Storia della filosofia come stupore

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Indice

1 Avvertenza 3

La scuola di Mileto: Talete

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La scuola ionica e la scuola eleatica: Eraclito e Parmenide

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Zenone e gli atomisti

16 Socrate 22 Platone 34

Aristotele

51 57 64 78 82

Gli epicurei

Tommaso d'Aquino

92

Il Rinascimento

99

René Descartes

110

Gli stoici Agostino La filosofia medievale

Baruch de Spinoza

122 Gottfried Wilhelm Leibniz 136

L'empirismo inglese

148 Immanuel Kant 187 Da Kant all'idealismo tedesco 191

Georg Wilhelm Friedrich Hegel

208 215 231 244 262 276 288 291 303 315 338 343

Auguste Comte KarlMarx Sigmund Freud Henri Bergson S0ren Kierkegaard Friedrich Nietzsche Dopo Kierkegaard e Nietzsche Edmund Husserl Martin Heidegger Karl Jaspers La filosofia oggi Indice dei nomi

Avvertenza

La presente opera non è una storia della filosofia tradizionale. Quello che tenterò di mostrare, attraverso alcuni esempi scelti in più di duemila anni di pensiero occidentale, sarà soltanto in che modo e davanti a che cosa certi uomini furono colti da stupore, da quello stupore da cui è nata la filosofia. Quale fu la natura, quale l'occasione di quello stupore? Come si manifestò? In questo libro non mi sarà possibile seguirne le tracce in modo continuo, darne un resoconto relativamente completo; farò quindi volutamente una scelta per concentrarmi sui punti di riferimento, le svolte del pensiero, i momenti privilegiati in cui uno sguardo più nuovo o più ingenuo fece sorgere le poche domande fondamentali, quelle domande che continuiamo a porci ancora oggi non appena rinunciamo a nasconderle sotto le chiacchiere o le banalità. Essere capaci di stupirsi è proprio dell'uomo. Si tratta allora di suscitare di nuovo quello stupore. Grazie ali' esempio altrui, il lettore ritroverà, così almeno spero, la propria capacità di stupirsi. Riconoscendo il proprio stupore, dirà: "Sì, è proprio così. Come è possibile che non mi fossi ancora stupito di una cosa simile?". È questo nell'uomo il processo della creazione, in grado di portare il lettore a pensare come un filosofo. Strada facendo, spero anche di trasmettergli quel minimo di strumenti che gli permetteranno di esprimere il suo stupore, o almeno di leggere i testi di coloro che si sono "stupiti" prima di lui. Ma l'uomo di oggi è ancora capace di "stupirsi", o anche solo di meravigliarsi? Noi viviamo nell'età della scienza, convinti di sapere quasi tutto, o almeno di poter sapere tutto. Eppure, ci sono ancora e ci saranno sempre degli esseri umani capaci di stupirsi. Lo stupore è essenziale alla condizione di uomo. Non basta essere i contempora1

Storia della filosofia come stupore

nei di grandi scienziati per sfuggire all'ignoranza. Persino tra gli stessi fisici, ce ne sono che continuano a stupirsi (non i "mezzi fisici" o quelli ancora più piccoli, ma i più grandi): le loro opere sono piene di uno stupore filosofico e metafisico, simile a quello dei bambini. «Come i bambini>>, dice la Bibbia: così dobbiamo diventare sevogliamo capire che cosa sia; dobbiamo spogliarci dell'arroganza degli adulti che considerano tutto il passato con un atteggiamento di sufficienza, dall'alto dello splendore della scienza moderna. Noi tratteremo in primo luogo dello stupore degli uomini che vissero all'inizio dell'età greca antica, e "si stupirono" quindi intorno al VI secolo a.C. in Magna Grecia e in Asia Minore. Non avremo fretta di dare giudizi: "Che domande stupide si sono posti! E che risposte stupide hanno trovato! Oggi per noi tutto questo non ha più nessun interesse". Non parleremo della filosofia in generale, ma esamineremo i vari filosofi per imparare a conoscere il loro modo di stupirsi e vincere così la presunta stranezza della filosofia. Ognuno di noi, in realtà, possiede una sua propria esperienza filosofica: ogni volta che ci troviamo nella necessità di prendere una vera decisione, noi ci interroghiamo senza saperlo in modo filosofico. I bambini, intorno al quinto anno di età, fanno domande di tipo filosofico; i giovani di quindici o sedici anni anche. Eviteremo quindi ogni atteggiamento di sufficienza nei confronti dei pensatori del passato, anche quelli più antichi. Il loro radicale stupore filosofico, a quei tempi completamente nuovo, testimonia in realtà della forza creatrice e della capacità inventiva dell'uomo, qualità che permisero a quei grandissimi ingegni (non dimentichiamolo) di porre le loro strane domande. Fin dall'inizio, avremo quindi a che fare con filosofi capaci di provare stupore, capaci cioè di andare al di là di ciò che, nella vita quotidiana, appare evidente per porre domande fondamentali.

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La scuola di Mileto: Talete

Nei tempi antichi, la professione di "filosofo" non esisteva. I filosofi erano anche scienziati, matematici, astronomi; si interessavano alle eclissi del sole e della luna, ai numeri e ai calcoli, alle figure della geometria e alle loro proprietà. Così la più antica scuola filosofica, la celebre scuola di Mileto, in Asia Minore, fu fondata da Talete (600 ca a.C.), l'inventore del teorema secondo cui il cerchio è il luogo geometrico degli angoli retti costruiti su un segmento di retta. 1 Si trattava quindi di grandi ingegni che erano anche, rispetto al sapere del loro tempo, delle menti universali. Ciò che prima di tutto suscitò il loro stupore fu lo spettacolo del cambiamento. Noi viviamo in un mondo dove tutto cambia continuamente. Prima c'è un pezzo di legno, poco dopo vediamo una fiamma, e un po' più tardi non c'è più neanche quella, non resta altro che un mucchietto di cenere. Un soffio di vento disperde la cenere e anche la cenere scompare. Tutto quello che contempliamo, tutto quello di cui ci serviamo, e tutti gli esseri viventi, e gli uomini, e noi stessi: tutto cambia continuamente, tutto passa. La prima domanda filosofica fu posta più o meno in questi termini: "Che cos'è che permane attraverso tutto il cambiamento?". La prima risposta data a questa domanda fu la seguente: quello che permane in tutto ciò che cambia e continua a passare è la sostanza. Deve pur esserci qualcosa che resiste nell'essere; altrimenti, da tempo non ci sarebbe più nulla. C'è quindi il cambiamento, tutto ciò che continua a passare, ma

1 Tra i teoremi di geometria piana che la tradizione attribuisce al filosofo di Mileto, quello che va sotto il nome di teorema di Talete afferma in realtà che un fascio di rette o di piani paralleli taglia su due rette trasversali segmenti corrispondenti proporzionali [n.d.t.].

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Storia della filosofia come stupore

nell'effimero c'è qualcosa che permane. Il cambiamento è sostenuto da un essere che continua a esistere, un essere che cambia, e che tuttavia resta l'essere. La prima domanda posta dalla scuola di Mileto fu allora: "Qual è la sostanza che permane attraverso il cambiamento?". Può il lettore di oggi immaginare la straordinaria radicalità di una simile domanda, quando fu posta per la prima volta? Noi possiamo vivere senza problemi in mezzo alle cose che cambiano finché queste possiedono, per la nostra vita pratica, una relativa stabilità, a noi sufficiente: se mettiamo un pezzo di pane sul tavolo, dopo un po' di tempo lo ritroviamo ancora lì, e questo ci basta. Ma ecco che quegli uomini pongono le loro domande. Invece di vedere il pezzo di pane che sta lì sul tavolo finché ne abbiamo bisogno, quello che vedono è il cambiamento, l'effimero di ogni cosa, e nello stesso tempo una constatazione: l'essere continua a esistere. Così quegli uomini si chiedono: qual è il fondamento che sostiene tutto ciò che passa? A questa domanda i filosofi di Mileto hanno dato risposte diverse. Talete, per esempio, insegnava: la sostanza che è alla base di tutto e che si trasforma in ogni cosa è l'acqua. Un altro diceva: è l'aria. Un terzo: è il fuoco. Un quarto: è l'infinito (apeiron). Ma nessuno di loro ha detto: è la terra. Perché la terra non è mai stata concepita come la sostanza che sostiene tutto il resto? Forse questo elemento sembrava troppo pesante, troppo massiccio, inadatto a trasformarsi in tutte le cose. Quando i filosofi di Mileto hanno detto: la sostanza è l'acqua, l'aria, il fuoco, o anche l'infinito, non è certo che intendessero indicare gli "elementi" nel senso materiale della parola. Non dobbiamo introdurre nel loro pensiero una problematica che agli Antichi era ancora estranea. La distinzione tra "materiale" e "immateriale", per esempio, non era ancora radicale. I filosofi di Mileto hanno semplicemente considerato gli elementi più fluidi, più sottili, e se questo da un lato escludeva la terra, dall'altro permetteva di passare con facilità dall' "aria" all"'infinito". Anche l'infinito era probabilmente materiale, ma ancora più fine, più sottile. Qualche moderno presuntuoso dirà: "I: acqua è solo H 20. Tutto questo non ha senso". Il senso è altrove. Quello che è importante è il problema posto, 4

La scuola diMileto: Talete

ben più che la sua soluzione; e nelle stesse soluzioni proposte, la direzione che esse suggeriscono, verso qualcosa di liquido, di fluido, che può trasformarsi in tutte le cose senza distruggersi. Non era quindi la terra, in quanto simbolo della materia, a poter essere considerata la sostanza primordiale, permanente: essendo il contrario dello scorrere, la terra non era certo un simbolo adeguato per la permanenza dell'essere.

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La scuola ionica e la scuola eleatica: Eraclito e Parmenide

In quei tempi antichi, furono posti anche altri problemi, per esempio quello del tempo che passa. Il problema del tempo in origine non fu posto in maniera diretta, ma in correlazione con i cicli dell'universo, un'idea di origine orientale che antichi filosofi collegarono a quella dell'eterno ritorno. Essi supposero un vasto ciclo universale che inglobava la totalità dei cambiamenti, e poiché ammettevano l'idea di una sostanza permanente nella quale nulla andava perduto, ipotizzarono una perpetua rinascita, un "eterno ritorno". Esamineremo ora due scuole contemporanee e contrapposte, la scuola ionica, il cui maggiore filosofo fu Eraclito (550 ca-480 ca a.C.), e la scuola eleatica, il cui maggiore filosofo fu invece Parmenide (500 ca a.C.). Eraclito e Parmenide si può dire che siano rimasti, lungo la storia della filosofia, come due simboli grazie ai quali furono sempre enunciati problemi fondamentali. Attraverso i cambiamenti, il pensiero occidentale ha continuato a fare riferimento a questi due filosofi come se rivelassero uno schema di pensiero di per sé ineliminabile. Ancora oggi, certi pensatori possono essere definiti "ionici'1, altri "eleatici". Spinoza, nel XVII secolo, è per esempio un filosofo nettamente "eleatico"; Hegel, nel XIX secolo, appartiene invece alla stirpe "ionica", quella di Eraclito. Entrambe le scuole hanno posto il problema del cambiamento e della durata, dell'effimero e del permanente. E, nello stesso tempo, quello dell'uno e del molteplice. Che cos'è il problema dell'uno e del molteplice? È un problema in realtà strettamente collegato a quello dell'effimero e del permanente, perché l'effimero appartiene al mondo del molteplice, al mondo del plurale, mentre se si vuole pensare il permanente, si punta subi6

La scuola ionica e la scuola eleatica: Eraclito e Parmenide

to a qualcosa che è uno. Questa è una costante in tutta la tradizione occidentale (compresa quella ebraica): se si vuole dare un nome a ciò che è, a ciò che non è né effimero né mutevole, si parla dell'Eterno o dell'Uno. L'Uno e l'Eterno sono ciò che non cambia. Il problema del rapporto tra l'uno e il molteplice e quello del rapporto tra l'effimero e l'immutabile sono quindi molto vicini. Entrambi sono posti sia dalla scuola ionica sia dalla scuola eleatica. Un'osservazione: quando facciamo uso del nostro intelletto, per esempio nelle equazioni matematiche, troviamo che ogni equazione è caratterizzata dal fatto che i suoi due membri sono equivalenti. Questo è il significato del segno=. Anche la logica, in ogni giudizio, esige la corrispondenza dei due termini collegati dalla copula. Il nostro intelletto funziona obbedendo a uno schema dell'identico, chiamato principio di identità, il cui corollario è il principio di non contraddizione. In una discussione, ogni contendente, per vincere, si sforza di dimostrare che l'altro si contraddice. Chi si contraddice viola il principio di identità e il principio di non contraddizione. Ora, nell'esperienza, noi abbiamo sempre a che fare con il cambiamento, e il cambiamento viola continuamente il principio di identità. È molto imbarazzante. In un certo senso si può dire che gli uomini si dividono in due gruppi: quelli che vogliono sempre avere ragione nei confronti di ciò che si verifica nell'esperienza, e quelli che invece sono sempre pronti a sottomettersi a ciò che si verifica nell'esperienza dichiarando che èl'intelletto ad avere torto. Senza questa profonda opposizione fondamentale tra l'esigenza di identità del nostro intelletto da una parte, e l'evidenza dell' esperienza quotidiana dove incontriamo solo il cambiamento dall'altra, probabilmente la filosofia non esisterebbe. Questa opposizione si è cristallizzata nelle due scuole di cui stiamo parlando e nelle due figure di Eraclito e di Parmenide. Eraclito di Efeso riprende la domanda posta a Mileto: che cosa permane attraverso il cambiamento? La sua risposta: il cambiamento stesso. Il cambiamento è l'essere delle cose. Di Eraclito possediamo solo pochi frammenti, spesso misteriosi: già nell'antichità, era infatti chiamato "l'oscuro". Eraclito pone l'accento sui contrari dichiaran7

Storia della filosofia come stupore

do: tutto ciò che esiste, esiste solo grazie ai contrari. Perché qualcosa possa esistere, i contrari devono unirsi. Per esempio, noi pensiamo "piccolo", ma non abbiamo nessun oggetto che possa incarnare l'idea di piccolezza. Paragonato a una formica, un topo rappresenta una certa grandezza, è un'unione di "grande" e "piccolo". Non appena consideriamo qualcosa di reale nell'esperienza, non qualcosa di solo pensato, noi troviamo un'unione dei contrari, di grande e piccolo. È la combinazione dei contrari a far sì che qualcosa esista, mentre chi pensa in modo logico, se da qualche parte scopre una contraddizione, subito afferma che ciò che è contraddittorio non può esistere. L'uno deriva la realtà a partire dai contrari, l'altro esclude la realtà perché è contraddittoria. (Vedremo più avanti che, nel XVIII secolo, Leibniz porrà come condizione di esistenza la compossibilità, considerando come compossibile ciò che non è contraddittorio.) Eraclito, invece, afferma che i contrari sono la condizione di tutte le cose. Lo dice in termini metaforici, mitici: «Il conflitto è il padre di tutte le cose». Qui non si tratta affatto di giustificare il conflitto; il senso è questo: la realtà è generata dalla tensione tra i contrari. (Ne ritroveremo traccia secoli dopo, nell'età moderna, nelle filosofie che si fondano sulla lotta dei contrari: nella dialettica di Hegel e di Marx.) Ma in Eraclito, si tratta di un pensiero del tutto metafisico, nel senso di "al di là della natura", si tratta cioè di ritrovare l'origine: la natura, la realtà fisica, deve la propria esistenza a uno scontro che ha luogo al di là della natura stessa, al di là dei suoi contrari. È questo scontro che genera il reale; il reale è quindi un conflitto, un divenire. Le cose sottoposte al cambiamento sono dunque sostenute da un movimento costante, dal cambiamento stess.o. Eraclito ha sottolineato con forza l'esperienza del cambiamento: «Tutto scorre»; «Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume». Quando ci si ritorna, l'acqua di un momento prima è già lontana; ora è un'altra acqua, un altro fiume. Al di là di questo conflitto e di questo scorrere incessanti, c'è tuttavia in Eraclito un principio di ordine e di equilibrio. Conflitto e movimento non sono interamente abbandonati a se stessi (come lo saranno talvolta molto più tardi). Un elemento qui domina: il fuoco. Anche in questo caso, non il fuoco puramente materiale in quanto 8

La scuola ionica e la scuola eleatica: Eraclito e Parmenide

fenomeno della combustione, ma un fuoco che per Eraclito è nello stesso tempo il logos. Logos è una parola greca che significa "ragione", "logica", "linguaggio", "legge". Il logos fa regnare una specie di equilibrio, fa in modo che, nel conflitto dei contrari, nessuno prevalga in modo definitivo: in questo caso, infatti, tutto cesserebbe di esistere. Il conflitto è quindi regolato da una legge di equilibrio il cui effetto è quello di far tornare periodicamente tutte le cose nel fuoco originale, cioè nel logos, e qui ritroviamo l'idea del" grande anno". Ricordiamoci quindi questo: Eraclito mette l'accento sul molteplice, i contrari, il cambiamento, il conflitto, lo scorrere. L'unica sostanza, per lui, è il cambiamento stesso. Ma c'è un principio regolatore, il logos. Parmenide, che fu contemporaneo di Eraclito e suo grande avversario, fondò la scuola eleatica. Il pensiero di Eraclito si sviluppa a partire dal mondo che ha sotto gli occhi, cioè dal cambiamento, dai dati sensibili, dall'universo naturale; il pensiero di Parmenide si fonda invece sulle esigenze della logica. Parmenide afferma con eccezionale forza il principio di identità collocandolo nell'essere stesso. In questo modo le impossibilità logiche diventano nello stesso tempo impossibilità ontologiche (a livello dell'essere). Parmenide dice: io posso dire "l'essere è", ma non "il non-essere è". Perché? Perché sarebbe una contraddizione, perché significherebbe contraddirmi. Io non posso dire "il non-essere è"; di conseguenza non devo nemmeno pronunciare la parola "non-essere" perché questo vorrebbe dire attribuirgli un essere nella lingua, il che è già contraddittorio e un uso abusivo del linguaggio. Se riproduciamo nella mente la frase: "Il non-essere non deve essere nominato", questo pensiero acquista un'efficacia esattamente opposta a ciò che abbiamo trovato in Eraclito, e noi non possiamo semplicemente rifiutarlo perché la sua forza deriva dal fatto che è filosoficamente vero. (Questo pensiero è rimasto attuale attraverso tutta la storia della filosofia: ancora nel xx secolo, nell'Evoluzione creatrice di Bergson, noi ritroveremo una lunga discussione sulla possibilità o l'impossibilità di pensare il non-essere.) Si deve vedere qui solo una pura astrazione logica? Certamente 9

Storia della filosofia come stupore

no, nel senso in cui oggi si usa spesso il termine "astrazione": questi pensatori cercavano di riflettere in modo logico sull'essere stesso. Per Parmenide, come abbiamo notato sopra, l'impossibilità del non-essere era un'esigenza iscritta nell'essere stesso. Perciò si_ tratta proprio di un'esigenza ontologica. Il termine greco "ontologia" significa "conoscenza dell'essere". Quando si parla di ontologia, si intende la parte della metafisica che tratta non dell'essere dell'uomo, o degli esseri viventi, o dei sistemi planetari, o di coerenza logica, ma dell'essere in quanto essere. Per Parmenide, l'essere non è un concetto astratto, non è la paroletta "è" che, in un enunciato logico, collega un soggetto ton un predicato. L'essere è un nome estremamente ricco, estremamente misterioso, ontologicamente denso, verrebbe voglia di dire. Ma anche Parmenide viveva tra le realtà del mondo e, come Eraclito, vedeva bene che queste realtà cambiavano continuamente. Parmenide distinse allora diversi livelli di significato: distinse tra la scienza in quanto conoscenza vera dell'essere nella sua immutabile identità da una parte, e· dall'altra, la conoscenza che abbiamo del mondo esterno in cui viviamo. Quest'ultima, la chiama doxa, cioè "opinione": pensiamo alle parole "ortodosso", "eterodosso" ecc. Per gli antichi filosofi greci, l'opinione non riesce a raggiungere la verità, la conoscenza vera, e tuttavia non è semplicemente l'errore. J; opinione è un modo di avvicinarsi alla verità che agli uomini generalmente basta per vivere a livello della pratica quotidiana, per organizzare lo Stato o comunicare tra loro. Se si pretendesse di avere sempre una conoscenza rigorosa, pensavano i greci, non sarebbe facile cavarsela nella vita di tutti i giorni. Ma ciò non toglie che l'apparenza così nota non è la verità. Di qui l'introduzione, tra la verità e l'errore, del livello medio, quello dell'opinione. Parmenide riconduce all'opinione ogni conoscenza riguardante il mondo del cambiamento che incontriamo nell'esperienza. Egli è infatti di un rigore assoluto quando si tratta della conoscenza del1'essere stesso: qui possiamo solo dire "l'essere è". Introdurre il non-essere e passare, come faceva Eraclito, dall'essere al non-essere e dal non-essere all'essere in quanto contrari costitutivi del cambiamento, inteso come la vera realtà, è un errore fondamentale. Per Parmenide, a livello della conoscenza, questo è addirittura propriamente impensabile, è un non-pensiero. Ma se il non-essere è impen-

La scuola ionica e la scuola eleatica: Eraclito e Parmenide

sabile per la logica umana, resta inevitabile a livello dell'opinione, dell'esperienza, della vita empirica. Per Parmenide, la verità logica prevale di gran lunga sulla conoscenza empirica, la razionalità sull'esperienza. Ma come si può concepire l'essere nella sua pienezza? Secondo Parmenide, l'essere è increato e immutabile. Infatti, come potrebbe esserci cambiamento se l'essere è uno e perfettamente pieno? Il cambiamento implica l' esistenza di uno spazio, di una distanza, di un vuoto, di un'alterità, ma nell'essere, non c'è nient'altro che l'essere. In una valigia piena, non si muove niente. Se l'essere è pieno, nulla può cambiare. L'essere è assolutamente calmo, eterno, senza inizio né fine; l'essere è perfezione in quanto totalità. A questa totalità, i greci davano la forma di una sfera. A questo punto dobbiamo fare una distinzione. Per noi moderni, quando confrontiamo a due a due i termini "finito" e "infinito", "limitato" e "illimitato", sono i termini "infinito" e "illimitato" a indicare qualcosa di superiore. Noi diciamo, per esempio: l'uomo è finito, Dio è infinito. Per i greci non era così. Per un greco, ciò che è superiore è ciò che ha una forma; qualcosa di illimitato, che quindi non ha una forma, resta per lui qualcosa di incompiuto, qualcosa che non ha avuto pieno accesso all'essere. Questo ci può sembrare strano. Eppure scopriamo che Hegel, per esempio, distingue tra due nozioni: il "buon infinito" e il "cattivo infinito". Il "buon infinito" prende la forma di una sfera o di un cerchio, il "cattivo" è rappresentato da una linea retta, senza inizio né fine. Se Parmenide parla di una sfera, si tratta di un'immagine, e non della sfera terrestre o della volta celeste. La sfera è l'essere perfetto che basta a se stesso. Più tardi, i filosofi diranno: "causa disé", "per sé", "in sé" ecc. Il senso è: l'essere è ciò che è e che basta a se stesso. Questa è la concezione fondamentale che Parmenide aveva dell'essere come di un tutto perfetto. L'essere secondo Parmenide è qualcosa di profondamente divino, ma senza alcuna personificazione. L'idea di un dio personale, come anche quella di un dio creatore, gli erano del tutto estranee. Questa concezione dell'essere, la ritroviamo come una vena lungo tutta la storia del pensiero occidentale: è quella di un dio che trascende ogni rappresentazione e ogni antropomorfismo, un dio la cui essenza è trascendenza, un dio che non si diffonde all'infinito, 11

Storia della filosofia come stupore

ma è quella perfetta pienezza di cui non possiamo farci nessuna idea. Se seguiamo Eraclito, diremo che possiamo pensare la perfezione solo grazie all'imperfezione. Parmenide, invece, pensa la perfezione in sé. L'essere è uno. Parmenide è un pensatore monista (monos in greco significa "uno"). Una citazione per concludete: «È necessario dire e pensare che solo l'essere è; il nulla, invece, non è. Convinciti bene di questo».

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Zenone e gli atomisti

Zenone di Elea (490 ca-430 ca a.C.) fu un illustre discepolo di Parmenide che inventò sofismi e paradossi. In greco, sophos significa "saggio"; i sofismi sono ragionamenti che sembrano veri mentre in realtà sono manifestamente falsi. Zenone fece ricorso a quest'arte dell'illusione razionale pervenire in aiuto al suo maestro. Quando Parmenide diceva che solo l'essere esiste, non il non-essere, e che il divenire e l'effimero appartengono solo al campo del1'opinione, non a quello della verità, le sue parole andavano troppo contro l'esperienza quotidiana degli uomini. Per combattere questa evidenza empirica così lampante, Zenone tenta di dimostrare che se il movimento e il ~ambiamento regnano effettiv~mente nella nostra esperienza della realtà, noi non siamo però in grado di pensarli. Una serie di sofismi gli serviranno a provarlo. Ecco un esempio, particolarmente semplice e bello: un arciere tende l'arco e scocca una freccia. La freccia traccia una traiettoria nello spazio. Zenone fa osservare questo fatto: voi vedete la freccia. In un certo istante, essa si trova in uno spazio A della sua traiettoria. Qualche istante dopo, occupa lo spazio B. Tra i due, ha occupato uno spazio A', e tra lo spazio A e lo spazio A', ha occupato uno spazio N'. In ogni istante del tempo, la freccia ha occupato uno spazio determinato. Per facilitare le cose, permettiamoci un anacronismo. Prendiamo una macchina fotografica. In ogni istante della traiettoria, noi potremmo fotografare la freccia mentre occupa un certo spazio, mentre è in quello spazio. Per quanto l'intervallo tra due posizioni successive sia piccolo, è sempre possibile introdurne altri in cui la freccia è. Ma quando allora la freccia passa da una posizione alla successiva? Quando si muove, se in ogni istante è in un certo spazio? Zenone tocca così, con una semplicità sbalorditiva, il nocciolo della problematica del movimento. 13

Stona della /ilòso/ia come stupore

Venticinque secoli dopo, Bergson ha dimostrato che per pensare il movimento noi ricorriamo sempre all'immobilità. Noi conosciamo il movimento perché possiamo muoverci: muoviamo le mani, i piedi, noi stessi. Dentro di noi, quindi, sappiamo che cosa significa muoversi, ma quando pensiamo il movimento, quando lo misuriamo, noi facciamo ricorso a punti di riferimento immobili. Zenone di Elea ci dimostra che, tutto considerato, noi non pensiamo il movimento. Certo, noi vediamo volare la freccia, ma non possiamo pensare il suo movimento perché la nostra mente è fatta per l'immutabile, l'identico, l'eterno. Eppure, noi viviamo e fatichiamo in questo mondo dove tutto è effimero e mutevole. Fin dall'antichità, vari furono i tentativi di conciliare i due modi di pensare, quello di Eraclito e quello di Parmenide. Nessuno, infatti, a dire il vero, può accontentarsi dell'uno o dell'altro. Agli argomenti di Parmenide o di Zenone, non si può semplicemente replicare: "Va bene, è vero, mi sto contraddicendo, ma non importa"; così come non si può nemmeno rifiutare Eraclito dicendo: "Il pensiero è logico, l'essere anche, e di conseguenza l'esperienza del cambiamento è solo un'illusione". Ci fu una scuola che si può considerare come un tentativo di sintesi tra questi due pensatori: la scuola atomistica. Da un punto di vista filosofico, non è particolarmente profonda, ma ha avanzato un'ipotesi che molto più tardi avrebbe avuto, per la scienza, un destino straordinario. I pensatori di questa scuola tentarono di concepire la realtà introducendovi da un lato l'indistruttibilità, la densità totalmente priva di non-essere di Parmenide, e dall'altro il cambiamento, la trasformazione dei corpi in altri corpi, secondo il pensiero di Eraclito. Gli atomisti pensavano che, invece di far intervenire l'essere uno nel senso metafisico di questa parola, bisognava immaginarsi una moltitudine di piccole unità di essere, di piccole unità indivisibili, immutabili, indecomponibili, nelle quali il non-essere non può assolutamente penetrare. Queste piccole unità, perfettamente dense e piene, sono indistruttibili e rappresentano come una serie di copie in miniatura del grande essere parmenideo. Mentre però quest'ultimo era metafisico, gli atomi sono tutt'altra cosa. Proprio perché non possono essere né divise né dissolte, e sono quindi immutabili ed eterne, queste piccole unità furono chiamate 14

Zenone e gli atomisti

atomi, parola che in greco sìgnifica "indivisibile". Gli atomi hanno la densità dell'essere,Ja sua indistruttibilità e costituiscono il fondo permanente del reale. Aggregandosi in mille modi provvisori, gli atomi costituiscono così il mondo del cambiamento in cui si svolge la nostra vita. Teoria seducente da un certo punto di vista, ma è chiaro che questi piccoli atomi di materia non possono in alcun modo sostituire l'uno trascendente di cui parlava Parmenide. Gli atomisti hanno suggerito una soluzione a livello naturalistico, trasferendo il grande problema metafisico di cui abbiamo parlato dal piano filosofico a quello della natura, cioè della fisica. La loro teoria permetteva di spiegare i fenomeni naturali che si svolgono sotto i nostri occhi e di dare una soluzione sia al problema dell'uno e del molteplice sia a quello dell'essere permanente e degli esseri effimeri. La teoria atomistica ha quindi dato vita a una lunga tradizione naturalistica. Gli atomi pieni, in cui non può penetrare il non-essere, si muovono invece nel vuoto, secondo leggi meccaniche che li fanno incontrare per costituire combinazioni che saranno, secondo i casi, più o meno durature. La teoria atomistica mette in gioco il caso e la necessità. Questa teoria permise così di cercare spiegazioni meccanicistiche ai fenomeni della natura, e questa fu la tendenza delle scienze naturali quando molto più tardi, grazie alla sperimentazione e alla rigorosa verifica delle ipotesi, conobbero il loro grande sviluppo. Le discussioni contemporanee sull'atomo dimostrano tuttavia che la sua natura resta problematica. A Heisenberg che gli aveva chiesto: