La storia della filosofia come sapere critico. Studi offerti a Mario Dal Pra

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LA STORIA DELLA FILOSOFIA COME SAPERE CRITICO STUDI OFFERTI A MARIO DAL PRA DI N. BADALONI, M, BALDI, F. BARONE, E. BECCHI, D. BIGALLJ, W. BùTTEMEYER, G. CANZJANI, P. CASINI, C. CESA, M. CINGOLI, R. CRJPPA, F. DECLEVA CAIZZl. M.A. DEL TORRE, F. DE M!CHELIS PJNTACUDA, P. D!BON, P. DI VONA, G. DOZZI. G. ERNST, P. FARINA, M. FUMAGALLI BEONIO-BROCCHJER!, L. GEYMONAT, A. GRILLI, M. !SNARD! PARENTE, G. l.ANARO, A. LUPOLJ, G. MICHELI, E. MIG!.!ORJNI, G. MORPURGO-TAGL!ABUE, G. OLDR/N!, A. PACCHI, G. PAGANINI, F. PAPI, M. PARODI, J. P.ÈPIN, R. PETTOELLO, L. POZZI D'AMICO, M.V. PREDAVAL MAGR!NJ, E. RAMBALDJ, E. RONCHETTI, P. ROSSI, A. SANTUCCJ, C. VASOLJ, S. ZEPPI

INTRODUZIONE DI EUGENIO GARIN

FRANCO ANGELI

INDICE

pag.

Premessa

9

Per Mario Dal Prà, di Eugenio Garin Sezione prima Dalla cultura antica al XII secolo Cultura :filosofica nel proemio di Grazzio, di Alberto Grilli L'areane religieux et sa transposition philosophique dans la tradition platonicienne, di ]ean Pépin Il gentile uomo innamoratO: note sul , di Paolo Casini

»

375

» 387 » 401 » 414

Sezione quinta Hegel e l'hegelismo

La «riflessione)> negli scritti jenensi di Hegel (1801,1805), di Giovanni Dozzi

L'antropologia di Lavater e Gall nella « Fenomenologia dello Spirito)>, di Lelia Pozzi d'Amico « Weisen )> e « Beweisen » nella trattazione hegeliana del moto naturalmente accelerato, di Enrico Rambaldi I tardi epigoni dell'hegelismo napoletano, di Guido Oldrini

»

429

»

446

457 » 469

»

Sezione sesta Marx e la discussione sul marxismo Tecnologia e prassi rivoluzionaria nell'interpretazione marxiana di Darwin, di Nicola Badaloni Valore d'uso e linguaggio in Marx, di Fulvio Papi Le vedute marxiste sulla crisi del capitalismo (Marx e Rosa Luxemburg), di Guido Morpurgo-Tagliabue Su alcuni aspetti della dialettica in Marx, di Mario Cingoli Note su alcune obiezioni al materialismo dialettico, di Ludovico Geymonat

pag. 489 » 507

»

522 550

»

556

»

Sezione settima Empirismo, pragmatismo, neoempirismo nel pensiero contemporaneo Empirismo e realismo critico in Herbart. La rifondazione empirica della filosofa critica, di Renato Pettoello William James e il «ritorno» a Hume, di Antonio Santucci Vailati e il« Leonardo», di Giorgio Lanaro Un corso di morale di Preti, di Ermanno Migliarini Formiche, ragni, epistemologi, di Paolo Rossi Tra empirismo ed anarchismo metodologico, di Francesco Barone

567 » 585 » 604 » 620 » 628 » 641

»

Sezione ottava Problemi di storia della storiografia filosofica Erasmo e le origini della storiografia moderna, di Fiorella De Michelis Pintacuda Kuno Fischer e le sue introduzioni alla storia della filosofia moderna, di Claudio Cesa Il dibattito sulla storiografia filosofica nell'Italia degli anni '50, di Maria Assunta del Torre Gedanken zur Rezeptionsgeschichte der Philosophie, di Wilhelm Biittemeyer

»

659

»

684

»

701

»

718

»

737

»

749

Sezione nona Studiar filosofia, di Egle Becchi

Appendice Bibliografia degli scritti di Mario Dal Pra, a cura di Luca Bianchi

PREMESSA

Questo volume intende essere un segno tangibile dell'affetto che runici e discepoli portano a Mario Dal Pra, giunto al suo settantesimo compleanno, e insieme una testimonianza concreta della profonda inci~

sività e fecondità del suo magistero nel campo degli studi filosofici. Per questo si è deciso di ordinare i contributi secondo filoni di indagine che si rapportano a linee di ricerca a lui particolarmente care. Molti sono coloro - enti e persone ai quali va l'espressione

della nostra più viva gratitudine per aver collaborato alla riuscita dell'iniziativa: il Consiglio nazionale delle ricerche, il Comune e l'Amministrazione provinciale di Milano, la sede vicentina della Banca cattolica del Veneto che hanno finanziato l'impresa; il Dipartimento di filosofia e il suo direttore che l'hanno in vari modi assecondata, per non parlare del solerte e prezioso apporto dell'editore Franco Angeli. Un caloroso ringraziamento va agli autori dei saggi qui raccolti, per l'entusiasmo e la serietà professionale con cui hanno aderito al nostro invito) ma ringraziamo anche quanti, pur non intervenendo direttamente con degli scritti, ci hanno sostenuto con la loro approvazione e simpatia:

e pensiamo in particolare ai professori Raffaello Franchini e Valerio Verra. Ci sia lecito inoltre ricordare la partecipazione del compianto Francesco Corvino al complesso avvio del progetto. Last but not least, ci è grato menzionare il paziente e volonteroso impegno degli amici Canziani, Paganini, Parodi e Predava!, che ci hanno validamente affiancato nel lavoro organizzativo e redazionale.

Maria Assunta Del T arre Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri Arrigo Pacchi

PER MARIO DAL PRA di Eugenio Garin

Nato nel 1914, l'anno in cui scoppiò la prima guerra mondiale, Mario Dal Pra appartiene a quel gruppo di studiosi italiani di filosofia che si sono venuti formando nell'atmosfera culturale travagliata e difficile della preparazione e dello svolgimento della seconda guerra mondiale. Anche dal Pra fece l'esperienza dell'agonia· del fascismo e della sua tragica caduta, della guerra e della catastrofe. Alla meditazione filosofica si intrecciano costantemente in lui la passione politica e la partecipazione alla lotta di resistenza e alla ricostruzione, che, uomo di

scuola, visse nel settore più delicato della vicenda nazionale: appunto la scuola. Il nesso teoria/ prassi e il problema dei valori, prima di essere per lui nodi da sciogliere sul piano nazionale, furono esperienze

di vita. Nato in quel di Vicenza, a Montecchio Maggiore, aveva studiato a

Padova sotto la guida di Erminio Trailo, discepolo di Roberto Ardigò, che dal positivismo iniziale sarebbe approdato a quel « realismo assoluto » in cui si componevano, nell'eredità di certe tematiche 'naturali~

stiche' dello stesso Ardigò, alcuni dei motivi metafisici più validi di Giordano Bruno e di Spinoza, da lui lungamente studiati. Nel 19 37 Dal Pra pubblicava quella che era stata la sua tesi di laurea, Il realismo e il trascendente, incentrata sui problemi del monismo e del dualismo ontologico, « della personalità dell'Assoluto, della Creazione e dei rapporti fra l'Assoluto e il mondo ». Quasi a continuare e a integrare

l'opera sul terreno "gnoseologico", nel '40 Dal Pra.dava alle stampe a Verona un secondo volume su Pensiero e realtà 1 . 1. Il volume Il realismo ed il trascendente, Cedam, Padova, 1937, è il voL

II A "collocare" adegu~tamente quei testi, e il primo avvio del giova-

ne studioso, non basta riandare al clima filosofico italiano degli anni '30, caratterizzato dallo sforzo convergente di "spacciare" l'idealismo nelle varie sue forme, in nome di istanze "realistichei' fra loro in verità assai poco omogenee. È necessario rifarsi, oltre che all'atmosfera spiri-

tuale veneta in genere, all'ambiente specifico degli insegnamenti filosofici padovani. Le esigenze e le linee di metodo a cui Carlo Dionisotti diede voce nella sua celebre prolusione al Bedford College di Londra il 22 novembre 1949 su Geografia e storia della letteratura italiana sono pienamente valide anche nel campo della produzione filosofica, con buona pace dell'immagine retorica del filosofare come ricerca razionale pura. Le idee - come diceva Antonio Labriola - camminano con i piedi degli uomini che le pensano, e quei piedi poggiano sulla terra, e su una terra ben determinata. A Padova, anche senza risalire troppo addietro nel tempo, avevano insegnato Roberto Ardigò come Francesco Bonatelli; a Padova era passato dal '19 al '27 a insegnare psicologia sperimentale Vincenzo Benussi; a Padova Giovanni Marchesini aveva continuato fino al '31 il magistero di Ardigò; da Ardigò era partito Erminio Troilo, al cui fianco insegnerà Luigi Stefanini, qua~i II in un continuo confronto fra una nobile tradizione "positiva e "scientifica'', e sincere istanze "spiritualiste" e "religiose". Chi rilegga oggi le pagine "metafisiche" di Dal Pra giovane, dei libri che si sono citati come dei molti articoli pubblicati dal '37 in poi sulla piccola ma significativa rivista « Segni dei tempi », è subito col~ pito dalla peculiarità della sua esigenza "realistica", e dalla sua impostazione critica nei confronti dell1idealismo, ma ben conS:apevole della necessità di rispondere seriamente alle sue esigenze 2 . Non a caso sul frontespizio di Pensiero e realtà si legge, a motto, l'affermazione di Hegel che « il pensiero non sta fra noi e le cose allontanandocene, ma, al contrario, ci unisce ad esse». Con coerenza l'introduzione del libro insisteva sulla necessità di fondare la « prospettiva metafisica unitaria », quale quella difesa nell'opera Il realismo e il trascendente, su una preliminare discussione "gnoseologica", che per un verso mettesse a fuoco XIII delle pubblicazioni della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Padova, Relatori della tesi Troilo, Stefanini e Guido Rossi; sul "primo" Dal Pra, cfr. F. Cambi, Razionalismo e prassi a Milano (1945-1954), Cisalpino-Goliardica, Milano, 1983, pp. 129-161. Il voL Pensiero e realtà uscl a Verona, "La Scaligera",

1940. 2. « Segni dei tempi ». Rassegna trimestrale di scienze morali. Fondata e diretta da Paolo Bonatelli e C. Cavedoni (la direzione era a Parma). La collaborazione di Dal Pra a « Segni dei tempi» va dal '37 al '42.

III « il rapporto di trascendentale e trascendente, ossia il passaggio dal pensiero in noi al penisero assoluto >>, e per un altro verso avviasse « una descrizione completa della vita dello spirito, oltre al pensiero, e

con riguardo speciale al mondo dei valori». Che sono, entrambe, istanze

destinate a rimanere al fondo di tutta la riflessione di Dal Pra, anche se II via via "tradotte in linguaggi diversi, con risposte e esiti molto di~ versi, secondo

il variare delle situazioni storiche.

Comunque, allora, negli anni '40, colpisce in Dal Pra la consapevolezza delle radici lontane di quel dibattito fra "idealismo e realismo", niente affatto italiano o "provinciale", ma serpeggiante ovunque nella cultura del '900, anche se in modi vari. Come colpisce il richiamo a

una critica dell'idealismo, ma interna all'idealismo stesso, capace cioè di intenderne tutte le esigenze, e saldata a una discussione "gnoseo~ logica" decisa ad affrontare i problemi dei fondamenti stessi del sapere, rifacendosi a Kant. Non a caso Dal Pra richiama Varisco, di cui ha innanzi l'esito estremo nelropera postuma Dall'uomo a Dio che proprio allora, nel '39, Enrico Castelli e Giulio Alliney avevano pubblicato con qualche notevole eco. Proprio davanti a certi itinerari, e a certe conclusioni di pensatori tutt'altro che superficiali, Dal Pra si rende conto che è necessario ricominciare richiama~dosi ai principi, a una radicale critica del capire, al di là di troppa occasionale produzione italiana sull'argomento. Dal Pra sa, e lo dice chiaramente, che i nodi della riflessione teorica che ha davanti a sé sono « il prodotto di una evoluzione filosofica dell'umanità », e che per scioglierli biiogna intenderli, e che per intenderli è necessario individuarli nella loro genesi, e recuperarne sul serio la "storia". « Occorre riprendere il problema al punto in cui l'ha lasciato Kant », e, quindi, riesaminare tutto il rapporto Kant/ Hume: occorre, insomma, far ei conti con il maggior dibattito contemporaneo, ripercorrendo le tappe - e i molti rivoli delle discussioni del neokantismo ottocentesco, non a caso svoltesi sempre su due fronti interdipendenti: storico e teorico. Oggi comunemente si ritiene che il contributo più rilevante di Dal Pra alla ricerca filosofica contemporanea sia quello recato in sede storiografica. Senonché sembra spesso sfuggirne proprio il significato profondo, quando non si mostra di intendere come quella storiografia ebbe origine, le ragioni che la suscitarono, e che essa si pose non solo quale risposta teorica ai maggiori problemi di metodo, ma quale modo di concepire la filosofia stessa, e il suo compito - e quindi come filosofia. Fino dalle sue prime ricerche monografiche, con i volumi su Scoto

IV

Eriugena del '41 e su Condillac del '42, Dal Pra si avviò a impostare l'indagine storica al di fuori dei canoni della storiografia prevalente in Italia, e con un complesso di esigenze nuove, o, comunque, non diffuse. Ai due modelli "idealistici", dell'attualizzazione selvaggio del passato intesa a "leggere" nell'acqua di Talete l'Atto puro di Gentile, o della separazione astratta e assurda del "vivo" dal "morto ossia di ciò che concorda col "presente" valido per lo storico da ciò che è .i diverso", e come tale respinto, Dal Pra oppone, non tanto la fedele esposizione dei testi, estrinseca e banale ( « riassunti senza sangue e senza vita che giustappongono in fila i pensieri come fossero fossili d'un museo »), quanto la attenta ricostruzione « di un divenire spirituale incoercibile~> entro una « equilibrata considerazione della effettiva posizione storica». Così nel '42, appunto nella premessa al Condillac. Ma già nel '41, nello Scoto Eriugena, si notava l'esigenza di un accesso :filologicamente e storicamente adeguato, la richiesta di una edizione finalmente "critica" del De divisione naturae, il bisogno di una precisa ambientazione del pensatore. Dal Pra, insomma, mentre intuisce il valore teorico della ricostruzione storica, si rende anche conto\ proprio ai fini di quella "teoria della necessità di una ' riforma" degli studi di storiografia filosofica, anche se per ora le tappe di quella "riforma" sono piuttosto intuite che definite. Sa, tuttavia, e già lo dichiara, che è necessario rendersi conto, attraverso un esame critico completo della storiografia a noi precedente, delle stratificazioni interpretative che si sono depositate sulla immagine di ogni pensatore. Intuisce che lo storico deve sempre fare due diversi lavori: ricostruire il processo di formazione e di sviluppo di un autore, individuandone, non solo le tappe, ma le molte radici e i vari apporti costruttivi provenienti da province diverse dell'esperienza umana; analizzare, divenendone a pieno cosciente, tutta la sua storia postuma, destrutturandone, per così dire, l'immagine con" sacrata. Se nel Condillac troviamo ancora formulazioni di sapore "attuali• stico" (« cogliere l'anima del pensiero filosofico nella sua vivezza attuosa»; « fare qualcosa di vivo sopra un pensiero vivo»), successiva• mente vediamo anche emergere sempre più chiara, con la consapevo• lezza della complessità dell'opera dello storico, l'idea che nell'analisi e nella comprensione del divenire effettivo del pensiero filosofico si scopre e si verifica, quasi sperimentalmente, che cosa sia il filosofare, se ne individua il processo la storicità - e se ne definiscono le strut• ture. In tempi recenti Dal Pra ha sottolineato, nella sua riflessione attuale, l'interesse per un incontro '' tra storicismo ed epistemologia". 11

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11

1

,

V « Alla direzione - ha detto - che va, per cosi dire, dalla struttura al concreto storico si aggiunge, nel pensiero contemporaneo, la direzione diversa e complementare che mira a togliere alla determinazione del concreto storico la sua individualità irripetibile e si sforza per contro di configurarlo e di comprenderlo alla luce e per mezzo di precise struttura astratte, la cui radice storica determinata non elimina una funzione comprensiva di portata più generale [ ... ] Nell'ambito dello stesso storicismo sono portato a dare rilievo all'incontro, molto faticoso ma da varie parti tentato, tra giudizio storico e strumenti teorico-astratti, tra storia e scienza » 3• Si è trattato, ovviamente, di un "lungo viaggio", né Dal Pra è giunto d'un tratto alle conclusioni di oggi; ma è già significativo l'accentuarsi, negli anni '40, dell'interesse pet la 'ricerca storica come strumento privilegiato di verifica e di approfondimento teorico, unitamente all'esigenza di affrontare campi come l'antichità e il medioevo che impongono la familiarità con raffinate tecniche specifiche, e una continua e severa sperimentazione sul 1 campo'. Nel '50, l'anno in cui vedono la luce, tra loro connessi, i due maggiori contributi di Dal Pra all'indagine sul pensiero antico (La storiografia filosofica antica; Lo Jcetticismo greco), comparivano, nella prefazione' della prima opera, osservazioni importanti sulla funzione teorica di una storia della storia della filosofia, che non può non configurarsi, alla fine, se non come logica della filosofia. E questo era quanto dire che la storia della storiografia veniva chiaramente considerata come consapevolezza riflessa della filosofia ossia come filosofia della filosofia, implicante una logica della filosofia, mentre lo scetticismo, di cui pure si affrontava una discussione sistematica, era v:isto, con Hegel, come « momento essenziale e rilevante dello stesso 'farsi della riflessione filosofica nella sua assolutezza». Della storia della filosofia, insomma, si coglieva la valenza teorica, ma in una direzione diversa da quella attualistica: non la riduzione della filosofia al suo divenire storico, ma la ricerca, nel concreto dei "documenti" filosofici, delle forme e strutture (e dei vari "ingredienti") di quello che si è via via denominato, nel tempo, "filosofare". Nel 1949, un anno prima dei due volumi sul pensiero antico, Dal Pra aveva pubblicato un libro su Hume, un pensatore che l'ha accompagnato poi lungo tutta la sua attività di studioso. Ne tradurrà opere fondamentali; dopo venticinque anni, nel '73, riprenderà e rielaborerà

3. Cfr. La filosofia dal '45 ad oggi, a cura di Valerio Verra, Eri, Torino, 1976, pp. 464-66.

VI

la monografia del '49 preoccupato sempre di più di « far "parlare" il più possibile direttamente i testi» e di collocarne la filosofia « in una luce più storicamente determinata ». Chi considera Hume tra le guide e i pensatori decisivi, è fortemente tentato di ritrovarne frequente l'eco in tutta la ricerca di Dal Pra, dal '50 in poi: una compagnia critica costante, un richiamo al concreto dell)esperienza, ma anche ai limiti del senso e della ragione, e, soprattutto, al "limite" inderogabile dell'uomo: una severa e amara medicina mentis, contro ogni illusoria tentazione "metafisica". Come si è detto, a questo più profondo orientamento critico Dal Pra non giunse d'un tratto, né per vie puramente speculative. Se fra la prima giovanile produzione degli anni '30 e le posizioni assunte sulla fine degli anni '40 non può parlarsi di una netta cesura - certe sollecitazioni e certe esigenze sono rimaste in lui costanti - deve tut~ tavia dirsi che la partecipazione attiva al gran dramma della guerra e della crisi nazionale, il contatto con ambienti nuovi e il rapporto con altre esperienze culturali, incisero in lui e concorsero a definire i problemi in prospettive diverse. Non è possibile qui, ora, neppure accennare a quello che significò allora, per molti, il risveglio alla lotta politica reale, l'incontro con un libero dibattito in un paese che lottava per rinascere. Allora, davvero, chi quotidianamente partecipò su giornali e riviste, nei partiti che uscivano dalla clandestinità, alla discussione concreta, con l'illusione che tutto fosse possibile agli uomini di buona volontà; chi insegnava nelle scuole a contatto con i giovani tutti sentirono che le idee finalmente erano scese in terra, e sulla terra dovevano combattere, mentre il momento organizzativo fac..eva corpo con la elaborazione della cultura. Certo chi, in omaggio ai canoni di una rinascente storiografia filosofica tutta speculativa, è preoccupato soprattutto di ricostruire sistemi di concetti puri secondo l'ordine delle ragioni, difficilmente riuscirà a recuperare quei climi e quegli ambienti, al di fuori dei quali peraltro il moto del pensiero umano perde senso, fino a diventare enigmatico. Dal Pra lavorava ormai nella Milano dell'immediato dopoguerra, fervida di iniziative editoriali e culturali in genere, percossa sul terreno politico da quello che allora si chiamava "il vento del Nord"; all'Università, e fuori, ,Antonio Banfì e la sua scuola, e giovani pensatori paradossali e inquieti come Giulio Preti per fare un nome solo, ma di un amico caro a Dal Pra .fino alla immatura scomparsa. Era un mondo tutto diverso, remoto dalla Padova anteguerra - ed era un

VII

mondo ritrovato dopo esperienze decisive: dopo l'attività nel Partito d'azione clandestino, dopo la Liberazione, dopo la caduta di tante certezze pur nella riconosciuta validità di antiche esigenze di valori. Fu allora che Dal Pra fece alcuni incontri per lui molto importanti, quale quello con Andrea Vasa, che fra il '43 e il '45 aveva preso parte attiva alla resistenza con le forze del Partito d'azione) e aveva collaborato a Brescia e a Milano col gruppo che operava intorno a Ferruccio Parri. Nell'80, poco dopo la morte improvvisa dell'amico, Dal Pra ebbe a dire, in un testo da tenere presente se si voglia mettere bene a fuoco il suo lavoro storico e teorico della piena maturità: « Io incontrai Vasa a Milano sia nella organizzazione politica del partito d'azione che si svolse nel trapasso dalla clandestinità alla prima impostazione del nuovo ordinamento democratico, sia nell'attività scolastica in quanto ci trovammo entrambi ad insegnare storia e filosofia nel Liceo Carducci. Nacque tra noi una vivissima amicizia che durò ininterrotta [ ... ]. Occasioni principali dei nostri incontri l'insegnamento liceale prima e poi l'attività svolta presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Milano e il lavoro di dibattito svolto in relazione alla nascita ed al primo sviluppo della "Rivista critica di storia della filosofia" al quale Vasa partecipò con continuità e passione. Nacque in quegli anni e per l'apporto decisivo e principale di Andrea Vasa quell'orientamento di pensiero che fu poi indicato come trascendentalismo della prassi e che fu tracciato da lui con alcuni significativi saggi i quali comparvero appunto nella "Rivista critica di storia della filosofia" [ ... ] e fu per un tratto abbastanza lungo di tempo cbiarito anche da parte mia con alcune note critiche nella stessa rivista » 4 • La via di Andrea Vasa si sarebbe indirizzata verso mete, in parte almeno, diverse; ma è certo che in quel fervido periodo di discussioni e di collaborazione le eredità ancbe polemiche dell'attualismo, e tanta parte della tematica precedente, furono da entrambi gli amici oltrepassate. Al centro della ricerca restava il problema fondamentale del rapporto teoria/prassi, ma tutto ricondotto in un orizzonte mondano e storico, ove il trascendimento perenne del reale esistente doveva realizzarsi attraverso la costruzione umana, senza che fini e valori postulassero altri mondi, estrapolando surrettiziamente ritmi e strutture della operosa esperienza terrena. D'altra parte fu, quella, la stagione di tutte le avventure, in un dibattito che aveva sete di novità, e che si compiaceva delle combinazioni 4. Aa,Vv., Ricordo di Andrea Vasa, Olschki, Firenze, 1982, pp. 19-20.

VIII più ardite, quando sotto il segno della prassi si ~mava comb~nare pra~matismo e marxismo. Dal Pra, per suo conto, mtendeva difendere 11 carattere "aperto", non dogmatico, non "metafisico", del suo modo di intendere la prassi nel rapporto con la "teoria". « La prassi - affermava nel congresso di filosofia del '53 - [ ... ] è il richiamo alla libertà dell'uomo da ogni principio dato ed il richiamo'insieme alla libertà di assumere il criterio dell'universale come termine di uno sforzo pratico-puro». E aggiungeva: « Il trascendentalismo di cui .si parla non ha ovviamente nulla a vedere còl trascendentalismo ontologico-metafisico o strutturalistico; è un trascendentalismo pratico-puro, possibile, libero, frutto di un'assunzione volontaria o di fede, non ancorato su una struttura dell)essere, non garantito da essa» 5 • Più tardi confesserà di essersi reso conto di tutte le insidie insite in quell'assolutizzazione della prassi; e la sua confessione è in qualche modo precisazione esemplare di un'esperienza che non fu solo la sua. « In un secondo momento - ammetterà nel '72 mi è parso, però, che questa prospettiva da un lato finisse per attribuire alla prassi un nuovo carattere di assolutezza, in contrasto con i molti limiti che essa incontra nell'esperienza umana, e dall'altro avesse come risultato sia un estremo impoverimento degli strumenti finiti per la trasformazione del mondo storico, sia un'eccessiva restrizione del contributo che la teoria poteva effettivamente recare a quel compito pratico. Ho anche avvertito l'impressione di un ritorno ai temi irrazionalistici dei primi decenni del Novecento, anziché di un adeguamento più avvertito ai problemi del nostro tempo ». In realtà, fino dal '46, Dal Pra aveva trovato il suo punto di forza in un nuovo impegno storiografico che, alimentato da una costante riflessione teoretica, avrebbe avuto in Italia un peso singolare sul dibattito filosofico in generale, e in modo specifico sull'indagine storica. Vuol dirsi della « Rivista di storia della filosofia » (divenuta poi « Rivista critica [ ... ]»),che cominciò le sue pubblicazioni col '46. Nella redazione Dal Pra era originariamente affiancato da Ernesto Buonaiuti e da Mario Untersteiner. Buonaiuti, che avrebbe dovuto curare il pensiero medievale, scomparve subito (il primo numero, che ospita un suo scritto, reca anche il suo necrologio), e fu sostituito da Bruno Nardi, che vi rimase alcuni anni. Successivamente, nei decenni, redattori e col-

5. Sul trascendentalismo della prassi, nel vol. Il problema della filosofia oggi, Atti del XVI Congresso nazionale di filosofia (Bologna, 19-22 marzo 1953), Bocca, Roma-Milano, 1953, p. 536.

IX

laboratori, com'è naturale, crebbero e mutarono, ma con alcune presenze costanti (fra gli altri, molto significativo, Giulio Preti) 6 , Costante è rimasta la fedeltà a certi principi: « promuovere le ricerche e gli studi di storia della filosofia sul fondamento di indagini filologiche severamente condotte e in riferimento a problemi di interesse particolarmente vivo nella cultura del nostro tempo », Se proprio su questa linea la « Rivista » sottolineava il circolo vitale fra problemi del presente e memoria del passato, con pari chiarezza rifiutava ogni arbitraria riduzione in schemi prefissati, "rivendicando il significato pieno della storia senza ipostatizzare categorie eterne e soltanto cogliendo, fuori di ogni dogmatismo e col senso vivo della sua problematicità, la sua costante apertura che è costante concretezza". D'altra parte non confondeva l'esigenza del rigore "filologico" con l'illusione dell'oggettività, del risultato definitivo, raggiunto "per sempre". Nello stesso tempo batteva sull'importanza dell'indagine storica ai fini della determinazione del significato della filosofia, mostrando nel corso del tempo i suo vario rapportarsi alle scienze speciali e i suoi legami con i diversi campi della cultura. Ove emergeva già in prospettiva un nuovo e ben più ricco concetto del filosofare, mentre i continui interventi dello stesso Dal Pra e dei suoi collaboratori sul terreno della storia della storiografia e della metodologia incidevano - e non potevano non farlo sui problemi specifici della ricerca teorica. Chi ripercorra oggi i trentotto nutriti volumi della « Rivista critica » si rende conto di quanto, in forme discrete e sottili, quel costante lavoro di scavo, e quegli stimoli continui, abbiano contribuito non solo a trasformare i metodi dell'indagine storiografica, ma anche ad aprire nuovi campi di ricerca e a mutare prospettive consacratt di periodi, di pensatori, di problemi. E proprio qui si coglie, dell'opera di Dal Pra, un carattere non marginale, che traduce anzi efficacemente il suo modo d'intendere il mestiere del "filosofo la sua funzione educatrice, il suo implicare sempre una partecipazione ampia e feconda. Venuto, come tanti della sua generazione, dall'insegnamento nelle scuole liceali, Dal Pra indirizzò la sua rivista non solo agli storici della filosofia « professionisti », ma ai docenti di ogni livello, agli studenti, « a tutte le persone desiderose di conoscere criticamente le ricchezze della storia del pensiero nei rapporti colla storia della cultura », in un « contatto diretto e concreto con l'intera esperienza umana ». 11

:

6. Il rapporto fra Dal Pra e Preti è molto importante e andrebbe approfondito. Cfr. la "presentazione" di M. Dal Pra ai due volumi di Saggi filosofici, La Nuova Italia, Firenze, 1976, I, pp. v-vii.

X

Questo senso del valore della partecipaizone, della cultura come servizio, della 1'moralità" della cultura, pervade sempre tutta l'attività di Dal Pra e stringe insieme le lucide analisi che egli viene facendo dei testi di Marx, e le battaglie per l'insegnamento della filosofia nelle scuole secondarie, recando nell'un caso come nell'altro un contributo di 1'idee chiare" alla lotta politica, e attingendo al tempo stesso stru# menti per la chiarificazione delle "idee" dalla concreta esperienza dell'oggi. Ma l'opera dell'organizzatore di cultura, dell'educatore, e i suoi nessi con. quella dello storico, del pensatore, vorrebbero un discorso a parte: e un lungo discorso. Editore e traduttore di ardui testi medievali e moderni, direttore di collezioni che hanno messo in circolazione strumenti fondamentali di studio, direttore di una grande storia della filosofia, animatore di un centro di studio che ha recato contributi preziosi alla nostra conoscenza del pensiero filosofico e scientifico del '500 e del '600, impegnato per decenni nell'attività della Società filosofica italiana, Dal Pra ha costantemente 1'vissuto" in questo dopo~ guerra il suo modo di concepire la cultura e la ricerca filosofica dimostrandone con i risultati la verità.

Sezione prima

DALLA CULTURA ANTICA AL XII SECOLO

CULTURA FILOSOFICA NEL PROEMIO DI GRAZZIO di Alberto Grilli

Dona cano divom, laetas venantibus artis, auspicio, Diana, tuo; prius omnis in armis spes fuit et nuda silvas virtute movebant inconsulti homines vitaque erat error in omni. post alia propiore via meliusque profecti te sociam, Ratio, rebus sumpsere gerendis: hinc omne auxilium vitae rectusque reluxit, ardo et contiguas didicere ex artibus artis proserere, bine demens cecidit violentia retro.

La discussione su questi nove versi negli ultimi cento anni s1 e accesa più volte, ma è rimasta communis opinio quella espressa nel 1918 dall'Enk, che fonte del Cynegeticon di Grazzio è Posidonio: essa è ripresa di peso, otto lustri dopo, dal Verdière nella sua edizione 1• Entrambi gli editori, però, constatano dei notevoli contatti con Diodoro Siculo, entrambi accettano l'opinione del Woltjer (1877) che il passo di Diodoro è epicureo 2 • Quanto a Diodoro, oggi, meglio informati grazie al Reinhardt (1912) e allo Spoerri (1959), vi scorgiamo un'origine democritea 3 : ma l'accenno alle i:Éxva., e alla xpEla. compare in varie dottrine filosofiche ed è stato centro di dispute, sicché Aristotele nel Ilspè qJLÀ011oq,la.ç replica in certo modo a Democrito 4 ed Epicuro a sua volta modifica Democrito per entrare in polemica con Aristotele. C'è qualche cosa di tutto questo in Grazzio? Proprio no, perché il primo riferimento alle artes (v. 1) è strettamente pertinente al tema e il secondo, tutt'al più, è un flosculo lucreziano 5 ; al caso, sarebbe davvero strano che qualche cosa del genere ci fosse in un poeta.

1. L'edizione dell'Enk presso Thieme a Zutphen, quella del Verdière nella collezione « Roma Aeterna ».

2. J. Woltjer, Lucretii philosophia cum fontibus comparata, Groningen 1877,

pp. 138 ss. Il passo di Diodoro è 1,8,5 ss,

3. K. Reinhardt, Hekataios von Abdera und Demokrit, « H » 47, 1912, pp. 496 ss.; W. Spoerri, Spiithellenistische Berichte Uber Welt, Kultur u. GOtter. Untersuchungen zu Diodor von Sizilien, Diss. Basel 1959, pp. 383-5. 4. Arist. Il. , dans Harvard Theological Review, 26 (1933), pp. 151-160; pp. 157-158 pour l'origine mithriaque probable. 7. Lignes 4-6 et 10-12, éd. et trad. Cumont, pp.152 et 153; une grande partie de la citation est d'ailleurs due à une restitution hypothétique. On rapprochera ce serment du serment orphique qui vient d'ètre rappelé. Cumont, p. 154, évoque, parmi divers documents littéraires, épigraphiques et papyrologiques, le serment que le gnostique Justin faisait prèter à ses disciples: « Par celui qui est au-dessus de toutes choses, par le Bon, je jure de garder ces mystères et de ne les divulguer à personne » (Hippolyte, Refut. V,27;2, éd. Wendland, p, 133, 1-2). 8. Hist. 39, 13, 5; sur cette répression des Bacchanales en 186, voir J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, collection « Biblioth. histor. » (Paris, 1957), pp. 152-155, et p. 167, n. 15. 9. Ainsi Métam. XI,21,7: « possint magna religionis committi silentia »; 23,2: . 10. Par exemple XI,21,2: « petens ut me noctis sacratae tandem arcanis initiaret »; 21,9: « quo rectius ad arcana purissimae religionis secreta peruaderem )>; 22,6: « piissimis sacrorum arcanis.». 11. XI,23,6: « quod solum potest sine piaculo ad profanorum inte11egentias enuntiari referam ». 12. Tout de suite après avoir rappelé qu'iI vaut mieux pour l'un et l'autre passer sur ce qu'il est interdit de dire et d'entendre, Lucius se déjuge en ajoutant (XI,23,5): « Nec te tamen desiderio forsitan religioso suspensum angore diutino

21 A ces témoignages qui portent sur des cultes relativement déterminés, il faudrait ajouter tous ceux qui font état de l'obligation du silence dans l'initiation en général. Apulée lui-méme, parlant cette fois en son propre nom et traitant indistinctement des nombreux mystères auxquels il fut initié en Grèce 13 , proclame non sans forfanterie devant le tribunal: Il n'est péril qui me fit jamais consentir à divulguer devant des profanes ce qui m'a été confié sous le sceau du secret (quae reticenda accepi) haec ad profanos enuntiare) 14 •

Bien des siècles auparavant, Periandros, tyran de Codnthe et l'un des sept Sages, avait émis cette sentence, qui a toutes chances de concerner les mystères: « Garde-toi de divulguer les discours secrets » 15 • La meme loi du secret fournit aussi la matière d'une anecdote que Diogène Laerce 16 rapporte de Théodore le CyrénaYque, célèbre athée de l'Antiquité (IVe - Ille siècle); se trouvant un jour assis aux còtés d'un hiérophante, Théodore lui demande qui sont ceux qui commettent l'impiété touchant !es mystères; réponse de l'hiérophante: « ceux qui !es divulguent aux non-initiés » (o'r.. -coi:c; àµu'rrtotc; a.ù"t'à bupÉpov't'Ec;); conclusion malintentionnée de Théodore: te voilà clone toi-meme impie, puisque c'est ce que tu fais! · Malgré son allure fantaisiste, plus exactement à cause d'elle, ce dernier trait ne manque pas de portée: il montre que le thème du secret initiatique était devenu tellement avéré qu'il avait pu franchir !es limites du discours religieux pour alimenter des discours profanes. Un rhéteur latin du IVe (?) siècle, Fortunatianus, veut illustrer par un exemple une situation de la rhétorique judiciaire cataloguée sous le nom de « double demande », et survenant quand deux définitions sur lesquelles l\me des parties faisait fonds sont attaquées par la pattie adverse; or voici le procès qu 'il imagine: que celui qui aura divulgué (enuntiauerit) les mystères à un non-initié soit puni de mort; un non-initié vit les mystères en songe, il les relata à celui qui avait été initié: ce sont bien les mystères 1 dit celui-d. On réclame son ch3.timen t et il se défend;

cruciabo >>. Sur l'ensemble, voir le mémoite classique de M. Dibelius, « Die Isisweihe bei Apuleius und verwandte Initiations-Riten », dans Sitzungsberichte der Heidelb. Akad. der Wiss., Philos.-hist. Kl., VIII (1917), 4. 13. Apologie 55,8-10; le seul culte nommé est celui de Liber pater. 14. 56,10, trad. Vallette, p. 69. 15. H. Diels, W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker (Bedin, ~1951), I, p. 65,21: A6ywv à.1topp'rynl..\'V bupopètv µ1) 7tO~ou. 16. II,8,101 = fgt 263 Mannebach, p. 61 = fgt 23 Giannantoni, p. 469, 1-5.

22 on devine en effet que sa défense consistera à poser deux questions, en orientant les réponses dans le sens de ses intérets: qu'est-ce qu'« avoir été initié »? et qu'est-ce que , et SVF III,262, p. 63, 26-27: Èmcr·t"llµ:rrv alpé-rWv xaL , Zeitschrift /Ur romanische Philologie, LXII, 1943, pp. 178-191 e anche di G. Ruffini nella introduzione alla edizione del De Amore, Guanda, Nlilano, 1980, pp. XVI-XXVII. Si aggiungano le fini osservazioni e i riferimenti di P. Dronke nella recensione alla traduzione francese di C. Buridant (Paris, 1974) in Medium Aevum, XLV, 3, pp. 317-321.

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trasti risaltano ancor più perché, sia le motivazioni dell'opera sia l'udienza del nostro scrittore, sembrano unitarie, chiare e compatte come cercherò di mostrare. Suggerisco fin d'ora che lo scopo del trattato sia dettare un'etica del comportamento per un gruppo sodale ristretto, ricettivo della cultura dell'epoca (romanza e latina, scolastica e non), caratterizzato dall'intenzione di conservare il suo prestigio e sottolineare il suo rango anche di fronte ai nuovi ceti economicamente emergenti, i mercanti. Cosl facendo abbiamo già ritagliato nella selva di osservazioni e prescrizioni di Andrea Cappellano una linea visualis che ci permette di decifrare e raggruppare nella analisi del testo concetti lontani fra loro che si richiamano o si oppongono. Questa linea visualis è lo studio dell'amore di coppia in rapporto alla società e ai valori proposti dalla chiesa come cultura dominante. « Maximam inter homines familiaritatem copula matrimoniorum ... contrahere solet » 2 Abelardo aveva notato bene che il matrimonio non stabilisce solo un legame a due ma è il nucleo di più ampie e forti solidarietà nella società: iniziando l'analisi dal concetto di matrimonio e dal suo rapporto con l'amore ci troveremo già nel mezzo di un grosso problema. Più di uno studio ha messo in rilievo la pressione ideologica antimatrimoniale nel Medio Evo 3• Per chiarezza è bene non· farne un blocco ma distinguerne i fili. Qui ci può essere d'aiuto Eloisa con la sua accanita opposizione al matrimonio con Abelardo 4 • Gli argomenti di Eloisa risalgono da un lato al repertorio classico (di impronta platonica) che giudica e dipinge la vita matrimoniale come la quintessenza della vita sensibile, lo specchio delle necessità quotidiane e fastidiose, dei bisogni materiali, del forzato allontanamento quindi dal regno ideale e dalla filosofia, meditazione che non deve essere turbata dai lamenti, dai ru-

2. P. Abelardo, Dialogus inter Philosophum, Jaedeum et Christianum, Frommann Verlag, Stuttgart, 1970, p. 63 (595-597). 3. Si veda lo studio di Ph. Delhaye, « Le dossier antimatrimonial de l'Adversus Jovinianum et son infleunce sur quelques écrits latins du XII siède )>, Mediaeval Studies, XII, 1951, pp. 65-86, che contiene le fondamentali indicazioni bibliografiche (specialmente nella nota 1). Interessanti isag:gi di J. Leclercq e J. de Caluwé nel recente volume Love and marriage in the XII century, Leuwen University Press, Leuwen, 1981. 4. Cito le pagine dell'edizione italiana con testo latino a fronte: Historia Calamitatum, Einaudi, Torino, 1979, p. 34 ss. Una connessione curiosa fra Eloisa e Andrea Cappellano (o meglio fra l'immagine di Eloisa come dame galante in un manoscritto del 1500 e l'autore del De Amore) è segnalata dal Dronke in Abelard and Heloise ìn medieval testimonies, University Glasgow Press, Glasgow, 1976.

38 mori, dalla mancanza di denari, dagli obblighi che legano ad altre persone, figli o coniuge. D'altro canto ci sono gli argomenti dei «santi» che rincarano la dose. Come è noto il matrimonio è un rimedio alla concupiscenza che facilissimamente può scivolare verso il male che vuole rimediare. Dalla indicazione di Paolo all'avvertimento di Gerolamo 5 non c'è molta distanza. Allora il matrimonio diviene adulterio, e quindi peccato. Le motivazioni come si vede sono convergenti ma in certo modo provenienti diverso tramite da una identica fonte. Ma c'è dell'altro: quel malessere diffuso al quale Eloisa accenna più volte. 6 Il matrimonio è una istituzione: che cosa aggiunge al legame d'amore vero? Non getta un sospetto di interesse annullando così la stessa definizione di affetto disinteressato (amicizia o amore) come la dettava Cicerone? 7 La forte conclusione di Eloisa è: "meglio la libertà", non la solitudine non la castità, "che i vincoli e i limiti dell'amore legittimo Quando c'è amore, "meglio sgualdrina che moglie".8 Ho citato la densa pagina di Eloisa perché concentra in modo appassionato i tre filoni della argomentazione antimatrimoniale e da qui si può partire per osservare la posizione di Andrea. Come è noto nel De Amore la opposizione matrimonio/amore è netta. Nel dialogo nobilior nobili 9 la donna oppone un ostacolo « non modicum » alle offerte d'amore: "ho un marito insigne per nobiltà, gentilezza e probità ... e so che m'ama con tutto il cuore: a lui sono legata da una piena devozione amorosa". L'uomo risponde: "mi meraviglio assai che vogliate usurpare il vocabolo amore per significare quell'affetto coniugale che lega nel matrimonio ... ". E pedantemente aggiunge" ... sub amoris verae definitionis non potest ratione comprehendi". C'è più di una ragione sostanziale in questa smania definitoria che caratterizza i gentiluomini del Cappellano: 1. l'affetto fondato su un vincolo già dato (sangue, istituzione, patto) non può essere amore (o amicizia) perché è in certo modo già garantito; 2. l'amore, di cui si parla, è per definiII zione "immoderato, furtivo e nascosto tutte qualità, come già notava 11.

5. Paolo, I Cor. VII,32-35 e Gerolamo, Contra Jovinianum, P.L. XXIII, 28L 6. Historia ... , ed. dt., pp. 130-132, 7. De Amicitia, VIII. 8. Historia ... , ed. cit., p. 130: « dulcius mihi semper existitit amicae vocabulum ... aut concubinae vel scorti... ». In questa forte pagina sta la differenza più rilevante fra la teoria di Andrea Cappellano e le idee di Eloisa: la rispettabilità sociale è una idea-guida nel trattato del Cappellano mentre, è noto, Eloisa valorizza l'ambito interiore, intenzionale e nascosto del legame amoroso. Anche qui Eloisa esprime (con Abelardo) una sostanziale indifferenza al comportamento e alla approvazione sociale del comportamento. 9, De Amore, ed dt., p. 126 ss.

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Ovidio, connesse all'essenza stessa delPamore mentre nel matrimonio i due coniugati sono obbligati a palesare un affetto tranquillo; 3. la gelosia, che nel matrimonio è "da fuggire come la peste", nell'amore libero è "quasi madre e nutrice". Il parere della contessa di Champagne rinforza la tesi. Ancora nel dialogo nobilior nobili troviamo sottoposta a Maria di Champagne la questio se "fra coniugati ci possa essere amore" 10 • Con una certa saccente pedanteria (che può far nascer il sospetto di un esercizio di ironia) Maria nota che 1. nel matrimonio lo scambio di tenerezza avviene per rationem necessitatis e ex debito, mentre tra gli amanti "gratis omnia largiuntur"; 2. la probitas, virtù per eccellenza e somma di virtù, cresce con l'amore, ma non può crescere con il matrimonio che si fonda su un calcolo di fattori già palesi e non su una tensione (il matrimonio è un contratto che deve essere chiaro, l'amore un rischio e una crescita); 3. la gelosia, essenziale al« vero amore», non ha luogo nel matrimonio perché recherebbe lacerazioni e inimicizie; 4. ultima e curiosissima argomentazione (una singolare petitio principii): poiché evangelicamente non si possono servire due signori, cioè avere due amori (e i coniugati hanno pur il diritto di amare), l'amore, sempre quello vero, deve star fuori dal matrimonio. La contraddizione· non consente dunque che i coniugi si amino. Tutto ciò è poi ribadito sinteticamente nella regola "causa coniugi ab amore non est exscusatio recta" 11 • Con queste e altre dichiarazioni si sono delineati due ambiti: quello matrimoniale verso il quale il Cappellano ha spesso espressioni di stima e quello dell'adulterio, assolutamente consigliato anzi prescritto 12 , che coincide con l'amore. Ambedue vengono considerati degli obblighi sociali: ma nel primo la ragionevolezza che presiede alla scelta (in qualche modo definitiva, obbligante e quindi, si direbbe teologicamente, senza merito) sconsiglia assolutamente il tumulto passionale, quindi la gelosia, e rende inutili e ridicoli quegli ovidiani accorgimenti che fanno crescere

10. lvi, p. 136. 11. Si vedano anche le questioni VIII e IX a p. 254: « ubi maior sit dilectionis affectus: inter amantes an inter coniugatos ... ». Argomentazione ripresa anche a p. 264 nella questione XVI. P. Dronke considera che 1a opposizione amore-matrimonio non sia tipica tanto dell'amor cortese quanto caratteristica della « witty casuistry » di Andrea. Penso che la opposizione si estenda a molta letteratura della fin'amors, ricordando anche le osservazioni di C. S. Lewis, L'allegoria d'amore, tr. it., Einaudi, Torino, 1969, p. 15. Si potrebbe aggiungere che il rilievo di questo contrasto in Andrea, conferma il carattere di « clerical performance » del De Amore come sostiene appunto il Dronke. 12. Ivi, p. 136: « nulla coniugata regis poterit amoris praemio coronari nisi extra coniugii foedera ipsius amoris militiae cernatur adiuncta ».

40 l'amore (furtività, esagerazione di sentimenti ed espressioni) 13 • Già r_nolte di queste dichiarazioni entreranno in conflitto con la natura d'amore, ma per ora limitiamoci a sottolineare che fra i due ambiti nonostante le tante ripetute differenze c'è già una forte somiglianza: sono tutti e due in qualche modo istituiti che, proprio per questo, esigono definizioni differenti delle loro qualità. Ma due altri aspetti collegano l'istituto dell'adulterio a quello del matrimonio: la fides 14 e la scelta del compagno 15 La rottura del patto di fedeltà da parte di uno degli amanti è presentata come la fine dell'amore adultero (del vero amore), di quel rapporto esclusivo che, da molti è stato osservato, si modella sul patto feudale 16 • È significativo che Andrea in questa questione alluda anche all'amore mistico 17 (e in modo ambiguo e curioso). Ammettiamo che un amante voglia passare ad altro amore abbandonando il primo. Si può dire che rompe la fede? Il Cappellano non se la sente di arrivare ad affermare che, se il nuovo amore è Dio, l'amante debba rinunciarvi, « tornare ai piaceri del mondo» e all'amore iniziale. Ma se si tratta di un altro amore umano, « dominarum iudicio ad prioris coamantis est reducendus amplexus si prior coamans istud postulare voluerit ». E ciò anche a scapito della altrove affermata spontaneità e quindi autenticità del nuovo innamoramento. In altro passo 18 l'importanza del frangere /idem entra invece in conflitto con quelle che possiamo chiamare le regole ovidiane: nella natura d'amore sta anche la capacità di fingere un nuovo amore, per ingelosire, e mettere così alla prova la fermezza dell'amante. Ergo: « naturam offendit amoris qui suo coamanti propter hoc retardat amplexus ve! eum recusat amare nisi evidenter cognoverit amantem sibi fidem fregisse ».

13. Espressi per esempio nelle regole XX, XXII e XXIII in De Amore, ed. cit., p. 282 e p. 222, ripresi entusiasticamente da Stendhal in De l'Amour. 14, Per esempio a pp. 242, 257, 258. 15. P. 95 e p. 282 (regola VIII). 16. Si veda M. Lot-Borodine, De l'amour profane à l'amour sacré, Nizet, Paris, 1961 (soprattutto il primo capitolo); ma specialmente interessante per questo versante ed altri, lo studio di E. Kohler, Sociologia della fin-amor, tr. it., Liviana, Padova, 1976 (con il quale tuttavia non concordo a proposito dello «spazio» della gelosia nell'amore cortese (op. cit., p. 142). Per la analogia dei due rapporti (dama/innamorato, signore/vassallo, al quale si può aggiungere Madre di Dio/fedele in preghiera), vorrei indicare due punti nei quali la comparazione si concentra: a. in tutti e tre i casi si esprime una situazione privilegiata a favore del primo termine (dama, signore e Madonna), ma b. in tutti e tre i casi paradossalmente si ristabilisce una parità de iure che si esprime con l'amore, lo scambio di beneficio e aiuto nel secondo caso e la pietas/carità, nel rapporto religioso. 17. P. 242. 18. P. 250: «sentenza» della regina Eleonora.

41 Nell'istituto adulterio, a patte dunque qualche capricciosità che rinforza

il vincolo, ci si comporta come nel matrimonio e la rottura del patto d'amore è ammessa soltanto con una esplicita dichiarazione 19 • Ma c'è di più: anche nell'adulterio la dignità dell'amante ha un rilievo centrale e la regola IV raccomanda « eius non cures amorem eligere cum qua naturales nuptias contrahere prohibet tibi pudor ». Ossia: coniuge o amante devono avere le stesse caratteristiche personali e di rango in perfetto parallelismo. A questo punto un parziale risultato l'abbiamo: Andrea mira a descrivere e quindi a prescrivere un comportamento in amore che si esprime nel legame extraconiugale rischioso, furtivo, appassionato ma che ha tutte le parvenze del matrimonio, saldo e osservante dei valori riconosciuti dal!a società come rispettabilità, fedeltà, riserbo di comportamento 20 • Ma allora come può l'amore appartenere a quella sfera selvaggia e naturale come alcuni argomenti contro il matrimonio ci potevano far pensare? A questo punto sembra necessaria l'analisi del concetto di natura e passione. Innanzitutto la definizione, reminiscenza di letture sia scolastiche sia ovidiane: amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus ob quam aliquis super omnia cupit alterius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta completi 21 •

Almeno tre elementi ci interessano per questa analisi: l'amore si subisce e in qualche modo non si sceglie, viene dalla natura e si vive al di fuori dell'ambito della volontà, è per sua caratteristica senza misura, puro desiderio. « Res enim est amor quae ipsam imitatur naturam » 22 : per questa ragione gli amanti non operano una scelta in base a criteri che in altre situazioni sono discriminanti (come «forma», « genus » e, persino« sexus »!), ma solo in base alla« attitudine all 1amore ». La conseguenza è che: « liberius nulli potest esse arbitrium quam si ab eo

19. « Verus amans numquam potest amorem exoptare nisi primitus ob certam iustamque causam prioris cognoverit advenisse defectum »: p. 240. Ciò è ribadito dalla regola II a p. 282. E ancora: « docemur neminem posse vere duplici amore figari»: p. 232. 20. La riservatezza protegge la pace interna del gruppo, come vedremo: De Amore; p. 248 e 264 (questio XVIII), ma anche a p. 16. 21. P. 6. Cfr. le pp. 12-15 dedicate al Cappellano dal Nardi in Dante e Ja cultura medievale, nuova edizione, Laterza, Bari, 1983. 22. P. 34.

42 quod quis tota mentis intentione desiderat velle separati non possit », perché a chi è innamorato nulla è preferibile dell'oggetto desiderato. Questa costrizione ( « amor me cogit ») talvolta assume un pieno valore liberatorio nei confronti delle istituzioni sociali: le « praerogativae » e il « genus » non hanno peso nella scelta d'amore e la « plebea nella corte

d'amore ha gli stessi meriti della contessa» 23 • Ed ecco l'argomentazione tante volte circolante nell'epoca, carica sempre di una sottile e paradossale laicità: l'amore è forza naturale, quindi proviene da Dio e « verosimilmente amando non si può offen~ dere gravemente Dio» 24 • Da questa caratteristica deriva all'amore la sua potenza energetica e vivificante: « res igitur est amor ab omnibus ap~ petenda et cunctis diligenda per orbem qui universorum meruit tristitiam propulsare et alacritatis statum reformare » 25 • Ci ricorderemo di questa osservazione a proposito del rapporto amore/virtù. Nel dialogo nobilior plebeiae l'uomo alla fine delle sue molte argomentazioni traveste con la allegoria del dio Amore, irato verso la donna che lo respinge, la sua ultima perorazione. Ma la donna risponde con un argomento teologicamente ineccepibile: chi opera il bene merita il premio soltanto se l'atto procede « ex caritatis affectu ») « ex cordis a-ffectione » 26 . Insomma è l'intenzione che carica di significato positivo e meritorio l'atto d'amore: argomentazione che sarebbe piaciuta anche ad Eloisa (l'uomo ribatte che pregherà Dio « ut vos cogat amare »). Ancora qualche dato che sottolinea il carattere naturale, non volontario: la passione sembra avere una sua vita indipendente, viene e scompare, la sua natura è di crescere o diminuire 27 , non di essere stabile) non è uno stato, ma una energia. Di fronte alle qualità che sottolineano l'amore come un dato, un accadimento piacevole ma esterno all)uomo) non dominabile e neppure suscitabile, estraneo al dominio dell'arte insomma, che senso ha allora l'accanimento di Andrea a dettar regole, persuadere o distogliere, definire, argomentare pro e contro i sentimenti? Più in generale, è l'antica domanda: che senso ha una ars amandi?

23. P. 100. Si veda anche il passo a p. 66 nel dialogo nobilis plebeiae; e a pp. 18-22, dove si esalta la morum probitas a confronto della origo sanguinis. 24, P. 144. La argomentazione sulla origine divina della natura e quindi dell'amore porta alla approvazione etica di quest'ultimo. Analoga è la posizione di Abelardo nella difesa della logica (scienza che viene da Dio: Dialectica, Reidel, Assen, 1956, p. 469). Anche Jean de Meung nel Roman de la Rose, vv. 7255-7306, esalta la natura e la forza dell'amore fisico facendolo risalire a Dio. 25. P. 154.

26. P. 110. 27. P. 284, ripreso da Stendhal in De l'amour (« l'amore è come una febbre che sale ... »).

43 Ma lasciamo stare l'antica contraddizione e osserviamo più da vicino quella nella quale si dibatte il Cappellano: forse riusciremo a comprendere che valore hanno le regole e le definizioni nelle quali Andrea stringe e ordina la forza d'amore. Due sono le serie di regole dettate, come è noto. La più breve 28 è quasi omogenea e le dodici regole sembrano prevalentemente ispirate ad un modello di comportamento che ha la sua verifica nel rapporto con gli altri più che nei riguardi dell'amato. Vediamole: l'amante deve essere generoso, leale, discreto, benevolo, non pettegolo, insomma cortese (curialis) 29 • Deve evitare specialmente due azioni: legarsi a una donna che si vergognerebbe di sposare e rompere l'armonia e l'amore di un'altra coppia del gruppo 30 • Nella seconda serie 31 , la più ampia, si ribadiscono i comportamenti già definiti virtuosi: la fedeltà (regole III e XII) la generosità (X) il riserbo (XIII) e si riassume il tutto nella probitas (XVIII). Si confermano poi (regola XI e III) i due comportamenti distintivi dell'amore cortese: amare chi è degno (di essere sposato) e non rompere altre unioni. A che cosa possono essere ricondotti questi precetti che disegnano un modello di innamorato certamente non spontaneo ma civilissimo, se per civile si intende attento agli altri e non solo all'amato? Il Cappellano indica una unità formale delle regole facendole risalire alle dominae che le impongono come garanzia per poter entrare nella « milizia d'amore » (regola VII della prima serie). Forse qui siamo vicini al segreto del De Amore e forse si tratta di un segreto comprensibilissimo nei suoi moventi. Utilizziamo l'analisi del Duby" e immaginiamo la soci.età che ci descrive: il potere e il denaro nelle mani dei seniores} uomini sposati e dotati di patrimonio, l'avventura e la conseguente irrequietezza appannaggio degli iuvenes con alle spalle una esistenza instabile e vagabondaggi

28. P. 94. Soltanto tre si riferiscono al rapporto amoroso in sé: « castitatem serbare amanti... », « solatia omnis debet verecundiae pudor adesse ... >> e « in amoris exercendo solatia voluntatem non excedas amantis ». Con ciò il Cappellano disegna un comportamento che anche nella intimità è ben lontano da ogni sfrenatezza. E lo ribadisce con le regole della II serie (p. 282) che prescrivono di essere gentili e non sopraffattori in amore e mantenersi fedeli (regole V e XII). 29. Questo termine applicato al comportamento amoroso individua l'area di udienza del trattato. Si vedano le considerazioni di J. M. Ferrante sul termine « amor cortese» (« Cortés amor in medieval texts », Speculum, 55, 4, 1980). 30. Regole III e IV. 31. P. 282. 32. Mi riferisco a due studi tradotti anche in italiano: G. Duby, Il matrimonio medievale, Il Saggiatore, Milano, 1981 e Il cavaliere, la donna e il prete, Laterza, Bari, 1982.

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irreqmet1. Ma gli iuvenes « sognavano di sistemarsi ». Allo stesso tempo però la preoccupazione per « la continuità delle strutture sociali esclu~ deva la proliferazione di nuove case, dunque un tal mutamento veniva riservato a pochi » 33 • La ideologia cavalleresca aveva sempre celebrato la vita d'avventura,« illusoria contropartita alle frustrazioni dei giovani». Di fatto gli iuvenes erano, con la loro sessualità sfrenata, la tendenza al ratto e alla prepotenza, materiale esplosivo in questa cerchia sodale. In~ terviene allora una sorta di addomesticamento: il signore alloggia e mantiene i giovani e il favore della signora diviene così la posta in gioco nella competizione ... una gara in tutto simile al torneo, .. eccitante soprattutto perché infrange il divieto dell'adulterio ... Il gioco d'amore è dunque 1a espressione di una profonda ostilità al matrimonio ... ma sottolinea la sua importanza, ..·14 •

Come poteva questo gruppo sociale, privilegiato e potente, non lasciarsi distruggere da questa tensione interna inevitabile, che del resto veniva alimentata anche artificialmente fra i suoi membri e conservare cosl le redini del potere nell'ambito più vasto delle società? La maggior parte delle regole di Andrea servono proprio a questo scopo: in alcune riconosciamo la preoccupazione dei pericoli che si corrono (la violenza del sesso: regola XXIX della seconda serie), in altre la cura che i partners siano di rango uguale a quello delle coppie coniugate, cosl che il« gioco d'amore» abbia più probabilità di essere rispettato da giocatori solidali negli interessi. Date queste condizioni (che costituiscono una conferma all'analisi del Duby) cosa si deve fare per mantenere, pur nella dinamica delle aspirazioni contrastanti e delle tensioni, una pace di gruppo che difenda dalla disgregazione e quindi dalla perdita del prestigio e del potere? Bisogna, come dice Andrea, praticare un amore « conservativus » 35 , il che significa certamente un amore che duri, il più possibile stabile, ma anche un amore che conservi e mantenga l'assetto istitrn:ionale, Amore non impulsivo, legami che tengono piacevolmente occupati gli iuvenes ma che non rischiano di ribaltare ad ogni momento le condi-

33. Il matrimonio medievale, p. 32. 34. lvi, p. 33. 35. P, 162 ss. A questa qualità si ricollega la teoria esposta dal ossia dal chierico sull'amore « puro e misto» e le due nature connesse. Andrea adotta spesso procedimenti scolastici spostando l'analisi argomentativa sul puro piano terminologico: così avviene nella indicazione delle due nature presenti nell'uomo (l'animale e la razionale) origini differenti di due comportamenti distinti minuziosamente, quello dell'amore completo (« ad partis inferioris solatia») e quello dell'amore interrotto (« delectatio partis superioris ») V, più avanti a p. 46.

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zioni di pace e stabilità degli happy few: amori che rispettino quindi regole tutto sommato assai strette 36 • All'inizio (quasi come un'esca) Andrea aveva presentato un libero amore, naturale, contenente in sé la sua stessa legge. Questo amore è in adulterio. 37. (Sap. 11,20) in Nova Vulgata Bibliorum Sacrorum Editio, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 1979, p. 1090.

56 di profonde conseguenze, con nuovi atteggiamenti culturali e nuove acquisizioni scientifiche. Facendo ricorso allo strumento dell'analogia, di cui si è parlato, si potrebbe quasi dire che, come nel XII secolo si afferma l'immagine dell'uomo quale microcosmo e quindi luogo privilegiato di similitudini, così si può considerare il XII secolo quale microcosmo del pensiero medievale, luogo privilegiato in cui si confrontano le eredità della tradizione e gli elementi di novità che aprono al futuro. Nelle diverse utilizzazioni del versetto della Sapienza sembra appunto potersi individuare una sorta di progressiva apertura al confronto con la realtà che potrebbe quasi essere interpretata come uno sviluppo interno al!' analogia stessa proposta dalla Scrittura e corrispondente in qualche modo al progressivo aprirsi della cultura cristiana: da una fase in cui cerca garanzie per il proprio esistere, a una in cui organizza il proprio modo di interpretare la realtà, a una infine in cui si confronta con altri modi di concepire la realtà e operare in essa. Fasi che, come si è detto, appaiono in qualche modo ricapitolate e anticipate nella riflessione del XII secolo.

2. La misura dell'analogia

Agostino pone in stretto rapporto le parole della Sapienza con le due affermazioni paoline che garantiscono la possibilità, da un lato, di conoscere la perfezione, il potere e la divinità di Dio attraverso le manifestazioni visibili del creato (Rom. 1,20) 13 e, dall'altro, di interpretare il Vecchio Testamento come prefigurazione della storia della salvezza e anticipazione di verità ben più grandi di quanto appaia da una lettura storica o letterale (1 Cor. 10,11) 14 • Domino Deo nostro, cujus cultores sumus, in laude dictum est quodam Scripturarum loco: « Omnia in mensura, et numero, et pondere disposuisti ». Deinde Apostolica doctrina edocemur. Ea quae facta sunt intellecta conspicere, et ea, quae latent per manifesta investigare .... Deinde Apostolus Paulus ea quae scripta sunt in libris Veteris Testamenti in figura contigisse commemorat ..15 •

13. « Invisibilia enim ipsius a creatura mundi per ea, guae facta sunt, intellecta conspiciuntur, sempiterna eius et virtus et divinitas » (Rom. 1,20). 14. « Haec autem in figura contingebant illis; scripta sunt autem ad cor.reptionem nostram, in quos fines saeculorum devenerunt )> (1 Cor. 10,11). 15. Agostino, Sermo I: De decem plagis, et decem praeceptis, quae per Mosen data sunt Populo ]udaeorum, in Sermones X (PL 46, col. 945).

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Agostino cita in molte altre occasioni l'espressione della Sapienza 16 , mutandone talvolta leggermente la formulazione. Interessano qui i passi in cui più a lungo si sofferma a spiegare il senso dell'affermazione scritturale e dove sviluppa il discorso verso la ricerca di analogie. Nel commentare la narrazione del Genesi, Agostino sottolinea una corrispondenza tra la perfezione del 6 17 , numero dei giorni della creazione, e la perfezione che caratterizza l'ordine tra le creature; e tale corrispondenza gli richiama alla mente il passo della Sapienza: Quapropter, cum eum legimus sex diebus omnia perfecisse et senarium numerum considerantes invenimus esse perfectum, atque ita creaturarum ordinem currere, ut etiam ipsarum partium, quibus iste numerus perficitur, adpareat quasi gradata distinctio, veniat etiam illud in mentem, quod alio loco scripturarum ei dicitur: omnia in mensura et numero et pendere disposuisti 18.

Nasce un duplice problema: dove fossero haec tria 1 mensura, numerus, pondus, in quibus deum disposuisse omnia scriptum est 19, e che cosa si debba intendere quando si dice che Dio in tal modo omnia disposuit. Misura significa un modo o un termine fissato per ogni cosa, numero è invece ciò che le conferisce una specie o una forma e peso, infine, è ciò che la tiene stabile e in quiete nell'ordine complessivo del mondo: ... mensura omni rei modum praefigit et numerus omni rei spedem praebet et pondus omnem rem ad quietem ac stabilitatem trahit 20 •

Ma è appunto Dio che « terminat omnia et format omnia et ordinai omnia» 21 • L'espressione della Sapie11iu non può dunque significare altro se non che Dio dispose ogni cosa in se stesso; Dio infatti è « mensura sine mensura, numerus sine numero, pondus sine pendere » 22 • 16. Cfr. W. J. Roche,« Measure, Number and Weight in St. Augustine », The New Scholosticism, XV, 1941, pp. 350-76. 17. Per comprendere il senso dell'affermazione bisogna ricordare che cosa si intende per numero perfetto nella tradizione pitagorico-platonica cui Agostino si richiama. È perfetto un numero quando è uguale alla somma delle proprie parti, cioè dei suoi divisori. Cfr. Euclide, Elementi VII, def. 22. Per la matematica latina medievale cfr. Boezio, De arithmetica I,19 (PL 43, coL 1097). 18. Agostino, De genesi ad litteram IV,3 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum XXVIII, I, pp. 98-99). 19. lvi, p. 99. 20. Ibid. 21. Ibid. 22. « ... nihilque aliud dktum fotelligitur, quomodo per cor et linp.uam humanam potuit: omnia in mensura et numero et pendere disposuisti, nisi: omnia in te disposuisti? Magnum est paucisque concessum excedere omnia, quae metiri possunt,

58 Misura, numero e peso possono quindi esistere solo in Dio, o meglio sono il modo stesso in cui Dio agisce nel creare le cose. È Dio che, non traendo la propria misura da altro, rappresenta il fondamento di ciò che da essa deriva; è Dio, che non ha da altro una forma, colui da cui tutte le cose ricevono la propria forma; è ancora Dio ciò cui tutte le creature tendono come alla pienezza della propria gioia e quindi momento di appagamento e quiete perfetta, oltre il quale nulla può essere desiderato. Mensura autem sine mensura est, cui aequatur quod de illa est, nec alicunde ipsa est; numerus sine numero est, quo formantur omnia, nec formatur ipse; pondus sine pendere est, quo referuntur, ut quiescant, quorum quies purum gaudium est, nec illud iam refertur ad aliud 2.:1.

Se nel conferire misura, numero e peso si riassume l'azione creatrice di Dio quale causa efficiente, formale e finale, tali caratteri presenti in ogni creatura sono i principi stessi del suo essere. Ma tali principi nel momento stesso in cui fondano l'essere della natura, garantiscono anche la similitudine tra le realtà inferiori e quella superiore: Scire oportet tamen, cuiusmodi similitudo est inferiorum ad superiora. Non enim aliter recte hinc illuc ratio tendit et nititur 24 •

La creatura esiste secondo principi che, manifestandosi nelle sue facoltà, ne mostrano l'analogia con la trinità divina. La misura infatti si esprime nella memoria che coglie singolarmente i pensieri e le conoscenze fissandoli quasi nella loro individualità esistente; il numero si esprime nella visione che distingue la molteplicità delle impressioni, determinandole in modo che la memoria le possa cogliere. La volontà infine, che ordina e riconduce a unità le impressioni della visione cercando di portare a compimento l'attività della sensazione e soddisfare l'intelligenza, è simile al peso 25 • Si trova dunque, già nelle ut videatur mensura sine mensura, excedere omnia, guae numerari possunt, ut videatur numerus sine numero, excedere omnia, quae pendi possunt, ut videatur pondus sine pendere » (ivi, p. 99). 23. Agostino, op. cii., IV,4 (p. 100). 24. lvi, p. 101. 2 st 0 quae ;i·n!ft~:{~ ;u~\;;~~~::: m~~~!iae:< ;rJetu~ui:d ~:ei~i~~ c;~~:~~a,p~d sionem vero numerus pertinere quia licet innumerabilis sit multiplicitas talium visionum, singulis tamen in memoria praescdptus est intransgressibilis modus ... Voluntas vero quae ista coniungit et ordinat et quadam unitate copulat, nec sentiendi aut cogitandi appetitum nisi in his rebus unde visiones formantur adquiescens conlocat, ponderi similis est» (CC, ser. lat., L, p. 355).

0:

59 manifestazioni sensibili dell'uomo quell'analogia con il processo delle persone nella trinità cbe Agostino approfondisce nelle pagine successive del De Trinitate, ricercando nell'interiorità dell'uomo un'immagine di Dio, in certo modo già garantita dalle parole della Sapienza 26. Nelle pagine precedenti della stessa opera, i termini in questione erano stati usati per spiegare in quale modo gli angeli malvagi possano operare nella natura e, conoscendone le potenzialità nascoste, possano produrre effetti straordinari e impressionanti 27 • Misura, numero e peso appaiono in questo contesto i caratteri dell'essere attuale delle cose, che dipende tuttavia dalle disposizioni potenziali ricevute dal creatore. Nam sicut matres gravidae sunt fetibus, sic ipse roundus gravidus est causis nascentium quae in illo non creantur nisi ab illa summa essentia uhi nec oritur nec moritur aliquid nec incipit esse sive desinit 28 •

Attraverso tali cause le cose si manifestano in atto, explicando mensuras et numeros et pondera sua quae in occulto acceperunt ab illo qui omnia in mensura et numero et pendere disposuit 29 •

Questa attualità è in ultima istanza in Dio, che è ~reatore appunto perché ha in sé i caratteri per cui le cose esistono: Sed non est creator nisi qui principaliter ista format, nec quisquam hoc potest nisi ille penes quem primitus sunt omnium quae sunt mensurae, numeri et pondera 30 .

Con immagini e terminologia simile a quella del De Genesi ad litteram, Agostino ribadisce ancora, nel De Trinitate, che ogni cosa creata mostra in sé unità, specie e ordine: Quidquid enim harum est, et unum aliquid est, sicut sunt naturae corporum ingeniaque animarum, et aliqua specie formatur, sicut sunt figurae vel qualita26. « Unde tempus admonet hanc eandcm trinitatem in interiore homine requirere atque ab isto de quo tamdiu locutus sum animali atque carnali qui exterior dicitur introrsus tendere. Obi speramus invenire nos passe secundum trinitatem imaginem dei, conatus nostros illo ipso adiuvante quem omnia skut res ìpsae indicant, ita etiam sancta scriptura in mensura et numero et pendere disposuisse testatur » (ivi, p. 355). 27. Agostino, op. cit., III,8: (Ed, Collegii S. Bonaventurae, 2 volL, Grottaferrata, 1971, val. I, pp, 68-71), 34. Cfr. sopra nota 13. 35. Pier Lombardo, op, cit., p, 70. 36. Ivi, pp. 70-71.

61 gia con la trinità sono i principi stessi del suo esistere, sono la sua attualità. La creatura ha in sé il segno della causa efficiente, l'unità o la misura, il segno della causa formale, la specie o il numero, e il segno della causa finale, l'ordine o il peso. In quanto ha in sé questi caratteri, essa esiste.

Lombardo riprende il tema che ci interessa in una successiva distinctio in cui intende chiarire in che cosa gli angeli fossero uguali e in che cosa invece differissero gli uni dagli altri 37 • Il discorso si fa particolarmente complesso per un gioco di successive tripartizioni che si richiamano e si rispecchiano in ognuno dei termini considerati. Interessa qui non tanto chiarire nel merito tutta l'argomentazione quanto piuttosto illuminare la struttura del ragionamento. Gli angeli appaiono differire: « in substantia spirituali et sapientia rationali et libertate arbitrii» 38 , sul piano cioè dell'essere, su quello del conoscere e su quello del volere e dell'agire. Per chiarire tali differenze occorre considerare singolarmente i tre aspetti. In quanto sostanza, cioè persona, spetta loro una naturae subtilitas e, a questo livello, mostrano « differentem essentiae tenuitatem,

et differentem sapientiae perspicacitatem, atque differentem arbitrii habilitatem » 39. In quanto sapienza, cioè forma, spetta loro l'intelligentiae perspicacitas, ma sul piano della forma emergono ulteriori differenze in modo simile a quanto si verifica nei corpi: Sicut in corporibus nonnulla differentia est secundum essentiam ac formam et pondus ... Ad bune igitur modum credendum est illas spirituales naturas convenientes suae puritati et excellentiae et in essentia et in forma et in facultate differentias accepisse in exordio suae conditions 40 •

Infine, in quanto volontà, spetta loro la voluntatis rationa/is habilitas, ma anche in questo caso si possono individuare differenze:

In ipsa facultate arbitrii differentia animadvertenda est secundum differentem naturae virtutem, et differentem cognitionis et intelligentiae vim 41 , A conclusione del ragionamento, Lombardo ricapitola in certo senso la propria analisi ricordando che gli angeli erano dunque differenti 37. Pier Lombardo, op. cit., L II, dist. III, cap. 14: « An omnes angeli fuerint aequales in essentia, sapientia, libertate arbitrii»; cap. 15: « Quae communia et aequalia habuerunt angeli» (ed. cit., pp. 342-43). 38. lvi, p. 342. 39. lbid. 40. lbid. 41. lbid.

62 « in subtilitate essentiae, et intelligentia sapientiae, et libertate volun-

tatis » 42 , e sottolinea che tali differenze appaiono evidenti solo al creatore, a colui cioè che ha operato nel modo descritto dalla Sapienza: Has discretiones intelligibiles invisibilium naturarum ille solus cornprehendere potuit et ponderare, qui cuncta fecit in pendere, numero et mensura 43 •

Misura, numero e peso risultano quindi ciò in cui sono implicite tutte le differenziazioni prima esposte. Si tratta di principi la cui distinzione, come si è visto, si ripercuote sul piano dell'essere, su quello del conoscere e su quello del volere, ma il loro significato proprio si· ha a livello dell'essere. Infatti il comprehendere e il ponderare, cioè il conoscere e valutare o, forse meglio, il determinare e finalizzare le creature, sono anche in Dio, nella misura in cui sia possibile operare distinzioni, conseguenze dell'aver fatto ogni cosa in misura, numero e peso. Siamo dunque di fronte a un'interpretazione essenzialmente metafisica dell'analogia: gli aspetti che nelle creature mostrano l'immagine della trinità, secondo l'essere, il sapere e il volere, sono i principi metafisici dell'essere stesso delle creature. Lombardo riprende l'immagine della Sapienza, discutendo ancora un problema relativo agli angeli, e precisamente la loro disposizione in diversi ordini e il fondamento delle loro distinzioni. Per quanto ci interessa non aggiunge alcun elemento di novità, limitandosi a ripetere quan~ to già esi,osto 44 • Interessante è invece la testimonianza offerta da Teodo~. rico di Chartres, in cui la tradizione agostiniana dell'analogia trinitaria si fonde con la dialettica unità-molteplicità che chiarisce sia il rapporto tra Dio e il creato sia le relazioni interne alla trinità. Nei commenti al De Trinitate di Boezio, Teodorico afferma infatti esplicitamente che misura, numero e pe~o sono segno della trinità nelle creature: Hanc Trinitatem in rebus singulis investigar Augustinus in libro De Tri~ nitate et secundum phisicam doctrinam invenit pondus mensuram et nu~ merum: trinitatem in rebus singulis 45 , 42. lvi, p. 343. 43. Ibid. 44. Pier Lombardo, op. cit., I. II, dist. IX, cap. 50: « Utrum hi ordines ab initio creationis distincti fuerint ». « Alii enim, ut praedi::dmus, superiores, alii inferiores conditi sunt; superiores, qui natura magis subtiles et sapientia amplius perspicaces; inferiores, qui natura minus subtiles et intelligentia minus perspicaccs facti sunt. Has autem invisibiles differentias invisibilium solus iile ponderare ··potuit, qui omnia in numero et mensura et pondere disposuit » (ed. cit., p. 374). 45. Teodorico di Chartres, Glosa super Boethii librum De Trini/ate V, 17

63 e che si tratta dei principi metafisici secondo cui Dio crea e determina tutte le cose: Unde Pater in Verbo creat omnia i.e. in existendi equalitate. Sic enim creat omnia ut in eis nichil ultra sit nichil infra ut dicit creavit deus omnia in modo pendere numero et mensura. Et illud in deo inquit pondus est sine pendere, numerus sine numero et cetera 46 •

Tuttavi'1: il contesto in cui viene usata l'analogia sapienziale suggerisce un lieve mutamento di significato che trova fondamento proprio nella dialettica unità-molteplicità con cui Teodorico illumina il processo intrinseco alla divinità. L'equalitas in cui, secondo le parole appena citate, le cose vengono create secondo misura numero e peso, è il Verbo che ha origine dal Padre come dall'unità ha origine l'uguaglianza. Ma dall'unità nasce anche la molteplicità e quindi tutte le ineguaglianze e le differenze: i numeri 47 • Nel Verbo dunque che, in quanto equalità dell'unità ha in sé le idee delle cose, si trovano sia quella che si può definire misura metafisica delle cose, cioè il loro essere 48 , sia il loro numero, e quindi il loro determinar~ si e il loro differire. È infatti la molteplicità, caratterizzata dal numero, a determinare le cose create: la creazione dei numeii, secondo la decisa affermazione di Teodorico, è la creazione stessa delle cose 49 • Il rapporto dialettico di equalità e molteplicità entro il Verbo divino sposta progressivamente Pattenzione a livello del numero, a livello cioè dell'essere determinato e quindi conoscibile. Teodorico stesso conclude le proprie considerazioni ribadendo che ]'equalità dell'unità è causa dell'essere di tutte le cose, eterna causa formale, conformemente alla quale l'eterno artefice conferisce a ciascuna cosa il proprio modum existendi 50 • Ma aggiunge immediatamente che tale equalità è la verità (N. M. Hiiring, Commentaries on Boethius by Thierry of Chartres and his School, Pont. Inst. of Mediaeval Studies, Toronto, 1971, p. 296). 46. Teodorico di Chartres, Commentum super Boethii librum De Trinitate Il,35 (N.M. Haring, op. cìt., p. 79). 47. « Hec igitur duplex generatio circa unitatem potest reperirL Et quidem per alias numeros moltiplicata omnes numeros generat. Ex se autem et ex sua substanria nichil aliud generare potest nisi equalitatem cum alii numeri ex se multiplicati inequalitates producant. Unitas enim semel nichil aliud est quam unitas » (Teodorico di Chartres, Tractatus de sex dierum operibus, 38; N. M. Hating, op. cit., p. 571). 48. « Unitas vero que multiplicata componit numeros, vel unitates ex quibus numeri constant, nichil aliud sunt quam vere unitatis participationes que creaturarum existentie sunt >> (Teodorico di Chartres, op. cit., 34, p. 569). 49. « Unitas igitur est omnipotens in crcatione numerorum. Sed creatio numerorum rerum est creatio » (Teodorico di Chartres, op. cit., 36, p. 570). 50. Teodorico di Chartres, op. cit., 45, p. 574.

64 stessa della cosa 51 . Il Verbo infatti altro non è che l'eterna predefinizione, da parte del Creatore, di tutte le cose, cioè la sostanza, la qualità, la quantità di ciascuna cosa o il modo in cui si trova nel suo valore, nel tempo o nel luogo 52 .

3. Il numero della differenza L'indicazione offerÌa da Teodorico ci porta quindi a riconsiderare le espressioni agostiniane da cui si è mosso il nostro esame. Il termine, il limite conferito alle cose dalla misura è stato osservato innanzitutto, per cosl dire, dalla parte di Dio, come principio di esistenza o sussistenza nelle creature, ma può ·essere considerato dalla parte ~elle cose, come intrinw seca limitazione per cui un essere è determinato da una forma. Se riprenw diamo una lettura analogica °dell'analogia sapienziale, si potrebbe dire che misura, numero e peso vengono in alcuni casi giocati tutti sul piano della misura, e appaiono quindi principi metafisici dell'essere, mentre in altri casi vengono trasposti sul piano del numero e assumono allora il significato di condizioni essenziali del conoscere. Nelle parole di Teodorico si intravvede una direzione ma il riferimento esplicito alla Sapienza è ancora utilizzato a livello del!' essere. A livello del conoscere viene invece impiegata la citazione da Onorio di Autun che, ripercorrendo nella Clavis Physicae l'insegnamento di Scoto Eriugena, discute la tesi secondo cui Dio non può intelligere di se stesso quid sit. Un'affermazione di questo genere non significa altro se non che Dio sa di non essere alcuna delle cose di cui si può conoscere quid sunt perché in aliquo cognoscuntur 53 • Se infatti Dio potesse essere conosciuto in questo modo, non sarebbe infinito, privo cioè di limiti, né incomprensibile, non definito né determinato da una forma, né infine innominabile, al di là quindi di ogni analogia con la realtà 54 • I termini con cui si è cercato di tradurre i caratteri che in questo ambito vengono attribuiti a Dio richiamano esplicitamente quelli con cui

51. Ibid. 52. lvi, 46, pp. 574-75. 53. « Nemo autem sapientum, audiens de Deo se ipsum intelligere non posse quid sit, aliud debet existimare nisi ipsum Deum, qui non est quid, omnia ignorare in se ipso quod ipse non est ... ; nesdt igitur quid ipse est, hoc est nescit se quid esse quoniam cognoscit se nullum eorum, que in aliquo cognoscuntur et de quibus potest dici vel intelligi quid sunt, omnino esse» (Honorius Augustodunensis, Clavis Physicae, a cura di P. Lucentini, Storia e Letteratura, Roma, 1974, p. 79): 54. « Nam si in aliquo se ipsum cognosceret, non omnino infinitum et incomprehensibilem, innominabilemque se ipsum iudicaret », (ivi, p. 79).

65 si era cercato di chiarire, nelle pagine precedenti, l'espressione della Sapienza. E non si tratta di un accostamento forzato, dal momento che, immediatamente dopo, Onorio precisa in quale senso le creature siano conoscibili in aliquo: Nulla creatura est, sive visibilis sive invisibilis, que non intra terminos proprie nature in ali quo coertetur « in mensura et numero et ponq,ere » 55 .

Misura, numero e peso vengono dunque usati, in questo contesto, ancora come pdncipi dell'essere, in quanto rappresentano i termini della natura di ogni creatura esistente, ma principi da cui soprattutto dipendono le condizioni del conoscere. Dio che, agostinianamente, non subisce tali limitazioni, non può per questo motivo essere conosciuto nel modo in cui vengono conosciute le creature: Solus enim ipse est mensura sine mensura, numerus sine numero, pondus sine pendere, quia a nullo nec a se ipso mensuratur numeratur ordinatur, nec in ulla mensura in ullo numero in ullo ordine intelligit se esse, quoniam in ullo eorum substantialiter continetur cum solus vere in omnibus super omnia infinitus existat 56 •

La dialettica eriugeniana di finito-infinito 5\ nel momento in cui viene espressa con J'immagine tratta dalla Sapienza} si definisce in termini di problema conoscitivo e ptecisa le condizioni che fondano una concezione negativa della teologia. Il valore, il tempo e il luogo di cui parla Teodorico sono, in Onorio, i termini della natura che, nello stesso tempo in cui circoscrivono e delimitano l'essere, ne garantiscono le condizioni di conoscibilità. Proprio quando vengono considerati da questo secondo punto di vita, sono indicati con le parole della Sapienza. Anche se all'interno della più generale concezione metafisica eriuge• niana, ci troviamo però esplicitamente sul livello del conoscere. Su questo stesso livello l'espressione sapienziale viene usata da un altro maestro di Chartres: Clarembaldo di Arras. Commentando, come Teodorico, il De Trini/ate di Boezio, Clarembaldo affronta la questione della dimostrabilità dell'esistenza di Dio, con riferimento al rapporto tra mutabile e immutabile. Se ciò cbe è mutabile viene considerato dipendente da un altro mutabile, il problema si ripropone a proposito di tale causa, e la ricerca deve quindi mettere capo a un principio immutabile se non

55. lvi, p. 79.

56. Ibid. 57. Cfr. su questo tema M. Dal Pra, Scolo Eriugena, Bocca, Milano, 1951.

66 si vuole procedere al di là di ogni limite 58 . Ma all'argomento basato sull'assurdità di un regresso all'infinito si può obiettare che in geometria si incontra l'infinita divisibilità del continuo senza cbe ciò introduca assurdità insostenibili 59 • Esiste tuttavia, secondo Clarembaldo, uno scarto tra il modo di procedere della conoscenza matematica, che può estendere la propria capacità critica fino ad ammettere l'infinito, e quello della conoscenza delle cose naturali che deve limitarsi a considerare le cose come effettivamente sono: respondemus parum nobis obici quoniam rerum naturalium taroetsi nobis incognitus tamen certus est numerus. Omnia enim in numero et pondere et mensura ab Opifice-Forma facta sunt. Eratque ipse numerus ab aeterno rerum creandarum in animo Conditoris exemplar 60•

I termini della Sapienza riassumono dunque le condizioni secondo cui procede la conoscenza della natura in quanto distinta dalla conoscenza di tipo matematico. E tali condizioni operano appunto sul piano dei numeri: è la molteplicità determinata e definita dal creatore a porre le differenze e quindi a permettere alla conoscenza umana di distinguere e, in via di principio, di esaurire l'enumerazione delle realtà empiriche. È a livello del conoscere che l'esemplarità delle idee nel Verbo si definisce come misura, numero e peso. Proprio come punto di partenza per elevarsi alla conoscenza di questa esemplarità, tali nozioni vengono impiegate in un altro testo del XII secolo. Ruperto di Deutz, nel commentare il libro dell'Esodo, paragona il tabernacolo, a proposito del quale l'Apostolo dice quod fixit Dominus, non homo (Hebr. 8, 2), al mondo, creato dallo stesso artefice divino. Come nel tabernacolo si rispecchia il modello che Dio mostrò a Mosè, secondo la testimo~ianza dell'Esodo - Inspice et /ac secundum exemplar, quod tibi in monte monstratum est (Es. 25 ,40) - , così la struttura

58. « Si autem illud factum est, nec ab uno immutabili principio, restat ut ab aliquo mutabili factum sit illudque item ab, alio eiusque descensionis alius ab alio non offendetur terminus » (Tractatus magistri Clarembaldi super librum Boethii De Trinitate IV, 24; N. M. Hiiring, Li/e and Works of Clarembald of Arras. A Twelfth•Century Master of the School o/ Chartres, Pont. Inst. of Mediaeval Studies, Toronto, 1965, p. 154). 59. « ... ut Euclides in Geometria demonstrat, linea omnis ex lineis composita unde cautius intuenti linearum occurret infinitas » (Clarembaldo, op. cit., IV,25, p. 154). 60. Il testo continua: « At in mathematicis nichil prohibet enim vires \p. infinitum extendi et rem quamlibet aliter quam actu est meditari ut quoniam lineam disdplinaliter diffinientes longitudinem sioe latitudine esse didmus cum tamen naturae opere nichil longum sine lato inveniatur » (ivi, pp. 154-55).

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del mondo rispecchia il modello che, secondo la Sapienza, ha governato l'opera della creazione: Haec tanta auctoritas architecti Dei illius tabernaculi manufacti structuram toti mundo spectabilem fedt. Uhi? In hac sancta et veridica Scriptura, quae retinuit et oblivioni sustulit aedificationis illius mensuras universas numerosque et pondera 61 •

Troviamo significativamente unite in questo passo due simbologie che nella tradizione medievale sorreggono il lavòro di esegesi condotto sia sul libro della Bibbia sia su quello della natura. La simbologia architettonica del tabernacolo e quella numerica della Sapienza servono però in questo caso specifico per indicare come le cose visibili siano per l'uomo il punto di partenza di una conoscenza che vuole elevarsi fino alla contemplazione dei modelli eterni: Divertunt huc omnes, qui in hoc mundo peregrinantur, regni caelorum milites, qui pertranseunt et manentem hic non habentes civitatero futuram inquirunt atque caelestium, quae iam ex parte cognoscunt, hic exemplaria contemplantur, ut profìciant ad cognoscendum. Qui et mirantes, dicunt; Quam dilecta tabernacula tua, Domine virtutum (Ps. 83, 2) ◊ 2 •

Seguendo questa sorta di processo di svolgimento e di esteriorizzazione che l'analogia della Sapienza suggerisce in se stessa, ci si trova condotti dal liyello metafisico a quello della conoscenza, dai principi dell'essere alle condizioni del conoscere, dove le forme, nella dialettica del simile e del dissimile, distinguono le cose rendendole conoscibili e, al tempo stesso, innalzano l'intelletto umano all'esemplare eterno sul cui modello le cose sono create. Tornando alle suggestioni agostiniane, si può dire che in un caso misura, numero e peso sono, per così dire, articolazioni della misura stessa, mentre nel secondo appaiono articolazioni interne al numero. Un passo ulteriore di questo itinerario da Dio alle cose è suggerito dalle parole stesse di Ruperto che riprende una seconda volta l'immagine della Sapienza nella sua presentazione delle arti liberali. Le discipline del trivio e del quadrivio hanno la funzione di distogliere la conoscenza dalla ricerca di quanto è inutile e fine a se stesso per rivolgerla invece a quanto nelle cose rappresenta l'essenziale e ci parla del creatore: 61. Ruperti Tuitiensis, De Sancta Trinitate et operibus eius, XIII: In Exodum liber quartus (CC, Cont. Med. XXII, p. 745). 62. Ivi, p. 745.

68 Missae sunt ergo in opus 1 ut non iam quod superfluum erat de creatura mundi fabularentur, sed serio fideliterque quod expediebat de creatore loquerentur, bonumque ad honorem eius sermonem opere splendido texentes operarentur, id est ut non iam res verbis, sed verba rebus ornarentur 63 •

4. Il peso della volontà

La concezione certamente tradizionale delle arti liberali proposta da Ruperto rivolge tuttavia l'attenzione verso il mondo delle realtà empiriche, indicando strumenti conoscitivi che dovrebbero infatti consentire non di confondere le cose nel gioco delle parole ma di fondare il discorso su una precisa rispondenza nella realtà. Non è un caso che tale prospettiva venga sviluppata nei capitoli che, entro la propria opera, Ruperto dedica alle opere dello Spirito Santo. Tra le discipline del quadrivio, un posto particolare spetta all'aritmetica il cui valore viene sottolineato dalla Scrittura stessa: Arithmetica, id est numerorum ratio, in multis sanctarum Scripturarurn locis, quantum mysterium habeat, elucet, Non enim frustra in laudibus Dei dictum est: Omnia in mensura et numero et pendere fecisti 64 •

Segue un duplice ordine di esemplificazioni. Le conoscenze matematiche servono per comprendere i simboli della Sacra Scrittura e quindi rappresentano, come si è già notato, uno strumento fondamentale per l'esegesi 65 • Un secondo ambito in cui i numeri consentono una conoscenza più precisa è quello riguardante il calcolo delle ore, dei mesi e degli anni". Si tratta quindi di un campo della conoscenza naturale, di quello anzi più legato, nella tradizione altomedievale, al calcolo, all'uso cioè dello strumento aritmetico nel senso anche tecnico di computo. Non

63. Ruperto, op. cit., XL: De operibus Spiritus Sancti liber VII, De Scientia (CC, Cont. Med. XXIV, p. 2049). 64. lvi, p. 2066. 65. « Senarius namque, qui partibus suis perfectus est, perfectionem mundi quadam numeri sui significatione declarat. Similiter et quadraginta dies, quibus Moyses et Helias et ipse Dominus ieiunaverunt, sine numerorum cognitionc non intelliguntur. Sic et alii in Scripturis sacris numeri existunt quorum figuras non nisi huius artis scientiaeque peritis solvere possumus )> (ivi, p. 2066). 66. « Datum est etiam nobis ex parte aliqua sub numerorum consistere ,disciplina, quando horas per eam discimus, quando de mensium curriculo disputamus, quando spatium anni redeuntis agnoscimus. Per numerum quidem ne confundamur, instruimur » (ivi, pp. 2066-67).

69 sembra allora casuale il riferimento ali'auctoritas di Isidoro 61 che insiste non solo sul numero come principio delle cose, ma anche sul computum che distingue l'uomo dall'animale, il quale appunto non conosce ca/culi rationem. Le indicazioni tratte dalla lettura di Ruperto trovano una conferma e, in certo senso, un completamento in un altro mistico del XII secolo. Nel momento in cui si propone di fornire le conoscenze di base indispensabili, anche in questo caso, soprattutto per la buona comprensione della Scrittura, Riccardo di S. Vittore propone la classica divisione della matematica nelle quattro discipline - aritmetica, musica, geometria, astronomia - e ne precisa gli oggetti specifici 68 • L'aritmetica si distingue dalla musica in quanto, come già aveva insegnato Boezio, la prima si occupa del numero mentre la seconda studia i rapporti tra i numeri, le proportiones. In questo secondo contesto Riccardo riprende l'espressione della Sapienza: Musica alia mundana, alia hurnana, alia instrumentalis. Mundana alia in elementis, alia in planetis, alia in tempotibus. In elementis alia in pendere, alia in numero, alia in mensura ...69 •

I, rapporti numerici possono dunque essere considerati con riferimento al mondo terrestre, al mondo celeste e ai tempi. I rapporti riscontrabili nella natura sublunare sono, in particolare, quelli che possono essere articolati secondo l'immagine di misura, numero e peso. Anche se nella concisione del testo, si va dunque al di là di quanto affermato da Ruperto. Ci si riferisce non solo ai simboli numerici nascosti nella sacra pagina o nel libro della natura e neppure soltanto a una indicazione generale sull'utilità del calcolo, ma a una più precisa utilizzazione dello stmmento aritmetico per lo studio dei rapporti matematici presenti nella natura. Altro non si può chiedere a due rappresentanti della corrente mistica e speculativa del XII secolo. Ci hanno condotto sul piano dei doni dello Spirito Santo, per usare le parole di Ruperto, e hanno indicato come l'immagine sapienziale giochi un ruolo anche a livello delle conoscenze specificamente aritmetiche che proprio nel 67. Il brano di Ruperto si conclude con la citazione letterale delle parole di Isidoro riportate sopra nella nota 10. 68. « Quatuor sunt itaque species mathematicc: arithmetica, musica, geometria, astronomia. Arithmetica tractat de numero, musica de proportione, geometria de spatio, astronomia de motu. Elementum arithmetice est unitas, elementum musice est unisonull)., elementum geometrie est punctum, elementum astronomie est instans }> (Riccardo di S. Vittore, Liber Exceptionum I,8 1 texte critique publié par J. Chatillon, Vrin, Paris 1958, p. 107). 69. Riccardo di S. Vittore, op. cit., I,10, p. 108.

70 corso del secolo conoscono l'inizio di un grande processo di arricchirnen-' to e rinnovamento basato sui nuovi contributi provenienti dalla cultura greca e araba. Per rendere in qualche modo armoniosa e compiuta la lettura analogica dell'analogia sapienziale che fin qui si è proposta ci soccorre però un testo che, agli inizi del XIII secolo, segnala l'avvenuta acquisizione di un nuovo sapere matematico e quindi l'avvio di una nuova tradizione destinata a svilupparsi nei secoli successivi. Il Liber abbaci di Leonardo Fibonacci non mostra alcun interesse né per le simbologie numerologiche, che più volte abbiamo incontrato, né per una giustificazione filosofica dell'importanza della matematica. Si tratta di una presentazione tecnica delle nuove conoscenze acquisite da Leonardo nei viaggi che gli hanno permesso di frequentare i più importanti centri commerciali mediterranei 70 • Nella sua presentazione delle cifre indoarabe e dei metodi con cui si possono eseguire le operazioni aritmetiche con tali cifre, Leonardo ricorre a numerosissimi esempi, frequentemente legati al mondo del commercio e degli scambi monetari. Ci si trova dunque su un livello esplicitamente tecnico-pratico senza alcuno di quei caratteri tradizionali costantemente rintracciabili nelle presentazioni altomedievali delle discipline matematiche nel contesto delle arti liberali. Non si trovano dunque in Leonardo citazioni scritturali tra le quali ricercare il versetto sapienziale. Tuttavia in un capitolo dedicato a problemi di ricerca del quarto proporzionale e riguardanti essenzialmente operazioni commerciali, si trova un'espressione che richiama l'attenzione. In omnibus itaque negotiationibus quattuor numeri proportionales semper reperiuntur, ex quibus tres sunt noti, reliquus vero est ignotus: primus quidem illorum trium notorum numerorum est numerus venditionis cuiuslibet mercis, sive constet numero, sive pendere, sive mensura ... Secundum autem est pretium illius venditionis, hoc est illius primi numeri ... Tertius vero quandoque erit aliqua eiusdem vendite mercis quantitas, cuius pretium, scilicet quartus numerus ignoratur; et quandoque erit aliqua similis quantitas secundi pretii, cuius merces, scilicet quartus ignotus numerus, iterum ignorabitur 71. 70. « Ubi ex mirabili magisterio in arte per novem figuras indorum introductus, scientia artis in tantum mihi pre ceteris placuit, et intellexi ad illam, quod quicquid studebatur ex ea apud egyptum, syriam, greciam, siciliam et provinciam cum suis variis modis, ad que loca negotiationis tam postea peragravi per multum studium et disputationis didici conflictum )> (Leonardo Pisano, Liber Abbaci, pubblicato da B. Boncompagni, Tipografia delle scienze matematiche e fisiche, Roma, 1857, p. 1). 71. lvi, p. 83.

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Non vi sono elementi per sostenere che Leonardo faccia consapevolmente riferimento alla terminologia della Sapienza né pare opportuno discutere se la scelta di tali vocaboli, per indicare l'entità della merce cui si riferisce il prezzo rappresentato dal secondo dei numeri noti, sia inevitabile o sia suggerita da un uso ricorrente di una terminologia impiegata anche in contesti radicalmente diversi come quelli sopra esaminati. Ci si può limitare al fatto che, anziché ricorrere a un unico termine generico e riassuntivo come numerus, adatto a indicare ogni possibile caso, o elencare più eventualità in cui comparissero termini specifid per indicare, ad esempio, dimensioni, volumi, perfezioni o durate, Leonardo sceglie solo tre, e questi tre termini: misura, numero e peso. È un fatto dunque che, se non il versetto della Sapienza, almeno i termini che in esso compaiono e vengono collegati, ricorrono, alla fine del periodo su cui si è concentrato l'esame, in un contesto assai diverso da quelli prima considerati. Siamo ormai a livello dell'operare sulle realtà naturali, con i metodi delle nuove conoscenze matematiche, e nel quadro delle attività commerciali che si sviluppano in modo parallelo all'allargamento degli orizzonti culturali. Dal livello dei rapporti tra creatore e creature si è giunti, attraverso progressivi slittamenti di significato, allo studio dei rapporti matematici, nel senso specifico di proporzioni. Tutto ciò suggerisce una lettura analogica dell'analogia sapienziale basata sui diversi contesti in cui appare e sui diversi significati che in essi viene ad assumere. Per riprendere il discorso iniziale, si può dire che, nel XII secolo, l'analogia viene giocata a volte tutta sul piano della misura o dell'essere, a volte su quello del numero o del conoscere e infine su quello del peso o dell'ordinare e dell'operare. In questo senso sembra che i diversi significati assunti nel XII secolo da tale espressione, ricorrente in tutto il Medioevo, suggeriscano in qualche modo un'analogia con i momenti di una vicenda culturale che negli stessi anni pone, su nuove basi, le premesse per futuri sviluppi. La cultura cristiana che dapprima ricerca le ragioni e i fondamenti del proprio esistere, si pone in un secondo tempo più decisamente l'obiettivo di allargare le proprie conoscenze e giunge infine, particolarmente in questo periodo, a confrontarsi apertamente con altre tradizioni culturali per acquisire anche gli strumenti necessari, a livello teorico e pratico, per operare nella realtà naturale e sociale. Se si vuole usare ancora una volta la terminologia su cui abbiamo riflettuto, si potrebbe dire che ormai esistono le condizioni perché il mondo latino occidentale possa procedere finalmente a misurare, numerare e pesare.

Sezione seconda

MOMENTI DI STORIA DELLO SCETTICISMO

LE RADICI PRESOCRATICHE DELLA GNOSEOLOGIA SCETTICA DI PIRRONE

di Stelio Zeppi

Lo scetticismo greco sorge per opera di Pirrone e consiste, in ultima istanza, sul piano gnoseologico, al suo apparire, nella tesi secondo cui la realtà sostanziale o noumenica delle cose sfugge ad ogni conoscenza certa, la quale si arresta, intesa come affezione praticamente valida più che come atto teoretico, alla fenomenicità (ck il fr. di Timone che dice, nel testo riportato da Diogene Iaerzio, IX,11,105: « non assicuro che il miele sia dolce, riconosco che tale esso appare »; concettualmen~ te identica, quanto ad attribuzione a Pirrone del dualismo di fenomeni e cose in sè, è la testimonianza di Enesidemo, riferita da Diogene L., IX,11,106 subito dopo il fr. di Timone, come ad esso affatto omogenea: « Enesidemo nel I libro delle sue Ragioni Pirroniane dice che Pirrone nulla definisce dogmaticamente, perché non lo consente la contraddizione, ma segue i fenomeni, e la medesima cosa è detta da Enesidemo nelle sue opere Contro la sapienza e Sulla ricerca »), essendo inetta a supe~ rare l'aporia del dissòs l6gos (« Pirrone diceva che niente è bello né brutto, niente è giusto né ingiusto, ... giacché nessuna cosa è in quel dato modo più che in quel dato altro»: cfr. Ascanio d'Abdera in Diogene L., IX,11,61, nonché Enesidemo, ivi, I.e.). Che lo scetticismo pirroniano derivi dall'antilogismo e su questo si fondi è confermato, altresl, dal fr. 59 Diels di Timone su Senofane, dal quale si evince che il fedele discepolo di Pirrone considera l'avvedutezza mentale, ossia la sospensione del giudizio, come il frutto della presa di coscienza dell'onnipresente dissòs l6gos 1 bi,. 1. Che lo scetticismo di Pirrone derivi dall'antilogismo sembra ulteriormente confermato daJla probabile paternità pirroniana (persuasivamente sostenuta dal Waddington) di queJla parte dei dieci tropi della epocbé di Enesidemo che ha tutta

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Già gli antichi tentarono di rintracciare le principali prefigurazioni e i più significativi precorrimenti del pirronismo, né è Iec.ito esimersi dal compito di esaminare criticamente, sia pure in breve, i risultati dei loro sforzi.

l'aria di riprodurre il ricordo personale di una esperienza compiuta da Pirrone nel corso del suo viaggio al seguito di Alessandro Magno: tra i vari esempi di diffe~ renti, anzi, divergenti, nature umane, addotti nell'illustrazione del secondo tropo, viene ricordato il caso di un tal Demofonte, maggiordomo di Alessandro, il quale si riscaldava all'ombra, mentre sentiva freddo se si esponeva al sole (Sesto E., Schizzi pirroniani, I,82; Diogene L., IX,11,80); una eco di siffatto antìlogismo pirroniano è dato cogliere nella parte conclusiva della testimonianza di Aristocle (in Eusebio, Praepar. Evang., XIV, 18), là dove essa riporta la tesi dei due primi scettici, secondo la quale « di qualunque cosa si tratti, diremo che non bisogna affermarla più che negarla, oppure che bisogna nello stesso tempo affermarla e negarla, oppure che bisogna né affermarla né negarla» (dove è palese che il principio così formulato coincide con quello attestato da Ascanio di Abdera, secondo cui, a parere di Pirrone, alla questione se una cosa sia bella o brutta, giusta o ingiusta, bisogna rispondere che « ogni cosa non è più questo che quello»). Che, poi, l'antilogismo stia a fondamento della sospensione del giudizio nella dottrina scettica vista neila sua globalità storica, è cosa ben nota (Diogene L., IX,11,74-76; Sesto E., Schizzi pirroniani, I,203). 1 bis. Alla attribuzione di una posizione scettica a Pirrone sembrano ostare due difficoltà, le quali, però, a ben guardare, risultano irrilevanti. La prima consiste nel fatto che Cicerone non include nelle sue enumerazioni dei filosofi negatori della validità delle nostre conoscenze il nome di Pirrone: vedremo più avanti che le vedute ciceroniane circa le origini dello scetticismo sono sprovviste di effettiva credibilità. La seconda è di maggior peso, ed è data dal contrasto che sembra sussistere tra due frammenti di Timone, con ogni verisimiglianza utilizzabili come materiale dossografico pertinente a Pirrone. Da un lato, Timone - sulle orme, è da credere, del maestro, e in pieno accordo con la testimonianza di Ascanio d'Abdera su Pirrone - proclama che bene e male esistono non physei ma n6moi (Sesto E., Contro i matematici, XI,140, secondo la lezione di Hirzel: dove è evidente un influsso sofistico sullo scetticismo delle origini, a dispetto degli atteggiamenti antisofistici ostentati da Timone); dal lato opposto, il medesimo Timone scrive, probabilmente facendo parlare il maestro: « io ti dirò come a me le cose appaiono essere, avendo per regola un retto discorso di verità, e cioè come la natura del divino e del bene è sempre la stessa, e come da essi provenga all'uomo Ia vita più equilibrata>~ (fr. 68 Diels). Quest'ultimo testo timoniano sembra, a prima vista, accreditare a Pirrone il possesso e l'insegnamento di dottrine aventi un contenuto positivo, in opposizione al testo precedente, che ribadisce lo scetticismo radicale del caposcuola. In realtà, non v'è tra i due contraddizione tale da rendere l'uno o l'altro dossograficamente inaccettabile (si ponga mente, tra l'altro, al fatto che, nel secondo testo, il parlare annuncia che egli esporrà ciò che a lui pare essere la verità e non già la verità tout court). I due testi possono venire entrambi red.1perati per due diverse -vie, che a me paiono compossibilì. La prima è quella pro• posta dal Brochard, il quale nega che contraddizione vi Sia: tra la teoria e la pratica, la speculazione e la vita morale, Pirrone e Timone operano una separazione netta, sicché, mentre da un lato respingono tutte le teorie, dall'altro professano la certezza, affatto pratica e morale, di aver scoperto la migliore maniera di v.ivere e d'accostarsi al divino e al bene (mi sia lecito aggiungere che una separazion·e di teoria e prassi era stata già operata, prima che dai pionieri dello scetticismo, da un sofista, Protagora, stando aila cosiddetta « Apologia di Protagora » nel eeteto

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Quanto a Pirrone, in particolare, le fonti antiche parlano di una sua indiretta dipendenza dalla scuola socratica di Megara (Brisone) e da un indirizzo scetticheggiante della scuola democritea (Anassarco), e tacciono a proposito d'ogni sua derivazione da pensatori precedenti (se si prescinde dal fatto che i pirroniani, nel loro complesso, ci vengono descritti come richiamantisi all'insegnamento di Socrate, che molto probabilmente servi di modello a Pirrone su più piani: la dichiarazione di ignoranza, il rifiuto di scrivere di filosofia, l'indifferenza alle indagini sulla natura, l'appassionamento alla tematica etico-esistenziale, la dedizione alla ricerca come a un processo perennemente aperto); rompe codesto silenzio il solo Filone d'Atene (in Diogene L., IX,11,67), intimo amico e discepolo di Pirrone, secondo il quale quest'ultimo avrebbe menzionato spessissimo Democrito, ma tale notizia non deve indurre a vedere ne] grande atomista, spregiatore della conoscenza sensoriale ma estimatore di quella intellettiva, un vero e proprio suggeritore di scetticismo. Ostilissimo ai Sofisti, alle loro erronee sottigliezze, alle loro vane logomachie, è detto Pirrone da Timone (in Diogene L., IX,11,65 e 69); siffatta informazione va accolta in senso limitativo, in quanto, se da un lato è pacifico che Pirrone detestava le discussioni sofistiche, ai suoi occhi capziose e oziose, e che altrettanto faceVa, in prima persona, lo stesso Timone (ivi, IX,12,112 e 11cc), dal lato opposto è non meno incontestabile che germi di autentico scetticismo ineriscono al pensiero dei due più grandi tra i Sofisti, Protagora e Gorgia, come più avanti chiarirò. Quanto allo Scetticismo in generale, le principali fonti antiche che si occupano delle sue formulazioni ante litteram vanno distinte in due gruppi: da un lato, Cicerone e Diogene Laerzio, dall'altro, Timone e Sesto Empirico: di questi quattro scrittori, i primi due sono, sia pure non del tutto, estranei alla corrente di pensiero scettica, gli altri due le platonico, cioè da un sofista al quale, come vedremo, coloro molto debbono; e che della presenza di tale separazione ci offre testimonianza Enesidemo - in Diogene L., IX,11,62 secondo il quale Pirrone nella filosofia applicava il principio della sospensione del giudizio, ma nella vita quotidiana si comportava con cautela e preveggenza). La seconda via è quella che mi permetto di proporre e che inclino a ritenere non meno praticabile della prima: se contraddizione vi è, essa è quella che allo storico non resta se non di registrare - che attraversa, fin dai suoi primordi, l'intera storia dello scetticismo greco, il quale pare non avvedersene e non preoccuparsene: Pirrone, imitato dai discepoli e dai continuatori, per un verso ne" ga la legittimità di qualsiasi sapere, anche relativo alla moralità, per altro verso proclama di sapere che cosa sia il sommo bene, ed anzi fonda quest'ultimo che la tradizione indica coi termini di atarassia, adiaforia, apatia - su quella negazione (la citata testimonianza di Aristode su Timone e Pirrone sta a documentarlo nel modo più esplicito, né diverso sarà, alcuni secoli più tardi, il procedere del pensiero di Sesto, in Schizzi pirroniani, I,25-30).

78 appartengono nel modo più radicato, l'uno inaugurandola (sotto il profilo della produzione letteraria) e l'altro concludendola 2 • Cicerone, negli Accademici (I,12,44; II,23,72 ss.), enumera i filosofi che avrebbero, a suo avviso, imboccato la via dello scetticismo: la sua testimonianza sorprende e ispira scarsa fiducia, in quanto egli tralascia di fare il nome di Pirrone e menziona quattro pensatori - Parmenide, Anassagora, Socrate, Platone dei quali soltanto il terzo ha qualche parentela con lo scetticismo (si rammenti che Cicerone sembra peccare di omissione anche nei confronti di un successivo rappresentante dello scetticismo, Enesidemo, suo, con ogni probabilità, contemporaneo). Diogene Laerzio, nel cap. 11 del libro IX delle sue Vite dei filosofi, parlando di Pirrone, elenca tra i precursori dello scetticismo, accanto a vari poeti, personaggi senz'altro pertinenti (Senofane, Eraclito, Ippocrate, Empedocle), ma anche figure, come Zenone e Democrito, che, al pari dell'Eleate e del Clazomenio citati da Cicerone, svalutano le capacità conoscitive dei sensi ma non quelle della ragione, che giudicano sufficienti a far sì che l'uomo conquisti la verità. Timone, il discepolo diretto di Pirrone, nei Silli, passando in rassegna, con intenti prevalentemente stroncatori, tutte le filosofie del passato, guarda con qualche favore all'eleatismo e a Democrito, elogia Protagora per il suo agnosticismo teologico, privilegia, rispetto agli altri predecessori di Pirrone, Senofane, censurabile perché incorso, da vecchio, nell'errore dogmatico del monismo, ma benemerito per la successiva autocritica. Anche qui, accanto a indicazioni fuorvianti (l'eleatismo e Democrito), troviamo altre, che sono sicuramente illuminanti (Protagora e Senofane; quest'ultimo pensatore, però, è visto secondo un'ottica platonico-aristotelica, che oggi è generalmente abbandonata, e il suo fr. 34 è interpretato assai discutibilmente come una palinodia). Sesto Empirico, il più tardo degli Scettici, tratta delle prefigurazioni dello scetticismo nel libro I (209-219, 223-225; cfr. anche II,18) degli Schizzi pirroniani e nel libro I (47 ss., 110) del Contro i logici (=libro VII del Contro i matematici). Diversamente dagli altri tre storici della materia, egli nega che prima (e, più ampiamente, al di fuori) della corrente pirroniana vi siano filosofie avviantisi, o affini, a quella scettica: tale giudizio investe anche i soli pensatori che, pure, egli ritiene in qualche misura collegabili ad essa, Senofane e Protagora. Circa il primo, Sesto ravvisa, bensì, in lui tracce di pregevole cautela, ma, in conclusione, 2. Tra le fonti minori dr., per es., Sozione, che addita in Senofane il progenitore dello scetticismo (in Diogene L., IX,2,20).

79 lo condanna come colpevole tanto di dogmatismo positivo (secondo la già notata interpretazione platonico-aristotelico-timoniana) quanto di dogmatismo negativo. Quanto al secondo, Sesto ammette che il suo anthropometrismo relativistico sia vicino allo scetticismo, se estrapolato dal contesto dottrinale cui appartiene, ma accusa quest'ultimo che identifica con una ontologia mobilistica - di dogmatismo; per di più, addita nel panaletheismo, che dall'anthropometrismo è inscindibile, la negazione e il disconoscimento più intransigenti di quel dubbio conoscitivo che si trova alla base stessa dello scetticismo. Si può dire, insomma, che neppure Sesto, benché tratti questa materia con un impegno e una capacità interpretativa ignoti a Cicerone e a Diogene Laerzio e benché ci sia accessibile, diversamente da Timone, in un testo non frammentario, reca un apporto di grande utilità a chi vada esplorando i precorrimenti del pirronismo (a suo carico va rilevato, in particolare) l'ingiustificabile silenzio intorno all'agnosticismo teologico di Protagora). Gli antichi, dunque, hanno intrapreso l'esplorazione delle radici storiche della gnoseologia pirroniana, ma la mappa complessiva dell'intrecciarsi e dello svilupparsi di queste non è stata da essi disegnata. Qui non ci si propone di fornirne l'editio ne varietur} ~a soltanto di additar~ ne i principali elementi costitutivi, senza pretesa alcuna di esaustività. In età pre-socratica, gli avviamenti alla gnoseologia pirroniana non si restringono è questo il primo dato da porre in luce, né gli antichi lo avevano percepito a dovere a singoli episodi, isolati e irrelati. Tutt'al contrario, essi si dispongono lungo degli assi tematici che sono dotati di manifesta continuità storica; in guisa che la pur originale e innovante gnoseologia di Pirrone può ben dirsi l'epilogo e il coronamento d'un variegato processo di pensiero che ha i slloi iniziatori nei fondatori del pitagorismo e dell'eleatismo, o - in altre parole la foce in cui convergono e concludono il loro corso molteplici elaborazioni filosofiche maturatesi nei secoli precedenti. Quali e quanti sono codesti assi tematici? Io ne individuo tre: la gnoseologia più o meno radicalmente anti-sensistica, · la comparazione di umano e di vino, il dualismo di fenomeno e noumeno. Che una delle prime scaturigini di dubbio circa gli umani poteri conoscitivi sia costituita, all'interno della meditazione pre-socratica, dalla presa di coscienza - inaugurata da Parmenide dei limiti e degli errori che sono propri dell'esperienza sensoriale è fatto tanto evidente che ne ebbero qualche consapevolezza anche taluni degli storici e dossografi antichi, né conviene soffermarsi a illustrarlo. Va chiarito un punto

80 soltanto, dagli antichi frainteso: anche quando, come nei frr. 7 e 21 di Anassagora e 6, 7, 8, 117 di Democrito, la svalutazione gnoseologica della sensazione sembra coinvolgere l'umana facoltà conoscitiva nella sua interezza, in realtà - ove si oltrepassi la lettera del testo e se ne colga lo spirito - il pensatore pre-socratico mantiene intatta la sua fiducfa nella ragione, che contrappone alla fallace e ingannevole sensorialità. Sicché è da ritenere che su questo terreno le anticipazioni della gnoseologia pirroniana siano, in effetti, estremamente circoscritte e remote, indirette e secondarie. Di maggior peso, nella preistoria del pirronismo, è la messe di riflessioni germinate intorno alla comparazione di umano e divino: è qui che primamente si delinea una vera e propria condanna globale del conoscere di cui è capace l'uomo. Del tutto fuori strada sarebbe chi disconoscesse la presenza, al cuore stesso del pensiero pre-socratico, di una forte, benché non esclusiva d'ogni altra, ispirazione religiosa (sottovalutata, prima che dalla storiografia positivistica, dal Platone delle Leggi). Tra le sue manifestazioni maggiori v)è l'affermazione formulata in tono ora radicalmente e ora moderatamente scettico - che la conoscenza pienamente valida è riservata al divino e che l'uomo è impossibilitato a pervenirvi. Si tratta di una convinzione che è condivisa in termini più o meno sicuramente documentabili da Pitagora, Alcmeone, Senofane, Eraclito, Empedocle, e che avrà il suo assertore più alto, e più impegnato a farne il nucleo centrale dell'intero suo messaggio filosofico, in Socrate (si pensi sopra!• tutto alla Apologia platonica, 23 ab) 3 • Espressa nella forma più netta da Alcmeone (fr. 1) e, ancor più, da Eraclito (frr. 78, 79, 83, 102), è quanto mai probabile che essa appartenga anche agli altri tre pensatori. A Pitagora la attribuisce Eraclide Pontico, stando a Diogene L., I, Proemio, 12 («per primo Pitagora usò il termine filosofia e per primo si chiamò filosofo, discorrendo in Sidone con Leonte, tiranno dei Sicion1 o dei Flias1, come attesta Eraclide Pontico nell'opera Sulla femmina esa-

3. Non è arbitrario aggiungere ai nomi dei Presocratici qui elencati quello di Parmenide, il quale vede nei pensieri umani nient'altro che errore e presenta la sua dottrina - unica verità in mezzo all'universale fallacia - non già come scoperta da lui, semplice mortale, bensì come rivelatagli dalla divinità: anch'egli, dunque, appare persuaso che gli uomini sono inetti a conquistare la verità con le loro sole forze e che questa è monopolio divino, accessibile ai mortali soltanto nella misura in cui la divinità decide benevolmente di farne parte ad essi. A Patinenide è vicino, sotto il profilo qui segnalato, l'Eraclito del fr. 50 (« non ascoltando me, ma la parola della verità, è saggio riconoscere che tutto è uno »).

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nime: nessuno infatti è soph6s, eccetto la divinità »). Ora, è bensl vero che questo scrittore, uno degli immediati discepoli di Platone, idealizza la figura di Pitagora senza troppo scrupolo storiografico e non poco indulgendo al romanzesco e al leggendario, ma non meno vero è che la sua raffigurazione del maestro samio come esortatore al theoretikòs bios non è interamente destituita di fondamento (ove si pensi a quei riflessi dell'ideale di vita pitagorico che quasi sicuramente si possono cogliete nei frr. 133 di Pindaro, 132 e 146 di Empedocle, 918 di Euripide) e che al suo autore va accreditata, quindi, una quota non piccola di attendibilità; ma ciò che più conta, nel caso nostro, è che la notizia eraclidea è perfettamente coerente con altri dati abbastanza soddisfacentemente accertati, che stanno a corroborarne, almeno in buona Parte, la credibilità, e cioè con quanto sappiamo a proposito del valore religioso che l'attivi~ tà intellettuale possiede agli occhi di Pitagora, dal quale la filosofia, lato sensu intesa, doveva essere concepita come una imitatio Dei avente poteri catartici e salvifici 4 • Senofane, nel fr. 34, cui è da accostare il fr. 35, adotta un atteggiamento che mi pare molto vicino, in particolare, a quello assunto da Alcmeone, per lo meno nelle grandi linee. Lasciamo da parte, qui, il problema della più o meno estesa corrispondenza· e affinità tra la concezione alcmeonica del sapere umano come tekmairesthai e la concezione senofanea di quello come d6kos: basti dire che sembra comune ai due pensatori una certa tendenza empiristica, che ne determina il contrapporsi allo speculativismo metafisicheggiante del monismo milesio. Lasciamo da parte, altresì, venendo al solo Senofane, il problema spinoso di intendere con esattezza puntuale i primi due versi del fr. 34, e, con essi, gli esatti limiti dei settori di realtà (il solo mondo divino-cosmico o, addirittura, qualsiasi oggetto d'indagine?) sottratti, secondo Seno· fane, a un sapere umano pienamente valido. Lasciamo da parte, infine, il problema interpretativo posto dalla sottile e quasi sofistica motivazione (Senofane anticipa non poco della mentalità sofistica, acutamente

4. Se prestiamo fede, come sembra lecito fare, a un passo di Erodoto (IV,95) e a un frammento di Ione di Chio (D.-K. 36B 4), ne ricaviamo che Pitagora parlava di una immortalità dell'anima e pronosticava una sopravvivenza felice nell'aldilà all'uomo pio e virtuoso; Platone attesta che Pitagora era stato maestro di vita virtuosa e lascia intendere che il modo pitagorico di vita includeva anche l'attività scientifico-filosofica (cfr. Rep., X,600A e il contesto); Isocrate asserisce che Pitagora, fattosi discepolo degli Egizi, per primo introdusse in Grecia la «filosofia» e particolarmente si segnalò nella scienza dei sacrifici e dei riti celebrati nelle solennità religiose (cfr. Busiride, 28); sulla polimazia di Pitagora, cfr., poi, Eraclito frr. 40 e 129.

82 ingegnosa, incline all)ottica relativistica, aperta a esiti scetticheggianti, rivendicatrice del primato sociale degli intellettuali, spregiudicatamente critica delle credenze religiose tradizionali) allegata a sostegno del temperato scetticismo che è professato nel frammento. Ciò che mi sta a cuore porre in luce è che la parziale svalutazione dell'umano conoscere operata in questo testo va messa in relazione con la dottrina senofanea dell'infinita e immisurabile superiorità del divino all'umano. Chi parli, come fa il Colofonio, non solo della sovrumana purezza morale del divino (frr. 11 e 12) ma anche di« un solo dio, il più grande tra uomini e dèi, né per la figura né per i pensieri simile ai mortali» (fr. 23), il quale è « tutto occhio, tutto mente, tutto orecchio» (fr. 24) e« senza fatica scuote» o « governa » « tutto con la forza della mente » (fr. 25), non può non relegare l'umano pensare e conoscere, di tanto inferiate al divino, in una dimensione che, al più, è quella dell'opinione e della congettura. Siffatto nesso logico è confermato, del resto, da alcune testimonianze dossografiche (Ario Didimo, in DK A 24; Varrone, Antiquitates, libro 41, cit. da Agostino, De civ. Dei, VII,17). Io ritengo - contro, p. es., l'Albertelli - che il semiscetticismo senofaneo dipenda non già dall'epistemologia più o meno rozzamente empiristica, con la quale pur si accorda, bensl dalla teologia antiantropomorfica e trascendentistica che Senofane sostiene; e - contro antichi, come il pseudo-Galeno (in DK A 35) e moderni, come il Freudenthal - che esso non già contrasti bensl perfettamente si armonizzi con codesta teologia, la quale è prevalentemente negativa e, quindi, non propriamente dogmatica (per ciò stesso, escludo l'ipotesi, più o meno risolutamente avanzata da Timone e dal Nestle, di un trapasso di Senofane rispettivamente - dal dogmatismo allo scetticismo o vicersa). Nel solco aperto da Senofane si pone, se mal non m'appongo, Empedocle, fedele prosecutore della battaglia iniziata dal Colofonia contro l'antropomorfismo teologico. Anch'egli possiede, vivissimo, il senso dell'incommensurabile superiorità del divino, inteso come spirito e intelligenza, rispetto all'umano (fr. 134). Di qui, il suo senso, non meno vivo, degli invalicabili limiti che angustiano i poteri conoscitivi di cui l'uomo dispone; a differenza - si noti - di Alcmeone e di Senofane, Empedocle parla non di intrinseca incertezza bensì soltanto di limitatezza contenutistica dell'umano sapere, mentre al polo opposto si situa EracliM to, negatore perentorio della possibilità, in assoluto, che gli uomini siano soggetti di conoscenza. Agli uomini, secondo Empedocle, il contatto conoscitivo con le realtà profonde dell'essere non è vietato (fr. 109); al divino, se è impossibile accedere tramite le sensazioni (fr. 133), è possibile accostarsi grazie alla ricerca razionale (fr. 17, v. 21); ma si badi

83 l'ambito del sapere umano, ed empedocleo, non si coestende al Tutto, è circoscritto a sfere parziali del Tutto, essendo cosa propria di creature mortali, effimere, fragili (fr. 2; fr. 4, vv. 1-8). A siffatta veduta Empelettore frettoloso - allorché, autore non più del poema fisico ma di queldocle è coerente - e non già contraddice, come pur potrebbe parere al lo lustrale, proclama solennemente che il suo discorso è messaggio di verità totale (fr. 114): egli, infatti, nel momento in cui fa tale proclamazione, si considera non più semplice mortale bensì personaggio divino (fr. 112); qui, Empedocle obbedisce alla logica medesima, in ossequio alla quale Parmenide aveva annunciato la sua Alétheia come non già da lui scoperta ma come a lui rivelata dalla divinità 5 • Ciò che, a questo punto, va detto è che la più o meno risoluta e accentuata svalutazione dell'umano sapere a paragone di quello divino, così largamente diffusa tra i Pre-socratici, è, in essi, assai più espressione di religiosa deferenza verso il sovrannaturale (cioè di assai greca ripulsa della hybris) che di filosoficamente ragionata sfiducia e rinuncia nei confronti dell'attività teoretica, che essi praticano con assiduo impegno e dei cui risultati si vantano, con fin troppo ingenua baldanza, come di acquisizioni incontestabili e definitive, atte a fornire risposta esauriente agli interrogativi che assillano gli umani. Il solo Socrate conferirà al tipo di scetticismo di cui ora s'è parlato un significato filosofico profondo e originale, nonché quel peso che ad esso difetta nella meditazione dei pensatori precedenti, Presso costoro, quello scetticismo s'iscrive nella dimensione della teologia ben più che in quella della gnoseologia. Si aggiunga, da ultimo, che esso è del tutto estraneo alla mentalità di Pirrone e di Timone, che sembrano affatto alieni dalla problematica teologico-religiosa. È la terza delle aree di sviluppo delle concezioni scettiche, quella coincidente col dualismo di fenomeno e noumeno, a preparare, in linea diretta, l'avvento della gnoseologia pirroniana. I pensatori che ne stanno al centro sono tre: l'autore ippocratico (con ogni probabilità, Ippocrate stesso) dell'Intorno all'antica medicina, Protagora, Gorgia.

5. Quei due filosofi-poeti che sono Parmenide e l'Empedocle mistico ricalcano, il primo più fedelmente del secondo, le orme del primo poeta-filosofo greco, Esiodo, che pone all'inizio della sua Teogonia la narrazione di come egli abbia appreso la scienza teologica dalle Muse, divine rivelatrici del vero: in questi tre scrittori vive la convinzione che l'autentico sapere è monopolio divino, accessibile agli uomini soltanto in quanto gli dèi si degnino graziosamente di renderneli partecipi.

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Alle loro spalle e intorno a loro sta tutta una evoluzione culturale che, da Eschilo a Sofocle ed Euripide, da Erodoto a Tucidide, ha sollevato e dibatte perplessità e dubbi circa il più ansiogeno degli aspetti della realtà metafenomenica, quello divino, sul quale Protagora infulcra il suo agnosticismo. Ma l'atmosfera di incertezza e di insoddisfazione teoretiche che essi respirano - e che contribuiscono, a loro volta, ad appesantire è generata non solo dalle contestazioni che si accendono intorno al problema teologico (si pensi all'oscillare della Sofistica tra la religiosità melissiana di Antifonte e l'ateismo di Prodico e Crizia), bensì anche da una causa d)ancor più ampia estensione, ossia da una sempre più esasperata e drammatica problematizzazione di tutte le maggiori Weltanschauungen: siamo nell'età in cui si affrontano reciprocamente la negazione eleatica della realtà empirica e il ricupero che ne tentano i pluralisti, a non parlare dei laceranti conflitti (soprattutto eticopolitologici, oltre che, come s'è detto or ora, teologici) che oppongono gli uni agli altri i Sofisti: la verità ultima, quella che s'annida al fondo delle cose, appare sempre più inattingibile, oscurata com'è dalle insuperabili antilogie in cui s'arena la ricerca che se ne fa: siffatta situazione per cui la verità è vista allontanarsi dallo sguardo dell'uomo e innalzarsi verso una irraggiungibile trascendenza, ove s'affianca al mistero insondabile del divino - è oggetto di lucida constatazione da parte di Gorgia (Elena, 13) e del Socrate senofonteo (Memorabili, 1,1,11-14), i quali ne traggono, in modi diversi, motivo di pessimismo gnoseologico 6 • Ovviamente, non è dato, qui, di procedere a una disamina dettagliata della vastissima materia storica cui s'è accennato. Non è lecito, tuttavia, prescindere del tutto da qualche chiarimento relativo al ruolo svolto, sotto il profilo che qui ci interessa, dai tre tragediografi e dai due storiografi. Già Eschilo, che pure è il compagno di Pindaro nella ferma difesa della fede religiosa, denuncia salvo, poi, a descriverne il superamento - la conflittualità tra gli dei (nell'Orestiade e nel Prometeo) e il comportamento all'inizio tirannicamente odioso di Zeus ai danni di un altro dio, Prometeo (nel Prometeo incatenato); il suo chiedersi, almeno in un primo momento, se la giustizia divina sia una realtà effettiva si congiunge logicamente, ne è il fomite - alle affermazioni da lui poste 6. Una denuncia del contraddirsi delle varie filosofie monistiche, e del loro conseguente autovanifìcarsi, è formulata anche dal medico Polibo, genero di Ippocrate e autore del trattato La natura dell'uomo (cfr. il cap. 1). Un indizio del diffuso clima di dubbio e di crisi d'ogni certezza è dato, inoltre, dal fr. -1 di Diogene d'Apoilonia, ove viene avanzata l'esigenza che a fondamento d'ogni filosofia venga posto un principio incontestabile,

85 in bocca al Coro delle Supplici che, proprio in apertura di scena, invoca l'aiuto di Zeus con parole di speranza ma anche di dubbio nella giustizia divina, e proclama essere Zeus avvolto, nella sua temibile trascendenza, da una misteriosità sublime, che lo rende, in ultima analisi, imperscrutabile e inconoscibile. Sofocle, non insensibile agli orientamenti critici dei Sofisti e, insieme, piamente fedele ai valori religiosi, porta sulla scena, con Edipo, la figura del giusto inspiegabilmente torturato, per quasi tutto il corso della sua vita, dalla divinità, la cui ambigua ed enigmatica immagine egli presenta lungamente come tinta più di crudeltà che di giustizia e soltanto nella catarsi finale come erogatrice di ricompensa aH'uomo virtuoso che ne è degno (dove è palese la vicinanza della teologia dell'Edipo a quella dell'Orestiade e del Prometeo), Euripide, prima di quel non agevolmente decifrabile capolavoro conclusivo che è costituito dalle Baccanti, e che probabilmente è una sofferta difesa della fede dei padri dagli attacchi sofistici, presta orecchio alle voci dello spregiudicato razionalismo contemporaneo e, portando a più matura e più ardita espressione i dubbi avanzati dagli altri due grandi drammaturghi, s'interroga, · in termini espliciti e scoperti, circa l'essenza del divino, che inclina a giudicare reale ma inafferrabile e non univocamente definibile; si rammenti la celebre preghiera di Ecuba nelle Troiane (vv, 884.ss.). Erodoto professa e ribadisce una fede massiccia nella realtà del divino, ma lo considera una sfera che si sottrae alle umane capacità investigative: se così non giudicasse, non sosterrebbe che i diversi popoli ne sanno ugualmente a proposito degli dèi e che le loro contrastanti credenze religiose si equivalgono (II,3), né riconoscerebbe pari dignità alla antropomorfica religione greca e alla anti-antropomorfica religione persiana (I,131), Tucidide, in quel famoso dialogo tra gli Ateniesi e i Mel1 nel quale, se non erro, egli stesso prende la parola per bocca dei primi, si affianca alla triade Ippocrate-Protagora-Gorgia e traccia una separazione netta tra il mondo umano e quello divino: dell'umano si sa con certezza che sottosta alla legge naturale del più forte, del divino si può soltanto opinare che a quella legge obbedisca (V,105,2), Si ponga mente a un fatto in apparenza sconcertante: il senso dell'inconoscibilità dell'essenza divina è oppostamente presente in spiriti religiosi, come Eschilo ed Erodoto, piamente reverenti la sublime e arcana maestà del divino, davanti alla quale si inchinano muti, e in menti audacemente a-religiose e rivoluzionarie, come Protagora e Tucidide. Passiamo ora a considerare i tre pensatori sopramenzionati, convergenti nella convinzione che la parte di realtà ricadente sotto l'esperienza sensoriale è oggetto di conoscenza certa (immediatamente, per Protagora e Gorgia; non immediatamente, per Ippocrate) e che quella, invece,

86 sottraentesi alla detta esperienza è passibile soltanto di congettura inverificabile e di dubbio; nella convinzione, cioè, che sarà, poi, di Pirrone, il quale, però, privo di fiducia nelle virtù teoretiche non solo della ragione ma anche dei sensi, accorderà credito a questi ultimi unicamente sul piano pratico. L'Antica Medicina si apre con un coraggioso e rivoluzionario declassamento delle tradizionali dottrine monistiche, accusate di semplicismo dogmatico e arbitrario e astratto, dallo status di ipotesi scientifiche, controllabili mediante verificazione o falsificazione, a quello di postulati, privi di un proprio criterio di verità, sforniti di un referente metodico che funga da canone del giudizio alethologico da dare sul loro grado di validità. La realtà viene, nel cap. 1 di questo trattato, divisa in due zone: la zona del «non-manifesto» e dell'« aporetico» costituita dalle cose celesti e sotterranee, indagabile soltanto alla luce di postulati, tale che il pensamento di essa produce conclusioni che non è dato giudicare se corrispondano o meno al vero, mancando ogni punto di riferimento grazie al quale raggiungere la certezza; la zona delle cose - quali, per es., quelle di cui si occupa la medicina (la medicina laica, s'in- · tende) - che possono essere oggetto di osservazione empirica e di riflessione razionale, rispetto alla quale la ricerca conoscitiva perviene a esiti passibili di conferma o di smentita. Viene, così, adombrata una distinzione di noumeno e fenomeno, la cui formulazione riecheggia, alla fine del citato capitolo, la seconda parte del fr. 34 di Senofane; una distinzione che, se intesa col dovuto rigore, porta a scindere il reale in due settori, quello del non-conoscibile con certezza, coincidente con la sfera delle cose lontane dall'uomo, e quello del conoscibile, coincidente con la sfera delle cose vicine all'uomo. La diffidenza verso il puro pensiero, svincolato dal contatto col concreto e con quanto è alla portata del controllo umano, sottende la seconda parte del trattato filosofico di Gorgia, nella quale non manca, benché non si trovi esplicitata e sottolineata come ciò che in effetti è, ossia come la pars construens della gnoseologia gorgiana, una valutazione positiva dei poteri conoscitivi dei sensi, che riceve persuasiva convalida da alcune delle argomentazioni contenute nella terza parte dell'opera. A Parmenide, che aveva sostenuto essere la pensabilità cri~ terio e prova della realtà, Gorgia obietta che talora il pensate ha per oggetto l'irreale, sicché non si può essere certi che il pensato sia sempre reale; a Parmenide, che aveva preteso di demolire l'attendibilità delle sensazioni, Gorgia oppone che sono esse la pietra di paragone e il fondamento dell'umano conoscere, nonché la fonte del linguaggio. Chi oltrepassi la lettera del testo gorgiano (in superficie sanzionante l'assoluta in-

87 conoscibilità del reale) per coglierne lo spirito s'avvede agevolmente che in esso si fa strada un dualismo di tipo ippocratico, il quale stabilisce uno iato divaricante nel corpo del reale. Quest'ultimo è descritto come composto da due sfere: cièÌ che è afferrabile dai sensi, il mondo di quaggiù, e ciò che è materia della pura e astratta speculazione razionale, il mondo remoto, per es., del mito religioso (significativa è l'allusione a Scilla e alla Chimera, simboli della credenza nel divino); la prima de1le due sfere è conoscibile, anzi è costantemente conosciuta, con certezza, la seconda è qualcosa di invincibilmente dubbio e problematico, e dell'effettiva realtà dei suoi elementi mai si può acquisire certezza. Non diversamente atteggiata è la filosifia di Protagora; al sofista di Abdera va riconosciuto il merito, anzitutto morale, d'aver osato, per primo, coinvolgere apertis verbis il divino nelle sue critiche distruttive, infrangendo impavidamente un tabù temutissimo e lasciandosi alle spalle le caute reticenze e le prudenti allusioni velate. È bensl vero che Melissa afferma - sembra di sentir parlare Protagora - che sugli dèi non bisogna pronunciarsi, perché di essi non v'è conoscenza (test. 1), ma il suo agnosticismo ha una portata ben minore di quello protagoreo, e investe esclusivamente la religione popolare: egli, infatti, divinizza l'Essere parmenideo ed è un vero e proprio teologo /test. 5 e fr. 7). Non è facile ricomporre in un quadro unitario e coerente i disiecta membra, spesso apparentemente inconciliabili, della filosofia protagorea, estremamente danneggiata dal naufragio dei testi originali. Qui mi limiterò ad un rapido tentativo di ricostruzione della parte di essa che rientra nell'ambito della presente ricerca, valendomi soprattutto della più ampia e verisimilmente - attendibile tra le fonti d'informazione disponibili, quella platonica (prescindendo dalla quale, come che la si giudichi, ci si vieta affatto l'approccio al pensiero protagoreo). In particolare, arduo è reperire i nessi che collegano il celebre agnosticismo teologico al positivo riferimento agli dèi contenuto nel « mito J> del Protagora platonico e al panaletheismo implicito nell'anthropometrismo. La prima difficoltà è forse superabile: il linguaggio mitico è un linguaggio allegorico e non va preso alla lettera, tanto più che era abitudine dei Sofisti operanti in un ambiente incline a interpretare la teologia omerica come un'allegoria di verità filosofiche e scientifiche servirsene anche quando rischiava di risultare fuorviante per i loro ascoltatori o lettori (si pensi all'ateo Predico, che utilizza il mito di Eracle conteso dalle due divine figure della Virtù e del Vizio). Ancor più rilevante è l'altra difficoltà: non se ne esce se non supponendo in Protagora un dualismo di trascendenza, cui sarebbe da rapportare l'agnosticismo, e

88 di immanenza, cui sarebbe da rapportare il panaletheismo. Il metasensibile è da credere - è concepito da Protagora come imperscrutabile e costituzionalmente problematico; il sensibile, invece, come costantemente e indefettibilmente conosciuto con piena certezza e totale adeguatezza (dove - si badi il conoscere sensoriale è inteso in senso lato, come inclusivo dell'opinare: Protagora non è un mero sensista, egli intende la facoltà conoscitiva come un unicum senso-ragione). 7 Le tesi protagoree preparano direttamente la gnoseologia pirroniana, e tuttavia ne differiscono apprezzabilmente. Già Sesto Empirico aveva segnalato ciò che in esse contrasterebbe col pirronismo: la metafisica materialistico-mobilistica (attestata da Platone prima che dallo stesso Sesto), il panaletheismo eliminatore del dubbio e dell'oscurità conoscitiva (ossia dell'esperienza che sta a fondamento della gnoseologia scettica): circa il primo punto, non si può non essere d'accordo con Sesto, circa il secondo - invece - bisogna in parte dissentire da chi ignora, ingiustificabilmente, l'agnosticismo teologico di Protagora (pur tanto elogiato da Timone), cioè a dire da chi ha occhi solo per il versante ottimistico della gnoseologia protagorea e ne scotomizza quello oppostamente orientato. C'è, poi, dell'altro, che è doveroso aggiungere. Protagora e Pirrone concordano nel sospendere il giudizio sulla dimensione metaempirica, ma intendono in modi diversi l'evidenza os~

7. Chi, in dissenso dallo scrivente, intenda l'allegoricità del « mito » del

Protagora in termini più limitati, ossia ccme allusione non già al mondo della physis, laicamente e immanentisticamente concepita, bensì al mondo del divino, concepito secondo un'ottica monoteistico-provvidenzialistica (quale quella, per es., del Socrate senofonteo), si trova alle prese col problema d'un contrasto irridu~ cibile tra il Protagora del « mito » e il Protagora del frammento teologico. In tal caso, il contrasto può venir interpretato, a mio avviso, per tre sole vie. Forse il pensiero di Protagora ha subito, nel corso del suo svolgimento, una trasformazione radicale, per cui è passato da una fase di adesione a una fase di opposizione rispetto a1Ja religiosità (o viceversa); forse, invece, l'Abderita è andato manifestando il suo pensiero su due piani diversi e irrelati, sostanzialmente contemporanei, l'uno (quello filo-religioso) essoterico e l'altro (quello anti-religioso) esoterico, come può venir fatto di congetturare in base a un luogo del Teeteto (152c); forse, infine, tutto il discorso pronunciato dall'Abderita nel Protagora vuol essere coerentemente col dualismo di vero e utile, stabilito dal sofista nella sua « apologia)> del Teeteto - non un discorso teoretico, mirante al vero, quale è. quello contenuto appunto nella detta «apologia», ma un discorso pratico, mirante all'utile, ossia, nella fattispecie, finalizzato a promuovere, rendendolo persuasivo e attraente, quel democratismo che s'identifica con la d6xa p6leos (entità non teoretica ma pratica) dell'Atene ove Socrate e Protagora stanno dialogando, e che non il filosofo Protagora, relativista, ma il politico Protagora, filo-democratico e collaboratore di Pericle, difende dagli attacchi di Socrate (è ipotizzabile, poi, che la summenzionata distinzione tra insegnamento esoterico e insegnamento essoterico coincida con siffatto dualismo di verità e utilità).

89 sia l'irrepugnabile imporsi alla nostra psiche - della dimensione empirica e l'estensione tanto di questa quanto dell'altra. Protagora, infatti, sostiene che la conoscenza sensoriale è pienamente valida, che le sensazioni - cioè sono totalmente e indefettibilmente veraci, ponendoci esse in diretto e corretto contatto con l'essere (egli, non diversamente da Eutidemo e Dionisodoro e in contrasto con Gorgia, accoglie il filosofema parmenideo che nega la pensabilità del non-essere, modificandolo, però, sotto due profili: lo applica non più al pensare della pura ragione bensì al sentire, e ne trae la conseguenza della impossibilità dell'errore: la sensazione è sempre sensazione di ciò che è, ed è, quindi, sempre vera). Pirrone (da cui non sembra discostarsi Timone), invece, segue i fenomeni (cfr. Enesidemo, in Diogene· L., IX,11,106; Timone, frr. 69 e 74 Diels), ma siffatta accettazione dei dati sensoriali è da intendersi come pratica e non teoretica (i due ora menzionati frr. di Timone sono immediatamente preceduti, nel testo diogeniano - IX,11,105 che li cita, dal fr. 81 Diels, come costituenti con esso un unico insieme concettuale, cosicché l'accettazione del fenomeno si chiarisce essere nient'altro che l'attenersi praticamente, nelle azioni della vita, a quanto - costumanze sociali e impressioni individuali - ci attornia con maggiore evidenza e immediatezza; ciò che meglio è esplicato da Sesto E. negli Schizzi pirroniani, I,17,21-24): l'autorevole testimonianza di Aristocle (in Eusebio, Praep. evang., XIV,18,2) ci assicura che, secondo i due padri dello scetticismo, « né le nostre sensazioni, né le nostre opinioni sono veraci o fallaci » e che « perciò non dobbiamo prestar fede né ai sensi né alla ragione», coinvolti, quelli e questa, nella medesima incertezza e approdanti alla medesima oscurità, di fronte alle quali lo scettico sospende il giudizio. Dalle hen diverse valutazioni che Protagora e Pirrone danno della sensazione discende, poi 1 il fatto che, mentre il primo non si perita di teorizzare una ontologia mobilistica, che va ben al di là della puntuale esperienza sensoriale, muovendo da essa, e che respinge nell'oscurità soltanto il divino, il secondo ritiene che la zona oscura del reale è coestesa a tutto ciò che travalica la sensazione hic et nunc attuale, intesa come elemento della vita pratica. Protagora, insomma, è ben meno di, Pirrone orientato verso la svalutazione del conoscere: problema teologico a parte, egli è panaletheista, ed ignora quel senso di dubbio e di oscurità che assilla perpetuamente il fondatore dello scetticismo. Di codesta differenza tra i due la misura è data dall'abisso che separa l'antilogismo protagoreo da quello pirroniano: il primo è indissolubilmente connesso all'empirismo e al pana-

90 letheismo, il secondo è la fonte stessa della rinuncia ad ogni certezza, la base stessa - cioè - della gnoseologia scettica 8• Ciò precisato, si può concludere che Pirrone porta alle estreme conseguenze quel polifonico e variegato, e tuttavia ben individuabile, indirizzo gnoseologico che, inaugurato da Ippocrate e Protagora e Gorgia, era stato proseguito da Socrate 9 e veniva condiviso dai Cirenaici IO,JObis.

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8. Come s'è notato, la constatazione dell'antilogia induce, generalmente, al pessimismo gnoseologico i pensatori (ai già menzionati vanno aggiunti i Cirenaid) che la operano: fa eccezione il solo Protagora. 9. Un dualismo di fenomeno e noumeno, non dissimile da quello di cui qui si tratta, è presente al centro stesso del pensiero di Socrate, che, secondo l'Apologia platonica (19b-d, 20d-e), stabilisce una recisa antitesi tra sapienza umana, la sua, diretta al conoscimento delle cose umane, e sapienza più che umana, quella di quanti si volgono allo studio tradizionale del mondo divino-naturale, da lui riguardata con diffidenza e repulsione; il che è pienamente concordante con ciò che ci dice di Socrate Senofonte (Mem., I,1,11 ss.). Com'è noto, nel disinteresse per la ricerca teologico-fisiologica e nell'impegno diretto alla progettazione d'un modello eticoesistenziale, Socrate viene seguito non soltanto da Aristippo il Vecchio e da Anti• stene ma anche da Pirrone e da Timone (quest'ultimo lo elogia calorosamente, appunto in questa prospettiva). Si osservi, poi, che all'agnosticismo teologico di Protagora corrisponde, con sorprendente simmetria, l'agnosticismo escatologico profe~sato dal Socrate platonico che, nella chiusa dell'Apologia, dichiara di non sapere se si debba credere o no alla sopravvivenza dell'anima dopo la morte. 10. È risaputo che il principio di fondo della gnoseologia cirenaica (m6na tà pdthe kataleptd) è, tutto sommato, vicino allo Scetticismo in genere e a quello delle origini in particolare. Ne differisce in quanto - dr. Sesto E., Schizzi pirroniani, I,215 dichiara essere le cose esterne per natura incomprensibili, mentre su di esse lo Scetticismo sospende il giudizio; ed altresì in quanto - dr. Sesto E., Contro i logici, I,200-201 attribuisce alle sensazioni un sia pure limitatissimo valore di verità, che lo Scetticismo si astiene dal riconoscere ad esse. Circa, poi, il rapporto cronologico tra il sorgere della gnoseologia cirenaica e Pirrone, esso è vexata quaestio (che non è qui il luogo di affrontare), incerto essendo in che precisamente consista l'apporto dottrinale recato da Aristippo il Vecchio al costituirsi della filosofia cirenaica. 10 bis, In sede di postìlla finale, mi sia consentito accennare ad altre - e minori, rispetto alle già evocate - anticipazioni presocratiche (in senso dielsiano) della gnoseologia di Pirrone. Non v'è dubbio che scettici devono definirsi i corollari gnoseologici delle teorie sul linguaggio sostenute, secondo la testimonianza aristotelica (Met., IV,5,1010a 10), dall'eracliteo Cratilo: costui, accentuando e spingendo alle estreme conseguenze il mobilismo eracliteo, dopo averlo profondamente alterato col dis.sociarlo da quel monismo cui nel pensiero del caposcuola è organicamente connesso (ormai tutti gli interpreti riconoscono che, agli occhi di Eraclito, l'incessante processo di tramutazione degli opposti l'uno nell'altro non è se non il manifestarsi della stabile e permanente loro unità), ne trae - io contrasto con le teorie del suo maestro, assertore della orth6tes naturale del linguag~io e in contrasto, altresì, con la fiducia dimostrata da lui stesso, Cratilo, probabilmente in epoca anteriore, nelle virtù teoretiche delle ricerche etimologiche, stando alla testimonianza platonica la negazione della giustezza dei nomi, tutti, a suo parere, inadeguati, per colpa della loro fissità, a rispecchiare il fluire delle cose. Nulla, secondo Cratilo, è denominabile; nulla credo legittimo chiarire così la sua tesi è conoscibile.

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Ad un mobilismo non meno estremo è da supporre si ispiri Seniade di Corinto nella sua ben più esplicita affermazione della fallacia d'ogni presunto conoscere e dell'incomprensibilità di tutte le cose. Sulla base del ritratto che di lui ci tramanda il solo dossografo che ne parli, Sesto Empirico, tanto negli Schizzi pirroniani (Il,18,76) quanto nel Contro i logici (l,48,53-54, 388, 399-400), sembra lecito ipotizzare che Seniade abbia capovolto il panaletheismo di Protagora in panpseudismo, rimanendo sul piano grosso modo sensistico dell'Abderita e - nel contempo contrapponendo alla teoria protagorea, di ispirazione parmenidea, secondo cui ogni atto conoscitivo è veritiero perché ha per oggetto l'essere, l'antitetica, ma logicamente omogenea, teoria secondo cui ogni atto conoscitivo è fallace perché ha per oggetto un divenire (un nascere o un perire) che, in ultima analisi, è riducibile a non-essere. Dove mi par di veder mescolarsi un mobilismo più cratileo che eracliteo, il nichilismo ontologico e la gnoseologia in apparenza affatto scettica di Gorgia, l'identificazione parmenideo-protagorea di verità e conoscenza di ciò che è, il sensismo (lato sensu inteso) protagoreo. Egli è, in fondo, uno dei tanti eclettici del suo tempo. Più direttamente attinente alla gnoseologia pirroniana è, poi, quel modello di formulazione verbale della teoria deJ1'isosthenia degli opposti l6goi che agli Scettici è porto da Democrito con la locuzione « né l'una cosa n:é l'altra». « Dato che il miele pare ad alcuni amaro e ad altri dolce, Democrito diceva che esso non è né dolce né amaro» (Sesto E., Schizzi pirroniani, I,213; II,63). Il grande atomista, infatti, era stato tra coloro - notoriamente numerosi: si pensi a certa etnologia e politologia comparate di Erodoto, a taluni passi di Euripide (come i vv. 499-502 delle Fenicie e il fr. 139 dell'Antiope), alle prime pagine dell'anonimo autore sofistico dei Dissoì L6goi che avevano preso coscienza dell'antilogia; ma da quei pensatori egli si era discostato, in quanto dalia detta constatazione aveva ricavato un preciso (ma non assoluto) pessimismo gnoseologico, che lo aveva posto agli antipodi di Protagora, il quale ultimo aveva esplicitamente e paradossalmente saldato tra loro antilogismo e panaletheismo; senonché egli, se aveva fornito a Pirrone l'esempio della deduzione di tesi scettiche dall'antilogismo, da ciò che sarebbe stata l'interpretazione pirroniana dell'antilogismo era rimasto lontano, dato che le conclusioni scettiche cui era pervenuto egli aveva circoscritte alla svalutazione dei sensi, indiscussa lasciando la credibilità teoretica della ragione, la quale, invece, era destinata a diventare il principale idolo polemico di Pirrone. Democrito, inoltre, si differenzia dalle seriori posizioni pirroniane, in quanto, come già Sesto Empirico notava, egli nega che sussistano in re le opposte qualità sensibili, mentre gli Scettici adottano sul problema il loro costante atteggiamento di sospensione del giudizio. Come non considerare, infine, un preludio alla gnoseologia pirroniana quanto Erodoto, che già abbiamo visto sospendere il giudizio circa le opinioni teologiche dei diversi popoli, dice - pronunciandosi su una delle spiegazioni delle piene del Nilo - a proposito dell'impossibilità di smentire o di convalidare le teorie su ciò che è aphanés (l!,23)? Da ultimo, a coronamento del presente saggio desidero collocare due brevi chiarimenti, utili a precisare, sintetizzandoli, i punti d'arrivo della ricerca qui espletata. Allo stato attuale delle nostre conoscenze testuali, i diretti prodromi dell'epochismo pirroniano sicuramente additabili sono costituiti dal probabilismo di Senofane, dall'agnosticismo teologico di Protagora, dall'affermazione ippocratica dell'inaccertabilità delle teorie metafisiche. Di nessuno di codesti precorrimenti è dimostrabile in modo rigoroso che abbia svolto il ruolo di vera e propria fonte di ispirazione.

TIMONE DI FLIUNTE: I FRAMMENTI 74, 75, 76 DIELS di Fernanda Decleva Caizzi

Se si prescinde dai resti dei Si/li, ben poco possediamo della pur abbondante produzione letteraria di Timone di Fliunte cui fa riferimento Diogene Laerzio (IX 110-111). Per quanto riguarda le opere di argomento filosofico, oltre ai frammenti degli Indalmi e del Pitone, ci sono giunte tre brevissime citazioni, una tratta dallo scritto Sulle sensazioni (Diog. Laert. IX 105 = fr. 74 Diels), una dal Contro i fisici (Sext. Adv. math. III 3 fr. 75 Diels), una, infine, attribuita dubitativamente a quest'ultima opera dal Diels sulla scia del Wachsmuth (Sext. Adv. math. X 197 = VI 66 fr. 76 Diels). Nell'ambito di una raccolta di testimonianze su Pirrone 1, rispetto alla quale, ad evitare petizioni di principio e circoli viziosi metodologici, si è rivelato necessario adottare un criterio restrittivo, accogliendo solo le te~ stimonianze in cui il nome di Pirrone fosse presente o che fossero tratte

da opere che sappiamo averlo avuto specificamente per oggetto (nel caso di Timone, gli Indalmi ed il Pitone), questi tre frammenti non potevano trovare posto; poiché, tuttavia, come appare ovvio, il fatto che essi non siano entrati a far parte del nucleo primario e fondamentale di testimonianze su cui basare la ricostruzione del pensiero e deila figura di Pirrone non significa che essi non possano ricondurvisi, e poiché d'altra par~

te l'uso fattone e l'interpretazione offertane dagli storici dello scetticismo antico non paiono sempre adeguatamente motivati, può rivelarsi uti~

le un riesame dei principali problemi ed interrogativi che essi sollevano. 1. Cfr. Pirrone. Testimonianze, a cura di F. Decleva Caizzi, Napoli, 1981, Premessa, e i miei Prolegomeni ad una raccolta delle fonti relative a Pir_rone di Elide, in Lo Scetticismo antico, Atti del convegno di Roma (5-8 nov. 1980), a cura di G. Giannantoni, Napoli, 1982, p. 106 ss.

93 Cominciamo dal fr. 74: E nei libri Sulle sensazioni dice: « Che il miele è dolce, non lo affermo, ma che appare tale, lo concedo » ( xat iv -roi:ç Ils:pt alcr-frricrs:Wv cp'J)cn ',:ò µé)..t. 0'l't. f1rn yì.-uxU, oò -rlih1µ1., -rò OS: 0't't. q>aivE't'at., éµo)..oyW').

Il passo appare citato da Diogene Laerzio in un contesto particolarmente significativo, nel quale si adducono, traendoli da opere e da autori diversi, tutti gli argomenti utili a difendere gli Scettici dall'accusa, di parte dogmatica, di rendere impossibile la vita (Diog. Laert: IX 104 ss.). Il confronto con un passo di Sesto 2 sembra indicare che la citazione di Timone poteva trovarsi in uno scritto di Enesidemo, forse il primo libro delle Dottrine pirroniane o l'opera Sulla ricerca (1trpt StJ'tlJO"EWç). La frase di Timone è stata recentemente utilizzata a riprova del presupposto dualistico della gnoseologia pirroniana da Charlotte Stough ', la quale, muovendo da un'impostazione squisitamente teoretica, non affronta la complessa questione della tradizione sul pirronismo antico e non si pone per conseguenza neppure il problema di un'eventuale diffe. renza di posizione tra maestro e discepolo. Un esame generale della storiografia sul primo scetticismo consente comunque di affermare che il concetto qui espresso da Timone non ha sollevato particolari difficoltà, parendo agli studiosi perfettamente consono al quadro della filosofia di Pirrone ricostruita dando credito soprattutto alla versione di Enesidemo e all'impostazione di Sesto Empirico. Così, se si eccettua in un certo senso il Goedeckemeyer 4 , per il quale Timone nello scritto Sulle sensazioni si spinge oltre il maestro in quanto procede nell'indagine sulla credibilità dei criteri (Diog. Laert. IX 114), nessuno ha rivendicato il passo come specifico contributo del discepolo. Se tuttavia gli argomenti recentemente addotti da più parti 5 , che sollevano dubbi sulla versione fenomenista che Enesidemo dà del pirronismo antico, non sono del tutto privi di fondamento, sarà necessario rimettere in discussione, in parallelo, anche l'interpretazione tradizionale della frase di Timone. Al 2. Pyrrh.hyp. I 22: « Diciamo dunque che criterio dell'indirizzo scettico è il fenomeno, vale a dire la rappresentazione sensibile, che, poggiando sulla persuasioPe e sull'affermazione involontaria, non può essere oggetto d'investigazione (&.t;t'yrT)'t'6ç È.O''t'~V). Perciò nessuno, forse, contesterà che l'oggetto appaia così o così, ma si farà questione (STJ't'Ei't'!IL) su questo, se sia tale quale appare» (tr. Torraca), Cfr. Pirrone, dt., T. 8 ed il commento relativo, 3. Ch. Stough, Greek Skepticism. A Study in Epistemology, Berkeley and Los Angeles, 1969, p. 20 ss. 4. A. Goedeckemeyer, Die Geschichte des Griechischen Skeptizismus, Leipzig, 1905, pp. 23-24. 5. Si veda Pirrone, cit., passim, ma specialmente il commento alle T, 6-9; 53; 63.

94 riguardo, mi pare che, fondamentalmente, due linee di ricerca possano presentarsi) e che entrambe siano, forse, meritevoli di ulteriore verifica. La prima potrebbe muovere e si resterebbe in tal modo fedeli alla tradizionale esegesi della frase, dettata certamente dal preciso contesto in cui essa si trova - dall'ipotesi che il fr, 74 Diels ci riveli le tracce di un'evoluzione del pensiero di Timone rispetto a Pirrone. Tale evoluzione, ove ammessa, apparirebbe legata all'inevitabile trasformazione di una posizione filosofica che lo stesso Timone considera assolutamente eccezionale (come risulta bene dal modo in cui si riferisce al maestro) e che, entrando in rapporto dialettico con altre filosofie, non può non elaborare nuovi argomenti, sia di difesa, sia di attacco. In altre parole, seM condo questa interpretazione possibile 1 Timone avrebbe, rispetto al riconoscimento dell'universale dominio del fenomeno che in Pirrone comportava lo sforzo costante di sottrarvisi 6 , compiuto un passo importante nella direzione degli Scettici successivi che, per difendersi dalle polemiche avversarie sull'incompatibilità dello scetticismo con la vita, erigeranno il fenomeno, non messo in discussione come tale, a cri terio pratico, riservando l'impossibilità di giudicare all'ambito di ciò che è reale o irreale, alla vera natura delle cose (Sext. Pyrrh. hyp, I 21; Adv. math. VII 29-30, ecc,), Un'altra via di indagine potrebbe invece partire dall'ipotesi che effettivamente ciò che qui Timone dice non sia in contrasto sostanziale con quanto sappiamo di Pirrone; tale presupposto, a ben guardare, non comporta però necessariamente il recupero dell'interpretazione fenomenista di Pirrone, con la serie di gravi problemi che, rispetto al complesso delle testimonianze, essa si porta appresso 7 : è possibile infatti interpretare il frammento di Timone in modo semplice e senza che esso contrasti con quanto per altra via ci è detto di Pirrone, aggirando così anche la grave difficoltà che insorge quando si cerchi, data la situazione delle fonti, di distinguere il contributo del discepolo rispetto a quello del maestro o, meglio, rispetto a quanto egli attribuiva al maestro. Si potrebbe cioè pensare che Timone, con la frase citata, intendesse dire che non è possibile dire che il miele è dolce non perché noi non sappiamo se il miele è veramente dolce oppure no, ma perché « nulla è più che non è » 6. Cfr. Pirrone, cit., T. 63 e commento relativo; il confronto con altre testimonianze mostra che la frase « ma l'apparenza totalmente domina, là dove giunga », tratta dagli lndalmi, non conferisce valore normativo al fenomeno, perché Pirrone non aveva ancora elaborato la distinzione tra criteri di cui ci parlerà Sesto Empirico. 7. Cfr. Dedeva Caizzi, Prolegomeni, cit., p. 95 ss. ed il commento alle -T. 6-9 di Pirrone. È merito del Conche, Pyrrhon ou l'apparence, Villers sur mer 1973, l'aver messo in seria crisi l'interpretazione fenomenistica di Pirrone.

95 e le cose sono per natura prive di determinazioni: l'ammissione che il mie-

le si manifesta ai sensi in modo determinato corrisponde dunque alla constatazione pirroniana che l'uomo è dominato dall'apparenza (T. 63) ma non comporta automaticamente l'assunzione di questa a criterio pra-

tico - mi pare oggi difficile contestare il fatto che certamente tale essa non era per Pirrone né, analogamente, comporta la contrapposizione tra fenomeno ed adelon, che lo scetticismo successivo elaborò per difendersi dalle inevitabili accuse di incoerenza. Interessante è, in Timone,

l'uso del vocabolo oµoÀoyw, che rivela la presenza, ideale o concreta, di obiettori od avversari; i numerosi aneddoti tramandatici 8 rivelano come, sin dai primordi, il pirronismo si presenti come una dottrina difficile da difendere proprio perché la teoria vi appare indissolubilmente legata alla pratica; e tale connessione ed orientamento di fondo permane nella tradizione malgrado l'accentuazione dell'aspetto logico-dialettico 9 • Timone ammette dunque senza difficoltà che le cose si manifestano all'uomo in forma determinata: in tal modo appunto esse lo ingannano, spingendolo o a conferire ingenuamente determinatezza alla realtà, senza porsi problemi, come fa chi non è filosofo, oppur~ a cercare, rispetto alla riconosciuta contraddittorietà dell'esperienza, un criterio che con-

senta di stabilire quali tra le determinazioni apparenti al soggetto possano dirsi proprie dell'oggetto. È ovvio che proprio tale ricerca doveva rivelarsi, agli occhi di un pirroniano, totalmente priva di sen_so. La ragione,

usata a questo scopo, viene ridotta al rango di ciò cui dovrebbe prestare soccorso, non è che un complice delle stesse malefatte compiute dalle sensazioni, invece di costituite lo strumento che ad esse ci sottrae 10 • Contro coloro che ammettevano la validità delle sensazioni confermate dalla ragione, era solito citare continuamente il verso: « Attaga qui s'incontrò con Numenio » (Diog. Laert. IX 114, tr. Gigante),

ovvero, secondo la più probabile interpretazione della frase, « un ladro dà una mano ad un altro ladro »

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8. Per le tracce della tormentata relazione tra pirronismo antico ed insegnamento, si v. Pirrone, cit., T. 36-38 ed il commento. Osservazioni sparse nella biografia laerziana di Timone mostrano analoga attenzione alla questione. 9. Si v., da questo punto di vista, la dissertazione di M. Hossenfelder, Ungewissenheit und Seelenruhe. Die Funktion der Skepsis im Pyrrhonismus, Giessen, 1964. 10. V. Pirrone, cit., T. 15 AB e commento. 11. L'espressione era proverbiale: cfr. Paraemiographi Graeci I, p. 307; II, pp. 16, 212 e quanto osserva il Wachsmuth, Sillographorum graecorum reliquiae, Lipsiae, 1885, p. 16, n. 1.

96 Se, come risulta da quanto accennato sopra, nel caso del fr. 74 non è stata messa in dubbio la sua utilizzabilità per ricostruire il pensiero di Pirrone stesso, ed anzi addirittura esso è stato usato come argomento decisivo per una particolare chiave di lettura, diverso destino hanno avuto, nelle storie dello scetticismo antico, i frr. 75 e 76. Se infatti si deve ammettere per Timone un margine di autonomia concettuale o di metodo rispetto al maestro, per quanto attiene propriamente all'ambito filosofico, esso sembra agli studiosi manifestarsi proprio in queste due brevi citazioni. Non è certo inverosimile ritenere che anche in questo ca~ so, come nel precedente ma in senso opposto, abbia influito sul giudizio il contesto in cui le citazioni stesse si trovano. Poiché tale contesto appare squisitamente dialettico e caratteristico di uno scetticismo dalle armi as~ sai affinate, è sembrata da rifiutare l'idea che le argomentazioni di Timone possano rispecchiare fedelmente il pensiero od il metodo di Pirrone. A ben guardare, l'argomento poggia su basi fallaci e non consente di concludere né in un senso né nell'altro, perché, almeno in linea di princi~ pio, nulla ci autorizza ad attribuire a Timone né gli argomenti che fanno da contorno alle citazioni 12 né, più in generale, un analogo contesto. Non c'è dubbio che sia più proficua, dal punto di vista metodico, la prospettiva di chi sottolinea la probabile connessione tra le opere filosofiche perdute ed i Si/li ". Per tale via, è possibile additare un punto di riferimento significativo e perlomeno parzialmente verificabile, e lasciare nel contempo aperta ed impregiudicata la delicatissima questione del personale contributo di Timone all'elaborazione del bagaglio argomentativo degli Scettici (questione che riguarda anche quella, ancor più insidiosa, della storicità della sua testimonianza su Pirrone). Non c'è dubbio che, se mai una risposta sarà possibile dare a tali interrogativi, essa non potrà non provenire dall'analisi dei frammenti per sé presi e dall'individuazione di punti di riferimento storicamente vicini al filosofo, anche se, naturalmente, non si deve mai dimenticare la difficoltà costituita dalla mancanza di informazioni sulla data di composizione delle varie opere timoniane, che contribuisce in modo determinante a rendere impossibile l'acquisizione di risultati definitivi. Il passo di Sesto Empirico da cui è estratto il fr. 75 dice: Dal momento che gli studiosi di geometria, consapevoli del gran numero di difficoltà che gli si presentano, fanno ricorso ad un metodo che sembra 12. Così osservava giustamente il Brochard, Les Sceptiques grecs, Paris, 192f, p. 88, n. 2.

13. Dal Pra, Lo Scetticismo greco, Bari, 19752, I, pp, 104 e 106.

97 privo di rischi e saldo, quello consistente nel « porre per via di ipotesi » i principi della geometria, è opportuno che anche noi diamo inizio alla confutazione con l'argomento sull'ipotesi. Perché invero anche Timone, nello scritto Contro i Fisici> ritenne che ciò vada inanzitutto indagato, se si debba accogliere qualche cosa « per via di ipotesi>> 14 (xaì. yàp ò Tlµwv Év -coi:ç IIpòç -roùç q:>ui::nxoùç 't'oV-co llnÉÀ.a~E ◊Ei:v iv 1tpW-coLç S1rrELv, qn1µ1. ÒÈ d È!; Uno1tÉcn:Wç -n ÀYJ1t-céov). Perciò è bene che anche noi, in linea con lui, facciamo cosa

analoga nel trattato contro i cultori delle scienze (Adv.math, III 1-2).

Il frammento è stato inquadrato nella problematica scettica tradizionale meglio di tutti dal Brochard: L'ipotesi, in linguaggio scettico, è ciò che noi chiamiamo una proposizione evi-

dente o un assioma: è una proposizione che non si dimostra. Rifiutarsi di ammettere un'ipotesi, ed è verosimilmente ciò che faceva Timone, significava rendere impossibile ogni dimostrazione. Se tale era veramente il suo modo di argomentare, sarebbe già uno dei cinque tropi di Agrippa 15 •

Del tutto differente, ma difficilmente difendibile sulla base del testo greco, è la spiegazione del Robin 16 : La pratica di vita implica un certo numero di « ipotes.i >> preliminari, che si può bene, in séguito, vuotare speculativamente del loro contenuto oggettivo, ma che non si possono abolire radicalmente proprio in quanto ipotesi. Non si tratta per caso dell'applicazione del precetto che Timone, secondo Sesto Empirico (M. III 2) riteneva fondamentale in ogni ricerca: ci si deve sempre domandare che cosa impone alla nostra scelta l' « ipotesi » che costituisce il nostro punto di partenza? 14. Rendo sempre così, convenzionalmente, il termine greco, anche se tale traduzione appare spesso inadeguata se si bada alla valenza del vocabolo italiano. Un contesto che certamente fu significativo per la tradizione scettica è offerto dall'inizio del trattato L'Antica medicina di Ippocrate: « Quanti si sono accinti a parlare o a scrivere di medicina, fondando il proprio discorso su un postulato (si v. la nota di Vegetti ad l,), il caldo o il freddo o l'umido o il secco o quale altro abbiano scelto ... » e, poco oltre: « Perciò io non ho davvero ritenuto che a4 essa occorresse un nuovo postulato alla stregua delle cose inesperibili e inesplicabili, per le quali è necessario, se qualcuno s'accinga a parlare, servirsi d'un postulato, ad esempio le cose celesti o sotterranee ... » (tr. Vegetti). Su «ipotesi», cfr. Festu• gière, Hippocrate, l'ancienne médécine, Paris, 1948, pp. 25-26; A. E. Taylor, A Commentary on Plato's Timaeus, Oxford, 1928, p. 438. Su «ipotesi» in Platone, mi limito a rinviare a C. Classen, Sprachliche Deutung als Triebkra/t Platonischen und Sokratischen Philosophieren, Miinchen, 1959, p. 72 ss.; per quanto riguarda Aristotele si v. il recente studio di W. Leszl, Mathematics, Axiomatization and the Hypotheses, in Aristo/le on Science. The Posterior Analytics, Proc. of the 8th Symp. Arist. edited by E. Berti, Padova, 1981, pp. 271-328, spec. 293 ss. 15. Les Sceptiques grecs, cit., p. 88; dr. anche Goedeckemeyer, Die Geschichte des Griechischen Skeptizismus, cit., p. 26, per il quale Timone combatteva su fondamento metodico il diritto a far uso di ipotesi; Credaro, Lo Scetticismo degli Accademici, Roma, 1899-1893, I, p. 225. 16. Pyrrhon, cit., p. 18.

98 A parte le difficoltà di ordine linguistico, lo stesso Robin riconosce acutamente che questo tipo di esegesi comporta una forzatura unilaterale della posizione di Pirrone in senso pratico-fenomenistico. Esaminando il frammento più analiticamente, il primo problema che si presenta è quello della terminologia, posto che la formulazione di Sesto potrebbe anche essere considerata una traduzione in linguaggio tecnico: a ciò potrebbe portar argomenti proprio il fatto che il testo richiama il tropo ex hypothesi di Agrippa (Diog. Laert. IX 89; dr. Sext. Pyrrh. hyp. I 168), nonché un passo come Adv. math. VIII 367 (= SVF II 267; si ricordi che Crisippo fu autore di un'opera Sulle ipotesi). Anche, tuttavia, a prescindere dal dibattito ellenistico su questo tema, l'uso di 'ipotesi' nel V e nel IV secolo non solo rende plausibile l'espressione di Timone, ma non consente neppure di escludere che il frammento potesse esprimere una posizione del suo maestro. Anche Àa.µ~ri.VELV nel senso logico di 'assumere' è frequentissimo già in Aristotele, benché non si possa escludere che Timone lo usasse anche nella più comune accezione di 'accogliere', 'comprendere'. Molto interessante mi pare la prima parte della frase (« 1:001:0 6scv ... év rcpw,:ocç s111:ecv ») perché essa richiama un brano tratto, probabilmente, dal Pitone (T. 53): forse la forma E.v 1tpÙYtot.c:; non ha ancora il carattere di rigorosa priorità logica che poi caratterizzerà i procedimenti scettici (percepibile per esempio nelle parole di Aristocle che introducono il frammento citato del Pitone), ma si può perlomeno affermare che in Timone un ordine di metodo è pronto a trasformarsi in ordine logico 17 • · Inoltre, per chiarire meglio la portata del contributo timoniano, sarebbe interessante poter stabilire se risalisse a lui l'analogia che leggiamo in Sesto (Adv. math. IX 2; cfr. anche Pyrrh. hyp. II 84): Come negli assedi coloro che hanno scalzato il basamento del muro fanno crollare insieme a questo anche le torri, cosl, nelle indagini filosofiche, quanti hanno avuto la meglio sulle ipotesi prime delle cose ('t'èx.ç 1tpW't'aç -r:Wv 1tpayµCX:twv U1toM:crEt.ç xnpwcrCX.µEvot.)hanno potenzialmente tolto di mezzo la comprensione d'ogni cosa.

17. Va anche aggiunto che nulla nel passo di Sesto Empirico autorizza a pensare che Timone, parlando di ipotesi, avesse in mente specificamente le ipotesi degli studiosi di geometria, quanto piuttosto che ciò che egli osservava a proposito dei fisici venga da Sesto trasferito contro i geometri: del resto, gli stessi esempi di ipotesi avanzate da Asclepiade di Bitinia per spiegare la causa della febbre (esistenza di pori impercettibili, di corpuscoli d'aria e umidità percepibili dalla ragione e di effluvi), che Sesto cita per chiarire il significato del termine ipotesi che interessa gli Scettici, confermano quanto sopra.

99 Alcuni indizi linguistici portano in tale direzione, in particolare il verbo xetp6w che è un hapax in Sesto, mentre è frequente nella letteratura del V e del IV secolo nel significato concreto, ed il verbo aiìe-.etv, abbastanza raro in Sesto, che può forse essere accostato ad 6:.1tpocrih:-ce:i:v, usato nel Pitone (T.54). Penso che alcuni passi aristotelici rivelino i precedenti probabili della critica radicale che Timone doveva rivolgere all'uso di ipotesi ed aiutino a comprendere le implicazioni di tale critica. Negli Analitici Secondi (I 3,72b 5-15) Aristotele attacca coloro che « ritengono che non sussista scienza, in quanto bisogna conoscere gli elementi primi », e cosl prosegue:

In realtà, coloro che suppongono non essere assolutamente possibile la conoscenza, sostengono di venir ricondotti all'infinito, in quanto non si possono conoscere gli oggetti posteriori in virtù di oggetti anteriori, che non derivino da elementi primi; su quest'ultimo punto essi si esprimono correttamente, dato che è impossibile attraversare un'infinità di oggetti. Ammettendo poi che ci si arresti e che i principi sussistano, costoro sostengono che tali principi risultano inconoscibili, non essendo certo possibile una dimostrazione che li riguardi, ossia non verificandosi ciò per l'appunto in cui soltanto a loro avviso - consiste il sapere. Ma se non si possono conoscere gli elementi primi, non sarà neppur possibile, secondo costoro, conoscere assolutamente ed in senso proprio gli oggetti derivati dai principi; tali oggetti saranno conosciuti piuttosto sulla base di un'ipotesi, quando si ammetta che gli elementi primi sussistono (È!; V1toiM> persino delle « più comuni produzioni » naturali, sarà oggetto di analisi critica particolarmente sviluppata nella indagine epistemologica di Boyle; 1a presenza in Glanvill di questa osservazione testimonia pertanto di un preciso e interessante legame. 124. Ivi, p. 179. 125. lvi, p. 180. 126. lvi, pp. 180-81. 127. lvi, p. 183. 128. Ibid.

150 « sforzi attenti e geniali di tanti veri filosofi » 129 e soprattutto di Descartes che « ha mostrato al mondo la strada per essere felice ». La parabola retorica è così compiutamente delineata: dalla disperazione e dalla incredulità prodotte dalla filosofia aristotelica alla fede e alla felicità della cartesiana. Né sono meno gravi le « colpe » dell'aristotelismo in campo teologico, dove irreparabili guasti ha prodotto la teologia scolastica che ha abbandonato « le più ovvie verità » 130 in favore di inestricabili trame tessute con dottrine pagane, che ha conseguentemente « derubato il mondo cristiano della sua unità e della sua pace » 131 e che si rifà ad una filosofia scopertamente empia e in contrasto con fondamentali dogmi cristiani quali quello della resurrezione, della creazione, della libertà divina 132 • « La teologia scolastica, conclude Glanvill 1 non è che l'aristotelismo in livrea teologica ... e uno scolastico è lo spettro dello Stagirita in un corpo di aria condensata » 133 • La battuta, per altro sorprendente in bocca ad un deciso sostenitore dell'esistenza degli spettri, riecheggia un'efficacissima pagina hobbesiana 134 e suggerisce un evidente parallelo tra cattolicesimo e aristotelismo, tra la fine della pretesa universale sovranità della chiesa romana ad opera del protestantesimo e la fine della « tirannia » della filosofia aristotelica ad opera di quella « nuova ». La perizia retorica di cui dà prova Glanvill in queste pagine gli consente di realizzare il disegno di una globale contrapposizione tra aristotelismo da un lato e nuova filosofia dall'altro, ma non riesce certamente a risolvere gli insanabili dissidi che dividono il campo dei moderni e che risultano, malgrado tutto, anche nella fisionomia contraddittoria che viene ad assumere la scienza moderna, presentata da un lato come sperimentale e dall'altro posta in contrasto con l'aristotelica in quanto caratterizzata da una conoscenza della « struttura nascosta » della natura. L'ambiguità è pienamente risolta dalla scelta inequivocabilmente empiristica dell'ultima parte della Vanity, anche se in un contesto nel quale non si potrà più porre il problema della congruenza dell'accusa

129. Ibid. 130. lvi, p. 167. 131. Ibid. 132. « That the Resurrection is impossible; That God understands not all things; That the world was from Eternity; That there's no substantial form, but moves some Orb; That the first Mover moves by an Eterna!, lmmutable Necessity; That, if the world and motion were not from Eternity, then God was Idle; were all Assertions of Aristotle, which Theology pronounceth impieties » (ivi pp. 183-4). 133. lvi, p. 152. 134. Leviathan, cit., cap. 47, pp. 712-13.

151 rivolta all'aristotelismo di non penetrare fino alla hidden frame della natura. Il contesto è infatti quello ormai puramente epistemologico dell'indagine sui fondamenti del nesso di causalità. A questo problema Glanvill si è volto con grande decisione per cogliere il carattere essenziale della struttura della « scienza dogmatica». « La scienza nel senso dei dogmatici » pretende di configurarsi come « la conoscenza delle cose nelle loro cause vere immediate e necessarie » 135 , la dimostrazione della sua impossibilità si configura allora come un'ampia indagine sulla causalità cbe Glanvill articola in cinque punti: l'imputazione causale (1) è basata sulla mera concomitanza, (2) dogmaticamente intesa equivale alla dimostrazione della impossibilità del contrario, (3) implica la conoscenza delle cause iniziali e (4) di tutte le altre, « per la reciproca dipendenza e concatenazione», (5) « ogni scienza deriva dai sensi » 136 • Di queste cinque prove della inconoscibilità delle cause « nel senso del dogmatico » particolare interesse rivestono le prime due, che colpiscono anche come anticipazioni delle analisi humiane. La prima muove dalla constatazione del carattere mediato della conoscenza delle cause: non conosciamo una causa « per semplice _intuizione ma through the mediation of its effects »137 • Da ciò segue che non possiamo concludere che una cosa sia la causa di un'altra se non per il fatto che l'accompagna con continuità ... ma ora argomentare da una concomitanza una causalità non è una conclusione infallibile 138 •

L'esperienza, che è d'altra parte l'unica fonte della conoscenza, non attesta che eventi concomitanti e quelle che consideriamo cause possono essere soltanto uninfluential attendants. Se da una parte, come è stato sottolineato, questa dottrina anticipa quella humiana 139 , dall'altra ha indubbiamente la sua origine più prossima in due concezioni hobbesiane. Infatti che nella scienza fisica la conoscenza delle cause sia mediata da quella degli effetti è teoria hobbesiana ed hobbesiana è anche la dottrina secondo la quale nella espe-

135. Vanity, cit., p. 189. 136. lvi, pp. 188-223. 137. lvi, p. 189. 138. lvi, pp. 189-90. 139. Per un raffronto tra l'analisi glanvilliana e quella di Hume, R. H. Popkin, « Joseph Glanvill: A Precursor of David Hume », ]ournal of the History o/ Ideas, 14 (1953), pp. 292-303. Dello stesso autore si veda anche « The Skeptical Precursors of David Hume », Philosophy and Phenomenological Research, XVI (1955), pp. 61-71.

152

rienza comune « l'andare a caccia delle cause di qualche effetto »140 mette capo a una conoscenza puramente congetturale e fondata sulla supposizione che « eventi simili conseguiranno da azioni simili » 141 • Ora, l'accostamento compiuto da Glanvill di queste due dottrine, che in Hobbes si riferiscono ad ambiti contrapposti, da un lato denota appunto una negazione implicita di ogni contrapposizione tra esperienza comune e scienza e, dall'altro, produce l'interessante effetto di mettere in primo piano il problema dell'origine della nozione di causalità. Un problema che l'impostazione hobbesiana lasciava in ombra per due motivi: in primo luogo perché negava il carattere di vere imputazioni causali (malgrado il lapsus significativo del brano citato) alle "inferenze" dell'esperienza comune; in secondo luogo perché faceva consistere la legittimazione di una nozione nella costruzione-definizione 142 e non nella verifica della origine, com'è invece nelle prospettive lockiano-humiane. Ora quando Glanvill riprende le due dottrine hobbesiane, le congiunge e conclude all'arbitrarietà dell'arguire /rom a concomitancy to a causality, è come se affermasse che la imputazione causale è un'inferenza che ricorre continuamente nell'esperienza senza da questa poter tuttavia derivarei richiamando con ciò indirettamente l'attenzione sul problema dell'origine della relativa nozione. Quelle che per un verso rappresentano prove dell'impossibilità di una scienza dogmatica, configurano per un altro i limiti entro i quali può svilupparsi una vera scienza della natura. Una scienza a cui Glanvill non riesce tuttavia a dare dei connotati univoci e coerenti e che presenta da un lato i tratti dell'indagine sperimentale boyliana (che in qualche modo teorizza la rinuncia alla conoscenza delle cause e alle teorie) e dall'altro quelli della costruzione ipotetica hobbesiana (che comunque afferma la mancanza di alternative a una conoscenza causale e alle teorie). Grandissimo rilievo comunque viene attribuito al ruolo giocato dalle teorie sia nella imputazione causale, sia in ogni conclusione circa la possibilità o l'impossibilità di un evento naturale. Infatti il modo in cui 140. Leviathan, cit., cap. 3, p. 96. 141. Ivi, p. 97. Per J. I. Cope « the essence of Glanvill's criticism of out reasoning on causes » (joseph Glanvill, cit., p. 114) è contenuta nel primo dei « modi per cui si sovvertono i ragionamenti intesi a spiegare le cause}> degli Schizzi pirroniani, ossia « quello per il quale il genere della spiegazione della causa, aggirandosi tra le cose che non cadono sotto i sensi, non ha una conferma palese per parte delle cose che cadono sotto i sensi » (Sesto Empirico, Schizzi Pirroniani, tr. it. a cura di O. Tescari, Bari, 1926, p. 51). Ciò non è, evidentemente, in contrasto con l'individuazione della fonte immediata della critica glanvilliana nelle dottrine hobbesiane. 142. La no~ione di causa è definita in De Corpore, IX,3.

153 Glanvill illustra ed esemplifica l'incapacità della pura esperienza di andare al di là della attestazione di eventi concomitanti fa risaltare come sia l'intervento di una teoria a trasformare quello che per la pura osservazione è un « evento parallelo » in una causa 143 , e l'indagine sulla legittimità e le condizioni delle conclusioni riguardanti la possibilità o l'impossibilità di fatti naturali giunge chiaramente a mettere in evidenza la dipendenza delle conclusioni medesime da teorie e principi: Forse che certe cose che sono vere secondo i princìpi di uno, non sono impossibili alla comprensione di un altro? ... In effetti ciò che è una dimostrazione per Aristotele non lo è affatto per Descartes .... [numerosissime affermazioni sui corpi naturali] se le giudichiamo secondo i princìpi comuni e le regole della filosofia volgare, sono prodigiose impossibilità, e le loro contraddittorie tanto valide quanto dimostrabili, mentre per una ragione formata dal cartesianesimo hanno la loro probabilità .... Ora i migliori princìpi, eccetto quelli teologici e matematici, non sono che ipotesi neffambito delle quali possiamo trarre invero molte conclusioni al riparo da errori:· ma tuttavia la più grande certezza derivata da una supposizione è ancora solo ipotetica. Sicché possiamo affermare che le cose sono cosl e cosl secondo i princìpi che abbiamo assunto: ma stranamente ce ne dimentichiamo quando sosteniamo la necessità del loro essere così in natura, e l'impossibilità del loro essere altrimenti 144 •

Sorprendentemente queste professioni di relativismo, lungi dal preludere a una esortazione alla cautela conoscitiva, introducono a rm lungo resoconto di « supposte impossibilità » 145 , quali casi di telepatia, di comunicazioni e azioni a distanza per mezzo di strumenti resi « simpatetici », di terapie « magnetiche » mediante « il farmaco simpatetico di Digby ». Ora, lo spazio dedicato alla narrazione di questi eventi « presunti impossibili » e il fatto che ne venga garantita la veridicità 146, dimostra che non si tratta solo di esempi addotti a conferma di una dottrina epistemologica. Non è infatti difficile cogliere le possibilità apologetiche aperte dalla perdita di ogni legittimo diritto da parte della ragione di discriminare tra possibile e impossibile nel campo degli eventi naturali:

143. Secondo il significativo esempio addotto da Glanvill: se si adotta l'ipotesi cartesiana il rapporto tra sole e luce cessa di essere una relazione di causa-effetto (Vanity, cit., pp. 190-2). 144. Vanity, cit., pp. 194-5. 145. lvi, pp. 196-208. V. Pacchi, op. cit., pp. 98-99. 146. In particolare « out of doubt » è dichiarata l'efficacia della cura « simpatetica» delle ferite che Digby descrive nel Discours fait en une Celebre Assemblée ... Touchant la Guerison des Playes par la Poudre de Sympathie (Paris, 1658),

154 diviene impossibile escludere tutto quel patrimonio di credenze religiose tradizionali aventi per oggetto, ad esempio, le influenze angeliche sulle menti umane 147 , i poteri delle streghe e l'esistenza degli spettri sempre più compromesso da una tendenza tipica del pensiero moderno (e comune a sue componenti antagonistiche) quale quella della negazione di deroghe dall'ordine della natura. Ora, nella prospettiva affermata da Glanvill in tanto è illegittima ogni discriminazione tra possibile e impossibile da parte della ragione, in quanto si riferisce all'ambito dei fenomeni naturali e, correlativamente, in tanto è recuperabile quel patrimonio di credenze tradizionali, in quanto gli eventi che ne sono l'oggetto si configurano come fatti naturali, ossia suscettibili di spiegazioni naturali. Ecco allora come, da una parte, la credenza nelle influenze angeliche e nelle streghe può diventare compatibile con un atteggiamento avverso alla superstizione e al fanatismo e, dall'altra, una scienza che osservi questi eventi senza preclusioni dogmatiche e ne proponga spiegazioni naturali, depurandoli da ogni carattere miracoloso e innaturale, svolge un compito di sostegno della religione. E il meccanicismo, che sembra a Glanvill offrire le spiegazioni migliori (anche se non le uniche), viene assumendo, anche in questo modo, un rilevante valore apologetico come elemento di saldatura tra « nuova scienza » e religione secondo prospettive del tutto analoghe a quelle che Boyle sviluppa proprio nello stesso periodo Un meccanicismo, tuttavia, inteso come Glanvill ritiene l'abbia inteso Descartes, ossia puramente ipotetico e non vincolante « la libertà dello spirito » 148 ; in una parola, adottato con un atteggiamento opposto a quello del dogmatico e del « pedante »: Il pedante non può udire nulla che non sia conforme ai concetti di cui Le determinazioni dello spirito più nobile sono soltanto temporanee, ed egli le mantiene solo finché una migliore evidenza non annulli le sue precedenti opinioni 149 •

è innamorato,

Si tratta di una concezione strumentalistica e probabilistica delle teorie, del tutto analoga a quella che in termini epistemologicamente più precisi trovava espressione lo stesso anno nei Physiological Essays di Robert Boyle 150 •

i:t r~~ii, 2cl~~ e,. ~~~he Against Confidence, cit., p. 32, 149. Vanity, cit., p. 233. 150. Cfr., ad esempio, The Works, cit., vol. I, p. 303.

155 In verità a White non sfugge la differenza che intercorre tra il probabilismo di Glanvill e una posizione propriamente scettica 151 • Ciononostante non meno gravi gli appaiono le conseguenze di un atteggiamento che non si limita a rilevare il carattere incerto di singole dottrine ma cbe procede ad affermare la strutturale incapacità della scienza ad adeguare la realtà. In un sapere di questo tipo, privo di principi assolutamente veri, White non riesce a vedere che una defatigante e inutile pratica sperimentale 152 o un vano e vanitoso esercizio di retorica e di erudizione 153 , mettendo cosl sullo stesso piano « baconiani » e scolastici. Questa strumentale e provocatoria identificazione, denuncia comunque i limiti entro i quali si colloca la polemica di White e la grande distanza che la separa dall'attacco che Hobbes ha condotto quattro anni prima contro la filosofia sperimentale 154 • Certo non mancano - e non a caso delle somiglianze esteriori: la affermazione della necessità epistemologica di far riferimento a « cause prime » 155 , la dichiarazione di insufficienza della pratica sperimentale per la costruzione della scienza 156 , l'esclusione della sperimentazione dai cqmpiti propri dello scienziato 157 , infine il tentativo (per altro solo accennato) di legittimazione di una conoscenza dimostrativa e causale attraverso un appello a un procedimento che muove da « definizioni » 158 , sono tutti elementi teorici presenti nell'Exclusio che trovano un qualche riscontro anche nella critica hobbesiana della scienza sperimentale di Boyle. Si può anche aggiungere che le prospettive assolutistiche, che White condivideva con Hobbes, possono essere poste in relazione con la grande preoccupazione manifestata per le ripercussioni che potevano produrre su un assetto istituzionalizzato dell'insegnamento il riconoscimento di pieno diritto di cittadinanza per qualunque filosofia (che non escludesse tutte le altre) proprio del probabilismo glanvilliano e la rivendicazione della « libertà di pensiero ». E tuttavia rispetto a Hobbes manca non solo una potente teoria che dia effettivo significato a questi elementi e li colleghi in modo organico ma anche ogni capacità di intravvedere la peculiarità del metodo antidogmatico difeso da Glanvill. 151. Exclusion, cit., « The Preface >>. 152. lvi, pp. 72, 77. 153. Ivi, « The Preface >>, e p. 55. 154. Il Dialogus Psysicus de natura Aé'ris viene pubblicato a Londra nel 1661. 155. Exclusion, cit., pp. 76 ss. 156. lvi, p. 72. 157. lvi, p. 73. 158. lvi, p. 75.

HUME, IL DUBBIO « PIRRONIANO » E LA SCEPSI « ACCADEMICA » di Gianni Paganini

1. Nella storia delle interpretazioni rivolte a chiarire i limiti e le finalità dello scetticismo humiano, il complesso di argomentazioni con il quale si apre la quarta parte del primo libro del T reatise non gode certo della miglior fama. Definita di recente come « uno dei peggiori argomenti che mai si sia imposto ad un uomo di genio »1, l'asserzione secondo la quale anche la conoscenza « più certa e infallibile » non può che « degenerare in probabilità » 2, costituisce senza dubbio un aspetto rilevante di quella sfida scettica, a cuj non mancano tuttora gli avversari. È così avvenuto che critici anche assai fini abbiano veduto nello « scetticismo rispetto alla ragione » principalmente un « grossolano errore di logica » 3, il residuo erratico di un approccio psicologistico affatto inadeguato a cogliere la dimensione formale dell'inferenza dimostrativa. Se questi rilievi possono anche apparire in parte giustificati sotto il profilo teorico, essi non bastano d'altro canto ad esonerare il lettore da un'indagine propriamente storica, che, ripercorrendo le strutture salienti della riflessione humiana, ritrovi in essa le ragioni di quella

1. D.C. Stove, Probability and Hume's Inductive Scepticism, Clarendon Press, Oxford, 1973, p. 132. 2. D. Hume, A Treatise of Human Nature, I,IV,1, ed. by L.A. Selby-Bigge, Clarendòn Press, Oxford, 1951 (P ed. 1888), p. 180 (qui di seguito dt. come: Treatise); tr. it. di A. Carlini, revisione di E. Lecaldano e E. Mistretta, in D. Hume, Opere, a cura di E. Lecaldano e E. Mistretta, voi. I, Laterza, Bari, 1971, p. 194. I rif. alla trad. it. rinviano sempre a questa edizione, 3. F. Zabeeh, Hume Precursor of Modern Empiricism. An Analysis o/ His Opinions on Meaning, Metaphysics, Logie and Mathematics, M. Nijhoff, The Hague, 1960, p. 147 n. (si veda in proposito tutta la sez. e quelli « deboli », « a seconda delle varie disposizioni della nostra mente». Così, anche la rappresentazione del contrasto, attraverso il quale « ragione scettica » e « ragione dogmatica » si elidono reciprocamente, raccoglie invero il senso più autentico della « soluzione >> pirroniana: essa non mira a produrre convinzioni positive, ma si vale dell'argomentazione antiapodittica come di uno strumento polemico, che insieme all'avversario annulla sé medesimo. Tale era anche il significato della celebre metafora medica del « catartico », il farmaco che, espellendo i detriti, egualmente elimina se stesso, cosl da restituire il corpo alla salute e alla condizione naturale, immagine della vita « senza dogmi ». La metafora appariva calzante e ciò ne aveva determinato la fortuna tra i « nouveaux pyrrhoniens », da Montaine a Bayle, dalle dossografie tendenzialmente favorevoli di Gassendi all'esposizione risolutamente avversa di Crousaz 16 . Se, malgrado la complessità e la finezza dei motivi scettici che Io sottendono, il T reatise continua invece a indicare nel pirronismo un male che la « ragione » non può « guarire » - se pertanto Hume si attende un rimedio non dall'esito del processo catartico, bensl dalla sua interruzione ad opera della « natura » - ciò dipende senza dubbio dalla consapevolezza, ben chiara nel filosofo scozzese, che questo tipo di scepsi si limita a ritorcere 15. A Letter /rom a Gentleman lo His Friend in Edìnburgh, Edinburgh, MDCCXLV, p. 19 (rist. anastatica con introduz. e note a cura di E.C. Mossner e

J,V. Prke, Edinburgh University Press, Edinburgh, 1967).

16. Sextus Empiricus, Adv. dogm. II 479-80 (ediz. dt. pp. 211-12); cfr. Pyrrh. hyp. I 206, (ed. dt. p. 51). Per il passo di Montaigne, Essais, II, xii, nell'ediz. a cura di A. Micha, Garnier-Flammarion, Paris, 1969, vol. II, p. 193. P. Bayle parla del « catartico » in una lunga lettera, che da sola costituisce un piccolo trattato di storia dello scetticismo: A Minutoli, le 31 de janvier 1673 (in Oeuvres 1 1 5 6 ~atab:o:s~~~e~~d1~:~ JiiJ!;h;~, G~s~~s~dtd~!~~tti~ad~ll~ metafora e del suo significato nel Syntagma, Pars prima, « De Logicae fine}>, cap. III (in Opera, cit., vol. I, p. 76b}. Per il luogo di Crousaz: Examen, dt., p. 77a-b, ove ci si riferisce anche al commento in proposito di J. Le Clerc, in Bibliothèque ancienne et moderne, t. XIV, partie première, p, 77.

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163 contro la ragione dogmatica i canoni e i criteri a cui essa si appella, senza mai riuscire a soddisfarli in modo coerente. L'una e l'altra « sono della stessa natura, benché opposte nelle loro operazioni e tendenze»: riproducono, l'una in positivo e l'altra in negativo, un identico modello da cui derivano in pari misura le aporie• insolubili del dogmatico e la sottile inconcludenza dello scettico 17 • Si è già visto come tale specularità abbia trovato conferma nella disamina dello « scetticismo rispetto alla ragione»: questo infatti scaturisce dall'esasperazione di un'esigenza fondativa e parte subiecti, originariamente propria dell'atteggiamento dogmatico, ma poi assunta dallo scettico per scalzarla dall'interno. In modo analogo, è contro la ricerca di un fondamento della certezza, da ritrovarsi e parte obiecti nell'esistenza esterna, che si appuntano tutte le obiezioni sviluppate nella sezione sullo « scetticismo riguardo ai sensi ». Per quanto concerne in modo particolare la pars destruens, era stato soprattutto Bayle a offrire nell'articolo Senofane del Dizionario una puntuale illustrazione, tanto filosofica quanto storico-erudita, del nesso che stringe in uno stesso movimento dialettico autodistruttivo la pretesa realistica del fondamento « esterno » dei fenomeni, da una parte, ~ l'esito pirroniano a cui essa da ultimo conduce, attraverso il conttasto dei « sensi » con la « ragione », e di quest'ultima a sua volta con sé medesima 18 . Anche le tappe intermedie di questo processo dissolutivo appaiono rilevanti, ove le si confrontino con i dubbi humiani riguardanti l'esistenza continuata e indipendente degli oggetti, o ancora con le riflessioni sul rapporto, necessariamente aporetico, che intercorrerebbe fra le qualità percepibili e il loro presunto « archetipo o modello esterno». 17. Treatise I,IV,1, pp. 186-87 (trad. it. pp. 200-1). Cfr. M. Dal Pra, Hume e la scienza della natura umana, Laterza, Roma-Bari, 1973, pp. 381-82. 18. Per quanto mi risulta, la voce Xénophanes non è stata fatta oggetto di considerazione particolare da coloro che hanno indagato sui rapporti tra Hume e il pensiero di Bayle. All'articolo accenna, come ad una delle fonti della controversia pirroniana, la nota di A. Santucci, op. cit., p. 53 n. 96 (più in generale, in relazione a Bayle, v. pp. 31-39). Il luogo non figura nel classico «inventario» di N. Kemp Smith, The Philosophy of D. Hume. A Critica! Study of lts Origins and Central Doctrines, Macmillan, London, 1941, parte III, cap. XIV, app. C: « The Influence of Bayle » (pp. 325-338). Sugli articoli Zenone, Pirrone e il relativo Eclaircissement si è appuntata l'attenzione degli studiosi interessati a definire i modelli della scepsi humiana: cfr. soprattutto, di R.H. Popkin, « Bayle and Hume )>, in Memorias det XIII Congreso Internacional de Filoso/fa, vol. IX, Secd6n X, Universidad Nacional Aut6noma de Mexico, Mexico, 1964, pp. 317-27; « P. Bayle's Place in 17th Century Scepticism », nel voL collettaneo: P. Bayle le philosophe de Rotterdam, a cura di P. Dibon, Elsevier-Vrin, Amsterdam-Paris, 1959, pp. 1-19 (in part. v. pp. 14-5). Alia voce Senofane ha dedicato un'interessante esegesi in chiave carte~ siana (che solo in parte condivido) A.M. Alberti, Empirismo e metafisica alle ori~

164 Il Senofane bayliano 19 costituiva infatti la plastica dimostrazione del niodo in cui un pensiero, rigorosamente improntato alle « ragioni a priori» e alle « nozioni delrordine » logico, dovesse condurre dapprima alla contestazione della testimonianza sensibile, per giungere infine alla sconfessione della stessa ragione, con il riconoscimento della piena « acatalessia » rispetto al fondamento di un mondo stabile e coerente. L'esposizione bayliana è certo complicata dalla singolarità del punto di vista adottato - quello eleatico e dalle incursioni in ambito teologico cui l'autore, come sempre, maliziosamente indulge. Al di sotto della trama polemica ed erudita è tuttavia facilmente riconoscibile il nucleo filosofico, che raccoglie una sintesi efficace ed agguerrita delle antinomie in cui incorre l'approccio realistico. Se infatti la distinzione tra il fenomeno e l'oggetto in sé costituisce per un verso il risultato necessario, cui deve pervenire la filosofia nel suo sforzo di conferire unità e coerenza al mondo, altrimenti mutevole ed eterogeneo dell'esperienza, è pur vero d'altra parte che questa stessa distinzione rappresenta altresì il punto di forza, donde muove la dialettica scettica per mostrare l'impossibilità di un riscontro fra le « cose » e le « rappresentazioni », assunte queste ultime quali oggetti diretti della mente. In questa prospettiva dualistica, ragione e sensi si contendono il campo e mettono capo ·a quel « sistema >> che Hume chiamerà della « doppia esistenza», in quanto attribuisce « opposte qualità a differenti esistenze: l'intermittenza alle percezioni e la continuità agli oggetti »20 • gini della scienza moderna, Tamari Editori, Bologna, 1977, pp. 127-38. Più in generale sul rapporto Hume-Bayle cfr.: L.P. Courtines, , Eighteenth-Century Studies, vol. XI, 1977-78, pp. 227-45. Malgrado il molto lavoro fatto, appare ancora attuale la recente constatazione di G. Gawlick, art. cit., p. 163: « Was er [Hume] der Lektiire Bayles verdankt, die fiir ihn wie fiir so viele andere zum priigenden Erlebnis wurde, ist im einzelnen noch nicht geklart )>. 19. Cito dalla quinta edizione olandese, tradizionalmente considerata la pii) corretta: P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, in 4 tomi, P. Brunel, P Humbert, J. Wetstein, ecc., Amsterdam-Leide-La Haye-Utrecht, 1740, ove la voce )(,énophanes si trova nel val. IV, pp. 515-25 (per la trad. it. ho tenuto presente quella di G. Cantelli, nel vol. da lui curato: P. Bayle, Dizionario storico-critico, Laterza, Roma-Bari, 1976, pp. 237-94), Per· valutare la probabilità di una lettura diretta dell'articolo da parte di Hume, converrà qui ricordare che tutta la rem. B e la parte finale della rem. L rimandano alla dibattuta questione dello spinozismo, con espliciti rinvii all'art. Spinoza, che Hume ben conosce e cita. 20. Treatise l,IV,2, p. 215 (tr. it. p. 228).

16.5 La situazione problematica cosl descritta da Hume bene si integra con i principali risultati a cui egli era già pervenuto sulla scorta di altre suggestioni fenomenistiche, desunte anche attraverso la lettura del Dizionario, a proposito della revoca dello statuto ontologico tradizionalmente attribuito a spazio, tempo e moto. D'altra parte, le obiezioni eleatiche riproposte nell'opera bayliana investono non solo quell'atteggiamento -che Hume denominerà il « sistema volgare», e nel quale « percezioni ed oggetti » tendono a confondersi e a identificarsi 21 • Il passo successivo della ricostruzione bayliana muove infatti direttamente contro la «ragione», ritorcendole contro le conseguenze della dicotomia, su cui essa da principio aveva fatto assegnamento per contrastare i motivi di scetticismo derivanti dalle apparenze sensibili. Due punti risultano con tutta evidenza dall'esposizione bayliana 22 • In primo luogo, una prospettiva che assuma la mente come « soggetto passivo delle percezioni » e conservi la tesi della corrispondenza causale fra le rappresentazioni e gli oggetti, conduce infine a risultati contraddittori: nei termini dell'eleatismo, assurto nel Dictionnaire a paradigma di ogni realismo metafisico, questa tesi rende inconciliabili le « nozioni evidenti » della ragione con l' « esperienza delle mie sensazioni e delle mie passioni » di « soggetto passivo ». Nel linguaggio assai più sobrio del T reatise I-lume dichiarerà I >impossibilità di comporre in un « sisteffia » coerente le inferenze della « ragione >> e i dati immediati dei >, comune tanto allo « scetticismo riguardo alla ragione» del Treatise, quanto allo « scetticismo antecedente» della prima Enquiry si è soflermato J.A. Passmore, op. cit., pp, 1.34-35. 31. D. Hume, A Letter, dt., p. 17. 32. First Enquiry XII,!, p. 150 (tr. it. p. 160).

166 Ma proprio in virtù della riconosciuta « fallacia » 26 di questa convinzione, conserva una sua costante validità la seconda e più decisiva lezione desumibile dalla lettura del Dizionario bayliano: se è vero come dice Hume - che « è impossibile difendere, con qualsivoglia sistema, o il nostro intelletto o i nostri sensi » 27 ché anzi ogni tentativo di « giustificazione » in questo senso aggrava le difficoltà - ne consegue che il dubbio scettico può essere interpretato come il correlato in negativo della pretesa di evidenza implicita nella ricerca di un fondamento diverso dall'esperienza. Come nell'articolo Senofane, è dunque il nesso dello scetticismo con il presupposto· realistico, inteso in senso assoluto e metafisico, che spiega il suo carattere radicale e insiem~ «dogmatico»: la conclusiva ~> sarà pertanto costretto ad « agire e ragionare e credere », senza che in alcun modo gli sia consentito di trovare una risposta soddisfacente « intorno alla fondazione di queste operazioni·»35 . L'esito dualistico, a cui tale situazione strutturale della ricerca sullo scetticismo « eccessivo » mette capo, traspare con particolare evidenza dalla rassegna delle principali interpretazioni che pure hanno insistito sul primato del riferimento naturalistico all'interno del pensiero di Hume. Dalla subordinazione della ragione rispetto al feeling (Kemp Smith), alla descrizione del filosofo, 'scettico» e 'dogmatico' a seconda delle necessità impostegli dalla sua « natura » (Popkin), per giungere sino al tentativo di accentuare ulteriormente la « coerenza »

33. lvi, XII,2, p. 155 (tr. it. p. 165). 34. G. Radnitzky, « Reflections on Scepticism, Pyrrhonian and Other », Ratio, voi. VII, 1965, pp. 117-44 (la cit. è a p. 128). L'interpretazione del Radnitzky coglie un aspetto reale ed importante dell'aporetica del Treatise (cfr. p. 136: « Hume exploded the tradition of 'Cartesianism' by declaring dead its 'problem of induction'. But he could not free himself from that tradition since he did not reject its adequacy criteria and ideal »), ma appare tuttavìa inadeguata a dar conto della complessità e dell'evoluzione del pensiero humiano, in ordine sia alla scepsi che ai criteri rispetto ai quali essa va commisurata. 35. First Enquiry XIl,2, p. 160 (tr. it. p. 170).

169 di tale atteggiamento dichiarando naturalismo e scetticismo affatto complementari (Penelhum) 36 : ad ognuna di queste tappe nella storia della critica, il pirronismo si è trovato ad essere investito di un valore primario e pressocché esaustivo rispetto alla complessa materia della scepsi humiana. È così avvenuto che la distinzione tra il dubbio pirroniano e quello «accademico» venisse sfumando 37 (al punto che un recente autorevole storico dello scetticismo ha raffigurato Hume come il più autentico rappresentante del puro ethos pirroniano nell'età moderna, spiegando poi come un mero fraintendimento l'adozione della veste accademica nella Enquiry) 38 mentre la coazione pragmatica insita nell'appello all)orientamento naturale è venuta contemporaneamente caricandosi di significato legittimante, sia pure soltanto sul piano psicologico. 4. L'assunzione di una prospettiva accentuatamente naturalistica (nella versione più mossa e 'drammatica' di Popkin, o in quella assai più blanda e 'pacificata' di Penelhum), mentre ha l'indubbio merito di porre al centro dell'attenzione il contesto pragmatico e psicologico in cui la riflessione di Hume si situa, presenta d'altra parte l'inconveniente di sottovalutare il lavorìo, anche epistemologico e metodico, sot~ teso alla rielaborazione della tematica del dubbìo nell'Enquiry. Se è vero quanto si è argomentato sinora intorno alla sopravvivenza di un approccio fondativo alla radice delle negazioni scettiche più spinte, la

36. Cfr. N. Kemp Srnith, op. cit., in part. cap. XXV (« Conduding Comments »), pp. 543 ss.; R.H. Popkin, « D.H.: His Pyrrhonism ... », cit., pp. 403-406 (particolarmente forte l'asserto di p. 406: « The true Pyrrhonist is both a dogmatist and a sceptic. In being entirely the product of nature he welds his schizophrenic personality and philosophy together »). Cfr. Id. « D. Hume and the Pyrrhonian Controversy >>, The Review of Metaphysics, vol. VI, 1952, pp. 65-81 (al riguardo v. pp. 78-81). L'immagine di uno Hume «schizofrenico», diviso fra il « commonsense realism » e le implicazioni scettiche della « commonsense theory of knowledge », è anche quella che ci restituisce, su differenti basi teoriche, K.R. Popper, Objective Knowledge. An Evolutionary Approach, Clarendon Press, Oxford, 1972, p. 87. T. Penelhum, art. cit., ha rivisto molte delle tesi svolte da Popkin, per giungere ad una più omogenea fusione tra i motivi naturalistici e quelli scettici, in un quadro che appare dominato da categorie di ordine psicologico (v. pp. 254-55). Muovendo da un punto di vista più vicino a quello di Popkin, si orienta in u~'analoga direzione P. de Martelaere, « Hume's "Gematigd" Scepticisme: Futiel of Fataal? », Tijdschri/t voor Filosofie, vol. XLIII, 1981, pp. 427-64 (v. soprattutto pp. 452,459). 37. Emblematico il giudizio di R.H. Popkin, « D. Hume: His Pyrrhonism ... », cit., p. 406: « Even the more "mitigated scepticism" wich Hume proposed, as an alternative to e:xtreme scepticism, at the end of the Enquiry, comes to no more than this », La distinzione è invece nettamente tracciata da J. Immerwahr e T. Penelhum, artt. cit. 38. J .-P. Dumont, Le scepticisme et le phénomène. Essai sur la signification et les origines du pyrrhonisme, Vrin, Paris, 1972, pp. 71-2.

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situazione che anche per il pirronista determina la natura e l'estensione del dubbio non è il confronto con le esigenze pratiche della vita quotidiana, ma pur sempre il vaglio dei canoni e dei criteri in rapporto ai quali si stabilisce l'attendibilità del conoscere. Il tipo di risposta dello scettico dipenderà dunque dagli interrogativi teorici con i quali si sarà misurato e dagli standards ai quali si sarà rivolto per accertare i risultati conseguiti 39 • Per riprendere una formulazione classica nella, storia della scepsi, ciò che è in questione è il « criterio », non nel « senso di ciò a cui ci atteniamo nel fare alcune cose e nel non farne altre», bensì nell'accezione propriamente filosofica: misura dell'apprensione di una cosa non evidente e -

aggiunge Sesto -

in base a questo significato non si chiamano affatto criteri quelli della vita immediata, ma soltanto quelli della logica, anzi proprio quelli che i filosofi dogmatici mettono innanzi come mezzi per scoprire la verità 40 •

In una celebre asserzione, a buon diritto richiamata in quasi tutti gli studi critici, è lo stesso Hume a sgombrare il campo dalle obiezioni che i nemici del dubbio pretendono di muovere a partire dalla « pratica», : « Come uomo che agisce avverte l'autore - io sono pienamente soddisfatto dell'argomento; ma come filosofo, che partecipa in qualche modo al desiderio del sapere, per non dire a scetticismo, ho bisogno di conoscere il fondamento di questa inferenza », che viene addotta sul piano teorico a sostegno della prassi 41 • Si dovrà notare, d'altra parte, che neppure l'assunzione di un mo~ dulo risolutamente immaginativo e affatto psicologico, come quello che· nel Treatise identifica l'« intelletto» con « le proprietà generali e più stabili dell'immaginazione», risulta di per sé sufficiente ad evitare lo scoglio dello « scetticismo totale », quando alla base dei « più generali princìpi », che regolano la condotta dell'attività razionale, venga tut-

39. A questo proposito manifestano tutta la loro validità le osservazioni, peraltro generali, di A.]. Ayer, The Problem of Knowledge, Macmillan, London, 1956, p. 33. 40. Sextus Empiricus, Adv. dogm. I 29 e 33 (ed. cit. p. 8, IL 19-20; p. 9, IL 9-13, trad. it. cit. pp. 10-12). La distinzione è chiaramente riproposta da P. Gassendi, Syntagma, Pars prima, « De logicae fine», cap. I (in Opera, cit., vol. I, p. 69a}. 41. First Enquiry IV, p. 38 (tr. it. p. 44). Cfr. in proposito G.E. Moore, « La filosofia di Hume », in Studi filosofici, tr. it. a cura di G. Preti, Laterza, Bari, 1971, p. 83.

171 tavia fatto valere il criterio « astratto » imperniato sull'esigenza fondativa. Basta leggere in immediata sequenza la prima e l'ultima sezione della parte su « Lo scetticismo ed altri sistemi filosofici », per constatare come lo stesso Hume - pur facendo assegnamento sulla natura « sensitiva » e non « cogitativa » della cr~denza, allo scopo di « conservare sempre un certo grado di certezza » contro le obiezioni sia tuttavia infine costretto a riconoscere che l'intelletto, per quanto empiristicamente ridotto, « distrugge del tutto se stesso e non lascia il minimo grado di evidenza a nessuna proposizione ». Sui contenuti immaginativi continuano infatti ad operare gli stessi « più generali principi » di verifica, già riscontrati nel testo della prima sezione 42 • Alla luce delle argomentazioni svolte nelle pagine conclusive della parte quarta, appare ancor meno soddisfacente, anche nella prospettiva dell'autore, quella che può considerarsi come un'ulteriore variante di un'ipotetica alternativa psicologistica al regresso fondativo e alle sue implicazioni scettiche. Tale variante consiste nel considerare la mente « al pari del corpo », come una risorsa « dotata di una certa precisa quantità di forza e di attività », e per ciò stesso inadeguata a sostenere il gioco infinito, ma «sforzato» ed «innaturale», dei rispecchiamenti suggeriti dalla dialettica scettica 43 , La considerazione più distaccata e rigorosa, di cui Hume dà buona prova nella sezione settima, ci restituisce tutta la problematicità di questa suggestione. Per quanto possa essere efficacemente argomentata sul piano delle motivazioni psicologiche, l'interruzione del procedimento di convalida rivela tuttavia la sua intrinseca debolezza teorica, quando si consideri con lo stesso Hume cbe tale espediente si fonda in definitiva su una « singolare e apparentemente volgare proprietà dell'immaginazione, per la quale entriamo con difficoltà negli aspetti più reconditi delle cose». Di più, tale procedura non solo viene ritenuta dal filosofo affatto arbitraria, ma neppure si presta ad essere teorizzata senza dare luogo a manifeste contraddizioni, come quella di assumere nelle premesse il valore di ragionamenti « sottili e metafisici », la cui efficacia verrebbe poi negata nelle conclusioni 44 • È facile vedere come queste significative avvertenze dello stesso Hume bastino a rendere quanto meno discutibile l'interpretazione che individua nel naturalismo psicologistico il coerente superamento o l'im-

42, Treatise I,IV,7, pp. 267-68 (tr. it. p, 279); !,IV,!, pp. 182-83 (trad. it. p, 197),

43. lvi, p. 186 (tr. it. p. 200). 44, Treatise I,IV,7, pp. 267-68 (tr. it. pp. 279-80).

172 mediato complemento della scepsi; ci sembra anzi di poter affermare che in un quadro come quello humiano, dominato dalla puntigliosa esigenza di verifica di ogni esito teorico, il continuo oscillare fra la sospensione del dubbio e l'adesione al dato spontaneo della credenza indichi assai meno la disponibilità ad un tentativo conciliativo, che non l'urgenza di un ulteriore approfondimento dei criteri dell'indagine. Tanto più che le pagine finali del primo libro del T reatise dischiudono una prospettiva difficilmente assimilabile alla compagine pirroniana e in fondo estranea a quel dualismo di prassi e teoria in cui essa sembra da ultimo sfociare: ci riferiamo ovviamente all'indicazione humiana, secondo la quale il rifiuto dello « spirito dogmatico » e l'abbandono del giudizio asseverativo ( « è evidente, è certo, è innegabile ») non sarebbero comunque incompatibili con un'apertura alla ricerca entro il .mondo fenomenico, tale da consentirci, pur nella rinuncia alla piena evidenza dimostrativa, di « seguire anche la propensione che ci porta ad essere positivi e certi nei punti particolari secondo la luce in cui li vediamo in un istante particolare »45 ,

5. Tale apertura, se per un verso bene si accorda con quella scienza descrittiva che vuol essere la « geografia » della mente, comporta d'altra parte una consistente revisione del paradigma della scepsi con il quale Hume viene confrontandosi. Al termine di questo sviluppo si situa, com 'è noto, la riproposizione dello « scetticismo più moderato o filosofia accademica », che ci viene presentato come « il risultato del pirronismo o scetticismo eccessivo, quando i suoi dubbi indifferenziati siano in qualche misura corretti dal buon senso e dalla riflessione » 46 • Per non ricadere in una lettura banalizzante o riduttiva (commonsensistica) di questo esito, converrà tener presente il quadro storico entro il quale il testo humiano si colloca, e che appare fortemente influenzato

45. Ivi, pp. 273-74 (tr. it. p. 285). 46. Fìrst Enquiry XII,3, p. 161 (tr. it. p. 171). Sia Flew (op. cit., pp. 267, 272) che Passmore (op. cit., pp. 133, 150) considerano lo scetticismo «accademico)> dell'Enquiry come la posizione fondamentale e più matura nell'evoluzione del pensiero di Hume; tuttavia, mentre il primo lo riconduce ad un predominante approccio naturalistico (cfr. p. 272: « Hume's Academical scepticism can thus best be seen as a kind of sdentific naturalism »), il secondo insiste con maggiore chiarezza sulla complessità e sulla problematicità del rapporto, che anche questo tipo di scetticismo «mitigato)> intrattiene con il sapere scientifico (cfr. pp. 10, 145-46, 154; per la critica dell'interpretazione naturalistica, v. soprattutto pp. 146-47). Opportunamente A. Santucci, Introduzione a Hume, Laterza, Bari, 1971, p. 72 collega la « delusione sistematica» propria del Treatise con il prevalere di un « impegno ... anzitutto fenomenologico» da parte dello scettico.

173 dalle discussioni sul « criterio ». Ancora una volta il riferimento a Bayle e al suo multiforme Dizionario si offre come uno dei tramiti storicamente privilegiati per avere accesso ad una fenomenologia delle posizioni scettiche, assai più ampia e articolata di quanto possa apparire a chi si limiti a considerare le consuete voci pirronistiche. Un utile punto di partenza, idoneo a saldare gli esiti più negativi con le aperture costruttive del dubbio, già si ritrova in quello stesso articolo senofaneo sopra menzionato. In esso, pur dopo aver riscusso dell'acatalessia » come del « precipizio » in cui la ragione dogmatica sprofonda quando « incappa in reti che non riesce a lacerare >>47, Bayle non manca di riferirsi ad una preziosa testimonianza di Sesto Empirico intorno al problema del « criterium veritatis », per accennare ad un uso più contenuto del dubbio: « Senofane - cosi si legge presso Sesto sembra non eliminare ogni apprensione, ma solamente quella scientifica e infallibile, e ammettere invece quella opinativa ». Con la « ragione opinativa » - cioè il raziocinio che si limita a raccogliere « apprensioni deboli » e a « formulare giudizi verosimili o probabili»" - s'introduce dunque un'ulteriore scansione nella tematica del «criterio»: scansione che non sembra del tutto priva di rilievo, se si pensa che proprio essa appare destinata a svolgere un ruolo determinante nell'instaurarsi dì un rapporto più duttile e sfumato fra il dubbio e gli « abiti » naturali della credenza. Ma prima di anticipare l'esito che qui ci interessa, sarà opportuno soffermarci ancora su quei luoghi del Dizionario storico-critico in cui tutta questa materia dell' « opinare » viene sottoposta ad un'attenta rielaborazione, condotta in modo diretto sulle principali fonti neo-accademiche. In questa complessa mediazione storico-filosofica si può forse individuare uno (e nemmeno il più sottile) dei fili che tessono la trama della scepsi « moderata » nella prima Enquiry, Le voci dedicate all'illustrazione del ruolo di Arcesilao e Carneade nell'evoluzione dello scetticismo antico, costituiscono altrettante piccole, dense monografie, nelle quali - sulla scorta di tutte le testimonianze disponibili, da Plutarco a Diogene Laerzio, da Sesto Empirico a Numenio presso Eusebio, ma in primo luogo gli Academica ciceroniani 49 - Bayle giunge a fissare alcuni tratti significativi, che definiscono lo 47. P. Bayle, Dictionnaire, cit., s.v. Xénophanes, rem. L, voi. IV, p, 524b (tr, it, cit. p, 290).

48. Ivi, pp, 523b-524a (tr. it. cit. p. 287) = Sextus Empiricus, Adv. dogm. I 110 (ed. cit, p. 25, Il. 30-31}. Per l'espressione: « apprensione debole», si veda il § seg,, 111 (ed. cìt. p, 26, I. 5). 49. Rispettivamente sull'importanza filosofica e st11la fortuna di questo aspetto dell'opera ciceroniana si vedano: A. Weische, Cicero und die Neue Akademie.

174 statuto teorico del giudizio « opinativo », tutto incentrato sul criterio di una probabilità sempre rivedibile. Anche se è doveroso avvertire che non vi sono nessi di immediata evidenza tra Bayle e Hume a questo proposito, sembra tuttavia verosimile supporli, dato il vivissimo inte~ resse sempre manifestato dal pensatore scozzese per il Dizionario. Si potrà inoltre aggiungere che ìn questo caso la lezione scettica del grande erudito di Rotterdam andava a corroborare quella dell'autore « classico » per eccellenza negli scritti di Hume: Cicerone 50 . In estrema sin te~ si, i punti che qui più ci interessano, in quanto dischiudono un utile aperçu sulla « svolta » impressa dalla Enquiry, sono i seguenti 51 : i. Bayle non si limita a sottolineare l'esistenza di una sostanziale comunanza di intenti fra Arcesilao e Carneade, ma rivendica altresl la coerenza del probabilismo neoaccademico, considerato nel suo complesso, rispetto Untersuchungen zur Entstehung und Geschichte des antiken Skepti:dsmus, « Orbis antiquus », Heft 18, Milnster L W., 1961 (2a ed. 1975); Ch. B. Schmitt, Cicero > e alla > che, a dire di Garda de Resende, « vem e vam »9 . Ancora più radicale, André Falcao de Resende, nella Satira III, accomunerà in un unico aristocratico moto di disgusto le imprese mer-

5. La locuzione è di J.S. da Silva Dias, A politica cultura! da época de D.

]oiio III, I, Coimbra, 1969. 6. Un esempio assai eloquente è fornito dalla comparazione tra la figura del monarca Pietro I, quale delineata da Fernao Lopes, quando le forme di socializzazione trovano espressione nella feroce gaiezza di una festa che coinvolge tutta la popolazione e le idealizzazioni presenti in Joao de Barros o in Diego de Teive, incarnazioni di astratti principi. 7. Cfr. Th. Braga, Bernardim Ribeiro e o bucolismo, Porto, 1877; A.J. Saraiva, Ensaio sobre a yoesia de Bernardim Ribeiro, Lisboa, 1938. 8. Cfr. A.J. Saraiva, Hist6ria da cultura em Portugal, II, Lisboa, 1955, pp.

606-31.

9. Cit. in

J, Ruggieri, Il canzoniere di Resenda, Genève, 1931, p. 65.

191 cantili d'oltremare, lo studio e la pratica del diritto civile e canonico, e insomma la costituzione di una fidalguia che, dimentica dell'antica etica cavalleresca, ricerca nelle attività lucrative nuove patenti di nobiltà 10 • Ma queste posizioni, seppur si risolvevano all'apparenza in una moralistica laudatio temporis acti, in realtà colpivano più a fondo, in quanto intendevano rimettere in discussione attraverso la critica dei nuovi comportamenti e dei nuovi valori: i negoçeos, la cobiça la stessa evoluzione del Portogallo. In fondo, il suo stesso destino imperiale, quale ormai si veniva definendo nella sensibilità contemporanea, come destino non di mera conquista, ma di civilizzazione e dilatazione dei confini della respublica christianorum. Destino inscritto nei disegni e nella volontà divini 11 • Ma ancora su un altro versante l'umanesimo «italianizzante» si rivelava incongruo alle esigenze ideologiche del Portogallo imperiale: nella riscoperta e nel culto dell'antichità classica, nella volontà da un lato di ricondurre la storia e le imprese lusitane per entro il modello della romanità, dall'altro di riscoprire nelle origini stesse del Portogallo la matrice romana: è l'impresa alla quale si applicherà soprattutto la cultura antiquaria del circolo di Évora, raccolto attorno all'Infante D. Alfonso, e che troverà compiuta espressione negli Antiqua Epitaphia sive Monumenta Romanorum in Lusitanis Urbibus di Lucio André de Resende 12 , e ancora nella seconda metà del XVI secolo sarà presente nell'attività di Aquiles Estaço. In questa curvatura dell'umanesimo portoghese sopravviveva, attraverso Aires Barbosa, la lezione del Poliziano: ma proprio la proposta del Poliziano - di comporre nelle lingue classiche l'epopea del Portogallo, per sottrarla « aeui ... tacite se voluentis edaci dente »13 - aveva già a suo tempo ricevuto una fredda risposta da Giovanni II, che invitava l'umanista a redigere « annales nostri», ma e al fatto di essere « senza libri », e la chiusa specifica « e neanco la Bibbia»; e in genere tutta la parte conclusiva, nei codici più autorevoli contraddistinta quale Appendice, che tratta della necessità, per Spagna, di affidarsi a un « savio timoniero», che « intenda dove sta il suo timone, altrimenti tante forze, pensieri, travagli, spese, discorsi sono vani»; l'assenza di tali elementi conferma i sospetti che ci si trovi di fronte ad aggiunte posteriori tutte giocate suWambiguità, estranee alla stesura originaria. Se resta pertanto credibile che in una situazione processuale particolarmente difficile Campanella abbia maturato la decisione di utilizzare a scopi difensivi e di mettere sotto la protezione di un autorevole personaggio un'opera anteriore, enfatizzandone comprensibilmente gli aspetti di lealismo filo-ispanico, s'incrina invece l'ipotesi di una febbrile stesura ex novo e di una conseguente retrodatazione opportunistica, e l'esistenza di un testo più ri-

27. Cfr. D'Ancona, p. 226. Per la redazione più ampia - che convenzionalmente chiameremo B e A quella più breve - faremo riferimento per comodità alla paginazione dell'ed. cit., tenendo però conto del testo offerto da un ms. genuino (Napoli, Biblioteca Nazionale, ms I.D.53).

231 dotto, del tutto privo di ogni notazione allusiva, induce a distinguere in tempi diversi i momenti di una primitiva stesura e quelli successivi della rielaborazione e dell'utilizzazione dell'opera. Oltre a questa prima rilevante assenza, ce ne sono altre che non possono non colpire, perché riguardano passi e fatti già in parte segnalati come «spie» particolarmente indicative: manca ad esempio il cenno alla presa di Ferrara da parte del pontefice". Nel VI capitolo, partendo dalla constatazione che « il papa è il vero monarca universale del mondo, e questo necessariamente per ragione della religione, che vince gli animi, non che i corpi soli, e ha per armi le lingue, che sono istromento di questo imperio», si sostiene che ogni sovrano che aspiri all'universalità del dominio debba allearsi con il papa, e senza illudersi di fondare una nuova religione, seguendo l'esempio di Costantino e Carlo Magno, debba porsi come protettore della religione e del suo capo, « facendosi dechiarare dipendente dal papa e predicar per il figurato Ciro e re cattolico del mondo »29 • In B il capitolo risulta pressoché triplicato e l'autore, soffermandosi più a lungo sull'inopportunità e sull'impossibilità di fondare una nuova religione, a conferma del principio che « quante volte ha bandito crociate e indulgenze il papa contra qualche prencipe l'ha rovinato», non può trattenersi dall'esclamare: ·«Ecco oggi Ferrara come ha ceduto »30 . L'assenza in A è tanto più rilevante, in quanto l'even• to acquistò subito un particolare significato agli occhi di Campanella, che verso la fine del 1597 dedicava un sonetto a « Cesare d'Este, che ritenea Ferrara contro al papa», per esortarlo a « cedere all'esercito santo » e a lasciare « sì stolta tracotanza »31 , e che già nel documento difensivo noto come Secunda delineatio fra gli indizi delle mirabili mutazioni attese per l'esordio del nuovo secolo e del prossimo realizzarsi della vagheggiata ecumene non mancava di annoverare « victoriam Fer• rariae solo gladio spirituali mirabiliter factam »32 • Un'ulteriore assenza significativa è individuabile nel IV capitolo, che trattando « Dell'Imperio di Spagna secondo la prima causa » si impegna, alla luce della profezia e dell'interpretazione tipologica della 28. Alla morte di Alfonso II senza eredi diretti, il pontefice Clemente VIII ebbe 1a meglio sull'altro contendente, il cugino dell'ultimo duca, Cesare d'Este, e solennizzò l'annessione di Ferrara (gennaio 1598) con una fastosa permanenza

nella città. 29. H, p. 25, p. 38. 30. D'Ancona, p.99. 31. T. Campanella, Tutte le opere, dt., pp. 237-238. 32. T. Campanella, Secunda delineatio defensionum (abbozzo dei futuri Arti• culi prophetales, stesa, con la Prima delinea/io, entro l'aprile 1600}, in L. Amabile, Fra T.C., la sua congiura ... cit. vol. III, p. 497.

232

Scrittura, a stabilire quale sia il fato propizio a Spagna, che le consentirà di realizzare le proprie aspirazioni: fra i riferimenti biblici aggiunti in B (« Un altro secreto voglio scoprire ... » ), uno è di particolare rilievo, e precisamente quello alle benedizioni di Noè, dalle quali si ricava che « tutti li imperi vengono dalli figli d,i Jafet », mentre « i sacerdoti grandi e legislatori vennero da Sem » e da Cam « soli servi e tiranni, che veramente son servi »33. Si tratta di un testo fondamentale, salda~ mente integrato nella visione universalistica campanelliana, che, già presente nella Delinea/io secunda ", sostanzia altresì il ricordato « Sonetto in lode di Spagnoli » assegnabile all'inizio del 1600 35 ; un testo a cui Campanella farà costante riferimento per stabilire la legittimità delle pretendenze all'impero del mondo e la necessità di una stretta alleanza fra potere politico e potere religioso. È anche in base a questo passo che in un primo tempo la suprema investitura viene conferita al re di Spagna di contro alle pretese e ai titoli vantati dal Turco - ma l'impero « più presto tocca a Spagnoli » e « la vittoria loro è che abi~ tino nella casa di Sem », per cui « secondo il fato non possono aver dominio se non come liberatori della chiesa dalle mani babiloniche, idest de Turchi e d'eretici » 36 ; sarà in base a questo medesimo testo che l'in~ vestitura verrà più tardi revocata a Spagna, dimostratasi inadeguata alla propria missione, per passare a Francia, che non dovrà mancare di imitare la « pietà e l' arti » di Carlo Magno 37 • Un altro passo cronologicamente interessante, già individuato come uno dei più significativi, lo si incontra verso la fine del capitolo sulla Francia, ed è quello che riguarda la condizione di Enrico IV: mentre in B di lui si afferma che « è mezzo attempato e non ha successore né moglie e se ne piglia sarà il figlio fanciullino alla sua morte », in A d si limita a dire che è ->. Aucune restriction de ce genre dans le texte de notre philosophe. Et à la fin, il distingue, et mème il oppose, ce que la religion nous apprend, et ce que nous persuadent les iaisons naturelles: et il constate que nous sommes beaucoup plus touchés de ceci que de cela. Cette distinction, qui est une opposition, inquiète Clerselier. Il s'en réfère au dogme: vérités de la Religion d'une part (celle-ci avec une majuscule R), « que la seule foi nous enseigne et où notre raison ne peut atteindre », et vérités qui nous sont avcc cela, dit-il, persuadées par des raisons naturelles. L'opposition devient · une subordination, la religion étant rétablie dans ses droits supéricurs, avec des vérités qui acceptent le secours de la raison, mais d'autres qui peuvent et doivent s'en passer. Enfin une déclaration, bien innoeente, du philosophe avait paru outrée à cet éditeur timoré (peut-ètre était-ce prudence et sagesse de sa part, le permis d'imprimer risquant de ne pas .s'obtenir sans cela en 1666). Descartes déclare « qu'il est du nombre de ceux qui aiment le plus la vie». Cet amour n'est-il pas excessif et répréhensible peut-étre? Clerse~ Her corrige, et fait dire au philosophe qu'il « estime (et non plus qu'il aime) assez la vie» Pourtant Descartes venait de déclarer aussi, en toute simplicité et franchise, que, malgré cet attachement à la vie, il ne craignait pas la mort 38 •

Nous avons tenu à reproduire dans son entier cette analyse de la lettre du 10 octobre 1642. Les variantes qu'of!re dans le cas présent

38. Edition Roth, XVII-XIX.

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le texte de Clerselier par rapport à l'originai de Descartes sont présentées de façon précise et saisissante. L'argumentation dans laquelle Adam enchllsse ces variantes nous permet en quelqu.e sorte de surprendre Clerselier en flagrant délit d'infidélité à son ami Descartes. Cette critique d'Adam devait étre reprise, avec plus de vigueur encore et de portée, par Léon Roth lui-mème dans la communication qu'il présenta au Congrès Descartes de 1937. Rappelant que le Descartes qui a passé dans l'histoire est un Descartes , is only understandable ·if we are given not what Descartes wrote bimself but wbat Clerselier printed in bis name 44 • Un peu plus loin, venant de suggérer (camme nous l'avons relevé

ci-dessus) de ne retenir sur !es question de religion que !es références aux seuls autographes de Descartes, Roth poursuit: The suggestion may be drastic, but the suspicion on whicb it is founded is not voiced bere for the first time. Baillet remarks in his preface on the « difference between » such letters as he and his friends could trace in manuscript and « those printed » by Clerselier (pref. XXXIV) and in at least two places in the life be c9mments adversely on the unrealiability of Clerselier's genera! editing (voL II, p. 10, note; p, 402, note), He adds that Clerselier modifìed some of Descartes' phrases (« òté quelques termes d'aigreur }>) in order to « suit Descartes' intentions }>, and it may be that this statement is meant to cover a deliberate modification of Descartes' remarks on subjects of religion. One may add that such a charge would not be out of the way as it is made spedfically by Father Daniel in his Voyage du Monde (ed, 2, 1702, p, 131), with regard to certain passages in the French translation of Descartes' Principia 45 • 44. Travaux du Congrès Descartes, II, 2e partie, pp. 102-103. 45. Jbid, p. 104. Faut-il rappeler, à propos de la référence finale au Voyage du Monde que certaines additions dans l'éditiòn française des Principia sont authentiquement dc Descartes et qu'en tout état de cause, il a donné son aval à la traduction de son ami Picot?

282 II semble bien qu'en cette dernière citation L. Roth tende à faire flèche de tout bois. Ainsi fait-il appel à Baillet nous avertissant dans sa préface des dilférences entre la minute et l'originai. En fait cet avertissement que fait Baillet, dans !es termes memes de Clerselier, ne se trouve pas dans sa préface, mais à la page 402 du second tome, que nous avons citée tout au long, dans un contexte qui amortit singulièrement, camme on peut en juger, la responsabilité de Clerselier à l'égard de ces différences. Cependant Roth évoque encore, sans !es citer, deux autres passages où l'auteur de la Vie de M. Descartes « comments adverseley on the unreliability of. Clerselier's generai editing (voi. II, p. 10, note; p. 402, note)». Dans le premier passage (II)0), Baillet redresse une erreur dans l'interpré~ation d'un nom, en glissant Regius au lieu de Reneri, erreur que l'éditeur eiìt pu éviter s'il avait prété une meilleure attention (et nous ajouterions volontiers, s'il avait eu une meilleure connaissance de la situation à Utrecht) à la suite de la lettre. Le second passage n'est autre que la note de la page 402 sur les termes d'aigreur. C'est à cette méme note que Roth se réfère, mais cette fois-ci en la citant, pour suggérer qu'elle pourrait bien viser à couvrir une modification délibérée des observations de Descartes en matière de religion. Nous ne pouvons id que laisser à Léon Roth la responsabilité d'une te!le hypothèse, établie par une sorte d'induction à partir d)une opposition de textes pour longtemps sans doute incontròlable. Le Descartes réel opposé au Descartes de Clerselier! Bien d'autres Descartes sont venus se ranger au fil des générations aux ciltés du Descartes de Clerselier et de Baillet. On peut aussi penser que tous réflétaient, avec plus ou moins de bonheur, les aspects ou les tendances si divers et parfois si contrastés de la personnalité et de la pensée du « philosophe au masque ».

LA FILOSOFIA COME « MEDITATIO VITAE» IN T. HOBBES

di Romeo Crippa *

1. Di Hobbes, pensatore dalla dottrina ben definita ed esplicita, non è stata né viene avanzata un'interpretazione univoca, bensì diverse, anche decisamente contrapposte. Cosl a quella di Hobbes « pensatore cristiano » 1 si oppone quella cbe ne evidenzia gli elementi e la direttrice areligiosa 2 se non atea. Le letture sono state le più diverse, data la ricchezza del pensatore, Il monolitismo del teorico della sovranità assoluta si articola in indicazioni che rompono rigidità di schema, liberano da ogni pesantezza, ridando, se mai, quella martellante della situazione impossibile in cui viene a trovarsi l'uomo fuori della società civile. La domanda che ritorna sempre nel corso dello studio di questo pensatore è quella relativa alle caratteristiche e alla dimensione del pessimismo che vi si avverte presente, se e sino a che punto costituisca la dottrina, se sia elemento essenziale oppure risulti dalla personalità del pensatore e alla fine non determinante. Che simile componente sussista è fuori discussione; se ne sono ricercate le matrici, da quella tucididea a quella cristiana-riformata, ma l'indiscusso riconoscimento della pre• senza non riesce a farsi pacificante avvertimento del suo posto nella dottrina. La si coglie nella delineazione della condizione naturale dell'uomo e ancora nel corso dell'indagine nel continuo sollecitare alla determinante funzione per l'uomo della soggezione al sovrano, ma quando si voglia concludere a Hobbes pessimista il passaggio, almeno a noi. non riesce, e si pone la domanda, alla fine decisiva, di quale sia il senso '~ Ricordiamo agli amici e agli allievi che questo è uno degli ultimi contributi del compianto professor Romeo Crippa (Ndc). 1. F. C. Hood, The Divine Politics o/ T. Hobbes, Clarendon Press, Oxford, 1964. 2. R. Polio, Hobbes, Dieu et !es hommes, Presses univ. de France, Paris, 1981.

284 primo, fondamentale, della ricerca per Hobbes. Se pragmatico o speculativo; nel primo caso il pessimismo può sussistere come strumento o come motivazione personale, profonda, per certo aspetto redditizia sul piano della diffusione del proprio modo di concepire lo stato, nell'altro la domanda investe la concezione della realtà; e se possa dalla matrice e dal riferimento speculativo maturare, o sino a che punto cospirare con essi una direttrice pessimistica, lo svolgimento del Cartesianesimo non facendo luogo a una simile direttrice. Malebranche e Spinoza sono in questo senso emblematici: si dimentica se mai il mondo, lo si riscatta nell'Assoluto, ma certo non lo si condanna. Il pessimismo di Hobbes non si lega, ma si corrobora potremmo dire nella matrice gnoseologica metafisica. Per quanto egli abbandoni ogni riferimento alla res cogitans e faccia esclusiva la res extensaJ non la turba o limita nella sua autonomia con una qualificazione che le inserisca una qualche teleologicità, anche se negativa. Questa, alla fine di riferimento antropologico, non è consentita dal procedere stesso cartesiano - che il momento antropologico sconta all'inizio del processo del dubbio per poi trovare la indiscutibilità della chiarezza e, non meno determinante per quanto concerne Ia materia, la figura e l'urto. Si dovrebbe dire che - Pascal per quanto è cartesiano messo a lato il cartesianesimo non consente di porre il pessimismo alla base del pensiero hobbesiano, stretto alle particelle nel loro muoversi e nel loro formare, sulla base della trasmissione dell'urto, il reale, i corpi tutti, e per quanto concerne l'uomo nel procedere verso il cervello o verso il cuore costituire la nostra ragione e la nostra volontà. Si potrebbe osservare che l'assunzione della dottrina cartesiana in modo parziale e solo per la garanzia e la determinazione della sostanza materiale non considerando invece quella che per Cartesio è primaria e portante dice di un distacco se non di una opposizione alla linea speculativa metafisico- spiritualistica di Cartesio e può consentire di cogliere nell'accoglimento di essa la presenza di quella componente pessi-mistica che si vorrebbe appunto pregiudizialmente sulla base del riferimento escludere. Ma è pure un fatto che seguendo la proposizione che Hobbes fa della struttura materiale dell'uomo, del suo conoscere e::I operare, come del mondo 1 l'esclusione di ogni presenza o richiamo ~ procedimenti di altra natura, se può far pensare a una implicita polemica e a una decisa estromissione di ciò che può dirsi spirituale, si dq in un testo che è tale da non portare a pensarla, e ciò per la chiarev:1 e l'efficacia di quanto viene proposto, per la non capacità della condizione prima del reale, quale è appllnto la materia in movimento, di recepire altro di sè. Le particelle non sopportano qualificazioni che non

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siano quelle appunto dell'estensione e dell'urto e non si. intende come di esse che sono la condizione prima, metafisica e gnoseologica, di tutt:, si possa in qualche modo tentare una configurazione di riferimento umano. Il materialismo in questo senso è così determinante da far esclu:!e re ogni relazione ad altro, tanto più se si tiene conto che esso è di origine cartesiana, vale a dire non ha alla sua base l'immediatezza del sen· tire ni.a il processo critico della ragione. E' nell'essenza della materia di essere principio fondamentale e condizione di tutto e non si intende che cosa aggiungere o proporre come radicalmente coevo se non determinante. In questo senso si misura il valore metafisico di Hobbes e l'esclusione della componente pessimistica non viene a pesare perché la portata del riferimento speculativo è tale da attenuare il problema dell'accoglimento di quella pessimistica. 2. Potremmo dire che essa viene da considerarla in riferimento alla personalità di Hobbes; se non fosse che il tema del conflitto si impone non solo come primario ma costitutivo della nostra realtà di uomini. L'urto diventa conflitto per il fatto appunto che non viviamo eia scuno isolato ma possiamo dire costitutivamente - se pensiamo allo stesso nostro apparire alla vita - -in società e da questo conflitto non può che proliferare morte. D'accordo che uno stato generale di lotta è ipotizzabile e perennemente sovrastante (se non altro nel rapporto de·· gli stati tra loro ma storicamente non è provato 3) la stessa società faH miliare; e l'espansione di questa in quella politica, proponendosi come indice del processo abituale è indubbio che l'esclusiva proposizione di sè è costitutiva dell'uomo e ragione di guerra. Ma se ciò si dà nelFaÌnbito umano e consente ciò che si snoda come storia è altrettanto vero che il tacere della lotta nello stato e lo svolgersi qui, ordinato, della vita non toglie che resti primaria l'affermazione delle parti e dell'urto come fondamento del reale e pertanto la metafisica impermeabilità di questo al pessimismo. In tale senso si può dire che non vi è in Hobbes nessuna ibris antropocentrica, non viene usata violenza dall'uomo sulla realtà ma, anzi, nell'escludere la sostanza spirituale Hobbes intende escludere la radice di infinite controversie, quali quelle religiose che costantemente minacciano la vita dello stato.

3. « Si può forse pensare che sia mai esistito un tempo ed uno stato di guerra come questo, e io credo che ciò non si sia mai verificato in forma generale in tutto il mondo; ma vi sono molti luoghi dove attualmente si vive cosl » (T. Hobbes, Leviatano, I, cap. XIII, tr. it. a cura di R. Giammanco, Utet, Torino, 1955, vol. I, p. 160).

286 Sulla base di questo si potrebbe parlare del pensiero hobbesiano, almeno per la parte speculativamente significante, come meditatio realìtatis~ cui fa seguito Pampia disamina della realtà nostra di uomini, ciò consentendo di parlare della dottrina quale meditatio vitae. Ma la definizione compete, per antonomasia, a Spinoza per la decisa assunzione della realtà tutta nella Sostanza e nel culminare nella consapevolezza di questa attraverso il ferreo procedimento razionale. Cessa ogni superiorità dello spirituale rispetto a ciò che è materiale e la pienezza della libertà è la totalità dell'ordine disvelantesi nella necessità divina, e l'esperienza della nostra più profonda eterna natura viene espressa dalJ>ila-rità del saggio. Spinoza non ignora il negativo, conosce la forza del primo grado di cono• scenza dal quale non è facile distaccarci e la fatica del conseguire la visione delle cose sotto il segno razionale per aprirsi, nel raggiungimento del terzo grado, all'esperienza dell'eterno. Procedere in questa dirttrice costitutiva di sapere e di vita, etica in senso pieno, significa procedere sotto il segno del positivo e la realtà e la capacità della ragione si colgono in quanto si sappia intendere la sostanziale insignificanza del negativo. La riflessione nostra non può essere che meditatio vitae. Non vi è posto 1 né quindi riflessione, sulla morte, sul vuoto o assenza di essere quando dobbiamo capire la potenza in cui siamo collocati. La fatica dell'ascesi. razionale si compie con ogni severità; anzi, proprio per questo si corona in un ottimismo metafisico oltremodo impegnativo ma in ogni caso non contestabile. Nessun abbandono certo né slancio nella visione che Spinoza ci dà del reale, se mai la sollecitazione a un acosmismo per potenza di espressività più che di sussunzione nella Sostanza, e quindi una radicalità del positivo che consente altra definizione di quella che Sp'noza stesso dà della filosofia. Spinoza non ignora le indicazioni hobbesiane ma se mai esse intendono fare più incisiva la conclusione ottimisfr::a. Questo modello rende almeno eccessivo se non arbitrario dire della riflessione hobbesiana quale medita/io vitae. La ripresa della definizior,c può avvenire non soltanto per un proporsi sempre più deciso della vita nei suoi anche pesanti costitutivi, ma anche per una più profonda vicinanza ad essa in quanto Hobbes metafisicamente non tecepisce il pessimismo. La realtà materiale che ci costituisce tutt'uno con il mondo non è pensabile sotto il segno del negativo; non può dirsi di essa altro del suo essere e del suo modo, con il rimando non essenziale, più proclamato che richiesto, al Principio. Non è tanto la sufficienza e ]a perfezione del mondo che impongono il segno del positivo ma la realtà di quelle particelle in movimento che lo costituiscono e oltre le quali non è possibilee potremmo dire non è consentito andare. Forte dell'esperienza cartesiana Hobbes non avanza Pipotesi di genio maligno, come non riprende.

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in sede metafisica teologica, alcun volontarismo divino. La lezione cartesiana continua quel primato dell'esperienza che caratterizza il pen siero inglese e ne concentra lo svolgimento e la portata; e in esso il momento genetico del conoscere si impone come quello che determina natura e valore del reale. La forza della direttrice empirista appare pienamente in Locke e cqlmina nel fenomenismo humiano ma si può già avvertire nella posizione h◊bbesiana, in quella che potremmo classificare l'inulteriorità del suo materialismo, il non concedere e non porsi il problema se si sia altro da questo dato. La criticità e il valore metafisico delPestensione cartesiana non contrastano con questo atteggiamento, anzi consentono una migliore comprensione della sicurezza gnoseologica e ontologica di Hobbes. Ma anche questo atteggiamento conferma l'impermeabilità ad ogni qualificazione pessimistica di ciò per cui siamo. Ancora si impone una meditatio realitatis che non diventa - come del resto in Coke e Hume celebrazione dell'uomo, di una sua centralità, pur svolgendosi il discorso hobbesiano pressochè totalmente sulla natura dell'uomo e il suo compiersi storico. La riflessione che viene condotta in questo campo appare ben lontana da que.l primato se non da quella esclusività del positivo per cui nella dottrina spinoziana la filosofia è meditatio vitae, ma la decisa tematica pessimistica non potrà mai essere scissa da quel riferimento metafisico-gnoseologico che se non consente di conseguire l'ilarità del saggio, l'esperienza dell'eternità nostra, impedisce ogni conclusione e persino ogni ipotesi scettica o nichilista. 3. Viene fondatamente apparendo che consentire alla presentazione corrusca che Hobbes dà dell'uomo e del suo farsi essere sociale, e su questa base qualificare la sua dottrina come più volte si è tentati opposta alla definizione spinoziana della filosofia vale a dire come meditatio mortis o almeno mali non è esatto. E ciò non soltanto perché la qualificazione tralascia di considerare aspetti fondamentali della dottrina, ma finisce di apparire esclusivamente politica, tale da essere persino storicamente datata, mentre il suo timbro è decisamente etico-speculativo. Se mai il problema è di quanto la personalità di Hobbes si imponga e alla fine solleciti a ridurre, per impegno di operante persuasione, l'ampiezza della dottrina stessa. A ciò induce lo stesso autore attraverso un discorso che muovendo dall'uomo e concentrandosi sulla genesi dello stato e sul modo del suo esistere funzionalmente corretto porta diremmo naturalmente ad una lettura pubblicistica della sua dottrina lasciando a lato e considerando secondarie le altre componenti quali quella più propriamente specula-

288 tiva. Nella linea della riflessione moderna non si chiede e si studia secondo le indicazioni classiche come lo stato possa essere giusto e diventi sempre migliore, ma legittimo, si guarda cioè al modo del suo nascere trovando in radice tutto ciò che veniva proiettato nel fine, vale a dire il massimo di tutela di quell'individuo che fuori dello stato non può continuare ad esistere ma che non si compie nello stato trovandovi il suo fine, bensì vi trova le condizioni essenziali della sua individuale espressione. Il venir meno dello stato come luogo di conseguimento delle virtù - del compimento della nostra natura « politica » che raggiunge qui la giustizia determina un'evidenziazione dell'individuo nella sua insostituibilità sociale non per sentimento naturale ma per ben diversa richiesta di totalità ed esclusività di possesso 4• Che è indice indubbio di assolutezza, di sostanziale strumentalità della società civile perché questa nulla aggiunge e dona all'individuo ma solo, e limitandolo, consente alla sua forza di espandersi più che migliorarsi, aUa vita di proliferare ma, detto in termini hobbesiani, senza nulla aggiungere alla sua originaria capacità d'urto. Ma proprio questa incontestabile vitalità che legandosi alla visione metafisica materialistica si porrebbe sotto il segno del positivo e che resta in ogni caso indice che non è consentita l'identificazione del passionale e dell' eticamente negativo con un possibile non-essere, viene strettamente connessa, anzi si identifica con il momento dell'egoismo più esclusivo e si propone sotto il segno delJa sopraffazione e del conflitto. Avvertimento di sè e richiesta di possesso di quanto ci circonda e ci si offre fanno tutt'uno e l'Uomo va riconosciuto non già natural~ mente socievole, come è stato sin troppo affermato, ma portato soltanto al riconoscimento di sè e all'esclusione dell'altro, facendo dell'istanza di vita motivo di questa. Il segno del negativo viene a gravare sull'uomo e il bellum omnium contra omnes si impone come costitutivo della nostra struttura non lasçiando spazio a sentimenti altruistici, se non alle istanze totalmente inefficaci della ragione naturale. Ancor prima dei precetti dettati da· questa e che si propongono come u'unica garanzia di vita si dà, di fronte all'urto con gli altri nella pretesa di sempre più vasto possesso e nella ratifica di un contrasto che è anche sconfitta, si impone appunto quale misura autentica dell'uomo il diritto su tutto. Gli compete in quanto tale. Nessun individuo, come nessuna particella di materia, si può concedere di essere meno essenziale delle altre, e

4. Cfr. C. B. Macpherson, The Politica[ Theory of Possessive Individualism. Hobbes to Locke, Oarendon Press, Oxford, 1964.

289 tale assolutezza si afferma di fronte alla limitazione di fatto e nella proclamazione, non meno decisa dell'urto nella formulazione, apparente~ mente astratta, del diritto di tutti, cioè di ognuno, su tutto. Dal quale appunto nasce legittimato dalla ragione e non solo dall'immediatezza della passionalità e dell'istituto il « bellum omnium contra omnes ». Di qui si apre la constatazione di quanto costi la guerra e sia negatrice di vita e come sia inefficace nei suoi precetti la ragione e si profili di contro sempre più motivata la conclusività che la lotta cessa quando al precetto si sostituisca il patto, al comando razionale quello del sovrano. Qui la domanda che non è certo preziosa - sulla natura della riflessione hobbesiana chiaramente procede verso una risposta che evidenzia il tema della passionalità e del negativo. Il discorso hobbesiano sullo stato procede continuamente lungo questa direttrice e il motivo pessimistico si propone primario se non essenziale. Non si può sottrarsi al patto di soggezione e all'instaurarsi dell'autorità assoluta del Sovrano se si vuole che ci sia vita e non più morte e rovina degli uomini. Pro·· prio perché lo stato di natura, del quale non già la pace ma il conflitto è l'essenza, appare un'ipotesi più che una realtà storica si propone più forte l'obbligo di ratificare quanto l'egoismo sia presente negli uomini, ne minacci continuamente la vita. Senza questa proposizione immediata di sè non si sarebbe e non si avrebbe continuità di esistenza; ma se si cede all'assolutezza di essa si avrebbe nell'esasperarsi della lotta il venir meno di t:iò per cui essa stessa nasce, e per il trionfo, impensabile, della morte, il pessimismo vive. Il richiamo costante a quanto sia negativo l'egoismo e come non si debba in alcun modo concedere al sussistere o al più diverso presentarsi di esso non può scindersi dal riferimento al fatto che è pur dalla incessante richiesta dell'affermazione totale di sè che non solo nasce lo stato ma l'uomo vi vive e opera, garantito e insieme costretto per i limiti imposti a dare misura ed efficacia al suo slancio, alle sue inesauribili richieste. Si attenuta se non si evita cosl nell'imprenscidibilità della pulsione prima ciò che di negativo su piano metafisico, di primato del non-essere, potrebbe avere quanto il pessimismo della rilevazione antro pologica se non della motivazione pubblicistica porta con sè. 4. Il configurarsi più propriamente ammonitore della sottolineo.tura pessimistica propone in diversa e più immediata prospettiva la qualificazione avanzata della dottrina hobbesiana quale medita/io vitae. Il tema pessimistico è forte, indiscutibilmente, ed assume forme di estremosmo tragico come è per la precisazione del limite dell'obbedienza de' suddito ristretta alla conservazione soltanto della propria vita fisica -

290 ma come si guarda alla radice del confliggere cosi duro e refrattario ad ogni appello di ragione si coglie un conatus vitae che si snoda poi come pressanza continua dell'utile che non sopporta giudizio morale quale è alla fine quello pessimistico. Se mai si impone non solo la convenienza ma la responsabilità di stare ai patti; romperli è ancora mancanza verso la vita (che non può non essere) e non solo e non tanto contro la ragione. L'indiscutibilità del reale si propone sempre come primaria e non autorizza pessimismi come non consente facili passività perché tutto e l'uomo stesso sussistono, operano e mediano attraverso ciò che nell'urto ha il suo avvio primo e che è propriamente la nostra vita. In questa senso lo stato assoluto con la garanzia della pace ad opera del sovrano è l'attuazione all'interno della materia delia ragione, nel'esteso del pensiero, adempiendo la funzione che nell'occasionalismo è di Dio e in Spinoza della Sostanza; richiamando Hobbes, ne1Ia persona del Sovrano e per il partecipare di questo della nostra natura di uomini, in sede puhblicistica e storica, la funzione della cartesiana ghiandola pineale. Con questo non volendosi soddisfare nel richiamo o attribuire a1Ia indicazione hobbesiana dei limiti scontati, ma ritrovare un'espressione effi~ cace di quella ragione naturale sempre possibile. Sarebbe infatti ripresa in direttrice pubblicistica l'indicazione più profonda che è implicita nell'ipotesi della ghiandola, vale a dire l'anticipazione quanto si vuole insoddisfacente, ma su piano scientifico significativa di quella che è la portata dell'impegno etico di chiarezza per ciò che concerne il conseguimento della nostra realtà unitaria di uomini 5, In questa direttrice si può dire che il tema pessimistico non cessa di operare, anzi ,acquista un nuovo vigore in quanto l'instaurarsi. dello stato e del Sovrano assoluto non è l'affermarsi della pura possibilità del diritto su tutto e un sussistere della storia per ciò che ne è fuori ma, senza negare la presenza di questo dato, la condizione di realizzazione della puramente possibile ragione naturale. Solo « per altro», alla fne per fisicità di dato, ciò che da sempre è stata vista come la componente più nobile e direttiva dell'uomo e della stessa realtà, vale a dire la ragione, trova la possibilità di affermarsi, e ciò per richiesta dell'istinto di sopravvivenza vitale. E ancora all'interno dello stato tale istinto di conservazione che fa tuttuno con l'incessante esigenza di affermazione, rimarrà come il movente primo della vita, cautelato contro se stesso, contro le possibili richieste di tracimare dagli argini fissati dallo stato, 5. Cfr. il nostro saggio: sulla coscienza etica e religiosa zorati, Milano, 1965, pp, 15 ss.

dottrina cartesiana delle passioni», in Studi Seicento, vol. II, Le passioni in Spinoza, Mar~

291 dall'impossibilità di instaurare le condizioni per cui sia legittima la rottura del patto. Certo il permanere, malgrado questa incessante pulsione di rovesciamento, dei limiti entro i quali essa viene ricondotta dice dì una componente che sicuramente non illumina la natura del11uomo e lo slancio di vita, ma questo prova anche la perenne radicalità dello stato e se si considera cosa può di progetti e iniziative concretissime questa stessa pulsione si può cogliere nella polemica contro ogni finalismo e la celebrazione della ricchezza di attuazione dell'istanza dell'utile un timbro di realismo individualistico più che di pessimismo su piano etico, nonchè l'ammonimento continuo dell'uomo suddito e Sovrano - a ricordare quanto perde di sè cedendo immediatamente a se stesso.

5. Inattesa in questo quadro se nOn pessimistico e negativo non certo ottimistico della natura umana giunge l'affermazione di una pos,. sibile serenità; per l'uomo di « esser lieto di agire giustamente » 6 nonchè la definizione della felicità che ci compete, l'unica, in questa vita e che consiste nel « continuo successo nell'ottenere quelle cose che si desiderano di volta in volta, cioè un continuo stato di prosperità » 7 • Sul tema non si insiste e in ogni caso è chiaro che Hobbes prende in considerazione solo la felicità terrena poiché « rrientre noi viviamo su questa terra non esiste l'eterna tranquillità dello spirito, perché la vita è per se stessa moto e non può non essere senza desiderio, né senza timore, così come non può esistere senza il senso» 8• Ma nell'atto che si deve ratificare il chiaro materialismo meafisico è da osservare come non si proponga una forma di edonismo: direi che hi vita ma non affermazione di piacere. Si impone la soddisfazione di essere attivi, e di produrre, di esprimersi, se pur necessariamente entro lo stato, e di promuovere vita, la vera cosa che preme. L'attuazione dell'individuo si dispone in una prospettiva che scavalca ogni antropocentrismo per i] prevalere sopra ogni caso della vita. Hobbes sostanzialmente non concede o non considera la prospettiva di umana beatitudine che nella Sostanza concede Spinoza. Il primato della materia in movimento è tale che l'urto ne è l'essenza, e la vita non si risolve nell'avvertimento edonistico perché significherebbe perdere l'ampiezza e il senso del suo incessante procedere.

6. T. Hobbes, Elementi filosofici sul cittadino, cap. III, p. V, ed. a cura di N. Bobbio, Utet, Torino, 1948, p. 112. 7. T. Hobbes, Leviatiano, I, cap. VI, tr. it. cit., p. 97. 8. Ibid.

292 Se non insiste sul piacere Hobbes neppure si ferma sulla morte, se mai ben di più sull'altra vita. per ragioni connesse alla presenza delle religione, particolarmente di quella cristiana. Se il tema antropocentrico entra deciso nel discorso hobbesiano è per il posto che tiene !'afferma·• zione dell'essenzialità della pace, proposta come il primo disperato co. mando della ragione, ma nel lasciare il riferimento metafisico per i] processo pubbliciStico e storico si dà ancora un passaggio a un oriz zonte che riporta a un senso non già umanisticamente compiaciuto del valore dell'uomo bensl colto nella capacità inesauribile di affermazione che è produzione e nella consapevolezza del proprio materialistico consistere. Si tratta d'instaurare attraverso il patto di soggezione e la costituzione dello stato un nesso strettissimo tra ragtone e vita, tra conatus e norma, legame perennemente minacciato e perennemente rinnovantesi; e con questo di realizzare attravrso lq società e la storia una sempre più completa consapevolezza del nesso tra l'irrompere della vita e del moto, senza del quale non vi è realtà, e la ragione nella sua inqiscutibilità inefficacia, avvertendo che non si può, in alcun modo, strumentalizzare la realtà a sè ma si deve riconoscerne la primalità e intenderne e rispettarne sino in fondo la forza. La centralità del reale nella sua vastità costituisce il punto costante di riferimento e conferisce al discorso hobbesiano qualla tensione che anticipa già un timbro spinoziano, e fa non solo su piano pubblicistico ma etico decisamente mordente il discorso. Non si deve rispondere di sè a sè, o del reale naturale e storico, esclusivamente attraverso di sè quivi esso assumendo valore, ma si è nella e della vita e non si può, e non si deve, che accoglierla e promuoverla, Il pensare a un se stessi fuori di essa non ha alcun senso; non certo per una costitutiva finalit6 politica ma per la collocazione nostra in ciò che ci consente e oltrepassa. Non vi è posto diremmo per processi introspettivi e basterebbe quanto dice Hobbes dell'intenzione, così come della coscienza perché ciò che preme e conta è l'azione senza cadere per questo in un pragmatismo superficiale per quanto concerne la conoscenza dell'uomo. Le pagine sulla distinzione tta comando e consiglio 9 , sulla vanagloria e quelle sulle conseguenze della colpa di Adamo 10 denotano un Hobbes che si può qualificare moralista tanto sa dire lucidamente dell'uo mo, Ma nessuna concessione di tipo agostiniano e pascaliano, e nell'at9. T. Hobbes, Leviatiano, II, cap. XXV, tr. it. cit., voi. I, pp. 293 ss. 10. Con la colpa Adamo ed Eva « davvero acquistarono quella facoltà divina che consente di giudicare del bene e del male, ma non quella nuova abilità di distinguere nettamente tra quelli» (Lev., I, cap. XX, trad. it., dt., vol. I, p. 246).

293

teggiamento operativo si può avvertire pure un insegnamento morale, oltre all'avviarsi di una direttrice di riflessione che procederà nel futuro. In questo riferimento alla funzione portante, e se non ottimistica decisamente positiva, che adempie la concezione metafisica e quindi qua~ ilfica la dottrina come severa medita/io vitae non si può tralasciare di considerare quale sia il posto del discorso sulla religione, In un orizzonte di lettura pubblicistico esso indubbiamente disturba o almeno non appare se non polemicamente incisivo, in uno più metafisico, non cessa di presentarsi in diversi momenti come estraneo. Le pagine sugli atei e l'apertura nei confronti di un atteggiamento per principio non tollerate nello stato sono indicative 11 ; come significative, e del resto connesse al tema del primato del pubblico sul « pri,.,ato », di quello come condizione di questo anche per quanto riguarda i fatti più interiori, come il peccato e la penitenza 12 , sono quelle sulla primalità del culto di Dio 13. Dio non appare necessario nella metafisica hobbesiana ma il riconoscimento della sua essenza non manca, cosl come sul modo di definirne gli attributi: chi non vuole attribuire a Dio nomi diversi da quelli imposti dalla ra~ gione, deve usare o espressioni negative,.. o indefi~ite con le quali non vogliamo dire quello che egli è... L'unico nome rappresentativo della natura di Dio, che la ragione suggerisce è esistente, o semplicemente colui che è; e il solo che esprime la sua relazione con noi, il Dio, in cui si contengono i termini di Re, Signore e Padre 14 •

Appare chiaro quello che è il carattere della presenza della religione nella prospettiva hobbesiana. Essa non si svolge da una preliminare affermazione speculativa del Principio e dei suoi modi per poi, secondo un procedimento classico, verificare la verità di un dato storicamente operante, ma si dà primeriamente (e direi costitutivamente) come tale. Del discorso filosofico su Dio non ne appare la necessità - e indice può esserne la trattazione del tema degli atei - mentre non si può non ratificare la presenza tra gli uomini della religione, e che essa costituisce un problema centrale per l'umana convivenza. Il conflitto, specialmente con il trionfo del cristianesimo, tra autoritq statale e autorità religiosa si propone chiaro perché il Sovrano co11. cit., pp. 12. 13. 14.

T. Hobbes, Elementi filosofici sul Cittadino, cap. XIV, pr. XIX, 306 ss. lvi, cap. XVII, pr. VII, tr. it. cit., p. 374. Ivi, cap. XV, pr. XV, tr. it., cit., pp. 327 ss. Ivi, cap. XV, pr. XIV, tr. it., cit., p. 327.

tr,

it.,

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manda entro questa vita mentre l'autorità religiosa propone un sopra~ mondo e non può sussistere uno stato, né quindi sussistere chi comanda minacciando la morte e chi minacciando la morte eterna. La posizione di Hobbes è chiaramente erastiana e la pace appare un fine superiore alla stessa salvezza contrastando con ciò a tanta teologia; ma occorre avvertire come con questi tocchi allo stato di rispondere di ciò per cui si ha la salvezza. « E ciò in quanto il regno di Cristo ... non avrà inizio prima della sua seconda venuta » 15 e quindi chi co" manda sino ad allora è lo stato e non la chiesa cui spetta solo di insegnare, e il luogo vero della religione è il regno che il re prèpara e tutela determinando la distinzione tra naturale e spirituale 16 e le norme per cui si ha conoscenza di colpa e possibilità di pentimento mentre si afferma la funzione primaria dell'obbedienza per il . conseguimento appunto della salvezza. Come si ha modo di vedere la religione non è assorbita o razionalisticamente superata nell'ethos storicamente configurato o nella stessa religione naturale. Il terna caro agli illuministi qui non appare e la reli• gione cui si guarda è quella storicamente configurata, né si pensa se ne dia altra, al più riprendendo il rimpianto già di Machiavelli e poi di Montesquieu per la religione pagana tutta integrata nella struttura del· lo stato. La fede in Cristo è infatti chiara, anche se non va argomentata, e si professa nell'obbedienza al Sovrano. In una chiave ben diversa si ripropone la funzione platonica e non già religiosamente dissolvente, per potenza di umana ragione e di storia, dello stato. Non certo ottimistica la concezione che viene proposta dalla religione legata in modo primario al timore. Accettata certo più che desiderata, la religione e quella cristiana per antonomasia, si dà innegabile, il suo darsi storico travalicando ogni agnosticismo metafisico e ogni possibile sordità spirituale. Appare in tal modo privilegiato l'impegno storico ma l'imporsi del fatto della religione ha una sua pregnanza speculativa, prodromo fors'anche del discorso hurniano sulla religione. E questo momento potremmo dire discrasico nell'orizzonte della concezione hobbesiana rende problematicamente più ricco il senso della sua filosofia come meditatio vitae.

15. Ivi, cap. XVII, pr. V, tr. it., dt., p. 368. 16. Ivi, cap. XVIII, pr. XIV, tr. it., cit., p. 383.

HOBBES E IL DIO DELLE CAUSE di Arrigo Pacchi

Sono a tutti note le ragioni con le quali Hobbes argomenta, nell'ottavo paragrafo del primo capitolo del De corpore, l'assoluto divorzio di teologia e filosofia, sottolineando come quest'ultima non si possa occupare della natura e degli attributi di un ente che, in forza della sua eternità, ingenerabilità e incomprensibilità, non cade sotto i consueti procedimenti conoscitivi per risoluzione e composizione, né può essere indagato sotto l'aspetto della possibile generazione 1. Ciò che può colpire, in questo passo, è il fatto che Hobbes liquidi la questione in poche righe, come se un'opinione del genere fosse ampiamente condivisa, e non richiedesse quindi particolari illustrazioni; o quantomeno egli l'avesse già esposta in modo più esauriente altrove. In realtà, anche coloro che avessero compulsato scrupolosamente le opere hobbesiane già pubblicate avrebbero trovato ben scarsi accenni per lo più indiretti - alla cosa; per altri versi, la netta distinzione di filosofia e teologia, principio capitale del pensiero moderno e discriminante della sua laicità, era ben lungi dal riscuotere l'approvazione generale, e in effetti era stata applicata anche dai più autorevoli protagonisti della « svolta » con relativa elasticità: Bacone non considerava molto legittime le « nozze tra filosofia e teologia » 2, e tuttavia non aveva escluso la teologia naturale dalla filosofia: Descartes defi-

1. Th. Hobbcs, De corpore, I.i.8, in Opera philosophica quae latine scripsit omnia, a cura di W. Molesworth, 5 voli., Richards, Lendini, 1839-45 (di qui in poi citata con la sigla OL), voi. I, pp. 9-10, 2. F. Bacon, Cogitata et visa, in The Works of F. B, (a cura di J. Spedding e altri), 7 voll., Longmans, London, 1857-59, vol. III, p, 596; tr. it. a cura di E. De Mas, in Opere filosofiche, 2 volL, Laterza, Bari, 1965, vol. I, pp. 92-3,

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niva « entièrement contre mon sens » mescolare « la religion avec la philosophie » 3, ma ciò non gli aveva impedito di elaborare con somma cura più di una prova dell'esistenza di Dio. Il fatto è che Hobbes, la sua teoria, l'aveva ampiamente svisce!'"ata, ma in un'opera mai pubblicata, quel manoscritto inteso a demolire criticamente i De mundo dialogi tres di Thomas White, che solo nel 1973 ha visto la luce, grazie all'edizione curata da Jacquot e Jones 4 • L'asseverativa concisione del De corpore trova quindi il proprio riscontro e sostegno nell'elabotata discussione dell'AntiW hite - con questo termine convenzionale, di qui in avanti, ci riferiremo per brevità al manoscritto - i cui punti salienti non sarà pertanto inutile richiamare. L'AntiWhite è ormai abbastanza noto perché non se ne debba rifare qui la storia 5 : basterà ricordare che esso fu probabilmente redatto intorno al 1643, e che Hobbes usò i Dialogi di White come una sorta di bersaglio, o se si vuole di canovaccio, per saggiare la consistenza delle proprie teorie e « farsi la mano » nell'arte della confutazione di quelle altrui: forse, proprio per questo suo carattere di esercitazione - oltre che per l'audacia di taluni suoi contenuti - il manoscritto, benché fosse stato attentamente letto e apprezzato da Mersenne, fu lasciato inedito e cadde nell'oblio. Un oblio del tutto immeritato, perché l'AntiWhite è molto ricco di spunti teorici che, soprattutto nel campo della gnoseologia e delepistemologia) forniscono preziose indicazioni circa il livello raggiunto dalla riflessione hobbesiana in quel periodo 6. Quanto poi alla questione del rapporto tra teologia e filosofia, si può dire che l'opera di White costituisse un obbiettivo ideale per la polemica di Hobbes. L'intero terzo dialogo del De mundo è infatti dedicato da White alla dimostrazione di una serie di assunti, che si possono compendiare nel

3, Lettera a Mersenne del 27.8.1639, in R. Descartes, Oeuvres, a cura di C. Adam e P. Tannery, nuova ed. a c. di B. Rochot e altri, 13 voll., Vrin-Cnrs, Paris, 1964-74, voi. II, p. 570. 4. Th. Hobbes, Critique du De mundo de Thomas White, ed. crit. a cura di J, Jacquot e H. W. Jones, Vrin-Cnrs, Paris, 1973 (di qui in avanti citato con la sigla AW). 5, Oltre all'ampia introduzione dei curatori (AW, pp. 9-97), si vedano: J, Bernhardt, « L'Anti-White de Hobbes », Archives lnternationales d'Histoire des Sciences, XXV, 1975, pp, 104-15; M. Brini Savorelli, « Hobbes e White », Rivista di filosofia, 5 (LXVII), 1976, pp. 335-48: E.G. Jacoby, "Der 'Anti-White' des Thomas Hobbes », Archiv /i.ir Geschichte der Philosophie, 59, 1977, pp, 156-66. 6. Cfr. soprattutto AW, cap. I° (ff. 5-7, pp. 105-7) e cap. 14°, par. I (fl. 127127v, pp. 201-2), ove si affaccia l'importantissima definizione della filosofia come « nomenclatura >>.

297 modo seguente: il mondo non è in.finito in estensione, né esiste dall'eternità; inoltre, il suo moto gli proviene da un principio esterno: è necessario quindi postulare l'esistenza di un ente eterno, unico, che ha in se stesso la causa e il principio del proprio essere, e che è causa di tutte le altre cose, e questo ente è Dio. White articola questa laboriosa prova a posteriori in un certo numero di questioni, facendo riferimento ad un impianto concettuale e, ad un linguaggio fondamentalmente aristotelici, senza dimenticare l'eredità speculativa medioevale, alla quale egli era interessato quanto ai risultati della nuova scienza, che si sforzava di conciliare con la tradizione. Su questo terreno Hobbes organizza le sue confutazioni, intese a mostrare l'incoerenza delle ragioni di White in un gioco stringente di ridefinizioni di termini, invalidazioni di inferenze, ritorsioni di argomenti. Al di là di questi aspetti tecnici, comunque, la discussione rivela una divergenza sostanziale di orientamento, sul tema specifico della dimostrabilità dell'esistenza di Dio in sede filosofica. A giudizio di Hobbes, chi come White intraprende un tentativo del genere pecca, non solo contro la filosofu,i, ma anche contro la teologia, la religione e la provvidenza, nel senso che, se· da un lato la necessità logica implicita in ogni dimostrazione contrasta con l'onnipotenza di Dio, con la sua libera determinabilità, dall'altro la pretesa dimostrativa converte la fede in una sorta di scienza naturale, e toglie ogni rilievo al merito del credente 7• Questi sono argomenti, per dir così, di parata: ma Hobbes approfondisce la questione anche in senso filosofico specifico, richiamandosi ai punti nodali della propria concezione della scienza e della ragione: il discorso scientifico è un discorso condizionale, del tipo « se ... allora»; la sua verità è puramente proposizionale, e in nessun caso verte sull'esistenza) che può venir certificata unicamente dall'esperienza sensibile. Ma Dio, essendo privo di dimensione, non cade sOtto l'esperienza sensibile, non è «immaginabile», né tantomeno concepibile, ed è quindi à.cpt.Àhrocpov tentare di dimostrarne l'esistenza 8, tanto più che la cosa implica che ci si imbarchi in problemi altrettanto improponibili, quali la finitezza o infinità del mondo, o l'eternità o meno dei corpi e degli esseri incorporei, di cui nessuno possiede un'adeguata definizione 9 : Hobbes in questo periodo non arriva an7. AW, cap. 26°, parr. 3-5 (fl. 287v-288v, pp. 309-10). 8. AW, cap. 26°, par. 2 (ff. 286v-287v, pp. 308-9); 27°, 1 (il. 291-291v, p. 312). 9. AW, 2°, 3 (f. 9v, p. 111); 26° 2 (f. 287v, p. 309).

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cora ad affermare che la nozione di sostanza incorporea sia un assurdo logico, come farà nel Leviathan 10 , e preferisce il rimando alla rivelazione 11 , Così anche, è disposto a credere, per fede, che Dio sia il primo mot?re del mondo 12 ; ma nega recisamente che il rapporto Dio-mondo possa essere configurato filosoficamente, magari nell'ottica di un finalismo antropocentrico che mortifica, nel riferimento ad un concetto tutto umano dell'utile, l'infinità e incomprensibilità divine 13 • In sostanza, Hobbes mira a dimostrare come ogni tentativo di applicare moduli discorsivi filosofici al problema dell'esistenza di Dio e del rapporto di Dio col mondo sia destinato a generare inestricabili contraddizioni e paralogis·mi, soprattutto là dove si tenta un'indebita contaminazione tra fisica e metafisica, con gravi conseguenze, e per la metafisica stessa, e per la fede cristiana 14 • Valga per tutti un esempio molto caratteristico del procedimento confutatorio hobbesiano: analizzando gli argomenti addotti da White per dimostrare che il mondo, l'universo, deriva il proprio movimento da un principio esterno, Hobbes sottopone in linea preliminare ad una puntigliosa ridefinizione una trentina di voces) vale a dire di quei termini che a suo giudizio White aveva introdotto nella discussione con un significato indebito o confuso, a partire da ens) corpus) materia) per -finire con tutte le possibili specificazioni dei concetti di causa o di potenza. Su questa base, e passando attraverso un'incalzante sequela di argomentazioni, egli concluderà che, se si deve concedete l'inconsistenza logica della tesi secondo cui il mondo si sarebbe attuato da sé, restano altre due conseguenze possibili, vale a dire che il mondo non abbia avuto un inizio, oppure che abbia tratto inizio da qualcosa, che tuttavia non può essere corpo, perché tutti i corpi rientrano ne1l'universo stesso, e si ricadrebbe nella prima tesi 15 • Fin qui, il ragionamento procede seguendo moduli aristotelici: nul10. Leviathan, III.xxxiv, in The English Works, a cura di W. Molesworth, 11 voll., Richards, London, 1839-45 (di qui in poi cit. con la sigla EW), vol. III, pp. 380-81.

li. AW, 4°, 3 (f. 27v, p. 127). 12. AW, 27°, 14 (f. 303v, p. 323). 13. AW, 13°, 6 (f. 123v, p. 198). 14. AW, 2°, 8 (f. 13v, p. 115); ma poi tutta la terza parte dell'opera è dedicata al sostegno di questa idea di fondo: in particolare si vedano 27°, 14 (f. 304, p. 323); 28", 3 (f. 315v, p. 333); 29", 2 (f. 325, p. 340); 32", 2 (if. 365v-366, p. 373). 15. AW, 27°, 1-5; in particolare, la conclusione al par. 5 (ff. 297-297v, p. 317).

299 la può produrre se stesso, e per altri versi tutto ciò che si muove è mosso da un motore esterno. Ma proprio nell'assunzione della forma speculativa adottata dall'avversario sta la forza di questo singolare argumentum ad hominem; Hobbes ha infatti buon gioco a dimostrare che se il principio che ha dato inizio al mondo non è corpo, è per ciò stesso inconcepibile: non solo, ma non potrà neppure essere definito come « esterno » all'universo, essendo questa definizione posta in crisi dalla connotazione spaziale del termine. Sicché, se non è corpo - e se lo fosse, come già si diceva, rientrebbe nel novero degli oggetti che compongono l'universo stesso - questo principio non sarà nulla, posto che lo stesso White aveva dimostrato in precedenza che non esiste nulla al di là dell'universo 16_ In questo modo Hobbes conclude all'inconcepibiltà, non solo del supposto principio attuante del mondo, ma anche di ogni possibile rapporto tra tale principio e il mondo, destituendo di validità ogni tentativo di concepire in termini conoscitivi e razionali la dipendenza del mondo da Dio, e palesando per soprammercato il rischio che velleità dimostrative di questo genere giungano a mettere in discussione l'esistenza stessa di un Dio. E' stato giustamente notato 17 che un'impostazione abbastanza analoga a quella ora descritta, riguardo alle questioni concernenti l'infinità e l'eternità o meno dell'universo, cosi come la sua dipendenza da un principio infinito ed eterno, si ritroverà, a tanti anni di distanza, nel De corpore 16 ; ma più curioso può apparire il fatto che, negli stessi anni in cui negava a White ogni possibilità di provare razionalmente l'esistenza di Dio, Hobbes in altri contesti desse voce ad un orientamento, quantomeno non del tutto in linea con quello espresso ne~ l'AntiWhite. Ad esempio, negli Elements of Law, che risalgono per la loro redazione al 1640, Hobbes distingue chiaramente tra la conoscenza degli attributi di Dio e la conoscenza della sua esistenza: per quanto riguarda i primi, la posizione hobbesiana è altrettanto drastica di quella che verrà espressa ne!l'AntiWhite, Dio è incomprensibile e « tutti i suoi attributi significano la nostra inabilità e difetto di potere a concepire alcuna cosa concernente la sua natura » 19, se~ 16. Ibid.: per lo sviluppo dell'argomentazione, par. 6 (ff. 297v-298, pp. 317-8). 17. Da Jacquot e Jones, AW, p. 111, n. 21. 18. De Corpore, IV.xxvi.! (OL, I, pp. 3i4-6). 19. Th. Hobbes, The Elements of Law Natural and Politic, a cura di F. TOnnies, Sìmpkin, Marshall & Co., London, 1889, P, I., cap. xi, par. 1, p. 53; tr. it. di

A. Pacchi, La Nuova Italia, Firenze, 1968, p. 86.

300 condo i canoni di una teologia negativa che troverà espressione an~ che più tardi, non solo nell'AntìWhite, ma nel De cive e nel Levìathan 20• Riguardo all'esistenza, per contro, il discorso è diverso; Hobbes, negli Elements, ritiene che l'affermazione secondo cui « c'è un Dio » possa essere dimostrata, mediante un procedimento a posteriori che si può ricondurre agevolmente alla classica prova causale: ... gli effetti che riconosciamo naturalmente implicano necessariamente un potere di produrli, prima che fossero prodotti; e quel potere presuppone qualcosa di esistente che abbia tale potere; e la còsa così esistente col potere di produrre, se non fosse eterna, dovrebbe necessariamente essere stata prodotta da qualcosa prima di lei; e quella ancora da qualcos'altro prima di lei: fino a che arriviamo ad un etetno, cioè al primo potere di tutti i poteri, e prima causa di tutte le cause, E questo è ciò che tutti gli uomini chiamano col nome di Dio... E così tutti gli uomini che vogliono riflettere possono naturalmente conoscere che Dio esiste ... 21 .

Né si tratta di un pensiero isolato: nella prima edizione del De cive (1642), a parte un accenno, che si può anche considerare incidentale, al fatto che Dio, « primo motore di tutte le cose», produca gli effetti naturali ad opera delle cause seconde 22 , si afferma esplicitamente che l'esistenza di Dio è acquisibile « mediante la conoscenza che ci deriva dal lume naturale » 23 . E caso mai esistessero dubbi sul peso da attribuire alla frase, che nel contesto del periodo in cui è inserita ha un tenore concessivo, ci si può rifare ad una nota aggiunta dall'autore nell'edizione del 1647, dove, con riferimento a quella stessa frase, e proprio nel momento in cui corregge il tiro, ammettendo che non tutti gli uomini possano pervenire alla convinzione dell'esistenza di Dio « per mezzo della ragione naturale», con ciò stesso Hobbes ribadisce la validità della sua affermazione, pur limitandone la portata agli uomini che non siano continuamente preoccupati dei piaceri, delle ricchezze, delle carriere 24 • In sostanza, per l'Hobbes degli E/ements e del De cive la ragione naturale, benché non sia in grado di definire gli attributi divini, può quantomeno condurre l'uomo alla convinzione dell'esistenza di un Dio, in palese contrasto con la tesi espressa tanto polemicamente nell'AntiWhite. 20. AW, 35', 16 (ff. 396-396v, pp. 395-6); De cive, xv. 14 (OL, Il, pp. 340-2); Leviathan, II.xxxi (EW, III, pp. 350-3). 21. Elements, cit., I.xi.2, pp, 53-4; tr. it. cit., p. 86. 22. De cive, xiii.1 (OL, II, p. 298), tr. it. di N. Bobbio, in Opere politiche, I, Utet, Torino, 1959, p. 249. 23. De Cive, ii,21 (OL, II, p. 179), tr. it. cit., p. 108. 24. De Cive, nota a xiv.19 (OL, II, p. 326), tr. it. cit., pp. 280-1.

301 Negli scritti hobbesiani successivi, questo orientamento sembra troff vare svariate conferme, e non rimarrebbe che l'imbarazzo della scelta, tra le numerose citazioni possibili, quasi tutte già utilizzate da Brown e Hapburn 25 nelle loro analisi: nelle pagine degli scritti sul libero arbitrio, del Leviathan, del De Homine 26 , questi studiosi hanno reperito accenni sporadici al tema e più 'articolate considerazioni, ponendo un po' tutto questo materiale sul medesimo piano documentario, e benché siano giunti a conclusioni non interamente collimanti 27 , si possono acc~munare nell'atteggiamento critico generale, consistente nel vagliare i vari passi isolati dal loro contesto, nel rilevarne la maggiore o minore pregnanza dimostrativa, e per altri versi il contrasto in cui si trovano rispetto allo scetticismo e al fideismo dichiarati da Hobbes in altri luoghi, talvolta delle medesime opere. A mio parere, un tipo di considerazione di questo genere, che dia per scontato il fatto che Hobbes abbia disseminato nelle sue opere delle vere e proprie prove dell'esistenza di Dio, più o meno efficaci, può o meno contraddittorie col pericolo di scivolare poi nell'ambiguo problema della « sincerità » hobbesiana può compromettere la comprensione del vero significato di questi spunti teorici, che vanno inquadrati, nel preciso contesto al quale sono funzionali. Ma, prima t!i procedere in questa direzione, val forse la pena di ridimensionare il preteso contrasto tra l'enunciazione delle >, nel senso teologico del termine, ma di notazioni circa l'atteggiamento al quale necessariamente inclina colui che studia le cause naturali dei fenomeni, il filosofo meccanicista, indotto per dir così a cercare una garanzia generale di validità per quel sistema di cause necessarie, la cui concatenazione costituisce l'oggetto proprio della scienza: in questo senso, ribaltando il discorso rispetto alla sua intenzione apparente, il fine delle « prove » non è l'esistenza del Dio della religione e della teologia, bensì una sorta di rassicurazione circa la validità di una conce~ zione della natura e dell'uomo, inteso qui come meccanismo naturale basata sul principio deterministico della ineludibile necessità del nesso causale. Allora, anche la negasione del libero arbitrio umano trarrà vigore da questo procedimento rassicuratorio. Uno dei passi che si possono considerare più significativi in questo senso appartiene all'opuscolo Of Liberty and Necessity, pubblicato nel 1654, ma risalente a circa otto anni prima. E' noto che in questo scritto, breve ma molto lucido ed efficace, Hobbes, in polemica col vescovo Bramhall sulla questione appunto del libero arbitrio, intende dimostrare l'impossibilità di una libera determinabilità della volontà 31. Elements, cit., Lxi,2, p. 54; tr. it. cit., pp. 86-7. 32. Leviathan, I.xi (EW, lii, pp. 92-3); tr. it. di G. Micheli, La Firenze, 1976, pp. 100-1.

Nuova Italia,

304 umana, in forza della necessità che zoverna le scansioni causali del mondo materiale, in cui l'uomo stesso è integralmente coinvolto: ebbene, uno dei punti culminanti della serrata discussione hobbesiana è costituito dal passo in questione, che chiarisce come la concatena• zione necessaria delle cause, in cui viene ad iscriversi anche ogni azio. ne umana, vada fatta risalire ad una causa prima ed eterna, « che ha posto e ordinato » il sistema deterministico causale: Quel che io dico necessitare e determinare ogni azione, affinché Sua Signoria non abbia più a lungo dei dubbi ·sulla mia opinione,' è la somma di tutti gli elementi che, essendo attualmente esistenti, conducono e concorrono alla produzione di quell'azione successiva, il cui effetto non potrebbe essere prodotto 1 se qualcuno di quegli elementi venisse a mancare. Quel concorso di cause, ciascuna delle quali è a sua volta determinata ad essere quel che è da un analogo concorso di cause precedenti, può dirsi (in considerazione del fatto che esse furono tutte poste e ordinate dalla causa eterna di tutte le cose, Dio Onnipotente) il decreto di Dio 33 •

La medesima convinzione è espressa nelle Questions 34 che Hobbes dedicò più tardi al medesimo argomento e in cui, di fronte alle rinnovate contestazioni di Bramhall, egli ribadisce che Dio è la causa di ogni movimento e azione >), per cui anche il peccato « deve dipendere di necessità dal primo motore >) -'3; infatti, la scelta - nell'uomo - deriva sempre dal ricordo di buone o cattive conseguenze; il ricordo deriva sempre dal senso; e il senso sempre dall'azione dei corpi esterni; e ogni azione da Dio; quindi tutte le aziùnt anche di agenti liberi e volontari, derivano da Dio, e di conseguenza sono necessarie 36 •

Si noti questo ricorrente richiamo a Dio nel discorso sul contesto causale necessario nel cui ambito si svolge la successione dei fatti del mondo naturale ed umano: se libertà e necessità non possono

33. Th. Hobbes, 0/ Libe,ty and Necessity (EW, IV, p. 246). 34. Th. Hobbes, The Questions Concerning Liberty, Necessity, and Chance (occupano l'intero vol. V delle EW). Una discussione del tema del libero arbitrio nei medesimi termini si ha anche in AW, 37\ 3 e ss.; conclusioni particolarmente interessanti, al par. 14 (l'ultimo) del capitolo (f. 421v, p. 411). Sulla questione del libero arbitrio in Hobbes ha scritto pagine penetranti Sergio Landucci, nel seggio « La teodicea •di Hobbes nella discussione col Bramhall », Atti e memorie dell'Accademia toscana di scienze e lettere La Colombaria, vol. XLIII nuova serie XXIX, 1978, pp. 111-36. 35. Questions, cit., xii (EW, V, pp. 138-9). 36. Questions, xxxiv (EW, V, p. 338).

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coesistere, la libertà non potrà coesistere con i decreti di Dio 7, posto che si ascriva « ogni necessità all'universale serie o ordine causale, che dipende dalla prima causa eterna » 38 • Questi i principali riferimenti al tema, accompagnati come di consueto da ripetute dichiara~ zioni circa l'inconcepibilità degli attributi divini. « Non dovremmo discutere della natura di Dio - conclude Hobbes nelle pagine finali delle Questions - : egli non è un argomento appropriato alla nostra filosofia» 39 •

In questi passi, la stessa struttura ascendente della prova a posteriori viene meno, per accentuare invece il moto discendente di questa ineluttabile scansione causale, da Dio che la garantisce, agli eventi del mondo e dell'uomo. Più esplicitamente che altrove, Dio si configura quindi come la suprema sanzione della validità e coerenza dell'ordine meccanico dell'universo materiale. Se qui l'accento vien posto sulla particolare angolatura che quest'ordine assume come determinazione necessaria della volontà umana, più in generale il « decreto di Dio » si esprime, negli scritti di Hobbes, come il simbolo stesso della razionalità e razionabilità del reale, nell'ambito di una gnoseologia che, una volta messo in crisi l'ideale aristotelico dell'ide~tifìcazione di cono~ scente e conosciuto, era chiamata a dar conto dei suoi fondamenti e dei suoi agganci obbiettivi, e quindi a giustificare l'incondizionata validità del principio di causalità, nel momento stesso in cui il rapporto causale fìniva per costituire l'unica plausibile mediazione tra il soggetto e il mondo che gli invia i suoi segnali. Si potrebbe osservare che la garanzia divina - che esercita una funzione di tanto rilievo a sostegno della concezione cartesiana della natura - gioca in Hobbes un ruolo per certi versi più accessorio, di rassicurazione generale ma anche generica circa la validità di un rapporto che in fondo Hobbes ritiene rechi già nella stessa definizione di « causa integra » la ragione della propria necessità; ma va anche notato che il pensiero empirista inglese, da Locke a Berkeley, andrà poi sempre accentuando la pregnanza del rimando a Dio, per giustificare la regolarità del rapporto tra qualità primarie e secondarie pilastro condizionante del realismo lockiano - , o la coerenza fisica di un mondo dematerializzato dalla radicale riduzione soggettivistica berkelyana. 37. lvi (EW, V, p. 340). 38. Questions, xxxviii (EW, V, p. 366), 39. lvi (EW, V, pp. 436 e 442-3).

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Se è lecito riferirsi a Hobbes come al primo termine di questo processo di progressiva presa di coscienza delle difficoltà alle quali si espone un realismo che pretenda di sostenersi in chiave empiristicosoggettivistica, se si accetta di considerare il Dio di Hobbes come un concetto limite, un'ipotesi che non potrà mai essere verificata, l'espressione unificante di una razionalità che permea il mondo esterno e ne rende possibile la comprensione alla mente umana: se, nonostante non possa rientrare in una considerazione filosofica tecnicamente de.finita, Dio costituisce una sorta di garanzia trascendente di quell'aspetto della visione hobbesiana del reale, per cui esso non è saputo per costruzione umana, ma è materialmente e oggettivamente un mondo di corpi in movimento, causalmente conne.ssi in una necessaria sequela di eventi: allora, paradossalmente, il Dio di Hobbes ci appare come il garante supremo di quella concezione 1?-laterialistica della realtà, e di quella negazione del libero arbitrio, che fecero d·eJ. l'hobbismo la dottrina tanto esecrata dai teologi di ogni tempo e at• teggiamento. In questo senso, Hobbes avrebbe esplicitato, facendo anche riferimento esteriore alla forma tradizionale e ben accetta della « prova », un'inclinazione intellettuale che non contrasta con la drastica posizione assunta nell'AntiWhite: l'appello ad una generale rassicurazione circa 1a razionalità del reale - inteso come universo dei corpi in movimento - non contrasta con la negazione di validità « tecnica » ad uno specifico procedimento dimostrativo mirante all'esistenza del Dio dei teologi. Semmai, si potrebbe rilevare che, attraverso questo movimento ascendente della « prova » e discendente della « garan• zia », si crea una sorta di' circolo, in forza del quale Dio garantirebbe la necessità di quel nesso causale dal quale è a sua volta garantito; ma io credo che, più che di circolarità, si debba qui parlare di iden• tificazione: Dio si identifica con la necessità stessa della scansione causale, e per questo richiama così poco il Dio personale della tradizione ebraico-cristiana, tanto poco da consentire che la sua presenza, per dir così, strutturale, non contrasti neppure con l'ipotesi - pur fatta balenare da Hobbes dell'eternità del mondo, o di una successione infinita delle cause. La prospettiva sembra mutare se, volgendo l'attenzione dal campo delle scienze naturali - e la questione del libero arbitrio è una questione naturale - a quello del sistema politico, consideriamo il Dio storico, vetero e neo-testamentario della terza parte del Leviathan: qui siamo in presenza di un Dio corposamente personale e teologica-

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mente identificato , ideologica e stimolatrice garanzia di un'ordinata convivenza sociale e ineludibile termine di riferimento di ogni teoria politica e dello Stato. Ma questo è tutt'altro discorso, e di ben altro respiro: si può solo osservare che le due immagini di Dio proposte da Hobbes non si sovrappongono, anche se permane il carattere della loro comune subordinazione a un ideale razionalistico universale, inteso a permeare sia l'essere che il dover-essere. In ogni caso, sembra difficile sostenere che Dio non trovi posto nella filosofia di Hobbes 41 , benché si tratti in verità di una collocazione per molti versi anomala rispetto a quella consolidata dalla tradizione: ma Hobbes era un pensatore fortemente anomalo.

40. Riguardo a questo tema ho indicato taluni elementi problematici in « Bobbes e la Bibbia», in Aa.Vv., Coscienza civile ed esperienza religiosa nell'Europa moderna, a cura di R. Crippa, Morcelliana, Brescia, 1983, pp. 327-31. 41. Il propugnatore più acuto e documentato di questa tesi è Raymond Polio, che l'ha ribadita recentemente in Hobbes, Dieu et !es Hommes, Ptif, Paris, 1981 (soprattutto nella prima parte,« Hobbes et Dieu », pp. 5-72); ma l'aveva già accennata in Politique et philosophie chez T. H,, Puf, Pads,. 1952, pp. XV e XX.

NOTE SULL'IMMAGINAZIONE E LE IDEE TRA DESCARTES E LOCKE di Guido Canziani

In una pagina premessa all'ultimo libro pubblicato, Le passioni del/' anima, Descartes aveva ribadito la continuità della propria impostazione di ricerca, facendo notare come, pur a fronte di una materia così strettamente connessa con tematiche di ordine morale, si fosse sfar.lato di trattarne en physicien 1 e quindi con tutto il rigore metodico e l'approfondimento di cui aveva già dJtto prova nelk opere di più palese impegno speculativo. Questa affermazione potrebbe rappresentare un suggestivo precedente per l'a,ltrettanto esplicita ma opposta puntualizzazione, che l'anticartesiano Locke ha cura di fornire nell'Introduzione al Saggio apparso nel 1690: ]'indagine sull'origine, Ja certezza e l'estensione della conoscenza umana verrà condotta non già in base a una « Physical Consideration of the Mind », ma secondo il più lineare metodo « storico » 2 ormai consolidato nella tradizione filosofico-scientifica inglese a partire da Bacone. Questa scelta com1. R. Descartes, Les passions de l'dme, in Oeuvres de Descartes, pub. par C. Adam et P. Tannery, 12 volI. più uno di Supplementi, Paris, 1897-1913 (ried. Paris, 1964-1974), T. XI, p. 326. D'ora in poi si impiegherà la sigla AT seguita dall'indicazione del tomo e dal numero di pagina. 2. ]. Locke, in An Essay concerning Human Understanding, I,i, lntroduction, § 2, ed. P. Nidditch, Oxford, 1975, pp. 43-44 (tr. it.; Saggio sull'intelligenza umana, a cura di C. Pellizzi, introd. di C. A. Viano, 4 volI., Bari, 1972, I, pp. 25-26. Si avverte qui, una volta per tutte, che per i brani citati si sono bensì avute presenti le versioni italiane disponibili, ma si è preferito in ogni caso procedere, per scrupolo e per semplicità, a ritradurre i testi sulle ediz. in lingua originale). Sul metodo del Saggio cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenscha/t der neueren Zeit, 4 voll. Berlin-Stuttgart, 1906-1957, II, pp. 227232 (tr. it.: Storia della filosofia moderna, a cura di vari, 4 voll., Milano, 1968, II, pp. 263-264); desidero inoltre ricordare le precise osservazioni di M. Dal Pra, Condillac, Milano, 1942, pp. 35 ss.

309 porta per un verso la rinuncia a preliminari argomentazioni essenziaIistiche sull'anima, come pure al tentativo di delineare i processi psicosomatici dai quali scaturiscono le stnsazioni e le idee; per altro verso, il taglio adottato dovrebbe invece esprimersi positivamente in una definizione delle possibilità conoscitive basata sull'esame delle « discerning Faculties of a Man » quali volta a volta si manifestano nei rapporti con gli oggetti. L'indagine deve insomma muovere dalle più semplici osservazioni di natura fattuale per tracciare un quadro descrittivo, che sia costantemente riconducibile entro i limiti dell'esperienza. Sembrano così individuati un livello e una modalità di indagine specifici, che, nel fare riferimento all'insieme delle operazioni e risultanze conoscitive emergenti alla consapevolezza del soggetto, mirano a stabilire i confini delle nostre capacità, tenendo ferme due distinte inibizioni relative alla pregiudiziale metafisica (che rinvia le questioni gnoseologiche alla pretesa comprensione dell'anima o della res cogitans) e allo studio delle cause fisiche della percezione, sulla cui praticabilità e sul cui grado di certezza sarà eventualmente dato formare giudizi solo quando sia stata completata la critica dell'intelligenza umana. E' noto tuttavia che, tra queste due esclusioni, la seconda si presta a varie eccezioni nel corso del Saggio: ove le esigenze argomentative lo richiedano, Lockc non esita. a manifestare consenso nei riguardi di quell'interpretazione meccanicistica della sensazione, che può far pensare alla generale diffusione delle teorie corpuscolaristiche, dai gassendisti a Boyle, ma che anche Descartes aveva dettagliatamente illustrato nei suoi testi 3 • L'« impulso» delle particelle, che dagli oggetti esterni si trasmette all'apparato sensorio, causando alterazioni nel cervello per il tramite dei nervi e degli spiriti animali

3. Per Locke cfr. Essay, Il,viii, §§ 11-22, pp. 135 ss., e x, § 5, pp. 151-152 (tr. it., rispettivamente II, pp. 51 ss. e pp. 75-76); ma si vedano anche: Elements o/ Natural Philosophy, X-XI, in The Works o/ fohn Locke, 10 voli., London, 1823 (riprod. anast. Aalen, 1963), III, pp, 320-328, e An Examination o/ P. Malebranche's Opinion o/ Seeing Ali Things in God, §§ 9-10, in Works, IX, pp. 215-217. Per il gassendismo: F. Bernier, Abrégé de la philosophie de M. Gassendi, 7 voll., Lyon, 16842, T. VI, libri: I, Du sentiment en général, vol. VI, pp. 1-61 (in partic. cap. ii, pp. 28-32); II, Des sens en particulier, pp. 62-181; e, riguardo alla fisiologia dell'immaginazione, III, De la phantaisie ou imagination, i-ii, pp. 189 ss. Sulla questione di sofferma, rimarcando gli elementi di specificità che Locke realizza rispetto a Descartes, J. Gibson, Locke's Theory o/ Knowledge and its Historical Relations, Cambridge, 1917, pp. 52-55; qualche indicazione in R. Aaron, fohn Locke, Oxford, 1955, pp. 132-136; utili i dati informativi e le considerazioni di G. Banno, Les relations intellectuelles de Locke avec la France, Berkeley-Los Angeles, 1955, cap. IV e pp. 226-237. Ma soprattutto, fra gli studi più recenti: J. W. Yolton, The Science o/ Nature, in fohn Locke: Problems and Perspectives, Cambridge, 1969,

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- ossia appunto un modello fisico prossimo al cartesiano, pur se prospettato con diverso statuto epistemologico viene evocato con il crisma dell'« evidenza», unitamente alla possibilità che la « costituzione dei nostri corpi», la « qualità dei nostri spiriti animali» e la «· tempra del cervello » influiscano sulla maggiore o minore tenacia della memoria. Il ricorso a dottrine fisiche annoverabili tra le « congetture probabili » della scienza naturale 4 corrisponde, nel caso specifico, all'esigenza di motivare compiutamente un passaggio molto delicato dell'analisi riservata alle « idee semplici», cioè quella distinzione tra « qualità primarie» e «secondarie», che deve consentire di differenziare i vari tipi di percezioni confluenti nei contenuti ideativi, in modo da sceverare quelli che « somigliano » al loro referente esterno e assicurano così una prima, sia pure mediata, connessione tra pensiero e realtà, da quelli che possono essere intesi soltanto come segni di realtà corporee dotate del « potere » di suscitare in noi certe percezioni attraverso determinati processi sensoriali (Il,viii, § 15).

pp. 183-193, e Locke and the Compasso/ Human Understanding, Cambridge, 1970, dove sono frequenti i rimandi a queste tematiche in un contesto storico piuttosto ampio; F. Duchesneau, L'empìrisme de Locke, La Haye, 1973, di cui si segnalano i primi due capitoli (per l'esame dei rapporti tra Locke e Sydenham, che consente di meglio intendere il variegato quadro teorico in cui si collocano gli elementi meccanicistici degli studi medici lockiani), e in particolare le pp. 68-83 (per la questione qui considerata) e 225 ss. (per il medesimo argomento, visto però nell'ambito della polemica suile idee tra Locke e Malebranche); lo studio di A. Pacchi, Cartesio in Inghilterra, Bari, 1973, va tenuto presente per la comprensione delle reazioni suscitate nella cultura inglese prima di Lockc dalla diffusione del cartesianesimo e del gassendismo; citiamo infine R. Mattero, « Locke on Active Power and the Obscure Idea of Active Power from Bodies », in Studies in History and Philosophy of Science, voL XI, 1980, pp. 39-77, mentre elementi significativi per l'analisi della nozione di idea in Boyle e Locke sono forniti da A. Lupoli, « La 'Corpuscolar Philosophy' di Robert Boyle », II, Acme, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano, vol. XXXIV, 1981, pp. 111-154 (la prima parte del saggio è nel voi. XXXIII, 1980, pp. 427-472). 4. Cfr. Essay IV,xvi, § 12, pp. 665-667 (tr. it.c IV, pp. 199-201); ma anche: IV,iii, § 29, pp. 559-560 (tr. it., pp. 50-51), e xii, §§ 9-10, pp. 644-645 (tr. it. pp. 169-172), dove però l'attenzione di Locke è particolarmente riferita al problema della sostanza. Sul nesso, cui di seguito si accennerà, tra corpuscolarismo e dottrina deile qualità si è soffermato J. W. Yolton nel cit. Locke and the Compass o/ Human Understanding, cap. I, pp. 34 ss., e, per rilevarne l'aspetto ipotetico, cap. II, pp. 44 ss., dove sono, tra l'altro, discusse le tesi che, su Locke, aveva enunciato M. Mandelbaum, in Philosophy, Science and Sense Perception: Historical and Criticai Studies, Baltimore, 1964. Tra gli innumerevoli studi, che secondo prospettive diverse hanno affrontato la questione della distinzione delle qualità nei termini ~stremamente problematici secondo cui è impostata da Locke, ci limitiamo qui a ricordare un contributo di storia 'interna', che confronta il Saggio con gli Abbozzi precedenti: M. Brandt Bolton, « The Origins of Locke's Doctrine of Primary and Secondary Qualities », in The Philosophical Quarterly, voi. XXVI, pp. 305-316.

311 La linea argomentativa seguita da Locke mette capo a un risultato che, di nuovo, si presta ad alcuni riscontri con il giudizio espresso da Descartes nei riguardi delle caratteristiche e del valore attribuibili alle rappresentazioni delle proprietà dei corpi. Neppure per Descartes Io statuto conoscitivo delle nozioni di magnitudo, figura, motus, situs, divisibilitas è assimilabile a quello delle qualità sensibili, le cui idee debbono addirittura ritenersi prive di qualsiasi autonoma efficacia conoscitiva, riducendosi a segni per natura destinati ad una funzione principalmente pragmatica 5 • La partizione cartesiana discrimina nettamente i due gruppi di rappresentazioni ed include il primo nel campo della piena trasparenza intellettuale caratteristica delle determinazioni « modali » inerenti all'idea chiara e distinta della sostanza estesa (Principi I,lxi), mentre l'altro gruppo è relegato in un ambito diverso e eterogeneo, al quale afferiscono tutti gli impulsi e i messaggi, che provengono all'anima in ragione della sua stretta unione con il corpo e di cui essa può bensì giovarsi, ma a patto di non trasformarli in fattori contaminanti rispetto ai contenuti e alle procedure mentali de~ putate alla costituzione del sapere. Questa classificazione, che nei Principi comprende ulteriori articolazioni 6, riflette comunque il proposito di istituire fra le idee un ordine corrispondente alle tre dimensioni esistenziali da cui l'uomo è definito: il pensiero, la corporeità e il nesso anima-corpo; e la complessità del quadro che ne risulta è, a sua volta, intesa a tutelare lo spazio riservato all'esplicarsi di un'attività teorica incondizionata e aperta alla verità. Reagendo al sostanzialismo essenzialistico della metafisica e prendendo le mosse, nel primo libro del Saggio, dall'attacco contro l'innatismo (contro ogni orientamento filosofico, che si richiami a questo consolidato lascito della tradizione per affermare tra le idee gerarchie e livelli di autonomia) che non siano riportabili al criterio e alla mi-

5. R. Descartes, Meditationes de prima philosophia, VI, in AT VII, pp. 80 ss. (tr. it.: Cartesio, Opere, a cura di vari, con introd. di E. Garin, 2 voll., Bari 1967, I, pp. 256 ss.); Principia philosophiae, I, xlviii e lxiii-lxx; IV, clxxxix-cxcviii, in AT VIII (1), pp. 22-23, 30-35, 315-323 (trad. it., II, pp. 49-50, 59-64, 352-360). 6. Cfr. Principia, I, xlviii: le cose che cadono sotto la nostra percezione possono essere considerate o come degli oggetti, o come prive di esistenza fuori dal pensiero. A loro volta, le cose rientranti nel primo ordine si raggruppano sotto generalità quali: sostanza, durata, ordine, numero. E se due sono i « generi sommi }> menzionati in prima istan:,rn da Descartes e ulteriormente suddivisibili (l'uno relativo alla dimensione intellettuale, l'altro alla materiale), tuttavia egli ricorda anche una serie di cose riconducibili all'unione tra mente e corpo, e tra esse indica gli appettiti, le passioni e e l'« illazione>). Si veda anche il cap. secondo, che introduce l'esame della conoscenza intuitiva e del ragionare).

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come tra le facoltà elencate non figuri alcun preciso accenno all'immaginazione, pur occasionalmente menzionata in taluni luoghi 12 . Un critico attento e partecipe della filosofia lockiana qual è Condillac non manca di lamentare l'inadeguatezza delle indicazioni fornite dall'inglese al riguardo. Nell'ambito di un'analisi sistematica delle operazioni dell'anima, Condillac stabilisce una precisa distinzione di ruoli tra immaginazione, memoria, contemplazione e reminiscenza. La prima si verifica « quando la percezione, con la sola forza del legame che l'attenzione ha messo tra essa e un oggetto, si ridesta alla vista di questo oggetto » ". All'apparenza questo potere sembrerebbe accostabile alle facoltà lockiane della ritenzione, che consentono alla mente di conservare e risvegliare le idee già avute; ma in realtà la ptesa di distanze da parte di Condillac è troppo accentuata perché sia consentito parlare di una semplice correzione integrativa delle posizioni so~ stenute dall'inglese. A fronte della memoria (ove-le trncce del passato sono riproposte esclusivamente attraverso i nomi, l' (p. 15; tr. it. p. 107). 16. T. Hobbes, Leviathan I,2, in English Works, a cura di W. Molesworth, 11 voll., London. 1839-1845. III, pp. 5-6 (tr. it. a cura di G. Micheli, Fitenze, 1976, pp. 14 ss. e in partic. p. 16), ma dr. anche il cap. IV, 45, p. 649 (nelle pp. ss. l'argomento è ripreso e le immagini, al pari della facoltà relativa, sono definite con riguardo alle apparizioni tr. it. pp. 628 ss.).

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e, in generale, tutto ciò che viene dai sensi e che giunge al cervello tramite i nervi» 17 • II riferimento alle «specie» o «immagini», precisato con 1a tradizionale distinzione tra specie « impressa » e « espresM sa », rinvia alla questione della conservazione dei contenuti acquisiti; la memoria, così introdotta, viene accuratamente esaminata sotto il profilo fisiologico (le tracce cervicali, il movimento degli spiriti ecc.), ma non riceve una propria definizione funzionale, ché anzi sembra configurarsi semplicemente come la possibilità di esplicare l'attività immaginativa verso il passato grazie alla disponibilità di un luogo di sedimentazione, dove le innumerevoli sollecitazioni fisicamente impresM se nel cervello permangono - quasi « p.ieghe » minuscole e distinte su di un « foglio bianco » assicurando le condizioni per cui, di volta in volta, tornano a manifestarsi le « specie espresse >> 18 • Se la sintesi gassendista di Bernier si conferma pertanto priva di spunti suscettibili di corrispondere in misura soddisfacente alle puntuali esigenze fatte valere da Condillac, molteplici sono invece le indicazioni che se ne possono ricavare riguardo alla valorizzazione della fecondità propria della fantasia. Principale e specifica funzione di quest'ultima, dice Bernier, è « la semplice apprensione, cioè la nuda e semplice immaginazione d'una cosa senza affermarne o negarne nulla » 19 . Tale è l'immagine che, a partire dallo stimolo sensoriale, va a costituire l'« oggetto» («idea», «specie>>) dell'attività pensante o 17. F. Bernier, Abrégé de la philosophie de M. Gassendi, cit., VI, III, ii, voL VI, p. 194. Su Bernier e Gassendi, nei loro rapporti con Locke, si è soffermato F. Duchesneau nel cit. L'empirisme de Locke, cap. III, in partic. pp. 9.3-119 (ma merita attenzione tutto il cap. che stabilisce utili raffronti anche rispetto a Hobbes). Sull'immaginazione in Gassendi: O. R. Bloch, La philosophie de Gassendi. Nomina• lisme, matérialisme et métaphysique, La Haye, 1971, pp. 130 ss., per gli aspetti gnoseologici, e pp. 369 ss., per quelli psicologici. 18. F. Bernier, Abrégé, VI,III,ii, vol. VI, pp. 207-208 (per le spede); e iii, pp. 210 ss. (per la memoria). Non di rado Bernier (come Gassendi, Syntagma philosophicum, in Opera omnia, 6 volL, Lugduni, 1658 - rist. anast. Stuttgart-Bad Cannstatt, 1964, con introd. di T. Gregory - T. II, pp. 406 ss.) sembra ammettere un nesso di sinonimia tra fantasia e memoria; ricordando poi i noti ripensamenti lockiani circa la legittimità di assumere la memoria quale « serbatoio)> di idee (Essay II,x, § 2, pp. 149-150 - tr. it.: II, pp. 73-74 - dove l'isulta la correzione apportata nella seconda ediz. al testo della prima), è il caso di richiamare come Bernier, sulla scorta di una citazione ciceroniana tratta dal brano su menzionato di Gassendi, escluda esplicitamente che tale facoltà sia « una sorta di vaso; perché le cose che si mettono nei vasi sono separabili le une dalle altre e hanno qualche consistenza)> (p. 211), ciò che vuol essere una contestazione di qualsiasi entificazione delle specie. _ 19. F. Bernier, Abrégé, VI,Ill, iv, voi. VI, p. 218; cfr. anche: !,I, voi. I, pp. 6-8. Può essere utile tenere presente, su questa temati.%1, 1a posizione di Joseph Glanvill, che in The Vanity of Dogmath;ing (1661) discute àei «poteri» o «facoltà»

317 « intelletto», il quale se ne serve per formare altre idee ricorrendo alle operazioni già dettagliate nella canonica gassendiana: la « composizione » e la « divisione », l' « ampliamento » e la « diminuzione», il «trasferimento», l'« accomodamento», la «proporzione» 20 • Si tratta, beninteso, di operazioni intellettuali, descritte in questi termiM ni nella logica del Compendio/ ma è interessante notare come nei caM pitali dell'opera dedicati alla natura degli esseri viventi esse trovino un palese riscontro nel corso della trattazione rivolta alle « funzioni della fantasia » 21 • Cosicché, salvo per i casi in cui sia esplicitamente segnalata l'esclusiva o precipua competenza dell'intelletto 22 , si deve quanto meno ritenere che ogni manifestazione del pensare non solo è riducibile a spunti sensoriali, ma è per giunta accompagnata e sorretta da coerenti processi immaginativi. L'attenzione riservata alle corrispondenze somatiche che secondo le categorie gassendiane implicano la considerazione del nesso tra corpo, anima materiale e anima incorporea - non erano del resto estranee neppure alla scuola cattesiana: basti ricordare le indagini svolte da Descartes nella prima parte del trattato sulle passioni e poi largamente riprese, tra gli altri, da Sylvain Régis nel Sistema generale. Lo

dell'anima, precisando, in primo luogo, che quanto ai rapporti intercorrenti tra ciascuno di essi e tra i poteri e l'anima si deve pensare a una distinzione non già scolasticamente reale, ma modale; riguardo alle operazioni intellettuali, Glanvill analizza poi la semplice apprensione come approccio all'oggetto, in cui non hanno parte né composizione né deduzione. Questo atto di « nuda intellezione}>, riconducibile alla percezione sensitiva, è detto propriamente senso se l'oggetto è presente, e invece immaginazione se è assente. Il parallelismo tra immaginazione e intellezione, così configurato, è mantenuto anche a proposito dei giudizi con i quali si determinano le distinzioni e identità degli oggetti, perché se questi saranno puramente « materiali » 1a competenza spetterà alla prima, altrimenti alla seConda, Per quanto attiene, infine, alle conclusioni, entro cui si connettono più proposizioni, la facoltà immaginativa si affiancherà a ciò che comunemente si designa come ragione (op. cit., XI, in Collected Works of Joseph Glanvill, vol. I, facsimile a cura di B. Fabian, Hildesheim-New York, 1970, pp. 95 ss.), La dottrina glanvilliana è complessivamente molto importante (basti pensare alla distinzione modale posta tra i poteri e a certe scelte lessicali) anche in relazione alle prospettive adottate da Locke. 20. F. Bernier, Abrégé, I,I, reg. iii, vol. I, pp. 11-14; cfr. P. Gassendi, Syntagma philosophicum, in Opera, T. I, pp. 92 ss. 21. F. Bernier, Abrégé, VI,III, iv, voi. VI, pp. 218-246 (e P. Gassendi, Syntagma philosophicum, in Opera, T. II, pp. 409 ss. e 450-451), Si osservi che in questo modo il pensiero gassendiano è in grado di sviluppare ampiamente in positivo il tema delle capacità conoscitive dei bruti. Duchesneau si sofferma sulla « combinatoria » gassendiana delle idee, rilevandone la prossimità con le tesi lockiane, ma tralasciando di segnalarne il risvolto fisico-immaginativo (L'empirisme de Locke, p. 113). 22. F. Bernier, Abrégé, VI,IV, in pattie. cap. iii, vol. VI, pp. 328-346,

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schema dualistico, apertamente professato senza le complesse media• zioni adottate in campo gassendista, e il rifiuto della prospettiva sensi• stica caratterizzano ovviamente queste argomentazioni rispetto alle pre• cedenti e contribuiscono a rendere più netto lo stacco tra l'analisi fisiologica delle percezioni e l'elaborazione conoscitiva. Nondimeno il testo di Régis si presta a qualche utile raffronto con quello di Bernier. Dopo aver definito l'immaginazione come « il potere che l'anima possiede di conoscere i corpi particolari e i rapporti di eguaglianza o ineguaglianza tra essi sussistenti » 23, il cartesiano spiega: .. .immaginare in generale non è altro che avere l'idea di un corpo parti~ colare, causata dal solo movimento degli spiriti animali che scuotono le estremità interne delle :fibre nervose, allo stesso modo in cui esse sono state scosse in precedenza per la presenza dell'oggetto che si immagina. Si vede quindi che vi sono, per così dire, due spede di immaginazioni: una riguardante le cose presenti e l'altra che concerne le cose assenti. La prima è a tal punto confusa col sentimento che la precede, da non venir distinta rispetto ad esso.. La seconda spede di immaginazione merita propriamente questo nome, perché l'anima non sente normalmente nulla negli oggetti assenti, ma soltanto ha il ricordo di ciò che vi ha sentito 24,

Troviamo così, ben evidenziata, la polarità nella quale è racchiuso

il fatto immaginativo: esso, da un lato, viene marcatamente approssimato all'attualità della percezione sensoriale, o meglio alla consapevolezza relativa, col rischio di incorrere in confusioni che impedirebbero di distinguerlo dal sentire; dall'altro, un'identità precisa viene recuperata facendo intervenite il motivo - già aristotelico 25 della presenza/assenza dell'oggetto, con il parametro temporale che preva23. P. S. Régis, Cours entier de philosophie ou système général selon les principes de M. Descartes (3 voll., Amsterdam, 1691), La 'métaphysique, IIJi, T. I, p. 156. 24. lvi, Il,v, T. I, p. 163. 25. Cfr. Aristotele, Dell'anima, III,3,427 b 25 - 429 a 1-9. Dalla fonte aristotelica il tema si comunica alla tradizione scolastica, nell'ambito deJla quale la classificazione delle facoltà dell'anima diviene oggetto di molteplici discussioni e varianti. Questo vasto e composito patrimonio di riflessione resta fuori dai limiti del nostro studio, pur essendo evidente l'incidenza che certe dottrine e definizioni pal'ticolari ebbero, in positivo o in negativo, sul dibattito secentesco. Si possono aln2no richiamare due tipici esempi tardo-scolastici: il De anima di F. Suarez, con riguardo al 1. III, De potentiis cognoscitivis in communi, ac etiam sensitivis, in Opera omnia, 28 voli. (gli ultimi due di indici), Paris, 1856-1878, T. lll, pp. 613-712 (per 1a definizione della fantasia, ivi, cap. xxx, An sit unus tantum sensus interior, an_ plures, 4, p. 704); nonché i Commentarii Collegii Conimbricensis S.]., in tres libros De anima Aristotelis Stagiritae (III ed., Lugduni, 1604) 1 III, iii, Quaest. I, An internorum sensuum numerus recte a philosophis constituatur, pp. 346-357 (ma

319 lentemente vi è sotteso. Ma in tal modo il problema della classificazione si ripropone in rapporto alla memoria e non a caso Régis lo risolve appellandosi alla diversa natura dei contenuti delle due facoltà: l'immaginazione rinvia ai corpi, la memoria (e la reminiscenza) ai corpi e agli spiriti; quella riguarda indiscrimina·tamente le « cose » che sono entrate nella nostra esperienza, queste ce le restituiscono contrassegnate dall' « ordine » e dal « rango » con cui si sono presentate all'anima 26 • Pertanto, in una considerazione filoso.fica principalmente accentrata sulle i.dee e immagini manifestantisi alla sostanza spirituale, il motivo della soggettività e, si direbbe quasi, della 'intenzionalità' assume quel ruolo discriminante tra le facoltà, che l'indirizzo gassendista surrogava nel riferimento alle strutture materiali della percezione e che più tardi il sensista Condillac avrebbe potuto risolvere mostrando, dopo Locke, l'importanza dei segni nell'attività rappresentativa. Una volta identificata, Fimmaginazione si conferma, anche per Régis, come l'indispensabile termine di passaggio dalla pura ricettività sensoriale al piano delle funzioni rielaborative: « ... quando l'anima ha immaginato certe cose, può facilmente immaginarne altre mediante la composizione, l'ampliamento, la diminuzione o l'accomodamento ... » 27 • Si tratta delle principali operazioni elencate da Bernier sulla scorta degli insegnamenti tratti dal maestro e identici sono i classici esempi addotti per illustrarle. La coincidenza non viene rilevata dal cartesiano; ma l'aperta dichiarazione di consenso nei confronti della logica di Port-Royal implica che egli fosse a conoscenza degli attacchi portati contro questi punti della dottrina gassendiana da parte di Arnauld e Nicole 'in ragione delle premesse sensistiche ivi operanti 28 • L'occoranche la precedente Explanatio del capitolo aristotelico, riportato nel testo greco e nella versione latina, andrà tenuta presente, pp. 338 ss., e per la definizione dell'immaginazione p. 345). 26. P. S. Régis, Cours entier, II,viii, T. I, p. 168. 27. lvi, II,v, T. I, pp. 163-164; cfr. anche II,ix, T. I, p. 172. 28. A. Arnauld, P. Nicole, La logique ou Art de penser, contenant, outre les règles communes, plusieures observations nouvelles, propres à former le jugement, I,i, ed. critica basata su quella parigina del 1683 e curata da P. Clair e F. Girbal, Paris, 1965, pp. 43 ss. (tr. it.: Grammatica e Logica di Port-Royal, a cura di R. Simone, Roma, 1969, pp. 110 ss.). La logica di Régis (parti I-III sulle tre « principali operazioni dello spirito», percezione, giudizio e ragionamento; parte IV sui metodi dell'analisi e della sintesi) ricalca la struttura della logica portorealista. Lo stesso Régis dichiara: ~< Non dirò di aver fatto delle scoperte nella logica, perché la logica ha dei limiti non superabili: essa consiste in riflessioni che sono state proposte dall'Autore dell'Arte di pensare, alle quali è difficile aggiungere alcunché, se non forse a quelle riguardanti il metodo, su cui mi sono più particolarmente soffermato» (Cours entier, Prèface, pp.nn.).

320

renza di rappresentazioni fattizie (come il centauro o altro) era del resto esplicitamente prevista dallo stesso Descartes; non stupisce quindi che Régis, senza smentire le distinzioni tipiche della sua I scuola', potesse essere interessato ad utilizzare certi spunti entro un contesto segnato dal primato della pura razionalità, tanto più che anche nel campo avverso peculiari competenze in proposito erano state attribuite all'intelletto, quale facoltà dell'anima immateriale 29 • Se nell'ambito della teoria descrittiva della natura umana persistevano i noti problemi attinenti al nesso tra le componenti sensitiva e intellettiva sia che venissero prospettati nei termini del dualismo o in quelli più consueti delle partizioni interne all'anima sotto il profilo gnoseologico rimaneva invece stabilita, da un lato, continuità tra immaginazione e memoria, intese come poteri preposti alla fissazione di dati desunti dall'esperienza e resi disponibili ad una combinazione più autonoma da parte del soggetto; mentre d'altro lato era riconosciuta l'importanza delle due facoltà per ulteriori composizioni, immagini e nozioni, nelle quali potevano cominciare ad esercitarsi le pure e semplici capacità associative e astrattive o le manifestazioni superiori della sostanza pensante. Sullo sfondo di questa concordanza generica era però ben rintracciabile la linea discriminante costituita dalla questione dell'origine prima delle idee, e quindi dall'opzione compiuta nei confronti dell'innatismo e della ammissibilità di principi razionali non riducibili al senso. Nella misura in cui a tale quesito si dava una soluzione positiva, diventava più agevole mantenere una discriminazione tra le facoltà, che al di là del referente metafisico - si giovasse anche del diverso statuto attribuito ai vari tipi di rappresenta29. Quanto alla natura e alle inerenze metafisiche dell'intelletto, secondo il gassendismo di Bernier, basti osservare che il primo cap. del libro sesto dell' Abrégé è dedicato alla dimostrazione dell'incorporeità di quel potere ( T. VI, pp. 280 ss.): d'altro lato, nella logica, aperta dalla seguente regola: « La semj$.lice immaginazione d'una cosa è tale quale è l'idea che.si ha della cosa» (T. I, p. 9), si sostiene che « Ogni idea o passa attraverso i sensi o è formata da quelle che passano attraverso i sensi» e nell'illustrazione relativa è detto: « ... noi abbiamo nell'intelletto le idee di certe cose che non sono, né possono essere in alcun modo (sensorialmente prodotte) e che di conseguenza non possono affatto colpire i sensi, né trasmettere la loro idea tramite i sensi ... In primo luogo dunque si dice che passano attraverso i sensi e sono impresse nell'intelletto quelle idee, che provengono da cose che per sé cadono sotto i sensL.. Inoltre da queste idee, che sono passate attraverso i sensi e si trovano nell'intelletto, se ne formano diverse altre ... » (reg. III, T. I, pp. 11-12). Bernier traduce così il terzo Canone riportato da Gassendi nella logica del Syntagma (Opera, T. I, pp. 92-93); è bene avere presente questo testo, per coglierne alcuni tratti lessicali, avvertendo che il francese entendement corrisponde al latino mens e tenendo conto delle implicazioni, che possono scaturire dalla connessione con i1 precedente riferimento.

321 zione mentale.; e le difficoltà potevano allora spostarsi proprio sul terreno della nozione di idea: la nota definizione proposta da Descartes nelle Risposte alle II Obiezioni è per entrambi i versi significativa 30 • Ma quanto più si accedeva alla prospettiva sensistica, tanto più si faceva ingombrante la tematica stessa delle facoltà, col suo tradizionale retaggio di argomentazioni relative all'anima e alle sue partizioni. Su questo terreno era bensì dato intervenire, adeguando in parte le gerarchie e sottolineando l'importanza di funzioni non più subordinabili; simili spostamenti introducevano elementi di crisi negli schemi speculativi di impronta spritualistica: ma sotto il profilo dell'impianto teorico più generale il permanente riferimento ad un'anima immateriale con proprie capacità intellettive non poteva non dar luogo, in autori come Gassendi, alle « ambiguità » messe in rilievo dagli studi più recenti 31 • Né queste sarebbero apparse superabili fintanto che l'attenzione per le operazioni dell'anima non si fosse imposta al punto da consentire di lasciar tra parentesi le scissioni insite nelle vedute sostanzialistiche di stampo scolastico, adottando una impostazione che fosse più corrispondente al principio « nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu » e che al contempo facilitasse l'espressione di una concezione gnoseologicamente unitaria riorientata in base al principio medesimo. La posizione assunta da Locke è per molti versi esemplare. Non a caso proprio Condillac gli riconosce il merito di essere stato il primo ad affrontare davvero il problema della dimostrazione di quel principio 32 ; in realtà, gli sviluppi della linea di indagine lockiana 30. altro ammettere se si considera come quel poligono sia sempre suscettibile di molte dimostrazioni, a cui si perviene per la sola forza della mente e nonostante gli impedimenti dell'immaginazione .. sebbene le figure geometriche siano affatto corporee, non per questo tuttavia le idee mediante le quali vengono colte dall'intelletto debbono ritenersi corporee, quando non cadano sotto l'immaginazione 37 •

Nelle sue Obiezioni Gassendi avevo in effetti sostenuto l'inseparabilità della funzione intellettiva da quella immaginativa e di conseguenza aveva contestato il disegno cartesiano inteso a scindere nettamente i ruoli dell'una e dell'altra nell'amhito dell'attività conoscitiva 38 . Sullo stesso argomento era poi tornato nelle Istanze, dove aveva esplicitamente affermato il principio secondo cui le idee di cose come le figure non possono che esserne le immagini, ed aveva quindi accennato ad una distinzione notevole: è bensì ammissibile che, in base alla chiara percezione di certe figure, l'intelletto sia in gradp di elaborare valide dimostrazioni anche a proposito del chiliogono, ma ciò non significa che di esso si abbia una precisa nozione/rappresentazione intellettuale contrapponibile alla forma confusa proposta dall'immaginazione. Il rilievo è importante, perché, privilegiando lo schema immaginativo, si imputa al testo cartesiano di aver contaminato il discorso sulla percezione mentale con quello sui procedimenti raziocinativi. Ma il filosofo non vi insiste particolarmente, preferendo attaccare la pretesa chiarezza della concezione intellettuale sulla base dell'equazione idea-immagine, e scrive: 37. R. Descartes, Quintae Responsiones, AT VII, p. 385 (tr. it.: I, p. 547). 38. Cfr. Obiectiones Quintae, AT VII, pp. 330-331 (tr. it.: I, pp. 498-500).

326 Se dunque nel chiliagono (sic) non hai rilevato le singole parti, o esattamente tutti gli angoli, se non li hai conosciuti nel loro insieme, per quale ragione dici di percepirlo distintamente? Ribatterai sprezzante che io richiedo quel tipo di percezione che si ha tramite l'immaginazione: ma io non chiedo se la si consegua mediante l'immaginazione o altra facoltà, purché la si abbia: ti chiedo soltanto la definizione di ciò che intendi per percezione distinta e che applichi al chiliagono 39 •

Nel porre in primo piano la questione della rappresentazione, Gassendi non esita quindi ad esibire un significativo distacco nei confronti di quella classiiìcazione delle facoltà, che in Descartes tanta im portanza aveva assunto sotto il duplice profilo metafisico e gnoseologico. Certo, fuori dal quadro di riferimento offerto dalla tematica della sostanza pensante, non sarebbe stato semplice ribattere in modo per~ suasivo a simili obiezioni: il richiamo cartesiano alla dimostrabilità di svariate proprietà del chiliogono poteva essere respinto come una sorta di inadeguata ed elusiva prova a ppsteriori della corrispondente nozione intellettuale, che invece si voleva, giusta l'interpretazione di Gassendi, chiara in se stessa. D'altro lato, la rivendicazione del ruolo decisivo dell'immaginazione era formulata, nelle Istanze, in modo tale da prestarsi a ritorsioni non prive di efficacia, perché, se Gassendi pretendeva dall'avversario la spiegazione d'un fatto che gli appariva o insussistente, oppure necessariamente configurato secondo i tratti del quadro, della visione mentale, Descartes sembrava disposto ad ammettere che anche nel caso specifico l'intuizione adeguata dell'idea non rinviasse inevitabilmente al modulo della percezione visiva dell'oggetto. Su questa via ]'avrebbero seguito, in primo luogo, gli autori della Logica portorealista. Nel sostenere che noi « concepiamo un grandis~ simo numero di cose senza alcuna ... immagine», essi si richiamano appunto all'esempio del poligono di mille lati per affermare che, sep-. pure possiamo rappresentarcene confusamente una figura, questa non è affatto una figura di mille angoli, giacché non differisce per nulla da ciò che mi rappresenterei se pensassi ad una figura di diecimila angoli, né serve in alcuna maniera a scoprire le proprietà che costituiscono la differenza di una figura di mille angoli da qualsiasi altro poligono 40 .

39. P. Gassendi, Disquisitio seu Dubitationes, et Instantiae adversus Renati Cartesii Metaphysicam, In Medit. VI, Dub. I, lnst., in Opera, T. III, p. 386. 40. A. Arnauld e P. Nicole, La logique, I, i, p. 40; un cenno aila questione è anche nel secondo dei due Discours preliminari, p. 32 (tr. it., pp. 107 e 100).

327 La sottolineatura dell'inutilità dell'apporto immaginativo reintroduce semplicemente la tesi cartesiana ,già esaminata; né il puntiglio con cui Arnauld e Nicole precisano di aver calcolato che la somma degli angoli di un chiliogono è pari a 1966 retti, giova a rendere più soddisfacente l'argomentazione rispetto alle ragioni in contrario avanzate da Gassendi. Ma di nuovo, gli sviluppi dati al tema geometrico - se non rinviano immediatamente a presupposti metafisici dipendono dal riconoscimento dei particolari margini di autonomia spettanti al pensiero nell'attività conoscitiva. E' quanto emerge dal passo seguente: ... che cosa concepiamo noi più chiaramente del nostro pensiero, quando pensiamo? E tuttavia è impossibile sia immaginarsi un pensiero sia tracciarne una qualsiasi immagine nel nostro cervello. Neppure il sì e il no possono averne qualcuna: colui il quale giudica che la terra è rotonda e colui il quale giudica che non lo è, hanno infatti entrambi le stesse cose raffigurate nel cervello, ossia la tena e la rotondità, J..11a l'uno vi aggiunge l'affermazione, che è un'azione del suo spirito da lui concepita senza alcuna immagine corporea, l'altro l'azione contraria, cioè la negazione, che ancor meno può avere un'immagine 41 .

Vien fatto di osservare che a rigore l'assenso non parrebbe assimilabile all'idea; ma ciò che più conta è il risalto dato alla fecondità produttiva dell'intelletto, capace di riflettere su di sé e di operare selettivamente su proprie nozioni, senza dover sempre fare direttamente o indirettamente ricorso alle immagini. Questo decisivo assunto filosofico costituisce un riferimento centrale anche nel Trattato di Louis de la Forge: ad esso si possono ricondurre le sottili precisazioni riguardanti il risvolto cogitativo delle sensazioni, nonché le accurate distinzioni tra « spede corporee » e « idee intellettuali» 42, e tra intelletto e immaginazione. Attento alle polemiche 1 di scuola', oltre che agli avversari esterni, La Forge ha certo presenti autori come Gassendi e Hobbes, ma non tralascia di ricordare le deviazioni di un ex-cartesiano come Regius; e ciò lo induce a sottolineare l'importanza - del resto verifìcabilissima delle Notae in programma, per una migliore comprensione delle dottrine relative all'anima razionale, ossia per le considerazioni sull'intellezione 41. Ivi, p. 41 (tr. it. p. 108, ma qui la versione italiana è imprecisa). 42. L. de La Forge, Tractatus de mente humana, eius facultatibus et functionibus, nec non de eiusdem unione cum corpore, secundum principia Renati Descartes, Amstelodami, 1669, capp. III p. 12, IV pp. 13 ss., VIII pp. 37-39, X pp. 50 ss. Cfr. l'originario testo frane. in Oeuvres philos., ed. P. Claìr, Paris, 1974.

328 pura e sulla corretta accezione dell'innatismo 43 • Delrimmaginazione egli rimarca l'impotenza a rappresentarsi « tutte le proprietà del corpo », quali la divisibilità indefinita, o il gran numero di forme e i diversi mutamenti di cui è suscettibile 44 : spiegabile in base alla meccanica fisiologica delle percezioni e alle caratteristicbe delle « specie », questo limite è tipico di una facoltà nelle cui esplicazioni la mente sembra rivolgersi al corpo per contemplare una sorta di « figura dipinta» o « immagine » dell'oggetto, laddove negli atti intellettuali essa si raccoglie in sé e, pur quando si applica alle cose esterne, Io fa in modo da « considerare la nozione dell'oggetto, che ha in se stessa ». La differenza di attitudini mentali, così evidenziata, ha un positivo riscontro nella diversità di capacità e competenze, che appare risolutiva sul terreno delle possibilità conoscitive: ...grazie all'intelletto percepiamo moltissime proprietà dei corpi, ad esempio quelle per le quali essi sono in grado di subire variazioni pressocché infinite nel movimento, nella grandezza o nella figura - variazioni che non possiamo immaginare, perché l'immaginazione non ci rappresenta nulla, se non sotto qualche immagine e figura particolare e determinata, né può passarle tutte in rassegna 45 •

Assimilata ad una indiretta v1s10ne interna, l'immaginazione si trova dunque precluse le vie che conducono alle dottrine corpuscolaristiche della fisica come agli approfondimenti sulle più complesse figure geometriche: a sua volta, infatti, La Forge ripete a questo punto il consueto esempio delle diverse forme poligonali, per mostrare come via via venga estenuandosi l'apporto immaginativo alla comprensione intellettuale. Questo topos argqmentativo, omogeneo al matematismo dell'epistemologia cartesiana, consente di ottenere risultati tanto più persuasivi nella discriminazione tra le facoltà, quanto più il modificarsi della loro funzionalità appare graduale, oltre che immediatamente riscontrabile dal lettore in una sorta di test personale. Né sono possibili confusioni nel senso del gradualismo gassendiano (per cui il passaggio dall'uno all'altro livello di elaborazione equivarrebbe alla transizione da una maggiore a una minore determinatezza dei contenuti mentali); rimane anzi stabilito che l'intelletto è sempre in grado

43. Ivi, III, p. 10 dell'opera); p·er le Notae VIII(2), 357-359 e 366. 44. L. de La Forge, 45. Ivi, XVIII, pp.

(ma le citazioni sono frequenti e disseminate nel corso cartesiane si vedano in particolare le seguenti pagine: AT Tractatus, X, p. 54. 146-147 (ed. fr. p. 263).

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di offrire proprie corrispondenze alle rappresentazioni dell'imaginazione, mentre la reciproca non vale: la distinzione è comunque chiara e sotto questo profilo non sembra affatto importante fissare esattamente il punto nel quale la facoltà immaginativa cessa di dar luogo a figure ben delimitate. Può essere utile richiamare al riguardo un passo della Ricerca della verità, dove Malebranche rieccheggia l'ormai noto tema geometrico, proponendone un dettagliato approfondimento.: ... non tutte le cose che si presentano all'immaginazione possono venire immaginate con eguale facilità, perché non tutte le immagini impegnano in pari misura la capacità dello spirito. E' più difficile immaginare un solido che una figura piana e una figura piana che una semplice linea: vi è infatti più pensiero nella chiara visione di un solido che nella visione chiara di una figura piana e di una linea. Lo stesso accade per le differenti linee: ci vuole più pensiero, ossia maggiore capacità di spirito, per tap~ presentarsi una linea parabolica o ellittica ... che per rappresentarsi la circonferenza d'un cerchio ... perché è più difficile immaginare delle linee che vengono descritte mediante movimenti molto compositi e che hanno parecchi rapporti, di quanto non lo sia immaginare linee, che si descrivono con movimenti semplicissimi o che hanno meno rapporti. Siccome i rapporti non possono essere chiaramente percepiti se non in virtù dell'attenzione dello spirito rivolta a molte cose, è infatt·i tanto più necessario il pensiero a percepirli, quanto più grande è il loro numero. Vi sono dunque delle figure così composte, che lo spirito non ha bastante estensione per immaginarle distintamente, ma ve ne sono pure altre che lo spirito immagina con molta facilità 46 .

Interessato agli aspetti psicofisiologici dell'immaginazione e alle sue conseguenze sull'equilibrio interiore (si vedano le prime tre parti del secondo libro della Ricerca nonché il IX Eclaircissement), Malebranche riprende nei termini su esposti la questione a proposito della discussione sul metodo; nel rilevare le circoscritte possibilità operative della facoltà sul piano dell'attività conoscitiva, egli ne rende conto in base alla limitata capacità dello spirito, ossia, più precisamente, in base a specifiche carenze attinenti alle prestazioni immaginative e su-

perabili dallo spirito mediante il ricorso all'unica sua determinazione essenziale: il pensiero, appunto quel « pensiero sostanziale ... capace di ogni sorta di modificazioni o di pensieri», a cui inerisce l'« intel-

46. N. Malebranche, De la recherche de la vérité, VI,I,iv, in Oeuvres complètes de Malebranche, edite sotto la direz. di A. Robinet, 20 volL, Paris, 19581967, più gli indici (la Recherche e gli Eclaircissements occupano i primi tre voll. dell'ediz. e sono a cura di G. Rodis-Lewis con una premessa di H. Gouhier), T. II, pp. 278-279.

330 letto puro », il quale ci permette di « conoscere gli oggetti esterni, senza che se ne formino nel cervello immagini corporee per rappresentarli » 47 • Questa esplicita indicazione ci riporta al nodo centrale della polemica di Gassendi contro Descartes e basterebbe un esame appena più accurato del contesto malebranchiano per riconoscere quanto sia stretto, attorno a quell'enunciato, l'intreccio tra problematica gnoseologica e istanze metafisiche. Tralasciando il secondo aspetto e richiamando, in relazione al primo, le già considerate critiche di Gassendi, sembra lecito affermflre che nella prospettiva cartesiana non è essenziale chiarire in che cosa precisamente consista l'idea intellettuale di un chiliogono o di una complessa figura solida, perché, al di là delle definizioni, si può fare affidamento su due constatazioni, che si ritiene abbiano consistenza 'fattuale', e su una certezza metafisica. Quest'ultima è ovviamente rappresentata dalla posizione della sostanza pensante, mentre le prime due riguardano, da un lato, il progressivo svanire delle immagini e, dall'altro, la rilevazione di certe caratteristiche della prassi conoscitiva, da cui emerge come anche riguardo ai modelli figurativi più schematici della geometria essa proceda verso nuove acquisizioni ed elabori « dimostrazioni » senza dover necessariamente dipendere da quei. supporti estranei al «pensiero», che possono bensl giovare talvolta, ma che in nessun caso autorizzano ad escludere la disponibilità - metafisicamente fondata di idee intellettuali pure. La discontinuità dell'universo mentale è scandita secondo i parametri offerti dall'eterogeneità e dall'unione delle sostanze, che compongono il soggetto; ma almeno nella sfera della conoscenza vera i cartesiani colgono la continuità nella natura ideativa dei contenuti mentali, laddove Gassendi preferisce far seguire all'ambito delle , le aggiunte interlineari fra i segni >

externorum

Veritates rationis, quas criterium etiam pro veritatibus facti praebere diximus, aut sunt primitivae, > aut derivativae. < [Nempe] > Primitivae sunt < identicae, quae probationem [nec] rursus nec requirunt nec admittunt [aut sunt]. Derivativae > sunt < in quibus connexio praedicati cum subjecto non apparet [ 1. manifeste sed dem 2. argume .3. medio aliquo in] immediate, sed medio interposito est ostendenda. Quod :fit argumentis vel demonstrativis, vel sola similitudii;1e nixis. Nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu, nisi ipse intellectus ejusque [attributa et operati] praedicata.

f.

1J V Ex sola [cognita] posita possibilitate Dei, > necessario < sequitur ejus existentia actualis. Et ita Dei solius existentia < demonstrari potest a ,priori; ut contra existentia mentis prima est [ver] existentiarum quae noscuntur a posteriori seu per observationem. > In corpore praeter extensionem, id est continuam < simultaneam > ejusdem > naturae < diffusionem, agnoscendum est, quidnam sit illud quod diffundatur. Id autem [est resistentia] consistit in passivo seu mareriali, nempe resistentia, [quod] quae in corpore omni est eadem, proportione extensionis; et in activo seu formali, nempe entelechia, quae facit ut in omni corpore [sit] sit vis agendi seu nisus, tam primi < tivus et perseverans> [tivus, quam varie limitatus] quam secundarius ex variis corporum cuncursibus resultans. Adaequati conceptus turo demum a no bis habentur, curo possibilitas eorum > a priori < demonstrari potest ac tum demum tuto pronuntiari potest quae coniungi possint vel non possint. Itaque frustra quidam ex ideis suis inferte volunt corporis naturam in extensione existere, aliaque id genus. Cum lucem, colorem, calorem, etc. corporibus tribuimus, intelligimus non sensuum nostrorurri prototypa, sed fondamenta, quibus cum [nostro] sensorio combinatis oriuntur motus, quorum > demu·m < repraesentationes [in mente] < in anima > constituunt sensum. Parvi usus est praeceptum, ut res dare distincteque nosse conemur, nisi clarae distinctaeque notitiae [et] criteria dentur. [Hu] Hujus criterii defectus facit, ut [neque] saepe sciamus quae nos putamus ignorare, et ignoramus quae nos putamus scire. Criterium consistit [ut] in eo ut eae demum i stratis, quae reductae sunt ad indemonstrabiles; quales guae sint jam est explicatum. < Nempe quicquid > in ideis [ explicationem] declarationem, in veritatibus < probationem admittit, illud eandem requirit; etsi non ubique nec semper; jure enim aliquando ad instar axiomatis aut postulati [sumìtur] vel etiam hypothesis assumitur [ne nimis in pro] > veritas [etiam] quae probationem recipit, nempe < quando magis [l. de 2. ad usum quonia 3. de analysi perfecta

353 agitur 4, analysin perfectam 5. id quaeritur ut respicitur 6. postremo] de conclusionibus [de colligendis inde conclusionibus] utilibus inveniendis, quam principiis constituendis solìciti sumus, Unde ipsi Geometrae Axiomata assumsere.

>

Veritates necessariae non indigent ad demonstrandum supposita veracitate Dei sed veritates contingentes indigent ad existen [tiam] < duro > sapientia et potentia Dei. < Ad perfectionem cognitionis nostrae ideae quae possunt (id est aliquid obscu~i habentes) [ideae obscurae] debent declarari; veritates quae possunt [debent probari] (id est aliquid dubitabilis habentes) debent probari. Declaratio est reductio idearum usque ad [pri] claras, seu primitivas [quoad] > secundum < nos. Probatio est reductio veritatum ad certas seu pdmitivas [quoad nos] secundum nos. [Explicatio est reductio idearum ad primitivas per se ... ] Sed aliud est [perfecta] declaratio ab explicatione [veritatum] idearum in primitivas [1. absolu 2. abso 3. secundum se; et aliud probatio in se], seu in prima possibilia; et aliud [ est probatio quam reductio idearum] est probatio a17 >

f.

14 r

Ratione mentis nobis competit cogitatio < activa seu [cum] > intellectus curo < voluntate > [ ,] ratione corporis [resistentia > passiva < ; ratione unionis harmonia inter cogitationes mentis et] extensio [passiva] > resistens unionis harmonia inter actiones animae, et passiones corporis. Respondetque extensio intellectui, resistentia voluntati. Ex qualitatibus sensibilibus [solae illae reales] nihil aliud est reale quam vis [agendi] et resistentia, < seu 't'Ò 8uvaµi,x6v. Caetera imaginationi > vel opinioni < seu 't'({) v6µ4> debentur. [Extra] Praeter materiam admittenda est entelechia quae in omni corpore organico est animae analoga. Motus quantita [tis] s in mundo non est determina [tione] ta, sed quantitas virium absolutarum, et quantitas actionum per se sumtarum. Spatium non est corpus [sed quidam] > nec substantia sed < orda possibilium coexistentiarum, ut tempus > est ardo < possibilium mutationum. [Et illuminat omnia in natura] Postquam semel principia [ consist] physicae consti tuta sunt > vel < ex metaphysica [conclusiones vel] a priori, vel ex observationibus a posteriori; conclusiones deinde ex principiis ducuntur auxiliante ·Mathesi. Exempl. gr. postquam natura [patente] virium ex [mathesi probe expl] metaphysids probe explicata est, ostenditur deinde per mathesin centrum gravitatis concurrentium progredi aequabiliter. Sic ubi per experientiam constitutum est, radios lucis agere in linea recta, colligitur illuminati puncta da'ta objectorum in ratione duplicata reciproca distantiarum a radiante. b. La frase è interrotta nel testo.

« VOYAGER EN ESPRIT»: IL VIAGGIO IMMAGINARIO NELLE UTOPIE LIBERTINE FRANCESI DEL SECONDO '600

di Paolo Farina L'utopia è l'esperimento in cui si osservano la probabile trasformazione di un ~lemento e gli effetti che essa produrrebbe in quel complicato fenomeno che chiamiamo vita. (Robert Musi!, L'uomo senza qualità, II,61)

1. Utopia priscis dieta, ob infrequentiam, Nunc civitatis aemula Platonicae 1 Portasse victrix (nam quod illa literis, Deliniavit, hoc ego una praestiti, Viris et opibus, optimisque legibus) Eutopia merito sum vocanda nomine.

versi sull'isola di Utopia del poeta laureato Anemolio, riprendendo un motivo caro a Pieter Gilles, mettono a fuoco l'elemento di novità deJl'opera di Thomas More: la /ictio di una città ideale, rappresentata ( expressa, depicta, oculis subiecta, scriveva Gilles con in~ calzante progressione retorica) grazie aJla testimonianza di un testimone oculare, quel Raffaele I tlodeo che « non riportava cose apprese da altri, ma vedute coi propri occhi e fra le quali si era trovato a vivere per un lasso di tempo non breve » 1 • Si affermava neJl'opera di More uno dei due paradigmi del discorso utopistico deJl'età moderna, queJlo del viaggio immaginario. La genialità e il successo dell'opera di Thomas More - ha scritto Bronislaw Baczko - risiedono nell'invenzione di un paradigma che risponde alla curio.sità dell'epoca per le terre lontane, che si presta splendidamente all'esercizio dell'immaginazione sodale mediante un giuoco di specchi fra l'immagine della società globale e le immagini del quotidiano, che coniuga la serietà della critica morale e sociale ad un libero gioco intellettuale, umanistico e dotto 2• 1. V. la lett.era di Gilles a Busleyden del 1° nov, 1516 (la traduzione è di L Firpo, che ha curato l'edizione utilizzata dell'opera per Neri Pozza, Vicenza, 1978). 2. In L'utopia. Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell'età del-

355 Raffinato ludus dell'intelligenza, ispirato alla letteratura viatoria in rapida espansione, l'Utopia di More dà vita ad una struttura formale (il punto di vista dell'estraneità), tale da sorreggere l'esercizio critico dell'immaginazione sociale: Raffaele Itlodeo, il « viaggiatorefilosofo », è il prototipo dei protagonisti di viaggi immaginari; la sua esperienza di testimone oculare di realtà non più fantastiche o impossibili, ma solo ignorate, è paradigmatica e risponde pienamente al « souci de crédibilité », che caratterizza l'utopia dei viaggi immaginari 3 • Il viaggio è un serbatoio inesauribile di esperienze, e non stupisce che gli autori si siano atteggiati a viaggiatori: la finzione permette loro di dar corpo e plausibilità alla pluralità di modelli e forme di vita incompatibili con quelle dominanti, proposte dalla tradizione giudaico-cristiana. Non era d'altronde difficile adottare questo espediente per autori abituati a ricercare nei libri, nelle testimonianze del passato, la diversità. L'erudizione ha aperto la strada alla finzione, posta al servizio dello spirito critico. Il viaggio immaginario è insomma il grande inventario della diversità: nell'impossibilità di intraprendere reali esplorazioni, gli autori « pouvaient au moins voyager en esprit », secondo una bella espressione di Chinarci. « Multum debet Utopia Hythlodeo per quem innotuit indigna quae nesciretur; plus eruditissimo Moro, cuius penicillo nobis tam scite depicta est » 4. Ancora sulla /ictio. Il motivo ricorre ms1stente nell'epistolario che si intreccia intorno all'Utopia, riecheggiando l· parole dello stesso Itlodeo: Verum si in Utopia fuisses mecum, moresque eorum atque instituta vidisses praesens, ut ego feci, qui plus annis quinque ibi vixi [ ... ] turo plane faterere, populum recte institutum nusquam alibi te vidisse quam illic (p. 82).

Sulle procedure metodologiche che danno vita alla /ictio di uw Città ideale rappresentata dal penicil/um di More, ha scritto pagine l'illuminismo, Einaudi, Torino, 1979, p. 24; per altre indicazioni, in particolare per gli accenni statistici sulle pubblicazioni di viaggi immaginari fra '600 e '700, V.

PP- 41-45.

3. L'espressione è di R. Trousson, di cui v. (soprattutto) Voyages aux pays de nulle part, Editions de l'Université de Bruxelles, Bruxelles, 1979; l'opera (con ricca bibliografia) è un'interessante storia dell'utopia in quanto genere letterario. Su Itlodeo «viaggiatore-filosofo» v. V. Fortunati, La letteratura utopica inglese. Morfologia e gram_matica di un genere letterario, Longo, Ravenna, 1979, pp. 56-59; interessante sul viaggio come costante retorica (« nel senso di Propp ») il cap. II. 4. V. la lettera di Jean Desmarais a Gilles del 1° dic. 1516.

356 penetranti Jtirgen Habermas in un saggio su « Dottrina politica classica e filosofia sociale moderna » 5 • Moro è giunto pragmaticamente alla convinzione che « dove c'è la pro~ prietà privata, dovunque si commisura ogni cosa col denaro, non è possibile che tutto si faccia con giustizia e tutto fiorisca per lo stato». Invece di intendere questa ipotesi come una proposizione di esperienza e tentare di provarla scientificamente, egli costruisce il modello di una costituzione fon~ data su condizioni corrispondenti a quell'ipotesi: se a questa .finzione può essere dato il carattere di un esempio nell'esperienza con sufficiente plausi~ bilità, senza cioè contraddire la precedente esperienza, è raggiunta la prova che un siffatto ordinamento sociale può essere rappresentato esistente a

condizioni empiriche (pp. 97-98). More costruttore di modelli: « prima che il metodo sperimentale fosse introdotto nelle scienze naturali, l'astrazione metodica dalla molteplicità delle condizioni empiriche viene saggiata qui » (p. 9 3 ). L'analisi di Habermas è ricca di indicazioni di lavoro, sollecita ad una verifica più ampia. Il viaggio immaginario non più solo come struttura formale che dà corpo al punto di vista dell'estraneità, ma come /ictio della ragione progettuale 6, luogo di esercizio del metodo speri• mentale: è ben un 'ipotesi stimolante. L'indagine ripercorre queste due funzioni concatenate del viaggio immaginario in un orizzonte circoscritto, in alcune utopi~ francesi del secondo '600 di autori legati al milieu libertino 7 . E' opportuno anticipare - anche se ciò richiederà un excursus - le conclusioni dello 5. In Prassi politica e teoria critica della società, II Mulino,. Bologna, 1973, pp.77-125. Su un altro piano, non storiografico, sono da tenere presenti le pagine di R. Ruyer sull'utopia come expérimentation mentale (in L'utopie et les utopies, Presses Universitaires de France, Paris, 1950, pp. 9-26). 6. Sul valore normativo del progetto utopico moreano v. (soprattutto) la lettera di Busleyden a More deII'inizio di novembre del 1516, e quella di Budé a Lupset del 31 luglio 1517. 7. S. C. de Bergerac, Histoire comique contenant les états et empires de la Lune, e Histoire comique des états et empires du Solei! (pubblicati postumi, ri* spettivamente nel 1657 e nel 1662); Gabriel de Foigny, La Terre Australe connue (1676); D. Vairasse (o Veiras), Hìstoire des Sévarambes (la prima parte dell'opera era apparsa in inglese nel 1675; la prima pubblicazione integrale francese è del 1677-79); B. Fontenelle, La République des philosophes ou Histoire des Ajaoiens (edita nel 1768, ma scritta presumibilmente nel 1683); C. Gilbert, Histoire de Cale;ava (1700); S. Tyssot de Patot, Voyage et avantures de ]acques Massé (1710), Sul piano bibliografico l'opera fondamentale, sebbene risalga al 1941, resta Ph. Babcock Gove, The Imaginary Voyage in Prose Fiction, The Holland Press, London, 196C. L'autore si è mosso sul terreno dell'analisi critica delle diverse definizioni del genere, per fornire una « History of the Critidsm of the Imaginary~ Voyage », cui fa seguito ne!Ia seconda parte del libro - una preziosa « Annota* ted Check List of Two Hundred and Fifteen Imaginary Voyages from 1700 to

357 scritto (meglio sarebbe scrivere ipotesi di lavoro, da verificare ulteriormente)'· In giuoco non è solo la tesi di Habermas sull'introduzione del metodo sperimentale nell'utopia, ma anche il corollario che la sua verìfica comporta negli autori presi in considerazione, circa il progressivo abbandono, nel libertinismo del secondo '600, del primitivo scetticismo in favore di un· guardingo razionalismo critico, cui si collega un giudizio, tendenzialmente diverso, sulla funzione e il ruolo dell'intellettuale nella sfera pubblica, politica e sociale 9 • Mi pare infatti che, nell'ambito specifico dell'utopia, pur in modo né lineare né esente da incertezze e oscillazioni, come si vedrà, la rassegna dei diversi modelli culturali e delle. molteplici e differenziate forme di vita politica, sociale, economica, non si risolva in esiti scettici, proponendosi viceversa colla critica della realtà effettuale la costruzione di modelli suscettibili di orientare la prassi storica. Tutto ciò è riconoscibile soprattutto in Fontenelle, la figura di maggior spessore teorico del gruppo di autori presi in esame. 1800 ». Non molti sono i titoli importanti utili ad integrare la bibliografia di Gove; alcune opere monografiche sui singoli autori o problemi presi in esame sono citate nelle altre note. Non compare citato in Gove, per ·ovvi motivi cronologici, l'opera di M. Hope Nicolson, Voyages to the Moon, The MacMillan Company, New York, 1948, né lo studio di P. Cornelius, Languages in Seventeenth and Early Eighteenth Century Imaginary Voyages, Droz, Genève, 1965 (con ricca bibliografia sul tema che più di ogni altro, forse, ha attirato l'attenzione degli studiosi di viaggi immaginari). In Trousson sono reperibili con altri titoli di minor interesse precise indicazioni sui repertori bibliografici sulle fonti seicentesche (op. cit., pp. 272-273.) 8. Ciò spiega la struttura del testo, costruito quasi attraverso l'accostamento di schede: per ragioni di spazio, ma s0prattutto perché le riflessioni seguenti costituiscono le tessere di una ricerca in fieri. 9. Su « Come giudicano la 'politica' libertini e moralisti nella Francia del seicento» v, il saggio di A. M. Battista (in Il libertinismo in Europa, a cura di S. Bertelli, Ricciardi, Milano-Napoli, 1980, pp. 25-80; per un approfondimento dell'indagine della Battista v. ora il contributo negli atti del convegno dedicato a Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel seicento, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pp. 321-351); ma non va trascurata l'ottima sintesi de« Il pensiero politico dei libertini )> di V. I. Comparato (in Storia delle idee politiche economiche e sociali, diretta da L. Firpo, voi. IV, L'età moderna, Utet, Torino, 1980, pp. 95-164). I due lavori concordano nell'analisi del rapporto (di estraneità) dell'intellettuale colla politica, proposto dai libertini (Battista, percorrendo collo sguardo un orizzonte più ampio, riconosce nell'etica nuova, caratterizzata dalla scissione io-società, il punto di convergenza tra « libertini e moralisti»: « dal circolo dei fratelli Dupuy a Port-RoyaL », p. 45). La posizione di Montaigne (« Egli non crede che si possa trasformare la realtà: il fallimento del progetto umanistico di riforma intellettuale e morale ha lasciato dietro di sé una varietà irreconciliabile di frammenti umani. Come non è consentita una filosofia, ma solo un'antropologia empirica, così non si può dare un progetto politico ma una sorta di prassi ragionevole», Comparato, op. cit., p. 102) annuncia le prospettive future da Charron sino al Theophrastus (Su quest'ultimo v. quanto scrive G. Canziani nel suo contributo a Ricerche sulla letteratura libertina ... , cit., in particolare pp. 112-115).

358 Un rapido confronto fra gli Essais di Montaigne e la produzione fontenelliana degli anni ottanta mette in luce lo scarto ipotizzato. Les loix de la conscience, que nous disons naistre de la nature, naissent de la coustume. [ ... ] De vray, parce que nous les humons avec le laict de nostre naissance, et que le visage du monde se presente en cet estat à nostre premiere veue, il semble que nous soyons nais à la condition de suivre ce train. Et les cornmunes imaginations, que nous trouvons en credit autour de nous et infuses en nostre ame par la semence de nos peres, il semble que ce soyent les generalles et naturelles 10 ,

Passaggi di chiara contestazione di una première nature (ma gli esempi potrebbero facilmente moltiplicarsi): l'uomo è per Montaigne il prodotto di un condizionamento culturale attivo addirittura prima della nascita e della vita cosciente (il seme del padre e il latte della nutrice ne sarebbero i primi veicoli) e persistente nel tempo tramite l'inw cessante assimilazione, spontanea e involontaria, di ogni sorta di nutrimento culturale. La coustume è una seconda natura; nulla può essere definito naturale, espressione immediata e genuina della natura umana: questa, seppure esisteva originariamente identica e omogenea, si è ·risolta nella coustume. Questi presupposti teorici si aprono, nella pagina di Montaigne, alla teorizzazione della peculiare posizione del saggio, distaccato dal mondo, e del conservatorismo in sede politica: « qui se mesle de choisir et de changer, usurpe l'authorité de juger », ma è « très-inique de vouloir sousmettre les constitutions et observances publiques et immobiles à l'instabilité d'une privée fantaisie (la raison privée n'a qu'une jurisdiction privée) » 11 , Il saggio De la vanité, riassumendo i motivi accennati colla conclusione che « le monde est inepte à se guerir » (p. 935), va oltre, sviluppando una critica recisa delle utopie, « ridicules et ineptes ii mettre en practique [ ... ] altercations propres seulement à l'exercice de nostre esprit [ ... ] subjects qui ont leur essence en l'agitation et en la dispute, et n'ont aucune vie hors de là» (p. 934). Questo è il vizio d'origine della immaginazione utopica: non tiene conto della realtà effettuale degli uomini, del loro essere già rigidamente ed irrimedia-

10. Essais, I, 23, p. 114 (cito dalle Oeuvres complètes, Gallimard, Paris, 1962). 11. Posizioni analoghe in Charron, De la Sagesse, Londra, 1769, pp. 334-35( e La Mothe Le Vayer, Cinq autres dialogues ... , IV. De la politique, Francoforte, 1606, pp. 239-360.

359 bilmente strutturati dal condizionamento culturale, cui non è possibile sottrarli; in una parola, l'utopia è vuota astrazione. Telle peinture de polke seroit de mise en nouveau monde, mais nous prenons les hommes obligez desjà et formez a certaines coustumes; nous ne les engendrons pas, comme Pyrrha ou comme Cadmus. Par quelque moyen que nous ayons loy de les redresser et renger de nouveau, nous ne pouvons guierep le tordre de leur ply accoustumé que nous ne rompons tout (p. 934 ).

Un nouveau monde1 dove cioè sia possibile sottrarsi al dominio della coustume, un mondo incontaminato né contaminabile da opinioni, abitudini, pregiudizi, è una chimera e l'utopia che lo disegna, un giuoco inutile e pericoloso. Lo stato d'altronde non sopravvive malgrado questi mali, ma si organizza e raggiunge un suo equilibrio proprio grazie al gioco delle passioni e di forze cieche e incontrollate: je vois par nostre exemple que la société des hommes se tient et se coust 1

à quelque pris que ce soit. En quelque assiete qu'on les couche, ils s'appilent et se rengent en se remuant et s'entassant, camme des corps mal unis qllon empoche sans ordre trouvent d'eux mesme la façon de se joindre et s'emplacer les uns parmy les autres, souvant mieux que l'art ne les eust sçeu disposer. Le Roy Philippus fit un amas des plus meschans hommes et incorrigibles qu'il peut trouver, et les logea tous en une ville qu'il leur fit bastir, qui en portoit le nom. J'estime qu'ils dressarent des vices mesmes une contexture politique entre eux et une commode et juste societé 12 •

In conclusione: non esiste una identica omogenea natura umana e, semmai è esistita originariamente, è degradata nella coustume/ l'esito dello scetticismo è un atteggiamento di conservazione in sede politica e di diffidenza per ogni disegno di rinnovamento, per l'immaginazione utopica. Non sono queste le tesi rintracciabili in Fontenelle: il quale rivendica l'identità della natura dell'uomo 13; pur riconoscendo il peso 12. Essais, III, 9, p. 933. Su una prima fase scettica fontenelliana, riecheggiante queste posizioni di Montaigne, e sul suo progressivo consumarsi v. gli studi di A. Niderst (Fontenelle à la recherche de lui-méme (1657-1702), Nizet, Paris, 1972), di G. Lissa (Fontenelle tra scetticismo e nuova critica, Morano, Napoli, 1973) e di M. T. Mardalis (Fontenelle, un filosofo mondano, Gallizzi, Sassari, 1978). 13. V., per gli anni '80, l'Histoire du Romieu de Provence, II, p. 451 (uso l'edizione delle Oeuvres complètes di Fontenelle curata dal Depping, ristampata da Slatkine, Genève, 1968), e Digression su les anciens et les modernes, II, p. 353. S. Landucci (in I filosofi e i selvaggi. 1580-1780, Laterza, Bari, 1972, pp. 62-63) ha visto in pagine come queste, accostate in prospettiva ad altre esemplari di Voltaire, « una rivendicazione 'moderna' [ ... ] contro l'insistenza seicentesca sulla varietà rivelata dalla storia e dall'etnografia, quand'essa giungesse al limite di contestare, per l'appunto, la première nature».

360 dell'educazione, contesta « la prévention de la corruption de nature » 14 ; da ultimo, non senza esitazioni e oscillazioni, viene ritagliando uno spazio in cui la ragione, sottratta alle secche dello scetticismo, possa eset•· citare legittimamente la sua attività progettuale 15 • 2. « Ainsy peut-estre [ .. ] se mocque-on maintenant dans la lune de quelqu'autre, qui so.ustient que ce globe cy est un monde ». Cosl Cyrano 16, in apertura de L'Autre Monde, riassume la sua prospettiva relativistica, riaffermando quanto con Montaigne era divenuto patrimonio di un versante della cultura europea, l'universalità del fenomeno dell'etnocentrismo. Radice di questa acquisizione - è noto - è l'esperienza della diversità, che sostanzia i viaggi interplanetari di Cyrano. « Je ne sçaurois m'esclaircir de ce doubte si je ne monte jusque là. Et pourquoy non? [ ... ] Promethée fut bien autrefois au ciel derober du feu» (p. 8). L'ascesa alla luna come progetto prometeico: il viaggiatore-narra14. Histoire des Ajaoiens, p. 51 (uso la ristampa anastatica della prima edizione eseguita da Leschiera per Edhis, Paris, 1970). Come dimenticare d'altronde la Digression del1'88? « Les hommes ne dégénéreront jamais ,> (II, p. 362). Nella prospettiva del lavoro l'idea di progresso che si afferma con Fonteneile si carica di significato, se appena si pensa alla concezione ciclica della storia dominante, ad es., in Naudé (su« Fontenelle e l'idea di progresso» v. il saggio di Pizzorusso in Belfagor, vol. XVIII, 1963, pp. 150-180). 15. Non senza esitazioni e oscillazioni: il quadro in Fontenelle e nelle utopie esaminate è indubbiamente mosso; tuttavia non mi pare che sia del tutto da condividere la tesi di Antonio Negri che in un importante saggio (« Problemi di storia dello stato moderno. Francia: 1610-1650 », Rivista critica di storia della filosofia, vol. XXII, 1967, pp. 182-220), inquadrando il libertinismo nell'evoluzione dello stato moderno e nel processo di ripiegamento della borghesia dopo la crisi del progetto rivoluzionario rinascimentale, vede nelle utopie libertine l'estrema manifestazione -del vagheggiamento nostalgico dell'ideale umanistico (« la nostalgia si riconosce impotente ed è l'utopia che si presenta a concludere 1a trama dello sviluppo intellettuale del libertinage nella seconda metà del secolo», pp. 198-199). Utopie della fuga? Il pessimismo di Foigny, come si vedrà, potrebbe esserne una conferma; più problematico utilizzare questa chiave di lettura per autori come Vairasse e (soprattutto) Fontenelle. Come ha scritto Adam (in Les libertins au XVII" siècle, Buchet/Chastel, Paris, 1964, p. 25) a proposito delle ut0pie di Vairasse e Foigny, « leurs 'utopies' n'en apportaient pas moins à la tradition libertine un cumplément capital [ ... ] Ils [Théophile de viau, Vauquelin, Des Barreaux, Chaulieu] n'auraient pas songé qu'il fUt possible de reconstruire la societé pour la conformer à ce reve. L'idée meme [ ... ] ne les aurait pas intéressés. C'est pourtant cette idée qui anime Denis Veiras et Gabriel de Foigny ». 16. L'interesse per Cyrano pare essersi ridestato in questi ultimi anni, che hanno visto comparire due edizioni critiche delle opere del libertino. Madeleine Alcover ha curato il testo de Les Estats et Empires de la Lune, Champion, Paris, 1977; a J. Prévot si debbono la pubblicazione delle Oeuvres complètes, Belin, Paris, 1977, e le monografie più recenti ~ulla multiforme attività dello scrittore libertino, l'una e l'altra per i tipi di Belin: Cyrano de Bergerac romancier, Paris, 1977, e Cyrano de Bergerac poète et dramaturge, Paris, 1978.

361 tore s'investe della missione di rubare il fuoco agli dei; il viaggio immaginario assume i contorni di una ricerca della verità, di una avventura filosofica. Rivela al viaggiatore lo spettacolo del mondo, quella irriducibile varietas morum che aveva promosso col relativismo cultu rale un nuovo razionalismo) ossia « la tendenza a tiformulare i crited di valore in base a cui giudicare gli usi dei diversi popoli, a riformularli come criteri autonomi rispetto ai diversi sistemi assiologici propri delle varie culture » 17 • L'esperienza del mondo assume la forma del viaggio 18 , il quale, se rimanda inequivocabilmente alla realtà storica, alle navigazioni transoceaniche e alle relazioni di viaggiatori ed esploratori, background ci· gran parte della riflessione filosofica dal rinascimento all'età dei lumi si configura anche come dispositivo dell'immaginazione sociale e del suo esercizio critico.« Vous vous estonnés [ ... ] d'une coustume si contraire à celle de vostre pays. Elle ne repugne point touttefois à la droite raison » (p. 130): la ragione, come libera facoltà creatrice, viene elaborando una struttura formale, il punto di vista estraniato, che tanta fortuna avrà nel settecento, funzionale alla descrizione (positiva o ire nico- negativa) della società utopica e al confronto-opposizione di modelli e di forme di vita politica, sociale, economica, di cui si alimenta l'utopia.

17. S. Landucci, op. cit., p. 30. 18. In Cyrano e in Tyssot de Patot, l'altro estremo della ricerca: « Vous savez que ce n'est ni le lucre, ni la gloire, qui nous a attirez id [ ... ] notte but prindpal est de courir, et de découvrir des nouveautez» (Voyages et avantures de Jacques Massé, Bordeaux, 1710, p. 101; la monografia più recente su Tyssot de Patot and His Work è di A. Rosenberg, Nijboff, Tbe Hague, 1972, alla cui bibliografia rimanda questa nota). La découverte d'un trés beau Pdis, il regno di Butrol, sulle cui coste Massé è gettato coi compagni di sventura da un naufragio, comprende meno della metà dell'opera,« Que cherchez-vous, mes Amis [ ... ], des Trésors et des Empires? Qu'avons-nous besoin d'autres choses que de médiocres alimens, et d'un simple vetement? Vous étiez dans un lieu où vous jouissiez de ces deux avantages à la fois: tout le monde y est égal, il n'y a que quelques personnes pour qui les autres ont une perite déférence volontairc, à cause de leurs Vertus, et des soins qu'ils pren nent d'administrer la Justice parmi eux; vous étiez meme familiers avec le Rois, qui vous nourrissoit de la graisse d'un Pals abondant et fertile, d'un Pa'is de bénédiction et de paix, d'où les Soldats, aussi bien que Jes Bourreaux, sont bannis, et où le sang de l'homme est sacré et à l'abri de la rage et de la tyrannie des Grands: que vouliez-vous davantage, je vous en prie? » (pp. 373-374): nelle parole di rimprovero dei compagni, sorpresi che Massé e La Forét abbiano abbandonato il Pals de bénédiction, risuona il rimpianto per il paradiso perduto. « Toute cette Morale est inutile, reprit La Forét, nous en sommes sortis, et nous n'y rctournerons point }> (p. 374): Citera, l'isola felice dell'immaginario settecentesco, appare all'orizzonte per sfumare tra le nebbie in una lontananza mitica. La descrizione del « Pa'is enchanté }> (p. 131) risponde d'altronde a un doppio criterio, al criterio geometrico

362 Ne L' Autre Monde il viaggiatore-narratore, quando altri non è che un indefinito « je », è nominato Dyrcona, anagramma dell'autore (« Cyrano d[e] »). Identificare tuttavia, tout court, il soggetto narrante con lo scrittore libertino significherebbe distorcere il testo, perdere di vista il congegno formale del racconto. Cyrano si distingue talora da Dytcona per riconoscersi in altri personaggi. Ne Les Estats et Empires de la lune, il Demone di Socrate consegna al narratore in prima persona grammaticale un libro, Les Estats et Empires du Solei!: è col Demone che in questo passaggio l'autore si identifica. D'altra parte, nel soggetto narrante è rappresentata più volte l'umanità corrotta dai vizi e dai pregiudizi, oggetto di derisione e di condanna da parte degli abitanti del Sole e della Luna, che incarnano la natura e la ragione incontaminate. A seconda della identificazione o meno del narratore coll'autore, si offre così a quest'ultimo l'opportunità della satira. L'adozione di un punto di vista estraniato si propone come un potente strumento critico, conseguente al relativismo culturale e al razionalismo dello scrittore libertino; disegna un « monde renversé » (p. 157): in Cy.. rana e negli altri autori qui presi in considerazione. « Ses raisons [ ... ] renversoient toutes nos loix », dirà infatti Sadeur ne La Terre Australe 19

della ragione, preoccupata di ordine e regolarità, e all'altro, flamboyant, teso a produrre l'incantamento attraverso l'accumulo, in certi passaggi, di particolari mera~ vigliasi. Il Pats enchanté assume i contorni di un modeilo soltanto mentale. Abbandonato il regno di Butrol, riprendono le peregrinazioni di Massé; gli· entretiens ·sulla morale e suila religione (« Tyssot est bien l'un de ces hommes nourris des manuscrits dandestins qui drculaient sous le manteau », Trousson, op. cit., p. 114) s'intrecciano con avventure picaresche: un vero e proprio viaggio, sia pure immaginario, attraverso la varietas morum, attraverso l'intolleranza e i pregiudizi, che ha il sapere di una ricerca della verità. Van Siee (in « Simon Tyssot de Patot professeur à l'école illustre de Deventer (1690-1727) .. Sa vie et ses oet1vres », Revue du Dix-huitième siècle, vol. IV, 1917, pp, 200-219) ha inteso la relation de voyage come « un cadre commode pour y glisser ses réflexions les plus osées » (p. 216), sottolineando un motivo su cui gli interpreti hanno invariabilmente insistito. Il viaggio immaginario come espediente per sfuggire ad un regime di illibertà intellettuale? È plausibile, ma non meno rilevante mi pare la spiegazione tentata in questo paragrafo: il viaggio immaginario come strumento cognitivo. 19. De La Terre Australe ho utilizzato l'edizione di Lachèvre (Les successeurs de Cyrano de Bergerac, Champion, Paris, 1922, p. 101; M. T. Bovetti Pichetto ne ha curata una recente traduzione italiana per Guida, ·Napoli, 1978). Su L'utopie hermaphrodite di Foigny v. il recente studio di Piene Ronzeaud, Publication du C.M.R., Marseille, 1982 (in particolare le pp, 107 ss. sulla stratégie de la vrai-semblance nei viaggi immaginari). Su questi temi v. anche Georges Benrekassa, « Le statut du narrateur dans quelques textes dits utopiques », Revue du sciences humaines, vol. XXXIX, 1974, pp. 379-395.

363 « Notre but principal est de courir, et de découvrir des nouveautez, qui nous fassent plaisir » 20 • Découvrir) s'amuser, amuser: nell'età di Molière, nel momento in cui il grande commediografo metterà in scena a Chambord Le Bourgeois Genti/homme, colle musiche di Lully, non deve essere sottovalutato l'elemento romanzesco delie utopie francesi del secondo '600, la loro rispondenza al gusto del sensazionale e del meraviglioso diffuso tra un pubblico curioso di esotismo 21 • Tuttavia, l'elemento ideologico è sempre prevalente sull'elemento strettamente letterario. II viaggio immaginario è innanzitutto ricerca consapevole e accumulo di esperienze, strumento di decodificazione critica e satirica della realtà storica. Topos tanto più pregnante e significativo, se confrontato con la metafora del teatro presente in Montaigne e Charron.

Già teatro della memoria, emblema della misera e breve vita dell'uomo, pone ora sulla scena i prlncipi e i grandi, gli Stati e i popoli appena scoperti, le religioni con i loro riti e i loro dei. Spettatore è il filosofo [ ... ] La metafora del teatro testimonia [ ... ] la crisi e l'incapacità di ricostruire l'universo in uno schema definito

  • p. 328. 20. Le serate, dt., p. 344. 21. lvi, pp. 344-345.

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    be naturalmente • La stragrande maggioranza delle persone, si afferma verso la fine del sesto colloquio delle Serate, giudica (né può essere altrimenti) soltanto sulla parola di altri, per cui all'inizio è sempre un numero abbastanza esiguo di persone a determinare un'opinione, Quando queste muoiono, sopravvive l'opinione. I nuovi libri che appaiono non lasciano più il tempo di leggere gli altri, i quali in breye tempo verranno giudicati soltanto in base a una reputazione vaga, fondata su alcune caratteristiche generiche o su analogie superficiali e talvolta anche del tutto false ... La Harpe ha detto esplicitamente che « oggetto di tutto il Saggio sull'intelletto umano è dimostrare rigorosamente che l'intelletto umano è spirito e per natura essenzialmente distinto dalla materia », e ha aggiunto: « Locke, Clarke, Leibniz, Fénelon, ecc. hanno riconosciuto questa verità» (della distinzione tra le due sostanze), Si può desiderare una prova più chiara che questo famoso letterato non ha letto Locke? e potreste anche soltanto immaginare che avrebbe commesso l'errore (un po' ridicolo) di unirlo a sl degna compagnia se l'avesse visto esaurire tutte le risorse della dialettica più cavillosa per attribuire in qualsiasi modo il pensiero alla materia? » .... Lo stesso Voltaire ci ripete, in un'opera che è un sacrilegio, che « Locke è il Pascal inglese». Non mi accuserete, spero, di una cieca tenerezza verso François Arouet, Posso supporlo superficiale, malintenzionato, e soprattutto cattivo francese quanto volete; tuttavia non crederò mai che un uomo di tale gusto e tatto si sarebbe permesso un paragone cosl stravagante se avesse giudicato da solo ... Tale parallelo permette soltanto di supporre che Voltaire non CO· nobbe personalmente il Saggio sull'intelletto umano. Aggiungete poi che i letterati francesi dell'ultimo secolo leggevano pochissimo, anzitutto perché conducevano una vita assai dissipata, poi perché scrivevano troppo, infine perché l'orgoglio non permetteva loro neppure di supporre che avessero bisogno dei pensieri altrui. Uomini di tal fatta avevano altte cose da fare che leggere Locke; ho buone ragioni per sospettare che in genere egli non è stato letto da chi si vanta di averlo fatto, da quelli che lo citano e che perfino han l'aria di spiegarlo. È un grosso errore supporre che, per citare un libro facendo credere con sufficiente verosimiglianza di conoscerlo, sia necessario averlo letto tutto e con attenzione; basta leggere il brano o la riga di cui si ha bisogno, Si leggono alcune righe dell'indice; in base all'indice si sciorina il brano di cui si ha bisogno per appoggiare le proprie idee. In fondo non si cerca altro; che cosa importa il resto? C'è poi anche l'arte di far parlare quelli che hanno letto; ed ecco come può realmente accadere che il libro di cui si parla sia in effetti il meno conosciuto attraverso la lettura 23 • 22. Ivi, pp. 348-350. Cfr.: « Malheureusement une réputation ainsi établie ~st difficilement ébranlée. Elle dure d'abord pour une raison à laquelle on réfléchit peu: parce qu'on ne lit plus le livre ». Cinq paradoxes, dt., p, 329. De Maistre osserva la medesima cosa per quanto riguarda Bacone, ancora una volta accomunato con Locke. « Une fois qu'un préjugé quelconque ou une réunion de préjugés ont formé une certaine réputation philosophique, la foule raisonne d'après cette réputation et on ne lit plus l'auteur. Bacon et Locke sont les deux cxsemples dans ce genre: Beaucoup en ont parlé, mais bien peu les ont lus >>, Examen, cit., p. 527.

    23. Le serate, dt., pp. 348-350. Cfr. anche: « Leggete il Saggio, e avrete a ogni

    412 Di natura caratteriale, quasi psicologica sono invece le ragioni specifiche che De Maistre adduce per spiegare la matrice individuale degli errori di Locke. Essa viene individuata nel settarismo di fondo del suo spirito che lo portava ad attaccare quasi per partito preso ogni verità tradizionàle 24 • Tale settarismo ottunde la sua onestà e la sua buona fe~ de, e colloca, a giudizio di De Maistre, ogni suo discorso generale nella dimensione della più pura soggettività. Per rendere assolutamente irreprensibile fopera di Locke, osserva infatti De Maistre, basterebbe cambiarvi due parole: invece di intitolarlo Saggio sull'intelletto umano si potrebbe scrivere Saggio sull'intelletto di Locke: nessun'opera risponderebbe meglio al suo titolo 25 .

    Considerata nel suo insieme, la critica di De Maistre risulta essere molto debole nella struttura e nelle articolazioni, soprattutto per la parte che concerne la spiegazione, in cui viene a mancare qualsiasi elemento di necessità determinata. Le motivazioni sono, infatti, generiche e per nulla stringenti anche perché mancano completamente di senso storico. Difetto capitale, questo) che risalta ancor più se si paragona la spiegazione dell'errore di De Maistre con quella avanzata dagli odiati illuministi i quali, in modo efficace e storicamente molto fecondo, riuscirono) mercé la nozione di progresso, a situare in modo determinato le posizioni dottrinali antecedenti, anche quelle completamente diverse dalle loro, e a considerarle come momenti necessari di un processo conoscitivo dinamico. Le spiegazioni proposte da De Maistre non riescono a mediare soddisfacentemente i fatti, considerati empiricamente e casualmente dati, se non alla luce di un appello all'intuizione, assunta come categoria assoluta di giudizio, e più in generale di un provvidenzialismo radicale. I limiti strutturali della critica di De Maistre sono però in parte riscattati dalla capacità di intuizione e di penetrazione che il pensatore savoiardo rivela nei suoi scritti. Del resto l'efficacia di un procedimento che si basa quasi esclusivamente sull'uso della citazione, dipende in gran parte dall'intelligenza con cui vengono scelti i testi e dal grado di sotti-

    pagina l'impressione che esso sia stato scritto soltanto per contraddire le idee tradizionali, e soprattutto per umiliare un'autorità che urtava Locke oltre ogni dire.>-> p. 352. E inoltre, relativamente a Bacone: « Bacon, au reste, n'ayant aucun principe, aucune idée fixe, et n'écrivant que pour contredire, s'est trouvé conduit à soutenir précisément le pour et le contre sur cette méme question >>, Examen, cit., p. 142. 24. « Vi si ravvisa facilmente un uomo onesto, e anche giudizoso, ma ingannato da uno spirito settario che lo domina senza che egli se ne accorga o senza che voglia accorgersene», Le serate, dt., p. 339. 25. lvi, p. 338.

    413

    gliezza e di acume che si adopera nell'adattarli al proprio discorso e renderli significativi. Non stupisce quindi che gli obiettivi scelti da De Maistre nella sua polemica siano quelli giusti dal suo punto di vista: Locke e Bacone furono i veri archetipi dell'illuminismo nella coscienza stessa dei philosophes 26 • Non stupiscè neppure che il nerbo della sua critica a Locke, come pure di quella che rivolge a Bacone sia così ben centrato. Essa, infatti, nei due casi, è parziale, riduttiva, deformante, ma la superficialità di Locke e l'eterogeneità sostanziale del metodo di Bacone con quello della scienza moderna che De Maistre sottolinea così energicamente, costituiscono punti di effettiva debolezza nella concezione dei due corifei dell'illuminismo.

    26. A Bacone, è noto, De Maistre rivolge anche l'accusa specifica di essere l'antesignano della concezione, accolta dagli illuministi, che dà alla scienza un posto centrale nella cultura. Su questo punto le idee di De Maistre erano molto chiare. Si veda quanto afferma nelle Serate: « In altri tempi gli scienziati erano pochissimi, e fra costoro pochissimi erano empi: oggi non vi sono che scienziati: sono una corporazione, una folla, un popolo, e fra loro l'eccezione, già triste un tempo, è diventata regola. Hanno usurpato un'influenza senza limiti in qualsiasi campo; eppure, se oggi vi è una cosa certa in questo mondo, è che non spetta alla scienza guidare gli uomini», pp. 473-474. Cfr. anche: « Si l'on n'en vient pas aux anciennes maximes, si l'éducation n'est pas rendue aux prétres, et si la sdence n'est pas mise partout à la seconde piace, les maux qui nous attendent sonr incakulables; nous serons abrutis par la science, et c'est le dernier degré de l'abrutissement » Essai sur le principe générateur des constitutions politiques, J. De Maistre, Oeuvres, cit,, I, p. 277.

    DARWIN E I TEORICI DEL « MORAL SENSE

    »

    di Paolo Casini Plato says in Phaedo that our « irnaginary ideas » arise from the preexistence of the soul, are not derivable from experience read monkeys for preexistence.

    Sept. 4th 1838 1

    1. Il problema morale

    «

    dal punto di vista della storia naturale »

    Concludendo T he Ori gin of S pecies, dove si era astenuto dal considerare esplicitamente la specie umana come un anello della scala evolutiva, Darwin si richiamava a Herhert Spencer nel prevedere la possibilità di estendere alla psicologia ed alla morale umana i criteri della selezione e dell'ereditarietà, validi in tutto il mondo vivente: « In the fu. ture - scriveva - much light will he thrown on tre origin of man and his history » 2. Era, nel 1859, un programma, quasi un annuncio della Descent of Man (1871), i cui capitoli centrali sono dedicati alla psicologia e alla etica dal punto di vista della nostra eredità biologica. Qui, al momento di affrontare il problema della genesi del mora/ sense o coscienza pomo della discordia tra i teorici inglesi della morale fin dai tempi di Hobhes e di Cumberland - Darwin premette al suo discorso due citazioni di filosofi: Mackintosh e Kant. Entrambe le citazioni riaffermano solennemente il primato del dovere, « vocabolo breve ma imperioso ... pieno di cosl alto significato »3 • È una decisa presa di posizione nel dibat1. M. Notezook, in H.E. Gruber, P.H. Barrett, Darwin on Man, Wildwood, London, 1974, p. 200; tr. it. in C. Darwin, L'espressione delle emozioni, due tac# cuini, profilo di un bambino, a cura di G.A. Ferrari, Boringhieri, Torino, 1982, p. 42. 2. The Origin of Species, « Everyman's Library », Dent, London, 195610, p. 462. Ma su Herbert Spencer e sulle sue astrazioni filosofiche si veda l'ironico, calzante giudizio in Autobiography: C. Darwin 1 Viaggio di un naturalista intorno al mondo, Autobiografia. Lettere, a cura di P, Omodeo, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 56. 3. C. Darwin, L'origine dell'uomo e la scelta sessuale ... dalla traduzione di

    415 tito contemporaneo. L'appello a queste due autorità può apparire un hors d)oeuvre rispetto a1 contesto soltanto se non si hanno presenti alcuni momenti della biografia intellettuale di Darwin, chiariti solo recentemente. Come mostrano ampiamente i taccuini giovanili degli anni 1838-1839, Darwin aveva letto, meditato e postillato vari scritti dei teorici del moral sense, ricavandone un argomento importante a favore della selezione naturale. Nel 1871 difende pubblicamente la loro tesi contro l'opposta scuola utilitarista; entra in polemica con John Stuart Mili e Alexander Bain, estremi difensori del benthamismo, mosso da un intento esclusivamente professionale; ossia per dare la propria risposta alla « grande questione » dell'origine del senso del dovere: « My sole excuse far touching upon it, is [that] no one has approched it exclusively from the side of natural history »4 •

    2. Il senso morale e l'istinto nei taccuini 1838-1839 Questa risposta era già stata abbozzata da Darwin nel magma di note di lettura, obiezioni, postille, osservazioni personali dei taccuini datati 1838-1839, nei quali gli studiosi recenti hanno ricercato con successo gli spunti originari delle maggiori opere teoriche: The Origin of Species (1859), The Descent of Man (1871), The Expression of the Emotions (1872). Isolare un singolo tema in quel magma è impresa disperata: il fascino dei taccuini sta proprio nel caleidoscopio di motivi, spesso soltanto accenanti, che mostra come Darwin battesse simultaneamente molti diversi sentieri di ricerca. Tout se tieni nella fase di incubazione dell'ipotesi evoluzionista; ma il lettore, se trova già risolti i problemi della decifrazione e delle citazioni in un'esemplare edizione critica, deve soprattutto resistere alla tentazione d'interpretare questi repertori stenografici provvisori alla luce delle sistemazioni concettuali più tarde.

    M. Lessona, a cura e con introduzione di B. Chiarelli, Rizzali, Milano, 1982, p. 95. Nei casi in cui è possibile, si rinvia a questa vecchia vulgata italiana della Descent of Man, ristampata ora con tutte le sue goffaggini, gli errori, i tagli, le manomissio-

    ni; mirabile prova dell'efficienza della nostra industria culturale in occasione occasione sprecata! - del centenario darwiniano. Si indicheranno più oltre alcune gravi manomissioni operate dal Lessona e non rimediate dal nuovo editore, concernenti proprio il nostro tema. 4. The Descent of Man, Great Books of the Western World, Encyclopaedia Bri~ tannica, 1952, p. 304. Questa edizione dà in nota i precisi riferimenti di Darwin ai testi di Mackintosh (A Dissertation on Ethical Philosophy, 1837, p. 231) e di Kant (Metaphysics o/ Ethics, translated by J. W. Semple, Edinburgh, 1836, p. 136), eliminati quasi in toto dalla traduzione italiana,

    416 Comunque, il motivo della coscienza (conscience) ricorre più volte nei taccuini M, N e nelle Old and useless notes about the mora/ sense & some metaphysical points written about the year 1837 & earlier 5 . Si intreccia con le riflessioni concernenti il senso estetico, gli istinti sociali, le emozioni e la loro espressione, le facoltà mentali « superiori », le abitudini (habitus) e il loro consolidarsi in istinti. La visione già matura di una continuità evolutiva tra gli animali e l'uomo sottende l'intera ricerca. Darwin insiste sulla propria convinzione che la chiave per comprendere i comportamenti umani si trova nel passato pre-umano; e che quindi, nella ricerca etica e psicologica, l'osservazione fenomenica delle espressioni e dei comportamenti degli animali - animali « superiori », ma anche insetti intelligenti e sociali come le api e le formiche deve unirsi all'introspezione. È possibile, per questa via, dare soluzioni nuove agli antichi quesiti della morale, sterilmente dibattuti dai moralisti speculativi: « L'origine dell'uomo è ora dimostrata annota il 16 agosto 1838 - La metafisica deve prosperare. Colui che comprende il babbuino contribuirà alla metafisica più di Locke »6• Pioniere dell'etologia sperimentale, Darwin pone a confronto i comportamenti degli animali non con un 1etica umana genericamente intesa, ma con la problematica che era al centro delle controversie tra i moralisti inglesi contemporanei. Nel 1838 non aveva ancora letto i caposcuola dell'etica del sentimento e della simpatia, Adam Smith, Thomas Brown, e neppure Hume né Hartley; si proponeva di leggerli, secondo i suggerimenti che gli venivano da una lettura che l'aveva vivamente colpito: la Dissertation on the Progress of Ethical Philosophy (1830) di James Mackintosh 7 • Questa opera di sintesi e di sistemazione storicocritica delineava con una forte accentuazione polemica lo sviluppo delle due scuole contrapposte: da un lato i moralisti della selfishness, discepoli di Hobbes; che avevano elaborato il sistema utilitaristico, giunto alle sue formulazioni più estreme con Paley e con Bentham; d'altro lato, la dinastia dei teorici del mora/ sense iniziata da Cudworth, Clarke, Shaftesbury, Hutcheson, degnamente continuata da Smith, Brown, Dugald Stewart, Price. Mackintosh si sentiva l'erede e il vindice di questa di-

    5, Si vedano soprattutto, in Darwin on Man, cit., pp. 279 ss., i commenti su Mackintosh e Harriet Martineau del 7 agosto 1838 (tr. it. cit., p, 26), pp. 291 e 295 (tr, it., pp. 43 e 48} e passim. Le Old and useless notes, edite in Darwin on Man, pp. 382-405, sono state inspiegabilmente escluse dalla pregevole raccolta italiana di G.A Ferrati. 6. M Notebook, p. 281 (tr. it., p. 29). 7. M Notebook, pp. 295-96 (tr. it., pp. 48-50); le ottime note e i commenti di Gruber e Barrett offrono rinvii esaurienti alle letture di Darwin.

    417 nastria. Non disconosceva certamente la relatività delle regole morali presso i vari popoli e attraverso i tempi; ma ribadiva con Grozio e con Shaftesbury il carattere oggettivo di un « criterio della moralità in azione », che andava distinto dalle varie teorie riguardanti il modo in cui gli uomini hanno « sentito » i valori morali e la scelta tra il giusto e lo ingiusto 8 • Il difetto più grave dei discepoli utilitaristi di Hobbes era, secondo Mackintosh, non aver distinto la fenomenologia dei sentimenti morali dal criterio supremo della moralità, insito nella coscienza e nella « supremazia » del senso del dovere. Il calcolo dei piaceri e dei dolnri. la massima della greatest happiness of the greatest number erano, agli occhi di Mackintosh, astrazioni intellettualistiche incapaci di generare azioni. La scuola utilitarista aveva scambiato il criterio dell'utilità che l'analisi razionale può sempre ritrovare a posteriori nelle azioni « buone», conformi anzitutto al dettato della coscienza - per il criterio supremo dell'ethos. Di un risultato aveva fatto un principio. Mackintosh rivendicava vigorosamente la spontaneità della coscienza; appellandosi a Butler e a Kant, difendeva i comportamenti morali non condizionati dalla ricerca dell'utilità, la virtù e gli affetti sociali. coltivati « for their own sake » 9 • Nel suo attacco contro gli utilitaristi trovavano posto anche gli istinti elementari animali e umani: ' Anche gli animali inferiori, sotto l'impulso potente dell'affetto paterno e materno, antepongono la loro prole alla propria sopravvivenza; segni di compassione e gratitudine e indignazione appaiono nell'infante umano assai prima dell'età della disciplina morale; l'uomo, nella sua maturità, è un animale sociale che trae diletto dalla compagnia dei suoi simili senza secondi fini, anche indipendentemente dai vantaggi pratici che ne deriva 10 •

    Inoltre Mackintosh considerava la ricerca sull'origine e sull'articolazione del moral sense come un programma aperto, non come un siste~ ma. I numerosi e complicati processi associativi, intermedi tra la supremazia della coscienza e le emozioni elementari che sollecit~no all'azione (se-

    8. J. Mackintosh, Dissertation on the Progress of Ethical Philosophy chiefly uuring the 17th and te 18th Centuries, originalty prefixed to the 7th edition on the Encyclopaedia Britannica, in The Miscellaneous Works, volL, 3, Longman-BrownGreen, London, 1846; I, pp. 14 ss. 9. Ivi, p. 54, dr.: pp. 239 ss. sulla « supremazia della cosdçnza » e sull'etica kantiana. Mackintosh deve aver suggerito a Darwin la lettura della Metafisica dei costumi, tradotta in inglese da Sample (cf. supra, nota 5). W. Dissertation, cit., p. 54.

    418 condo i punti di vista di Hartley) debbono esere sottoposti alle regole del metodo sperimentale Il_ A distanza di anni da un incontro personale descritto con humour nell'Autobiografia, Darwin, annodò un fitto dialogo con Mackintosh 12 • Certo non è facile distinguere, nel gruppo di appunti intitolati Mackintosh Ethical Philosophy. On the mora/ sense (e datati 5 maggio 1839), ciò che appartiene a Mackintosh dalle riflessioni autonome che Darwin svolge postillando la Dissertation. Tuttavia su alcuni punti l'identità di vedute sembra completa. Darwin fa proprie le obiezioni contro l'utilitarismo, rivendicando a sua volta la spontaneità degli istinti dal proprio punto di vista di zoologo-moralista: Considerando I 'uomo come una naturalista farebbe con ogni altro animale mammifero, si può concludere che ha istinti paterni e materni, coniugali e sociali, e forse altri [ qui una nota rinvia a Mackintosh: « Grazio ha ragionato all'incirca così»]. La storia di ciascuna razza d'uomo lo dimostra, se lo giudichiamo dai suoi abiti come ogni altro animale. Ql!esti istinti consistono in un sentimento di amore e simpatia o benevolenza verso roggetto in questione [l'uomo]. Pur senza considerare la loro origine, vediamo che negli altri animali [tali istinti] consistono in una così attiva simpatia che l'individuo dimentica se stesso, e aiuta e difende e agisce per gli altri a sue proprie spese. Inoltre. ogni azione in accordo con un istinto dà grande pia~ cere, e se queste azioni sono necessariamente ostacolate da qualche forza ne viene un dolore ... 13 •

    Darwin si interroga circa la dinamica delle emozioni e degli istinti, l'auto-approvazione e l'approvazione dei nostri simili, l'influenza della educazione sulla formazione del senso del dovere, l'ereditarietà degli istinti, i meccanismi della « associazione». Le sue notazioni, frammen~ tarie e sconnesse, testimoniano complessivamente un'evidente adesione ai principi della « scuola » del mora/ sense e della sympathy - secondo la presentazione di Mackintosh - con un caratteristico spostamento di accento. Anziché adottare il punto di vista individualistico, tradizionale nelle analisi del mora/ sense, Darwin trascrive questi principi in termini

    lL Ivi, pp. 239 e 251, significativi i cenni alle « Regulae philosophandi » di Newton. 12. Si veda, Autobiografia, in Viaggio ... , cit., p. 25; un dialogo postumo, perché Mackintosh, peraltro imparentato con Emma Wedgwood poi moglie di Darwin, era defunto nel 1832. Gli appunti su Mackintosh sono editi in Darwin on Man, cit., pp. 398-405, con eccellente apparato critico. 13. Ivi, p. 398. Un commento interessante, anche se assai sofisticato, è nello studio di E. Manier, The Young Darwin and bis Cultura! Circle, ReideI, Dodrecht~ Boston, 1978, pp. 138 ss.

    ·

    419 di specie. Mackintosh aveva subordinato il critetio dell'utilità ai moventi altruistici spontanei, ma sempre in riferimento a una coscienza indi~ viduale; Darwin traspone questa considerazione alla coscienza colletti~ va della specie, all'ereditarietà: Sulla legge di utilità. Soltanto ciò che ha tendenze benefiche durante il corso di molte epoche poteva essere acquisito, e la nostra ragione ci dice con certezza che tutto ciò ... che è stato acquisito possiede una tendenza benefica 14 • Il contesto allude agli istinti associativi delle api e dei castori, bene-

    fici per lo sviluppo delle specie. In altri termini, il mora/ sense si iscrive in una sorta di subconscio collettivo che eredita e tramanda ciò che è « utile » alla sopravvivenza e al benessere di un gruppo, di una tribù, di una società. Il calcolo della « massima felicità divisa nel maggior numero» appare un'astrazione intellettualistica, operata su una dinamica degli istinti assai più complessa e profonda. Darwin si propone di conciliare il dissidio tra teorici del mora/ sense e utilitaristi su questo terreno, che non è più quello di Mackintosh: Due classi di moralisti: l'una dice che la regola della nostra vita è quella che produrrà la maggior felicità. L'altra dice che noi· abbiamo un senso morale. Ma la mia teoria unisce [nota: la società non potrebbe reggersi senza il senso morale, come non lo potrebbe un alveare senza gli istinti delle api] l'una e l'altra, e dimostra che sono pressoché identiche, e che ciò che ha prodotto il maggior bene, o piuttosto ciò che era indispensabile per il bene, è il senso morale istintivo: e soltanto questo spiega perché il nostro senso morale punta alla vendetta. Valutando la regola della felicità noi dobbiamo mirare molto innanzi e all'azione generale certo perché è il risultato di ciò che è stato generalmente il meglio per noi in un lontano passato ... 15 •

    Tenendo conto di questa composizione in termini bio-evolutivi dell'antagonismo di scuole delineato da Mackintosh, si deve riconoscere che la lettura della Dissertation esercitò sul giovane Darwin un'influenza decisiva) introducendo nella sua riflessione un elemento « morale » che non sarà sacrificato neppure dopo la formulazione delle altre leggi meccanicistiche dell'evoluzione. 14. Ivi, p. 402, nota; Manier richiama giustamente l'attenzione su questo appunto. È noto che Darwin da studente aveva dovuto imparare quasi a memoria gli scritti di William Paley, che erano obbligatori a Cambridge. 15. Ivi, p. 390, appunto datato 2 ottobre 1838; trovo questo passo citato, con un appropriato commento, nell'acuto libretto di G. Pancaldi, Charles Darwin: «storia» ed (Enc., § 270, Zusatz, ed cit., p. 140). 13. G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, Elzevirii, Leida, 1637; ricordato che nella edizione nazionale delle Opere di Galileo Galilei, Barbera, Firenze, 1890-1909, quest'opera è nel vol. VIII, e che la trattazione del moto naturalmente accelerato è svolta nella Giornata Terza, lib. II, avviso il lettore che mi avvalgo dell'edizione a cura di A. Carugo e L. Geymonat, Boringhieri, Torino, 1958, p. 178.

    468 dibattutissima, e non è in queste poche pagine che posso entrarvi, per schierarmi tra i sostenitori del 'platonismo'. Ciò che voglio dire qui, è che il procedimento galileiano è molto più prossimo al Beweisen hegeliano che al Weisen newtoniano/lagrangiano. Galileo infatti prosegue: Postremo, ad investigationem motus naturaliter accelerati nos quasi manu duxit animadversio consuetudinis atque instituti ipsiusmet naturae in ceteris suis operibus omnibus, in quibus excercendis uti consuevit mediis primis, simplidssimis, facillimis.

    Quando dunque una pietra cade aumentando continuamente la propria velocità, « cur talia additamenta [ velocitatis], simplicissima atque omnibus magis obvia ratione, fieri non credam? ». E poiché esaminando attentamente non troviamo .nessun incremento di velocità più semplice che non quello « quod semper eodem modo superaddit », ne viene la celebre definizione: « Motum aequabiliter, seu uniformiter, acceleratum di~ co illum, qui, a quiete recedens, temporibus aequalibus aequalia celeritatis momenta sibi superaddit » (ed. cit., pp. 178-81), donde anche la celebre formulazione della legge, nel Teorema II, Proposizione Il:

    Si aliquod mobile motu uniformiter accelerato descendat ex quiete, spatia quibuscumque temporibus ab ipso peracta, sunt inter se in duplicata ratione corundem temporum, nempe ut eorundem temporum quadrata (ed. cit., p. 194). Per distante che sia poi l'esoterica deduzione hegeliana da questa di Galileo, resta il fatto che la sua speranza di poter dedurre, nella caduta, « determinazioni di grandezza » dello spazio e del tempo che si comportino in modo conforme« al concetto» (Enc., § 267, nota; tr. it. cit., p. 232), mentre è molto distante dall'impostazione newtoniana, è invece più prossima a quella galileiana. Non per nulla il testo galileiano è esplicitamente citato con onore; infatti l'argomentazione della semplicità della natura come presupposto della semplicità della legge appare certo ad Hegel come un tentativo di Beweis, o, come dice nella Logica, di Erweis, quasi una sorta di posizione intermedia tra Weisen e Beweisen: un dimostrare concettuale, seppur non ancora il compiuto dimostrar speculativo hegeliano: « .È un grande merito quello d'imparare a conoscere i numeri empirici deIIa natura, p. es. le distanze dei pianeti tra loro; ma uno infinitamente maggiore è di far sparire i guanti empirici, elevandoli in una forma generale di determinazioni quantitative, cosicché diventin momenti di una legge o misura, - meriti immortali, che si acquistarono per es. Galilei riguardo alla caduta, e Keplero riguardo al moto dei corpi celesti» (Logica, Lib. I, sez, III, cap. I, « La quantità specifica», e), nota; tr. it. cit., pp. 383-84).

    I TARDI EPIGONI DELL'HEGELISMO NAPOLETANO

    di Guido O/drini

    Rievocando all'incirca quarant'anni fa, in occasione della ricorrenza centenaria della nascita, la figura e l'opera di Sebastiano Maturi, Mario Dal Pra ne ricostruiva con partecipazione l'itinerario intellettuale 1, senza peraltro nemmeno tentare di nascondersi l'invalicabile frattura che divide la filosofia del '900 da quella forma di filosofia speculativa, di attardato begelismo, del quale Maturi si fa ostinatamente portavoce sino alla fine cosl nell'insegnamento come negli scritti. Il rigido impianto speculativo del suo pensiero, la sua ligia e un po) cieca ortodossia nei confronti del sistema di Hegel, la mancanza di una resa dei conti realmente critica con esso - sottolinea a ragione Dal Pra in quel suo testo non possono non destare in noi, come già in Croce e in Gentile, un senso di insoddisfazione. Il limite di Maturi sta in ciò: che egli non mette mai in discussione la validità degli asserti di Hegel, non li confronta con la ulteriore evoluzione del pensiero filosofico e scientifico, non li storicizza; se talvolta incorre nel pericolo che il fervore speculativo lo induca a schematizzazioni di comodo e a travisamenti storici, o a scivolare in anacronismi, altrove, e segnatamente là dove si occupa dei problemi di filosofia della natura, egli si lascia andare troppo spesso, con Hegel, a una semplice « trascrizione dialettica » dei compendi di scienza fisica e naturale, approdando, per via di questo abuso del metodo della dialettica, a conclusioni insostenibili nell'ambito della scienza naturale. Incomprensivo verso i punti di vista estranei alla filosofia speculativa, quasi che questa rappresenti l'ultimo termine dello sviluppo storico, Maturi sembra insomma in più casi smentire e contraddire la

    1. M. Dal Pra, Il pensiero di Sebastiano Maturi, Milano, 1943.

    470 sua stessa intransigente professione di fede nella storicità immanente del pensiero; sicché Dal Pra conclude constatando - anche qui, del tutto a ragione - come egli non progredisca non solo su Hegel, ma neanche su Bertrando Spaventa. Con tutto ciò peraltro l'intendimento di Dal Pra non è affatto di pervenire a una liquidazione a buon mercato dell'hegelismo di Maturi. Sulla falsariga degli studi di Croce, di Gentile, di Guzzo, egli cerca anzi di mettere in luce proprio quanto vi è di serio, di significativo in Maturi, la nobiltà del suo carattere, la schiettezza del suo atteggiamento umano, il rigore del suo insegnamento, le sue doti di studioso e pensatore onesto, la sua piena disposizione nei confronti dell'accertamento della verità, la sua capacità, in tempi' di grave crisi per la filosofia (soprattutto per quella filosofia idealistica meridionale che aveva conosciuto solo qualche decennio prima il suo periodo « classico » ), di tener desta la fiaccola del pensiero, di serbare « intatta la luce della ricerca filosofica»: proprio come fa anche, accanto a lui, un altro tardo epigono dell'hegelismo meridionale, Donato Jaja. Con riferimento al contesto della crisi della cultura filosofica napoletana di fine secolo, i due ordini di considerazioni - positive e negative - svolte da Dal Pra sul tardo hegelismo, benché datate, ci sembrano da sottoscrivere ancora pienamente. Le considerazioni in negativo, perché si ha qui realmente a che fare solo con un epifenomeno, con un fenomeno di retroguardia; quelle in positivo, per via della statura e del talento personale di pensatori che, come Jaja e Maturi, sono senza dubbio tra le poche - forse le sole - voci autenticamente filosofiche del periodo. L'uno e l'altro condividono la particolarità di provenire dalla scuola dell'hegelismo « critico » di Spaventa, Maturi come suo diretto discepolo a Napoli per nove anni, Jaja indirettamente a Bologna tramite A.C. De Meis e Francesco Fiorentino; ma entrambi risen~ tono in pari tempo forti influenze e suggestioni dall'insegnamento dell'hegeliano « ortodosso » Augusto Vera, di cui pure Maturi è a lungo scolaro. Si è usi guardare a loro in genere - specialmente a Jaja come a « precursori » dell'idealismo novecentesco. Senza voler preten~ dere di affrontare neanche a grandi linee la questione (che richiederebbe ben altri sondaggi esplorativi tra le loro carte inedite) 2 , li si prenderà

    2. Ci riferiamo specialmente alle Carte Maturi della Biblioteca Nazionale di Napoli (quaderni di appunti autografi e non autografi, bozze di testi e di lezioni, corrispondenza varia) e alle lettere e ai mss. di Jaja che si conservano tra le Carte Fiorentino della stessa Biblioteca, presso il Fondo Spaventa della Società napoletana di storia patria, presso il Fondo Ruppi di Bari, presso il Fondo Jaja dell'Archivio

    471 qui in considerazione insieme, con occhio attento più alle loro convergenze che non alle altrettanto nette - e già evidenziate - divergenze, proprio per il tratto opposto: in quanto cioè, trovandosi costretti sulla difensiva, essi conservano piuttosto che innovare, nell'illusione di riuscire a mantenere ancora a forza in vita, e rilanciare, il patrimonio unitario di pensiero dei maestri. Non a caso Jaja si richiama tanto spesso e con tanta enfasi a De Meis, oltre che a Spaventa e a Fiorentino, dedicandogli anche uno dei suoi lavori principali (la Ricerca speculativa del 1893 ); non a caso Vera e Spaventa sono esplicitamente e ripetutamente accomunati da Maturi quali portavoce o depositari di un pensiero « classico », del quale si tratterebbe ora, dopo la loro morte, di riprendere

    Gentile di Roma (dove sono anche lettere di Maturi) e altrove, Del « cospicuo epistolario di Jaja con vari corrispondenti» (tra cui De Meis, Fiorentino, Marianna Florenzi Waddington) conservato nel Fondo Ruppi ha dato notizia per prima A. R. Leone, « Donato Jaja e Conversano», Annali della Facoltà di Lettere e filosofia dell'Univ. di Bari, val. XIV, 1969, p. 208 n. (rist. in append. al suo voi. Il pensiero filosofico di Donato Jaja, Bari, 1972, pp. 96-7 n.); le lettere di Jaja a Gentile sono edite in Gentile-Jaja, Carteggio, a cura di M. Sandirocco, 2 voll., Firenze 19.69 (da vedersi ora con le precisazioni, correzioni e integrazioni di G. Pietrobelli, « Per una corretta lettura del carteggio Gentile-Jaja-D'Ancona », Verifiche, val. VI, 1977, pp. 640-3; e di E. Garin, « Aneddoti di storia della cultura.filosofica italiana fra Ottocento e Novecento )), Rivista di filosofia neo-scolastica», val. LXX, 1978, pp. 281-301, dove si leggono anche, in appendice, due lettere inedite di Jaja, del 1892 1 rispettivamente a Croce e a Mantegazza); altre lettere di Jaja pubblicano e commentano A. Scalpelli, « Archivio Spaventa. Lettere di Donato Jaja a Silvio Spaventa», Bergomum, voi. Llll, 1959, n. 1-2, pp. 79-102, e voi. LIV, 1960, n. 2, pp. 61-93; G. Vacca, « Gli hegeliani di Napoli nella politica e neila scuola (Carteggi) », estr. dagli Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell'Univ. di Bari, Bari, 1966, pp. 7688; M.A. Degl'Innocenti Venturini, « Donato Jaja nel carteggio con Marianna Florenzi Waddington », Atti dell'Accad. di Scienze morali e politiche di Napoli, vol. LXXXIX, 1978, pp. 385-409; S. Miccolis, « Dieci lettere inedite di Donato Jaja », Giornale critico della filosofia italiana, vol. LIX, 1980, pp. 47-62; G. Brescia, Donato Jaja: scritti inediti e rari, nel suo val. La provincia e l'umanità. Saggi di storia intellettuale e civile, Roma, 1982, pp. 99-127. Non esistono studi critici recenti di qualche rilievo su Jaja e Maturi. Solo cursodamente fa loro cenno A. Guzzo (« Hegel in Italia», Filosofia, vol. XXXII 1981, pp. 500-1), già autore di lavori (Tre studi su S. Maturi, premesso a Maturi, Bruno e Hegel, Firenze, 1926, pp. XXI-LI; Maturi, Brescia, 1946; « Maturi, Sebastiano», 'voce' dell'Enciclopedia filosofica, Venezia-Roma, 1957, III, coll. 432-4), cui non aggiungono assolutamente nulla ora le smilze paginette di P. F. Quarta, « S. Maturi: uomo e filosofo», Alla bottega, val. XI, 1973, n. 6, pp. 3-4; Un terzo filone dell'idealismo italiano: da Sebastiano Maturi ad Augusto Guzzo, Lecce, 1976, p. 14 sgg.; assai poco consistenti, su Jaja, i citati lavori della Leone e anche lo schizzo che, in rapporto al discepolato di Gentile, gli dedica C. Bonomo, La prima formazione del pensiero filosofico di Giovanni Gentile (« Giovanni Gentile. La vita e il pensiero>>, XIV), Firenze, 1972, p. 65 ss.; semplicemente risibili i due scritti apologetici di A. Cristallini, « Un filosofo idealista a Chieti: Donato Jaja », Rivista abruzzese, val. XXI, 1968, pp. 150-64; Il pensiero filosofico di Donato Jaja, Padova, 1970.

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    le fila, aggiornandolo in conformità ai bisogni della nuova situazione culturale del periodo. Quali sono le ragioni di qùesto ripiegamento sulla difensiva del tardo hegelismo napoletano? Esso va inquadrato entro le coordinate di un fenomeno più generale: il vuoto creatosi nella cultura meridionale a causa della scomparsa quasi simultanea, tra il 1883 e l' '85, del vecchio gruppo di maestri, da Spaventa a De Sanctis, da Vera a Tari e a Fiorentino, e insieme della mancanza di un organico ricambio dei quadri. , si chiede sconsolatamente Ruggiero Bonghi in una let~ tera scritta a Jaja in occasione della morte di Fiorentino. « E chi si avanza a prendere il luogo dei morti? » 3 • Sono interrogativi destinati a rimanere senza risposta. Messa in rapporto col fiorente periodo sue~ cessivo alla riforma desanctisiana del '61, l'Università di Napoli appare irriconoscibile; e non solo per quanto riguarda le sue relazioni verso l'esterno, la sua funzione pubblica, il suo prestigio, ma per ragioni sostanziali, di fisionomia interna, per il mutamento degli uomini che vi insegnano e delle idee che vi si professano, per l'abbassamento del suo livello qualitativo. Morti i maestri, quasi che con loro si siano dissolte le loro idee, non ciè più chi li sappia rimpiazzare con lo stesso prestigio e lo stesso nerbo. Uomini men che mediocri ... - lamenta qualcuno già nell' '86 hanno occupato le cattedre di filosofia. La degenerazione è evidente e nel sapere e nel carattere scientifico. Gioberti, Rosmini, Mamiani, erano almeno i sommi patriarchi di una metafisica vigorosa; Spaventa e Vera erano fibre di pensa-

    tori robusti. Chi oggi succede a loro? Coloro che raccolseto le briciole della vecchia filosofia, coloro che non han sentito il caldo contatto dell'anemica filosofia, benché giovani, perché giovani o vecchi anzi tempo Dopo 1a morte degli ultimi pensatori, l'Università di Napoli aveva bisogno di un 4 nuovo soffio di vita filosofica, non di cadetti di stirpe estinta •

    La giq.stezza di questa diagnosi trova presto conferma. Non si può quindi certo dare torto a Gentile se, poco più di un decennio dopo, sul volgere del secolo (19 aprile 1898), scriverà a Croce: Nessuna idea filosofica vive fra noi; e quel poco che si dice è ripetizione, erudita e modernissima, se si vuole, ma ripetizione. Dopo il periodo di attività del risorgimento, decadde la filosofia in Italia; e gli sforzi poderosi dello Spaventa per formare una coscienza filosofica come uno sviluppo della nostra

    3. Cfr. le Onoranze 4. G. Sergi, « La 24 ott. 1886.

    Fiorentino, Napoli, università italiane»,

    473 toria sono riusciti infruttuosi come l'opera critica e l'insegnam1.::nto del De Sanctis, che rampollano dallo stesso bisogno di fare la mente italiana 5 •

    Vengono qui tratte tutte le conseguenze della crisi che investe l'egemonia idealistica in Italia - specialmente nel mé:ridione a partire daoli ultimi decenni del secolo. Col predominio politico, la Destra storie~ perde anche quello filosofico; l'hegelismo entra definitivamente in crisi. .È un destino generale dell'hegelismo italiano che nessuno dei suoi grandi fondatori e rappresentanti, né Spaventa né De Sanctis né tanto meno Vera, sappia creare intorno e dietro a sé la continuità di una scuola. (La stessa cosa potrebbe ripetersi, su altro piano, per Tari e Settembrini). Tra la sparuta schiera dei sopravvissuti ancora in qualche modo fedeli alle idealità del gruppo, o memori sinceri delle grandi battaglie di pensiero combattute insieme nel passato, gli scolari universitari dei vecchi maestri napoletani non sono le figure principali. Degli scolari di Vera, l'unico che ne continui e ne divulghi ancora per qualche tempo il pensiero è Raffaele Mariano, il quale dirotta tuttavia verso l'insegnamento di storia della chiesa, senza sapersi fare intorno lì, non che una scuola, neanche scolari; Maturi, allievo -:-- come sappiamo sia di Vera che di Spaventa, viene conducendo una vita appartata, schiva dai clamori del mondo, e viene scrivendo pochi libri seri e assennati, ma che nessuno legge; molti degli allievi della « seconda scuola » di De Sanctis (Marghieri, Arcoleo, Salandra, Giustino Fortunato e altri) agli studi filosofico-letterari preferiscono quelli di diritto o di economia politica; Alfonso Asturaro, allievo di Fiorentino, diventa presto un esperto di sociologia e lascia Napoli già nel 1887 per altra sede meglio idonea a svolgere con profitto i nuovi studi intrapresi: così del resto come la lasciano uno dopo l'altro, in un breve volger d'anni, Jaja (1887), Mariano (1897) e un altro scolaro di Fiorentino, Giuseppe Tarantino (1901). E anche i pochi che non se ne vanno, che non tradiscono né la città di formazione, né la disciplina professata dai maestri, finiscono lo stesso col tradirne l'impegno, lo spirito, l'eredità. In conseguenza dell'insieme di fenomeni qui tratteggiati sorge una situazione che spiega, da un punto di vista generale, perché anche quanto di filosofico conserva e esprime la cultura napoletana di questo periodo non abbia più nulla assolutamente a che vedere con la filosofia 5. G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, 1972 ss., I, pp. 86-7: giudizio poi da lui ribadito nel « saggio pedagogico» segnamento della filosofia ne' licei, Milano-Palermo, 1900, pp. 191-2, e nella lettera

    a Jaja del 22 dicembre 1907: « A Napoli, morto lo Spaventa (a voi posso dirlo) non c'è stata più filosofia nell'Università» (Gentile-Jaja, Carteggio, cit., II, p. 319).

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    napoletana del periodo « classico ». Con la scomparsa dei maestri è scomparsa tutta una maniera di intendere 1a filosofia; la filosofia, come l'università è la città tutta ( ora in fase di completa ristrutturazione urba~ nistica), cambia volto. Alessandro Chiappelli, napoletano d'adozione, sottolinea a chiare lettere questo mutamento in un suo testo del 1900: Lo spirito pubblico si cangia oramai rapidamente da una generazione all'altra. Chi ha vissuto 1a sua giovinezza dopo il 1870, sa bene come e quanto l'orientamento della critica e della cultura sia cambiato da quelli anni ad oggi. Ciò che in altri secoli non avveniva, è avvenuto in questo: che gli uomini dell'ultima generazione possono guardare dal di fuori l'opera delle genera~ zioni precedenti; poiché lo spirito storico, che colora di sé tutta la cultura del secolo, aiuta efficacemente codesta indagine retrospettiva 6 •

    Se gli« uomini .dell'ultima generazione», i Chiappelli, gli Asturaro, i Tarantino, ecc., possono ora tranquillamente guardare al passato« come dal di .fuori», è appunto perché tra passato e presente sono saltati o vanno saltando tutti gli anelli intermedi di giuntura. Le novità stanno ovunque: negli uomini, nei problemi, nelle idee e, prima ancora, nelle circostanze della vita pratica, ossia nel livello di sviluppo raggiunto dai rapporti tra le classi, dalle contraddizioni interne della società entro cui i filosofi si trov;1no a operare. La stabilità economico-sociale che faceva da sfondo alla dottrina dei maestri, e sulla quale essa contava come premessa e insieme stimolo per una sua vigorosa affermazione, è andata ormai da tempo del tutto in pezzi. Mentre le vecchie lotte di correnti all'interno della cultura filosofica napoletana, tra hegeliani « critici» e «ortodossi», e persino tra hegeliani, neokaiitiani, positivisti e naturalisti (ma della tempra di un Angiulli, di un Cantani o di un Tommasi), erano state condotte sulla base di princìpi almeno a grandi linee comuni e miranti allo stesso intento, ora il confine divisorio tra correnti non verte più tanto sull'interpretazione dei princìpi, quanto, in primo · luogo, sull'atteggiamento radicale di accettazione o di rifiuto in blocco - che può conglobare anche correnti con matrici opposte - nei confronti del passato, del patrimonio della tradizione, o di quella che viene ora indiscriminatamente definita la « vecchia metafisica», e, in secondo luogo, sulla scelta filosofica specifica che si impone, a un certo punto, ai sostenitori della necessità di una netta e decisa rottura col passato. La situazione generale si presenta problematica non solo per la difesa

    6. A. Chiappelli, « Sul confine dei due secoli», Nuova Antologia, 16 apr. 1900 in Voci del nostro tempo, Palermo, 1903, p. 5, e nella pref. a Infanzia e giodel secolo XX, Firenze, 1929, p. XII).

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    dello spiritualismo, attestato in genere sulla riproposizione pura e semplice delle tesi, sempre meno sostenibili, della « vecchia metafisica», ma anche per la difesa delle tesi della metafisica tout court, non importa se vecchia (dogmatica, prekantiana) o nuova (dialettico-hegeliana): segnatamente nella formulazione rigida che alle tesi della nuova danno vecchi hegeliahi come De Meis, strenuo difensore e cultore a oltranza, contro il positivismo, del sistema di metafisica prodotto dal secolo XIX: Ci è infatti una differenza tra la vecchia metafisica delle entità ideali, eh~ è il mulino a vento che il Positivismo va ora disperatamente combattendo, senza accorgersi che è morta e sepolta da un pezzo, e quella delle idee reali, la nuova ... Ma quel che più mi imbarazza e mi mette in pensiero - confessa una volta il vecchio De Meis gli è che la nuova metafisica difficilmente potrà andar più oltre ed esser più vera di quella dell'antichissimo secolo XIX, perché con questa il ~erchio s'era chiuso, e di là non si può uscire 7 •

    Postulato comune a tutte le correnti che non si abbandonano a questo arrendevole e rinunciatario conservatorismo, ma credono anzi ciascuna in diverso modo possibile reagirvi, è ora una disponibilità scevra di pregiudizi verso quanto di nuovo è penetrato irreversibilmente nella filosofia, verso la necessità quindi di discutere problemi come quelli posti dal positivismo, dal darwinismo, dal naturalismo - che non si erano ancora presentati ai vecchi maestri, o che si erano presentat_i loro solo nel periodo estremo della loro attività. (Si pensi a Esperienza e metafisica di Spaventa e, per Vera, a certe sezioni del Problema dell'Assoluto). In specie dagli anni '80 in avanti, il naturalismo si accampa un po: dovunque nella cultura: nell'arte, nella storia, nelle scienze fisiche e nelle scienze sociali, in filosofia; qui- i naturalisti si dichiarano tutti per un'esplicita accettazione della « dottrina dell'evoluzione» come garanzia contro le lusinghe e le promesse ingannevoli del pensiero metafisico, elevando il naturalismo, non la metafisica, a « sistema filosofico e scientifico del secolo decimonono », e l' « evoluzione » a legge o a principio in grado di decidere dell'alternativa formulata così recisamente da Tommasi nella chiusa del suo celebre discorso su Darwin: « o evoluzione o miracolò » 8 : non dunque a principio tra altri princìpi o a legge tra altre leggi, ma a legge o principio èon valore esclusivo. Sono queste le circostanze storiche oggettive che spingono sulla di-

    7, A. C. De Meis, Darwin e la scienza moderna, Bologna, 1886, p. 32. 8. S. Tommasi, « Commemorazione di Carlo Darwin» (1882), nel suo vol. di scritti vari Il naturalismo moderno, a cura di A. Anile, Bari, 1913, p. 224.

    476 fensiva i tardi epigoni dell'hegelismo napoletano. Essi si vedono costretti a battagliare contemporaneamente su due fronti: da un lato contro il conservatorismo a oltranza degli « ortodossi » e di quanti come loro, o accanto a loro, si chiudono con sprezzo e alterigia entro il cerchio della tradizione speculativa del passato; dall'altro contro quei novatori filo-positivisti o filo-naturalisti che, in nome della lotta alla « vecchia metafisica », affossano e liquidano senza complimenti ogni speculazione in generale. Per Jaja e Maturi resta particolarmente caratteristico il fatto che nessuno dei due recida mai i legami col mondo di pensiero originario della loro ·comune provenienza. Da avvertiti e memori discepoli dell'hegeliano « critico » Spaventa, entrambi passano fin da principio attraverso la delibazione di problemi d'ordine critico-fenomenologico, guardando con interesse, con viva attenzione, all'allargamento di campo prodotto dalle ricerche di Spaventa; Maturi ha sì - ben più di Jaja - tratti di vicinanza con fonti hegeliane «ortodosse», sia italiàne (Vera) come tedesche (Michelet), che l'inducono a un'enfatica e fastidiosa celebrazione dell'universalismo onnicomprensivo della filosofia; ma anch'egli tiene a differenziarsi sempre nettamente da hegeliani « ortodossi » alla Mariano, così come a prender le distanze, in grazia dello « spirito critico» (dello « spirito critico», si badi bene, non del criticismo, verso cui inclina invece già agli esordi Jaja) \ da ogni forma di « idealismo costruttivo ». Temo ... scriverà una volta in replica alle riserve espresse da Chiappelli nei riguardi dei suoi Principii di filosofia (1897-98) - che Ella mi attribuisca un'avversione contro lo spirito critico, che io non nutrisco affatto. Io ritengo anzi che lo spirito critico sia lo spirito stesso della filosofia, ed è appunto perciò che combatto il criticismo volgare, il quale non si accorge delle illusioni della coscienza e non si rende conto della natura essenzialmente infinita della conoscenza. Di più temo che Ella mi creda seguace di un certo idealismo costruttivo, che io non professo affatto, e che r,~puto assolutamente contrario all'essenza stessa del filosofare 10 .

    9. D. « Origine storica ed esposizione della Critica della Ragion Pura di E. Kant», bolognese, III, 1869, pp. 589-669. Particolarmente rivelatrici di questa sua precoce inclinazione al criticismo le sue lettere a B. Spaventa del 4 gennaio 1870 (dove si esalta il criticismo come « il più originale del moderno pensiero filosofico ») e del 18 settembre si dichiara che « nel mezzo deI!a filosofia moderna » si entra solo « per di Kant »), conXX:X:ti DPJ~sso la Società napoletana di storia patria, Spaventa, mss. 10. Minuta di una sua lettera a Chiappelli del 20 ottobre 1898, conservata presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, Carte Maturi, busta 5 (6').

    477 Pretese «costruttive» del genere di quelle che Tommasi aveva, del tutto a ragione (già anche secondo l'opinione di Spaventa), rimproverato alla filosofia, non ci sono né in Maturi né in Jaja. C'è piuttosto in loro il sincero desiderio di discutere le esigenze e ·i problemi messi in campo dagli avversari. Lungi dal sembrare loro superflue e assurde quanto sembravano a Vera, o anche, in altro senso, al vecchio De Meis, le discussioni sul naturalismo, sulla legge di evoluziorie, sull' « esperien• za » e i « fatti » che il naturalismo rivendica, figurano immediatamente come la condizione storica pregiudiziale, e la questione di centro, di tutto il loro filosofare. Noi siamo convinti afferma Jaja che è grande cagione di progresso in tutte le direzioni che il pensiero oggi assume, e che sono tante e tante, attestanti tutta la fecondità sconfinata della potenza pensante, che a base di ogni ricerca stieno i fatti, sia che questi appartengano al mondo della natura, sia che al mondo della storia, sia al mondo fisico e meccanico, sia al mondo morale n_

    E già svariato tempo prima, quand'era ancora vivo Spaventa, in un suo intervento a difesa di Fiorentino dalle critiche spiritualistiche di Mamiani) si era espresso con chiarezza priva di r·iguardi verso l'uno e l'altro dei due fronti in lizza nella controversia sulla metafisica: La metafisica è divenuta un'anticaglia) e dappertutto si grida 1 fatti, fatti.

    Ma fatti 1 sì) fatti vogliamo noi pure. Intorno a questo punto l'accordo è com-

    pleto, e quel grido ha ragione di essere contro i fautori della vecchia metafisica, che separando il mondo sensibile dall'intelligibile, la materia dallo spirito1 il fatto dall'idea, o, ch'è tutt'uno, mettendone in rilievo la sola differenza, danno al primo di questi termini un'esistenza al tutto accidentale. Quella metafisica fu debellata dal criticismo kantiano, e sulle sue rovine, auspice e duce il Kant 1 un'altra s'è elevata, che la differenza concilia con la identità 1 e, ritenendo entrambi necessari i termini opposti, assegna loro un diverso valore. Pare incredibile, ma pure è vero; i positivisti confondono la vecchia con la nuova metafisica, mostrando di non sapere o disconoscendo almeno il valore immenso che separa la seconda dalla prima 12 •

    Morta e sepolta da un pezzo è dunque la vecchia, non la nuova metafisica: « La metafisica è viva, non è morta ancora » 13 ; previa garanzia del suo carattere «nuovo>> (cioè scientifico), essa appare anzi - ag11. D. Jaja, « L'intuito nella conoscenza», Atti R. Accad. Scienze morali e polt"tiche di Napoli, voi. XXVI, 1893-94, pp. 492-3. 12. D. Jaia, « Rassegna filosofica», Giornale napoletano di filosofia e lettere, n.s., voi. I, 1879, p. 122. 13. D. Jaja, « L'unità sintetica kantiana e l'esigenza positivista, Atti R. Accad. Scienze morali e politiche di Napoli, vol. XIX, 1885, p. 29 (rist. in Saggi filosofici, Napoli, 1886, p. 179).

    478 giunge Jaja di seguito al testo sopra citato, utilizzando e adattando una espressione di Spaventa 14 - « come una profezia, cioè l'organismo e la correzione anticipata della scienza -della moderna esperienza». Rispetto alla simile - ma tanto più chiusa impostazione del vecchio De Meis, si riscontra qui ben altra disponibilità verso l'« esperienza » in generale. Senza un preliminare confronto con essa, senza un'attenta ricognizione del processo di sviluppo dalla natura inorganica all'uomo e, a livello umano, della strutturazione biologica della coscienza, delle sue tappe di crescita, di quelle insomma che Maturi chiama, in un suo libro dedicatò a Spaventa, le « forme fondamentali della vita » 15, si ricade nella stagione ormai tramontata degli apriorismi, delle « vuote identità», ecc., ossia, in « una costruzione ideale lontana da' fatti e dalla realtà », che finisce col dar esca, per troppo rispetto del passato, alle giuste proteste dei naturalisti. Questa la preoccupazione ben comprensibile di Jaja, quando nel!' '88 scrive a Silvio Spaventa: « De Meis ha il torto di scherzar troppo su ciò che vi è di profondamente vero in certi risultati delle moderne ricerche naturalistiche » 16 • Pochi anni più tardi, in una lettera a Maturi del 5 gennaio 1895 17 , Pasquale D'Ercole (il cui hegelismo sembra frattanto piegare nella direzione suggerita da un autore ben presente anche a Maturi, il Michelet del System der Philosophie als exacter Wissenschaft, 1876-79) muoverà anche a lui l'appunto di prendere in troppo scarsa considerazione il positivismo e l'evoluzionismo, teorie - dice· - che « hanno mutata o almeno molto modificata l'opinione filosofica intorno alla metafisica». Si tratta dunque soprattutto di fissare bene il senso e la funzione 14. B. Spaventa,« La legge del più forte» [1874], in Scritti filosofici, a cura di

    G. Gentile, Napoli, 1900, p. 352 (ora in Opere, Firenze, 1972, I, p. 544). Della « profezia >> fa menzione anche De Meis nel suo citato discorso su Darwin e la scien-. za moderna, come Jaja nota con compiacimento recensendolo nella Cultura, voi. VIII 1887, pp. 65-75. Quanto all'adattamento di Spaventa, esso consiste in ciò, eh~ l'espressione « metafisica hegeliana » viene da Jaja modificata in quella di « metafisica nuova»; con tale modifica, il motto figura a epigrafe del maggior testo teoretico di Jaja, Sentire e pensare. L'idealismo nuovo e la realtà, Napoli, 1886, dove viene ripreso e parafrasato anche più avanti (p . .37). Cfr. altresì l'inizio della prolusione (inedita) da lui letta a Pisa il 2 dicembre 1905, Il naturalismo moderno e il problema filosofico della vita, di cui nella sua lettera a Gentile del giorno successivo (Genti1e-Jaja, Carteggio, cit., II, p. 287). 15. S. Maturi, Uno sguardo generale sulle forme fondamentali della vita, Napoli, 1888: dove, in polemica col pseudo-hegeHsmo mistico di Mariano, giunge persino a scrivere: « non ci tengo affatto a dirmi, o a farmi dire Hegeliano » (p. 92 n). 16. Cfr. Archivio Spaventa. Lettere di D. ]aja (II), dt., p. 82. 17. BNN, Carte Maturi, busta 5 (86): lettera già messa a stampa da E. Nobile, « Difesa della metafisica kantiana in una lettera inedita di Pasquale D'Ercole »,

    Logos, voi. XVIII, 1935, pp. 302-9.

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    di quest'ultima. Jaja e Maturi non pretendono che la considerazione metafisica esaurisca, sic et- simpliciter, tutta la realtà. A confortare l'esigenza dell'impiego di una gamma molto più sfumata di toni nella descrizione dei procedimenti di approccio alla totalità estensiva del mondo reale sta il fatto che i loro asserti speculativi, il loro « idealismo nuovo » o « nuova metafisica » ( o anche « sovrarazionalisll).o », come lo chiama Maturi nei Principii di filosofia), sono concepiti sl in polemica con i massimi detrattori della metafisica, i positivisti, ma non tuttavia contro 1'esigenza di positività che costoro rivendicano. Sensazione e pensiero, esperienza e ragione, « scienza particolare » e « filosofia prima » (metafisica), sono per Jaja e Maturi correlati dialettici indisgiungibi!L Si può bensì anche dar ragione ai positivisti se, dal loro angolo prospettico, essi indagano con minuzia le leggi della sensazione, come fondamento di ogni pensiero, o se sostengono che tra sensazione e pensiero vi è continuità e non salto; ma il loro torto consiste nell'assolutizzare questo punto di vista, nell'innalzarlo unilateralme.nte a verità, trasponendo di peso tutta la coscienza nella sensazione: rifiutando cioè quella « unità superiore » del pensiero, dove la sensazione cessa di essere sensazione e la scienza particolare di essere particolare, e dove entrambe sono non più se stesse, ma identità di sé e dell'altro, sensazione trasformata, « suprema unità ideale» o, appunto, > (1880), in Scritti filosofici, dt., pp. 81-114 (=Opere, cit., I, pp. 257-91); Esperienza e metafisica. Dottrina della cognizione, a cura di D. Jaja, Torino, 1~88, pp. 60 ss., 71-3, 157-8.

    480 biettivo valore. La prima cosa, comunque si ponga e stabilisca, non tocca né punto né poco alla seconda. Che quegli elementi non escono dal cervello umano belli e formati, come la Minerva dal capo di Giove, ed hanno in noi, psicologicamente, un'origine ed una successiva formazione, è verissimo, e non è l'idealismo assoluto (la metafisica nuova) che ha ragione di negarlo ... Dal puro senso al senso frammisto di pensiero, da questo al pensiero puro, è passaggio, non salto, ed il passaggio dee parere all'analisi che va fatta delle parti, che lo compongono ... L'elemento categorico non è dato; esso nrisce con l'atto conoscitivo, ed è prodotto daII'attività dello spirito sul tronco del dato sensibile 20 .

    Già da questi pochi cenni si lascia scorgere, crediamo, l'intreccio di accorgimenti tattici e finalità strategiche che viene in essere con gli epigoni del pensiero napoletano «classico». Solo infatti l'ammissione spregiudicata, senza preconcetti, della legittimità delle « moderne ricer~ che naturalistiche » e l'utilizzazione consapevole dei loro risultati possono mostrare come le une e gli altri non incrinino per nulla il patrimonio di nozioni del pensiero anzi vi sfuggì meno di altre dottrine filosofiche perché i suoi difensori si proposero spesso di esporlo in una forma che riuscisse di facile comprensione anche a persone semplici. Ma il compito del critico è di non arrestarsi a questa forma, cercando invece di enucleare ciò che sta al disotto di essa, e che può avere un carattere del tutto diverso. Così abbiamo visto che il nucleo che sta alla base della teoria del riflesso non si riduce affatto a ciò che ne dicono i suoi avversari, e che il programma totalizzante del materialismo dialettico tocca problemi di grande attualità di carattere tutt'altro che metafisico. Un altro problema che, se scavato a fondo, si rivela ben diverso da quello che ritengono gli avversari del materialismo dialettico, e certamente esente da qualsiasi ombra di dogmatismo, è il problema del rapporto teoria-prassi. Esso si connette ai due precedenti: all'interpretazione della teoria del riflesso perché la prassi è alla base della dinamica cui abbiamo fatto riferimento a proposito di tale teoria; e all'interpretazione del cosiddetto programma totalizzante, perché la concezione globale dell'universo a cui questo programma aspira coinvolge la storia e quindi l'azione. Particolarmente importante è la funzione della prassi nel processo conoscitivo. Secondo il materialismo dialettico, infatti, questo non si esautisce in una contemplazione istantanea del dato, ma nell'elabora~ zione dei concetti attraverso le teorie, e nel passaggio da una teoria ad un'altra più completa e più soddisfacente. Ma come facciamo a giudicare che una teoria è migliore di un'altra? i classici del materialismo dialettico sono molto espliciti su questo punto: il nostro giudizio avviene sulla base del confronto fra la teoria in questione e la prassi. Ciò non significa che sia la prassi a dettarci i princìpi delle teorie (già l'abbiamo escluso, negando che tali princìpi siano ricavati dal•

    561 l'esperienza per induzione); ossia non significa che il materialismo dialettico si riduca a una forma di pragmatismo. La conoscenza e la prassi non si identificano una con l'altra, ma sono due attività dialettica~ mente legate fra loro: la prassi costituisce il banco di prova delle teorie, e d'altro canto queste sono la guida della prassi. Sappiamo già ciò che significa affermare che A è legato dialetticamente a B; né A determina B né B determina A, ma i due si influenzano reciprocamente. In altri termini: il loro legame è flessibile e avviene nei due sensi, né possiamo dire quale dei due sensi sia predominante. Tale è appunto il nesso che lega tra loro teoria e prassi o, per restare nel caso specifico, scienza teorica e tecnica. Di questo medesimo tipo, sebbene più complesso, è il nesso che collega tutti gli elementi dell'universo per formare una totalità. Volendo concepire questo come un tutto, o noi facciamo appello alla dialet tica, oppure dobbiamo sostenere, con Laplace, che esso è un sistem::i.. meccanico e in tal caso, dovendovi includere anche tutti gli eventi passati e futuri, dobbiamo fare ricorso al più assoluto determinismo, che però è notoriamente incompatibile con la stessa scienza naturale moderna. Ma vi è di più: tale forma di determinismo meccanico è incompa~ tibile con il fluire della storia, che è un susseguirsi di eventi dipendenti dall'azione degli individui e delle collettività oltreché, beninteso, da fattori di altro tipo (i cosiddetti « fattori naturali »). Nel « tutto » della storia la prassi occupa una posizione così essenziale, che il voler pre~ scindere da essa comporterebbe necessariamente la rinuncia ad una comprensione seria di ciò che è accaduto in passato e di ciò che accade ne] presente. Ma ancora una volta il legame tra prassi e teoria non può essere che dialettico perché, pur essendo entrambe presenti nel fluire della storia) né la prima determina la seconda né viceversa. L'appello all'unità dialettica fra prassi e teoria ci aiuta inoltre a renderci conto del nesso che, nel corso dell'ultimo secolo e del nostro, si è stabilito fra scienza e storia della scienza. Ed infatti, solo riflettendo su tale unità) noi possiamo comprendere l'autentica funzione, che può compiere nella cultura scientifica la storia della scienza: funzione che non è unicamente ornamentale) che non si limita a soddisfare la curiosità dello scienziato desideroso di sapere ciò che hanno scoperto i suoi predecessori e con quali metodi l'hanno coperto, ma che è fondamentale per comprendere la dialettica teorica e teorico-pratica con cui si sono sviluppate le ricerche in passato e con cui possono svilupparsi ancora oggi. Sappiamo con certezza che molti studiosi, anche assai seri, si rifiu-

    562 tana di fare ricorso alla dialettica 1 ritenendola un nome vuoto di contenuto. Ma c'è da chiedersi in che modo essi possano, rifiutando per principio di fare appello alla dialettica, raffigurarsi l'unità dell'universo extraumano ed umano, e di conseguenza opporsi alla frantumazione del sapere in tante cellette specialistiche, isolate fra loro.

    5. Il carattere relativo della verità costituisce la tesi centrale del materialismo dialettico. Essa sintetizza la risposta che tale materialismo fornisce al dilemma, di cui abbiamo parlato nel secondo paragrafo, fra l'innegabile variabilità delle teorie scientifiche e l'effettiva validità che viene ciò malgrado ad esse attribuita. Questa risposta consiste nella negazione del carattere assoluto tradizionalmente attribuito alla verità: una volta negato questo carattere, si potrà agevolmente sostenere che le teorie scientifiche sono in grado di conseguire delle verità, ma non assolute. E questo ci permette di attribuire a tali teorie un valore conoscitivo pur ammettendo che sono sottoposte a variazioni, a volte anche rivoluzionarie. Naturalmente il problema qui coinvolto (del carattere relativo della verità) è molto arduo, perché come testé accennammo - la filosofia ha tradizionalmente considerato la verità come fornita del carattere di assolutezza, vedendo proprio in questo carattere ciò che la distingue dall'opinione (anche verosimile). E' stata proprio la dialettica a for• nirle un nuovo carattere, di flessibilità e dinamicità. Ed è questa dinamicità a spiegarci il senso profondo della gnoseo • logia materialistico~dialettica, che interpreta il processo conoscitivo cc me un processo di approssi'mazione: non già approssimazione ad u 1~,presunta verità assoluta, ma a quel sapere globale di cui abbiamo fatt parola più sopra, e di cui abbiamo detto(§ 3) che non sarà né assoluto né definitivo come non lo sono le scienze specialistiche. Forse il termine « approssimazione » può trarci in inganno perché noi siamo abituati a concepire gli oggetti del conoscere come qualco::r di statico 1 e restringiamo la categoria del divenire al conoscente, men tre il materialismo dialettico la applica sia al conoscente che al cono· sciuto. In questa nuova prospettiva il termine in esame acquista un significato radicalmente diverso da quello tradizionale, significato che rende possibile l'interpretazione del conoscere come un perenne, illimitato approfondimento, come uno sforzo inteso a cogliere· e determinare sempre nuove relazioni fra i costituenti dell'universo. Quando si afferma che la grande conquista dell'epistemologia della nostra epoca è la scoperta del carattere ipotetico delle leggi e deUteorie scientifiche, si dimentica che il materialismo dialettico era già

    563 giunto a scoprire il loro carattere relativo, carattere che include l'ipoteticità, spogliandola però di ogni implicazione scet.tica. Certamente l'importanza di questa scoperta non è sempre eviden ziata quanto essa merita in tutte; le esposizioni del materialismo dia•lettico, specialmente in quelle divulgative. Ma appena si scavi un pò e fondo nella sua autentica struttura, si scopre che il carattere relativo di tutte le conoscenze vi occupa una posizione centrale, aprendo una quantità di problemi a cui abbiamo solo in parte accennato nelle pagine precedenti. Tanto basta, comunque, a dimostrare l'infondatezza dell'accusa di dogmatismo, e per conseguenza l'errore di quelli che fanno perno su questa accusa per estromettere dalla concezione marxista ogni riferimento all'extraumano, da essi considerato come oggetto ·specifico del materialismo dialettico e non dell'autentico marxismo.

    Sezione settima

    EMPIRISMO, PRAGMATISMO, NEOEMPIRISMO NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

    EMPIRISMO E REALISMO CRITICO IN HERBART. LA RIFONDAZIONE EMPIRISTICA DELLA FILOSOFIA CRITICA di Renato Pettoello

    Attorno al 1793, il diciassettenne J.F. Herbart venne a conoscenza, forse per caso, della Grundlegung der Metaphysik der Sitten di Kant. L'impressione che la lettura di quest'opera dovette fare sul giovane studente liceale fu enorme, come dimostrano i primi tentativi del precoce filosofo, e come ebbe a scrivere lo stesso Herbart ancora trent'anni dopo, recensendo la Grundlegung zur Physik. der Sitten (1822), di F.E. Beneke: Certamente vi sono ancora alcuni che si trovano nella medesima situazione del recensore, che non poté mai dimenticare l'impressione che trent'-anni prima aveva fatto su di lui la Grundlegung der Methaphysik der Sitten di Kant (XII,172).

    La lettura di quest'opera si dimostrò veramente decisiva J?1i'r l'orientamento di Herbart; lo svegliò, per così dire, dal « sonno dogmatico » del razionalismo di stampo wolffiano, ancorché temperato da un certo empirismo di origine anglosassone e specialmente lockiana, e di un eudemonismo illuministico, « nobilitato » e « corretto » dalle immagini della religione, nel quale era stato educato fino allora 1 . Del resto Herbart si dichiarò a più riprese apertamente kantiano: « kanrianum ipse me professus sum, atque et nunc profiteor » (X,63). Certo essere kantiano non significa per Herbart essere un pedestre ··· Le opere di Herbart sono citate secondo i J.F. Herbarts sdmtliche Werke, In chronologischer Reihenfolge, hrsg von K. Kehrbach und O. FlligeL Neudruck der Ausgabe 1887, Aalen, 1964, ai quali si farà riferimento semplicemente col numero del volume seguito da quello della pagina. l. Cfr. W. Asmus, Herbart. Eine pddagogische Biographie, Band I, Der Denker,

    Heidelberg, 1968, pp. 57 ss.

    568

    e scolastico ripetitore delle dottrine del filosofo di Konigsberg; il suo kantismo, come si vedrà meglio in seguito, è un'originale rielaborazione del criticismo al quale intende restituire la sua autentica natura empiristica e realistica, contro le interpretazioni idealistiche (peraltro parzialmente imputabili allo stesso Kant) « perché dietro il suo cosiddetto idealismo trascendentale si nasconde un realismo ». Herbart intende richiamarsi allo spirito « autentico » del criticismo non alla lettera; si legge infatti nella Prefazione alla Allgemeine Metaphysik: « L'autore è kantiano, quand'anche del 1828, e non dei tempi delle categorie e della Critica del Giudizio» (VII,13). Herbart è convinto che la Critica della ragion pura, alla quale riconoscerà sempre altissimi meriti, di contro alle altre due critiche per le quali non mostrerà mai eccessiva simpatia, abbia segnato una rivoluzione nella storia della filosofia, una rivoluzione feconda, punto di partenza di un modo di pensare radicalmente nuovo: Kant non appartiene al passato; i suoi scritti appartengono ancora oggi alla filosofia attuale. Il loro studio è ancor più utile e necessario• a coloro che intendono dedicarsi alla filosofia, di quelli di Platone e di Spinoza; anche

    più delle prime e migliori opere di Fichte (IV,212). Il nostro intento non è però qui quello di valutare il debito di Herbart nei confronti di Kant, di analizzare e confrontare dettagliatamente le opere dei due filosofi, per individuarne somiglianze e dissi, miglianze, per stabilire quanto Herbart abbia inteso Kant e quanto l'abbia frainteso, per stabilire insomma fino a che punto Herbart si possa proclamare a buon diritto kantiano 2 • Intendiamo piuttosto mostrare, seguendo le linee principali de! pensiero di Herbart, come fosse possibile, dal tronco stesso della filosofia critica, uno sviluppo assai diverso da quello idealista, uno sviluppo in senso francamente empirista. L'importanza principale della filosofia di Herbart, e se si vuole la sua «novità» e «modernità», consiste, come acutamente vide E. Cassirer, nel fatto che, contrariamente a tutti i tentativi di costruire la realtà partendo dal concetto e dal suo movimento interno, ha posto la filosofia di nuovo come pura analisi dell'esperienza 3• 2. A tale proposito rimane ancora valido il libro di M. Mauxion, La métaphysique de Herbart et la critique de Kant, Paris, 1894. 3. E. Cassìrer, [Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenscha/t der neueren Zeit], Storia della filosofia moderna, a cura di A. Pasquinelli, Milano, 1968, voi. III, p. 513.

    569 Herbart era pienamente consapevole di andare contro corrente, opponendosi alla « filosofia alla moda», alla « vuota, sfatfalleggiante, sfrontata, ciarliera» speculazione dell'idealismo (III,322), Ed è proprio questo che fa della sua filosofia la più decisa antitesi alla dominante filosofia idealistica dei primi decenni dell'Ottocento. Fu questa ostinata opposizione all'idealismo ad isolare Herbart, come del resto tutta la filosofia non idealista, ed a limitarne considerevolmente l'influenza. E' vero che, almeno all'inizio, l'egemonia romantica ed idealista era tutt'altro che sicura. Non si deve infatti pensare che il tentativo di scalzare il vecchio razionalismo settecentesco sia avvenuto senza difficoltà e sia stato indolore. I razionalisti, approfittando delle posizioni occupate nelle università e nella burocrazia, si opponevano, in nome dei limiti della ragione umana e della necessità che la filosofia fosse utile per la vita, alla speculazione ed accusavano la nuova filosofia di misticismo, di oscurantismo, quando non addirittura, come ne1 caso di Fichte, di ateismo. La portata dello scontro dimostra come il ceto « colto » in Germania fosse proprio rappresentato da questo razionalismo e non da quell'élite di pensiero che erano gli idealisti. L'idealismo però, alla fine, almeno nell'ambito ristretto delle università, risultò vincente ed esercitò spesso contro gli avversari una politica culturale assai pesante, le cui ipoteche si fanno sentire ancora oggi. Herbart, seppure in forma profondamente nuova ed originale, che tiene conto della lezione kantiana e del dibattito post-kantiano, affonda le proprie radici in quel razionalismo, e s'oppone strenuamente alla « nuova » filosofia; « alla filosofi.a esclama - direi " indietro '', alla pedagogia, "avanti"!» (XVI,255), Non si deve tuttavia pensare, come l'esposizione del suo pensiero metterà chiaramente in luce, che Herbart fosse del tutto estraneo al fermento filosofico post-kaIJtiano; anzi, i suoi primi passi furono mossi proprio nel centro irradiatore di questo fermento, a Jena, quale allievo di Fichte, « il primo allievo di Fichte » 4, e gli ulteriori sviluppi del suo pensiero non sono comprensibili se non si tiene conto di questa relazione con l'idealismo. Dopo un primo precocissimo ed anche un po' presuntuoso tentativo di sottoporre a critica la Dottrina della scienza fichtiana sulla base della logica formale wolf!ìana nello scritto Bemerkungen zu Fichte's Grundlage der gesamten Wissenscha/tslehre, del 1794, egli si sprofondò nello studio dell'opera di Fichte. Fichte stesso l'aveva invitato a « non fermarsi alla lettera del caso particolare, ma a guardare 4. Cfr. W. Asmus, op. cit., p. 90.

    570

    dal punto di vista dell'intero» (XVI,10). L'effetto che questa lettura fece sul giovane filosofo fu sconvolgente; tutte le sue certezze vacillarono; il terreno gli sfuggiva sotto i piedi: la Dottrina della scienza - scrive in una lettera a G.A. von Halem del 28 agosto 1795 per guadagnare posto al suo infinito Io, ha prodotto un in~ finito vuoto nella mia testa. Essere avvolto in un labirinto di dubbi, può forse spronare ad una tanto più intensa attività: sotto di me cedeva però ogni fondamento, ogni terreno solido, ed io rimasi come stordito; non riuscendo ad aiutarmi da me stesso, dovetti affidarmi alla mano che solo a poco a poco poté e volle rialzarmi. Ciò si scontrava a dire il vero soltanto contro ciò di cui credevo di essete teoricamente certo, ma così non ebbi più la materia per il pensiero mio proprio, chE:, fosse pure quanto si voglia insignificante e falso) mi aveva tuttavia tenuto occupato nel modo più interessante, e dentro il quale io avevo per così dire vissuto e mi ero mosso (XVI,9). Lo stordimento, tuttavia, durò poco, e ben presto Herbart si con~

    vinse di aver trovato la propria strada, del tutto diversa da quella idealista e ad essa superiore: Ora un'intima certezza scrive nel 1798 ai genitori - mi solleva sopra i sistemi del nostro tempo) non esclusi quelli di Fichte e di Kant; posso an~ che sbagliarmi, ma considero tuttavia una grande fortuna poter percorrere senza guida e senza timore un campo mio proprio, che sembra diventare·più

    ampio ad ogni passo (XV!,84 ).

    ·

    Le critiche di Herhart si rivolgono in un primo tempo a Schel-

    ling, anche se è abbastanza scoperto l'intento di colpire le dottrine dello stesso Ficl1te, perché il sistema di Schelling, « escluse alcune cose di poco conto», gli sembra « l'esposizione più conseguente possi~ bile dell'idealismo » (XVI,42). Il tema centrale del confronto è il pro-

    blema del fondamento. Schelling s'era fatto alfiere della nuova filosofia di Fichte che appariva ai suoi occhi come quella che, muovendo dal criticismo, ne superava le aporie grazie al principio dell'Io che assicurava il fondamento, le « premesse » ai risultati del criticismo. Compito della filosofia è di scoprire e manifestare ciò che non si lascia ridurre, spiegare, sviluppare concettualmente, cioè 1'inesplicabile, l'incondizionato, il semplice, in una parola l'Assoluto, che contiene in

    sé tutto l'essere, tutta la realtà 5.

    5. Cfr. F.W.J. Schelling, Scimtliche Werke. Historisch-kritische Ausgabe. Werke, 2, hrsg. von H. Buchner und J. Jantzen, Stuttgart, 1980, pp. 119 ss.

    571 La filosofia - scrive Schelling a Hegel il 4 febbraio 1795 - deve comin~ dare daWincondizionato ... Per me il supremo principio di ogni fik1sofia è l'Io puro, assoluto, cioè l'Io in quanto semplice Io, non ancora condizionato dagli oggetti, ma posto dalla libertà. L'alfa e l'omega di ogni filosofia è la libertà 6•

    Schelling aveva iniziato il suo scritto Vom Ich als Princip der Phi/osophie (1975), affermando che chi vuole sapere qualche cosa, vuole allo stessò tempo che il suo volete abbia realtà. Un sapere senza realtà non è un sapere e dunque si deve assumere un punto esterno della realtà, un fondamento originario della realtà, un fondamento reale di ogni nostro sapere. Il principio dell'essere ed il principio della conoscenza coincidono in un'unità di assoluto essere ed assoluto sapere, cioè l'Io 7 • Herbart, nella polemica recensione allo scritto schellinghiano, Ueber Schelling's Schrift: Vom Ich, oder dem Unbedingten in menschlichen Wissen (1796), nega innanzitutto la necessità di assu~ mere un unico principio per la filosofia e tantomeno una realtà unica. Più principi assolutamente certi possono riferirsi l'uno all'altro senza perdersi per questo l'uno nell'altro. « Perché si domanda Herbart - non ammettere più fondamenti per un'unica. conseguenza? più punti d'unione per un'unica catena? » (I,17): Le determinazioni relative all'Io gli sembtano inoltre del tutto incompatibili col concetto dell'essere assoluto e giunge quindi a negare l'essere assoluto dell'Io. Di conseguenza Herbart separa la realtà del sapere dalla realtà del saputo rimproverando a Schelling di « scambiarla con l'essere assoluto come se fossero la stessa cosa »; così che per lui non può essere principio del sapere quello il cui esser conosciuto è contrapposto al suo essere, in cui l'essere è fuori del sapere, giacendo allora anche il sapere fuori dell'essere, fuori della realtà, non avendo cioè nessuna realtà, perlomeno interna ed incondizionata (l,20-21),

    Herbart, come si vede, individua già ora con molta acutezza la tendenza di Schelling a trasformare la realtà dei sapere, della coscienza, espressa dall'Io fìchtiano, in essere assoluto; ma questo >, e « le consideriamo come unite nella nostra coscienza» (IV,62L ci troviamo tuttavia immediatamente involti in contraddizioni insanabili. Kant aveva commesso un grave errore a « derivare la connessione delle rappresentazioni (senza dimostrazione) da un atto della sintesi e da una coscienza di questa sintesi » (IV ,62). L'errore di Kant è stato poi ripreso e portato fino alle estreme conseguenze dai suoi successori, fino al punto di giungere a porre l'Iio a « determinazione di tutta la filosofia », di qui il decadimento della filosofia moderna. Kant medesimo d'altro canto è responsabile per Herbart del modo in cui Fichte aveva « forzato l'idealismo kantiano » (IV,179). Infatti il ruolo che Kant aveva dato all'intelletto era, secondo Herbart, in certo qual modo creativo, un ruolo in cui erano già impliciti gli sviluppi della dialettica fichtiana dell'Io e del non-Io. L'indagine, dichiara risolutamente Herbart, va completamente mutata; ogni certezza va sottoposta ad un esame rigoroso. Ogni analisi delle forme delle nostre rappresentazioni non può prescindere dal

    9. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 622-625.

    574 dubbio circa l'effettiva esistenza di tali forme. La filosofia inizialmente deve porre da parte il problema se ci sia possibile pervenire alla conoscenza delle cose in sé, ovvero se possiamo conoscere soltanto i fe~ nomeni. Solo un realismo che s'interroghi pregiudizialmente sulla validità dei concetti empirici contraddittori, e li elabori in modo da superarne le contraddizioni, potrà veramen~e far fro_nte ed eliminare l'idealismo che di per sé, nella sua forma pura, è insostenibile, giacché l'idealismo « si conforma sempre a quel realismo che trova»; e cerca di rovesciarlo, se il realismo non è sufficientemente forte da resistergli. Il dubbio ha dunque per Herbart un valore metodologico insostituibile. Il primo passo che introduce alla filosofia è la « scepsi nel presupposto della coscienza volgare del mondo ». Chi non è mai stato scettico una volta in vita sua - afferma Herbart - non ha mai sentito quel profondo scotimento di tutte le rappresentazioni e le opinioni alle quali s'era assuefatto fin dai primi anni; scotimento che solo ha il potere di sceverare I 'accidentale dal necessario e dal dato ciò che il pen~ siero vi ha aggiunto di proprio. A questi sovrasta la minaccia di un dogmatismo stolto ed arrogante (IV,57).

    Herbart individua due gradi di scetticismo: la scepsi inferiore e la scepsi superiore. La prima « mette in dubbio soltanto che le cose siano proprio cosl come ci appaiono, opinando cioè che possano anche essere diverse» (IV ,56). Così rientrano nell'ambito della scepsi inferiore le contraddizioni connesse alla percezione dei colori, dei sapori, ecc.j la diversità delle percezioni stesse a seconda delle circostanze; le contraddizioni dei sensi tra di loro, ecc. La scepsi superiore invece è ben più radicale; essa « scuote persino l'opinione che in generale esista qualche cosa, sciogliendo del tutto la connessione che vi è nel nostro modo di rappresentarci le cose» (IV,56). Il fatto è che noi non percepiamo tutto ciò che crediamo di percepire e quindi dobbiamo avere aggiunto qualche cosa arbitrariamente nel pensiero. La scepsi superiore viene ad investire così molti dei problemi fondamentali connessi con l'esperienza sia del mondo interno sia di quello esterno. Il dubbio riguarda qui la nostra percezione degli oggetti nello spazio e nel tempo; la conoscibilità delle forme delle cose attraverso la molteplice varietà delle loro note materiali; il modo in cui dalla successione temporale di due fenomeni passiamo al nesso necessario di causa-effetto; la percezione del legame che stringe tutte le rappresentazioni nella coscienza; la percezione della regolarità e costanza dei fatti naturali. Questa « ginnastica dello spirito » che è il dubbio è quindi fondamentale; ma non ci si deve fermare al dubbio. Scepsi

    575

    non signilica per Herbart scetticismo, ma esigenza metodologica, ricerca iniziale della distinzione della filosofia dalla ricerca operativa degli oggetti, per una migliore formulazione dei suoi problemi. Il dubbio deve insomma portarci a prendere coscienza della complessità che sottosta all'apparente semplicità del pensiero comune, per poi ritornare ad esso « per giustificarlo, ove sia possibile ... , quanto per rettilicarlo, ove sia necessario» (IV,56). Permanere nel dubbio, farne il sentimento dominante dell'animo, è indice di immaturità. Così uno scetticismo ed un empirismo radicali sono insostenibili. Se l'empirismo e particolarmente Locke, ha avuto innegabilmente il grande merito di avere sottolineato le contraddizioni della sensazione, della percezione ed anche delle strutture concettuali nelle quali tentiamo di inquadrare il divenire naturale, non ha però saputo andare oltre la semplice fase critica; non ha saputo cioè elaborare una nuova teoria atta a sostituire la vecchia metafisica. Non per questo però l'empirismo perde il suo valore: il razionalismo scrive Herbart - è vuoto senza l'empirismo, e non soltanto vuoto ma anche inconsistente se vuole essere a_ltro dallo svolgimento dei problemi da esso sollevati. L'empirismo resta incomprensibile senza il razionalismo che lo completa, e non soltanto incomprensibile, ma variamente contraddittorio ed in conflitto con se stesso. Questo si deve aver capito, per

    sollevarsi fino alla filosofia e non perdersi in chimere (II,234). Il punto di partenza del sapere filosofico è dunque l'esperienza ed in particolare l'esperienza della coscienza comune: « metaphisica est ars experientiae recte intelligendi » (III,160). Il mondo dell'immediatezza, dei concetti dati è anche per Herbart, come per Hegel, un che di contraddittorio che va superato, va ricostruito razionalmente, anche se la posizione della coscienza comune resta ineliminabile. Per Herbart, come per Hegel la dialettica è lo strumento principe della filosofia; senza contraddizione non potrebbe esservi speculazione; « evidenziare la contraddizione è l'atto proprio della speculazione» (II,181). Per dialettica Herbart non intende però il movimento dialettico immanente allo stesso concetto, bensl la dialettica dell'esperienza e dei dati empirici. Egli chiama il proprio metodo dialettico « metodo delle relazioni ». Quando vi tocca porre una cosa - cosl egli lo definisce una volta che voi non potete propriamente né porre né rigettare cosl semplicemente, ponetela molteplice. Allora però guardatevi dallo smembrare il molteplice altrimenti si ripresenterà la precedente difficoltà. Ma assumete che per il mol-

    576 teplice, in quanto collegato da reciproche relazioni, può probabilmente valere qualche cosa che per il singolo sarebbe inconcepibile (IX,248).

    Il

    « metodo delle relazioni » assume per Herbart

    il valore di una

    « regola generale » della speculazione che tuttavia non ha il valore

    di una soluzione definitiva del problema della contraddizione. Si tratta piuttosto di un metodo generale attraverso il quale cercare di risolvere i problemi impostici dalla stessa contraddittorietà dell'esperienza. D'altro canto proprio per il fatto di avere indicato nella contraddittorietà dell'esperienza il fondamento del processo speculativo, Herbart, non diversamente da Fichte e Hegel, si trova di fronte al problema che l'esperienza, nella .sua contraddittorietà, comporta dei nessi concettuali che contrastano con i principi della logica che pure per Herbart conserva intatta la sua validità e la sua normatività. Si viene a creare insomma, come sottolinea S. Poggi, « quella che possiamo considerare una u sfasatura " tra il piano della idealità logica astratta e quello della contraddittorietà empirica »10 • La contraddizione porta necessariamente a negare l'unità dei termini opposti, a negarla naturalmente sul piano concettuale sul quale soltanto la contraddittorietà dell'esperienza può essere superata. La necessaria soluzione è che « uno stesso elemento non può portare in sé due predicati opposti » e dunque che « invece di un unico elemento dovrebbe essere posta una pluralità» (VIII,39). _Se ad es. si ha un giudizio della forma A è b ed un altro della forma A è non b, abbiamo due giudizi ciascuno• dei quali, preso singolarmente, non implica contrad~ dizione; se però vogliamo unificarli, cioè se vogliamo attribuire i due opposti predicati ad un solo oggetto, ecc" che s'ingenera immediatamente la contraddizione. Anche il tentativo di superare la difficoltà moltiplicando il semplice A attraverso una molteplicità di A, A', A", ecc., risulta infruttuoso. E' bensl vero che dove vi era una contraddizione abbiamo ora una diversità di determinazioni, ma è altresì vero che se ciascuno di questi diversi A viene senza'altro unito col predi• cato, darà luogo nuovamente a contraddizione. E' necessario dunque cambiare il modo di affrontare il problema. Sia l'attribuzione di note ad una cosa, sia il cambiamento, riproducono la contraddizione. Nel primo caso, infatti, si danno contemporaneamente unità e pluralità; nel secondo si ha qualche cosa che cambia e nello stesso tempo resta uguale. A questo punto entra in gioco il « metodo delle relazioni». 10. S. Poggi, I sistemi dell'esperienza. Psicologia, logica e teoria della scienza da Kant a Wundt, Bologna, 1977, p. 216.

    577 Esso riconosce l'apparire di proprietà molteplici e di accidenti mutevoli, ma individua in essi non la realtà stessa, bensì il semplice rife~ rimento al reale. In questo modo la contraddizione è tolta; invece di porre una cosa con molte proprietà, una causa con molti effetti, viene posta una « complessione » di essenze reali che si trovano tra loro in rapporti determinati. Ognuno di questi enti, considerato per sé, è soltanto se stesso e permane sempi-e identico a sé, ma riunendosi essi suscitano per l'osservatore l'apparenza del cambiamento. Questa apparenza è obiettiva perché vale per ogni osservatore, ma non ha alcuna verità metafisica assoluta: è un > 25 •

    23, I termini Hypoihetismus e Hypothetisten sono stati introdotti da Bela von Juhos: v. B. Juhos, Die Erkenntnis und ihre Leistung. Die naturwissenschaftliche Methode, Springer Verlag, Wien, 1950, pp. 9 e 13. Juhos ha esaminato criticamente le tesi degli , cit., p. 55.:

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    653

    zione dell'aspettativa > 39 e che le proposizioni osservative I, p. 96). 24. Per le discussioni relative, mi permetto di rimandare al mio saggio « Fie problemi della storiografia filosofica della scuola hegeliana 1831,1848 )), nel Studi sulla sinistra hegeliana, Urbino, 1972, pp. 79-166.

    692 di questo, confrontandosi con questo livello, che si potevano ordinare e ricostruire le vicende teoriche del passato. Prima del 1848, sottoponendo a critica le tendenze più estreme (i « moderni sofisti ») Fischer aveva registrato una « dissonanza » tra la « dialettica produttiva», tesa a diventare « mondo » 1 e le reali capacità di produzione 25 • Questa diagnosi, nelle vicende del 1848-49, si era dimostraia esatta; il pensiero si trovava in un >: compito del .filosofo leggere i fenomeni nel loro contesto, e dimostrare come la storia dia gradualmente svolgimento al nuovo) e metta in movimento, con savia economia, forze del tutto diverse, onde preparare le fondamepta di una nuova vita umana 38 .



    Tra queste « disparate Kriifte » la riforma religiosa ha un ruolo abbastanza secondario. I fatti decisivi sono la riscoperta della « umanità» (cioè la riscoperta degli antichi, che ricollegò l'età moderna con l'intero suo passato), le scoperte geografiche, le scoperte astronomi~ 35. L'espressione è di Feuerbach; dr. per es. Gesammelte Werke, II, Berlin, 19812, pp. 12, 20, 26 etc.; la formula ricorre anche in altri scritti. 36. « In ihm (Protestantismus) verlor das Cbristentum seine Negativit8.t und Abgezogenhcit, wurde es im Menschen als eins mit ihm erfasst ... als nicht besch~ riinkend und verneinend die wesentlichen Bediirfnisse seines Geistes und seiner Natur » (op. cit., p. 29). Sarebbe fastidioso continuare con l'elencazione delle fonti feuerbachiane di singole affermazioni del Fischer. Non ci sono dubbi che egli di Feuerbach conoscesse benissimo non solo gli scritti più noti, ma anche i volumi di storia della filosofia. 37. Versuch, cit., I, pp. 99 ss.; ma è certamente a Ruge che il Fischer si ispira, come dimostra il fatto che decenni più tardi, nel volume su Hegel (op. cit., p. 1162) egli citerà ancora il celebre « manifesto» del 1839-40 Der Protestantismus und die Romantik. 38. Geschichte, I, pp. 85-86.

    696

    che: sono questi tre eventi a produrre « la moderna consapevolezza del mondo »; la Riforma è una « conseguenza » del principio protestan~ tico, e si manifesta nella lotta contro l'autorità della chiesa romana. Si è quindi molto lontani anche da Hegel, che aveva sì ricordato le scoperte di cui si è detto, ma che come « Hauptrevolution » aveva posto quella di Lutero. Una ragione di questo mutato atteggiamento può certo essere stato il conflitto tra la nuova filosofia e la chiesa evangelica conflitto del quale, come si è ricordato, anche il Fischer fu vittima. Ma il motivo più profondo (o, se si vuole, il motivo che quel conflitto spingeva ad accentuare) era che anche la Riforma, come già la chiesa delle origini, considerava la conciliazione come « avve~ nuta » all'atto dell'avvento di Cristo, mentre l'autentico spirito protestantico non tollera la « fede in un fatto ». Se anche il cristianesimo veniva mantenuto come « decisivo punto di svolta», esso era interpre~ tata come « principio dell'umanità in generale », « universale tendenza dello spirito »; e - affermava Fischer « io distinguo questo principio universalmente umano sia dalla concezione astrattamente reli~ giosa che dalla rappresentazione teologico-dogmatica » 39 . Non è il caso di soffermarsi sulla parte nella quale si introduce la classificazione dei sistemi dell'età moderna (razionalismo, empirismo, criticismo), né sul modo piuttosto imbarazzato con cui il Fischer tocca la vexata quaestio se iniziatore della filosofia moderna andasse considerato Cartesio oppure Bacone - al quale ultimo venne sl dedicato un volume, ma a mo' di supplemento, fuori, cioè, dal corso maestro della Entwicklung. Occorre almeno rilevare (e lo si ern già accennato) che delle due coppie di pensatori nei quali si organizza l'ultima filosofia germanica (Kant-Fichte e Schelling-Hegel), alla prima viene riconosciuto il merito di aver conchiuso la trattazione scientifica della logica, alla seconda di aver introdotto « il metodo della Entwicklung, ossia la dialettica »: dialettica che non è quindi speculazione, ma metodo di lettura del corso della natura e della storia.

    39. Geschichte, l, pp. 81-83. Si può aggiungere che in un ambiente intellettuale che vedeva la « conciliazione » anche come liberazione dal senso del peccato, una figura come quella di Lutero doveva risultare addirittura irritante. È caratteristica questa testimonianza di Strauss: « Un uomo (Lutero) per il quale tutto deriva dalla coscienza che egli stesso e tutti gli uomini sono fondamentalmente corrotti, e destinati all'eterna dannazione ... mi è cosl estraneo, così incomprensibile, che nori potrei mai prenderlo come il personaggio del quale scrivere una biografia» (Ges. Schr., cit., I, p. 41).

    697 4. Fin dall'inizio del suo lavoro di storico il Fischer aveva dichiarato (in conformità del resto al modello della storiografia « filosofica ») di prendere in considerazione soltanto le « supreme manifestazioni » della filosofia, cioè i « grandi filosofi (il « Pantheon » come, riecheggiando Hegel, egli disse più di una volta). E di costoro trattava solo il pensiero nella forma sistematica: né di Cartesio né di Spinoza, per es,, venne descritta la fase di formazione, mentre la parte biografica era ridotta all'essenziale. Le cose si vennero modificando a partire dal volume su Kant (1860), e più ancora da quello su Fichte (1868). Per Kant venne espressamente trattato il periodo precritico, mentre la biografia rimaneva molto breve; per Fichte, e più ancora per Schelling (18 72) la parte biografica assunse grandi dimensioni, ed è probabilmente quella meglio riuscita. Lo stesso vale per il volume su Hegel, che pure risente dell'avanzata età dell'autore. Questo progressivo differenziarsi del modo di trattazione era senza dubbio dovuto alla possibilità di procurarsi un certo tipo di documentazione, che rendeva possibile intrecciare la biografia con la storia dell'ambiente. Ma non va dimenticato il modello delle grandi biografie che avevano incominciato ad uscire nella seconda metà del secolo XIX: quella di U. von Hutten (1858) di D.F. Strauss, quelle di W.v. Humboldt (1856) e di Hegel (1857) di R. Haym, quella di Schleiermacher ( 18 7 O) di W. Dii they. Lo stesso Fischer, in un articolo del 1858 su D.F. Strauss als Biograph 40 aveva scritto pagine molto fini sul passaggio del suo amico dalla «critica» alla «biografia», espressione di un « impulso artistico innato », di un « senso per la storia » unito all'interesse per « individualità pregnanti». Non stupisce che, quando gli si offrì l'occasione, anch'egli, notoriamente « natura artistica», abbia tentato questa strada. Non se la sentì, però, di trarne tutte le conseguenze, e di risolvere la «dottrina» (Lehre) nella « vita»; gli ultimi volumi della sua Geschichte si presentano divisi in due grandi parti, corrispondenti a questi titoli. Porre la « storia » al posto dello « spirito del mondo », e la « conoscenza » al posto della « speculazione » non era stato sufficiente ad indurre il Fischer a passare allo « storicismo ». Per lui la filosofia restava sempre, almeno nei suoi rappresentanti più alti,

    46



    E in una trattazione diventata ormai com-

    pletamente eclettica ci si sforza di non perdere riulla di ciò su cui aveva messo l'accento non solo la ricerca storica, ma anche la pubblicistica

    di parte liberale. Si dichiara, per es., che

    « l'autoconoscenza

    religiosa è il fondamento di quella filosofica», e ciò vale per la mistica di Eckhart, considerata il « preludio » della Riforma, e per quella di Bohme, considerata il « preludio » della nuova filosofia; ma BOhme, cui Hegel, e Feuerbach, avevano dedicato attenti capitoli, è liquidato in poche righe, e si ha l'impressione che Eckhart sia citato più come supporto per la tradizione « germanica » della· filosofia che perché il Fischer abbia riveduto le sue posizioni quanto al rappo;:to filosofia-religione. A Giordano Bruno, poi, è dedicato un caloroso ritratt6, di oltre otto pagine, e nelle edizioni successive al 1889 non manca il riferimento al mol)umento sorto sul luogo del rogo. Nazional-liberale, come tutti i suoi amici, il Fischer, dopo il 1870, aveva spostato il tiro: il suo referente polemico non era più l'ortodossia luterana, quanto la «chiesa», e si intendeva quella romana, del « gesuitismo » e del « sistema ultramontano ». Di fronte a questo così tenace, e pericoloso, avversario, pateva opportuno un riconoscimento dell'efficacia della Riforma, interpretata ancora, però,

    come una sorta di applicazione su scala più vasta cli quegli « atti di riforma » che avevano avuto luogo « nell'arte e nella scienza », senza uscire però dall'ambito dei ceti colti. La chiesa cattolica, fondata su base religiosa, poteva essere scossa soltanto da una spinta religiosa: Questa trasformazione e questo rinnovamento della coscienza religiosa è la Riforma nel senso ecclesiastico del termine, senza la quale, malgrado tutte le scoperte, il Medioevo avrebbe continuato ad esistere 47 ,

    Il protestantesimo, inoltre (qui il Fischer si 'ricorda di una osservazione di Hegel) non esercita alcuna oppressione « sul lavoro mondano dell'uomo». E tra i nuovi compiti del lavoro umano il primo è quello della scienza e della conoscenza. La filosofia deve percorrere la strada tracciata ed aperta dalla Riforma, essa ne prosegue il cammino 48 , Scienza e conoscenza. In questo passo non è più lecito ritenere 46. lvi, p. 89. 47. Ivi, p, 130. Anche questa è una ormai sbiadita reminiscenza feuerbachiana: « Was als ein neues Prinzip in die Welt tritt, muss sich zuglèich als ein religiOses Prinzip aussprechen ,,, denn nur dadurch wird es eine gemeinsame, die Gemilter beherrschende Weltsache » (Ges, Werke, dt,, II, p. 26), 48. Einleitung, p. 150.

    700 che la « scienza » abbia il significato hegeliano, o almeno fichtiano, che il Fischer ancora attribuiva al termine quando scriveva W issen~ schaftslehre nel titolo stesso del suo manuale di logica e metafisica. Siamo ormai in ambito neokantiano, e del resto la Einleitung si chiude con il nome di Kant, non con quello di Hegel. Piuttosto che voler trarre, da questa constatazione, conclusioni ad effetto, conviene ricor~ dare che ciò, per Fischer, non costituiva un rinnegamento delle sue precedenti posizioni: la dottrina della Entwicklung dava i suoi frutti sul terreno della storia - anche, come si è detto, della storia natu~ raie; la teoria della evoluzione venne considerata affine a quella della dialettica 49 - , non su quello della filosofia teoretica, o, come dice il Fischer, del « problema della conoscenza». Ad aver scoperto questa « nuova scienza » so era stato Kant, e su ciò che egli aveva co~ struito c'era da lavorare per affinare ed aggiornare, non per mo~ dificare: La filosofia critica è la scienza che ha per oggetto il conoscere fattuale (tatsiichliches Erkennen), Nel suo compito essa è necessaria ed esatta quanto ogni altra scienza. Nel modo con cui concepisce questo compito è completamente nuova, perchè è la prima ad averlo concepito correttamente 51 •

    Non c'è più motivo di contese di confine tra la filosofia e le « scienze esatte», perché la filosofia non si occupa dei «fatti-» che le scienze si propongono di spiegare; né la filosofia può essere rimproverata di non avere un oggetto fattuale, perché il suo oggetto è proprio il « fatto » (o i « fatti ») della conoscenza umana. Che questo tentativo di sistemazione fosse estremamente precario, è anche troppo facile riconoscere. E si può capire che ad un Dilthey, o a quelli che avevano letto Dilthey, doveva parere tanto debole da non aver nemmeno bisogno di una confutazione. Ma è un peccato che ciò abbia impedito, o almeno non stimolato, sino ad oggi, uno studio complessivo sulla personalità di K. Fischer. Uno studio che potrebbe essere non soltanto un contributo alla storia della storiografia filosofica, o della critica letteraria, nella seconda metà del XIX secolo, ma anche un capitolo di quella vicenda ancora cosl poco nota che potrebbe essere intitolata, con una formula di H. Glockner, « Krisen und W andlungen des Hegelianismus ». 49. (Hegel, cit., p. 1176). 50. Kants Vernunftkritik, cit., p. 17. 51. Kants Vernunftkritik, cit., p. 25; cfr. anche le conferenze del 1860, Kants Leben und die Grundlagen seiner Lehre, Heidelberg, 19062, p. 97.

    IL DIBATTITO SULLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA NELL'ITALIA DEGLI ANNI '50 di Maria Assunta del Torre

    Disegnare, oggi, una mappa dei percorsi tracciati dalla storiografia filosofica in Italia negli anni del secondo dopoguerra significa anche ricostruire, nel taglio specifico della ricerca, il complesso ed articolato movimento di idee che ha animato la nostra cultura. Alla critica e alla revisione delle categorie storiografiche del neo• idealismo di Croce e di Gentile che hanno dato luogo al dibattito di cui s'intende qui richiamare le componenti, si è infatti accompagnata

    una ricca produzione di opere storico-filosofiche. Essa esprime, di volta in volta, la presenza, l'incidenza e l'elaborazione che hanno avuto in

    Italia le diverse correnti del pensiero contemporaneo e le più avan zate proposte di metodologia storiografica. A cogliere alcune di queste connessioni ci è guida eccellente, an· cora una volta, Mario Dal Pra con la relazione presentata al colloquio internazionale di studio svoltosi di recente a Padova sul tema « Problemi e metodi per una storia della storiografia filosofica » 1 • I punti di riferimento che vengono proposti per tracciare le linee del quadro offerto dalla recente produzione storico-filosofica italiana sono costituiti dalla prospettiva esistenzialista, dal rinnovamento degli studi hegeliani, dallo sviluppo del materialismo storico, dall'affermarsi della meta• dologia legata alla storia delle idee. Vi si collegano, rispettivamente, gli studi orientati ad evidenziare il carattere individuale della rif!es· sione filosofica 2, quelli che ne sottolineano il processo di formazione

    1. M. Dal Pra, « Storia della filosofia e storia della storiografia filosofica », in La storiografia filosofica e la sua storia, Antenore, ·Padova, 1982, pp. 13-37. 2. Ivi, p. 17.

    702 e sviluppo 3 , quelli attenti ad un'ampia integrazione dei dati concreti nello svolgimento della filosofia, la cui « base materiale » viene contrapposta alla hegeliana « base ideale » 4, quelli, in fine, disposti a superare la distinzione tra le diverse aree disciplinari per allargare l'indagine dal campo delle dottrine filoofiche a quello delle idee 5 • Volessimo poi considerare l'incidenza che sugli studi storico-filosofici ha avuto per un lato l'affermarsi dell'interesse per lo sviluppo del pensiero scientifico, per altro lato l'affermarsi dell'interesse per le scienze umane e per le scienze sociali, non potremmo esimerci dal notare il progressivo ampliarsi del campo d'indagine, l'acquisizione di metodi e strumenti allineati con la ricerca storica più progredita; dovremmo anche notare il progressivo allontanarsi dalla determinazione neo-idealista della filosofia in un ambito utitario e speculativo verso una sua determinazione in un contesto ·sempre più vasto ed articolato che non ha unità di oggetto né di metodo. Per una determinazione della filosofia, quale si viene configurando nei diversi tempi storici, possono essere orientativi gli studi di storia della storiografia filosofica. Essi, quali si sono venuti sviluppando, anche in Italia, nel dopoguerra 6, hanno individuato il loro terreno d'indagine ne!Je diverse forme secondo le quali la filosofia ha espresso il proprio rapporto con il passato, hanno quindi per oggetto gli scritti che si presentano come risultato di una ricerca storica avente per proprio oggetto la riflessione filosofica. Una disciplina, a!Jora, la storia della storiografia filosofica, che si configura come analisi di un determinato settore della produzione filosofica, non isolato, pera!3. Ivi, p. 19. 4. Ivi, p. 22. 5. lvi, p. 25. 6. Oltre al saggio di Antonio Banfi, « Concetto e sviluppo della storiografia filosofica, in La ricerca della realtà, 2 voll., Sansoni, Firenze, 1959, voi. I, pp. lQQ. 167 (ma già in Civiltà moderno, V, 1933, n. 5-6), ci si limita a ricordare: M, Dal Pra, La storiografia filosofica antica, Bocca, Milano, 1950; The Historiography of the Hìstory of Philosophy, Mouton & Co., 'S-Gravenhage, 1965 (supplemento di History and Theory a cura di J. Passmore); L. Braun, Histoire de l' l'histoire de la philosophie, Editions Ophrys, Paris, 1973; M.A. Del Torre, Le origini moderne della storiografia filosofica, La Nuova Italia, Firenze, 1976; L. Malusa, La storiografia filosofica italiana nella seconda metà dell'Ottocento, Marzorati, Milano, 1977; Storia delle storie generali della filosofia, a cura di G. Santinello della quale, ad oggi, sono usciti i primi due volumi: Dalle origini rinascimentali alla . Infine, uno studentessa di quarta liceo scientifico dice

    >. Riferimento al sè, quindi, all'esperienza personale, all'immediatezza del proprio vissuto che lo studio della filosofia dovrebbe arricchire. gratificare, agevolare nella sua elaborazione 3 • L'aspetto della fruizione è primario e si tratta ancora una volta di una fruizione che è assai pregnante: emotiva (l'identificarsi, l'esser toccati, ,colpiti, interessati) e intellettuale (congruenza e incongruenza fra le proprie idee e quelle dei singoli filosofi, gusto del confronto di idee). 10. In ogni caso, sembra che ci sia, se anche allo stato incoativo un doppio processo: da un lato un ancoraggio di organizzazioni concet 3. Ne è prova il discorso in prima persona singolare o, più raramente, plurale, proprio di tutte le 12 interviste e l'uso frequente dei pronomi «mi», «ci», che ricorre nelle risposte, riferito al singolo parlante, o alla classe, o a sottogruppi di essa.

    744 tuali nuove) vissute come astratte e sofisticate, difficili, paradossali, ~ realtà concrete, individuali appunto i filosofi - perché storica mente definite, con una vicenda dietro e intorno a sè, un mondo fatto di altri individui, istituzioni, fatti ( « alcuni problemi vengono vissuti come astratti perché si studiano avulsi da un contesto di evoluzione, dì una civiltà, di strutture sociali e culturali [ entro cui si collocano], che non vengono fatti conoscere » deplora uno studente di prima liceo clas~ sica). Dall'altro un ritorno continuo al sè, nelle sue dimensioni prima~ rie, emozionali, ma, più latentemente, cognitive. Ciò che sembra emer.. gere comunque, è un'esperienza di confronto ( « la filosofia serve per fare un confronto fra le idee nostre e quelle esposte dal filosofo -afferma uno studente di quinta liceo scientifico) ancora ai suoi esordi) poco nitida, ma che in altre discipline di studio, prive di un impianto storico o quantomeno più caratterizzate da un approccio « eEtetico » (la letteratura italiana ne è l'esempio più illuminante) manca quasi del tutto ( « nello studio della filosofia è fondamentale il tentativo di cogliere dei nessi fra le varie proposizioni [sic], tra i vari filosofi, tra i vari pensieri, in modo da ricostruire quel movimento culturale, di pensiero [ che essa esprime] » sostiene un allievo di terza liceo scientifico). Si tratta di un'esperienza che va guidata e mediata, educata nelle sue distanze concettuali il che non sembra essersi verificato nella maggior parte degli studenti intervistati ma che può avere, verosimilmente, il suo prius in questo distacco / confronto nella forma del vis - à - vis di persone e personaggi, fra i quali entrano, accanto all'allievo, l'insegnante, l'autore del manuale, e il filosofo stesso. 11. In tale itinerario di confronto distacco - elaborazione di un pensiero proprio, la pagina dell'autore appare importante. « Leggendo i testi, posso parlare con i filosofi » afferma uno studente di seconda liceo classico che ricorda con entusiasmo la sua « scoperta » dei brani dei filosofi letti direttamente e cita, accanto alla « forma lineare » del testo cartesiano, i paradossi di passi di Epicuro. È sulla pagina, molto di più che non nella lettura del manuale, che ci si abitua a un cammino più graduato, calibrato, sistematico del proprio pensiero. Un'allieva di seconda liceo classico dichiara: « impegna molto l'andar di passaggio in passaggio per arrivare a una conclusione senza saltare ». Ed è sulle pagine dell'autore che si apprendono - non senza difficoltà altri linguaggi. Una studentessa di quarta liceo scientifico afferma che, secondo lei, la specificità del linguaggio di ogni autore « la capiamo meglio quando leggiamo i testi »; e un suo compagno dell'ultimo anno del liceo scientifico sostiene che « la filosofia aiuta a parlare

    745 e a usare un linguaggio più preciso di quello solito ». A differenza dell'esperienza del confronto di cui si è detto al paragrafo precedente, la motivazione al testo dell'autore appare in crescita dal primo all'ultimo anno del corso e non poteva essere altrimenti - . Essa corrobora l'idea di una filosofia come galleria di autori, ma smussa il personalismo che comunque la contraddistingue nell'immagine di questi giova" ni. Un autore è un testo, un linguaggio, un ordine peculiare, con cui, al di là di quei téte - à - téte emotivamente connotabili di cui si è parlato, fare i conti. 12. Allora, se anche in modo meno vistoso, compare nelle parole di questi ragazzi l'esigenza di un principio d'ordine, di una « logica » che la filosofia sembra abilitata ·a dare quasi per eccellenza fra le materie di studio del liceo. E' il filo storico - delle vicende della filosofia occidentale in cui quasi tutti scorgono una guida al proprio pensiero (« storicamente c'è stato un processo; e questo schema stori:o è più facile » afferma una studentessa di quinta liceo scientifico, anche se un suo cOmpagno cli prima liceo classico, che ha « scoperto » che Democrito è coevo di Socrate, obietta « noi facciamo uno studio cronologico, non uno studio storico perché non ci accorgiamo di molte contemporaneità » ), oppure è la coerenza rintracciata all'interno dell'opera di un singolo autore ( « nella filosofia di Kant ogni cosa si sussegue secondo un ragionamento logico » dichiara un'allieva dell'ultimo anno del liceo scientifico) che serve da modello al proprio pensiero. Ma è anche l'aspecificità della filosofia ( « forse [nella filosofia] ci sono discorsi che non hanno un campo specifico di interesse, ma orientano in vari campi » dice un'allieva di quarta liceo scientifico; una sua coetanea del liceo classico sostiene che la filosofia è l'unica materia che aiuta a superare « i contenuti prettamente tecnologici di molte materie » mentre una sua compagna del quarto anno dello scientifico dichiara di preferire gli autori il cui « sistema è più complessivo » e comprende problematiche anche eterogenee) nella sua supposta capacità di affrontare « i problemi di fondo dell'esistenza e dell'individuo » ( è l'opinione di uno studente dell'ultimo anno del liceo scientifico) che sembra offrire un solid_o supporto all'elaborazione della propria cultura. 13. Valore del confronto, apprendimento di sistematicità e assimilazione di un linguaggio rigoroso: nella motivazione positiva allo studio della filosofia ci sta questo, soprattutto, ma anche altro: per esempio il gusto di « provare » ragionamenit nuovi, precedentemente mai esperiti ( « mi stimola a staccarmi dal reale » dice uno studente di

    746 seconda liceo classico e un suo compagno del primo anno concorda con questa interpretazione quando afferma che « la filosofia insegna a guardare la vita con un'ottica meno limitata ») e di raddrizzare i propri itinerari speculativi « poco corretti » (la filosofia « forse potrebbe servire ad accettare idee, dottrine diverse dalle nostre, a essere più aperti, a riuscire a capirle, a immedesimarsi. Forse certi sbagli che hanno fatto certi filosofi potrebbero essere d'esempio per non farli noi, con le nostre idee » dice un'allieva di quinta liceo scientifico, e una studentessa del secondo anno del classico spiega che « la filosofia richiede di pensarci più sopra, perché se uno non ci pensa .. , alla fine non ha colto l'essenza dell'argomento .. , Io .. , ci tento, al limite, mi faccio venire in mente le domande, per risolverle ... » ). Si tratta di spunti dietro ai quali sta un mondo di spinte cognitive, il maturarsi di un'esperienza epistemica pit1 articolata e problematica di quella innescata dalla quotidianità scolastica, una dimensione rilevante di una complessiva vicenda di acculturamento (« la filosofia serve da formazione culturale irrinunciabile » dichiara una studentessa di seconda liceo classico) che non vanno sprecate, 14, Non sprecarle significa molte cose, per cui le parole di questo gruppetto di giovani sono state illuminanti. Anzitutto occorre evidenziare meglio la non accidentalità di certi itinerari di pensiero, il fatto che non si tratta di «casi», ma di modalità, ric~rrenti e generalizzate di impostazione e di soluzione di problemi. Qui l'adozione di tecniche di analisi «logica», di scomposizione e di ricomposizione di processi concettuali appare essenziale e lo studio della filosofia potrebbe costituire la sede elettiva per una serie di apprendimenti di antropologia, sociologia, teoria della conoscenza che facciano conti coerenti e solidi con la realtà sociale e culturale storicamente determinata in cui tali processi di pensiero si sono originati e affermati. Il riflettere su come si pensa, si può pensare, noi stessi e altri pensiamo, sui modi del riflettere, dell'ipotizzare, del definire problemi e del risolverli è esigenza primaria in questa tappa dell'evolu zione della mente e va alimentata, stimolata e guidata, non come esercizio intellettualistico, ma - e questa è la seconda osservazione ricavabile dalle interviste - intrecciandola con informazioni e riflessioni sul contesto culturale, produttivo, sdciale in cui tali forme si sono espresse. 15. Sgombrare il campo dalla falsa equivalenza tra studio storico e albero genealogico del sapere filosofico, tra approccio diacronico e ricostruzione di fittizie e unilaterali filiazioni di filosofi, scuole, movi-

    747 menti è esigenza in primis culturale, ma richiesta anche dallo stesso disagio degli studenti, insofferenti di linearità schematiche e astratte, di contrapposizioni implausibili, di estrapolazioni da ambienti che essi suppongono, a ragione, molto più ricchi, dinamici, dialettici di quanto non vengano loro prospettati sulla scorta di informazioni di seconda mano.

    16, Soddisfare, nell'aula, questo bisogno comporta un salto di qualità non solo didattico, di metodologie e di strumentazioni istruzionali (impostazione dell'insegnamento, orari, testi, biblioteche), mn anche e soprattutto culturale, Vuol dire ripensamento radicale della qualità de111informazione scolastica, riformulazione di un'intera enciclopedia del sapere che si comunica nella classe, delle sue essenzialità, della sua organizzazione, delle sue selezioni, dei suoi raccordi interni fra settori specifici, Allora, verosimilmente, lo studio della filosofia non potrà non essere storico - e, viceversa lo studio della storia non potrà non essere filosofico, vale a dire chiarito nel suo impianto storiografico e concettuale - , come i raccordi tra materie diverse di apprendimento dovranno fare i conti con la struttura concettuale e metodologica che è loro proprio e con h loro relatività storica, Il che non equivale a far coincidere tout court lo studio della filosofia con quello dello statuto epistemologico delle singole discipline, ma accanto a questo significa riconoscerle una sua specificità di espressione culturale che va evidenziata in situazioni storiche di particolare vivacità e pregnanza. Si tratta di osservazioni sommarie, che vanno elaborate in modo più approfondito, inserite nel dibattito che i tecnici del sapere filosofico stanno coltivando con tenacia e coraggio, studiate più analiticamente di quanto non si sia potuto fare in questo primo sondaggio, in più ingenti realtà studentesche, e tradotte, gradualmente in proposte didattiche da verificare in microsituazioni molteplici e da socializzare, nei loro risultati, a livelli più ampi e più partecipati,

    Appendice

    BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI DI MARIO DAL PRA a cura di Luca Bianchi

    AVVERTENZA

    La presente Bibliografia prende l'avvio da un primo nucleo di duecentotrenta schede raccolte originariamente dal Dott. C. Berto. Salve le inevitabili omissioni, essa intende fornire documentazione completa della produzione scientifica del Prof. Mario Dal Pra a tutto il 198.3. Non si sono operate selezioni e si sono voluti segnalare tutti gli scritti firmati o siglati. Restano invece esclusi gli interventi occasionali, come gli articoli e 1~ interviste comparse su quotidiani, settimanali o quindicinali. Per facilitare i rinvii interni, ad ogni voce è staro assodato un numero composto di quattro cifre, di cui le prime due indicano l'anno di edizione, le ultime due l'ordine entro l'anno, ordine che segue questa successione: libri; edizioni di testi; traduzioni ed antologie; repertori bibliografici; saggi ed articoli di riviste, atti di congressi o volumi miscellanei; voci di enciclopedie o dizionari; introduzioni, presentazioni e prefazioni; recensioni e schede. Se uno scritto è stato ristampato o ripubblicato senza sostanziali variazioni, la circostanza viene segnalata alla prima occorrenza dello scritto stesso. In caso di mutamenti significativi la nuova edizione costituisce voce autonoma.

    SIGLE E ABBREVIAZIONI Bollettino = Bollettino della Società filosofica italiana RCSF Rivista (critica) di storia della filosofia Ree. Recensione o Scheda ST = Segni dei tempi

    752 1937 3701 Amore di sapienza. Avviamento elementare allo studio della filosofia, Tipo-

    grafia Commerciale, Vicenza, pp. 134 (seconda edizione nel 1939; terza edizione nel 1941). 3702 L'educazione del carattere nel pensiero kantiano, Editrice Studium, Roma, pp. 27. 3703 Il realismo e il tra,cm,derite. Cedam, Padova, pp. xxviii-166. 3704 , ST, IV, n. 4, pp. 60-80. 1938 3801 Traccia di una filosofia del Cristianesimo, Editrice Studium, Roma, pp. 3802 La Didaché. Insegnamento del Signore alle Genti per mezzo dei dodici

    Apostoli, introduzione, traduzione e note a cura di M. Dal Pra, Tipografia Commerciale, Vicenza, pp. 62.

    3803 P. Galluppi, Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia relativamente ai principi della conoscenza umana da Cartesio a Kant inclusivamente, pagine scelte con introduzione e note a cura di M. Dal Pra, Cedam, Padova, pp. xxvii-131 (seconda edizione nel 1942; terza edizione nel 1948). 3804 « Rosmini e la libertà della creazione», ST, V, n, 1, pp. 35-38. 3805 «L'io' e il 'tu'; il problema dell'amore (appunti))>, ST V, n. 2, pp. 53-59. 3806 Ree. di G. Novaro Ducati, La vittoria di Kalidasa (Carabba, Lanciano, 1937), ST, V, n. 3, pp. 137-138.

    3807 Ree. di A. Baroni, La realtà educativa (La Scuola, Brescia, 1936), ST, V, n. 3, pp. 138-142. 3808 Ree. di G. Sala, Natura storica e coscienza sociale nel pensiero politico italiano del secolo XVIII (Carabba, Lanciano, 1937), ST V, n. 6, pp. 93-94. 1939

    3901 « L'uno e i molti: il problema della società», ST, VI, n. 1, pp. 82-98. 3902 « Il solipsismo e la vita», ·ST, VI, n. 2, pp. 78-84. 3903 « L'umanesimo e la scuola (in margine alla 'Carta della scuola'})>, ST, VI, n. 3, pp. 55-60. 3904 « Il teismo di Bernardino Varisco }>, ST, VI, n. 4, pp. 9-40. 3905 , in Enciclopedia Filosofica, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma, voL I, coli. 8-14 (seconda edizione nel 1967; ristampe della seconda edizione nel 1978 e 1982. Cfr. anche il n. 7614). 5704 « Scoto Eriugena », in Enciclopedia Filosofica, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma, vol. IV, coli. 474-478 (seconda edizione nel 1967; ristampe della seconda edizione nel 1978 e 1982. Cfr. anche il n. 7615). 5705 « Scetticismo greco», in Dizionario di Filosofia, Edizioni di Comunità, Milano, pp. 37-38. 5706 « Scolastica», in Dizionario di Filosofia, Edizioni di Comunità, Milano, pp. ~~

    .

    5707 « Scoto Eriugena », in Dizionario di Filosofia, Edizioni di Comunità, Milano, pp. 76-77. 5708 «Il problema degli universali», in Dizionario di Filosofia, Edizioni di Comunità, Milano, pp. 77-78. 5709- , in Dizionario di Filosofia, Edizioni di Comunità, Milano, pp. 89-90. 5717 « San Bonaventura)>, in Dizionario di Filosofia, Edizioni di Comunità, Milano, pp. 90-91. 5718 « Alberto Magno)>, in Dizionario di Filosofia, Edizioni di Comunità, Milano, pp. 91-92. 5719 « Tommaso d'Aquino)), in Dizionario di Filosofia, Edizioni di Comunità, Milano, pp. 92-95. 5720 , in Dizionario di Filosofia, Edizioni di Comunità, Milano, pp. 95-96. 5721 « Duns Scoto », in Dizionario di Filosofia 1 Edizioni di Comunità, Milano, pp. 96-97. 5722