, in chiave kierkegaardiana, Jaspers scrive nell’Autobiografia: “Il filosofo non è un profeta. Non fa di se stesso un modello... Vuole ricordare, tramandare, evocare, sollecitare. Non avanza la pretesa di avere seguaci, ma vorrebbe riuscire ad essere occasione per il pervenire a sé dell’altro...” (ivi, p. 119). Anche a p. 134, pur presentandosi come filosofo della “ragione”, Jaspers utilizza i verbi della comunicazione indiretta: il compito è, comunque, ancora quello di suscitare (erregen) nel lettore l’esistenza possibile, e di incoraggiarlo (ermutigen) nel divenire se stesso. Quanto al significato del comprendere (verstehen) filosofico, con valenza etico-esistenziale e non meramente teoretica, indispensabile il riferimento all’Anti-Climacus della Malattia, il quale, pur sottolineando i limiti della posizione di Socrate sul problema del male, interpretato come “ignoranza”, gli ascrive a merito imperituro di aver saputo chiaramente distinguere fra “comprendere e comprendere” (cit., p. 86) 8 Qui, invece, interviene l’Anti-Climacus di Esercizio di cristianesimo, Nr. II. 9 Giustamente G. Cantillo, nella citata monografia (Introduzione a Jaspers, cit., p. 61) osserva che Jaspers, per il suo modo d’intendere la filosofia, può far ricordare le parole del Vangelo di Giovanni (14, 6), laddove si dà l’annuncio di una verità che è, insieme, via e vita. In realtà è Kierkegaard che, proprio in Esercizio di cristianesimo si riallaccia a quelle parole e ne fornisce il chiarimento che abbiamo detto; se non che, seguendo Giovanni, egli le riferisce alla persona stessa del Cristo. Appunto tale riferimento è invece respinto da Jaspers, in un passo

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KIERKEGAARD E KANT NEL PENSIERO DI JASPERS

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Jaspers racconta di aver capito già nel periodo della sua attività di ricercatore (Forscher) presso la clinica psichiatrica di Heidelberg10 – e di averlo capito di colpo, per la domanda del direttore Nissl – che c’è un pensiero “privo di risultati”, anche se affatto efficace, e intende: privo di contenuti oggettivi da trasmettere impersonalmente alla comunità dei ricercatori; privo di dati su cui far leva per ulteriori indagini o per smentire l’esito di indagini precedenti; privo di reperti utili in funzione di eventuali terapie; e, nondimeno, capace di fornire un chiarimento decisivo in vista della prassi. La prassi che è in questione nel pensiero filosofico, però, non è quella tecnica – si tratti della medicina o di qualunque altro settore in cui una tecnica è applicabile: qui è in gioco la prassi esistenziale, cioè la vita. Più tardi11 esplicitando il punto di vista sotteso alla sua grande opera degli anni trenta, Jaspers avrebbe scritto: La filosofia è quel pensiero in cui noi ci accertiamo di ciò sul cui fondamento viviamo, di ciò che autenticamente è, di ciò da cui traiamo il nostro essere, di ciò che è per noi incondizionato, della risoluzione su cui si basa il nostro esistere, e insieme, è il pensiero mediante cui riflettiamo su questo pensiero, mettiamo alla prova la sua certezza, ne chiariamo senso e criteri.

Servendo la vita – che, già nell’interpretazione di Kant, è essenzialmente “agire”12 – il pensiero filosofico serve l’agire13: ma, anzitutto, serve l’agire molto significativo di Filosofia II: “Un uomo che parli come Gesù è, nel caso dica la verità, non più uomo, infinitamente lontano dall’uomo: è Dio... Non resta, allora, che: o decisamente seguirlo... oppure decisamente non seguirlo”. Esclude la prima eventualità, secondo Jaspers, “chi viva in maniera filosofica, senza la riserva di una rassicurazione religiosa”. Costui, anzi, “è costretto (muß) a lottare interiormente contro tale possibilità per tutta la durata della sua vita”. Ciononostante Jaspers ammette – con curiosa incongruenza – che vi è qualcosa di “commovente” (ergreifend) negli uomini che lungo i millenni hanno preso sul serio la sequela di Cristo – e quel che ciò possa significare “in una paradossalità e consequenzialità” estreme, lo si può apprendere appunto da Kierkegaard (ivi, pp. 273-274). 10 Cfr. Autobiografia, p. 36: “Una volta, nella clinica, mi venne incontro Nissl, che, com’era suo costume, m’interrogò sul mio lavoro: quali risultati? Allora in maniera fulminea mi divenne chiaro... che c’è un pensiero ricco di senso, ma senza risultati...”. 11 Nel Nachwort del 1955, scritto per la terza edizione di Filosofia (presente nell’edizione Piper sopra citata, 1994, pp. XV-LV). La definizione che riportiamo si trova a p. XXXV. 12 Cfr. I. Kant, Metafisica dei costumi, Introduzione. 13 Sempre nel Nachwort del 1955, sul titolo dato all’opera degli anni trenta: “La intitolai Filosofia nel senso che dovesse dare testimonianza della filosofia come filosofare pratico e realizzazione dell’esistenza, e che avesse il compito di mostrare lo spazio ideale, in cui tale realizzazione può avvenire...”. E, subito dopo: “si tratta della filosofia come di quel tipo di pensiero che sostiene la vita, e chiarisce e guida l’agire, tanto nella vita personale quanto in quella politica” (ivi, p. XXI).

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

interiore, al punto che, per Jaspers, filosofare e agire interiore vengono addirittura a coincidere.

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Il pensiero filosofico è prassi, ma una prassi di genere unico... la meditazione filosofica è l’esecuzione di un agire in cui io pervengo all’essere e a me stesso, non un pensare indifferente, nel quale mi occupo di un oggetto senza essere coinvolto14.

Il “risultato” è, allora, l’esser-uomini, che a ciascuno si prospetta, di volta in volta, come possibilità e come compito, se è vero che “Menschsein ist Menschwerden” – autenticamente umani si deve diventare, singolarmente e in modo unico, irripetibile; mentre tale “diventare”, rischiarato e guidato dal pensiero, impegna tutto il tempo della vita15. La possibilità, categoria così cara a Kierkegaard, che ne paragonava la mancanza all’essere muti o al non riuscire a respirare16, è, anche per Jaspers, uno dei signa più importanti della sua chiarificazione 17: messa a confronto con la possibilità oggettiva della logica kantiana significa, soggettivamente, “la possibilità della scelta come indeterminatezza del futuro”, ma, soprattutto, che l’essere del singolo deve sempre ancora realizzarsi e decidersi. Essa, per 14 Da La mia filosofia (1941), ora in Das Wagnis der Freiheit, Piper, München 1996, p. 38; p. 13. 15 “Il lavoro della filosofia – ripete Jaspers nel Nachwort sopra citato, p. LV – si compie nell’interiore agire del singolo con se stesso”. Vi è qui una perfetta analogia con il “lavoro” kierkegaardiano della fede, la cui dialettica impegna l’Abramo di Timore e tremore per tutto il tempo dell’esistenza. La frase “Menschsein ist Menschwerden” chiude ad effetto la sesta lezione, dedicata all’essere dell’uomo, nella Introduzione alla filosofia già citata, p. 57; it. p. 61. 16 Notoriamente nella Malattia per la morte, cit., sotto il titolo: La disperazione della necessità è mancare della possibilità (p. 36 sgg.). 17 Nel primo capitolo del secondo volume di Filosofia, illustrando il metodo della chiarificazione dell’esistenza, Jaspers presenta i termini usati nella chiarificazione stessa come signa, simboli di un linguaggio non denotativo, ma evocativo, “che fa appello a possibilità” (ivi, p. 15). In questo linguaggio deve potersi tradurre l’esperienza della libertà, cui non corrisponde alcun oggetto nello spazio-tempo. Per esplicitare la funzione e il valore di tali signa Jaspers poi li mette a confronto con le categorie kantiane: tanto i signa quanto le categorie richiedono una schematizzazione temporale, anche se, ovviamente, il tempo esistenziale non è il tempo fisico. “L’esistenza ha il suo tempo, non ha tempo tout court” (ivi, p. 18). “Anche Kant – così Jaspers conclude il suo confronto – ricusa alcuni di questi signa esistenziali, dopo averli esaminati con il criterio delle sue categorie oggettive, quando, per esempio, spiega perché nel mondo non vi è alcun salto (Sprung) nel tempo, né alcuna lacuna nello spazio, perché in esso non v’è il caso, cioè la cieca accidentalità, e non c’è il destino, cioè non c’è nessun altro genere di necessità diverso da quello che è comprensibile secondo regole. Infatti tutto questo non c’è nel mondo, nella dimensione dell’oggettività, e non esiste come oggetto di conoscenza. Ma là dove viene fatto il tentativo di spiegare l’esistenza, tutte queste parole ritornano...” (p. 18).

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passare alla realtà, deve attraversare il ponte della relazione. Ma mentre il pensatore danese, ponendo in luce nel Sé, cioè nella personalità spirituale, la coincidenza di auto- ed etero-relazione, faceva risaltare soprattutto (almeno negli scritti Pseudonimi) il rapporto fra il singolo e Dio, Jaspers apre quella coincidenza all’altro in quanto soggetto finito, cosicché la relazione è ora triplice: del Sé con se stesso, con l’assolutamente Altro e con l’altro singolo, dove ciascun rapporto è, contemporaneamente, condizione e condizionato, in una insolubile ma significativa circolarità. Non posso, infatti, diventar me stesso senza l’insondabile Trascendenza, da cui sono donato a me stesso; ma anche il mio rapporto con me stesso è impossibile senza l’altro Sé, con cui entro in comunicazione; però, se non mi rapporto a me stesso, liberamente ricevendomi dalla mia Trascendenza, nemmeno riesco a comunicare; e lo stesso rapporto con la Trascendenza, che è Verità, comincia, come abbiamo visto, “in due”18. Qualcuno ha visto nella “psicologia” la via elettiva di Jaspers filosofo19: ma questa via porta alle realtà fondamentali dell’esser-uomo: la colpa, la lotta, il dolore, il fallimento, l’amore. Essa impedisce che il salto nell’essere – di cui pure Jaspers va in cerca, dal momento che introduce la sua Filosofia con la frase “cerco l’essere che non si risolve solo nello svanire (Ich suche das Sein, das nicht nur verschwindet)”20 – avvenga senza adeguata preparazione, 18

Vedi capitolo precedente, nota 24. “Heidegger begründete sein Existenzverständnis ontologisch, Jaspers, der von der Psychiatrie kam, psychologisch” (così N. Sombart, Rendezvous mit dem Weltgeist, cit., p. 228). In realtà Jaspers avverte il suo lettore che il linguaggio solo apparentemente psicologico della chiarificazione subisce una torsione semantica, per cui i termini usati – in quanto signa dell’esistenza – evocano l’inoggettivabile, cioè la libertà (vedi nota 17). Il termine comunicazione (Kommunikation), ad esempio, se accompagnato dall’aggettivo “esistenziale”, significa un’esperienza (quella del reciproco generarsi delle ipseità, in certo modo ex nihilo) che non sarà mai oggetto di nessuna indagine, né psicologica né sociologica né di altro genere: e l’inoggettivabilità di tale esperienza emerge dal carattere paradossale dei pensieri mediante cui soltanto essa si lascia chiarire. La chiarificazione esistenziale, però, prepara il salto nell’impensabile Trascendenza (cfr. Filosofia III, Metafisica). Sternberger, per parte sua, vede il tratto distintivo della filosofia di Jaspers – rispetto a quella di Heidegger, dove non c’è “un dovere, ma soltanto un essere” – nel proporsi come “integralmente etica” (Maestri del ’900, cit., p. 104). 20 Si tratta di far vedere come il filosofare prenda le mosse dalla nostra situazione (l’humana conditio). “Quando pongo domande come queste: che cosa è l’essere? perché vi è qualcosa, perché non il nulla? chi sono io? che cosa voglio veramente? non sono mai, con tali domande, all’inizio. Io le formulo sulla base di una situazione in cui mi trovo, provenendo da un passato…Mi è possibile vedere tale situazione solo nel movimento, in cui costantemente scivolo da un’oscurità in cui non c’ero verso un’altra in cui non ci sarò…lascio scivolare via questo fluire e provo sgomento al pensiero che qualcosa andrà perduto per sempre, se non lo afferro adesso, e però non so di che cosa si tratti. Io cerco l’essere, che non sia soltanto uno svanire” (Filosofia I, p. 1-2). Se non che, partito alla ricerca dell’essere, l’uomo jaspersiano incontra 19

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

e fallisca in modo affatto non genuino. Non da una soggettività anonima, formale, ma da un soggetto storicamente situato, e situato, come Kierkegaard voleva, alla congiunzione di tempo ed eternità; da una piattaforma in cui la personalità si costituisce dinamicamente nella relazione e nelle relazioni, in cui si confronta con il limite, pur slanciandosi oltre, urta nei muri della vita e in quest’urto comprende la sua peculiare responsabilità; da qui può azzardarsi il salto, per evitare di cadere nel vuoto di un pensiero scialbo, privo di serietà e di passione 21; oppure per evitare di perdere quel senso di umana modestia (Bescheidenheit) che, secondo Kierkegaard, contraddistingue il vero pensatore socratico22. Si tratta, allora, di una particolare “psicologia”, i cui precursori, oltre a Kierkegaard, sono Agostino e Pascal, Nietzsche e Dostoevskij, che Berdjaev preferiva chiamare “pneumatologo”, cioè conoscitore dello spirito, esperto degli abissi che si spalancano davanti alla libertà, delle altezze vertiginose che la tentano, delle forze primordiali che la scuotono; nonché di quell’orrore, così sconcertante prerogativa dell’uomo, che è in lui sempre latente, facendone il peggior nemico di se stesso23. l’essere dell’altro, mediante cui trova il proprio e scopre il vincolo che li lega nell’ineffabile Altro della Trascendenza. Così la filosofia di Jaspers dovrebbe intendersi, più che come una filosofia “a due fuochi”, secondo una formula proposta per la prima volta da P. Ricoeur, come un pensiero che ha tre punti focali: l’esistenza, la Trascendenza e l’altro uomo che incontro come esistenza. L’esistenza non si trova “fra le esistenze” in un Mitsein, e nemmeno stabilisce delle relazioni, ma sorge (nel senso del verbo entstehen) nel rapporto e dal rapporto con l’altra esistenza. Mentre dunque l’ontologia heideggeriana si concentra sulla questione della verità dell’essere, nella sua identità-differenza rispetto all’essere degli enti, la riflessione di Jaspers ha il proprio cardine nel rapporto fra l’Uno e i molti, gli esseri come esistenze. 21 Parole nelle quali si esprime, com’è noto, l’inconfondibile Grundhaltung kierkegaardiana. 22 Una mancanza di modestia, in senso kierkegaardiano-socratico, Sternberger rileva, ad esempio, nel progetto heideggeriano di una nuova ontologia, progetto che ha – egli scrive – “certamente un che di titanico, ma anche un qualcosa di titanicamente vano”. Sternberger trova “spaventosa”, anzi addirittura “superba e disumana” la pretesa heideggeriana di porre e sviluppare “per la prima volta nella storia della filosofia” la questione del senso dell’essere (Maestri del ’900, cit., pp. 104-105). Anche il linguaggio heideggeriano “sovversivo in maniera oltremodo pretenziosa”, sembra volersi porre “al di fuori della tradizione, fuori di ogni continuità”, in palese contrasto con lo stile di un Pascal o di un Goethe, “tesi a dire ciò che è significativo, e persino ciò che è sublime, in maniera non appariscente, semplice – tanto modestamente, da far credere ad ognuno che avrebbe potuto dirlo lui stesso” (ivi, pp. 93-94). Diversamente Jaspers: “Non c’è quasi niente di nuovo e di originale nel vocabolario filosofico di Jaspers”, il quale tuttavia, usando parole consuete e anche consunte, quotidiane o ricevute dalla tradizione, riesce ad esprimere il nuovo grazie alla loro combinazione nelle frasi e al movimento del discorso. “Colui che annuncia l’essere – conclude Sternberger – si ferma a singoli vocaboli, chi pensa umanamente parla in frasi intere” (ivi, p. 54). 23 Accanto al “profondo rispetto (Ehrfurcht) davanti alla nobiltà dell’essere umano, nobiltà

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Se da Kierkegaard, dunque, Jaspers ha appreso anzitutto lo stile della filosofia e della comunicazione filosofica24, la “sigla misteriosa”25 in cui si condensa la sua visione dell’uomo proviene dalla medesima fonte, ma con un’adesione tale al pensiero del coniatore, da riprodurne quasi alla lettera la definizione, persino in una delle opere in cui, per altro verso, più risolutamente si separa da lui: cioè nell’opera sulla religione26. “L’esistenza è il Sé, che si rapporta a sé, e nel far ciò si sa in rapporto con la Potenza, da cui è stato posto”: così Jaspers, in piena consonanza con l’Anti-Climacus della Malattia per la morte 27. In questa definizione è racchiusa, tra l’altro, l’insuperabile distanza da Nietzsche: poiché la più alta libertà si sa – in quanto libertà dal mondo – vincolata nel modo più profondo alla Trascendenza, cioè a Dio28, occorre respingere con forza la tesi nietzscheana secondo la quale “solo se non v’è che ci si fa incontro da ogni epoca”, e che è all’origine del rispetto che dobbiamo ad ogni singolo “per l’alta possibilità presente in lui”, c’è l’esperienza disperante dei limiti su cui naufragano rispetto e amore, cioè “il fatto che c’è qualcosa, nell’uomo, che Shakespeare, nella Tempesta, rappresentò poeticamente – e come in preda ad un dubbio straziante – nella figura di Calibano, e che la follia tedesca mostrò realmente – con un’infame obbedienza – attraverso Hitler” (da PS, p. 62; pp. 55-56). 24 Cfr. Autobiografia, cit., pp. 85-117-119-134. 25 D. Sternberger, Maestri del ’900, cit., p. 43. 26 Nell’ampia discussione delle tesi di Kierkegaard, collocata strategicamente a ridosso delle pagine conclusive, Jaspers ribadisce e argomenta più diffusamente – rispetto ad altre opere – il proprio rifiuto di seguirlo sulla via della fede nel Dio-uomo (Rivelazione, pp. 513-526). Anche qui, tuttavia, insieme al netto ripudio, si trovano curiose concessioni: “Il rigetto per quel che riguarda me, non vuol dire rigetto in sé. E se Kierkegaard dovesse aver colto una possibile verità? Questa però allora varrebbe solo per chi l’attuasse in totale consequenzialità” (ivi, p. 516). 27 Ivi, p. 118. Anti-Climacus si esprimeva così: “questa è la formula…che descrive la condizione del Sé, quando la disperazione è stata del tutto eliminata: rapportandosi a sé e volendo essere se stesso, il Sé si fonda in trasparenza nella Potenza che lo ha posto” (La malattia per la morte, cit., p. 14). Nella stessa pagina dell’opera sulla religione Jaspers presenta inoltre l’esistenza sia come possibilità (Seinkönnen), donde l’espressione, che egli usa di preferenza, “esistenza possibile” (mögliche Ezistenz), che come singolarità assoluta (als der je Einzelne) cioè “come questo Sé, insostituibile e irrimpiazzabile”. 28 Cfr. Introduzione alla filosofia, cit., p. 36; it. p. 36: “Io ne sono certo: nella mia libertà io non sono grazie a me stesso, ma sono donato a me stesso in essa, infatti posso mancarmi, né posso ottenere a forza il mio essere libero. Quando sono davvero me stesso io sono certo che non lo sono tramite me stesso. La libertà più alta si sa, in quanto libertà dal mondo, vincolata nel modo più profondo alla Trascendenza”. E, in Risposta alla domanda: di quali forze vive lei?, cit., p. 211: “noi siamo donati a noi stessi, così diciamo, con un’immagine che significa ciò che è reale solo in modo paradossale: siamo donati a noi stessi, però sta in noi, se veniamo donati a noi stessi... Il circolo del venir donati a se stessi e del fare se stessi, del fondamento della libertà e della libertà stessa non può essere risolto senza contraddizione” (trad. it. p. 237).

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alcun Dio l’uomo diviene libero”. Se in tale tesi si afferma che in Dio l’uomo disperderebbe la propria energia, come avviene dell’acqua quando non è trattenuta e raccolta, bisogna allora, rovesciando semplicemente l’immagine, riconoscere che solo riferendosi a Dio l’uomo concentra e intensifica la propria potenza “invece di disperderla nell’insignificanza dei meri accadimenti della vita”29. Ma la sigla per la prima volta compariva, con identico significato, nell’opera del ’32, con l’annotazione che solo con Kierkegaard essa ha acquisito “per noi” un significato “storicamente vincolante”30; mentre già aleggiava, come un presentimento, nella Psicologia delle visioni del mondo, con il suo lunghissimo Referat su testi kierkegaardiani, la cui analisi, specialmente per quanto concerne il “manifestarsi” (Offenbarwerden) e la “chiusura” (Verschlossenheit), anticipa, come avremo modo di vedere, le pagine di Filosofia sulla comunicazione esistenziale. È in questo Referat, crediamo, oltre che nell’Appendice, dedicata alla dottrina kantiana delle idee, che si profila il passaggio di Jaspers dalla psicologia propriamente detta alla filosofia dell’esistenza31. Non può stupire, perciò, il giudizio, riportato da H. Saner nel citato Portrait 32, secondo cui, per Jaspers, Kierkegaard doveva essere considerato “il più grande filosofo post-kantiano”. Certo il più grande, ma dopo Kant: dal quale fin dall’inizio, nella sua produzione filosofica, Jaspers riprende sia l’impalcatura teoretica (con il bi29 Cfr. Introduzione alla filosofia, cit., p. 90; it. p. 101. “La nostra stessa indipendenza ha bisogno di aiuto. Noi possiamo solo sforzarci e dobbiamo sperare, senza averne garanzie nel mondo, che interiormente ci venga allora in aiuto quello che può sottrarci alle deviazioni. La nostra possibile indipendenza è, al contempo, dipendenza dalla Trascendenza” (ivi, p. 91; it. p. 101). 30 Filosofia I, p. 15: “Ezistenz ist, was sich zu sich selbst und darin zu seiner Transzendenz verhält”. Il corsivo è nel testo. 31 Psicologia delle visioni del mondo, Springer Verlag, Berlin 19906 (la prima edizione è del 1919), specialmente pp. 419-432 e pp. 465 e sgg.; trad. it. pp. 485 sgg.; pp. 539 sgg. 32 H. Saner, in Filosofi del Novecento, cit., p. 114. Stupisce invece l’affermazione secondo cui, dopo Filosofia, Jaspers si sarebbe gradualmente separato dalla filosofia dell’esistenza, per avvicinarsi sempre più a Kant – affermazione peraltro almeno parzialmente smentita da quanto Saner stesso scriveva nella prefazione a Schicksal und Wille, cit., p. 13. Sono, queste ultime, parole che possono ben suggellare il confronto che abbiamo proposto fra la filosofia di Jaspers e quella di Kierkegaard: “La filosofia di Jaspers è, dai suoi inizi fino ad oggi, Existenzphilosophie. Ciò non significa solo e neanche anzitutto che essa miri ad una…”conoscenza dell’esistenza”. Piuttosto essa vorrebbe risvegliare l’esistenza possibile perché diventi reale: il suo fine è il diventare reale dell’esistenza. Pertanto la sua non è un’opera che stia accanto ad una persona, bensì è, in certo modo, il pensiero che vuole diventare persona”. Le due affermazioni possono essere conciliate dicendo che da Kierkegaard come “modo di pensare” (Denkungsart) Jaspers non si dissocia mai, mentre da lui si dissocia, fin dall’inizio, per certe sue posizioni (principalmente, come s’è visto, per la fede nell’Incarnazione). Dell’avvicinamento a Kant, sempre più evidente nella produzione della maturità, diremo più avanti.

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nomio fenomeno/essere-in-sé e la distinzione fra conoscere e pensare) sia il primato dell’agire sul conoscere (con l’affermazione del sublime, attinto tramite la libertà).

b) Kant 33

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Kant viene spesso accostato da Jaspers a Platone34: entrambi rappresentano il vero illuminismo (Aufklärung), che è filosofia perenne, irriducibile tanto all’ideologia di un certo periodo storico quanto a quel falso illuminismo (Aufkläricht) che ha deformato e tradito lo spirito del primo. L’illuminismo Aufkläricht 35, confondendo la ragione (Vernunft) con 33 Come riferisce l’Autobiografia (p. 119), nel novero delle lezioni di storia della filosofia tenute da Jaspers presso l’Università di Heidelberg a partire dal 1922 “senza un programma d’insieme e senza pianificazione” ci fu anche un corso dal titolo “Kant e Kierkegaard”. Abbiamo anticipato il confronto con Kierkegaard, perché è da lui che Jaspers dichiara – come abbiamo visto – di aver ricevuto una vera e propria illuminazione circa il significato e la funzione della filosofia e il suo modo di comunicare. 34 Cfr. Nachwort, p. XXXVI; Rivelazione, p. 35. Kant è poi, con Platone e Agostino, uno dei tre “grandi” del pensiero occidentale che fondano la filosofia e non cessano di generarla. Così Jaspers ne I grandi filosofi presenta la fisionomia incomparabile di ciascuno di loro e il nucleo di fede che ne alimenta il pensiero: “Platone risveglia il nostro stupore davanti all’essere, Agostino davanti all’interiorità, Kant davanti al senso dell’esser-uomo. Platone riflette sulle forme di ciò che è, Agostino sulle dimensioni dell’anima, mentre Kant compie la critica di tutto il complesso delle facoltà dell’essere razionale. Platone crede nell’eros dello slancio filosofico, Agostino in Cristo come via verso Dio, Kant ha una fede razionale nella destinazione eterna dell’uomo” (ivi, p. 232). Sono elementi che ritornano nella fede filosofica di Jaspers, in cui ritroviamo sia l’eros platonico che l’interiorità agostiniana – mutuata da Kierkegaard – e la kantiana fiducia nella ragione, quest’ultima, però, scevra di illusioni: “Detto in sintesi: non si può affatto pensare il mondo, nella sua totalità, come una realtà pervasa dalla ragione; e tuttavia è possibile per me, in esso, attenermi risolutamente alla ragione” (Autobiografia, p. 127). 35 Anche questo termine compare a più riprese, sia negli scritti in cui Jaspers vuole difendere la sua filosofia dall’accusa di sostenere una piatta tolleranza religiosa – cioè l’indifferentismo – o, addirittura, di favorire il nichilismo (accuse provenienti dai teologi della rivelazione), sia quando, viceversa, si trova a difendere il valore irrinunciabile del mito come via d’accesso alla Trascendenza, e allora coglie tracce di illuminismo deteriore (Aufkläricht) proprio in certi progetti teologici di demitizzazione (Nachwort, p. XXXVI; Demitizzazione, p. 19; Rivelazione, p. 517). Sempre nel Nachwort, p. XXXVII – in chiave difensiva – troviamo la definizione della propria filosofia come “nicht aufgeklärte (non illuminata)… sondern der Aufklärung (bensì propugnatrice o fautrice del vero illuminismo)”; mentre nell’Autobiografia (p. 114), a proposito del rapporto con la religione, Jaspers si spinge a dichiarare: “Io non mi contrappongo alla Chiesa e alla teologia come un illuminista (als Aufklärer) per negarle; bensì in quanto servitore di quella grande, indipendente verità (la filosofia)”.

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l’intelletto (Verstand), si chiude nell’immanenza, naturalizza l’uomo, cede alla “superstizione scientifica”36; il vero illuminismo, al contrario, affronta con l’entusiasmo della ragione il proprio compito, che è di incoraggiare ciascuno ad uscire da una colpevole condizione di minorità, consistente nella rinuncia al pensiero personale37; esso anzitutto distingue con rigore la scienza dalla filosofia, il sapere dal credere, il conoscere dal pensare, e poi denuncia il clima spiritualmente asfittico di cui è responsabile una visione del mondo che bandisce ogni trascendenza e incondizionatezza, spezza il legame vivente con la tradizione, ingenera un atteggiamento esistenziale in cui l’arroganza si mescola con la disperazione. Va da sé, allora, che il “sapere aude ” deve venire interpretato anche come un “memento cogitare semper ”; cioè non soltanto come una sollecitazione, peraltro legittima, ad estendere l’indagine scientifica in tutti gli ambiti dello scibile, perseguendo l’autentica scientificità – che comporta consapevolezza del metodo e chiarezza circa la relatività e particolarità dei risultati; ma come un invito a non perdere lo slancio del filosofare e la tensione verso una verità più comprensiva, senza la quale non solo la scienza resta all’oscuro circa il proprio senso, ma, soprattutto, la vita rimane priva di una guida38. Senza 36 Non si tratta soltanto di quello scientismo per il quale niente si potrebbe riconoscere come reale “se non ciò che manifesta la sua realtà ai nostri sensi, e viene dimostrato mediante operazioni dell’intelletto”, bensì di quella mancanza di scientificità che consiste nel non saper distinguere fra quanto è conosciuto e realmente conoscibile nelle scienze (legato a metodo, esame critico, prova) e ciò che circola nella “pseudoscienza”come “mero opinare”, quasi che fornisse conoscenza (Rivelazione, p. 36). Superstizione scientifica, ad esempio, sarebbe la pretesa di elaborare una visione del mondo scientificamente fondata, oppure di conoscere sia la totalità del mondo che la totalità dell’uomo. 37 Il pensiero filosofico non è mai impersonale, anonimo, perché in esso non si esercitano solo le capacità logiche, analitiche, o le funzioni dell’intelligenza generica, ma si esprimono l’amore, la fede e la fantasia creativa del singolo, nella sua storica determinazione – che muove dall’esperienza della vita e nella vita viene attestata – a favore della verità. Si tratta – nel senso di Kierkegaard – di una verità che rende veri; ma diventare veri non si può se non in un cammino personale, o mediante una personale appropriazione della verità. A ciò si oppone, naturalmente, una concezione della filosofia come mero esercizio logico. 38 Nello scritto sull’amore, come vedremo, Jaspers ricorda il rimprovero mosso da Cusano alla mente che si disperde, come una “prostituta”, nella varietà delle conoscenze, senza mai incanalare il proprio eros nella direzione dell’Uno. L’aspirazione ad una verità più comprensiva, capace di donare “senso”, era, secondo Jaspers, ben presente anche in M. Weber: si tratta di un’aspirazione che appartiene all’uomo qua talis e quindi pure allo scienziato, consapevole di ciò che la scienza non è in grado di dargli e dunque capace di mantenere, rispetto alla ricerca scientifica, un atteggiamento critico. In questo modo Jaspers interpreta sia la frase pronunciata da Weber prima di morire (“il vero è la verità”: nella volontà di conoscere il vero particolare è implicita una tensione verso la verità onnicomprensiva) sia il carattere incompiuto della sua immensa opera di scienziato, visto come “naufragio” simbolico. A proposito

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l’apertura della ragione filosofica, il mero intelletto ci condanna ad un disumano “specialismo”.

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Disumana è la suddivisione degli affari umani in reparti di competenza, quando l’individuo vede tutto nella prospettiva della sua specializzazione, o assolutizza un aspetto particolare delle cose. Umano è, invece, vivere nella consapevolezza della totalità abbracciante, quando si lavora nel proprio campo secondo la propria vocazione, ma in maniera tale che questo ambito possa diventare un’eco della totalità39.

Perciò l’illuminismo vero può e deve venire inteso anzitutto come il cammino lungo il quale “l’uomo trova se stesso”40, mentre il falso è una delle manifestazioni dell’anti-ragione (cioè dell’anti-filosofia) che affliggono la contemporaneità41. Riassumendo in una significativa formula quello che il falso illuminismo vorrebbe mettere fuori gioco, Jaspers scrive che esso “vuole solo sapere e non credere” 42, anche quando il credere si presti ad essere chiarificato rigorosamente dalla ragione; come se al di sotto dell’arroganza dell’intelletto di Weber, Jaspers racconta in una lettera ad H. Arendt di aver cercato, in uno degli ultimi incontri avuti con lui, di trasmettergli il suo entusiasmo per la dottrina kantiana delle idee (lettera del novembre del 1966, n. 79 nell’ed. it. del Carteggio, cit. p. 233). Sull’interpretazione della frase di Weber cfr. Filosofia I, p. 145. 39 Autobiografia, pp. 129-130. Ognuno nell’attività di ricerca deve necessariamente mantenersi entro un campo determinato; tuttavia nessuno è per questo costretto a rinunciare ad una “coscienza comprensiva”, che, però, non si può attingere con gli stessi strumenti della scienza o con lo stesso tipo di pensiero. Chiarire le vie lungo le quali ci si può formare tale “coscienza comprensiva” è il compito precipuo della Logica filosofica che tematizza il “molteplice senso dell’esser-vero”, mediante la “sistematica degli orizzonti” come più avanti vedremo: non si tratta più di una “logica del conoscere” come quella kantiana, bensì della logica del pensiero filosofico, che culmina in una alogica o antilogica razionale, in quanto il pensiero, sforzandosi di “toccare” l’essere che lo abbraccia, perviene a formulazioni antinomiche. Pure questa alogica, secondo Jaspers, può essere metodicamente chiarita e sviluppata. È importante comunque ricordare che i chiarimenti così ottenuti non si possono comunicare alla stessa stregua dei risultati scientifici. “Il contenuto filosofico che si vuole comunicare in simili operazioni è affidato a qualcosa che deve farglisi incontro… La logica filosofica è in grado di rendere consapevoli di tutto quanto, senza riuscire a portare ad un riconoscimento in forma costringente. In questo spazio vengono solo aperte delle possibilità, che a chi ascolta possono sembrare piene di senso, oppure insensate” (Autobiografia, p. 90). Al chiarimento filosofico, insomma, corrisponde un genere di convinzione diverso dalla certezza scientifica, che è cogente e si impone a tutti, non richiedendo al soggetto una libera adesione della volontà. 40 Vedi Introduzione alla filosofia, p. 68; it. p. 76. 41 Si può vedere, per questo, Ragione e anti-ragione nel nostro tempo, opera che avremo occasione di citare nei capitoli successivi. 42 Introduzione alla filosofia, p. 69; it. p. 76.

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non si celasse una fiducia – in fondo irrazionale, perché ingiustificata – nella sua autosufficienza, e una completa cecità circa i suoi limiti. Nel Nachwort già citato43 Jaspers racconta di aver capito il senso dell’autentica scientificità grazie all’opera di Max Weber e alle sue riflessioni, acute e feconde, sul metodo delle “scienze della cultura”. Ma proprio l’aver penetrato profondamente il modo di pensare del vero scienziato aveva acuito nel giovane psichiatra l’ardore (Begehren) per l’autentica filosofia. “Infatti – egli scrive – quando i limiti della scienza divennero metodicamente consapevoli, si ripeté l’antica esperienza secondo la quale la conoscenza scientifica non è in grado di fare da guida nella vita e non può giustificare il proprio senso, cioè dire perché essa debba esserci, mentre, dal punto di vista della filosofia, essa è una forma di dispersione... Allora il grande compito della filosofia divenne questo: senza disprezzare le scienze, anzi confrontandosi con il loro criterio di certezza costringente, conseguire quella certezza sulla cui base noi viviamo”. Occorre perciò evitare di confondere “i percorsi dell’intelletto”, con “i contenuti dell’esser-uomo”, perspicui solo alla ragione filosofica44: quest’ultima, poi, a sua volta, procede da una tradizione millenaria, che è qualcosa di assai più vasto e impressionante della breve – e anche geograficamente delimitata – storia della scienza moderna45. Infatti: come la conoscenza scientifica dipende da intuizione ed esperienza, la ragione filosofica dipende da un passato antichissimo, che rende disponibile nel presente “la profondità, scorta con incessante attesa, della verità già pensata, l’inesauribilità delle rare grandi opere, la realtà efficace (Wirklichkeit), accolta con venerazione, dei grandi pensatori”46. Kant è appunto uno di questi grandi, senza i quali non possiamo fare alcun passo nel filosofare e la cui fama è tuttavia, almeno fino ad oggi, maggiore della capacità dimostrata dai suoi interpreti di comprenderne davvero il modo di pensare47.

43

Filosofia I, p. XXV. Introduzione alla filosofia, cit., p. 69; it. p. 77. 45 Una bella ricostruzione delle origini bibliche della scienza moderna, in quanto “spirito scientifico” – ricostruzione che ricalca il modello weberiano di ricerca delle connessioni di senso fra etica protestante e spirito del capitalismo – si trova in Nietzsche e il cristianesimo, cit. (pp. 366-76 ted.; 103 sgg. it.). L’ascesi dello scienziato moderno, il suo sguardo oggettivo e disincantato, come, d’altra parte, l’interesse per ogni aspetto del reale, senza esclusioni, trarrebbero ispirazione dall’istanza biblica di inesorabile veridicità, spinta fino a mettere in discussione Dio stesso. 46 Introduzione alla filosofia, p. 109; it. p. 121. 47 Nachwort, p. LIII. 44

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Esemplare e ancor sempre attuale è, per esempio, la chiarezza con cui egli formulò le domande fondamentali della filosofia, che Jaspers ripropone, presentando in sintesi i capisaldi della propria: interessante è qui rilevare come vengano da lui rielaborate, pur senza abbandonare il tracciato kantiano, in modo da far risuonare in esse le “nuove” intenzioni48. Al “che cosa posso sapere?” di Kant, corrisponde, in Jaspers, la domanda “che cosa possiamo conoscere nelle scienze?” dove il termine plurale indica, in colui che aveva fatto tesoro tanto della lezione di Weber quanto dello studio di Dilthey, non solo le scienze della natura, ma pure le cosiddette “Geisteswissenschaften”49; mentre al “che cosa debbo fare?” si sostituisce – in modo per noi molto significativo – l’interrogativo: “come dobbiamo realizzare la più profonda comunicazione?”50. E se Kant rispondeva alla terza domanda (“che cosa mi è consentito sperare?”) principalmente con la sua filosofia della religione, Jaspers, sostituendo la “speranza” con l’aspirazione alla verità (“come ci diviene accessibile la verità?”), intesa in senso comprensivo o inglobante, risponde con il terzo volume di Filosofia (Metafisica) ma, soprattutto, con l’opera imponente da cui abbiamo tratto lo scritto sull’amore51. Il sorgere di queste tre Grundfragen, osserva Jaspers chiarendo il proprio pensiero, deriva dai tre impulsi fondamentali (il voler sapere, la volontà di 48

Cfr. La mia filosofia (1941), oggi in Das Wagnis der Freiheit, Piper 1996, pp. 31-58, in particolare pp. 40 sgg.; it. pp. 16 sgg. 49 Alla questione del significato e del valore delle scienze è dedicato il primo volume di Filosofia: Orientazione filosofica nel mondo (in corrispondenza della prima Critica kantiana). In esso, tra l’altro, si discutono le due visioni del mondo che, chiudendosi nell’immanenza, assolutizzano ora il punto di vista delle scienze della natura (positivismo), ora quello delle scienze dello spirito (idealismo), e che sono accomunate dal fatto di non riconoscere il principio della singolarità come esistenza possibile (Kierkegaard), ma anche di essere criticabili sulla base della dottrina kantiana delle idee. Infatti, scrive Jaspers, le idee kantiane, in quanto principi metodici del conoscere e pratici dell’agire, sono in grado di “superare i limiti dell’idealismo”, mentre l’interminabilità dell’indagine conoscitiva, rispetto alla quale il positivismo resta indifferente, nell’interpretazione kantiana diventa stimolo per respingere la visione dogmaticamente chiusa del mondo. 50 Al tema della comunicazione (Kommunikation) è dedicato un ampio capitolo, il terzo della prima sezione, in Filosofia II, Chiarificazione dell’esistenza (pp. 50-117). Da esso abbiamo tratto i brani, riportati nella parte antologica, sulla lotta amorosa e su comunicazione e amore. 51 L’opera Della Verità, prima parte di una Logica filosofica rimasta incompiuta, poté essere pubblicata solo nel 1947; Jaspers però vi si era impegnato negli anni di esilio interno, seguiti all’interdizione dall’insegnamento, giovandosi anche della collaborazione della moglie. “Rendermi conto dei metodi del pensare, e, in essi, del pensare filosofico – scrive nell’Autobiografia – a questo ho lungamente lavorato” (ivi, p. 86). Con la Logica si trattava, in realtà, di acquisire solo “l’accertamento degli spazi, all’interno dei quali ci divengono presenti verità e senso, ma, in tale accertamento, ottenevano insieme efficacia i contenuti della tradizione, che in questi spazi ci parlano” (ivi, p. 88).

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

comunicazione e la spinta – Drang – verso la verità) che proprio nello scritto sull’amore saranno in definitiva ricondotti a tre essenziali manifestazioni dell’eros (l’amore dell’intelligenza, quello tra le esistenze e l’attrazione per l’Uno inglobante), inteso come la forza che solleva l’uomo al di sopra di ciò che è effimero e finito. Gli impulsi che generano le domande ci avviano “sul cammino del ricercare” (Suchen). Ma i fini ultimi (Ziele) di tale ricercare “sono l’uomo e la Trascendenza”, o, altrimenti detto, “l’anima e la divinità”, fini che suscitano ancora due questioni, di cui solo la prima riprende Kant, il quale la poneva, nella sua Logica, a suggello delle altre, dovendo, per lui, ottenere risposta solo indirettamente o implicitamente, cioè tramite l’acclaramento delle precedenti: “che cos’è l’uomo?”. All’interno della domanda sulla Trascendenza, poi, Jaspers colloca il problema dei rapporti, abbastanza complessi, fra religione e filosofia, problema che ha occupato molta parte della sua riflessione matura e che qui non possiamo affrontare. Particolarmente importante però è quel che egli dice del secondo interrogativo, quando, a proposito dell’impulso che fin dalla giovinezza aveva avvertito con dolorosa intensità52, dichiara: “se si realizza anche con un solo essere umano il movimento mai concluso della comunicazione, allora tutto è ottenuto”53. Sembra, dunque, che il dovere della comunicazione più profonda54 assuma qui il ruolo centrale che era occupato in Kant 52 “Dal tempo della scuola la questione della comunicazione tra uomo e uomo divenne la questione fondamentale della vita, anzitutto praticamente, poi anche pensata filosoficamente” (Autobiografia, p. 124). Attorno a tale questione, e alla realtà delle situazioni-limite (la colpa, la sofferenza, la lotta, la morte) si è fin dall’inizio mossa l’investigazione di Jaspers come filosofo, per cui queste due inchieste gli sembrano, retrospettivamente, quelle che meglio caratterizzano il suo pensiero (ivi p. 123). D’altronde, per quanto riguarda la vita, fu grazie alla moglie che, egli riconosce, poté scoprire il cammino della lotta amorosa, cioè quel cammino in cui si realizza la comunicazione “che dura tutta la vita, che non è mai conclusa, che è senza riserve e perciò inesauribile” (p. 124). 53 Cfr. La mia filosofia, cit., p. 46: “Wenn nur mit einem einzigen Menschen die nie vollendbare Bewegung der Kommunikation gelingt, so ist alles erreicht” (it. p. 24). 54 “L’agire interiore, nel quale educo me stesso, non può non portare alla luce le forme di auto dissimulazione, di ostinazione, i motivi che oppongono resistenza, e mi spinge così verso un divenir-manifesto che non è mai definitivo” (ivi, p. 46; p. 24). Che si tratti di un dovere è suggerito non solo dal “sollen” della domanda (“Wie sollen wir die tiefste Kommunikation verwirklichen?”) ma pure dal termine Wille, usato nelle espressioni “volontà di ragione” (Wille zur Vernunft; vedi, ad esempio Autobiografia, p. 134) e “volontà di comunicazione” (Kommunikationswille, La mia filosofia, cit., p. 40) a differenza, per esempio, di “volontà di sapere” (Wissenwollen, ibid.); nel Wille riecheggia, cioè, la volontà razionale kantiana, normativa o “oggettiva”. Non solo quindi sentiamo il bisogno ed il desiderio di comunicare – in senso psicologico – ma dobbiamo farlo, per portare a manifestazione il nostro vero io; il che, d’altronde, equivale ad attuarlo (cfr. Filosofia II, sezione prima, cap. 3, pp. 64 e sgg.: manifestarsi e realizzarsi costituiscono un unico processo; vedi parte antologica del presente volume).

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KIERKEGAARD E KANT NEL PENSIERO DI JASPERS

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dall’imperativo morale. Infatti se solo come personalità morale, partecipe di una comunità di liberi sudditi della ragione, e non tramite il mero sapere, l’uomo attinge per Kant il suo vero essere; analogamente solo come esistenza in comunicazione, e non mediante il sapere, l’uomo jaspersiano perviene a se stesso. “L’uomo perviene a se stesso con l’altro essere umano – leggiamo, appunto, nell’Autobiografia 55 – mai solamente mediante il sapere. Diventiamo noi stessi solo nella misura in cui l’altro diviene se stesso, e diventiamo liberi solo in tanto, in quanto l’altro diviene libero”. Ma questo generarsi reciproco nella dimensione dell’ipseità e della libertà è possibile, come vedremo, solo nel rapporto comunicativo tra – di volta in volta due – singoli. Sempre in Kant la speranza (che si fonda su una “promessa” della ragion pratica) ha come sua condizione il riconoscimento della legge morale, mentre in Jaspers l’aspirazione alla verità – che le si sostituisce – non può venire soddisfatta se non grazie al rapporto comunicativo, al punto che l’istanza comunicativa diviene criterio per valutare, come egli scrive, “tutti i pensieri, tutte le esperienze, tutti i contenuti”56. “L’inoggettiva misura della verità, in ogni filosofare – conclude addirittura la sezione di Filosofia II dedicata a questo tema57 – è, in ogni epoca, quella comunicazione che esso può realizzare e chiarire. Così la domanda di fondo diventa: quali pensieri sono necessari affinché divenga possibile la comunicazione più profonda?”. E, nella Autobiografia: “La verità stessa potrebbe venire sottoposta al criterio, per cui verità è ciò che reciprocamente ci lega, e all’esigenza di valutare la verità commisurandola alla verità del legame che rende possibile”58. Dunque non solo la verità più comprensiva è attingibile unicamente nella comunicazione: ma il pensiero allora dimostra di partecipare della verità, quando agisce nel senso di risvegliare l’impulso a comunicare, lo sostiene e lo valorizza, dandogli attuazione. Analizzando lo scritto sull’amore vedremo che esso rappresenta non solo una conferma, ma un’enfatizzazione di questo atteggiamento del filosofo: già ora, però, si può rilevare come sia appunto la posizione occupata dall’imperativo della comunicazione – in analogia con il ruolo giocato in Kant dall’istanza del dovere – a conferire alla filosofia jaspersiana un carattere “integralmente etico”, secondo le parole, sopra ricordate, 55

Autobiografia, p. 123. La mia filosofia, cit., p. 47; it. p. 25. 57 Filosofia II, p. 117. 58 Autobiografia, p. 124. Con il medesimo criterio, valutandole nelle loro conseguenze esistenziali, cioè in base all’agire e al genere di comunicazione che rendono possibili, sono accolte o respinte da Jaspers le cifre della Trascendenza. Perciò la domanda è sempre: posso volermi in esse – secondo la mia volontà fondamentale, che non è arbitrio o capriccio, ma volontà di ragione e di comunicazione? 56

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di Sternberger, anche se qui l’etica trascende sia la nozione di legge che il sentimento del rispetto59. In Kant l’ordine etico era inteso come “il fine ultimo” di tutta la Creazione60; in Jaspers – come si è detto – è sufficiente la pienezza della comunicazione conseguita a dare significato alla vita del singolo, mentre comunicazione e amore integrano e superano la legge morale, senza però presumere di poterla mai abolire61. Si deve inoltre aggiungere che, proprio perché è mutuato da Kant, il termine ragione, per il quale Jaspers riconosce anche un debito con Lessing62, è inseparabile dall’idea di buona volontà, come risulta anche dalle parole del Nachwort: Nella filosofia si tratta della libertà, che in quanto ragione (als Vernunft) riconosce ciò che per essa vale incondizionatamente, in storica concrezione. Si tratta del Se stesso, che nel filosofare perviene a sé, emergendo al di sopra dell’arbitrio, delle pulsioni, dell’oscurità del mero Esserci. La filosofia rivolge a chi la segue l’istanza severa, di trovare se stesso con buona volontà, e con chiara ragione disporsi a venire donato a se stesso, nella propria libertà, dalla Trascendenza63.

È indubbio, comunque, che la Grundoperation da cui principia l’esercizio del filosofare sia, per Jaspers, ciò che egli chiama “il pensiero fondamentale” di Kant64; è esso a condurre dall’ambito del conoscere agli ambiti della 59

Cit., p. 104; vedi Kierkegaard, nota 19. Vedi I. Kant, Critica del Giudizio, Appendice, paragrafi 84 e sgg. 61 In Piccola Scuola, ad esempio, dopo aver dichiarato che l’amore – inteso come realtà unitaria che abbraccia molteplici forme e manifestazioni – è ciò “in cui autenticamente siamo quello che siamo”, Jaspers aggiunge che l’uomo, in quanto “essere razionale-sensibile”, non è tuttavia in grado di amare sempre con tale pienezza, da non aver bisogno “del controllo della coscienza e della coscienza morale”. È vero, infatti, che l’amore è l’istanza suprema: e in tal senso deve essere interpretata la frase di Agostino: “ama, e fa’ quello che vuoi”. Ma è l’amore stesso a valutare la sua manifestazione “con l’aiuto della coscienza morale, in modo inflessibile, ma con una coscienza morale colma d’amore” (lezione undicesima, p. 157; p. 141). Analogamente in Cifre (p. 43; p. 41), a proposito dell’incondizionatezza che riconosco presente in me, si dice che essa non coincide con “l’astrattezza dell’imperativo categorico, che pure è indispensabile”, ma con la forza dell’amore, “il quale si serve dell’imperativo categorico solo più come di un mezzo nei momenti di debolezza”. Sul rapporto fra amore e coscienza morale, vedi capitolo quinto del nostro lavoro. 62 Autobiografia, p. 127. 63 Nachwort, p. XLVIII. Particolarmente significativo anche un passo dell’Autobiografia: “Poiché nel mio filosofare ero guidato dalla volontà di ragione, mossa dall’idea della comunicazione possibile, fui, in funzione di ciò, più preoccupato di perseguire la chiarezza esistenziale rispetto alla chiarezza logica…e mi attenni più all’impegno (Verbindlichkeit) che vincola la volontà nel pensare, che alla bellezza di un linguaggio ricco di poesia...” (p. 134). 64 Cfr. La fede filosofica, lezione prima, p. 14. 60

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libertà e del senso; è ancora esso il presupposto di quella “sistematica degli orizzonti” che – pur non attribuendole carattere di vera e propria conoscenza – egli denomina il “sapere fondamentale” (Grundwissen)65. Al di sotto della Grundoperation sta un’intuizione antichissima, portata però a chiarezza definitiva da Kant66: “essa ha precursori nella storia della filosofia occidentale e in quella asiatica”, e inevitabilmente affiora, in generale, là dove si filosofa, anche se “come pensiero autoconsapevole e metodicamente sviluppato divenne un elemento della chiarificazione filosofica solo in Kant – certo anche qui, di nuovo, in forma storica, ma nei suoi tratti essenziali per sempre”67. Si tratta del riconoscimento della fenomenicità di tutto ciò che, nel mondo, ci diviene conoscibile. “La fenomenicità del mondo in generale, il carattere fenomenico di spazio e tempo e di ogni conoscibilità delle cose nel mondo, non significa una distinzione fra un mondo apparente ed uno reale. Il mondo è uno solo. Ma questo mondo è fenomeno, non l’assoluto essere stesso. L’“essere in sé” è un concetto limite del nostro conoscere, non è un oggetto per noi. Questo concetto segnala soltanto il nostro essere imprigionati nel fenomeno, senza poter conoscere altro che questo. Soltanto la nostra libertà ha un legame immediato con l’essere stesso, ma anche per questo motivo essa non ha una realtà mondana per la nostra conoscenza delle cose, cioè non è un oggetto indagabile empiricamente”68. La fenomenicità del mondo non significa dunque apparenza illusoria e ingannevole (Schein), bensì realtà (Realität); però non la realtà propriamente detta (Wirklichkeit), o l’essere in senso assoluto69, che non appare nello spazio-tempo, non si svela al conoscere, ma si lascia scorgere solo attraverso la libertà, essa pure inconoscibile ed inoggettivabile. È evidente qui il rimando alla libertà come “splendida apertura sul sovrasensibile” della seconda Critica kantiana70; anche se occorre precisare che, per Jaspers, il significato dell’ope65

Quello che si deve cercare – spiega Jaspers nell’Autobiografia – è “il sapere fondamentale che sostiene e penetra tutte le scienze e tutto il pensiero pratico” (ivi, p. 131). Non si tratta di un’impossibile conoscenza enciclopedica o globale, ma di qualcosa che “tutto collegando e ponendo in relazione” può rendersi filosoficamente comunicabile come una “coscienza abbracciante” (ivi, p. 130). 66 Rivelazione, p. 33. 67 La fede filosofica, p. 14. 68 Rivelazione, p. 33. 69 “Die Welt ist nicht Schein, sondern Realität. Aber diese Realität ist Erscheinung”. In quanto fenomenicità il mondo è sostenuto da quella realtà (Wirklichkeit) – cioè dall’Abbracciante – che non s’incontra in nessun luogo come realtà nel mondo, o come oggetto indagabile (PS, p. 47; p. 42). 70 Si veda, nella seconda Critica, il riferimento, all’interno della Dilucidazione dell’analitica

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razione fondamentale non consiste nell’introduzione di un nuovo metodo di indagine, e nemmeno nell’assunzione di un diverso “punto di vista”, ma in una trasformazione del modo di pensare che attua una vera e propria Umwendung, un cambiamento di rotta anche in senso esistenziale. Grazie al “pensiero” di Kant, mutando la nostra coscienza dell’essere e di noi stessi, cambia anche la nostra interiore “disposizione” (Verfassung)71. Ora, infatti, l’uomo può pensarsi al di fuori della cornice fenomenica in cui si ritrova oggettivato e privo di una fisionomia personale; ed è solo così che si può interrogare su quel rapporto con le cose, con se stesso e con gli altri che ha origine in lui, ma in quanto libertà ed esistenza. Come avviene in Kant, il pensiero della fenomenicità non è interpretato da Jaspers solo negativamente, cioè non si tratta semplicemente di tracciare il confine attorno a ciò che noi possiamo “sapere”: ma viene assunta la prospettiva dei Prolegomeni, per cui empirismo dogmatico72 sarebbe il far coincidere l’ambito dell’esperienza con la realtà stessa. Tale assolutizzazione non è giustificata in sede critica, perché non è possibile dimostrare che ciò che è conoscibile sia il tutto; e avrebbe come conseguenza la sottrazione di ogni significato e validità alle idee, le quali, da un lato, rappresentano un prezioso contributo dato dalla ragione – con la sua ineliminabile aspirazione alla sintesi completa – al progredire ordinato e sistematico del conoscere; mentre sono, dall’altro, il contributo ancora più prezioso da essa offerto per l’orientamento dell’agire. Chi traccia attorno al conoscere il confine dell’esperienza è autorizzato a farlo, in quanto gli viene dalla “facoltà dell’incondizionato” la pietra di della ragion pura pratica, alla herrliche Eröffnung “verso un mondo intelligibile, mediante la realizzazione della libertà”. Questa, avendo ottenuto certezza di realtà in virtù del “fatto della ragione”, cioè della legge morale, apre però non già ad una metafisica, bensì ad una “religione nei limiti della ragione”, come Kant precisa in Appendice alla terza Critica (paragrafo 91). 71 Piccola Scuola, p. 50; p. 45. 72 L’espressione kantiana “empirismo dogmatico” si ritrova, ad esempio, nel primo volume di Filosofia, dove Jaspers affronta la questione del “senso” della scienza (pp. 129 sgg.). “L’empirismo sembra cosa ovvia, e invece non si può comprendere con facilità. La sua diffusione inganna. Infatti in versione popolare l’empirismo è solo dogmatico, non è un libero vedere, bensì la ipostatizzazione della scienza positiva come autorità incompresa e tranquillizzante…Il sapere dei fatti è sapere solo allorché diviene padrone delle fonti, basandosi sulla propria intuizione; il sapere vuole essere responsabile di sé. In luogo di questo l’empirismo dogmatico oltrepassa i limiti del sapere, mentre oscura a se stesso quello che è di fatto conoscibile. Con una fede vacua nell’onnipotenza tecnica si preoccupa di legarsi a scopi tecnici. Invece della soddisfazione che la coscienza sperimenta quando si apre alla ricchezza del fattuale, incombe la minaccia della disperazione sul senso della scienza”. Come vedremo, solo se la scienza si mantiene critica verso se stessa non smarrisce quello che potremmo chiamare il suo “côté” esistenziale.

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paragone su cui misurare la portata dell’intelletto e i suoi limiti: di tali limiti infatti nemmeno avremmo sentore, se non ci fosse la ragione che tende costantemente ad oltrepassarli. A questa tensione incessante, purché venga correttamente compresa, Jaspers attribuisce, come del resto Kant, una finalità positiva: essa, se permette di conferire ordine, sistematicità e anche slancio all’attività conoscitiva, impedisce l’assolutizzazione del finito e del condizionato, mentre ostacola ogni tentativo di completa oggettivazione dell’uomo. Quand’anche la ragione, cioè in definitiva la filosofia, non afferrasse mediante le idee nulla di oggettivo, eserciterebbe almeno la funzione irrinunciabile di apertura dello “spazio” (kantianamente per Jaspers la filosofia “macht den Raum frei”) entro cui si colloca la stessa indagine conoscitiva, impedendole di arrotondarsi in se stessa, e schiuderebbe la possibilità per l’essere dell’uomo, che già in quanto soggetto conoscente, ma ancor più come pensante ed esistente, non può risolversi nella proiezione oggettiva di se stesso. L’aspirazione della ragione all’unità – che è, in fondo, volontà di conferire un senso globale alla nostra esperienza – non può però consentirci di saltare, per dir così “a piè pari”, oltre la situazione che ci caratterizza come soggetti finiti: in altre parole, non possiamo sperare di poterci collocare, pensando, nella posizione di un’ipotetica divinità73. La finitezza nostra è resa evidente dal fatto che non solo nel conoscere ma altresì nel pensare restiamo all’interno di una scissione: il soggetto si confronta con l’oggetto; la soggettività del primo, pur svolgendosi in una pluralità di dimensioni, è sempre fronteggiata da qualcosa che essa non può ridurre a sé. Se interpretiamo le dimensioni della soggettività come orizzonti in cui si articola la nostra multiforme realtà fenomenica, essi sono, a loro volta, inclusi in orizzonti più vasti, in cui si struttura ciò che noi non siamo. Né gli orizzonti che ci costituiscono, né quelli che li abbracciano sono più che unità pensate, come idee teoretiche kantiane, sia a parte subiecti che a parte obiecti: pensandoli, sia circoscriviamo che trascendiamo le oggettività conosciute, perché gli orizzonti non sono, a loro volta, oggetti di un conoscere, ma solo strumenti di unificazione da parte della ragione. Il soggetto, ad esempio, si oggettiva, per conoscersi, in molteplici forme o guise. Ciò che Kant riassumeva sotto il titolo generale di homo phaenomenon era per lui un semplice prodotto della natura; da medico psichiatra, interessato anche alle scienze della cultura, Jaspers lo vede come un’entità più complessa. Certo, nel suo fenomenizzarsi l’uomo è realtà naturale, ma anche culturale; è portatore di bisogni naturali e di interessi legati alla so73 Sotto questo profilo la concordanza è piena non solo con Kant, ma anche con Kierkegaard.

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pravvivenza, ma anche di interessi ideali e di valori storici: così l’ambiente, che corrisponde ai primi, non è lo stesso che corrisponde ai secondi, il cui divenire non può essere scandagliato con i metodi impiegati nella conoscenza dell’altro. Ma che a studiare l’uomo siano il “fisiologo”, come diceva Kant, l’antropologo, lo psicologo, oppure lo storico, il sociologo: sempre l’indagine – che tocca aspetti parziali – si sviluppa all’interno di orizzonti (ad esempio l’orizzonte della psiche, oppure quello della fantasia creatrice di simboli nella sfera della cultura) che si spostano in là man mano che essa procede: non solo la totalità assoluta dell’uomo è inattingibile, ma nemmeno le totalità relative entro cui egli si fa conoscere vengono mai raggiunte, e il suo fenomenizzarsi resta perciò inconcluso. Qualcosa di simile avviene se consideriamo, a parte obiecti, il mondo come totalità: anch’esso si articola in totalità relative e irriducibili (il cosmo della materia inorganica e la vita, gli ambienti in senso psicologico o sociale, culturale, storico) tramite cui otteniamo sì delle unità, ma sempre parziali e sempre mobili. Se dovessimo limitarci a raccoglierci e a raccogliere la realtà in quelle unità così eterogenee, sia ciò che siamo sia l’essere in cui noi siamo rimarrebbero frantumati e scissi, né ci aiuterebbe a conseguire un’unità ultima quella soggettività astratta, trascendentale, che Kant denominava Io penso, e che è, a ben vedere, il compendio stilizzato o l’ipostasi di tutte le categorie, i principi, i metodi che presiedono al conoscere, al comprendere, al pensare. Si tratta di una soggettività così esangue che sembra avere tutto l’essere fuori di sé, esaurendosi in una serie di funzioni; e che risulta priva di fondamento quanto lo è il mondo stesso, se viene inteso solo come la totalità sempre sfuggente entro cui si dispiega ciò che è fenomeno per noi. Anche la coscienza in generale, condizione di ogni oggettività, può essere vista come un orizzonte: il che significa che le nostre ricerche logiche, metodologiche, epistemologiche, lo studio delle funzioni dell’intelligenza si estendono indefinitamente. Vero è che l’indefinitezza (Endlosigkeit) su cui qui riflettiamo è qualcosa di negativo: un indefinito avanzare, non un’infinità attuale e positiva, cioè qualcosa che trascenda effettivamente l’ordine del finito. Indefinito vuol dire impossibilità di vedere mai la fine: segnala l’ignoto che ci si ripresenta e ci sfida, e anche lo scoramento che afferra il ricercatore, costretto a “lasciare” proprio quando ha l’impressione di fare i primi passi su terreno solido, dopo molto errare e saggiare. La scienza moderna – aveva osservato malinconicamente M. Weber, poco prima di morire – ha una peculiare maniera di rendere assurda la morte: questa annulla l’apprendistato che l’individuo ha faticosamente compiuto, per far posto a nuovi aspiranti apprendisti, e insieme lo avverte che,

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malgrado i risultati ottenuti, anzi proprio grazie ad essi, il suo lavoro sarà molto presto “superato”. Il compito resta incompiuto, perché, essenzialmente, incompibile74. Soltanto la tranquillità (Ruhe) filosofica può essere l’approdo della Unruhe dello scienziato75, e questo malgrado lo stesso filosofare sia un movimento incessante in cui si fondono, come vedremo, inquietudine e appagamento: in tale movimento, però, l’infinito virtuale, negativo, che si affaccia negli orizzonti dell’immanenza, diviene simbolo dell’infinito attuale, in noi e fuori di noi. Travalicando l’identità anonima della soggettività intelligente, la nostra libertà ci lega ad altri esseri – i nostri compagni di destino – in modo incomparabilmente più profondo e sostanziale di quanto non ci impegni il rapporto con i compagni d’avventura sul cammino della scienza76; proprio 74 Il ricercatore contemporaneo – osserva Jaspers nella prima lezione di Cifre, p. 11; p. 10 – fa l’esperienza sconvolgente di un procedere indefinito che, per il sorgere di sempre nuove specializzazioni e l’accumulo delle informazioni, genera un altrettanto indefinito frantumarsi della scienza, impossibile da padroneggiare: “l’indefinitezza è come una bomba, che fa saltare la stessa scienza”. 75 Sempre in Cifre, nelle stesse pagine, Jaspers presenta le figure dell’agnostico passivo e dell’agnostico attivo. Il primo si mostra indifferente davanti al fatto che con il progresso della ricerca non si ha solo un’estensione della conoscenza, ma cresce anche la percezione dell’ignoto. Il disagio prodotto da tale percezione viene maldestramente nascosto dai tentativi di alcune scienze – come ad esempio la psicologia e la sociologia – di assolutizzare i loro risultati e di ricavarne teorie fantastiche, totalizzanti, destituite di ogni scientificità. “Del tutto diversamente – scrive Jaspers – si comporta l’agnostico attivo: egli è addirittura turbato dal non-saputo, che lo attrae e non gli dà requie. Si aspetta persino che dal non-sapere, qualora gli riesca di portarselo davanti agli occhi in maniera del tutto chiara e distinta, scaturisca per lui qualcosa d’altro...”. Di differente tenore le riflessioni che in Filosofia I, pp. 200 sgg., Jaspers dedicava a psicologia e sociologia in quanto scienze empiriche, che però sembrano poter abbracciare, nel loro sforzo di oggettivazione, l’interezza dell’umana realtà fenomenica (das Ganze menschlichen Daseins). Dopo aver ribadito che, comunque, “l’uomo è più di ciò che mostra di se stesso quando diviene oggetto di conoscenza”, Jaspers riconosce che psicologia e sociologia, per l’ampiezza stessa dei loro campi d’indagine, finiscono per sollevare questioni di rilevante interesse esistenziale, fornendo così “materiale” alla riflessione filosofica. È questa la ragione “per cui oggi forse i più vivaci impulsi a filosofare cercano di preferenza qui, piuttosto che in altre scienze, il loro terreno: se gli antichi filosofi furono matematici, a partire da Kierkegaard e Nietzsche sembrano essere soprattutto psicologi, da Hegel, Tocqueville, Marx e M. Weber sociologi”. 76 Con i quali è innanzitutto possibile un rapporto come “intelligenze”, nel senso della coscienza generica; e poi come partecipi del comune “spirito” della scienza e dell’ethos del ricercatore, che è fatto di modestia ed onestà intellettuali, virtù che scaturiscono dalla consapevolezza metodologica e dall’accettazione del confronto spregiudicato con la realtà delle cose; ma non ancora un rapporto in quanto “se stessi”.

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la certezza inoggettiva della libertà, inoltre, fa da ponte verso il pensiero della Trascendenza, dalla quale sono donato a me stesso assieme all’altro, con cui comunico e che amo. Già Kant vedeva nel sublime, matematico e dinamico, della natura un simbolo o rimando al vero infinito, implicito nell’idea morale e nella libertà: e solo tramite la consapevolezza di quest’ultima consentiva che l’anima si innalzasse in forma pura alla Potenza, che, in quanto fonte della libertà, è meritevole di autentica venerazione. Analogamente per Jaspers solo la libertà ha un immediato legame con l’essere stesso, l’Uno assoluto o l’Illimite77, in cui si raccolgono tutte le unità relative e parziali; così come, a parte subiecti, l’esistenza è l’unità in cui si raccolgono le molteplici dimensioni dell’esseruomo, che tutte la debbono servire, per acquistare senso e valore; e l’esistenza è quel che ogni uomo può essere, in quanto libertà78. Se il “pensiero fondamentale” di Kant è per Jaspers un’intuizione che somiglia ad una conversione, un “mutamento di sguardo” che ci fa traguardare al di là della caverna platonica, pur senza abbandonarla; il “sapere fondamentale” che si conquista con la sistematica degli orizzonti79 – sapere 77

È all’idea di illimite (ôπειρον) che si collega infatti il termine Umgreifende – che traduciamo per lo più con Abbracciante: un orizzonte sconfinato, ma nel senso dell’infinito, non dell’indefinito, cioè al di là del quale non vi è più nulla, e che perciò nemmeno può essere rappresentato come orizzonte, che è pur sempre una linea di confine fra un aldiqua e un aldilà. Il termine si connette alla definizione dell’ôπειρον anassimandreo nella Fisica di Aristotele: esso, ivi si dice, è l’illimite che tutto abbraccia e tutto governa. Ma Jaspers riprende l’idea dell’illimite da Plotino, che così indica anche l’Uno. È interessante notare che in Kierkegaard la dinamica del Sé comporta la sintesi paradossale di limite e illimite (π¤ρας e ôπειρον), dove l’illimite sta per lo spirito, la libertà, e il limite è la parte naturale, finita dell’uomo (cfr. La malattia per la morte, parte prima). Nell’Autobiografia Jaspers racconta di aver scoperto quasi nello stesso periodo Kierkegaard e Plotino. È chiaro poi che gli orizzonti dell’immanenza sono “abbraccianti” in senso analogico e non assoluto. 78 Anche la ricerca scientifica può acquisire, per Jaspers, senso e valore in rapporto all’esistenza. In Filosofia I la riflessione sul senso della scienza si conclude con le parole di M. Weber (vedi nota 38) che riassumono la tensione del suo spirito: in esse è “la totalità della verità che viene toccata”, quella verità “con la quale io sto o cado come esistenza, e a partire dalla quale soltanto anche la certezza costringente della scienza può ottenere il suo pathos derivato”. Poco sopra, a proposito di tale pathos, Jaspers ricorda la risposta data da “un grande e appassionato ricercatore” – probabilmente lo stesso Weber – interrogato su quale fosse, per lui, il senso della scienza: “si tratta di vedere che cosa un uomo sia in grado di sopportare”. Il sapere costringente, conclude Jaspers, “è la modalità in cui il nostro essere può divenire consapevole di come stanno le cose in tutte le forme del reale. Senza la resistenza oppostale da tale realtà, la libertà non può attuarsi effettivamente e rimane senza contenuto” (ivi, p. 145). L’esercizio della scienza, nello spirito della scientificità, serve l’esistenza in quanto ci porta la piena consapevolezza che l’essenziale non si trova nel conoscere, ma nella libertà e nell’amore. 79 Occorre distinguere – come si diceva (vedi nota 77) – fra gli orizzonti dell’immanenza,

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che rappresenta piuttosto l’articolazione e lo sviluppo di un non-sapere, giacché gli orizzonti abbracciano il saputo, ma non sono in esso consaputi – non viene presentato come una teoria o una dottrina, bensì come un modo di pensare con conseguenze esistenziali. Sul Grundwissen poggia infatti quell’apertura del soggetto che è insieme coscienza critica e disponibilità a riconoscere la presenza del trascendente: si tratta, come scrive Jaspers, di “leben im Umgreifenden”, vivere nella consapevolezza dell’Abbracciante80. Nei Prolegomeni Kant, chiarendo i rapporti fra intelletto e ragione e la funzione delle idee, preparava l’affermazione della libertà, condizione della vita morale; mediante il “sapere” degli orizzonti Jaspers vuole salvare l’homo noumenon, impedendo che gli orizzonti relativi siano assolutizzati, o che la nostra auto-interpretazione ci rinchiuda nel finito. È ciò che accade, ad esempio, quando la dimensione del vitale – organico e psichico – prende il sopravvento, e l’uomo si comprende come un coacervo di istinti, dinamiche pulsionali, bisogni; oppure quando la coscienza in generale pretende – come avviene nello scientismo – di essere l’orizzonte ultimo, arrogandosi il monopolio della verità; o quando è la dimensione dello spirito, cioè della cultura, ad ergersi come suprema, per cui, isolandosi dall’esistenza, alimenta un estetismo decadente, frivolo e privo di vigore81. Dal punto di vista della scienza, certo, questo sapere di non sapere è come un nulla82: pure esso chiarisce la nostra consapevolezza tanto dell’essere che siamo quanto dell’essere in cui siamo, e ci permette di interpretare entro cui raccogliamo, pensando, quanto viene conosciuto, e l’orizzonte ultimo – o orizzonte degli orizzonti – che ci abbraccia in quanto esistenze inconoscibili. Affine al modo di pensare di Kant è, in Jaspers, proprio la volontà di una sistematica aperta, volontà che sottende già l’opera sulla psicopatologia e che culmina, sia pure con un differente significato, nella Logica filosofica. A tale proposito, nell’Autobiografia, dopo aver sottolineato che “un sistema che si conclude è divenuto un controsenso” e che dietro progetti di “visioni globali” si nascondono addirittura forme di fissazione mentale o strategie di sedazione dell’angoscia, Jaspers riconosce anche che, in altri casi, tali progetti sono soltanto una modalità di accertamento della coerenza del proprio pensiero, “delle sue possibilità e dei suoi limiti, delle sue forme e dei mondi che gli sono accessibili. Così era, grandiosamente, in Kant”. Per parte sua Jaspers ammette di aver sperimentato qualcosa della soddisfazione kantiana, consistente nel verificare “che tutto si tiene bene”, ma di averla perseguita con molto ritegno. “Anche la sistematica delle possibilità della ragione all’interno delle modalità dell’orizzonte circoscrivente che noi siamo e in cui noi siamo resta per me oscillante e incompiuta...”. Nonostante ciò, con essa si sviluppa “la figura di un pensiero filosofico ricco di relazioni, in cui un aspetto risulta completato dall’altro, e ne viene confermato, senza però che possa mai arrotondarsi in sistema come figura conclusa” (ivi, p. 132 sgg.). 80 PS, p. 54; p. 48. 81 Ivi, p. 50; p. 45. 82 Ivi, p. 55; p. 48.

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la nostra vita alla luce dei “criteri più alti”, del “cielo stellato delle possibilità”, sicché è aperta la via “alla nobiltà dell’uomo, nella manifestazione del suo Esserci”83. Non è solo il nostro vivere ad essere illuminato dal sapere fondamentale: esso determina anche un nuovo atteggiamento nei confronti della morte, poiché, nella prospettiva che si schiude, si fa l’esperienza dell’eternità nel tempo84. Infatti come il tempo abbraccia il mondo, l’eterno abbraccia tutto il tempo e il mondo85, in cui si rende presente tramite il linguaggio ambiguo, cifrato, che solo l’esistenza decifra. Con implicito ma chiaro riferimento alle “due vie” che, nella conclusione della seconda Critica Kant poneva davanti all’uomo, Jaspers così conclude: Anzitutto: mediante il conoscere io divengo per me un essere vivente fenomenico, che si orienta nel mondo, perspicuo a me stesso, nella misura in cui il mondo stesso mi diviene perspicuo... In secondo luogo questa stessa chiarezza mi porta la coscienza di ritrovarmi in essa per così dire come in una prigione, cioè nella prigione dell’essere mondano che diviene oggettivo... Io sono in un carcere ma, insieme, grazie al fatto che mi accorgo di questo, sono anche fuori di esso... Divenuto certo del mondo come fenomeno, al contempo divengo certo dell’eterno... Di fronte a tutte le cose cui sono consegnato come essere vivente, sono consapevole di me stesso come di qualcosa che, in certo modo, viene prima di quelle86.

Al paradosso di un sapere che è non-sapere, perché chiarimento dei limiti del sapere, corrisponde quello del “pensiero impensabile” della Trascendenza. Già libertà ed esistenza sono non solo inconoscibili, ma anche impensabili: o meglio pensabili solo tramite circoli, tautologie, figure di “coincidentia oppositorum”, inevitabili quando il pensiero si volge all’infinitezza attuale. Però, mentre la libertà si “mostra” nel mondo, nello spazio-tempo, in decisioni ed azioni, e l’esistenza incontra intimamente l’altra esistenza, che si rivela nel mondo tramite il suo Esserci; la Trascendenza si lascia sfiorare solo indirettamente, mediante simboli che non ne attenuano, ma anzi ne accrescono la lontananza. Lo stesso pensiero dell’“abbracciante di tutti gli abbraccianti”, in quanto suggerisce l’immagine di un orizzonte onniincludente, mentre si pone anche si toglie, non potendo sussistere senza contraddizione: un orizzonte che, includendo, al contempo non escluda altro fuori di sé, non è nemmeno più concepibile come orizzonte. 83 84 85 86

Ivi, p. 171; p. 154. Ivi, p. 65 e pp. 164-65; it. p. 59 e p. 149. Ivi, p. 165; p. 149. Ibid.

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Il movimento, poi, dall’intreccio degli orizzonti dell’immanenza alla libertà e alla Trascendenza, non è certo un passaggio logico, ma ricorda molto da vicino il “felice salto nell’eternità” di cui parlava Kierkegaard87. D’altronde, che la realtà mondana sia fenomeno (Erscheinung) cioè manifestazione relativa e non illusoria; che la chiarezza ottenuta nel conoscere sia l’unica in essa raggiungibile e non un “oscuramento dell’essere autentico e di me stesso”, come intende, ad esempio, un certo pensiero asiatico: già questa alternativa non si risolve logicamente, bensì mediante una risoluzione (Entschluss) in cui si esprime la nostra “volontà fondamentale”88. Occorre guardarsi, però, dal confondere detta volontà con l’arbitrio, l’impulso, l’oscurità del mero Esserci; essa non significa neppure un presunto diritto assoluto al proprio “esser-così” (Sosein)89, bensì dice chi io sono 87 Il tema del salto, qui citato in una celebre formulazione del Diario (…ein seliger Sprung in die Ewigkeit, ed. Bur, p. 194), fondamentale in Timore e tremore, è al centro anche della Postilla e del rapporto di gratitudine-contrasto con Lessing, rapporto cui fa riferimento Climacus, avviando il suo esame del “problema soggettivo” del cristianesimo. Il salto indica la discontinuità fra il movimento del pensiero e quello della libertà, è la risoluzione che interrompe il fluire indefinito della riflessione e traduce la possibilità in realtà, il progetto in azione. Fra il pensare e l’agire interiore della decisione sussiste, appunto, un salto. Lessing aveva a suo tempo parlato di un “largo e brutto fossato” fra le verità storiche, contingenti, e le eterne verità di ragione, cioè fra le narrazioni dei Vangeli e il contenuto dottrinale-speculativo, ma soprattutto pratico del cristianesimo: fondare il valore del secondo sull’attendibilità delle prime costituiva per lui un vero e proprio “salto”, nel senso negativo di una metábasis eis allo génos, cioè di un indebito slittamento da un certo ordine ad un altro. La questione, assai delicata, riguardava la relazione fra i contenuti storici delle religioni rivelate e il contenuto di verità delle stesse: specie per il cristianesimo, la più “evoluta”delle religioni rivelate, Lessing era propenso a lasciar cadere l’involucro storico, giudicato inessenziale, conservando la parte dottrinale, ritenuta, nella sua essenza, affatto indipendente da quello. Alla tesi di Lessing – che Kierkegaard considera comunque preferibile alla posizione idealistica, operante una sintesi mistificatoria di tempo ed eternità – Climacus obietta che il paradosso cristiano implica proprio la concreta interferenza dell’eterno con il temporale e lo storico, anche se riconoscere tale paradosso non è opera della ragione, bensì comporta il “salto” della fede. La soluzione kierkegaardiana si connette con una interpretazione del tempo, anzi della temporalità esistenziale, in cui il tempo, nell’attimo, si riempie di eternità. Una certa continuità con Kierkegaard si può rilevare in Jaspers, là dove, per esempio nelle pagine di Piccola Scuola sopra citate, distingue fra l’intemporalità delle leggi logiche e matematiche, in contrasto con la temporalità del nostro Esserci, e l’eternità, intesa come “unità del temporalmente presente e dell’essere atemporale”, cioè di quell’essere che è “nel tempo” ma “trasversalmente al tempo”. Una simile unità, empiricamente e logicamente assurda, sarebbe vera per l’esistenza, che ad esempio la sperimenta, come vedremo, nell’amore metafisico di coppia (p. 163; p. 147). 88 Piccola Scuola, p. 51; p. 46. 89 Autobiografia, p. 126. Anche nella seconda Critica kantiana, del resto, la fede razionale pratica trova formulazione in un giudizio che esprime un volere – il quale, però, non contiene nulla di arbitrario, in quanto pronunciamento del soggetto morale e non dell’individuo spinto dal

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e dove sto nel rapporto d’amore, illuminato dalla ragione, con la verità già pensata dai grandi90. Quel “salto” è, comunque, ciò che, portando a compimento la Umwendung iniziata con il pensiero fondamentale, già si preannunciava nel proporsi di quest’ultimo. L’opportunità, se non la necessità di attuarlo può, ancora una volta, essere vista sia a parte obiecti che a parte subiecti. Se il mondo non è altro che la totalità mobile del fenomeno, qual è il senso del suo esserci? Oltre a descriverlo, come riusciremo a riconoscergli un valore o addirittura ad amarlo? Diversamente, se, fattosi trasparente come linguaggio simbolico, diviene tramite fra l’anima e il divino: allora potremo parlare anche di un suo splendore, del rifrangersi in esso di una bellezza capace di suscitare stupore reverenziale. E poi: nel mondo ci troviamo come fenomeni, consegnati alla natura e alla storia: effimere increspature in un oceano di fatti che ci sommergono e ci travolgono. Per un attimo, conoscendo, ci solleviamo al di sopra del flusso dei dati; ma, per quanto fieri della nostra attività intellettuale, non possiamo sottrarci al sottile disprezzo che ci ispira la nostra realtà di fenomeni, della quale cogliamo sempre solo brani o porzioni, con cui non ci è consentito elaborare una visione d’insieme. Inoltre: non vi è nulla, in noi, in quanto fenomeni, che si presti ad essere considerato di valore assoluto o qualcosa di unico e irrimpiazzabile: siamo solo casi particolari, elementi di una categoria o di una classe. Ciò che chiamiamo destino – termine inseparabile dall’aggettivo “personale” – non sarebbe che il succedersi di eventi in cui una mentalità irretita nella seduzione desiderio sensibile della felicità (“darf der Rechtschaffene wohl sagen: ich will, daß ein Gott…sei”; la persona morale può ben dire: io voglio che esista un Dio; vedi Dialettica della ragion pura pratica, cap. II, paragrafo ottavo). 90 Ibid. Del resto la scelta del filosofare, nella partecipazione alla coscienza abbracciante immanente nella storia della filosofia è, per l’individuo, un “rischioso salto” (ein gefährliche Sprung), paragonabile al salto della fede kierkegaardiano, al punto che, ne La fede filosofica, è proprio Kierkegaard ad essere chiamato in causa. Jaspers annota infatti come nel Diario egli scrivesse: “ciò che Schleiermacher chiama religione, e i teologi dogmatici hegeliani fede, in fondo non è niente altro che la prima immediata condizione di tutto, il fluido vitale, l’atmosfera spirituale che noi respiriamo”. Così la fede dei contemporanei gli appariva “una specie di vapore marino”, mentre per lui essa non è “né esperienza vissuta, né qualcosa di immediato, che sia possibile descrivere come alcunché di dato. Essa è piuttosto un rendersi consapevoli (innewerden) dell’essere sul fondamento dell’origine, grazie alla mediazione della storia e del pensiero” (ivi, p. 15). A tal punto Jaspers pensa la fede filosofica in analogia con la fede – cristiana – di Kierkegaard, da rispondere come lui alla domanda: “perché credi?– perché me l’ha detto mio padre” (ivi, p. 22); con il termine padre, però, Jaspers intende la tradizione dei grandi filosofi. In Kierkegaard, tuttavia, il salto era tale in relazione alla ragione dei filosofi del suo tempo; mentre per Jaspers esso vale soprattutto in relazione al sapere scientifico e alla logica dell’intelletto (Piccola Scuola, p. 55; p. 49).

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del mito, e residuo di epoche trascorse, si affannerebbe invano a cercare un filo conduttore, se non proprio l’abbozzo di un disegno. Sorge allora il dubbio: perché voler conoscere e conoscersi, se alla fine dobbiamo riconoscerci unicamente come il prodotto d’altro, di innumerevoli, incalcolabili determinismi? l’urgenza di sapere non cela forse l’allusione ad una possibilità più alta che ci è offerta? Qui però la categoria della possibilità non avrebbe più valenza logica o gnoseologica, bensì esistenziale, come esigeva Kierkegaard. L’esperienza della libertà – di cui almeno in alcuni attimi siamo certi – significa: qualcosa, in ciò che siamo, dipende solo da noi; possiamo essere – in maniera inconcepibile e imponderabile – origine di noi stessi. Ma, ora: nella nostra originarietà e indipendenza dal mondo dipendiamo da Altro, da qualcosa che non è mondo: non siamo liberi per merito nostro. Il paradosso di un vincolo assoluto che libera e rende indipendenti è certamente kierkegaardiano, ma è anche, almeno in parte, anticipato da Kant, con la sua idea di libertà come indipendenza resa possibile dal vincolo assoluto della legge morale91. Vogliamo per il momento concludere questo sintetico confronto fra Jaspers, Kierkegaard e Kant con alcune considerazioni. Reagendo, nella sua Filosofia, alle due “visioni del mondo che si chiudono in se stesse” 92 e che hanno dominato il panorama filosofico del XIX secolo, cioè idealismo e positivismo, Jaspers si ritrova a stretto contatto con Kierkegaard e con Kant. Difficile dire se nella sua prima grande opera prevalga una kantizzazione di Kierkegaard o, all’inverso, una esistenzializzazione di Kant. Se si pensa che la struttura dell’opera è inequivocabilmente kantiana, anche se posta al servizio della chiarificazione esistenziale, la seconda tesi sembra più plausibile. Impossibile, in ogni caso, respingere l’affermazione di H. Saner, secondo cui Kant finisce per imporsi nella produzione della maturità, soprattutto negli scritti dedicati ai temi della storia, della politica, e del rapporto fra filosofia e religione rivelata93. Il modo di pensare kierkegaardiano, lo stile 91 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, Dilucidazione critica dell’Analitica: “Quando si scorgesse la possibilità della libertà di una causa efficiente, non si scorgerebbe solo la possibilità, ma addirittura la necessità della legge morale, intesa come suprema legge pratica di esseri razionali, cui viene attribuita la libertà della causalità del loro volere; infatti i due concetti sono così inscindibilmente legati che sarebbe possibile definire la libertà pratica come indipendenza del volere da ogni altra legge, che non sia la legge morale” (Rusconi, Milano 1993, p. 199; trad. leggermente modificata, corsivo nostro). 92 Filosofia I, cap. 4. Vedi nota 49. 93 L’incidenza di Kant si fa già più evidente a partire dal 1935 con Ragione ed esistenza, in cui, tuttavia, si tratta ancora di tenere insieme l’apporto dei due grandi outsider, Kierkegaard e Nietzsche, con la tradizione della ragione, assunta però nell’accezione kantiana, cioè con quella modestia che ne esclude l’assolutizzazione. La ragione non è origine del filosofare,

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soggettivo, non sono mai abbandonati da Jaspers, ma il ricorso a Kant e alla sua idea di ragione diviene sempre più indispensabile per sottoporre a vaglio quegli ambiti cui non si era direttamente applicata la riflessione del pensatore danese. In Kierkegaard, ad esempio, non trova spazio una filosofia della storia, compressa fra la conoscenza empirica del passato-la storiografia – sempre approssimativa e continuamente rettificabile, nonché irriducibile a ricostruzione metafisico-deduttiva, e la teologia rivelata. Infatti: in quanto filosofo egli era troppo impegnato a confutare la concezione hegeliana della storia come processo logico necessario e, in quanto teologo, troppo preoccupato della riduzione del cristianesimo a fatto storico-culturale, per potersi prestare ad una interpretazione della vicenda storica come sede della rivelazione dell’umano e delle sue possibilità94. Piuttosto Kierkegaard si era limitato a rovesciare il paradigma del progresso, giacché, con il succedersi delle generazioni, cresce per lui l’incidenza del peccato, e tanto più cresce quanto più ne viene rimossa la consapevolezza nelle coscienze “disperate”, dominate da un vacuo ottimismo. Ad una interpretazione meno negativa si prestava invece Kant, che, pur mantenendo nettamente distinti i due piani della speranza storica e di quella etico-religiosa, leggendo la storia con l’ausilio dell’idea del diritto, cioè che sorge piuttosto dalla fede suscitata dall’amore: essa è invece il medium indispensabile del filosofare, è il movimento in cui la fede – l’esistenza – chiarendosi si accerta di sé, e diviene comunicabile. La ragione è, kantianamente, la facoltà dell’incondizionato, da cui viene attratta come da qualcosa che illumina sia il pensare che l’agire. Raccogliendo in unità relative la nostra esperienza, e connettendo queste unità fra loro, essa cerca un’unità più alta che, nondimeno, la trascende: tale ricerca porta comunque chiarezza nella condizione umana, senza velarne le insuperabili oscurità. “Con il pensiero filosofico – commenta Jaspers nell’Autobiografia – accade un’irruzione che sfonda la razionalità che vorrebbe porsi come assoluta, ma è un’irruzione che va oltre l’intelletto, senza perderlo” (ivi, p. 91).È interessante notare che nella sua monografia su Cusano Jaspers si serve del termine tedesco Verstand per tradurre il latino ratio (la razionalità discorsiva) mentre con Vernunft traduce intellectus, il pensiero che tramite la sua alogica o anti-logica razionale è capace di “sfiorare” l’infinito (ed. DTV, p. 150). 94 Questa è appunto la storia nella prospettiva di Jaspers (vedi Ursprung und Ziel der Geschichte, 1949, nuova ed. Piper 1983; trad. it. Origine e senso della storia, Comunità, Milano 1965, nuova ed. 1982). Impossibile però non pensare a Kierkegaard e alla sua ironia sullo Zeitgeist o alle sue osservazioni sulla tendenza dell’epoca a chiudersi nel tempo, quando si leggono le seguenti affermazioni: “sapere dove uno sta e che cosa vuole conduce alla visione della propria epoca nell’orizzonte della storia…Sarebbe vano, soltanto, voler conoscere l’epoca, per trarre da questa esperienza quello che, in corrispondenza ad essa, si vuole comprendere come compito della filosofia. Non è possibile fare un calcolo di quello che l’epoca esige, di cosa è appropriato al tempo, e poi soddisfarne programmaticamente le richieste... (del resto) il senso del filosofare rimane qualcosa che va oltre ogni epoca ed ogni tempo” (Autobiografia, p. 128).

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della libertà esterna dell’uomo, aveva interpretato il progresso come compito etico-giuridico. Parimenti, l’enfasi posta da Kierkegaard sull’eterogeneità di cristianesimo e mondo – pur se ben giustificata dalla necessità di opporsi alla crescente secolarizzazione – rendeva difficile anche solo impostare, se non risolvere, la questione del rapporto fra politico e sovra-politico, divenuta per Jaspers, nel secondo dopoguerra, di importanza cruciale95. Non era cioè più sufficiente l’elaborazione di una fede filosofica capace, con la sua apertura universalistica e il suo carattere aconfessionale, di fornire anima e sostegno all’agire politico: occorreva trarre nuovo impulso dalle idee pratiche kantiane – come quella di costituzione repubblicana o di ordinamento internazionale – per delineare, con l’apporto della concezione weberiana di “responsabilità”, la figura dell’uomo di Stato “ragionevole”. Ma il punto più delicato nell’abbandono di Kierkegaard a favore di Kant sta nell’esplicitazione, d’altronde già avviata in Filosofia, dei rapporti fra fede filosofica e fede religiosa: punto delicato, anche perché mentre, all’apparenza, la fede filosofica jaspersiana sembra modellata sulla fede pratica di Kant, se ne distingue invece per più di un aspetto, proprio grazie al permanente influsso di Kierkegaard; e poi perché la Trascendenza di Jaspers non ha – lo vedremo – molta somiglianza con il Dio dell’etico-teologia kantiana. Se la fede di Kierkegaard, infatti, si riferisce senz’altro al Cristo di Paolo e del Nuovo Testamento, è pur sempre dalla Bibbia che Kant ricava i simboli atti ad esporre una “conoscenza pratica” di Dio96; mentre la divinità di cui parla Jaspers evoca quello che Pascal, non senza ironia, definiva “il dio dei filosofi”, contrapponendolo al Dio biblico97. Tanto nella teologia rivelata di Kierkegaard quanto in quella filosoficomorale di Kant risulta centrale l’idea di relazione e, per grandi che siano le differenze fra le due – differenze che non possiamo qui esaminare – in entrambe il rapporto fra uomo e Dio contempla una certa reciprocità. In Kierkegaard è ovviamente decisivo il movimento che Dio compie verso l’uomo, prima rivelandosi e poi incarnandosi98; però Kant, da parte 95

Si pensi, ad esempio, alla conferenza radiofonica – poi divenuta voluminosa opera – La bomba atomica e il futuro dell’uomo (1956-58). 96 Il tema, già accennato nella Dialettica della seconda Critica è poi, come noto, sviluppato nell’opera sulla religione. 97 Che il “pensiero di Dio” sia originariamente filosofico, e non preso a prestito dalla religione, e che il Dio dei filosofi non sia da considerare meno seriamente del Dio della rivelazione è tesi da Jaspers sovente ribadita, specialmente nelle opere in cui mette a confronto religione e filosofia (Rivelazione, Cifre ecc.). Di tutte le cifre della Trascendenza quella dell’Uno, presente sia nella Bibbia che nella filosofia, è l’unica con la quale si potrebbe tranquillamente procedere “se il cristianesimo o le religioni bibliche dovessero scomparire” (Cifre, p. 58; p. 55). 98 Dei tre modi in cui fondamentalmente si manifesta l’agire del Dio biblico nei confronti

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sua, si serve di simboli che significano la condotta di Dio nei confronti del soggetto morale (un Dio che è santo legislatore, buon reggitore, giusto giudice) in modo da indicare, per converso, quale debba essere la condotta dell’uomo con Lui. Contro questa reciprocità di relazione urta, come diremo, la teologia jaspersiana. In Jaspers manca poi l’identificazione kantiana della fede con la speranza. Per quanto filosofica, la fede del giusto è, per Kant ancora, paolinamente, sostanza di cose sperate. “La speranza – scrive invece Jaspers – ha senso solo nell’Esserci. Non si spinge oltre il tempo”99. Spinoza, in questo caso, gli fornisce l’archetipo di un veridico “credere” in Dio, del tutto disinteressato, perché nulla desidera, nulla si attende, nulla spera100. Perciò quella felice integrazione di elementi greci e cristiani che Sternberger trovava nel suo maestro101 è senz’altro ben riconoscibile per quanto concerne l’antropologia: in questa, anzi, è l’influsso del cristianesimo a risultare più avvertibile, proprio anche grazie agli apporti kantiani e kierkegaardiani102. Diverso e più complesso è il discorso, quando si affronta il tema del “pensiero di Dio”103.

dell’uomo (creazione, rivelazione, redenzione) Jaspers riconosce solo il primo, interpretandolo, come diremo, in rapporto alla libertà dell’uomo, che spesso definisce “libertà creata”. 99 Piccola Scuola, p. 67; p. 60. 100 Ivi, p. 155; p. 139. “L’amore intellettuale per Dio di Spinoza vuol dire: la pura ragione, questa suprema forma di conoscenza che si trova al di là dell’intelletto, e in cui l’uomo consegue la propria libertà, viene a coincidere con l’amore per Dio. Però Spinoza non si aspetta che Dio ricambi il suo amore. Infatti Dio non è come un essere umano, che ama, e l’amore di Spinoza è disinteressato”. Un simile atteggiamento, secondo Jaspers, si ritroverebbe anche nel profeta Geremia, il quale, nel suo amore incrollabile per Dio, così crederebbe: che Dio c’è, questo basta. Come vedremo, si tratta di una formula sovente ripetuta da Jaspers. 101 Sternberger, Maestri del ’900, cit., p. 53. 102 È Jaspers, comunque, a dichiarare esplicitamente, a proposito della visione dell’uomo: “Mi sembra che la più alta coscienza dell’esser-uomo sia stata raggiunta nella Bibbia, e non in un pensiero filosofico” (Cifre, p. 17; p. 16). Kierkegaard definisce l’uomo – riprendendo la concezione paolina (vedi, ad es., I Tessalonicesi 5, 23) – una sintesi di corpo e di anima sostenuta dallo spirito, cioè dalla libertà: è questa, infatti, che ha il compito di attuare la sintesi, edificando la personalità, anche se spesso, all’opposto, si adopera per disgregarla (Concetto dell’angoscia). Triplice però anche la distinzione kantiana – esposta nell’opera sulla Religione – fra animalità, sfera d’istinti e d’impulsi sensibili, umanità intelligente, mossa dal desiderio di autoaffermazione nell’esplicazione dei talenti propri della specie, e personalità morale. Tanto in Kierkegaard quanto in Kant – ma il rilievo vale anzitutto per Paolo – la distinzione è finalizzata ad un’ermeneutica dell’agire, cioè segnala le forze che intervengono nella vita umana intesa come azione. In Jaspers il binomio Esserci-esistenza possibile richiama tanto il rapporto fra natura e spirito nell’uomo kierkegaardiano, quanto il nesso fra carattere empirico e carattere intelligibile in Kant. 103 Vedi Introduzione alla filosofia, lezione quarta.

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DALLA PSICOLOGIA ALLA FILOSOFIA: SOLITUDINE, COMUNICAZIONE, LOTTA AMOROSA, ENTUSIASMO

Se definiamo aspirazione ogni movimento che avviene nell’anima, allora l’atteggiamento entusiastico è certamente un aspirare. (Psicologia delle visioni del mondo, p. 122; p. 143). Non è il mondo che ci libera dalla solitudine, ma l’esser se stesso, che si vincola all’altro. (La situazione spirituale, p. 177).

“Essere un io – scrive Jaspers in un saggio giovanile, in cui espone alcune riflessioni “als Nervenartz”, che anticipano in modo sorprendente quelle proposte, tre lustri più tardi, come filosofo – significa essere solo. Chi dice io stabilisce una distanza, traccia attorno a sé un cerchio. Ci può essere solitudine solo dove ci sono individui. Però dove esistono individui sussistono entrambe le cose: la voglia di individualità e, quindi, la spinta ad uscire dalla solitudine. Quel che conta, in ogni caso, non è l’essere individui in quanto tale, ma se uno si sente e si sa individuo”1. La connessione di solitudine e individualità2 non concede che in un rapporto comunicativo in cui l’individualità debba essere conservata – a differenza di quello che accade quando il soggetto la sacrifica a qualche organizzazione, chiesa o comunità, e si lascia “deformare” a mera realtà sociale – la solitudine venga abolita: essa anzi interviene necessariamente nel processo stesso del comunicare. “Perciò l’uomo entra in un movimento dialettico inevitabile e infinito: egli toglie, in comunicazione con l’altro es1

Einsamkeit (1915-16), ora in K. Jaspers, Das Wagnis der Freiheit, a cura di H. Saner, Piper, München 1996, pp. 11-30. 2 Motivo schiettamente kierkegaardiano, che rimane costante nel pensiero di Jaspers.

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

sere umano, il proprio isolamento in quanto io; però al contempo l’io deve compiere un processo che lo modifica, in conseguenza del quale il nuovo io è nuovamente solo – ‘solo chi si muta, mi rimane affine’ – e da ciò sorge un nuovo oltrepassarsi verso l’altro, a partire dalla nuova solitudine dell’io, e così di seguito, incessantemente”3. Nelle medesime pagine, a proposito dell’amore, egli osserva:

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L’amore è una relazione tra esseri umani, che si collocano reciprocamente su di un piano di assoluta parità, ed è un superamento della solitudine senza annullarla, piuttosto, anzi, con uno sviluppo dell’individualità.

Proprio in Kierkegaard il giovane psichiatra, ormai prossimo a “destarsi” alla filosofia, trova un sostegno alla propria tesi circa la necessità, per quelli che si amano, di collocarsi sullo stesso piano. “Nell’amore – scrive l’autore delle Briciole, qui citato da Jaspers – ciò che è diverso viene parificato, e solo su di un piano di uguaglianza e nella unità dei due è presente la comprensione”. L’infelicità dei due amanti potrebbe risultare allora non già dal fatto che “non possono appartenere l’uno all’altra”, bensì da quello “che non si possono comprendere l’un l’altra”. Si avrebbe, cioè, un genere di infelicità che, secondo Climacus, “colpisce al cuore l’amore e l’offende per l’eternità”, poiché l’amore “giubila quando unisce ciò che si trova sullo stesso piano, e trionfa quando parifica nell’amore ciò che prima non era allo stesso livello”. Si tratta, come è noto, di divagazioni solo apparentemente “psicologiche”, dietro cui si cela l’intento dello scrittore danese di avvicinare mediante una narrazione poetica il suo lettore al tema abissale del Dio incarnato: esse incorniciano infatti la favola del re potente, innamorato di una misera fanciulla e ansioso di risolvere il problema dell’enorme differenza qualitativa delle loro rispettive condizioni e realtà4. Jaspers non sembra imbarazzato dal contesto “teologico” in cui si trovano tali divagazioni e, per parte sua, conclude: L’amore è l’unico toglimento della solitudine che mantiene l’individualità. Però non è presente, di solito, in questa costruzione idealtipica. Ciò che in tale tipizzazione è essenziale consiste nel comprendere che colui che ama non sopporta nessuna forma di culto, di superiorità, di venerazione.

3

Einsamkeit, cit., p. 12. L’“esperimento poetico” di Kierkegaard si trova in Briciole di filosofia, cap. II (“Dio come maestro e liberatore”): “Das unglückliche liegt nicht darin, daß die Liebenden einander nicht bekommen können, sondern daß sie einander nicht verstehen können” (pp. 26 sgg.). 4

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DALLA PSICOLOGIA ALLA FILOSOFIA: SOLITUDINE, COMUNICAZIONE...

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Facilmente, è vero, l’amore si muta in gentilezza e cavalleria, ma allora si affermano gli istinti del dominio, non della lotta, e l’amore è tolto, oppure messo in disparte...

La parità tra quelli che si amano – il loro situarsi sullo stesso piano – è infatti condizione indispensabile perché la lotta, che rende dinamica la relazione, mantenga un carattere edificante, costruttivo per le personalità.

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La lotta propria dell’amore non si serve di ogni mezzo. La sua morale è: far parlare l’individuo e la cosa stessa. Non sottomettere, ma risvegliare, non sopraffare, ma compiere un vaglio pacato; non inganno e stratagemmi, ma apertura, verità, autenticità5.

Che tanto nella comunicazione autentica, quanto nell’amore, la solitudine sia superata “senza annientamento, ma anzi con sviluppo, potenziamento dell’individualità”, e che la solitudine stessa, non risolvendosi solo in qualcosa da cui si deve uscire al più presto, possieda un particolare valore per lo sviluppo dell’individualità medesima: ecco due tesi che richiamano senz’altro Kierkegaard, per cui la citazione jaspersiana delle Briciole non è affatto casuale6. È dunque interessante constatare come sempre dalle Briciole sia ripreso il confronto – con esito differente, anche a causa della diversità del suo intento – fra il “tipo” Socrate e il “tipo” Gesù. Jaspers si propone qui di individuare l’ideale di comunicazione “als Nervenartz”, cioè come medico della psiche, nel rapporto con il paziente, ed è chiara la sua adesione al tipo 5

Einsamkeit, p. 18. Anche le considerazioni sul mantenimento della solitudine come “volontà di non sprecarsi” ricordano Kierkegaard; si tratta di riconoscere, scrive Jaspers, che “l’uomo si concede di abbandonare la solitudine, di parlare, di accordare e consentire un’apertura senza riserve, quando il rapporto d’amore può diventare vivo e quando la situazione, l’uomo (l’altro), il contenuto siano, per serietà e per necessità della cosa, adeguati a conferire significato a questo abbandono. La comunicazione tra uomini non deve essere profanata da falsificazioni, come da relazioni inautentiche, da commedianti, senza forza efficace ed infruttuose..…raramente questa spinta a lasciare la solitudine è sintomo della pura nostalgia dell’amore, e di comunicazione allo stesso livello” (ivi, pp. 19-20). Si confrontino tali considerazioni con quelle di Kierkegaard ne La malattia per la morte, opera che sarà analizzata da Jaspers pochi anni dopo nella Psicologia delle visioni del mondo: “In generale l’impulso verso la solitudine è un segnale del fatto che nell’uomo c’è spirito, e un criterio per capire che tipo di spiriti siano gli uomini. Quelli che si possono definire “i chiacchieroni in modo disumano e sociale” sentono così poco il bisogno di solitudine che, come uccelli inseparabili, muoiono immediatamente se sono costretti anche per un istante a rimanere da soli; e come il bambino piccolo ha bisogno di essere ninnato nel sonno, così costoro abbisognano delle tranquillanti ninne del sociale, per poter mangiare, bere, dormire, pregare, innamorarsi e così via...” (p. 62). 6

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Socrate, che “non ha allievi come seguaci o discepoli, si rifiuta di essere un modello” per gli altri e rimanda il suo interlocutore, in cerca della verità, a se stesso; inoltre Socrate “vuole comunicare, domandare, vagliare, non vuole né subordinazione né sopraffazione… è l’uomo dell’estrema modestia, che non va oltre i propri limiti”7. In tutto questo Jaspers non si discosta minimamente dal ritratto di Socrate fatto da Johannes Climacus; il quale, nella grande Postilla, si spingeva fino a paragonare Dio stesso (il Deus absconditus della Bibbia) all’ironista greco, perché gli sarebbe simile nella “rassegnazione” con cui, invece di appalesarsi direttamente agli uomini, si manifesta loro solo indirettamente, nell’interiorità, provocando la loro libertà. Invece completamente discordante dalle posizioni di Kierkegaard è la descrizione jaspersiana del tipo Gesù, che toglierebbe l’individualità, piuttosto che rafforzarla. Il medico della psiche che volesse conformarsi al tipo del “profeta”, considererebbe se stesso come “un modello e un’autorità per gli altri”, presentandosi come “l’unico cammino per tutti”8. Sentendosi in diritto di aiutare l’altro “direttamente”9, gli toglierebbe il fardello d’essere un individuo, con la sua dignità e indipendenza. In Gesù l’amore sembrerebbe infatti muovere nella direzione opposta a quella per cui esso richiede, sì, toglimento della solitudine, ma con mantenimento e sviluppo dell’individualità. Un simile amore sembrerebbe cioè avere come presupposto “che l’individuo non sia e non diventi qualcosa di sostanziale”. Gesù ha la pretesa di rendere l’uomo diverso, di trasformarlo, mentre Socrate “pensa solo di poterlo risvegliare”. Con singolare mutamento di prospettiva, però, nella Psicologia delle visioni del mondo, volendo approfondire l’idea della lotta amorosa, che già compariva nel saggio sulla solitudine (“la comprensione e l’amore non sono mai una datità definitiva, un tranquillo e duraturo possesso…sono conquistati soltanto nella lotta, nella lotta spirituale…una lotta di forze positive, concrete…”), Jaspers, che ormai non scrive più in veste di psichiatra, ma come psicologo degli atteggiamenti spirituali e delle concezioni della vita, 7

Einsamkeit, p. 24. Ivi, p. 23. Ecco una tesi su cui Jaspers ritorna costantemente nei più diversi scritti: anche nel saggio su Goethe del 1947 (Unsere Zukunft und Goethe, in Rechenschaft und Ausblick, Piper, München 1958) troviamo l’affermazione lapidaria: “Kein einzelner Mensch ist der Weg oder zeigt den Weg” (ivi, p. 37). 9 Ibid. Significativamente invece Kierkegaard – che pure si guarda bene dall’ignorare la differenza fra maestro socratico e maestro cristiano – attribuisce al Cristo, quale Incognito essenziale, la forma più alta e rischiosa di comunicazione indiretta, culminante nello scandalo della croce (cfr. Esercizio di cristianesimo, Nr. II). È quanto riconoscerà Jaspers stesso, nella più matura interpretazione di Kierkegaard (vedi, ad esempio, Kierkegaard, in Rechenschaft und Ausblick cit., p. 141). 8

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indica Gesù come esempio di qualcuno che, insegnando l’amore, “insegna anche la lotta”10. “Accorgersi che la vita è lotta – egli spiega adesso – è di grande importanza per la comprensione della nostra natura, ma altrettanto importante è accorgersi che la lotta non è sempre lotta per la potenza, bensì è anche operante e attiva sul piano dell’amore e che ivi è lotta per la sostanza; accorgersi che essa può essere l’espressione di un intensificarsi della comprensione nell’ambito dell’amore…”11. La necessità di lottare è inseparabile dalla nostra finitezza: ma, sorprendentemente, interviene anche nella sfera in cui ci sembra di poter trascendere tale finitezza: nell’amore e nella comprensione amorosa. Jaspers descrive, da psicologo delle visioni del mondo, la gradualità della nostra scoperta: La lotta è in primo luogo inavvertita, come mera selezione di opportunità e conquista di vantaggi, sulla base di una condotta che non è direttamente orientata contro nessuno.

Subentra poi la consapevolezza della lotta per la vita – che vuole conservarsi limitando la vita altrui – e della lotta per la potenza, cioè per l’espansione della vita propria; in entrambi i casi l’esito potrà essere l’assimilazione o la distruzione dell’altro. Del tutto differente è la lotta come “mezzo” per l’amore, in cui “non si lotta per la potenza, ma per cimentare interiormente se stessi e l’altro, guadagnare trasparenza e diventar se stessi”12. Proprio perché inseparabile da quest’ultimo genere di lotta – che non ammette nessuna superiorità di un contendente rispetto all’altro – l’amore è inconfondibile 10 Consideriamo la sesta edizione in lingua tedesca – contenente il Vorwort alla quarta – dell’opera(pubblicata per la prima volta nel 1919), Springer Verlag, Berlino 1971; l’edizione italiana risale invece al 1950 (Roma, Astrolabio). Nella elaborazione tipologica ivi proposta da Jaspers c’è indubbiamente qualcosa che va al di là della mera psicologia: vengono indicati stili di vita, prospettive di pensiero e di orientamento nella prassi, la cui descrizione mira però a dischiudere uno spazio di possibilità “in cui cadono le decisioni esistenziali, che non sono anticipate da nessun pensiero, nessun sistema, nessun sapere” (così si legge nella Prefazione del 1954, che introduce la quarta edizione, p. VIII; in essa Jaspers dichiara – a pagina XI – che il suo vero interesse era, sin dalla prima edizione, “per le cose ultime”, quindi più filosofico che psicologico). Letta in tale chiave, la Psicologia già contiene l’avvicinamento a Kierkegaard e al suo filosofare, orientato ad esporre “stili di vita”, ma con il proposito di sollecitare il lettore ad una scelta: non, si badi bene, nel senso di chiamarlo a scegliere fra questi stili, come a volte si è detto; bensì in quello di provocarlo anzitutto a compiere la scelta di scegliere, riconoscendosi come esistente, cioè come libertà (per Kierkegaard “la possibilità della possibilità “). Le affermazioni su Gesù si trovano a p. 126; p. 148. 11 Ivi, p. 126; p. 148. 12 Ibid.

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con la compassione, che è “degradante per colui che ne è l’oggetto”13, e con la comprensione psicologica, che “oggettiva l’uomo, ne fa un oggetto fra altri, lo spoglia della sua individualità assoluta, e, in generale, di qualunque assolutezza”14. Rispetto alla compassione, l’amore può sembrare “crudele e senza riguardi”; rispetto alla comprensione psicologica, l’amore è quella reciprocità in cui “l’uomo considera l’uomo come assoluto e come calato e compreso nell’assoluto”; nella comprensione amorosa l’uomo non è “osservato e conosciuto” dall’altro, ma “toccato nella sua essenza”. Ebbene proprio Gesù viene qui contrapposto, come “colui che non era venuto a portare la pace, ma la spada”, al maestro della tolleranza senza amore, Epicuro, che insegnava la “quiete” (“nihil beatum nisi quietum”)15. “Colui che ama lotta, col suo comprendere, anche a costo di riuscire importuno nel tentativo di togliere la distanza... ma senza violenza né volontà di potenza”; del tutto diverso l’atteggiamento di chi “insegna un isolamento disamorato dal mondo”, e che è disposto a tutto tollerare, pur di conseguire la tranquillità16. L’inseparabilità di solitudine e comunicazione per salvaguardare e sviluppare l’individualità; e la necessità che nel rapporto amoroso i soggetti si collochino su un piano di parità, affinché la lotta si svolga senza sopraffazione e senza sottomissione, evitando sia l’atteggiamento “egocentrico” (egozentrisch), 13 Jaspers è, a tal proposito, tassativo: quando si è, e poiché si è compassionevoli, non si ama. “È proprio l’estremo opposto dell’amore riversarsi nella compassione, nell’amore generico per l’umanità, nel cieco soccorrere ovunque vi sia sofferenza. In questo non si ha in mente mai un individuo, mai un assoluto, ma sempre se stessi. Si resta in quell’atteggiamento per il quale la contrapposizione di valore fra piacere e dolore è tutto” (p. 128; p. 150). Considerazioni analoghe si ritroveranno anche in Filosofia, ogni volta che si ripete che l’amore è lotta (per es. Filosofia II, p. 245). Per la diffidenza nei confronti della carità, interpretata in chiave eminentemente sociale, vedi oltre, cap. sesto. 14 Psicologia, pp. 127-128; pp. 149-150. 15 Persino questa contrapposizione fra Gesù ed Epicuro richiama Kierkegaard che, com’è noto, imputava al vescovo Mynster, con cui era in dissidio, di aver risolto il cristianesimo in una sorta di galateo o bon ton, con l’obiettivo di scansare tutti i conflitti, appunto per poter vivere secondo i dettami di Epicuro. Il carattere fortemente antiquietistico che emerge in molti aspetti del pensiero di Jaspers si collega all’influsso di Kant e di Kierkegaard, ma anche a quello di M. Weber, specie per il tema della lotta. 16 Ivi, p. 126; p. 148. La presentazione della figura storica di Gesù ne I grandi filosofi conferma questa interpretazione, per cui egli sarebbe il tipo del lottatore, in netta e pure agra polemica con le tesi di Nietzsche, che ne faceva un soggetto nevropatico, del tutto incapace di opporre resistenza all’avversario: l’interpretazione di Nietzsche, dichiara lì seccamente Jaspers, “non può convincere nessuno” (ivi, p. 200). Invece la diffidenza nei confronti del tipo del profeta, descritto nel saggio sulla solitudine, si prolunga nel rifiuto del Cristo giovanneo, che come Dio incarnato, toglierebbe l’indipendenza del singolo (tesi sostenuta sia in Filosofia, sia nell’opera sulla Rivelazione).

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sia quello “alterocentrico” (alterozentrisch), cioè sia il voler assorbire l’altro, che il lasciarsi assorbire da lui17, sono temi particolarmente sviluppati anche nelle pagine di Filosofia II dedicate alla comunicazione esistenziale18. Se “il singolo uomo non può divenire uomo da solo”19, la comunicazione in cui tale divenire può realizzarsi è sempre, di volta in volta, tra due “che si vincolano reciprocamente e però non possono non rimanere due – che si trovano l’un l’altro uscendo dalla solitudine e tuttavia conoscono la solitudine, appunto perché stanno nel rapporto comunicativo”20. Infatti “se io pervengo a me stesso, allora in tale comunicazione si trovano entrambe le cose: l’essere-io e l’essere con l’altro. Se io non sono anche un se stesso indipendente che poggia su di sé, allora mi perdo interamente nell’altro: così la comunicazione si annulla, con il toglimento di me stesso”21. Ne deriva che io debbo necessariamente volere la solitudine “quando oso d’esser me stesso dalla mia propria origine, e appunto in vista di ciò, oso entrare nella più profonda comunicazione”; in altri termini “io non posso divenire me stesso senza entrare in comunicazione, né entrare in comunicazione senza essere solo”. È in Filosofia che viene a precisarsi con maggior chiarezza il triplice ruolo della solitudine come condizione essenziale della comunicazione22. Anzitutto essa svolge un ruolo preparatorio, predisponente:

17

Einsamkeit, p. 22. Filosofia II, cap. 3: Kommunikation. Ne riportiamo passi nella parte antologica. 19 Cfr. La mia filosofia, cit., p. 47; it. p. 25. 20 Filosofia II, p. 61. Pure nella presentazione di Platone come grande filosofo (1957) verrà sottolineato con forza questo aspetto: “E certo è necessario che nel dialogo siano due, non più di due contemporaneamente” (cit., p. 262). La “fidatezza dei due” (Verlässlichkeit der Zweiheit) – ricorda H. Saner nella prefazione a Das Wagnis der Freiheit, cit., p. 8 – rimase per Jaspers istanza irrinunciabile della volontà di comunicare, anche se ad essa si aggiunse, con lo sviluppo del tema della ragione, “l’ampiezza dell’universalità”. 21 “All’inverso – continua Jaspers – se io comincio ad isolarmi, la comunicazione diviene sempre più povera e vuota; nel caso estremo di una sua rottura assoluta, io cesso di essere me stesso, perché mi dissolvo in una puntuale vacuità” (Filosofia II, p. 61). In seguito, riassumendo i temi della sua filosofia (La mia filosofia, p. 47; it. p. 25) Jaspers osserva che “se la solitudine nella natura è certo una meravigliosa fonte del possibile se stesso” colui che rimanesse troppo isolato in essa rischierebbe di impoverirsi e di perdersi; la “bellezza del mondo” deve riportarci al contatto con gli uomini, o fungere “da sfondo o da linguaggio” per la nostra comunione con loro. 22 Qui ci riferiamo alla comunicazione al più alto livello, cioè a livello esistenziale. Per quanto concerne i livelli inferiori della comunicazione (sfera dell’immanenza o dell’Esserci) preferiamo, per brevità, riferirci a scritti successivi a Filosofia, nei quali Jaspers rielabora accuratamente l’esposizione dell’argomento, pur senza discostarsi troppo dall’opera del 1932. Vedi, per questo, il capitolo quarto. 18

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il trovare un amico… non può essere inteso come un fatto che si subisce passivamente, è esso stesso fondato nell’esistenza possibile; è qualcosa che si prepara... sia con l’osare la comunicazione, sia con il riserbo, non anticipandola, con l’onestà di non confonderla con un mero contatto sociale nella solidarietà di comuni passatempi o interessi. Si prepara sopportando precocemente il dolore della solitudine, preservandosi e sapendo attendere23.

Chi non sopporta la solitudine ignora concentrazione e interiorità: non ha però poi nulla di sostanziale da comunicare. In secondo luogo c’è la solitudine interna al processo comunicativo, come indipendenza dei comunicanti24: ognuno dei due deve voler diventar se stesso insieme con l’altro, non voler diventare l’altro o volersi fondere con lui; tanto meno deve volersi dissipare, con l’altro, nel mondo. In terzo luogo la solitudine, come isolamento dell’io, è vinta nella comunicazione, ma non abolita, e il suo superamento incessante mantiene la comunicazione in costante movimento. Nella realtà la polarità di abbandono entusiastico di se stessi e severo trattenersi nella solitudine è esistenzialmente insuperabile. L’esistenza possibile è nella realtà solo come il movimento fra i due poli, in un trascorrere dall’uno all’altro, in cui origine e meta restano nell’ombra. Se io non voglio sobbarcarmi la solitudine, per superarla sempre di nuovo, o opto per una caotica dispersione, oppure mi fisso su binari e forme in cui non trovo me stesso; se, al contrario, non oso abbandonarmi, mi anniento, risolvendomi in un io vuoto, irrigidito25.

Indubbiamente l’insistenza sull’importanza della solitudine e sul mantenimento dell’io nel comunicare ha matrice kierkegaardiana: Certo posso rinunciare a me stesso e fondermi nell’altro, abolendo ogni distanza: ma come l’acqua che non è trattenuta fluisce via senza forza estenuandosi in un tenue rivolo, così è per l’io, che non vuole più la resistenza del se stesso e il mantenimento della distanza26. 23

Filosofia II, p. 59. Indipendenza reciproca, ma anche di entrambi rispetto al mondo esterno. 25 Ivi, p. 62. 26 Ivi, p. 61. Si confronti l’uso, in questa circostanza, della metafora dell’acqua che fluisce perdendo forza, con il rovesciamento, in altro scritto, di una metafora analoga, usata da Nietzsche per giustificare l’ateismo(vedi cap. secondo, nota 29). Secondo Jaspers l’io, rapportandosi all’Uno della Trascendenza, non si disperde, ma si raccoglie e si concentra, e altrettanto deve accadere nella comunicazione esistenziale. Voler abolire del tutto la distanza tra i comunicanti, anziché superarla continuamente, significa, in realtà, non volersi conquistare insieme 24

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Tuttavia la vicinanza maggiore con Kierkegaard si registra nell’assunzione dello schema: libertà, auto-manifestazione, realizzazione del Sé (e del suo opposto: non-libertà, chiusura, disperazione), che sottende queste pagine degli anni trenta, dal contenuto decisamente filosofico27. “Nella comunicazione – scrive Jaspers28 – io divengo manifesto a me stesso insieme con l’altro”: è così che accade il realizzarsi del Sé, che “si crea” (sich schafft) nella reciprocità. “Però un divenir manifesto che, al contempo, con tale divenire procura l’essere, è come un venir fuori dal nulla”, s’intende non nel senso del mero Esserci, che già c’è, ma in quello dell’esistenza possibile, che in quanto tale non è, ma diviene29. La volontà di manifestarsi con l’altro, ma rinunciare a se stessi, disperdersi in lui e con lui. Ci si può chiedere se non sia proprio il radicamento di ciascuno dei partners nella Trascendenza a non permettere che l’uno si lasci assorbire dall’altro, oppure, inversamente, s’illuda di guadagnare concentrazione assorbendo l’altro. In entrambi i casi – direbbe Kierkegaard – l’uomo non vuole diventare se stesso, ma, forse, qualcun altro. In un passo del Diario egli osserva: “Non sarebbe un difetto della personalità abbandonarsi ad un altro fino al punto di non conservare più il proprio io? Una personalità autentica e matura resta attaccata a se stessa come il piccione viaggiatore al suo colombaio. Si può venderlo a quanti si vuole, esso farà sempre ritorno” (S. Kierkegaard, Diario, vol. 3, p. 93, pensiero n. 927). 27 La prossimità è nettamente percepibile soprattutto se si confrontano alcuni paragrafi del capitolo di Filosofia II dedicato alla comunicazione, con l’Appendice kierkegaardiana della Psicologia. Quanto alla differenza – o al criterio di demarcazione – fra gli asserti della psicologia, intesa sia come descrizione e interpretazione di vissuti psichici che come individuazione di atteggiamenti e visioni del mondo, e gli asserti filosofici, si dovrà considerare il fatto che si passa da costruzioni idealtipiche al chiarimento di istanze e di doveri, i quali, pur non lasciandosi formulare in proposizioni univoche di carattere universale come gli imperativi kantiani, tuttavia rappresentano un compito inaggirabile per l’uomo che voglia esistere autenticamente. Jaspers lo spiega nel capitolo di Filosofia II dedicato alle “azioni incondizionate” (Sezione terza, cap. 9). La comunicazione, ad esempio, rientra fra queste azioni: si tratta di un compito – anzi, si potrebbe dire, del compito esistenziale per eccellenza – anche se non formulabile in maniera oggettiva, ma “esprimibile solo in forma di appello, di sollecitazione”; e le condizioni per l’assolvimento di tale compito, anch’esse esprimibili solo in egual maniera, vengono così elencate: “l’apertura; il parlare costantemente con la riserva che è possibile la correzione; nel dire, la responsabilità per il detto, che è inteso seriamente e non come qualcosa di casuale; lo spezzarsi della volontà egoistica, che terrebbe l’altro a distanza, sia come volontà di farsi valere che come pretesa di avere ragione; la rinuncia ad atteggiamenti difensivi, per esempio nell’esigere falsamente che non ci si debba troppo avvicinare; l’impossibilità di tradire con la taciturnità, o parlando con un terzo, per respingere l’altro, oppure manipolando la relazione con astuzia; la consapevolezza di non poter essere ciò che si è senza l’altro...” e così via (ivi, p. 362). 28 Filosofia II, pp. 64 sgg.: Offenbarwerden – Wirklichwerden (manifestarsi – realizzarsi). Vedi infra. 29 Si rammenti, in Kierkegaard, sia la riflessione sul divenire come sorgere “dal nulla della possibilità” (Briciole), sia l’affermazione secondo cui il fondamento della libertà – possibilità della possibilità – è il “nulla” (Concetto dell’angoscia).

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contiene in sé gli opposti:

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una spietata chiarezza su quello che è empiricamente reale e la possibilità di diventare, appunto per suo tramite, quello che sono eternamente; l’incatenamento a ciò che è ineluttabile nel reale empirico, e la libertà di modificarlo mediante l’appropriazione; il riconoscimento dell’esser-così (Sosein) ed il rinnegamento di ogni fissazione nell’esser-così 30.

Si riconosce qui facilmente la dialettica del Sé nella Malattia per la morte: l’inseparabilità di necessità e libertà, di finito e infinito, di assunzione della pesantezza e slancio. Ma anche l’appello ad una “spietata chiarezza” rimanda a passi di Kierkegaard su cui Jaspers si era soffermato nella Psicologia: “l’uomo può – là scriveva, citando l’autore danese – o voler divenir manifesto, trasparente, chiaro; oppure ribellarsi a una tale manifestazione, fingere di non vedere, occultare, dimenticare. Queste due forze, presenti in ogni uomo, sono in conflitto fra loro. Il manifestarsi non è mai compiuto; per tutto il tempo che esiste egli vive nel processo, oppure si chiude in una definitiva mancanza di trasparenza. Il rivelarsi è un processo nel singolo e, insieme, in comunicazione. Aprirsi, porsi in questione, darsi interamente come si è e si diventa, ciò è possibile all’uomo quando è solo davanti a se stesso, e anche, comunicando, nell’amore”31. Ugualmente, là dove Jaspers sottolinea che alla volontà di manifestazione, che edifica il Sé, si oppone la volontà di chiusura(in cui l’individuo si aggrappa al suo esser-così, perché non vuole, nel rapporto con l’altro, trasformarsi e divenire come esistenza, cioè come libertà), non fa che riallacciarsi al “demoniaco” kierkegaardiano, che si ritrae nell’impenetrabilità quando è afferrato dall’angoscia di fronte al bene32. 30

Filosofia II, p. 64. Psicologia, p. 421; p. 487. Nelle stesse pagine era riportata una lunga citazione dal Diario: “Apertura, sincerità, assoluta veracità in ogni cosa: è questo il principio vitale dell’amore… Naturalmente l’apertura ha un senso soltanto quando si è tentati di tacere qualcosa. Ci vuole coraggio a darsi totalmente come si è, ci vuole coraggio a non sottrarsi a una piccola umiliazione, a non darsi importanza quando lo si potrebbe fare tacendo”. 32 Così Kierkegaard ne Il concetto dell’angoscia: “Essere rinchiusi è conseguenza del rinchiudersi nell’individualità, che respinge… Si vede nell’ipocondria, nella stramberia, si vede nelle passioni più alte, quando esse, con profonda equivocità, portano ad essere taciturni”. In realtà, e questo fa parte dell’ambiguità della vita, la chiusura può anche significare la libertà più alta: dietro certe chiusure, solo momentanee, può celarsi “un patto con il bene”: è il caso di Bruto, oppure di Enrico V, ma, in fondo, anche di Cristo, l’Incognito essenziale. La chiusura solo relativa è quella verso l’esterno, cioè è concentrazione: “mai è tanto ampliata e dilatata una individualità in un senso più bello e nobile, di quella che è rinchiusa nel grembo materno di una grande idea”. La chiusura verso l’interno è tutt’altra cosa e ha un valore assoluto, di 31

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La libertà, scriveva Kierkegaard ne Il concetto dell’angoscia, è costantemente in comunicazione… la non-libertà è sempre più chiusa e non vuole la comunicazione33.

E, ancora:

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La libertà è proprio ciò che dilata… Si usa, in generale, un’espressione più metafisica per il male, cioè che esso è: il negativo (ciò che nega); ma l’espressione etica per questo è, quando si prenda in considerazione il suo effetto nell’individuo, proprio: il rinchiuso. Il demoniaco non si chiude in qualcosa, ma rinchiude se medesimo, e in ciò sta il senso della cosa, che la non-libertà consiste nell’imprigionare se stessi34.

Chiaramente per Kierkegaard la non-libertà, che coincide con la chiusura, altro non è che il peccato. Con perfetta analogia, però, Jaspers scrive che, se per diventare se stesso l’uomo deve entrare nel processo della comunicazione, “nel quale uno diviene manifesto all’altro, per prendere insieme lo slancio onde stabilire un vincolo assoluto”, è “colpa l’ostinato isolamento di un se stesso che si rinchiude”, sottraendosi al processo e infliggendo così all’amore una ferita mortale35. Anche le parole con cui si esprime la rottura della comunicazione esistenziale – quando, in preda all’angoscia, non voglio riconoscere che “così come ora sono, non sono me stesso”, né voglio affrontare il rischio di far naufragio davanti all’altro con la mia realtà empirica, ma “per risorgere dalla mia autentica possibilità”36 – rievocano la reazione del demoniaco kierkerifiuto del bene (e di Dio). Per esempio “Socrate, che introdusse l’ironia nel mondo e diede il nome al bambino”, usò questo metodo come autodifesa dagli altri uomini, e si rinchiuse in se stesso, “ma per dilatarsi nel divino” (ivi, pp. 122-23). 33 Ivi, p. 113. Nella traduzione tedesca del testo kierkegaardiano: “Die Freheit ist beständig kommunizierend”. Tra parentesi poi Kierkegaard aggiunge che, se si conferisce al termine un significato religioso-sacramentale (= comunicarsi), l’asserto rimane valido. 34 Ibid.: “Il demoniaco è il rinchiuso, è angoscia davanti al bene…Che cosa significa allora il bene? Significa: rivelazione (Offenbarung)”. In nota poi Kierkegaard aggiunge che il bene si potrebbe anche indicare con la parola “trasparenza”(Durchsichtigkeit) (p. 116).E, in una nota successiva, precisa ulteriormente: “Si vede con facilità che la chiusura è eo ipso menzogna, o, se così si vuole, che essa significa: non-verità. Ma la non-verità è proprio la non-libertà, che ha angoscia davanti alla rivelazione. Perciò il diavolo è detto anche padre della menzogna” (p. 117). La stessa definizione del diavolo – ripresa dal Vangelo di Giovanni (8, 44) – si trova in Kant, Metafisica dei costumi, Dottrina della virtù, paragrafo 9, Annotazione. 35 Filosofia II, p. 70, corsivo nostro. “Es ist die Pflicht jedes Menschen, offenbar zu werden” sentenzia il Climacus della Postilla (vol. I, p. 247; it. p. 396), alludendo alla scelta etica del giudice Guglielmo in Enten-Eller. 36 Filosofia II, p. 82.

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gaardiano davanti alla possibilità della liberazione dal peccato: “lasciami alla mia miseria”, egli dice, e: “un tempo, forse, potevo essere salvato”37; mentre Jaspers fa dire al suo “rinchiuso”: “non mi si può più cambiare” e: “ormai mi si deve sopportare così”38. Ciò che Kierkegaard presentava come “la cosa più spaventosa e incomprensibile, la cosa più orrenda”39, cioè la chiusura come rifiuto della liberazione e della salvezza, Jaspers indica, con gli stessi aggettivi, come “ostinazione dell’esser-così” (Trotz des Soseins) e come rottura del rapporto comunicativo: quando questo avviene io pronuncio la frase orrenda: “sono così, non posso farci niente”, come se mi identificassi con un essere oggettivo, fattuale, rendendo me stesso “una cosa non libera”40. Per Kierkegaard il rinchiuso, ostinato nella sua chiusura, non può accettare “che il Sé debba venire spezzato per diventare sé” o “che ci si debba perdere, per potersi conquistare”41. Analogamente Jaspers scrive che “nel manifestarmi io mi perdo (come Esserci empiricamente sussistente) per conquistarmi (come possibile esistenza)”; mentre “nella chiusura mi conservo, in quanto fattualità empirica, ma così non posso non perdermi (come esistenza possibile)”. Infatti “la volontà di chiusura (di una maschera, di precostituirsi delle difese) entra solo apparentemente in comunicazione e non si espone al rischio, perché scambia il suo esser-così con il suo eterno essere, e vuol salvare l’esser-così”42. Nell’angoscia “mi nascondo, perché non voglio esser nudo, non davanti all’altro e non davanti a me stesso”43. Anche se, oscuramente, so che non sono me stesso, “penso che, sfuggendo all’altro, ho ancora del tempo, qualora ancora io non sia. Ma, restando solo, vado totalmente a fondo. Mi risolvo a proteggermi sia da me in quanto possibilità d’esser me stesso, che da me come esser- così: allora cerco stabilità in un’esistenza di facciata, che li ricopra entrambi”44. Impossibile non ricordare qui l’esistenza di facciata descritta con umorismo da Kierkegaard ne La malattia per la morte: il buon cristiano-borghese, “felicemente sposato, uomo attivo e intraprendente, padre e cittadino” ono37

Cfr. Il concetto dell’angoscia, p. 125. Ne La malattia per la morte Kierkegaard scrive inoltre che il “rinchiuso” supplica, in lacrime, di essere lasciato in pace, che non gli si parli, perché “solo mantenendosi nella sua attuale condizione di non-libertà ha una qualche impressione di se stesso” (ivi, p. 102). Il riferimento è al racconto dei Sinottici: Mt, 8, 29; Mc, 1, 24; Lc 4, 34. 38 Filosofia II, p. 87. 39 Il concetto dell’angoscia, p. 115; corsivo nostro. 40 Filosofia II, p. 88. Vedi anche Rivelazione, p. 354. 41 S. Kierkegaard, La malattia per la morte, p. 66. 42 Filosofia II, p. 65. 43 Ivi, p. 82. 44 Ibid.

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rato in città e quel che si dice “una personalità”: preoccupato di ritrovar se stesso dopo la morte, interroga in proposito il pastore, benché, cosa curiosa, nemmeno si accorga “di non avere alcun Sé”45. Se non che questo celarsi, sottraendosi alla manifestazione davanti all’altro e con l’altro, è un lasciarsi andare, un divenire passivi e, in fondo, un disperare46. Come in Kierkegaard, anche in Jaspers libertà, comunicazione e diventar se stessi sono indissociabili. È indubbio che – tolto ciò che Jaspers sbrigativamente chiama “das Christliche”, cioè l’elemento cristiano – su manifestarsi e realizzarsi, angoscia e chiusura la convergenza tra i due sia totale. Come la comunicazione indiretta nel filosofare è il metodo che Jaspers mutua da Climacus, l’illustrazione del processo comunicativo esistenziale presenta decisivi punti di coincidenza con la psicologia religiosa di Kierkegaard47. In fondo, fra i due generi di comunicazione (indiretta ed esistenziale) esiste nel pensiero di Jaspers un’affinità che deriva dal loro comune rapporto con la libertà. Nel filosofare una libertà si rivolge ad altre possibili libertà nel medium della riflessione e della scrittura; nella comunicazione esistenziale due libertà si aiutano reciprocamente a venire alla luce attraverso una relazione intima, personale, faccia-a-faccia. Quasi per rispondere preventivamente ad eventuali perplessità sulla dinamica del Sé, che non può prescindere dalla solitudine, Jaspers annota sin dalle prime pagine della sua esposizione, in Filosofia II: contro questa comunicazione nella solitudine si volge un atteggiamento fondamentale che le è originariamente estraneo: essa sarebbe solo il tentativo senza speranza di una comunione di solitari; si tratterebbe del se stesso egoista che si chiude alla verità, mentre questa risiederebbe in una comunità autentica.

Recuperando quanto già scritto come psichiatra48, Jaspers respinge tale Grundhaltung, tanto se contrappone alla relazione tra singoli la comunità religiosa dei fedeli, quanto se intende sostituirla con la società riorganizzata secondo principi di eguaglianza e di giustizia. 45

S. Kierkegaard, La malattia per la morte, p. 55. Filosofia II, p. 88. 47 Significative, però, anche le differenze. Kierkegaard oppone la comunicazione indiretta, in quanto soggettiva, alla disumana oggettività del sistema speculativo hegeliano; Jaspers se ne serve principalmente per marcare la diversità fra filosofia e scienza. Quanto al rapporto fra comunicazione e se stesso, in Kierkegaard si tratta di porre in risalto soprattutto (anche se non esclusivamente) la relazione uomo-Dio; in Jaspers la relazione uomo-uomo (ma anche qui non esclusivamente: infatti la comunicazione esistenziale è sostenuta dalla relazione con l’Uno della Trascendenza). 48 Nel saggio sulla solitudine degli anni 1915-16, citato all’inizio del capitolo. 46

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Coloro che ubbidiscono ad una “rivelazione di Dio oggettivamente fissata”, ma anche quelli che, come nel marxismo, vorrebbero imporre un certo ordinamento del mondo in vista della felicità collettiva, hanno in mente, infatti, una comunità senza se stessi; l’uomo dovrebbe servire il “tutto”, per non essere più solo. Però senza solitudine, ribadisce Jaspers, non c’è né ipseità, né vera comunicazione: “o io rischio sempre di nuovo la solitudine, per divenire me stesso nella comunicazione, oppure mi sono definitivamente abolito in un altro essere”49. La volontà di divenir se stessi e la volontà di comunicare costituiscono un unico impulso, al quale la solitudine permette di dare soddisfazione, nel triplice modo di cui s’è detto. Si potrebbe obiettare, tuttavia, che alla mia volontà di comunicare può mancare l’incontro con l’altro, che mi corrisponda adeguatamente. Qui non si può parlare di colpa, come non è mio merito se l’incontro avviene, perché “tutto ciò che è esistenziale sta fuori dell’ambito oggettivo, non è qualcosa che si possa volere o non volere come uno scopo”, non è insomma interamente pianificabile o programmabile50. Certo, quel che all’interno del rapporto comunicativo è espressione della mia libertà va considerato come colpa o merito: ma c’è sempre un che d’insondabile nella felicità della riuscita, qualcosa di “inconcepibilmente accaduto e di donato”; e, del resto, “la più grande forza dell’esistenza incondizionata” si può trovare proprio là dove la felicità della riuscita manca51. Nel caso in cui, malgrado con sincerità mi sia sforzato di infrangerla, la mia solitudine perduri, io non la considero definitiva e, nell’attesa, “mi creo un amico nella stessa Trascendenza”52.

49 Filosofia II, p. 63. Anche su questo punto si rilegga l’Anti-Climacus della Malattia: “Ogni umana esistenza che non è consapevole di sé in quanto spirito o consapevole personalmente di sé come spirito davanti a Dio, ogni umana esistenza che non si fonda così trasparentemente in Dio, bensì oscuramente riposa in qualcosa di astrattamente universale (Stato, nazione e simili)…è disperazione” (La malattia per la morte, p. 44). È chiaro che fondarsi trasparentemente in Dio è del tutto impossibile “ai chiacchieroni in modo disumano e sociale” (vedi nota 6). 50 Filosofia II, p. 60. A p. 71, poi, Jaspers aggiunge “Sul piano della realtà di fatto, c’è l’effettivo incontrarsi nel tempo, come circostanza fortuita. Però ciò che precede come sostanza è l’amore, in sé ingiustificabile, nei confronti del singolo. Mentre dal punto di vista della considerazione oggettiva l’origine ontologica del se stesso è il nulla, per la coscienza esistenziale essa è la Trascendenza, in questa forma storica rappresentata dall’insoddisfazione che predispone, dal caso che rende possibile la realtà effettiva, dall’amore che, dall’intimo, muove il se stesso” (vedi infra, p. 234). Dietro questi tre elementi si cela dunque, per la coscienza esistenziale, la realtà della Trascendenza. 51 Filosofia II, p. 59. 52 Ivi, p. 60.

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Alle parole pronunciate da Kierkegaard sul letto di morte sembra poi ispirarsi questa toccante conclusione: Se la solitudine di fronte alla non volontà dell’altro, e quella che deriva dal fatto della mancanza di un’occasione d’incontro nel tempo si traducono nella consapevolezza di dover morire da soli, allora soltanto la Trascendenza può neutralizzare in sé il non attuarsi della comunicazione. Siccome però la solitudine si può superare realmente solo in una comunicazione storica e non, finché questa è ancora possibile, nella Trascendenza, posso liberarmene soltanto nel momento della morte, fino al quale mi sono mantenuto disponibile a comunicare: allora posso, trascendendo, annullare la mia solitudine mercé il mio stesso, perché esso non si chiude definitivamente ma rimane aperto e soffre fino alla fine53.

Mentre nelle riflessioni di Filosofia II sulla comunicazione esistenziale si ritrovano i passi kierkegaardiani analizzati nella Psicologia; nello scritto sull’amore presente in Della Verità si rintracciano alcune affermazioni di Psicologia concernenti l’atteggiamento entusiastico. L’interpretazione jaspersiana dell’amore come entusiasmo è di matrice schiettamente platonica54; e appunto Platone diverrà, dopo l’esordio filosofico del 1932, il riferimento costante di Jaspers su questo tema (come avremo modo di far rilevare): sicché la psicologia religiosa di Kierkegaard si ritirerà gradualmente sullo sfondo, mentre guadagnerà sempre più terreno la filosofia platonica dell’eros. Conseguenza di questo “recupero” del platonismo è che lo scritto del 1947 sull’amore risulterà indubbiamente l’omaggio più entusiastico reso da Jaspers al grande filosofo greco. In Psicologia Jaspers spiega che l’uso della parola entusiasmo per designare l’amore – “in accordo con alcuni pensatori” – consente di garantire al discorso la massima apertura; infatti dell’amore gli preme far rilevare il modo in cui l’oggetto gli si porge “come penetrato da un raggio di luce dell’assoluto e con esso collegato”; gli preme, insomma, far risaltare la densità metafisica 53 Ivi, p. 81. Per le ultime parole di Kierkegaard, raccolte dall’amico Boesen (“Quante cose nella tua vita si sono realizzate in modo singolare!”– “Sì. Perciò mi sento molto contento e molto triste: perché non posso condividere questa mia gioia con nessuno”), vedi l’Appendice all’edizione italiana più ampia del Diario, Morcelliana, Brescia 1980-83, vol. 12, p. 101. 54 “Ciò che caratterizza l’amore, per esempio l’eros platonico, caratterizza a un tempo l’atteggiamento entusiastico” (Psicologia, p. 123; p. 144). Platone è del resto, insieme a Kant, Kierkegaard e Hegel fra i pensatori più citati dalla Psicologia (viene citato su idee e ragione, amore e sessualità, ma anche sui valori, la fede, lo Stato, la comunicazione indiretta e persino sul tema dell’attimo, con un riferimento al Parmenide, presente anche ne Il concetto dell’angoscia di Kierkegaard). Meno numerose le citazioni di Nietzsche.

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del “fenomeno”; mentre nell’uso odierno il termine amore ha un significato più ristretto, per quanto spesso in esso possa ancora risuonare l’eco di non più sondate vastità55. Il valore dell’amore nella vita individuale si può cogliere analizzando ciò che contraddistingue l’atteggiamento entusiastico, nel quale “tutti i limiti sono oltrepassati, sguardo e propositi si volgono a ciò che è senza limiti”56. Ma l’illimite (Grenzenlos) è qui solo un’indicazione negativa, per evocare qualcosa che è esperito come “l’unicamente sostanziale”, in contrapposizione a quanto nel singolo individuo è “relativo, limitato, e dunque antitetico ad esso”57. Nell’atteggiamento entusiastico “l’uomo si sente toccato nella sua più intima sostanza, in quanto ha di essenziale o – il che è il medesimo, è afferrato e commosso dalla totalità, da ciò che è sostanziale ed essenziale nel mondo”. Non si tratta, propriamente, del “fatto mistico”, perché nell’entusiasmo la correlazione soggetto-oggetto non viene tolta, ed è appunto per questo che esso si realizza come movimento (Bewegung) e come aspirazione (Streben)58. Mentre nell’esperienza mistica si osservano “una soddisfazione piena, passiva, una quiete senza tempo e compiutezza”, nell’aspirazione entusiastica nostalgia (Sehnsucht) e ardore (Drang) spingono oltre la condizione del momento.

55

Psicologia, p. 123; p. 144. Fra gli autori la cui teoria dell’amore mantiene un’apertura metafisica Jaspers colloca M. Scheler (Fenomenologia e teoria della simpatia, dell’amore e dell’odio, Halle 1913; trad. it. Essenza e forme della simpatia, Città Nuova, Roma 1980). Da Scheler, fra l’altro, Jaspers riprende il rilievo per cui è l’amore a rivelare il valore nell’altro e non, viceversa, la scoperta del valore nell’altro a farcelo amare. Il fatto è – scrive infatti Jaspers – che “nel moto dell’amore tutto acquista valore. Si sperimenta un processo di accrescimento dei valori” (ivi, p. 124; p. 145). 56 Ivi, p. 117; p. 138. 57 Ibid. 58 Ivi, p. 118; p. 138.Tutt’altro che ignaro di eros ed entusiasmo come movimento verso l’alto e aspirazione è comunque Kierkegaard, che, ad esempio, nella Postilla trova analogie fra l’eros socratico e la fede, quando scrive che il pensatore soggettivo, esistendo, è “stabilmente nel divenire, cioè è un aspirante (Strebender)” (vol. I, p. 72; p. 301).Infatti “il pensatore soggettivo esistente, che ha nell’anima l’infinitezza, l’ha sempre in sé, e perciò la sua forma è sempre negativa…egli non è mai un docente, ma un discente, e, poiché è stabilmente tanto negativo quanto positivo, è anche stabilmente aspirante (strebend)” (ivi, p. 77; p. 303). L’entusiasmo è sempre riferito in Kierkegaard all’ideale, al compito del “diventare cristiani” (come del resto in Kant all’idea morale e a quella giuridica), cioè all’impresa, sempre in fieri, di esprimere nell’esistenza finita il “télos infinito”. In particolare il Climacus della Postilla dichiara di voler investire il proprio entusiasmo nel rendere più difficile il compito ai cristiani contemporanei (vol. I, p. 177; p. 359).

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L’anima si muove insoddisfatta, inquieta, però al tempo stesso riempita e rapita da ciò che vede, e sperimenta cadute e nuovo slancio. L’amore entusiastico, ad esempio, esiste solo dove c’è una duplicità, da cui procede l’aspirazione all’uno59.

Nell’esperienza entusiastica, d’altronde, l’io è ben lungi dall’annullarsi o dal confondersi, si sente interamente se stesso, è interamente e pienamente presente, anzi conosce “il vero pervenire a se stesso”, che è come uno scoprirsi o manifestarsi; l’uomo ha coscienza di una comunione con qualcosa di incondizionato, mentre è “attratto da un meta ineffabile”60. L’entusiasmo fa sì che la vita si raccolga e unifichi in una dedizione incondizionata, ad esempio nel servizio di un’idea; concentrandosi la vita diviene più viva, o autenticamente viva; esso esprime una costante tensione all’unità: “è, in esso, l’impulso a porre in relazione e a congiungere ogni cosa, a non lasciare che nulla resti isolato o disperso, ma a legare ogni cosa ad un tutto”61. L’invito goethiano “stirb, und werde!” (muori e diventa!) compendia l’esperienza dell’individuo che, nello slancio dell’entusiasmo, si sacrifica esponendosi in qualche cimento. In tale disposizione all’autosacrificio è opportuno tenere ben distinti due atteggiamenti: quello dell’“autoformazione plastica” dell’uomo che aspira alla realizzazione terrena, e la volontà di sacrificio del santo, “che si estranea dal mondo”62. L’uno e l’altro, tuttavia, “procedono da esperienze intime positive”, cioè muovono dall’apprezzamento di qualcosa, che ha un valore incondizionato e che conferisce slancio a causa della propria positività, quindi non possono venir confusi con i fautori del nulla, con quanti muovono piuttosto dalla svalutazione di qualcosa, e perseguono, in realtà, l’annichilimento, “il non essere più”. Infatti “il nichilismo puro non è entusiastico, bensì disperato”63. Poiché l’entusiasmo appare, in tutte le sue manifestazioni, “il vero elemento vivo”, quasi una sorta di vita nella vita, si può dire, in generale, che: “la vita è amore”64. I tratti salienti dell’entusiasmo, ben evidenziati dalla filosofia platonica dell’eros, sono: movimento, elevazione e slancio, cioè movimento verso

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Ibid. “zu einem unnenbaren Ziele” (ivi, p. 118; p. 139). 61 Ivi, p. 120; p. 140 62 Ivi, p. 121; p. 142. 63 Ibid. 64 Ivi, p. 123; p. 144.

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l’alto65. Si tratta degli stessi caratteri che, insieme con la ricerca dell’unità, vedremo attribuiti all’amore in Della Verità, dove la prospettiva inaugurata con l’identificazione di amore ed entusiasmo darà i suoi frutti più maturi e l’amore, interpretato come “vita nella vita”, sarà considerato il vero tramite tra la libertà finita e il divino.

65 Ivi, p. 122; p. 144. Come movimento, ad esempio, l’entusiasmo compenetra l’essere oggettivo e quello soggettivo, e si spinge verso l’assoluto e il tutto; si distingue da tutti gli istinti particolari, malgrado si possa considerare, come questi, qualcosa di dato, cioè di non producibile a comando, volontariamente; può permeare gli istinti e plasmarli, conferendo ad essi una direzione e un senso che in se stessi non hanno; può volgersi verso qualunque “oggetto”, ma sempre in una maniera che è specificamente sua. L’amato è cioè sempre visto come “finito nell’infinito”; è sempre visto nella sua individualità, come solo all’amante (e non, ad esempio, ad un osservatore esterno) può mostrarsi. Si tratta di rilievi che saranno integralmente ripresi e sviluppati nello scritto sull’amore del ’47.

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VERITÀ, COMUNICAZIONE, RAGIONE, AMORE

In Filosofia II l’amore compare anzitutto all’interno del chiarimento della comunicazione esistenziale e in relazione ad essa1; in secondo luogo come momento culminante (Gipfel) nell’attuarsi della coscienza assoluta, accanto alla fede, naturalmente in senso filosofico, e alla fantasia, impegnata nell’elaborazione e decifrazione dei simboli della Trascendenza2. Questi tre culmini del rapporto esistenziale con l’Assoluto – fra i quali quello fondamentale è proprio l’amore – rappresentano, per la coscienza filosofica, una sorta di equipaggiamento indispensabile, che sembra alludere – distinguendosene con nettezza, ma non necessariamente in chiave oppositiva – ai tre carismi in dotazione della coscienza religiosa secondo San Paolo: cioè alle cosiddette “virtù teologali”, fede, speranza, carità (di cui, com’è noto, “la più grande”, per l’apostolo, è la carità)3. L’amore, per Jaspers, è fonte e sostegno della fede, e non, come nella predicazione paolina, carisma che da essa scaturisce, consentendone la traduzione nelle “opere”. Infatti qualora la fede dovesse vacillare, l’amore, che l’ha prodotta, può rinvigorirla e rianimarla: “In un mondo che naufraga 1

Filosofia II, Sezione prima, cap. 3. Ivi, sezione terza, cap. 8. Riportiamo alcuni passi tratti da questi capitoli, con relativo commento, nella parte antologica. 3 Cfr. I Corinzi 13, 3. Riferimenti a questa celebre pagina sia in Piccola Scuola, sia nello scritto che qui presentiamo (Dell’amore, p. 205). Così in PS, p. 145; p. 131, Jaspers commenta le affermazioni di Paolo: “parole indimenticabili, che facciamo nostre. Nel nostro amore noi siamo quello che siamo autenticamente”. Tuttavia, sempre in PS, p. 146; p. 132, egli osserva anche: “una fede, intesa come fede in un contenuto positivo e particolare, può divenire dubbia; la speranza conosce nel mondo dei limiti, urtando nei quali si dissolve. L’amore soltanto sostiene la nostra esistenza”. Per “fede in un contenuto positivo e particolare” qui Jaspers intende, ci pare, o una fede in senso religioso-confessionale, o la fede in un ideale determinato; si noti anche, in contrasto con Paolo, il confinamento della speranza entro un orizzonte mondano e temporale. Su quest’ultimo aspetto, vedi sempre PS, p. 67; p. 60. 2

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

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– scrive il filosofo negli anni trenta, con accenti che fanno pensare, se non a una confessione, a un cupo presagio – resta l’amore da esistenza a esistenza, povero, perché senza uno spazio oggettivo nella realtà, ma potente, perché diviene sempre di nuovo origine della certezza d’essere”4. Successivamente, però, la riflessione jaspersiana guadagna un nuovo punto di vista, dal quale i risultati della precedente vengono sviluppati e arricchiti. Mentre il tema della comunicazione non è più affrontato solo in stretto rapporto con la costituzione del Sé, ma in connessione con verità e ragione; l’amore manifesta sempre più la sua originaria affinità con la ragione, fino ad esserne considerato “l’anima”5; e, proprio a causa di tale affinità, sempre più frequentemente viene invocata, come già s’è detto, la testimonianza del pensiero platonico.

a) Verità e comunicazione 6 Il singolo non trova nessuna verità. (Grandi filosofi, Platone, p. 262). L’amorosa ricerca dell’uomo non perviene mai a concludersi. (Ragione ed esistenza, p. 77).

Verità – questa parola ha un fascino incomparabile. Sembra voler significare ciò che ci interessa più di ogni altra cosa. La violazione della verità avvelena tutto ciò che tramite tale violazione si consegue7.

Così Jaspers, introducendo il secondo capitolo di Filosofia dell’esistenza, breve opera che raccoglie alcune lezioni tenute nel 1937 – l’anno stesso 4

Vedi infra, p. 230. H. Saner, nella Prefazione a Das Wagnis der Freiheit (cit., p. 8) ricorda che per Jaspers e la moglie, nel periodo dell’estrema umiliazione, “resistevano solo due forze: la fidatezza di pochi singoli e il pensiero limite della Trascendenza”. 5 Dell’amore, infra, p. 176. Non è certo un caso che il più ampio scritto di Jaspers sull’amore sia collocato nella monumentale opera dedicata alla Logica filosofica, sotto il titolo Della Verità. 6 Su verità, comunicazione, ragione sono importanti le opere immediatamente successive a Filosofia, in particolare: Ragione ed esistenza (1935) e Filosofia dell’esistenza (1937). Un’efficace presentazione del carattere agonico della ragione si trova nelle lezioni tenute presso l’Università di Heidelberg nel 1950, dopo il trasferimento in Svizzera, e pubblicate sotto il titolo Ragione e anti-ragione nel nostro tempo (trad. it., SE, Milano 1999). Trattandosi di felicissime sintesi, è a questi scritti che faremo di preferenza riferimento nella nostra esposizione. 7 Filosofia dell’esistenza, De Gruyter, Berlino 1964 (terza edizione), p. 26; trad. it., Laterza, Bari 1995, p. 31. Nel 1964 – a distanza di oltre un quarto di secolo – Jaspers dichiarerà, a proposito dell’uomo: “Scorgere la verità, in questo consiste la dignità umana”(PS, cit., p. 174; p. 157).

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VERITÀ, COMUNICAZIONE, RAGIONE, AMORE

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dell’estromissione dall’insegnamento universitario – presso il libero Istituto di studi superiori di Francoforte. La questione fondamentale della filosofia è proprio “che cosa sia la verità, questa realtà che attira potentemente”. Bisogna riconoscere che la parola si dice in molti sensi, che si lasciano disporre secondo un ordine ascendente di valore e sono collegati da un nesso di reciproco condizionamento8. Ma bisogna poi prontamente aggiungere che, secondo Jaspers, la questione della verità è indisgiungibile da quella della comunicazione. Infatti, comune a tutti i sensi della verità è la condizione per cui il vero, “per essere autenticamente vero, deve essere comunicabile”. Veniamo in ciò ricondotti al “fenomeno originario del nostro esser-uomini: noi siamo ciò che siamo solo tramite la comunione in cui diveniamo comprensibili gli uni agli altri in maniera consapevole”9. Il rapporto fra verità e comunicazione è talmente essenziale che, se la verità “non è di un unico genere, non è una ed unica”, essa manifesta un senso diverso proprio in base alla modalità della comunicazione in cui si presenta. “…ciò che è verità – scrive Jaspers – si trova racchiuso all’interno di quell’orizzonte abbracciante, con la sua specifica essenza, in cui si svolge la comunicazione”. Ne deriva che “determinare la modalità del nostro essere, all’interno della quale ci troviamo in comunicazione, significa determinare quale sia la verità che di volta in volta vale e chi è colui che comunica, nonché colui che comprende la comunicazione”10. Dunque: la verità non è qualcosa di unico, ma vi sono diversi sensi dell’esser-vero, corrispondenti alle diverse guise dell’abbracciante, cioè alle dimensioni che strutturano il nostro essere; e, ovviamente, a ciascun genere di verità corrisponderà una differente e specifica forma di comunicazione. Occorre, però, fare bene attenzione: orizzonte abbracciante, genere dell’esser-vero e modalità del comunicare non debbono venire intesi come entità reciprocamente estrinseche. Infatti: le guise dell’abbracciante rappresentano anche i diversi livelli o gradi (Stufen) nella gerarchia ascendente della nostra partecipazione alla verità totale o onnicomprensiva; mentre le diverse modalità del comunicare non sono veicoli neutri dell’esser-vero, ma condizioni decisive del suo diventare reale per noi, vale a dire: ne decidono il “che”, non solo il “come”. Verità e comunicabilità sono insomma un’unica cosa: una verità incomunicabile sarebbe, per noi, di fatto, come non esistente. 8

Come più avanti mostreremo. Ragione ed esistenza, Piper, München 1987 (quarta edizione), p. 58. 10 Ivi, p. 61.

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

Da una parte la verità non si lascia separare dalla comunicazione; dall’altra la comunicazione non è separabile dalla verità che in essa si manifesta. Ma mentre può sembrare ovvio che la modalità del comunicare dipenda dal genere di verità che in essa di volta in volta si affaccia e si fa valere, meno ovvio è l’inverso, su cui però Jaspers particolarmente insiste: anche la manifestazione della verità dipende dalla modalità della comunicazione in cui si presenta, perché solo ed esclusivamente all’interno di una determinata modalità del comunicare un certo genere di verità può diventare per noi reale nel mondo11. Nel tempo, infatti, “la verità si mostra come reale solo tramite la comunicazione…però il movimento della comunicazione è, insieme, custodia e ricerca della verità”12. A partire da ciascuna guisa dell’abbracciante che noi siamo “cresce uno specifico senso di verità”13, e ogni senso ha una sua validità – sia teoretica che pratica14 – che non deve essere trascurata o ignorata, pena la caduta in 11

La tesi di Kierkegaard, leit-motiv della Postilla, secondo cui “la soggettività, l’interiorità è la verità”, trova in Jaspers una riformulazione che la pone al riparo da ogni eventuale lettura in chiave solipsistica e cioè: “la comunicazione è la verità per noi nel tempo”. Le due formule sono più simili di quanto non appaia. Infatti: come in Kierkegaard la verità “essenziale” non si dà al di fuori del movimento dell’interiorità (quel movimento che Climacus definisce “auto-attività dell’appropriazione”), così in Jaspers la verità filosofica non si dà al di fuori del movimento della comunicazione; e come in Kierkegaard l’interiorità è un agire del soggetto che permette il manifestarsi della verità – in senso etico ed etico-religioso – in modo tale che questa, mentre si fa strada in lui, lo trasforma; così in Jaspers la comunicazione è un agire in due, in cui i partner sono trasformati dall’emergere di quella verità che è in grado di guidare nella vita. L’implicanza di verità e comunicazione in Jaspers corrisponde a quella di verità e interiorità in Kierkegaard: in entrambi i casi si tratta di movimenti o processi senza i quali la verità non potrebbe manifestarsi. In Jaspers poi tale implicanza, patente nel caso della verità filosofica, è pure presente in forma analogica in tutte le modalità inferiori dell’esser-vero, perché in ciascuna di esse il vero relativo o parziale è inseparabile dalla modalità di comunicazione in cui diviene reale per noi. 12 Ragione ed esistenza, cit., p. 60, corsivo nostro. 13 Filosofia dell’esistenza, cit., p. 29; p. 34. 14 La verità è qui intesa da Jaspers come qualcosa di anteriore alla distinzione fra ambito teoretico e ambito pratico: essa viene presentata piuttosto come il fondamento – o l’origine – della validità tanto dei giudizi conoscitivi quanto delle valutazioni pratiche. Per esempio: al vero nella dimensione della coscienza in generale non corrisponde solo la validità delle proposizioni scientifiche, ma anche quella delle norme morali o giuridiche, in quanto sono universalizzabili. Ciò che è vero nell’ambito dello spirito è presente nel sapere depositato nella lingua storica e nelle opere della cultura, nelle idee che presiedono alle istituzioni e alle professioni, nelle credenze della tradizione ed è fondamento della validità di atteggiamenti sia teoretici (visioni del mondo, concezioni dell’uomo ecc.) che pratici (usanze, ethos ecc.). Altrettanto si deve dire della dimensione dell’Esserci e di quella dell’esistenza: ma nel caso di quest’ultima il vero che l’impegna è il fondamento unitario ed assoluto di quei fondamenti solo relativi. Specialmente se si considera quest’ultimo livello, ci sembra impossibile distinguere la

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una peculiare forma di non-verità. “Con il nostro intelletto – rileva Jaspers – facciamo l’esperienza di una conoscibilità costringente e, corrispondentemente ad essa, anche di un accordo, di fatto universale, sui suoi risultati, da parte di ogni essere intelligente che li capisca”. Ci inganniamo, però, se crediamo di poterci affidare interamente alla verità univoca contenuta in proposizioni “che si fondano su intuizioni date ed evidenza logica”. Bisogna ammettere, al contrario, che “la verità che è per noi essenziale comincia addirittura là dove vien meno quello che si impone nella coscienza in generale”15. Da “origini diverse” rispetto a quest’ultima sgorgano i contenuti incondizionati che sostengono la vita16 – per quanto, certo, non ogni vita identicamente: pure questi contenuti possono e debbono venir comunicati, anche se su di essi mai sarà possibile tra i soggetti un accordo paragonabile a quello che si instaura nell’universo delle scienze. Urtiamo contro limiti, là dove il nostro Esserci e l’altrui, anche se entrambi ritengono di essere orientati sulla verità come una ed universalmente valida, tuttavia non riconoscono questa verità come la medesima. Giunti a tali limiti, o si entra in quella lotta in cui decidono violenza e astuzia, oppure vi è comunicazione tra le origini di quella fede che ci concerne, senza che possa diventare una sola ed identica cosa17.

Nella dimensione dell’Esserci – realtà vitale e psicologica – la verità non ha “né validità universale, né certezza costringente”. L’Esserci infatti, in quanto individualità empirica, vuole conservarsi e incrementarsi: di conseguenza “è vero ciò che incentiva la vita e le giova; non vero ciò che le nuoce, la limita, l’ostacola”. La verità risulta allora relativa e mutevole con le circostanze. Si tratta – osserva Jaspers – del “concetto di verità del pragmatismo”18. E chiarisce:

verità – “ciò che ci interessa più di ogni altra cosa” – dal bene, certo in un senso sovreminente, per cui trascende tutto quanto è bene-per-noi, pur riverberandosi in esso. 15 Filosofia dell’esistenza, p. 29; p. 34. 16 Si tratta di quella “das Leben führende Warheit” che Platone, sotto l’influsso di Socrate, introdusse come verità precipua del filosofare – scrive Jaspers nella presentazione del primo fra i pensatori “che generano la filosofia e non cessano di generarla” (Grandi filosofi, p. 242). L’affermazione precedente, secondo la quale la verità “per noi essenziale” comincia proprio là dove finisce l’ambito della coscienza generica, può ricordare un certo Wittgenstein; salvo che, per Jaspers, la prima si comunica, anche se con modalità diverse da quelle in cui si comunica la seconda; si potrebbe anzi dire che è la prima a consentire quella comunicazione che ha la massima densità rivelativa e le conseguenze più significative per la vita del singolo. 17 Filosofia dell’esistenza, p. 29; p. 34. 18 Ivi, p. 30; p. 35.

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l’individuo, in quanto essere vivente, comprende la verità come una sua condotta conforme a scopi, atta a mantenere e promuovere la vita, e a conseguire una soddisfazione durevole dei propri impulsi e bisogni; la comprende, inoltre, come corrispondenza fra quello che viene espresso ed è cosciente e il contenuto inconscio19.

A questo livello la comunicazione corrisponde all’intreccio di relazioni per definire le quali Kant aveva coniato la locuzione ossimorica “insocievole socievolezza”, che contiene sia “il non poter fare a meno dell’altro”, sia “il non poterlo sopportare”. Poiché in tale condizione domina la necessità “che tiene uniti contro la natura e contro le altre comunità”, si è costretti ad intendersi presto e facilmente, per far fronte ai pericoli che minacciano la vita, mentre “un modo d’essere uniforme determina che cosa siano felicità, appagamento, urgenza vitale”20. Qui il processo della comunicazione può svolgersi “in modo tale che il punto di vista del mio avversario, oggi per me ingiustificato, è domani, mutata la situazione, rilevante anche per i miei propositi”21. L’arte del colloquio – come ci pare si veda pure nell’ambito della politica – mira quindi ad ottenere il compromesso più vantaggioso per gli interessi dei comunicanti. Se nel medium della coscienza in generale vale il criterio dell’“esattezza costringente”, nel medium dello spirito l’esser-vero si manifesta come “convinzione” (Überzeugung), che sorge e si consolida sulla base di un’idea. Come coscienza in generale l’io non è altro che il “punto sostituibile del mero pensiero”, mentre come spirito io sono il membro di una comunità concreta, storica, che diviene anche grazie alla mia appartenenza ad essa e al mio storico contributo: è una totalità che mi sta davanti agli occhi in simboli riconoscibili e in immagini familiari e che, consapevolmente o meno, dà impulso al mio agire, non meno di quanto lo determinino i bisogni naturali e vitali. 19

Su questo piano si situerebbe dunque, per Jaspers, la verità della condotta e della comunicazione secondo il punto di vista della psicologia: qui “vero” equivarrebbe a tale che non maschera, ma esprime senza finzioni il contenuto pulsionale inconscio. 20 Ragione ed esistenza, cit. p. 61. “Quando a parlare è il mero Esserci – aggiunge Jaspers – allora il discorso non verte seriamente sulla verità, bensì su ciò che – oscuramente oppure con chiara consapevolezza – a questo Esserci sembra il proprio interesse, la propria brama, ciò che può soddisfarlo nel campo del sensibile, della ricchezza, del potere – vale a dire su ciò che in una qualunque forma gli si mostra come il sempre ambiguo successo” (ivi, p. 63). Tuttavia incapperebbe in una forma di non-verità chi pretendesse di “saltare” questa dimensione della comunicazione; si cadrebbe, come vedremo, in una sorta di “colpa nei confronti dell’Esserci”, perché se l’uomo è più che realtà naturale, nondimeno è anche, e rimane, realtà naturale. 21 Ivi, p. 62.

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La comunicazione nell’intersoggettività di quelli che perseguono un vero oggettivo, fra loro concordi perché non mossi da interessi privati, ma interessati solo a ciò che è valido per tutti, e che per essere fissato richiede “la comune metodica dell’argomentare” e la verifica empirica, si può paragonare ad una relazione fra punti anonimi e intercambiabili, mentre nell’ambito dello spirito i soggetti assomigliano piuttosto ai membri di un organismo vivente, in cui ciascuno può acquisire consapevolezza del proprio posto e della propria particolare funzione nel tutto. Qui la comunicazione serve appunto a tale presa di consapevolezza, come se la totalità ideale stessa parlasse e “desse indicazioni su ciò che è importante”22. Sia nelle suddette forme dell’esser-vero23, che nelle corrispondenti modalità del comunicare emergono limiti, e si fa avvertire una specifica insoddisfazione24. L’Esserci cerca “appagamento, durata, successo”; il suo limite però sta nel fatto che quel che sia riuscita o felicità in questa sfera “resta sempre anche non chiaro e problematico”. Volgendosi all’universale validità, la coscienza in generale incappa nella monotonia del meramente esatto e nell’insignificanza esistenziale del mero accumulo di risultati, irrilevanti per il destino del soggetto. L’approfondimento della realtà spirituale urta in ciò che non si lascia ricondurre alla totalità ideale, nel fortuito, nel refrattario ad ogni sforzo di comprensione, nel puramente fattuale. Per la validità della comunicazione è essenziale cogliere i limiti di ogni livello, e quindi l’incompletezza del comunicare in ciascuno di essi; ma, ancor prima, è essenziale evitare che una delle modalità dell’esser-vero si isoli, assolutizzandosi. A tal fine occorre, da un lato, che, oltrepassando i già citati livelli di manifestazione della verità, si affermi l’incondizionatezza dell’esistenza; dall’altro, che trovi attuazione una volontà di comunicazione totale, illimitata, il cui strumento è la ragione. Di fatto noi cogliamo il senso della verità di volta in volta valido con chiarezza decisiva e, insieme, con la coscienza dei limiti di ogni senso 22

Ivi, pp. 62-63. Che Jaspers riassume così: “ciò che si presume verificato, attestato dalla prassi, l’evidenza costringente e la piena convinzione sono le tre forme del senso della verità in queste tre guise dell’orizzonte abbracciante” (ivi, p. 63). Con tutto ciò ci muoviamo ancora nell’ambito dell’immanenza. 24 In realtà ci pare di capire che è appunto l’insoddisfazione insorgente nelle forme di comunicazione proprie dell’immanenza a segnalare il limite o i limiti di ciascuna delle relative modalità del vero, donde la spinta a trascenderle – il che però, a sua volta, non può compiersi se non all’interno di una diversa e superiore forma di comunicazione. 23

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della verità, nella misura in cui siamo noi stessi. Detto diversamente: la purezza (Reinheit) della verità di ogni altra origine si sviluppa solo a partire dalla verità dell’esistenza25.

La verità dell’esistenza è la fede (Glaube); però soltanto la ragione è in grado di rendere la fede a un tempo perspicua a se stessa e comunicabile.

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Dove non sono più abbracciato da nessuna realizzazione in cui si affermi una verità pragmatica, da nessuna certezza dimostrabile della coscienza intellettuale, da nessuna totalità dello spirito che mi custodisce, là io son giunto ad una verità in cui infrango ogni immanenza mondana, per fare poi ritorno, dall’esperienza della Trascendenza, nel mondo, ora soltanto come me stesso, a un tempo in esso e fuori di esso26.

Da questa certezza vertiginosa e inoggettivabile la coscienza ottiene la giusta prospettiva per riconoscere a ciascuno dei modi dell’esser-vero il proprio diritto, senza assolutizzarne nessuno; mentre solo con l’esercizio della ragione si chiariscono giudizi e valutazioni, perché è la confusione più desolante fra le modalità del vero e del comunicare a regnare sovrana quando quell’esercizio viene meno. Tale confusione genera gran parte dei mali che affliggono la nostra epoca – il che pure Kierkegaard pensava dell’epoca propria: essi provengono, in definitiva, dalla mancanza di un genuino filosofare. Sorretta dall’esistenza, la ragione attraversa tutte le modalità del vero nell’immanenza e si spinge oltre, verso la verità totale, che si annuncia indirettamente nella pluralità dei modi e che, tuttavia, li trascende: lì deve trovarsi il fondamento della loro coappartenenza, il filo nascosto della loro connessione27. Mediante la ragione ci volgiamo, cioè, verso un senso unitario, che colleghi i diversi sensi, autentica scaturigine di tutte le forme di validità: esso però non si lascia abbracciare dal nostro pensiero finito, né tanto meno conoscere dal nostro intelletto. La sua rivelazione è sempre negativa, inadeguata, cifrata e storica; è un’unità presente nell’amorosa lotta dei singoli che vogliono diventar se stessi; ma il pensante finito non può risalire oltre la molteplicità delle cifre in cui l’Uno si significa, né può eludere la pluralità delle esistenze pensanti e delle fedi. 25

Filosofia dell’esistenza, cit., p. 31; p. 36; il corsivo è nel testo. Ivi, p. 32; p. 37. 27 È dunque la certezza di una verità totale o di una unità ultima dell’esser-vero a consentire l’ordinato apprezzamento di tutte le modalità precedenti e relative. Si tratta, crediamo, del punto più significativo nell’adesione di Jaspers al platonismo: proprio trascendendo il finito e il relativo diveniamo capaci di conferire ad esso un positivo valore, senza incorrere in indebite assolutizzazioni, né svalutazioni. 26

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Però, se è impossibile afferrare l’Uno, si può, nella comunicazione esistenziale, conseguire la certezza “che c’è”.

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Il pensiero che, muovendo dalla inconclusività di ogni comunicazione e dal naufragare di ogni forma della verità nel tempo coglie autenticamente la Trascendenza, è come una dimostrazione dell’esistenza di Dio: dall’incompiutezza di ogni senso della verità esso perviene alla Trascendenza in base al presupposto che la verità debba necessariamente (müsse) esserci28.

Si tratta comunque di un pensiero che vale per l’esistenza, “per la quale la verità è aspirazione incondizionata, e per la cui onestà (Redlichkeit) la verità come una ed unica nel tranquillo sussistere intemporale non si mostra in nessun luogo nel mondo”29. L’insoddisfazione, che spinge sempre oltre i modi particolari dell’esservero e le rispettive forme di comunicazione, sembrerebbe dunque ripresentarsi inesorabilmente nella comunicazione secondo esistenza e ragione, giacché quest’ultima non giunge al possesso di una verità definitiva, e il suo movimento sembra restare inconcluso. Se non che proprio in tale movimento inconcluso consiste il vero ed unico manifestarsi nel tempo della verità totale. Verità comunicativa vuol dire infatti “che essa non potrebbe vivere al di fuori della realizzazione della comunicazione”, ma anche che il suo manifestarsi efficace – o per così dire operativo – culmina in quella modalità di comunicare in cui i soggetti, divenendo se stessi, diventano veri, dal momento che “esser se stesso ed essere vero non è nient’altro che essere incondizionatamente in comunicazione”30. D’altronde già la semplice certezza che la verità “ci sia” è per noi fonte di una profonda, ineguagliabile, insostituibile soddisfazione31. Fra i diversi sensi dell’esser-vero – come inizialmente si diceva – c’è un rapporto di condizionamento reciproco, rapporto che corrisponde al nesso intercorrente fra le diverse guise dell’abbracciante che ci costituiscono. L’orizzonte della vita naturale, ad esempio, abbraccia e sostiene quelli della coscienza oggettiva e della vita culturale: primum vivere, deinde cognoscere, o prendere parte alla realtà delle idee. Però senza l’intelligenza, capace di

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Ragione ed esistenza, cit., p. 76. Ibid. 30 Ivi, p. 71. L’inconcludenza della scienza è l’inattingibilità, per essa, del senso; l’inconcludenza della filosofia è l’inesauribilità del senso, presente nel movimento stesso del filosofare. 31 Filosofia dell’esistenza, cit., p. 26; p. 31. 29

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oggettività, rimarremmo chiusi in un’esperienza insuperabilmente particolare e saremmo incapaci di comunicare in un linguaggio univoco, universale. La vita culturale oltrepassa e contiene la coscienza oggettiva, la cui attività può dispiegarsi pienamente solo all’interno di un mondo storico di valori e di significati, cioè in un ambiente ideale che la supporti e la promuova; d’altra parte questo stesso mondo storico, come del resto la vita naturale, rimarrebbe impenetrabile alla conoscenza senza le strutture oggettivanti del pensiero. Non c’è vita umana meramente naturale, perché l’uomo è storico, la sua stessa “naturalità” è vissuta e interpretata secondo significati e valori storici; d’altra parte senza la realtà naturale e materiale (o economica) non sussisterebbe alcuna cultura, e via dicendo. L’esistenza infrange tutti questi ordini, fuoriuscendo da essi; ma nonostante ciò ne dipende: essi rappresentano la piattaforma sulla quale si costituisce e da cui prende lo slancio. Nel linguaggio di Kant essa è libertà; in quello di Kierkegaard interiorità e fede; in quello di Platone anima. Non si tratta di parole comuni, ma di signa della filosofia, per evocare ciò che nell’uomo è assoluto e incondizionato, e proprio per questo realizza la sua umanità, situandosi al di là di ciò che di lui potremo mai sapere; esse indicano quindi l’oltre-uomo (Nietzsche) nell’uomo. La tensione verso questa ulteriorità – che si presenta come relazione, con l’altro singolo e con la Trascendenza – attraversa tutti gli ordini inferiori e conferisce senso a ciascuno di essi, mentre fa risaltare l’importanza del rapporto fra comunicazione e verità, che celebra nella comunione tra le esistenze la sua più perfetta attuazione32. L’impossibilità di concludere nell’immanenza il discorso sulla verità è determinata anche dai conflitti che si producono inevitabilmente fra le diverse modalità del vero. La verità che origina dalla coscienza in generale può entrare in conflitto con gli interessi vitali dell’Esserci e venir respinta a causa di essi; i valori vigenti nella sfera spirituale-culturale possono essere d’ostacolo al fiorire e al diffondersi della conoscenza intellettuale; quest’ultima può assolutizzarsi e negare spazio al mondo ideale, alla possibilità della fede ecc. La stessa polarità – intrinseca al manifestarsi della verità nel tempo – fra eccezione ed autorità (o, nel linguaggio di Kierkegaard, fra il singolo e l’ordine 32

“Quel che nella comunione secondo ragione ed esistenza è l’autenticamente umano non sussiste prima, come la vita corporea, in molti esemplari nati naturalmente, che soltanto dopo si trovano e si legano l’uno all’altro. Piuttosto la comunicazione, e soltanto essa, sembra produrre quello che sta in comunicazione, cioè gli esseri che sono se stessi, come se essi non si fossero per caso incontrati nell’Esserci, ma fossero stati sempre legati l’uno all’altro” (Ragione ed esistenza, p. 71).

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costituito) suggerisce che il cammino della verità nel mondo è accidentato, che il suo destino è drammatico e sempre incerto. Infatti: né l’eccezione potrebbe comparire, con la sua forza dirompente, senza la realtà dell’autorità, né esse sono conciliabili in una riposata armonia33. Il quadro tratteggiato da Jaspers risulta così mosso e percorso da dinamiche contrastanti e persino distruttive, come si poteva prevedere dal momento che, nell’atto di presentare la verità con il suo “incomparabile fascino”34, egli alludeva non solo alle conseguenze fatali della sua violazione, ma anche al dolore, anzi alla disperazione, che la stessa rivelazione della verità può provocare – considerazioni che richiamano alla memoria la grande poesia tragica, sia antica che moderna35. Non solo vi è competizione fra i diversi modi dell’esser-vero e del comunicare, ma le modalità più alte sono le più fragili, quelle che incontrano una maggior resistenza per affermarsi, e che, dipendendo in misura maggiore dalla libertà, soccombono per prime quando la libertà è conculcata o assopita, e quando l’uomo non le avverte più come un compito. Così potremmo un giorno assistere al prevalere di un’umanità ridotta alle condizioni di mera sussistenza nell’Esserci, ad una vita da formicaio per un numero sterminato di individui, ormai resi refrattari non solo ai valori della cultura, ma anche al significato non meramente tecnico della ricerca scientifica, per non dire alla nobiltà e ultimatività dell’impegno esistenziale. Né è troppo difficile immaginare all’interno di quale tipo di relazioni e di comunicazione tali individui sarebbero confinati a vivere (o a sopravvivere)36. Infine: se dalla gerarchia delle modalità del vero e dal loro reciproco condizionamento si può ricavare un’istanza (Forderung), che salvaguardi tanto l’essere della verità quanto la stessa comunicazione, occorre dire: poiché “nella serie ascendente, quella che è la modalità successiva può essere di volta in volta reale solo sotto la condizione della precedente”37, si dovrà evitare l’auto-isolamento o la chiusura di una modalità precedente 33

Come esempio di eccezione Jaspers indica, in Filosofia dell’esistenza, la figura di Socrate, che già Kierkegaard aveva contrapposto come singolo all’ordine stabilito – all’interno del paganesimo. Ma contestualmente Jaspers aggiunge anche che essere eccezione è una possibilità per ciascun individuo, ed è, in quanto tale, intrecciata strettamente con la nostra esistenziale storicità (ivi, p. 39; p. 44). 34 Ivi, p. 26; p. 31. 35 Per questo vedi Il sapere tragico, in Della Verità, pp. 917 sgg.(sulla tragedia antica e moderna, con ampi stralci da Sofocle e Shakespeare. Trad. it., a cura di D. Di Cesare, in Il linguaggio. Sul tragico, Guida, Napoli 1993, in particolare pp. 173 sgg.). 36 Ragione ed esistenza, cit., p. 67. 37 Ivi, p. 68.

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rispetto alla successiva, perché ciò comporterebbe insieme caduta nella non-verità e interruzione del movimento della comunicazione, il quale, sotto la spinta dell’insoddisfazione, tende verso le forme del vero più alte e più impegnative – ma pure più appaganti per il soggetto. Ne deriva, inoltre, che il grado inferiore della comunicazione “deve essere limitato nella sua vigenza dal fatto che viene posto sotto la condizione della possibilità del più elevato”; ma anche che “il grado più alto non si può realizzare isolatamente, bensì con il presupposto del più basso che lo limita e lo compenetra e, al contempo, deve sostenerlo”. Dunque nemmeno le forme superiori del comunicare possono rompere con quelle inferiori, nell’illusione dell’autosufficienza, perché hanno bisogno delle altre – e di tutte le altre – per potersi realizzare. Così, ad esempio, mentre la comunicazione a livello dell’Esserci è posta sotto la condizione che sia riconosciuta validità tanto alla verità oggettiva della coscienza generica, quanto all’idea dello spirito, la volontà di sapere può attuarsi, come scienza, solo all’interno della vita sociale, e lo spirito “se dimentica la sua totale dipendenza dalla realtà naturale, non può che dissolversi”.Questo vale ugualmente per la comunicazione secondo esistenza e ragione: se essa si isola, si svuota di contenuto, perde il suo slancio, che vive “della partecipazione alle idee nel mondo, a compiti e scopi”38, e non riesce più a incarnarsi nella realtà mondana39. Si tratta di nessi ed istanze che ritroveremo nella filosofia dell’amore: l’amore che ha il contrassegno dell’infinitezza è come anticipato simbolicamente dalle forme finite; degenera quella forma finita che si chiude in se stessa e si isola, smarrendo così la sua pur relativa positività e la sua poten38

Filosofia II, p. 67. Già nel citato saggio sulla solitudine Jaspers dichiarava che “l’amore tra gli uomini si svuota, è come morto, quando essi si privano della sfera oggettiva e credono di poter esistere in comunione in un rapporto diretto, senza tutto il resto. Si ha un irrigidirsi ed un degenerare dell’amore, che trasforma l’amore stesso in contenuto di vita diretto, immediato” (Einsamkeit, cit., p. 25). E in Filosofia II, a proposito di “comunicazione e contenuto”: “...l’esistenza non può, nel mondo, incontrare l’altra esistenza immediatamente, bensì solo con la mediazione di contenuti. La consonanza delle anime ha bisogno della realtà dell’agire e dell’espressione. Infatti la comunicazione non è reale come luminosità che s’instauri senza incontrare resistenza, in un essere beato, fuori di spazio e tempo, bensì come movimento del Sé nella materia della realtà...” (ivi, p. 67). Anche ammettendo che l’amore tra gli uomini conosca i suoi momenti sublimi nel trascendimento di tutto ciò che è esteriore, occorre guardarsi dalla tendenza “a riportare la comunicazione amorosa alla sua pura interiorità in una nuova immediatezza, coltivandola come tale. Allora l’amore si indebolisce. Esso, infatti, non può conservare nel tempo il suo carattere esistenziale in una comunicazione diretta senza la mediazione della rilevante realtà mondana” (ivi, p. 68). Sarà, come vedremo, un aspetto particolarmente sottolineato nello scritto sull’amore. 39

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zialità analogica; ma l’amore “infinito” non esclude nulla, bensì si serve delle modalità finite per entrare nel mondo40. Poiché nella comunicazione deve valere il criterio che “nessuna modalità va saltata”, vi sarebbe una colpa – non meno deprecabile di quella in cui ci imbattemmo a proposito della “chiusura” all’altro nella comunicazione esistenziale – “qualora io ignorassi un qualunque livello come indegno di considerazione”41. Jaspers che, quando si tratta di stigmatizzare l’isolamento di una delle guise dell’abbracciante, con i danni che ne derivano, dedica una speciale attenzione all’assolutizzazione dell’Esserci, messa in atto tanto da un’antropologia naturalistica, quanto da una sociologia materialistica42 – che egli interpreta come moderne espressioni dell’anti-ragione – segnala invece, nel caso della comunicazione, il rischio d’incorrere in una sorta di “colpa nei riguardi dell’Esserci” (Schuld am Dasein), consistente, all’opposto, nel sottostimare la dimensione dell’uomo come “animale sociale”. In tale colpa cadrebbe, ad esempio, chi si affidasse, nell’agire politico, all’etica dell’intenzione, nel senso segnalato da M. Weber: effetti rovinosi per sé, per la propria causa e per i propri seguaci produce l’irrigidimento del politico in forme di condotta e di comunicazione che, appropriate su un certo piano,

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“Ciascuna modalità dell’amore è vera e viene a compiersi pienamente solo quando, al contempo, ogni altra si realizza. Viceversa collassano tutte, quando una di esse viene esclusa” (Dell’amore, infra, p. 194). E ancora: “ciascun amore è vero alla sua maniera e ciascuno ha bisogno dell’altro. La verità dell’amore cresce con l’assunzione della modalità finita in quella infinita, e grazie all’orientamento che il finito riceve lasciandosi penetrare da ciò che lo sovrasta” (ivi, p. 200). D’altra parte “l’immergersi dell’amore nell’abbracciante a livelli sempre più bassi non è decadimento, ma realizzazione nel mondo” (p. 201). 41 Ragione ed esistenza, cit., p. 68. 42 Contro l’appiattimento dell’esser-uomo alla dimensione naturale, considerazioni molto belle si leggono in Filosofia II, pp. 403 sgg., a proposito della “validità delle figure di umana grandezza”: anche qui sono prese di mira psicologia e sociologia. “C’è una correlazione indissolubile – scrive Jaspers – fra il rispetto per l’uomo e il rispetto di sé, fra il disprezzo per l’uomo e il disprezzo di sé. Ciò che, con consapevolezza o meno, so essere le mie possibilità, le vedo anche come possibilità degli(altri) uomini. Ma quando l’osservazione psicologica e quella sociologica abbattono un ideale ormai svigorito, allora esse vorrebbero collocare, nel ruolo di uomo “normale”, ciò che risulta empiricamente e nella media; l’umanità autentica consisterebbe nel voler essere quello che l’uomo “realmente” sarebbe...”.Ma questo significa: l’uomo la cui vita è “mangiare, accoppiarsi, dormire, e, quando non ne ha in misura sufficiente, è la miseria…nessuna fede lo anima, non c’è nulla per lui di incondizionato, nulla all’infuori della cieca volontà d’esserci, e della vuota spinta alla felicità”. Le considerazioni sul tema che si trovano in Ragione ed esistenza (pp. 66 sgg.), ritornano in forma diversa nelle critiche a marxismo e psicoanalisi contenute in Ragione e anti-ragione, lezione prima; ma sia le une che le altre erano – almeno in parte – anticipate ne La situazione spirituale del tempo (1931).

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non lo sono su quello dell’Esserci vitale e sociale, dove i mezzi della lotta rimangono ancor sempre la forza e l’astuzia43. In definitiva soltanto l’esercizio della ragione – la cui potenza chiarificatrice penetra tutti gli orizzonti e ne porta alla luce i collegamenti – ci mette al riparo sia dalla dimenticanza dell’Uno, che alimenta scetticismo e disperazione, sia dalla sottovalutazione della “verità” dell’Esserci; pur mirando alla certezza più alta essa insegna infatti a non smarrire mai la consapevolezza delle situazioni-limite, in cui urtiamo vivendo. Chi si affida alla ragione non deturpa l’immagine dell’uomo riducendolo ad “animale intelligente”, ma nemmeno pecca di superficialità e di arroganza44 rifiutandosi di riconoscerne, tanto con il pensiero quanto con l’azione, l’insormontabile finitezza.

b) Ragione e amore Il pensiero di Platone ha la sua origine nell’amore per Socrate. Nessun amore ha mai eretto un simile monumento. (Grandi filosofi, Platone, p. 290) L’amore per quest’uomo era un’unica cosa con il suo slancio. (ivi, p. 243)

Ma che cos’è dunque questa ragione, che ha il compito di distoglierci dalle illusioni e di far svanire “esaltazione e sregolatezza”; che ci autorizza ad affrontare con coraggio e passione il rischio dell’esistenza – ma non ad essere avventati – e ci induce a spendere noi stessi – però non a sprecarci?45 43

La mancanza di “realismo” è, nell’interpretazione che Jaspers dà qui di M. Weber, il peccato mortale dell’etica dell’intenzione nella politica. Ciò non significa minimamente adesione alla cosiddetta Realpolitik, che si fa dettare dalla realtà dell’Esserci sia mezzi che fini, come se l’uomo, per usare un linguaggio kantiano, forse partecipe solo dell’ordine della natura e non, insieme, di quello della libertà. Ma è un errore filosofico, nonché politico, dimenticare che egli appartiene a entrambi gli ordini, e non tenerne conto nella valutazione dei rischi e delle conseguenze dell’azione. L’errore emerge in maniera tragica quando chi agisce sulla scena politica si illude di poter ignorare la situazione-limite della violenza, con la quale invece occorre sapersi confrontare responsabilmente. 44 La ragione, scrive Jaspers in Ragione e anti-ragione, p. 33, it. p. 40, “porta a compimento l’auto-conoscenza, e, con il sapere dei limiti, l’autolimitazione – essa è l’opposto dell’arroganza”. 45 Ragione e anti-ragione, p. 49; p. 61.

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Già si è ricordato che, a partire dalla metà degli anni trenta, il tema della ragione, intesa non come una facoltà fra le altre, ma come quel pensiero che tende alla verità in senso unitario ed onnicomprensivo, e che, quindi, si dispiega compiutamente – anche se non esclusivamente46 – nella filosofia, viene ad affiancare, in Jaspers, il tema dell’esistenza.

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Decenni orsono – scrive nel 1950 – ho parlato di filosofia dell’esistenza, e allora aggiunsi che non si trattava di una filosofia nuova, né particolare, bensì dell’unica, eterna filosofia, a cui per un istante, essendosi smarrita nella mera oggettività, poteva venir conferito il pensiero fondamentale di Kierkegaard (der kierkegaardsche Grundgedanke). Oggi preferirei chiamarla filosofia della ragione... se è perduta la ragione, è perduta la filosofia stessa47.

Tuttavia mentre per l’interpretazione della parola esistenza – dato il costante riferimento a Kierkegaard – non sussistono dubbi48, meno agevole è comprendere quel che Jaspers intenda con l’uso del termine “ragione” (Vernunft). Egli s’ispira, come abbiamo detto, a Kant, inglobando nel termine accezione teoretica e pratica49; però più di una volta, soprattutto quando intende richiamare l’attenzione sul rapporto fra ragione e amore, si ricollega a Platone50. 46 L’esercizio della ragione non è certamente, per Jaspers, appannaggio esclusivo dei filosofi di professione, come non lo è, del resto, la stessa filosofia. Dal Nachlass dei Grandi filosofi apprendiamo che molti erano i poeti e gli scrittori di cui si prevedeva di far menzione nel piano originale dell’opera: restano frammenti notevoli su Shakespeare e Dante. A Leonardo filosofo è dedicato un interessante studio, pubblicato nel 1953 (Francke Verlag, Berna). Anche in alcune persone del proprio milieu affettivo e domestico Jaspers riconosceva la presenza di un filosofare genuino: per esempio nella sua governante. 47 Ragione e anti-ragione, p. 50; p. 61 48 “Tutto ciò che è per me essenzialmente reale esiste solo nella misura in cui sono me stesso. Noi non siamo semplicemente al mondo, ma il nostro Esserci ci è assegnato come luogo e corpo della realizzazione della nostra origine” (Filosofia dell’esistenza, p. 1; p. 3). 49 Coerentemente, del resto, con l’uso della parola verità, come abbiamo sopra cercato di chiarire. 50 Salvo schierarsi di nuovo, risolutamente, con Kant “contro Platone, Plotino e pressoché tutta la tradizione” sulla questione dell’elitismo filosofico (PS, p. 176; p. 159). “Solo Kant – dichiara Jaspers – pensa che il sentiero aperto da lui possa diventare una strada per i molti: la filosofia è per tutti, sarebbe male se così non fosse; i filosofi amministrano e creano solo una specie di deposito degli atti, nei quali tutto deve venire scrupolosamente fondato”. Non che si debba ignorare la realtà, per cui pochi sono quelli che hanno amore vero ed entusiasmo per il pensiero: però non bisogna cedere ad essa perché “l’istanza dell’umano in quanto tale, così spesso nascosta e…negletta, vuole essere ascoltata”, e deve esserlo dal maggior numero di individui possibile. Ma l’atteggiamento di Kant – ben presente anche in Kierkegaard, che persino nell’estrema lotta contro il clero danese si appellava all’“uomo comune” – non affonda

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Grandissima cura pone, in primo luogo, nel differenziare la ragione dall’intelletto e dalla conoscenza di tipo intellettuale – ma senza disconoscere l’importanza di quest’ultima. Nonostante si presenti ancora, nel 1937, come filosofo dell’esistenza, già sottolinea che “la filosofia è, nei millenni, come un unico inno alla ragione”51 e mette in guardia dagli auto-fraintendimenti, sorti allorché la filosofia, proponendosi come “sapere compiuto”, è degenerata in un “intelletto privo di ragione”, cedendo successivamente, per reazione inevitabile, all’impulso di denigrare l’intelletto medesimo, con cui si era confusa. Occorre senza dubbio ammettere che la ragione non fa un passo avanti senza l’intelletto, ma anche che, decisamente, lo supera. In Ragione e anti-ragione, ad esempio, citando alcune dichiarazioni di A. Koestler, il quale confessava di avere finalmente scoperto che “l’etica non è soltanto una funzione dell’utilità sociale, e l’amore del prossimo un sentimento piccolo-borghese, bensì (essi sono) la forza di gravità che tiene insieme ogni civiltà”, Jaspers commenta: Principi come quello kantiano, secondo cui l’uomo non dovrebbe essere soltanto un mezzo, bensì anche sempre un fine in sé, o l’asserto platonico secondo cui l’ignoranza sarebbe il male più grande, i dieci comandamenti e i grandiosi, eterni pensieri fondamentali del filosofare sono facilmente enunciabili, ma per comprenderli veramente e farli propri ci vuole più che il mero intelletto, è necessaria la ragione.

Se non che la ragione, appunto, non è una mera proprietà naturale; essa richiede, di fatto, “una decisione, una rivoluzione nel modo di pensare”52. Come dunque caratterizzare la ragione – e di conseguenza, quell’autentico illuminismo che comincia ad apparire in Grecia proprio con Platone? forse le sue radici, oltre che in Rousseau, nella polemica condotta dai Padri della Chiesa cristiana contro i filosofi pagani, accusati di chiudersi superbamente in conventicole? Jaspers non lo crede: la cura della Chiesa per le moltitudini gli appare dettata, più che da spirito caritatevole, da volontà di dominio. Lo stesso però non ci pare si possa dire né dei primi cristiani né di Paolo, né, tanto meno, del “filosofo Gesù”. Cui, curiosamente, Sternberger si richiama (Maestri del ’900, cit., p. 67), quando racconta di aver mal interpretato, sulle prime, l’appello jaspersiano alla nobiltà dell’uomo, credendolo viziato di deteriore aristocratismo, e di essersi convinto, in seguito, che esso era invece sotteso da una semplice constatazione: l’accesso all’esistenza, benché non precluso ad alcuno, è comunque, evangelicamente, “una porta stretta”(Mt. 7, 14). 51 Filosofia dell’esistenza, p. 53; p. 58. 52 Ragione e anti-ragione, pp. 45-46; p. 55. Così, su questo punto, Jaspers conclude: “la ragione non c’è per il fatto che io la conosco, ma perché la realizzo, nelle scienze, nella prassi, e nelle creazioni dello spirito”; queste ultime, poi, “ci spingono più profondamente dentro la verità di quello che riescano mai a fare le scienze” (ivi, p. 51; p. 63).

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Sempre in Ragione e anti-ragione Jaspers mette in risalto alcuni caratteri della ragione che ne svelano l’affinità con l’amore, onde si può parlare, per un verso, di una ragione animata, sorretta, guidata dall’amore, e per l’altro, di un amore pensante o razionale (vernunftig), che trova nel filosofare il suo compimento53. Anzitutto la ragione è movimento incessante54, inconfondibile però con il movimento dell’intelletto, che, se mai non si arresta nella conoscenza del finito, non potendo concluderne la serie, nemmeno è in grado di trascenderla: al contrario la ragione emerge “con un salto dalla chiusa immanenza dell’ente”55 e si volge risolutamente all’infinito, pur sapendo di non poterlo guadagnare in uno stabile possesso. Tale movimento non ha il proprio fine fuori di sé: l’infinito è ben presente nel movimento stesso della ragione, perché, come abbiamo visto, nel tempo può essere attinto solo in questa forma; così non si può dire che il fine rimanga perennemente in-conseguito, perché esso è piuttosto conseguito, ma in modo tale, da dover essere perennemente riconquistato. Analogamente – come si vedrà – l’amore è incessante aspirazione, che tuttavia include il compimento; sicché Jaspers lo descrive come costantemente deluso e, insieme, pienamente partecipe56. Il movimento della ragione, poi, altro non è che la ricerca inesausta dell’unità. Essa non si appaga di un’unità purchessia, ma cerca e vuole “la vera ed unica unità”, cioè cerca “quell’Uno, che è tutto”57. Anche nell’amore, si vedrà, la ricerca dell’unità, immanente ad ogni livello del nostro essere, sospinge, per insoddisfazione nei confronti di tutte le unità relative raggiunte, verso l’unità ultima e assoluta, che è la Trascendenza. Poiché l’unità, cui la ragione tende, dovrebbe essere assolutamente onnicomprensiva, la ragione non può escludere né trascurare nulla: muovendo in ogni direzione, ovunque cerca il senso, in ciò che sembra chiaro ma anche in ciò che è opaco e ostile ad ogni ordine e legge, né si maschera gli estremi, le antinomie insolubili, i contrasti che non possono che rimanere tali, anzi respinge ogni armonia illusoria. La qualifica, per questo, una “scon53

Vedremo che per Jaspers, sulla scorta di Platone, non solo la filosofia è amore, ma l’amore è filosofo, cioè cerca o desidera al di sopra di tutto la verità, la sapienza. 54 Riprendiamo sinteticamente questi caratteri dall’opera del 1950 (soprattutto dalla seconda lezione) senza trascurare considerazioni significative già presenti in Filosofia dell’esistenza (pure lezione seconda) e in Ragione ed esistenza (cit.). 55 Filosofia dell’esistenza, p. 53; p. 58. 56 Dell’amore, p. 176. Si veda anche infra, p. 226: “Quell’anelito entusiastico che pare non raggiungere mai il fine, è esso stesso presenza che, in questa forma, ha sempre attinto il fine, come manifestazione nel tempo”. Il télos infinito è presente all’anima perché continua a muoverla, e la colma in maniera tale che essa non cessa, tuttavia, di tendere, di aspirare. 57 Ragione e anti-ragione, p. 34; p. 40.

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finata apertura”58; ma un’apertura identica qualifica la lotta amorosa nella comunicazione esistenziale, in cui tutto è sottoposto a discussione, senza reticenze o riserve di qualunque tipo, non si mascherano le difficoltà né si smussano le divergenze, anzi si esige, tanto da se stessi quanto dall’altro, una chiarezza inesorabile. La ragione, d’altronde, vuole al di sopra di tutto la comunicazione, cosicché “negare la ragione equivale a negare la comunicazione stessa... una verità senza comunicazione è per essa identica con la non-verità”59. Jaspers, insomma, non si stanca di ribadire quello che già aveva dichiarato nell’operamanifesto del 193560, e cioè che “se Dio è eterno, la verità per gli uomini, nel tempo, è una verità che diviene nella comunicazione”61. E spiega: originariamente era l’Uno, la verità, come per noi ora è inafferrabile. Ma l’Uno perduto è la chiamata dalla profondità di tutto quanto è temporale, come se dovesse (solle), nella dispersione, venire riconquistato tramite la comunicazione, come se la confusione del molteplice potesse risolversi nella quiete dell’unità, come se una verità obliata non fosse di nuovo raggiunta nel tempo, però fosse comunque stabilmente presente nel movimento verso di essa62.

Tuttavia la ragione non è in grado, da sé sola, di sostenere la comunicazione, senza l’originarietà dell’esistenza e la forza dell’amore63. Perché la ricerca dell’Uno sia autentica, infatti, il cercante deve in essa “diventare uno”: ma è appunto questo il compito dell’uomo in quanto esistenza, mentre la 58

Un felice accostamento fra i caratteri della ragione, secondo Jaspers, e la conformazione del paesaggio lungo la costa del Mare del Nord, presso Oldenburg, dove il filosofo aveva trascorso infanzia e prima giovinezza, è proposto da H. Saner nell’incipit della sua bella monografia: la distesa pianeggiante, “appena incurvata da poche e lievi alture – scrive Saner – lascia sgombro l’ampio orizzonte”; poi riporta direttamente le parole di Jaspers: “nient’altro che cielo, orizzonte e un luogo dove stavo io. Il cielo era aperto da ogni lato”. Sia “l’apertura da ogni lato” e “l’ampiezza luminosa”, che “l’infinito movimento” – simile a quello del mare, che permette allo sguardo di spingersi nell’infinità – sarebbero per Saner le qualità salienti della ragione jaspersiana. Anche il citato Portrait in Filosofi del Novecento richiama, nel sottotitolo (Dell’ampiezza della ragione e dell’attendibilità dell’agire), questo motivo del pensiero jaspersiano della maturità. 59 Ragione e anti-ragione, pp. 36-37; p. 43. 60 Cioè Ragione ed esistenza. 61 Ragione ed esistenza, p. 81; Ragione e anti-ragione, p. 36; p. 44. 62 Ragione e anti-ragione, p. 37; p. 44. 63 La ragione è dunque “critica” perché non solo vede i limiti dell’intelletto, ma non ignora i propri: da un lato essa sa che è la verità onnicomprensiva che l’abbraccia, e non viceversa; dall’altro riconosce che l’esistenza (o la fede) è il terreno (Boden) su cui poggia, mentre l’amore è la forza che la fa muovere e senza la quale essa non può conseguire nulla di sostanziale.

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ragione ne è solo il medium o lo strumento; e se è la ragione a consentire alle esistenze di vincolarsi l’una all’altra manifestandosi reciprocamente, il vincolo (Band) non è, anche, ciò che per suo tramite si lega. L’esistenza è l’origine storica, la fede in cui la personalità si sintetizza; la ragione è necessaria perché il processo della sintesi si svolga comunicativamente e con trasparenza, condizioni peraltro indispensabili di questo svolgersi. Kierkegaard sosteneva che non si crede “con la ragione”; Jaspers concorderebbe, ma aggiungerebbe che senza la ragione non solo la fede non saprebbe comunicarsi, ma non potendo nemmeno auto-comprendersi, finirebbe per atrofizzarsi. Entrambe, comunque – esistenza e ragione – hanno bisogno dell’amore, in cui forse è racchiuso il segreto del loro connubio64. L’affinità di ragione e amore risulta evidente al lettore di Jaspers anche per la collocazione in cui alcune tesi sull’amore vengono a trovarsi nel volumetto degli anni cinquanta, proprio nel “cuore” della lezione dedicata alla ragione: il pensatore di riferimento è, dichiaratamente, Platone “che per primo cercò di comprendere in modo unitario amore e conoscenza (Eros und Erkennen)”65. Siccome in questi passi affiorano motivi autobiografici, val la pena di soffermarcisi, per discernere le allusioni che rimandano sicuramente ad esperienze personali, di cui Jaspers intende segnalare sia la portata esistenziale, che il valore filosofico66. In tal modo assumeranno, crediamo, maggior concretezza certe distinzioni, talora presentate in una schematizzazione apparentemente algida, benché sottese da una meditazione che si è nutrita del vissuto. Per chiarire l’unità di ragione ed esistenza “nel loro movimento”, Jaspers ricorre a una sorta di coup de théâtre, che viene a interrompere la successione ordinata dei pensieri, con l’irruzione sulla scena di un terzo personaggio – l’amore – al centro di alcune sorprendenti affermazioni (Sätze). La ragione – aveva osservato poco prima – è vuota senza l’esistenza: essa crea sì lo spazio del pensiero, ma non è in grado di riempirlo di contenuti. “Questo spazio della ragione è come l’acqua, l’aria, la luce, in cui ogni vita può fiorire, e che aspira ad essere colmato da tale vita”, la quale, a sua volta, ha

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Nel Kierkegaard delle Briciole, invece, era la resa della ragione al paradosso che consentiva il sorgere della “felice passione” (cioè della fede). 65 Ragione e anti-ragione, p. 47; p. 57. 66 Non smentendo dunque nemmeno nella sua produzione più matura lo stile, ripreso da Kierkegaard, del “pensatore soggettivo”, stile che va ben al di là della psicologia, perché consente di portare alla luce verità “essenziali”.

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bisogno di essere “penetrata dalla ragione”67. Anche nello scritto del ’37, del resto, Jaspers aveva esaltato quell’atmosfera della ragione che si respira nelle poesie più sublimi, nelle tragedie e nei grandi filosofi, indipendentemente dai contenuti storici che costituiscono l’apporto di ciascun singolo68; e, certo, è essenziale impegnarsi – per esempio nell’educazione – perché continuino ad esserci uomini desiderosi e capaci di respirare quell’atmosfera69. È altrettanto essenziale, però, riconoscere che “il limite della ragione sta, da una parte, nella realtà oggettiva dell’Esserci, che le si dà come estranea, e, dall’altra, in quella realtà autentica (Wirklichkeit) che le è data come esistenza, da chiarificare razionalmente in un processo senza fine”70. La ragione, che di per sé non è storica, è chiamata a comprendere la storicità dell’esistenza, ad accogliere, esprimere linguisticamente e valorizzare i contenuti incondizionati di questa, mentre, d’altra parte, “l’esistenza può giungere a pienezza di realtà solo grazie alla ragione”71. Proprio qui pare insinuarsi l’amore, nel gioco fra esistenza e ragione, in cui la prima, divenendo comprensibile, si attua, mentre la seconda si riempie di quei contenuti, di cui altrimenti rimarrebbe priva. L’amore è, come suggerisce Platone, razionale, simile alla ragione; però è anche così profondamente e inestricabilmente intrecciato con la vita, fin dai suoi livelli 67

Ragione e anti-ragione, p. 46; p. 57. Filosofia dell’esistenza, cit., p. 53; p. 58. 69 Ragione e anti-ragione, p. 62; p. 74. Se lo spazio aperto dalla ragione è quello in cui si respira liberamente, lo spirito dell’anti-ragione prepara l’illibertà anche sul piano politico. Un ruolo importante nel diffondere – o, per lo meno, nel non lasciar del tutto svanire – l’atmosfera della ragione dovrebbe svolgere, per Jaspers, l’Università, alla cui “idea” egli ha dedicato più di uno scritto, e, all’interno di essa, il professore di filosofia. “L’idea dell’Università – afferma nell’Autobiografia (p. 62) – vive decisamente nei singoli studenti e professori e solo secondariamente nelle forme dell’istituzione. Se quella vita dovesse spegnersi, l’istituzione non potrebbe salvarla... All’interno dell’Università, l’idea del professore di filosofia divenne per me giustificazione della mia propria realtà. La realizzazione di questa idea – finché sussiste la libertà dell’Università occidentale – dipende solo dal singolo che la fa sua ed è incaricato di attuarla. Egli è, come professore di filosofia, signore all’interno delle quattro pareti che racchiudono lo spazio del suo insegnamento e può organizzarlo come vuole. Deve dar prova di sé davanti ad una gioventù che, per natura sua, non possiede ancora il senso della verità, proprio dell’età più matura. Ha il compito di presentare i grandi filosofi e di non permettere che siano confusi con i minori. Allora gli eterni pensieri fondamentali sono resi noti nelle loro elevate figure. Egli ha il compito di sollecitare l’apertura a tutto lo scibile, al senso delle scienze e a quello della realtà della vita...”. Anche in Philosophie und Wissenschaft (1948), a proposito del professore di filosofia e del suo compito Jaspers sottolinea: “Egli vuole, nell’epoca presente, portandola a chiarezza, guadagnare, insieme con i suoi studenti, il colpo d’occhio sull’eterno” (in Rechenschaft und Ausblick, cit. p. 259). 70 Ragione e anti-ragione, p. 46; p. 57. 71 Ivi, p. 47; p. 57. 68

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inferiori, biologici, che lo si potrebbe definire addirittura – goethianamente – “del tutto identico con essa”; per cui non pare azzardato ipotizzare un suo ruolo di mediatore fra l’esistenza, che è vita al più alto livello, e la ragione, senza di cui quella vita non potrebbe fiorire e il suo senso non potrebbe esprimersi72. L’amore è sostanza stessa dell’esistenza, ma non essendo né anti-logico né illogico, bensì affine al lógos, e avendo con esso familiarità e dimestichezza, favorisce la chiarificazione razionale dell’esistenza, promuovendone la realizzazione. L’attività incomparabile dell’amore risulta percepibile sia positivamente, in ciò che consente di ottenere in caso di “riuscita” – “quando ci è concessa la realizzazione dell’amore, allora v’è la felicità nell’espansione di una vita” – sia negativamente, nel naufragio, quando vien meno l’“oggetto” d’amore, che non è mai sostituibile. Essere afferrati dall’amore equivale a cominciare ad essere veramente. Pervengo a me stesso, tutto ciò che è risplende. Solo adesso c’è veramente serietà nella vita. Quel che ora faccio è, per me, come fosse approvato o respinto dall’eternità, come fosse un ricordo dell’eterno oppure sprofondasse nel vuoto del nulla.

Il ricordo è qui, evidentemente, platonica reminiscenza: trovarsi è ritrovarsi; comprenderemo che proprio perché si àncora nell’eterno l’amore vero non vede davanti a sé una fine73. In grazia dell’amore – prosegue Ja72

Ibid. Il tema platonico dell’anamnesi ritorna frequentemente nel pensiero jaspersiano, soprattutto a proposito dell’amicizia e dell’amore. Già nella Psicologia delle visioni del mondo, trattando dell’atteggiamento entusiastico, egli ricorda le parole di Goethe (in una lettera a Wieland del 1776), sul proprio amore per la signora von Stein: “Io non posso spiegarmi l’importanza che ha per me questa donna – il potere che esercita su di me, se non con la metempsicosi. Sì, noi fummo un tempo marito e moglie”. Subito dopo riporta i versi dedicati dal poeta all’amante: “Certo tu fosti in un tempo passato mia sorella o mia moglie”. Questo “tempo passato” è però, per Jaspers, solo un simbolo dell’eterno. Gli stessi versi vengono riportati in Filosofia III, dove è affrontato il tema del ricordo (Erinnerung) in senso esistenziale: “nella decisione e nel compimento del mio essere io ricordo l’essere eterno... questo ricordare accompagna la mia vita, come assidua consapevolezza della profondità del passato. Il passato diviene qui cifra dell’essere... Ciò che nell’orientazione nel mondo è soltanto una nuova realtà, che accade ora nel flusso indefinito dell’andare e venire, è, per l’esistenza, manifestazione dell’essere che in esso viene rammemorato” (ivi, p. 209). E a proposito di amore e comunicazione (Filosofia II, p. 71; vedi infra, pp. 234-35) citando Plotino, il quale dice dell’Uno che “né viene né va”, Jaspers scrive che nella relazione amorosa – o amicale – “la successione temporale è come un rivelarsi di ciò che è eterno presente, il ritrovarsi di coloro che nell’eternità già si appartengono”. L’eterno non irrompe solo nella relazione, ma, attraverso di essa, tutta la vita, con le sue decisioni, è posta sotto il sigillo dell’eternità. 73

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spers – “il mondo diventa linguaggio della Trascendenza” e la vita acquista la leggerezza del gioco, però “sul fondamento della più profonda serietà”; la fiducia tra i singoli che si amano è incalcolabile, oltrepassa ogni contratto o diritto, persino la morale, perché ha un’origine assoluta e trascendente. Può accadere, però, che nel tempo l’amato sia perduto “a causa della morte, della malattia mentale o dell’infedeltà”. Ebbene: anche nel “naufragio della realizzazione” l’amore non perde la sua meravigliosa fecondità: l’amante rimasto solo sembra destinato ad appassire, ma dalla sua sofferenza emerge “una capacità di umana amicizia” che commuove chi entri in contatto con lui, una sollecitudine per l’altro essere umano che turba chi ne è beneficiario, al punto che costui ha l’impressione di trovarsi davanti a “un buon demone incarcerato”, che non appartiene più a nessuno, e a nessuno può lasciare un segno di se stesso. Se quello ora descritto è, inequivocabilmente, l’amore tra le esistenze, di un altro genere di amore Jaspers tratta subito dopo, mostrandone, anche in questo caso, la duplice efficacia, sia nella riuscita che nel fallimento: si tratta dell’amore “per le proprie origini, per la terra natale, per il nostro fondamento storico, nella consapevolezza che noi abbiamo delle radici”. È dunque amore a livello di ciò che il filosofo chiama “spirito”, che è realtà comunitaria e storica, costellazione di valori e di idee che ci sostengono “fin nelle realtà particolari della cerchia quotidiana”74. Questo sostegno può però venir meno, l’uomo può essere strappato dal suo fondamento storico; Jaspers menziona qui “i milioni di emigranti, scacciati dalla loro terra: profughi, fuggiaschi, anzitutto in Europa e in Cina”; ma allude anche, implicitamente, al proprio “esilio interno” e al successivo espatrio. Accade che uno venga “tradito dalla sua patria e dal suo popolo” o che debba “subire violenza da parte di potenze statali estranee”. Mentre nel caso precedente l’amore sembrava trasformarsi per virtù propria, risorgendo in un’espressione velata dal rimpianto ma misteriosamente attraente, e continuando ad alimentare la vita anche nella sofferenza della perdita – la connessione posta in luce pareva dunque essere: senza amore non c’è pienezza di esistenza, ma allora la ragione ha ben poco da chiarificare; qui sembra sia proprio la ragione a soccorrere l’amore che soffre, salvando l’esistenza dalla disperazione, e mostrando la permeabilità dell’amore al pensiero, o, viceversa, la familiarità del pensiero con l’amore. Ancora una volta fu Platone – scrive Jaspers – “a mostrare la via, valevole per tutto il tempo a venire: dal74

Ragione e anti-ragione, p. 48; p. 59. Ritroveremo questo amore “nella dimensione dello spirito” o delle “idee”, nella jaspersiana scala d’amore, presentata nel quinto capitolo, che analizza i contenuti dello scritto del ’47.

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l’amore di chi ha perduto tutto, dalla disperazione dell’impotenza, si sviluppa il pensiero sulle condizioni e sui fondamenti di una vita comunitaria”. Chi ha perduto la sua patria ora non può più appartenere a nessun’altra75, ma può venire accolto “dalla patria comune della storia dell’uomo”, non, s’intende, di un’umanità astratta, ma di quella “concretamente storica”76. Allora diviene, in quanto pensatore, “collaboratore di una città mondiale, che gli si fa incontro: in essa cerca la convalida della sua appartenenza all’umano qua talis”77. È come se in virtù della ragione si verificasse una nuova nascita. Spinto dalla sventura “che ha colpito la sua provenienza storica” – alla quale peraltro non cessa di mantenersi fedele, conservando grata memoria dei suoi migliori conseguimenti – egli si inoltra “fino alla fonte dell’esser-uomo”, in prossimità di ciò “da cui richiamati a se stessi, dei singoli s’incontrano, al di là del mondo”78. È la cittadella degli uomini che proprio mediante la ragione aprirono nuove possibilità all’essere dell’uomo, “una sorta di grande famiglia” in cui può liberamente riversarsi il suo amore, trasfigurato ma non svigorito, grazie alla potenza del pensiero79. Qui pare verificarsi davvero quell’assunzione di

75 Si noti che Jaspers così si pronuncia nel 1950, dopo aver lasciato definitivamente la Germania: e che il testo è quello delle lezioni tenute, ma da ospite, presso l’Università della “sua” Heidelberg. 76 È l’umanità europea e occidentale, nata dalla filosofia greca e dalla Bibbia, di cui Jaspers aveva parlato nel settembre del 1946 ai Rencontres de Genève, nella splendida conferenza dal titolo Lo spirito europeo (Piper, München 1947; trad. it. in Verità e verifica, cit., pp. 123-154). Si tratta tuttavia di un’umanità non chiusa in se stessa, ma capace di entrare in comunicazione con le grandi realtà dell’India e della Cina. 77 È l’apertura che qualifica la produzione di Jaspers a partire da Ursprung und Ziel der Geschichte (Piper, Monaco, 1949; trad. it. Origine e senso della storia, Milano, Comunità 1965, 1982). “La mia prospettiva – dichiara Jaspers introducendo l’opera – è sorretta dalla tesi, oggetto di fede, che l’umanità abbia un’unica origine ed un unico fine” (p. 17). La medesima apertura ispira il grandioso progetto di una storia mondiale della filosofia, intesa come propedeutica ad una comunicazione universale tra le fedi filosofiche e religiose. 78 Questo è, in fondo, il senso delle parole che chiudono la conferenza del ’46: “anche l’Europa non è, per noi, la cosa ultima. Diventiamo europei alla condizione che diventiamo autenticamente uomini – e ciò significa uomini che esistono dalla profondità dell’origine e del fine, i quali giacciono, entrambi, in Dio” (cit., p. 31; p. 154). 79 Come Kant attribuiva alla ragion pratica il progetto del “mondo ottimo”, integralmente regolato dalla legge morale, così Jaspers crede di intravvedere dietro i tentativi della ragione filosofica, nel corso dei secoli e dei millenni, il progetto dell’esser-uomo aperto alla verità e alla comunicazione, progetto accessibile ad ognuno, sol che lo voglia, e che tutti impegna come un vincolo, che oltrepassa le individuali appartenenze storiche e culturali. Si tratta, ci sembra, della versione filosofica di quel vincolo religioso di cui diceva Kierkegaard in Timore e tremore, derivante dalla presenza, in ogni singolo, di una “coscienza eterna”.

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

una modalità finita dell’amore nella infinita80, di cui Jaspers dice nell’opera Della Verità; e la modalità infinita altro non è che la filosofia, in cui amore e ragione confluiscono e si mescolano. È la filosofia che “conduce i singoli al di là del mondo”, ma poi li riporta in esso, ad esporre “le condizioni e i fondamenti di una vita in comunità”; anche se il filosofo talvolta sembra discorrere “di cose che non ci sono”, o avanzare proposte chimeriche81. Ciò che vale per la ragione – che essa cioè non esiste “come oggetto di una conoscenza constatativa” – vale d’altronde già per l’esistenza e per la libertà: chi asserisce che tali realtà non ci sono, intende dire: “io non le voglio”82. Ugualmente, vedremo, l’amore non si lascia imprigionare in un linguaggio constatativo, si sottrae ad ogni conoscenza causale, di tipo psicologico o sociologico, e alle terminologie corrispondenti: richiede, invece, un pensiero che trascende e un linguaggio evocativo e simbolico, che mira a risvegliare questa straordinaria energia, latente nell’intimo di ogni uomo. L’esempio appena illustrato dimostra con particolare evidenza che per Jaspers la modalità “infinita” dell’amore non è, né mai potrebbe essere, un epifenomeno di quella “finita”: si tratta, invece, di un amore qualitativamente diverso e superiore, che non sostituisce l’altro ma piuttosto lo ingloba in sé, conferendo significato al suo fallimento. Come spesso accade in Jaspers il naufragio nel finito e nel temporale diviene rivelativo di un’ulteriorità e di un assoluto83. 80

Vedi nota 40. Ragione e anti-ragione, pp. 50-51; p. 62-63. 82 Ibid. 83 La figura del naufragio (Scheitern) ha in Jaspers una valenza negativo-positiva: parliamo qui del naufragio autentico, signum dell’esistenza, che lo sperimenta nel suo sforzo di attingere l’Assoluto (nel pensiero) o di realizzare l’incondizionato (nella prassi), e che dunque non può essere confuso con la frustrazione dell’Esserci nel perseguire felicità, successo, potere ecc. Per capire quello che Jaspers intende si possono richiamare le pagine kantiane della terza Critica sul sentimento del sublime, anche se Kant qui allude al genuino fallimento dell’immaginazione quando si tende allo spasimo nello sforzo di adeguare l’infinità attuale dell’idea. Questo sforzo non può riuscire, perché in nulla che abbia anche un lontano rapporto con la sensibilità – e con la natura così come ci è manifestata dai sensi – si può trovare una rappresentazione all’altezza dell’idea, per esempio dell’idea della libertà; però il fallimento assume valore simbolico, e l’anima dell’uomo si dilata nella consapevolezza della propria superiorità sull’intera realtà naturale. Sempre in Kant, ma nella sfera della prassi, il naufragio può trovarsi prefigurato nella convinzione – propria di chi s’intenda di cose morali – che la purezza della volontà rifulge di uno splendore non meno grande quando la retta intenzione non è coronata da successo, malgrado gli sforzi messi in atto dal soggetto (si veda, per questo, Fondazione della metafisica dei costumi, Sezione prima). Altri antecedenti: nel destino dell’eccezione, secondo Kierkegaard: 81

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VERITÀ, COMUNICAZIONE, RAGIONE, AMORE

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Così il fallimento dell’amore su un certo piano può favorire il salto nella modalità sublime, la quale, però, non è il prodotto del trasferimento dell’energia frustrata dai piani inferiori ai più elevati, ma, al contrario, il manifestarsi di una forma più pura e più potente di quell’energia, attraverso il varco determinato dalla crisi della manifestazione precedente. L’impossibilità di realizzare felicemente un certo genere di amore non si traduce pertanto nell’annientamento della capacità d’amare, perché spinge la libertà verso una possibilità più alta, che pure era adombrata nella modalità inferiore, e come in attesa di farsi strada nell’anima. Sperimentando la nuova possibilità, comprendiamo la forma dell’amore che ha fatto naufragio come una preparazione ad essa o una sua imperfetta anticipazione. Concludendo: se l’esistenza è esperienza viva di trascendimento, alla ragione compete di chiarificarla e di darle, per quanto possibile, espressione, rendendola comunicabile. L’amore pare mediare fra le due, essendo la forza che, da un lato, sospinge l’anima verso la pienezza di quell’esperienza e, dall’altro, accende nella ragione il desiderio di comprenderla e di trasporla linguisticamente. Anche se la trasposizione sarà sempre più o meno inadeguata, e se dovrà essere continuamente ripresa in un’interpretazione mai definitiva, la ragione ottiene comunque lo scopo di mantenere all’esistenza la sua tensione e di assicurarle le condizioni essenziali per maturare, accrescendo la certezza che essa ha di sé – qualunque sia il risultato esteriore del suo agire84. Comunicando grazie alla ragione, le esistenze si tengono reciprocamente deste, si liberano dagli impacci che ne ostacolano la fioritura e, approfondendo il proprio vincolo nell’Uno e con l’Uno, si rendono indipendenti dal mondo, per poter liberamente operare in esso. È merito dell’amore, comunque, se il movimento dell’esistenza, in cui il Sé si costituisce, e quello della ragione, in cui il Sé si chiarisce, procedono all’unisono, fino a confondersi in un solo, fecondo, unitario slancio. il suo fallimento è condanna del mondo – che “vuole essere ingannato” – e significazione di verità; oltre che, naturalmente, nella critica nietzscheana del criterio del successo, come succedaneo volgare di quello del valore intrinseco, nel giudizio storico su personaggi ed opere (seconda Inattuale). Concretamente, però, come ricorda H. Saner nella Prefazione a Schicksal und Wille (cit., p. 13), la figura dello Scheitern autentico si era realizzata per Jaspers, in modo emblematico, nella vicenda umana, intellettuale e politica di M. Weber. 84 Kierkegaard e Nietzsche si ritrovano, com’è noto, concordi nella contestazione dell’“effettività hegeliana” e del criterio del “risultato”(vedi nota precedente). Si tratta di una duplice lezione che Jaspers fa pienamente propria: la realizzazione dell’esistenza non è accertabile da un punto di vista mondano ed oggettivo e, soprattutto, è sempre in fieri.

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

Analizzando lo scritto del ’47, apparirà chiaro che l’amore metafisico tra le esistenze è la manifestazione più alta e nobile dell’amore, perché si fonda sulla comune aspirazione all’incondizionato, all’Uno della verità. Così vedremo saldarsi interamente le due linee che abbiamo finora seguito nell’esporre le riflessioni di Jaspers: quella che fa capo alla lotta amorosa per la costituzione del Sé, e quella della comunicazione nel movimento della ragione. Nell’amore metafisico s’incontrano esistenze, verità e ragione: ci sono le prime – le esistenze –, perché c’è la seconda – la verità – intimamente presente nel loro rapporto e termine del loro slancio, nutrimento del loro sviluppo e oggetto della loro fede. Ma c’è anche la ragione, strumento indispensabile di tale sviluppo e del chiarimento della fede. Saremo così avviati anche ad intendere il collegamento che si profila, nel pensiero di Jaspers fra il dialogo a due, nell’amorosa, mai conclusa manifestazione dei singoli, e l’ampiezza di una comunicazione universale, che abbracci l’umanità storica. Nel primo si autoeducano gli uomini, per divenire capaci di portare poi in ogni campo della loro attività e persino nelle relazioni tra le diverse culture e religioni quella volontà di comunicazione – insieme con la consapevolezza dei suoi diversi ambiti e dei limiti di ciascuno di essi, nonché della differenza fra ciò che ha valore assoluto e ciò che è solo relativo – al cui servizio si affatica la ragione.

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L’AMORE IN DELLA VERITÀ: “UN ELOGIO AMPIO E MAESTOSO”

È la verità il senso ultimo per l’uomo nel mondo? È la veridicità l’istanza suprema? Noi lo crediamo, perché la veridicità, che è aperta senza riserve, e che non si disperde nelle opinioni, coincide con l’amore. (PS, p. 174; p. 157) La verità nella sua interezza si lascia cogliere solo dall’amore, nella sua interezza. La verità stessa è, in me, lo slancio dell’eros. La verità ci dà la sua ultima risposta attraverso l’amore. (Dell’amore, p. 195)

Collocato fra il tema della ragione e quello delle cifre della Trascendenza1, lo scritto sull’amore, che qui presentiamo, ha l’andamento solenne di una sinfonia, che pur senza ridondanze o ripetizioni, ritorna sugli stessi movimenti, variando sonorità, grazie all’impiego di una ricca strumentazione. Dapprima ci offre l’esibizione, grave e concentrata, della natura insieme umana e metafisica dell’amore; poi la fenomenologia, più mossa e vivace, delle sue modalità nell’esperienza e la ricapitolazione di queste stesse nella disamina dell’amore di coppia; subentrano allora l’individuazione, concisa, dei diversi tipi di “essere assieme” e la messa in evidenza, accurata, dei nessi che intercorrono fra i livelli o “gradini” della scala d’amore. Il momento culminante, in cui la melodia si dilata, è rappresentato dall’esaltazione dell’amore come potenza mediatrice, mentre la conclusione, drammatica, espone il contrasto fra amore e odio e fra le filosofie corrispondenti.

1 Il linguaggio simbolico in cui la Trascendenza ci parla nei miti, nella religione, nell’arte e nella filosofia. Il tema è affrontato per la prima volta nel terzo volume di Filosofia.

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

Al lettore di Jaspers non sfugge l’inusualità di questo stile musicale, che ha pochi riscontri nella restante produzione del filosofo: esso segnala, da un lato, il ruolo eccezionale che l’amore riveste nel suo pensiero2; dall’altro, lo sforzo compiuto dall’autore per sottrarsi alla tentazione di oggettivare, cioè per evitare di procedere alla maniera di chi, credendo di descrivere fenomeni osservabili e classificabili, formula definizioni, e fissa collegamenti di immediata fruibilità. Invece l’amore, presentato in stretto rapporto con la libertà e con la ragione, non è meno di queste insuscettibile di descrizione e definizione: nel caratterizzarlo, infatti, occorre far ricorso alla comunicazione indiretta, come nel caso degli altri due termini. L’amore, d’altronde, non è una forza così ignota al lettore, né un contenuto a lui così indifferente, da non poter esser richiamato alla sua memoria o alla sua attenzione semplicemente liberando il campo dai fraintendimenti più comuni e mostrando, per converso, tutti quegli aspetti che lo rendono inoggettivabile e quindi, propriamente, inconoscibile. Fra i pensatori che hanno parlato dell’amore è a Platone che va attribuito massimamente il merito di non averlo costretto in un discorso di tipo psicologico – come sarebbe accaduto più tardi a Freud – né ipostatizzato in una metafisica oggettivante, come nel caso di Agostino (con la voluntas) e in quello di Schopenhauer (con il Wille). Quando l’amore sia invece “chiarificato con riferimento all’esistenza” (p. 174) allora chi lo chiarifica vuol evocare il compito immanente all’esser-uomo, incoraggiare l’attuazione di una possibilità latente in ciascuno, attirando insieme l’attenzione sulle prerogative deputate a quel compito e a quella possibilità: appunto libertà e ragione. L’amore ci concerne precipuamente in quanto uomini – è un nostro privilegio – sia come esseri temporali che come libertà extra mondane, che si rapportano all’eterno; e come la nostra libertà conosce dei gradi, ma dispiega la sua efficacia in maniera assolutamente decisiva in rapporto alla Trascendenza, così l’amore ad ogni livello del nostro essere si rende presente ed efficace, ma la sua azione raggiunge l’efficacia più grande sul piano dell’esistenza, perché è nell’amore tra le esistenze che si rivela la Trascendenza, in una sorta di indiretta ma sicura epifania. 2 È quanto riconosce anche J. L. Vieillard-Baron nel suo commento allo scritto jaspersiano, da cui abbiamo tratto il giudizio inserito nel titolo del nostro capitolo. “Affrontare il problema dell’amore nella sua dimensione metafisica, insieme a K. Jaspers, significa dunque in qualche modo riconoscere la nobiltà speculativa del suo stile e l’altezza del suo pensiero; significa prestare attenzione ad uno di quei “salti” della riflessione che sono le intuizioniguida di ogni vero filosofare” (da AA. VV., K. Jaspers Filosofia, scienza, teologia, Morcelliana, Brescia 1983, pp. 108 sgg.).

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L’AMORE IN DELLA VERITÀ: “UN ELOGIO AMPIO E MAESTOSO”

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Inoltre: alle diverse modalità del nostro essere corrispondono – lo si è visto – diverse modalità dell’esser-vero, che la ragione penetra e raccoglie nel suo tendere all’unità; ma l’amore, che dà impulso alla ragione, è condizione sia del pervenire a chiarezza dei diversi modi dell’esser-vero, che di quel movimento inarrestabile grazie al quale, dalla chiarita relatività dei sensi particolari, emerge l’istanza della Verità totale. Al di là dei limiti delle manifestazioni parziali della libertà3, si mostra quella libertà che coincide con la scelta di ciò che siamo; al di là delle forme parziali di verità, la ragione, sotto la spinta dell’amore, sfiora, nei simboli, la realtà dell’eterno; al di là delle modalità finite dell’amore, si prospetta quella modalità infinita che, nella relazione tra due esseri umani, è presenza viva e certa di questo eterno. Il trascendere del pensiero si fa avvertire nella paradossalità degli enunciati che chiarificano. Ad esempio, essendo l’amore “ciò che lega” esso sta alla base del movimento di unificazione, gli dà la spinta; però sta anche al suo culmine, poiché gli dà adempimento; legando, unifica, cioè conferisce unità all’essente, però, al tempo stesso, manifesta l’unità di ciò che lega, come se questa sussistesse prima dell’attività unificatrice; è, insieme, tensione e riposo; è, nell’insoddisfazione costante, pienezza e appagamento (pp. 175-7). Anche l’interpretazione dell’amore in chiave di essere intermedio (p. 206) presupporrebbe che le realtà, tra cui s’instaura la relazione, prima sussistessero separatamente: se non che proprio allora il vincolo è più profondo e creativo, quando le realtà vincolate non sussistono prima e fuori della relazione, ma si costituiscono grazie ad essa e in essa. Le esistenze infatti non sono monadi auto-sussistenti, tra cui si stringa un rapporto amoroso4: bensì sorgono in virtù di esso e si realizzano manifestandosi in esso. Categorie e principi dell’intelletto, quando il pensiero prende di mira l’abbracciante (sinonimo di totalità) o l’origine (ciò che è in grado di conferire da sé senso e valore) subiscono una specie di contraccolpo, che genera locuzioni ossimoriche, asserti circolari, inevitabili tautologie; e l’amore viene 3 Cfr. Filosofia II, cap. 6, pp. 177 sgg.: Jaspers distingue la libertà come sapere, arbitrio, legge e idea, dalla libertà come decisione, rispetto alla quale le precedenti sono solo “presupposti” (p. 180): “decisione è qualcosa che si dà al volere anche come dono, e cioè il fatto che volendo, posso essere autenticamente; qualcosa a partire da cui io posso volere, che io, però non posso più volere” (p. 181). La coincidenza paradossale di libertà e dono nella decisione ritorna, come vedremo, nella “non volontarietà” dell’amore. 4 Contro il monadismo leibniziano v. Filosofia II, cap. 12, pp. 429 sgg. “Le monadi sono il moltiplicarsi della totalità mondana. Ognuna è, anche se con gradi diversi di consapevolezza, tutto. L’esistenza non è per sé e non è tutto, bensì nel suo essere è rivolta all’altra esistenza e in rapporto con la Trascendenza” (p. 432): cioè l’esistenza è sempre già relazione.

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

appunto presentato da Jaspers come un abbracciante (anzi, l’abbracciante che include tutti gli abbraccianti che noi siamo) e come origine, sia di ciò che siamo, che del filosofare, in cui diventiamo ciò che siamo5. In quanto abbracciante, contenendo ogni abbracciante che noi siamo, esso non è una parte o un aspetto particolare della nostra vita, ma è coestensivo all’intero essere nostro, è ciò che conclusivamente, autenticamente siamo: noi siamo amore. Inoltre esso è “la parola per l’origine positiva di ciò che circoscrive tutti gli orizzonti” (p. 171): dall’amore cioè, provengono senso e valore, sia del nostro essere nel suo complesso, sia di tutto ciò che si svolge all’interno dei molteplici orizzonti in cui il nostro essere è articolato: dunque non solo quello che facciamo e siamo entro ciascun orizzonte trae sostanza dall’amore, nelle sue diverse forme; ma la stessa pluridimensionalità che ci struttura diviene comprensibile e apprezzabile nella misura in cui consente all’amore di raccoglierci in unità, di farci diventare sia “unitari” che “unici”, o, se così possiamo dire, unici nella nostra unitarietà6. Però “totalità” e “origine” – intesa, questa, come qualcosa di principiale e non derivato nel tempo – non appartengono alla serie dei fenomeni che incontriamo nel mondo, né, in quanto parole, al linguaggio abilitato a spiegarli: è perciò fin troppo logico che la logica della ragione, con esse impegnata, urti contro la logica dell’intelletto, al punto da dichiararsi, francamente, razionale sì, ma alogica7. Jaspers afferma dunque che il nostro essere, inclusivo di tutto ciò che siamo, altro non è che amore; e che non c’è nulla di ciò che siamo e facciamo che non tragga positivo senso e valore dall’amare. Amore è la nostra consistenza non effimera: amare è il senso dell’esistere, per cui possiamo salvarci sia dalla “desolazione del sapere” che dall’apparenza “che il male stia a fondamento del mondo” e che “ogni realtà, nel corso indefinito del tempo, sia destinata a sprofondare nell’inessenziale” (p. 172). 5

Abbracciante e origine sono espressioni che connotano l’amore in quanto ascrivibile all’ambito del noumenico, cioè come realtà posta al confine di ciò che può essere descritto e conosciuto oggettivamente, e anche di ciò che può essere pensato senza contraddizione. 6 Sinteticamente, in PS, p. 145, Jaspers afferma: “Tutto ciò che in noi ha peso e valore (Gewicht) è, nell’origine, amore” (it., p. 131). 7 Sul tema della “alogica razionale”, come logica propria della filosofia, si può vedere la quarta lezione di Ragione ed esistenza (specialmente pp. 87 sgg.: “Ciò che è conosciuto nella coscienza in generale come logicamente comprensibile, privo di contraddizione, univoco è il razionale in senso ristretto, cioè quel che è commisurato all’intelletto. Quello che invece è alogico – nel senso dell’intelletto – deve essere reso percepibile tramite l’intelletto, però ai suoi limiti, come l’altro, che pure è razionale. Tutto ciò che è alogico in questo modo lo afferriamo solo nel trascendere”). Sullo sviluppo della “alogica razionale” jaspersiana molto ha influito la sua lettura degli scritti di Cusano (v. oltre).

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L’AMORE IN DELLA VERITÀ: “UN ELOGIO AMPIO E MAESTOSO”

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Come si vede sono tesi di notevole audacia, che possono risultare addirittura sconcertanti, se ricordiamo in quali circostanze storiche e personali furono pensate e tradotte in scrittura8. La riflessione di Jaspers prende le mosse, in pianissimo, dalla connessione fra sapere, essere e amare. Il primo verbo viene qui impiegato nella sua accezione più ampia, che va dal conoscere in senso proprio fino a quel comprendere originario – nucleo denso e pulsante da cui s’irradia la visione del mondo – che Jaspers chiama, già nell’opera del ’32, “fede filosofica”. Sapere dunque qui significa aver parte alla verità, prescindendo dai molti modi in cui questo può avvenire. Ora Jaspers fa sua una considerazione non certo nuova nella storia del pensiero, e cioè, appunto, che il nostro aver parte alla verità non può essere staccato da ciò che siamo: nell’apprendimento della verità non è ininfluente l’essere di colui che vuole apprenderla, e tanto più intensa ed estesa sarà la partecipazione del soggetto ad essa, quanto più esteso, aperto, ricco sarà l’essere del soggetto medesimo. Poco conosce e ancor meno comprende chi poco è; ma poco è, chi poco ama: è l’amore infatti che dilata l’essere del soggetto. Viceversa: siccome più è, chi più ama, molto è atto a conoscere e a comprendere, chi molto ama. Si è tentato di compensare l’astrattezza di un sapere separato dall’essere del soggetto pensante con la pretesa superba di svincolarsi dai limiti dell’uomo concretamente esistente; allora il soggetto si è identificato con un io sovrumano, che si muove in un’atmosfera rarefatta, librandosi al di sopra della realtà, e si propone come divinamente creativo. Ma l’ampiezza vera è data dalla consistenza esistenziale guadagnata con l’assunzione lucida delle situazioni-limite, dalla cui angustia non possiamo evadere ritirandoci in 8

Jaspers lavorò a Della Verità nel periodo dell’esilio interno e dell’impotenza di fronte all’orrore. A un giovane, che nel ’38 gli chiedeva per quale ragione continuasse a scrivere, dal momento che non poteva più pubblicare, e che prima o poi i suoi manoscritti sarebbero stati bruciati, rispose: “Non si può mai sapere; scrivere mi dà gioia; quello che penso mi diviene così più chiaro e, infine: dovesse un giorno esserci un rovesciamento, non voglio presentarmi a mani vuote” (Autobiografia, p. 75). G. Mann ironizza – benevolmente – sul fatto che Jaspers avrebbe sempre voluto dare il meglio di sé per “superare il Giudizio Universale” (cit. p. 240). Ci sembrano invece espressione di una commovente fiducia non tanto nell’uomo, quanto nelle possibilità dell’umano, alcune considerazioni dell’Autobiografia, riferite proprio a quel periodo: malgrado tutto, ricorda Jaspers “l’imperturbabilità di alcuni, la fedeltà di esseri umani che amavano, la forza dell’aiutare, dell’esporsi, del prodigarsi, l’accortezza e la cautela nell’impotenza, divennero visibili con lo splendore nascosto della consonanza. Tutto ciò divenne, come mai prima di allora, garanzia dell’autentica umanità, che non doveva venire annientata” (p. 73). L’intero scritto sull’amore ci pare attestazione di una straordinaria fede filosofica.

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

una soggettività puntuale e vuota, mentre potrebbe vincerla una coscienza amante. D’altronde: se il sapere dipende da quello che uno è, vale anche che un sapere, il quale non si trasfondesse in un arricchimento dell’essere di colui che sa, sarebbe un meschino possesso; però ciò tanto più facilmente si ottiene, quanto più il sapere venga conseguito con un coinvolgimento totale del soggetto, coinvolgimento procurato dall’amore. L’amore quindi dilata l’essere del soggetto, perché sia capace di verità; e l’amore con cui si persegue la conoscenza è garanzia che questa arricchisca l’essere del conoscente o, addirittura, lo trasformi. Così l’amore può salvare la volontà di sapere dal degenerare in mera “curiositas”, il sapere dal risolversi in mero “contenuto intellettuale” e il soggetto dal contrarsi in un’astratta, impersonale “egoità pensante”. Nella Psicologia il tema dell’amore veniva affrontato all’interno della presentazione dell’atteggiamento entusiastico – e Jaspers aveva allora dato la preferenza al termine “entusiasmo” perché meno banale e fuorviante del termine “amore”; qui le controindicazioni, dettate dall’uso superficiale e sentimentale della parola, non impediscono al filosofo di servirsene; cionondimeno, l’equivalenza di amore ed entusiasmo si ripropone tale e quale9, cosicché se nell’opera del ’19 l’autore parlava dell’entusiasmo per significare l’amore, qui fa esattamente l’inverso, e trattando dell’amore lo intende, appunto, come entusiasmo. Il segno dell’equivalenza delle due parole nel lessico di Jaspers va cercato non solo nel fatto che, a distanza di quasi tre decenni, egli ancora si lasci sfuggire l’una in luogo dell’altra (per es.: pp. 173, 177, 182, ecc.)10 ma nei contenuti, e cioè nei tratti essenziali dell’amore che sono i medesimi dell’entusiasmo: aspirazione, movimento, elevazione; al punto che se si sostituisce il primo termine con il secondo, specialmente nella “caratterizzazione dell’amore nelle guise dell’abbracciante”, il testo non solo non ne risente, ma acquista in limpidezza e persuasività. Ad esempio l’espressione “entusiasmo della gioia di vivere” (p. 179) dice con chiarezza cosa sia amore nell’ambito della vitalità organica e psichica. “È stupefacente – annota Jaspers nell’Autobiografia (p. 13) – quale amore della salute (Liebe zur Gesundheit) si sviluppi in una condizione di malattia che non è, in sé, progressiva. La salute che resta pure in questo stato diviene tanto più consapevole, gioiosa, forse alla fine quasi più sana della salute 9 Per questo aspetto la filosofia dell’amore di Jaspers sembra potersi collegare soprattutto con il Fedro platonico; dal Simposio (oltre che da Plotino) è invece chiaramente ripresa la scansione dell’amore su più livelli o gradi. 10 Si veda anche Filosofia II, p. 278: “das entusiastiche Streben” (vedi infra, p. 226).

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L’AMORE IN DELLA VERITÀ: “UN ELOGIO AMPIO E MAESTOSO”

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normale” 11. L’individuo sperimenta – in tale orizzonte – l’esaltazione che viene dallo sforzo vittorioso, dall’eccitazione del desiderio, dal rigoglio della corporeità vissuta “in sintonia con la natura”, dalla soddisfazione dell’impulso, dalla distensione del riposo. Che al fondo di questo genere di entusiasmo giaccia – più o meno consapevolmente per chi lo vive – quella ricerca di unità, fecondità, immortalità che contraddistingue l’amore ad ogni livello, risulta pure facilmente comprensibile. Sentendosi tutt’uno con la vita, suo strumento nella procreazione, immortale in virtù di quest’ultima, l’uomo esce dal suo isolamento, e conosce una specie di pienezza che gli svela “splendore e magnificenza del mondo” (p. 179), “la rigogliosa, tripudiante presenza della vita infinitamente creatrice” (p. 192), il valore della vita in sé, pur nel rapido dileguare degli individui. Ugualmente nel giovane che esclama: io amo l’intelligenza! non è difficile riconoscere il giovane Jaspers, che nello studio dell’anatomia, della chimica, della zoologia, riteneva di aver trovato quel terreno solido su cui mettere alla prova la sua volontà di sapere. “Volevo sapere – egli racconta12 negli anni cinquanta – che cosa è realtà. Viaggiare e frequentare persone non bastavano […] Quel che si sperimenta nei laboratori e negli ospedali significava per me, allora, la realtà. Bramavo il contatto con la realtà”. Questo tipo di contatto, però, è assicurato solo dall’intelligenza. Se Platone si entusiasmava per le “ipotesi solide, da cui consegue molto e anche l’essenziale”, il giovane ricercatore di Heidelberg era affascinato dalla molteplicità dei metodi consapevolmente applicati, in grado di garantire risultati sempre relativi, ma sicuramente attendibili. “Presto mi divenne chiaro – ricorda ancora Jaspers – un fine della volontà di sapere: rendersi consapevoli di ciò che si sa, di come e per qual via lo si sa, e di che cosa non si sa […]. Occorre non descrivere un oggetto che si presume di aver stabilmente inquadrato, ma le vie attraverso cui ci rendiamo perspicui i suoi aspetti nelle loro determinazioni particolari”13. L’eros dello scienziato non è, infatti, rivolto alla singola esattezza “che, piuttosto, come tale è indifferente”; è importante, invece, “che qualcosa 11

Questo apprezzamento gioioso della vita rimase nel filosofo fino alla vecchiaia e alle ultime fasi della sua malattia, a causa della quale gli era stata pronosticata una morte precoce. H. Saner, nella sua monografia Rowohlt (Jaspers, cit., p. 121) dopo aver considerato che fu anche frutto dell’esercizio filosofico se da una costituzione fisica precocemente deteriorata fiorì, nonostante tutto, “una vita lunga e felice”, ricorda: “Quando, ormai ridotto quasi solo a vittima sacrificale, consegnata alle mortificazioni degli ultimi mesi di malattia, notò come fosse svanita la sua capacità di pensiero, indicando la testa, disse: ‘Con questa, è finita’, ma aggiunse: ‘però io vivo ancora volentieri’”. 12 In Mein Weg zur Philosophie (ora in Wahrheit und Bewährung, cit., p. 10; it. Verità e Verifica, pp. 16-17). 13 Ivi, p. 11; p. 17.

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possa essere intuito in modo evidente” e, certo, non senza previa riflessione sui metodi appropriati per pervenire a tale esito; quello che è amato è, alla fine, il “cosmo dell’esatto, questo unitario, in sé sussistente mondo di cose reali”, sono le leggi che regolano la realtà mondana o l’ordine bello, che sembra presente nella cosa stessa e non solo nella mente dell’indagatore. Se abbiamo anche solo sentore di un simile ordine, lo dobbiamo all’intelligenza. Anche questo entusiasmo è anelito di unità, nella corrispondenza fra strutture della mente e strutture del reale; è fecondità, per le soluzioni che, ottenute, ne generano sempre di nuove; mentre la stessa intelligenza, tesa a cogliere connessioni intemporali e capace di sollevarsi al di sopra della “tempesta dei mutamenti”, diviene immagine dell’eternità. L’amore nella dimensione dello spirito ha invece il significato dell’appartenenza ad una comunità, del riconoscimento di essere vincolati da quelle che i sociologi contemporanei chiamerebbero “legature” (Dahrendorf), senza le quali la libertà dell’individuo non potrebbe incarnarsi nella vita sociale. Jaspers parla di “idee”, intese qui in senso più hegeliano – ma soprattutto weberiano – che kantiano, cioè costellazioni di valori, principi e convinzioni che troviamo nell’ambiente storico in cui nasciamo e veniamo educati, o che stanno a fondamento di una causa comune, che facciamo nostra14; realtà culturali oggettive che sembrano vivere, nelle istituzioni, di vita propria, e invece resistono alla corrosione del tempo solo fintanto che i singoli le sostengono con la loro dedizione15, e le trasmettono alle generazioni successive. Esse sono il prezioso lascito di un mondo storico, e le loro tracce si trovano ovunque noi volgiamo lo sguardo nell’ambiente plasmato dall’uomo: dagli edifici e dai monumenti allo stesso paesaggio, con la sua fisionomia familiare, inconfondibile, da cui pare ci parli il “genius loci” (p. 182, p. 227)16. 14 È interessante notare come anche le idee, così intese, siano talora inserite da Jaspers fra gli oggetti di fede, per es. in Filosofia II, p. 279 (vedi infra pp. 229-30): “Così io credo in un uomo e credo in realtà oggettive, che sono per me manifestazioni di un’idea di cui partecipo, come ad esempio quelle di patria, del matrimonio, della scienza, della professione. La fede in un’idea che mi anima è l’unità di una causa divenuta comune nel mondo oggettivo. [Tuttavia] soltanto dove l’idea diviene reale negli uomini intesi come esistenze, per cui in essa si crede tramite le loro singole realtà, essa è vera ed efficace”. Dunque sono le esistenze dei singoli a rendere credibili le idee, e le relazioni fra i singoli a mantenerle vive. Riprenderemo questi passi a proposito del matrimonio. 15 È questa l’insuperabile differenza rispetto all’hegelismo: le idee non vivono se non sostenendosi sulle esistenze. 16 Allo “spirito” (Geist) della sua amata Heidelberg Jaspers dedica parole commosse nel bellissimo ritratto della città, che si può ora leggere in una pubblicazione del 1986, ma risale agli anni sessanta. “Molti, che erano qui solo di passaggio, sono diventati heidelberghesi in virtù di una nascosta iniziazione. Molti hanno qui percepito una vivente fiamma, che

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“Le idee – scriveva Jaspers in Filosofia (II, p. 380) – sono quelle delle concrete professioni, delle istituzioni, della nazione, di questo determinato Stato con le caratteristiche naturali e storiche che derivano dalla sua collocazione mondiale”. E aggiungeva, con accenti ancor più marcatamente weberiani, che è in virtù delle idee se un certo Stato ottiene “continuità di volere e di destino”: dunque le idee ispirano e animano, ad esempio, l’impegno politico. Ma Jaspers ha sempre rivolto un’attenzione specifica alle idee che costituiscono l’ethos di alcune professioni a lui care, per averle personalmente esercitate: quella di medico (a cui si collega l’idea della “clinica”) e quella di professore (connessa con l’idea di Università17). “Dove ad esempio – continuava, nelle stesse pagine – va perduta l’idea di medico, le condizioni di tale professione, ridotta ad essere una mera tecnica, vengono arbitrariamente determinate, nella società, sulla base di interessi eterogenei, che ne rovinano interamente la sostanza”. Anche questa è dunque una modalità dell’amore: essa ci spinge a ricercare forme di unità e di fecondità, e una relativa immortalità, attraverso le validità storiche, nella fedeltà alla nostra patria, alle tradizioni della nostra gente18, s’irradia nel mondo […] Ma non è forse nel paesaggio, nella città, nelle rovine del castello che si è reso visibile il genius loci, in una cifra di questo territorio cittadino che colpisce intuitivamente, anche se il pensiero non riesce a svolgerla? […] Le montagne che declinano in lievi ondulazioni, l’ampiezza della pianura, il grande fiume che scorre spingendosi verso il lontano oceano, producono un effetto come se un architetto avesse plasmato questa terra in maniera tale da collocare allo sbocco della vallata la città vecchia, e, a media altezza, il castello in rovina. […] La bellezza singolare di questo monumento, unico nel suo genere, si rivela soltanto quando si veda come edifici e giardini legati al territorio e da esso sostenuti esistano veramente solo in unione con esso, e come, pur nella rovina, divenga percepibile ciò che non si lascia distruggere […].” Infine Jaspers ricorda i versi dedicati da Hölderlin alla città, concludendo: “Quale città può vantare versi simili a questi! La sua nobiltà attesta, tramite Hölderlin, ciò che sta a fondamento dell’umano” (da Heidelberg-Lesebuch, Insel Verlag, Frankfurt am Main 1986, pp. 204 sgg.). Ampi stralci di questo “ritratto” sono riportati anche da N. Sombart (Rendezvous mit dem Weltgeist, cit., pp. 29 sgg.) che affida al venerato maestro il compito di introdurre un capitolo intitolato, appunto, Der Genius Loci. 17 Per la seconda, vedi capitolo precedente, nota 69. Anche Ernst Mayer, prima compagno di studi e poi cognato di Jaspers, divenne medico, e portò nell’esercizio della medicina quell’amore per la filosofia che aveva condiviso con Karl. Di lui Jaspers dichiara che “l’essere medico era la sua filosofia concreta” (Autobiografia p. 50). Un’antologia di scritti jaspersiani sull’idea di medico è Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina, Milano 1993. 18 Jaspers non manca mai di far riferimento, negli scritti autobiografici, al proprio legame con la gente del Nord, discendente dagli antichi Frisoni, la cui fierezza di carattere è esaltata anche in Filosofia I, nel capitolo dedicato ai rapporti fra religione e filosofia, con il seguente aneddoto, che rimanda all’epoca della conquista del territorio da parte dei carolingi e del-

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nel servizio reso alle istituzioni, nelle professioni e nella salvaguardia delle opere ereditate dagli avi. Ad ogni livello condizione di fecondità è la ricomposizione di un’unità: dell’individuo vivente con la vita, del soggetto intellettuale con l’ordine oggettivo e l’intelligenza, della personalità spirituale con il suo mondo storico e con l’idea. Ogni unità rimanda ad una unità più alta, ma solo nella relazione amorosa tra esistenze si rende presente quell’Uno-Unico che, benché incomparabile con l’esistenza, solo in essa può manifestarsi. Nella sfera dell’immanenza l’unità – e le relative forme di fecondità e immortalità- sono sempre conseguite con il sacrificio dell’individuo a qualche universale: la specie, l’intelligenza, l’idea; solo nell’amore tra esistenze unità è anche sinonimo di unicità e questa, a sua volta, di assoluta insostituibilità. Tu ed io non siamo, qui, rappresentanti di una categoria, di un genere o di una classe: ma ognuno è quell’unico, senza il quale l’altro non perverrebbe a se stesso, cioè non diverrebbe ciò che eternamente è, confluenza irripetibile di destino e volontà. Solo dov’è vita è fecondità: e se c’è fecondità, c’è anche una qualche forma di vittoria sullo scorrimento inesorabile del tempo. L’amore, vita nella vita, vita dell’intelligenza, vita dello spirito19 e slancio entusiastico, in cui reciprocamente si generano le esistenze, aspira dunque, in ultima istanza, a sconfiggere la morte, anzi è questa stessa aspirazione, che culmina nell’unità raggiunta da ciascuno dei singoli nell’ipseità, e da entrambi, mediante il rapporto incondizionato, con la Trascendenza, ove il tempo si arresta, e la quiete non è assenza di vita,

l’imposizione forzata del cristianesimo: “Quando uno dei capi Frisoni […] sul punto di essere battezzato chiese, all’ultimo istante, se in Paradiso avrebbe incontrato suo padre e i suoi antenati, gli fu risposto di no […] perché in quanto pagani, stavano all’inferno; egli allora si ritrasse con le parole: io voglio essere dove sono i miei padri.” In questo gesto, commenta Jaspers, si riconoscono una scelta esistenziale e un atteggiamento filosofico “che si attua nel mondo in forma di determinati, ineliminabili rapporti di fedeltà” (ivi, p. 317). 19 Nello stesso anno della conferenza sullo “spirito” europeo (cit.) Jaspers pronunciava all’Università di Heidelberg – finalmente libera – un ampio discorso sul “vivente spirito dell’Università”. “Vita e spirito – dichiarava in apertura –sono stati già da lungo tempo ricondotti ad unità, sia interpretando come vita il nucleo essenziale dello spirito, che facendo valere lo spirito come nucleo essenziale della vita”. E richiamandosi al Goethe del Divano occidentaleorientale, ne riportava i versi della canzone di Suleika, ispirata dall’amore: “Denn die Liebe ist das Leben, und des Lebens Leben Geist” (ora in Rechenschaft und Ausblick, Piper 1958, pp. 186-217). Con la caduta del totalitarismo, sembrava a Jaspers che il soffio vivo e vivificante dello “spirito” potesse tornare a manifestarsi nella realtà dell’Università. Sui temi dell’educazione e dell’Università in Jaspers, si può vedere A. Giustino Vitolo, Il compito dell’Università nell’età della tecnica, ed. Luciano, Napoli 2005.

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ma pienezza. È questa esperienza ad aprire alle anime una prospettiva di immortalità reale, senza perdita delle singolarità: “Noi siamo mortali come meri Esserci, immortali invece, se appariamo nel tempo come ciò che è eterno. Siamo mortali se restiamo vuoti d’amore, immortali se amiamo.” (PS, p. 165; p. 149). Le rappresentazioni della filosofia – e non solo in Platone – ci incoraggiano a credere; ma è grazie all’amore esistenziale che sperimentiamo la certezza – per quanto oggettivamente indimostrabile. “Morendo andiamo verso i morti che abbiamo amato. Essi ci accolgono nella loro cerchia. Non ci accoglie il vuoto del nulla, ma la pienezza della vita veracemente vissuta. Ci inoltriamo in uno spazio d’amore, rischiarato dalla verità” (PS, p. 169; pp. 152-53). Il volto dell’autenticamente amato in cui risplende l’essere stesso (p. 183)20 non è soltanto quello della moglie, cui il “colpo di fulmine” della giovinezza lo aveva avvinto per sempre, e a proposito della quale Jaspers sostiene non esserci nulla di così “utopico” nella sua filosofia dell’amore, da non rispecchiare la realtà con lei vissuta; ma è, altresì, il volto del fidato compagno di studi, fin dall’inizio “amico nella sostanza stessa della filosofia”21, o quello dell’uomo “grande”, il cui modello può essere assunto come guida22. Proprio quest’ultimo tipo di relazione può far sorgere il dubbio se valga ancora per l’amore esistenziale quel criterio del “collocarsi sullo stesso piano” che si presentava per la prima volta nelle riflessioni dello psichiatra e che veniva poi ribadito con forza in Filosofia, dove la comunicazione che 20

“Chi ama non si trova oltre il sensibile, in un aldilà da esso, anzi il suo amore è la sicura presenza della Trascendenza nell’immanenza, il meraviglioso qui ed ora: egli crede di scorgere il sovra-sensibile” (vedi infra, p. 226). 21 Si tratta di Ernst Mayer, conosciuto prima di Gertrud, durante una lezione di anatomia. “La mia opera fondamentale – confessa Jaspers – non è per me pensabile senza Ernst Mayer.” Con lui, aggiunge “è collegata questa per me infinita felicità, di non aver trovato soltanto un partner nel filosofare, con riferimento alle questioni e ai temi, bensì un amico nella sostanza stessa della filosofia” (Schicksal, p. 31). “Al ricordo del mio amico Ernst Mayer” è dedicata la monografia su Schelling (1955). 22 “Nella direzione dell’essere umano personale, noi esperiamo la prossimità delle figure che ci colpiscono come modelli per il nostro essere, o guide per la nostra vita”. Sulle “figure di umana grandezza” pagine molto dense – solo in parte già citate nel cap. precedente – in Filosofia II, pp. 403-407. “Non è una casuale malasorte – osserva Jaspers – che oggi sull’intero globo nessuno possa trovare seriamente un genio, che i profeti giochino un ruolo comico per i contemporanei, massimamente in circoli settari, e che chiamare qualcuno saggio suoni come un modo di dire. Se però ci imbattiamo in qualcuno che sia per noi presenza e misura dell’umano, sembra inadeguato definirlo genio, saggio o profeta, perché la sua sostanza non consegue una forma universale; gli sono essenzialmente propri, piuttosto, anonimato e invisibilità”. Fra le figure ammirate da Jaspers spicca comunque sempre quella di M. Weber.

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scaturiva dall’amore in tanto ne attestava l’autenticità, in quanto non ammetteva disparità di livello tra i comunicanti. Vi sono rapporti d’amore in cui il dislivello sembra ineliminabile: si pensi all’amore del genitore per il figlio, che dipende da lui; o del figlio per i genitori23; o, appunto, al rapporto tra un uomo ed un altro che il primo ammira. Occorre sottolineare, però, che Jaspers non alludeva, allora, a una condizione fattuale, bensì enunciava un’esigenza di principio, cui non pare, ora, propenso a rinunciare. Tale esigenza si potrebbe forse formulare così: amare significa riconoscere l’altro come essere potenzialmente libero – e parimenti se stessi. Il collocarsi sullo stesso piano sarebbe cioè una sorta di idea regolativa: sia abdicare a se stessi, che cercare di indurre l’altro a farlo, equivale a non amare. Dunque anche quando la situazione reale implica disparità, la parità di diritto può essere presente o come auto-limitazione del più “forte” – che non si avvale della propria superiorità per assoggettare o creare dipendenza perpetua; o, inversamente, come atteggiamento auto-responsabile di chi venera e ammira, per il quale “l’autorità amata”, e l’amore reverenziale, sono sollecitazioni a trovarsi24, e non pretesto per perdersi. 23 All’amore verso i genitori, nella situazione-limite rappresentata dalla “determinatezza del mio inizio”, sono dedicate belle considerazioni in Filosofia II, pp. 215-16. Jaspers distingue la provenienza oggettiva dell’individuo, nella serie indefinita delle generazioni, da quella esistenziale, assunta nel rapporto con i propri genitori: “Il mio rapporto con la mia provenienza comincia quando, divenuto ormai quello che sono attraverso di essa, ne divengo consapevole. Vi è in essa qualcosa che è immutabile ma non in senso oggettivo, qualcosa per cui o nella fedeltà sono me stesso, oppure, nel rinnegamento, vado a perdermi: “un essere che disprezza il proprio ceppo, non può essere solidamente definito in se stesso”. Non sono stato io a determinare i miei genitori, scegliendoli, però essi sono i miei in senso assoluto. Quand’anche lo volessi, non posso ignorarli, la loro essenza, pur se dovesse apparirmi estranea, resta in intima comunione con la mia. Da ciò si sviluppa la mia coscienza esistenziale in una corresponsabilità per il loro essere che non ha bisogno di giustificazioni, oppure in un’insanabile rottura alle radici della mia esistenza”. I genitori sono esseri “anche loro esistenti per me che sono esistenza possibile”; si compie perciò “da parte loro nei miei confronti e da parte mia verso di loro un processo di reciproca appartenenza in una comunicazione reale o, almeno, sempre possibile” […]. L’amore è il fondamento incondizionato, mai posto in discussione, del processo. La pietas verso i genitori rimane, “persino quando la situazione costringe a rinunziare alla comunicazione”. Infatti “sono grato ai genitori per me, se sono contento della mia vita; li amo, anche se dispero della vita; giacché alla fine ogni uomo ha vissuto volentieri almeno una volta, pure se si è tolto la vita”. 24 L’amore, infatti “è presente nello sguardo colmo di venerazione, ma degenera nella dipendenza prodotta dal culto dell’autorità” (vedi infra, p. 227). Giustamente K. Salamun sottolinea che l’egual rango dei partner – nella comunicazione e nell’amore – si fonda nella comune “possibiltà di realizzazione esistenziale” (vedi K. Salamun Karl Jaspers Königshausen & Neumann, Würzburg 2006, p. 63, cors. nostro).

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È pure necessario ricordare che l’amore tra le esistenze non dovrebbe venir collocato accanto ai diversi affetti della cui trama è intessuta la nostra quotidianità: ad esempio l’affetto coniugale, amicale, filiale, genitoriale, e così via. È piuttosto un amore che, permeando tutti questi affetti, vivificandoli e sostanziandoli, verrebbe ad esprimersi in essi, purificandoli dalla mescolanza con istinti di possesso o di dominio, o viceversa, dalla tendenza a lasciarsi sottomettere, e ne impedirebbe così la degenerazione25. Si può volere l’amore? Non essendo oggetto di un conoscere, l’amore non è neanche oggetto di un possibile volere: quindi non è qualcosa che possiamo proporci come scopo, che possiamo progettare o pianificare. Nemmeno può esser fatto coincidere con la volontà (Agostino). Certo, esso ha a che fare soprattutto con la volontà: in questo senso somiglia alla libertà, di cui dobbiamo dire che se c’è non è per nostro merito – perché non possiamo semplicemente volerla26 –, ma se non c’è, è per nostra colpa, perché non la vogliamo. Ugualmente dell’amore si dovrebbe dire: se vivo in esso e da esso non è per mio merito, ma se non amo, è mia colpa. L’amore è, rispetto 25 In questo senso – e con le dovute cautele – è possibile paragonare l’amore esistenziale di Jaspers con l’amore soprannaturale di Kierkegaard – o amore agapico – che entra negli affetti naturali e, permeandoli, li valorizza e li rettifica. Nonostante il paradigma adottato da Jaspers sia, di preferenza, quello platonico dell’eros come aspirazione, nel caso dell’amore tra esistenze egli recupera anche quello del dono, dal momento che scrive “amore è divenir se stessi e donare se stessi. Quando io mi do veramente in modo totale, senza riserva alcuna, trovo me stesso” (infra, p. 226). Del resto l’amore di aspirazione o di bisogno è tutt’altro che assente negli scritti di Kierkegaard, tanto negli Pseudonimi che negli Scritti edificanti. 26 L’uomo non è il creatore di se stesso, nemmeno come esistenza e libertà. Riportiamo alcuni asserti che toccano questo aspetto davvero cruciale nel pensiero di Jaspers: “Come io non ci sono senza mondo, non sono me stesso senza Trascendenza […] Perciò il Sé è certo di sé, senza poterlo giustificare, solo in rapporto alla Trascendenza, senza la quale esso scivola nell’abisso del nulla” (Filosofia II, pp. 48-49). “Nella misura in cui sono libero, sperimento nella mia libertà, ma anche solo tramite essa, la Trascendenza […]. Proprio all’origine della mia ipseità, in cui penso di oltrepassare la necessità della natura e anche quella della legge morale, son certo di non essermi creato. Se ritorno su me stesso, come ipseità autentica, nell’oscurità del mio volere originario, che si può solo chiarificare e mai del tutto, allora mi si può manifestare che: quando sono interamente me stesso, io non sono più solo me stesso […]. Dove fui autentico nel volere, fui al contempo donato nella mia libertà” (ivi, p. 199). Resta comunque che per Jaspers, come per Kant e Kierkegaard, il velle (e non il nosse) apre l’accesso all’essere autentico: “Nella realtà temporale conosco solo il reale oggettivo, come mi si mostra nell’orientazione nel mondo, e non l’essere nella sua eternità. Proprio perché non so, però, mi è giocoforza volere. Solo al mio volere può rendersi manifesto l’essere, inafferrabile al sapere. Il non-sapere è l’origine del dover-volere…” (ibid., p. 191). Ma come in Kant il volere deve essere integrato dalla ragione (pratica) e in Kierkegaard dalla grazia, in Jaspers deve essere integrato dall’eros.

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alla volontà, un abbracciante: la sostiene, la vivifica, la sospinge verso l’alto: non è il mero prodotto del suo sforzo27. In quanto abbracciante la trascende, e perciò non può essere un suo effetto. Come origine la rende buona, cosicché, fra gli uomini, esso è la più perfetta realizzazione del bene incondizionato28. Il fatto è che, pur essendo umano – anzi, per Jaspers, non solo precipuamente, ma esclusivamente tale – l’amore eccede l’uomo. Come siamo donati a noi stessi, nella nostra libertà, così siamo donati a noi stessi nel nostro amore. Come la volontà non può produrre da sé la decisione che la rende libera, ma può solo liberamente volere a partire da essa29; così la volontà non può produrre da sé l’amore che la rende buona, ma deve anzitutto lasciarsi pervadere dall’amore, per volere in grazia di esso. In certo modo l’amore è dato, come gli impulsi e gli istinti che troviamo nella nostra costituzione di esseri naturali; ma, a differenza di questi, non può in nessun modo esercitare il suo potere su di noi, se non gli corrispondiamo attivamente con la nostra libertà, consentendogli di sollevarci30. L’amore è, in definitiva, la forza attrattiva esercitata dall’Uno sul nostro essere: possiamo opporle una sorda resistenza, uno spirito di gravità, un’impermeabilità feroce, il rifiuto. Però esso non è preda della volontà – piuttosto la volontà è sua preda; così nemmeno si può dire che amare sia un “dovere”, anche se vi sono certo 27 Si noti che Jaspers non dice che l’impegno della volontà – e anche il suo sforzo – non abbiano alcun ruolo nell’amare; ciò sarebbe in contrasto con la sua esaltazione della “lotta amorosa” e, in fondo, anche con l’interpretazione dell’amore come incessante aspirazione (Streben). Però se l’amore si risolvesse in uno sforzo della volontà non avrebbe alcuna valenza metafisica. Si ha qui una certa analogia con Kierkegaard che, soprattutto nel Diario, esalta la fede come sforzo, ma, al contempo, si guarda bene dal ridurla a questo: “Lo sforzo più grande possibile – per un nulla: ecco il paradosso più grande possibile. Ma così è, se è vero che è solo e solamente “grazia”, nonostante tutto…” (volume 9, p. 168, n. 3691). 28 Ne L’incondizionatezza del bene e il male (1946) Jaspers distingue tre livelli di bene: il livello morale (dovere contro inclinazione); quello etico (subordinazione del condizionato all’incondizionato) e quello metafisico (amore contro odio). Su quest’ultimo livello il male è “volontà di male, cioè: la volontà di distruzione come tale, l’impulso a torturare, alla crudeltà, all’annientamento, la volontà nichilistica di degradare ogni cosa, ciò che è e che ha valore. Bene, all’opposto, è quell’incondizionato che è l’amore, e, con esso, la volontà d’essere” (da Das Wagnis der Freiheit, Piper 1996, p. 87; corsivo nostro). 29 Vedi nota 3. 30 Vale, in definitiva, anche per l’amore quel che Jaspers scrive in Risposta alla domanda: di quali forze vive?: “Noi siamo donati a noi stessi – così diciamo esprimendo in forma simbolica ciò che è reale come paradosso: siamo donati a noi stessi, certamente, ma dipende da noi (es liegt an uns) se siamo donati a noi stessi. Non è qualcosa che avvenga da sé, qualcosa d’altro o di estraneo rispetto a noi. È vano restare semplicemente in attesa. Quello che ci colpisce, è preparato da noi stessi. Ciò che ci accade come evento, caso fortuito o occasione diventa reale nella misura in cui lo facciamo nostro” (Wahrheit und Bewährung, cit., p. 211; p. 237).

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dei doveri, che conseguono dall’amare, e sono appunto quelle azioni31 nelle quali l’amore si rende visibile nel mondo, e compiendo le quali ci manteniamo coerenti con esso e docili alla sua divina ispirazione. È evidente che Jaspers intende qui contrastare il moralizzamento dell’amore, che consisterebbe nel ridurlo a comando o precetto di condotta, privandolo però del suo spessore metafisico. Nemmeno si tratta di rivendicarne la spontaneità in senso psicologico, come in fondo fa Kant quando, nella seconda Critica, osserva che non si può comandare di fare qualcosa volentieri 32. La spontaneità dell’amare è piuttosto quella della coscienza che si innalza, e innalzandosi vede33 e ama, senza che nessuno glielo comandi. Ma l’innalzamento stesso non è automatico, e lo slancio conosce delle cadute, nonché le interferenze dell’egoismo che schiaccia e trattiene. Diversamente stanno le cose nel cristianesimo, dove però è anzitutto Dio che ama, e l’amore dell’uomo credente è partecipazione all’amore stesso di Dio, tramite la fede. Il “comandamento dell’amore” significa, allora, invito all’imitazione, nella sequela. Nell’amore di coppia si presenta – quasi prodigio nel prodigio34 – la possibilità effettiva dell’integrazione di tutte le modalità dell’amore (vitale, intellettuale, spirituale, esistenziale). Il concretarsi di questa possibilità rende evidenti due esigenze, ugualmente importanti: la prima è che una certa integrazione delle diverse forme è indispensabile perché l’uomo consegua sia l’unità con se stesso che l’autenticità nell’amare; la seconda – connessa alla prima – è che l’integrazione dipende dal rapporto con l’Unità originaria della Trascendenza, e che dunque solo se attinge il livello metafisico dell’amore tra le esistenze egli può sperare di riuscire, almeno in parte, in tale impresa. 31

Kierkegaard parlava, in proposito, degli Atti dell’amore (ted.: Der Liebe Tun). “Amare Dio significa […] eseguire volentieri i suoi comandi; amare il prossimo, esercitare volentieri tutti i doveri verso di esso. Ma […] un comando […] di far qualcosa volentieri è, in sé, contraddittorio.” Kant risolve la contraddizione, com’è noto, interpretando il comando come ingiunzione di tendervi incessantemente (bloß danach zu streben), cioè di sforzarsi almeno di farlo (Cr. R. Pr. Parte I, libro I, sezione III, p. 181). 33 Poiché però solo uno sguardo purificato “vede”, bisogna “lasciarsi guidare” e “purificarsi nell’abbandono a ciò che è puro” (Dell’amore, p. 176). La volontà dunque è chiamata a questo “abbandono” e a questa dedizione, che purificano. 34 L’amore tra i sessi (o amore di coppia, come preferiamo dire) non è l’amore tout court, né, tanto meno, l’origine di tutto ciò che si chiama amore (PS, pp. 146-7; pp. 132-133). Però l’equivoco è comprensibile, perché in nessuna esperienza è possibile, come in esso, vivere l’amore nella sua integralità, cioè come integrazione di tutte le dimensioni dell’essere e dell’amare, immanenti e trascendenti. Da ciò – non dal fatto che tutti gli “amori” derivino da esso – la sua funzione simbolica, persino nella letteratura mistica. 32

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

L’amore di coppia è qui interpretato, dunque, in una prospettiva fortemente simbolica: è in certo modo il prototipo dell’amore totale, unitario, integrale. Invece nella Psicologia il discorso ruotava attorno a una questione, così espressa: siccome la sessualità, qua talis, “ignora ogni scelta (ist wahllos)” e l’erotica è “quantomeno poligama”, come può l’amore “costringerle entrambe nella monogamia?” 35. La risposta allora suggerita consisteva nel rammentare che “ogni forma di entusiasmo ha il senso dell’unità, ed è questo senso a plasmare la personalità, che può esistere in maniera entusiastica solo innalzandosi in un’unica direzione, servendosi della volontà quale strumento per limitare tutte le passioni e le forze pulsionali, inserendole in un ordine gerarchico”. Ne deriverebbe che “l’amore può prosperare come amore solamente nell’unico amore, altrimenti finirà, disperatamente, nell’erotica, che potrà anche essere esaltante e inebriante, ma manca di entusiasmo, ed è talora scettica, talaltra cinica.” Quello che, nell’amore di coppia, mette fuori gioco la poligamia dell’erotica “ha un’origine metafisica” e “l’irradiazione del metafisico l’uomo singolo può sperimentarla una sola volta”, cosicché la prima è anche l’unica. “Ciò che sul piano estetico è la mera irripetibilità della prima esperienza e la fissazione in essa è, in questa esperienza metafisica, il compimento nell’Assoluto unico”36. Tra le analisi degli anni venti e il saggio sull’amore si inseriscono tuttavia le pagine di Filosofia II e III, dedicate al significato esistenziale dell’“uno”. Grazie ad esse la domanda posta da Psicologia trova una risposta più persuasiva, ma soprattutto ottiene un miglior chiarimento quell’“esperienza metafisica” che già lo psicologo collocava a fondamento dell’amore monogamico. La conclusione ideale di questo movimento interpretativo si troverà in Cifre della 35 Psicologia, pp. 131 e sgg.; pp. 154 sgg. “Non è possibile capire fino in fondo – rilevava allora Jaspers – perché nell’esperienza erotica, attraverso l’amore, intervenga questa esclusione”, che limita il rapporto ad un solo partner. “Si può pensare: siccome la sessualità e l’erotica sono avvertiti come in sé privi di dignità, si può ottenere dignità solo mediante una legge rigorosissima; questa legge deve essere necessariamente interiore, e tale può diventare solo tramite il rapporto di comprensione tra due esseri umani, che toglie ogni distanza; si è penetrati nel santuario più intimo e si può ottenere dignità solo se vi è posto un assoluto”. Si noti che qui Jaspers intendeva per monogamia non già il matrimonio, ma quella relazione unica in cui l’amato, pur essendo “una creatura finita, che muta e muore”, è visto come “simbolo dell’infinito e del tutto”. 36 Così, mentre “la fiamma creatrice dell’erotica si ripete e passa”, il rapporto tra i sessi, in virtù dell’amore, può rappresentare “il destino decisivo di un uomo. Che si tratti di amore si mostra in ciò, che, malgrado l’esclusività della relazione, l’amante sente crescere ovunque il suo amore, mentre il mondo e gli uomini gli sembrano ovunque risplendere; però in maniera tale che un’unica personalità dell’altro sesso resta per lui il centro” (ivi, p. 132; p. 155).

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L’AMORE IN DELLA VERITÀ: “UN ELOGIO AMPIO E MAESTOSO”

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Trascendenza, dove la monogamia, metafisicamente fondata, verrà proposta esplicitamente addirittura come cifra dell’Uno originario e trascendente. Affrontando il tema dell’agire nel mondo, in quanto agire incondizionato, Jaspers presenta nel secondo volume di Filosofia (cap. 9) l’esperienza esistenziale dell’uno (das Eine), nella quale l’uomo si salva dalla dispersione nelle incombenze mondane, e dalla indefinitezza delle possibilità, e realizza una vera incondizionatezza. L’uno esistenziale non è in alcun modo l’uno numerico, ma è un’unità qualitativa che dà forma alla vita. Esso raccoglie il molteplice, conferendogli senso, ma non lo annulla; viceversa il molteplice, senza la forza sintetica dell’uno, produrrebbe un vortice dissolutore, che annienterebbe la personalità. La mia identità, se restassi indefinitamente coinvolto nel molteplice, sarebbe infatti solo apparente e “dileguerebbe con gli affari in cui sono di volta in volta immerso”. Viceversa “afferrare l’uno significa: essere senza riserve totalmente in esso, e divenire identico con sé, avendo l’Esserci soltanto come luogo di manifestazione”. Nel molteplice tutto scorre via, vivendo “giorno per giorno”, afferrando “ora questo, ora quello”37; invece grazie all’uno, il Sé “è ora, per dir così, impiantato nella realtà”, mentre il suo Esserci ed il suo agire nel mondo “acquistano il carattere della insostituibilità”(ivi, p. 334). Naturalmente per ciascuna esistenza si presenta, di volta in volta, la questione che tocca il suo proprio essere, cioè “dove si riveli la sua unità”, vale a dire in quali concrete esperienze, situazioni e azioni tale unità sia colta, e se sia colta in più modalità e relazioni. Infatti “quell’uno, nel quale pervengo a me stesso dalla dispersione, è, di nuovo, molti uno, nella misura in cui ciascuno di essi, pur eterogeneo rispetto agli altri, rappresenta, nell’esistenza, l’incondizionato”. Ad esempio: “l’idea unitaria della professione, l’unica donna, l’unica patria, l’unico amico: ogni volta l’uno ha un senso diverso e una relatività che di nuovo gli appartiene nella manifestazione”. Quando parliamo di “monogamia” o di “servire un solo signore” – prosegue Jaspers – il nostro pensiero si orienta inevitabilmente nella direzione dell’uno numerico. Ma così restiamo agganciati al fenomeno, “nel quale uno significa proprio un essere fra i molti”. È chiaro che anche l’uno in senso noumenico (ed esistenziale) comporta esclusione: ma si tratta di un’esclusione alla cui base non stanno motivi oggettivi, esteriori. La verità dell’uno esistenziale “non è conosciuta concettualmente, ma viene realizzata nell’incondizionatezza [dell’agire] e chia37 Evidente il richiamo alla concezione estetica della vita in Enten-Eller di Kierkegaard. Le affermazioni qui riportate, nella nostra traduzione, sono alle pp. 334 e sgg. di Filosofia II.

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rificata nel filosofare”38. Un esempio di sovrapposizione dell’uno oggettivo all’uno esistenziale si può vedere – osserva il filosofo – proprio nel caso della monogamia: una cosa è il concetto di monogamia riconducibile a un principio morale, un’altra “l’uno come sostanza del se stesso, con riferimento trascendente, nell’amore tra i sessi” (ivi, p. 335). Il senso profondo, metafisico della monogamia è assolutamente interiore, oggettivamente inesprimibile, e non può nemmeno essere confuso con l’adesione a una norma morale, per quanto rispettabile; allo stesso modo – diremmo noi – che la condotta di Abramo e la sua “giustizia”, per Kierkegaard, non potevano esser confusi con la conformità a un principio dell’etica, perché eccedenti il “generale”. Quel senso può trovarsi solo nel conseguimento dell’unità del se stesso: unità insieme sostanziale e storica, non mera concordanza formale assicurata dall’adozione di una massima universalmente valida39. Nel terzo volume di Filosofia, poi, dopo aver sottolineato come l’uno esistenziale sia “cammino verso la Trascendenza”, e come la sua intima segretezza rappresenti per l’esistente proprio “la certezza di trovarsi in rapporto con essa”, Jaspers aggiunge: “l’uno è il cuore pulsante nella finitezza della vita, raggio dell’unica, inaccessibile Luce; ogni uomo ha il suo proprio, che gli diviene chiaro nella comunicazione. Se nell’immagine tutti i raggi provengono dall’unica divinità, l’unico Dio non diviene, però, una Trascendenza oggettiva, valida per tutti. Egli vale solo, di volta in volta, come il pulsare dell’uno per un’esistenza che, nell’uno, trascende” (ivi, p. 118). Inoltre, riferendosi al rapporto fra uno esistenziale e amore, annota: “Solo chi non ha mai sfiorato l’uno, e tiene per assoluta la positività della multiforme realtà oggettiva, ammette come possibile la sostituibilità di ogni 38 In Filosofia III, tornando sul tema dell’uno esistenziale, Jaspers ribadisce che “l’uno è tanto insondabile quando indicibile; ogni espressione coglie soltanto un’unità esteriore, e ne è un’oggettivazione nella finitezza” (cap. 3, p. 118). 39 L’uno esistenziale, che viene a coincidere con l’ipseità, ha una consistenza metafisica e non puramente morale. Ciò non toglie che Jaspers possa riscontrare un’analogia con esso nel carattere come “modo di pensare” di Kant – della cui fondazione si dice nell’Antropologia (1798) – carattere che talora egli assume ad esempio di unità esistenziale (cfr. Ragione e antiragione, cit., pp. 43-44; trad. it. pp. 53-54). Jaspers riconduce sempre a un processo di oggettivazione – in chiave estetica, anziché morale – del senso assoluto della monogamia pure l’interpretazione secondo cui Don Giovanni ricercherebbe, nell’avvicendarsi degli amori, “il vero cammino verso l’uno [femminino]”cioè perseguirebbe l’obiettivo dell’unica bellezza muliebre “attraverso le sue infinite figure”; equivoca è anche la pretesa di spiegare una monogamia di fatto con la conquista dell’uno esistenziale, perché “il matrimonio è solo una possibile estrinsecazione oggettiva in cui può manifestarsi l’esistere, ma proprio in quanto oggettiva, di per sé non dimostra nulla”(Filosofia II, p. 335).

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L’AMORE IN DELLA VERITÀ: “UN ELOGIO AMPIO E MAESTOSO”

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essere e perciò, volendo eludere la morte, può dire: sarebbe opportuno non affidare troppo il proprio cuore, nella vita, a un solo uomo o ad una sola causa, ma assicurarsi un campo più vasto nell’amare, volgendosi a più esseri umani, e a più cose. Infatti se per la perdita di un singolo essere tutto dovesse venir messo in questione, la morte e la rovina dell’altro finirebbero per colpire troppo la vita propria, anzi l’annienterebbero. Ci si deve preservare distribuendo il proprio amore e nulla amando troppo”. È questo, conclude, il modo di pensare (Denkungsart) più radicalmente opposto “all’esperienza della Trascendenza nell’uno, esperienza grazie alla quale l’esistenza si pone come identica con se stessa nel fenomeno, ma oltrepassa il fenomeno abbracciandolo”. Nel quadro tratteggiato dallo scritto del ’47, accanto alla sessualità come mera pulsione vitale40 e all’erotica, che ne costituisce il raffinamento, mediato dallo sviluppo della cultura41, anche il matrimonio ottiene finalmente una precisa collocazione, al di sopra dell’erotica che – per quanto fenomeno squisitamente umano – resta, come nella Psicologia, “unerst” e “amethaphysic”,

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Tuttavia un segno che la sessualità dell’uomo è inconfondibile con quella puramente animale è l’imbarazzo che egli prova “come se vi fosse nella sessualità qualcosa che gli sottrarrebbe dignità”, donde il sentimento – rivelativo – del pudore e l’impossibilità di viverla in totalmente sciolta naturalezza (PS, p. 147; p. 132). “L’uomo è sotto il profilo psicofisico una delle specie animali – chiarisce Jaspers – però non può realizzare il suo essere vitale in forma solo biologica, aproblematica, come l’animale”. Tesi che pare l’applicazione alla sfera della sessualità dell’assioma kierkegaardiano enunciato ne Il concetto dell’angoscia: pure nella condizione d’innocenza, l’uomo “non è un mero animale, così come del resto, in generale, se in qualunque momento del suo vivere egli fosse un semplice animale, mai potrebbe diventare un uomo.” (ivi, p. 42, corsivo nostro). Per Kierkegaard è l’angoscia il sentimento rivelativo della presenza dello spirito “dormiente” anche nello stato di completa innocenza. L’angoscia poi, sempre per Kierkegaard, è particolarmente presente “in eroticis”, a causa del grande paradosso rappresentato dal fatto che un essere spirituale sia determinato sessualmente, e più fortemente nella donna, perché in lei la sintesi fra parte naturale e spirito è più difficile, data la maggior sensualità femminile, e anche perché il rapporto erotico la coinvolge in maniera totalizzante, o comunque molto più di quanto non avvenga per l’uomo. Sul tema del pudore il richiamo è a M. Scheler, Pudore e sentimento del pudore (postumo, 1933), Guida, Napoli 1979. 41 In PS Jaspers cita, a questo proposito, il Kamasutra e l’Ars amandi di Ovidio. Come Kierkegaard, anche Jaspers individua il senso peculiare del gioco erotico nell’accensione del desiderio, più che nel suo soddisfacimento. L’arte consiste nel riuscire a trovare sempre nuovi stimoli, donde la necessità di variare anche il partner: è l’eccitamento che è goduto in se stesso, e il gioco che sa portarlo al parossismo, mentre “l’appagamento è, per così dire, insulso”. La separazione completa del gioco della seduzione dall’appagamento si ha, come noto, nel rapporto di Giovanni con Cordelia nel Diario del seduttore. Si vedano però – sempre in Enten-Eller – anche Gli stadi erotici immediati, dov’è appunto la musica – in particolare quella di Mozart – l’unica forma d’arte capace d’esprimere con immediatezza l’istantaneo, gioioso e fugace zampillare del desiderio.

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cioè caratterizzata dalla mancanza di serietà e di spessore metafisico42, ma al di sotto dell’amore metafisico, la cui serietà non è né etica né giuridica, bensì esistenziale. Occorre però riconoscere che il lettore non sarebbe in grado di comprendere appieno il pensiero di Jaspers sul matrimonio se a ciò che qui vien detto non si aggiungessero considerazioni riprese da altre opere43, e che il coordinamento fra i diversi asserti jaspersiani sull’argomento richiede un certo sforzo interpretativo. A differenza di quel che accade nell’erotica – leggiamo per esempio in Piccola Scuola – nel matrimonio si cerca, essenzialmente, “durata”: “coloro che si amano vogliono dare insieme forma alla quotidianità in una comunità domestica e non tornare a separarsi in base alle circostanze e a nuove esperienze (Erlebnisse)”. Ciò contraddistingue, tuttavia, anche l’amore metafisico rispetto alla passione erotica, con la quale potrebbe venir confuso, perché “entrambi si accendono nella giovinezza, son pronti a qualunque sacrificio, votati ad un unico oggetto”. Però la passione dipende dal vissuto (Erlebnis) momentaneo, come questo va e viene, e nella sua ebbrezza c’è solo un vagheggiamento fantastico di eternità; invece nell’amore metafisico c’è volontà di durata nel tempo, “esso ha il profondo senso del per sempre e da sempre. Viene una sola volta nella vita e mai più”; per il singolo “è il primo e l’ultimo”. Nel matrimonio è essenziale la libera decisione44 (Entschluß) che ha un valore etico, prima che giuridico: gli amanti vogliono il riconoscimento del loro rapporto nella società umana, e con la loro decisione contraggono obbligazioni e doveri verso se stessi e verso i figli. 42

Psicologia, p. 132; p. 154 it. Come Filosofia e, soprattutto Piccola Scuola (di questa operetta vedi, in particolare, la lezione undicesima, da cui traiamo le affermazioni sotto riportate, specialmente pp. 147 sgg.; trad. it. pp. 132 sgg.). 44 In Cifre (cit., p. 55; p. 53) Jaspers cita a memoria la battuta di un personaggio della commedia The skin of our teeth di T. Wilder, 1942 (titolo italiano La famiglia Antrobus), mostrando di apprezzarne il significato. Si tratta di una moglie che, rivolta al marito, gli fa notare: “Noi non ci siamo sposati per via dell’amore, ma perché abbiamo preso insieme la decisione”. In realtà, come si evince dall’edizione italiana della pièce di Wilder, la battuta della Signora Antrobus è più articolata: “Io non t’ho sposato – dichiara, rivolta al marito che ha appena espresso l’intenzione di lasciarla – perché ti trovassi perfetto. Non t’ho sposato neanche per il fatto che ti amavo. T’ho sposato perché mi facesti una promessa [...]. Furono due persone imperfette, a sposarsi: e fu quella promessa, a dare un senso al matrimonio [...] E mentre i nostri figli crescevano, non è stata una casa, a proteggerli; non è stato il nostro amore; è stata quella promessa” (T. Wilder, Tre commedie, Mondadori, Milano 1974, pp. 224-225). E tuttavia per Jaspers questo è solo un aspetto dell’unione, e non si risolve in esso il nucleo metafisico della monogamia. 43

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A sua volta l’amore metafisico, per quanto sia un evento che irrompe nel tempo da un altrove, e per quanto sia consapevole di sé come l’immeritata presenza dell’eterno; anche se, visto da fuori, possa sembrare una terribile catena, che sottrae agli amanti la libertà nel tempo, a causa di un legame così indiscutibilmente assoluto; risulta, per coloro che non hanno sprecato la loro aspirazione all’unico amore, prima dell’incontro destinale (Geschick), un vincolo che li avvince “nella pienezza della loro libertà”. In altri termini: incommensurabile con la libertà che si attua tramite la necessità morale, è quella che viene a coincidere con la necessità metafisico-esistenziale. Così la “infinita ripetizione”che costituisce la storia – essenzialmente priva di storia45 – dell’amore metafisico, non andrà confusa con l’eventuale “ripetizione” della decisione iniziale del matrimonio, in quanto rapporto etico. Indubbiamente il matrimonio nasce dal bisogno che l’uomo ha di ordinamenti sociali, e perciò anche di una disciplina della sessualità, tanto è vero che “mai si è verificata una condizione di promiscuità del tutto libera (al di fuori di riti orgiastici di carattere sacro)”. Inoltre, è segno della maturazione della coscienza umana il riconoscimento che il fare del partner – uomo o donna che sia – un mero strumento del proprio soddisfacimento sessuale lede la sua umanità come fine in sé. Invece l’amore metafisico non ha alcuna realtà oggettiva – la sua esistenza non può né essere dimostrata né essere esemplificata empiricamente; e per esso non valgono né la legge morale, né il diritto. Nello scritto sull’amore il matrimonio sembra confinato nello spazio angusto del legame contrattuale “con tutte le conseguenze nella realtà, di tipo economico e materiale”: esso si configura, piattamente, come “il corretto amore della coscienza in generale” (Dell’amore, p. 187). Eppure in un passo di Filosofia II, che abbiamo sopra citato46, veniva presentato come “idea”, oggetto di una fede filosofica che non evade nell’aldilà, ma resta nel mondo, “nel quale percepisce ciò che può credere in relazione

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“Essendo sempre la medesima, la loro vita è derubata della sua storia” (PS, p. 150; p. 135 ). Quest’amore “storico nella sua apparizione” non ha poi, nel tempo, nessuna “storia essenziale”. “Infatti si tratta della infinita ripetizione (unendliche Wiederholung) in una nuova originarietà, che si manifesta ugualmente potente nelle vesti della passione giovanile e nella quiete della vecchiaia, e la cui presenza pervade e abbraccia sia il ricordo che l’attesa” (p. 149; p. 134). Si profila qui una distinzione analoga a quella kierkegaardiana fra ripetizione in senso etico e in senso religioso. Entrambe presuppongono la libertà, ma la seconda, che è resa possibile dalla fede, richiede anche la grazia divina, ed è una sorta di “miracolo” (Giobbe, Abramo). Analogamente la ripetizione infinita dell’amore metafisico è un dono che eccede la libertà degli amanti e, al contempo, la porta a compimento. 46 Vedi nota 14.

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alla Trascendenza”. Fra queste idee, come s’è visto, Jaspers annoverava, con il matrimonio, la “patria” (non certo intesa come realtà giuridica dello Stato), la “scienza” (ma come ethos dello scienziato e spirito di “scientificità”) e la “professione” (come vocazione, che non si riduce a prestazione o a funzione meramente tecnica). Inteso come “idea” il matrimonio pare dunque qualcosa di più di un contratto secondo regole – per il quale non avrebbe senso parlare di fede, e che, inoltre, rischia costantemente di diventare un carcere “per la vacuità di diritti e doveri nel loro carattere di mera costrizione” (Dell’amore, p. 188). Vero è che anche l’idea, quando si separa dalla testimonianza dell’esistenza che la fa vivere, “diviene in breve l’esercizio di qualcosa di meramente oggettivo all’interno di ordinamenti impositivi, alle cui regole ci si sottomette o si ottempera per abitudine”. Ma ciò accade proprio perché “dove le esistenze diventano indifferenti e restano solo i meri individui, cessano anche le idee”. Ora il matrimonio come vincolo che, nella sua universalità, “si ripete in innumerevoli esemplari in questa società e in questa realtà statuale” (Dell’amore, p. 187) può concernere gli individui, non certo le esistenze, che non si risolvono mai nei casi particolari di un universale. Da una parte, quindi, abbiamo il matrimonio come “momento della società”, e come “istituzione etico-giuridica, protetta dallo Stato”; dall’altra il matrimonio come idea, che può mantenersi viva ed efficace solo sostenendosi sulle singolarità esistenziali, sulla loro “fede” e dedizione. L’apparente contrasto si risolve volgendo lo sguardo all’amore metafisico. Esso comporta un tale “salto” rispetto all’intero ambito mondano e una così grande eterogeneità, che non solo non è oggetto di alcuna indagine né regolamentazione, perché assolutamente privo di empirica consistenza (Realität) ma, perciò stesso, fa sorgere la domanda se non sia una sorta di sogno o di chimera, o se, “come mera possibilità, al mondo estranea”, non debba rapidamente estinguersi, qualora mai si accenda; insomma se abbia o no “accesso a realizzazioni” (PS, p. 152; p. 136), oppure sia condannato a soccombere, in un ambiente che non gli è favorevole. Impossibile non ricordare qui quanto già dicemmo sui gradi o livelli dell’esser-vero, e sulla fragilità delle modalità più elevate, che comportano un maggior impegno da parte del soggetto, ma anche un maggior rischio e una maggiore disponibilità al sacrificio47. 47 Si pensi anche alla differenza, spesso ribadita da Jaspers, fra verità in senso scientifico e verità filosofica: tale differenza è esemplificata, ne La fede filosofica, dai differenti atteggiamenti di Galilei e G. Bruno: al primo è consentito abiurare, il secondo “non può non” accettare la morte (cfr. La fede filosofica, Piper, München 1948, p. 11).

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Ebbene: Jaspers concede all’amore metafisico di “salvarsi” nel matrimo-

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Allora temporalità e ordine reclamano il loro diritto. L’amore fa il suo ingresso nel matrimonio con la risoluzione per sempre (Entschluß für immer), che è più di quanto morale e diritto coniugali possano mai esigere. Allora principia la lotta amorosa nelle realtà oggettive del mondo (Realitäten) e il far fronte comune alle varie situazioni. Allora il cammino conduce attraverso le età della vita. Lungo il cammino svanisce la bellezza vitale della giovinezza; ma ora, nella manifestazione esistenzialmente plasmata dal corso della vita, si cela, nella bellezza della vecchiaia, qualcosa di più rispetto a quella bellezza rimasta solo nel ricordo (PS, p. 152; p. 137).

A questo punto è facile comprendere che il matrimonio-idea è la trasfigurazione dell’istituto matrimoniale operata dall’amore metafisico, il quale, entrando in esso, gli conferisce nuova dignità e superiore valore: onde, quasi per contraccolpo, lo stesso vincolo giuridico e sociale, in quanto può fornire la base materiale per la realizzazione dell’idea, appare un bene prezioso, e Jaspers può servirsi, per qualificarlo, del sostantivo “Wunder”48 come se un riverbero di quel prodigioso fulmine, che si abbatte da altra origine, venisse a rischiararlo. La stessa cosa accade, sorprendentemente, anche per l’erotica, qualora il giovanile incanto della passione risulti la via attraverso cui quello straordinario amore si è insinuato nell’anima, per permanervi, sorretto dal ricordo, anche dopo lo spegnersi della pulsione sessuale, “fino al pianissimo dell’età più avanzata” (Dell’amore, p. 189)49. Qui si verifica – nella concreta esperienza esistenziale, che però si colloca al di là di ogni possibile dimostrazione oggettiva – il nesso già profilatosi fra i diversi livelli del vero: quelli inferiori si affermano nella loro positività 48

“Il matrimonio, questo bene prezioso, è uno dei prodigi della storia” (PS, p. 148; p. 134). Significative, per comprendere il valore attribuito da Jaspers al matrimonio, anche nella sua semplice realtà etico-giuridica, le considerazioni sviluppate nel corso di un’intervista rilasciata a F. Bondy e riportata dalla rivista “Tempo presente”, n. 3-4, 1963, pp. 1-10. Dopo aver riconosciuto la necessità di mantenere viva la comunicazione “con tutti gli uomini che tendono verso la libertà”, qualunque sia il loro paese e il regime sotto il quale vivono, il filosofo dichiara la propria ammirazione per il popolo russo, che aveva saputo conservare l’istituto del matrimonio, malgrado, subito dopo la rivoluzione, fosse stato fatto il tentativo di abolirlo, in quanto fenomeno del mondo borghese. Successivamente, ricorda Jaspers, il matrimonio fu ripristinato, e con esso la famiglia “questo enorme contrappeso all’assolutismo del regime totalitario… ed essa è ancora oggi in Russia una grandiosa realtà dell’umanità libera”(ivi, p. 8). 49 “L’incanto dell’erotica, in sé poligamica, potrebbe forse, se assunto nell’idea dell’uno, venire soltanto rafforzato” (Cifre, p. 56; p. 53).

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se ed in quanto non si chiudono ai livelli più alti, ma si aprono ad essi e li sostengono: questi ultimi, realizzandosi tramite i precedenti, li compenetrano, e ne accrescono senso e valore. È, infine, del matrimonio come idea che si può sensatamente dire: “le nozze vengono stipulate in cielo”; ed è sempre con riferimento ad esso che vale la frase “la donna diviene più bella con gli anni”, non a caso ripresa dall’elogio50 del matrimonio tessuto dal giudice Guglielmo negli Stadi kierkegaardiani. In fondo, fra il matrimonio come “corretto amore della coscienza in generale” e il matrimonio come “idea” corre la stessa distanza che c’è fra la definizione kantiana del matrimonio nella Metafisica dei costumi – dove l’unione coniugale è posta sotto il controllo severo, e anche un po’ arcigno, delle leggi della ragion pura pratica – e l’entusiasmo del giudice, che trova nell’esser marito addirittura “il supremo télos della vita individuale” e definisce la decisione di sposarsi – da prendersi, s’intende, davanti a Dio – quella che “più contribuisce a formare l’individualità”51. Per Kierkegaard, tuttavia, il passaggio (con un salto) alla vita propriamente religiosa si profila – già negli Stadi – con la “decisione negativa”, cioè con la rinuncia. Ma Jaspers tiene conto anche di questo, quando scrive:

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Nella traduzione tedesca, a cura di E. Hirsch, Guglielmo dichiara: “das Weib nimmt mit den Jahren gerade an Schönheit zu” e Weib significa, notoriamente, sia donna che moglie. La prima bellezza – egli osserva –, cioè quella della giovinezza, “non è comunque la verità, è un involucro, un rivestimento, e solo con il passare degli anni se ne libera la vera bellezza, per offrirsi allo sguardo riconoscente del marito” (Stadien auf des Lebens Weg, GTB, München 1991, vol. I, p. 138; it. Stadi sul cammino della vita, BUR, Milano 2001, pp. 245-6). 51 Cfr. Metafisica dei costumi, Parte I, cap. II, sezione III, par. 24. Le affermazioni di Guglielmo sono tratte, rispettivamente, da Stadi, p. 105; p. 206 it. e p. 114; p. 217 it. Mentre il matrimonio nella prospettiva kantiana ha un significato etico-giuridico, quello esaltato da Guglielmo come “sintesi di innamoramento e decisione” (p. 114; p. 217) ne ha uno etico-religioso (“dalle mani di Dio riceviamo chi amiamo”) e risulta pertanto assolutamente inconfondibile con il matrimonio civile, come momento dell’eticità hegeliana. Occorre forse qui rammentare che “l’etico” di Kierkegaard – significando irruzione dell’interiorità e della singolarità – si contrappone diametralmente (Postilla, vol. II p. 212 nota; it. p. 539: Kierkegaard scrive: “sta del tutto agli antipodi”) alla “sciagurata” (così ancora Climacus nella Postilla) eticità hegeliana, che, per l’identità di esterno e interno, rovina la morale, ancor prima della religione. Climacus ironizza, certo, sulle parole del giudice-marito: c’è una certa ingenuità, egli crede, nella sua convinzione che il supremo télos della vita individuale (per Kierkegaard: diventar se stessi di fronte a Dio) possa senz’altro realizzarsi nel matrimonio. Ma, soprattutto, egli rivolge la sua ironia contro il pastore, che, benedicendo cristianamente le nozze, sembra non accorgersi della difficoltà di conciliare quello che è il “meraviglioso” (das Wunder) per il poeta e l’uomo naturale (l’innamoramento) con ciò che dovrebbe essere il “meraviglioso” per il cristiano, cioè l’amore per Dio, o forse si illude, come il filosofo speculativo, di riuscire a conciliarli con la “mediazione” (Postilla, vol. I, pp. 170 sgg.; it. pp. 355 sgg.)

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Anche nella decisione negativa, nella rinuncia […] giace l’elemento positivo, consistente nel venir determinati dalla possibilità. Infatti in opposizione all’indifferenza, al lasciare che le cose vadano come vadano, all’unione priva di pensiero e alla dispersione in un’erotica distruttiva, anche la decisione negativa è volontà di verità, di totalità, di compimento, di fedeltà, pure se la realizzazione fosse venuta a mancare (Dell’amore, p. 186).

Insomma la rinuncia non significa necessariamente rinnegamento dell’amore di coppia e del suo altissimo valore; d’altronde non risulterebbe così toccante l’esaltazione kierkegaardiana del matrimonio, se la sua poeticità non fosse pervasa di doloroso rimpianto52. Per chiarire ulteriormente le tesi di Jaspers sull’amore di coppia e sul matrimonio, è utile porle a confronto con quelle di un autore per certi aspetti a lui affine, la cui riflessione su questi argomenti giunge però ad esiti alquanto diversi. Sul significato complessivo dell’amore, la posizione di N. Berdjaev non differisce da quella di Jaspers: l’amore – egli scrive in un’opera degli anni trenta53 – non è “niente altro che l’affermazione dell’essere nella sua pienezza ed eternità”. Inoltre esso è “una vita creatrice e inesauribile, una energia che irradia luce e calore”. A proposito, però, dell’amore tra l’uomo e la donna, Berdjaev avverte subito che, rispetto ad altre forme di amore (amicale, parentale ecc), esso “prende più ancora facilmente delle forme demoniache”, nel caso non sia rigenerato dallo spirito: cioè esso contiene, più degli altri, “un germe di morte, per la persona e per la vita”. Distinguendo fra sesso, matrimonio e amore, Berdjaev attribuisce un valore positivo solo al terzo termine. L’antitesi è, anzitutto, fra l’amore-eros e il sesso, cioè “la vita sessuale fisiologica”. Il sesso infatti non ha volto, è impersonale e asservito alla specie; per questo vi è in esso qualcosa che degrada l’uomo, donde l’“oscura vergogna”che egli ne prova: l’amore, invece, 52

È interessante notare come uno degli aspetti meno soddisfacenti, secondo Jaspers, della filosofia greca dell’eros si trovi nella scarsa valutazione del significato dell’amore di coppia, che troverebbe invece apprezzamento adeguato nell’orizzonte della religione biblica: “L’interpretazione filosofica si muove in modo così esclusivo sul cammino verso l’idea, non prestando attenzione alla storica esistenza dell’amore per l’Uno nel tempo, che il pensiero platonico non perviene a riconoscere quello che in Occidente è stato possibile (riconoscere) su fondamento biblico, e cioè l’amore dei sessi nel suo senso metafisico. Le posizioni di Platone sullo screditamento della sessualità in generale rendono impossibile l’attuazione del sensibile stesso (quando esso diviene un pegno per sempre). Il sensibile è mera occasione per lo slancio in quanto viene annientato, non è la realtà unica, che viene nobilitata” (Grandi filosofi, Platone, p. 304). 53 De la destination de l’homme, essai d’éthique paradoxale, Paris-Genève 1935; per il nostro argomento pp. 244-253/ 299-311.

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è “personale, individuale, unico, irrimpiazzabile”. Anche se l’amore tra uomo e donna “ha le sue radici nel sesso […] esso ha la meglio sul sesso, introduce un altro principio”, che libera il primo da ogni elemento degradante. L’amore vero fiorisce quando l’incontro non dipende più solo dal caso, ma è il presentarsi l’uno all’altra di due esseri “che sono predestinati”. Effettivamente “nelle forti emozioni dell’amore si cela la profondità dell’infinito”. Però fra la prospettiva d’immortalità della specie, che è legata alla riproduzione, e quella del soggetto individuale, che si apre nell’amore, esiste una vera e propria opposizione, che sfiora l’incompatibilità54. Anche il matrimonio appare a Berdjaev in conflitto con l’amore-eros, perché tende ad asservirlo alla società. “Nell’istituto del matrimonio si spinge l’impudicizia al punto da rivelare alla società quel che dovrebbe restare segreto ed essere dissimulato allo sguardo di terzi” (Autobiografia, p. 96; p. 76). Di fatto, la socializzazione dell’amore equivale alla sua soppressione. Il senso profondo dell’amore di coppia dovrebbe essere la ricostituzione dell’integralità della persona umana, infranta dal peccato, cioè il recupero dell’androginia originaria55. Perciò non solo l’amore-eros ha una verità onto54

I passi sopra riportati sono tratti da Essai d’autobiographie spirituelle, Buchet/Chastel, Paris 1992, pp. 92 sgg.; trad. it. Autobiografia spirituale, Jaca Book, Milano 2006, pp. 73 sgg. Berdjaev vede un contrasto fra amore e procreazione, anzi confessa “una vera e propria repulsione nei confronti della vita della specie […]; la procreazione mi è sempre sembrata ostile alla persona, una forma di disgregazione della persona” (ivi, p. 101; it. p. 79). Egli crede di condividere questo sentimento con Kierkegaard; in realtà quanto Kierkegaard scrive contro il matrimonio e la procreazione – specialmente nel Diario degli ultimi anni – è rivolto piuttosto contro la naturalizzazione del cristianesimo, ad opera della chiesa protestante, i cui pastori spacciavano per componente essenziale della loro missione lo sposarsi e il generare una numerosa prole. In Jaspers, anche in questo caso, prevale il nesso analogico: “Il fatto che l’amore nella sfera della vitalità sia generare, concepire, partorire, con il conseguente indefinito risorgere della vita in nuove forme è, simbolicamente e anche nella realtà, un tratto fondamentale di ogni amore” (Dell’amore, p. 190). 55 Destination, cit., p. 311. Il tema dell’androginia originaria, presente nel filosofo tedesco F. Baader, influenza sia Kierkegaard sia i filosofi russi Solov’ev e Berdjaev. L’uomo e la donna, prima della caduta, non erano interiormente scissi, né conoscevano l’antagonismo fra principio maschile e principio femminile, ma possedevano un’umanità integrale, maschile/femminile. Per i pensatori russi il fine ultimo dell’amore tra i sessi, dopo la caduta, sarebbe la ricostituzione, in ciascuno dei partner, dell’androginia primeva, cioè della personalità integrale nei suoi elementi complementari. Su tale fondamento Berdjaev ritiene “ontologicamente condannato” l’amore omosessuale, perché in esso “la metà frammentata rimane nel suo elemento, senza poter entrare in comunione con l’elemento complementare”, cioè perché esso viola la legge della polarità dell’essere (ibid.). Sempre sull’androginia, il filosofo Solov’ev scriveva nel saggio Il significato dell’amore (1892-94; trad. it. Edilibri, Milano 2003, p. 91): “... l’uomo, pur restando se stesso, può accogliere nella sua forma particolare un contenuto assoluto, può diventare una persona assoluta [...]. Nella realtà empirica un uomo simile non esiste assolutamente, esiste soltanto in un’unilateralità e in una limitatezza ben determinate, come individuo maschile

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logica che sfugge a tutti i tentativi di oggettivazione ed estrinsecazione nel sociale, ma il matrimonio, inteso come vincolo esteriore, “sottrae all’unione dei due esseri il suo senso misterioso e mistico”, il che avviene anche nei riti ecclesiastici, essendo la Chiesa “una società religiosa esteriore” (Aut., p. 96; p. 76). Insomma in Berdjaev la monogamia metafisica è radicalmente contrapposta alla monogamia sociale e giuridica. La stessa indissolubilità, che ha pienamente senso nella prospettiva escatologica del Regno, si riduce, quando diventa norma statale, a fonte di costrizione violenta e di ipocrisia. Tanto il matrimonio che la famiglia potrebbero ottenere un valore positivo se fossero interpretati come apprendistato spirituale per le persone, che s’impegnerebbero a “portare reciprocamente i loro fardelli”; queste realtà diverrebbero allora “una scuola di sacrificio”, atta a unire le anime “davanti alle sofferenze e alle angosce della vita” (Destination, p. 307). Poco si trova, però, di tale ispirazione, sia nel matrimonio borghese, legato alla proprietà e stipulato spesso per motivi d’interesse economico o prestigio sociale, sia nel cosiddetto matrimonio “cristiano”, inteso come finalizzato alla procreazione o come rimedio al disordine morale. “La tragedia dell’amore tra i sessi – riassume Berdjaev pessimisticamente – deriva dal fatto che quel che c’è di intimo e di misterioso tra due esseri, visibile ed accessibile soltanto a loro, si profana e diviene pubblico nella quotidianità sociale” (ivi, p. 304). La “socializzazione” del sesso e dell’amore sarebbe addirittura, per il filosofo russo, “uno dei processi più esecrabili della storia dell’uomo; si distrugge così la vita umana e ne derivano innumerevoli danni umani” (Aut., p. 96; it. p. 76). È un giudizio negativo, che corrisponde all’impostazione del suo pensiero, per il quale il termine “società” è sinonimo di “caduta” e la persona è concepita piuttosto che al di sopra del sociale, in conflitto con esso. È un effetto della “caduta”, se i due che si amano – fra i quali ogni terzo, che non sia Dio, è di troppo – “si vengono a trovare sottoposti ad altri individui e alla società” (Destination, p. 305). L’amore è dunque in se stesso “sempre illegittimo. Un amore legale è un amore morto” (Aut., p. 96; it. p. 75). Diversamente Jaspers – per il quale fra le modalità dell’amore sussiste un rapporto analogico, e che vede nel passaggio dalla dimensione metafisica all’oggettività dell’istituzione un processo di incarnazione. o femminile [...]. È però evidente che l’uomo autentico, nella pienezza della sua personalità ideale, non può essere soltanto maschio o soltanto femmina, ma deve costituire l’unità superiore dell’uno e dell’altra”: questo sarebbe dunque il significato profondo e il compito assegnato, secondo il filosofo, all’amore tra i sessi.

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Lo schema dell’amore di coppia – egli scrive – distingue ciò che è inseparabile. I momenti dell’amore si compiono quando si unificano; si guastano quando si isolano (PS, p. 152; p. 137).

Anche Jaspers sottoscriverebbe, certo, il parere del filosofo russo circa il fatto che “l’amore vero è un fiore raro”, ed è più che mai consapevole delle forze che impediscono anche solo lo sbocciare di questo fiore: “un antagonismo di forze nella realtà naturale dell’uomo” – ammette – lavora contro la possibilità dell’integrazione, per cui quando si consegue “un relativo successo” esso appare una “felicità immeritata” (PS, p. 154; p. 138). L’esperienza più frequente non è quella dell’armonia, ma delle “deviazioni e dei fallimenti” (Dell’amore, p. 187). “La sessualità diviene patologica nella sua funzione, e opprime l’autocoscienza. La passione erotica, senza durata, minaccia di togliere all’uomo il suo nucleo sostanziale, mentre la rottura del matrimonio ne rivela l’inaffidabilità. L’appello della provenienza metafisica resta inascoltato. Allora tutto sprofonda al livello più basso e la vita dell’amore va in rovina” (PS, p. 154; p. 138). Mai come nell’amore di coppia, forse, si sperimenta il contrasto drammatico fra le possibilità più elevate dell’uomo e la degenerazione, sempre incombente, di tutto il suo essere: accade così che gli amanti “siano trasportati, di volta in volta, da libertà e destino, fra paradiso e inferno” (ibid.). Però Jaspers non sottoscriverebbe la sconsolata conclusione del filosofo russo: “In fondo l’amore non vede realizzarsi le sue speranze” (Aut., p. 103; p. 81). Pur riconoscendo che un compimento duraturo possa apparire utopico, egli credeva di averlo vissuto. Per questo in una delle sue ultime lezioni, sul tema delle cifre, ricorre alla “monogamia nell’idea” come all’immagine simbolica più adatta per innalzare il pensiero all’unità qualitativa dell’Origine56. 56

Cifre della Trascendenza, p. 55; p. 52. “Si parla dell’unico amore dei sessi. Che cosa significa? L’idea dell’uno nell’amore è trascendente. L’unico amore è donato da un luogo ove non si spingono intenzione e volontà, ed è qualcosa di cui nessuno sa se ne avrà parte”. Quando l’amore, da quella provenienza, penetra nel matrimonio, l’unione matrimoniale muta il proprio carattere (ivi, p. 56; p. 53): allora la monogamia non significa più sposarsi una sola volta, o legarsi ad una sola persona, ma l’unità che in essa traluce è qualitativa e trascendente. Sono passi in cui sembra di avvertire un’eco lontana del simbolo nuziale, così diffuso sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento. Ma nella Bibbia sono paragonate due relazioni – quella degli sposi e quella che intercorre fra Dio e il suo popolo, fra l’anima e Dio, ecc.; mentre Jaspers si propone di far risalire il pensiero dalla irrappresentabilità dell’uno esistenziale – celato nel matrimonio – alla infinitamente più grande irrappresentabilità dell’Uno originario, il Deus absconditus. Sulla simbologia nuziale nella Bibbia, si può vedere L. A. Schökel, I nomi dell’amore, Piemme, Casale Monferrato 1988.

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Nell’unione matrimoniale – mutata di carattere grazie all’amore metafisico – si presenta un’unità “che malamente verrebbe indicata con il numero uno”, non tanto perché i due, pur amandosi, non si confondono, rimanendo due, quanto perché in questa coppia – per qualcosa che le è donato “da un luogo ove non si spingono intenzione e volontà” – si realizza, imperscrutabilmente, l’unità sintetica di tutti i livelli dell’essere e dell’amare. Nonostante queste significative divergenze, i due filosofi dell’esistenza concordano su un punto: è l’amore (metafisico) a consacrare il matrimonio e non viceversa; né l’indissolubilità del vincolo potrebbe sostenersi con argomenti morali o giuridici, giacché il suo fondamento o è trascendente o non è57. Per entrambi questo amore è straniero nel mondo; entrambi vedono nella incresciosa banalizzazione della parola “amore” il segno più immediatamente evidente di una “caduta” esistenziale, che Berdjaev interpreta in senso religioso, Jaspers in senso filosofico; per entrambi la “conversione”, comunque intesa, è un’urgenza costante58. Entrambi, soprattutto e prima di tutto, inquadrano l’amore nella paradossalità della condizione umana59. Così se il sottotitolo dell’opera di Berdjaev, sopra citata, è “saggio di etica paradossale”, a Jaspers non dispiace di rovesciare sull’amore metafisico una serie impressionante di attributi negativi che ricordano i kierkegaardiani “sviluppi del giudizio della finitezza sull’As57 Anche il filosofo italiano Piero Martinetti, nel suo L’amore (1935; Il nuovo melangolo, Genova 1998), distingue nettamente il vincolo sostanziale da quello formale; l’unione monogamica, indissolubile e libera, può sussistere indipendentemente dal riconoscimento fattone dalle istituzioni civili o ecclesiastiche. “Ciò che costituisce essenzialmente il matrimonio – egli scrive – è la volontà dei coniugi di stringere un’unione fondata sull’amore, sulla stima e sulla fedeltà reciproca: un’unione non sanzionata dall’autorità […] è un matrimonio non riconosciuto, ma un matrimonio” (ivi, p. 218). 58 “L’amore non ha la sua origine nel mondo” dichiara Jaspers (PS, p. 149; p. 134) e Berdjaev: “L’eros ha anche un’altra origine, viene da un altro mondo” (Aut. p. 94; p. 74). E sempre nell’Autobiografia, il secondo aggiunge: “nella vita umana l’amore è stato talmente profanato, snaturato, ed è così decaduto dalla sua grandezza, che è diventato quasi impossibile pronunciare la parola amore” (p. 95; p. 75). Sul tema della conversione (Umkehr) che è continuamente necessaria, vedi Dell’amore, p. 201. 59 Entrambi pagando un tributo a Kierkegaard, il quale nell’amore propriamente cristiano vede condensarsi al massimo la paradossalità della costituzione esistenziale, tesa fra infinito e finito. Si veda come, in Esercizio di cristianesimo Nr. I, l’uomo saggio e ragionevole giudica quell’amore: “quant’è sublime, quant’è cristiano, quanto è stupido” (p. 52; ed. Piemme, p. 74). E si rileggano, oltre ai numerosissimi passi degli Atti dell’amore, le conclusioni del Diario: i pareri esposti nell’Esercizio, commenta Kierkegaard, altro non sono che “sviluppi del giudizio che la finitezza fa dell’Assoluto” (Diario, vol. 4, p. 205, n. 1826). Però nell’ironia di Jaspers sull’amore metafisico riecheggia anche qualcosa della descrizione platonica di Eros, definito nel Simposio “povero sempre, e tutt’altro che bello e delicato [...], duro, invece, e ispido, scalzo e senza casa...” (Simposio, 203 D).

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soluto”, e che – egli osserva con ironia – senz’altro troverebbero d’accordo psicologi e scettici: un simile amore è inesistente, insulso, irrealistico, incredibile, stupido (PS, p. 150; p. 135). Eppure tanto profondamente il rapporto con la donna viene a determinare l’essere dell’uomo – e viceversa – che l’amore di coppia, nella sua integralità, può rivelarsi – quando tutto sembra diventare relativo – fonte e convalida della fede, mentre, al contrario, niente fa affiorare alla coscienza del singolo la presenza devastante della disperazione come la crisi di questo amore (Dell’amore, p. 189). Ai temi su cui ci siamo finora soffermati fanno da contrappunto – ma un poco in sordina – antiche preoccupazioni dello psichiatra e dello psicologo: la diffidenza nei confronti di ogni pretesa fusione delle individualità nell’amore e il rifiuto di ogni confusione fra comprensione psicologica e amorosa. Ad incappare nella prima (p. 198) è S. Paolo, di cui Jaspers interpreta la frase: “vivo, però non più io, ma vive in me Cristo”60 come un’espressione di “congedo dell’essere personale”. Il rilievo sarebbe pertinente se Cristo, per Paolo, fosse semplicemente un altro singolo, o anche solo un uomo “grande”; ma non occorre aver letto Kierkegaard per ricordare come, agli occhi della fede, egli non sia “un semplice uomo” e nemmeno un “uomo grande o notevole”, ma, in quanto “Dio in terra”, sia posto nella infinita differenza qualitativa61; accolta la quale, dire “Cristo vive in me” significa immedesimarsi con la Verità che egli è, mentre chi di questa Verità “si riveste” (Romani 13, 14) non perde il proprio io, anzi se mai, liberandolo dalla schiavitù del peccato, lo riconquista. Non a caso l’unità tra il credente e Cristo, nell’amore, è paragonata da Giovanni (17, 22) a quella di Cristo con il Padre (“io in loro e tu in me”) ed è l’unità della vita soprannaturale, che non abolisce la persona, bensì la fonda62. Si direbbe che qui come altrove63 a Jaspers faccia difetto la “categoria”, che 60

“Io, infatti, attraverso la legge, morii alla legge, per vivere a Dio. Sono stato crocifisso insieme a Cristo; vivo, però non più io vivo, ma vive in me Cristo. La vita che ora vivo nella carne, la vivo nella fede, quella nel figlio di Dio che mi amò e diede se stesso per me” (Galati 2, 19-20). 61 Su questo vedi soprattutto Esercizio di cristianesimo Nr. I (pp. 31 sgg.; pp. 49 sgg.). L’interpretazione jaspersiana della frase di Paolo rimanda alla presa di posizione sulla figura di Gesù nel già citato saggio del 1916 (vedi cap. terzo) e, soprattutto, a Filosofia II, p. 317: Jaspers denuncia qui l’assurdità della fede nel Dio-uomo, incompatibile, a suo avviso, con l’esistenzialità di ciascun singolo. 62 Ugualmente “rimanere in Lui” (I Giovanni, 2, 28) non significa identificarsi con Lui, ma rimanere nella Verità, che in Lui si rivela personalmente. 63 Per esempio nell’interpretazione della frase giovannea (I Giovanni 4, 16): Dio è amore (ï θεeς àγάπη ëστίν). Ma su questo vedi oltre.

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in Paolo – e naturalmente anche in Giovanni – se non è né psicologica, né etica, non è nemmeno metafisica, bensì religiosa. Quanto alla messa in guardia, rispetto alla possibilità di scambiare il comprendere dello psicologo – o dello psichiatra – con la comprensione fra coloro che si amano64, essa si riconnette alle pagine di Psicologia in cui Jaspers sottolineava con forza che “anche la comprensione psicologica più intensa non è una comprensione amorosa”, e che quanto è detto in chiave psicologica e viene concettualmente compreso “può essere intuito anche senza amore” (ivi, p. 127; p. 149). Ora Jaspers distingue fra un comprendere nell’orizzonte della coscienza in generale – senza partecipazione e condivisione – e un vivere in comunione con l’altro, sulla base, però, del riconoscimento della sua ipseità – e dunque inconfondibile anche con il compatire e congioire aventi a fondamento, ad esempio, l’unità della vita spirituale (o una “causa” comune). Non viene ripresa, invece, la critica di un atteggiamento che, nell’opera degli anni venti, egli riteneva in conflitto con l’amore: cioè il guardare all’altro con l’intenzione di correggerlo e migliorarlo. Non solo chi, all’interno di un rapporto amoroso, si sente fatto oggetto di osservazione e di analisi psicologica, ha l’impressione di venir derubato della sua “assoluta individualità” – scriveva allora lo psicologo delle “visioni del mondo” – ma anche chi percepisce nell’amato la volontà di modificarlo e di educarlo “si sente ingannato rispetto all’amore autentico” (ivi, p. 129; p. 151) e, in fondo, per la medesima ragione65. Completamente diverso è il significato dell’“educazione dei giovani” (Dell’amore, p. 201) come attuazione dell’amore sublime sul piano mondano. L’amore che è partecipazione all’essere autentico, al culmine della scala ascensiva, si orienta su tre direttrici: la Trascendenza, il mondo, l’altra esistenza, ed è, platonicamente, “visione del soprasensibile”66. L’educazione allora – intesa non come volontà di soggiogare o manipolare né come mero addestramento, ma come sollecitazione dello slancio 64 Tale messa in guardia sembra essere, in ultima analisi, l’intento fondamentale della differenziazione dei modi di “essere assieme” (pp. 202 sgg.). 65 Chi così agisce infatti non ama l’altro, ma un proprio “schema” o “progetto ideale” dell’altro, sul cui modello vorrebbe plasmarlo, quasi ad imporgli un diverso Sé. 66 Come si vede ritornano – anche se in ordine diverso – le tre idee kantiane che presiedevano alla partizione di Filosofia. Sul rapporto fra amore per Dio e amore per l’uomo e su quale dei due debba avere il primato in filosofia, Jaspers è molto netto: o si salvano insieme, o insieme vanno perduti. Netta anche la posizione di Berdjaev in proposito. “S’il faut aimer Dieu en l’homme, il faut aussi aimer l’homme en Dieu” (Destination de l’homme, cit., p. 250). Si tenga presente, però, che l’amore per Dio è paragonabile in Jaspers all’“amor dei intellectualis” di Spinoza (PS, p. 155; p. 139) cioè non è rivolto a un “tu” e non cerca il contraccambio, mentre in Berdjaev la divinità è personale e così pure il rapporto con essa.

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verso la Verità – è un amoroso e fervido “rendere attenti”, secondo il modello della paideia socratica. All’insegnamento di Socrate-Platone sembrano pure direttamente ispirate le considerazioni di Jaspers sull’amore come “essere intermedio”67. L’amore è “qualcosa che pertiene propriamente all’uomo, in cui l’uomo vive, e da cui riceve la propria sostanza” (Dell’amore, p. 206): ma ciò significa che esso “non appartiene né a Dio, il Perfetto, né al vivente, in quanto si trova nell’ignoranza assoluta” (p. 207). Se non che la profonda e radicale separazione fra l’uomo come essere dotato di consapevolezza e libertà, e il semplice vivente, come essere naturale, non rimanda certo all’antropologia platonica, né greca in generale: bensì, a noi pare – e già avemmo occasione di osservarlo – alla visione dell’uomo che dalla Bibbia si è trasfusa nel pensiero moderno, e che si ritrova pure in Kant e Kierkegaard68. Dall’amore, le cui condizioni sono libertà e ragione, sarebbero per Jaspers del tutto esclusi gli esseri che non ne sono dotati, e forse anche gli individui umani in cui tali facoltà fossero ancora “immature”69. Viceversa – anche a questo avemmo modo di accennare – l’ipotesi di un Dio sottratto alla relazione d’amore, perché concepirlo “amante” lo umanizzerebbe troppo, conferendogli attributi quali “il movimento, la privazione, l’aspirazione”, esorbita totalmente dall’orizzonte biblico: parafrasando Pascal, non solo non è il Dio di Gesù Cristo, ma neppure quello dei Patriarchi; in altre parole è incompatibile non solo con la teologia neo-testamentaria, ma 67 La nozione di Zwischensein (frammezzo) corrisponde a quanto Platone dice di Eros nel Simposio (202, E), cioè corrisponde al concetto greco di μεταξύ, per cui Eros media non solo fra soggetto desiderante e oggetto desiderato, ma “fra gli dei e gli uomini”, in modo che “il tutto sia ben collegato con se medesimo”. Su Eros demone mediatore si veda il bel libro di G. Reale (Rizzoli, Milano 1997). Dal momento che “un dio non si mescola all’uomo”, Eros allaccia il rapporto tra umano e divino, cosicché, per suo tramite, “gli dei hanno ogni relazione e colloquio con gli uomini” (Simposio 203 A). Jaspers però interpreta nel senso che siccome solo l’uomo ama, è la coscienza amante il vero tramite o μεταξύ, fra il finito e l’infinito, il mondo e Dio ecc. 68 L’ispirazione profonda – nettamente anti-naturalistica – delle antropologie di Kant e Kierkegaard proviene dalla Bibbia. Che la filosofia moderna – in particolare il cartesianesimo – abbia forzato la visione biblica dell’uomo radicalizzando la cesura fra soggettività e mondo naturale, è difficilmente contestabile. Che tale forzatura si sia poi rapidamente rovesciata – con l’illuminismo – in una altrettanto radicale naturalizzazione lo è ancora meno. 69 Questo dipende forse dal fatto che fin dall’inizio (cioè dalla Psicologia) la relazione amorosa è stata contraddistinta dal comprendere (Verstehen), certo non in senso cognitivo o psicologico – come abbiamo detto – bensì da quel tipo di comprendere che colloca l’altro in una prospettiva di unicità e assolutezza (appunto il comprendere “amoroso”). Potrebbero però darsi vari gradi di “comprensione amorosa”, dalla quale, in tal caso, non verrebbero esclusi gli animali, e ancor meno i bambini.

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anche con quella vetero-testamentaria – qualora le si volesse distinguere. Jaspers si trova qui dunque in una curiosa posizione: in un certo modo per fedeltà a Kant e a Kierkegaard pone una cesura radicale fra l’uomo e il vivente70 che il suo discepolo H. Jonas non mancherebbe certo di rimproverargli71; mentre la perfezione di una divinità che non ama non sarebbe piaciuta a Kierkegaard, ma nemmeno a Kant72. L’opera mediatrice di Eros è compiuta, nel cristianesimo, dal Dio-uomo, che avvicina l’uomo a Dio molto più di quanto non facesse l’umanesimo greco73; d’altra parte il pensiero

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In totale controtendenza Berdjaev, che denuncia frequentemente nelle sue opere la scarsa sensibilità etica del cristianesimo – a differenza del buddismo – nei confronti degli animali (“la coscienza cristiana [...] se ne è troppo allontanata nelle sue emozioni morali, mentre lo sguardo degli animali che soffrono, senza difesa, ci dà una esperienza morale e metafisica di prodigiosa profondità”), esalta l’amicizia fra l’uomo e il cane e, soprattutto, ricorda con accorato rimpianto il rapporto affettivo irrimpiazzabile con il proprio gatto Mourry, per il quale invoca l’immortalità (Dialectique du divin et de l’humain, Janin, Paris 1947, p. 90; Destination de l’homme, p. 251; Aut. Sp., p. 415; it. p. 374: “esigevo la vita eterna per il mio gatto, la vita eterna per noi due”). Anche P. Martinetti, nel suo La psiche degli animali (1920) non respinge l’ipotesi di una immortalità del vivente non umano: “Questo solo possiamo con sicurezza sapere: che in tutti gli esseri, negli uomini come gli animali, vi è qualche cosa di eterno. Ma l’immortalità, la vita nell’eterno non è il privilegio di nessuna natura, nemmeno dell’umana: essa è, al più, se l’alta speranza non mentisce, una lunga e faticosa conquista, alla quale pochi giungono, ma alla quale tutti gli esseri tendono attraverso esistenze e dolori innumerevoli”. Anche gli animali, infatti, questi “misteriosi esseri che come noi qui vivono, soffrono e si elevano”, il filosofo piemontese attribuisce una forma, sia pure iniziale, di vita morale (sta in Funzione religiosa della filosofia. Saggi e discorsi, Roma, Armando, 1972, con Introduzione di L. Pareyson; vedi, in particolare, pp. 292-3-5). 71 Il tema della radicale frattura con il vivente, conseguenza dell’interpretazione moderna della signoria biblica dell’uomo sulla natura, è, come è noto, al centro della riflessione di H. Jonas ne Il principio responsabilità (Einaudi, Torino 1990/ed. ted. 1979). A tale riguardo Jonas rivolge critiche anche alla filosofia dell’esistenza. Il problema che egli pone è se sia possibile gettare un ponte fra vita e libertà, pur senza cadere nel naturalismo. 72 Il quale si serve tranquillamente dell’analogia (di proporzione) per parlare dell’amore di Dio verso il genere umano (già nei Prolegomeni, par. 57-58 e nota 24, e ancor più negli scritti di filosofia della religione). Kant ritiene in questo caso giustificato, contro il deismo, un “antropomorfismo simbolico”. Va da sé che una simile “perfezione” sarebbe respinta con sdegno anche da Berdjaev, il quale senza alcun imbarazzo attribuisce a Dio oltre all’amore agapico, di “dono”, anche un amore di eros, come anelito o aspirazione al suo “altro”, l’uomo. Ma su questo, vedi oltre. 73 Si afferma così anche il valore assoluto del singolo, della persona, e l’amore è rivolto al singolo, qua talis. G. Simmel (1858-1918) in un frammento pubblicato postumo, presente della sua Filosofia dell’amore (ed. Donzelli, Roma 2001) osserva giustamente che “mentre per noi [moderni] l’amore istituisce una mediazione solo fra uomini, Platone trasferisce proprio il momento della mediazione da loro al rapporto con il sovra-individuale [...] Gli è estraneo quello che a noi appare il vertice definitivo dell’amore: che esso sia rivolto esclusivamente a quest’essere insostituibile” (ivi, p. 185). Ciò è certamente vero, perché l’eros, in Platone, si rivolge al valore, all’idea, e l’individuo è amato in quanto in lui rifulge il valore, che è il vero

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greco manteneva l’uomo nella prossimità con la natura vivente molto più di quanto non faccia la modernità. E se forse non già il metabolismo – come ritiene Jonas74 – ma molti comportamenti del vivente sembrano anticipare consapevolezza e libertà, e l’animale è capace di corrispondere all’affetto

oggetto dell’amore. Meno condivisibile il giudizio successivo, secondo cui “questa valutazione negativa dell’individualità è il tratto che separa definitivamente l’eros platonico e quello moderno” (ibid.). Lasciando da parte il fatto se si tratti effettivamente di “valutazione negativa” – Kierkegaard vedeva addirittura nel Socrate platonico il riformatore del paganesimo perché valorizzava l’anima individuale e il Fedro tocca proprio il tema dell’amore selettivo o di affinità per alcuni individui – o non piuttosto di apprezzamento solo indiretto e perciò inadeguato, insufficiente ecc. – il punto di svolta non sta, a nostro avviso, nella “modernità”, bensì nell’irruzione del cristianesimo. Come ricorda Berdjaev: “Nel mondo cristiano l’eros è trasformato. Il principio della personalità comincia a penetrare in esso” (Aut. sp., p. 102; p. 80), cioè il principio dell’incarnazione originale, unica, irripetibile dei valori nella realtà del singolo e quello della creatività del singolo rispetto ai valori. Del resto, che “il principio dell’individualità” e l’immersione nella particolarità dell’altro qualifichino appunto l’amore nel senso del cristianesimo lo ammette lo stesso Simmel nel prosieguo delle sue considerazioni (p. 193). 74 Quell’aspirazione ad essere che muove la libertà e presiede alla costituzione del Sé, Jonas la vede prefigurata e come anticipata nell’appetito d’essere che presiede allo sviluppo dell’organismo e che già si riconoscerebbe nel metabolismo. Introducendo la sua “filosofia dell’organico” (Organismo e libertà, Einaudi, Torino 1999 – ma i saggi raccolti nel libro risalgono al quindicennio 1950-65), Jonas scrive: “...l’intento di una parte delle nostre ricerche sarà di mostrare come negli oscuri moti della primordiale sostanza organica risplenda per la prima volta un principio di libertà all’interno della necessità infinitamente estesa dell’universo fisico: un principio estraneo a soli, pianeti e atomi” (p. 9). Si avverte comunque l’influsso di Jaspers – a nostro avviso – nell’atteggiamento fondamentale di Jonas, consistente nel cercare di comprendere l’inferiore (la vita) a partire dal superiore (la libertà, l’interiorità) contro ogni riduzionismo, che consegue dal procedere in maniera opposta, per esempio facendo derivare la vita dalla materia. Sull’impossibilità, per la scienza, di oltrepassare i propri limiti sostenendo tale derivazione – come sui limiti delle teorie evoluzionistiche a proposito dell’origine dell’uomo – si può vedere la terza lezione della Fede filosofica, in particolare pp. 44 sgg. Un “gioco del pensiero” assai significativo – annota qui Jaspers – consisterebbe nel porre la questione non già del sorgere della vita, bensì della provenienza dell’inorganico dall’organico, “come suo cascame o cadavere”. Da un simile “gioco del pensiero” sembra proprio prendere avvio la “biologia filosofica” di Jonas, quando mette a confronto il panmeccanicismo dei moderni con il panvitalismo degli antichi (Organismo e libertà, pp. 15 sgg.), che aveva almeno il vantaggio di non svalutare la vita a “morta cosa”. Come riassume efficacemente F. J. Wetz, nella sua agile monografia su Jonas (Junius Verlag, Hamburg 1994, p. 89), affrontando il rapporto fra il vivente e la libertà “Jonas procede non dal basso verso l’alto, bensì, al contrario dall’alto verso il basso, e riconosce in questo modo una successione di gradi secondo cui l’interiorità diminuisce costantemente e la libertà via via si riduce”. Si può riconnettere al pensiero di Jaspers anche la critica dell’utopia che Jonas sviluppa ne Il principio responsabilità. Se ne ha una riprova leggendo, nel Nachlaß di Jaspers ai Grandi filosofi, i frammenti dedicati al pensiero di Marx sull’estraneazione, sull’immagine dell’uomo, sul “romanticismo” della tecnica ecc. Si tratta in fondo del riconoscimento che la nostra libertà si misura sempre con la necessità e che non esiste una libertà assoluta.

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dell’uomo con un affetto dai tratti sorprendentemente umani; il farsi uomo di Dio potrebbe anche rivelarsi la manifestazione più sorprendente della potenza dell’amore. Distinguere per poi unire il distinto, ricorda Jaspers, sono i due momenti del problematizzare filosofico (pp. 208-9): ciò vale sia per la distinzione, nell’essere, fra mondo, esistenza, Trascendenza, come per quella fra le diverse dimensioni del nostro essere, fra le modalità del vero, e così via. Amore potrebbe essere il nome di “ciò che allaccia il rapporto” fra i distinti: esso rappresenterebbe allora il collegamento non solo fra quelle dimensioni e modalità, ma fra l’uomo e il mondo, l’uomo e il divino, l’uomo e l’altro uomo ecc. Però che l’amore sia, per dir così, il collegamento universale, può intendersi come asserto di una coscienza universale? O, in altri termini: questa operazione della filosofia, consistente nel mostrare che “omnia vincit amor” (è l’amore che tutto lega, ricorrendo al verbo vincire) è un esercizio meramente intellettuale, oppure si deve interpretare come uno sforzo del pensiero volto a chiarire l’articolo di una fede filosofica? Già nel primo volume di Filosofia, soffermandosi sulla distinzione fra le tre “guise dell’essere” (mondo, esistenza, Trascendenza) Jaspers scriveva che noi cogliamo “l’essere vero” solo dove quelle tre guise “si connettono per noi (corsivo nostro) in unità, pur senza confondersi, di modo che nessuna delle tre è senza le altre” (p. 73). Tuttavia, aggiungeva, questo risultato non si consegue in maniera universale e non in maniera definitiva ma “solo storicamente75, e di volta in volta, nell’attimo elevato dell’autentico se stesso che, pur rimanendo interamente nel mondo, ha in esso lo sguardo rivolto alla Trascendenza”. Il pensiero che coglie l’essere vero è il movimento interiore di un’esistenza che si chiarifica o l’elucidazione di un’esperienza esistenziale, non un lógos astratto che si propone di elaborare una dottrina valida per tutti. Abbiamo visto, del resto, che solo allo sguardo dell’esistenza i molti sensi dell’esser-vero si connettono in maniera da significare simbolicamente l’unità trascendente del vero. Se ora mondo, esistenza e Trascendenza ci si propongono come tre direttrici dell’amore “o momenti irrinunciabili del suo unitario attuarsi”, sarà pur sempre in un se stesso che, “storicamente”, i tre momenti potranno raccogliersi, attuandosi in modo unitario. Ciò significa che far valere l’amore come vincolo di tutto l’essere è un compito che il filosofo assume in quanto è precisamente un “se stesso”, stretto in un vincolo d’amore con l’altra esistenza, con il mondo e con Dio; egli può vedere in questo compito il 75 L’avverbio da noi sottolineato indica il radicamento esistenziale del pensiero, la sua “storicità”, intesa, però, come sintesi di tempo ed eternità.

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fine ultimo del suo filosofare; però non può tradurlo nella costruzione di un sistema “che assegni ad ogni cosa il suo posto”, né suggerire ricette o strategie affinché il lettore, reso attento alle molte forme dell’amare, riesca ad armonizzarle in sé, riconducendole all’unità. Tale riconduzione ognuno deve e può tentare solo singolarmente, né si può credere di riuscire mai a conseguire un successo completo, definitivo, stabile, ma tutt’al più attimi di non programmabile compimento, il quale, però, è per noi così importante – poiché ci consente di ricomporre nel nostro essere temporale l’immagine dell’Uno originario – che tendere ad esso basta a riempire di senso la vita intera. Si tratta di un tentativo in cui la migliore alleata dell’uomo è la ragione. Il principio decisivo è che “ciascuna modalità dell’amore è vera e viene a compiersi pienamente solo quando, al contempo, anche ogni altra si realizza. Viceversa collassano tutte, quando una di esse viene esclusa” (p. 194). Vitalismo, intellettualismo, estetismo – che non sono mere teorie, ma anche stili di vita – derivano dall’isolamento di una delle modalità dell’amare – nell’immanenza – che esclude le altre: l’uomo si chiude nella sfera del vitale, dell’intelligenza o della cultura spirituale; questi amori “finiti” da una parte lo finitizzano, perché lo rinserrano nel mondo, dall’altra rischiano di degenerare, con il depotenziamento di quei caratteri positivi che – nella diversità – li rendono simili, e che alludono alla possibilità suprema dell’amore esistenziale; cioè la forza unitiva, la fecondità, la capacità di contrastare la morte. Nemmeno ci si deve rifugiare, però, nella “negatività dell’esistenza pura”: un amore tra esistenze che si isolasse dalle cose, dal mondo – e in cui, di conseguenza, non venissero a sfociare gli altri “amori”, per trovare in esso la loro convalida, invece di maturare si estenuerebbe in un gioco artificioso e stucchevole (p. 188). Questo amore può svilupparsi, infatti, “nella misura in cui in esso, di volta in volta, io amo, insieme, l’essere che amiamo in comune, sia nel mondo [...] sia al di là del mondo” (p. 192). La ragione ha dunque il compito di mantenere pervio il passaggio da un livello all’altro, e desta la coscienza del valore di ogni modalità e della necessità del loro rapporto; ma, soprattutto, essa deve promuovere l’integrazione fra il desiderio “finito” e quello “infinito”. Infatti solo se il primo si associa al secondo – che si protende, nel tempo, verso l’eternità – l’uomo si salva dall’irretimento nel fenomeno e s’innalza all’essere autentico (p. 201). Ma se la ragione è condizione “affinché tutti i gradi si mantengano nella verità” e sia salvaguardato il rispetto della loro gerarchia (p. 203), una effettiva falsificazione dell’amore può essere, a sua volta, solo il prodotto

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della riflessione76; le deviazioni che avvengono senza di essa, nel trasporto immediato, non significano ancora non-verità come “pervertimento”, ma sono collocabili in quel limbo della coscienza in cui gli atti irriflessi si possono a malapena distinguere da eventi naturali. Le deviazioni mediate dalla riflessione, invece, sono essenzialmente di tre tipi: l’isolamento di una modalità da tutte le altre – è il caso, sopra indicato, del vitalismo, dell’intellettualismo ecc.; la strumentalizzazione, grave specialmente quando una modalità superiore è asservita a una inferiore77 – ad esempio se intelletto e spirito vengono asserviti alla vitalità e utilizzati in funzione dei suoi interessi, oppure quando la cultura spirituale si ammanta di esistenzialità, con discorsi e gesti che mimano l’impegno esistenziale, ma non contengono alcuna incondizionatezza; infine, l’assolutizzazione. Quest’ultima deviazione non è che la conseguenza estrema dell’isolamento: dapprima una delle modalità particolari si separa dalle altre e le esclude; poi non si propone più soltanto come l’unica forma di amore, ma come un amore dal valore incondizionato, assoluto. Così l’amore finito s’installa al posto dell’infinito, con la pretesa di usurparne il ruolo. Se nelle deviazioni e degenerazioni dell’amore – con la rottura del nesso fra le diverse modalità e, più di tutto, con la perdita della dimensione dell’infinito e del raccordo fra amori “finiti” e amore “infinito” – fa già la sua comparsa il male78, esso irrompe a conclusione dell’“elogio” con l’antagonista irriducibile della potenza dell’eros: l’odio. 76 Un cattolico arguto come G. K. Chesterton osserva, in un breve scritto, che “senza mai riflettere non è possibile riuscire in nulla, nemmeno nell’amore”. Egli intende dire che, senza riflessione, non è possibile “discernere l’amore vero da quello falso” o distinguere “le tendenze che rovinerebbero l’amore da quelle capaci di reintrodurlo”. Effettivamente, si potrebbe aggiungere, né il bene né il male sono davvero possibili all’uomo se non in quanto egli è capace di agire – come una volta si usava dire – con “piena avvertenza e deliberato consiglio”. Ma qui Jaspers intende qualcosa d’altro: cioè che il male, in quanto pervertimento dell’amore è, nella sua forma più grave, una falsificazione del bene, impossibile senza riflessione (la frase di Chesterton sta in La mia fede, Lindau, Torino 2010, p. 76). 77 Meno grave sembra al filosofo la strumentalizzazione inversa, cioè quella in cui una modalità inferiore è intesa come meramente strumentale ad una superiore; val qui la pena di ricordare l’esempio dell’amore tra i sessi nella sua manifestazione vitale (somatico-psichica), che diviene mero spunto di godimento estetico nella sfera spirituale, oppure è visto come originariamente finalizzato al “giusto amore di coppia”. Nel primo caso si avrebbe una forma di estetismo, nel secondo di moralismo; come se la modalità, per quanto inferiore, non avesse un’originarietà propria, cioè un significato e un valore indipendenti, ma li ricevesse interamente da quella superiore. Altro è porre il problema dell’integrazione fra (tutte) le diverse modalità. 78 Nel già ricordato saggio sull’incondizionatezza del bene e il male – che risale allo stesso periodo – Jaspers riconosce che è “impossibile per noi uomini vivere per così dire soltanto

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Nel secondo libro di Filosofia ci veniva presentata la volontà radicalmente malvagia: essa è il male “come Esserci che vuole sé, volgendosi, nell’assolutizzarsi, contro la propria possibilità esistenziale, e manifestandosi nell’odio contro tutto ciò che indica la verità sulla base dell’esistenza possibile e contro l’incondizionatezza nella storicità, che è la nobiltà dell’essere” (ivi, p. 171). Questa volontà malvagia è chiusura “nell’assenza di comunicazione” e, in quanto “vuole il proprio Esserci egoistico nella sua nullità” essa è, semplicemente, “volontà di nulla”. In uno scritto del 1946, a proposito del rapporto fra bene e male a livello metafisico, Jaspers scrive: si tratta del contenuto sostanziale: amore contro odio. L’amore spinge verso l’essere, l’odio verso il non essere [...] L’amore agisce costruendo silenziosamente nel mondo, l’odio è rovina fragorosa, che mette a repentaglio la vita e l’essere nella vita79.

Ma mentre negli anni Trenta egli ancora si domanda se il male esista realmente in una forma così coerentemente contraddittoria e distruttiva, e cioè “nella passione dell’annientamento dell’altro voler annientare se stessi; perseguire [quindi] un fine che, raggiunto, è insieme perduto”, ed è propenso a intenderlo piuttosto, nella sua realtà ordinaria, come volontà di bene, “però a condizione che serva al proprio egoismo”, o come “mancanza d’incondizionatezza”, tre lustri più tardi80 ne mette in risalto, quasi con sgomento – e giovandosi del contributo di Shakespeare – la “mostruosa energia nel mondo”. Il male è capace di simulare “una sorta di incondizionatezza per il nulla”, e anche se si tratta di un’imitazione grossolana, non si deve sottovalutare il fascino che esercita sugli esseri umani. Non diversamente, l’odio è l’avversario che si traveste e s’imbelletta per sembrare amore: occorre la ragione per smascherarlo. sul fondamento dell’amore [...] sono il vertiginoso entusiasmo e quindi la superbia dell’uomo, che lo inducono in tale tentativo. Noi siamo costantemente esposti a deviazioni, corruzioni, confusioni […] (p. 88). Per questo sia la coscienza (Bewußtsein) che la coscienza morale (Gewissen) debbono esercitare un controllo su quello che chiamiamo “amore”, affinché non cadiamo in forme di auto-inganno, con il prevalere di “passioni estranee”: ad esempio “ogni amore che violi i dieci comandamenti non è più amore”(PS, p. 156; p. 140). Però la coscienza morale, senza il compimento attraverso l’amore, si svuota di contenuto e non realizza nemmeno una vera purezza dei moventi. 79 Sull’incondizionatezza del bene e il male, ora in Das Wagnis der Freiheit, cit., p. 87. 80 Fra i due testi si collocano gli anni di isolamento e di angosciosa attesa di una liberazione e la guerra. Commoventi sono i Tagebücher 1939-42 (Schicksal und Wille, pp. 143 sgg.) con l’incertezza sul da farsi e il costante pensiero del suicidio con la moglie.

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Sul fatto che l’odio tenda a confondersi con l’amore sia Kierkegaard che Nietzsche molto hanno appuntato la loro attenzione: il primo poi in modo particolare per la consapevolezza – a suo avviso ben presente nell’anima cristiana – che il mondo e Dio interpretano gli opposti in maniera opposta, e cioè che quel che per Dio è amore per il mondo è odio, e viceversa. Tutto nel cristianesimo è dialettico, secondo Kierkegaard, cioè pone di fronte a un’alternativa: massimamente nel caso dell’amore e dell’odio, perché uno deve decidere se interpretarli alla maniera del mondo e dell’uomo naturale, oppure a quella di Dio81. Qualcosa di simile potrebbe, secondo Jaspers, avvenire nella filosofia: l’uomo potrebbe dover decidere se in essa vuole elevarsi al sublime, edificandosi nell’amore, oppure prenderla a pretesto per restringere al minimo il proprio orizzonte, respingere l’invito ad una comunicazione autentica, denigrare tutto ciò che ha valore, sia in sé che fuori di sé, e, alla fine, affondare ogni cosa e se stesso nel nulla. Ogni amore genera inevitabilmente l’odio per ciò che può ledere o distruggere l’oggetto d’amore; così l’amore per la verità genera l’odio per la menzogna e per tutto quello che attenta alla verità. Ma mentre l’amore supera di continuo l’odio che esso stesso genera – un odio relativo a ciò che minaccia l’essere dell’amato, e che non è rivolto all’essere del nemico, bensì alla lesione o alla minaccia che da lui provengono – e l’amante, grazie al suo amore, è in grado di vincere la tentazione dell’odio, quasi che l’energia espansiva dell’amore non tollerasse di venir arginata da una potenza contraria; l’odio si nasconde in tutte le forme deviate dell’amore, e di questo assume l’apparenza. Quando una modalità d’amore esclude le altre, ad esempio, non è difficile scorgere in quell’amore che si isola l’odio per ciò che viene escluso: ed in effetti è questa la vera matrice di ogni pseudo-amore82. Così, dietro l’esaltazione unilaterale della vita si cela l’odio per l’intelligenza o per la cultura spirituale; dietro lo pseudo-amore per l’esattezza anodina della coscienza in generale si cela l’odio per l’esistenzialità, e via dicendo. Ma oltre all’odio che agisce indirettamente, nelle deviazioni dell’amore, c’è anche un odio diretto e assoluto (p. 219), come opposizione diametrale alla verità? Ed esiste, in questo senso, una filosofia ispirata dall’odio? Come nella “costruzione” della volontà malvagia, proposta da Filosofia II, anche qui potrebbe trattarsi di concetti-limite: se non che l’esperienza della vita – e della storia – ci co-

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Tema continuamente ripreso negli Atti dell’amore. Come risulta anche dalle penetranti analisi nietzscheane del “risentimento”.

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stringe spesso a riconoscere che quelli che desidereremmo considerare solo concetti-limite prendono tragicamente corpo nella realtà83. La differenza, in definitiva, sta in questo: l’odio il cui fondamento è l’amore rimane sotto il controllo della ragione; lo pseudo-amore, frutto e maschera dell’odio, e l’odio assoluto alimentano l’anti-ragione. Come un Proteo dalle innumerevoli trasformazioni “lo spirito dell’antiragione” (Ragione e antiragione, p. 55; p. 66) avversa la ragione che, spinta dell’amore, si muove sul cammino della verità. Esso nulla sa della verità e nulla vuole saperne: “sotto il nome di verità esso porta nel mondo tutto ciò che è ostile alla verità, tutto ciò che le è estraneo e che la deforma, e lo fa valere” (ivi, p. 55; p. 65). È come un’Idra, le cui teste continuamente ricrescono: “spinge la vita dall’assenza di qualunque credo ad una fanatica pseudo-fede, e poi, di nuovo al nulla” (ibid.); produce quella dialettica di genere sofistico “con cui ci si sottrae a ogni decisione, si può giustificare tutto e tutto contestare”84. L’anti-ragione non cerca nell’interpretazione il cammino verso l’origine: ma si avvita su se stessa, svolgendo l’interpretazione come “interpretazione dell’interpretazione” in un gioco auto-referenziale, che trae impulso non dalla volontà di verità, ma dalla volontà di potenza. La ragione infatti non è – come si crede – una proprietà della specie, più o meno equamente distribuita fra gli individui, bensì una possibilità offerta ad ogni singolo, come la libertà, e, allo stesso modo di questa, l’uomo spesso la respinge e la contrasta, prima di tutto in se stesso. Certo una filosofia interamente mossa dall’odio85 “sarebbe come la versione negativa della filosofia autentica” (Dell’amore, pp. 217-8), fedele al proprio nome: né fra le due si potrebbe mai dare compromesso o conciliazione. Del resto nel mondo la ragione è sempre “in lotta”86, una lotta che ciascuno 83 “A partire dal 1933 – ricorda Jaspers nell’Autobiografia – divennero ineludibili esperienze inattese. Quello che è possibile all’uomo in mostruosità, a quanti sono spiritualmente dotati in delirio, a cittadini apparentemente buoni in slealtà; ciò che è possibile all’uomo apparentemente comune in malvagità, e alla maggior parte degli individui in assenza di pensiero, e nella passività più miope ed egoistica, tutto questo divenne reale in un’estensione tale che doveva necessariamente cambiare la conoscenza dell’uomo. Per farla breve: quello che, in passato, non era stato generalmente preso in considerazione, era adesso non solo possibile, ma reale” (ivi, p. 72). 84 Ragione e antiragione, p. 57; p. 68. “Variegato è questo regno dei sofisti, degli esteti, degli esperti di miracoli, degli imbroglioni della tarda antichità, che sono derisi da Luciano, e pure degli odierni scienziati-stregoni”. I primi difensori della ragione dagli attacchi dell’antiragione furono però Socrate e Platone (ivi, p. 60; p. 71). 85 È probabile che Jaspers pensi qui alle ideologie ispirate dall’odio che si posero a fondamento dei vari totalitarismi. 86 Questo appunto il titolo della terza e ultima lezione dell’operetta sopra citata, mentre

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L’AMORE IN DELLA VERITÀ: “UN ELOGIO AMPIO E MAESTOSO”

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deve condurre, per la ragione, con la ragione. Ma tanto più verace sarà la lotta, quanto più sarà condotta non solo sul fronte esterno, ma anche su quello interno: “questo avversario ci si fa incontro nel mondo, ma, più pericolosamente, s’introduce in ognuno di noi. Già gli abbiamo ceduto, quando crediamo di averlo vinto”87. Costantemente noi uomini tradiamo la verità, tradiamo noi stessi e il nostro amore. Al termine di una delle più interessanti lezioni sulle “cifre della Trascendenza”, Jaspers riprende un pensiero di Kierkegaard, che definisce “conturbante” (unheimlich). Pur rigettando – senza esitazioni – il significato della fede in Cristo, così come Kierkegaard lo espone, egli si dichiara fortemente impressionato da un’affermazione del Diario secondo cui chi respinge questa fede “è complice della sua [di Cristo] uccisione”, e su tale asserto si arresta, interrogandosi: Non è forse qui stata discussa da Kierkegaard una cifra, di cui si è costretti a dire che esprime una delle più inquietanti condizioni fondamentali della realtà umana: vale a dire che noi siamo costantemente intenti a uccidere la verità? che noi costantemente lo nascondiamo a noi stessi, e anche agli altri, ma, nonostante ogni sforzo, non sappiamo, non abbiamo idea di dove stia la verità, e che restiamo sorpresi di come sempre di nuovo la uccidiamo?

la prima, sotto il titolo L’istanza della scientificità, discute gli atteggiamenti anti-scientifici riscontrabili nel marxismo e nel freudismo. 87 Ragione e antiragione, p. 55; p. 66. Veramente nello scritto sull’amore Jaspers prospetta – come progetto ideale e polare rispetto a quello di una filosofia assolutamente ispirata dall’odio – la possibilità di un atteggiamento interiore – simile a quello di Spinoza – di radicale “quietismo”, cioè di un’adesione all’essere “in equanime obiettività”, in cui “amore e odio verrebbero sospesi”; sarebbe un venir meno dell’amore non nell’indifferenza, ma in un amore ancora più profondo e più grande “senza contrasto, senza odio” (p. 220). Si tratta però di un atteggiamento difficilmente armonizzabile con i motivi salienti del filosofare jaspersiano, in particolare con il risalto conferito alla finitezza dell’uomo e alle situazioni-limite, nonché con il rapporto fra filosofia e prassi. Nel saggio già citato sul bene e sul male Jaspers sottolinea, proprio in nome della finitezza, l’impossibilità per l’uomo di collocarsi in un ideale “al di là di bene e male”. “L’uomo”, qui scrive, “non può non entrare nel contrasto e prendere posizione”. Solo alla divinità è concesso elevarsi al di là degli opposti: per l’uomo invece sia il sospendere la decisione che il pretendere di “agire sulla base dell’intero”, cioè senza scegliere fra bene e male, odio e amore, sono già male. Si tratta di una lotta – conclude Jaspers – che l’uomo è costretto a condurre “per tutto il tempo in cui vive”; dunque “le visioni del mondo attive, che in rapporto alla prassi sono sempre dualistiche, valgono come interpretazione vera dell’incondizionato che è possibile per lui” (ivi, pp. 97-98; corsivo nostro). Un atteggiamento come quello spinoziano risolverebbe il filosofare in pura contemplazione.

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L’ebreo Gesù – conclude Jaspers – potrebbe allora essere cifra di questo fatto: “che la verità perfetta, quando vuol farsi valere nel mondo, viene uccisa”, mentre noi siamo complici della sua uccisione, oppure sempre sul punto di diventarlo. Perché ciò accada, tuttavia, è per noi qualcosa di incomprensibile e di impenetrabile88.

88 Cifre, p. 69; pp. 65-66. Si tratta della lezione quinta, sulle cifre del Dio personale e del Dio-uomo. Che la verità perfetta nel mondo viene uccisa è d’altronde “cifra” già anticipata in Platone (Politeia II, 361 C-362 A), nell’“esperimento mentale” proposto da Glaucone – che allude anche al destino di Socrate: “Questo diranno: che se tale è la condizione del giusto, egli sarà frustato, torturato, incatenato, gli si bruceranno gli occhi e, finalmente, dopo aver sofferto ogni male, verrà messo al palo – e saprà che quel che bisogna volere non è essere giusti, ma sembrarlo”.

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PLATONISMO E NEOPLATONISMO NEL PENSIERO DI JASPERS: LA TRASCENDENZA ESTRANEA

Platone indicò tre inseparabili linee per il filosofare: il pensiero come via oltre il sapere del non-sapere, verso un sapere che fa da guida; la comunicabilità come condizione della verità, che diviene per noi fonte di affidabilità e vincolo che ci impegna; la dialettica come espressione della sovranità del pensiero, che è in grado tanto di produrre risultati stabili quanto di fluidificarli, e che non si acquieta nel provvisorio, perché è rivolto all’Uno, a ciò che è durevole, eterno. (Grandi filosofi, Platone, p. 290). Il fondatore della filosofia cristiana, Origene, e il fondatore della forma tardo-antica della fede filosofica, Plotino, hanno sviluppato contemporaneamente i loro rispettivi, affini pensieri come allievi di Ammonio Sacca, ad Alessandria... Origene ha una ringhiera per sostenersi nella salita: la corporeità di Gesù, la Bibbia ispirata da Dio, la Chiesa; Plotino, invece, trova il suo cammino nel libero spazio, senza sostegni, nella purezza algida del concetto. (Nachlass dei Grandi filosofi, vol. I, p. 184).

Abbiamo cercato di distinguere e porre in risalto tutti i fili che compongono la complessa tessitura della jaspersiana meditazione sull’amore: l’istanza incondizionata della comunicazione – “fonte di affidabilità e vincolo che ci impegna”1 – che integra e supera l’imperativo morale kantiano; la penetrante psicologia kierkegaardiana del “rinchiuso”; la ragione come medium della comunicazione, e la sua affinità con l’amore; l’eros platonico come entusiasmo e “divina mania”, e il tema platonico e neoplatonico dell’Uno, termine ultimo dell’ascesa amorosa.

1

Grandi filosofi, Platone, p. 290.

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Si è anche visto che Jaspers, riconoscendo una pluralità di manifestazioni dell’amore, attribuisce a tutte – nessuna esclusa – valore positivo, sia pure secondo un ordine di crescente positività. Si è visto poi che le manifestazioni “finite” – o appartenenti alla dimensione dell’immanenza – debbono essere integrate dall’amore “infinito”, nella sua triplice direzione: come amore per l’Uno della verità, come amore per il mondo – in quanto sede di realizzazione del primo – ma principalmente come amore per l’altra esistenza, in comunione con la quale soltanto si sperimenta la rivelazione della verità onnicomprensiva, e diviene possibile un autentico agire intramondano. Abbiamo altresì ricordato che tale meditazione non si è nutrita esclusivamente della frequentazione dei grandi pensatori, ma ha tratto ispirazione e sostanza dalla vita, dalle esperienze in cui si definisce e matura la personalità2: l’amore filiale, amicale e coniugale, l’ammirazione per l’uomo grande, il profondo legame con il proprio popolo, la solidarietà con i pochi, rimasti partecipi di una comune idea di umanità, nell’ora della prova; insomma da quella rete di relazioni, contrassegnate dalla fedeltà, in cui il singolo perviene a se stesso, assumendo la responsabilità del proprio destino. Rimane il compito di trarre un bilancio degli esiti di questa meditazione, entro i limiti in cui ciò sia richiesto a chi si sia essenzialmente proposto di presentarla e di favorirne la non sempre agevole comprensione. Bella e convincente – nella sua persuasa inattualità – ci sembra questa moderna riproposizione della platonica e neoplatonica scala d’amore: Jaspers proclama senza timidezze la natura metafisica dell’amore3, contro tutti i riduzionismi cui la contemporaneità ci ha assuefatti: l’amore non è mera pulsione organica, né un suo derivato; non è bisogno psicologico di integrazione o di fusione fra gli individui; non è tendenza all’aggregazione, che controbilancia la spinta all’aggressività, o epifenomeno dell’istinto di conservazione della specie. Neppure l’amore va inteso come una sorta di energia cosmica4 che, 2

Osserva giustamente Sternberger (Maestri del ’900, cit., p. 56) che, se non si considerano gli scritti autobiografici, Jaspers non dà, nella sua opera filosofica, “un resoconto della propria esperienza personale” ma questa appare, piuttosto, “come un movimento oscuro sotto il tessuto del linguaggio concettuale”; si tratta, tuttavia, di un movimento che l’interprete – proprio giovandosi degli scritti autobiografici – deve cercare di portare allo scoperto, se vuole intendere e fare intendere l’opera. 3 È questa, del resto, la posizione platonica, onde ogni tentativo di confronto con Freud, ad esempio, non può che portare fuori strada (cfr. Gerasimos Santas, Platone e Freud, il Mulino, Bologna 1990). 4 “Platone è il primo filosofo dell’amore, per il quale i primitivi miti oggettivanti dell’Eros come Eros cosmogonico passano sullo sfondo, come mere cifre, quando egli perviene all’origine nella realtà stessa dell’amore, cioè nella realizzazione dell’uomo filosofo” (Grandi filosofi, Platone, p. 290, corsivo nostro). L’interpretazione naturalistica dell’amore, come legame che

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naturalisticamente, tutto pervade; la sua collocazione precipua è, per Jaspers, nella soggettività, in quanto interiorità, libertà, ragione. Entro l’inglobante dell’eros, poi, egli conferisce un ruolo centrale all’amore di coppia, potenzialmente rivelativo della multidimensionalità dell’essere e dell’amare e, insieme, dell’attuabilità di una unificazione delle diverse dimensioni; e, ciononostante, non si spinge mai fino ad identificare l’eros con l’amore di coppia5. Abbiamo notato che – nell’intento di accentuare il carattere di “frammezzo” dell’amore – egli sottolinea la distanza dell’uomo dal vivente, e soprattutto dal divino, verso cui pure l’amore tende; il vivente non-umano non ama per difetto, ossia perché non ne è capace; a Dio invece l’amare è negato, ma per eccesso, cioè perché non ne ha bisogno. Vale forse la pena di fermarsi un poco su questo punto, chiedendoci se la perfezione di una divinità che non ha bisogno d’amare né, in fondo, di essere amata6, non sia per caso meno grande di quella di un Dio bisognoso e desideroso di entrambe le cose. Dio non ha che un’unica passione, scriveva Kierkegaard nel suo Diario, di amare e di voler essere amato... Questa è la tesi del cristianesimo. Essa contiene due cose: Dio ama – e Dio vuole essere amato... Quando io ho detto che in questo ci sono due momenti: che Dio ama l’uomo e che Egli vuole essere amato, per quanto riguarda quest’ultima determinazione bisogna ricordare che essa è una determinazione del suo amore per l’uomo, perché Egli sa che la suprema beatitudine dell’uomo è di giungere ad amare Dio7.

tiene insieme le diverse parti dell’universo, è invece ancora dominante nella filosofia rinascimentale che pure si richiama a Platone: si vedano ad esempio i Dialoghi d’amore di Leone Ebreo (Laterza, Bari 2008) dove si afferma che “... siccome niuna cosa non fa unire l’universo con tutte le sue diverse cose se non l’amore, seguita che esso amore è causa de l’essere del mondo e di tutte le sue cose” (p. 159). Leone vede il cosmo come un grande individuo le cui membra sono collegate fra loro e vivificate dall’amore, che compenetra il tutto. 5 Che risulta così inquadrato in una visione ad ampio raggio e non è ridotto entro una prospettiva di tipo psico-sociologico, come per lo più avviene nella saggistica contemporanea. Si veda, per fare un esempio, il brillante scritto di Ortega y Gasset La scelta in amore (1927; SE, Milano 1997): l’autore, pur ricorrendo ampiamente alla lezione di M. Scheler e sviluppando una psicologia di tipo fenomenologico, non ci consente di distinguere l’amore dall’innamoramento, e il fondamento del primo da quello, psicologico e inconscio, del secondo. Ci vengono fornite molte suggestive indicazioni su ciò che ci spinge ad innamorarci, ma resta inevasa la questione: che cosa sia l’amore, e, specificamente, l’amore tra i sessi. 6 Nel caso dell’uomo, secondo Jaspers, il primo bisogno – quello di amare – è assai più profondo e insopprimibile del secondo: anche se unilaterale, cioè non corrisposto, l’amore è in grado di alimentare la vita (Dell’amore, p. 203-4). 7 S. Kierkegaard, Diario, volume 11, pensieri n. 4281-4282-4288 (pp. 179 sgg.).

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Mai come su questa tesi cruciale, dunque, il pensiero di Jaspers appare tanto lontano da quello del poeta danese della fede, che lo aveva risvegliato alla filosofia. Anche se molte delle più significative – e belle – affermazioni di Jaspers sull’amore sembrano riprese da Sant’Agostino8 e dal pensiero cristiano9 qualcosa nel suo scritto punta in un’altra direzione: egli, infatti, si preoccupa scrupolosamente di mantenere il discorso entro l’orizzonte di una fede filosofica e non religiosa. In breve si potrebbe dire che, pur riconoscendo innumerevoli volte10 come “a stento” sarebbe possibile anche solo “concepire un filosofare senza Agostino”, Jaspers si arresta, con Platone, alla “seconda navigazione” di cui parla il Fedone11 ovvero a remi e con la forza delle braccia, e non accetta di fare la traversata della vita su “più solida nave”, metafora di una “divina rivelazione”12. “Mi sembra che la più alta coscienza dell’esser-uomo sia stata raggiunta nella Bibbia e non in un pensiero filosofico” scrive Jaspers in Cifre della Trascendenza13. Si tratta dell’uomo creato libero e che mette in gioco la sua libertà anzitutto nel rapporto con Dio; dell’uomo che riconosce la sua fragilità e la costante necessità della conversione; che spinge a tali estremi la 8 Per esempio questa: “Alles, was in uns Gewicht hat, ist im Ursprung Liebe” (PS, p. 145) che riprende quasi letteralmente il motto agostiniano:Pondus meum, amor meus; eo feror quocumque feror (Confessioni, 13, 9, 10); ma si pensi anche alla tesi di Agostino secondo cui “Ciascuno è ciò che egli ama”(Commento alla I Lettera di Giovanni, II, 14) e alla considerazione di Jaspers che apre lo scritto sull’amore: “io sono nella maniera in cui amo”. 9 Significativa la ripresa di Paolo (I Corinti, 13) sia nello scritto sull’amore (p. 205) sia in PS p. 145; p. 132. In entrambi i casi, comunque, Jaspers avanza alcune riserve. 10 Anche in Della Verità, p. 854. 11 Cfr. Fedone, 99 C 9-D1. 12 Per questo si veda la bella introduzione di G. Reale ad Agostino, Amore assoluto e “terza navigazione”, Rusconi 1994, in particolare pp. 49 e sgg. Una curiosa versione della “seconda navigazione” platonica si può leggere in Introduzione alla filosofia, lezione undicesima – sul tema della filosofia come guida nella vita. “Dopo che il filosofo –scrive Jaspers – si è orientato sul suolo sicuro della terraferma – nell’esperienza della realtà, nelle scienze particolari, nella dottrina del metodo e delle categorie – e dopo che, ai confini di questa regione, ha attraversato, lungo quieti sentieri, il mondo delle idee, infine svolazza come una farfalla sulla riva dell’oceano, spingendosi fin sopra l’acqua, alla ricerca di un mezzo di navigazione, con il quale vorrebbe compiere un viaggio esplorativo alla scoperta dell’Uno, che, in quanto egli è esistenza, gli è presente come Trascendenza. Egli va mettendo alla prova il mezzo di navigazione –il metodo del pensiero filosofico e della filosofica condotta della vita – un mezzo che egli vede, ma che non è mai, per lui, un possesso sicuro e definitivo; così si affatica e forse compie dei movimenti vertiginosi e bizzarri” (ivi, p. 100; it. p. 111). I “movimenti vertiginosi e bizzarri” rimandano a quella “alogica razionale” che, mediante il naufragio del pensiero, consente l’accertamento della realtà dell’Uno (vedi oltre). 13 Cifre, p. 17; p. 16.

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sua passione per la verità, da mettersi a disputare con l’Onnipotente, e da esserne elogiato per la sua inaudita franchezza; che riconosce come amare Dio e amare il prossimo costituiscano un unico precetto. Era stato l’incontro con la moglie – racconta nell’Autobiografia – a risvegliare in lui un nuovo interesse per la Bibbia14; però sempre la moglie lo aveva avviato anche allo studio di Platone15, mentre, proprio negli anni in cui avveniva “l’illuminazione tramite Kierkegaard”, era iniziata una approfondita lettura di Plotino. Ora è appunto all’Uno neoplatonico che, a nostro avviso, si riallaccia la Trascendenza di Jaspers. Tutte le cose che sono, sono per l’Uno, e senza l’Uno nulla sarebbe... l’Uno è al di sopra dell’essere, che ha in sé una molteplicità di forme e, di conseguenza, è privo di forma... L’Uno non è nessuna delle cose che da Lui derivano, in quanto le trascende tutte in senso assoluto... All’Uno non conviene nessun nome, secondo verità. Il termine Uno gli conviene, a patto che non lo si intenda nel senso comune, ma come quel principio di infinita potenza da cui tutto deriva... Nella sua infinitudine l’Uno è autosufficiente in senso assoluto, ossia nel senso che non ha bisogno né di sé, né delle altre cose che da lui derivano. In un certo senso si può dire che l’Uno è al di là del Bene, in quanto non è un “bene per sé”, bensì un bene per tutte le altre cose. Dunque è un Bene al di là di tutti i particolari beni.

Queste parole, con cui G. Reale limpidamente introduce il trattato conclusivo della sesta Enneade, ci pare si attaglino in modo straordinario al Dio jaspersiano16. È pur vero che – come ha osservato un attento lettore dei Grandi Filosofi 17– descrivendo il sistema di Plotino, Jaspers gli muove non 14

“Ella aveva precocemente trasformato in se stessa – pur senza una vera e propria rottura e in fedeltà sostanziale con la sua provenienza – l’ortodossa fede ebraica in un filosofare fondato sulla Bibbia. La sua vita era governata da uno spirito di timore religioso” (Autobiografia, p. 115). 15 Ivi, p. 125. 16 Plotino, Enneadi, Mondadori, Milano 2002, p. 1927. Lo stesso termine “periecontologia”, che Jaspers impiega proprio nell’opera Della Verità (pp. 158 e segg.) in contrapposizione ad “ontologia”– come sistema oggettivo dell’essere – e che designa “l’accertamento delle guise dell’abbracciante” (ivi, p. 877) è, come abbiamo detto, connesso con l’adozione, da parte di Plotino, del simbolo anassimandreo dell’ápeiron, per significare l’infinitezza attuale dell’Uno. Tale infinito o illimite (il Grenzenlos che già compariva nella Psicologia di Jaspers) è indicato, nella presentazione aristotelica del pensiero di Anassimandro (Phys. 203, b 6), come una realtà “che tutto abbraccia (periéchei) e governa”. 17 Si veda G. Masi, Socrate Platone e Plotino secondo K. Jaspers, in K. Jaspers Filosofia-scienzateologia, a cura di G. Penzo, Morcelliana 1983, pp. 183-192. Per l’accostamento della Trascendenza jasperiana all’Uno di Plotino, vedi anche K. Salamun, Karl Jaspers, cit., p. 107.

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pochi rilievi critici, sulla base di motivi sia kierkegaardiani che platonici. Per Jaspers – avverte G. Masi – Plotino “ignora la storicità come interferenza di eternità e di tempo (in senso kierkegaardiano)”18; mentre, d’altro canto, “l’esigenza di unità, di sintesi, che in Platone non rappresenta che un elemento sollecitante del cammino filosofico, diventa in Plotino qualcosa di unico, di assoluto. Platone vede nella filosofia uno sforzo per assomigliarsi al divino, Plotino un modo di indiarsi sopprimendo ogni differenza”. Particolarmente significative per noi sono pure le valutazioni jaspersiane sul modo di considerare l’amore, che, in Plotino, molto più che in Platone, risulterebbe qualcosa d’impersonale e di astratto. Dal momento che nel suo sistema il singolo non ha alcuna importanza, scrive Jaspers, “anche l’amore rivolto all’Uno, non può non risultare tanto grandioso quanto privo di concretezza... l’impersonale eros per l’Uno toglie al matrimonio e all’amicizia il loro peso e valore... l’amore di Plotino non diviene sostanza dell’anima, tramite una risoluzione esistenziale, nella insostituibilità di ciò che è storico”19. Ciononostante, la profonda impressione esercitata su di lui dalla teologia plotiniana traspare con evidenza dalla presentazione che ne propone nelle medesime pagine: L’Uno, l’estrema Trascendenza, Plotino lo chiama anche: Dio. Tramite la divinità tutto ciò che è visibile, pensabile, lo spirito, tutto ciò che noi siamo e che possiamo comprendere, diviene qualcosa di sotto-ordinato. Questo attraversamento di ogni immanenza, di ogni splendore e grandezza nel mondo e di ogni realtà spirituale, per muovere verso la divinità, non è affatto ovvio, e ancor meno lo è la radicalità con cui in Plotino la Trascendenza viene protetta da ogni pensabilità, avvicinamento, afferrabilità e corporeità... Nessun filosofo ha più di Plotino vissuto nell’Uno. Però questo Uno non è il Dio vivente della Bibbia, non è mosso da collera, non elargisce la grazia e la salvezza. Il Dio di Plotino viene amato infinitamente, ma non contraccambia l’amore. Tutto viene da Lui, ma non tramite la sua volontà. Non c’è nessun culto e nessuna comunità, per quest’unico Dio. L’anima fugge con l’Uno che è in lei, verso l’Uno-Unico... Da Dio, l’Uno, tutto dipende per noi... Però questo Dio non si rivolge a noi come 18 G. Masi, Socrate Platone e Plotino secondo K. Jaspers, cit., p. 191. Effettivamente i più importanti rilievi critici di Jaspers concernono la condizione esistenziale: l’ignoranza delle situazioni-limite, la sottovalutazione del male, la passività dell’atteggiamento contemplativo, la trasformazione del mondo in un mero proscenio, senza significato e valore ecc.. Tuttavia lo stesso Masi riconosce come Jaspers sia affascinato dal “movimento del pensiero che effettua l’oltrepassamento” (ivi, p. 189), al quale si può dunque prendere parte, superando ogni irrigidimento sistematico. 19 A Plotino, conclude Jaspers, poco importa dei suoi genitori e della sua provenienza, né vuole amare una singola donna, perché “nel cielo non ci sono matrimoni” (Grandi filosofi, p. 718).

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un essere personale, che ama... Come molti grandi filosofi (Aristotele, Spinoza) anche Plotino non conosce alcun amore di Dio per l’uomo, ma l’amore, che fonda ogni vita essenziale, dell’uomo per Dio20.

Se la tesi secondo cui gli dei immortali non amano perché non abbisognano di nulla, in quanto già possiedono tutto ciò che chi ama desidera21, è centrale nel discorso di Diotima-Socrate, quella secondo cui attribuire l’amare a Dio lo abbasserebbe a livello dell’uomo è comunque coerente con gli attributi della Trascendenza che già nel terzo volume di Filosofia Jaspers poneva in risalto, contro “un falso modo di avvicinarla a noi”22: essa è e deve rimanere, lì sosteneva: nascosta, lontana, estranea. Ma mentre il nascondimento e la lontananza non sono necessariamente in conflitto con “il pensiero di Dio”23 ricavabile dalla Bibbia, la stessa cosa non si può certo dire dell’estraneità24. Fedeltà e misericordia25, i due attributi che qualificano dall’inizio alla fine il Dio biblico, presuppongono infatti, inequivocabilmente, un Dio-in-relazione. Per Kierkegaard l’essere spirituale è relazione: e ciò vale a maggior ragione per Dio, che è “soggettività infinita”. La nostra finitezza in quanto esseri spirituali non consiste dunque nello stare-in-relazione, ma semmai nel fatto che siamo posti in essa, e in vista di essa, mentre Dio, che ci pone, la pone. 20

Ivi, pp. 670-671; corsivo nostro. “Le cose belle e le cose buone” (Simposio, 202, D5). 22 Filosofia III, p. 164. 23 Der Gottesgedanke è il titolo della quarta lezione radiofonica contenuta in Introduzione alla filosofia (Piper, München 1953; 20042). “Il nostro modo occidentale di pensare Dio – esordisce qui Jaspers – ha storicamente due radici: la Bibbia e la filosofia greca”. Mentre però il Dio dei greci è, essenzialmente, “un Dio pensato”, quello della Bibbia, in particolare di Geremia, è “un Dio vivente” (ivi, pp. 32-33; it. pp. 31-32). L’impressione complessiva del lettore di Jaspers è che egli miri non tanto a farli incontrare, quanto piuttosto ad interpretare il Dio di Geremia in modo da avvicinarlo il più possibile a quello della teologia greca, in particolare neoplatonica. 24 Non solo Pascal e Kierkegaard, ma anche Kant, ripropongono in modi diversi il “Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio d’Israele, Salvatore!” veterotestamentario (Isaia 45, 1516). Tale Dio può anche essere detto “lontano”, in quanto Bene perfetto e assoluto, rispetto all’uomo gravato dalla peccaminosità, e, per Kant, in quanto Volontà perfetta, santa, e pure imperscrutabile, rispetto all’uomo, limitato sia come volontà che come ragione. Sicuramente però Egli non ci è estraneo. 25 “... poiché grande è stata la sua misericordia per noi e la fedeltà del Signore dura per sempre” (Salmo 117). I due termini formano una sorta di endiadi, continuamente ripetuta nei Salmi: Dio è fedele, nella sua costante misericordia, e misericorde, nella sua benevola fedeltà. Kant sottolineerebbe che tali attributi – così come l’asserto: Dio è amore – dicendo la condotta di Dio verso l’uomo, non impegnano la ragione speculativa, ma quella pratica: la loro rilevanza dunque non sarebbe metafisica, ma religioso-morale. 21

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La relazione che ci costituisce, insomma, è asimmetrica, per la soverchiante potenza di Dio, che crea esseri spirituali, indipendenti, liberi di amarlo. Così, nel bisogno che abbiamo di Lui, o nell’amore di bisogno che a Lui ci lega, è racchiusa una sublime perfezione: non si tratta, infatti, di uno di quei bisogni che significano dipendenza dalla natura, e quindi necessità, ma di un bisogno che vuol dire libertà, quella di poter liberamente, con la scelta della fede, partecipare alla vita divina, che è vita di libertà e di relazione26. Per Jaspers, invece, non è l’asimmetria nella relazione, ma la relazione stessa a comportare imperfezione, limite. La divinità non può essere pensata altrimenti che come “chiusa in sé”, in quanto assolutamente autosufficiente; autosufficienza che, egli ammette, dal nostro punto di vista (ma anche solo da questo) potrebbe apparire egoismo: “Ciò che nella vita significa, per l’esistenza, il male, cioè: io sono me stesso da solo, è, invece, del tutto adeguato per un essere che è se stesso, senza essere in relazione (ohne Bezogenheit)”27. Dal momento che, per noi, esistere è rapportarci alla Trascendenza – come sosteneva anche Kierkegaard – se questa fosse “esistenza” dovrebbe, a sua volta, rapportarsi ad un’altra Trascendenza. “L’esistenza, che comprende se stessa come non-solo-se-stessa, alla sua radice è riferita alla Trascendenza, che se fosse a sua volta esistenza non si rapporterebbe solo a sé, ma, di nuovo, ad un Altro, cioè dovrebbe essere rivolta essa pure alla sua Trascendenza”28. Ugualmente, essa non può venir pensata come personalità, perché tale è “la maniera d’essere del Sé, che, secondo la sua essenza, non può essere solo; è una realtà di relazione, che deve necessariamente avere fuori di sé dell’altro: altre persone e la natura.” Intesa come personalità, la divinità “avrebbe bisogno di noi, dell’uomo, per comunicare”; credere questo, però, vuol dire già “intaccarla” o “degradarla”29. È vero che alcuni mistici si sono spinti fino 26 La cosa più semplice ed umile – scrive Kierkegaard in un discorso edificante del 1848, su Romani 8, 28 (GTB Siebenstern, 1981, p. 202; trad. it. Discorsi cristiani, Torino, Borla 1963, p. 197) – è dire “che Dio si ama, perché se ne ha bisogno”. E aggiunge, ironicamente: “sembra naturale che per amare Dio occorra innalzarsi fino al cielo dove egli abita; tuttavia la cosa più giusta e più sicura è di amarlo con umiltà rimanendo sulla terra. Certo può sembrare nobilissimo amare Dio per la sua perfezione e, al contrario, troppo egoista amarlo per il bisogno che si ha di lui: tuttavia quest’ultimo modo è l’unico attraverso il quale un uomo possa realmente amarlo... L’uomo che riesca ad approfondire meglio il suo bisogno di Dio lo ama anche con la maggiore veracità”. Tale bisogno è il nostro privilegio, perché sta sotto il segno liberante della possibilità: cioè esso significa che noi siamo spirito e libertà. Su Dio inteso come “soggettività infinita”, “persona”, “egoità infinita” si leggano, nel Diario, rispettivamente i pensieri nn. 4255 e 4334, vol. 11 e n. 3469, vol. 9. 27 Filosofia III, p. 65. 28 Ibid. 29 Ivi, p. 166: “Resisto all’impulso che mi spingerebbe a fare della divinità un tu, perché

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ad affermare che Dio non potrebbe sussistere senza l’uomo30; però “per l’esistenza, divenuta consapevole di non essersi creata da sé, la tesi per cui Dio, come Trascendenza, sarebbe anche senza l’uomo” è un pensiero inevitabile, per quanto non formulabile positivamente, ma solo come impossibilità di accogliere quelle affermazioni31. In definitiva: nessuno dei signa esistenziali (esistenza, personalità, libertà), che pure indicano ciò che, nell’uomo, è la cosa più alta, sono adatti a Dio, proprio perché implicano tutti relazione (la libertà, ad esempio, comporta per noi il rapporto con la necessità e con la resistenza della natura). Anzi, proprio l’esistenza, “la realtà che più di tutte si può confondere con la Trascendenza”, custodisce invece “la distanza nella maniera più decisa”; addirittura essa, che “come libertà è la forma estrema dell’essere autentico, può prestarsi meno di tutte ad una trascrizione nella Trascendenza”32. Se è vero infatti, che la ragione procede sempre ai limiti, e quindi per paradossi – come si è visto anche nella presentazione dell’amore – mentre già nella chiarificazione dell’esistenza e nell’illustrazione dei suoi signa essa urta nell’inoggettivabile e nell’inconcepibile, nel caso della Trascendenza e del suo accertamento urta addirittura nell’impensabile33. Il nesso analogico che mai si interrompe fra le diverse guise del nostro essere e del nostro amare – il cui elemento comune è, a ben vedere, la temporalità, sento che così io intaccherei (antaste) la Trascendenza...”; inoltre: “La comunicazione di un se stesso con un altro se stesso, che è quella realtà (Wirklichkeit) autenticamente presente in cui la Trascendenza può venire a parlare, è bloccata quando la Trascendenza viene avvicinata direttamente, come un tu e, insieme, degradata (degradiert)”. 30 Affermazioni, come si sa, frequenti tanto in Meister Eckhart quanto in Angelo Silesio. Le tesi di Jaspers sull’argomento potrebbero essere utilmente confrontate con quelle di N. Berdjaev, che nel 1927, in un saggio dal titolo Quelques réflexions sur la théodicée (ora in Pour un christianisme de création et de liberté, Paris, ed. Du Cerf, 2009, p. 95), scriveva: “Sono numerosi i mistici che insegnano che, morendo l’uomo, anche Dio muore, e che l’uomo scompare quando Dio scompare. Dio nasce quando nasce l’uomo. L’amante non può vivere senza l’amato (corsivo nostro). Ciò ha sempre turbato i teologi. Ma mentre i teologi restano in superficie, al di fuori del Mistero, e vi si riferiscono solo quando si trovano in difficoltà, i mistici penetrano davvero nella vita del Mistero...”. Su questo punto, direbbe Berdjaev, Jaspers si avvicina ai teologi assai più che ai mistici, e dunque resta... “in superficie”. Da notare poi che per il filosofo russo l’amante è anzitutto Dio, e l’amato è l’uomo: quindi se l’uomo ha bisogno di Dio, pure Dio ha bisogno dell’uomo. 31 Filosofia III, p. 164. 32 Filosofia III, p. 65. Corsivo nostro. 33 “Per la chiarificazione l’esistenza veniva pensata–trascendendo oltre l’Esserci ed ogni comprensibilità oggettivamente adeguata – come signum della certezza di quell’essere che, in quanto se stesso, è in rapporto con la sua Trascendenza. Dopo il pensiero dell’esistenza come signum, io trascendo oltre questo signum, che già naufragava nella sua pensabilità, restando però certezza del se stesso a sé presente, verso l’impensabilità dell’essere autentico, che, nel suo naufragare, mi ritorna come cifra” (ivi, p. 65). Corsivi nostri.

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giacché anche l’esistenza è un divenire nel tempo ciò che eternamente siamo –s’infrange quindi inesorabilmente contro l’assoluta alterità dell’Eterno. È indubbio che Kierkegaard vedrebbe in tale divina perfezione, tutelata dall’estraneità, una sorta di idolatria, simile a quella che egli denuncia, nel Diario, a proposito del “motore immobile” aristotelico, in cui riscontra una concezione superstiziosa dell’immutabilità di Dio34; per Jaspers vale l’opposto, e cioè che una divinità personale, proprio perché pensata come relazione, rischia fortemente di trasformarsi in un idolo35. In Kierkegaard tutte le categorie ontologiche – come gli attributi di Dio – subiscono una rimodulazione in senso etico-esistenziale. Ad esempio Dio non è l’essere, ma “il vivente annichilimento del male”36, mentre il puro essere è “l’espressione più astratta per l’eternità”37; il Bene non è essere, ma libertà38, e il non-essere deve essere pensato come il peccato, non viceversa39. Il leit-motiv contro la Logica hegeliana – e contro ogni specie di eleatismo – è che il vero movimento (quello spirituale) si trova nell’etico, cioè nell’agire, nella libertà; e poiché Dio non è mero “pensiero di pensiero”, bensì azione – dal momento che, anzitutto, crea – e azione libera, non vi è incompatibilità alcuna fra l’essere di Dio e il movimento. L’immutabilità divina, allora – cui Kierkegaard dedica uno dei suoi ultimi discorsi edificanti40 – va intesa come fedeltà al proprio patto con l’uomo e alla promessa41, e come misericordia instancabile, spinta fino all’Incarnazione e alla morte di croce, per salvarlo. Alla Trascendenza di Jaspers, invece, in quanto assolutamente inattingibile, non si addicono nemmeno le categorie etico-esistenziali42. Il fatto è che, pur essendo disposto ad acco-

34 “Il rapporto della divinità con l’uomo, come lo può concepire ogni filosofia, l’ha già espresso Aristotele in modo eccellente, quando dice: ‘Egli muove tutto, stando egli stesso àκίνητος’. (Per quanto ricordi, Schelling lo faceva osservare a Berlino). È in fondo il concetto astratto di immutabilità, e il suo influsso ha perciò un effetto di sirena ammaliatrice. Così ogni razionalismo finisce in superstizione” (Diario, volume terzo, p. 93, pensiero n. 929). 35 Filosofia III, p. 167: “È come se l’uomo, consegnandosi ai suoi idoli, fuggisse da se stesso”. 36 Concetto dell’angoscia, p. 103. 37 Ivi, p. 78. 38 Ivi, p. 102. 39 Ivi, p. 76. 40 È l’ultimo discorso edificante incluso nella edizione Sansoni degli scritti kierkegaardiani, pp. 941 sgg. e, come ricorda l’autore, fu tenuto a Copenaghen “nella Chiesa della Cittadella, il 18 maggio 1851” (e pubblicato nel 1855). 41 Fedeltà proclamata da Dio stesso nel Deuteronomio: “Riconosci dunque che il Signore, Iddio tuo, è il vero Dio, il Dio fedele, che mantiene il suo patto e il suo favore fino alla millesima generazione verso quelli che lo amano e osservano i suoi Comandamenti...” (Deut. 7, 9). 42 Cfr. Filosofia III, pp. 63 e sgg.: “trascendere nelle categorie della libertà”.

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gliere dalla Bibbia un certo teomorfismo antropologico43, Jaspers respinge con intransigenza ogni antropomorfismo teologico44: l’uomo deve guardarsi dall’avvicinare a sé la Trascendenza – cosa che avviene immancabilmente nella religione – per due ragioni: per non intaccarla o lederla, “sminuendola a realtà empirica”, e per poter “essere Sé, come deve”. Infatti “Dio vuole, come Trascendenza, che io sia me stesso”45. Consideriamo brevemente questi due aspetti, iniziando dal secondo46. Jaspers ritiene che l’ipotesi di un’auto-rivelazione storica ed esclusiva di Dio, quale si prospetta nella Bibbia, minaccerebbe la libertà creata dell’uomo47. Da una parte l’uomo ne sarebbe, per dir così, “sopraffatto”: una reale teofania (nello spazio e nel tempo) poco concederebbe alla scelta, e ne verrebbe attenuata, se non del tutto annullata, la rischiosità della fede. È facile vedere, però, che ciò avverrebbe solo se la rivelazione si configurasse come un evento oggettivo, univoco e incontrovertibile, cioè se essa non fosse – come è nel cristianesimo, almeno secondo Kierkegaard – “per la possibilità dello scandalo”, cioè una provocazione della libertà48. Inoltre un 43 Perlomeno in senso negativo: come vale per Dio il divieto di farsene copia o immagine, vale anche per l’essere dell’uomo, che non si può oggettivare né fissare in un’immagine, giacché “ogni immagine dell’uomo è già una limitazione”. Solo la categoria di possibilità si presta a significarlo: ma essa segnala, appunto, non la possibilità di diventare, genericamente, uomo, bensì, in modo inconcepibile e indefinibile, se stesso (si veda, per questo, il saggio del 1949 su Condizioni e possibilità di un nuovo umanesimo, ora in K. Jaspers, Das Wagnis der Freiheit, Piper, München 1996, p. 101). Invece della Trascendenza si deve dire solo che è “lontana, perché è inafferrabile direttamente”, ma anche “estranea” e “assolutamente imparagonabile con me”. Essa è “l’incomparabilmente, assolutamente altro” (Filosofia III, p. 164). Un teomorfismo analogamente negativo si trova pure in Kierkegaard: come Dio – ma anche infinitamente meno di Lui – la persona umana è un clausum, un adyton, un mysterion (Diario, volume decimo, p. 201, pensiero n. 3989). Però per Kierkegaard Dio è persona, è un “Tu”. 44 Diversamente Kierkegaard che, ad esempio, sempre in Concetto dell’angoscia, p. 56, discutendo alcune tesi di Schelling, riconosce che “un antropomorfismo vigoroso e pieno di vita è qualcosa di già valido”. 45 Filosofia III, p. 168. 46 In questa sede possiamo tracciare solo alcune linee della complessa questione riguardante i rapporti fra fede filosofica e fede nella rivelazione (o tra filosofia e cristianesimo) secondo Jaspers. Ci proponiamo di esaminarne più analiticamente i diversi aspetti in un lavoro sulla sua filosofia della religione. 47 Rivelazione, p. 38. 48 Kierkegaard – sulla scorta di Pascal – sottolinea con enfasi la paradossalità dell’Incarnazione, che provoca lo scandalo della ragione, qualora essa pretenda di comprenderla a partire da se stessa. L’alternativa di fronte a cui la ragione si trova è: o respingere la “cosa” come assurda, o cercare di dissolverne la paradossalità, mediante razionalizzazione. Siccome la maggior parte degli sforzi di Kierkegaard è rivolta contro la seconda eventualità, egli preferisce di gran lunga il primo atteggiamento, che è conforme al carattere “provocante” della cosa e, almeno, è onesto. La rivelazione è comunque sempre, per lui, affare di fede: per

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Dio che intervenisse direttamente nella storia, agendo in essa con un’iniziativa concorrente, ma di potenza incomparabilmente superiore rispetto a quella dell’uomo, attenuerebbe o annullerebbe il senso di responsabilità di quest’ultimo, in particolare nei confronti del male49. L’efficacia dell’agire di Dio dovrebbe, invece, per Jaspers, essere ricondotta interamente al “prodigio” della libertà umana, pur con tutti i pericoli che essa comporta50. Al problema della responsabilità rispetto al male è connessa la particolare interpretazione che il filosofo dà del libro di Giobbe, interpretazione che si discosta notevolmente tanto da quella di Kierkegaard quanto da quella di Kant, e che fornisce anche qualche indizio circa il “danno” che sarebbe causato alla Trascendenza da un eccessivo avvicinamento a noi. Kierkegaard legge Giobbe dapprima con riferimento al tema della ripetizione (o ripresa)51, cioè della possibilità, che solo la fede religiosa è in grado di offrire, di un completo recupero dei beni perduti: è un recupero che per Giobbe e per Abramo avviene già nel tempo, mentre per il cristiano si prospetta, prevalentemente, come recupero nell’eternità. Poi, però, egli ne svolge l’interpretazione nel Vangelo delle sofferenze52, in cui espone, nello stile del discorso edificante, la soluzione paradossale data dal cristianesimo all’enigchi non abbia l’autopsia della fede Dio è l’Incognito assoluto: non sono i tuoni e i fulmini e nemmeno i miracoli a produrre la fede. 49 Una delle più sofferte meditazioni sul male nella storia e sulla responsabilità dell’uomo per esso si svolse, in forma di lezioni, presso l’Università di Heidelberg da poco liberata. Le lezioni furono raccolte sotto il titolo Die Schuldfrage (La questione della colpa) e toccarono il tema della colpa nelle sue diverse forme: morale, giuridica, politica, metafisica. Sia Sternberger che G. Mann attribuiscono a quelle lezioni jaspersiane un valore etico e pedagogico altissimo (cfr. K. Jaspers Die Schuldfrage, Schneider, 1946; trad. it. La colpa della Germania, Esi, Napoli 1947). 50 “Das Wunderbare, das einzige eigentlich Seiende, das mir begegnet, ist der Mensch, der er selbst ist” (Filosofia II, p. 44, in corsivo nel testo). Jaspers parla del “miracolo del se stesso” (das Wunder des Selbstseins) con una certa frequenza, per esempio anche in Introduzione alla filosofia, cit., p. 36; it. p. 36 (ma il traduttore fraintende malamente, dicendo della “meraviglia in cospetto del mio essere”, sic!). Solo in tal senso l’amore di Dio per l’uomo potrebbe essere riconosciuto come uno di quei simboli “che entrano nel profondo del cuore e che educano alla qualità dell’umano” (Dell’amore, p. 206). Come leggiamo in Filosofia I, p. 302: “La divinità non dice nulla direttamente, però sembra parlare attraverso questa possibilità della libertà, anzi sembra esigere che sia adempiuta la sua volontà, per noi inconcepibile, per cui fece l’uomo indipendente, di modo che egli decida di se stesso con responsabilità personale e abbia in ciò la sua dignità”. Amore di Dio per l’uomo significherebbe dunque: Egli ci “vuole” liberi, e per questo rimane nascosto, lontano, estraneo (verborgen, fern, fremd). 51 Lo scritto La ripetizione – coevo di Timore e tremore – si può leggere in traduzione italiana nei tipi della Bur e di Guerini & Associati. 52 In italiano nella edizione Sansoni delle opere di Kierkegaard, a cura di C. Fabro, pp. 829-898.

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ma della sofferenza del giusto. Una sola è la sofferenza totalmente ingiusta, quella del Cristo; ma ogni sofferenza, assunta con amore, è già vittoria sul peccato e sulla morte. Kant, a sua volta, vede nel libro veterotestamentario l’illustrazione esemplare di una teodicea non dottrinaria, ma imperniata sulla ragion pratica e sulla fede nella promessa del Sommo Bene; teodicea di cui abbozza, almeno parzialmente, uno sviluppo nell’interpretazione morale del dogma dell’espiazione vicaria53. Jaspers, invece, coglie nel libro di Giobbe un vertice assoluto e una posizione oltre la quale non si può andare: esso rappresenterebbe, al contempo, l’espressione più alta e più toccante della credenza nel Dio personale, fondamento e garanzia dell’istanza morale e giusto giudice, ma anche il collasso irreversibile di questa stessa cifra54. Così il non-sapere55 cui Giobbe approda, al termine delle sue insistenti e angosciose interrogazioni, non è per Jaspers, come per Kant, controbilanciato da una sapienza pratica, coronata dalla speranza; né sfocia, come in Kierkegaard, nel mistero sconvolgente della sofferenza divina; esso è, piuttosto, il versante esistenziale, drammatico, di una fede filosofica che si autoproclama priva di illusioni56, ardua ma orgogliosamente sincera, il cui completamento può tutt’al più venire, sul versante teoretico, dai procedimenti speculativi della teologia negativa, come si presenta, ad esempio, nella docta ignorantia del

53 Sull’interpretazione “pratica” dell’espiazione vicaria, si veda la seconda sezione de La religione nei limiti della mera ragione (Rusconi, Milano 1996, pp. 183 sgg.). Su Giobbe e la teodicea, si veda Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea (1791) in I. Kant Scritti di filosofia della religione, Mursia, Milano 1994, pp. 52-64. 54 Ben presente, non di meno, ancora nel libro della Sapienza (metà del primo secolo a. C.: vedi, in particolare, cap. 12). A proposito di questo libro, sarebbe interessante confrontarne alcuni passi (in particolare: 7, 22-24), in cui lo scrittore biblico, buon conoscitore del pensiero greco, enuncia gli attributi della sapienza – considerata “un’emanazione della potenza divina” – con la presentazione jaspersiana degli attributi della ragione (per es. in Della Verità, pp. 967 e sgg.): mobilità, onnipervasività, acutezza, purezza, ispirazione amorosa caratterizzano infatti l’una e l’altra. 55 Si tratta di un non-sapere esistenzialmente pregnante, mediato dalla ricerca spregiudicata e franca di un senso ultimo per la sofferenza ingiusta. Il Giobbe di Jaspers si trova in Rivelazione, pp. 332-351. 56 “Questa fede attiva ha la sua prova più alta quando l’attuazione della sua storica unicità si coniuga con la consapevolezza, apparentemente contrastante, della rovina finale di tutto, dei miei prossimi, di me stesso, del mio popolo, di ogni attuazione e realizzazione nel mondo. Quando questa consapevolezza si mantiene pura, nella misura in cui non cede né ad una fissazione di un aldilà (come di un regno realmente sussistente) oppure di un aldiqua (come il perdurante sopravvivere del proprio popolo, oppure il progredire indefinito nella realizzazione di idee), allora è davvero possibile la fede in una trascendente certezza d’essere, tramite una relazione vincolante con la divinità, non offuscata più da nessun sentimento interessato” (Filosofia II, cap. 8, p. 282; vedi infra, p. 232).

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Cusano57. Questa fede, che respinge ogni garanzia oggettiva ed è del tutto disinteressata58, predilige una formula che dovrebbe dar coraggio nelle traversie della vita, ma il cui intento non è né di accendere né di ravvivare una speranza: “Dio c’è, questo basta” (Gott ist, das ist genug).

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Gli ebrei potevano morire fiduciosi, quando non riuscivano più a scorgere il governo di Dio ed essi stessi elevavano contro Dio, nel loro pensiero, le imprecazioni più violente che mai si siano udite. Naturalmente si sostenevano con la promessa di Dio, con la sua protezione e la sua guida. Ma quando queste realtà venivano meno, essi si sostenevano, giustamente, soltanto sulla certezza che Dio c’è59.

È chiaro che la frase di Jaspers si comprende non solo sulla base del non-sapere jobico, e della decisa limitazione del significato e del valore della 57

Nicola Cusano (1401-1464) è uno dei pensatori più amati da Jaspers, che gli ha dedicato un’appassionata monografia, pubblicata nel 1964 (Nikolaus Cusanus, Piper-DTV München 19682). Il testo è stato inserito nella versione italiana dei Grandi Filosofi (Longanesi, Milano 1973). Nello scritto sull’amore del ’47 Jaspers riprende per ben due volte (p. 211 e p. 216) la metafora cusaniana della prostituta, riferita alla mente che insegue con frivolezza il molteplice, invece di concentrarsi castamente nella ricerca dell’Uno. Nello studio sul filosofo di Kues, commentando questi passi, tratti dal De quaerendo Deo, Jaspers rileva che “l’intelletto è in sé infruttuoso perché è indefinito (endlos) nel suo procedere, e vuoto, nonostante tutta la passione” (ivi, p. 141). Il problema è che “l’uomo, quando non ritiene vero niente altro se non ciò che è a misura d’intelletto, si è già sbarrato il cammino verso la verità” (p. 152). Tali osservazioni rimandano, in definitiva, alla distinzione già citata (vedi cap. secondo) fra agnostico passivo e attivo. Mentre il primo si abbandona passivamente all’indefinitezza e inconcludenza del sapere oggettivo, il secondo, approfondendo il significato del non-sapere essenziale, si predispone al salto verso un “pensare” di genere diverso. È questo un pensare meramente “negativo”, che ci indirizza dai molteplici veri verso l’Uno. 58 Il carattere disinteressato della fede kantiana, garantito dal passaggio attraverso l’autonomia del soggetto morale, è spinto da Jaspers fino al sacrificio della speranza, con la quale, nonostante tutto il disinteresse, continuava ad identificarsi la fede di Kant. 59 PS, p. 155; p. 139. “La cifra Dio, se viene interpretata in maniera univoca, ci dà la coscienza di essere protetti. Ma diviene equivoca a causa delle esperienze che facciamo nel mondo, che non possiamo sottacere, né cercare di ignorare. Dio e Auschwitz non si possono tenere assieme. Fu questa anche l’esperienza di Giobbe... il nome Dio sta per qualcosa che noi non siamo assolutamente in grado di concepire. L’ebreo del Vecchio Testamento diede inizio alla lotta attorno al suo senso e non poté trovarlo, però non dubitò mai che Dio c’è” (PS, p. 142; p. 127, corsivo nostro). La frase “Dio c’è, questo basta” è spesso ripetuta da Jaspers. Si trova, ad esempio, in PS, p. 155; p. 139, riferita all’atteggiamento del profeta Geremia, e, con lo stesso riferimento, in Introduzione alla filosofia, cit., p. 32; it. p. 31: “Quando tutto è perduto, rimane soltanto: Dio c’è. Non si tratta di speranza nell’immortalità, non della consapevolezza che Dio “perdona”. All’uomo non importa più la sua propria volontà, dissolta è la sua preoccupazione per la beatitudine personale e per la vita eterna... Quando l’uomo rinuncia completamente a sé e ai suoi scopi, allora gli è concessa questa realtà, l’unica che egli può ancora indicare”. Con tale formula si chiude anche il citato scritto del 1946 sullo spirito europeo.

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speranza60, ma anche come conseguenza del divieto di qualunque predicazione analogica (come quando si dice, ad esempio, che Dio ama, che elegge i suoi amici sottoponendoli a prove, che soccorre, che giustifica ecc.), cosicché l’unica predicazione che non rischia di sminuire il divino è quella assoluta, in cui si afferma, puramente e semplicemente, che Egli è. Al neoplatonismo aderisce dunque Jaspers tanto per la concezione della divinità quanto per la via negativa dell’innalzamento ad essa. Tale via è negativa in un duplice modo: sia nel senso di una teologia negativa, intesa come procedimento in cui il pensiero viene metodicamente guidato verso una sorta di naufragio controllato nell’impensabile61; sia nel senso della lettura e interpretazione della “scrittura cifrata”, cioè dei simboli in cui il divino “ci parla”, nei miti, nelle religioni, nell’arte, nella poesia e nella stessa filosofia62: simboli che, però, non bisogna trattenere e fissare dopo averli 60

La speranza non può sollevarci al di sopra del tempo, mentre ci riescono la fede e l’amore: o, per meglio dire, ci riesce la fede, se fa corpo unico con il nostro amore. “Una fede come professione di un determinato contenuto diviene dubbia; la speranza urta in certi limiti nel mondo, per cui naufraga; solo l’amore sostiene la nostra esistenza. Nel nostro amore sperimentiamo quell’unica certezza che ci colma e ci appaga. All’amore soltanto si offre in pienezza la verità” (PS, p. 146; p. 132). Se è vero che la speranza incoraggia e che senza di essa non si può vivere, che fare quando, nel tempo, svanisce ogni speranza? “È allora possibile quell’affidarsi, il cui fondamento è nel se stesso, e che non viene concesso a tutti e non in ogni istante, che Shakespeare esprime con le parole: ‘maturità è tutto’” (PS, p. 66; p. 60). La citazione è da Re Lear. 61 Questa forma di pensiero – di cui è maestro il Cusano – comincia, per Jaspers, già negli scritti platonici. “Occorre comprendere il fascino della filosofia concettuale nei millenni, e, al contempo, la sua nullità? Viene, nel suo ‘vuoto’, ridestato qualcosa che, qualora il vuoto non sia pensato adeguatamente, resta muto? Nelle tautologie, per il luogo cui esse accedono, nella connessione del pensiero, e per l’attimo, in cui parlano, non viene forse portato in presenza qualcosa di insostituibile?... La tautologia è un arenarsi nella secca del vuoto logico. Il pensiero può naufragare in circoli e contraddizioni. Il filosofare di Platone eccita la capacità di udire quello che, sia nel vuoto logico (tautologia), sia in ciò che la logica respinge (circolo e contraddizione), trova linguaggio” (Grandi filosofi, Platone, p. 285). 62 Jaspers afferma spesso che la Trascendenza “ci parla”: essa, in realtà, si lascia “sfiorare” (berühren) – come è detto in Introduzione alla filosofia, p. 94 (it. p. 105): das Wesentliche berühren – quando la trama dei fenomeni sembra allentarsi, facendo trasparire una luce che li sovraccarica di senso. Questo accade anche nella grande pittura: Leonardo, Rembrandt e van Gogh sono gli artisti più amati da Jaspers. Donde viene – si chiede Jaspers a proposito di Leonardo – il fascino misterioso che la sua pittura esercita su di noi? “Se è vero che i suoi pochi quadri producono su di noi un effetto unico, dove sta questa unicità? Sono il sorriso, la grazia, il paesaggio come sfondo dell’essere umano già la cosa essenziale? Sta già in questo, nel fatto che sono quadri che persino in ogni singolo tratto sono composti non solo intuitivamente, ma vengono pensati?” E risponde: “Quello che il Correggio proseguì e lasciò fluire come sensualità incantata, che Rembrandt attuò come un’altra metafisica di genere unico, ha il suo punto di avvio in Leonardo, come nuova maniera del diventare visibile dell’invisibile... Nel visibile che è spinto fino all’indeterminatezza viene al linguaggio l’invisibile, però non è

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utilizzati per salire, altrimenti si mutano in zavorra, facendoci precipitare nella confusione fra simbolo e simbolizzato, cosicché la “corporeità” (realtà sensibile) del primo si trasferisce al secondo, che ne viene oggettivato e degradato. Ciò che accade nel movimento del pensiero tramite l’allestimento ordinato e coerente del suo naufragio, nell’interpretazione delle cifre è reso possibile dall’accorgimento di tenerle “in sospensione”63, respingendo ogni interpretazione univoca, e rinunciando alla pretesa che debbano necessariamente valere per tutti. Il procedimento negativo nell’innalzamento pensante al divino – come Jaspers lo intende –si trova esemplificato in maniera illuminante nello scritto di Cusano sul Dio nascosto 64, che viene riassunto e commentato nella citata monografia65. Il commento di Jaspers permette di cogliere nitidamente la differenza fra l’ascosità del Dio biblico – celebrata da Isaia – e la celatezza della Trascendenza jaspersiana. Nel Dialogo di Cusano, sottolinea Jaspers, a Dio non si può attribuire un nome, e però non è privo di nome; nemmeno si può asserire che sia insieme dicibile e indicibile, perché si trova al di là della coincidenza degli opposti; non si può dire che sia e non sia, ma neanche che sia o non sia, perché è oltre ogni opposizione ecc. ecc.. Conclusione di Jaspers: “nessuna proposizione coglie l’Uno... Nessun nome coglie quello che sussiste in sé tramite sé. Addirittura anche la parola l’Uno non lo coglie

colto intuitivamente. È il farsi visibile della Trascendenza che permane, tuttavia, nascosta, il parlare di quello che, nel corporeo, corporeo non è” (Lionardo als Philosoph, Francke Verlag, Bern 1953, pp. 13-15). 63 “La sospensione delle cifre polisense interviene in luogo del terreno solidificato di una conoscenza di fede” (PS, p. 143; p. 128; il termine tedesco è Glaubenserkenntnis). Si tratta, appunto, di non smarrire la tensione fra “conoscere” e “credere”. L’esistenza pensa e crede; la coscienza-in-generale conosce, e i suoi giudizi aspirano alla validità universale. Il singolo liberamente fa sue le cifre, oppure le respinge: la scelta che egli compie è vincolante, ma solo per lui. La scelta poi è inevitabile, perché fra le cifre sussiste una inaggirabile lotta. Sulla “sospensione” (Schwebe) delle cifre, come atteggiamento filosofico fondamentale – a differenza di ciò che avviene nella religione – si può vedere già Filosofia III, pp. 162 e sgg. 64 N. Cusano Il Dio nascosto, Laterza, Bari 2004. 65 Vedi sopra, nota 57; sul Dio nascosto, in particolare, pp. 87-89. Un vivo apprezzamento Jaspers manifesta anche per l’antropologia di Cusano. In un interessante confronto con Pico della Mirandola, egli osserva che mentre Pico esalta la plasticità dell’uomo, lasciando però in ombra la sua dipendenza dal Creatore, Cusano dà rilievo ad entrambe: in lui, scrive Jaspers, “c’è la serietà di un pensiero che sceglie con umiltà” (ivi, p. 158). Questo ricorda il giudizio di Sternberger, (Maestri del ’900, cit., p. 53) secondo il quale nella visione jaspersiana dell’uomo si combinano felicemente il criterio greco della misura e quello cristiano dell’umiltà. Nella presentazione del suo studio Jaspers dichiara che, “come ogni metafisica autentica”, anche quella del cardinale-filosofo va interpretata come “la condizione per la consapevolezza della libertà”. È il senso profondo della metafisica esistenziale di Jaspers.

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veramente”66. E, tuttavia, “la radicalità di questa tesi non ostacola la speculazione, nella quale viene detto infinitamente molto di Dio, bensì chiarisce il suo senso, cioè quello che accade ad essa nella ricerca dell’impossibile, e quello che essa, pur nel naufragio, produce: come l’approssimarsi pensante approfondisca la celatezza di Dio, mentre consente di percepire le tracce della soverchiante realtà del Celato, e come il Sottraentesi attiri a sé il pensante con forza sempre maggiore”. Nella luce generata da tali pensieri sia il pensante che il mondo-per-lui vengono già trasformati. Veramente il cardinale-filosofo si serviva della sua “ricerca dell’impossibile” come propedeutica alla fede nella rivelazione –anzi come strategia della mente onde rendersi persuasi della indispensabilità di quella; Jaspers, invece, la assume quale espressione autonoma di fede filosofica o, secondo la formula cusaniana, come un “pensare con un intimo assenso” (cum assensione cogitare), già sufficiente, per l’esistenza, a renderla certa della realtà dell’Uno. L’assoluta inafferrabilità della “preda”, gustata nella “caccia della sapienza”67, non è poi in Jaspers smentita, bensì ribadita dal dispositivo della scrittura cifrata. Le cifre, infatti, in tanto rivelano, in quanto preservano sia nascondimento che lontananza, e in tanto si lasciano “gustare”, in quanto sia corretta la loro appropriazione, riservata al singolo, come sua competenza inalienabile. Nemmeno le cifre sono dunque adeguate a favorire un vero e proprio avvicinamento: l’abisso (Abgrund) della Trascendenza è troppo profondo68, non solo per la ragione, ma anche per la fantasia creativa dei metafisici e dei poeti69. 66

Cit., p. 88. È chiaro che per Jaspers questa è la lettura da dare a Esodo 3, 14: poiché il nome nominando circoscrive, Dio non ha nome, in quanto è l’incircoscrivibile; dunque è innominabile, non perché manchi di qualcosa, ma perché si sottrae ad ogni tentativo di delimitarlo. Una rilettura del passo biblico, che si discosta dall’interpretazione medievale del nome divino, basata sul ricorso al verbo greco einai (per cui Dio si presenterebbe come l’essere, o l’unico essere necessario, Ipsum esse subsistens) si può leggere nel volume Come pensa la Bibbia, Paidéia, Brescia 2002, di A. La Coque e P. Ricoeur. Il primo autore, in particolare, ricorda che nel celebre passo dell’Esodo Dio si mostra all’interno di una vicenda storica e nella prospettiva di un agire, non nei termini di un’astratta speculazione (pp. 301 sgg.). 67 Cfr. N. Cusano, La caccia della sapienza (1462; Piemme, Casale Monferrato 1998). Il “cacciatore” persegue la sapienza che concerne l’Uno e che consiste nel pervenire a comprendere – di una comprensione, per dir così, “sperimentale”– come ciò che è incomprensibile non possa venir afferrato altrimenti che “in modo incomprensibile” (ivi, p. 62). 68 Filosofia III, p. 167. 69 Come Dante che, nella Vita nuova, chiama Dio “lo segnore della giustizia” (ivi, cap. XXVIII). Interessante il giudizio espresso da Jaspers su Dante, nel Nachlass dei Grandi Filosofi. Malgrado lo splendore della poesia di Dante dia impulsi potenti – annota Jaspers – e malgrado nella lettura della sua opera – al di là dell’apprezzamento puramente estetico – si possa avvertire che la poesia stessa diviene trasformazione della vita in senso morale, e fon-

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E purtuttavia le cifre sono i simboli in cui si deve vivere, e il criterio della loro adozione – che è inevitabilmente selettiva, giacché, per quanto ci sforziamo di comprenderle, non ci è però concesso di armonizzarle sempre – risiede per Jaspers appunto in ciò: nel tipo di relazioni umane – con noi stessi, con gli altri, con il mondo e con Dio – che esse rendono possibili e che promuovono. In altri termini, esse non sono oggetto di apprezzamento estetico-culturale, né di mera analisi logico-speculativa, bensì di interpretazione e appropriazione esistenziali. L’estraneità (Fremdheit) della Trascendenza allora potrebbe significare: in primo luogo, che si trova nell’agire nel mondo – e anzitutto nella comunicazione tra le esistenze – l’unica vera attuazione dell’amore per essa70. Ma può anche significare, in secondo luogo, che solo così la divinità è salvaguardata, per il filosofo, dalla costante tendenza dell’uomo a farsene uno strumento, con il quale asservire o perseguitare i propri simili: insomma è messa al riparo dalla sostituzione – per ricorrere alla nota distinzione agostiniana – di quel puro amore di fruizione che le spetterebbe, con un perverso amore d’uso. È probabile che a questo genere di damento di decisioni, qualcosa di essenziale sembra mancare. Alla sublime armonia dell’essere – per Dante indubitabile realtà di fede – manca “il movimento violento del cuore, turbato nel profondo, come, nella fede biblica, si trova espresso in Giobbe: quella disperazione del lottare con Dio e quel volersi rendere conto, che onestamente non si può respingere”; manca, insomma, ciò che emerge dall’anima “percossa da Dio”, e che manda in rovina “quell’unitaria armonia che potremmo pretendere di conoscere in forma di fede (die wir glaubend wissen könnten)” (ivi, p. 620). Anche per il modo in cui presenta l’amore per la donna, Jaspers trova in Dante un che di deludente. “L’amore di Dante non consegue l’idea dell’unità di sensualità, spirito, esistenza, e nemmeno ne consegue la realtà” (p. 619). L’amore per Beatrice, che, dopo morta, diviene guida dell’anima, è presente “solo nel sovrasensibile, nella fantasia del poeta e non nella realtà”. La femminilità è solo occasione per il cammino di risveglio dell’amante, manca “la responsabilità verso un essere determinato e la reale comunione con lui”. L’amore di coppia consente davvero di toccare i vertici dell’esperienza umana, però “in una comunicazione che si realizza effettivamente nella vita”. Al contrario “realtà esistenziali sperimentate” che impressionano durevolmente ed educano il lettore, specie in età giovanile, sono “i turbamenti, gli slanci, il vincolo profondo e assoluto” che si scoprono nei versi e nei pensieri immortali della Vita nuova. Certo la poesia di Dante è unica (p. 620) e da essa proviene, per i posteri, una forte istanza (Forderung). Gli fa difetto – quanto all’amore – “la realtà integrale di una realizzazione nella vita che possa riuscire esemplare” (Nachlass v. I, Piper, München 1981, pp. 616-621). 70 “L’esistenza non crede in nessun amore per Dio che non si esprima come amore per il singolo uomo, e in nessuna immersione nell’aldilà che non si attui come plasmazione del proprio mondo” (Filosofia I, p. 298). Con riferimento a tale interpretazione dell’amore per Dio è netta la preferenza di Jaspers per Platone, rispetto a Plotino: infatti, se a entrambi “è comune la liberazione dalla prigione mondana”, questa liberazione è il vero obiettivo di Plotino, “mentre il filosofare di Platone afferra il compito nel mondo” (Grandi filosofi, Platone, p. 277). Per quanto attiene al fatto che la comunicazione tra le esistenze sarebbe “bloccata” da un rapporto diretto, a tu per tu, del singolo con Dio, vedi nota 29.

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degradazione pensi Jaspers, quando mette in guardia dall’intaccare la divinità, più che a una sua riduzione a “realtà empirica”. E, forse, alcune suggestioni provenienti da S. Weil, ebrea platonica che attraverso Platone incontrò il cristianesimo, possono almeno un poco aiutarci nella comprensione dell’oscura cifra jaspersiana. Pochi scrittori nel Novecento hanno mostrato una sensibilità altrettanto acuta per la sofferenza e la sventura, in rapporto alla vita spirituale, quale emerge dalle opere della Weil. Del cristianesimo l’affascinava la croce; nel mondo greco, sia nella tragedia che nella filosofia, cercava anticipazioni e presentimenti della forza purificatrice e illuminante del dolore, valorizzata nel mondo cristiano. E tuttavia, commentando da par suo le parole con cui culmina il discorso di Diotima nel Simposio, e considerando che per Platone l’anima si salva attraverso la bellezza, la Weil s’arresta, quasi estatica, a contemplare quel bello che, dichiara, “qui non è un attributo, è un soggetto. È Dio”. Convinta che il testo alluda ad un’esperienza mistica, cioè alla visione di “qualcosa di concreto quanto gli oggetti sensibili”, benché invisibile alla vista naturale, una realtà che non viene per nulla intaccata dal nascere e dal perire delle cose belle di quaggiù, si lascia sfuggire il grido di chi scorga una meta terribilmente agognata: “Qui – scrive – è la consolazione suprema di ogni male. Nessun male fa male a Dio. Colui che vede il bello assoluto con il solo organo al quale esso sia visibile, vale a dire con l’amore soprannaturale, mette il suo tesoro e il suo cuore fuori della portata di ogni male”71. “Nessun male fa male a Dio”: constatazione commossa, che potrebbe però agevolmente tradursi in una sorta di imperativo per il metafisico: nessun male deve far male a Dio. Ecco: talvolta pare al lettore che Jaspers insista sull’estraneità della Trascendenza per sottrarla quanto più è possibile non solo alle strumentalizzazioni architettate dalla nostra volontà di potenza, ma anche alle vane e capziose argomentazioni delle teodicee e persino alle indiscrete, uggiose investigazioni della gnosi, in cerca di un’ombra di male in Dio72. E non fa in certo qual modo “del male a Dio” la stessa teologia cristiana, che lo coinvolge nella sofferenza atroce del Figlio e nella sua morte “senza prestigio”?73 71

stri).

S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, Rusconi, Milano 1974, p. 204 (corsivi no-

72 Nel modo di pensare Dio proprio di Schelling – che pure Jaspers annovera fra i grandi filosofi – sembra concentrarsi, ad esempio, quasi tutto ciò che egli, nella sua fede filosofica, respinge. In primo piano, nella sua analisi critica, sono il coinvolgimento della divinità nella storia processuale dell’essere, e l’investigazione della personalità divina secondo dinamiche tipiche di quella umana, in particolare secondo una duplicità di principi, come contrazione-espansione, egoismo-amore, auto-manifestazione-resistenza inconscia, ecc..Cfr. Schelling. Grösse und Verhängnis, Piper, München 1955, 1986, specialmente pp. 176 sgg. 73 Annota la Weil: “l’essenza della Passione è l’assenza di prestigio, non la sofferenza... Ci voleva una sofferenza di carattere penale, perché l’uomo è veramente spogliato di ogni par-

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“Io sostengo che la rivelazione di un Dio sofferente, e che aspira all’Altro, è più alta di quella di un Dio che si soddisfa e si basta da solo”. Così Berdjaev, in uno scritto dei suoi ultimi anni74. S. Weil, la cui vita breve e travagliata si era allora già conclusa, avrebbe alla fine condiviso questa dichiarazione75; Jaspers, invece, pare condividere solo il profondissimo desiderio da cui scaturiva il suo grido, al punto da tradurlo in un divieto perentorio: “La divinità nascosta sembra vietare all’uomo che filosofa di fare ritorno alla religione”76. Perché, se non soprattutto per il fatto che la religione, derubando il divino della sua estraneità, lo espone, incautamente, a una lunga serie di mali? Altre domande si potrebbero porre – che, pur non concernendo il rapporto fra Dio e il male77, nondimeno sorgono dall’esperienza della vita. Per esempio: se l’amore ideale è quello esistenziale paritetico, perché siamo inclini ad apprezzare come amore persino superiore quello discendente, gratuito, senza reale reciprocità, rivolto a qualcuno che ci è affidato, che ha bisogno delle nostre cure e premure, e verso il quale ci sentiamo totalmente responsabili –tanto più quanto meno l’amato è in grado di corrisponderci? Esempi di un simile amore, in cui l’altro ci si abbandona senza difesa alcuna, e che chiameremmo amore di “responsabilità”, non sono affatto infrequenti, anche senza considerare la relazione che Jonas, nel suo saggio78, ritiene tecipazione al prestigio sociale solo quando la giustizia penale l’ha tagliato via dalla società” (La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., p. 191). 74 E aggiunge: “chiunque sostenga che attribuire a Dio il movimento, il divenire e il bisogno comporti la sua imperfezione e incompletezza, resta nell’ambito di una terminologia puramente umana e convenzionale” (vedi Verità e rivelazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1996, p. 77). Si tratta, però, di comprendere il significato da attribuire alla scelta di una determinata “terminologia” in luogo di un’altra. 75 Infatti per la Weil le verità profonde del cristianesimo sono anticipate solo imperfettamente dalla grecità; analogo atteggiamento si ritrova in Kierkegaard. Inoltre S. Weil vedeva nel Cristo il “mediatore universale”: “Il Cristo è mediatore da un lato fra Dio e noi, dall’altro fra Dio e l’universo, ... è la mediazione stessa, l’armonia stessa” (cit., p. 279). Crediamo comunque che la formula di Jaspers: “Dio c’è, questo basta” non le sarebbe dispiaciuta. 76 Filosofia I, p. 302. 77 “Dio e Auschwitz non si possono tenere assieme” (PS, p. 142; p. 127). La stessa questione – come abbiamo visto –accomuna Jaspers e Jonas (Il concetto di Dio dopo Auschwitz, il Melangolo, Genova 1989). Jonas però resta fedele al Dio biblico, che interviene nella storia, e propone soltanto una revisione dell’attributo della potenza; Jaspers, invece, dis-toglie Dio dalle vicende umane, respingendo la tesi di un suo diretto coinvolgimento in esse. Per nessuno dei due, comunque, è percorribile la via gnostica: cioè l’ipotesi che vi siano due divinità, una delle quali malvagia, o quella secondo cui la radice del male sia in qualunque modo da ricercarsi in Dio. 78 Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità (1979; trad. it., Einaudi, Torino 1993). La responsabilità dei genitori nei confronti del loro bambino – afferma Jonas – “costituisce davvero,

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emblematica: quella fra genitore e neonato. Non rientra pure questo modo di amare nel “più positivo” del nostro essere? E poi: è vero, come sostiene Jaspers, che la compassione è soltanto un cattivo surrogato dell’amore? Oppure ha ragione Berdjaev, quando afferma che l’amore di eros dovrebbe sempre venir integrato dall’amour pitié ? Nelle pagine di Filosofia dedicate a “carità e amore”, Jaspers sottolinea volentieri il contrasto fra i due termini. Però qui la carità è intesa in modo prevalente come assistenza materiale agli svantaggiati, attività che lo Stato regola in forma giuridica, e che la Chiesa presta e promuove come dovere istituzionale. Quanto più la carità è generica – rivolta a chiunque sia nel bisogno – ed esteriore, tanto più essa è cosa diversa dall’amore, che è rivolto al singolo, ed è interiore. La compassione poi è solitamente ispirata da un sentimento di superiorità, che umilia quelli che ne sono oggetto. Il criterio nelle relazioni fra gli uomini dovrebbe essere sempre il riconoscimento della nobiltà ingenita dell’uomo, della sua libertà e della sua dignità, non la preoccupazione utilitaristica di sedare il malcontento degli svantaggiati o di soddisfare l’egocentrismo dei benestanti, procurando loro una buona coscienza. Solo nel santo l’atteggiamento caritatevole è veramente puro e non dettato da interessi mondani79. filo- e onto-geneticamente, l’archetipo di ogni responsabilità” (ivi, p. 128). Però si può pensare anche a qualcuno che sia infermo, o che soffra di minorazioni tali, per cui dipende in tutto o in parte da noi. 79 Cfr. Filosofia II, pp. 382 sgg. Riportiamo alcuni giudizi particolarmente significativi: nell’amore “io mi volgo interamente all’essere personale”, e non aiuto l’altro “in base a principi universalmente etici o sul fondamento del dovere secondo una teoria, bensì perché sono aperto a quest’anima”. Diversamente “quando, senza riguardo alla persona singola, si presta aiuto ad ogni uomo in quanto prossimo”. La carità, in questo secondo caso, “significa, a differenza dell’amore, l’atteggiamento dell’aiuto senza vicinanza del proprio Sé all’altro Sé, senza uguaglianza di livello e senza incondizionatezza”. L’amore “non si manifesta in affetti come la compassione, la commiserazione, il voler confortare, che sono funzioni del mero patire o dell’assenza d’amore, bensì nell’approfondimento realistico della situazione particolare (dell’altro) muovendo dall’interiorità...”. Infine: “se la carità è un agire che aiuta secondo categorie generali, cieco rispetto alla particolarità degli esseri, misurando, valutando e giudicando secondo categorie morali universali, allora è priva d’amore”. Riguardo al cristiano amore del prossimo, è forse opportuno ricordare quanto Kierkegaard scriveva nel 1846 nelle Note sulla propria attività di scrittore, in particolare nel celebre supplemento sul singolo: “...rispettare ogni singolo uomo, incondizionatamente ogni uomo, questo è la verità e timore di Dio e ‘amore del prossimo’; invece riconoscere la ‘massa’ come istanza in senso etico-religioso in relazione alla ‘verità’ significa respingere Dio e non può essere di conseguenza ‘amore del prossimo’... Si capisce che amare il prossimo è autoabnegazione, mentre amare la massa o agire come se la si amasse, farne l’istanza per ‘la verità’, significa in tutta evidenza la via per ottenere potere, per ogni sorta di tornaconto temporale e mondano, cioè è al contempo la non-verità, perché la massa è la non verità” (Die Schriften über sich selbst, Grevenberg Verlag 2003, p.

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Berdjaev, dal canto suo, insiste sulla necessità che l’amore che rapisce verso l’alto si unisca a quello che si piega sull’essere sofferente, “perché l’amore senza pietà è terrificante”80. Egli si dice anche convinto che l’eros possa e debba concludere un’alleanza con l’agape, e che sia fuorviante il contrapporli81. L’unità di questi due modi di amare, ascendente e discendente, non corrisponde, del resto, nel caso dell’uomo, alla sua duplice natura, per cui è creatura di nobile rango, ma ancor sempre creatura?82 E nel caso di Dio, il desiderio di essere corrisposto dall’uomo, qualora lo si volesse ammettere, sarebbe unicamente, come scrive Kierkegaard, l’altra faccia del suo amore di “dono”? O si può pensare di attribuire anche a Lui una sorta di trepidazione, come di un pretendente in attesa del sì dell’amata? 83 Inoltre: perché se in noi l’amore è “il più positivo”, ad esso si lega così inestricabilmente il dolore, al punto che, parafrasando Qohèlet, verrebbe da 105). L’amore del prossimo, inteso come singolo, era per Kierkegaard pure la condizione per perseguire un’autentica uguaglianza fra gli uomini. 80 N. Berdjaev, Aut. spirit., p. 102; it. p. 80. 81 Giustamente – a nostro avviso – nel suo Dialectique existentielle du divin et de l’humain, cit., Berdjaev contrasta le tesi sostenute dal Nygren in Eros e agape (1930), sia sul carattere egoistico dell’amore di eros, sia sulla pretesa di riservare a Dio l’amore agapico, negandogli quello di eros. “L’amore come eros – osserva il filosofo russo – non può non far parte del vero amore, perché sono caratteri dell’amore la sua capacità di rapimento e il suo slancio, che portano verso l’alto, verso le altezze divine” (ivi, p. 156). D’altra parte umano è l’uomo che “ama ed è capace di pietà”; così non si capisce perché “l’amore agapico sarebbe assente nell’uomo e privilegio di Dio” e perché Dio stesso non potrebbe conoscere “una nostalgia dell’amato, dell’amore reciproco”, quindi un amore di eros. In definitiva sia nella realtà umana che in quella divina amore di eros e amore agapico “debbono sempre essere uniti”. Una brillante confutazione dello schema: amore di bisogno=egoismo; amore di dono=altruismo – nella stessa direzione indicata da Berdjaev, anche se condotta su un piano prettamente psicologico – si trova in C. S. Lewis, I quattro amori (1960; trad. it. Jaca Book, Milano 2006). Per Lewis i nostri “amori di dono”, magari sostenuti dalla convinzione di imitare Dio, costituiscono spesso, per il nostro prossimo, una terribile calamità (vedi specialmente pp. 51 sgg.). Quanto a Kierkegaard, egli sottolinea come raramente il donare umano sia puro e davvero gratuito (si vedano i Discorsi edificanti del ’43, a commento di Giacomo 1, 17, ed. Piemme, 1998, pp. 174 sgg.). 82 Jaspers stesso riconosce come limite della filosofia platonica dell’amore che in essa non si trova né l’agape né l’amore per l’uomo in quanto uomo, né l’amore del prossimo – tutte acquisizioni della religione biblica (Grandi filosofi, Platone, p. 304). 83 Kierkegaard, in un altro passo del Diario, paragona Dio a un pretendente in trepida attesa della risposta da parte dell’uomo: “È incomprensibile, è il miracolo dell’amore infinito, che Iddio effettivamente possa accordare tanto ad un uomo, così che Egli, per ciò che lo riguarda, possa dire quasi come un pretendente (qui c’è quel bel gioco di parole: svincolare, chiedere la mano): “Mi vuoi tu, sì o no?”– poi aspettare un secondo solo, per la risposta” (Diario, volume settimo, p. 83, pensiero n. 2793).

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dire: qui auget amorem, auget et dolorem? Non vogliamo evocare, s’intende, la sofferenza che da sempre ispira i lamenti, fin troppo compiaciuti, di poeti sentimentali e autori di canzonette, cioè quella causata dall’amore respinto, deluso o tradito; bensì quella che è comunque sempre intrecciata con l’amare, che è doloroso in se stesso, sia per la condivisione del dolore dell’altro84, che per l’apprensione, inseparabile da ogni affetto, per il senso di colpa, derivante dalla propria inadeguatezza o dall’impotenza nel prestare aiuto, per la frustrazione che viene dalla necessità del distacco, anche momentaneo, e, infine, per lo strazio della perdita? Se è vero che tutto ciò che ha in noi peso e valore è amore, perché portare questo peso è, insieme, tanto fonte di gioia quanto di sofferenza? A quest’ultimo interrogativo Jaspers risponderebbe, crediamo, ricordando le situazioni-limite, che mettono a dura prova l’uomo anche quando ama, anzi forse soprattutto in quanto ama. Amando non si sfugge alla lotta, alla sofferenza, alla colpa, alla morte: anche se si può vincere la disperazione che da esse si genera, “perché fra gli uomini, l’amore stesso può essere l’eterno”. Infatti non bisogna dimenticare che “l’eterno non viene dopo, bensì è presente. Le attese del futuro sono cifre della presenza dell’eterno”85. Questa vissuta presenza è attestazione sicura, benché inoggettivabile, che essere accolti nella Trascendenza, “insieme con i nostri compagni di destino”, è la meta ultima dell’esistere86. 84

Qualcosa cui allude Jaspers nella lettera alla moglie: “V’è in te un impulso a tirarti indietro, perché è tanto difficile: allora non vorresti conoscere nuove persone che con sé portino la sofferenza della compassione e della corresponsabilità, come un tempo esitasti, nell’approfondire la mia conoscenza, per non caricare sulla tua vita, nuovamente, il peso di quel dolore insopportabile, quella urgenza e quel non poter fare diversamente, che ti coinvolgono nel destino dell’altro...” (Appendice, p. 248). Gertrud aveva appreso fin dall’inizio, dal proprio fratello, della malattia di Karl. 85 PS, p. 146; p. 132. Sul tema dell’immortalità si può vedere la bella conferenza radiofonica del 1957, ora contenuta in Das Wagnis der Freiheit, Piper, München 1996, pp. 336-341. Il titolo dato da H. Saner alla raccolta di saggi rimanda anche al socratico καλòς γàρ ï κίνδυνος, che suggella le riflessioni di Jaspers sull’argomento (“questa coscienza dell’immortalità non ha bisogno di nessun sapere, nessuna garanzia, nessuna minaccia. Essa è riposta nell’amore in quanto tale, questa realtà straordinaria, nella quale veniamo donati a noi stessi”, ivi, p. 339) e dà pure il senso di un cammino compiuto, per dir così, a ritroso, dal rischio kierkegaardiano della fede paolina al “credere” platonico, per cui vale la pena rischiare (Fedone, 114 D, 5-6). 86 PS, p. 66; p. 59. Non si tratta, però, di credere ad una promessa: piuttosto è una certezza che ha il suo fondamento nell’amore, che è già presenza dell’eterno nel tempo. Il nostro amore non solo ci fa “conoscere” che siamo immortali (in un senso analogo a quello per cui la legge morale in Kant è la ratio cognoscendi della libertà) ma ci fa essere tali. “Siamo mortali come esseri vuoti d’amore, immortali in quanto amiamo” (ivi, p. 165; p. 149); vedi anche il sopra citato saggio Immortalità, p. 339, dove Jaspers aggiunge: “il nostro amore per i morti sarebbe infedele, se perdesse la coscienza dell’eternità”. Vengono alla mente le parole di una

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Però ciò che nell’uomo è infinito non abolisce la sua finitezza. Mirabilmente condensa questa amara constatazione Berdjaev, scrivendo: “l’infinito è racchiuso nell’amore, ma anche il finito, che limita questo infinito”87. All’amore è d’altronde intrinseca, per Jaspers, l’imperfezione del tendere, dell’aspirare, del ricercare e solo nell’attimo è data la quiete del compimento. Il fatto stesso che a proposito dell’amore tra esistenze si parli di lotta, sia pure priva di violenza e di volontà di sopraffazione, è assai indicativo. Jaspers riprende questo suo tema, davvero centrale, della “lotta amorosa” nel capitolo dedicato alle situazioni-limite88. “L’amore – ammonisce – non è per noi un possesso, sul quale si possa contare. Io debbo per forza lottare con me stesso e con l’amata esistenza dell’altro, certo senza violenza, ma venendo posto in questione, e ponendo in questione”89. Potrebbe forse risiedere qui la ragione per cui il filosofo non cerca in Dio il contraccambio del suo amore, ma anela soltanto a quella sublime quiete (Ruhe)90 che così raramente sopravviene a sollevare dai molti perturbamenti la nostra faticosa “humana conditio”.

bella pièce teatrale del filosofo francese G. Marcel – tra l’altro estimatore di Jaspers –: “les vrais morts, les seuls morts, sont ceux que nous n’aimons plus” (G. Marcel, L’Insondable, in Présence et immortalité, Flammarion, Paris 1959, pp. 195-234). Sempre di Marcel si può leggere, sul tema, la pregevole raccolta di testi, a cura di A. Marcel, dal titolo: Tu non morirai (Valter Casini Editore, Roma 2006). “Amare qualcuno – dichiara infatti un personaggio del teatro marceliano – significa dirgli: tu non morirai”. 87 N. Berdjaev, Aut. spir., p. 101; it. p. 80. 88 Filosofia II, cap. 7. 89 Ivi, p. 244. 90 “In Spinoza, in Kierkegaard, in certa filosofia asiatica, c’è qualcosa di comune – per quanto molto differenziato: una quiete nel porto (Geborgenheit) dell’eterno” (Schelling, cit., p. 217).

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CONCLUSIONE

Questo è il comandamento, come l’avete sentito fin dall’inizio, che voi camminiate nell’amore. (II Giovanni 6) Non ho gioia maggiore di questa: sentire che i miei figli camminano nella verità. (III Giovanni 4)

In nessuna prospettiva (sull’uomo, sul mondo e su Dio) amore e verità sono accostati l’uno all’altra, fino a confondersi, come in quella introdotta dal cristianesimo. L’amore è condizione della verità; ma anche, inversamente, la verità è condizione dell’amore; se non c’è verità, fuori dell’amore, nemmeno c’è amore fuori della verità1. Non c’è verità fuori dell’amore: una verità che non fosse cercata e raggiunta tramite l’amore e che non fosse anche sorgente di questo amore, non sarebbe verità; ma un amore che si separasse dalla verità, o pretendesse di ignorarla, non sarebbe amore. Una verità senza amore non sarebbe vera; un amore senza verità non potrebbe aspirare a chiamarsi amore, perché ne sarebbe solo una scadente contraffazione. La consapevolezza di questa così misteriosa e stretta implicanza c’è in Jaspers e, nonostante tutto, non ci pare sia mutuata dal pensiero greco – in cui essa è ancora solo adombrata o, comunque, non così chiaramente enunciata come nel pensiero cristiano, specialmente in Agostino. 1

Soprattutto nella predicazione di Giovanni e di Paolo, Cristo è Luce di Verità; l’amore dischiude alla Luce di Verità; l’odio rinchiude l’uomo nelle tenebre. Anche per il “platonico” Jaspers l’amore è la forza che permette di vedere: essere capaci di amare è essere capaci di verità. Senza l’amore non avremmo accesso a quel tanto di verità che possiamo scorgere nel tempo. Ci chiediamo se nel formulare questo altissimo pensiero la filosofia jaspersiana non abbia tratto stimoli, oltre che dai grandi filosofi, anche dall’annuncio evangelico.

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Anche in tale consapevolezza risiede, secondo noi, la validità del giudizio di Sternberger (v. cap. I) sulla presenza del cristianesimo nel pensiero del maestro. “La sua maniera di pensare ha un tratto profondamente cristiano. Fra i tre maestri di filosofia che ho citato (Jaspers, Tillich, Heidegger) è soprattutto a lui che vorrei ascrivere tale caratteristica…” (cit. p. 66). Detto questo, bisogna però anche subito ricordare che la teologia filosofica di Jaspers si discosta nettamente da quella cristiana proprio sull’asserto cruciale, secondo il quale Dio è amore. Il fatto che il filosofo giochi sul significato dell’asserto (che non è né: Dio è l’amore, né tantomeno: l’amore è Dio; e non è il primo perché rischierebbe di essere confuso con il secondo; mentre non è, ovviamente, il secondo, che risulterebbe addirittura blasfemo2) non toglie l’essenziale: l’attribuzione a Dio di un qualche slancio amoroso ne comprometterebbe, per Jaspers, l’assoluta aseità. Non si può dire, propriamente, né che Dio ami, né che desideri essere amato: queste espressioni celerebbero un inaccettabile antropomorfismo. Però, come Jaspers ci ha insegnato, dobbiamo chiederci chi pronuncia l’asserto “incriminato”: non è certamente la coscienza filosofica, impegnata a definire un’essenza; piuttosto è la coscienza religiosa, passata attraverso l’oscura esperienza della colpa e del peccato, che si effonde in una lode, per l’avvenuta liberazione. Essa dice di un’integrità ritrovata, di una nuova pienezza di vita e di salute; dice la gioia umile di un dono ricevuto, senza alcun merito da parte del ricevente. Essa assomiglia più a un’invocazione e a un rendimento di grazie, che a un pronunciamento sussiegoso della ragione umana. Forse proprio per questo il filosofo la scarta: gli pare che qui l’uomo, parlando così di Dio – e in certo modo, anche a Dio – pretenda di oltrepassare i propri limiti; mentre si tratta, piuttosto, della presa d’atto che qualcosa è stato cancellato – e non un semplice limite – e della riconoscente constatazione che non poteva altrimenti venire rimosso: altrimenti, cioè senza l’intervento amoroso e misericordioso di Dio. Nel Vecchio Testamento Dio si presenta come un Dio “geloso”; egli anzitutto non permette che lo si confonda con idoli fabbricati da mani d’uomo (o con i “nulla”)3. Chi è “geloso” a questo modo esclude poi di potersi 2 Come giustamente osserva C. S. Lewis, I quattro amori, cit., p. 16: infatti significherebbe che l’amore, come noi lo sperimentiamo nei nostri affetti, è dio. 3 Levitico, 26, 1. Nel Salmo 115 si dice: “Hanno bocca e non parlano. Hanno occhi e non vedono. Hanno orecchi e non odono. Hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano. Hanno piedi e non camminano, non emettono suoni dalla loro bocca.” In altre parole, non vivono (cfr. anche Deuteronomio, 4, 28). Ci si può chiedere però: un Dio che non ama, vive?

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CONCLUSIONE

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abbassare a contendere con rivali indegni di essere anche soltanto accostati al suo Nome: e sdegnosamente ribadisce la propria incommensurabile superiorità rispetto a tutto quanto si trovi “su in cielo”, “quaggiù in terra”, e “in acqua, sottoterra”4. Paolo, nella lettera ai Filippesi – donde è tratto il passo che dà il titolo al capolavoro di Kierkegaard – afferma che Cristo non considerò “un tesoro geloso” la sua uguaglianza con Dio, ma umiliò se stesso: Paolo non crede che mescolandosi agli uomini – eventualità esclusa da Platone – Dio abbia rinunciato ad esigere di non essere confuso con quanto gli è inferiore. Abbassandosi, invece, Cristo ha tolto alla “gelosia” del Padre ogni traccia di sdegnosità o di disprezzo, e l’ha portata, paradossalmente, a coincidere con la più perfetta umiltà. Siccome però la gelosia non è stata annullata, ma piuttosto purificata – perché così fosse avvertita dagli uomini, cioè come del tutto priva di alterigia – essa ha assunto i tratti di una divina umiltà, cioè di una umiltà che “sopra esalta” (Filippesi 2, 9). Ci si potrebbe allora chiedere: è il caso di essere noi “gelosi” per il Padre? È il caso di ripristinare l’antica gelosia – che, soltanto, distanziava – e di respingere il sacrificio del “tesoro geloso”, magari per non rischiare di “fare del male” a Dio? Non voler dare del “tu” a Dio non significa per forza considerarlo un “esso” o un “lui”; può voler dire, semplicemente, non trovare nella lingua umana nessun pronome – non solo nessun nome – adatto a indicarlo5. Il filosofo che dichiara: “Dio c’è, questo basta” (Gott ist, das ist genug), e vuole dire: questo dovrebbe bastarci, intende: deve bastarci per continuare a credere nell’uomo e nella sua possibilità, per non cedere al nichilismo, per avere il sostegno necessario nelle decisioni della vita e per amare. Ma, se così s’intende, l’“estraneità” di Dio non è per lui affatto un segno della propria indifferenza; al contrario, è come la distanza che deve permanere tra i singoli, perché riescano davvero ad amarsi; più ancora, è espressione di un riguardo così grande, che non osa tradursi in invocazione. Si tratta, certo, di una dura disciplina6. 4

Esodo, 20, 4-5. Come osserva il teologo R. Otto, “non si può sempre dare del tu all’Altissimo” (Il Sacro, 1917, trad. it. SE, Milano 2009, p. 47) e intende: tanto meno lo si può, quanto più il suo mysterion è avvertito come tremendum. Eppure secondo Kierkegaard è appunto questo il proprium di Abramo: che, in quanto “amico” di Dio, gli si può rivolgere con il tu (Timore e tremore, p. 72). È ciò che, del resto, Abramo fa persino nel colloquio cui si riferisce Otto per illustrare l’essenza del “numinoso”: cioè in Genesi, XVIII, 27 (Il sacro, cit., p. 24). 6 Tale “durezza” è costantemente ribadita da Jaspers, da Filosofia a Rivelazione a Cifre della Trascendenza. “È duro ridurre il Dio personale al suo essere solo una cifra” (Filosofia III, p. 5

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Il cristianesimo, però, non la richiede: perché non considerando un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, Cristo non ha – per il cristiano – esposto il Padre alla contaminazione con l’umano, ma, al contrario, ha voluto esporre l’uomo alla contaminazione con il divino: o meglio ha fatto entrambe le cose, ma con l’intento di innalzare l’uomo. Quel Dio, vedere il quale significava morire, egli lo ha mostrato, ma solo per conferire a quanti godono dell’“autopsia della fede” una vita vittoriosa del peccato e della morte7. Ammesso sia vero quel che Jaspers sostiene, e cioè che le immagini più perfette dell’uomo si trovano nella Bibbia8, difficile è trovarne una più perfetta di quella dell’uomo Gesù9: perfetta, forse, proprio perché, pur essendo pienamente umana, è anche pienamente divina. 167). “È, di fatto, una pretesa insolitamente dura (ein ungemein harter Anspruch) attraverso la cifra della divinità personale spingersi verso qualcosa che è, in realtà, più che personalità, fondamento della personalità, là dove cessa il nostro pensare e che è qualcosa entro cui pensiamo, ma che non possiamo mai comprendere come oggetto. Quando questa dura pretesa è soddisfatta…” (Cifre, p. 66; p. 63). 7 È la vita cui accenna Kierkegaard nella splendida conclusione del discorso edificante sopra ricordato (cap. VI, nota 26): “Tu conosci sicuramente (e chi l’ignora!) quella frase formulata in modo così felice e profondo dal nobile poeta, che fa dire più o meno così alla sfortunata fanciulla: dal mondo io non m’aspetto più nulla, ho vissuto e ho amato... E perché? Perché ella ritiene che il bene più alto sia l’amore umano, e perciò i due concetti significano per lei proprio la stessa cosa: vivere e amare; amare vuol dire vivere, vivere vuol dire amare; se le vien tolto l’amato, allora la vita è finita – ma ella ha amato... Però, ora, amare Dio! Questo è davvero il bene più alto; di questo, con la verità dell’eternità, si può dire ciò che la fanciulla, dolcemente ingannata dal suo cuore, vorrebbe far valere: amare Dio significa vivere. ‘Già, vivere’. Quando si pronuncia questa parola con una particolare accentuazione, si indica con essa la vita ricca e piena, in possesso delle condizioni del vivere; si designa una vita veramente degna di essere vissuta, una vita che, per così dire, trabocca di un sentimento di beatitudine. Di tal sorta è la vita, quando uno possiede il bene più alto; ma il bene più alto è amare Dio” (cit., p. 215; trad. it. pp. 207-208). Il nobile poeta è F. Schiller, l’opera cui Kierkegaard si riferisce è Piccolomini (1798); il “lamento di Tecla” – la giovane infelice – fu messo in musica da Schubert. Quanto alla vita che “trabocca di beatitudine”, si legga Giovanni, 15, 11. 8 Cifre, p. 17; p. 16. 9 Di cui Jaspers riconosce la “grandezza” (collocandolo tra I grandi filosofi). Diverso il suo giudizio sulla cifra del Dio-uomo, che bolla di “assurdità”. Così, in Della Verità: “Che Dio sia uomo o che un uomo sia Dio, è qualcosa di assurdo […] L’assurdo è una forma della manifestazione della Trascendenza per il pensiero, anche in ogni filosofare che voglia andare davvero in profondità. La questione non è se l’assurdo come tale sia da respingere, bensì solo la distinzione all’interno dello stesso assurdo, fra un assurdo rivelativo e uno che conduce all’errore. Per la filosofia il Dio-uomo è un’assurdità che porta fuori strada” (pp. 852-53). E pur tuttavia è vero – egli ammette – che “il pensiero fondamentale del Cristo” ha condotto, “nei grandi pensatori cristiani”, a intuizioni cui la filosofia non potrebbe più rinunciare. A Jaspers si può forse imputare una valutazione insufficiente del ruolo della cristologia in relazione all’antropologia.

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CONCLUSIONE

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È come se il cristianesimo dicesse: non basta che Dio sia Dio e che l’uomo sia uomo; ma occorre che, essendo Dio umano, l’uomo possa diventare divino10; dunque non basta che Dio sia divino, e che Dio sia. Certamente non basta al cristiano. Il quale, tuttavia, non potrebbe leggere quella frase di Jaspers senza provare commozione e rispetto. Commozione, perché vi si afferma ciò che, per l’uomo, è davvero essenziale: ha bisogno di Dio, per diventare pienamente umano. Rispetto, perché il no alla fede nell’Incarnazione è pronunciato con rispetto11 e anche con una sfumatura di rammarico12. In ogni caso: se Kierkegaard rimane, oggi più che mai, un grande inascoltato, dal cui scrigno lo scriba moderno (sia teologo che filosofo) potrebbe – qualora lo volesse – estrarre ancora molte “cose nuove ed antiche” (Mt, 13, 52); Jaspers a nostro avviso rimane, in un secolo come quello appena trascorso, povero di vera grandezza, filosofo dei più seri e onesti. Mai allude a chissà quali segreti nascosti nelle sue pagine, né si atteggia ad oracolo, pretendendo di avere nelle proprie mani la chiave per aprire la porta del futuro; è fortemente radicato nella nostra tradizione europea, ma anche aperto alla comunicazione con tradizioni diverse13; è soprattutto sinceramente 10 È questo ad esempio il leitmotiv dei pensatori russi, da Solov’ëv a Berdjaev. Lo stesso significato dell’amore di coppia non può secondo Solov’ëv essere veramente colto, se si prescinde dalla dimensione spirituale o “divina” dell’uomo, pienamente rivelata dal cristianesimo (cfr. Il significato dell’amore, cit., pp. 108 sgg.). 11 Spesso nei suoi scritti sulla religione Jaspers ripete quanto dichiara, per la prima volta, in Filosofia I, p. 300: ciò che non è verità “per me”, può essere verità per altri. 12 “L’uomo, spinto dalla sua decisione a filosofare, desidererebbe la reale diretta presenza della Trascendenza, il reale rapporto a Dio nella preghiera – però non vuole ingannarsi” (Filosofia I, p. 302)”. “Come sarebbe bello poter credere che Dio è presente nel mondo e che mi aiuta con il suo intervento reale, corporeamente […] Come darebbe sollievo […] se Dio stesso si mostrasse, offrisse sicurezza assoluta e mi conducesse per mano! Come attirano la corporeità del servizio di Dio all’interno della Chiesa, la santificazione della vita, la compenetrazione del cosmo, della propria terra, del proprio ambiente, dell’attività dell’uomo, da parte del sacro garantito dalla Chiesa! L’onestà costringe a non godere di tutto ciò in modo estetico, ma a tenersi in disparte, quasi con vergogna, a rinunciare...” (Rivelazione, pp. 534-36). 13 Alla via, indicata da Jaspers e da lui stesso percorsa, di una “filosofia mondiale”, è stato dedicato l’incontro internazionale di cultori del pensiero jaspersiano tenutosi a Mosca nel 1993; i testi delle conferenze si trovano raccolti nel volume, a cura di L. H. Ehrlich e R. Wisser, K. Jaspers, Königshausen & Neumann, Würzburg 1998. Quanto poi al giudizio, da noi sopra formulato, circa la straordinaria (e inattuale) attualità del pensiero di Kierkegaard, abbiamo ricalcato – senza volerlo – quello, molto più autorevole, espresso alcuni anni orsono da L. Pareyson in Rettifiche sull’esistenzialismo (1975). Dopo aver ricordato che proprio dallo studio di Jaspers era stato condotto a Kierkegaard, Pareyson riconosceva in Kierkegaard e Dostoevskij “le forme più tipiche del cristianesimo d’oggi”, sottolineando che questi due autori “contengono uno scrigno di possibilità ancora inesplorate e inaspettate, capaci

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innamorato della filosofia, cioè di quel pensiero che è indispensabile per portare chiarezza nella vita e insegnare a valutare rettamente, giacché – come ricorda il poeta – “nella debita misura gli uomini rinunziano o aspirano alle cose, quando ne sappiano il vero valore”14. Se quando riflette sui limiti della scienza e sulla libertà come essenza dell’uomo si avvicina a Kant; quando pensa l’interiorità ad Agostino e a Kierkegaard; e quando pensa l’amore e Dio a Platone e a Plotino; Jaspers pure riconosce il grande apporto dato alla filosofia dalla religione biblica. Soprattutto riconosce la necessità della testimonianza15, il che resta la cosa che, fra tutte, lo avvicina di più a Kierkegaard. Se gli manca ciò che rende Kierkegaard così inconfondibile fra i pensatori moderni, cioè l’entusiasmo della fede religiosa – il filosofo infatti non ha bisogno, per salire, della “ringhiera” di una divina rivelazione16 – non gli manca la passione per la libertà di suscitare nuovi suggerimenti e dar vita a nuovi svolgimenti, assai più che le effimere e rumorose innovazioni teologiche del giorno d’oggi (vedi Esistenza e persona, il melangolo, Genova 1985, p. 258). 14 I versi sono di John Donne, Anatomia del mondo, Mondadori, Milano 1983, p. 107. È questo il senso della scala d’amore. Che la filosofia sia stata per Jaspers la sua più grande passione – nell’accezione kierkegaardiana – si ricava anche dalla lettura dell’intervista concessa a W. Hochkeppel nel 1961 (cfr. K. Jaspers Provokationen, Gespräche und Interviews, Piper, München 1969, ora in K. Jaspers Was ist Philosophie?, a cura di H. Saner, Piper, München 1978, pp. 142-163). Alla domanda che dà il titolo all’intervista (La filosofia è alla fine?) Jaspers risponde, conclusivamente: “A mio modo di vedere la filosofia non può mai essere alla fine, finché esistono gli uomini” (ivi, p. 162). 15 Sternberger ricorda (Maestri del ’900, cit., pp. 56-57) come in piena seconda guerra mondiale, Jaspers annotasse nel suo diario che, se non si fosse mantenuto fedele alla moglie fino al supremo sacrificio, la sua opera di filosofo avrebbe perduto ogni valore, e osserva: “… per essere pronti, in caso di pericolo, a morire insieme, non c’è bisogno di alcuna filosofia […]. Ma ciò che qui importa, nel caso del filosofo, è l’idea che la sua opera di pensiero perderebbe di colpo ogni valore, qualora venisse a mancare un’attestazione esistenziale” (p. 57 corsivo nostro). 16 La tesi continuamente ribadita da Jaspers e tenacemente difesa anche nei suoi colloqui con i teologi cristiani è che la fede, intesa come fiducia nel fondamento delle cose – fiducia per cui la ragione, che s’impegna nel chiarificarla, non fornisce prove o dimostrazioni cogenti – sussiste prima di e indipendentemente da qualunque rivelazione religiosa. Volendo sinteticamente definire, mediante un confronto, l’atteggiamento di Jaspers riguardo alla religione rivelata, potremmo dire che: per Kant il cristianesimo è la religione razionale per eccellenza, perché contiene la morale più perfetta, per cui non mette conto sapere se sia o no rivelata – cosa che peraltro Kant non esclude; per Jaspers la filosofia è invece una sorta di religione razionale e naturale, che cioè non abbisogna di alcuna rivelazione, ma attinge liberamente i suoi contenuti anche dalla Bibbia; Jaspers ammette che la rivelazione, in cui non crede, possa essere vera per altri. Però da Kierkegaard egli riprende il modo in cui è descritto il cammino del “credente” filosofo: senza garanzie oggettive di nessun genere, senza sostegno in nessuna realtà mondana, esposto all’angoscia e al fallimento nella disperazione. Il singolo

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CONCLUSIONE

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dell’uomo17: di questa libertà fu convinto sostenitore e difensore fino all’ultimo, non dimenticando mai, però, che il vero fondamento della libertà umana – comunque poi essa possa e debba venir declinata – riposa in Dio.

di Kierkegaard, tuttavia, procede solitario, mentre il singolo jaspersiano procede sempre in comunicazione con un altro singolo. 17 Nonostante la visione che Jaspers ha della storia, in cui la libertà dovrebbe manifestarsi, non sia per nulla ottimistica. La storia “naufraga”. Quella frase che Golo Mann gli attribuisce nel suo portrait (Memorie e pensieri, cit., p. 237): “Alcuni giorni prima della sua morte […] pare abbia detto: è stato tutto inutile”, lo stesso Mann, proprio in quanto storico, avrebbe potuto così interpretarla: malgrado ogni sforzo – da parte di chi cerchi di illuminarli con la ragione filosofica – gli uomini ricadono, nella storia, costantemente negli stessi errori – o nelle stesse colpe. Dunque: historia non est magistra vitae; e pure la filosofia, in ciò, sembra fallire. Ma per Jaspers l’ultima parola, si sa, spetta a Dio: Dio c’è, e questo deve bastare.

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TESTI

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da Della Verità, 1947, pp. 987-1021

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DELL’AMORE

Ciò che nel conoscere diviene manifesto sta in rapporto con l’essere di colui cui esso diviene manifesto. Il sapere non consiste in una massa indifferenziata di contenuti situati tutti su un solo piano. Esistono gerarchie di quel che è conoscibile. Il manifestarsi del conoscibile cresce per l’uomo in relazione all’ampiezza delle sue possibilità, oppure gli si chiude per la limitatezza della sua maniera d’essere. Conoscere ed essere del conoscente sono reciprocamente legati1. Sembra vi siano dei gradi dell’esser-uomo che corrispondono alle gerarchie dell’essere nel suo manifestarsi. Perciò valgono gli asserti: quel che io sono in grado di capire, corrisponde a ciò che io sono nella mia essenza; io sono, quello che credo; al Dio che ho, corrisponde il mio essere2; io sono nella maniera in cui amo. Ciò che mi si scopre come carenza d’essere nel mondo, è, al contempo, carenza in me stesso; la delusione per il lógos è, insieme, delusione per l’uso da me fatto del lógos. Ecco il motivo per cui la verità autentica nel filosofare non è afferrabile da nessuna prova costringente. La verità si

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sono reciprocamente legati. L’ampiezza e la profondità del conoscere dipendono dall’essere del conoscente: ciò è tanto più vero quanto meno il conoscere è inteso in senso oggettivo e quantitativo, e vale massimamente per quel genere di verità che deve orientare nella vita, come la verità filosofica. Questa verità, a sua volta, deve incidere nell’essere del conoscente, trasformandolo. Una interpretazione “esistenziale” del noto principio scolastico “quidquid cognoscitur, per modum cognoscentis cognoscitur” – al quale anche Jaspers sembra qui ispirarsi – si trova nel Kierkegaard della Postilla (vol. I, p. 49; p. 287). Un io impersonale, oggettivo, mai potrà comprendere il cristianesimo o il diventare cristiani: l’inter-esse della soggettività – come interiorità appassionata – è infatti in questo caso condizione indispensabile del comprendere. 2 al Dio che ho, corrisponde il mio essere. Il Dio che ho, dipende dall’uomo che sono: ma anche viceversa. In Cifre (p. 44; p. 43) Jaspers scriverà: “Si può dire: ciò che in forma di cifra l’uomo vede in Dio, lo diventa l’uomo stesso. La lotta dell’uomo per se stesso si realizza nella sua lotta per la divinità. Una frase del genere si trova persino in Lutero...”.

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

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dischiude all’amore e cresce per colui che nell’amore conquista la propria risoluzione3.

L’io vuoto. Da quando gli uomini filosofano, sono inclini a ricercare un’utopica libertà del loro essere, come se fossero in grado, in virtù del puro pensiero, di padroneggiare tanto se stessi quanto le cose del mondo. È come se io potessi determinare me stesso, il mio essere e il mio carattere, sulla base di un Io puntuale ed astratto, proprio di un essere infinitamente libero, divino; come se io mi potessi creare, così come mi voglio, o fossi in grado, in virtù di quel puntuale Io pensante, di crearmi dal nulla. In questo c’è di vero solo il fenomeno originario della nostra riflessione, cioè che vi è questo “io penso”, che sempre di nuovo può contrapporsi a tutto ciò che sono ed esperisco e può assumerlo nella riflessione. Questo “io penso” che – come dice Kant – deve necessariamente poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, non è tuttavia in grado di dominare né le mie rappresentazioni né me stesso, oltre i limiti di un loro ordinamento e disciplinamento. In tale “io penso” c’è un sapere circa una libera spontaneità che si trova in me e che però, in se stessa, è un che di meramente generico, il sostituibile ego puntuale della coscienza in generale, un io vuoto, una mera funzione: non me stesso. È sempre un errore quando voglio fondare me stesso su questo “io penso”. Nei momenti di fiacchezza posso ripiegare su un simile io puntuale e trattenermici; però sulla sua base non posso vivere. Se cerco di farlo, finisco nell’astrattezza stoica4 e nella falsa quiete di una coscienza che esercita la sua signoria nel sapere. Di fronte a tutto io dispongo allora dell’armatura

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risoluzione. Si tratta della risoluzione di divenire se stessi insieme con l’altro, nella comunicazione, rapportandosi alla Trascendenza, cioè all’Assoluto. 4 astrattezza stoica. L’astrattezza stoica è contrastata da Jaspers come da Kant. Per Kant l’uomo, in quanto Weltwesen – essere nel mondo – non può disinteressarsi del destino di questo, affidandosi al fato; Jaspers in Filosofia II (cap. 7, p. 205), trattando delle situazioni-limite, riprende il detto oraziano: “Si fractus illabatur orbis, impavidum ferient ruinae”, per denunciare quell’atteggiamento in cui il soggetto si riduce ad uno sguardo impassibile sul mondo, quasi a chiamarsene fuori, nell’illusione di rendersene totalmente indipendente. Anche in Introduzione alla filosofia (pp. 20 sgg.; trad. it. pp. 16 sgg.) Jaspers giudica “vuoto” e “rigido” l’atteggiamento stoico: “Il rimedio stoico, consistente nel ripiegare sulla propria libertà come indipendenza del pensiero, non ci soddisfa”. Lo stoico errava, “non vedendo con la necessaria radicalità l’impotenza dell’uomo”, sperimentata nelle situazioni-limite; inoltre egli “misconosceva la stessa indipendenza del pensiero, che in sé è vuoto ed è rinviato a ciò che gli è dato, nonché la possibilità della follia”. L’indipendenza stoica è priva di relazioni, non soltanto con il mondo, ma con la Trascendenza e con l’altra esistenza: anche nell’esercizio del pensiero vale infatti che “io sono solamente insieme con l’altro, da solo non sono niente”.

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DELL’AMORE

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dell’ordine razionale, mediante cui posso assumere ogni cosa nel mio pensiero, senza far nulla; si esercita il pensiero senza una conoscenza autentica; un pensiero privo di amore sperimenta la parvenza illusoria di un dominio totale tramite il sapere: così stanno le cose; da sempre così è stato; si tratta di nient’altro che... Insita in questo dominio è una specie di malignità, consistente nel vedere tutto annullarsi nell’essere-saputo: è come se non esistesse niente altro se non ciò che è conosciuto, in quanto tale. Il puro e semplice sapere tende a degenerare in un mero contenuto intellettuale per una puntuale egoità pensante. Allora ciò che è saputo risulta svuotato, come un guscio senza sostanza, come un ordine in cui non viene a realizzarsi nessun movimento. Quel che fu una volta conosciuto in modo originario s’è irrigidito e perso in un sapere schematico, ora è annacquato e insignificante. È scesa l’oscurità nella chiarezza apparente di un opinare concettuale, fatto di mere definizioni.

Amore come fondamento. Non sul mio “io penso” posso sostenermi, bensì sul fondamento del mio amore, grazie alla potenza chiarificatrice di questo pensare. L’amore è l’essere vero e proprio; amore e se stesso sono identici. Però nella mia capacità di amare non dispongo di me stesso, bensì vengo a me stesso donato. Non posso pianificare il mio amore, propormelo come scopo, produrlo. Non posso volere il mio amore, così come non posso volere il mio volere. Nei disturbi di tipo nervoso è facile che si presenti la straziante impossibilità di volere un volere, così come si presenta l’angoscia davanti all’angoscia, o, altrimenti, anche il suicidio per sottrarsi alla morte. Son tutte impossibilità esasperanti, che trascinano nel nulla. Dall’amore si produce il fatto che io in esso mi scelgo, che voglio per suo tramite. Ma un amore voluto non è mai amore. La libertà che, nel pensare e nel volere si pone come assoluta, è astratta: essa è sempre solo libertà apparente, perché, in sé, solo negativa. L’amore è la mia libertà autentica, cioè una libertà realizzata, in cui prendo slancio. Ma intrecciata con questa libertà sta la più decisa dipendenza dalla Trascendenza. Amore è la parola per l’origine positiva di ciò che abbraccia e circoscrive tutti gli orizzonti circoscriventi. È identico con l’esistenza ma è, in essa, quell’essere fondamentale che può trovarsi in ciascuno degli orizzonti circoscriventi che io sono. È il legame che positivamente li realizza, come la ragione incessantemente li connette tra loro. Ragione e amore, quando diventano efficaci integralmente e senza limitazioni, vengono a confluire fino ad identificarsi.

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

L’amore non è reale in una lontananza avulsa dal mondo, ma soltanto quando compenetra tutte le guise dell’abbracciante5. È l’amore che le porta all’unità. Agisce in esse con la sua forza animatrice, guidando e definendo i limiti. Solo l’amore irrompe nella desolazione del sapere, nell’apparenza che il male stia a fondamento del mondo, nell’apparenza che ogni realtà, nel corso indefinito del tempo, sia destinata a sprofondare nell’inessenziale, e le infrange: allora tutto sembra giustificato e anche chi ama si sa giustificato. Solo all’amore si mostra l’essenziale, anche dove si verificano delle deviazioni, e il possibile, anche quando pare sia diventato impossibile. Solo con l’amore stesso potrebbe crollare l’essere; allora quell’apparenza riuscirebbe a trionfare.

Il fondamento del filosofare. Nel filosofare io cerco liberazione6, salvezza, quiete, il fondamento dell’essere – il compimento della verità. È come se finissi su un banco di sabbia, quando cerco l’elemento che mi salvi in un mezzo di salvezza determinato, in un terreno su cui possa calcare il piede, oppure in un essere conquistato mediante il sapere. La salvezza stabile e definitiva non si conquista né nell’apatia e atarassia dell’“io penso”, né in un sapere definitivo concernente l’essere, né in un sistema o in una condizione dell’anima. Il compimento della verità – per noi la salvezza – si trova certamente nell’esperienza dell’essere, ma più che in ogni accertamento dell’essere si trova nel movimento7 che sottende questo 5 tutte le guise dell’abbracciante (Umgreifende). Il termine Umgreifende esprime tanto l’atto del circondare e contenere, quanto quello del sorreggere e sostenere. Con il sostantivo “orizzonte” ci riferiamo al primo: l’U. si manifesta allora come orizzonte di senso, con funzione essenzialmente logica, cioè come la totalità che rende intellegibile quanto in essa è contenuto, conferendogli un senso unitario; con il participio sostantivato “abbracciante” cerchiamo di rendere il significato di fondamento o sostegno dell’agire. L’U. conferisce, al contempo, senso al nostro essere e valore al nostro agire, conformemente alla doppia valenza – teoretica e pratica – dei termini verità ed esser-vero in Jaspers. 6 cerco liberazione, salvezza. In Introduzione alla filosofia, a proposito delle “origini” del filosofare, Jaspers presenta quest’ultimo, in quanto “oltrepassamento del mondo”, come una liberazione dalla costrizione nel finito e dunque come un “analogon” della salvezza (Erlösung) offerta dalle grandi religioni universali. Ma a differenza di queste la filosofia non dà garanzie oggettive, non fa promesse e soprattutto non è in possesso di una rivelazione universalmente valida (p. 20; it. p.16). 7 si trova nel movimento. L’impiego del verbo “filosofare”, in luogo del sostantivo filosofia, sottolinea il movimento incessante della ricerca, che non è solo logico, o del pensiero, ma etico-esistenziale: in tale movimento il soggetto deve diventare integralmente “vero”, perché appropriarsi della verità filosofica significa lasciarsene compenetrare: il movimento coincide

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stesso accertamento. È chiaro che la pienezza non si trova in una fuga inquieta davanti al vuoto e neppure nell’irrequieta curiosità che spinge ad intraprendere esperienze sempre nuove, che non soddisfano, bensì nel condurre il movimento con una coscienza dell’essere che viene già a realizzarsi costantemente. Certo non si tratta di una quiete assoluta, bensì di quella che è propria della ragione, la quale spinge avanti senza sosta. Questo movimento di ricerca racchiude già in sé l’adempimento. Sebbene tale moto permanga sempre orientato al futuro, è in esso presente l’essere, obliquamente al tempo. Perciò l’entusiasmo ci sorregge nell’avanzare attraverso la congerie di tutto quello che è esatto ma indifferente – grazie alla guida fornitaci dalle idee – nel rendersi percepibile del vero in virtù di unità ed origine – nella presenza di un ordine e di una gerarchia di valore che sono, per dir così, irradiazioni dello stesso essere. Se però si vuole cogliere in noi l’origine che sostiene tutto ciò e lo muove, allora tale origine, alla fine, è l’amore, in tutte le forme che per noi può assumere. Perciò l’amore è, nel fondo di ogni autentico filosofare, l’estrema forza propulsiva. Spesso esso è divenuto tema di un accertamento riflettente. Infatti il filosofare è la vita umana che si attua tramite l’eros pensante. Filosofare è quel sapere che coincide con l’attuazione (Vollzug) di un amare8. Non bastano il sapere proprio della vita filosofica né la filosofia dell’amore come riflettersi dell’amore nel sapere che se ne ha. D’altra parte non basta nemmeno un ipotetico vivere che fosse amore senza pensiero, perché un amore di tal genere è soltanto una particolare forza vitale della natura e non il fondamento di ogni orizzonte circoscrivente. Solo i due unitariamente, solo il sapere che ama o l’amore sapiente, ovvero quel sapere che è amore e quell’amore che è sapere, realizzano la pienezza dell’esser-vero. Questa unità è il fondamento tanto del filosofare quanto dello stesso esser-uomo. La filosofia dell’amore si presta a molte possibilità di sviluppo. Diventa più povera o più ricca a seconda della visione del mondo cui è giunto il pensante. Da una parte si assottiglia nel naturalismo e nell’acosmismo, oppure si amplia fino a concernere il fondamento e la totalità onnicomprensiva. L’amore viene ipostatizzato metafisicamente (nella voluntas di Agostino, nel Wille di Schopenhauer o nella libido di Freud)9. Oppure viene infatti con lo stesso sorgere del Sé, quindi con una trasformazione interiore. 8 con l’attuazione di un amare. È l’idea platonica della filosofia come slancio erotico verso l’Uno-Bene. 9 L’amore viene ipostatizzato metafisicamente... Sul rapporto tra amore e voluntas in Agostino

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chiarificato con riferimento all’esistenza e con un pensiero che trascende, quando lo pensa Platone. molto insiste Jaspers nei Grandi filosofi, pp. 363 sgg. “Agostino – scrive Jaspers – nulla vede nella vita umana in cui non sia amore. L’uomo è, da ultimo, in tutto ciò che è, volontà, e l’amore è ciò che vi è di più intimo nella volontà... Come il peso muove i corpi, l’amore muove le anime...”. Dov’è l’amore di Dio, “là l’amore ha l’oggetto cui si può affidare. L’uomo colmo di questo amore scorgerà dovunque il bene e farà quello che è giusto. Per lui vale: ama, e fa quello che vuoi...”. Però, se manca il rapporto a Dio, l’amore è pervertito e “si chiama libido, amore carnale...”. Bisogna riconoscere che “nella storia della filosofia dell’amore (Platone, Dante, Bruno, Spinoza, Kierkegaard) il pensiero di Agostino occupa un posto essenziale. Come ogni filosofia dell’amore egli coglie la fonte di ciò che è importante per l’uomo, l’incondizionato, il senza-confini, l’abbracciante, ciò da cui tutto dipende, che ha pienezza e senso, e in cui si trova il criterio di ogni cosa...”. Da lui vengono certamente “gli impulsi che noi riteniamo veri”, tuttavia “costantemente si verifica il movimento in quell’angustia per cui ciò che era chiara cifra sprofonda in opaca oggettività”. Su Schopenhauer si può leggere il saggio scritto in occasione del centenario della morte (ora in Aneignung und Polemik, Piper 1968; ma in questo caso è il secondo termine a prevalere). “Nel fragore delle cascate, nel gioco delle nubi, nell’indomito sviluppo della vegetazione, nella tumultuosa vitalità degli animali, ovunque troviamo i segni della stessa realtà: la volontà, che è, in fondo, l’essenza del mondo”. Questa metafisica, però, può valere “come costruzione poetica”, non certo “come soluzione dell’enigma del mondo”. A proposito di Freud, numerose sono le citazioni, ma anche i rilievi critici, nella quinta edizione della Psicopatologia generale (Springer Verlag, Berlino Heidelberg, 1948). In particolare Jaspers sottolinea il côté naturalistico-positivistico del modo d’intendere il comprendere (das Verstehen) da parte di Freud, e, soprattutto negli epigoni, il “semplicistico” ricorso alla pulsione sessuale nella interpretazione monocorde di tutti i fenomeni psichici. “Freud è il medico che può condurre il comprendere, invece che in maniera libera e pura, solo in forma di teorizzazione scientifico naturalistica... Nell’inconscio si trova un’energia, che ha proprietà quantitative, che scorre, si sposta, ristagna. Questa energia è di genere affettivo e viene finalmente ricondotta ad un’unica forza, che Freud chiama sessualità, Jung libido: essa è ciò che veramente muove la psiche e si manifesta nelle molteplici forme dei singoli impulsi, tra i quali l’impulso sessuale è quello primario, ragion per cui presta il nome all’intero” (p. 451). “Freud crede... di poter ricondurre tutto lo psichico in modo comprensibile alla sessualità intesa in senso ampio, come all’unica forza primaria. Specie gli scritti di alcuni suoi allievi sono insopportabilmente tediosi a causa di questo semplicismo...” (p. 453). Quanto al movimento psicoanalitico nel suo insieme: “Già nel 1919 (anno della seconda edizione, NdT) caratterizzai questo movimento: nella misura in cui all’interno della psicoanalisi sussiste un pathos di autenticità e di sincerità, Freud rappresenta per molti una visione del mondo. Ma questo pathos essi lo sperimentano più profondamente e più spiritualmente presso i grandi rivelatori del Sé (Nietzsche e Kierkegaard). Freud non è confrontabile con tali psicologi. Egli si mantiene personalmente sullo sfondo, non mette in gioco se stesso... La massa umana, i meramente sensuali, l’uomo della metropoli con una vita psichica caotica si riconoscono nella psicologia freudiana. Si può, invece di attenersi come Freud all’elemento vitale e sessuale, fare appello allo spirituale nell’uomo, e sviluppare così la propria psicologia. Freud vede quello che nasce dalla repressione della sessualità, spesso cogliendo straordinariamente nel segno. Ma neppure una volta pone la questione di ciò che nasce dalla repressione dello spirituale” (p. 646).

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1) CARATTERIZZAZIONI DELL’AMORE La parola amore assume significati lati o ristretti, misteriosi o banali, e tuttavia non ha perduto la sua risonanza. Certo questa parola viene impiegata con tanta superficialità, intesa in modo così sentimentale, sfruttata in maniera così utilitaristica e sottoposta a tali e tante deformazioni, che può facilmente insorgere il rifiuto di volersene servire. Però sempre di nuovo si ripropone il fatto che è la parola più semplice per indicare quel che vi è di più profondo e positivo nell’essere nostro. Per caratterizzare l’amore è inevitabile formulare delle distinzioni. Ma l’amore non ha niente altro accanto a sé. Ecco perché nel distinguere bisogna mantenere lo sguardo su quanto sussiste al di là di ciò che, di volta in volta, viene distinto, cioè su quello che abbraccia e fonda tutti i distinti. aa) Caratterizzazione preliminare

Ciò che lega. L’amore è ciò che lega e il vincolo dell’essente: è ciò che spinge verso l’unificazione, ed è il manifestarsi dell’unità dell’essere. È tanto ciò che dà impulso quanto ciò che dà adempimento in ogni pensiero dell’Uno. Perciò è sia il diventare uno, nella separazione, sia ciò che si trova nell’unità conseguita. Nella separazione esso è movimento: diventa propensione, partecipazione, spinta verso l’unità nell’alterità, verso la totalità dell’Uno. Invece nell’unità conseguita è riposo. Dischiudimento dell’essere. L’amore dischiude. Ci apriamo a ciò che è. Solo amando siamo in grado di vedere ciò che veramente è. L’amore ci dischiude la sostanza originaria. Alla forza dell’amore si dischiude l’essenza dell’essente in tutte le sue forme. L’amore va oltre l’essente, verso l’essere stesso. Dal profondo agisce in noi quello che ci colma di nostalgia e di speranza: è il motivo per cui abbiamo fiducia che in qualunque distretta questa realtà possa parlarci. È il legame con l’essere che precede la creazione, con l’insondabile Trascendenza. Amando mi accerto dell’essere nel movimento che va verso l’essere e nell’interiore sviluppo che da esso procede. L’ostinazione egoistica è cancellata nello slancio dell’ipseità. Solo quando amo io sono autentico. L’amore è il se stesso, ciò su cui si fonda la mia indipendenza, ciò che è libertà come libertà per l’essere, non come libertà da qualcosa. La saldezza del se stesso poggia sulla forza del mio amore.

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Nell’amore perviene a sé la singolarità dell’uomo, mentre egli rinuncia ad ostinarsi nell’egoismo10. Sciogliendosi dal proprio isolamento, egli conquista la sua immortalità, l’unica che gli sia possibile. In ogni guisa dell’amore cresce una consapevolezza dell’eternità, o, almeno, della cancellazione del tempo. Amando cerco quello che mi rende migliore. Mi appoggio su ciò che mi fa salire. Mi abbandono con dedizione a ciò che mi aiuta a svilupparmi e in cui divento me stesso. Lasciandomi guidare, divento libero. Amare è purificarsi nell’abbandono a ciò che è puro. Purificarsi conduce fino all’Uno.

Fecondità. Amare è, nello slancio del Sé, creare nel tempo. È certezza dell’essere come divenire consapevoli della fecondità. È quiete, ma nell’inquietudine propria del movimento che rende possibile creare. È pienezza, ma nel movimento della creazione. L’amore è l’elemento creativo (das Schaffende). L’amore non si può volere. L’amore non dipende da un mio progetto o da un mio volere. Non posso disporre del mio amore, né pianificare se amare e che cosa amare oppure no. Non appena so che amo, io già amo. L’amore è mistero, se commisurato a ciò che è razionalmente concepibile e pianificabile. Posso solo accettare che, quando amo, son donato a me stesso. L’amore è proprio quel profondo non-volere che soltanto può diventare fondamento dell’autentico volere. L’abbracciante che abbraccia ogni abbracciante. L’amore non è mai una realtà particolare, bensì è sempre l’abbracciante. In ciascuna guisa dell’abbracciante esso è la presenza di ciò che è incircoscrivibile. Ma esso va ancora oltre ciascun abbracciante: è l’abbracciante che contiene ogni abbracciante che noi siamo. Viene a confondersi con la ragione: è l’anima della ragione. Perciò nel movimento che avviene nel tempo si trovano entrambe le cose: il non-appagamento dell’amante e la sua profonda soddisfazione; la costante delusione e la piena partecipazione alla verità; l’essere spinti sempre avanti verso l’autentico e, insieme, la fidatezza del presente; l’immergersi nella 10

ostinarsi nell’egoismo. La conquista del Sé richiede l’uscita dall’egoismo: infatti ne sono condizioni sia il rapporto con l’altra esistenza, sia quello con la Trascendenza. Il singolo si costituisce nella relazione e solo grazie ad essa. In questa relazione, poi, per trovarsi bisogna donarsi. “Quando io mi do veramente in modo totale, senza riserva alcuna, trovo me stesso” (vedi infra, p. 226).

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indefinita molteplicità del finito nel suo essere di volta in volta diverso, e il sentimento acosmico d’amore per l’Uno infinito, assolutamente inoggettivo. Questo fondamento dell’Uno non resta celato in un sentimento vago rivolto a qualcosa di universale, ma ci parla nello sviluppo del nostro essere; ci si dà nella ricchezza delle sue forme; ci porta all’entusiasmo; agisce attirando a sé tutto il nostro amore11.

I gradi dell’essere. Per il fatto che l’amore è l’abbracciante, non è distintamente concepibile come un fenomeno determinato. Poiché è universale non è, per così dire, localizzabile in un sol luogo all’interno della totalità del nostro essere. Poiché opera su tutti i livelli, non si può vedere ed attuare in una forma soltanto. Appartiene all’essere nella sua interezza, a tutto l’essere. Dove è amore, lì è anche una gerarchia dell’amore. Si può porre la questione dove sia l’origine ultima e dove ciò che riceve animazione dall’origine. Se con il pensiero voglio accertarmi dell’essenza dell’amore, debbo innalzarmi fino all’origine ultima, e, insieme, abbassarmi fino a ciascuna mondana incarnazione. Comunque l’amore non si può comprendere come una realtà singola. Bisogna seguirne le tracce nei fatti concreti in cui si manifesta. Passando attraverso distinzioni e graduazioni si deve arrivare al fondamento e al nucleo essenziale. In particolare, non si può caratterizzare l’amore in maniera adeguata come uno dei tanti impulsi, accanto alla fame e alla volontà di potenza. L’istinto della nutrizione è un impulso particolare, una condizione biologica, capace di raffinamento, ma resta qualcosa di specifico. La volontà di potenza è un impulso che spesso soverchia tutti gli altri, che certo non è una condizione biologica, e tuttavia sembra inseparabile dalla vita e ha grandissime conseguenze nella plasmazione del mondo, ma non può certamente valere come fondamento comprensivo di tutto l’essere. Anche l’impulso è una delle formazioni in cui l’amore, per così dire, s’incarna. Però l’amore non è un impulso, bensì ciò che, pervadendo tutti gli impulsi, li orienta e, insieme, li porta a realizzarsi. Mentre l’istinto della nutrizione e la volontà di potenza assumono al loro servizio, per i loro scopi particolari, il pensare e il conoscere, rendendoli inventivi con la forza della pressione su di essi esercitata, e però restano sempre fissi sui propri obiettivi, l’amore si orienta sull’esser-vero in quanto tale. Mentre quegli impulsi vedono soltanto quel che li soddisfa, l’amore guarda 11

tutto il nostro amore. L’amore è dunque la forza che ci solleva verso l’Uno, per l’attrazione che esso esercita sulle anime; è un’attrazione cui possiamo opporre resistenza, e in ciò consiste, in ultima analisi, il male.

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in direzione dell’essenza. L’amore non è soddisfatto tramite l’appagamento di specifici impulsi, bensì tramite il divenir consapevole dell’essere stesso in tutto ciò che ha valore e significato essenziali. L’amore è assolutamente inglobante e si mantiene universale pur nelle sue storiche concrezioni: così fa fondere l’egoismo e guida l’uomo verso la sua origine. Dilata il suo essere grazie alla comprensione del mondo e della divinità12. È nell’amore che l’uomo diventa se stesso, vivendo sul fondamento dell’origine, proteso verso il fine ultimo. bb) Caratterizzazione dell’amore nelle guise dell’abbracciante La caratterizzazione preliminare ha compreso l’amore in maniera unitaria, ma esso si dirama nelle guise dell’abbracciante e viene a manifestarsi in tutte queste guise, in cui, per così dire, s’incarna. Solo all’interno di tali articolazioni i tratti generali dell’amore mantengono il loro vivente significato. Per esempio: il divenir-uno, la fecondità, l’immortalità13 acquisiscono all’interno di esse un senso analogo e tuttavia eterogeneo.

1. La realtà vitale L’inglobante vitalità è oscuramente presente alla coscienza come forza e rigoglio del corpo, e poi come essere tutt’uno di questo con la natura, nella 12

del mondo e della divinità. Rimanere chiusi all’amore significa non comprendere né se stessi, né l’altro, né il mondo, né Dio. Come la ragione è apertura nel pensare, l’amore è dilatazione dell’essere del pensante: questi due aspetti sono intimamente collegati. Chi è chiuso nel proprio io e non ama deve per forza avere un modo di pensare (Denkungsart) ristretto, angusto, limitato, particolaristico. L’espressione “modo di pensare”, spesso usata da Jaspers, è presa da Kant, che le attribuisce un significato pratico-esistenziale (per es.: il carattere di un uomo come “modo di pensare”). Con significato analogo, essa si trova già in San Paolo (es. Colossesi, 1,21): “E voi, che un tempo con le opere malvagie eravate stranieri e ostili per il modo di pensare...”. È questo un pensare che si traduce immediatamente in atteggiamento di vita e in azione. 13 il divenir-uno, la fecondità, l’immortalità. La fecondità sembra dipendere dall’unità, l’immortalità dalla fecondità. In ogni sfera l’uscita dell’io dall’isolamento mediante oltrepassamento di sé in una qualche forma di unità (con la vita, l’intelligenza, l’idea ecc.), o il raccogliersi dalla dispersione mediante concentrazione promuovono la fecondità sui diversi livelli: a sua volta la fecondità significa, in modo differente su ciascun livello, una certa vittoria del soggetto nei confronti del tempo e della morte. Che amare significhi aspirare a vincere la morte – e dunque all’amore si possa attribuire una potenza superiore ad essa – è tesi non solo del platonismo, ma altresì del cristianesimo: secondo la prima Lettera di Giovanni, ad esempio, solo chi non ama “rimane nella morte” (3, 14). Nel Cantico dei Cantici, invece, ad amore è attribuita una potenza almeno pari a quella della morte, perché entrambi sono inesorabili e invincibili (ivi, 8,6).

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quale e con la quale esso esiste. Splendore e magnificenza del mondo si disvelano all’entusiasmo della gioia di vivere14. Lo sforzo è in se stesso un piacere. L’energia vuole traboccare. Essa spinge verso il rischio e il pericolo, vuol saggiare l’estremo, per rendersi conto del proprio esserci, sempre di più, sempre più pienamente, senza limiti. L’impulso illimitato è brama e accrescersi della brama, nel ritmico movimento di sforzo e riposo, spinta e sazietà, veglia e sonno. L’individuo è presente interamente nel suo amore, e però solo come passaggio, luogo di scorrimento della vita globale, immolato alla vita, e pur in questo suo venir immolato conosce l’esaltazione della pienezza. Quel che vale è la vita come vita, la vita della specie, non l’individuo in sé. L’amore nell’orizzonte della realtà vitale è divenir-uno nello sbocciare della vita corporea, è sintonia del corpo con la natura, è fecondità come concepimento e generazione, è immortalità come rinascita in forme nuove, in nuovi individui.

2. La coscienza intellettuale Diverso in modo essenziale dall’amore vitale è quello intellettuale. È aspirazione all’evidenza del vero come esattezza e soddisfazione che proviene dall’esperienza di questa evidenza. È un inquieto spingersi in ciò che è dissonante, un non poter trovar pace, finché l’incomparabile piacere della visione intellettuale dà un istante di requie, mentre subito dopo si finisce in un nuovo movimento. Ma non è già soltanto quel che viene saputo in maniera costringente a risvegliare l’amore, bensì la fecondità di quanto è conosciuto in modo certo, in vista della soluzione di molti, anzi di infiniti problemi. La semplicità con cui qualcosa, che finora sbarrava la strada, diviene comprensibile, la “conformità 14

entusiamo della gioia di vivere. Altro è tuttavia, secondo Jaspers (Filosofia II, pp. 307-308), l’amore per la vita che ha a suo fondamento solo l’immediato, irriflesso piacere di vivere (Lebenslust) e quello che invece matura grazie alla “certezza di sé che proviene dai nostri atti di libertà”. Questa diversa volontà di vivere (Lebenswille) ha il suo fondamento nell’esistenza che vede, negli scopi vitali che la occupano, la presenza della Trascendenza. È una volontà che si manifesta come “concentrazione” (Konzentration) in ciò che è di volta reale, ma in modo tale che il negativo (situazioni-limite, fallimenti, rinunce) sia assunto nella vita con la consapevolezza che il mondo non è tutto. “Solo il fatto che la vita acquista carattere simbolico permette di asserire, in senso relativo e senza illusorie armonizzazioni: comunque sia, la vita è bene”. Il detto goethiano, però, osserva Jaspers, “risulta autenticamente vero solo in uno sguardo retrospettivo, rammemorante”, anche se la possibilità da esso dischiusa “è sufficiente a far abbracciare la vita”. In generale per il filosofo è dall’amore per ciò che vale di più che discende il giusto apprezzamento di ciò che vale di meno.

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allo scopo” di asserti, da cui consegue un mondo intero di verità, si definisce anche la “bellezza” delle soluzioni. Già in Platone si trovano le ipotesi solide, da cui consegue molto e anche l’essenziale. L’amore intellettuale è colpito dalla fecondità di ciò che è meramente esatto. Questo significa: l’eros dello scienziato lo spinge verso il cuore delle cose, disvela il punto saliente; non è l’ottusa diligenza, che ha poche pretese e si contenta di raccogliere dati all’infinito, oppure della destrezza tecnica. Inoltre questo amore non è rivolto alla singola esattezza, che piuttosto, come tale, è indifferente. Coglie il fatto dell’esser-esatto in sé, cioè che qualcosa può essere intuito in modo evidente. Ogni particolare esattezza rappresenta il fatto della possibilità dell’esser-esatto; questo è il fatto che viene amato in ogni singola esattezza, non essa come tale; e quindi tramite la singola esattezza è amato il cosmo dell’esatto, questo unitario, in sé sussistente mondo delle cose reali. In tale amore si possono individuare diversi aspetti: a) è un fare affidamento sulla necessità che è comprensibile, un pacificarsi in ciò che sussiste intemporalmente. Anche l’amore di Spinoza percorse questa via; b) questo amore è una dedizione all’essente, nel suo venir pensato in maniera articolata. Esso permette di scorgere dovunque l’essenziale nell’universale e nelle sue possibilità. Sia nella maniera più pura negli oggetti della matematica che in altre essenze ideali scorte nelle loro necessarie connessioni, sempre esistono quest’ordine e questa armonia, questa necessità nella molteplicità infinita delle forme in cui il reale si articola: ordine e armonia che, nel sapere del lógos, si riverberano dall’essere del mondo in ogni realtà; c) l’unità, da cui proviene e verso cui va la forza dell’amore, esiste contemporaneamente nell’amante in quanto origine e nell’essere che è oggetto d’amore, in quanto essere conosciuto. L’unità si trova nella cosa stessa e però può venir appresa come tale solo in virtù di quell’unità che si trova in noi. Kant vedeva addirittura anche le “idee” teoretiche – questi modi in somma misura soggettivi dell’ordinamento sistematico – nella loro oggettività, come se esse si trovassero nel mondo stesso e non solo nel nostro animo.(La meraviglia davanti alle figure matematiche, davanti alle leggi della natura e all’unitarietà della natura nelle sue leggi e forme, con le loro connessioni armoniose, è comune a Platone e a Kant); d) l’amore per l’esatto si sa, per così dire, soggiogato dalla forza della

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persistenza propria di ciò che conosce. Scorge qualcosa di simile all’immortalità, e cioè l’intemporalità, nelle connessioni rigorose che dominano pervasivamente la realtà mondana. Immortale in questo senso, cioè intemporale, sono io stesso quando, pensando, partecipo del vero intemporale, penetrandolo con la mia visione. Di fronte allo sforzo che comporta la ricerca scientifica e allo sforzo che, in generale, comporta la vita nel tempo, vi è qui, si direbbe, una stabilità senza sforzo, nell’unità delle cose come realtà conoscibili. Quello che diviene sapere solo nel nostro sforzo conoscitivo e deve necessariamente venir prodotto è già così, e non viene soltanto prodotto da noi. È sorprendente parlare di amore nella sfera dell’intellettualità pura. E tuttavia può accadere che il giovane, nell’esperienza del conoscere, esclami con entusiasmo: io amo l’intelligenza. Essa dà quella fiducia di genere unico che è il prodotto dell’attendibilità di ciò che per essa vale; garantisce di poter disporre del suo aiuto nella tempesta dei cambiamenti; appare come un’immagine dell’eternità.

3. L’atmosfera spirituale Dall’amore intellettuale nello spazio della coscienza in generale bisogna distinguere quell’amore che, nell’orizzonte circoscrivente dello spirito, diviene consapevole della totalità. L’amore nella sfera spirituale non è rivolto ad oggetti o esattezze in quanto tali, bensì alla loro connessione in un tutto. Lo spirito ha già per così dire una propaggine nella sistematica delle idee teoretiche, che danno sostegno ai contenuti della coscienza in generale. Le idee dello spirito tuttavia sono onnicomprensive15; si tratta di idee essenzialmente storiche, nella loro vitalità che è di volta in volta attuale. 15 Le idee dello spirito tuttavia sono onnicompensive. “Rispetto a ciascuna esistenza le idee sono relativamente universali. La loro globalità abbraccia molti uomini, che partecipano ad esse in maniera comunitaria... Ma le idee non sono l’esistenza del singolo, bensì, per dir così, l’esistenza dell’umanità in quanto spirito. Il singolo però non è libero soltanto come spirito, ma anche come esistenza, e unicamente tramite essa è libero anche come spirito (corsivo nostro). Le idee non sono mai potenze oggettive per una orientazione nel mondo di tipo costringente: esse sono potenze per l’esistenza. Prendere parte ad esse costituisce una specifica soddisfazione, e all’esistenza crea solo il suo spazio” (Nachlaß alla Logica filosofica, Piper, München 1991, p. 278).

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È un mondo che ruota in se stesso, cui io appartengo, cui mi rivolgo amorosamente nell’azione e nel pensiero, mentre amorosamente ne vengo accolto come membro. Questo mondo è quello, storico, dei miei avi, della mia famiglia, dei miei amici, del mio popolo, della mia professione, dei miei compiti. Tutto ciò ha una struttura portante costituita dalle necessità dell’esserci vitale e dagli ordinamenti della coscienza in generale; però sussiste essenzialmente grazie allo spirito delle idee, che vive in esse. La spinta verso la realtà dell’idea e il venir accolti dalla sua realtà, che già ci viene incontro, creano quell’atmosfera in cui incessantemente viene creato qualcosa che già è. L’unità di un ordine che mi abbraccia riempie la vita. L’esercizio di una professione nell’idea di un compito, come il divenir consapevoli della dimensione spirituale contemplando l’anima delle cose, nello sguardo pieno d’amore rivolto a uomini, a istituzioni e leggi nel loro fondamento, alla natura e al paesaggio: tutto ciò promuove, in un mutuo scambio, una feconda armonia che viene incessantemente svolgendosi e silenziosamente trasforma. La fecondità dell’amore si mostra in questa inesausta generazione della vita compenetrata dallo spirito. Io amo in virtù dell’idea, che pur celata in me nel suo nucleo essenziale, tuttavia già mi fa da guida. Nella misura in cui essa si sviluppa, io sono consapevole dell’espandersi dell’essere, in comunione con gli altri uomini che con me sono questo mondo e lo comprendono. È un entusiasmo ordinato, con il quale dico di sì a tutto l’essere come essere che partecipa dell’idea, e in cui sono prossimo a tutto quello che mi si fa incontro, mentre vengo colmato dalla gioia per la realtà delle cose. Dovunque penetri il mio sguardo, in tutto riesco a scorgere l’essere. Vivendo la vita dello spirito, mi rendo conto dell’immortalità, davanti alle eterne forme e figure, nella tipicità delle loro storiche manifestazioni, e in virtù del mio esser membro di questa totalità che mi sospinge innanzi.

4. L’esistenza La quiete della risoluzione che sceglie il proprio amore colma di sé l’amore esistenziale. Ci si mantiene senza rotture sul cammino della realizzazione. Questo amore è quella fedeltà, che non è solo sentimento e costanza, ma vincolo incondizionato. Questa fedeltà non si lascia adeguatamente connotare come fidatezza morale e nemmeno come immutabilità del temperamento, bensì – pur includendole entrambe – si sa rafforzata da un fondamento metafisico. La fedeltà dell’amore esistenziale è nell’origine qualcosa d’altro rispetto a quanto il sapere costringente contiene di sta-

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bile, sicuro, attendibile. Ciò che è saputo in maniera stringente è più che fedeltà, perché sussiste immutabile nel senza-tempo; ma è anche meno della fedeltà, perché è soltanto universale, sussistente comunque e senza rischio. L’amore rivolto all’essere che è conosciuto nella coscienza intellettuale coglie qualcosa che è valido per tutti in maniera impersonale e che è indifferente, mentre l’amore per gli uomini cui mi lega un rapporto di fedeltà coglie qualcosa che è certo in maniera insostituibile, di cui non ho sapere, ma che è tale, che solo affidandomi ad esso sono me stesso. Di fronte a tutte le guise dell’universale – alle sfere del vitale, dell’intelligenza, dello spirito – questo amore proviene da qualcosa che è insostituibilmente unico e coglie l’unico insostituibile, questo singolo, che, inconoscibile nel suo essere, diviene visibile all’amore. L’amore va da esistenza a esistenza. Nella sua assoluta storicità, l’esistenza è ciò che, essendo insostituibile, non può in nessuna maniera diventare universale, e che nemmeno può venir conosciuto come universale. Però è come se nell’autenticamente amato risplendesse l’essere stesso. Se nella dimensione del vitale la specie ha il primato sull’individuo e nella sfera intellettuale il primato appartiene a ciò che è universalmente valido, mentre nello spirito appartiene all’idea, nell’esistenziale l’individuo in quanto esistenza ha il primato rispetto a specie, universale e idea. Ma questo individuo, che in quanto conoscibile, è soltanto l’incontro di molti elementi universali in una determinata combinazione, oppure viene a significare la molteplice varietà degli esemplari di un identico genere, o l’egoismo di questo particolare esistente empirico nel suo isolamento e nei suoi privati interessi, questo individuo è, nella sua esistenzialità – scorta solo dall’amore e amorosamente consapevole di sé nella risoluzione – ciò che io sono autenticamente, perché posso esserlo. Per questo insostituibile soltanto vale il “diventa quello che sei!”, come istanza che, nel medium dell’individualità empirica, è sempre ancora da realizzarsi. Poiché l’individuo come esistenza non è né una realtà isolata, né capriccioso egoismo, né l’esemplare di una varietà, in quanto insostituibile singolo egli è, tuttavia, universale16, e in quanto temporale è insieme eterno; la sua realtà si può cogliere solo tramite paradossi, cioè locuzioni che si elidono a vicenda. Immortale divento esistenzialmente con la risoluzione, che è eternità nel tempo. L’esistenza amante comprende le cifre dell’essere come 16 egli è, tuttavia, universale. Perché nel Sé si riflette l’Uno-Unico della Trascendenza. Per Kierkegaard il singolo era “il punto di incontro tra Dio e l’umanità” (Diario, volume quinto, p. 190, pensiero n. 2194). Che la realtà del singolo sia una sintesi paradossale di opposti è pure asserto tipicamente kierkegaardiano.

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universalità di volta in volta uniche. È evocazione di tale essere in simboli, in cui ci si arrischia a vivere17.

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5. L’amore tra i sessi Interrompo la caratterizzazione dell’amore all’interno delle singole guise dell’abbracciante per affrontare la questione dell’amore sessuale. Quando si discorre dell’amore, di solito si pensa anzitutto ad esso. Questo amore in quanto tale appartiene alla realtà vitale. Però, anche se ha in tale sfera la sua realtà immediata, chiaramente non è proprio di questa soltanto. Non può essere casuale il fatto che là dove il discorso verte sull’amore, sia nel filosofare che negli scritti di carattere mistico o religioso, l’amore sessuale finisca per comparire, se non come portatore dell’amore, almeno come simbolo. Però è indubbio che là dove si parla d’amore, s’intende anche qualcosa di totalmente altro rispetto a quanto è solo vitale. Di fatto l’amore sessuale si trova in relazione, o positiva o negativa, con tutte le guise dell’amore nella realtà temporale. La questione è però: di quali contenuti sia capace l’amore sessuale, come venga ispirato e guidato dalle modalità dell’amore, mentre queste ricevono slancio da esso, e, all’opposto, come possa accadere che l’amore sessuale venga escluso e separato. L’amore sessuale porta nell’amore la sua forza e, insieme, la tensione dell’incompatibilità. L’amore sessuale in quanto tale appartiene alla sfera del vitale, e senza vitalità nulla di umano può realizzarsi. Però il ritmo di desiderio e adempimento è, in sé, proprio di ogni essere vivente e non tipico solo dell’uomo. Nell’uomo si trova piuttosto il contrasto: da una parte l’amore sessuale puro e semplice aderisce a quello che è del tutto transitorio, le altre guise dell’amore conoscono un eterno presente; uno crea immagini illusorie, le altre giungono a intuire l’essenza; uno è sottoposto alla forza della pulsione, le altre seguono la forza d’attrazione dell’essere; uno rimane chiuso sul piano della mera ripetizione fino al disgusto, le altre conquistano lo slancio. Ma una simile contrapposizione è qualcosa di astratto. È soltanto la dissociazione che può portare all’estrema rovina. Questa dissociazione è

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ci si arrischia a vivere. Si tratta delle cifre, in cui la Trascendenza “ci parla”. Interpretazione e appropriazione della scrittura cifrata pertengono esclusivamente al singolo, non vincolato da nessuna autorità, se non da quella, liberamente riconosciuta, della tradizione (Überlieferung) filosofica: da essa provengono gli impulsi originari dei grandi filosofi, che sollecitano senza costringere.

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una minaccia costante. L’amore autentico non è un accadere naturale. La maniera in cui il singolo uomo permette al proprio amore di svilupparsi, il modo in cui lo mantiene in carreggiata con il suo agire interno, mediante impercettibili inversioni di rotta, ponendogli dei limiti o,viceversa, lasciandolo libero; oppure se gli permette di abbandonarsi ciecamente alla malia della seduzione, all’inganno e al pervertimento: tutto ciò coincide con il suo vero e proprio divenir se stesso. Infatti quel che l’uomo è coincide con la maniera in cui ama. Il contrassegno dell’esser-uomo, nella pluralità degli orizzonti circoscriventi che lo costituiscono, resta la tensione, nella quale sono altrettanto possibili la dissociazione e la perdita, quanto la conquista dell’unità. L’amore tra i sessi abbisogna di tutte le altre guise in cui si può amare, per essere pienamente umano; esse, per parte loro, necessitano dell’amore tra i sessi come portatore della loro forza. La sublimazione dell’amore sessuale18 diviene al contempo la sua plasma18

La sublimazione dell’amore sessuale. Non è il concetto freudiano, con riferimento all’energia della libido che, distolta dal soddisfacimento diretto, viene incanalata verso realizzazioni di altro genere (artistiche, scientifiche, ecc.). Infatti per Jaspers l’amore tra i sessi non è libido, ma comprende livelli diversi: la sua sublimazione significa che esso perviene al livello più alto, che è quello dell’amore tra le esistenze e per la Trascendenza; tale amore “sublime” è però accessibile anche per altra via, che non sia quella dell’amore di coppia. Però quando in quest’ultimo si consegue il livello sublime, in esso viene a realizzarsi l’unità di tutte le modalità dell’essere e dell’amare, e si ottiene la maggior pienezza di manifestazione della verità nel tempo. Riportiamo qui alcune affermazioni sulla sessualità tratte dalla Psicopatologia generale, riprendendole ancora una volta dalla quinta edizione dell’opera, successiva di un anno appena al testo che stiamo esaminando: “Occorre comprendere che tutto ciò che ha relazione con la sessualità presenta determinate chances, ma anche alti rischi... La sessualità nell’uomo produce inquietudine, lo slancio più elevato come la caduta nell’infima bassezza, e porta fin dentro l’esistenza fedeltà o tradimento essenziale” (p. 522). “Il sesso agisce sulla psiche in maniera incalcolabile, però l’uomo cela in sé sempre più che la sua sessualità, cioè il tutto umano che si presenta nella forma di uno dei due sessi, ma nella sua essenza non coincide con questo sesso. Si oscilla perciò costantemente tra sottovalutazione e sopravvalutazione del significato del sesso...” (p. 524). “Quando però la sua sessualità si realizza completamente, all’uomo si fa presente, come una conquista, la totalità del suo essere corporeo-psichico. L’unità di corpo e anima cessa di essere soprattutto un problema della sua riflessione, è qui un destino che lo afferra, ma anch’egli di volta in volta lo afferra, in maniera più significativa e decisiva persino di quanto non avvenga per una malattia del corpo che lo trasforma. Dalla sessualità vitale all’erotica raffinata fino all’amore corre, al di là dei salti determinati dalla diversità di senso, una connessione unica. Si è sempre ripetuto che la sessualità, nelle sue ripercussioni sul corpo e sull’anima, è globale: l’uomo è caratterizzato dalla sua sessualità fin nelle ultime diramazioni della sua vita psichica. Tutte le sue rappresentazioni, i pensieri, le direzioni degli impulsi, le sue esperienze psichiche possono assumere una colorazione erotica. Però non si tratta di un accadere passivo. Infatti questa realtà che determina globalmente resta, al contempo, una sorta di materiale della personalità, il quale riceve da altre fonti, rispetto a quelle che si trovano nella sessualità, plasmazione ed efficacia” (ivi p. 525, corsivo nostro).

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zione. La dissociazione rappresenta una perdita per ogni guisa dell’amore, mentre la conquista dell’unità di tutte le guise realizza il compimento della verità nel tempo. Che l’elemento sessuale caratterizzi l’essere umano fin nelle ultime diramazioni della sua spiritualità, incidendo sul suo particolare sviluppo, significa che l’uomo riceve dalla donna e la donna dall’uomo una determinazione che investe il suo essere stesso. La maniera in cui l’altro sesso, nella figura di un singolo essere umano, attrae, sollecita, avvince a sé; il modo in cui viene visto, come la sua immagine viene a dominare la vita, sia effettivamente, nella realtà, sia come modello ideale; se e come la comunicazione si attua nell’unico amore, sono tutti elementi decisivi per l’esistenza (Existenz). Anche nella decisione negativa, nella rinuncia alla realizzazione dell’amore sessuale, giace l’elemento positivo consistente nel venir determinati dalla possibilità. Infatti in opposizione all’indifferenza, al lasciare che le cose vadano come vadano, all’unione priva di pensiero e alla dispersione in un’erotica distruttiva, anche la decisione negativa è volontà di verità, di totalità, di compimento, di fedeltà, pur se la realizzazione sia venuta a mancare. L’amore dei sessi, considerato in se stesso, mostra una serie di forme che trovano la loro realtà solo nell’interconnessione. Se astraiamo dal fatto che esse sono l’una in vista dell’altra, per esaminarle separatamente, possiamo distinguere: a) L’amore vitale è quello propriamente sessuale; la realtà corporeovivente come tale fornisce da sola guida e appagamento. Domina l’impulsività della brama. Il contatto è il fine immediato di un istinto, la cui eccitazione si intensifica fino all’orgasmo, con il quale il flusso del desiderio trova la sua conclusione nell’indifferenza, finché con un ritorno periodico si ripresenta la stessa cosa. Varietà e cambiamento non sono né richieste, né respinte. È un accadere che ha luogo per larga parte nell’inconsapevolezza del vitale. b) L’erotica è l’amore sessuale nel suo sviluppo spirituale. Ricchezza degli stimoli e capacità di sorprendere, segrete promesse ed eccitanti inibizioni, gioco e visione producono un mondo di sessualità spiritualmente evoluta. L’uomo è in grado di far ricorso a ornamento e malia come mezzi la cui funzione è di mettere in moto l’attrazione sessuale. Qui valori decisivi sono la varietà e il cambiamento. La soddisfazione sessuale è per dir così insulsa, perché pone fine al gioco.

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c) Il matrimonio come vincolo contrattuale è, in certo modo, il corretto amore della coscienza in generale19, per legare questi due esseri l’uno all’altra, nel corso della loro vita, con tutte le conseguenze nella realtà, di tipo economico e materiale, e insieme con lo scopo della fondazione di una famiglia e dell’educazione dei figli. In questa forma ogni modalità dell’amore diviene al contempo un oggetto del diritto e un dovere. Il senso del vincolo è qui qualcosa di universale, che si ripete in innumerevoli esemplari in questa società e in questa realtà statuale. Qui domina la legge morale, accanto a quella giuridica. d) L’amore metafisico è lo slancio del divenir-sé dell’esistenza in due esseri che si amano essendo uniti da un vincolo incondizionato, storico, non contrattuale. Ciò che li tiene insieme è fondato nella Trascendenza. Non la sorte, non la legge morale, non il diritto – tutte realtà che giocano un ruolo imprescindibile nel fenomeno – valgono qui, bensì la certezza dell’uno-unico come eternità nel tempo. Fu sempre e sempre sarà quello che, nell’attimo, è temporale apparire: “Perché tu fosti in una vita passata mia sorella o mia sposa”20. Nessuna delle forme dell’amore tra i sessi è capace di portare da sé sola al compimento. Il loro incontrarsi nell’unità, per cui si realizzino tutte non rimanendo dissociate, ma collegate l’una all’altra, non si può certo adeguatamente concepire in modo oggettivo, in qualche programma, immagine, figura o dottrina. Ma certo in ogni tempo si può sperimentare come a causa della soppressione di uno dei momenti si verifichino deviazioni e fallimenti nell’amore tra i sessi.

19 il corretto amore della coscienza in generale. Definizione non proprio entusiasmante dell’unione matrimoniale, che però acquista in altri scritti jaspersiani un diverso spessore esistenziale (vedi cap. V del nostro saggio introduttivo): da essi si può concludere che Eros – presentato da Platone come “senza casa” (ôοικος; Simposio, 203D) può invece , secondo Jaspers, ricever accoglienza nel matrimonio, interpretato e vissuto come “idea”, cioè come sintesi di innamoramento e risoluzione per sempre. Quest’ultima definizione rimanda all’elogio kierkegaardiano del matrimonio attribuito al giudice Guglielmo, personaggio degli Stadi sul cammino della vita (1845). Nelle parole del giudice-marito il matrimonio diventa addirittura “lo splendido punto focale della vita e dell’esistenza, un centro che riflette ciò che rende noto con profondità pari alla elevatezza della cosa: una rivelazione che, nel suo rimaner segreta, manifesta la realtà celeste” (p. 122; it. p. 226). 20 Vedi infra nota 31 (luminosità del ricordo).

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L’erotica diviene rovinosa, quando si scambia il gioco per serietà21. Il seduttore perde il suo piacere a conquista avvenuta. Allora abbandona il suo oggetto d’amore e si volge ad un altro. Il matrimonio diventa un carcere, per la vacuità di diritti e doveri nel loro carattere di mera costrizione. L’amore metafisico distanzia il suo oggetto, permette che diventi qualcosa di sovrasensibile e di irraggiungibile, benché l’uomo come essere vivente si trovi in questo mondo; così, perdendo l’incarnazione, esso perde anche il suo senso autentico. Di conseguenza non rimane che un esercizio di nobiltà e buone maniere, di gesti esteriori che diventano rapidamente fonte di uno stucchevole perché artificioso gioco di illusioni. Invece la connessione con l’origine nell’Uno, che appare in sessualità, erotica, matrimonio e amore metafisico, quando si condizionano reciprocamente e sono l’uno materiale o principio animatore dell’altro, viene ad esprimersi in frasi del tipo: “le nozze sono stipulate in cielo” (il fondamento del matrimonio non è più in maniera decisiva nel diritto e nella morale, bensì nella Trascendenza dell’amore metafisico), oppure: “la donna diviene più bella con gli anni”22 (lo splendore dell’anima, il senso dell’eternità cre21

per serietà. In modo diverso l’erotica può risultare rovinosa come “passione per la notte” che respinge e sfida la “legge del giorno”, cioè il principio dell’ordine, della chiarezza, della razionalità. In quanto passione essa è pronta alla morte, pur di affermare la propria “più profonda verità”. Jaspers ne tratta con una certa enfasi romantica nel terzo volume di Filosofia (pp. 105 sgg.). “L’oscuro eros – qui scrive – riconosciuto come qualcosa di assoluto, stima un nulla la vita come tale. Non è la sessualità cieca, come istintualità poligama, priva di passione e quindi di forza esistenziale, bensì quel vincolo che si instaura con questo essere dell’altro sesso, nella sua unicità, e che, senza comunicazione esistenziale, diviene il proprio essere stesso... Senza percorrere la via della comprensione, questa passione è tuttavia incondizionata”. I due che si incontrano – o uno dei due – “si gettano in una Trascendenza che li annienta”; infatti, respingendo la chiarificazione esistenziale e la comprensione, annientano la loro ipseità. Si ha così, in luogo del processo del divenire se stessi, manifestandosi l’uno all’altro, il compimento dell’amore “in un’oscura assenza di manifestazioni” che può spingersi fino alla “morte per amore”, di fronte alla quale, tuttavia, deve valere il rispetto, “come davanti all’inconcepibile”: questa passione sembra avere la sua Trascendenza, cioè una sua pur negativa assolutezza, considerando la quale diviene impossibile “l’auto-legittimazione di ogni amore che si compia felicemente nel mondo”. 22 “la donna diviene più bella con gli anni”. Qui, come del resto nel Kierkegaard degli Stadi, la bellezza della donna ha un significato comprensivo dell’intera personalità, dell’armonia raggiunta dal suo sviluppo interiore. Però tutt’altro che insensibile al fascino anche esteriore della donna era il giovane Jaspers, come attestano le considerazioni entusiastiche dello studente diciannovenne contenute nella lettera spedita ai genitori da Milano, durante il suo viaggio in Italia: “La maggior parte delle signore eleganti – riferiva Karl, dichiarandosi “assolutamente incantato” – giungono alla passeggiata in prossimità del Duomo esattamente alle cinque e mezza... L’intera tipologia di umanità è diversa , e, per così dire, più bella che da noi... Fra le ragazze ve ne sono a decine così belle come ad Oldenburg non se ne trova neanche una. Si ha proprio la sensazione di trovarsi nella terra della bellezza e dell’arte...” (da K. Jaspers

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scono con il tempo attraverso la successione delle trasformazioni interiori che gli amanti sperimentano l’uno con l’altra. Anche nello spegnersi della pulsione sessuale, rimane l’amore autentico, sorretto dal ricordo, e in grado di approfondirsi nella sua origine, divenendo più maturo in un vivo presente, “fino al pianissimo dell’età più avanzata”). L’amore è fonte e convalida della fede23. Nell’assenza di fede, nel degradarsi di ogni realtà a qualcosa di relativo, è ancora possibile il sostegno dell’amore di coppia: nel quale si può allora trovare non solo un massimo di felicità, ma anche un’ultima, appagante, autentica realtà, nella calda vicinanza di essere umano ad essere umano24. D’altronde solo il tedio e la disperazione nel rapporto tra i sessi portano la stessa assenza di fede a consapevolezza piena. Però l’amore non è, in assoluto, amore tra i sessi. Alla domanda su quale sia il nucleo essenziale dell’amore, o che cosa nella multiformità dell’amore sia l’elemento unitario, occorre rispondere: di fronte al polo rappresentato dall’amore tra i sessi, che tutto sostiene e tutto penetra, sta l’altro polo dell’amore che muove dal fondamento metafisico: in mezzo a questi due poli si trovano le modalità dell’amore nella dimensione vitale, dell’intelligenza, dello spirito, dell’esistenza. L’amore tra i sessi è proprio un segno dell’unità di tutte le modalità dell’amore. Nessuna di queste è senza di esso25. Esso è, in ogni caso, il Italienbriefe 1902, a cura di Suzanne Kirkbright, Winter, Heidelberg 2006, p. 60). 23 fonte e convalida della fede. Vedi infra, pp. 225 sgg. 24 nella calda vicinanza di essere umano ad essere umano. Rapido ma toccante riferimento alla situazione tragica degli anni visitati dal terrore e dallo sconforto, così efficacemente evocati in una poesia dello scrittore austriaco H. Broch, composta nella medesima temperie (1939): “Quando ci abbracciavamo, / trottavano fuori i cavalli dell’Apocalisse / ...Non per viltà chiudevamo gli occhi / e non per indifferenza del dolore altrui non volevamo ascoltare; / non per poter fuggire volevamo star soli, / ma forse perché ognuno deve cercare colui / cui vada un ultimo pensiero / quando preme che la morte / non sia del tutto insensata. / Oh, non essere forzati a morire assurdamente! / Già molti son guariti da mali gravi / o in qualche modo sfuggirono alla morte, ma soltanto / chi è stato davanti a quella porta, / dietro cui uomini torturati sono ridotti a bestie / così che son forzati nella morte privi del loro io / solo costui sa che cosa sia l’assurdità...” (Quando ci abbracciavamo, da Poesie d’amore del ’900, Milano, Mondadori 2006, pp. 249-250; traduzione lievemente modificata). 25 Nessuna di queste è senza di esso. L’amore di coppia può accendersi dalla comune passione vitale, dalla passione per la conoscenza, dall’amore per la poesia, l’arte, la cultura ecc. In ogni dimensione dell’essere e dell’amare s’insinua l’amore di coppia, anche nella dimensione del filosofare, cioè della ricerca della verità. È il “grande interesse comune” da cui nacque, ad esempio, l’amorosa amicizia fra Nietzsche e Lou von Salomé, da quel che si può desumere leggendo il carteggio fra i due e con l’amico Paul Rée (vedi Triangolo di lettere-Carteggio di F. Nietzsche, Lou von Salomé e Paul Rée, Milano, Adelphi 1999). Della von Salomé riportiamo qui un aforisma che ebbe probabilmente l’approvazione di Nietsche: “Nessuna via porta dalla

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cammino per raggiungere questa unità, sia che, con esso, tutte vengano attraversate, sia che esso venga oltrepassato, là dove l’amore sembra possibile senza amore tra i sessi: infatti nel moto di sublimazione dell’anima, cioè nel trascendere verso l’Uno, esso è ancora presente, come rafforzamento. Così è attivo in ogni metafisica autentica, come ad esempio nell’entusiasmo di Giordano Bruno. Il fatto che l’amore nella sfera della vitalità sia generare, concepire e partorire, con il conseguente indefinito risorgere della vita in nuove forme, è simbolicamente, e anche nella realtà, un tratto fondamentale di ogni amore: è grazie all’amore che cresce e si rigenera il contenuto sostanziale e viene percorso il cammino, nel quale il trascendimento dei limiti diventa pace. Fecondità, portare a sviluppo il seme, autosviluppo, ripetizione, appartengono, sia pure con trasformazioni e analogie, all’amore in quanto tale. L’amore dal fondamento metafisico sperimenta la forza attraente dell’Uno, dal quale solamente ogni amore, anche quello tra i sessi, riceve autentica pienezza26. Anche per l’amore metafisico il rapporto sessuale diviene, ancora una volta, immagine simbolica. È questo il significato del detto: “L’eterno femminino ci spinge verso l’alto”27. passione dei sensi all’affinità spirituale, è vero invece il contrario” (dal “Libro domestico di Stibbe”, ivi p. 182). Jaspers, piuttosto, sottolinea che nell’amore tra i sessi c’è la possibilità che tutte le dimensioni siano unificate: nell’altro e con l’altro amo la vita, l’intelligenza, lo spirito, l’esistenza; ma amando l’esistenza e le esistenze, amo con l’altro anche il mondo e Dio. 26 anche quello tra i sessi riceve autentica pienezza. A Jaspers pare che solo nella Bibbia e non nel mondo greco l’amore coniugale riceva adeguata valorizzazione (vedi il nostro cap. V, nota 52); fa forse eccezione, secondo noi, il greco Plutarco, che – sia pure in epoca ellenistica – nel suo Amatorius (attorno al 100 d.C.) trova modo di esaltare il rapporto sessuale “vissuto con la sposa legittima”, che “fa sorgere amicizia” ed è paragonabile alla “comune iniziazione a grandi misteri”. Benché il piacere, di per sé, duri poco, “da esso germogliano, giorno dopo giorno, rispetto, riconoscenza, affetto reciproco e fiducia”. Conclusione: “dalle altre relazioni non possono scaturire né piaceri più grandi, né vantaggi più continui; nessun’altra amicizia gode di una bellezza così viva e così desiderabile, come ‘quando con piena armonia governano insieme la casa / marito e moglie”’ (Plutarco, Sull’amore, Milano, Adelphi 2007, pp. 100-103; i versi finali sono tratti dall’Odissea). 27 “L’eterno femminino ci spinge verso l’alto”. L’amore tra i sessi si sublima nell’amore metafisico delle esistenze, che ha il suo fondamento nella Trascendenza: ciascuno dei partner allora vede nell’altro un’incarnazione irripetibile dell’Uno-Unico. La certezza di appartenersi totalmente dall’eternità diviene così simbolo della necessità del rapporto tra umano e divino, temporale ed eterno per una piena realizzazione dell’umano. Una diversa interpretazione del detto goethiano si trova nella lettura fattane da G. Simmel (vedi Frammento postumo sull’amore, Milano, Mimesis 2011), che però lo connette strettamente con le figure di Faust e Margherita. Esso evocherebbe dunque un amore elevato o il matrimonio inteso in senso metafisico o “celeste”, però non un amore autenticamente assoluto, in assenza di una vera e propria individualità dei partners – in particolare di Margherita – e di una loro insostituibilità

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6. L’amore per l’abbracciante, che è l’essere stesso Le diverse guise dell’abbracciante che io sono mi consentono di divenire consapevole della dimensione nella quale si colloca il mio amore e di quale sia il suo fondamento. In ognuna di esse, infatti, l’amore ha di mira l’oggetto che qui gli corrisponde. Ma attraverso tutti gli oggetti, in ciascuno dei particolari orizzonti in cui si articola il mio essere, io sono rivolto all’essere come tale, sia mondo, sia Dio. L’amore si realizza tra due poli. Amo i miei compagni di vita, amo l’altro come realtà vivente (nella sfera vitale) come coscienza (nella sfera intellettuale), come spirito e come esistenza; e poi amo l’essere. Oppure: amo quell’amare che sta a fondamento di ogni abbracciante, e amo l’essere che in tutte queste guise dell’abbracciante mi si fa incontro. O anche: amo l’abbracciante che siamo noi, e l’abbracciante che è l’essere stesso. Questi due poli sono inseparabili. Quando nell’amato amo l’amante, amo anche quell’essere che lui ed io amiamo insieme28. L’amore si perfeziona soltanto con l’amore per l’essere e l’elevatezza dell’amore è determinata da quella dell’essere che nell’amore è amato in comunione con l’altro. Io amo l’amante. Con questa frase può sembrare che l’amore si chiuda circolarmente su di sé. Riflettendosi nell’amore dell’amante il nostro amore si rafforza, mentre si risveglia e si potenzia l’amore reciproco. Ma amare chi ama è ancora troppo poco. L’amare avvizzisce insieme con l’amore, se manca quel che è l’essenziale nell’origine, cioè l’amore per l’essere, per l’uomo impegnato in una causa comune, l’amore per le cose nel dilatarsi del mondo, l’amore per Dio. L’amore trova in sé una fondamentale distinzione tramite ciò cui esso è rivolto. È amore per l’essere come realtà oggettiva (Sache) e amore per la persona: l’amore per le realtà impersonali, per le idee, le produzioni simall’interno della relazione. Tali condizioni si riscontrerebbero invece nella coppia formata da Edoardo e Ottilia, protagonisti de Le affinità elettive, i quali, secondo Simmel, davvero si amano “perché così è scritto nelle stelle” mentre Faust e Margherita “si amano unicamente perché si sono incontrati” (ivi, pp. 35-37). Non occorre forse nemmeno ricordare che qui, per Jaspers, l’“eterno femminino” è un universale-singolare: l’unica donna. 28 amiamo insieme. Jaspers vuol far risaltare il carattere “triadico” della relazione d’amore, per cui quelli che si amano – si tratti di amore tra i sessi, di amicizia ecc. – amano anche, insieme, qualcosa, ed è in questo comune amare che il loro amarsi si rafforza e cresce: l’assenza di questo terzo elemento oggettivo renderebbe asfittica la relazione. Il livello o il valore dell’amore reciproco è connesso anche al valore più o meno elevato di ciò che i due amano insieme “sia nel mondo... sia al di là del mondo”. Il mondo poi può essere amato in se stesso (come natura e vita, oggetto dell’intelligenza, mondo spirituale) o come segno del divino, linguaggio cifrato della Trascendenza.

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boliche oggettive, i corpi e gli esseri viventi, per tutte le cose del mondo è differente in maniera essenziale dall’amore per le persone, che per noi sono sempre degli uomini. L’amore personale è quello autentico, il primo ed originario, ed è in esso che ogni amore per l’essere trova la sua piena realizzazione. Le deviazioni consistenti nell’amore narcisistico di sé della personalità empirica o nella divinizzazione dell’altro non fanno che mostrare più nettamente, proprio con la caduta che rappresentano, quello che è originario: l’amore per la persona, sempre unica ed insostituibile, come sorgente di ogni amore. Ma questo amore cresce nella misura in cui in esso, di volta in volta, io amo, insieme, l’essere che amiamo in comune, sia nel mondo (e per questa via sperimento un espandersi dell’essere) sia al di là del mondo (così diviene possibile l’amore per Dio). Quello che amo come essere sono anzitutto figure nel mondo, ciò che è di volta in volta un essere singolare – e in secondo luogo, attraverso tutte le cose, il mondo stesso – in terzo luogo, trascendendo il mondo, amo il fondamento, Dio. a) A tutti i livelli dell’essere mondano sono capace di amare quel che è particolare e individuale, e sono in grado di attuare la “devozione per le piccole cose”. In seguito conquisto le visioni universali, riesco a scorgere le essenze negli archetipi o fenomeni originari. b) Mi diviene presente l’orizzonte circoscrivente dell’essere mondano: la vita che tutto pervade, inesauribile, mai compiuta – che non parla mai un linguaggio univoco: la vita infinitamente sofferente – il mondo beato – la malvagia, distruttiva negatività – la rigogliosa, tripudiante presenza della vita infinitamente creatrice. Il mondo come totalità diviene allora oggetto d’amore. Un sentimento d’esserci immediato, davanti alla terra e al cielo, mi lega al tutto e si autocomprende in una consapevole visione del mondo nella sua globalità. Il mondo come cielo stellato sopra di me diventa “cosmo”: lo spettacolo della sua bellezza produce lo slancio in cui sperimento il sublime splendore del mondo. Il sapere, che sorge con l’osservazione delle leggi di questo movimento, delle strutture matematiche, fa apparire il mondo come governato da un ordine. Ma la maniera in cui appaiono questa bellezza e questo ordinamento può diversificarsi nel suo senso in modo radicale. Gli antichi scorgevano nel cosmo e nelle stelle delle divinità, il tranquillo moto degli astri esprimeva la beatitudine dell’anima del mondo e delle divinità astrali. Per i moderni il cosmo divenne, per lo più, da un lato un fenomeno oggetto di contemplazione estetica disimpegnata, dall’altro l’empirico, altamente complesso ordine delle masse secondo leggi matematiche.

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c) Ogni realtà nel mondo e l’essere mondano stesso nella sua totalità divengono segno e immagine della Trascendenza. In essi è Dio che viene amato. Un immediato sentimento d’amore senza oggetto penetra e oltrepassa tutto quanto è oggettivo. Dio diviene un oggetto d’amore privo di qualsiasi oggettività. L’amore però si dirige sul personale e sull’individuale. Anche l’amore per Dio assume questa forma, malgrado il suo oggetto costantemente dilegui. Questo amore si lascia caratterizzare solo mediante indicazioni paradossali: mondo e Trascendenza sono un immenso individuo e per noi, quando li pensiamo, sono insieme una realtà universale. Solo qui si sfiora il limite, dove individuo e universale sembrano coincidere: l’amore coglie l’Unico-Universale, quell’individualità che è la più perfetta universalità, dal momento che nulla ha fuori di sé. Ecco perché questo Unico-Universale non è mai afferrabile come qualcosa di determinato, di particolare. È solo tramite tutte le guise dell’abbracciante, che formano il mio essere, cioè, per dir così, tramite gli organi di questo stesso essere, quindi penetrandole tutte insieme, unitariamente, ch’io sono in grado di rendermi conto di quell’Uno, arrivando quasi a scorgere l’Unico-Universale. Altrimenti io vedo sempre soltanto oggetti nel mondo, e percepisco quelli che sono segni e tracce della Trascendenza. L’amore per Dio e l’amore per gli uomini sembrano essere in contrasto e reciprocamente escludersi, oppure ognuno di essi sembra voler spingere l’altro in secondo piano, rendendolo a sé subordinato. L’amore per Dio sembra essenzialmente diverso dall’amore per l’uomo autentico, nella nobiltà del suo vero essere. Le filosofie sembrano perciò distinguersi in base al fatto che al centro del loro interesse stia l’uomo, oppure Dio. E tuttavia i due amori sono inscindibili. È appunto un tratto fondamentale della nostra verità, il fatto che noi non possiamo amare Dio senza amare l’uomo e, viceversa, amare l’uomo senza amare Dio29. Se all’interno di un certo processo di pensiero un amore assume il primato rispetto all’altro, ciò avviene in maniera tale che noi possiamo appropriarci dell’uno solo grazie al suo divenirci presente nell’altro, cioè Dio ci diviene presente attraverso l’uomo e, viceversa, l’uomo attraverso Dio, mentre è insieme che sia l’uno che l’altro vanno perduti.

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amare l’uomo, amare Dio. Nonostante l’apparente richiamo alla prima Lettera di Giovanni (4, 20-21; 5, 1,2) per Jaspers l’amore di Dio non è rivolto a un Dio persona: “le persone, per noi, sono sempre degli uomini” (vedi p. 192). Dio è amato in quanto fonte dell’essere, del valore e di ogni senso dell’esistere; come fondamento della personalità e dell’amore tra le persone; infine come unità ultima, in cui si raccoglie il nostro destino.

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7. Amore e ragione 30 Sembra impossibile portare ad unità le guise dell’amore. Ognuna di esse sembra indipendente dalle altre. Ognuna conosce un suo genere di immortalità: l’immortalità a livello del vitale si trova nel generare, ed è il perdurare della vita universale, in cui come individuo io vado a dissolvermi; l’immortalità intellettuale esiste come punto di vista universale, quello che Aristotele ed Averroè chiamavano il nous senza tempo; l’immortalità a livello dello spirito mi concerne in quanto sono, storicamente, elemento della totalità che è, nel suo movimento, eternamente presente; l’immortalità esistenziale è invece quella di un’assoluta singolarità, che ne diviene consapevole – in quanto è questa particolare anima – nella decisione dell’amore. Eppure tutte le guise sono connesse: ciascuna è autenticamente ed effettivamente reale solo nelle altre e tramite le altre. Ciascuna modalità dell’amore è vera e viene a compiersi pienamente solo quando, al contempo, anche ogni altra si realizza. Viceversa collassano tutte, quando una di esse viene esclusa. Un collasso di questo tipo è, ad esempio, la caducità dell’amore meramente vitale, la mancanza di comunicazione nel mero amore per la natura; l’inaridirsi della coscienza intellettuale nel suo isolamento; l’assenza di esistenzialità di ciò che è puramente spirituale; l’assenza dell’elemento naturale nell’esistenza che presume di potersi confinare nell’esistenzialità, la negatività dell’esistenza pura. Le modalità d’amare che si isolano in se stesse fanno cadere l’uomo nell’ebbrezza, il prevalere di una a spese delle altre lo rende immemore, la perdita della loro connessione diventa per lui perdita di se stesso. Invece l’amore vero è, nel suo slancio estatico, accorto, è luminosità del ricordo31, 30 Amore e ragione “Il movimento della ragione mostra il suo contrassegno decisivo nella volontà di non spezzare mai la comunicazione... La ragione non può permettere che abbia luogo un’assoluta separazione. Certo la comunicazione tra uomini si compie in una molteplice varietà di guise, secondo livelli, a condizioni di volta in volta diverse. Ma la ragione ha una volontà di comunicazione totale, che è aperta a tutto, non esclude nulla e compenetra l’intero essere dell’uomo... Se volessimo presentare il movimento della ragione, allora quello che vi è di caratteristico in esso è proprio questa comunicazione totale. Essa è la realtà effettiva della verità, della verità nostra nel tempo” (Della Verità, parte seconda, p. 971). Per Jaspers il movimento della ragione viene a coincidere con quello della comunicazione totale tra le esistenze: ma la volontà di comunicazione totale è, a sua volta, sorretta dall’amore tra le esistenze e per la verità. Dunque il nesso che stringe tra loro ragione e amore è reso intellegibile da quelli che stringono, rispettivamente, ragione e comunicazione, da un lato, e comunicazione e amore dall’altro. Abbiamo cercato di chiarire questo punto nel quarto capitolo del nostro saggio introduttivo. 31 luminosità del ricordo. Il tema del ricordo ha in Jaspers – sulla scorta di Platone – una

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è stare presso se stessi. In ogni modalità dell’amare questa verità si ritrova, grazie all’unità con tutte le altre modalità. Così essa si ritrova anche nel grande amore per l’altro sesso, che nella sua ontologica densità rende liberi. È solo il separarsi dall’origine che porta alla sopraffazione e a quella finitezza che annienta. L’amore patisce una mancanza, se uno degli abbraccianti vien meno o si atrofizza. Esso incatena nell’egoismo, quando resta chiuso in una delle guise dell’abbracciante, e allora diventa una forma di servitù, di razionalismo, di estetismo, di fanatismo. Il tratto caratteristico dell’amore, per cui diviene unitario, è la ragione. Ragione (Vernunft) è apertura sconfinata come divenir coscienti del possibile, spingendosi sempre avanti, in cerca dell’unità di tutto con tutto; perciò, come amore, essa si ritrova nel movimento verso l’unità di tutte le modalità dell’amare. Solo all’amore si dischiudono essere e verità, e senza amore entrambi sprofondano. Alla mancanza d’amore restano, come residui, la particolarità delle cose, un essere vuoto nella mera parvenza di forme e pensieri. Essere e verità si dischiudono soltanto all’essere di colui che esperisce e pensa sotto l’impulso del suo amore. Ragione è il tratto fondamentale di questo amore, quando è presente in tutte le guise dell’amore, raccogliendole in unità. Certo essa non è in grado di unificarle fino ad armonizzarle completamente, perché ciò è impossibile. È solo in alcuni attimi che essa riesce a farle pervenire all’unità della sintonia, che pur rapidamente dileguando, è come il balenare di una luce. La verità nella sua interezza si lascia cogliere solo dall’amore nella sua interezza. La verità stessa è, in me, lo slancio dell’eros. La verità ci dà la sua ultima risposta attraverso l’amore.

valenza metafisica ed esistenziale. Ne La fede filosofica (cit., p. 19) Jaspers allude alla “coscienza di un inconcepibile ricordo”, come se il singolo “avesse una compartecipazione alla sapienza che presiede alla creazione (Schelling)”; oppure, come se “potesse ricordarsi di qualcosa che ha intuito prima dell’esistere mondano”, appunto secondo il racconto platonico del Fedro. Tale Erinnerung (o meglio la coscienza di essa) è elemento costitutivo del Sé e si esprime comunicativamente nel filosofare. Una funzione particolare il ricordo ha poi nell’amore, come si vede dalla frequente citazione dei versi dedicati da Goethe alla baronessa Von Stein (Psicologia delle visioni del mondo, p. 133, p. 156; Dell’amore, p. 187). In Filosofia III, p. 209, i versi di Goethe e il pensiero di Schelling sono accostati, a significare che, in entrambi i casi, il passato va inteso come simbolo dell’eterno. In tale memoria – scrive qui Jaspers – si deve infatti vedere “una nostalgia che dà impulso all’attesa; essa può commuovere già nella prima infanzia, quando non vi è quasi un passato e nulla è stato ancora perduto”. Qui “parla” l’Origine, da cui proveniamo e verso cui tendiamo. Vedi anche: Dell’amore, p. 207; e infra, Comunicazione e amore, p. 234.

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c) CARATTERIZZAZIONE DELL’AMORE SECONDO LA MODALITÀ DEL SUO ATTUARSI. L’atto dell’amore coglie un oggetto. Quello che amo e il modo in cui amo sono legati l’uno all’altro. Dove l’oggetto diviene assolutamente estraneo o cessa ogni essere oggetto non c’è più nessun amore (1). Nelle guise dell’abbracciante, l’oggetto di volta in volta particolare che l’amore conquista rappresenta la sua attuazione. Sul versante oggettivo l’essente risplende, per così dire, nel raggio dell’amore, da cui viene toccato; solo all’amore infatti si dischiude l’essere. Sul versante dell’attuazione ha luogo un movimento di ricerca e adempimento (2). L’attuazione dell’amore si scandisce certo nelle guise dell’abbracciante, ma trova unità in una successione di livelli (3) e in più dimensioni (4). Tutto l’amore però si compendia nell’amore del vivente per il vivente, della persona per la persona, dell’essere spirituale per l’altro spirito e del se stesso per l’altro se stesso. Solo l’essere-assieme di uomini permette all’amore di svilupparsi. Allora l’oggetto dell’amore è un essere che a sua volta ama. Amo e sono amato. Così si realizza il movimento dell’amore nella comunicazione in cui si diventa se stessi (5).

1. Cessazione dell’amore nell’estraneità dell’oggetto e nel venire meno dell’oggetto 32 Quando non amo affatto, l’oggetto mi fronteggia come oscura estraneità che percepisco senza che mi sfiori, o come ciò che, nella sua chiarezza mi è indifferente e che attraverso con lo sguardo senza che me ne importi nulla, in entrambi i casi come l’insignificante o addirittura proprio il nulla. Ogni rapporto con l’essente richiede un minimo di amore. Una distanza assoluta fa svanire l’amore, insieme con l’essere. D’altronde il rapporto con l’essente viene a dissolversi anche nell’unità con l’oggetto tramite identificazione. Allora cessa la distanza: io sono l’altro, l’altro essere è l’Io, nella forma di questa coscienza che non mantiene 32 nel venir meno dell’oggetto. Sia l’estraneità completa che la totale identificazione rendono impossibile l’amore, cui è essenziale il mantenimento di una distanza relativa, che non annulli il movimento, né faccia svanire la tensione. Questo è particolarmente vero nella relazione tra esistenze, in cui la finalità non è mai l’annullamento del Sé ma la sua costituzione insieme con l’altro o anche tramite l’esemplarità dell’altro, quando questi sia l’uomo “grande”, apprezzato come modello di vita. Ammirare l’altro e assumerlo come guida per la propria esistenza non significa fondersi o confondersi con lui.

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nessuna distinzione tra questo Io e questo oggetto. L’identificazione si trova, all’inizio, in uno dei fenomeni fondamentali dell’esser-uomo. Nettamente predominante nei primitivi, permane anche negli stadi più altamente sviluppati della civiltà, come una sorta di confine, dal quale proviene il nostro vivere. È l’unità immediata con l’ambiente nella sua globalità e con particolari contenuti della percezione. Questa unità immediata ci è nascosta o diventa falsa alla luce della nostra razionalità. Però anche nei momenti più sublimi della nostra esperienza dell’essere esiste qualcosa che può riconoscersi, almeno alla lontana, nelle esperienze magiche di unità proprie dei primitivi. Tale identificazione originaria non è ancora amore. Seguendo un’altra direzione, l’identificazione si trova anche come fine ultimo dell’amore. L’amore infatti spinge ad unificarsi con l’amato trasformandosi in lui, e giunge fino all’assimilazione con il Dio amato. Quando questa identificazione è raggiunta, però, l’amore che così si compie è, insieme, tolto. L’identificazione non è più amore. Nella direzione della realtà impersonale si compie, sulla base dell’entusiasmo prodotto da un’intuizione della natura piena d’amore per essa, l’identificazione con la totalità della vita: io svanisco come individuo nel tutto della natura. Dissolto nella natura, sono la natura stessa: essa è me. La mistica dell’unità con la natura è professata ancora oggi, sia pure come pallido riverbero del passato, in atmosfere che evocano le nozze con il paesaggio. Nell’empatia con le anime dei fenomeni naturali è come se noi fossimo compresenti in essi, come se addirittura non fossimo più propriamente noi stessi. Da ciò però consegue la permanenza in noi, finché questa esperienza dell’identificazione non è completamente svanita, non soltanto di un sentimento di parentela con tutta la natura, bensì anche di una sorta d’intimità corporea con la natura, attraverso il nostro essere naturale. Nella direzione dell’essere umano personale noi esperiamo la prossimità delle figure che ci colpiscono come modelli per il nostro essere o guide per la nostra vita. Ci avviciniamo ad un’ipotetica identificazione quando, ponendoci di fronte gli uomini amati per la loro umana grandezza, domandiamo, in situazioni in cui veniamo a trovarci: “che cosa avrebbe pensato, detto o fatto lui?” Nello sforzo di evocare l’altro è come se agissi in lui, tramite lui. Questo non esclude che, contemporaneamente, nel caso specifico io agisca come me stesso, ma questo caso mi diventa più chiaro, più definito, nella misura in cui interiorizzo la figura dell’uomo da me amato e con lui pervengo a certezza. Ogni educazione basata sul tenere lo sguardo rivolto ai grandi uomini ha il senso di riconoscere noi stessi in loro, cioè il nostro proprio essere, in modo da pervenire a noi stessi per loro tramite, finché l’uomo, divenuto

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realmente e originariamente quello che è in se stesso, giunge a decidere nel caso determinato anche senza l’espediente di un’ipotetica identificazione. L’identificazione è però qualcosa di più. Io vivo nell’altro, tramite l’altro, come se addirittura non fossi più me stesso. È un ampliamento dell’anima con il congedo dell’essere personale, fino al limite in cui l’essere personale realmente si dissolve: “non sono io che vivo, ma Cristo vive in me”. Vi è un salto fra l’atteggiamento di chi proiettandosi nell’altro, che è autorità amata, cerca di dedurre per sé quel che deve fare e quello che deve essere, e di chi, invece, si sente immediatamente identico con l’altro e vive su una base di identità con lui. Quell’unico che, di volta in volta, è maestro, salvatore, redentore diventa per così dire il luogo, con cui i seguaci si identificano; sia che, dal punto di vista psicologico possa apparire come figura esemplare, o che dal punto di vista etico, sia sentito e riconosciuto come norma, oppure che venga concepito metafisicamente come vittima sacrificale, in ogni caso egli è evento cruciale e garanzia. Ottengo il mio essere per la partecipazione al suo, nella ripetizione e nell’identità con lui. Le manifestazioni e le modalità in cui l’uomo, con il quale vivo in comunione, mi è presente, possono variare infinitamente: il limite però rimane l’identità. Nell’identità si trova senz’altro l’esaltazione dei sentimenti, lo svanire dell’io e il venir meno di ogni oggettività, ma non c’è più l’amore. Viene a cessare il movimento nella realtà temporale. Ciò che è possibile nel tempo solo grazie all’amore, è presente solo in modo ingannevole nell’assenza d’amore. Dal punto di vista filosofico l’identità di me con tutto l’essere, con la totalità della vita, con ogni essere vivente, con ogni uomo è pensata nell’asserto: tat twam asi (quello sei tu). Si tratta del pensiero fondamentale che esprime il culminare dell’amore nell’assenza di amore.

2. L’attuazione dell’amore nel ricercare L’amore è stato caratterizzato in tutte le guise dell’abbracciante come una ricerca che muove dall’insoddisfazione verso adempimento e quiete; e certo, anche, come una ricerca che mette in atto il collegamento e l’unificazione. Il ricercare si esprime come spinta incalzante. Tale spinta è per essenza diversa quando si presenta in forma di brama, oppure come stimolo alla visione o all’adesione. La felicità dell’amore si trova sia nell’adempimento della brama, sia nella visione in quanto tale, sia nella possibilità dell’adesione. L’amore è bramare nell’impulso che vuole avere, consumare, saziarsi fino ad estinguersi. Amore è anche visione, senza brama né volontà di possesso, e si

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trova nell’aspirazione e nella nostalgia rivolte all’essere, che si mostra nella presenza di ciò che è stato visto; il compimento di questa visione è, però, solo una tappa nel movimento della manifestazione. Amore poi è adesione (Bejahung) all’essere, nella volontà pura che sia, persista e valga; in quanto s’indirizza all’essere umano amato, è volontà del suo esserci come tale, e della sua presenza33. C’è sempre una resistenza, con lo scemare della quale cresce l’appagamento dell’amore, ma la cui realtà è, insieme, condizione dell’intensificarsi dell’amorosa ricerca. La brama si accende per l’altro che oppone resistenza: nella consumazione, nel giubilo della vittoria, nella spietatezza dell’assoggettamento, è il superamento della resistenza che viene goduto. La visione si potenzia, quanto più ficcante diviene la ricerca; niente si mostra immediatamente e del tutto; la fatica, richiesta dal superamento dello stato di tenace nascondimento e oscurità, diviene il rivelarsi dell’essente. L’adesione all’essere, avvertendo la minaccia del nulla, supera, per così dire, la possibilità del non-essere e del dileguare, con un sapere rafforzato dell’autentico essere nell’esserci: tu sei; l’essere è.

3. Livelli dell’amore L’amore si compie secondo gradi o livelli 34. 33

volontà … della sua presenza. Amare l’altro non significa semplicemente volere che egli ci sia, o che sia presente, ma volere che sia – asserto di ben maggiore portata e densità, perché significa volere che l’altro sia o divenga se stesso. Si veda infra, p. 226: chi ama “vede l’essere dell’altro, che approva in quanto essere sul fondamento dell’origine, senza motivazioni e in modo incondizionato: vuole che questo essere sia”. Questa volontà reciproca è alla base della comunicazione esistenziale, in cui “il Sé è per il Sé dell’altro in una creazione reciproca”; è chiaro, però, che “il senso della frase secondo cui io sono me stesso nella mia libertà solo quando l’altro è e vuole essere se stesso, ed io lo voglio insieme con lui, si può comprendere solo a partire dalla libertà come possibilità” (Filosofia II, p. 58). Insomma volere l’essere dell’altro significa volere che sia libero, o che possa essere quello che autenticamente, eternamente è. La formula – attribuita ad Agostino – è spesso ripetuta da H. Arendt: “amo: volo ut sis”. 34 gradi o livelli. Si tratta di una delle due tesi fondamentali – l’altra è quella secondo cui l’amore è aspirazione, slancio e movimento verso l’alto – che avvicinano la filosofia di Jaspers al pensiero platonico e neoplatonico. Jaspers però sottolinea – in modo a nostro avviso originale – il nesso tra i diversi livelli o gradi, per cui il superiore ha bisogno dell’inferiore per incarnarsi e realizzarsi, mentre l’inferiore conserva la sua positività, anzi l’accresce, solo se non si chiude al superiore, altrimenti degenera. Aprendosi al superiore, il grado inferiore ne viene vivificato e valorizzato, mentre perde il suo intrinseco valore se non ci permette di salire. La personalità dell’uomo si attua solo se vengono raggiunti i livelli più alti; occorre conseguire l’unità ed evitare la dissociazione dei livelli, soprattutto la dissociazione tra amore del finito

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Quello che, nella successione delle guise dell’abbracciante sarebbe di per sé, preso isolatamente, qualcosa di particolare e di insignificante, compreso a partire da un livello più elevato, e vivificato da esso, è, al contempo, tramite irrinunciabile per l’incarnazione di questo, e medium per la sua realizzazione. Perciò l’attuazione dell’amore può essere presentata solo in prospettive che comportino una graduazione. Esse sono mutevoli, a seconda del punto di vista prescelto, e in nessuna forma riescono a cogliere l’ordine assoluto, però rappresentano una modalità di chiarificazione del nostro slancio, per come ci è reso possibile dall’amore. Una cesura nella successione dei livelli dell’amore è, per esempio, quella che interviene tra l’amore in cui il desiderio è finito, e la soddisfazione sempre completa, però soltanto istantanea, e sempre nuova, però nella ripetizione dell’uguale – come avviene nella periodicità del vitale; e quell’amore il cui anelito è, invece, infinito, e la cui soddisfazione, che è sempre in parte manchevole, comporta per questo un venir spinti costantemente innanzi; tale soddisfazione è allora sempre nuova ma più intensa nella ripetizione, cosicché non c’è ripetizione dell’uguale, bensì di qualcosa che, pur rimanendo identico, guadagna in profondità. Il desiderio (Begehren) finito procede indefinitamente, senza sosta, in una fatale circolarità, finché si spegne; quello infinito (das unendliche) si protende con moto incessante verso l’eternità, che diviene presente alla coscienza nella stessa attuazione del movimento. Il desiderio finito è apparentemente compiuto, ma per risorgere subito dopo, nel ritorno senza meta di ciò che è solo finito; perciò, in senso assoluto, rimane incompiuto. L’infinito sembra incompiuto, ma per potersi accertare, nella ripetizione, della sua infinità (Unendlichkeit). Questa distinzione non concerne due generi di amore, reciprocamente escludentisi, bensì due gradi o livelli di esso. Ciascun amore è vero alla sua maniera e ciascuno ha bisogno dell’altro. La verità dell’amore cresce con l’assunzione della modalità finita in quella infinita, e grazie all’orientamento che il finito riceve lasciandosi penetrare da ciò che lo sovrasta. In questi due livelli dell’amore il movimento si compie in direzioni opposte: verso la dissociazione dei due livelli, con la caduta nel finito, oppure, tramite la loro associazione, verso la salita nell’infinito. Perciò appartiene strutturalmente all’uomo il fatto che necessiti di una “conversione” (Umkehr). Egli non vive al riparo da rischi, nell’autosufficienza, senza ambiguità, ma – di ciò che è temporale e mondano – e amore dell’infinito – l’esistenza, la Trascendenza. Anche il mondo può essere termine di un amore contrassegnato dall’infinità, se è visto come il luogo della realizzazione dell’amore per Dio e per l’altra esistenza.

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con il suo amore è sempre coinvolto nella caduta oppure nell’innalzamento. Per riprendersi dalla dispersione, dall’irretimento e dalla rovina, necessita sempre di nuovo della risoluzione, rinnovando costantemente, nel corso di tutta la sua vita, la conversione iniziale.

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4. Dimensioni dell’amore 35 L’amore innalza all’essere autentico; è visione del sovrasensibile. L’amore sollecita ad operare nel mondo, nell’educazione, nel tentativo di imprimere nella realtà la forma ideale intuita; secondo l’asserto platonico, è generare nella bellezza. Amore è l’incontro, su un piano di parità, di un se stesso con un altro se stesso, per attuare la più alta possibilità dell’uomo; è divenir se stessi insieme all’altro Sé, nella comunicazione. Queste tre direzioni dell’amore, lo slancio, la realizzazione mondana, il divenir-se stessi sono connesse strettamente come momenti irrinunciabili nell’unitario attuarsi dell’amore. La prima direzione: lo slancio dell’amore verso la Trascendenza è, anzitutto, partecipazione all’Origine, un acquisire forza dall’Essere Primo, da cui scaturisce tutta la creazione. In secondo luogo esso è pienezza dell’amore nel venir meno del tempo, quando la contemplazione si ferma sulla Trascendenza, che parla nelle sue cifre. Però questo slancio si perverte se diventa perdita del mondo e compiacimento di sé nella fuga dalla realtà. Lo slancio verso la Trascendenza deve trasporsi in qualcosa di visibile nel mondo, deve diventare sorgente efficace. Da un senso posto fuori del mondo proviene un agire efficace nel mondo. Un interiore orientamento della condotta nel mondo diventa possibile grazie alla fiducia nel fondamento, di cui si è fatta esperienza. La seconda direzione: l’immergersi dell’amore nell’abbracciante a livelli sempre più bassi non è decadimento, ma realizzazione nel mondo. L’indirizzarsi dell’amore all’educazione dei giovani non è un abbassarsi – lo sarebbe se andasse a perdersi in una volontà di dominare o in un addestramento 35 Dimensioni dell’amore. Qui in realtà Jaspers presenta le tre direttrici dell’amore “sublime”, al più alto livello: la prima verso l’Uno della Trascendenza; la seconda verso il mondo, perché dall’amore per Dio deve sorgere un “agire efficace” nel mondo – agire che solo così acquisisce un valore assoluto, incondizionato; infine – ma è direttrice fondamentale per le altre due – c’è l’amore per le esistenze. Un amore per Dio che non passasse attraverso l’amore per l’altra esistenza – grazie al quale Dio si rivela e in cui l’amore per Dio si concreta – sarebbe, per Jaspers, inconsistente; ma in tanto l’amore tra le esistenze si perfeziona e matura, in quanto è al contempo rivolto a Dio e al mondo, cioè in quanto amarsi reciprocamente significa con-amare il mondo e Dio.

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utilitario in vista di scopi finiti – bensì è slancio del se stesso dell’amante, che comunica lo slancio. La terza direzione è la figura temporale dell’amore reale e fidato, che penetra nel profondo, sottoponendo alle proprie condizioni le altre due dimensioni dell’amore. Quest’ultima direzione, però, deve essere discussa più da vicino:

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5. L’amore come essere assieme Ogni amore è, alla fine, connesso all’amore per l’altro essere umano. Senza amore per l’uomo ogni amore diventa vuoto; invece muovendo dall’amore per l’uomo esso può raggiungere tutto l’essere. Oggetto dell’amore però è l’uomo in quanto questo singolo. L’amore si attua nell’essere assieme. Il se stesso si lega con l’altro se stesso, in modo tale che soltanto nel movimento del reciproco amore tutto quello che è riluce nello splendore del suo essere. Il rapporto tra gli uomini ha però diverse forme che non sono ancora questo tipo di amore. Tali forme preliminari possono diventare materiale per la realizzazione dell’amore. Questo stare assieme degli uomini, ancora privo di amore, ha le forme seguenti: a) Contagio Nello stare assieme si produce involontariamente, per imitazione, per tendenza ad uniformarsi e per incrementare le forze, che tutti sentono quello che i singoli sentono, mentre i singoli sentono quel che sentono tutti. Ciascuno ritiene di essere lui a sentire, e tuttavia sente solo quanto si è in lui riversato per suggestione. Ciascuno, in quanto è “questo singolo”, ha perduto se stesso, e si sente enormemente rafforzato in quanto “tutti noi”. In questo rapporto di contagio io di fatto, per quanto inconsapevolmente, divengo identico con l’altro, in quanto “tutti”. Rimango nella mia finitezza e dipendenza, e mi perdo, appagandomi di qualcosa che è del tutto effimero. b) Simpatizzare Intuisco la sofferenza o la gioia dell’altro che non sono le mie, e sperimento la compassione per il suo dolore, e la partecipazione alla sua gioia. c) Vivere in comunione con l’altro Noi condividiamo la stessa situazione, siamo intenti alla stessa causa, abbiamo gli stessi interessi. Sperimentiamo il medesimo, con uno scambio consapevole che tocca i medesimi contenuti. Qui non si tratta di compatire o congioire, bensì della stessa gioia e dello stesso dolore, che vengono riconosciuti e condivisi in comunione.

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d) Comprendere Io percepisco quanto l’altro sente, quello che ritiene, pensa, vuole. Non ho parte a tutto ciò, io sento diversamente, non attuo nessuna partecipazione, mi limito soltanto a intuirlo. In questo caso non c’è un proprio sentire per dir così attenuato, bensì un rivolgere l’attenzione, nel pensare, sentire e volere, in modo oggettivo, a ciò che l’altro compie. In tutti questi casi di essere assieme con l’altro, nel contagio, nel simpatizzare, nella comunione e nel comprendere, la relazione viene a realizzarsi nelle guise dell’abbracciante, per esempio nell’unità della corrente vitale (degli interessi, delle abitudini, degli antagonismi) oppure nell’unità della coscienza generica, o nell’unità dello spirito. Ma l’amore autentico è solo sul fondamento dell’origine del se stesso (dell’esistenza). L’amore nella comunicazione degli uomini che sono se stessi è la possibilità ultima nella realtà temporale. Tutte le modalità dell’amore traggono la loro verità dalla maniera in cui sfociano in quella che è l’unica forma della continuità: vale a dire nella comunicazione che nella vita temporale si edifica tra uomini stretti da un vincolo storico di fedeltà infrangibile. Nella misura in cui si danno gradi dell’amore, ogni volta la forma vera è quella in cui culminano i gradi antecedenti. Sotto altro profilo, però, la verità sta nella maniera del compenetrarli tutti, come fa il grado più comprensivo (la ragione), senza aver bisogno di essere in sé il grado più elevato36. Certo essa è la condizione affinché tutti i gradi si mantengano nella verità, però non le è possibile surrogarli. Essa non esclude nessuna modalità dell’amore, ma le costringe ad entrare in connessione, le spinge alla comunicazione. L’amore nell’essere l’uno con l’altro può restare unilaterale. Amando unilateralmente, io mi lego all’altro, che non si volge verso di me, non mi considera. Nell’amore reciproco ottengo la comunicazione in cui i due se stessi pervengono a sé solo uno tramite l’altro. Solo nell’amore bilaterale si attua pienamente la realtà della comunicazione. Però l’amore unilaterale può diventare una forma di comunicazione solitaria dell’uomo con se stesso. L’uomo non può essere solo. Se viene indotto alla solitudine dalla situazione in cui si trova, allora si sdoppia ed entra in comunicazione con figure 36 senza... il grado più elevato. La ragione non è, propriamente, un grado o livello dell’essere tra gli altri: Jaspers la intende piuttosto come la capacità del pensiero di attraversare tutti i gradi con la massima apertura e comprensività, di distinguerli cogliendone i limiti, mettendone in risalto il valore e chiarendo i nessi di collegamento, per indirizzarci verso l’unità. La ragione viene ad identificarsi con lo stesso filosofare e con il suo movimento mai concluso; grazie ad essa impariamo ad amare nel giusto ordine, senza indebite esclusioni o assolutizzazioni, ciò che comunque rimane qualitativamente diverso.

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fantastiche oppure, storicamente, con gli uomini che gli si fanno incontro dalla tradizione. La comunicazione amorosa del Sé con il Sé dell’altro racchiude ogni amore per le cose, per il mondo e per Dio. Nella misura in cui integra in sé, in quanto comunicazione, questi contenuti, come realtà comune ai due comunicanti, essa vien maturando. La comunicazione può realizzarsi pienamente37 solo grazie ai contenuti oggettivi, anche se solo grazie ad esseri umani che si amano quanto è oggettivo diventa essenziale.

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6. Interpretazione dell’amore Quando amo sono me stesso. Qui è l’origine della mia indipendenza, in cui vengo donato a me stesso. Dappertutto altrimenti io sono dipendente da qualcosa, che è necessario mi sia dato, per esempio per riempire il vuoto del mero pensare, o del mero volere. Sono dipendente da scopi e comandi, debbo andar dietro a qualcun altro e ubbidire. Attendo qualcosa che mi provenga dall’esterno e mi rendo disponibile, in maniera tale da poter così giungere ad essere. Solo amando però vivo sul fondamento della libertà; solo amando sono, nell’altro, al contempo me stesso. La filosofia che si concepisce come indipendente, a partire da Platone è divenuta una filosofia dell’amore. Amore è il modo in cui l’uomo può vivere con indipendenza38. Ciò che contraddistingue di volta in volta il filosofare è come questo modo viene pensato ed interpretato. Lo stile di vita non-filosofico, con la sua interpretazione del mondo e dell’ordine della realtà, anzitutto si rapporta ad un altro, a un estraneo, a 37 può realizzarsi pienamente. L’amore è origine e vita della comunicazione tra le esistenze e il rapporto comunicativo può mantenersi vivo solo se viene coltivato con amore; così il senso della fedeltà non è il puro e semplice mantenimento del rapporto, ma il suo sviluppo e la sua crescita. D’altra parte, come si è visto, amare l’altro significa amare “qualcosa” insieme con l’altro: è questo amare in comune che nutre la comunicazione, anche se ciò che è “oggettivo” diviene essenziale per i comunicanti solo nel movimento del loro amore, giacché è l’amore a scoprire il valore delle cose. 38 può vivere con indipendenza. Il grande valore dell’indipendenza del soggetto, spesso sottolineato da Jaspers, rimanda a Kant. Jaspers non riprende certo da Kant il tema dell’amore, che Kant non sviluppa, ma si trova in consonanza con lui per il rilievo dato all’indipendenza dell’essere razionale, sia in ambito di moralità e religione che in quello della politica. Nel passaggio dalla morale alla religione Kant sottolinea l’indipendenza della vita morale, come dipendenza esclusiva dalla legge, e sostiene che Dio stesso la promuove, mantenendosi celato: si tratta di uno degli argomenti su cui sovente Jaspers fa leva, nella sua critica all’idea di “rivelazione”.

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qualcosa di esterno, oggetto di obbedienza o di esteriore necessità. Pone l’amore sotto condizioni. Invece negli scritti della religione cristiana (per esempio in S. Paolo) vengono fatte, sull’amore, delle affermazioni così al limite dell’incondizionatezza che, se fossero state fatte valere con totale serietà39, avrebbero trasformato questa religione in filosofia. Nelle varie formulazioni della filosofia dell’amore c’è un contrasto radicale: o l’amore viene falsamente conosciuto, sia oggettivandolo che soggettivandolo: allora esso diviene qualcosa che è in certo modo a portata di mano (aa). Oppure esso resta quell’origine che non si può penetrare interamente con lo sguardo, ma soltanto chiarificare. Se ne possono tratteggiare i caratteri, ma non è possibile padroneggiarla. La chiarificazione si serve di costruzioni ideali. Esse si attengono al pensiero fondamentale di Platone, secondo il quale l’amore è una realtà intermedia. La realtà dell’amore è un mistero connesso al nostro essere in cammino. (bb) aa) Oggettivazione 40 e soggettivazione dell’amore Conosciuto quale realtà oggettiva, l’amore è inteso come una forza creatrice che pervade tutto, produce il mondo, la vita, ogni singolo. È il fenomeno fondamentale della natura. Vivere significa parteciparne. Esso è oggetto di una metafisica: l’essere, in se stesso, è amore. Nella conoscenza che ne fa una realtà soggettiva, l’amore è una forza dell’uomo, è la pulsione sessuale, anzi è il compendio di tutte le pulsioni soggettive che spingono a solidarizzare, ad aiutare. In quanto tale è oggetto della psicologia e della biologia. I fenomeni che vengono esposti in queste scienze servono come immagini in una metafisica dell’amore. Le conseguenze erronee di una conoscenza dell’amore, che assolutizza l’oggetto conosciuto, sia in chiave oggettiva che soggettiva, sono: 39 con totale serietà. Difficile dire a quale difetto di “serietà” Jaspers intenda qui alludere. Probabilmente alla insoddisfacente traduzione pratica del significato dell’amore rivolto ad ogni uomo in quanto essere creato libero, però libero, anzitutto, nella sua ricerca della verità. 40 Oggettivazione. Con il termine “oggettivazione” Jaspers intende la riduzione dell’amore a mera forza naturale oppure a potenza cosmica, ad esempio in una metafisica d’impostazione naturalistica; con “soggettivazione” invece fa riferimento ad una soggettività ridotta a realtà biologica o psicologica. L’amore verrebbe oggettivato, secondo il filosofo, anche dalla identificazione con Dio, previa oggettivazione della stessa Trascendenza, che, se interpretata come amore, risulterebbe antropomorfizzata. Ne viene che l’unico modo per sfuggire sia all’oggettivazione che alla soggettivazione è che l’amore sia restituito alla dimensione esistenziale dell’uomo, cioè al soggetto inteso come libertà e ragione, nel suo rapporto con l’altro Sé e con la Trascendenza.

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Ci si lascia sfuggire ciò che è molto più di una forza oggettiva o di una disposizione del soggetto, e cioè qualcosa che, fondandolo, istituisce autenticamente l’uomo, e che non è un processo che si svolga da sé, ma un evento della libertà; questo abbracciante agisce nell’uomo e nelle sue disposizioni individuali servendosi, per dir così, di esse come di strumenti, e pone sotto condizione l’uomo stesso, in quanto Esserci, in vista di se stesso. L’originarietà dell’amore perde la sua essenza, quando viene pensata come un qualcosa che ci sta di fronte. Infatti il pensante non può separare se stesso dall’amore, non può mai porselo di fronte nel pensiero, con l’intento di fissarlo e determinarlo come un qualcosa. Se viene universalizzato come entità del mondo oggettivo, l’amore non rimane una realtà che pertiene all’uomo, in cui l’uomo vive, e da cui riceve la propria sostanza. Così non solo l’amore viene derubato della sua essenza, ma l’essere stesso viene falsamente antropomorfizzato e perde la sua Trascendenza. Perché, certo, è nell’amore che Dio diviene avvertibile, ma Dio non è l’amore.

È vero che il pensiero dell’amore di Dio per l’uomo è uno di quei simboli che entrano nel profondo del cuore e che educano alla qualità dell’umano. Ma se questo amore è pensato come un essere, diviene uno di quei simboli che solidificandosi si oggettivano, e perciò perdono il loro carattere simbolico, riducendo Dio all’uomo. Allora vengono attribuiti alla divinità il movimento, la privazione e l’aspirazione, che sono caratteristiche fondamentali dell’essere umano. bb) L’amore come essere intermedio41 L’amore non appartiene né a Dio, il Perfetto, né al vivente in quanto si 41 essere intermedio. In Filosofia I è la filosofia stessa ad essere presentata come Zwischensein, fra custodia rammemorante del passato e anticipazione del futuro, meditazione e vita, temporale ed eterno. Il filosofare conduce, “tramite la chiarificazione del passato e del sussistente, ad afferrare il reale sulla base del possibile; e certo non nel campo del finito come tale, dove la cura dell’Esserci assolve a questa funzione di essere intermedio, bensì nell’esistere davanti alla propria Trascendenza nella manifestazione nel tempo, che, passato o futuro, viene dal filosofare sollevato all’eternità dell’essere autentico”. Inoltre la filosofia può avere verità solo nella totalità dell’esistenza del singolo: sorta dalla sua situazione e dal suo agire, essa “può diventare autenticamente vera solo nella ritraduzione in un agire presente” (ivi, p. 268-69).

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trova nell’ignoranza assoluta, nulla sapendo di se medesimo. È il cammino dell’uomo. Platone lo ha chiarito una volta per sempre42. L’amore ricorda in certo modo l’eterno che ha veduto in un tempo antecedente, è capace di questa anamnesi. L’amore vuole generare nella bellezza, eternarsi, guadagnare la partecipazione all’immortalità. L’amore in una successione di gradini, su cui s’innalza lo slancio dell’uomo, lo conduce alla sua realtà autentica. L’amore non ha, come Dio, ma cerca – non è compiuto, non è perfetto ma sospinge verso il compimento. Esso è il “mediatore”, che si trova fra il non-essere e l’essere, fra la povertà e la ricchezza. Però esso sembra anche “compimento” (Vollendung): infatti è in esso che si trova la presenza del vero essere, in cui l’uomo consegue la pace. Esso ci porta l’attimo inaspettato della pienezza: è cancellazione del tempo nell’attimo eterno. Fra l’essere-mediatore e il compimento non c’è un’alternativa. Piuttosto la maniera di realizzarsi peculiare dell’uomo è proprio il compimento tramite il movimento nello spazio intermedio, nella tensione incessante. Un compimento è per lui attuale solo nel permanente movimento dello slancio. Ecco perché egli è costantemente ancora incompiuto, anche nella compiutezza43. Quando muoio, io non sono per nulla compiuto in ciò che è essenziale, resto sempre nel “non ancora”. Eppure l’amore è quell’essere intermedio che già significa pienezza. È l’unica garanzia dell’essere. È avvertimento dell’eternità nella temporalità non ancora estinta. L’amore è la quiete nell’inquietudine del movimento. Quando esso, nella vita temporale che ci costringe al movimento, conferisce questa pace, può riempire di significato concreto gli asserti che sono tanto spesso pronunciati

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una volta per sempre. Nel Simposio Platone presenta Eros come μεταξύ tra Dio e mortale (202 E) cioè come intermediario tra uomini e dei, trovandosi in mezzo (âν μ¤σÿ̂) tra gli uni e gli altri. In quanto “cercatore di sapienza per tutta la vita” (φιλοσοφáν διa παντeς τοÜ β›ου; 203 D 7), certo, egli si trova anche in mezzo fra coloro che ignorano e coloro che sanno; ma fra quelli che ignorano Platone colloca gli uomini ignoranti, che non desiderano il sapere perché ritengono di possederlo già, e non i semplici viventi. 43 anche nella compiutezza. In questa successione di asserti l’amore risulta l’inglobante da cui riceve senso l’humana conditio, fra tensione e compimento, divenire ed essere, temporalità ed eternità, inquietudine e quiete. Nell’amore si rivela massimamente la polarità della vita umana, che il pensiero filosofico porta a piena consapevolezza; l’amore è addirittura il simbolo più perfetto di questa polarità. L’amore e il pensiero filosofico confluiscono l’uno nell’altro in quanto entrambi sono caratterizzati dall’appassionata ricerca dell’unità: donde l’affermazione secondo cui amare è “il cammino dell’uomo”, e non affare di Dio, l’Uno.

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a vuoto: essere preparati, è tutto; maturità è tutto44. L’amore, la perfetta indipendenza della mia libertà, è quella passione che è, insieme, pensiero: esso è veracemente critico perché, grazie alla sua familiarità con l’essere, smaschera ciò che non vale nulla45. Il pensiero filosofico si autocomprende come amore. Quando la filosofia resta piena di contenuto, invece di andare ad arenarsi sul terreno ingannevole, perché inadeguato a sorreggerla, rappresentato dall’io puntuale di un’intelligenza, la cui presunta indipendenza è solo formale, allora diviene tema a se stessa nella filosofia dell’amore. L’interpretazione dell’amore come essere intermedio non può acquisire di per sé validità definitiva: a) Essa ha bisogno delle metafore che le sono messe a disposizione dalla metafisica oggettivante, simboli la cui verità può far luce solo a condizione che la loro oggettività venga a dissolversi. Un simbolo dell’amore di tal genere è la sessualità. La sessualità è la forma del “trovarsi sulla via dell’unità”, come si dà nella sfera del vitale. Siccome essa è – in tale pensiero metafisico – conseguenza di un accadimento che nella sfera vitale si esprime così, diventa, a sua volta, simbolo di tale più profondo accadere. Allora la sessualità è un’incarnazione, nella sfera del vitale, del rapporto, metafisicamente fondato, tra i molti, che si ritrovano sulla via dell’unità. b) La forma dell’interpretazione attraverso il pensiero dell’“essere intermedio” è una forma universale presente in tutto il filosofare. Perciò tale interpretazione dell’amore rimanda a qualcosa d’altro, a questa stessa forma. Il “fra” è nel pensiero filosofico una forma fondamentale del problematizzare nella costruzione speculativa: solo con una preliminare distinzione il pensiero può, in generale, pensare qualcosa, e la filosofia è allora, subito dopo, l’interrogazione circa l’unità di ciò che è stato distinto. Il senso dell’interpretazione dell’amore come essere intermedio è perciò condizionato da quanto preliminarmente è stato distinto, rispetto a cui 44 maturità è tutto. Amleto, nell’incombere della fine, dice, nella versione tedesca: bereit sein, ist alles. Re Lear, invece, dichiara: reif sein, ist alles. Essere pronti non è cosa diversa dall’essere maturi: filosofare significa, platonicamente, prepararsi a morire: paradossalmente però tale preparazione culmina nella totale adesione alla vita e nella consapevolezza del suo autentico significato. 45 smaschera ciò che non vale nulla. Dalla positività dell’essere esperita nell’amare deriva il discernimento di ciò che è privo di valore o che, addirittura, si oppone al valore: “veritas index sui et falsi”. Però solo un pensiero infiammato d’amore (“quella passione che è, insieme, pensiero”) ci fa realmente “sfiorare” la verità.

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l’amore fa da intermediario, allacciando il rapporto. Questa interpretazione sfocia nell’aporia, se, per esempio, l’imperativo: “muori e diventa!46” segnala la realtà fondamentale dell’amore. In questa realtà fondamentale il vincolo viene stretto infatti proprio tramite abbandono della sussistenza separata, andando oltre il distinto. Il legame, cioè, non viene posto tra realtà che prima di esso già sussistevano, ma è tanto più profondamente stretto a causa del fatto che quello che nell’amore si lega viene a manifestarsi solamente ora. Così l’interpretazione rinvia ad un Altro, che per essa rimane oscuro. L’interpretazione non ha mai fine47. Le particolari interpretazioni sono un gioco che viene continuamente ripreso nel tutto del filosofare.

1. Difesa critica Una volta che l’amore sia stato assunto consapevolmente a fondamento del filosofare, ne derivano possibilità di discernimento critico nei confronti della

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muori e diventa! Jaspers riprende qui i versi goethiani – dal Divano occidentale-orientale (Selige Sehnsucht): “Finché a questo non giungi: muori e diventa, sei solo un oscuro ospite sulla buia terra”, già citati nella Psicologia (p. 121; p. 142 it.). Nelle stesse pagine dell’opera del 1919 erano ricordati anche i versi del poeta persiano Rumi (sec. XIII): “giacché ove si sveglia amore muore l’io, l’oscuro despota”. Il paradosso del divenir-se stessi “morendo” come “esser-così” (Sosein) è al centro della dialettica jaspersiana della comunicazione esistenziale (vedi il nostro cap. III). 47 l’interpretazione non ha mai fine. L’infinità dell’interpretazione corrisponde all’inesauribilità del suo “oggetto” per la ragione interpretante. Filosofare è interpretare: però il gioco mai concluso dell’interpretare è serio, perché impegna l’esistenza in modo incondizionato. Il “comprendere originario” (o intuizione primigenia) si sviluppa e si articola in un’interpretazione in cui “ne va” dello stesso interprete. In Della Verità, cap. I, pp. 269 sgg., Jaspers riprende e critica la teoria nietzscheana dell’interpretazione (Auslegung). La forza chiarificatrice di tale teoria – secondo cui ogni conoscere è un interpretare – sta anzitutto nell’intuizione dell’unità tra “attività e ricezione contemplativa”, giacché nel conoscere si produce qualcosa, ma non in modo arbitrario. In secondo luogo essa promuove la libertà del conoscere, che viene distolto dalla fissazione in un risultato definitivo; inoltre essa mette in evidenza, quale elemento essenziale in ogni conoscere, che si tratta comunque di decifrare un linguaggio: sia, nelle scienze naturali, il linguaggio del “libro della natura”, come asseriva Galilei, sia, a livello metafisico, la “scrittura cifrata della Trascendenza”. Ma la debolezza della teoria nietzscheana consiste nella pretesa di risolvere l’essere in un esser-interpretato, come se in ogni interpretazione non ci misurassimo sempre con un Altro, che, di volta in volta, viene al linguaggio per noi, e però non è esso stesso linguaggio. Ciò che sottende l’interpretare è poi, per Nietzsche, volontà di potenza. Questo fa della sua teoria, malgrado la forza iniziale dell’immagine simbolica (Gleichnis) contenuta nella formula “verità=interpretazione”, qualcosa che restringe lo sguardo, e, invece di dischiudere all’interprete lo spazio del possibile, lo spinge “nell’abisso dell’assenza di terreno” (ivi, p. 272).

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sostanziale verità del proprio filosofare48, e nell’interpretazione del filosofare a noi estraneo. L’amore stesso può pervertirsi (aa). Il nostro proprio pensiero è sottoposto all’unico criterio che concerne non la sua esattezza, ma il diritto che questo pensiero può avere (bb). Infine, non solo l’amore, ma anche l’odio può essere fondamento del pensiero filosofico (cc). La conduzione del pensiero nell’agire interno avviene in virtù di una certezza la cui verifica non è più sottoponibile a controllo. Come amo, se è in forza dell’amore che si sviluppa il mio pensiero, se realizzo un pensiero basato sull’amore oppure sull’odio, ecco questioni essenziali per la filosofia. Esse trovano la loro risposta nei passi del filosofare che compie il suo corso in purezza e serietà, e non coltivando disinvoltamente una disciplina solo formale. Soltanto sulla base delle esperienze che così si acquisiscono, si sviluppa un’acuta sensibilità per il contenuto, per l’efficacia e il fondamento delle creazioni del pensiero filosofico, in cui ci imbattiamo nel mondo. aa) Pervertimento dell’amore. Già nell’immediatezza dell’esperienza, senza riflessione, la verità può maturare nell’amore. Le modalità dell’amore configurano una gerarchia; esse si animano, si sostengono, si compenetrano vicendevolmente. Ogni modalità ha il suo valore insostituibile, e le diverse modalità stanno in un rapporto di condizionamento reciproco, grazie al quale senza separazione ma con il loro compenetrarsi l’una con l’altra si determina una gerarchia di valore, che

48 verità del proprio filosofare. Jaspers rinnova, con qualche modifica, una tesi costante, presente già in Filosofia II, p. 117, secondo la quale “il criterio inoggettivabile per la verità di ogni filosofare è, in ogni tempo, la comunicazione che in virtù di esso si chiarifica e si attua. Vale, quale domanda di fondo: quali pensieri sono necessari, affinché divenga possibile la comunicazione più profonda?”. Qui il criterio è posto nell’amore: tanto più vera è una filosofia, quanto più in essa si esprime l’adesione entusiastica del pensante alla positività dell’essere nella pluralità delle sue forme; adesione o partecipe riconoscimento che non nascondono affatto, né a sé né all’altro, tutto ciò che nell’essere si presenta come disarmonia, dissonanza, antinomia, tragica negatività. Lo sguardo amoroso è il più aperto all’apprezzamento di ciò che vale, ma anche il più lucido e spietatamente critico nel discernere ciò che non vale o contrasta con il valore. Attraverso la propria “visione del mondo” il filosofo mira a risvegliare nel suo interlocutore analogo slancio, e non minore spirito critico. Diritto alla verità ha colui che, amandola, risveglia nell’altro un medesimo amore. Infatti “la cosiddetta obiettività, con la sua indifferenza, smarrisce l’essere negli oggetti”, mentre “la verità appartiene all’uomo che la comprende grazie al suo amore e per questo ha diritto ad essa”. Insomma la verità non si concede se non ad un pensiero amante, e tanto più è presente in esso, quanto più il pensante è ispirato dall’amore.

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sussiste di fatto, pur senza riflessione, senza che venga esplicitata e portata a consapevolezza. Ogni modalità dell’amore è vera in sé. È vera nella spontaneità della dedizione, nell’entusiasmo che travolge e quindi anche nel suo sacrificio e nel suo naufragio. Falsa è già, certamente, l’assolutizzazione di fatto. Siccome però questa, nella spontaneità senza riflessione, è ancora inconsapevole e quindi esente da fanatismo, è come un accadere naturale: è cioè insufficiente, inadeguata, incompleta. Invece la falsificazione vera e propria dell’amore sorge solo nel suo pervertimento, ed esso è possibile soltanto quando s’insinua la riflessione, che diventa essa stessa una componente dell’amare. Certo la riflessione rischiara, sviluppa, potenzia l’amore. Senza riflessione esso rimarrebbe come immerso nel sonno e nel sogno. Ma in egual misura la riflessione può portare con sé il suo pervertimento. È solo così che l’amore diventa propriamente falso, quando in luogo del suo incarnarsi tramite la compenetrazione reciproca delle diverse modalità, si ha il fissarsi della loro separazione, con l’isolamento di una singola modalità (1), oppure quando fra esse si sviluppa un rapporto, in cui una modalità serve da strumento all’altra (2), o quando, tramite la riflessione, una modalità viene assolutizzata (3). Ecco come si caratterizzano tali possibilità: 1. Non-verità mediante isolamento Allora l’amore è povero, perché incompiuto, separato e quindi infecondo, soddisfa apparentemente per un istante, ma subito diviene vuoto e ripugnante. Non è solo nell’ambito della sessualità che si trova il comportamento caratteristico della prostituta. Anche l’intelletto della coscienza in generale è – come lo chiama Cusano – una prostituta, quando si scioglie dalla connessione con l’amare e ponendosi come a sé sufficiente, mentre non è, di fatto, che un punto inconsistente, si dimostra vuoto, percorrendo la via di un indefinito, solo apparente godimento dell’evidenza, e su questa via facendo sempre nuovamente naufragio, mai raggiungendo una meta, mentre l’evidenza si mette a disposizione di qualsiasi interesse. Parimenti nell’isolamento dell’esistenza, che rifiuta ogni realizzazione, l’uomo cessa di essere in maniera esistenziale. Nemico di ogni realizzazione dell’amore è il particolare divenuto autosufficiente: il pensiero come intelletto che rimane privo di guida, il farsi guidare solo da determinati scopi, la tecnica in se stessa, la meschinità della volontà di potenza, le ottusità dell’egoismo, la sessualità che s’impone senza freni, la disperazione della bramosia senza senso, con il conseguente smarrimento in ciò che si ripete indefinitamente.

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2. Non-verità tramite strumentalizzazione Dal momento che penso le modalità dell’amore come un ordine gerarchico, è possibile che una modalità venga costretta a servirne un’altra, o nel senso che una modalità più bassa sia posta al servizio di una più elevata, oppure viceversa. Questa seconda possibilità rappresenta il pervertimento vero e proprio. Però entrambi i tipi di strumentalizzazione tolgono spontaneità alla dedizione. Infatti essi, mediante la riflessione, stabiliscono dei limiti con finalità di dominio e annientano così la forza efficace dell’essere circoscrivente, che rappresenta l’essenza di ogni amore. Esempi: – In primo luogo, l’amore proprio della sfera vitale diventa, quando è posto al servizio dello spirito, godimento riflesso, nel vivace mondo della fascinazione estetica. Oppure, al servizio di una morale che viene fissata derivandola dalla sfera esistenziale, è orientato in maniera tale da dargli come scopo l’onesto amore di coppia. In ogni caso, però, quando l’amore risulta finalizzato a qualcosa, perde anzitutto il suo carattere di originarietà; poi si fa avanti, come carattere che emerge solo a causa dell’isolamento, la sua finitezza in quanto mera sensualità. In entrambi i casi dunque l’amore diviene falso, inattendibile, fragile e disturbato. – In secondo luogo, intelletto e spirito vengono asserviti alla vitalità, come suoi mezzi. Essi perdono la loro verità, venendo meno la guida proveniente dalla loro propria origine. Non viene più a manifestarsi quel che è esatto, o quel che esprime un’idea, ma entrambi, nella misura in cui risultano utilizzabili o sembrano esserlo in funzione degli interessi della sfera vitale, sono costretti a servire, mutilati della loro originarietà. – In terzo luogo, spirito ed esistenza sono derubati della loro essenza, divenendo mezzi dell’intelletto. L’intelletto se ne impadronisce, e tenendo tra le mani quelle che ne sono oramai solo le morte spoglie, rivestite dei concetti che esso ha determinato, vuole invano cavarne qualche genere di conoscenza. L’intelletto può certo farsi guidare da essi, ma non disporne come di mezzi. Può portare chiarezza all’interno delle loro sfere, ma non asservirle a sé. Se fa quest’ultima cosa, allora dà inizio a un chiacchiericcio illusorio, privo di verità, nel quale da un lato si è dileguato il genuino conoscere, dall’altro spirito ed esistenza rimangono inefficaci. Una specie di sofistica perverte ogni cosa, e si mette a perseguire fini arbitrari, dettati da interessi empirici e dal bisogno di farsi valere. – In quarto luogo, quando l’esistenza viene utilizzata come mezzo dello spirito, ne deriva una totale assenza di carattere, dietro la seducente

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ricchezza della cultura spirituale. Vengono addirittura utilizzate tutte le formule della chiarificazione esistenziale, producendo l’ingannevole impressione che in discorsi e gesti si manifesti un essere, mentre, di fatto, l’esistenza è andata perduta. Ciò che è estraneo all’amore, è in sé, solo un materiale. Ma l’amore non può mai diventare un materiale, senza andare perduto, e così nemmeno una sua modalità può diventarlo per un’altra. 3. Non-verità mediante assolutizzazione Se la riflessione non si limita ad isolare una modalità dell’amore, ma poi anche la assolutizza, allora qualcosa che alla fine risulta depotenziato, perché deprivato del suo carattere circoscrivente, viene, con una sorta di fanatismo, reso apparentemente incondizionato. Io mi aggrappo ad esso come ad un assoluto, però viene a mancare proprio quello che dovrebbe conseguire dall’amore incondizionato: l’ampliamento dell’anima49, l’illimitata apertura, la quieta chiarezza. Piuttosto, al contrario, tutto diventa angusto e chiuso, perché ogni cosa viene posta sotto la condizione di questo amore finitizzato e ora, a sua volta, finitizzante. Al posto della risoluzione resta solo l’irrigidimento nel finito, invece della fedeltà c’è l’ostinazione. Isolamento, asservimento, assolutizzazione uccidono l’amore, e certo attraverso la riflessione, che sulle prime, portandolo ad autoconsapevolezza, lo rende trasparente, ricco, libero e infinito. Nel pervertimento dei metodi del filosofare riecheggia il pervertimento dell’amore. Il mio modo di parlare dell’amore è il punto cruciale e rivelativo, dove viene a manifestarsi quello che è, in generale, il mio modo di parlare in quanto filosofo: – Fare appello all’amore – questo è impossibile, perché l’amore non è un argomento cui ci si possa appellare. – Esigere l’amore – impossibile50, perché non posso volere l’amore, e, 49 ampliamento dell’anima. Jaspers parla qui di Weitung der Seele. Kant, nella terza Critica (Nota generale sull’esposizione dei giudizi estetici riflettenti) afferma che il sentimento del sublime, in quanto esibizione dell’infinito, “estende l’anima” (erweitert die Seele). Né l’esperienza cui allude Kant né questa di Jaspers – la prima connessa a un sentimento, la seconda a un agire – sono Erlebnisse in senso meramente psicologico: nell’uomo kantiano si fa strada la consapevolezza del proprio assoluto valore come personalità morale; nell’uomo di Jaspers si tratta invece del superamento dell’io chiuso nella sua ostinazione e dell’innalzamento all’infinito in virtù dell’amore. 50 Esigere l’amore – impossibile. Su questo punto anche Simmel è daccordo – sebbene in una prospettiva psicologica, in cui l’amore è considerato un sentimento. “L’amore è sempre, per così dire, un dinamismo che si genera dall’autosufficienza dell’interiorità, un dinamismo che certamente è condotto dal suo oggetto esterno dallo stato latente a quello attuale, ma che in

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qualora lo volessi, arriverei piuttosto a distruggerlo, a forza di volerlo. Dubitare dell’amore (mio o dell’altro) è già di per sé non solo mancanza d’amore, ma un modo di pensare strumentale, che tratta l’amore come un mezzo. Parlare dell’amore come di un dovere, nel senso di un dovere di amare, è assurdo. Si tratta o di un uso improprio della parola “amore”, perché s’intende solo un’azione oggettiva, un’opera, e non un’origine (Ursprung); oppure ci si riferisce ad un dovere che deriva dall’amore51. Infine: quando l’amore si rivela falso, si ha la rovina più completa e annichilente, che investe l’origine stessa. Il fatto che la verità venga intaccata nella sua stessa originarietà lascia totalmente privi di speranza. ...ma essere strappato dagli affetti di cui aveva fatto tesoro il mio cuore, da ciò per cui vale la pena di vivere o di morire, la sorgente stessa dalla quale deve scorrere la mia vita per non inaridirsi, esserne allontanato o doverla considerare un pantano in cui s’accoppiano e nascono luridi rospi... Oscurati, o pazienza... (Otello, IV, 2)

bb) Risposta alla questione: se io abbia diritto ad una qualche verità. Per un’epoca dominata dalla supremazia dell’intelletto e dalla tecnica52, deve senso proprio non può essere provocato; l’anima lo possiede come un dato ultimo, oppure non lo possiede... Questa è la ragione più profonda per la quale non ha alcun senso pretenderlo in base a un qualsiasi diritto” (G. Simmel, Frammento postumo sull’amore, cit. p. 19). 51 un dovere che deriva dall’amore. Dunque per Jaspers l’amore non è in sé dovere, bensì fondamento e origine di doveri. 52 supremazia dell’intelletto, e dalla tecnica. L’atteggiamento di Jaspers nei confronti della tecnica è differente da quello di Heidegger, ma le differenze sono anzitutto rilevabili nella valutazione della scienza moderna. Sull’origine della scienza dalla “volontà di verità”, questa “dignità dell’uomo”, vedi Ragione e anti-ragione, lezione prima (p. 25, p. 32): qui sono anche respinte le interpretazioni di M. Scheler e del conte Keyserling, per i quali la scienza sarebbe già espressione della volontà di potenza tecnica. Per la connessione di senso tra “spirito” della scienza moderna e religione biblica, si può vedere quanto Jaspers scrive, con efficace sintesi e in puro stile weberiano, nel saggio su Nietzsche e il cristianesimo (1938), ora in Aneignung und Polemik, Piper, München 1968, pp. 331-388, in particolare pp. 366-376; trad. it. Christian Marinotti ed., Milano 2008, pp.103 sgg. Quanto al tema della tecnica, un’ampia trattazione si trova in Origine e senso della storia (1949), parte seconda. Per Jaspers non si tratta di vedere nella tecnica un evento destinale all’interno di una presunta “storia dell’essere”, ma di riconoscere che essa necessita di una guida, mentre ciò che si deve combattere è piuttosto la mentalità tecnocratica. La fondamentale deviazione (Verkehrung) in cui incappano scienza e tecnica è

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suonare sorprendente la nostra tesi secondo cui l’amore sarebbe l’origine della visione della verità. E tuttavia la presunta obiettività senza partecipazione interiore non può cogliere davvero la verità. La cosiddetta obiettività, con la sua indifferenza, smarrisce l’essere (das Wesen) negli oggetti. La visione è possibile solo sulla base dell’amore – e, negativamente, dell’odio – e obiettività e imparzialità, cui la verità si dischiude, maturano soltanto attraverso la purezza dell’amore e la sospensione dell’odio. La verità appartiene all’uomo che la comprende grazie al suo amore e che per questo ha diritto ad essa53. Se la verità come esattezza si presenta sotto forma di certezze univoche, tali esattezze vengono subito fraintese, deformate e falsificate quando ad interpretarle è il mero intelletto privo di amore. Poiché in questo modo mi ritrovo nella non-verità, non ho diritto alla verità, nei cui confronti non è in me sopravvenuto quell’amore, che è la condizione sotto la quale unicamente essa si lascia afferrare. Il mio diritto alla verità si estende quanto è esteso il mio amore, e non oltre54. Soltanto l’amore immette il saputo in quell’orizzonte circoscrivente senza il quale, nella sua univocità immediata, esso risulta falso. Quell’amore che la superstizione, tipicamente moderna, per cui si crede di poter “ordinare il mondo nella sua totalità esclusivamente in base all’intelletto” (ivi, p. 125). 53 e che per questo ha diritto ad essa. Diritto alla verità ha l’uomo che la persegue con amore, per assimilarsi ad essa, partecipandone: certo si tratta di un amore di aspirazione, ma altresì di dono, perché la verità richiede dedizione. Non sarebbe perciò sbagliato dire che la verità si dona al soggetto che le si dona. 54 quanto è esteso il mio amore, e non oltre. Per Kierkegaard la verifica delle verità essenziali sta nella testimonianza: in ultima analisi è il soggetto che le “dimostra” vere attraverso la propria vita, cioè mostrando di esser divenuto vero assimilandole. Per Jaspers il diritto del filosofo alla verità poggia, come s’è visto, sulla purezza e sincerità del suo amore per essa; e dunque anche su ciò che egli è disposto a sacrificare per questo amore. In entrambi i casi il criterio per discernere il vero dal falso non è oggettivo, ma “soggettivo”: né potrebbe essere diversamente, dato il carattere costitutivo del rapporto che intercorre tra l’uomo e la verità, intesa ai livelli più alti. D’altronde più alta è la modalità del vero, e più è la verità che si appropria dell’uomo, e non viceversa. Ciò vale anche per la nozione jaspersiana di “ragione”. Già Kant dichiarava che non è l’uomo ad avere il possesso della virtù, bensì la virtù ad avere in suo possesso l’uomo: siccome virtù è vita secondo ragione, l’uomo virtuoso è colui che, liberamente, si è lasciato appropriare – cioè far suo – dalla ragione(Metafisica dei costumi, Introduzione alla Dottrina della virtù, par. XIV). Per Jaspers il filosofare è un esercizio in cui, lasciandosi appropriare dalla ragione, il singolo si lascia appropriare dalla verità. Al suo culmine la soggettività, in quanto esistenza e ragione, non ha più la verità fuori di sé, ma in sé, come il suo stesso essere, e ne diviene la storica manifestazione, mediante il pensare e l’agire. L’amore è la forza che consente tutto questo. Muovendo la soggettività, l’amore muove ogni cosa, perché la soggettività, trasformata, è nel tempo un riverbero dell’eterna luce, che conferisce senso e valore al mondo e alla vita.

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immette nella totalità, vaglia, definisce i limiti, amplia e rafforza non può venir surrogato da qualche costruzione sistematica elaborata dall’intelletto – per quanto complessa – che assegni ad ogni cosa il suo posto. Queste elaborazioni razionali di ordini gerarchici e metodi di verifica critica possono essere d’aiuto lungo il cammino. Là dove hanno contenuto, sono esse stesse prodotti dell’amore e non mezzi per surrogarlo. Quell’indefinibile attitudine a mantenersi entro limiti in ciò che può esser detto e in ciò che viene inteso, e, altrettanto, quel costante oltrepassamento delle posizioni finite, sono entrambi attendibili solo là dove l’amore dà impulso e direzione sulla base dell’essere circoscrivente. Altrimenti per tutti, e per l’intelletto senza amore, ci sono solo le verità particolari e le esattezze nella loro indifferenza senza fine. L’amore però è il cammino verso l’Uno, cammino nel quale ciò che è indefinito (das Endlose) è sostituito dall’infinità (Unendlichkeit)55, tutto riceve vita per sé dalla profondità del fondamento trascendente, e tutto è, al tempo stesso, solo un gradino lungo la via. Ecco perché per il Cusano l’intelletto è la prostituta, che non trova la via dell’Uno, e per Platone le più belle verità della matematica sono solo gradini lungo il cammino che conduce alla visione del bello in sé. cc) Una filosofia basata sull’odio Le filosofie che ci sono pervenute in opere scritte hanno una certa tonalità, sondando la quale potremmo essere condotti fino ad intuire i più profondi motivi e contenuti del pensiero. Tra queste tonalità, quelle che si collocano nella polarità di amore ed odio hanno un significato decisivo. Vi sono pensieri astratti che, come melodie misteriose, esprimono il contenuto di un amore, ed altri che – oggettivamente a malapena distinguibili dai primi – recano in sé solo la tediosa atmosfera di un esercizio scolastico, quasi fossero intellettualità che funziona a vuoto. Ci sono disquisizioni sentimentali sull’amore, in cui parla lo spirito dell’assenza d’amore. C’è una

55 dall’infinità. L’amore è la più perfetta manifestazione dell’infinito nel finito: solo chi ama possiede perciò il criterio in base a cui discernere i limiti di ciò che è limitato, condizionato, finito e che tale può rivelarsi unicamente se commisurato con l’infinito. Solo così ci si avvede che l’indefinito procedere dell’intelletto rimane chiuso in una dimensione di finitezza; e non si pretende di surrogare l’aspirazione all’Uno, come infinito reale e qualitativo, con l’indefinito approssimarsi ad una – impossibile – conoscenza completa del finito. Chi ama si mantiene in equilibrio tra riconoscimento del limite (πέρας) e costante oltrepassamento verso l’illimite (ôπειρον), cioè verso quell’infinito che è l’abbracciante o “essere circoscrivente”, da cui siamo attratti non solo in quanto pensanti, ma come esistenti.

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specie di voluttà dei sentimenti, che azzera il senso dei sentimenti stessi56. C’è anche un giocare con concetti che rendono percepibile il nulla, così come dal pensiero emana il soffio raccapricciante del nulla, nell’atmosfera di violenza, perentorietà e pretesa di sottomissione che è tipica di un filosofare dittatoriale. Diverse sono le connessioni secondo cui si diramano e si collegano l’amare e l’odiare. Occorre distinguere due fonti dell’errore: posso errare nell’interpretare l’amore, oppure errare nel mio stesso amare. Erro nell’interpretare l’amore, a causa del pensiero proprio di una falsa filosofia. Per esempio posso confondere l’indipendenza che è conferita dall’amore con l’autosufficienza del pensiero. Falsamente ritengo di avere nell’autonomia del pensiero l’origine di ogni verità. Invece pensiero e amore non possono essere veri l’uno senza l’altro. La libertà del pensiero è vuota, piena è la libertà dell’amore. Nell’amare stesso erro a causa di un falso amore, dell’odio: si altera la mia visione del mondo e dell’uomo; per me l’essere svanisce; alla fine io voglio che nulla sia57. Ci si può chiedere se esistano una filosofia basata sull’amore ed una basata sull’odio. Allora un filosofare mosso dall’odio sarebbe come la versione negativa dell’autentica filosofia. Alla passione in cerca della quiete nell’essere sarebbe contrapposta una passione che cerca l’irrequietezza nel nulla, 56 dei sentimenti stessi. Questo accenno ai sentimenti ci suggerisce una considerazione conclusiva in merito alla interpretazione jaspersiana dell’amore: esso non è, per il filosofo, un sentimento o uno stato d’animo; è invece slancio di tutto l’essere dell’uomo, tramite la volontà. Amare è un intimo agire e sta – come del resto la fede in Kierkegaard – nel medio del divenire. Così il termine “passione”, riferito sia all’amore che all’odio, non deve venir frainteso: la passione non è qui un patire, bensì un agire. L’amore è ricerca totalmente coinvolgente della verità, ed edificazione del Sé in questa ricerca: l’odio, quando si assolutizza, è un agire opposto, distruttivo. Per usare il linguaggio di Kant: l’odio è l’opposto reale dell’amore, non una mera assenza di esso. 57 voglio che nulla sia. Se l’amore manifesta e attiva una volontà d’essere, l’odio cela una volontà di nulla. Allo Jasagen dell’amore si contrappone la volontà di annientare ogni valore ed ogni essere che valga. Si tratta allora di vedere se ad un genere di pensiero che muove dall’assenso alla positività dell’essere si può contrapporre un pensiero che sia mosso dal radicale rifiuto di riconoscere tale positività, oppure se in ogni filosofia si trovi qualcosa dei due atteggiamenti, con eventuale prevalenza dell’uno o dell’altro. Il punto, però, sarebbe l’individuazione della radice ultima di un filosofare, se essa sia odio oppure amore. In una filosofia ispirata dall’amore, l’odio può essere presente come termine polare, inseparabile dall’amore, come avviene nella nostra esperienza esistenziale, e cioè come odio per ciò che è “abominevole, malvagio, orribile, lurido” (p. 218), cioè per quanto nel mondo è assolutamente degno di odio. Però l’odio può porsi come assoluto: allora esso strumentalizza l’amore, si maschera da amore. La dialettica esistenziale è comunque tale, che la più radicale negazione può rovesciarsi nel suo opposto, mentre resta lontano dalla verità un atteggiamento totalmente privo di interiore partecipazione, cioè privo di odio ma anche di amore.

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all’entusiastico dir di sì un’avvilente denigrazione, al giubilo che è intrinseco all’amore la tetra soddisfazione intrinseca all’odio.

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1. L’Odio Nessuna vita è senz’odio. L’aperto riconoscimento di questa realtà, così come l’aver cura che il proprio inevitabile odio non eserciti un influsso nascosto, ma libero, è una condizione dell’esser-vero. L’odio è un tormento. Quando odio, ho l’impressione di sprofondare. Mi sento non libero, vengo messo alle strette. Odiando scorgo l’insignificanza e il nulla, che sembrano qualcosa di concretamente reale. Quando odio, vorrei che così non fosse: però non posso sottrarmi all’odio, se mantengo aperto il mio sguardo sulla realtà empirica. Non posso sottrarmi ad esso, perché amo. Chi ama grandemente, anche grandemente odia. Ma l’odio ha due volti. Può essere l’odio non egoistico. Infatti esiste al mondo una realtà assolutamente degna di odio, perché insopportabile, infame, esiste ciò che è abominevole, malvagio, orribile, lurido. Oppure l’odio è egoistico58. Dietro la mia indignazione sta la pretesa di affermare il mio proprio essere, persino in quelle caratteristiche per cui è odioso esso stesso. Avanzo esigenze incondizionate, però a mio vantaggio, e dunque per nulla incondizionate. Dal punto di vista psicologico l’odio conosce continue trasformazioni, ed è di volta in volta interpretabile come rovesciamento dell’odio per se stessi in odio per l’estraneo, come reazione al disagio del proprio vivere, o effetto della gelosia. Cresce quando la pura e semplice esistenza di un altro rappresenta per me un impedimento, o quando essa, per il mio genere di vita, è come un rimprovero, ed esprime una misura rispetto alla quale io continuo ad essere inadeguato. Ma l’odio può esercitare il suo dominio nella profondità dell’esistenza in una forma imperscrutabile, storicamente particolare. Tutto il bene non è in grado di cancellare un odio primario personale nei confronti di qualcuno, così come un amore primario personale non viene annientato a causa di quello che di brutto e di cattivo si può trovare nella persona amata. Fare chiarezza sul proprio odio è il primo compito cui assolvere per diventare veri. Chi 58

Oppure l’odio è egoistico. A causa dell’“assenza”, della “perdita” o della “limitazione” della ragione, prende piede, nel soggetto, la “volontà d’Esserci” egoistica, che è fonte dell’angoscia vitale. Questa angoscia divide: l’individuo vuole il proprio Esserci “anche senza o contro l’Esserci dell’altro”. La volontà d’Esserci, che si installa come condizione che precede tutto il resto, è capace di mascherarsi “con una condotta che esprime amore e lo pretende, ma in questo mascheramento divide solo più profondamente”. La realtà della divisione si svela

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grandemente ama cancella l’odio tanto più, quanto più appassionatamente l’ha vissuto.

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2. Filosofare sulla base dell’odio Suddividere le filosofie in alcune, sorte dall’odio, ed altre, sorte dall’amore, è molto difficile. Infatti così come nella vita, in tutto il filosofare si trova la polarità. Come i nostri impulsi sono distinti in affermativi e negativi, di riconoscimento o di rifiuto, di desiderio o di avversione, così l’intero nostro essere è diviso in amore e odio. Ne deriva che nel filosofare la filosofia che è ispirata dall’odio accompagna e pungola incessantemente la filosofia ispirata dall’amore. L’odio è amore pervertito, è proprio quella possibilità che l’amore ha di rovesciarsi nel suo opposto; l’amore, calandosi nel finito, è esso stesso causa e fonte di odio. L’amore è in grado di togliere e cancellare in sé l’odio. La filosofia che muove dall’amore diviene alla fine non-polemica ed è tale originariamente, cioè mentre procede sul suo cammino entra in polemica con riluttanza. L’odio può porsi come assoluto. Allora tutto mette al proprio servizio. Persino l’amore, ormai inaridito e contraffatto, diviene per esso un mezzo, per odiare con forza ancora maggiore: con l’amore per uno mira a colpire altri, ad annientare qualcosa di migliore. L’odio resta negativo. Esso deve sempre respingere, ma non da un regno dell’amore ricco di contenuti, bensì dal niente del proprio non-essere. Esso resta essenzialmente polemico, “nel rivolgersi all’altro con cattiveria, con odio, nella volontà di tormentare con dubbi su ogni cosa, il che è una trasposizione della paura e dell’impotenza”. Ragione e coraggio si incentivano reciprocamente: “solo nella misura in cui siamo coraggiosi possiamo essere amici”. Ogni volta che una relazione viene ad instaurarsi sotto la condizione esclusiva di una passione dell’Esserci, la ragione è spenta. Allora “gli uomini stanno, come monadi, l’uno contro l’altro e accanto all’altro, chiusi in se stessi e impenetrabili a se stessi e agli altri”. Così accade “non di rado” che una comunione sembri instaurarsi attorno a creazioni spirituali, ma repentinamente mostri di non avere una base seria, ad esempio “quando una donna sembra comprendere realmente e con intima partecipazione il mondo spirituale, però di fatto soltanto perché ama quest’uomo, con il suo mondo e, appena cessa l’amore, abbandona anche tutto ciò che sembrava aver compreso”. Che il comprendere spirituale si riduca a questo, e che l’assenza di terreno di tale comprendere resti per lo più inavvertita – conclude Jaspers – è “spaventoso”. Una comunione che, nel mondo oggettivo, sembra fondata sulla ragione, crolla con la separazione degli individui. Ogni unione, quando il legame è privo della ragione, porta con sé un’intima divisione: “simula fedeltà, ma non conosce, in realtà nessuna fedeltà. Quando l’elemento sensibile cessa di aver voce in capitolo, il passato in comune viene sacrificato, come se non fosse mai stato. Per un attimo sembrava reale una fedeltà appassionata, con ingaggio incondizionato; invece si trattava solo di una finta fedeltà, priva della ragione” (Della Verità, pp. 982-83).

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per cui la filosofia ispirata dall’odio è polemica nella sua stessa origine. Si sviluppa da uno stato d’animo di furore, si eccita soltanto dove trova degli avversari, trae spunti, nell’aggredire, solo dalla possibilità di eliminare l’altro, dalla lotta per farsi valere, dal disprezzo e dalla demonizzazione dell’altro. Però nell’odio più profondo, nel nichilismo della filosofia dell’odio si nasconde anche qualcosa di positivo. La sua stessa passione è amore pervertito. Vi è come un costante perdersi, che però ad ogni istante potrebbe rovesciarsi. Vi si trova l’estrema, inquieta tensione, il cedimento sempre ripetuto agli istinti di negazione, che si dimostrano creativi in certe ingannevoli costruzioni del pensiero. Queste risultano affascinanti grazie alla passione che sta dietro di esse, sono come la verità del no, assomigliano specularmente al sì. Però in se stesse non hanno consistenza, sono equivoche fino alla falsità e alimentano ogni genere di sofistica.

3. Sull’idea di una filosofia che si ispiri assolutamente all’amore oppure assolutamente all’odio Il movimento del filosofare include in sé i due impulsi dell’amare e dell’odiare. Soltanto nella forma di un progetto ideale si può tratteggiare la possibilità di una filosofia completa che assuma del tutto e unicamente come guida o l’amore o l’odio. Sulla base di un amore che tutto abbraccia dalla profondità più grande, amore ed odio verrebbero sospesi, per conquistare quella tranquilla equanime obiettività, che sarebbe ancora solo amore, però senza contrasto, senz’odio. Si tratterebbe di quell’illimitata apertura, di quell’accettazione, di quel saper contemplare e prestare ascolto, cui si mostra tutto l’essere. Potrebbe trattarsi di una sorta di venir meno dell’amore nell’amore per l’Uno, amore dal quale tutto l’essere riceverebbe il suo splendore. L’interiore atteggiamento di Spinoza – non il suo pensiero in quanto porta ad attuazione determinati contenuti – sembra avvicinarsi a questo. Il suo amore intellettuale per Dio gli permette di porre in sé quell’istanza, la cui realizzazione non dovrebbe significare l’indifferenza per tutto, bensì la più profonda unione con l’essere: non ridere di nulla, non piangere, ma intendere. La possibilità opposta è: l’odio potrebbe impancarsi a padrone del pensiero. Questa guida da parte dell’odio, al posto dell’amore, potrebbe diventare fonte di un pervertimento abissale, che potrebbe propagarsi ad intere filosofie. Si tratterebbe della filosofia della radicale assenza di comunicazione, della mancanza di fede, della recondita volontà di annientare, o della filosofia

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come strumento di lotta, per farsi valere, come arsenale di ogni genere di sofistica, mirante alla sopraffazione. Questa filosofia insegue il sogno della gioia tenebrosa derivante dalla possibilità dell’annientamento totale. Tutto ciò che di positivo essa mette in campo non è, in fondo, che una serie di strumenti, in vista di tale annientamento. Si tratterebbe di quella filosofia nichilistica in maniera assoluta, e però mimetizzata dietro un’apparenza di positività, a confronto della quale ogni nichilismo dichiarato risulterebbe inoffensivo.

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DA FILOSOFIA II (1932)

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DA FILOSOFIA II (1932)

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1 AMORE

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da Filosofia II, cap. 8, pp. 277-279

Questo brano sull’amore si trova all’interno del capitolo ottavo di Filosofia II, il cui argomento è: la coscienza assoluta. Per coscienza assoluta Jaspers intende la consapevolezza che l’uomo può acquisire del suo autentico Sé. Tale coscienza si distingue tanto da quella “soggettiva” psicologica (coscienza dei nostri particolari vissuti o Erlebnisse) che ci è propria in quanto siamo individui capaci di provare sentimenti, emozioni, stati d’animo ecc.; quanto da quella “oggettiva” (Jaspers la chiama anche coscienza-in-generale), che presiede all’universalità e oggettività dell’esperienza comune (Erfahrung) e della conoscenza. Naturalmente la coscienza “soggettiva” può essere oggettivata, per esempio dalla psicologia, che la studia; mentre la coscienza “oggettiva” corrisponde alla soggettività trascendentale, che funge con le medesime categorie e le stesse regole in tutti i soggetti conoscenti, come l’Io penso di Kant. La coscienza assoluta,invece, trascende la scissione soggettooggetto, pur essendo coscienza che il soggetto ha di se medesimo: ma qui il soggetto è appunto l’esistenza, il vero se stesso, inconoscibile e inoggettivabile. L’autentico Sé non è un io irrelato, ma si dà solo nella relazione con l’altro Sé e con la Trascendenza. La scoperta del nostro vero essere, che non si situa nell’ambito del fenomeno, ma non è nemmeno identificabile con un io astorico, logico-gnoseologico, non avviene di colpo, ma gradualmente, attraverso una successione di tappe o di momenti, che costituiscono un percorso filosofico: si va dal non-sapere, ai limiti dell’orientazione scientifica nel mondo, a esperienze come quelle della vertigine e dell’angoscia (Kierkegaard), alla coscienza morale (Gewissen), fino ai momenti culminanti della manifestazione-realizzazione del Sé, fra i quali si trova, prima di tutto e sopra tutto, l’amore.

Amore è la realtà della coscienza assoluta che è la meno concettualizzabile, perché è la più ingiustificabile e, assieme, la più evidente. Qui sta l’origine per ogni contenuto, qui soltanto è il compimento di tutto il ricercare. La coscienza morale resta priva di consiglio senza l’amore: senza di esso cade nell’angustia della vuota formalità. La disperazione che sorge dalle situazioni-limite grazie all’amore si dissolve. Il non-sapere diventa, nello slancio dell’amore, pienezza di realtà: l’amore lo sostiene, così come il

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non-sapere, che si sostiene sull’amore, ne è espressione. Amore significa riprendersi dalla vertigine e dallo spavento, per vivere la certezza dell’essere. La profonda soddisfazione dell’essere nella vita esiste solo come presenza dell’amore, la sofferenza nel vivere è essere costretti ad odiare, il vuoto del non-essere è che, in un’indifferenza insipida, né amo né odio. L’innalzamento è nell’amore, la caduta nell’odio e nell’assenza d’amore. Chi ama non si trova oltre il sensibile, in un aldilà da esso, anzi il suo amore è la sicura presenza della Trascendenza nell’immanenza, il meraviglioso qui ed ora; egli crede di scorgere il sovrasensibile. In nessun’altra circostanza, come nell’amore, l’esistenza ha la certezza del proprio fondamento trascendente; nessun atto di amore sincero può andare perduto1. L’amore è infinito; esso non sa in maniera oggettiva che cosa ama e perché ama, e neanche può riuscire a toccare sul fondo di sé una ragion d’essere. Ciò che è essenziale si fonda su di esso, eppure esso non è più in grado di giustificare se stesso. L’amore è perspicace. Ciò che è vuole manifestarglisi. Esso non si nasconde nulla, anzi può essere inesorabile nella sua volontà di sapere: infatti include la sofferenza del negativo come momento del suo vero essere. Non accumula ciecamente tutto il buono, e non si procura, per consolarsi, una falsa perfezione. Invece chi ama vede l’essere dell’altro, che approva sul fondamento dell’origine, senza motivazioni e in modo incondizionato, proprio in quanto essere: vuole che questo essere sia. Nell’amore è slancio e soddisfazione nel presente, movimento e quiete, diventare migliori ed essere buoni. Quell’anelito entusiastico, che pare non raggiungere mai il fine, è esso stesso presenza che, in questa forma, ha sempre attinto il fine, come manifestazione nel tempo. L’amore, che in quanto presenza totale è solo culmine e attimo, è come circonfuso da una specie di nostalgia. Solo l’amore totalmente presente ne è libero. Amore è ripetizione come fedeltà. Eppure il presente, di volta in volta oggettivamente sensibile ed io stesso, così com’ero, siamo irripetibili. Ripetizione è l’eternamente unica origine dell’amore, che di volta in volta riveste la forma possibile nel presente. Amore è divenir se stessi e dedizione di sé. Quando io mi do veramente in modo totale, senza riserva alcuna, trovo me stesso. Quando invece mi ripiego su di me e mi attengo a delle riserve, divento privo di amore e mi 1

nessun atto di amore sincero può andare perduto. Lo slancio dell’amore, che risale il flusso del tempo verso l’Origine, produce atti che non sono travolti da quel continuo fluire: essi sono paragonabili a rocce, che la corrente non può trascinar via e che la fendono, resistendole: così l’eterno è, nel tempo, obliquo ad esso (quer zur Zeit in der Zeit). La stessa consapevolezza dell’immortalità – che non abbisogna di nessun sapere, di nessuna garanzia, di nessuna minaccia – si fonda su questa certezza, frutto dell’amore, della capacità che abbiamo di resistere, amando, all’azione corrosiva e disgregatrice del tempo.

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perdo. L’amore ha la sua profondità nel rapporto da esistenza ad esistenza. Allora per esso la realtà tutta risulta come personalizzata. All’amante che contempla la natura si svelano l’anima del paesaggio, gli spiriti degli elementi, il genius loci. Nell’amore v’è unicità. Non amo l’universale, bensì ciò che è diventato presente in maniera insostituibile. Tutto, sia nell’amante che nell’amato, è legato alla particolarità ed è imperdibile appunto solo in quanto è tale unicità. Nell’amore v’è fiducia assoluta. Quel che è presenza in pienezza non può ingannare. Questa fiducia piena d’amore non riposa sul calcolo né su assicurazioni. Che io ami è come un regalo, è tuttavia è il mio essere. In tale amore ho quella certezza che non può ingannarsi, e divengo colpevole nell’origine del mio me stesso se faccio confusione. Ma la perspicacia del vero amore non può sbagliarsi. Malgrado ciò per me il non ingannarmi è come un miracolo, di cui non mi attribuisco merito alcuno. Solo con la sincerità e il mio onesto agire quotidiano posso preparare la possibilità che, al momento giusto, mi colga l’amore, davanti al quale però quelle condizioni sono come nulla. L’amore è nella comunicazione che lotta, ma può degenerare nella comunione del possesso senza lotta, o nel litigio senza amore. È presente nello sguardo colmo di venerazione, ma degenera nella dipendenza prodotta dal culto dell’autorità. È nell’aiuto caritatevole, ma degenera nella compassione indiscriminata e autocompiaciuta. È nella contemplazione del bello, ma degenera nel disimpegno estetico. È ancora privo di oggetto nella possibilità illimitata di rendersi disponibile, ma degenera in mera ebbrezza. È brama dei sensi, e degenera in erotismo che vuole solo godere. È nella originaria volontà di sapere che cerca la chiarezza, e degenera in un pensiero vuoto e nella mera curiosità. Esso può, per così dire, incorporarsi in forme innumerevoli. Ma quando ciò in cui s’incorpora diviene realtà a sé stante, l’amore è morto. L’amore può essere presente dovunque, e senza di esso tutto sprofonda nell’insignificanza. L’amore ha una forza meravigliosa, e può rimaner vero anche dove illanguidisce in filantropia e amore per la natura, sulla cui base la sua fiamma potrà tornare ad accendersi.

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2 FEDE

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(Filosofia II, cap.8, pp. 279-282)

Il momento cruciale del passaggio di Jaspers da psicologo delle visioni del mondo a filosofo è registrato in alcuni passi di Filosofia I in cui egli prende in esame il termine Weltanschauung – “questa tipica parola tedesca, resa opaca dall’uso quotidiano” – con cui propriamente s’intende, precisa, “la maniera in cui il singolo valuta le cose, che cosa per lui conta incondizionatamente e quello che ha un valore solo relativo, di conseguenza come si rapporta e agisce”: in breve, la sua “visione della vita” (ivi, p. 241). Nel “rapportarsi” del soggetto si deve includere anche l’atteggiamento – qualunque esso sia – verso “quello che non è più mondo… l’essere in senso assoluto”, cioè verso la Trascendenza. Qui Jaspers s’interroga sul significato e sui limiti di una considerazione puramente esteriore delle visioni del mondo, che non comporti nessuna presa di posizione personale. Se io filosofo, riconosce, la mia visione del mondo non è qualcosa che io ho, bensì piuttosto qualcosa che io sono: essa viene a coincidere con il luogo della realtà – dell’essere, non del fenomeno – con cui m’identifico totalmente, e che quindi non può mai diventare un mero punto di vista fra i molti possibili, almeno per me: considerandolo così, mi estranierei da me stesso. “Quando conosco un punto di vista come tale, allora esso non è più la mia visione del mondo… Io sono nella situazione storica, se mi identifico con una realtà (Wirklichkeit) e con il suo insondabile compito. Io non posso situarmi in tutti i luoghi, ma debbo per forza collocarmi interamente in qualche luogo, per collocarmi in generale. Questo luogo, però, non è un punto di vista universale” (p. 244; corsivo nostro). La visione del mondo è insomma, in questo caso, tutt’uno con il Sé del filosofante. Ma se il singolo esiste nella sua visione del mondo, non è rinchiuso in essa: nella incondizionatezza della sua posizione incontra altre posizioni incondizionate, “che non comprende come se stesso e con le quali lotta nella comunicazione, mettendo in questione ed essendo messo in questione, provocando ed essendo provocato”, e dunque mai solo considerando esteriormente, spiegando e classificando in maniera oggettiva. Nelle medesime pagine Jaspers presenta, per la prima volta, la sua nozione di fede: essa è il nucleo centrale e vivo (Kern) della visione del mondo, quel nucleo che non si lascia mai cogliere dal comprendere (Verstehen) delle scienze dello spirito – storico, psicologico o sociologico che sia – e che si manifesta, si chiarisce e si sviluppa unicamente

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DA FILOSOFIA II (1932)

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nella comunicazione amorosa da singolo a singolo. Si tratta di un nucleo intuitivo e volitivo, la verità originaria di questa particolare esistenza: cioè la verità che viene esperita “mediante l’essere del pensante sulla base della sua libertà” (p. 246), e che la ragione porta alla luce in una comunicazione incessante, con se stessi e con l’altro. Nel secondo volume di Filosofia – da cui traiamo il brano che segue – la fede è presentata invece come uno dei momenti culminanti della coscienza assoluta, in stretta connessione con l’amore (vedi testo precedente). È interessante notare come qui Jaspers distingua la fede “quae creditur” (fede nelle idee, nelle esistenze e nella Trascendenza), dalla fede “qua creditur”, di cui sottolinea, in piena consonanza con Kierkegaard, i caratteri di assoluta rischiosità e di coinvolgimento totale. Anche nel primo capitolo dell’opera La fede filosofica (Piper, München 1948) egli riproporrà la stessa distinzione e si richiamerà a Kierkegaard nel definire la fede “fondamento ed origine del nostro essere autentico” (ivi, p. 15).

Fede è la certezza d’essere dell’amore, divenuta espressamente consapevole. La fede, una volta indipendente, anima con la sua certezza l’amore, che l’ha prodotta. Fede è, inoltre, quella certezza d’essere che diviene attiva nelle azioni incondizionate. Mentre il sapere, con tutte le sue catene di conseguenze, dovrebbe rendere impossibile vivere, la fede è la possibilità di vivere nel sapere. Anche la fede, come origine, è insondabile. Non è voluta, ma è a partire da essa che io voglio. Non viene dimostrata, però si comprende, di volta in volta, in una specifica oggettività di pensieri o immagini; nel chiarificarsi intraprende il cammino verso l’universale. Bisogna chiedersi, riguardo alla fede, che cosa significa credere e in che cosa si crede. Soggettivamente la fede è la maniera in cui l’anima è certa del proprio essere, della propria origine e del proprio fine, pur senza disporre di una concettualità soddisfacente. Oggettivamente la fede viene espressa come un contenuto, il quale però, come tale, in se stesso resta incomprensibile, anzi piuttosto in quanto meramente oggettivo di nuovo si dissolve. a) In che cosa si crede La fede nel suo manifestarsi non crede qualcosa, bensì crede in qualcosa. Essa non ha un sapere incerto di qualcosa di oggettivo, non è simile a un opinare che qualcosa, che non si può vedere, ci sia; è piuttosto, nell’Esserci presente, la certezza dell’essere, in cui essa crede in quanto si manifesta in un’esistenza e in un’idea. Invece di abbandonare questo mondo a favore di un aldilà, con un incerto sapere, essa resta nel mondo, nel quale scorge quello in cui può credere in rapporto alla Trascendenza. Così io credo in un uomo, e credo

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in realtà oggettive che sono per me manifestazioni di un’idea, a cui prendo parte, come la patria, il matrimonio, la scienza, la professione. La fede in un’idea che mi appassiona è l’unità di una causa divenuta comune nel mondo oggettivo. La fede in un uomo come esistenza, però, è la condizione preliminare, senza la quale la fede nelle idee perde il suo terreno e diviene molto presto esercizio di un’attività dedita solo più a realtà oggettive, in ordinamenti costrittivi, secondo regole che si debbono subire e a cui si adempie per abitudine. Soltanto dove l’idea diviene reale negli uomini, intesi come esistenze, per cui in essa si crede tramite le loro singole realtà, essa è vera ed efficace. Dove le esistenze diventano indifferenti e restano solo i meri individui, cessano anche le idee. Invece dove tutte le idee collassano, resta tuttavia possibile la fede nell’esistenza, in rapporto ai singoli. In un mondo che naufraga, resta l’amore da esistenza a esistenza, povero, perché senza spazio oggettivo nella realtà, ma potente, perché diviene sempre di nuovo origine della certezza d’essere. Da questa esistenza possono essere generate nuove idee nel mondo che ci è dato, che è termine della nostra attività e conoscenza, e che così da noi penetrato può venire nuovamente trasformato dalle idee. Sul fondamento della fede nelle idee e nell’esistenza si sviluppa la fede nella Trascendenza. Ancor prima di ogni oggettivazione, l’esistenza possibile ha una coscienza di Trascendenza. Prima di ogni riflessione su di una determinata Trascendenza, l’esistenza è al sicuro in essa o in tensione con essa. La sicurezza o la sua messa in crisi sono quel che sta alla base della forma di volta in volta storica dell’autochiarificazione oggettiva, che quando viene elaborata in una sistematica è metafisica e teologia. Se il contenuto oggettivo viene fissato come tale, interviene una sua falsificazione, per cui il chiarimento della fede diviene un’oggettività in sé sussistente. In luogo della fede interviene un sapere superstizioso. La fede s’irrigidisce; si alimenta di qualcosa di saputo, invece che della certezza d’essere, di un fanatismo angusto, invece che dell’amore; in tal modo ha perso, con la sua origine, anche il suo valore. Anche quando la fede abbandona il mondo cessa di esistere; si smarrisce nell’unione mistica con l’essere. Quando io, disprezzando me stesso e il mondo, mi unisco alla divinità, diventando addirittura Dio, non credo più. La fede è estranea all’unione mistica, la quale non crede, ma possiede. La fede è, nel fenomeno, certezza d’essere, è fede nella divinità che si mantiene così completamente celata, che per un sapere progrediente diviene solo sempre più inverosimile. Essa è certezza, in una contemporanea lontananza.

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b) Che cosa è il credere La fede mi sfugge di mano, se diviene certa in maniera razionalmente costringente. Là dove so in modo razionalmente fondato, io non credo. Riconoscere qualcosa di valido oggettivamente non richiede l’essere dell’esistenza; perciò è falsa quella fede che si presenta come oggettivamente certa. La fede è rischio. Una completa incertezza oggettiva è sostrato di un’autentica fede. Se la divinità fosse visibile o dimostrabile, non avrei bisogno di credere. Piuttosto è il vedere esaurirsi tutte le fonti oggettive della fede che costituisce l’esperienza in cui la libertà dell’esistenza diviene consapevole della sua origine in rapporto alla Trascendenza. Il sapere coglie ciò che è finito nel mondo, la fede coglie il vero essere. Il sapere sottostà, in ogni sicurezza che guadagna, al dubbio critico, in un progresso incessante; la fede si attua mettendosi alla prova come quella forza che sostiene l’esistenza. Ciò che io credo, mentre mi diviene eloquente in termini oggettivi, io lo sono tramite il mio me stesso, non passivamente, né in maniera oggettiva, né come qualcuno che solo accoglie qualcosa, ma come il mio stesso essere di cui mi so responsabile, sebbene con volontà e intelligenza non sia in grado di arrivare a credere mediante uno sforzo. La verità della mia fede è messa alla prova, nel suo oggettivarsi, dalla mia coscienza morale, in rapporto alla storica situazione. Ogni sua verifica razionale, invece, significa piuttosto il suo venire allo scoperto come origine ingiustificabile. Fede è un affidarsi, come speranza indistruttibile. In essa la consapevolezza dell’incertezza di ogni cosa nell’ambito dell’apparenza si risolve in un aver fiducia nel fondamento dell’essere. La certezza d’essere che in essa si attua si sa posta di fronte alla Trascendenza, senza che un rapporto sensibilmente reale con questa possa, in maniera illusoria, conferire al credere verità. c) Fede attiva La fede è certezza d’essere, all’origine di ogni agire incondizionato; è storicità. Nell’agire, quand’esso non accada come qualcosa di casuale in vista di scopi meramente momentanei, ma riposi sulla profondità di un fondamento, che vincola senza riguardo a scopi e fa da guida, fede è disponibilità a tutto sopportare. In essa si può tenere assieme l’attività rivolta a scopi con la certezza di fare il vero, quand’anche tutto naufraghi. Il fatto che la divinità si sottragga ad ogni nostro indagare e sondare conferisce calma e dà l’impulso per fare quello che posso, finché è possibile: Nella realtà dell’Esserci nessuna prognosi è sicura; tutto si trova entro i confini di una molto grande verosimiglianza o inverosimiglianza. Come

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esseri viventi cerchiamo sicurezza; disperiamo davanti all’impossibilità. La fede però è capace di rinunciare alla sicurezza nel mondo fenomenico. In ogni pericolo, essa tien fermo alla possibilità, e non riconosce, nel mondo, né sicurezza né impossibilità. Questa fede attiva ha la sua più alta verifica quando l’attuazione operosa della sua storica unicità si coniuga con la consapevolezza, apparentemente contrastante, della rovina finale di tutto, dei miei prossimi, di me stesso, del mio popolo, di ogni realizzazione oggettiva. Se tale consapevolezza si mantiene pura, nella misura in cui non cede né ad una fissazione di un aldilà (come di un regno sussistente) oppure di un aldiqua (come il perdurante sopravvivere del proprio popolo, o il progredire indefinito nella realizzazione di idee), allora è davvero possibile la fede in una trascendente certezza d’essere, attraverso un vincolo con la divinità che non è più intorbidito da nessun sentimento interessato.

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DA FILOSOFIA II (1932)

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3 COMUNICAZIONE E AMORE

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(da Filosofia II, cap. 3, pp. 70-73)

In Filosofia II un intero capitolo (il terzo), assai importante, è dedicato al tema della comunicazione (Kommunikation). In esso Jaspers dispiega la sua grande competenza psicologica, ma il discorso trascende la psicologia, ed è filosofico-esistenziale. La comunicazione infatti rende possibile la genesi del Sé, cioè dell’essere autentico dell’uomo, che non può costituirsi in solitudine o soltanto a contatto con la natura: essa è una forma di agire libero e incondizionato in cui le esistenze non tanto entrano in relazione, quando si generano reciprocamente nella relazione. Jaspers distingue fra una comunicazione oggettiva, nell’ambito dell’Esserci – che conosce diverse forme – e quella, del tutto inoggettivabile, che concerne i singoli nella loro più segreta ipseità. Nell’ambito dell’Esserci si vive anzitutto in un rapporto di identificazione unipatica con gli altri, si tratti della famiglia, per il fanciullo, o di una comunità primitiva; in un secondo momento si sperimenta la comunicazione che lega tra loro i membri della intersoggettività scientifica, capaci di comunicare sulla base di dati oggettivi; infine possiamo partecipare con altri individui e in ruoli diversi alla realizzazione di un’idea storica o dedicarci a una causa comune. In tutti questi casi – sia pure in misura diversa-restiamo esseri sostituibili. Solo a livello esistenziale noi ci incontriamo come realtà uniche e assolutamente insostituibili, cioè come “questi due” singoli. Jaspers dichiara che il fondamento della comunicazione esistenziale non può essere altro che l’amore; ma l’amore, a sua volta, rimanda all’Origine, all’Uno della Trascendenza. In un’epoca in cui sembra trionfare la comunicazione cosiddetta “di massa” o fra individui sostanzialmente estranei gli uni agli altri, queste pagine di Jaspers rappresentano un severo richiamo a non smarrire il significato impegnativo ma anche profondo e affascinante della parola comunicazione.

Dal momento che – come abbiamo visto – il se stesso sorge soltanto nella comunicazione, né io né l’altro siamo sostanze ontologicamente statiche, preesistenti alla comunicazione. Al contrario la comunicazione esistenziale sembra cessare proprio quando assumo me stesso e l’altro come tali entità stabilmente sussistenti, perché

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allora essa è come un contatto, privo di conseguenze per l’essere del Sé, fra esseri in fondo solipsistici. Il diventar se stessi nella comunicazione ha quindi tutta l’apparenza di una creazione dal nulla. È come se nella polarità di solitudine e unione, di divenir manifesto e divenir reale, si rendesse possibile una lotta solidale, la cui origine è inconoscibile, per far sorgere il Sé da se stesso. In realtà occorre contrapporre ad ogni affermazione, che ha la pretesa di fissare l’essere singolo indipendente come una chiusa monade, la dialettica di un divenire, nel quale i due partner sono soltanto quello che, nella reciprocità, generano come Sé di ciascuno. Però l’asserto secondo cui si tratta di un esistenziale sorgere dal nulla ha solo validità negativa, contrapponendosi al tentativo di spiegare oggettivamente tale sorgere derivandolo da una realtà presupposta, e non ha il significato di un asserto per cui il Sé possa sapersi positivamente colto in un’origine. Bisognerebbe chiedersi, invece, in che modo si debba intendere quel che precede l’essere dell’esistenza e in che senso lo preceda, venendo l’esistenza alla luce come se stesso nella comunicazione. Quel che precede è la possibilità, sotto forma di ardente insoddisfazione, che già significa disponibilità per l’amico, e capacità di trovarlo, perché viene sottoposta a verifica ogni anticipazione ingannevole. Sul piano della realtà di fatto, c’è l’effettivo incontrarsi nel tempo, come circostanza fortuita. Però ciò che precede come sostanza è l’amore, in sé ingiustificabile, nei confronti del singolo. Mentre dal punto di vista della considerazione oggettiva l’origine ontologica del se stesso è il nulla, per la coscienza esistenziale essa è la Trascendenza, in questa forma storica rappresentata dall’insoddisfazione che predispone, dal caso che rende possibile la realtà effettiva, dall’amore che, dall’intimo, muove il se stesso. L’amore non è ancora la comunicazione, bensì la sua sorgente, che attraverso la comunicazione si chiarifica. Quell’unisono di due che si appartengono l’un l’altro – mondanamente incomprensibile – fa percepire una realtà incondizionata, che è d’ora innanzi presupposto della comunicazione e che soltanto può consentire l’attivarsi in essa della lotta amorosa, in vista di un’implacabile veridicità. L’amore è di volta in volta unico. S’incarna nella realtà di quest’essere umano, con la sua oscurità. Accade come se in questa manifestazione l’essere dell’origine parlasse a se stesso. Il contatto più profondo si trova di per sé nella Trascendenza. Il corso del tempo è come lo svelarsi di qualcosa che è eterno presente, il ritrovarsi di coloro che già si appartengono nell’eternità. Come Plotino, a proposito dell’Uno, dice che è stabilmente presente e che

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DA FILOSOFIA II (1932)

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l’uomo, per lo più chiuso in se stesso, dovrebbe soltanto aprirsi ad esso: infatti esso c’è sempre, e insieme non c’è, non viene e non va; così l’innamorata dice nella canzone:

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Non mi dire benvenuta, quando vengo, né addio, mio tesoro, quando vado, perché mai non vengo, quando vengo né mai vado via, quando vado.

Io e te, separati nella realtà oggettiva, siamo uno nella Trascendenza, né là ci incontriamo o ci manchiamo; qui però stiamo nel divenire della comunicazione in lotta, che ci manifesta l’uno all’altro e ci conferma a noi stessi; ma sempre nel rischio. Dove si trovi questa unità, ecco il salto da ciò che è già incomprensibile all’impensabile in assoluto. Nella manifestazione temporale però rimane il movimento dell’amore. Sorge come un amare ed essere amati senza motivazioni, all’inizio è vissuto come decisione concernente l’essere stesso di colui che ama, e poi come necessità, certa di se stessa. Scorgere l’essere in questo essere umano è come scorgere l’essere stesso nella profondità della sua storica manifestazione; la visione dell’uomo diventa trasfigurante, senza illusioni. Nello sviluppo che segue, il mio amore per l’altro diviene slancio, l’essere amati appello al se stesso autentico. La realtà della vita porta le dure fattualità da attraversare, mentre la comunicazione porta quel manifestarsi che solo conduce all’attuazione del Sé. Nella comunicazione ciascuno è in tutto debitore dell’altro, reciprocamente. Poiché il vero amore è indissolubile, resta la comunità di destino, l’esperienza non solo di pericolo e perdita tanto nella vita che nel se stesso, bensì anche del naufragio radicale nel fenomeno. Sebbene l’amore sia certo di sé, il Sé dell’uomo diviene problematico a se stesso per la possibilità di confondersi: ad esempio quando credo di amare, e un deciso coinvolgimento di tutto il mio essere sembra invece portarmi a restare invischiato in qualcosa di falso; quando l’erotica, coinvolgendomi fino a sopraffarmi, m’induce a realizzare un’unione vitale e spirituale che, essendo esperita come un accadere condizionato, non è in grado di obbligare in modo assoluto la totalità dell’uomo; quando per sfuggire alla solitudine mi aggrappo all’altro disperatamente, rappresentandomelo, ma in maniera illusoria, come un essere cui posso legare la mia volontà di dedizione, sicché finisco per surrogare il movimento del vero amore con il restare incatenato ad un idolo – incatenamento estenuante, perché debbo quotidianamente portare avanti l’inganno. Oppure, infine, la mia volontà di possesso, che vorrebbe possedere e difendere quel ch’io presumo di amare e rispettare, mi porta a non amare né rispettare veramente, per cui attribuisco valore al giudizio che altri danno

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circa il mio amore o il mio essere amato, e se il giudizio è negativo ne sono turbato fin nel profondo. Nessuna forza che inibisca la comunicazione può essere amore. L’amore che si attua in una comunicazione ingaggiata senza riserve, incondizionatamente, è indistruttibile, e ciò significa: la fedeltà resta anche alla fine. Però senza comunicazione esistenziale ogni amore è problematico. Anche se non è la comunicazione a fondare l’amore, non vi è nessun amore che non trovi nella comunicazione la sua verifica. Quando la comunicazione si rompe in maniera definitiva, cessa anche l’amore, perché in fondo era un inganno; dove invece era vero amore, la comunicazione non può cessare, ma deve mutare forma. La comunicazione è il movimento riempito dall’amore nella realtà temporale, movimento che sembra andare verso l’unificazione, però nel conseguimento dell’unità dovrebbe inevitabilmente venir meno. L’essere in due non consente riposo all’amore. Quel che nella Trascendenza è certo pensato come unità, se fosse considerato come effettivamente tale nella realtà, o come già realizzato nella Trascendenza stessa, farebbe colare a picco l’amore nell’assenza di processualità, propria di un presunto stato di fatto. L’amore, origine sostanziale del Sé nella comunicazione, può generare il se stesso nel movimento del suo disvelarsi personale, ma non gli consente di concludere in un compimento definitivo.

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DA FILOSOFIA II (1932)

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4 MANIFESTARSI-REALIZZARSI

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(da Filosofia II, cap. 3, pp. 64-65)

Chiarificando il processo della comunicazione esistenziale, Jaspers ne mette in luce il presupposto fondamentale: qui manifestarsi (a sé e all’altro) e attuarsi (come esistenza possibile) sono un’unica, medesima cosa. Però manifestarsi non significa perseguire una conoscenza psicologica di sé e dell’altro, bensì rischiare di modificarsi e di trasformarsi nel dialogo, senza opporre difese o barriere per rinchiudersi nella realtà fattuale, ma volendo risolutamente diventar se stessi insieme con l’altro. Sono, questi, passi in cui si avverte fortemente la presenza di Kierkegaard (soprattutto per il tema della “chiusura”, centrale tanto ne Il concetto dell’angoscia che ne La malattia per la morte). Si noti, tuttavia, la particolare insistenza con cui Jaspers sottolinea la reciprocità tra i singoli impegnati nel processo comunicativo.

Nella comunicazione io mi manifesto a me stesso insieme con l’altro. Questo manifestarsi è però, ad un tempo, il realizzarsi dell’io come se stesso. Se penso che il divenire manifesto sia soltanto il chiarimento del carattere innato, con un pensiero simile lascio cadere la possibilità dell’esistenza, che, nel processo del manifestarsi, mentre diviene chiara a se stessa, anche si crea. Per il pensiero oggettivo, naturalmente, può manifestarsi soltanto qualcosa che in precedenza è; invece un divenire manifesto che, con questo stesso divenire, porti insieme l’essere [di ciò che si manifesta] è come un prodursi dal nulla, e dunque non ha il senso di ciò che accade nell’essere oggettivo. Se mi colloco in quel punto di vista per cui io sono fatto così come son nato, e vivendo posso riconoscere le mie disposizioni naturali, però rimango quello che sono, allora mi rapporto a me stesso osservandomi psicologicamente, nel presupposto che una conoscenza empirica completa possa prima o poi concludere su di me, dicendomi che cosa sono. Questo è giusto per quanto riguarda le disposizioni e le qualità: conoscerle fa parte dell’orien-

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

tamento nella mia situazione. Ma la coscienza che, come esistenza possibile, decide, assume queste datità; cercare la chiarezza per ciò che concerne se stessi è soltanto una condizione del divenire manifesti esistenzialmente, grazie a cui si chiarisce mondanamente non solo quello che sono come Esserci empirico, ma quello che sono come me stesso. In vista di tale manifestarsi, il riconoscimento dei limiti reali nella situazione data significa che con queste datità io ottengo solo il materiale per una diversa realizzazione; dunque un simile riconoscimento del dato include al contempo – giacché nessun sapere è definitivo – la possibilità, inverosimile per chi abbia una prospettiva empirica sulle cose, dell’oltrepassamento di ogni limite. La volontà di manifestazione (Wille zur Offenbarkeit) esistenziale racchiude in sé ciò che, in apparenza, è opposto: la chiarezza spietata sulla realtà empirica e la possibilità di diventare per suo tramite quello che sono eternamente; l’incatenamento a quanto nella realtà empirica è inevitabile e la libertà di modificarlo appropriandomene; il riconoscimento dell’essere-così (Sosein) e il ripudio di ogni fissazione nell’esser-così. Questa volontà di manifestazione si espone interamente al rischio della comunicazione, nella quale soltanto può realizzarsi: essa si arrischia a mettere in gioco ogni esser-così, perché sa che solo in questo modo l’esistenza propria può giungere a sé. La volontà di chiusura (di una maschera, di innalzare barriere protettive), al contrario, entra in comunicazione solo apparentemente e non si espone al rischio, poiché scambia il suo esser-così con il suo essere eterno e vuol salvare l’esser-così. Per essa il manifestarsi significherebbe l’annientamento, mentre il manifestarsi del se stesso significa oltrepassare la realtà meramente empirica, abbracciandola in forza dell’esistenza possibile. Infatti nel manifestarmi io mi perdo (come Esserci empiricamente sussistente) per conquistarmi (come esistenza possibile); nella chiusura mi conservo (nella mia sussistenza empirica), ma inesorabilmente mi perdo (come esistenza possibile). Manifestazione e realtà esistenziale stanno in un rapporto tale per cui, reciprocamente, sembrano sorgere dal nulla e produrre se stesse. Questo processo del realizzarsi manifestandosi non si compie in un’esistenza isolata, bensì solo insieme con l’altro. In quanto singolo non sono per me stesso né manifesto né reale. Il processo del divenire manifesti nella comunicazione è quella lotta di genere unico che, in quanto lotta è, al contempo, amore.

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DA FILOSOFIA II (1932)

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5 LOTTA AMOROSA

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(da Filosofia II, cap. 3, pp. 65-67)

Nella comunicazione tra esistenze si discute e si è messi in discussione. Ciascuno dei due partner lotta con l’altro affinché emerga il proprio Sé insieme a quello dell’altro, vincendo le resistenze dell’Esserci, che tende a chiudersi nello stato di fatto e rifiuta di modificarsi e di trasformarsi. Questa lotta incomparabile, senza volontà di sopraffazione, richiede la massima sincerità e trasparenza, sia con se stessi che con l’altro. I comunicanti si collocano sullo stesso piano, vittoria e sconfitta sono comuni. Se finalità della lotta sono l’attuazione delle esistenze e la loro interiore libertà, il medium in cui essa avviene è certamente la ragione, tema su cui Jaspers si soffermerà nella riflessione successiva a Filosofia. Tuttavia ancora in Della Verità – a proposito di comunicazione e ragione – Jaspers ribadirà che: “Solo da singolo a singolo viene a manifestarsi nel comunicare quella profondità che è accessibile all’uomo quando si incontrano verità con verità e riescono a sfiorarsi. Nella misura in cui poggia alla radice su questo tipo di comunicazione, quella che si estende in ampiezza può vivere nelle istituzioni pubbliche visibili, in esse e tra di esse. Tolta questa radice, esse divengono attività senza idee e senza esistenze”. Inoltre: “Tale comunicazione aperta da ogni lato è empiricamente – cioè se si considera com’è, di fatto, l’umanità media – qualcosa di inverosimile. Però non è impossibile, bensì, in faccia alla realtà empirica, rappresenta un compito infinito, di cui non si può calcolare in anticipo quale limite possa trovare nella realizzazione” (ivi, pp. 976-77). Occorre riconoscere che la pretesa di tenere assieme unità della verità, esistenzialità (sua incondizionatezza per il singolo) e universale validità si rivela illusoria: ad essa si contrappone l’istanza della comunicazione “nel regno delle verità incondizionate”, nessuna delle quali è “tutto”, ciascuna delle quali riflette in sé lo splendore dell’Uno-tutto (ivi, p. 975). Nel movimento della comunicazione – sottolinea Jaspers nelle stesse pagine – non vengono affatto relativizzate né la verità, né il singolo, né il rapporto del singolo con essa: vengono relativizzate, cioè de-assolutizzate, tutte le oggettivazioni della verità nel tempo: “l’uomo deve vivere nella polarità dell’incondizionato del suo fondamento storico e del relativo della forma divenuta oggettiva”. Due sono infatti gli atteggiamenti che non consentono la comunicazione secondo ragione ed esistenza: da una parte la negazione di ogni incondizionatezza – negazione in cui consiste il vero e proprio “relativismo” – dall’altra l’assolutizzazione di ciò che assoluto non è. Mentre il secondo atteggiamento

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produce dogmatismo e fanatismo, il primo è alla base di quella pseudo-tolleranza con cui la modernità traveste il suo sostanziale nichilismo.

In quanto amore, questa comunicazione non è l’amore cieco, per il quale non fa differenza qualunque oggetto incontri, ma è quell’amore che lotta, e che vuole vederci chiaro. Esso mette in questione, rende le cose difficili, pone esigenze, come esistenza possibile coglie l’altra esistenza possibile. Come lotta, tale comunicazione è la lotta che il singolo combatte in vista dell’esistenza, ed è, contemporaneamente, lotta per l’esistenza propria e per quella dell’altro. Mentre nella lotta per la sopravvivenza è valido l’uso di tutte le armi, e astuzia e inganno diventano inevitabili, giustificandosi come condotta nei confronti dell’altro che è il nemico – qui, infatti, l’altro è, in quanto assolutamente altro, simile alla resistenza opposta dalla natura – nella lotta in vista dell’esistenza si ha qualcosa di infinitamente diverso: si tratta dell’apertura senza riserve, dell’esclusione di qualunque forma di potere o di sopraffazione, perché sono in gioco, insieme, tanto il se stesso dell’altro quanto il proprio. Entrambi in questa lotta osano mostrarsi in totale franchezza, e lasciarsi porre in questione. Se qualcosa come l’esistenza è possibile, allora apparirà in questo conquistarsi (che non può mai diventare oggettivo) esponendosi nella lotta (un impegno che solo in parte si oggettiva e che comunque resta incomprensibile sulla base di motivazioni psicologiche). Nella lotta comunicativa si realizza un’incomparabile solidarietà: solo essa rende possibile quell’estrema problematizzazione, perché sostiene l’ingaggio e lo rende comune, in modo che entrambi rispondono del risultato. La solidarietà confina la lotta nell’ambito della comunicazione esistenziale che è sempre, di volta in volta, il segreto di due soggetti, cosicché per chi osserva dall’esterno possono essere gli amici più prossimi quelli che con maggior risolutezza lottano l’uno con l’altro per l’esistenza, in una lotta dove vittoria e sconfitta sono comuni. Per tale lotta finalizzata alla manifestazione reciproca si potrebbero fissare delle regole: non si vuole né sopraffare l’altro né sconfiggerlo; se impulsi di tal genere intervengono, diventano elementi di disturbo e sono sentiti come colpa, per cui vengono, a loro volta, combattuti. Tutte le carte sono scoperte, non si mantiene nessuna calcolata riservatezza. Da entrambe le parti si cerca la trasparenza, non solo per quel che concerne i contenuti oggettivi della comunicazione, ma anche riguardo ai mezzi impiegati nel problematizzare e nel lottare. Ognuno dei due penetra, con l’altro, in se stesso.

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DA FILOSOFIA II (1932)

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Non si tratta, infatti, della lotta di due esistenze l’una contro l’altra, bensì di un lottare in comune contro se stesso e contro l’altro, però solo in vista della verità. Questo lottare può avvenire solo su di un livello di totale parità. In caso di disparità nei mezzi tecnici della lotta (nel sapere, nell’intelligenza, nella memoria e nella resistenza alla fatica) i due ristabiliscono l’uguaglianza di livello mediante un reciproco riequilibrio di tutte le forze. Però questo eguagliamento implica che ciascuno renda l’impresa – dal punto di vista esistenziale – quanto più difficile possibile, sia a se medesimo che all’altro. Un atteggiamento cavalleresco o riguardoso, nel rendere le cose più facili, ha qui il valore di una provvisoria rassicurazione, fatta di comune accordo, in momenti di forte pressione, che talora si presentano nella nostra vita, e per periodi limitati. Ma qualora l’atteggiamento persista, la comunicazione è tolta. Il render le cose difficili vale però soltanto in relazione ai moventi più profondi della decisione, per quello che viene deciso. Quando prevale una forza superiore nei mezzi spirituali a disposizione, o s’insinua addirittura una specie di sofistica, la comunicazione cessa. Nella comunicazione che lotta per l’esistenza ciascuno mette tutto a disposizione dell’altro. Niente di ciò che è avvertito come rilevante può rimanere inquestionato nel comunicare. Esistendo, io prendo sul serio la frase dell’altro, fin nelle sue sfumature, e reagisco ad essa, sia che l’altro interroghi consapevolmente, magari indirettamente, e voglia ottenere risposta, sia che in maniera istintiva propriamente intendesse sorvolare, non cercasse risposta, però, adesso, è costretto ad ascoltare. Qualunque cosa poi dica io stesso, è inteso come un interrogare: voglio avere risposta, mai solo contraddire o prevaricare. È proprio della comunicazione autentica il poter discorrere e porre domande senza limiti. Quando, sul momento, non si dà una risposta soddisfacente, resta come un compito, che non viene dimenticato. Siccome la lotta ha luogo sullo stesso piano, già in quanto lotta implica un riconoscimento, così come nella messa in questione è implicita un’interiore adesione. È così che nella comunicazione esistenziale la solidarietà si manifesta proprio nei momenti di lotta più intensa. Questa lotta, lungi dal dividere, è proprio la via sulla quale le esistenze si vincolano in totale veracità. Regola di tale solidarietà è perciò che questi uomini si fidano l’uno dell’altro in maniera assoluta, e che il loro lottare non può diventare visibile, oggettivo per altri uomini, così da poter fondare partiti. È lotta per la verità dell’esistenza, non per qualcosa di universalmente valido. […]

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Gertrud e Karl Jaspers nel 1911.

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APPENDICE

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LETTERA DI KARL JASPERS ALLA MOGLIE GERTRUD MAYER (1879-1974) PER IL SUO OTTANTESIMO COMPLEANNO

Secondo Jaspers si filosofa sempre in coppia: la verità comincia in due. Un caso particolare è rappresentato dalla coppia uomo-donna: sostenuta dall’amore metafisico, che è irruzione dell’eterno nel tempo e che prende corpo nel matrimonio, essa ingaggia, nel corso della vita, una lotta amorosa senza limiti né riserve, in cui entrambi i partner, divenendo se stessi e superando la disperazione prodotta dalle situazioni-limite, s’innalzano insieme all’Origine, al divino. Per il rilievo attribuito da Jaspers a questo tema del suo pensiero, qualcuno è arrivato a definire la sua filosofia “una filosofia del matrimonio” (Sternberger). Gertrud Mayer, di famiglia ebrea, fu fedele compagna di K. Jaspers per più di mezzo secolo. Si conobbero – nel periodo in cui il futuro filosofo frequentava ancora la facoltà di Medicina – tramite il fratello di lei; condivisero il lavoro filosofico – Gertrud leggeva tutti gli scritti di Karl e ne discuteva con lui – e restarono uniti anche quando il regime nazionalsocialista pose Jaspers di fronte all’alternativa di divorziare o lasciare l’insegnamento. Si preparavano a morire insieme con una dose di veleno, quando l’esercito americano liberò Heidelberg, la città in cui vivevano e in cui rimasero fino a che, nel 1949, Jaspers accettò la chiamata dall’Università di Basilea. Così Karl, in alcune pagine autobiografiche, descrive l’incontro con Gertrud:

Grazie ad Ernst Mayer conobbi sua sorella Gertrud. Viveva a quell’epoca (1907) ad Heidelberg. Il fratello le aveva detto: “Oggi ho conosciuto uno studente diverso da tutti gli altri, devi per forza conoscerlo”. Le aveva riferito anche che ero malato. Gertrud, che aveva avuto esperienze molto dolorose (la sorella era malata di mente, un amico si era suicidato, e altri casi penosi di questo genere) aveva subito, nel destino della sua giovinezza, una sorta di sradicamento dalla vita. Era stata trasformata nel suo essere, e il suo modo di valutare le cose aveva perduto la naturale spontaneità. Però voleva vivere, e non schivare la sofferenza. Le era sembrato che l’unica strada da intraprendere, rinunciando a restarsene immersa nel dolore, dovesse trovarsi nell’attività

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oggettiva: aveva così deciso di recuperare la sua licenza di scuola superiore e di studiare. In quel periodo studiava greco e latino e non voleva distrazioni. Fu lieta che il fratello avesse trovato un amico, ma non volle conoscerlo, tanto più che era malato. Solo alla fine del semestre e solo per compiacere il fratello acconsentì ad un incontro. Durante quella visita fu come se cadesse un fulmine, già nel primo istante, quando Gertrud, che ancora mi mostrava le spalle, si alzò e mi si rivolse. Fu come se, in quell’attimo, s’incontrassero due esseri umani legati già da prima... Dal momento in cui c’è stata Gertrud, cioè dal 1907, è intervenuto in me un mutamento. Fino ad allora ero stato – nonostante l’insoddisfazione e lo struggimento – un uomo desideroso di sapere, interessato solo alla verità, freddo. Ora divenni uno a cui ogni giorno viene ricordato che è un essere umano: non con parole, ma con la realtà concreta del compagno di vita, che silenziosamente esige: non ti è concesso pensare che con la tua attività spirituale hai già fatto abbastanza! Gertrud si preoccupa che io non sia troppo distratto, mi ricorda quanto sono immerso nelle umane faccende, in cui tendo ad essere così smemorato. Legge ed esamina tutto quello che scrivo. La sua presenza risveglia in me quegli impulsi che m’impediscono di sprofondare nel mondo spirituale e nel puro pensiero. Ma ancor più: sono convinto che, per quanta profondità abbia la mia filosofia, non l’avrebbe mai raggiunta senza Gertrud ... (da Schicksal und Wille, cit. pp. 31-32). La vicenda filosofico-esistenziale di Gertrud e Karl Jaspers sembra confermare la dichiarazione – particolarmente felice per il riferimento biblico – del filosofo John Stuart Mill (Sul matrimonio e il divorzio, 1833 circa): “Nella ricerca della verità, come in ogni altra cosa, ‘non è bene che l’uomo sia solo’”. La lettera, che non è mai apparsa in lingua italiana, è tratta dal volume collettaneo K. Jaspers’Philosophie. Gegenwärtigkeit und Zukunft, a cura di R. Wisser e L. H. Ehrlich, Königshausen & Neumann, Würzburg 2003, pp. 309-329.

Per i tuoi ottant’anni, in luogo di un discorso Mia amata Trudi! Che tu arrivassi al tuo ottantesimo compleanno era una possibilità, ma che io festeggi con te questo giorno è quasi un miracolo. Metto per iscritto alcune considerazioni, piccoli messaggi d’amore, perché forse ti fa piacere. Possa quel che d’antico già altre volte t’ho detto risultare sempre nuovo!

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APPENDICE

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*** Siamo entrambi avanti negli anni. Non viviamo ancora in pianissimo, però in piano. Tu non hai più aspettative dal mondo esterno, io ho ancora sempre dei fini, che mi propongo non in maniera appassionata, ma con un certo moto interiore. E tu vuoi così, perché la vita quotidiana deve restare piena; nella filosofia tu mi aiuti anche con la tua approvazione, che è di lunga data. Quando ci incontrammo, tu già vivevi immersa in ricordi inestirpabili. Essi furono per me, nel corso delle nostre vite, unite da più di mezzo secolo, la nostra ricchezza comune, che, con l’età, diviene sempre più importante. Però se il ricordo fosse tutto, la vita sarebbe già alla fine. Esso piuttosto conferisce alla nostra vecchiaia quel fondamento, che ci sostiene. Dalla realtà del passato vengono le belle consuetudini, nelle quali però sempre ancora nuovamente fluisce la vita. *** Sebbene tanto diversi nella nostra maniera d’essere, ci siamo fin dall’inizio trovati vicini nel nostro fondamentale credo, che non è un sapere, nelle istanze che riconosciamo, nella ragione. Al di là di tale consonanza, della comunione di vita e della filosofia, il nostro amore ci sembrò avere una base più profonda. Ripenso a quell’attimo, alla stazione di Heidelberg, mentre armeggiavo con il tuo bagaglio (credo fossi diretta in Svizzera). Avevi parlato dell’eventualità di recarti forse in un’altra città per portare avanti la tua preparazione, in vista del diploma. Udendo questo, ho avuto un soprassalto. Allora, rimasto solo con me stesso, alla stazione, pensando a quel che avevi detto, sentivo così: non può essere che se ne vada, noi siamo destinati da sempre, la nostra separazione sarebbe la morte senza aver vissuto – qui è in gioco tutto, non può essere, però temporeggiare non aiuta; allora accadrà da sé, grazie ad un’altra potenza, che noi si resti insieme, dato che si è verificato questo mistero, che nel mondo ci siamo trovati. Che noi siamo due e non diventammo quell’unità, che pure percepimmo in rari attimi, e di cui sempre di nuovo ci accertammo in maniera originaria, è quel che ci consente di restare vivi nel tempo. *** Eravamo tutti e due pronti ad affrontare con coraggio quel tipo di vita che è pienezza di senso, cioè il filosofare. Però solo tu mi hai dato il vero coraggio. Infatti vivendo con te ho trovato quel solido terreno che sostiene in tutte le incertezze del mondo. Certo il cammino della mia attività scientifica non sarebbe stato molto diverso, anche senza di te, però il vero e proprio cammino filosofico, lungo il quale pure la scienza ottiene il proprio senso, divenne soltanto grazie a te un cammino comune. Infatti il “mestiere” della filosofia, cioè la trasposizione del volere fondamentale nel linguaggio del pensiero, potè riuscire solo quando divenne reale quel che si doveva trasporre. Di ciò, però,

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debbo ringraziare, in maniera decisiva, solo te. Tu mi hai portato non solo la sensazione di trovarmi al sicuro, nel mondo, qualcosa di splendido, di felice, capace di ispirare ogni giornata, ma così facendo hai ridestato in me la consapevolezza dell’esser-uomo, della nostra problematicità che corrisponde alle possibilità più alte, qualcosa senza di cui la filosofia rimane vuota, e in vista di cui soltanto essa merita il nostro impegno. Per tutto il corso della mia vita ho avuto entrambe le cose: l’incoraggiamento sempre nuovo da parte del tuo amore per me, e la problematizzazione proveniente dalle tue aspettative nei miei confronti. Quel che ero in grado di fare, tu non l’hai mai sopravvalutato (qualunque fosse l’importanza del riconoscimento che mi veniva pubblicamente tributato). Dicesti, già il primo anno del nostro matrimonio: tu non sei un genio. Questo, però, non lo dicesti con l’intenzione di sminuirmi, bensì per preservare la veridicità, senza di cui non può sorgere niente di fruttuoso, e per distogliermi da una falsa autoconsapevolezza, che annienta verità e serietà. Ma non meno efficace di questo fu il fatto che nel corso della nostra vita non hai mai ribassato sull’esigenza: non dovevo né compiacermi di me stesso o irrigidirmi, né riposarmi sugli allori, né disperdermi in futilità: malgrado il lavoro, dovevo restare uomo. Alle tue lodi piene d’amore debbo d’aver ricevuto sempre nuovamente impulso, alle tue sferzate, piene di sollecitudine per la mia anima, debbo d’aver sempre di nuovo esercitato la capacità di auto-critica. Anche se, forse, in un moto di suscettibilità o di collera mi hai fatto qualche volta torto, fu questo torto ancor sempre un simbolo della grande, instancabile, premurosa, vera messa in questione. *** Quando il mondo ci lasciò in disparte: quando eravamo esclusi e vivevamo in solitudine l’uno per l’altra, consegnati solo a noi stessi, facendo esperienza del detto: la verità comincia in due; allora fu il quotidiano mestiere della filosofia a sembrarci ancora pieno di senso. Non posso dimenticare come io lavorassi allora alla mia opera Della Verità e come tu leggessi, facessi le tue osservazioni su quanto avevi letto e trascrivessi tutto; così entrambi avevamo in questa attività un motivo che ci guidava nel vivere – sempre con la debole, talora molto debole speranza di sopravvivere e di trovare ancora una volta la nostra via nel mondo. *** Tu avevi avuto già nell’amata casa dei genitori una vita umanamente ricca, avevi alle tue spalle le grandi scosse che avevano turbato la tua giovinezza, allorché iniziammo, ad Heidelberg, la nostra vita insieme. Già avevi inclinazione a chiuderti nel ricordo, però lo facevi con un’insoddisfazione che non riuscivi a sopprimere. Da qui l’ostinazione nello studio per gli esami finali, per trovare nella filosofia qualcosa che potesse

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durare. Attraverso di te imparai allora a conoscere le persone che amavi, seppi delle tue esperienze e delle tue decisioni. Ebbi dall’inizio la consapevolezza di aver incontrato una “personalità matura”, una creatura meravigliosamente incantevole, affascinante, unica, però anche tale che io, giovincello immaturo, avrei potuto non significare nulla per lei. Questa fu la mia prima impressione. Credevo che sarei stato costretto a rinunciare, però non ero senza speranza, quando già il primo giorno l’impatto ebbe l’effetto di un fulmine dal cielo. *** Credo che tu abbia vissuto con maggiore interiorità di me, perché hai subito scosse più profonde. Però potevo rendermene conto e seguirti, facendo mie le tue esperienze, perché fossero realtà condivisa. Tu mi hai avvicinato ancor di più ai miei genitori e a mia sorella. Mi hai reso più consapevole dell’amore che nutrivo per Max Weber. Mi hai sostenuto, quando volli rinunciare alla responsabilità comune per l’Università. In ogni circostanza mi hai ricordato: non dimenticare di mantenerti fedele. Così incontravi in tutto la mia stessa volontà, anzi la rafforzavi e la ridestavi. Se ero stanco, tu eri la mia fiamma. Io avevo forza lavorativa, tenacia malgrado ogni debolezza, la volontà di non perdermi d’animo malgrado la malattia; ma eri tu che in me portavi la vita a quel livello di potenziamento, in cui soltanto è possibile che tali buone qualità mantengano il loro senso. *** Gli attacchi della depressione ti hanno spesso prostrata, un tempo, così almeno mi sembra, con molta più violenza che adesso, nella vecchiaia. Ciò che sconcerta, in questi attacchi, è che aggrediscono come un processo naturale, però i loro tormentosi contenuti hanno un senso che sussiste, in parte, indipendentemente, cosicché gli orribili autoesami non sono senza motivo. Che noi viviamo malgrado la loro realtà dipende da qualcosa che nella depressione s’indebolisce e sembra quasi dissolversi. Però, nonostante quegli attacchi, ciò che quando siamo in buona salute acquista valore per noi, non lo dobbiamo alla salute, anche se, nel tempo, è da essa condizionato. Pure allora restano le grandi questioni: “Vengo, non so da dove; vado, dove non so; mi meraviglio d’essere contento”. Il fatto che abbiamo vissuto e viviamo tutto ciò in comune, nella reciproca partecipazione, frutto del nostro amore, e che non ce ne andiamo soli nel mondo, è, proprio in questo mondo, l’unico punto fermo su cui fare affidamento, perché trae la sua forza da un altrove. Anche quando l’amore tace, quando il giorno è opaco, e il lavoro procede meccanicamente, quella forza è l’unica realtà che dà sostegno e si mostra incrollabile, qualunque cosa accada.

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*** La sostanza del tuo eterno essere, di cui, nella tua autoconsapevolezza, sei solo imperfettamente certa, diviene per te totalmente problematica durante le fasi negative. Solo in modo approssimativo posso descriverti come essa si manifesta: essa appare nella tua commossa immediatezza, nella serietà dell’attimo; si rivela nella maniera in cui ti sono presenti le anime a te legate. Esse ti svelano il loro essere migliore, respirano nel tuo amore, che le ha ridestate e sollecitate. Questa sostanza è qualcosa di evanescente che non si condensa in nessun documento, che non è dimostrabile, qualora tu, in quei giorni di terribile depressione, desiderassi conoscerla; ma potrebbe ugualmente esserti presente con assoluta certezza nella rimembranza dell’intera vita, e, per chi ti ama, sempre traspare nella tua presenza. Questa sostanza è la forza della tua anima che, oppressa dalla sofferenza, pure reagisce con tale profondità, che risponde realmente non solo con parole, ma con tutta se stessa – è ben comprensibile che tu abbia angoscia davanti al fatto che v’è in te un impulso a tirarti indietro, perché è tanto difficile: allora non vorresti conoscere nuove persone che con sé portino la sofferenza della compassione e della corresponsabilità, come un tempo esitasti, nell’approfondire la mia conoscenza, per non caricare sulla tua vita, nuovamente, il peso di quel dolore insopportabile, quella urgenza e quel non poter fare diversamente, che ti coinvolgono nel destino dell’altro. Ed è, questa sostanza, riposta nel tuo destino personale, che alla fine hai abbracciato insieme a me, e che insieme a me hai sperimentato nelle svolte decisive della vita – era impossibile, superficiale, lasciar correre le cose con indifferenza, vivere restando al di sopra di esse. *** La tua bellezza, attraverso la quale già nell’incanto della giovinezza rifulgeva la tua serietà, è rimasta intatta fino ad oggi. La sua realtà risplende pienamente solo nell’amore, per lo sguardo dell’amante. Oggi, con gli ottant’anni, è presente come lo era allora: perché questo amore è per la vita e per sempre. E la tua bellezza, maturata con la vita è oggi, nel senso delle parole di Kierkegaard, ancora più grande, perché ora in essa parlano tutte le azioni e le esperienze di una lunga vita. Nell’apparizione della tua giovinezza questa bellezza fu presente dal primo giorno in cui i nostri sguardi si incrociarono e ancora appare, nella vecchiaia, preservata ed arricchita. Ancora per un poco e poi per sempre Il tuo Kally

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NECROLOGIO DI KARL JASPERS SCRITTO DA LUI MEDESIMO

Annota H. Saner: “non si può dire con sicurezza quando lo abbia scritto. Probabilmente dopo aver ricevuto, nel 1967, la cittadinanza a Basilea, perché è qui un’usanza delle cittadine e dei cittadini di comporre loro stessi il proprio necrologio”1. G. Mann ricorda con commozione che Jaspers “dispose con la massima precisione anche il suo modesto funerale, la sua sepoltura”2. D. Sternberger sottolinea invece che la vicenda temporale di Jaspers si concluse proprio nel giorno (26 febbraio 1969) del novantesimo compleanno della moglie3. Al lettore non sfuggirà il fatto che Jaspers presenta se stesso attraverso i propri “amori”.

Karl Jaspers era nato a Oldenburg, il 23 febbraio del 1883. Ai suoi genitori era grato per l’educazione alla serietà e per l’amore che lo circondò sempre, al Ginnasio per la sua formazione umanistica, all’Università per averlo introdotto nel mondo universale della ricerca. Fu per lui un grande privilegio poter vivere nella libertà del Professore, che assegna a se stesso i suoi compiti. Con la sua attività di insegnamento poté contribuire alla continuità della tradizione, in totale fedeltà al senso dell’Università occidentale. La meravigliosa Heidelberg e la venerabile Basilea furono per lui le città nelle quali, pur con deboli forze, pose mano all’attuazione del proprio compito. Quel che gli fu possibile realizzare, lo fu soltanto grazie a sua moglie Gertrud Mayer. Fin dal periodo degli studi, ella lo ha accompagnato con il suo amore sconfinato, nulla concedendo all’insincerità, facendo valere una severa esigenza. Come se si fossero incontrati in questo mondo provenendo da un inconcepibile altrove, e, pur nulla sapendo, si ricordassero l’uno dell’altra, vissero la quotidianità della vita, che con infinita gratitudine accoglievano nel volgere degli anni, per più di mezzo secolo. 1 2 3

Dalla presentazione del necrologio in Was ist der Mensch?, Piper, München 2000, p. 65. G. Mann, Memorie e pensieri, cit., p. 240. D. Sternberger, Maestri del ’900, cit., p. 70.

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KARL JASPERS O DELLA FILOSOFIA COME AMORE

In questa comunione maturò per lui il filosofare, che in nuce era già presente ai tempi della scuola, ma ora solamente prese a svilupparsi, e divenne professione di entrambi. Nella più stretta ed intima solidarietà sopportarono la sofferenza, cioè, per tutto il tempo della vita, la malattia, che si era installata in lui dalla giovinezza, e, per dodici anni, l’oppressione del nazionalsocialismo. Attraversarono, miracolosamente protetti, tutto ciò che li minacciava. La perdita della patria politica lo spinse in un’assenza di terreno, in cui egli, insieme con la moglie, si aggrappò solo all’origine dell’umanità in generale, all’amicizia con alcune amate persone in Germania e disperse nel mondo, al sogno di un futuro cosmopolitismo. Fu per lui l’ultimo dono trovare a Basilea, come ospite, nella tradizione europea, nella libertà, la pace di un asilo. Dedicò tutte le sue forze di questi anni alla prosecuzione del suo lavoro filosofico in sé interminabile, con il quale, più presentendo che sapendo, con tentativi e non presumendo di possedere, volle partecipare al compito dell’epoca, cioè trovare la via dalla fine della filosofia europea alla sopraggiungente filosofia mondiale.

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Memo

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5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

G. de Martino, Muratori filosofo. Ragione filosofica e coscienza storica in L.A. Muratori D. Felice (a cura di), Leggere l’Esprit des Lois. Stato, società e storia nel pensiero di Montesquieu D. Felice (a cura di), Dispotismo. Genesi e sviluppo di un concetto filosofico-politico C. Campa, Il musicista filosofo e le passioni. Linguaggio e retorica dei suoni nel Seicento europeo R. Finelli, F. Papa, M. Montanari, G. Cascione, Le libertà dei moderni. Filosofie e teorie politiche della modernità C. Campa, La repubblica dei suoni. Estetica e filosofia del linguaggio musicale nel Settecento C. Lalli, Libertà procreativa C. Campa, Furori e armonie. Utopie della musica antica nella tradizione umanista R. Pisconti, Applicare Wittgenstein al pensiero femminista D. Felice (a cura di), Governo misto. Ricostruzione di un’idea M.L. Basso, Karl Jaspers o della filosofia come amore

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