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Italian Pages 207 [211] Year 2019
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La filosofia e il suo passato 71
Comitato direttivo M arco F orlivesi, F ab io G rigen ti, Sarah H u tto n , M ario L o n g o G iu se p p e M ich eli, G regorio Piaia, G aetan o R am etta
Comitato scientifico Enrico Berti, Carlo Borghero, Mario Santiago de Carvalho, M ichele Ciliberto, G irolam o C otroneo t , Chiara Crisciani, José M eirinhos, F ilippo M ignini, A nn Moyer, Stefano Poggi, Riccardo P ozzo, Jacob Schm utz
Carlo Satironi
Della filosofia o del non sapere
dçUp
V olum e realizzato con il con trib uto d ell’U niversità degli Studi di Padova - D ipartim ento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e P sicologia Applicata (FISPPA)
D ella filosofia o del non sapere / Carlo Scilironi. - Padova 2 0 1 9 .- 2 0 7 p. ; 22 cm (La filosofia e il suo passato ; 71) ISB N 978 88 5495 083 2 1. Essere 2. N ulla I. Scilironi, Carlo
Cleup,
111
Prima edizione: aprile 2019
ISSN 2611-8645 ISB N 978 88 5495 083 2 © 2019 C leup se aC oop. Libraria Editrice Università di P adova” via G . Belzoni 118/3 - P adova (t. + 39 049 8753496) w w w .cleup.it w w w .faceb ook.com /cleup Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattam ento, totale o parziale, con qualsiasi m ezzo (com prese le cop ie fotostatiche e i m icrofilm ) son o riservati. Le proposte di pubblicazione vanno indirizzate ai Proff. Mario Longo ([email protected]), G aetano Rametta ([email protected]), Fabio G rigenti (fabio.grigenti@ unipd.it), M arco Forlivesi (marco. forlivesi@ unich.it). I testi inviati saranno accettati per la pubblicazione solam ente a seguito di un p rocedim ento di p ee r review. In copertina: R affaello , La filosofia (Palazzi Vaticani, Stanza della Segnatura)
Indice
Prefazione
7
I.
Ritornare a Kant
9
IL
Dell’essere
21
III.
Del nulla o dell’inintelligibile
31
IV.
Dell’evento o dell’accadere e del divenire
45
V.
Proposizione speculativa e giudizio: Hegel e Tommaso
63
VI.
Giudizio e ante-predicativo: Aristotele eHeidegger
85
VII. Intelligibilità e non sapere: Platone
123
V ili. Del non sapere o della speranza
137
Appendice I.
La struttura dell’essere
153
IL
Per un realismo critico
159
III.
Linguaggio e rivelazione Note a margine della filosofia italiana contemporanea
171
Nota bibliografica
203
Indice dei nomi
205
Prefazione
Il libro propone un’interpretazione dell’essere e del nulla come «concetti limite», in prospettiva non eidetica ma funzionale, obbediente alla radicale finitezza dell’uomo, che trova nel sapere di non sapere socratico la sua cifra imperitura e nell’elaborazione kantiana la sua più lucida riproposizione. Si tratta di una ripresa e di un approfondimento di quella «problematicità pura» che la scuola padovana di filosofia, in tempi non lontani, è andata elaborando con dovizia di risultati, ampiamente riconosciuti sul piano della ricerca storica - si pensi ai lavori di Enrico Berti e di Franco Chiereghin - , meno invece sul piano della riflessione teoretica - si pensi ai contributi di Marino Gentile e di Giovanni Romano Bacchin. Il testo procede in costante dialogo con le forme più essen ziali e rigorose del pensiero contemporaneo, soprattutto con la declinazione dell’essere come possibilità di Heidegger e con quella dell’essere come necessità di Severino; ma la rivendicazio ne prima e fondamentale è quella dell’irriducibilità dell’essere all’ente e del pensiero al linguaggio, cui è demandato il senso stesso della ricerca filosofica. Quanto all’articolazione del testo possono essere utili tre precisazioni. La prima riguarda la disposizione della materia.
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Prefazione
Degli otto capitoli che compongono il testo, il primo, Ritornare a Kant, è a tutti gli effetti l’introduzione del libro. Il secondo, il terzo e il quarto capitolo tematizzano l’essere, il nulla e il dive nire (evento). I capitoli quinto e sesto s’interrogano sul «luogo» della verità, sul giudizio o proposizione, e il capitolo settimo riporta il problema all’intelligibilità del reale. Questo lo svilup po del libro. Detto brachilogicamente: essere e verità. L’ottavo capitolo è un accenno - nulla più di un accenno - allo sviluppo della prospettiva proposta in ordine al tema della speranza. Il capitolo raccorda peraltro questo lavoro con quello precedente, pubblicato in questa medesima collana, sul tema della morte (Note intorno al problema della morte, 2018). La seconda precisazione riguarda la forma. Si è fatto ri ferimento ai capitoli, e tali sono, ma per la forma espositiva costituiscono saggi autonomi, ciascuno leggibile anche singo larmente, qualcuno già pubblicato in rivista o volume (cfr. Nota bibliografica). Si è ritenuto di non intervenire sui testi già editi: ciò ha comportato il ripetersi di alcune espressioni letterali, ma si confida che il limite sia compensato dal mantenimento dell’in telligibilità autonoma dei saggi. La terza precisazione riguarda l’appendice. Essa riporta tre testi: il primo, pubblicato originariamente nel lontano 1985, con tiene una prima formulazione della struttura dell’essere, e segna il terminus a quo della riflessione attuale. Il secondo è una decisa presa di posizione contro il «nuovo realismo» contemporaneo. Il terzo coniuga il tema dell’essere con quello del linguaggio e del sacro, valorizzando alcuni dei contributi più significativi dell’attuale pensiero filosofico italiano.
I. Ritornare a Kant
I. Nelle sue varie articolazioni la filosofia contemporanea ha proposto e svolto - e continua a proporre e svolgere - la tesi del tramonto del senso dell’essere. Il noto inizio di Sein und Zeit, «il problema dell’essere è oggi dimenticato»1, riecheggia espli citamente, pur con diversa prospettiva, nell’incipit di Ritornare a Parmenide di Severino («la storia della filosofia occidentale è la vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere»2), ma direttamente o indirettamente attraversa una porzione assai ampia del pensiero contemporaneo. Peraltro il tema precede lo stesso Heidegger; basti pensare alla declina zione del motivo del «crepuscolo» o alle invettive «in philoso phos»·. celeberrima quella che apre La stella della redenzione di Rosenzweig, dove a far tramontare il pensiero da Parmenide a Hegel è il dislocarsi vom Tode.
1 M. H eidegger, Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1970, p. 17. 2 E. Severino, Ritornare a Parmenide, «Rivista di filosofia neo-scolastica», 56 (1964), p. 137 (ora in Id ., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 19).
IO
Capitolo I
Ma che cosa significa «tramonto del senso dell’essere»? Il senso dell’essere può tramontare? E che deve intendersi con senso dell’essere? L’essere ha forse un senso, o non è esso piut tosto il senso? Per Heidegger il senso dell’essere sta nell’origi naria apertura che consente il manifestarsi dell’ente, apertura che si obnubila con l’imporsi degli enti e si mistifica con l’ela borazione metafisica dell’Ente supremo; per Severino il senso dell’essere è tutto nell’opposizione al nulla, ma è già sempre di leguato con qualsivoglia attenuazione dell’opposizione, anche e massimamente proprio con quel discorso che dell’opposizione vorrebbe essere l’esplicita difesa, cioè a dire con il principio di non contraddizione. La questione del senso dell’essere è la questione filosofi ca fondamentale, altro non essendo la filosofia che il pensiero autenticamente consapevole dell’essere. Ma perché la consape volezza dell’essere sia autentica è necessario che essa sia in foto convertibile con il darsi dell’essere, cioè con quella presenza dell’essere che è il lasciar essere l’essere per ciò che esso effet tivamente è, in nulla sporgendo ad esso. E quanto Parmenide esprime col frammento 3: tò gàr auto m ein estin te kaì etnai, piena convertibilità di autentico pensiero dell’essere e dell’esse re nel suo autentico porsi. Il tramonto del senso dell’essere introduce uno iato tra l’essere e il suo senso, ma tale iato è possibile solo scorporan do il pensiero dall’essere e l’essere da se stesso, ovvero facendo dell’essere un «qualcosa», un «ente» - o «entissimo» che dir si voglia - , su cui il pensiero si esercita. A tramontare non è mai simpliciter il senso dell’essere, ma sempre questo senso dell’es sere, in cui l’essere appare come un alcunché di cui si dice. D ’altro canto è ancor sempre questo senso dell’essere a poter «sorgere». Sia che tramonti sia che sorga il senso dell’essere non sfugge al capestro della riduzione dell’essere ad ente. In uno si saldano le prospettive del tramonto e della nuova aurora; nichi lismi e messianismi si coappartengono. La facile obiezione che la piena convertibilità di pensiero ed essere è smentita dal fatto che il pensiero non è mai mera trasparenza dell’essere, ché, se così fosse, nessuna domanda
Ritornare a Kant
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potrebbe sorgere, siffatta obiezione si regge sul medesimo pre supposto della tesi del tramonto del senso dell’essere. Anche in questo caso si pretende l’oggettivazione dell’essere: si pretende che l’essere, identico al suo senso, sia un dato constatabile. Ma la convertibilità di pensiero ed essere non dice affatto l’intenzionabilità diretta dell’essere, così come non dice l’oggettivabilità dell’essere, come surrettiziamente si presuppone nell’obiezione formulata; la convertibilità di pensiero ed essere dice sempli cemente che pensiero ed essere si corrispondono, ovvero che, autenticamente intesi, vanno in uno. Ma come vadano in uno non dice e non può essere presupposto sulla falsariga dell’oggettivazione scientifica. L’identità di pensiero ed essere è correttamente intesa solo se non si risolve in una signoria del pensiero sull’essere e in una riduzione dell’essere ad ente. Il pensiero non può, in ra gione della sua indubitabile intrascendibilità, ergersi a costitu tivo dell’essere, giacché dall’essere è già sempre predicato. Il pensiero rileva l’essere, non lo costituisce. Detto altrimenti: il pensiero è il «manifestarsi» dell’essere, è la «presenza» per la quale l’essere si rivela ed è consaputo; nulla più di questo. Ma la manifestazione dell’essere - il pensiero - è autenticamente com presa solo se non risolve l’essere in un ente, ché, se l’essere fosse un ente, gli altri enti cadrebbero di necessità fuori dall’essere, ovvero non sarebbero. Proprio perché identico all’essere, il pensiero non può oggettivare l’essere, non può ridurlo ad ente. In ogni pretesa oggettivazione dell’essere il senso dell’essere, ancorché detto, è già sempre tramontato: questo il limite di ogni ontoteologia, di ogni metafisica dell’essenza, di ogni filosofia che pretenda di semantizzare onticamente l’essere. Le analisi di Heidegger e Severino lamentano giustamente la riduzione della metafisica occidentale a «fisica». Ma il senso dell’essere non è tramontato solo laddove ne è presunto il possesso oggettuale, è tramontato pure dove il pen siero è totalmente risolto senza residui in ciò attraverso cui si attua. Al tramonto perpetrato dalla metafisica si accompagna il tramonto dell’antimetafisica, il tramonto operato dalla ridu zione del pensare al linguaggio, dalla riduzione dell’intendere
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Capitolo I
a ciò attraverso cui l’intendere si esprime e alle regole d’uso di codeste espressioni. Il punto è rilevante, perché riguarda la par te maggiore del pensiero contemporaneo, largamente attesta ta in questa pretesa riduzione scientistica del pensare, pretesa esattamente speculare a quella metafisica: mentre i metafisici pretendono di «dominare» l’essere oggettivandolo, gli antime tafisici pretendono di «dominare» il pensare oggettivandolo. Alla riduzione dell’essere ad ente degli uni, corrisponde la ridu zione del pensiero al linguaggio degli altri. Nell’un caso l’esito è l’ontoteologia, nell’altro il logicismo o lo scientismo linguistico. Duplice unilateralità e duplice perdita del senso dell’essere. Ma perché il pensare non può ridursi al linguaggio? Per la stessa ragione per la quale l’essere non può ridursi ad ente. Si consideri: il pensare si attua mercé una forma, e questa forma è la forma proposizionale, che è affermazione e negazione. Ora, ciò che si intende affermando e negando è irriducibile all’affer mazione e alla negazione, le trascende sempre: è la loro inten zione. Ridurre l’intendere alla forma proposizionale attraverso cui si attua, è confondere 1’intelligibilità - il concetto - con la dimensione psicologica o gnoseologistica del pensare, la quale innegabilmente riveste di sé ogni cosa, ma non ha nulla da spar tire con il pensato nella sua intelligibilità, con il concetto. Non è il dire (il linguaggio) l’intelligibilità del pensare, ma il pensare (l’intendere) l’intelligibilità del dire. Non sono l’affermazione e la negazione, cioè la forma proposizionale, 1’intelligibilità del pensare, ma è il pensare l’intelligibilità dell’affermazione e della negazione. Riduzionismo metafisico (l’essere è l’ente) e riduzionismo antimetafisico (il pensare è il linguaggio) convivono da sempre nel cosiddetto senso comune; non casualmente oggi vanno in sieme anche nel «nuovo realismo», che col senso comune con verge in toter1. A non esser compresa in entrambi i riduzionismi è sempre la relazione che il pensiero intrattiene con l’essere.3
3 Cfr. D. Di Cesare-C. O cone-S. R egazzoni (a cura di), Il nuovo realismo è un populismo, Il melangolo, Genova 2013; C. S ciu ron i, Per un realismo attico, «Ars interpretandi», II / 2013 n. 1, pp. 47-54 (riprodotto in appendice).
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Ritornare a Kant
Il «nuovo realismo» pensa che si debba andare all’essere al di là del pensiero, non comprendendo l’intrascendibilità del pen siero e non vedendo che è l’essere a venire al pensiero, ossia a uscire dalla léthe e venire nella «presenza» (alétheia). Ma non visto per lo più neppure dai metafisici è che l’essere non può venire nella «presenza» direttamente, pena il convertirsi in un ente, con la conseguenza già indicata di lasciare gli altri enti fuori dall’essere, privi cioè di ciò per cui essi sono, sì che essi simpliciter non sarebbero. Ma venire alla presenza indirettamente significa una duplice impossibilità: l’impossibilità che l’essere venga detto altrimenti che come un ente, e l’impossibilità che come un ente venga inte so. È la sottolineata distinzione di linguaggio e pensiero: altro è il dire (il linguaggio), altro Yintendere (il pensare). Se si vuol dire l’essere, non lo si può dire che come un ente·, ma se è l’essere che si vuol dire, non lo si può intendere come un ente. Ridurre il pensiero al linguaggio è ridurre l’essere all’ente, la filosofia alla scienza, la metafisica alla fisica; è ridurre il senso dell’essere ad un senso che non è il suo, ovvero è ridurlo a un non-senso.
II A fronte del tramonto del senso dell’essere, sia ad opera dei metafisici che se ne arrogano il possesso, sia ad opera degli an timetafisici che non ne riconoscono il problema, resta l’onere di procedere per aliam viam. Heidegger lo riconosce con lucidità, tracciando esemplarmente il compito del filosofare nei termini di «un pensiero, che non può essere né metafisica, né scienza»4. E significativamente sembra quasi procedere a ritroso rispetto al percorso classico della filosofia che conduce dall’hóti al dióti: è Vhóti che qui si fa massimamente interrogante; è il «si dà», 1’ «es gibt» a richiedere ascolto. Si può osservare - ed è osservazione
4 M. H eidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Zur Sache des Denkens, trad. it. di E. Mazzarella: Tempo ed essere, Guida, Napoli 1980, p. 167.
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Capitolo I
certamente corretta - che già interpretando Kant nel libro del ’29, privilegiando l’Estetica, Heidegger è tutto concentrato sul «darsi», tuttavia l’indicazione contenuta nel saggio raccolto in Zur Sache des Denkens suona indubitabilmente come un pro gramma o un compito. Programma e compito che Heidegger, peraltro, ha l’acutezza di veder alluso già in un passo del iv libro della Metafisica (1006 a 6-8) di Aristotele: «È in verità assenza di educazione (apaideusìa) non avere occhio per ciò in riferimento a cui è necessario cercare una prova e ciò per cui non lo è»5. Il «si dà», Γ«£ί gibt», il «darsi» è appunto ciò che non abbisogna di prova. Ma il punto per Heidegger, quello che impone di medita re con la massima cura il passo di Aristotele, è che «non è ancora deciso in che modo deve essere esperito ciò che non abbisogna di alcuna prova per divenire accessibile al pensiero»6. L’onere, in ogni modo, è quello di procedere per aliam viam\ né metafisica né scienza, ma un altro cammino per il pen sare. La traccia di Heidegger è in quel colpo di sonda che è rappresentato dalla Lichtung, di cui si dice che «nella filosofia resta impensata come tale»7, senza mancare però di aggiungere: «benché al suo inizio si parli della Lichtung». È lo stesso Hei degger a chiedersi: «Dove accade e con quale nome? Risposta: nel poema pensante di Parmenide»8. Il sentiero del pensare ri conduce ancor sempre là, al grande eleate. Così è per Heideg ger9 e così, e ancor più, per Severino, che enfatizza: «E proprio nei pochi versi del poema di Parmenide che si nasconde la pa rola più essenziale e più dimenticata di tutto il nostro sapere»10.
5 Ivi, p. 180. 6 Ivi, p. 180. Ivi, p. 175. 8 Ivi, p. 175. 9 «Continuo a confrontarmi con Parmenide», scrive Heidegger in una delle ultime lettere ad Hannah Arendt (9.7.1973), e in un’altra annota: «Nell’ulti mo seminario mi è balenata una luce su Parmenide, a proposito di un testo su cui spesso mi sono affaticato in lezioni e seminari» (19.11.1973): H. A rendtM. H eidegger, Lettere 1925-1975, trad. it. di M. Bonola, Edizioni di Comu nità, Torino 2001, pp. 189 e 191. 10 E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 20.
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Ma come riportarsi a Parmenide senza ripetere l’oggettivazione metafisica? Non è forse proprio Parmenide il padre della pretesa di poter dire compiutamente l’essere? E non è proprio in riferimento al suo senso dell’essere che si deve parlare di tra monto del senso dell’essere? La difficoltà è ripensare ciò che Parmenide ha pensato non come l’originario e pur già compiu to, ultimo e definitivo senso di un essere finalmente dato, sancta sanctorum di «qualcosa», al quale non resta che ritornare, ma come l’indicazione del senso cui rimanda l’insufficienza degli enti a se stessi, ovvero la loro non assolutizzabilità. Si è già considerato perché l’essere non possa venir alla presenza direttamente, tuttavia l’essere è già sempre detto nel darsi di ogni ente, nella «è», esplicita o implicita, che non può non accompagnare ciascun ente nel suo porsi. La via imprati cabile, la via dell’errore, è quella che converte questo essere, necessariamente detto nel porsi di ogni ente, in un «dato», in un «qualcosa», in un «ente» esso pure. In questa conversione sta ogni pretesa «costruzione» del senso dell’essere, che come ogni costruzione, ancorché contraddittoria perché riducente l’essere ad ente, è nulla più che un umano prolungamento, nulla più che una proiezione sull’essere di un senso «mondano». Come si è ricordato, l’essere, per esser detto, non può esser detto che come un ente, come un ente non può però essere inte so, pena non esser l’essere il pensato. Mai presente direttamen te, ché sono gli enti a porsi direttamente nella presenza, l’essere è sempre presente indirettamente, per l’impossibilità del darsi degli enti senza di esso. Ma è desso che si pensa effettivamente, giova ripeterlo, solo se non lo si intende come un ente; e non lo si intende come un ente solo avvertendo che l’improcedibilità alla formulazione di esso nonché al ti esti che lo riguarda - improcedibilità perché l’«è» sia della formulazione sia dell’inter rogazione non può non essere presupposto11 - circoscrive ne-
11 La formulazione dell’essere («l’essere è») risulta aporetica, giacché, se l’es sere è ciò in virtù di cui ciò che è è, dire di esso (di ciò in virtù di cui ciò che è è) che «è», non si sfugge al rimando all’infinito dell’implicazione. La do manda «che cos’è l’essere?» è parimenti aporetica, perché, per potersi porre
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Capitolo I
cessariamente il suo «venir detto» all’insufficienza di ciascun ente a se stesso. Se gli enti non possono dirsi senza l’essere, e se l’essere non è un ente, l’essere è detto solo per la non sufficienza degli enti a se medesimi. Ma l’insufficienza degli enti a se me desimi è nuli’altro che la loro finitezza. L’essere, dunque, dice la finitezza degli enti. Sottratto ad ogni immediatezza, ad ogni presenza o dicibilità diretta, e dunque ad ogni senso proprio che possa sorgere e tramontare, l’essere, detto solo per gli enti che in virtù d’esso sono, è un concetto limite {Grenzbegriff)12. Come tale non tra disce ciò che intende solo non assumendo forma direttamente, non divenendo cioè mai propriamente un «pensato», ma risol vendosi in funzione «finitizzatrice» dell’ente13. Non ci si nasconde la difficoltà di veder supportata dai ver si parmenidei la traccia kantiana qui ripresa, neppure però lo si intende escludere a priori, ripensando ad esempio alla lettu ra parmenidea di Colli14. Lasciando aperto il problema sotto il profilo storico e limitandoci in questo contesto al rilievo teoreti co, si può osservare che se quello di essere è un concetto limite, «e di uso, perciò, puramente negativo»15, ciò non significa affat to che si tratti di un concetto inutile e infecondo, tale da poter essere archiviato per far posto più agevolmente all’indagine de gli enti. Già Kant scriveva che «questo concetto è necessario»16, onde non procedere ad una contraddittoria considerazione de gli enti come assoluti. È per esso che il filosofo speculativo resta all’altezza del compito esclusivo di cui è titolare, la «critica della
come domanda, non può non sottrarre a interrogazione l’«è» che la pone, il quale «è» invece nella domanda, affinché sia effettivamente l’essere a venir interrogato, dovrebbe essere coinvolto. 12 I. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. LombardoRadice, Laterza, Roma-Bari 1971, p. 257. 13 Cfr. C. Scilironi, Essere e trascendenza, Edizioni La Gru, Padova 2011, p. 11. 14 Cfr. G. C o lli, La natura ama nascondersi, Adelphi, Milano 1988, pp. 165185; Id ., Gorgia e Parmenide, Adelphi, Milano 2003. 15 I. Kant , Critica della ragion pura, cit., p. 257. 16 Ivi, p. 257.
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ragione»1718, ed è ancora per esso che può realizzarsi la sokratische Artn del filosofare. Non saper vedere nell’essere come concetto limite la fecon dità che gli è propria, perché non può tradursi in un concetto positivo19, in un semantema determinato, è un’ennesima forma di tramonto del senso dell’essere. Ma Kant è tanto più guida proprio a questo proposito, allorché dei concetti puri razionali scrive: «Ora, sebbene dei concetti trascendentali della ragione dobbiamo dire che non sono se non idee, tuttavia non avremo in alcun modo a ritenerli superflui e nulli». La motivazione è indicata subito appresso: «Se infatti per mezzo di essi nessun og getto può essere determinato, essi nondimeno possono in fondo, e quasi di nascosto, servire aU’intelletto da canone nell’estendere e rendere coerente il suo uso; ond’esso bensì non conosce alcun oggetto più che non lo conoscerebbe coi suoi concetti, ma in questa stessa conoscenza è diretto meglio, e più in là»20. Cioè a dire: il concetto limite di essere non solo impedisce ogni inde bita assolutizzazione degli enti e rende possibile la critica della ragione, favorisce pure una più corretta, profonda ed estesa co noscenza degli enti medesimi. Duplice fecondità: sintattica nel rendere coerente l’uso dell’intelletto e semantica nell’estenderlo. Ciò non toghe che con le idee trascendentali «propriamen te non si conosce se non che non si sa niente (daß man nichts wisse)»21, e tuttavia, daccapo, proprio questo niente, allo stesso modo del sapere di non sapere socratico col quale viene a con vergere, risulta il massimamente gravido22. Prova ne sono oggi, ci sembra, tanto la meditazione dell’ultimo Heidegger sull 'Ereignis, quanto la riflessione di Severino sulla struttura dell’apparire.
17 Ivi, p. 31. 18 Ivi, p. 29. 19 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 255 ss. Cfr. in proposito le lucide pagine di G. Micheli, Matematica e metafisica in Kant, Cleup, Padova 1998, p. 72 ss. 20 Ivi, p. 309. 21 Ivi, p. 387. 22 Cfr. A. O rgante, Sul concetto kantiano di nulla, Cleup, Padova 2003, p. 117.
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Capitolo I
III Il recupero del senso dell’essere come concetto limite non può non fare i conti con il concetto del nulla, che alla semantizzazione dell’essere è parso sin dall’inizio essenziale. Com’è noto Parmenide afferma che l’essere è e il non-essere non è, e pone nell’opposizione di essere e nulla il principio. Nel pensie ro contemporaneo Severino ha ripreso la posizione parmenidea e l’ha rigorizzata fino in fondo. Ebbene, la domanda semplice ed essenziale è la seguente: se l’essere è un concetto limite, che ne è del nulla, della semantizzazione dell’essere come non-nulla e del principio dell’opposizione di positivo e negativo?23245 Il testo di Kant soccorre anche in questo caso, suggerendo un’indicazione fondamentale a proposito del nulla. Il riferimen to non è alla tematizzazione esplicita del nulla nella pagina fina le dell’Analitica nella prima Crìtica, ma alla menzione del nulla all’inizio del secondo capitolo (sez. I) dell’Analitica dei princi pi, dove Kant, dopo aver asserito che «la condizione universale, sebbene soltanto negativa, di tutti i nostri giudizi in generale è questa, che in se stessi non si contraddicano», aggiunge: «se no, questi giudizi in se stessi (anche senza riguardo all’oggetto) non sono nulla (nichts sind)»24. L’osservazione è importante: essa dice che un pensiero che si contraddice si annulla, ossia che la contraddizione è la morte del pensiero, è il cessare dell’in tenzionalità, è il venir meno del concetto. La contraddizione, in altri termini, sottrae all’intelligibilità, riduce al nulla. Così dicendo Kant converge con quello che era già il divieto parmenideo di pensare il nulla25. La stretta kantiana è nel circolo che chiude l’intelligibilità nell’essere e l’inintelligibilità nel nulla. Sostenere che un giu dizio che si contraddice si annulla, significa affermare l’impensabilità della contraddizione. Nulla e contraddizione sono
23 Per uno svolgimento più analitico di quanto segue si rinvia al saggio n. 3 intitolato Del nulla o dell’inintelligibile. 24 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 171. 25 P armenide, fr. 2, w. 7-8.
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impensabili, e sono impensabili perché impossibili; pensabile è solo l’essere. L’identità di pensiero ed essere (Parmenide, fr. 3) dice che il pensiero è sempre pensiero di qualcosa. Il pensiero di nulla è simpliciter non-pensiero: pensare il nulla è non pen sare. Pretendere di pensare il nulla è pretendere l’impossibile, è pretendere la contraddizione in atto, il contraddirsi in cui l’atto del porre è lo stesso atto del togliere. Per poter dire una con traddizione - e la si può dire - occorre che l’atto del porre non sia l’atto del togliere: se fosse lo stesso atto, il dire non sarebbe, non si costituirebbe. Posta l’impensabilità del nulla - Pimpensabilità della con traddizione in atto -, è con ciò stesso posta anche l’impensabi lità dell’essere come opposto al nulla. L’impensabilità del nulla scardina la semantizzazione dell’essere come opposto del nulla, giacché, se il nulla non è, opporsi al nulla è simpliciter non op porsi. L’intelligibilità dell’opposizione di essere e nulla non può dunque esser altro se non che all’essere nulla può opporsi. In questo modo viene anche in chiaro che l’opposizione, inelimi nabile per la struttura attuativa del pensare, non è in quanto tale l’originario. È la struttura del «dire», la struttura del «linguag gio», la forma del pensare, ma non l’intelligibilità del pensare, non l’originaria struttura del pensiero. Se l’inintelligibilità del nulla impedisce di considerare strut tura originaria l’opposizione di positivo e negativo e con essa la semantizzazione dell’essere come negazione del nulla, nondime no in riferimento alla parola nulla che compare nella forma del pensare, si deve dire, come per l’essere, che è un concetto limite, perché si tratta di un concetto che nulla ha di proprio, ma è tutto risolto nella funzione che esercita, la funzione di rappresentare il modo in cui il pensiero pensa l’essere, cioè negando la pos sibilità di negarlo. L’insostituibilità linguistica del nulla attesta, dunque, la via indiretta (dialettica) e non diretta (analitica) della pensabilità dell’essere. Ma con ciò resta chiaramente indicato il limite del pensiero, che non pensa mai il nulla (l’impensabile), ma coglie sempre e solo se stesso nel proprio limite. Allo stesso modo dell’essere che come concetto limite «finitizza» l’ente, il nulla come concetto limite «finitizza» il pensiero.
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Capitolo I
Inintelligibilità del nulla e impensabilità (diretta) dell’esse re si tengono insieme: insieme attestano la «finitezza» e insieme mantengono lo spazio per l’ulteriorità, la spazio per la trascen denza, preservandolo kantianamente da ogni possibile cattura.
IL Dell’essere
I Il problema attorno a cui si intende riflettere concerne il rapporto tra l’essere e le categorie della modalità. Ci si chiede se l’essere non possa che venir pensato secondo tali categorie e, nel caso che sì, che cosa questo significhi. La questione na sce dall’istanza più profonda della filosofia contemporanea, volta essenzialmente a radicalizzare il suo sguardo sull’essere, che essa ripensa o come necessario o come possibile, ritenen do, nell’uno e nell’altro caso, di pronunciare una parola defi nitiva. Ma uno sguardo retrospettivo, anche fugace, non fatica a rendersi conto che la radicalizzazione contemporanea non è che lo sbocco conseguente di una lunga tradizione, attestatasi per lo più sulla consegna dell’essere al reale, declinato come necessità debole o possibile non radicale. Sono stati in partico lare i poderosi contributi della filosofia classica tedesca, prima, e di Nietzsche, poi, ad imprimere una decisa accelerazione al processo di disincantamento e rigorizzazione contemporaneo. L’esito attuale, rappresentato dalle due secche e antinomiche prospettive dell’essere come possibilità e dell’essere come ne cessità, compie tale processo e, compiendolo, lo porta alla luce.
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Più che di un superamento della tradizione sembra trattarsi di una essenzializzazione rigorizzatrice che esprime la radice ul tima, implicita nella tradizione, la quale appare appunto così piuttosto compiuta che superata. E in tale compimento non è impossibile ravvisare una comune intentio che approssima po sizioni espressamente contrapposte, dispiegandole come mo dulazioni di uno stesso.
II La domanda se l’essere debba venir inteso - cioè non possa non esser pensato che - secondo le categorie della modalità, esi ge un previo duplice chiarimento. Anzitutto occorre precisare l’orizzonte semantico del «pensare» che ricorre nell’espressione pensare l’essere, occorre cioè chiarire se con tale espressione si intenda «tematizzare», «oggettivare», «concettualizzare», ecc. nel senso di far oggetto della nostra mente, oppure se l’accezio ne assunta sia altra. In secondo luogo occorre problematizzare il «se», chiedendosi, appunto, se l’essere debba effettivamente venir pensato, ovvero se lo possa. Assunto il pensare nell’accezione oggettivante, donde l’es sere come pensato, l’espressione «pensare l’essere» può tanto apparire assurda quanto risultare inevitabile. Per un verso, in fatti, si ha gioco facile nel mostrare l’irriducibilità dell’essere a pensato, ché, nel pensare, il «pensato» è sempre un essere e non già mai /’essere. Il che è quanto dire che ad esser pensato è sempre l’ente e non l’essere simpliciter. Ma allorché, di con seguenza, si asserisce che propriamente l’essere non può venir pensato, l’interrogativo si sposta sull’affermazione medesima, che, proprio per escludere la pensabilità dell’essere, non può non pensarlo. Aporia antichissima questa, già presente sin dalla chiusa del frammento 2 di Parmenide in rapporto al nulla. Ma allora, l’essere, allorché se ne pretende il pensiero, viene pensato o no? La proposizione che esclude la pensabilità dell’es sere, nominando l’essere, se l’essere è impensabile, che cosa pensa? È riducibile ad un vuoto gioco di parole, a un imbroglio
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linguistico, o pensa, cioè intende , alcunché? In forma radicale: il pensare - Yintelligere , l’intendere - è riducibile a ciò mediante cui si esprime e alle regole d’uso di codeste espressioni, o no? È proprio perché il pensare è irriducibile a ciò attraver so cui si dà - ne è l’intrinseca e permanente trascendenza -, che l’aporetica dell’impensabilità dell’essere (si afferma in actu exercito ciò che si nega in actu signato) non può essere liquidata a buon mercato, ma va ripensata secondo 1’intentio che la sor regge. Né tale aporeticità può essere posta sullo stesso piano di quella che affligge Vasserzione della pensabilità dell’essere, ché l’una concerne l’impossibilità che l’essere sia «oggetto», ovvero «pensato», mentre l’altra riguarda Vaffermazione di tale impos sibilità. L’aporetica concernente l’asserzione si dà direttamente solo con la negazione della pensabilità, ché, se la pensabilità non è negata, l’asserto non afferma in actu exercito ciò che nega in actu signato1. Tuttavia le due distinte aporeticità stanno tra loro in circolo come ciò che affligge contenuto e forma del pen siero dell’essere: per esprimere l’aporeticità del contenuto - l’ir riducibilità dell’essere a «oggetto», a «pensato» - la forma del pensare si contraddice ponendo ciò che asserisce di togliere, pensando ciò che nega di poter pensare. Ed è certo l’uscita dalla prima aporia, cioè la negazione della riduzione dell’essere a og getto (a ente), a determinare la seconda - il pensar l’essere pro prio per escluderne la pensabilità -, ma non per questo l’uscita dalla prima aporia può essere evitata. La seconda aporia si scio glie non cercando di impedirne l’insorgenza, ma indagandola nel suo significato. Che vuol dire che per escludere la pensabi lità dell’essere, l’essere deve comunque venir pensato, pena, ap punto, la non esclusione della pensabilità dell’essere? Significa forse che, nonostante ogni tentativo e ogni buona intenzione, la negazione della pensabilità dell’essere non riesce, è un tentativo
1 Anche Yasserzione relativa alla pensabilità dell’essere è, beninteso, aporetica, ma in altro senso, inverso rispetto al precedente, perché in questo caso si nega in actu exercito ciò che si afferma in actu signato, cioè non si pensa effettivamente ciò che si asserisce di pensare. Ma questa è la stessa prima forma dell’aporetica.
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sempre frustrato? O significa, invece, che dell’essere, proprio perché non pensabile, non può esser pensata neppure l’impensabilità? Delle due ipotesi la prima sottolinea Pineludibilità dell’essere, la seconda l’improcedibilità predicativa rispetto ad esso. Né l’una ipotesi esclude l’altra, ché la prima dice la pre supposizione dell’essere ad ogni posizione che lo riguarda; la seconda dice invece che, proprio perché l’essere è già sempre presupposto, ogni asserto che pur crede di raggiungerlo, non lo raggiunge affatto. Il che non significa che l’asserto non rag giunga nulla, cioè che si risolva in vaniloquio: esso raggiunge quell’essere che la proposizione oggettiva, cioè l’ente. L’aporia significa dunque la stessa irriducibilità del pensare al pensato, dell’apparire trascendentale all’apparire empirico, dell’essere all’ente. L’inevitabilità dell’aporia, il suo riproporsi in infinitum, è la riprova dell’impossibilità di negare quell’irri ducibilità.
Ili Ma che cosa si intende, allora, con la parola «essere», allor ché si pensa la differenza di essere ed ente? Se l’essere propria mente non può venir pensato, che cosa si pensa pensando tale differenza? Ciò che viene propriamente pensato nella differen za di essere ed ente è la «finitezza» dell’ente: l’essere, impensa bile propriamente, è un concetto limite che intende sì la totalità inoggettivabile, - l’intero, il trascendentale - , ma che non tra disce ciò che intende solo non assumendo forma direttamente (non diventando propriamente un «pensato»), ma risolvendosi in funzione «finitizzatrice» dell’ente. L’impensabilità «propria» dell’essere (l’improcedibilità predicativa rispetto ad esso) è l’impenetrabilità del suo «che cos’è». L’ineludibilità dell’essere è la sua innegabilità, il suo irriducibile darsi. L’unità di impensabilità e ineludibilità, cioè il significato «proprio» dell’essere, è la finitezza dell’ente. Ulteriore radicalizzazione di quanto si va dicendo è data dall’introduzione del concetto di «nulla» e dalla differenza di
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essere e nulla. L’aporetica che affligge il nulla è più complessa di quella dell’essere, perché aU’inoggettivabilità e alTimpensabilità aggiunge l’autocontraddittorietà intrinseca al concetto. Porre il nulla significa, infatti, porre il togliere, pensare l’impensabile, affermare il negare, far possibile l’impossibile, far essere il non essere. È emblematico che lo stesso originario divieto parmenideo di pensare il nulla non possa imporsi se non proprio mercé il pensiero del nulla impensabile. D ’altro canto, come escludere che l’essere sia il nulla se il nulla non viene pensato? Ma se il nulla è, anche e più dell’essere, propriamente impensabile, che cosa viene concretamente pensato con esso nella differenza di essere e nulla? Ebbene, se l’essere è il concetto limite che ren de finito l’ente, il nulla è parimenti il concetto limite che fonda la «finitezza», ovvero determina l’indeterminatezza, dell’essere pur pensato come altro dall’ente. Nella differenza dall’essere il nulla, concetto per eccellenza non eidetico ma funzionale, circoscrive (determina) l’essere impedendone ogni surrettizia assolutizzazione. È così che ne custodisce e preserva l’impensabilità propria. In quanto concetti limite, o funzionali, essere e nulla apro no lo spazio di un oltre, lo spazio della trascendenza, ma solo come correlato della finitezza dell’ente, e non già come spazio disponibile e percorribile. Cioè a dire: la finitezza è pensa ta dall’interno, a parte finiti, e non a parte infiniti. Per questo nessun «pensiero positivo» dell’oltre è possibile se non come filosofia della rivelazione o come teologia o come poesia (arte).
IV Alla luce di quanto considerato la questione relativa al rap porto che l’essere intrattiene con le categorie della modalità si dispiega come domanda concernente la declinazione modale dell’essere come concetto limite. Rispetto alla formulazione ini ziale, la questione è considerevolmente mutata: non si tratta più, infatti, di interpellarsi simpliciter sul rapporto essere-categorie modali, ché ciò presuppone surrettiziamente l’essere come pro-
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priamente pensabile, si tratta invece di interrogarsi sulla decli nazione modale dell’essere come concetto limite. Presupposto l’essere come pensabile, l’ineludibilità della categorizzazione modale risolve il proprio dell’essere nella for ma categoriale, non così invece se l’essere è un concetto limite. Quando Aristotele afferma che l’essere è «quando» (hótan) è e non è quando non è (De interpret. 19A 23-26), egli viene a so stenere che l’essere non è né necessario né semplicemente pos sibile, ma reale-, quando Heidegger rivendica, contra Aristotele, la priorità del possibile sul reale (Essere e tempo, par. 7), egli pone l’essere sotto il segno della possibilità·, quando Severino rivendica l’impossibilità per alcunché di non essere (Essenza del nichilismo, passim), egli intende restituire l’essere come neces sario. Non c’è dubbio che le singole posizioni si articolino in complessità e ragioni affatto irriducibili a facili semplificazioni - basti pensare, a mo’ di cenno, al dynatón come unità dell’esse re in Aristotele; alla declinazione esplicitamente non categoriale della Möglichkeit heideggeriana; al carattere autonegantesi di ogni negazione della necessità in Severino - , l’esito resta però in ogni caso l’assunzione dell’essere o come reale, o come possibi le, o come necessario. L’impensabilità propria dell’essere, per cui l’essere pensato (oggettivato) è sempre Vente e nella differenza di essere ed ente l’essere come concetto limite, sottrae originariamente l’essere in quanto tale ad ogni categorizzazione modale. Se pensato - e tale non può non esserlo secondo la categorizzazione modale -, l’essere è già sempre ente; invece, se pensato nella differenza che lo costituisce, l’essere è nulla più che un concetto limite. E il concetto limite è solo un concetto negativo, che pone la fini tezza e non può dire niente di proprio, perché è propriamente l’assenza del «proprio», è l’impensabilità dell’essere in quanto tale. Ogni concetto «positivo» dell’essere identifica l’essere con l’ente o direttamente o indirettamente. Anche ipostatizzare l’es sere nella differenza dall’ente è entificarlo. Ora, se l’essere è propriamente impensabile e ciò che con esso vien pensato è o l’ente o l’essere come concetto limite, at tribuire la declinazione modale del pensare all’essere simpliciter
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è del tutto improprio, a rigore impossibile. Ciò che si fa è altro da ciò che si ritiene di fare. Si ritiene di declinare l’essere in quanto tale come reale o come necessario o come possibile, in vero si declina come reale o necessario o possibile sempre e solo l’ente. Dell’essere come concetto limite si può certo affermare che, dato l’ente, è dato necessariamente, ma solo per rapporto all’ente, per dirne la finitezza, e non già per esprimere alcunché dell’essere medesimo. L’essere, come concetto limite, è un con cetto funzionale e solo negativo. La declinazione modale dell’essere, inevitabile se dell’es sere si suppone la pensabilità simpliciter, produce un esito ine quivocabilmente ontoteologico, per cui l’essere viene ridotto ad ente. È indubbio però che è proprio per evitare tale esito che nel pensiero contemporaneo si è operato ripensando l’es sere come possibilità, così come è altrettanto indubbio che è dall’esplicita negazione della differenza di essere ed ente che muove la prospettiva dell’essere come necessità. Ma sia pensato come possibile sia pensato come necessario, l’essere è sempre un pensato e non già un concetto limite che intenziona la fini tezza dell’ente. Tuttavia, nell’una e nell’altra prospettiva, pur opposte, l’essere è anche sempre sottratto, obnubilato, e perciò consegnato o all’evento o all’inconscio. L'evento dice una possi bilità che viene da altro, da fuori, da altrove; l’inconscio dice la presenza necessaria di un non saputo. La prospettiva dell 'evento nasce dalla consapevolezza dell’improcedibilità dall’ente all’es sere, onde possibile resta solo il movimento inverso dall’essere all’ente; la prospettiva 6 Æ inconscio nasce invece dal rendersi conto dell’ineludibilità dell’essere in uno con l’impossibilità di ridurre l’apparire trascendentale all’apparire empirico. A ben vedere inconscio ed evento ripropongono i due tratti dell’aporia dell’impensabilità dell’essere, l’ineludibilità e l’improcedibilità predicativa. Dietro l’inconscio sta, infatti, la frustrazione di ogni tentativo di proporre l’impensabilità dell’essere, così come dietro l’evento si cela la consapevolezza della caduta ontoteologica di ogni preteso dir l’essere. Ma custodire nell’inconscio o demandare all’evento il signifi cato (il mostrarsi) dell’essere «necessario» o «possibile» è in ogni
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caso riconoscerne, con l’alterità rispetto all’ente dato, l’intraducibilità fenomenologica. Inconscio ed evento sono dimensioni ontiche, ed ontico è ciò che custodiscono o rendono possibile. Opposti, inconscio ed evento si coappartengono e inabitano: l’inconscio è a suo modo l’evento della necessità, così come l’e vento è a suo modo l’inconscio della possibilità. L’uno dice l’irri ducibile identità di ente ed essere, l’altro la non meno irriducibile differenza - e sono sempre i due tratti dell’aporia della pensabilità dell’essere - , ma né nell’uno né nell’altro caso P«essere» come verità dell’ente dispiega il proprio positivamente: ogni espressio ne viene in ambo i casi circoscritta nel suo limite, che è, di nuovo, quanto dire che viene fissata la finitezza dell’ente.
V Il tracciato dell’epistéme conduce dalYhóti al dióti (Arisi., Metaph. 981 a 29), non al ti esti. Neppure l’«interiore necessità» che sostanzia il vero sapere del «conosciuto» (Hegel, fenomeno logia, Prefaz.) corrisponde al ti esti. E non vi corrisponde nem meno la più sottile e articolata delineazione de «la cosa stessa», che pur ha animato ed anima una porzione molto significativa del pensiero contemporaneo. Non a caso del tò pragma auto, che «nasce d’improvviso nell’anima, come fiamma s’accende da fuoco che balza», Platone non ammette comunicazione di sorta {Lett, vii, 341 c-d). Le sentite esigenze della dimensione ante-predicativa da un lato (Heidegger) e del «mostrare» dall’altro (Wittgenstein) sono tra le espressioni più consapevoli del limite deW’epistéme: proprio per questo, per vie e percorsi diversi, queste prospetti ve propongono un ritorno all ’boti, al quia, al che. E le si frain tende totalmente interpretandole come forme di irrazionalismo o di misticismo: esse non hanno di mira alcun abbandono del lògos, ma la consapevolezza che il lògos come dióti si fonda su un hóti che lo costituisce e sostanzia. Mette conto osservare che la duplicità ravvisabile nello stesso hóti, cioè a dire il suo “darsi” e il suo “che cos’è ”, è dupli-
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cita riflessiva, seconda o intellettuale, ché Yhóti, in quanto tale, è l’unità che ne sta a monte. E, però, siffatta distinzione sembra interpellare circa lo statuto “riflessivo” che riguarda e il «darsi» e il «che cos’è», rispetto ai quali potrebbe parere riproporsi la questione modale. Non v’è però chi non veda che in questo modo non si fa che riportarsi al punto di partenza dell’analisi condotta, con conseguente aporetica e soluzione. Ciò che può essere evidenziato in più è solo sul fronte del «darsi», il darsi a noi e per noi, - che è altro modo per dire la finitezza - , dove il darsi si disvela la misura (del movimento) dell’esistere, ossia «tempo». Quoad nos, per noi, - ma solo per noi -, la moda lità è la temporalità dell’ente. Il modo del darsi, - necessario, reale, possibile -, è, sotto questo profilo, il diverso dispiegarsi dell’essere nel tempo, secondo il giusto riconoscimento kantia no (Critica della ragion pura, Anal. Trasc., Lib. il, Cap. il, Sez. ili, 4: «I postulati del pensiero empirico in generale»). Ma, appun to secondo tale riconoscimento, è solo quoad nos che la forma dell’essere si disvela tempo e, tocca aggiungere, linguaggio. Cioè a dire: l’apparire, sia fenomenologico che logico, non è la forma simpliciter dell’essere, ma sempre e solo dell’essere per noi.
III. Del nulla o dell’inintelligibile
Due brevi considerazioni in via previa. La prima, in sé ple onastica ma non forse del tutto inutile onde evitare equivoci, è la seguente: il termine nulla, come ogni termine, può essere assunto in accezioni semantiche diverse1; in questo intervento lo si intende nell’accezione più radicale, quella che la tradizione ha indicato come il nihil absolutum. La tesi che si viene soste nendo, che il nulla è l’inintelligibile, va dunque riferita solo al nulla come nihil absolutum, non ad altre, non meno legittime, accezioni. La seconda considerazione previa si collega alla scelta di trattare del nulla come nihil absolutum, e in certo qual modo ne rende ragione. Può essere espressa nominando esplicitamente colui che sembra essere il «convitato di pietra» di questi in contri sul nulla: Emanuele Severino. Il riferimento è al quarto
1 Lo spettro più completo è tuttora quello che si può desumere dall’am pia e fondamentale ricerca di G. Kahl-F urthmann, Das Problem des Nicht. Kritisch-Historische und Systematische Untersuchungen, Verlag Anton Hain, Meisenheim am Glan 19682 (i ediz. 1934). Cfr. anche S. G ivone, Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 1995.
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capitolo de La struttura originaria e alle sue molteplici riprese e integrazioni nella successiva produzione severiniana, fino al recente volume adelphiano Intorno al senso del nulla2. Mol ti se ne sono occupati: da Luigi Vero Tarca a Gennaro Sasso, da Mauro Visentin a Leonardo Messinese, da Massimo Donà a Marco Simionato, ad altri ancora. Ebbene, con la massima chiarezza si prendono qui le distanze dalle molte e varie criti che rivolte a Severino, non però perché si ritenga inattaccabile la sua posizione, ma perché quelle critiche sono tutte giocate sulla «scacchiera» severiniana, e se si gioca su quella scacchiera, è Severino, per dirla con Benjamin, il «nano gobbo» sotto il tavolo dalla mossa invincibile. Se ne comprendono, pertanto, le «rampogne», un po’ risentite e un po’ divertite: «Dicono che è di grande rilievo il mio discorso, ma poi vi troverebbero una marea di errori, che loro risolverebbero “facilmente”!»3. Pre tendere di trovare qua e là un’incrinatura che dissolva rimpian to de La struttura originaria sul nulla, pare impresa francamente alquanto improbabile4; non per questo, tuttavia, ci si allinea all’analisi e alla soluzione di Severino - come peraltro il titolo di questo intervento dice in maniera inequivocabile - , ma si tenta un approccio al problema del nulla su un’altra «scacchiera», non su quella severiniana, e cioè senza muovere dalla semantizzazione severiniana dell’essere e dall’opposizione di positivo e negativo. Si può osservare a margine che in siffatto approccio non si consente con l’identificazione della «scacchiera» severiniana con la scacchiera greca: la Grecità è altro e oltre Severino.
2 Cf. E. Severino, La struttura originaria, La Scuola Editrice, Brescia 1958, cap. IV, pp. 85-104 (Nuova edizione ampliata, Adelphi, Milano 1981, cap. iv, pp. 209-233); Id ., intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013. 3 II passo, citato liberamente, nel testo di Severino (Discussioni intorno al senso della verità, Edizioni ets, Pisa 2009, p. 76) è al singolare e riferito a Massimo Donà, ma va da sé che esso sia attribuibile per Severino a molti altri suoi critici. 4 Per la considerazione analitica di alcune critiche (Tarca, Visentin e Sasso) ci si permette di rinviare a C. Scilironi, Il nulla nel pensiero contemporaneo, Cleup, Padova 2000, pp. 204-214.
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1. Il pensare trascende il dire Il pensare trascende il dire, ovvero, per il tema in oggetto, dire il nulla non è pensarlo. La differenza tra pensare e linguag gio, tra intendere e ciò attraverso cui si intende, è la condizione che regge ogni riflessione filosofica fondamentale5. Anche per il problema del nulla è ad essa che occorre riportarsi. La tesi alla quale si lavora e che verrà in chiaro nel seguito è, pertanto, questa: il nulla non si colloca a livello del pensare (= non si può pensare il nulla, perché il nulla è il non-pensare, e non si può pensare il non-pensare, l’inintelligibile, anche se si può credere di pensarlo): il nulla si colloca a livello del dire, del linguaggio, secondo significati che andranno determinati. Il punto da considerare, in prima battuta, è dunque la trascendenza del pensare rispetto al dire. Si rifletta: il pensa re si attua necessariamente mercé una forma, e questa forma è la forma proposizionale, che è affermazione e negazione. Ora, - ecco Pomne punctum - ciò che si intende affermando e negan do è irriducibile all’affermazione e alla negazione, le trascende sempre: è la loro intenzione. Il pensare, l’intendere, in senso teoretico, è pura intelligibilità, è concetto, da non confondersi in alcun modo con l’elementare accezione psicologica del mero aver presente, con l’accezione, cioè, che vale indifferentemente per qualsiasi pensato, per la quale si può allo stesso modo dire «penso la casa», «penso la gondola», «penso Ca’ Foscari», così come si può dire «penso l’ippogrifo», «penso il nulla», «penso la contraddizione», «penso l’essere nella sua immediatezza», «penso Dio». Non si tratta di negare che l’accezione psicologica del pensare rivesta di sé ogni cosa, si tratta di non confondere siffatta dimensione gnoseologistica e ateoretica con l’intelligibi lità del reale, con il pensato nella sua intelligibilità, con il con cetto.
5 Solo per essa la filosofia prima non può essere la «fisica» e non può ri solversi in «positivismo». Di contro, ogni pretesa riduzione del pensare al linguaggio è «fisica» e l’esito è il positivismo.
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Allora, si può ben dire il nulla - anche ora lo si sta dicen do, lo si sta formulando - , ma il fatto che lo si dica non attesta in alcun modo né che lo si stia pensando né che lo si possa pensare, salvo confondere l’intelligibilità del pensato con la sua formulazione. Il senso teoretico del pensare è quello che risuona nel fr. 3 di Parmenide: tò gàr auto noeìn estin te kaì eìnai, frammento che esprime, lontano da ogni caduta gnoseologistica, l’auten tica consapevolezza dell’identità di pensare ed essere, ovvero la consapevolezza dell’impossibilità che del «manifestarsi» dell’essere - cioè, appunto, del pensare - non si predichi l’esse re ma si predichi il nulla. Per l’identità di pensare ed essere, o, che è il medesimo, per l’intrascendibilità del pensiero, non può darsi alcun andare all’essere al di là del pensiero, come crede ingenuamente il senso comune e con esso l’attuale cosiddetto «nuovo realismo». Ciò che si dà è il venir dell’essere al pensie ro. Ossia la ékstasis dell’essere che esce dalla léthe e viene nella «presenza» (alétheia). E ci viene non direttamente, come essere, ma sempre e solo come ente, perché se ci venisse come essere, l’essere si convertirebbe in un ente, lasciando con ciò stesso gli altri enti fuori dall’essere, ovvero privi di ciò per cui essi sono, sì che simpliciter non sarebbero6. Ma venire alla presenza indirettamente significa una du plice impossibilità: l’impossibilità che l’essere venga detto al trimenti che come un ente, e l’impossibilità che come un ente venga inteso. Ecco la distinzione di poc’anzi: altro è il dire, altro l’intendere (il pensare). Se si vuol dire l’essere - e anche ora lo si sta dicendo, lo si sta formulando - , non lo si può dire che come un ente·, e tuttavia, se è l’essere che si vuol dire, non lo si può intendere come un ente. Ridurre l’intendere al dire, è ridurre l’essere all’ente, la filo sofia alla scienza, la metafisica alla fisica. E il «naturalismo» di sempre; è l’ontoteologia.
6 Qui si marca la differenza da Severino: (a) contra la pretesa immediatezza dell’essere, e ib) contra la pretesa di formulare direttamente l’essere.
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Proprio perché, quando si dice «l’essere è...», l’essere viene necessariamente reso qualcosa (ente), - qualcosa di cui si dice - , altra possibilità non resta che scindere l’intendere dal dire e non pretendere di dire l’essere direttamente.
2. Il nulla non è la negazione Fissata la trascendenza del pensare rispetto al dire, l’altro passo indispensabile alla costruzione della tesi che si va per seguendo è la differenza tra il nulla e la negazione. Differenza essenziale, si precisa, ché, se la negazione fosse il nulla, non sa rebbe possibile negare, e, di converso, se il nulla fosse la nega zione, non sarebbe il nulla. Si è già rammentato che il pensare si attua mercé la forma proposizionale, attraverso l’affermazione e la negazione. Ora si chiede: la negazione è il nulla? Si osservi che domandare se la negazione sia il nulla, è quanto domandare se l’affermazione sia l’essere, e dunque se l’opposizione di essere e nulla sia l’origi nario. È importante non perdere di vista che nella domanda sul nulla e la negazione ne va dell’opposizione di positivo e negati vo come struttura originaria. Ciò che ci si propone di mostrare è precisamente che l’opposizione non costituisce in alcun modo la struttura originaria: è la struttura del «dire», che non è l’ori ginario; è la forma del pensare, non la sua intelligibilità; è la mo dalità attuativa dell’intendere, non l’originaria struttura di esso. Il punto di partenza per la riflessione non può che essere la forma proposizionale, l’affermare e il negare, ma con un’avver tenza che viene dalle considerazioni svolte sopra, l’avvertenza che non è il dire l’intelligibilità del pensare, ma il pensare (l’in tendere) l’intelligibilità del dire. Non sono l’affermare e il ne gare, cioè la forma proposizionale, l’intelligibilità del pensare, ma è il pensare (l’intendere) l’intelligibilità dell’affermazione e della negazione7.
7 In questo «rovesciamento» sta il contra più vigoroso rispetto all’accattivan te e rassicurante riduzionismo di certa filosofia del linguaggio e di certa logica.
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Orbene, per poter rispondere alla questione se la nega zione sia il nulla, si domanda: che cos’è la negazione?8 Non si chiede come la negazione funzioni, come operi, a quali regole obbedisca, ma che cos’è; si chiede l’intelligibilità della negazio ne, cui nessuna descrizione funzionale o operativa, per raffinata e precisa che sia, può rispondere. Riguardata per la modalità, la negazione si presenta secon do la forma proposizionale. Non però come il disporre di una proposizione, bensì, sempre, come il disporre di due propo sizioni - rispettivamente «x è» e «x non è» - , ciascuna delle quali è negazione dell’altra. La comparsa linguistica del «non» in una proposizione sola non ha alcun rilievo, giacché ciascuna proposizione toglie l’altra, ciascuna, cioè, è il «non» dell’altra. Riguardata dunque per la forma, la negazione è l’opposizione tra proposizioni. Riconoscere questo è riconoscere che ognuna delle due proposizioni è tanto affermazione quanto negazione: ognuna pone se stessa e toglie l’altra, ognuna afferma e nega, ognuna è negante e negata. Ma - ed è il punto essenziale - se l’opposi zione c’è, significa che in realtà nessuna delle due proposizioni riesce ad essere veramente negante, perché se ci riuscisse non ci sarebbe più l’opposizione. L’opposizione effettiva, infatti, non è quella di una proposizione all’altra proposizione, ma quella di una proposizione a che l’altra si ponga. Ecco allora il punto: per il dire, che è proposizionale, la negazione è opposizione tra proposizioni poste; per l’intendere (per il pensare) la negazione è opposizione a che le proposizioni opposte si costituiscano. In altri termini, per il linguaggio - per il dire, per la forma del pensare - ogni posizione (x è) è negazio ne della sua negazione (negazione di «x non è»); per il pensare (per l’intendere) la posizione «x è» non si oppone affatto alla posizione «x non è», perché il suo esser posizione è già il non essere a che l’opposizione sia.
8 Per le riflessioni che seguono cfr. soprattutto G.R. B acchin, Nota sulla negazione, in «Rivista di teoretica», 2 (1986), pp. 137-144.
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Pertanto, per il dire (per il linguaggio - ma solo per esso, solo per la forma del pensare) l’opposizione è «originaria», nel senso che non può venir sostituita; per il pensare (per l’intende re), invece, l’opposizione non è affatto l’originario, perché l’o riginario è il non porsi dell’opposto. Ne consegue che quando si parla di «opposizione originaria» (di originaria opposizione di positivo e negativo), delle due l’una: o si resta a livello del dire e non si raggiunge il pensare, o si appiattisce il pensare sul dire. Il che significa, daccapo, confondere il pensare con la sua forma: significa confondere l’insostituibilità della forma proposizionale, ossia ciò che dal dire è esigito (Γesser negazione del proprio opposto), con l’originarietà, con ciò che dal dire è inteso (il non-porsi dell’opposto). La conseguenza del considerare «struttura originaria» la forma dell’affermare e del negare, cioè il dire, e non ciò che il dire intende, è la pensabilità della contraddizione (la pensabilità del nulla), in luogo della sua mera dicibilità. Se si resta alla forma proposizionale (al dire) e si conclude che ogni proposi zione è negazione della sua negazione - lo «è» è negazione del «non è», la verità è negazione della negazione della verità, ecc. -, allora non si può non concludere che l’incontraddittorio è ne gazione del contraddittorio, il quale, proprio per poter esse re negato, dev’essere e dev’essere pensabile, e parimenti non si può non concludere che l’essere è negazione del non-essere, il quale pure, di nuovo, per poter essere negato, dev’essere e dev’essere pensabile. Col risultato di negare l’identità di pen siero ed essere ed eleggere la contraddizione (l’inintelligibile) a fondamento dell’incontraddittorietà (l’intelligibile). Ma tutto questo succede se, e solo se, si prende la forma del pensare, cioè la forma proposizionale, il dire, come struttura originaria, e non la si lascia essere ciò che essa è, mera forma che chiede intelligibilità. Presi per sé, assolutizzati, fatti diven tare «struttura originaria», l’«è» e il «non è», l’affermare e il negare, non sono intelligibili, giacché risultano essere lo stes so, in quanto ciascuno è la negazione dell’altro, e quindi per la negazione non sono «altri» affatto. Ma per il pensare, per ciò che con l’affermare e il negare si intende, per l’intelligibilità,
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lo «è» non è affatto identico al «non è», a ciò che per la forma non può non essere, ma è l’indicazione della non-posizione del suo opposto. Questa l’intelligibilità della negazione che vede, al di là dell’opposizione nella quale per la forma non può non risolversi, l’originaria identità di essere e pensare, ovvero l’incontraddittorietà dell’essere che è impossibilità e impensabilità della contraddizione.
3. Impensabilità del nulla: il nulla è Γinintelligibile Con i due paragrafi precedenti - la trascendenza del pen sare rispetto al dire e l’intelligibilità della negazione - , si è già guadagnata anche la tesi dell’inintelligibilità del nulla - la tesi che il nulla è propriamente impensabile, non appare e non può apparire, ciò che appare è il «limite». Ma il tutto va ora debita mente esplicitato. Si ponga mente di nuovo a quanto si è appena sopra con siderato: se si confonde l’ineliminabilità dell’opposizione con la sua originarietà, diviene indispensabile dire di pensare la contraddizione e il nulla, col carico di contraddittorietà che ciò comporta. Ma, appunto, se si confonde l’ineliminabilità dell’op posizione con la sua originarietà, cioè se non si tiene fermo che il pensare trascende il dire, che l’intendere trascende la forma in cui si dà. I due punti da tener fermi sono questi: (a) si deve dire di pensare il nulla per poter dire di pensare l’essere; (b) si può pretendere di pensare il nulla solo barattando la forma del dire (il linguaggio) per il pensare (per l’intendere, per l’intelligere). E così, in un certo senso, la partita è già chiusa su tutto il fronte: se per pensare l’essere debbo pensare il nulla, poiché il nulla non è pensabile - non è! - , non posso pensare l’essere. È la pre tesa di formulare direttamente l’essere che costruisce l’aporia del nulla, che impone di pensare il nulla: l’essere del nullaì Ma una volta consapevoli di quanto visto nel primo paragrafo, che la formulazione diretta dell’essere, cioè la posizione dell’essere nella sua immediatezza, è una mera «cosalizzazione» dell’esse re, una volta avvertiti di questo, si comprende che anche il nulla
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implicato in quella formulazione è una «cosalizzazione», è una «sostantivizzazione». Se si fa essere il nulla per poter dire l’es sere, il problema è la pretesa di dire l’essere: questa è l’aporia fondamentale. Nella stretta tra indicibilità (diretta) dell’essere o cosalità del nulla, resta 1’indicibilità dell’essere, perché il nulla, proprio perché nulla, non può essere qualcosa. La dicibilità diretta, l’intenzionalità immediata, secondo che s’è sopra indicato, è propria solo degli enti; l’essere vi si sottrae, pena la riduzione ad ente. E tuttavia, proprio perché gli enti sono in virtù dell’essere, l’essere, non intenzionabile diret tamente, è pur sempre detto indirettamente nell’insufficienza degli enti a se stessi. Affermazione analitica è quella degli enti, dialettica quella dell’essere. Il pensiero è sempre pensiero di qualcosa. Il pensiero di nulla è non-pensiero: pensare il nulla è non-pensare. Ma se pensare il nulla è non pensare, l’impossibilità di pensare il nul la9 è l’impossibilità di non pensare, cioè la necessità di pensare l’essere10. Il nulla sarebbe pensabile solo se il pensiero non fosse con vertibile nell’essere, solo se il pensiero non fosse necessariamen te pensiero di qualcosa; ma un pensiero «di nulla» o riduce il nulla a qualcosa (è appunto il dire il nulla), o si annulla come pensiero (è l’impossibilità di pensare il nulla). Fare del nulla l’opposto dell’essere, dall’essere negato, non è pensarlo come nulla, è pensarlo come ciò attraverso cui nel dire l’essere si dà, come una funzione del dire. Ma il nulla, proprio perché nulla, non può essere neppure tale funzione, non può essere neppure l’opposto dell’essere dall’essere negato: non può essere nessu na delle forme «pensabili» del nulla, perché - lo si ripete - il pensiero è sempre pensiero di qualcosa, e perciò il pensiero di nulla è non-pensiero, è il venir meno del pensiero. Pretendere di pensare il nulla è pretendere l’impossibile, è pretendere la contraddizione in atto, il contraddirsi in cui l’atto del porre è lo stesso atto del togliere. Ma questo è l’impossibile, è l’impen-
9 Cfr. P armenide, fr. 2, w. 7-8. 10 Cfr. P armenide, fr. 3.
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sabile. Per poter dire la contraddizione - e la si dice - , occorre che l’atto del porre non sia l’atto del togliere: se fosse lo stesso atto, il dire non sarebbe, non si costituirebbe. La contraddi zione in atto - la contraddizione simpliciter - non può essere e non può apparire: è il nulla. Le contraddizioni che si danno e appaiono sono contraddizioni incontraddittorie, sono il darsi incontraddittorio di tesi opposte, confliggenti e incompossibili: in tanto si danno e appaiono in quanto non sono contraddizioni in atto. Se lo fossero, non sarebbero e non potrebbero apparire: sarebbero nulla. Poiché il nulla (la contraddizione in atto) è impensabile, è del pari impensabile l’essere come opposto al nulla. L’impensabilità del nulla scardina la semantizzazione dell’essere come opposto al nulla, giacché, se il nulla non è, opporsi al nulla è simpliciter non opporsi. E per il dire, cioè per la mera forma attuativa del pensare, che l’essere si pone come l’opposto del nulla, ma per il pensare (per Yintelligibilità del dire), giacché il nulla non è, quell’opposizione altro non può significare se non che all’essere nulla può opporsi. Impossibile e impensabile, il nulla è Yinintelligibile·, è la ne gazione simpliciter del concetto. Il pensiero non lo può pensare, vi intende però irrefutabilmente il proprio limite. Ossia: il pen siero non pensa mai il nulla, ma coglie sempre e solo se stesso nel proprio limite.
4. Nulla e concetto limite Fin qui si è venuti considerando che l’essere è l’intelligibile e il nulla l’inintelligibile. Del nulla s’è affermato che è la nega zione del concetto, dell’essere che non può venir formulato in un concetto, cioè che non se ne può dare formulazione imme diata e diretta, ma solo dialettica. Da ultimo si è precisato che il pensiero non pensa il nulla, ma intende il proprio limite. Ora, posto che l’inintelligibilità del nulla impedisce di con siderare originaria l’opposizione di positivo e negativo e con essa la semantizzazione dell’essere come negazione del nulla,
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posto questo, resta il problema di chiarire da un lato che cosa si intenda con la parola essere allorché si pensa la differenza di es sere ed ente, e dall’altro che cosa venga effettivamente pensato con la parola nulla nella differenza di essere e nulla, se il nulla, come s’è visto, è l’inintelligibile. Quanto al primo versante del problema, si è già mostrato (par. 1) perché dell’essere non possa darsi formulazione analiti ca ma solo dialettica, perché l’essere cioè non possa venire alla presenza direttamente; ora, ad integrazione, ci si chiede: se l’es sere propriamente (cioè in maniera analitica, diretta e immedia ta) non può venir pensato, che cosa si pensa con la differenza di essere ed ente? Ebbene, ciò che viene propriamente pensato nella differenza di essere ed ente è la finitezza dell’ente. L’esse re, impensabile propriamente, è un concetto-limite che intende sì la totalità inoggettivabile, - l’intero, il trascendentale - , ma che non tradisce ciò che intende solo non assumendo forma direttamente (non divenendo propriamente un «pensato»), ma risolvendosi in funzione «finitizzatrice» dell’ente. Il significato «proprio» dell’essere è dunque la finitezza dell’ente. Venendo all’altro versante del problema, va precisato che non si tratta di reintrodurre surrettiziamente il nulla dopo aver lo rigorosamente espunto: si tratta di interrogarsi circa la forma oppositiva del pensare, ovvero di rendere ragione della moda lità del linguaggio che all’opposizione di essere e nulla non può sottrarsi. In tale opposizione con la parola nulla che cosa viene effettivamente pensato, se il nulla è impensabile? Che la pro nuncia del nulla non ne attesti il pensiero in senso teoretico, cioè nel senso dell’intelligibilità, è ormai fuori discussione, tut tavia quella inevitabile pronuncia, o, se si preferisce, quell’insostituibile modalità oppositiva del linguaggio, che cosa indica? La risposta è già stata guadagnata più sopra (par. 3), laddove s’è restituita l’intelligibilità dell’opposizione col significato che all’essere nulla può opporsi. Ma fermo restando ciò, è possibile rendere ragione specificamente della parola nulla comparente nella forma del pensare? Vi è, cioè, un’intelligibilità per così dire intrinseca alla forma del linguaggio, una volta che la si è po sta sotto la luce dell’intelligibilità del pensare? In questo senso,
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e solo in questo senso, si chiede che cosa venga effettivamente pensato con la parola nulla nella differenza di essere e nulla. Orbene, se l’essere è il concetto limite che rende finito l’ente, la parola nulla, comparente nella differenza di essere e nulla, può pure essa venir indicata come un concetto limite, come un concetto, cioè, che nulla ha di proprio ma è tutto risolto nel la funzione che esercita, la funzione di rappresentare il modo in cui il pensiero pensa l’essere, cioè negando la possibilità di negarlo. Il che significa che il nulla, che proprio perché nulla non può contrapporsi all’essere (all’essere nulla può opporsi), è l’indicazione della via dialettica e non analitica della pensabilità dell’essere. Preservando l’essere dalla tematizzazione diretta, cioè dalla sua oggettivazione, il nulla ne garantisce la trascen dentalità e ne impedisce ogni surrettizia assolutizzazione ed ogni preteso possesso.
5. Nulla e finitezza L’espressione «concetto limite» riferita al nulla consente un’ultima riflessione. Essa, infatti, non dice solo la funzione in cui il nulla si risolve, non rappresenta cioè soltanto il modo in cui il pensiero pensa l’essere, ma esprime del pari la finitezza del pensiero. Il concetto limite del nulla è anche sempre il nulla come limite del concetto, è anche sempre il pensiero che si co glie nel proprio limite. Come si è argomentato, il pensiero non pensa mai il nulla - non lo può pensare - , ma intende il proprio limite. Allo stesso modo dell’essere che come concetto limite «finitizza» l’ente, il nulla come concetto limite «finitizza» il pensiero. L’ente non può mai venire assolutizzato, perché ogni tentativo di ridurre ad esso l’essere appare frustrato; parimenti il pensiero non può venire assolutizzato, perché trova nel nulla (nella contraddizione) il proprio limite. Inintelligibilità del nulla e impensabilità (diretta) dell’esse re si tengono insieme: insieme attestano la «finitezza» e insieme mantengono lo spazio per l’ulteriorità, lo spazio per la trascen denza. Se il nulla fosse pensabile, sarebbe pensabile diretta-
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mente anche l’essere, e il domandare verrebbe meno. Allora la filosofia avrebbe realizzato il sogno hegeliano di transitare da «amore del sapere» a «vero sapere»11. Ma nulla ed essere costi tuiscono i limiti invalicabili del pensiero, che pertanto resta «fi nito», «umano», pensiero sempre «secondo», pensiero sempre «al di qua» dell’origine, e tuttavia, per così dire, «eco» sempre dell’origine1213. La domanda di intelligibilità {ti esti), riferita al nulla come nihil absolutum, riconduce il sapere al saper il limite del pensie ro, riconduce alla «scacchiera» socratica - la vera «scacchiera greca». Il filosofare resta perciò «amore del sapere», resta «do manda», e non possesso dell’essere. Il che non toglie che dia letticamente il domandare sia anche già Yepékeinali cui tende.
11 Cfr. G.W.F. H egel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. I, p. 4. 12 Cfr. F. C hiereghin, L’eco della caverna, Il Poligrafo, Padova 2004, p. 339 ss. 13 Cfr. P latone, Resp. 509 b 9.
IV. Dell’evento o delTaccadere e del divenire
Con la parola evento (Ereignis) il pensiero contemporaneo esprime il tratto più proprio dell'essere, o l'essere stesso, con la consapevolezza di porsi al di qua, o in rottura, con la tradizio ne. Comunque lo si voglia specificamente determinare, l'evento dice la gratuità dell'esistenza, o meglio il darsi dell'esistenza sen za perché; dice l'esistere come mero accadere. La frattura con la tradizione è evidente: il pensiero filosofico è nel suo insieme il tentativo variegato di rendere ragione dell'esistenza; ora, in vece, con l'evento, l'esistenza è posta come Vabsolute primum, come il fenomenologico originario indagabile solo a valle e non a monte. Nei Beiträge Heidegger parla della necessità di un pen sare e di un domandare «che non ha bisogno delle grucce del “perché?” né dei sostegni dell'“a che scopo?”»1, un pensare la cui meta «è il cercare stesso»2, e che più che l'esposizione di un alcunché di oggettivo è un «affidarsi all'evento-appropriazione {Er-eignis)»3. Nelle sei fughe di cui i Beiträge si compongono,
1 M. H eidegger, Contributi alla filosofia. (Dall’evento), trad. it. di A. Iadicicco, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2007, p. 48. 2 Ivi, p. 46. Ivi, p. 34.
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l’evento è sempre il terminus a quo: tutto è appeso ad esso, ne dipende, ne è modulazione; come appunto dice il «titolo essen ziale» dell’opera, Vom Ereignis, dall’evento. E anche se i Bei träge, composti tra il 1936 e il 1938, hanno visto la luce, com’è noto, solo nel 1989, dunque parecchi anni dopo la morte di Heidegger, il motivo che li innerva, YEreignis, è al centro di tutta la produzione heideggeriana dagli anni Trenta in poi. In particolare vi si incentra, e non a caso, lo scritto heideggeriano teoreticamente più avanzato, la conferenza su Tempo ed essere del 1962, pubblicata in Zur Sache des Denkens, la raccolta che contiene pure La fine della filosofia e il compito del pensiero, in cui la rottura con la tradizione, cui s’è fatto cenno, è esemplata financo nel titolo. Ora, per cercare di comprendere il significato del destinarsi della contemporaneità nell’orizzonte dell’evento, giova muovere proprio da La fine della filosofia e il compito del pensiero, dove Heidegger, rettificando sostanzialmente quanto proposto precedentemente, riconosce che «il concetto naturale di verità non significa non-ascosità, disvelatezza (Unverborgen heit), neanche nella filosofia dei greci»4. Ne consegue il rilievo teoretico che «esperito e pensato è solo ciò che YAlétheia come Lichtung concede, non ciò che essa è come tale. Questo resta nascosto»56. Si capisce, allora, a cosa invita Heidegger: da un lato a riconsiderare il movimento proprio dell'a-létheia, la nonascosità, 1’Unverborgenheit, in relazione con la léthe, la ascosità, la Verborgenheit, «non come una semplice aggiunta, non come l’ombra appartiene alla luce, ma come il cuore deU’Alétheia»b; dall’altro a pensare ciò che Yalétheia è in quanto tale. E a questo proposito nella chiusa del saggio Heidegger riformula la do manda nel modo seguente: «Ma donde e come si dà (es gibt) la Lichtung? Cosa parla nello Es gibt, nel “si dà”?»7. E con ciò
4 M. H eidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Zur Sache des Denkens, trad. it. di E. Mazzarella col titolo Tempo ed essere, Guida, Napoli 1980, p. 178. 5 Ivi, p. 179. 6 Ivi, p. 179. 7 Ivi, p. 181.
DeW evento o deir accadere e del divenire
Al
si è evidentemente ricondotti all 'Ereignis, all’evento, di cui la conferenza Tempo ed essere è l’estremo tentativo di approfon dimento. Heidegger non ammicca ad Hegel, ma la simmetria col discorso hegeliano pare innegabile. Svelamento, velamento ed evento fanno il paio con la prima triade della logica hegeliana. Nell’andare in uno di essere e nulla, Hegel connota originaria mente l’essere come divenire. Nel porre la léthe come «cuore» dell'alétheia, Heidegger dispiega l’essere come evento. Ma la simmetria intenziona una radicale alterità: col divenire Hegel ri solve l’essere nel dispiegamento del suo farsi, con l’evento Hei degger inchioda l’essere al suo incipit. Hegel ritiene di risolvere nella “determinatezza”, ovvero nel concetto, il darsi dell’essere. L’essere non è che il concetto che si concepisce, che si deter mina, e questo determinarsi è il divenire, di cui il sapere rende conto fino alla pienezza del sapere assoluto. Dell’implosione di siffatto sapere, che per poter essere assoluto impedisce e il sa piente e il saputo, Heidegger mostra piena consapevolezza sin dall’inizio degli anni Trenta commentando la Fenomenologia8;
H Nel corso del semestre invernale 1930/1931, dedicato alla Fenomenologia dello spirito, Heidegger mostra di vedere perfettamente che Hegel presup pone sin dall’inizio ciò che pretende come risultato finale. Scrive: «Ma non bisogna allora dire che Hegel presuppone già all’inizio della sua opera, cioè anticipa ciò che pretende di aver ottenuto solo alla fine? Certo, bisogna dirlo» (M. H eidegger, Fenomenologia dello spirito di Hegel [HGA 32], trad. it. di S. Caianiello, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 19912, p. 62). Poco appres so, menzionando dallo scritto hegeliano sulla Differenza che «l’assoluto c’è già, altrimenti come potrebbe essere cercato?», chiosa: «Ogni filosofia al suo inizio e alla sua fine non fa che dispiegare il proprio presupposto» (pp. 71-72). Di qui l’importante conclusione di Heidegger che con Hegel «ci troviamo di fronte ad una posizione della filosofia che dà prova di sé [...]. Ma non dà pro va di sé nel senso originario del fondare la propria possibilità». Di modo che la domanda diviene: «Resta dunque solo quell’unico salto nell’intero dell’as soluto?». La rivendicazione della finitezza e del finito è nella ricomprensione della domanda appena formulata in questi termini: «Tale questione, se intesa correttamente, è in sé la domanda: cosa deve essere l’uomo in quanto esisten te? Dove si situa, per dover saltare o non saltare [...]? Dove sta l’uomo? In generale sta in modo tale che egli può determinare a sé la propria posizione e valutare se debba lasciarla? O l’uomo in generale non sta affatto, ed è piut-
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ora però il problema è ulteriore e riguarda, per così dire, l’inizio della Logica, la pretesa di autofondazione dell’essere come di venire. La mossa hegeliana di porre il divenire come principio rovescia la prospettiva classica, ma ad un tempo la invera e la compie. L'Ereignis, l’evento, vi si rapporta come ciò che pre tende di costituire un nuovo inizio. In questo senso la «triade» svelamento, velamento ed evento è il nuovo cominciamento. Ma dove si situa la novità? E in che consiste? Per cercare di accedervi giova porre mente su come l’accadere delle cose e il loro divenire è stato inteso e interpretato nel corso della tradi zione - ovviamente ciò può essere fatto qui solo per brevi cenni. Si può osservare in via previa che la tradizione antica lega alla meraviglia e allo stupore generati dal darsi delle cose il sor gere stesso della filosofia, massime i notissimi passi del Teeteto di Platone e del libro i della Metafisica di Aristotele*9; e si può e si deve congiungere il thaumàzein greco con lo shemà ebraico, il vedere con l’udire10; tuttavia basti qui l’osservazione che con l’aprirsi dell’orizzonte della totalità, costituita dalla molteplicità delle cose, sorge la domanda sul principio {arche), sull’unità del molteplice. Le prime risposte identificano, non nell’intenzione ma di fatto, il principio con un ente; Anassimandro coglie l’im possibilità di tale identificazione e apre la strada alle due solu zioni di Eraclito e di Parmenide. Per il primo, se tutto diviene, nulla permane, salvo il processo del divenire che del venir meno delle cose è la ragion d’essere; per il secondo il principio è l’es sere, il non non-essere, che trascina seco l’impossibilità del mol teplice e del divenire. L’occhio eracliteo è per il lògos intrinseco
tosto il passaggio? E, in quanto tale passaggio, è Taffatto imparagonabile che può essere spinto dinanzi all’essere, per porsi, come esistente, in rapporto con Tessente in quanto essente? L’uomo deve e può veramente, in quanto il passaggio, saltar via da sé stesso per abbandonare sé stesso in quanto è finito, o la sua essenza non è proprio l’abbandono stesso, in cui soltando ciò che può essere posseduto si fa per lui possesso?» (pp. 213-214). 9 Cfr. P lato, Theaet. 155 d 2-4; A kist., Metaph. i, 2, 982 b 12-13. 10 Sulle due radici del thaumàzein e dello shemà si rinvia a quanto svolto nel saggio Filosofia e ascolto in C. Scileroni, Nichilismo, sacro e mistero, Cleup, Padova 2002, pp. 303-322.
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alle cose, lògos che le genera e le corrompe; l’occhio di Parme nide è per la necessità (andnke) dell’essere che è l’impossibilità originaria delle cose perché implicanti il non-essere. Doppio fallimento o doppia implosione si potrebbe dire: da un lato, con Eraclito, il principio viene meno dissolvendosi nel principiato, dall’altro, con Parmenide, il principio viene meno per l’assenza del principiato. Nel divenire senza essere e nell’essere senza di venire l’accadere o non è intelligibile o simpliciter non può dar si. O sacrificium intellectus o sacrificium experientiae. Questo è il primo e radicalissimo porsi del problema dell’accadere e del divenire nel pensiero greco. Ad esso tiene dietro, in seconda battuta, il contributo de cisivo di Platone e Aristotele, coi quali tanto il fronte eracliteo dell’assolutizzazione del divenire quanto quello parmenideo di assolutizzazione dell’essere, trovano ricomprensione e solu zione. Nel Feeteto Platone aggredisce radicalmente la tesi che «tutto diviene (gignetai pania)»11 e «niente mai è, ma sempre diviene (ésti mèn gàr oudépot’oudén aeì dé gignetai)»12; nel So fista, con l’introduzione del non-essere come héteron, supera il divieto parmenideo e fonda il molteplice13; nel Fedone spiega il divenire delle cose distinguendo quelli che sono i contrari, in sé immutabili, dalle cose d’esperienza che non sono i contrari, ma di essi partecipano appunto divenendo14. Aristotele nella Fisica svolge in maniera analitica la critica all’eleatismo e indaga quelli che sono i principi che presiedo no al divenire. L’una e l’altra cosa viene operata sulla base di un duplice fondamento: da una parte l’evidenza del divenire15, dall’altra il riconoscimento che l’essere e l’uno si dicono in mol-
11 P lato, Tbeaet. 152 d 8. 12 Ivi, 152 e 1. 11 P lato, Soph. 258 c-e. 14 P lato, Phaedo 102 d -104 c. 15 «Da parte nostra si ammette che le cose della natura, o tutte o in parte, sono mosse (kinoùmena etnai). Ciò è evidente mediante l’induzione (ek tès epagogês)» (Arist., Phys. i, 2,185 a 12-14, trad. it. di A. Russo).
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ti modi16. Ora, secondo Aristotele, tanto Parmenide quanto Me lisso errano in quanto muovono da premesse false e procedono in modo scorretto17. Specificamente contro Parmenide Aristo tele dice che «erra nelle premesse, perché stabilisce di parlare dell’essere in senso assoluto (haplòs), mentre l’essere si dice in molti modi (pollachòs)»18. Aristotele coglie perfettamente l’ori gine dell’errore parmenideo, che è tutto nell’assumere l’essere monachos, come avente un solo significato. Se è tale, l’essere risulta impredicabile, o predicabile solo da sé stesso, predica bile in un solo modo. E questa la premessa errata, alla quale Aristotele contrappone, sulla base evidenza, la molteplice predicabilità dell’essere: onde l’essere è pollachòs, non mona chos o haplòs. D ’altro canto Aristotele mostra che Parmenide è scorretto pure nelle conclusioni, perché, proprio ammettendo la sua prospettiva, non è possibile alcuna affermazione di sorta, salvo la mera espressione tautologica dell’essere, ché ogni altra affermazione fa dell’essere il predicato di qualcosa che, essendo altro dall’essere, non può che essere nulla. La critica a Parmeni de è essenziale, perché solo la soluzione dell’aporia parmenidea consente la fondazione del molteplice e del divenire, solo per essa, cioè, l’accadere trova legittimazione. Il passaggio platoni co di fondazione della molteplicità, quello, testé richiamato, per cui il non-essere relativo è, quello per il quale lo straniero di Elea dice: «Noi abbiamo abbandonato Parmenide e siamo andati as sai al di là del suo divieto»19, e che è tutto nella determinazione àÆhéteron, del diverso, quel passaggio, imprescindibile sotto
16 Come nella Metafisica (iv, 2, 1003 a 33) anche nella Fisica ricorre l’espres sione chiave pollakòs légetai tò ón, «“essere” si dice in molti sensi» (i, 2, 185 a 21), nonché l’omologa espressione per l’uno: tò hén pollachòs légetai (i, 2, 185 b 6). 17 «Entrambi, invero, sia Parmenide sia Melisso, fanno sillogismi eristici (eristikòs syllogizontai) [si fondano, infatti, su premesse false e il loro procedi mento è illogico. Più grossolano, indubbiamente, è quello di Melisso e facil mente può esser dissolto, perché, posta una premessa assurda, tutto il resto ne deriva e non ci vuol fatica a confutarlo]» (i, 3,186 a 6-10). 18 Ivi, 186 a 24-25 (traduzione modificata). 19 P lato, Soph. 258 c 6-7 (trad. it. di A. Zadro).
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ogni profilo, torna alla lettera in Aristotele, che scrive: «Nulla vieta che il non essere, in senso assoluto, non sia, ma, come un certo non-essere, sia (outhèn gàr kolùei, me haplòs eìnai, alla me ón ti eìnai tò me ón)»20. Donde la conclusione, contra Parmeni de: «E se è così, nulla allora vieta che gli esseri siano molteplici (pollà einai tà ónta)»21. Acciarata la molteplicità, è reso possibile il divenire. Di esso nel i libro della fisica, dal capitolo 5 in poi, vengono indagati i principi, che sono i contrari, rispettivamente la forma e la privazione, cui va aggiunto il sostrato, il divenien te, ciò che passa dall’un contrario (dalla “privazione”) all’altro contrario (alla “forma”). Anche del divenire Aristotele precisa che è un pollachòs legómenon, che si dice in molti modi22: da un lato si dice in modo accidentale, allorché sono in gioco la quantità, la qualità, la relazione, il tempo e il luogo; dall’altro lato si dice in modo sostanziale, allorché è in gioco, appunto, la sostanza23. In forma più sintetica, ma non meno lucida, in quel compendio dei principi del divenire che è il capitolo il del libro XII della Metafisica, Aristotele precisa che sono quattro i tipi di mutamento, quattro essendo le categorie secondo le quali il divenire può darsi, e cioè la sostanza, la qualità, la quantità e il luogo24. Ma è evidente che la quadripartizione suppone la di visione indicata nella Fisica, giacché altro è il divenire secondo la sostanza, cioè la generazione e la corruzione, altro il divenire secondo le altre categorie, secondo la qualità - l’alterazione -,
20 A rist., Phys, i, 3,187 a 5-6.
Ivi, 1,3,187 a 9-10. 22 «Il “divenire” si dice in molti sensi (pollachòs dè legoménou toù gignestbai)» (Phys. i , 7 , 190 a 31). 25 «Poiché ‘divenire’ si dice in molti sensi - da una parte, cioè, come dive nire non qualsivoglia cosa, ma un qualcosa di particolare (kat ton mèn ou gignesthai allà tóde ti gignesthai), dall’altra come il divenire assoluto proprio solo delle sostanze (haplòs dè gtgnesthai tòn ousiòn mónon) - , ovviamente, per altro, è necessario che il diveniente sia un sostrato (infatti, quantità e qualità e relazione [e tempo] e luogo divengono solo se si pone un dato sostrato, per il fatto che solamente la sostanza non si dice in riferimento ad un’altra cosa che faccia da sostrato, ma tutte le altre cose si dicono in riferimento alla sostanza)» (Phys. 1,7,190 a 31 190 b 1). 24 Akist., Metaph. xn, 2,1069 b 9-10.
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secondo la quantità - l’aumento e la diminuzione - , e secondo il luogo - la traslazione Sostanziale è l’uno, accidentali gli altri. Privazione, forma e sostrato - sostrato che nel divenire sostanziale è la materia prima e nel divenire accidentale è la sostanza - sono, come si è rammentato, i principi del divenire; sostanza, qualità, quantità e luogo sono le categorie secondo le quali il divenire avviene. Tutto questo spiega il «come» del divenire, come esso avvenga e quale ne sia la struttura; resta da render ragione del divenire in quanto tale, del suo darsi, del suo accadere. L’intelligibilità del divenire è guadagnata da Aristotele ri prendendo e risolvendo le aporie poste in luce dai primi filo sofi: «Essi affermano - si legge sempre nel i libro della Fisica al capitolo 8 - che nessuno degli enti si genera o perisce, per il fatto che necessariamente ciò che diviene, diviene o dall’es sere o dal non-essere; il che in entrambi i casi è impossibi le. Infatti, l’essere non può divenire (perché esso è di già), e dal non-essere nulla può divenire; è peraltro necessario che qualcosa faccia da sostrato. E così, accentuando le immediate conseguenze, affermano che il molteplice non è, ma è soltanto l’essere stesso»25. Dunque per i primi filosofi - ma è evidente che il riferimento qui è eminentemente a Parmenide - , il di venire non può darsi, perché, per darsi, occorre supporre che venga o dall’essere o dal non-essere, ma entrambe queste vie sono impercorribili, la prima perché l’essere è già, la seconda perché dal nulla non viene nulla (ex nihilo nihil). Ora, proprio perché la negazione del divenire è operata sulla base della sua pretesa inintelligibilità, non basta contro Parmenide invocare l’esperienza, non basta neppure mostrare il «come» il divenire avviene, occorre mostrarne l’intelligibilità, la non contraddit torietà. Duplice è la strada che Aristotele segue in tal senso: la prima mostra che il divenire non è contraddittorio né prove nendo dall’essere né provenendo dal non-essere; la seconda introduce l’atto e la potenza.
25 Phys. I, 8,191 a 27-33 (trad, modificata).
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La prima prospettiva, che è quella svolta nella Fisica, ruota attorno all’indicazione che il divenire non è in ogni caso pas saggio simpliciter dal non-essere all’essere, tant’è che Aristotele precisa: «Anche noi affermiamo che nulla diviene in senso asso luto dal non-essere»26. Da afferrarsi è allora la distinzione tra il gignesthai ek me óntos, il divenire dal non-essere, haplos, cioè in senso assoluto, per sé, e il gignesthai ek me óntos, il divenire dal non-essere, katà symbebechós, secondo l’accidente, per accidens. Se il non-essere da cui procede il divenire è inteso haplos, il di venire è contraddittorio e perciò impossibile, perché si vengono ad identificare essere e nulla, ma se è inteso katà symbebechós, per accidens, la difficoltà è superata, giacché il terminus a quo del divenire non è più il non-essere, ma il sostrato cui il non essere afferisce per accidens come mera privazione (stéresis). Aristotele annota che «questo suscita stupore (thaumdzetai dè toùto)», anzi, aggiunge, «sembra impossibile che un qualcosa si generi in tal guisa, ossia dal non essere»27, ma, appunto, ciò che occorre intendere è che non si tratta del non-essere simpliciter, che renderebbe originariamente impossibile il divenire, bensì trattasi della stéresis afferente al diveniente che in quanto tale si disloca tra privazione e forma. Ma intelligibile non è solo il divenire che proviene dal non-essere, è tale per Aristotele anche quello che viene dall’essere, che pure si dà solo katà symbebe chós, per accidens, giacché ovviamente già essere è, e ciò che diviene è solo Tesser tale in un certo modo. Aristotele per re stituire l’intelligibilità del divenire, fa perno eminentemente su quel “terzo” che è il sostrato, il quale è desso a passare dalla privazione alla forma. L’osservazione è importante e apre all’al tra modalità di soluzione dell’aporia eleatica relativa al divenire, quella che fa perno sull’atto e la potenza, cui la Fisica accenna solo rimandando altrove28, al libro ix della Metafisica. Ebbe-
26 Ivi, I, 8, 191 b 13-14: hemeìs dè kaì autoi phamen gignesthai mèn methèn haplos ek mè óntos. 27 Ivi, i , 8 , 191 b 16-17. 28 «Questo è, pertanto, un modo di risolvere il problema; un altro è quello secondo cui i medesimi oggetti possono dirsi in potenza e in atto. Ma ciò con maggiore precisione è stato definito in altri scritti» (Phys. I, 8, 191 b 27-29).
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ne, se il divenire è il passaggio da privazione a forma, dall’uno all’altro di questi contrari, ciò non significa affatto che la forma venga dalla privazione. Si è sottolineato che è il diveniente, il sostrato, a passare da privazione a forma, e perciò la forma non può che divenire dal sostrato, ma per divenire occorre che an cora non vi sia, e tuttavia per divenire da esso già dev’esservi. Il sostrato è in potenza la forma che ancora non possiede; mercé il divenire la attualizza. Il divenire è dunque passaggio da potenza ad atto, da essere in potenza ad essere in atto, e non già da nulla ad essere. È la potenza a impedire la contraddizione, perché è essa il «prae-» dell’essere, o l’essere del prima dell’essere, che ne scongiura il venire dal nulla. E tuttavia resta ancor sempre la domanda relativa al passaggio in cui il divenire consiste. Per ché si dà? Perché la forma si attualizza? E in forza di cosa si attualizza? Aristotele, com’è noto, introduce la causa efficiente, il motore, sede della forma fino a che essa non si attualizza nel sostrato, e giunge, nella catena dei motori, al motore primo im mobile, al puro atto. Solo così, aristotelicamente, il divenire è pienamente intelligibile, solo ricondotto alla priorità dell’atto sulla potenza29. Assolutizzato, cioè scisso dall’immutabile, il di venire è inintelligibile. La rilevanza della risposta aristotelica è fuori discussio ne: essa attraversa l’intera tradizione occidentale e la innerva totalmente. Ha la sua forza nella congiunzione di ragione ed esperienza ed è ad un tempo risposta al come e al perché del divenire. Di contro ad essa stanno però la posizione hegeliana, cui si è già fatto cenno, e la posizione nietzscheana. Rispetti vamente: originarietà del divenire e innocenza del divenire. In comune queste prospettive hanno, contro Aristotele, la pretesa di assolutizzare il divenire. Aristotele, come s’è visto, al pari di Platone, s’oppone a Parmenide e lo sopravanza reclamando il molteplice e il divenire, ma di molteplicità e divenire continua, in linea parmenidea, ossia all’insegna del logos e della necessità, ad esigere il fondamento. E il fondamento sta nell’immutabile
29 I luoghi fondamentali di riferimento sono Metaph. ix, 8 e Metaph. xn, 6.
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e necessario. Hegel, che non è certo alieno all’esigenza di fon dare, ritiene di corrispondervi seguendo l’istanza eraclitea, e lo fa, come s’è rammentato, ponendo il divenire come originario: l’essere è in quanto tale divenire. Il “cominciamento” hegelia no pone alla lettera il divenire come «la verità dell’essere e del nulla», come il «movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro»30, più precisamente ancora: «Il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere - non passa, - ma è passato (nicht übergeht, sondern übergegangen ist), nel nulla, e il nulla nell’essere»31. Proprio perché il passaggio è già sem pre avvenuto, è già sempre “passato”, proprio per questo il di venire è originario: esso sta sempre a monte. E tuttavia vi sta come un pre-supposto, ché è come un già sempre “divenuto”, un originario “risultato”, un semplicissimo “composto” L’autofondazione del divenire si risolve in una presupposizione che, si badi, in quanto ragione del divenire, divenire non può. La metamorfosi che i principi aristotelici del divenire - forma, privazione e sostrato - subiscono nel cominciamento hegelia no di essere nulla e divenire, per passare da mera esplicazione del dato fenomenologico a fondamento ontologico tout court, è una torsione nel segno dell’autocontraddizione. Il ricadere in sé stesso del divenire, la sua autofondazione, s’attua come neces sità dell’autocontraddizione. Questo il prezzo che Hegel paga per dare esecuzione con la logica al sapere assoluto32, che asso luto non sarebbe senza l’autofondazione; né tale prezzo viene meno o alleggerito per il fatto d’esser preteso esplicitamente come verità. Ma se la necessità dell’autocontraddizione palesa l’implosione del sapere assoluto, in ultima analisi ne fa, contro ogni attesa e ogni apparenza, una figura del non-sapere. D ’al tro canto, al termine della «Introduzione» alla fenomenologia, Hegel non cela un accadere irriducibile al sapere della coscien-
30 G.W.F. H egel, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni, rivista da C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 19996,1, p. 71. 31 Ivi, mio il corsivo. 32 II riferimento è ovviamente alla conclusione della Fenomenologia dello spirito.
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za, che si pone «alle spalle» di essa33, così come all’inizio della Dottrina del concetto nella Scienza della logica non manca di rimandare, anche per il concetto, a un già «dietro di noi»34. Non diversamente da Hegel, Nietzsche assolutizza il dive nire e ne proclama l’«innocenza»; diversamente da Hegel però non pretende né il sapere assoluto né l’autofondazione. Nello Zarathustra si legge: «Tutto il divenire mi sembrava danza divi na e sfrenatezza divina, e il mondo scatenato e liberato si rifu giava in sé stesso: - come un eterno fuggirsi e cercarsi di molti dèi, come il beato contraddirsi, riascoltarsi e riappartenersi di molti dèi: - Ove tutto il tempo mi sembrava un felice schernire gli istanti, ove la necessità era la stessa libertà, che giocava beata con il pungiglione della libertà»35. È il dionisiaco nietzscheano, che ripete l’infinito di Hegel, e si propone come liberazione. Nel Crepuscolo degli idoli l’«innocenza del divenire» è detta la «grande liberazione»36, e si potrebbe affermare che è la libe razione dall’essere, dalla «colpa» dell’essere. Nietzsche con trappone i molti all’uno, la differenza all’identità, l’apparenza
33 «Questa è la circostanza che conduce nella sua necessità Finterà successio ne delle figure della coscienza. Solo questa necessità stessa e il sorgere (Ent stehung) del nuovo oggetto che, senza che essa sappia come le accade (ohne zu wissen, wie ihm geschieht), si offre alla coscienza, è ciò che per noi si muove, per così dire, dietro le spalle di essa (hinter seinem Rücken)» (.Fenomenologia, pp. 77-78, mio il corsivo). Questo «dietro le spalle» ritorna, peraltro, in un rimando alla Fenomenologia, nel par. 25 dell’Enciclopedia, dove si dice che «lo svolgimento del contenuto di quelli che sono gli oggetti delle parti speciali della scienza filosofica, rientra dunque insieme in quello svolgimento della coscienza, che pur dapprima sembrerebbe restringersi solo al lato formale: quello svolgimento deve procedere, per così dire, dietro le spalle di lei, in quanto il contenuto si comporta come Fin sé rispetto alla coscienza» (trad. it. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1973, voi. i, p. 35, mio il corsivo). 34 «Il contenuto e la determinazione del concetto non possono nella scienza di esso esser corroborati se non da quella deduzione immanente, che contiene la genesi del concetto stesso, e che sta già dietro di noi (hinter uns)» (G.W.F. H egel, Scienza della logica, cit., n, p. 658). 35 F. N ietzsche, C o s ì parlò Zarathustra, trad. it. di M. Costa, Mursia, Milano 19767, p. 173 («Delle antiche tavole e delle nuove»). 36 F. N ietzsche, Crepuscolo degli idoli, trad. it. di M. Ulivieri, Newton Com pton Editori, Roma 19982, p. 35 («I quattro grandi errori», 8).
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alla realtà, il simulacro alla copia. L’essenziale è cogliere che la contrapposizione significa: molti senza l’uno, differenza senza identità, apparenza senza realtà. Qui sta la radicalità nietzsche ana, nell’evacuazione simpliciter dell’essere. «In verità, io be nedico e non bestemmio se insegno: “Tutte le cose sovrasta il cielo del caso, il cielo dell’innocenza, il cielo dell’imprevisto, il cielo del capriccio” La “casualità” - ecco la più antica nobiltà del mondo che io ho resa a tutte le cose, liberandole dalla ser vitù della finalità»57. Si può insistere, ma l’indicazione è chiara: con Nietzsche si consuma ogni presupposto metafisico, ogni «in sé». L’innocenza del divenire non intende porsi come una nuova dottrina sull’essere, bensì come liberazione dall’essere come dottrina. In che misura questo riesca effettivamente, o quanto Nietzsche, suo malgrado, non sfugga alla fagocitazione metafisica, laddove si decide per la volontà di potenza, l’eterno ritorno e il superuomo, non è questione affrontabile in questo contesto; qui basti osservare che in rapporto al tema dell’even to, l’intenzione liberatoria nietzscheana riveste un ruolo fondamentale, giacché apre all’ambito del puro accadere. La contemporaneità è esattamente qui, tutta incentrata sul «mistero» dell’accadere, che appare irriducibile ad ogni perché, sì che di esso sembra possibile solo ripetere col Silesio: «La rosa è senza perché...»58. Heidegger, che s’è soffermato sul celebre distico del mistico slesiano distinguendo con acutezza, secon do che la lingua tedesca consente, il warum (perché) dal weil (poiché), il “perché” interrogativo dal “poiché” congiunzione fungente qui da risposta59, annota che le parole adoperate da Silesio «certo, esse non rientrano nel pensiero, ma forse in ciò che precede il pensiero stesso»3738940, ad indicare, come chiunque
37 F. N ietzsche, C o s ì parlò Zarathustra, cit., p. 146. 38 A. Silesius, Il pellegrino cherubico, nuova versione a cura di G. Fozzer e M. Vannini, Lorenzo de’ Medici Press, Firenze 2018, p. 88. 39 M. H eidegger, Il principio di ragione, trad. it. di G. Gurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991 [Corso del sem. inv. 1955/’56, edito nel 1957 (HGA, X)], pp. 68-80 (per la distinzione di warum e weil p. 70). Cfr. in proposito F. C hiereghin, Ceco della caverna, Il Poligrafo, Padova 2004, pp. 57-58. 40 Ivi, p. 69.
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avverte, non un di meno, ma un di più del pensiero. E ad indi care anche che l’accadere di alcunché rimanda ad un «prima» su cui il pensiero non può procedere trionfante41, salvo illudere o ingannare sé stesso, può solo sostare meditando e in ascolto42. Il che non significa un atteggiamento meno esigente e meno rigoroso, ma ancor più esigente e più rigoroso, socraticamen te implacabile rispetto ad ogni presunto possesso della verità, totalmente dispiegato nell’inesausto domandare, che è «la pie tà del pensiero»43. È il cammino lungo questa via che conduce Heidegger a muoversi vom Ereignis, dall’evento44. In Tempo ed essere, che, come s’è rammentato, costituisce il punto estremo, di massima tensione teoretica, della riflessione heideggeria na, all 'Ereignis significativamente si arriva - e si arriva come a quell’ultimo che è il primo stesso, inaggirabile, impenetrabile e invalicabile. Il pensiero tenta in estrema umiltà e povertà, cioè senza «grucce», senza stampelle di sorta, senza la previa rassi-
41 Sovvengono per contrasto, inizio e conclusione della Fenomenologia dello spirito: la «prefazione» dove si legge che «il vero è il trionfo bacchico dove non c’è membro che non sia ebbro» (trad, cit., vol. I, p. 38), e la chiusa del te sto coi versi di Schiller: «Dal calice di questo regno dello Spirito / spumeggia per lui la sua infinità» (voi. n, p. 393). 42 «L’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero si appartengono l’uno all’altra. Essi ci offrono la possibilità di soggiornare nel mondo in un modo completamente diverso, ci promettono un nuovo fondamento, un nuo vo terreno su cui poterci stabilire [...]. L’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero ci permettono di intravedere la possibilità di un nuovo modo di radicarsi dell’uomo nel proprio terreno [...]. Soltanto - l’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero non accadono mai senza il nostro consenso [...]. Entrambi scaturiscono soltanto da un pensiero incessante e appassionato» (M. H eidegger, L’abbandono, trad. it. di A. Fabris, introd. di C. Angelino, Il melangolo, Genova 1983, pp. 39-40). 43 «Il domandare è la pietà (.Frömmigkeit) del pensiero» (M. H eidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 27). 44 Per comprendere il cammino di Heidegger restano impareggiabili le pagine lucidissime approntate da Volpi per l’edizione italiana dei Beiträge, pagine che si leggono nella versione integrale in F. V olpi, La selvaggia chiarella. Scrit ti su Heidegger, con una Nota di Antonio Gnoli, Adelphi, Milano 2011, pp. 267-299.
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evirazione del circolo fondamento-fondato, di pensare l’essere in quanto tale, di porsi in puro ascolto dell’essere. E l’essere si dà ad ascoltare, in ogni nominazione, necessariamente in uno col tempo, giacché dire essere significa dire esser-presente. La complessità e l’inquietudine generate da questo proporsi in uno dell’essere e del tempo suggeriscono la massima cautela, per cui Heidegger muta l’espressione «è» {ist) nell’espressione «si dà» {es gibt)·. «Noi non diciamo: l’essere è, il tempo è, ma: ‘si dà’ essere, ‘si dà’ tempo»45. Donde il tentativo estremo sarà quello di «gettare uno sguardo in avanti fino allo Es di questo “Es gibt Sein, Es gibt Zeit”»4647. L’approfondimento, in succes sione, di essere e tempo, fa emergere per l’uno e per l’altro una straordinaria ricchezza semantica, qui non più che accennabile. L’essere, ostendendosi nella presenza, si mostra un «disvelare», un «dare», un «donare», un «destinare». Con esplicito riferi mento a Parmenide, Heidegger scrive: «Nello ésti si nasconde lo Es gibt»41, ad indicare che non è l’essere che non vien pensa to, ma, appunto, il suo darsi48. Del pari, a proposito del tempo, viene in chiaro che con l’essere è già sempre pensato il presente, e col presente e la presenza, il passato e il futuro. Noi guardia mo al tempo sempre a partire dalla presenza, che è un «aver stanza», un «sostare», un «soggiornare»; guardiamo dalla pre senza anche quando annotiamo l’assenza, il non-più-presente o il non-ancora-presente. Nel tempo urge questo «porgere» e «offrire presenza», che è «la quarta dimensione»49 del tempo, quarta dimensione che è propriamente la prima: l’«arrecare», la «prossimità vicinante», l’«approssimare». E, però, anche in questo caso: «Il tempo non è {ist). Si dà {es gibt) tempo»50; per cui, di nuovo, la meditazione sul dare conduce alla soglia dello
45 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 101. 46 Ivi, p. 102. 47 Ivi, p. 106. 48 «All’inizio del pensiero occidentale viene pensato l’essere, ma non lo “Es gibt” come tale. Questo si ritrae {sich entzieht) a favore della donazione (Gabe), che Es gibt, che grazie allo Es si dà» (Ivi, p. 106). 49 Ivi, p. 115. 50 Ivi, p. 116.
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Es, ma lo «Es» non esce dall’indeterminazione e dall’enigmati cità, resta l’ostendersi di un’assenza - un ossimoro. E a questo punto che Heidegger, riflettendo sulla modalità del dare che appartiene in uno all’essere e al tempo, pronuncia la parola evento, Ereignis: «Lo “Es”, che dà nello “Es gibt Sein”, “Es gibt Zeit”, si attesta come YEreignis»31. Sembrerebbe la risposta at tesa, ma, pur non potendo negare che lo sia, lo è nondimeno tanto poco da sottrarsi a qualsiasi determinazione. Heidegger è chiarissimo: condurre all’essere in quanto Ereignis non può e non deve significare in nessuna maniera un’ennesima prospet tiva sull’essere - quasi che l’essere, dopo esser stato pensato come idèa, come enérgeia, come actualitas, come volontà, debba ora venir pensato come Ereignis. Nulla di tutto questo, perché il proprio àtYYEreignis - il proprio dell 'evento - è salvaguar dato solo grazie al suo sottrarsi al disvelamento, che è quanto dire che il non-sapere dell’uomo ne è la custodia. «L’uomo scrive Heidegger - è radicato nell 'Ereignis. A ciò è dovuto che noi non possiamo mai porci davanti, rap-presentarci YEreignis, né come qualcosa che è di fronte a noi, né come ciò che tutto abbraccia e comprende»5152. Esattamente come dice Bonhoeffer in una pagina mirabile sul principio: noi «pensiamo sempre a partire dal principio e in vista di questo, senza però poter mai pensare il principio»5354. Tuttavia, proprio perché nell 'Ereignis siamo radicati, lì il pensiero deve ancor sempre stare e sosta re. «Cosa resta da dire? Solo questo: YEreignis ereignet»3*, l’e vento eviene, cioè, propriamente, «niente». Chiosa Heidegger: «All’apparenza questo non dice niente. Ed in effetti esso non dice niente, finché noi ascoltiamo quello che è detto come una semplice proposizione e lo consegniamo all’interrogatorio del la logica»55. Non si tratta qui, si badi bene, né del rifiuto dei
51 Ivi, p. 120. 52 Ivi, p. 124. 53 D. B onhoeffer, Creazione e caduta, trad. it. di M.C. Laurenzi, Queriniana, Brescia 1992 [ODB 3], p. 23. 54 M. H eidegger, Tempo ed essere, cit., p. 125. 55 Ivi, p. 125.
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dettami della logica, né dell’opzione per un pensiero iniziati co, esoterico o mistico: nulla di tutto questo. Si tratta di tenere insieme la consapevolezza del limite del pensiero, che fa dire ad Heidegger che «il pensiero rappresentativo fondante cor risponde così poco all 'Ereignis - al pari del dire semplicemente enunciativo»56, con lo stare comunque nell’ascolto della voce silenziosa dell 'Ereignis. Di questo ascolto Heidegger ha offerto indicazioni preziosissime in Essere e tempo laddove tratta della voce della coscienza, che parla nel silenzio, non dice nulla eppur ridesta l’Esserci a sé stesso5758. Qui, nel contesto di Tempo ed essere, l’ascolto àtW Ereignis che «ereignet», viene rimandato a ciò che si cela, da sempre, nell’a-létheia. Heidegger ritorna al «cuore» dell’alétheia che è la léthe, e alla Lichtung. Tornano allora le domande rammentate all’inizio: «Ma donde e come si dà (es gibt) la Lichtung? Cosa parla nello Es gibt, nel “si dà”?»5S. È a fronte di queste domande, o, se si vuole evitare il lin guaggio specificamente heideggeriano, a fronte dell’interroga tivo sull’accadere in quanto tale, che si infrangono le risposte che la tradizione è venuta elaborando. Né l’essere come ragione del divenire (Platone e Aristotele), né il divenire come ragio ne dell’essere (Hegel) e neppure il divenire come liberazione dall’essere (Nietzsche), reggono l’urto radicale dell’accadere. La puntuale e attentissima soluzione aristotelica che distingue accuratamente nell’analisi del divenire il “come” fenomenologi co dal “perché” ontologico, e procede a sicuro risultato con la priorità dell’atto, non riesce neppure essa a sanare l’originaria contraddizione del venir meno - dello sparire, dell’annullarsi che il divenire in quanto tale, proprio per poter essere, compor ta. La filosofia di Emanuele Severino ne è la sferzante riprova. D ’altro canto, neppure la prospettiva opposta, quella hegeliana, ha miglior sorte. Infatti, se la trionfante autofondazione che la contrassegna nasce né più né meno che sulla base esplicita di
56 Ivi, p. 124. 57 Cfr. M. H eidegger, Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1970, parr. 55-57 (pp. 407-420). 58 M. H eidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, cit., p. 181.
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una autocontraddizione, se cioè il divenire è contraddittorio in quanto tale, la fatica del pensiero, che è il progressivo incedere verso la verità mercé il toglimento della contraddizione, non può che avere l’amaro sapore di una fatica di Sisifo. Forse Pom peo, se fosse entrato nel «sancta sanctorum» del sapere assolu to, avrebbe trovato ancor meno di uno spazio vuoto59. Quanto a Nietzsche, se non gli si può imputare né la soluzione ontoteologica né l’autofondazione, è però difficile non vedere nella tesi delT«innocenza» del divenire, di nuovo, la pretesa di una risposta che sa. Ecco il punto dove Γevento sembra segnare una cesura: dall’evento dice dal «non sapere». L’evento è per l’uomo l’accadere intrascendibile, che rende ogni suo sapere secondo, interrotto, mai originario. L’evento è l’origine irraggiungibile, o meglio, è l’irraggiungibilità dell’origine. Della finitezza, dell’a bitare tra inizio e fine, tra nascita e morte, Essere e tempo è il capolavoro che elabora la fine, la morte, l’essere-per-la-morte, non l’inizio60. Dell’inizio tratta tutto il secondo Heidegger, fino ad approdare a quelle domande che sono destinate a restare tali. Sulla soglia dell’evento la filosofia può farsi mito (Plato ne), metafora (Heidegger), poesia, ecc., producendosi in quel la ricchezza semantica che è il colore e il sapore dell’esistenza, ma sempre e solo nel riconoscimento del proprio limite, del proprio non-sapere, pena l’implodere nelle forme messianiche dell’evento, di cui la storia recente ha già fatto sufficiente espe rienza.
59 Cfr. G.W.F. H e g e l, L o spirito del cristianesimo e il suo destino, in Id., Scritti teologici giovanili, trad. it. a cura di N. Vaccaro e E. Mirri, Guida Editore, Napoli 1972, p. 361. 60 Cfr. M. H eidegger, Essere e tempo, cit., p. 557 (par. 72).
V. Proposizione speculativa e giudizio: Hegel e Tommaso
L’intento che ci si propone non è quello di censire e catalo gare gli innumerevoli usi di proposizione e giudizio che ricorro no nella scrittura hegeliana e in quella di Tommaso, ma quello di cercare di cogliere l’unità di senso che a quegli usi presiede e a cui essi rimandano. Non si avrà in vista perciò primariamente il «dato» della proposizione e del giudizio, ma il loro «signifi cato». Detto altrimenti, non tanto la «littera» quanto il senso della «littera». Dalla littera, tuttavia, è giocoforza muovere, e lo si fa prendendo in considerazione anzitutto le pagine notissime della Prefazione alla Fenomenologia, dove Hegel, delineando i tratti propri del conoscere filosofico, tematizza la «proposi zione speculativa»1. L’incipit è nel noto adagio che occorre
1 Per una puntuale disamina della proposizione speculativa, tanto nei ri mandi testuali quanto nella considerazione della bibliografia secondaria, cfr. G. R imetta, II concetto del tempo. Eternità e «Darstellung» speculativa nel pensiero di Hegel, Franco Angeli Editore, Milano 1989; Id., Filosofia come «sistema della scienza». Introduzione alla lettura della Prefazione alla Fenome nologia dello spirito di Hegel, Tamoni Editore, Schio (VI) 1992.
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«prendere su di sé la fatica del concetto»23; il che si traduce in un’estrema sorveglianza sull’incedere del pensare, con la distinzione tra «atteggiamento raziocinante» e «pensare concettivo». All’inadeguatezza del primo, formalistico e incapace di cogliere propriamente il contenuto, vien contrapposto il se condo, per il quale «il negativo appartiene al contenuto stesso e, sia come suo immanente movimento e determinazione, sia come loro intiero, è esso stesso il positivo»11. Il pensiero ra ziocinante è tutto nella posizione di un soggetto immoto che accoglie su di sé predicati, è tutto cioè nella posizione di una sostanza che si qualifica, o specifica, per l’attribuzione di acci denti. Di contro, il pensare concettivo (o concettuale, che dir si voglia) è l’«automoventesi concetto che riprende in sé le sue determinazioni»4; ossia: non è un soggetto immoto, «non è un quieto soggetto che, immoto, sostenga gli accidenti»5, ma è il movimento del farsi stesso del soggetto mercé i predicati che lo sostanziano. Hegel può, pertanto, affermare che «il sal do terreno che il raziocinare ha nel soggetto quiescente, vacil la dunque; e soltanto questo movimento diviene l’oggetto»6. Così dicendo, in certo qual modo, è già detto tutto, ma Hegel insiste ulteriormente nel mostrare il limite del pensiero razioci nante e l’orizzonte proprio del pensiero concettuale. Un punto almeno va rammentato, perché rende specificamente ragione della necessità del pensiero concettuale: tutto sta, per Hegel, nel rendersi conto che «ciò che nella proposizione ha la forma di predicato, è la sostanza stessa»78, ossia nel rendersi conto che ciò che nella proposizione appare come soggetto si ritrova predicato e il predicato si ritrova invece sostanza, soggetto. È questo il «contraccolpo» {Gegenstoß)*, nocciolo del pensiero
2 G.W.F. H egel, fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 48. 3 Ivi, p. 49. 4 Ivi, p. 50. 5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 Ivi, p. 51. 8 Ibidem.
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concettuale, anima della proposizione speculativa e de profun dis della proposizione raziocinante. Hegel lo ripete nel prosieguo in maniera limpida e asso lutamente inequivoca: «Quanto sopra si è detto può venire formalmente riespresso dicendo che la natura del giudizio o proposizione in generale (natura che implica in sé la differen za di soggetto e predicato) viene distrutta dalla proposizione speculativa»9. Segue, a chiarimento, questo paragone: «Un tale conflitto della forma di una proposizione in genere e dell’u nità del concetto che distrugge quella forma, è simile a ciò che nel ritmo ha luogo tra il metro e l’accento; il ritmo risulta dalla librantesi medietà e unificazione del metro e dell’accento»10. La perspicuità del paragone sta nella sua capacità di illuminare la «distruzione» della forma proposizionale: questa è distrut ta dall’unità del concetto così come l’unità del ritmo distrugge metro e accento disarticolati, armonizzandoli. Il ritmo è l’ar monia del metro e dell’accento; semplicemente accostati metro e accento appaiono giustapposizione di continuità e frattura; il ritmo è la loro unità superiore, è l’armonia del loro andar in uno. Ma come nel ritmo metro e accento non vengono meno, così «anche nella proposizione filosofica l’identità di soggetto e predicato non deve annientare la loro differenza espressa nella forma della proposizione»11. Ciò significa che la «forma» della proposizione non viene distrutta in quanto forma, ma in quanto pretesa di pareggiare il concetto. La proposizione speculativa non distrugge la forma proposizionale in quanto tale, forma at traverso cui peraltro non può non esprimersi, ma distrugge la pretesa della forma proposizionale di valere come altro da ciò che essa effettivamente è, mera forma proposizionale. La pro posizione speculativa rivendica l’alterità del concetto rispetto alle forme attraverso cui esso si esprime: il concetto è nell’inten zione della forma, è ciò che la forma intenziona, non ciò che la forma, in quanto forma, è.
9 ìbidem. 10 Ivi, pp. 51-52. Ivi, p. 52.
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Appresso Hegel insiste ulteriormente dicendo che «il su peramento della forma della proposizione [...] è il movimento dialettico della proposizione stessa. Solo esso è l’elemento effet tualmente speculativo»12. Precisa poi di quel movimento che «il suo elemento è il concetto puro»13. E fin qui nulla di nuovo. Nuova invece - e di capitale importanza - l’annotazione se guente: «Come proposizione lo speculativo è solamente il freno interiore; è il ritorno dell’essenza in se stessa, privo di esistenza determinata»1*. Se prima veniva detto che lo speculativo è solo nel movimento dialettico, adesso si dice che nella proposizione è il «il freno interiore (die innerliche Hemmung)», ovvero quel «ritorno dell’esistenza in se stessa» che non appartiene all’oriz zonte dell’immediatezza, e non è per ciò punto barattabile con intuizione di sorta. Il «freno interiore», cioè Tesser frenato del pensiero nel movimento dal soggetto al predicato onde il pensa re è «risospinto al pensamento del soggetto»15, è propriamente «lo speculativo», nella cui esposizione consiste la riflessione fi losofica. Mentre la forma della proposizione in generale sta nel progresso dal soggetto al predicato, la proposizione speculativa consiste nel superamento di tale forma in virtù di quel «freno interiore» che traduce il movimento in «ritorno» (Rückkehr). La proposizione speculativa è il nóstos della verità. Fin qui l’esplicito del testo hegeliano; il problema interpre tativo s’apre a questo punto: come intendere, nella sua radice ultima, il «freno interiore»? Quale intelligibilità per «il ritorno dell’essenza in se stessa»? Donde la necessità del nóstos?
12 Ivi, p. 54. Ivi, p. 55. 14 Ivi, p. 54. 15 «Il pensare, anziché progredire nel passaggio dal soggetto al predicato, dato che il soggetto va perduto, si sente piuttosto frenato e risospinto al pen samento del soggetto, sentendone mancanza; o, dacché il predicato fu espres so esso stesso come un soggetto, come Yessere, come Yessenza che esaurisce la natura del soggetto, il pensare trova il soggetto immediatamente anche nel predicato; e ora, invece di aver raggiunta la libera posizione del raziocinare, andando, nel predicato, in se stesso, il pensare è ancora immerso nel contenu to o, per lo meno, è presente l’esigenza di essere immerso in esso» (Ivi, p. 52).
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Un avvio di risposta è già stato anticipato con la precisazio ne del senso in cui si ritiene vada intesa la distruzione della for ma proposizionale. Tutto ciò però non basta; anzi, le riflessioni anticipate, riguardate per ciò che esse comportano, potrebbero addirittura venir considerate contrarie alla littera del testo hege liano. In realtà sono state anticipate proprio nella convinzione che ne esprimano lo spirito autentico. Si è detto che la forma proposizionale non pareggia il concetto, e che ciò che viene distrutto è la sua pretesa di valere appunto come tale. Ma per ché la forma della proposizione comune non può pareggiare il concetto? Questo è il punto. Vitiello, che delle pagine dedicate alla proposizione speculativa ha svolto una delle analisi più in teressanti16, ritiene che la difficoltà stia nel limite del linguaggio che, «costruito secondo il principio di non contraddizione»17 non può portare alla luce «la co-attualità del dire e del contra dire»18, non può cioè «esprimere ciò che il vero è: la contraddi zione pura»19. Vitiello ha buon gioco nell’argomentare in que sto modo, e lo fa sagacemente raccordando le pagine della Pre fazione alla Fenomenologia con quelle relative alla «riflessione che pone» nel primo capitolo della Dottrina dell’essenza nella Scienza della logica, pagine dove Hegel sostiene che il movimen to riflessivo è Y«assoluto contraccolpo in se stesso»20, in quanto la posizione del presupposto ne è già sempre, in uno, il toglimento. In sostanza, secondo Vitiello, per Hegel la proposizione generale, obbediente al principio di non contraddizione, non può cogliere la verità - in essa «lo speculativo resta nascosto, inavvertito»21 -, proprio perché, giusta l’indicazione avanzata da Hegel sin dal 1801 nella prima delle tesi per l’abilitazione,
16 Cfr. V. VmELLO, Hegel in Italia. Dalla storia alla logica, Guerini e Associati, Milano 2003, pp. 177-189. 17 Ivi, p. 186. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 188. 20 G.W.F. H egel, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni, Laterza, RomaBari 1999, voi. il, p. 447. 21 V. VmELLO, Hegel in Italia, cit., p. 188.
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«contradictio est regula veri, non contradictio falsi»22. Così la proposizione speculativa si verrebbe a differenziare da quella del linguaggio comune perché in grado di esprimere - o lasciar intendere - il vero, cioè la contraddizione23. La forma proposi zionale - Γincontraddittorio - costituirebbe invece il katéchon che trattiene il vero, il contraddittorio. Inutile censire ed elencare gli innumerevoli passi in cui He gel propugna la contraddizione: il problema non è qui. Nes suno intende negare questo; nessuno vuol chiudere gli occhi dinanzi alla littera del testo hegeliano. Il problema è il senso di quella littera. Cioè a dire: quando Hegel scrive che «il pensa re speculativo consiste solo in ciò che il pensiero tien ferma la contraddizione e nella contraddizione se stesso»24, vuol forse dire che l’Assoluto - l’Infinito, Dio - è contraddittorio, o non intende piuttosto affermare che il finito, in quanto finito, è la contraddizione, ma la sua verità è nell’Infinito che contraddit torio non è? La proposizione non è speculativa simpliciter perché regge la contraddizione, ma perché rivela la contraddizione del finito, e con ciò stesso ne lascia intendere la destinazione ulteriore. È la sfera del finito che per Hegel è sempre e comunque contrad dittoria, ancorché al suo interno ogni contraddizione in quanto posta sia anche sempre «risoluta»25. La contraddizione è l’o dissea dell’esistenza del finito; se la si interpreta come la legge
22 G.W.F. H egel, Le orbite dei pianeti, a cura di A. Negri, Laterza, RomaBari 1984, p. 88. 23 Giova osservare, a margine, che Vitiello, raccordando l’inadeguatezza del la forma proposizionale sostenuta da Hegel con l’indicibilità del vero pro pugnata da Platone nella Lettera VII (340 b - 344 d), viene a fare di Platone, volente o nolente, un teorico della contraddizione. 24 G.W.F. H egel, Scienza della logica, cit., n, p. 492. 25 «La cosa, il soggetto, il concetto [...] è un che di contraddittorio in se stes so, ma è anche insieme la contraddizione risoluta [...]. La cosa, il soggetto o il concetto è, come riflesso in sé nella sua opera, la sua contraddizione risoluta, ma la intiera sua opera è ancora daccapo una sfera determinata, diversa; così è una sfera finita, il che vuol dire contraddittoria. Cotesta sfera non è essa stessa la soluzione di questa contraddizione superiore, ma ha una sfera più alta per sua unità negativa, per suo fondamento. Le cose finite nella loro indifferente
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stessa delia realtà, come la natura in quanto tale dell’essere, si viene a consegnare il vero alla cattiva infinità, a quella dialettica che Hegel proprio intende superare. Si fa, cioè, della propo sizione speculativa la proposizione della cattiva infinità. Tolta l’incontraddittorietà, resta tolta pure, nondimeno, la necessità, giacché il necessario, il non poter non essere, è ciò il cui con trario è impossibile; ma tolto l’impossibile, cioè legittimata la contraddizione, è tolta la ragione del necessario. Sottratta però la necessità, senso e forza di ogni logica, anche della logica he geliana, anche del suo nóstos dell’esistenza, anche del suo ritmo dialettico, vengono meno. L’interpretazione di Vitiello ha il merito di indurre a chia rire il punto dirimente: la proposizione è speculativa in quanto esprime la verità, cioè la realtà effettuale. Ora, la realtà effet tuale è per Hegel il divenire (vita, passare, ecc.), ma il divenire è interpretato da Hegel come contraddittorio. E in ragione di questa interpretazione - e solo di questa interpretazione - se l’incontraddittorietà resta mera legge dell’intelletto astratto, ed è sempre e solo per questa interpretazione che anche la ragione si fa cantatrice della contraddizione. Ma l’incontraddittorietà, negata in actu signato, resta pure in Hegel affermata in actu exercito nella necessità del ritmo dialettico. Hegel riconosce solo l’incontraddittorietà dell’intelletto, che per la fissità delle sue rappresentazioni gli appare mera negazione della verità, ma «la svolta del movimento del concetto»26, come «contraddizio ne che si toglie»27, il cui risultato è la verità, è un terzo irridu cibile e alla contraddizione (pensabile) e al suo superamento (formalistico). Hegel dice che «non è un terzo quieto»28, ma è «il movimento»29, è il divenire, e le forme del giudizio «non son
molteplicità consistono quindi in generale nell’esser contraddittorie in se stes se, nell’esser rotte in sé e nel tornare al lor fondamento» (Ivi, p. 494). 26 Ivi, il, p. 948. Ivi, ii, pp. 948-949. 28 Ivi, n, p. 950. 29 Ibidem.
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buone ad afferrarlo»30, appunto perché quel «terzo» - il con cetto, il vero - è Yintenzione delle forme, - è la loro «interiori tà» -, non già le forme in quanto tali. Interpretare quel «terzo» come mera contraddizione, ancorché possa trovare giustifica zione nella littera hegeliana, è hegelianamente tanto unilatera le quanto ricondurlo all’incontraddittorietà formalistica. Quel «terzo», proprio perché irriducibile e alla contraddizione e al suo superamento formalistico, pena non essere quel «terzo», invoca un’interpretazione altra dalla riconduzione del divenire a contraddizione. È a questo «oltre Hegel» che sembra condur re lo spirito della littera hegeliana: all’irriducibilità del divenire sia alla contraddizione sia all’incontraddittorietà formalistica dell’intelletto che del divenire si fa annientamento, ossia sem bra condurre all’effettualità del divenire come principio. Ma assumere il divenire come principio, come l’origina rio, è porsi a monte dell’interpretazione vulgata del divenire come sintesi di essere e nulla, è porsi cioè ad un’altezza che non contrasta solo con il formalismo dell’incontraddittorietà dell’intelletto, ma altresì con il formalismo non meno intellet tuale della riduzione del divenire a sintesi di essere e nulla. La proposizione speculativa esprime l’esigenza di porsi a questa altezza, e ad Hegel va tutto il merito di aver avvertito ciò. H e gel, tuttavia, mantenendo ferma l’interpretazione comune del divenire come sintesi di essere e nulla e di concerto l’inter pretazione dell’incontraddittorietà come mera misura dell’in telletto, finisce col subire il limite della tradizione che intende superare. Egli è infatti costretto a reduplicare continuamente la proposizione speculativa fino a farla coincidere con l’espo sizione stessa del sistema, laddove invece lo «speculativo» è già sempre (hegelianamente) nel concetto che eccede la mera forma proposizionale. Reduplicare lo «speculativo» nella Darstellung del sistema non è simpliciter superare la forma della proposizione: è supera re la «singolarità» della proposizione, è pretendere di superare
30 Ibidem.
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la proposizione in quanto tale. Il che è tutt’altra cosa dal supe ramento della forma. L’esito conseguente è che «soltanto l’idea assoluta è essere, vita che non passa, verità di sé conscia, ed è tutta la verità»31; in questo modo il finito, già sempre superato, diviene mero momento, parvenza, nulla. Il destino della propo sizione è lo stesso destino del finito; superarne la forma, perché immota e irrelata, non può significare superarne la singolarità, pena il subirla in actu exercito, ma comprenderla autenticamen te all’altezza dell’originarietà del divenire. Ed è questa com prensione a costituire il compito ancora da pensare che la rifles sione hegeliana sulla proposizione speculativa lascia in eredità.
Il secondo tempo di questa indagine pone a tema la rifles sione di Tommaso intorno al giudizio, riflessione che per più motivi può apparire come il «controcanto» rispetto a quanto appena considerato a proposito di Hegel. Basti dire che Tom maso fa del giudizio il luogo dell’essere e della verità. E con ciò è già indicata la tesi che va illustrata e compresa. Il punto di partenza è la riconduzione del vero al giudizio. Tommaso segue Aristotele che nel quarto capitolo del libro se sto della Metafisica afferma che «il vero e il falso non sono nelle cose [...], ma solo nel pensiero»32. Nel De interpretatione poi Aristotele precisa che dire il vero e il falso non è il proprio di ogni discorso, ma solo del discorso enunciativo (apofantico)33, il quale si attua mercé l’affermazione e la negazione34. Tommaso riprende questi testi e, svolgendoli par suo, mostra che l’eserci zio apofantico è quello in cui si costituisce la verità, cioè l’essere stesso. Si badi bene: l’apofansi non costituisce le cose, gli enti, ma la verità delle cose, la verità degli enti, cioè il loro essere. Questo non significa che il giudizio crei la verità o l’essere, si-
31 Ivi, II, p. 935. 32 Arist., Metaph. 1027 b 25-27 (trad, di G. Reale). Arist., De interpr. 17 a 2-4. 34 Ivi, 17 a 8-9,25-33.
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gnifica che la verità e l’essere, nella specifica declinazione qui in gioco, vengono alla luce nel giudizio. Si può anche dire che non è prerogativa esclusiva del giudi zio restituire l’essere e il vero, nel senso che qualsiasi semplice apprensione, tanto sensibile quanto frutto di mera formazione del concetto, è già conforme alla cosa conosciuta, e dunque è già vera. Ma nella simplex apprehensio l’uomo, se pur è già nella verità, non sa di esserlo: è nella verità, ma non conosce la verità. Per conoscere la verità occorre il giudizio: cognoscere veritatem è il portato specifico del giudizio, non invece l’esse in ventate. Esemplarmente: «Veritas quidem igitur potest esse in sensu, vel in intellectu cognoscente quod quid est, ut in quadam re vera: non autem ut cognitum in cognoscente, quod importat nomen veri; perfectio enim intellectus est verum ut cognitum. Et ideo, proprie loquendo, veritas est in intellectu componente et di vidente: non autem in sensu, neque in intellectu cognoscente quod quid est»” . La quaestio 16 della prima pars della Summa theologica e la quaestio i del De veritate costituiscono i riferimenti essenziali per quanto qui interessa, tuttavia giova, in via preliminare, con siderare alcuni snodi fondamentali contenuti nelle quaestiones che formano il trattato De homine nella grande Summa” . Il co noscere per Tommaso si compone di «sentire» e «intelligere»: muove dalla conoscenza sensibile («sentire autem non est sine corpore»57) e mercé l’intelletto, per astrazione, rende intelligibi li i fantasmi avuti per mezzo dei sensi («[intellectus agens] facit phantasmata a sensibus accepta intelligibilia in actu, per modum abstractionis cuiusdam»3536738). Nella complementarietà di senso e intelletto, onde «impossibile est intellectum nostrum [...] ali-
35 S. Thomae Aq., Summa theol i, q. 16, a. 2. 36 Cfr. Summa theol. i, qq. 75-102. 37 Summa theol i, q. 76, a. 1. 38 Summa theol. I, q. 84, a. 6. Analogamente: «Cognoscere vero id quod est in materia individuali [...] est abstrahere formam a materia individuali, quam repraesentant phantasmata» {Summa theol. i, q. 85, a. 1).
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quid intelligere in actu, nisi convertendo se ad phantasmata»39, l’oggetto proprio del conoscere umano resta dato dalle cose che hanno la loro sussistenza nella materia corporea: «Intellectus autem humani, qui est coniunctus corpori, proprium obiectum est quidditas sive natura in materia corporali existens»40. Si gnificativamente però Tommaso aggiunge: «Et per huiusmodi naturas visibilium rerum etiam in invisibilium rerum aliquem cognitionem ascendit»41, dove la differenza sta tutta, evidente mente, in quell’«aliquem». Se l’intelletto ha l’oggetto proprio nella quiddità delle cose («obiectum autem proprium intellec tus est quidditas rei»42), ciò non significa che esso non conosca il proprio atto: «Est autem alius intellectus [dopo il «divinus» e l’«angelicus»], scilicet humanus, qui nec est suum intellige re, nec sui intelligere est obiectum primum ipsa eius essentia, sed aliquid extrinsecum, scilicet natura materialis rei. Et ideo id quod primo cognoscitur ab intellectu humano, est huiusmodi obiectum; et secundario cognoscitur ipse actus quo cognoscitur obiectum; et per actum cognoscitur ipse intellectus, cuius est perfectio ipsum intelligere»43. Resta in ogni caso fermo che per Tommaso l’indivisibile non può venir conosciuto direttamente, ma solo per negazione della divisibilità44, donde, a seguire, l’innervatura propria della metafisica tomistica. Alla base del conoscere Tommaso pone in sostanza quat tro elementi: la cosa conosciuta, la specie intelligibile, Patto del conoscere e il concetto45. Me è quest’ultimo, il concetto, che,
39 Summa theol. i, q. 84, a. 7. 40 Ibidem. Ibidem. 42 Summa theol. I, q. 85, a. 6. 45 Summa theol. I, q. 87, a. 3. 44 «Tertio modo dicitur indivisibile quod est omnino indivisibile, ut punctus et unitas, quae nec actu nec potentia dividuntur. Et huiusmodi indivisibile per posterius cognoscitur, per privationem divisibilis. Unde punctum privative definitur, “punctum est cuius pars non est”; et similiter ratio unius est quod sit “indivisibile”» (Summa theol. i, q. 85, a. 8). 45 «Intelligens autem in intelligendo ad quatuor potest habere ordinem: sci licet ad rem quae intelligitur, ad speciem intelligibilem, qua fit intellectus in
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irriducibile sia alla cosa conosciuta sia alla specie intelligibile sia all’atto del conoscere*46, è il vero portato dell’intelletto: «Intel lectus enim sua actione format rei definitionem, vel etiam pro positionem affirmativam seu nagativam. Haec autem conceptio intellectus in nobis proprie verbum dicitur: hoc enim est quod verbo exteriori significatur: vox enim exterior neque significat ipsum intellectum, neque speciem intelligibilem, neque actus intellectus; sed intellectus conceptionem qua mediante refertur ad rem»47. Nella I qaestio dei De Veritate Tommaso comincia il re spondeo dell’articolo 1 mettendo a fondamento del conoscere la nozione di ente: «Illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum, et in quo omnes conceptiones resolvit, est ens»48. Ogni altro concetto dell’intelletto si ottiene per aggiunta a quel lo di ente («oportet quod omnes aliae conceptiones intellectus accipiantur ex additione ad ens»49), ma qualsivoglia concetto che l’intelletto aggiunga non può avere una natura diversa da quella di ente, perché qualsiasi natura è essenzialmente ente («quaelibet natura essentialiter est ens»5051). Pertanto, mentre resta confermata la tesi aristotelica che l’ente non può essere un genere (ens non potest esse genus)5', non può cioè predicarsi
actu, ad suum intelligere, et ad conceptionem intellectus» (S. Thomae Aq., De Potentia, q. vin, a. 1). 46 «Quae quidem conceptio a tribus praedictis differt. A re quidem intellec tus, quia res intellecta est interdum extra intellectum; conceptio autem intel lectus non est nisi in intellectu; et iterum conceptio intellectus ordinatur ad rem intellectam sicut ad finem; propter hoc enim intellectus conceptionem rei in se format ut rem intellectam cognoscat. Differt autem a specie intelligibili: nam species intelligibilis, qua fit intellectus in actu, consideratur ut princi pium actionis intellectus; cum omne agens agat secundum quod est in actu: actu autem fit per aliquam formam, quam oportet esse actionis principium. Differt autem ab actione intellectus: quia praedicta conceptio consideratur ut terminus actionis, et quasi quoddam per ipsam constitutum» (Ibidem). 47 Ibidem. 48 S. Thomae Aq., De Veritate, q. i, a. 1. 49 Ibidem. 50 Ibidem. 51 Cfr. Arist., Metaph. 998 a 22.
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di differenze reali come i generi giacché le differenze degli enti sempre enti sono (differentiae entis sunt ens), viene insieme in chiaro che quando si dice che alcuni concetti si aggiungono a quello di ente, altro ciò non significa se non che ne esplicita no un modo non già espresso dal termine ente in quanto tale ma in esso implicito. Ed è con questa espressione esplicitan te che prende avvio il processo del conoscere. Quanto poi alle modalità in cui è possibile aliqua addere supra ens, il testo di Tommaso dice: «in due maniere {dupliciter)», che sono il modo della categoria e il modo del trascendentale52. Cioè a dire: l’e spressione dell’ente può esplicarsi in un modo specifico - ed è il caso delle categorie - , o in un modo generale, riferendosi a tutti gli enti - ed è il caso dei trascendentali. Questi ultimi sono pur sempre dei predicati, ma dei predicati che non rientrano nei generi sommi, perché, in quanto generali, si riferiscono a tutti gli enti, ovvero hanno la stessa estensione della nozione di ente, con cui risultano pertanto convertibili. A loro volta i trascendentali possono essere considerati in sé o in relazione ad altro: nel primo senso, dice Tommaso, si usano i termini res, ad indicare l’essenza necessariamente affermata nell’atto dell’esistere di ogni ente, e unum per negare la divisione di ogni ente considerato assolutamente; nel secondo senso, invece, si dice aliquid, nell’accezione di aliud quid, per indicare che ogni ente è diviso (o diverso) dagli altri enti, e convenientia per indicare il convenire di un ente con un altro. È quest’ultima annotazione a condurre la riflessione al tema del vero. Tommaso osserva che la condizione indispen sabile perché si dia convenienza tra gli enti in generale è un aliquid che abbia la capacità di convenire con tutti gli enti {na tum sit convenire cum omni ente). E questo aliquid altro non è se non l’anima {hoc autem est anima), che gode tanto di potenza conoscitiva quanto di potenza appetitiva, bonum e verum sono i termini che esprimono rispettivamente la convenienza di un
52 «Uno modo ut modus expressus sit aliquis specialis modus entis [...]. Alio modo ita quod modus expressus sit modus generaliter consequens omne ens» (De Veritate, q. i, a. 1).
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ente con l’appetito e con l’intelletto. Trattare del vero è sempre trattare della convenienza di un ente con la potenza conoscitiva dell’anima, che è l’intelletto. La parte che segue del respondeo di questo importante ar ticolo primo della I quaestio del De Veritate contiene la risposta alla domanda prima e fondamentale: quid sii veritas. Tomma so ha appena precisato che «convenientiam vero entis ad in tellectum exprimit hoc nomen verum», quando asserisce che la convenienza dell’ente con l’intelletto, cioè la conoscenza, si attua per assimilazione del conoscente alla cosa conosciuta (om nis autem cognitio perficitur per assimilationem cognoscentis ad rem cognitam). E detta assimilazione la causa della conoscenza; ossia, è l’assimilazione dell’intelletto alla cosa ad attuare la con venienza tra l’ente e l’anima. Ma questa assimilazione è nulla più che la corrispondenza dell’ente all’intelletto, corrispon denza in cui si determina formalmente la nozione di vero come adaequatio rei et intellectus («Prima ergo comparatio entis ad intellectum est ut ens intellectui correspondeat: quae quidem correspondentia, adaequatio rei et intellectus dicitur; et in hoc formaliter ratio veri perficitur»). Questo, dunque, è ciò che il vero aggiunge all’ente: la conformità, o l’adeguazione, della cosa e dell’intelletto («Hoc est ergo quod addit verum supra ens, scilicet conformitatem, sive adaequationem rei et intellec tus»). L’ adaequatio è l’identificazione ideale, o la conformità, cioè l’assenza di distinzione reale, tra la cosa e l’intelletto. La conoscenza di una cosa è la conseguenza di questa conformi tà, mentre l’entità della cosa precede il vero e ne costituisce il fondamento. Resta pertanto escluso che il vero sia in qualsiasi maniera effetto del conoscere; è invece il conoscere ad essere possibile solo per la capacità dell’anima di convenire con l’ente. Sulla base di quanto si è appena rammentato Tommaso procede alla definizione completa della verità e del vero. Non c’è dubbio che in un certo senso la definizione sia già stata in dicata, mercé la ratio veri «formaliter», cioè Vadaequatio rei et intellectus, ma se solo ora Tommaso parla esplicitamente di definizione, significa quanto meno che quella fortunata espres sione, storicamente risalente al Liber de definicionibus di Isa-
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ac Israeli tradotto in latino da Gerardo da Cremona, necessita d’esser completata. E in effetti Tommaso parla di tre definizioni («Secundum hoc ergo tripliciter veritas et verum definiri inve nitur»): la prima concernente il fondamento della verità, e cioè l’ente («Uno modo secundum id quod praecedit rationem veri tatis, et in quo verum fundatur»); la seconda riguardante la de terminazione formale del vero, e cioè Yadaequatio («alio modo definitur secundum id quod formaliter rationem veri perficit; [...] quod veritas est adaequatio rei et intellectus»); la terza avente per oggetto l’effetto della conformità, e cioè la conoscen za dell’ente («tertio modo definitur verum, secundum effectum consequentem»). Solo insieme le tre definizioni esprimono la piena convenienza del vero e dell’essere reale. Ma il fondamen to resta in ogni caso l’ente in quanto tale, giacché è di esso che, allorché è, si afferma il vero. Il radicamento ontologico della verità del conoscere, cioè la verità della cosa, consiste nella con formità all’intelletto divino, nell’esser cioè la cosa rispondente a quell’idea divina che è la natura medesima della cosa. Tom maso raccorda dunque anche la verità dell’essere della cosa, cioè la verità ontologica, all 'adaequatio, ma all’adaequatio «ad intellectum, divinum»53. Il venir meno absolute della nozione di verità - venir meno ovviamente impossibile - s’avrebbe solo col toglimento dell’intelletto divino: «Etiam si intellectus humanus non esset, adhuc res dicerentur verae in ordine ad intellectum divinum. Sed si uterque intellectus, quod est impossibile, intelligeretur auferri, nullo modo veritatis ratio remaneret»54. La verità delle cose, si è detto, sta nella loro conformità all’intelletto divino, e il conoscere consiste nell’identificarsi con il conosciuto. La già rammentata assimilatio cognoscentis ad rem cognitam viene pure precisata come un avere in sé la forma del
53 «Ex quo patet quod res naturales, ex quibus intellectus noster scientiam accipit, mensurant intellectum nostrum, [...] sed sunt mensuratae ab intel lectu divino». II testo prosegue dicendo che la cosa naturale «secundum adaequationem ad intellectum divinum dicitur vera, in quantum implet hoc ad quod est ordinata per intellectum divinum» (De Veritate, q. i, a. 2). 54 Ibidem.
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conosciuto55, ma l’intelletto umano finito non può contenere in sé le forme di tutte le cose, può solo assimilarsi ad esse, identificarvisi idealmente, cioè averne in sé un’immagine, una similitu dine. In ciò consiste l’esse in veritate, da cui si è preso le mosse. Ma l’esse in veritate non è ancora il cognoscere veritatem·, ecco il punto. E con questo si è ricondotti al giudizio. La lavorazione del tema è particolarmente efficace nel re spondeo dell’articolo 2 della quaestio 16 della parte prima della Summa theologica, dove Tommaso muove da due elementi già guadagnati in precedenza e che ora s’appresta a far interagire: il primo elemento consiste nel riconoscimento che il vero si trova formalmente nell’intelletto («verum, sicut dictum est [il riman do è all’art. 1], secundum sui primam rationem est in intellec tu»), il secondo è che ogni cosa è vera in quanto ha la forma conveniente alla propria natura («omnis res sit vera secundum quod habet propriam formam naturae suae»). Ora, né l’essere nella verità né il conoscere la verità possono fare a meno della verità ontologica, del convenire cioè della cosa con la propria natura, che in questo senso non può non costituire il fondamen to, ma dell’esser-yéTO trattasi e non, per così dire, meramente dell’essere, in quanto quel convenire della cosa con la propria natura è appreso dall’intelletto. Perché però venga appreso è necessario che l’intelletto abbia in sé l’immagine della cosa co nosciuta, è necessario cioè che l’immagine della cosa sia la for ma dell’intelletto nell’atto del conoscere. Donde la definizione che rende ragione della verità come conformità dell’intelletto e della realtà, cui consegue che conoscere la verità è conosce re tale conformità56. Ma è a questo punto che si inserisce una distinzione capitale: la distinzione tra la conformità attestata
55 «Considerandum est quod cognoscentia a non cognoscentibus in hoc distinguntur, quia non cognoscentia nihil habent nisi formam suam tantum; sed cognoscens natum est habere formam etiam rei alterius» (Summa tbeol. i, q. 14, a. 1). 56 «E siccome ogni cosa è vera secondo che ha la forma conveniente alla propria natura, l’intelletto, considerato nell’atto del conoscere, sarà verace, in quanto ha in sé l’immagine della cosa conosciuta, perché tale immagine è la sua forma nell’atto del conoscere. Per questo motivo la verità si definisce per
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dal senso e la conformità riconosciuta dall’intelletto. Il senso, nell’esercizio che gli è proprio, è certamente conforme alla realtà, ma non conosce la conformità che attua*57; l’intelletto, invece, può conoscere la propria conformità con la cosa cono sciuta: intellectus conformitatem sui ad rem intelligibilem cogno scere potest5*. E tuttavia, neppure l’intelletto afferra sempre la propria conformità con la cosa conosciuta - non l’afferra quan do di una cosa semplicemente coglie il concetto -, ma l’afferra sicuramente quando giudica che la cosa in se stessa è conforme alla sua apprensione, quando cioè ritorna sul conosciuto e at testa che così effettivamente sta: «Sed tamen [intellectus] non apprehendit eam [conformitatem] secundum quod cognoscit de aliquo quod quid est; sed quando iudicat rem ita se habere sicut est forma quam de re apprehendit»59. È solo nell’atto del giudicare che il vero viene affermato e conosciuto, perché solo nel giudizio avviene quel ritorno sul conosciuto che ne esprime 1’assensus. Tommaso perciò può concludere - è il passo che si è già anticipato all’inizio - che «perfectio intellectus est verum ut cognitum. Et ideo, proprie loquendo, veritas est in intellectu componente et dividente»60. L’intelletto che compone e divide è l’intelletto che giudi ca. Per sé compositio e divisto non sono esclusive del giudizio: già la percezione può comportare composizione e divisione, e lo stesso vale - e necessariamente - per tutte le proposizioni che giudizi non sono, come le proposizioni interrogative. Ma l’intelletto componente e dividente che produce il «verum ut cognitum» è inequivocabilmente l’intelletto giudicante, l’in telletto che afferma e nega Vessere di quelle composizioni e di
la conformità dell’intelletto alla realtà, e quindi conoscere tale conformità è conoscere la verità» {Summa theol i, q. 16, a. 2). 57 «Hanc [= conformitatem] autem nullo modo sensus cognoscit: licet enim visus habeat similitudinem visibilis, non tamen cognoscit comparationem quae est inter rem visam et id quod ipse apprehendit de ea» {Summa theol i, q. 16, a. 2). 58 Ibidem. 59 Ibidem. 60 Ibidem.
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quelle divisioni. E assensus, il proprium del giudizio, è il porre o il togliere Tessere {Vesse ut actus) delle compositiones. Di qui Timportante conclusione di Tommaso che intende nella copula Tessenza stessa dell’essere come actualitas absolute: «Est... si gnificat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: Est, simpliciter dictum, significat in actu esse»61. Solo di conseguenza (ex consequenti) T«è» significa la composizione, non già principalmente. Letto integralmente il passo appena citato recita: «Ideo autem dicit quod Est comignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti». Mentre Aristotele sembra desemantizzare Tessere della copula, riducendolo a elemento di connessione tra soggetto e predicato62, Tommaso invece vi ravvisa il proprium dell’essere, il significato principe, Yactualitas absolute. Tomma so non nega che Vest significhi la compositio, ma non principaliter, anzi, è solo perché la compositio è una modalità espressiva dell’attualità che Y«è» consignifica la composizione63. Nell’e spressione «Est, simpliciter dictum [e, cioè, non come copula di un attributo, non come elemento di connessione tra soggetto e predicato], significat in actu esse», in questa espressione Yac tualitas, Yin actu esse, non si lascia ricondurre alla dimensione dell’attualità come altro, o diverso, dalla potenza: qui Yactuali tas è il positivo simpliciter, il positivo che significa il non non essere. Per Tommaso, nella copula del giudizio, prima e più ori ginariamente di ogni nesso relazionale, si dà Tessere nella sua
61 S. Thomae Aq., In Aristotelis libros Peri Hermeneias Expositio, i, lect. v, 73 [22]. 62 «Auto mèn gàr oudén estin, prossemainei dè synthesin tina (Questo verbo infatti preso per sé non è nulla, ma aggiunge la significazione di una certa composizione)» (Arist., De interpr. 16 b 23-24, trad, di A. Zadro). 63 II passo del commento al Peri Hermeneias prosegue infatti così: «Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum Est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter mes se alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum Est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum Est significat compositionem» (Ibidem).
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originaria divaricazione dal non-essere. È la traccia parmenidea di Tommaso, il quale rinviene, a monte della funzione logica, la funzione ontologica dell’«è», cioè a dire l’originario atto d’es sere, che è il darsi o l’apparire deü’eînai. Ciò però non significa alcuna visualizzazione eidetica dell’essere, significa soltanto che per Tommaso nel giudizio si lascia cogliere quel proprium, o omne punctum, dell’essere, che ne è il porsi, il darsi, in cui sta per intero l’ontologicità irriducibile all’onticità fenomenica. È fuori discussione che poi Tommaso sia interessato soprattutto allo svolgimento metafisico-teologico dell’ontologicità dell 'esse ut actutf*, ma ciò che non va perso di vista è che proprio nel giudizio, nel logos apofantico, egli ravvisa il luogo della manife stazione dell’essere, e ciò propriamente nella forma parmenidea dell’opposizione dell’essere ai-nulla. Per Tommaso, dunque, la forma proposizionale, lungi dall’essere, come per Hegel, il katéchon che trattiene il vero, è la casa stessa dell’essere, è il luogo in cui l’essere si dà, o meglio è il luogo in cui l’essere, dandosi, si fa conoscere.
L’opposizione perfettamente speculare rispetto a Hegel, che ravvisa in Tommaso l’altra possibilità dall’hegelismo, si im pone ora come domanda: quale intelligibilità per siffatta op posizione? Come rendere ragione di una divaricazione tanto profonda e a un tempo così perfettamente simmetrica? L’analisi condotta, incentrata sulla proposizione e sul giudizio, ha già rimandato, e per l’uno e per l’altro autore, alla rispettiva con cezione dell’essere, tuttavia lo ha fatto solo tangenzialmente; ora vi si ritorna con un’attenzione più diretta e specifica, nella convinzione di potervi ravvisare la ragione del contrasto tra le due prospettive. Per rendere il tutto più perspicuo si procede ad una duplice indicazione: concezione del giudizio e concezione dell’essere.
M Cfr. esemplarmente De Potentia, q. vn, a. 2.
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Anzitutto la concezione del giudizio. Qui basta un sempli ce richiamo, ché quanto si doveva dire lo si è già detto. Ma un’osservazione torna importante: Hegel e Tommaso condi vidono per il giudizio la logica dell’inerenza del predicato nel soggetto, che è sintesi dell’uno e dell’altro, mentre però Hegel risolve il giudizio in tale inerenza, Tommaso, come si è cercato di mostrare, ripone il proprium della copula non nella composi tio ma ridi' assensus. L’osservazione è di rilievo per ciò che com porta: Tommaso ritiene che l’essere sia intenzionato nell’atto del giudizio, Hegel invece nel risultato della sintesi giudicante. Nel pensiero contemporaneo Heidegger proporrà una terza possibilità, la consegna del vero all’ante-predicativo, ponendo si, parrebbe, ancor più di Tommaso, come alternativa speculare a Hegel. In realtà l’ö«te-predicativo heideggeriano, mentre per un verso risulta perfettamente speculare al pori-predicativo di Hegel, per un altro ne condivide appieno l’intento, che è la vi sualizzazione eidetica dell’essere. È questo il punto dirimente con l’Aquinate: per Tommaso non può darsi visualizzazione ei detica di sorta dell’essere, perché l’essere è puro atto (esse ut actus). Ma così dicendo, ci si è già inoltrati nel secondo punto, quello essenziale, che riguarda la concezione dell’essere. In proposito va osservato che tanto per Hegel quanto per Tommaso si tratta di sopravanzare il piano ontico, piano cui corrisponde la sintesi della forma proposizionale; tuttavia, men tre l’intento di Hegel, mercé la proposizione speculativa, è la determinazione essenziale dell’essere, cioè a dire, col linguag gio di poc’anzi, la visualizzazione eidetica - visualizzazione che, peraltro, non risultando mai adeguata da alcuna proposizione, viene risolta nella Darstellung del sistema - , l’intento di Tom maso è simpliciter l’intelligibilità dell’essere, cui corrisponde l’esse ut actus, adeguato da ogni proposizione o giudizio. Sche matizzando si può dire che l’ontologicità hegeliana è estensi va, quella tomistica intensiva; la prima è centrifuga, la seconda centripeta; l’una è teleologica, l’altra archeologica. Nell’oppo sto orientamento si evince la diversa declinazione dell’ontologicità: per Hegel essa sta nel dispiegamento dell’essenza, per Tommaso nell’intendimento del senso assoluto dell’essere. La
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differenza è tra concezione eidetica e concezione funzionale dell’essere: l’una si pone come la revelatio dell’assoluto, come la manifestazione, per così dire, del “contenuto” dell’essere, come dispiegamento dell’essenza; l’altra come intelligenza del darsi dell’essere, come intendimento di ciò per cui gli enti si dan no e sono tali. L’ontologicità hegeliana risolve in sé l’onticità, ne è l’inveramento; quella tomistica assolutamente no: per essa la realtà trascendentale dell’essere, attestata dal giudizio, non dice essenza, ma atto. Per Tommaso l’essere non rivela l’essen za degli enti, ma il ciò per cui essi sono, cioè la norma che ad essi presiede. In questo senso nellVire ut actus, che restituisce il positivo secondo l’originaria divaricazione parmenidea dell’es sere rispetto al nulla, è attestata absolute l’incontraddittorietà, Vanypotheton, rispetto a cui «non possit aliquis mentiri, sive errare»65. Concezione funzionale e concezione eidetica dell’essere, pur nella comune ascendenza parmenidea, non si lasciano in realtà ricondurre alla medesima matrice: a Parmenide rimanda la concezione funzionale, al Parmenide platonico la concezione eidetica.
65 S. Thomae Aq,, In duodedm libros Metaphysicorum Aristotelis Expositio, IV, lect. 6, n. 597.
VI. Giudizio e ante-predicativo: Aristotele e Heidegger
Quando Aristotele pone a tema la questione della verità afferma che essa riguarda il discorso apofantico: è il giudizio il luogo della verità, il vero e il falso concernono la dimensio ne predicativa. Di contro Hegel ritiene di dover sopravanza re la forma della proposizione in generale, perché il vero non appartiene ad essa ma solo alla proposizione speculativa. Ad Heidegger si deve la revoca dell’una e dell’altra prospettiva: la verità è più originaria di ogni predicazione. Questo, in forma secca, lo status quaestionis del problema della verità: soluzione predicativa, post-predicativa e ante-predicativa. Della soluzio ne post-predicativa di Hegel ci si è già occupati nel saggio su Proposizione speculativa e giudizio, ad esso pertanto si rinvia. Qui ci si occupa determinatamente del rapporto tra soluzione predicativa e ante-predicativa.1
1. Il giudizio è il luogo della verità Nel capitolo vii del v libro della Metafisica, dove Aristote le indica i significati dell’essere, dopo la menzione dell’essere come accidente e dell’essere per sé, si legge: «Inoltre, l’essere
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e l’è significa, ancora, che una cosa è vera e il non-essere e il non-è significa che non è vera, ma falsa (éti tò eìnai semainei kaì tò éstin hóti alethés, tò dè mè eìnai hóti ouk alethés alla pseudos)»1; e appresso viene aggiunto che questo «vale tan to per l’affermazione quanto per la negazione (homotos epì kataphàseos kaì apophàseos)»12. Aristotele pone anzitutto il vero e il falso (l’essere come vero e il non essere come falso) come uno dei significati dell’essere. Nondimeno, mercé l’aggiunta del riferimento all’affermazione e alla negazione, lascia intravedere che ciò si dà nella struttura proposizionale. Sempre nella Metafisica, nel libro vi, al capitolo iv, viene detto: «Per quanto concerne l’essere come vero ed il non-essere come falso, dobbiamo dire che essi riguardano la connessione (.synthesin) e la divisione (diaìresin) di nozioni e l’uno e l’altro insieme abbracciano le due parti della contraddizione. Il vero {tò alethés) è l’affermazione di ciò che è realmente congiunto e la negazione di ciò che è realmente diviso; il falso {tò pseudos) è, invece, la contraddizione di questa affermazione e di questa negazione»3. Segue, un paio di righe appresso, l’affermazione fondamentale che «il vero ed il falso non sono nelle cose [...], ma solo nel pensiero {ou gàr esti tò pseudos kaì alethés en tots prâgmasin, [...], all’en dianoia)»4; di non altro, cioè, trattasi che di «una affezione della mente {tès dianoias ti pàthos)»5. Restando nel contesto dei libri della Metafisica, un punto importante, seppur complesso e controverso, è costituito dal capitolo X del libro ix. È il capitolo che chiude il libro sull’atto e la potenza. Ivi Aristotele reintroduce il tema dell’essere come vero e del non essere come falso, ma non già interpretati in chia ve gnoseologica, come problema del ritenere per vero, bensì come problema ontologico dell’esser-vero. Vi si dice che «per quanto riguarda le cose, l’essere come vero e falso consiste nel
1 Akist., Metaph. v, 7,1017 a 31-32 (trad. it. di G. Reale). 2 Ivi, 1017 a 32-33. 3 Metaph. vi, 4,1027 b 18-23. 4 Ivi, 1027 b 25-27. 5 Ivi, 1028 a 1.
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loro esser unite o nel loro esser separate»6. Ne consegue che «sarà nel vero (aletheùei) chi ritiene esser separate le cose che effettivamente sono separate ed essere unite le cose che effetti vamente sono unite»7. Heidegger ha visto correttamente che qui la dimensione gnoseologica è solo conseguenza, mentre in primo piano si dà la considerazione ontologica dell’esser-vero8 - e ciò consente senz’altro di marcare la duplicità del concetto greco di verità: verità della cosa (Sachwahrheit) e verità della proposizione (Satzwahrheit) tuttavia il fondamento ontolo gico della verità della cosa9, nel suo darsi, è indisgiungibile dal pensiero, ché l’apparire delle cose altro non è che il nostro pensarle. Aristotele distingue il vero e il falso negli esseri incom posti e in quelli composti. In rapporto ai primi (tà asyntheta) dice che «il vero è l’intuire (thigeìn) e Γenunciare (phdnai)»10. Rispetto ad essi non si dà possibilità di errore: si dà solo possibi lità di «non coglierli (me thiggdnein)»11; l’alternativa è «pensare o non pensare (è noeìn è me)»12·, il vero è tutto nel pensarli (tò dè alethès tò noeîn taùta), al loro riguardo «non c’è falso e nep pure inganno, ma solo ignoranza {tò dè pseùdos ouk éstin, oudè apdte, allà dgnoia)»n. Non così invece per quanto riguarda gli esseri composti: in questo caso, allorché ci si riferisce alle cose che possono essere tanto unite quanto separate, «la stessa opi nione e il medesimo discorso possono diventare e veri e falsi, e può accadere che talora si affermi il vero e talatra il falso»14. La distinzione tra esseri incomposti e esseri composti è riconduci-
6 Metaph. ix, 10,1051 b 2-3. 7 Ivi, 1051 b 3-4. 8 Cfr. M. H eidegger, Dell’essenza della libertà umana. Introduzione alla f i losofia, [Corso del sem. estivo del 1930: GMH 31], trad. it. di M. Pietropaoli, Bompiani, Milano 2016, pp. 165-243 (par. 9). 9 «Non perché noi ti pensiamo bianco tu sei veramente bianco, ma per il fatto che tu sei bianco, noi, che affermiamo questo, siamo nel vero» (Metaph. IX,10, 1051 b 6-9). 10 Ivi, 1051 b 24. Ivi, 1051 b 25. 12 Ivi, 1051 b 31-32. 13 Ivi, 1052 a 1-2. 14 Ivi, 1051 b 13-15.
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bile a quella tra concetto e proposizione. Gli esseri incomposti, solo intuibili ed enunciabili, a monte di ogni differenza tra vero e falso, sono le cose nel loro mero darsi, nel loro apparire, nel loro esprimersi nel concetto; gli esseri composti rimandano in vece alla struttura proposizionale, all’affermazione e alla nega zione dell’appartenenza di alcunché - di un predicato - ad un soggetto, e in questo caso evidentemente sono in gioco, in senso proprio, il vero e il falso. Nel De interpretatione Aristotele ricorda, sin dal primo ca pitolo, che «il falso e il vero riguardano la composizione e la divisione»15. Ciò significa che nomi e verbi, presi per sé, senza aggiunta di sorta, sono al di qua del vero e del falso. Vero e falso concernono il discorso {lògos), dunque la struttura proposizio nale, epperò non ogni discorso, bensì solo il discorso enuncia tivo (lògos apophantikós). È questo solo infatti quello in cui è presente il dire il vero e il falso [tò aletheùein è pseùdesthai). A chiarimento Aristotele aggiunge l’esempio della preghiera {euché), che è certamente un discorso {lògos), ma non ha a che vedere con verità e falsità. L’approfondimento che subito appresso Aristotele opera del lògos apophantikós pone a tema affermazione e negazio ne. La premessa è che è necessario, perché si dia un discorso enunciativo, che non manchi un verbo. In ogni modo l’enuncia zione esprime l’appartenere {hypàrchein) o meno di qualcosa a qualcosa: «L’enunciazione semplice - scrive Aristotele - è voce che ha significato relativamente al fatto che qualcosa apparten ga {hypdrchei) o non appartenga {mè hypàrchei) a qualcosa»16. Più precisamente, «l’affermazione {katdphasis) è l’enunciazio ne {apóphansis) che enuncia qualcosa di qualcosa; la negazione {apóphasis) è l’enunciazione che enuncia qualcosa come non di qualcosa»17. Soffermandosi a considerare la contrapposi zione tra affermazione e negazione, Aristotele sottolinea che «quante sono le contraddizioni degli universali {antiphâseis ton
15 Ajrist., De interpr. 16 a 12-13 (trad. it. di A. Zadro). 16 Ivi, 17 a 22-23. 17 Ivi, 17 a 25-26.
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kathólou) presi universalmente, per tante è necessità che solo una delle due enunciazioni sia vera (alethè) o sia falsa (pseudè), e così quante sono quelle che riguardano ciò che è singolare; per esempio, ‘Socrate è bianco’, ‘Socrate non è bianco’»18. In altri termini, riferito alla opposizione di contraddizione, è gio coforza che una proposizione sia vera e l’altra falsa: tertium non datur. L’opposizione di contraddizione spezza l’intero semanti co in due, per l’una parte esso è affermato, per l’altra è negato. Nessun dubbio, pertanto, che in tal caso «si dà una sola nega zione di una singola affermazione»19, e, reciprocamente, «una sola affermazione si contrappone secondo contraddizione a una sola negazione»20. Resta con ciò posta l’unità di affermazione e negazione (mia dé esti katdphasis kaì apóphasis), a condizione che venga significata una sola cosa in rapporto ad un’altra sola cosa (hén semainei) e non si cada nell’omonimia21. Con il capitolo ix Aristotele pone una delle questioni più ri levanti. Quanto sin qui affermato, e cioè la necessità che nell’op posizione di contraddizione tra affermazione e negazione l’una sia vera e l’altra falsa, vale in rapporto alle cose che sono e a quelle che sono state (epì mèn oûn tòn ónton kaì genoménon)22, vale, in altre parole, per il presente e il passato, non vale invece per il futuro, non vale per le cose future {epì tòn mellónton). Se valesse parimenti per il futuro si avrebbe il determinismo, ma lingua ed essere si sottraggono a questo. L’esempio della battaglia navale addotto da Aristotele lo lascia intendere effi cacemente: è certamente necessario che domani ci sia o non ci sia una battaglia navale, è necessaria cioè l’alternativa nella sua unità, ma, divisa l’alternativa, non è affatto necessario che domani ci sia una battaglia navale, e allo stesso modo non è
18 Ivi, 17 b 26-29. 19 Ivi, 17 b 37. 20 Ivi, 18 a 8-9. Ivi, 18 a 13-27. Nell’omonimia, valendo un nome non per una ma per più cose, l’affermazione non è più una sola ma sempre più di una; di qui il venir meno della necessità che l’una alternativa contraddittoria sia vera e l’altra falsa. 22 Ivi, 18 a 28.
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affatto necessario che domani non ci sia una battaglia navale23. «È di necessità che l’una delle due parti della contraddizione sia vera o sia cosa falsa ma non però questa o quella parte, ma qualsivoglia delle due cui accade (