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Italian Pages 191 Year 2010
DARIA DIBITONTO
LUCE, OSCURITÀ E COLORE DEL DESIDERIO Un’eredità non ancora indagata della filosofia di Ernst Bloch
MIMESIS Essere e libertà
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INDICE
I. DESIDERIO COME DIALETTICA DI LUCE E OSCURITÀ: ONTOLOGIA DEL NON-ANCORA
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1. Oscurità e luce del presente 1.1. L’inizio in fermento 1.2. Oscurità come interrogazione metafisica 1.3. Radice dialettica del desiderio nello stimolo 1.4. Dallo stimolo al desiderio 1.5. La luce della presenza
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2. L’eccedenza del desiderio: l’oltrepassare 2.1. Immediatezza dello stimolo e mediazione del desiderio 2.2. Eccedenza del desiderio nel pensiero 2.3. L’eccedenza dello stupore 2.4. Produttività spirituale e luminosa coscienza utopica
33 33 35 37 39
3. Il desiderio della materia 3.1. Il finalismo aristotelico nella filosofia utopica 3.2. Interpretazione qualitativa della materia nella storia della filosofia 3.3. Materialismo dialettico e fisica del XX secolo: qualità come alterità 3.4. Aporia e antinomia del desiderio materiale
45 45 48
4. Logica e ontologia: intensità di pensiero ed essere 4.1. Appetitus perfectionis: la logica della materia 4.2. Intensità logico-ontologica 4.3. Desiderio, garanzia di differenza
64 64 68 72
5. Viaggio del desiderio verso la speranza: il multiversum 5.1. Irrequietezza del tempo e dello spazio 5.2. Dialettica pluritemporale e plurispaziale 5.3. Il multiversum
78 78 83 86
52 58
II. DESIDERIO BLU: LA PROFONDITÀ DELL’ARTE
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1. Costruire nel blu e arte figurativa 1.1. Espressionismo e filosofia dell’arte 1.2. Kunstwollen come desiderio d’arte 1.3. Tensione dell’arte: il volto umano
97 97 104 109
2. Wunschbild: colore e immagine nella parola 2.1. Morfologia dei Wunschbilder 2.2. La parola letteraria come parola allegorica 2.3. Creatività demonica alla radice di allegoria e simbolo 2.4. Figure letterarie della moralità
111 111 114 118 122
3. L’eccedenza del suono 3.1. Musica: desiderio e mistero 3.2. Eccedenza di Wagner e di Beethoven 3.3. Intensità della musica opposta alla morte
126 126 128 134
4. La luce, il blu e il noi 4.1. Un solido anello di anime 4.2. Arte e filosofia
139 139 144
III. DESIDERIO ROSSO: AMORE E RIVOLUZIONE
148
1. La rivoluzione dell’autoconservazione 1.1. Bloch contra Freud: il desiderio non inganna 1.2. Interesse economico, rivoluzionario ed erotico nell’auto-conservazione 1.3. Statuto teologico dell’amore
152 152
2. «Il sogno» – rosso – «di una cosa» 2.1. Corrente calda e corrente fredda del sogno 2.2. Marxismo: critica al nichilismo ed eredità culturale 2.3. Critica utopica del marxismo
163 163
158 161
168 173
IV. DESIDERIO GIALLO-ORO: MISTERO DEL COMPIMENTO
178
1. Ὕβρις escatologica: il desiderio di «essere come Dio» 1.1. Il mito di Prometeo, filo rosso dell’esegesi biblica 1.2. Tracotanza del desiderio di «essere come Dio» 1.3. Misteri del desiderio in Cristo
180 180 185 188
2. Oltre religione e ateismo: mistica della prossimità 2.1. Infinita piccolezza del sommo bene 2.2. Desiderio di Dio come attenzione mistica all’attimo vissuto 2.3. Prossimità tra identità e alterità
191 191 194 191
BIBLIOGRAFIA
203
A Massimiliano, luce, oscurità e colore della mia vita nell’eccedenza della sua musica
11
LEGENDA
Le opere di Ernst Bloch citate nel testo riportano le sigle seguenti: PH
Das Prinzip Hoffnung in Gesamtausgabe in 17 Bänden, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1959-1978, Bd. 5; tr. it. di Enrico De Angelis e Tomaso Cavallo, Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994.
S
Spuren in Gesamtausgabe, cit., Bd. 1; tr. it. di Laura Boella, Tracce, Garzanti, Milano 1994.
TM
Thomas Münzer als Theologe der Revolution in Gesamtausgabe, cit., Bd. 2; tr. it. di Stefano Zecchi, Thomas Münzer teologo della rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980.
GU
Geist der Utopie. Zweite Auflage, in Gesamtausgabe, cit., Bd. 3; tr. it. di Francesco Coppellotti, Spirito dell´utopia, La Nuova Italia, Firenze 1992.
EZ
Erbschaft dieser Zeit in Gesamtausgabe, cit., Bd. 4; tr. it. di Laura Boella, Eredità del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1992.
NW
Naturrecht und menschliche Würde in Gesamtausgabe, cit., Bd. 6.
MP
Das Materialismusproblem, seine Geschichte und Substanz in Gesamtausgabe, cit., Bd. 7.
SO
Subjekt-Objekt. Erläuterung zu Hegel in Gesamtausgabe, cit., Bd. 8; tr. it. di Remo Bodei, Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, Il Mulino, Bologna 1981.
LA
Literarische Aufsätze in Gesamtausgabe, cit., Bd. 9; parzialmente tradotto (pp. 401-548) a cura di Laura Boella, Geographica, Marietti, Genova 1992.
PA
Philosophische Aufsätze zur objektiven Phantasie in Gesamtausgabe, cit., Bd. 10.
12
PM
Politische Messungen, Pestzeit, Vormärz in Gesamtausgabe, cit., Bd. 11.
ZP
Zwischenwelten in der Philosophiegeschichte in Gesamtausgabe, cit., Bd. 12; parzialmente tradotto (pp. 175-302) a cura di Remo Bodei, La filosofia del Rinascimento, Il Mulino, Bologna 1981.
TE
Tübinger Einleitung in der Philosophie in Gesamtausgabe, cit., Bd. 13.
AC
Atheismus im Christentum. Zur Religion des Exodus und des Reichs in Gesamtausgabe, cit., Bd.14; tr. it. di Francesco Coppellotti, Ateismo nel Cristianesimo. Per la religione dell’Esodo e del Regno, Feltrinelli, Milano 2005 (1971).
EM
Experimentum Mundi. Frage, Kategorien des Herausbringens, Praxis in Gesamtausgabe, cit., Bd.15; tr. it. di Gerardo Cunico, Experimentum Mundi. La domanda centrale, le categorie del portar-fuori, la prassi, Queriniana, Brescia 1980.
GU1
Geist der Utopie. Erste Fassung in Gesamtausgabe, cit., Bd.16.
TLU
Tendenz - Latenz – Utopie in Gesamtausgabe, cit., Erg.-Bd.
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I DESIDERIO COME DIALETTICA DI LUCE E OSCURITÀ: ONTOLOGIA DEL NON-ANCORA
Das Desiderium, die einzig ehrliche Eigenschaft aller Menschen, ist unerforscht Il desiderium, l’unica qualità sincera di tutti gli uomini, è inesplorato1 Ernst Bloch
Desiderio è, platonicamente, desiderio di ciò che manca. La parola italiana, diretta figlia del latino desiderium, reca in sé le tracce del significato platonico, rimandando a una distanza – una distanza siderale, de-sidera, dalle stelle – che rischia di essere così grande da diventare un’assenza, o una mancanza, di luce. La parola latina, etimologicamente discussa e tuttavia riconducibile al significato originario di «smettere di contemplare gli astri»,2 ha una connotazione nostalgica, rivolta al luminoso passato perduto, da cui si è distolto, forse, persino lo sguardo, ma di cui è rimasta traccia nella mancanza, o – in termini più aporetici – nella presenza di un’assenza. La parola italiana, erede di quest’etimologia e di quest’uso, estende invece il significato della mancanza: non si patisce soltanto l’assenza di ciò che si è perduto, e che dunque già si conosce, ma anche di ciò che s’immagina possibile eppur non si è ancora mai sperimentato. Il riferimento agli astri, alle stelle, al cielo e alle sue luci, 1
2
La frase in esergo, più volte ripetuta nell’opera blochiana, è qui riportata nella versione che fa uso del termine latino desiderium (PH 4; it. 8), ma in altri casi, ad esempio TLU 355, al suo posto si trova il termine tedesco Sehnsucht. Che Bloch consideri intercambiabili i due termini è dimostrato anche dal fatto che lui stesso traduce il termine latino desiderium con Sehnsucht citando Abelardo nel passo conclusivo de Il principio speranza (PH 1628, it. 1587). Così riporta Camille Dumoulié nel suo volume Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, Einaudi, Torino 2002, p. 77. Una più accurata etimologia del termine, all’interno di un’approfondita analisi dell’ontologia del desiderio blochiana, si trova in Gerardo Cunico, L’ontologia del desiderio in Ernst Bloch in Claudio Ciancio (a cura di), Metafisica del desiderio, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 259-283, in particolare p. 265 nota 12.
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Luce, oscurità e colore del desiderio
etimologicamente implicito alla parola desiderio, assume quindi, nella nostra lingua, una nuova vastità d’orizzonte.3 Il desiderio non è il tema centrale del pensiero di Ernst Bloch, che si concentra piuttosto su altre categorie, grazie all’indagine sulle quali il suo nome resta inscritto nella storia della filosofia: innanzitutto la speranza, quindi l’utopia, la possibilità, il novum, la patria, per non citare che le principali. Il desiderio è piuttosto, nel suo pensiero, un tema sotterraneo. In più accezioni: innanzitutto, serpeggia in tutti i suoi testi e in tutti i suoi scritti, senza mai diventare – con un’unica eccezione, di cui parleremo4 – oggetto d’indagine specifico; inoltre, quando presente, assume carattere camaleontico, comparendo mutato e non sempre riconoscibile sia nella varietà delle parole tedesche che lo esprimono sia nella diversità di contesti in cui emerge; infine il desiderio, perennemente incalzato dalla mancanza e dal bisogno, si trova a fronteggiare corpo a corpo il carattere ctonio, oscuro, buio, del vivere e del pensare.5 Tuttavia, proprio perché è un tema sotterraneo, il desiderio merita di essere indagato. Se è proprio di una filosofia utopica immergersi nell’oscurità per attingervi speranza, la filosofia blochiana si sforza di farlo senza condannare univocamente l’oscurità a figura del nulla, dell’oblio e della perdizione. Essa mantiene, invece, la doppia abissalità di uno sguardo davvero profondo, che non è rivolto solo verso il basso, verso il passato e ciò che non è più, ma anche verso l’alto, verso il nuovo e ciò che non è ancora; la profondità verso l’alto è quella della funzione utopica del pensiero, che accoglie ciò che è profondo, dal basso, per sollevarlo e ha dunque il movi3
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5
È la vastità aperta dallo sguardo sul futuro che si riflette sul presente rendendolo più ricco di possibilità e quindi più ampio. Il tempo, emotivamente connotato, modifica l’esperienza dello spazio: nel desiderio la categoria tempo aspira a rovesciarsi in quella di spazio. Cfr. infra, cap. I, par. 5.1. Seppur Il principio speranza sia stato descritto da Hanna Gekle come una vera e propria «fenomenologia del desiderio» (Hanna Gekle, Wunsch und Wirklichkeit, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1986, p. 71ss), e Remo Bodei traduca quell’opera in «logica del desiderio» (Remo Bodei, La logica del desiderio in Gerardo Cunico (a cura di), Attualità e prospettive del “Principio speranza”. L’opera fondamentale e il pensiero di Ernst Bloch, La Città del Sole, Napoli 1998, pp. 107-118), concordo con l’analisi di Cunico che sottolinea e mantiene la differenza tra desiderio e speranza (cfr. Gerardo Cunico, Op. cit., pp. 277-278). Mi riferisco dunque non all’intera opera Il principio speranza, ma specificamente al par. 9 Nacktes Streben und Wünschen, nicht gesättigt (Nudo anelito e desiderio, insaziati, PH 49-51, it. 55-57). Cfr. infra, cap. I, par. 1.3. Cfr. Daria Dibitonto, Desiderio. Un corpo a corpo con l’eccesso, verso l’intimità in Enrico Guglielminetti (a cura di), Interruzioni. Note sulla filosofia di Ugo Perone, Il Melangolo, Genova 2006, pp. 15-23.
Desiderio come dialettica di luce e oscurità: ontologia del non-ancora
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mento di una ruota, che allo stesso tempo si immerge e attinge nell’acqua della vita, per salire verso la luce. 6 Sprofondarsi nell’oscurità di questo pensiero è quindi una scelta di metodo e di percorso, ovvero una prima presa di posizione filosofica: significa scegliere come proprio questo movimento utopico doppiamente profondo, per smuovere e mettere alla prova il pensiero blochiano dal suo interno, e rintracciare, nel percorso di smontaggio e rimontaggio, un’eredità non ancora indagata del suo pensiero, eppur attualissima: il radicamento della speranza nel desiderio. La seconda presa di posizione filosofica è che il desiderio non sia solo un tema sotterraneo della filosofia blochiana, ma il suo nodo teorico portante, così vicino al moto proprio di quel pensiero da non essere quasi più visibile agli occhi di chi lo concepisce: è il suo punto cieco, la categoria in cui luce e buio si toccano e si rovesciano l’uno nell’altro. Il desiderio in Bloch è, infatti, innanzitutto Sehnsucht, anelito a un compimento sempre rinviato, immaginato e presagito ma mai pienamente realizzato, che funge tuttavia da spinta inestinguibile alla ricerca, alla trasformazione e all’azione umana: Sehnsucht «non è qualcosa che si chiude nella realizzazione di se stessa, bensì un fatto dell’anima con valore ed esistenza autonomi, un’originaria e profonda presa di posizione di fronte alla totalità della vita, una categoria ultima e insopprimibile delle possibilità della vita», scriveva l’amico Lukács negli anni in cui lo scambio intellettuale con Bloch era più intenso.7 6
7
Cfr. PH 181; it. 187. La metafora della ruota richiama un passo dell’Henrich von Ofterdingen di Novalis (tr. it. di T. Landolfi, Adelphi, Milano 1997, p. 20), nel quale il famoso sogno del fiore azzurro dà a Henrich slancio per la sua vita futura: «E certamente il sogno che ho sognato questa notte non è per essere nella mia vita un avvenimento senza seguito, giacché sento che si è inserito nell’anima come una grande ruota e la spinge innanzi con potente slancio». La ruota rinvia dunque allo slancio del sogno notturno che prende consistenza di desiderio a occhi aperti, mentre la metafora della doppia abissalità allude alla dimensione storica del pensiero utopico nella sua ambivalenza, così ben descritta da Remo Bodei nel suo rilevante articolo sul nostro tema: «qui batte il cuore della proposta blochiana: non si dà sviluppo storico, o la storia resta “invertebrata”, se manca una logica del desiderio, lo slancio utopico; ma il desiderio non può essere sregolato, privo della zavorra, del peso dell’attenzione da dedicare alle situazioni reali, ai valichi impervi, ai bivi, alle vie senza uscita che la storia in ogni momento ci presenta». Cfr. Remo Bodei, La logica del desiderio, cit., p. 113. György Lukács, Die Seele und die Formen, Luchterhand, Neuwied 1971 (1910) [L’anima e le forme, tr. it. di S. Bologna, SE, Milano 2002, p. 36]. Peter Zudeick, autore della biografia di Bloch più ricca e dettagliata, scrive che Bloch fu uno dei pochi eletti a leggere il manoscritto di quell’opera (Peter Zudeick, Der Hinter des Teufels, Elster Verlag, Bühl-Moos 1985, p. 42), mentre entrambi gli autori
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Luce, oscurità e colore del desiderio
Conformemente a quanto scrive Lukács, per Bloch Sehnsucht è, con un’impostazione di stampo ancora romantico, una realtà più potente di qualsiasi realizzazione singola, ma, a differenza di Lukács e con una veemenza visionaria di stampo espressionista, Sehnsucht è anche il motore del cambiamento, oscura attrazione a prefigurare qualcosa che ancora non esiste per farne meta futura.8 Il desiderio blochiano è però anche Wunsch e Wunschbild (immagine di desiderio), ovvero la rappresentazione cangiante di un “meglio” che attrae per mezzo della sua figura e del suo colore, piuttosto che per la sua presunta capacità di soddisfare un bisogno, e risponde dunque a un meccanismo di seduzione che, inaugurando il distacco dalla materialità, apre lo spazio della fantasia e quindi dell’illusione come dell’inganno. È innanzitutto la fiaba che può raccontare efficacemente come i singoli desideri siano attraenti quanto mutevoli e talvolta persino sciocchi: Bloch, grande appassionato di Hebel, cita spesso la sua fiaba intitolata Drei Wünsche (tre desideri) per dare conto di come possa essere difficile dare una figura consistente al “meglio” che si desidera. La storia racconta di una giovane coppia felice che aveva un unico difetto, tipico, secondo Hebel, di ogni essere umano: «Quando si ha qualcosa di buono, si avrebbe volentieri qualcosa di
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raccontano con trasporto in più luoghi la profondità della loro amicizia. Ad es. cfr. Ernst Bloch, Tagträume vom aufrechten Gang. Sechs Interviews mit Ernst Bloch, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1977 [Marxismo e utopia, tr. it. e cura di V. Mazzocchi, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 121-133] e Id., Geladener Hohlraum in TLU 368-380. Sull’amicizia tra Bloch e Lukács rinvio alle dense pagine scritte da Laura Boella, la quale racconta gli elementi essenziali di una «simbiosi spirituale» che attraversa un decennio fondamentale per entrambi (1910-1920), e sottolinea come Bloch fosse legato al Lukács di L’anima e le forme. Cfr. Laura Boella, Ernst Bloch. Trame della speranza, Jaca Book, Milano 1986, pp. 55-85, in particolare pp. 56-57 e p. 64. Gerardo Cunico, nel saggio citato in nota 2, sostiene che in Bloch sia presente un’ontologia della Sehnsucht, ma non del Wunsch, poiché solo della prima Bloch arriva a dire, identificandola con il desiderium, che «sospinge e muove nel fondo di ogni cosa» (TE 253). Cunico stesso, però, riconosce che «proprio in questa direzione verso il sommo bene convergono i singoli desideri (Wünsche) e le diverse immagini di desiderio (Wunschbilder) di tipo progettuale, costruttivo e sperimentale» (p. 274), e riporta che Bloch, in TE 270, definisce i Wünsche e i Wunschbilder come «determinazioni sperimentali» della Sehnsucht, la quale a sua volta è «il fondamento e la radice di tutti i singoli desideri designabili come Wünsche» (p. 263). Proprio alla luce della continuità di discorso segnalata dallo stesso Cunico tra Sehnsucht, Wunsch e Meinen (intendere), si preferisce qui sfruttare la vastità semantica della parola italiana “desiderio”, illustrarne la complessità e poi indagarne le diverse declinazioni per operare uno spostamento interpretativo all’interno del pensiero blochiano. La categoria desiderio diventa insomma una “leva” per l’interpretazione.
Desiderio come dialettica di luce e oscurità: ontologia del non-ancora
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meglio».9 La coppia, una sera, aveva ricevuto la visita di una fata di montagna che aveva offerto di esaudire tre desideri a scelta e aveva concesso alla coppia otto giorni per pensarci. La sera dopo, durante la preparazione della cena, marito e moglie erano entrambi in silenzio, sprofondati nella futura felicità, quando il profumo delle patate nel piatto salì piacevolmente al naso della moglie che esclamò, in tutta innocenza e senza pensare ad altro: – Oh, se avessimo anche un salsicciotto fritto!, «e – ahimè, il primo desiderio era detto. Veloce come un fulmine va e viene, giù dal camino scesero come un misto di aurora e profumo di rose, e un bellissimo salsicciotto si stese sulle patate». Aurora e profumo di rose erano i segni distintivi della fata di montagna, che realizzò immediatamente anche il desiderio di vendetta del marito, irato per la leggerezza della moglie: «Che ti possa nascere il salsicciotto sul naso!», disse, e così furono esauriti anche gli ultimi due desideri, perché «in cosa sarebbe stata d’aiuto tutta la ricchezza e tutta la fortuna del mondo a una casalinga con un naso così decorato?». E così il terzo desiderio venne usato per far sparire quella salsiccia dal suo volto. «Detto, fatto. E i poveri sposi si guardarono, erano lo stesso Hans e la stessa Lise di prima e la bella fata della montagna non tornò mai più». Il Wunsch è cangiante, facilmente mutevole e quindi distratto, non sa che il meglio cercato spesso si nasconde nell’inappariscente, in ciò che non è facile da vedere, ed è anche per questo che, nelle fiabe, la morale vuole che il desiderio abbia bisogno del “buon senso” (Verstand)10 per comprendere quando meglio e bene coincidono, ovvero quando il meglio è così buono da consentire di raggiungere la pienezza dell’attimo cui poter dire, faustianamente, «Verweile doch! Du bist so schön!» (fermati dunque, sei così bello). In questo sommo desiderio goethiano, infatti, Wunsch e Sehnsucht vengono a convergere, non solo perché l’adempimento è lo stesso per entrambi e perché la pienezza agognata ricongiunge le loro differenze a unità, ma perché sia la smisuratezza della Sehnsucht sia la piccolezza del Wunsch sembrano finalmente trovare una misura.11 Tuttavia ne Il principio speranza Bloch analizza scrupolosamente tutte le forme possibili di Wunsch non soltanto per raccoglierne lo slancio utopico e direzionarlo portandolo a convergenza con la Sehnsucht verso un obiettivo comune, ma anche per andare a scovare quei sogni piccoli 9 10 11
Johann Peter Hebel, Drei Wünsche in Id., Schatzkästlein des rheinischen Hausfreundes, Gotta’schen Buchhandlung, Stuttgart u. Tubingen 1833, pp. 117-120. La fiaba di Hebel si conclude con un consiglio diretto al lettore su quali sarebbero stati i tre desideri da esprimere: 1) buon senso, per sapere 2) cosa dover desiderare per essere felici e 3) soddisfazione costante senza pentimenti. Ivi, p. 120. Cfr. PH 1153, it. 1138.
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Luce, oscurità e colore del desiderio
e prossimi che spesso appaiono banali nella loro quotidianità e invece racchiudono una forza nascosta che li trascende.12 Nel desiderio, infatti, preme qualcosa che né la parola Sehnsucht né il termine Wunsch sono sufficienti a descrivere ed è piuttosto espresso dal vocabolo Meinen, che letteralmente significa “intendere”, nel senso di «tendere dentro di sé verso altro»13 mediante una forza propulsiva ancora vaga ma non priva di direzione in avanti. La radice di questa tensione è, però, la mancanza, il “non” come “non-avere”, che in Tübinger Einleitung in die Philosophie è da Bloch fatta coincidere tout court con il Meinen: nel “non” è implicito niente di più e niente di meno che un rinvio a ciò che non si ha, un “intendere” ciò che manca.14 «Il “non” è mancanza di qualcosa e allo stesso tempo fuga da quella mancanza; quindi è sospingere (Treiben) verso ciò che manca» (TE 218). La mancanza, grazie all’impulso corporeo che spinge alla ricerca di ciò che manca (Trieb, altro termine fondamentale, come vedremo), si aggancia alla fantasia e si muta in eccedenza, di modo che il Meinen viene a convergere con la Sehnsucht, o desiderium, quell’«abisso e montagna» (ovvero mancanza ed eccedenza, ma anche buio e luce) che «sospinge e muove al fondo di ogni cosa».15 Il Meinen rappresenta quindi il polo opposto dell’agognata pienezza faustiana, l’insaziabilità di una mancanza incolmabile che è a sua volta fonte di eccedenza e sovrabbondanza perché si traduce in uscita da sé e apertura all’esteriorità e all’alterità. 12
13
14 15
Tutti gli autori che si occupano di Bloch hanno sottolineato questo aspetto del suo pensiero: l’attenzione all’inappariscente, all’insolito che interrompe il quotidiano, alla straordinarietà di ciò che è piccolo e solo apparentemente insignificante. Tra tutti rinvio in particolare alla Parte quarta del testo di Anna Czajka, Tracce dell’umano. Il pensiero narrante di Ernst Bloch, Diabasis, Reggio Emilia 2003, pp. 159-213, intitolata Poetica dell’attimo, nella quale Czajka mostra con acutezza e precisione come questo tratto del pensiero blochiano, radicato nella sua visione ontologica utopico-messianica fin da Spirito dell’utopia, dia luogo a una vera e propia poetica, ossia a un’originale concezione della produzione artistica. È la bella perifrasi di Gerardo Cunico, che ha tradotto tra l’altro Experimentum Mundi, testo nel quale la categoria Meinen assume un ruolo centrale come categoria del «portar fuori». Cfr. Gerardo Cunico, L’ontologia del desiderio in Ernst Bloch in Op. cit., p. 275. In queste stesse pagine Cunico sottolinea come il «premere e accennare del Meinen» e il «deciso additare della speranza» siano i due poli entro i quali si muove l’ontologia del non-ancora di cui il desiderium costituisce il perno. Ivi, p. 276. Cfr. TE 243. Questa la citazione per esteso: «Abisso e montagna hanno il loro fondamento nel desiderium che sospinge e muove al fondo di ogni cosa, diventando consapevole nell’uomo » (TE 253).
Desiderio come dialettica di luce e oscurità: ontologia del non-ancora
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Se è vero, allora, che nessuno dei termini tedeschi citati, Wunsch, Sehnsucht e tantomeno Meinen, possono essere tradotti dalla parola italiana “desiderio” con piena corrispondenza, è però altrettanto vero che essa sembra poter agevolmente racchiudere e contenere in sé i diversi significati sottesi alla complessa articolazione blochiana sul tema. L’ampio ambito semantico del vocabolo italiano “desiderio” si presta infatti particolarmente bene a definire e comprendere la dimensione sotterranea della speranza: ciò che è diviene per colmare la propria latenza – oscura – e portare a compimento la propria tendenza – verso la luce. Si instaura così una tensione dialettica tra luce e oscurità che non li riduce a elementi opposti e alternativi, ma ne fa invece, nel loro passare dall’uno all’altro, il tramite d’accesso alla vitalità del colore che pervade il desiderio, in una variegata gamma che assume i toni dominanti del blu, simbolo di profondità, del rosso, simbolo di passione e solidarietà, e del giallo-oro, simbolo di luminosa e concreta spiritualità. Scegliere di mettere a tema il desiderio non significa soltanto assumere una prospettiva interna al pensiero blochiano che ne individui e analizzi un nodo teorico non ancora sufficientemente indagato, ma anche compiere uno spostamento interpretativo che sia al tempo stesso una presa di distanza strategica. È questa la terza presa di posizione filosofica operata in questo lavoro: da un lato, la strategia consiste nel bilanciamento di un pensiero peraltro troppo spesso accusato di essere sbilanciato dal lato del futuro e del compimento, dall’altro è scoperta di una filosofia da fare propria: solo il pensiero che affonda le radici nell’esperienza del desiderio e ne eredita criticamente i caratteri può essere fedele all’essere senza incorrere nel pericolo dell’identificazione illusoria con esso. L’ambiguità costitutiva del desiderio, il suo radicamento nella corporeità bisognosa da un lato e il suo slancio verso l’immagine di compimento futuro dall’altro, costituiscono infatti, ancora e sempre, come già Platone in altri termini indicava nel Simposio, figura emblematica della filosofia. Indagare i caratteri e la funzione del desiderio nella filosofia blochiana significa tornare a pensare il desiderio per svincolarlo dalle innumerevoli riduzioni, sfruttamenti e frantumazioni cui va incontro in proporzioni sempre più esteste nella globalizzata società dei consumi, anche ad opera dell’“industria culturale” massificata, e restituirlo alla sua portata filosofica e ontologica.16 Il rapporto tra desiderio e pensiero è costitutivo della filo16
Il filosofo francese Bernard Stiegler insiste sul fatto che la fabbricazione artificiale dei desideri operata dalle industrie culturali mediante gli «oggetti temporali industriali» (principalmente film e dischi insieme a programmi televisivi e radiofonici)
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Luce, oscurità e colore del desiderio
sofia, ma anche dell’identità umana come tale, perché è modulando quel nesso che l’uomo calibra la relazione con se stesso e con l’alterità, in una vasta gamma di possibilità ai cui estremi negativi troviamo la persistente frustrazione del desiderio che porta il pensiero a un illusorio distacco dalla realtà o l’appagamento sfrenato del desiderio che ignora e anzi svilisce la saggezza del pensiero. La complessa proposta filosofica blochiana, che qui non si vuole ridurre alla sua componente marxista, pur se rilevante, porta a pensare quel nesso nei termini di un’incompiutezza feconda. La sua concezione teleologica, incentrata sul raggiungimento di una patria abitabile da un’umanità liberata, non si riduce a una visione unilineare, secondo cui la direzione del divenire va dall’interiore verso l’esteriore, dal sé verso il mondo, o dal passato verso il futuro. Si tratta piuttosto di andare verso l’esteriore e scoprirlo come l’interiore,17 consapevoli che questa scoperta non è passiva contemplazione né banale adeguazione, ma attiva trasformazione di sé e del mondo. Tuttavia, affinché la trasformazione pratica non si riduca ad arrogante tentativo di adeguare il mondo ai propri desideri, a mera riduzione dell’altro a sé, ad annullamento delle differenze in vista di una banale identità, è necessario compiere un passo indietro rispetto a speranza e utopia, frenando la corsa verso la patria e verso il futuro, per capire cosa significhi desiderare la patria di tutti e di ciascuno. Questo desiderio, infatti, è allo stesso tempo motore e condizione di possibilità del divenire futuro: è quel movimento di immersione nel buio del bisogno in cui si attinge l’immagine del compimento futuro, senza la quale non ci sarebbe ragione di cambiamento. L’oscurità e la luce del desiderio sono l’oscurità e la luce del presente.
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conduca a una pericolosa «perdita di individuazione» (Simondon) delle singole coscienze che finiscono per uniformarsi al caro prezzo di una spersonalizzazione generalizzata. Cfr. Bernard Stiegler, De la misère symbolique, 1. L’époque hyperindustrielle e 2. La catastrophè du sensible, Galilée, Paris 2004 e 2005. Cfr. il sottotitolo all’ultimo capitolo di Spirito dell’utopia, dal titolo Karl Marx. La morte e l’apocalissi, che rappresenta anche il filo conduttore delle ultime pagine dell’opera: Le strade del mondo lungo le quali l’interiore può diventare esteriore e l’esteriore come l’interiore (GU 289; it. 305).
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1. Oscurità e luce del presente 1.1 L’inizio in fermento «Ich bin. Aber ich habe mich nicht. Darum werden wir erst».18 Questa frase, apertura della Tübinger Einleitung in die Philosophie, diventata quasi un motto del pensiero blochiano,19 riassume concisamente lo sviluppo dialettico del divenire della coscienza, ovvero di ciò che vorrei definire dialettica del desiderio: l’impossibilità di possedere se stessi, la mancanza di compiutezza del soggetto (ich), è motore del divenire non solo del singolo, ma di una comunità di soggetti (wir).20 Seppur la struttura triadica dell’affermazione schematizzi efficacemente i tre momenti della trasformazione dialettica e la negazione contenuta nella seconda proposizione sia poi tolta e superata dalla terza, questa frase tuttavia è ancora troppo sintetica per descrivere adeguatamente la dialettica del soggetto, che non possiede nemmeno se stesso, nella sua relazione con il mondo e con gli altri soggetti. Il percorso di uscita da sé, che porta a riscoprire il mondo in una dimensione di divenire comunitario, è lungo, lento e non lineare – come lo è ogni relazione, che ha bisogno di tempo per svilupparsi e approfondirsi, perché si nutre del movimento e della trasformazione dei suoi termini. Inoltre, qui non è ancora chiaro quale ruolo giochi il desiderio. Questa frase può 18
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«Io sono. Ma non mi possiedo. Perciò noi diveniamo». Come sempre è impossibile restituire in italiano la pregnanza dell’originale tedesco. Se le prime due frasi sono piuttosto lineari, la terza contiene maggiori ambiguità. Si potrebbe tradurre anche «Perciò diveniamo» o «Perciò diveniamo dunque noi» o «Per questo innanzitutto diveniamo» (come fa Laura Boella nella traduzione di Spuren, it. 1). Si tratta decidere su cosa mettere l’enfasi data in tedesco dalla parola erst, che si può anche non tradurre perché qui esprime un’accentuazione. Preferisco «perciò noi diveniamo» perché mantiene buona parte dell’ambiguità e allo stesso tempo della semplicità dell’originale tedesco, senza perderne l’esito, cioè il divenire noi (wir), soggetto comunitario, di quello che inizialmente è il soggetto singolo (ich). Lo conferma, ad esempio, la raccolta di saggi curata dal figlio Jan Robert, che elegge questa frase a nucleo della filosofia paterna, affrontata poi in prospettiva multidisciplinare. Cfr. Jan Robert Bloch, «Ich bin. Aber ich habe mich nicht. Darum werden wir erst». Perspektiven der Philosophie Ernst Blochs, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1997. Cfr. Daria Dibitonto, Dialektik des Wunsches unterwegs zur Hoffnung in Vorschein. Jahrbuch der Ernst-Bloch-Assoziation, n. 25/26, Jahrbuch 2004/05, pp. 85-96 [it. Dialettica del desiderio. In viaggio verso la speranza in “Filosofia“, anno LVIII, fasc. III, pp. 43-56].
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dunque soltanto essere, come in più di un libro di Bloch,21 un inizio in fermento. «Io sono in me. Il fatto che io cammini, o parli, non è presente (ist nicht da). Solo immediatamente dopo posso pormelo davanti. Noi stessi, lì dentro, mentre viviamo, non ci vediamo, noi fluiamo lì dentro. Quel che vi accade, quel che noi lì veramente eravamo, non vuole coincidere con ciò che possiamo vivere (erleben). Non è ciò che si è, né tanto meno ciò che si intende (meint)» (GU 17; it. 13, trad. mod.). Così inizia lo Spirito dell’utopia, prima opera matura di Bloch, poliedrica, prometeica nel suo slancio ed espressionista nella sua forma, il cui stile carico di forza figurativa ha profondamente colpito Adorno e segnato un momento unico di incontro tra filosofia, arte e mistica.22 L’inizio è il fermento dell’io, che, mentre vive (erlebt), mentre è in sé immediatamente, camminando, parlando, scrivendo, non può vedersi, né quindi conoscersi, né comprendere la propria essenza. Per questo motivo resta a sé ignoto il proprio essere, che non coincide semplicemente con l’immediatezza del vivere, né con ciò che la parola intende, cioè con la sua mediazione. Infatti, anche una volta che l’io sia riuscito a osservarsi, lasciando trascorrere un po’ di tempo e portando davanti agli occhi quel momento che nella sua immediatezza è troppo vicino per essere compreso, quel che l’io riuscirà ad osservare, e poi a intendere parlando, sarà il suo immediato passato che già non coincide più con l’attuale presente. Per questa non coincidenza della coscienza con ciò che accade, ogni momento presente è un inizio oscuro, ma per lo stesso motivo è inizio in fermento e ancor sempre fecondo. È questa «l’oscurità dell’attimo appena vissuto» (das Dunkle der gerade gelebten Augenblick) che ricorre insistentemente nell’opera blochiana: 21 22
Questa stessa frase si trova infatti anche all’inizio di Spuren (S 1; it. pagina non numerata). Peraltro tutti gli inizi delle sue opere, come quelli di molti capitoli e paragrafi, esprimono concisamente la non coincidenza dell’io con se stesso. «Lo Spirito dell’utopia sembrava scritto da Nostradamus in persona […]. Il libro, il primo di Bloch e quello che traina tutto ciò che lo ha seguito, mi sembrò un’unica rivolta contro il rifiuto (Versagung) che si prolunga nel pensiero, fin dentro al suo carattere puramente formale». Così scrive Adorno, che prosegue dicendo di ritenere di non aver scritto nulla che non riflettesse, più o meno apertamente, su questo motivo «che precede ogni contenuto teoretico». Theodor W. Adorno, Henkel, Krug und frühe Erfahrung in Siegfrid Unseld (Hrsg.), Ernst Bloch zu ehren, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1965, pp. 9-20, ivi p. 10-11. Cfr. anche Theodor W. Adorno, Zum Charakter von Blochs Terminologie in Burghart Schmidt (Hrsg.), Materialien zu Ernst Blochs “Prinzip Hoffnung”, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1977, p. 71. Nello stesso volume cfr. anche l’intero capitolo Über Blochs Sprache und Denkstil, pp. 71-144.
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è il mistero mai svelato su noi stessi, la fonte della nostra irrequietezza, quell’incognita fondamentale che corrisponde al punto cieco della nostra coscienza e che la dialettica del desiderio arriverà a dispiegare, sempre conservando, però, residui d’incompiutezza che ne recano traccia. 1.2 Oscurità come interrogazione metafisica L’esperienza dell’oscurità dell’attimo non ha però una dimensione esclusivamente antropologica, ha invece una portata più ampia di quanto potrebbe a prima vista apparire.23 «Si comprende perciò che il nostro stesso essere uomini rappresenta solo una forma inautentica che per il momento è da considerare provvisoria. Non possediamo organi per l’io o il noi, ma ci troviamo nel punto cieco, nell’oscurità dell’attimo vissuto, nell’oscurità che è la nostra propria oscurità, il nostro incognito, la nostra maschera, il nostro oblio» (GU 253; it. 255). L’oscurità dell’attimo è certamente la condizione della provvisorietà del presente di ciascun io, l’impossibilità di essere perfettamente identici alle proprie percezioni, l’impossibilità di conoscere completamente ciò che siamo e che abitiamo. Tuttavia, in Spirito dell’utopia, è anche una condizione metafisica dell’io, che si fa misura dell’essere: l’oscurità dell’attimo è il nocciolo stesso dell’unkostruierbare Frage (problema incostruibile) dell’incontro con il sé e con il noi.24 Il problema incostruibile dell’identità è la domanda metafisica sull’essere, insita nella fonte dell’inquietudine umana, che lo costituisce come non-ancora-essere (noch-nicht-Sein) e che porta a ricercare il compimento attraverso la conoscenza trasformante di ciò
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Lo ha osservato anche Helmut Fahrenbach. Cfr. nota 29. Come segnala Remo Bodei nel suo vasto e approfondito studio su Bloch (Id., Multiversum. Tempo e storia in E. Bloch, Bibliopolis, Napoli 1982² (1979), pp. 114-117), il tema dell’oscurità come fondamento dell’intera realtà è un’eredità schellinghiana, così come lo è questa corrispondenza tra doppiezza antropologica e doppiezza ontologica: «In noi ci sono due principi, uno inconscio, oscuro, ed uno conscio […]. Lo stesso avviene in Dio: l’oscurità lo precede, la chiarezza si sprigiona solo dalla notte della sua essenza» (Friedrich W. J. Schelling, Werke, nach der Originalausgabe in neuer Anordunung hrsg. Von M. Schröter, Beck, München 19773, vol. IV, p. 325 [Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1974-1987, pp. 152-153]. Sull’oscurità in Schelling cfr. Enrico Guglielminetti, L’altro assoluto. Oscurità e trasparenza dell’individuo nel giovane Schelling [1792-1799], Guerini, Milano 1996. Sul “due” in filosofia, di cui la filosofia schellinghiana, strutturata dal legame del doppio, è momento fondamentale, cfr. anche Enrico Guglielminetti, “Due” di filosofia, Jaca Book, Milano 2006.
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che non è ancora. È interrogazione metafisica, la quale però non indaga sull’«essere in quanto essere», ma si sporge a pensare l’essere che non è ancora quale fondamento di ciò che è o che può essere. 25 «Non appena si sviluppa e si definisce già solo il concetto di umiltà, o di bontà, o di amore, o di pienezza dell’anima (des Seelenvollen), o di spirito, esso al tempo stesso sussiste in tutta la sua toccante profondità che chiama alla realizzazione. Pertanto ogni oggetto morale-metafisico dell’espressione è insieme la realtà essenziale, utopica, che non è ancora stata raggiunta pienamente e tuttavia già ci esige, in definitiva l’unica “reale”. Come nei significati ultimi dell’ornamento e della filosofia della musica, qui s’inclina l’ago del concetto, che ha sempre indicato in lontananza, verso l’altro; perché il polo d’attrazione gli è vicino. Qui, in queste intenzioni simboliche che toccano il nostro intimo più profondo, si preparano i tratti della parola risolutiva, quali illuminazioni del problema del Noi, problema fondamentale che si cela vicinissimo nell’oscurità dell’attimo volta per volta vissuto» (GU 257-58; it. 259-60, trad. mod.). È la domanda sempre celata nell’attimo oscuro, quella della propria identità. Ed è la stessa assenza di luce a spingere verso l’illuminazione: i concetti del bene, volti a soddisfare l’umano desiderio ontologico di pienezza, attratti come questo dal proprio punto cieco, diventano come aghi che, nell’impossibilità di toccare il proprio centro, indicano costantemente qualcosa all’infuori di sé. La cono25
Il fulcro di quest’analisi è contenuto in nuce nella parte di Spirito dell’utopia intitolata Per la metafisica della nostra oscurità, del non-più-conscio, del nonancora-conscio, dell’incostruibile problema del noi (GU 237- 287; it. 233-303), ma è sviluppata ne Il principio speranza in cui appare più chiaro in che senso “ciò che è” e “ciò che può essere” siano pensati in continuità da Bloch. L’essere infatti è solo “essere possibile”, cioè non ancora compiuto, e la realtà non è da lui pensata in alternativa alla possibilità, ma come stratificazione di quattro diversi gradi di possibilità: il formalmente possibile (das formell Mögliche), il possibile oggettivo (das sachlich-objektiv Mögliche), il possibile fattuale (das sachhaft-objektgemäß Mögliche), il possibile obiettivo-reale (das objektiv-real Mögliche). Ho scelto la traduzione di Giuseppe Pirola (Id., Religione e utopia concreta in Ernst Bloch, Dedalo Libri, Bari 1977, pp. 39-43), più libera, ma a mio parere più efficace di quella di Enrico De Angelis (PH 258-288; it. 263-293). Il primo strato si riferisce alla possibilità di pensiero (il cui limite è il non senso, il non significante), il secondo alla possibilità di conoscenza (il cui limite sono le condizioni fattuali), il terzo alla possibilità di mutamento (il cui limite sono le condizioni materiali esistenti), il quarto alla possibilità di compimento (che non ha limite, ma solo un fronte, quale «luce pre-lucente all’orizzonte»: a livello psichico è immagine di desiderio, a livello morale ideale umano, a livello estetico simbolo oggettivonaturale; la filosofia assume quel fronte nel rigore del concetto e nella serietà dei nessi).
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scenza è, in quest’opera mistico-gnostica, fonte di luce. In questo modo i concetti del bene costituiscono, sorprendentemente, la «ragion sufficiente» della propria esistenza: «il non-sapere intorno a noi è la ragione ultima per la manifestazione di questo mondo, e perciò il sapere, la folgore della conoscenza futura caduta nella nostra oscurità e nel problema incostruibile, costituisce anche l’inevitabile ragion sufficiente per la manifestazione e l’arrivo del mondo diverso» (GU 287; it. 289). L’interrogare metafisico che ha origine dal non sapere ha la forza di chiamare all’essere ciò che ancora non è, con una potenza che in Spirito dell’utopia sopravanza addirittura la «possibilità reale» e diventa «assoluta necessità».26 La forza motrice è quella dell’impulso metafisico che spinge a diventare adeguati a se stessi, insito nella mancanza di coincidenza con sé di cui è costituito il nostro presente: è desiderio. I termini che più lo chiamano in causa nella sua prima opera sono Trieb (impulso, istinto, pulsione; Bloch gli affianca un ampio uso del verbo treiben, spesso usato nella forma sostantivata, che significa sì spingere, premere, pulsare, ma anche mettere in moto, agire) e Sehnsucht, secondariamente anche Drang (stimolo) e Impuls (impulso). Il Trieb, il Treiben è il contenuto profondo di ciò che muove l’uomo e lo spinge a cercare l’incontro con sé, il culmine del proprio anelito (Sehnsucht), e dunque dà avvio a quella filosofia che permette di anticipare attraverso la parola non solo la figura della comunità umana libera, ma anche l’apertura alle «porte di Cristo», alla «santificazione del Nome» che è in mano ai giusti, «in virtù dei quali Dio esiste». In questa dinamica di realizzazione di un bene etico e metafisico mediante un desiderio che prende forma nella filosofia utopica non mancano poi i «gute Wünsche», i buoni desideri, che Bloch definisce «padri del pensiero».27 Che il Wunsch sia un momento fondamentale della dialettica del desiderio è chiaro fin dal Geist der Utopie del 1918, di cui Bloch stesso riporta, come esergo all’ultimo paragrafo de Il principio speranza, la seguente citazione: Il desiderio (Wunsch) costruisce e crea realtà, soltanto noi siamo i giardinieri dell’albero più misterioso che debba crescere […]. Lo stimolo (Drang) a divenire adeguati a se stessi attira dentro l’anima; esso è la soluzione con26
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«Ma la nostra futura beatitudine, l’esistenza del regno dei cieli, la chiara realizzazione del sogno dell’anima a cui corrisponde la sfera di una realtà comunque determinata, non sono solo pensabili, cioè formalmente possibili, ma assolutamente necessarie (schlechterdings notwendig), al di là di ogni giustificazione, prova, consenso e premessa formale o reale della loro esistenza». GU 343-44; it. 357-58. Tutti questi elementi ricorrono intrecciandosi e dispiegandosi nelle pagine finali di Spirito dell’utopia intitolate Il volto della volontà, GU 343-346; it. 357-360.
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cettuale del cristallo perfetto della realtà rinnovata ed è spirito che avendo la volontà di cambiare sopprime cose col pensiero, e pensa inoltre creativamente, orientato con la forza di un magnete verso il futuro nostro e del mondo, che ci guarda sempre e ci riserva indifferentemente bene e male solo perché la scelta è senza nerbo. Si tratta di noi e non si sa dove si va; solo noi siamo leva e motore; la vita esteriore e manifestata si ferma, ma il nuovo pensiero erompe infine all’esterno, nelle piene avventure, nel mondo aperto, non finito, barcollante, per pronunciare così in questa sua forza, cinto del nostro dolore, del nostro ostinato presagio, dell’immensa potenza della nostra voce umana, il nome di Dio, e non riposare finché le nostre ombre più interne non si siano sottomesse e sia riuscito l’adempimento di quella vuota, ribollente notte, intorno alla quale sono costruite ancora tutte le cose, gli uomini e le opere (PH 1622; it. 1582, trad. mod.). 28
L’esperienza dell’oscurità dell’attimo si estende a esperienza di vuoto metafisico. Si tratta, però, di un vuoto che spinge oltre se stessi, che conduce alla profondità dell’anima, alla creatività del pensiero e alla costruzione di una nuova realtà. L’esperienza della mancanza suscita l’interrogazione, il desiderio di sapere, ma anche il desiderio del bene e della sua realizzazione, che si crea un varco con il pensiero creativo, rivolto al futuro, di cui solo l’uomo può essere autore responsabile. Non intendo ancora analizzare la legittimità di questo passaggio, la forse indebita, o almeno troppo rapida, attribuzione di realtà, addirittura di necessità, a ciò che sembra dare pienezza e compimento agli oggetti di desiderio (l’etica, la metafisica, Dio). Prima è necessario proseguire l’analisi del dispiegamento del desiderio, perché l’impulso metafisico al compimento è scoperta del sé, ma anche tendenza alla scoperta del mondo, per colmarne il vuoto e illuminarne la notte. 1.3 Radice dialettica del desiderio nello stimolo Se in Spirito dell’utopia emerge dunque già una concezione metafisica del desiderio, con Il principio speranza la filosofia utopica blochiana riceve una fondazione antropologico-fenomenologica29 di cui il desiderio è il fulcro costituente, mentre la Tübinger Einleitung in die Philosophie e 28 29
Cfr. anche GU1 341. In questa definizione affianchiamo due diverse letture de Il principio speranza di due suoi interpreti e allievi: Helmut Fahrenbach e Hanna Gekle. Il primo definisce „antropologico-ontologica“ la fondazione blochiana del Principio speranza e della sua filosofia utopica, mentre la seconda descrive quest’opera come fenomenologia del desiderio; essa è quindi “fenomenologica” in senso più hegeliano che husserliano. Cfr. rispettivamente Helmut Fahrenbach, Zukunft-Forschung und Philosophie der Zukunft in Ernst Bloch, Erwin Lendvai, Ernst Blochs Wirkung,
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soprattutto Experimentum Mundi segneranno il passaggio a un’indagine categoriale sui temi centrali del suo pensiero, in cui il desiderio rimane piuttosto un attore in incognito. Non viene però mai smarrita l’unità d’intenti con la sua prima pubblicazione, tanto da poter affermare che l’opera successiva al Geist der Utopie è una fondazione filosofica sempre più approfondita dei contenuti che in quel testo erano espressi a un livello più mistico e teosofico che filosofico. 30 Per quanto riguarda il desiderio, il risultato di questo percorso blochiano è un campo d’analisi molto variegato, all’interno del quale ci si può peraltro muovere trasversalmente proprio in forza di questa più volte dichiarata unità d’intenti, che lega tra loro gli scritti blochiani.31 Così, nelle opere successive a Spirito dell’utopia l’impulso metafisico che si cela nell’attimo oscuro acquista ben altro svolgimento e la dialettica del desiderio si approfondisce. Bloch non parla più di impulso metafisico, ma individua la radice del desiderio nello stimolo (Drang), quale sua forma primaria, ancora irriflessa.32 Lo stimolo è quel che pulsa e batte come un
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Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1975, pp. 325-361, in particolare pp. 348-356 e Hanna Gekle, Wunsch und Wirklichkeit, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1986, p. 71ss. Questa tesi è piuttosto discussa dalla critica, dibattuta sulla continuità/discontinuità dell’opera blochiana. Cfr. Virginio Marzocchi, Introduzione all’edizione italiana in Ernst Bloch, Marxismo e utopia, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 7-8, trad. it. di Arno Münster (Hrsg.), Tagträume vom aufrechten Gang. Sechs Interviews mit Ernst Bloch, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1977. È vero che la soggettività gioca nella prima opera un ruolo di primo piano, mentre nelle successive si approfondisce la dialettica soggetto-oggetto, ma ritengo che questo elemento non comprometta affatto l’unità d’intenti della sua opera. Per quanto sosteneva Bloch stesso cfr. quanto segue e nota 31. Bloch lo ripete non solo in più d’una intervista, ma lo presuppone teoreticamente quando nella sua impostazione filosofica sottolinea l’importanza della direzione unitaria, del principio che unifichi la multivocità del mondo: specularmente questo discorso vale anche per la conoscenza. Sulla continuità tra Principio speranza e Spirito dell’utopia cfr. Ernst Bloch, Marxismo e utopia, cit., p. 65 e p. 67. Sul procedimento di montaggio e rimontaggio dei suoi stessi testi e sulla sua funzione filosofica, che fungono da conferma a questa tesi, cfr. Laura Boella, Trame della speranza, Jaca Book, Milano 1986, pp. 24-25. Va tenuto presente che nelle pagine seguenti la Boella distingue però tre fasi diverse del pensiero blochiano, in modo da poterne delinare lo sviluppo. Si tratta di un primato fenomenologico. Il Drang, lo stimolo, è la forma più indistinta di desiderio, ma anche quella più connotata biologicamente: lo stimolo è impulso dialettico-materiale, ma fisiologico e prepsichico (come la fame, più antico tra gli impulsi); esso però si definisce sempre più con l’aumentare della consapevolezza del proprio oggetto, della propria meta. Chiarisco la questione nel par. 1.4 di questo capitolo.
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cuore nell’io di tutti i viventi. L’io «in sé» (an sich) è dentro se stesso, è interiore, e ciò che è interiore è oscuro,33 come una caverna, e come tale è vuoto, ma poiché vive, cioè pulsa, batte e anela a vivere ulteriormente, deve uscire da sé (aus sich heraus); in questo modo può percepire il proprio vuoto come mancanza: «io sono, ma non mi possiedo». Da questo movimento dialettico nasce lo stimolo. «Vuote e di conseguenza cupide (gierig), anelanti (strebend) e di conseguenza irrequiete vanno le cose nel nostro essere immediato. Ma tutto ciò non ha la sensazione di se stesso (empfindet sich nicht): a tal fine deve in primo luogo uscire da sé. Allora si sente come «stimolo» (Drang), del tutto vago e imprecisato. Dal fatto (Dass) dello stimolo non si libera nessun vivente, per quanto stanco possa esserne diventato. Questa sete si fa sempre sentire e non dice il suo nome» (PH 49; it. 55) .34 Così comincia la seconda parte, intitolata Fondazione, de Il principio speranza, forse quella filosoficamente più consistente: il soggetto, vivendo, esce da sé e si riconosce come mancante, ma questa percezione rimanda allo stimolo indistinto a cercare qualcosa in più. Si pone subito una questione importante: è lo stimolo a far uscire da sé il soggetto, oppure è l’uscita da sé del soggetto che rende lo stimolo esperibile come tale e dà inizio alla dialettica dell’incontro con l’oggetto, cioè col mondo? La questione non è semplice ed è meno oziosa di quanto possa sembrare, è anzi decisiva per la dialettica del desiderio: nel primo caso – in cui è lo stimolo, l’impeto, il Drang, a far uscire da sé il soggetto – la mancanza percepita rappresenterebbe l’unico impulso all’incontro col mondo, cioè l’unico motore del processo di conoscenza. Questa struttura desiderante, riassumibile nello schema “mancanza” – “tendenza alla sua soddisfazione”, avrebbe in questo caso fin dall’inizio un carattere semplicemente compensatore di ciò che al soggetto manca. In questo caso la dialettica 33 34
Cfr. TE 13, par. Aus sich heraus (Fuori da sé). Mantengo la traduzione italiana il più possibile inalterata, per favorire il consolidarsi di una terminologia italiana comune nella traduzione dei termini blochiani, soprattutto di quelli più strettamente correlati al desiderio. Poiché però i traduttori di Bloch sono diversi, inevitabilmente diverse risultano le traduzioni. In particolare le pagine 49-52 di PH, it. 55-57, centrali per questo lavoro, riportano le definizioni terminologiche essenziali: secondo la traduzione di De Angelis, stimolo (Drang), anelito (Streben), brama (Sehnen), ricerca (Suchen), impulso (Trieb), bisogno (Bedürfnis), brama (Begierde), desiderio (Wunsch). Modificherò la traduzione solo per due termini, in modo da evitare l’equivoco sovrapporsi del termine “brama”: Streben = tendenza, Sehnen = anelare. Sostituisco inoltre, non solo per i testi tratti da Il principio speranza, la traduzione dell’uso sostantivato di Dass (il “fatto-che”) con “fatto”, più vicino all’italiano e di più immediata comprensione.
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del desiderio si ridurrebbe davvero a «rovesciamento di rovesciamenti» assumendo il carattere feuerbachiano della bipolarità.35 Non è però esattamente questo ciò che Bloch scrive: l’essere vivente immediato, infatti, è sì vuoto e anelante, ma non ha ancora la sensazione di se stesso. Prima deve uscire da sé, poi potrà percepire di essere scosso dallo stimolo. Come emerge anche in alcuni passi della Tübinger Einleitung in die Philosophie, l’inizio della dialettica del desiderio risiede proprio in quell’uscita da se stessi per poter vedere qualcosa, per percepire il mondo esterno e le sue creature, riconoscendo se stessi tra i propri simili (secondo la struttura triadica: io sono – ma non mi possiedo – perciò noi diveniamo).36 L’uscire da sé, infatti, non è solo conseguenza di una mancanza, bensì condizione della percezione della stessa. È un originario prendere distanza dalla propria vita pulsante che rende percepibile la mancanza come stimolo indefinito (unbestimmter Drang). Lo stimolo, in conclusione, è necessario per poter vivere, 37 ma sancisce allo stesso tempo, con la spinta a uscire da sé, l’inizio della dialettica del desiderio come dialettica di conoscenza. Il soggetto esce certamente da sé per poter vedere, dunque a causa di una mancanza di luce, tuttavia questa mancanza è dapprima esperibile come esteriore, e soltanto successivamente come interiore, cioè come mancanza del proprio essere stesso.38 Fin dall’inizio lo stimolo innesta uno squilibrio, tra mancanza e percezione della stessa, che rende impossibile ridurre la dialettica a una successione di rovesciamenti. 35
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Ugo Perone fa notare, sulla scia di Moltmann, come il marxismo di Bloch sia caratterizzato da una ripresa di Feuerbach, non solo per la riacquisizione del tema religioso, ma anche per la correzione in senso bipolare della dialettica hegelomarxiana: sul basso continuo del flusso storico si innesta infatti «il tempo qualitativo del già essere e del non-ancora-essere». Cfr. Ugo Perone, Nonostante il soggetto, Rosenberg & Sellier, Torino 1995, p. 93. Tuttavia il tempo qualitativo del desiderio non è riducibile a un rovesciamento di rovesciamenti. «L’io sono è interiore. Tutto l’interiore è oscuro. Per vedere sé e tutto ciò che lo circonda, deve uscire da sé […]. Deve rendersi esteriore, innanzitutto per poter vedere almeno qualcosa, sé tra i suoi simili, in modo che un “io sono”, non più “in sé”, diventi un noi. All’esterno sorge l’in sé dell’“intorno a noi” (Um-uns), in cui si trovano gli uomini e, accanto o tra loro, le cose» (TE 13). Cfr. a questo proposito il par. 3.1. Cfr. TE 12: «Dal puro interiore non è venuta alcuna immagine in parola (Wortbild) che ci permetta di parlare a partire dal nostro muto in sé più interiore o che lo esprima. Al contrario parole come stretto, profondo, caldo, scuro, chiaro, completo dimenticare, aperto sorgere, la stessa via interiore: tutte queste parole sono tratte dall’esteriore e soltanto dopo rilucono per l’interiore. Così l’interiore nota se stesso dapprima attraverso l’esteriore; certo non per rendere tutto soltanto esteriore, ma sicuramente per potersi innanzitutto esprimere (gewiss nicht, um sich zu veräußerlichen, wohl aber, um sich überhaupt zu äußern)».
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Nella Tübinger Einleitung in die Philosophie si trovano però anche passi che contraddicono in parte l’impostazione appena presentata: «Ciò che vive, non fa ancora esperienza di sé (erlebt sich noch nicht). Meno che mai nel fatto di avere impulso verso qualcosa (treiben) […]. Da percepire resta solo questo: di essere affamati, bisognosi. Ha impulso verso qualcosa (treibt) e così muove (antreibt), nell’oscurità dell’attimo appena vissuto, l’immediato in sé di ogni cosa. Tutto è costruito ancora intorno a questo non, semplicemente intorno a qualcosa che non si trattiene presso di sé. Proprio lì dentro c’è una cavità, che si vuole riempire; con ciò tutto ha inizio» (TE 14). Qui Bloch sostiene che il “non” (das Nicht) sia il centro del “tutto” indifferenziato; la spinta primaria dello stimolo sembra allora identificarsi senz’altra differenziazione con la negazione originaria che muove la totalità della materia vivente. Fin dall’inizio è data, in ogni caso, una situazione ambigua: la vita, come soggetto che pulsa, non è certo un nulla, ma un fatto (Dass) positivo, anche se oscuro, che vuole affermarsi ulteriormente; poiché però tale fatto positivo, soggetto pulsante, non si lascia conoscere ed esperire se non oscuramente, contiene un “non”, una negazione della propria immediatezza. Bloch tende spesso ad attribuire l’uscita da sé del soggetto vivente, quindi l’inizio della conoscenza, alla negatività della mancanza, trascurando invece l’altro polo della contraddizione, l’eccedenza. Qui il suo pensiero resta, come ogni inizio in fermento, oscuro. Se ci soffermiamo invece un po’ più a lungo su questa contraddizione iniziale tra mancanza ed eccedenza, e in particolare sul suo polo positivo, scopriamo che si tratta in realtà di un’opposizione dialettica e penetriamo così più a fondo nell’ambiguità del desiderio: che la mancanza venga dapprima percepita come mancanza esterna di luce può significare, in realtà, che il desiderio primario del soggetto, lo stimolo, nasca da una pienezza immediata, che tende a qualcosa in più, ma fuori di sé, poiché in sé già piena, anche se non ancora compiuta, né tanto meno perfetta. Si può così sostenere, certo distanziandosi da Bloch, che l’interiore sia oscuro proprio perché pieno. Così pieno, da contenere addirittura la negazione della propria immediatezza (A sarebbe quindi un’«A non-ancora-conscia», ma questo è già di nuovo molto vicino a ciò che Bloch sostiene). In questa prospettiva diventa ancor più conseguente la dimostrazione, già avviata dalla riflessione blochiana, dell’irriducibilità del desiderio a una struttura meramente compensatrice: esso non nasce solo ed esclusivamente da una mancanza, ma anche, e primariamente in quanto possibilità, da un’eccedenza (Überschuss) del soggetto, perché proviene dalla sua pienezza. Il desiderio assume così una struttura dialettica a partire dal processo di trasformazione del soggetto: l’essere immediatamente pieno, vivente, vuole
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anche vedere (cioè sperimentare e conoscere) il luogo in cui vive, perciò esce da sé e prende distanza da se stesso, incontrando l’altro, cioè gli altri uomini e le cose intorno a lui; in questo modo si scopre mancante e tendente a una nuova pienezza, ancora indefinita eppur più compiuta di quella iniziale. Si può sostenere che un soggetto pieno di sé e della propria immediatezza non abbia bisogno né desideri null’altro all’infuori di sé. In questo modo, però, andrebbe perduta la differenza tra pienezza e compiutezza. I due termini non coincidono nel loro significato: un soggetto “pieno” può tendere a una pienezza più compiuta (pensiamo ad esempio a quanto la genitorialità dia una nuova compiutezza a qualsiasi esperienza d’amore, anche se di per sé già piena e anzi eccedente). È dunque possibile, anzi necessario rispetto all’esperienza umana, rappresentarsi un concetto di pienezza temporalmente condizionato, che descriva una pienezza in divenire e in trasformazione: proprio la negazione in essa contenuta funge allora da motore, da impulso; si tratta di un’irrequietezza originaria che la muove, la trasforma e ne determina il carattere di eccedenza nel senso di un costitutivo sporgersi oltre se stessa. Ogni pienezza umana, inoltre, ha carattere d’immediatezza ed è quindi aperta alla mediazione della conoscenza, la quale, sulla via di un compimento ulteriore, sempre ne mette in luce la parzialità. Come vedremo, in Bloch l’eccedenza è soprattutto eccedenza della coscienza rispetto alla realtà, eccedenza di pensiero più che eccedenza di desiderio, ma ciò comporta una conseguenza importante: l’eccedenza di cui ogni attimo è carico, se ridotta a eccedenza pensata, può essere fondata esclusivamente sulla realtà di una pienezza futura che nel pensiero viene anticipata. Si perde così la dimensione immediata della pienezza, di cui è invece ricolmo lo stimolo e di cui è continua sorgente la vita stessa, ma si espone anche più facilmente il pensiero a cadere nell’orizzonte di un’unità ontologica presupposta. Per mantenere invece una traccia, nel pensiero, della sovrabbondanza da cui esso ha origine, è necessario comprendere bene la struttura dello stimolo, che dà l’avvio alla dialettica della conoscenza: non solo la mancanza suscita desiderio, ma anche l’eccedenza – il fluire oltre i confini dell’io immediato, l’uscire da sé, il traboccare, insomma l’oltrepassare. 1.4 Dallo stimolo al desiderio Cosa significa, però, che lo stimolo sia per Bloch solo la forma primaria del desiderio? Come sopra accennato, il processo di trasformazione da stimolo a desiderio viene descritto da Bloch all’inizio della seconda parte de Il principio speranza, che porta il titolo La coscienza anticipante, nel
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paragrafo Nudo tendere e desiderare, insaziati.39 In questo passo, centrale per il nostro lavoro, lo scopo, la meta del soggetto da indefinita diventa sempre più definita col progressivo definirsi dell’oggetto del Drang, dello stimolo, che in questo processo si trasforma esso stesso in qualcosa d’altro. La tendenza (Streben) del Drängen, del pulsare iniziale dello stimolo, che brama qualcosa di indefinito, diventa indistinto anelare (Sehnen) quando viene percepita. L’anelare, nuovamente definito «l’unico stato d’animo sincero in tutti gli uomini» (PH 49; it. 55, trad. mod.), è sì vago come lo stimolo, ma non mette sottosopra (wühlt) come quest’ultimo, bensì divaga posseduto da forte brama (schweift süchtig), solo più chiaramente orientato verso l’esterno. Esso rimane però solo una semplice e generica mania (Sucht). «Poiché cieca e oscillante a vuoto, essa non può dirigersi là dove verrebbe saziata» (PH 50; it. 56). Siccome deve spingere verso qualcosa di più definito, essa diventa un cercare (Suchen), che possiede e non possiede ciò che cerca. La sua spinta si modifica secondo ciò cui è diretta, e diventa dunque un impulso (Trieb) che può essere individuato e denominato. È qui importante sottolineare quel che Bloch scrive sull’impulso:40 «con questo concetto, senza dubbio un concetto reazionario spesso ottenebrato e reificato, bisogna intendere la stessa cosa che bisogno (Bedürfnis). Tuttavia, poiché la parola bisogno non lascia risuonare in sé allo stesso modo quel suo tendere a uno scopo (das gezielte Treiben), viene mantenuta la parola impulso, come concetto non oscuramente compreso» (PH 50; it. 56). È necessario tenere ben presente l’equivalenza tra bisogno e impulso, sia per comprendere correttamente il materialismo blochiano, sia per gettare un ponte tra i due termini attraverso la sua intera opera, poiché egli in altri passi preferisce usare la parola bisogno: con entrambi i termini è comunque all’opera la dialettica del desiderio, attraverso la quale quest’ultimo si determina e diventa pensiero.
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È questo il punto, cui accennavo in apertura, che fa eccezione nella sua opera, in cui Bloch analizza espressamente il desiderio in quanto tale nella sua multiformità terminologica, legando tra loro i diversi termini che descrivono il desiderio, il quale culmina però qui nel Wunsch, e non nella Sehnsucht, perché è il Wunsch che porta il desiderio a rappresentazione e quindi lo rende pensiero. Per comprendere che il riferimento critico è qui la teoria freudiana, è necessario far presente che il termine Trieb è lo stesso termine usato da Freud, tradotto in italiano con pulsione. Si è rinunciato a tradurre Trieb con pulsione per la già sottolineata esigenza di uniformità con la traduzione esistente, ma questa traduzione non sarebbe stata inopportuna ne Il principio speranza, dove il confronto con la teoria freudiana occupa tanto spazio. La critica a Freud è svolta nel par. 3.1 del presente lavoro.
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L’impulso viene infatti definito da ciò che manca ed è cercato come soddisfacimento del mancante. Così come, da un lato, la tendenza percepita è solo generico anelare, dall’altro l’impulso percepito è solo la particolarità di singole passioni (Leidenschaften) e affetti (Affekten). Si differenzia dalla mania generica in quanto può temporaneamente acquietarsi una volta saziato. La sua meta è dunque ciò che lo sazia. L’uomo però, contrariamente agli animali, che bramano (begehren), può raffigurarsi (sich ausmalen) il suo scopo, la sua meta. A questo punto entra in scena il desiderio cosciente, il Wunsch, con l’entrata in gioco del raffigurare quale rappresentare colorato, ricco di meraviglia e fantasia. Ecco il punto centrale del paragrafo, in cui prende forma il nesso essenziale tra impulso e rappresentazione, tra spinta pulsionale (Hintreiben) e pensiero, in cui il desiderio si configura come inizio della conoscenza consapevole e razionale, fulcro della distinzione tra l’uomo e le altre creature viventi. Perciò l’uomo può non soltanto bramare, bensì desiderare. Quest’ultimo è più vasto, mette più colore del bramare. Perché il desiderio è teso a una rappresentazione in cui la brama lascia che la sua meta venga raffigurata. Il bramare è certamente più antico dell’immaginarsi quel qualcosa che viene bramato. Tuttavia il bramare proprio trapassando nel desiderare si procura la rappresentazione più o meno definita del suo qualcosa, e di certo come qualcosa di migliore. L’esigere del desiderio (das Verlangen des Wunsches) aumenta proprio con la rappresentazione del meglio, addirittura del perfetto (das Vollkommene) del qualcosa che l’adempie. Così che si può dire, certamente non per il bramare, ma per l’esigere del desiderio: il desiderare, seppur non nasca dalle rappresentazioni, sorge soltanto insieme a loro. Da loro viene allo stesso tempo ulteriormente sollecitato, nella stessa misura in cui il raffigurato, l’immaginato in anticipo (das Vorgemalte) promette adempimento. Dove dunque si trova la rappresentazione di un meglio, in definitiva di un perfetto, lì ha luogo il desiderare, eventualmente impaziente ed esigente. La mera rappresentazione diventa così un’immagine di desiderio (Wunschbild), essa reca per timbro: così dovrebbe essere (PH 51; it. 57, trad. mod.).
Il desiderio raffigura, dipinge in anticipo nell’immaginazione (vormalt) ciò che l’uomo anela, non nasce dalle rappresentazioni, ma sorge solamente con esse e le tramuta in immagini di desiderio (Wunschbilder). Qui l’immediatezza della vita pulsante e la mediazione della rappresentazione s’incontrano. Lo stimolo primario e indefinito si è trasformato attraverso questo cammino nel bisogno e nell’impulso pressante, giungendo a rappresentarsi il suo oggetto come qualcosa di migliore, o addirittura di perfetto. È diventato desiderio, che di certo non ha ancora nulla del lavoro o
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dell’attività che la volontà comporta (la volontà è infatti sempre volontà di fare), ma mostra già una direzione attraente e seducente, in cui la ragione fa la sua prima comparsa. Il desiderio si differenzia così dal volere per il suo carattere passivo, ancora legato al vago anelare, e tuttavia lo precede, poiché non si può volere niente che non sia desiderato. Il desiderio, però, può anche permanere laddove la volontà non può modificare più nulla: è incolmabile e insaziabile, eccede sia ciò che è presente, sia ciò che è assente. Per questo, anche una volta saziato, il desiderio espone alla «malinconia dell’adempimento», dovuta a una perdurante sproporzione tra ciò che avevamo immaginato e ciò che realmente si è conseguito. Solo ciò che non esiste potrebbe soddisfare il desiderio. 1.5 La luce della presenza Ciò che non esiste: la luce priva di buio. Il presente, infatti, porta sempre con sé quell’oscurità dell’attimo appena vissuto, in cui la luce compare solo come fonte aurorale, o come penombra di colore. L’esperienza dell’attimo vissuto reca le tracce di una doppiezza: «il nostro oscuro ci si presenta in sé doppio, in quanto stretto nel sonno (schlafend eng) e in quanto aperto. Il primo tipo è quello dell’attimo immediato, è il luogo in cui si vive e non si vede nulla […]. Il secondo tipo di oscuro però non è in nessun modo ottuso, al contrario ha per sé un ampio futuro e il possibile non vissuto. Lo stato non ancora cosciente è riempito di esso, soprattutto ogni spazio utopico; da questo punto di vista è un oscuro colorato (ein buntes Dunkel) o un oscuro in cui si espande una notevole pienezza. Soprattutto il sapere non ancora cosciente dà colore, per così dire una “penombra di colore” (Dämmerung von Farbe);41 così però che esso non dissipi l’oscuro, ma piuttosto lo porti in sé come un secondo tipo, aurorale, di oscuro» (PA 145).42 È, questo, uno splendido passo dei Philosophische Aufsätze, che raccolgono, tra gli altri, gli scritti preparatori de Il principio speranza. La doppiezza dell’oscurità qui descritta ha più livelli. Il primo è la differenza tra un’oscurità che è semplice non senso, buio fitto, e un’oscurità aperta 41
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Si è scelto per la traduzione il secondo significato di Dämmerung, cioè quello di penombra, invece del primo, più comune, di passaggio da giorno a notte e da notte a giorno. Il secondo significato va però, naturalmente, compreso solo alla luce del primo: la penombra non è dunque da intendersi in senso statico, ma nel senso dinamico di passaggio da luce a oscurità e da oscurità a luce. Sulla doppiezza dell’oscurità nella sua dimensione antropologica rimando alla nota 24 di questo capitolo.
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all’aurora del colore; il secondo livello è lo specchio di quell’opposizione dialettica tra eccedenza e mancanza che mantiene questi due poli del desiderio in rapporto di continuo squilibrio e non corrispondenza: nell’attimo il loro rapporto si configura come «oscuro colorato», «in cui si espande una notevole pienezza». L’eccedenza di cui lo stesso presente reca le tracce non consente alla mancanza del desiderio di essere semplicemente “compensata”, ma spinge costantemente il soggetto a compiere un salto qualitativo, sia interiore sia esteriore, nella realizzazione dei propri desideri. Neppure presente e attimo coincidono, cosicché anche nel presente c’è una doppiezza che reca traccia dell’ambiguità dell’attimo; essa introduce però un’assenza, una mancanza più profonda di quella del puro bisogno insoddisfatto. «L’“ora” (lo jetzt, l’attimo, n.d.a.) non coincide col presente, il presente presuppone sia il futuro che il passato, anzi, di per se stesso non è soltanto un puro modo temporale. Perciò l’“ora” (l’attimo) non trapassa affatto direttamente nel presente, perché questo non è per niente puro, o non lo è ancora, il che vuol dire, anche: non può essere un presente realmente presente a se stesso. Il praesens non è ancora una praesentia.43 Manca ancora, invece, un’“ora” come praesentia, come nunc a propria discrezione, da cui il presente non possa più distinguersi. Però il processo vi è indirizzato; per questo muove sempre dall’“ora” ancora del tutto immediato» (EM 88-9; it. 124-25). Il presente non è l’attimo, ma è mosso dalla forza di cui l’attimo è carico, e come quest’ultimo è pervaso dal desiderio di coincidere con se stesso. L’assenza di compimento da cui il presente è attraversato diventa allora desiderio di praesentia, di un momento che sia davvero «presente a se stesso». È questo più profondo desiderio, che sgorga sì dall’oscurità colorata dell’attimo vissuto, ma anche da quel “buio indistinto” quale traccia di immediata quanto fuggevole pienezza, a fungere da motore verso la realizzazione di ciò che non è ancora presente, verso il compimento dell’attimo, del nunc stans mistico. Il futuro è allora anticipato nel presente dal desiderio, prima che dal pensiero. Solo in forza del desiderio il futuro può essere motore del divenire nel presente. Bloch non si spinge a dire questo, perché del futuro vuole mantenere il carattere di novità, e ricondurre la novità del futuro al nostro desiderio significherebbe incorrere nel rischio dell’illusione della nostra 43
Präsens ist noch keine Präsenz. Qui Cunico decide di usare il latino per restare più vicino al significato dei termini tedeschi. Präsens è nel tedesco corrente il presente dei verbi, ma in Bloch acquisisce il significato di presente ordinario. Präsenz invece indica il presente genuino, la presenzialità assoluta dell’attimo escatologico. Entrambi sono specificazioni del termine Gegenwart (presente), che può ricevere i predicati determinanti di “ordinario”, “mediato”, “genuino”, “ultimo”.
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immaginazione.44 Perciò preferisce mantenere il futuro nell’orizzonte del tempo, e identificarlo con ciò che preme nel presente e lo muove alla mediazione: quel che spinge (treibt) nell’attimo, «dopo essere uscito dalla sua immediatezza, trova se stesso ed ogni cosa innanzitutto come futuro» (EM 90; it. 126). Tuttavia, il futuro blochiano è pregno del desiderio di compimento dell’umana felicità. La concezione blochiana del tempo è in ogni caso del tutto diversa da quella heideggeriana, cui si contrappone. L’anticipazione del futuro nel presente non è l’ad-venire (zukommen) del tempo estatico nel progetto dell’uomo, né anticipazione della morte quale possibilità a lui più propria perché ineludibile. Il futuro è piuttosto ciò a cui l’uomo si volge nel presente del proprio desiderio, ed è autentico quando non rappresenta solo la ripetizione di qualcosa che è già stato, ma reca con sé la novità della trasformazione. L’esperienza della temporalità non si espone perciò in Bloch alla caduta in un’ontologia della presenza, perché il tempo non è mai presente (vorhanden), mai “a disposizione” (zuhanden) dell’uomo, se non nella falsificante alienazione capitalistica, né lo è l’essere, che non è ancora divenuto praesentia. Né la praesentia, declinata al futuro, va pensata come luce pura, cioè, fuor di metafora, come totalità dispiegata e dunque del tutto fruibile e disponibile; essa porta invece in sé un «oscuro ancora aggirantesi» (EM 100; it. 136); una luce pura sarebbe sterile, non più feconda, mentre Bloch vuole pensare una luce che «non dissipi l’oscuro». Allora la luce non risiede che nell’oscuro colorato dal sapere non ancora conscio. Qui è la fonte del senso, qui l’irrequietezza del desiderio di compimento – qui è il nesso, eccedente e mancante, tra vita e conoscenza, tra uomo e mondo, tra amore e sapere. 2. L’eccedenza del desiderio: l’oltrepassare 2.1 Immediatezza dello stimolo e mediazione del desiderio Da quanto fin qui detto, la struttura dialettica del desiderio sottesa al pensiero blochiano, analizzata nella sua unitarietà e opportunamente integrata dal rilievo specifico che qui si è voluto dare al tema dell’eccedenza, è piuttosto originale: non è tanto la percezione di una mancanza a spingere alla ricerca di qualcosa in più, quanto la spinta eccedente di stimolo (Drang), anelito (Sehnen) e impulso (Trieb) a costringere il soggetto a comprendere il proprio bisogno e a conoscere il mondo esterno per potersi raffigurare 44
A proposito dell’inganno del desiderio cfr. infra, cap. III par. 1.1.
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l’oggetto del proprio desiderio (Wunsch). Quest’ultimo, però, reca con sé un «residuo utopico» (quel che resta di ciò che eccede) che rende il nostro presente mancante e deficitario. Come nel Drang l’eccedenza dell’io immediato traboccando da sé si sporge verso l’altro e si percepisce mancante, così nel Wunsch, nel desiderio che si raffigura il suo scopo, si riproduce questa struttura, ma a livello cosciente e razionale: le immagini di desiderio rendono mancante, nella loro eccedenza, l’intero presente. Il desiderio, dunque, non è soltanto eccedente rispetto al suo oggetto reale, che può rappresentarsi più ricco e più compiuto di quanto esso sia, ma è anche asincronico rispetto al presente: le sue immagini hanno una funzione utopica, rinviano al futuro della rappresentazione di un compimento desiderato e non ancora presente. Da un lato ciò significa che il desiderio, anche se passivo, grazie alla sua eccedenza suscita un viaggio verso una realizzazione, un paesaggio finale d’identità, che viene anticipato qui e ora dalla speranza. D’altro lato il ruolo del desiderio non si esaurisce qui. Esso non è solo la forza motrice (Triebkraft) di questo viaggio in quanto si raffigura la meta desiderata, ma anche la sua condizione di possibilità: è il residuo utopico non liquidato, non ancora riuscito, di ogni realizzazione, residuo che permette di cercare ancora. Il desiderio quindi riunisce in sé eccedenza e mancanza dell’essere in un’unità anche vivacemente contraddittoria, ma mai paradossale, mai fissa e immobile, bensì produttiva e dialettica. L’eccedenza del desiderio è certo diversa da quella dello stimolo, perché non è più soltanto frutto della semplicità dell’immediatezza, ma della mediazione delle immagini di desiderio. Queste rappresentazioni oltrepassanti sono, però, sempre fonti di riconoscimento di ulteriori mancanze, così come lo è la pienezza immediata che esce da se stessa: il desiderio mediato conserva il carattere dirompente dell’immediatezza. Quest’ultima conserva quindi un suo ruolo, non viene superata né così facilmente abbandonata dalle mediazioni successive, come Bloch stesso riconosce: «L’immediato, che sbatte la testa contro il muro, ha i suoi svantaggi, il suo onore e la sua giovinezza; il mediato, con sguardo d’insieme e dominata esperienza, la sua dignità e maturità. Se il secondo conduce, il primo seduce, ma offre anche coraggio non deluso e focosa coscienza» (PH 1215-16; it. 1199, trad. mod.). Il desiderio è stato spesso denigrato in filosofia proprio per la sua insaziabilità estrema, a causa della quale è stato spesso considerato illusorio e ingannevole;45 nel pensiero blochiano, però, è data la possibilità, non anco45
Basti, come esempio, ciò che a riguardo scrive Blaise Pascal, il quale aveva pur difeso la complementarietà di cuore e ragione: «Poiché la natura ci rende infelici
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ra realizzata, di superare la logica compensatrice del desiderio, esposta alla reduplicazione infinita, a favore di una dialettica dell’oltrepassamento, che non si limita a moltiplicare l’insoddisfazione. È, però, necessario constatare che quel deficit della realizzazione del desiderio, quel «residuo utopico» che secondo Bloch, similmente alla Sehnsucht, «non è mai stato pensato in maniera filosoficamente sufficiente» (PH 217; it. 223), altro non è che l’oscurità dell’attimo vissuto. La mancanza di compiutezza esperita nel tempo nasce allora anche dalla sovrabbondanza e dall’eccedenza del soggetto desiderante rispetto alla realtà esperita. Bloch non giunge a quest’assunzione, perché ama riflettere, come già osservato, più sull’eccedenza del pensiero che sull’eccedenza del desiderio. La loro radice è però identica. 2.2 Eccedenza del desiderio nel pensiero Fin dai primi manoscritti, di cui c’è traccia nelle pubblicazioni blochiane perché da lui stesso citati e riportati, emerge questa costante: il pensiero non è per lui razionalità fredda, slegata dai sensi e dalle loro percezioni, né elaborazione a un livello superiore di ciò che le percezioni sensibili colgono a livello inferiore, come in tanta parte della filosofia occidentale. Il pensare è piuttosto per lui uno sporgersi oltre la propria vita per incontrare altra vita, scoprendone le forme, e delineando in quest’incontro un percorso di senso che segue una direzione, quella della speranza, volta a realizzare l’armonia tra uomo e natura.46 «Nel sistema» – scrive a sedici anni in un manoscritto dal titolo Rinascita della sensibilità – «i pensieri sono come soldatini di piombo, li si può collocare come si vuole, ma non per conquistare un impero. La nostra filosofia è sempre stata appesa a uncini grammaticali o alla sistematica di vecchi signori desiderosi di quiete; la scienza è vita alla radice quadrata, l’arte è vita all’ennesima potenza, e la filosofia? Il nostro sangue deve diventare fiume, la nostra carne terra, le nostre ossa rocce, il nostro cervello nuvole, i nostri occhi sole». In un altro scritto, probabilmente dello stesso anno, intitolato Sulla forza e la sua essenza, si legge: «L’essenza della forza non può essere calcolata,
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in ogni stato, i nostri desideri ci raffigurano uno stato felice, poiché aggiungono allo stato in cui ci troviamo i piaceri dello stato in cui non siamo; ma, se anche raggiungessimo quei piaceri, non saremmo felici per questo, perché avremmo degli altri desideri conformi a quel nuovo stato», Blaise Pascal, Pensieri, Bompiani, Milano 1986, p. 48-9 (pensiero n. 109 bis). La frase engelsiana «naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura» è uno dei motti del marxismo da lui più spesso ripetuti.
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ma solo esperita nella propria carne. Sangue e individualità sono le due essenze della vita; la prima crea la realtà, la seconda dà forma ai suoi valori. Questa filosofia dà la direzione della rinascita e della terra inesplorata che si trova al di là della rinascita: dell’antichità ellenica e germanica come visione del mondo. La nostra filosofia della forza non si limita a dissolvere tutta la materia e gli elementi in energia, come fa la scienza della natura, non si limita a interpretare la cosa in sé come volontà di energia universale, che per così dire ha mancato la sua vocazione, non ha finalità e percorre i suoi cicli all’indietro. L’essenza del mondo è invece stimolo (Drang) e forza diretta a dare forma, a svelare il mistero della vita in ogni luogo; la cosa in sé è la fantasia oggettiva» (S 70-1; it. 68, trad. mod.).47 Se non compariranno mai più nel suo pensiero i riferimenti al sangue, alla forza e all’antichità germanica, che in anni successivi sarebbero risultati inevitabilmente compromessi con l’ideologia nazionalsocialista, resterà invece costante l’interesse per lo stimolo, per l’impulso energetico del mondo che supera costantemente se stesso e per le potenzialità creative del pensiero che di quest’impulso comprenda le finalità. Il pensiero, infatti, è forza attivamente trasformante: Denken heißt überschreiten, pensare significa oltrepassare, scriverà nella densa introduzione a Il principio speranza. Qui più che altrove emerge con chiarezza come un’ermeneutica del desiderio (qui Sehnsucht), dell’attesa, della speranza sia necessaria a comprendere quel non-ancora-conscio, quel non-ancora-divenuto che «riempie il senso di tutti gli uomini e l’orizzonte di tutto l’essere», poiché «attesa, speranza, intenzione verso una possibilità non ancora divenuta sono non solo una caratteristica fondamentale di tutta la coscienza umana ma, giustificate e comprese in maniera concreta, una determinazione fondamentale della realtà obiettiva nel suo complesso» (PH 3-5; it. 8-10). Il principio speranza è opera finalizzata a fondare filosoficamente ciò che in Spirito dell’utopia veniva ancora affermato con enfasi visionaria: la realtà dell’utopia, dell’essere come non-ancora-essere (noch-nicht-Sein), è quella di un divenire secondo la propria tendenza a uno scopo ancora latente. Lo scopo latente dell’essere, l’identità con sé, sancisce la corrispondenza tra uomo e mondo, essendo loro comune; per questo, pensare realmente desiderio e speranza nella loro profondità significa non solo comprendere il mondo stesso, ma orientarlo verso la direzione che più gli è propria, di cui si fa garante una teoria-prassi sempre aperta alla sperimentazione e mai conclusa in una fissità non ulteriormente modificabile. 47
Un altro passo di questo manoscritto è citato in Ernst Bloch, Marxismo e utopia, cit., p. 50.
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È sicuramente questo il punto in cui convergono grandezza e fragilità del pensiero blochiano, più volte attaccato per l’impostazione ancor troppo metafisica dell’identità finale cui uomo e mondo secondo lui tendono. Per sottolineare come il suo pensare sia costantemente intriso di desiderio, come ne assuma le strutture e, infine, gli scopi, è tuttavia necessario indagarne ancora le tesi, prima di analizzare le critiche. Se l’eccedenza del desiderare resta, infatti, parzialmente inesplorata, non si può dire lo stesso per l’eccedenza del pensare. 48 2.3 L’eccedenza dello stupore Il pensiero nasce dal buio della necessità, dalla fame come fondamento di tutti gli impulsi. A causa dei nostri bisogni siamo spinti a cercare ciò che li soddisfa nel mondo che ci circonda, siamo spinti a lavorare e a capire come farlo nel modo più produttivo possibile: Not lehrt Denken, la necessità aguzza l’ingegno, insegna a pensare.49 «Nati nudi, la direzione non più determinata istintivamente, (si vive) in un ambiente in cui, sospettosamente, bisogna far attenzione a ogni traccia e anche il ramo di un abete rosso dà da pensare. All’uso del fuoco seguì la produzione di attrezzi, per formare dalle materie prime che raramente sono utilizzabili non lavorate, vestiti, case, cibi cucinati e un sempre nuovo plus contro la nuda necessità. Il lavoro che riflette (überlegende Arbeit) elevò per primo la specie umana storicamente, le fece preparare il necessario sperimentando; innanzitutto la necessità insegnò il pensiero» (TE 14; corsivo mio). Sollecitato dal bisogno, il pensiero si fa sempre più profondo con l’ampliarsi della ricerca. Nella sua ulteriorità e profondità si fa stupore, stupore che domanda, fragendes Staunen.50 48
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Al tema dell’eccedenza del pensare è connesso il tema dell’eredità culturale: soprattutto in Erbschaft dieser Zeit, ma poi anche in Das Prinzip Hoffnung e in Experimentum Mundi, Bloch sostiene che l’Überschuss (eccedenza) del pensiero rispetto al suo tempo fa sì che rimanga sempre in esso qualcosa che, nelle epoche successive, resta da pensare. Eredità culturale significa allora sì smascherare il velo ideologico del pensiero, ma per ereditarne i temi che costituiscono un residuo utopico rispetto al passato. La questione è però analizzata più avanti nella sua rilevanza socio-culturale (cfr. infra, cap. III, par. 2.2), mentre qui interessa seguire il dipanarsi filosofico-teoretico del pensare, per rintracciare la radice dell’eccedenza desiderante nel suo stesso procedere. È questo il titolo del secondo paragrafo della Tübinger Einleitung in die Philosophie. Cfr. TE 12-15. Das fragende Staunen è il titolo del terzo paragrafo della Tübinger Einleitung in die Philosophie. Cfr. TE 15.
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Sono le piccole e innocenti impressioni, fugaci e di breve durata, quelle che possono risvegliare in noi lo stupore, quella «fenditura e incrinatura nel consueto e abituale osservare» (TE 15) che non si esaurisce così facilmente e che porta con sé costantemente traccia dell’interrogare originario. Lo stupore è intrecciato al bisogno, alla necessità, «il suo pungolo è per così dire più sottile, ma più duraturo di questo. Lo stupore resta inquieto anche quando appare sazio e rilassato, ha sempre di nuovo in sé il suo primo domandare» (TE 16). L’eccedenza che lo stupore porta con sé è l’eccedenza dell’interrogare. Lo stupore più originario è, infatti, quello espresso dalla domanda di cui sono capaci i bambini e sempre meno gli adulti, col passare degli anni: «perché qualcosa è e non piuttosto il nulla?». Questa la domanda che si ripropone, lo stupore che non passa, anche se si quieta, e che riemerge sempre, soprattutto in ciò che è meno appariscente, più modesto.51 Lo stupore non è soltanto condizione soggettiva del pensare, ma, quand’è stupore reale, è domanda assoluta, che echeggia nelle esperienze di anticipazione della condizione utopica finale; queste ultime, però, non sono esperienze di felicità raggiunta per una realtà che finalmente si adegua ai nostri desideri, bensì esperienze fugaci, inconsuete, talvolta inappariscenti; non è la felicità a suscitare stupore, bensì la scoperta dell’apertura del reale a un altro luogo possibile: può trattarsi anche di stupore negativo, frutto di esperienze di paura o di angoscia, vissute come apertura del reale a un altro luogo pauroso e terribile. È però lo stupore positivo a essere più ricco di contenuto, a indicare un’intenzione simbolica dell’assolutezza non ancora divenuta, ma in processo. Ne Il principio speranza lo stupore assurge al ruolo di polo della coscienza anticipante, cui corrisponde, quale primo polo, l’oscurità dell’attimo appena vissuto. Come alfa e omega, come sorgente e foce rimandano l’uno all’altro nella loro essenza, così oscurità e stupore sono i due poli della coscienza anticipante che si attirano potentemente: la domanda sull’assolutezza non ancora presente, che lo stupore reale per un’improvvisa e inattesa apertura della realtà a un diverso essere suscita, rinvia all’oscurità dell’immediata prossimità. 52 L’arco del pensiero, teso tra oscurità e stupore, trasforma il buio dell’attimo in «oscuro colorato». 51
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È questo il filo conduttore di Tracce, in cui ogni breve storia rappresenta quel poco appariscente dietro il quale si cela, in una forma o nell’altra, il mistero non ancora svelato del mondo. Il tema è inoltre l’eredità lasciata a Bloch dall’amicizia con Benjamin, col quale ci furono dissidi in occasione della pubblicazione di quel testo per la paternità di alcune delle storie ivi narrate. Cfr. Laura Boella, Pensare e narrare, in Ernst Bloch, Tracce, cit., pp. V-LXXVIII, in particolare p. XIII e nota 28. Cfr. PH 336-338; it. 340-42 e PH 338-43; it. 353-60, par. Sorgente e foce: lo stupore come domanda assoluta e Di nuovo lo stupore come domanda asso-
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2.4 Produttività spirituale e luminosa coscienza utopica Questo doppio rinvio del pensiero tra i suoi due poli, oscurità e stupore, è ciò che lo muove e lo configura come attività produttiva mai conclusa, come produttività spirituale e creatrice. La produttività spirituale è, insieme alla gioventù e alle svolte epocali, il luogo proprio del non-ancoraconscio, dell’apertura della coscienza al futuro.53 Essa non appartiene solo al pensiero, ma anche all’arte figurativa, alla musica, alla letteratura e alla scienza. Tutti e tre gli stadi in cui si articola, incubazione, ispirazione ed esplicazione, «rientrano nella capacità di oltrepassare in avanti i limiti della coscienza finora stati» (PH 138; it. 144); in questi passaggi, però, emerge anche quella dialettica di luce e oscurità che contraddistingue il desiderio. L’incubazione è, infatti, lo stato di oscurità iniziale, in cui è presente un vivido intendere (meinen),54 che mira a quel che si cerca, ma solo come ancor vago albeggiare. È uno stadio di oscurità con l’intensa disposizione a rischiararsi, è una contraddizione che vuole risolversi, «lo stato insostenibile, pauroso e felice, di non essere ciò che la nostra natura è secondo la sua tendenza più reale, e di essere proprio quel che ancora non è» (PH 138; it. 144). A questo stadio, in cui è sempre presente l’attesa fermentante, segue un improvviso e folgorante chiarore, che sembra provenire dall’esterno: da ciò il termine «ispirazione» (Inspiration). «L’incubazione, che aveva in sé un elemento di mutismo, e che anzi a volte può evocare per troppa pienezza una specie di vuoto di coscienza, questa chiusura ora si scioglie» (PH 138; it. 145).55 Proprio per la potenza di questa folgorazione e per il salto che essa istituisce, nella sua apparente immediatezza, non cosciente del lungo tempo di fermentazione trascorso, essa è stata spesso considerata dono magico, proveniente dall’alto. Se è vero che qui è all’opera un trascendere, si
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luta, in forma di angoscia e di felicità; l’archetipo utopico per eccellenza: il sommo bene. Il non-ancora-conscio è da Bloch contrapposto all’inconscio freudiano, che sarebbe invece, in quanto frutto di rimozione, un non-più-conscio rivolto esclusivamente al passato. Cfr. infra, cap. III, par. 1.1. Questo verbo, meinen (intendere), presente fin dal Geist der Utopie, diventa esplicitamente centrale per la filosofia blochiana in Experimentum Mundi, in cui assume la funzione di esprimere la costante tendenza al “più”, al “plus”, all’oltrepassamento del vivere e del pensare cui si è fatto riferimento in apertura. Questa citazione viene a conferma della compatibilità dell’interpretazione qui svolta dell’immediatezza con il pensiero blochiano, sia per quanto riguarda l’oscurità dovuta a troppa pienezza, sia per quanto riguarda l’argomentazione sulla pienezza che può contenere in sé la propria negazione, il vuoto. Cfr. supra, pp. 23-26.
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tratta però di un sapere senza trascendenza, senza «regressione arcaica» né «lingua notturna», come mostra la «costante esperienza di luce» ad essa connessa, che testimonia del suo essere sempre «all’altezza della coscienza», né più in alto né più in basso. Ma se l’ispirazione non proviene né dal basso né dall’alto, in cosa consiste il salto che essa istituisce? «La zona d’innesco dell’ispirazione è nel coincidere di una disposizione specificamente geniale, cioè creatrice, con la disposizione di un’epoca a fornire il contenuto specifico, divenuto maturo per l’enunciato, la forma e l’esecuzione. Dunque per l’espressione di un novum devono essere pronte e mature non soltanto le condizioni soggettive ma anche quelle oggettive affinché questo nuovo possa uscire dalla semplice incubazione, erompendo e arrivando a rendersi improvvisamente conto di se stesso» (PH 139-40; it. 146). In altre parole, l’ispirazione è l’incontro folgorante di soggetto e oggetto, che vengono a coincidere non nella loro essenza, ma nella loro tendenza: ispirazione è «il fulmine con cui questa concordanza principia», poi avviene l’accensione, completamente immanente, e «l’esplosione luminosa in un essere-tendenza-latenza, provocata dalla sua coscienza più forte» (PH 141; it. 147). L’ispirazione, la cui tendenza è rappresentata dall’idea formatasi, è costituita anche dalla latenza dell’opera da compiersi. Il processo viene portato a compimento nell’ultimo stadio della produttività, l’esplicazione. Essa è opera del genio, che vede e coglie al di là dell’orizzonte presente e che, grazie alla sua estrema sensibilità per i punti di svolta nel tempo e nel processo materiale, anticipa concretamente ciò che non è ancora divenuto, rende consapevole ciò che non è ancora conscio. «Il genio dunque è la diligenza specifica del raggio di luce portato avanti fino alla sua espressione, così che ciò di cui si ha padronanza dia a ciò che si è progettato non soltanto forza ma anche profondità» (PH 142; it. 148). Questo raggio di luce non si estingue però col tempo, perché l’opera di genio, nella sua forza anticipatrice, parla di un futuro non ancora apparso, che rinvia a sua volta a ciò che nel tempo è ancor sempre latente. Il novum, dunque, seguita a indicare oltre se stesso, perciò nelle esplicazioni divenute opere di genio non si trova solo l’espressione compiuta del loro tempo, ma «circola la durevole implicazione del plus ultra» (PH 143; it. 150). «Così la produttività, pur provenendo dal profondo, lavora appunto alla luce e pone sempre di nuovo una fonte, cioè una fonte all’altezza della coscienza» (PH 144; it. 150). La produttività spirituale è dunque fonte sovrabbondante del pensare, non certo riducibile alla compensazione di un bisogno, seppur il pensiero nasca dalla “necessità” (Not). Modalità e ruolo della produttività spirituale introducono quasi direttamente, ne Il principio speranza, al significato della coscienza utopica: essa
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riporta alla luce non solo ciò che sorge nel vecchio e che ancora non è stato liquidato, ma soprattutto ciò che sorge nell’imminente e così «scopre la profondità effettiva nell’altezza, e precisamente nell’altezza della coscienza più chiara, in cui albeggia una coscienza ancora più chiara» (PH 161; it. 167). Il non-ancora-conscio, di cui la coscienza utopica consiste, deve diventare consapevole nel suo atto e conosciuto nel suo contenuto, per poter essere rispettivamente compreso come aurora e come cosa che albeggia. Così la speranza non è più solo un affetto d’attesa che riposa in se stesso, ma diventa funzione utopica consapevole e nota. Se è vero che la funzione utopica in una prima fase immatura ha come contenuto soprattutto idee della fantasia, essa non verrà corretta da una nichilistica repulsione nei confronti di fantasia e desiderio, 56 ma da un serrato confronto col reale nell’ambito dell’anticipazione che ne comprende le tendenze. In questo modo opera l’intelligenza della speranza, «nel mezzo di una luce che sale immanentemente perché attua superamenti materiali e dialettici». La funzione utopica è allora «l’unica funzione trascendente rimasta e l’unica di cui valga la pena che resti: una funzione trascendente senza trascendenza» (PH 166; it. 172). La funzione utopica è la facoltà oltrepassante della speranza, è il suo contenuto di atto, consapevolmente rischiarato e scientemente purificato;57 56
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L’obiettivo polemico è qui, oltre alla filosofia borghese in generale, Martin Heidegger, del quale Bloch riporta la seguente frase, da Sein und Zeit, sul desiderio: «Nel desiderio (Wunsch), l’esserci progetta il suo essere in possibilità che, non solo non sono mai afferrate nel prendersi cura, ma la cui realizzazione non è né seriamente progettata né realmente attesa (qui Bloch inserisce un punto esclamativo, n.d.a.). Il prevalere dell’“esser avanti a sé” nella forma del semplice desiderare, porta con sé l’incomprensione delle possibilità effettive […]. Il desiderare è una modificazione esistenziale della progettazione di sé comprendente, tale che, deietto nell’essere gettato, l’esserci è solo più un vagheggiamento di possibilità» (Martin Heidegger, Sein und Zeit, 9. Unveränderte Auflage, Niemeyer Verlag, Tübingen 1960, p. 195; Essere e tempo, tr. it. di Pietro Chiodi, nuova ed. rivista da Franco Volpi, Longanesi, Milano 2005, pp. 237-238). Bloch incalza sarcastico: «Indubbiamente cose del genere, applicate semplicemente a un anticipare immaturo, suonano come se un eunuco rinfacciasse a Ercole bambino di essere impotente» (PH 165; it. 171). Bloch ignora il riferimento appena successivo di Heidegger al Drang, da lui contrapposto al Wunsch: «L’impulso “alla vita” è invece un “in-per” (Hin-zu) che porta già in se stesso la spinta. Esso è “in-per ad ogni costo”» (Ibid.). Bloch lo considera non rilevante perché poi Heidegger aggiunge: «Anche qui l’essere-avanti-a-sé (Sich-vorweg-sein) è inautentico, benché la spinta propulsiva provenga da colui stesso che impelle» (Ibid.). La funzione utopica è doppiamente legata all’eccedenza del pensiero: ne è la fonte e il coordinamento. «Senza la funzione utopica non si può assolutamente spiegare un’eccedenza spirituale che vada oltre ciò che di volta in volta si è raggiunto e
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il contenuto storico della speranza è invece la cultura umana riferita al suo orizzonte concreto. Così si delinea il concetto combinato di docta spes, speranza che sa far convergere il pensiero nella sua direzione, che coniuga razionalità e affettività, e che lavora sulla conoscenza «come affetto di attesa nella ratio, come ratio nell’affetto di attesa». Essa è speranza consapevole e conosciuta, bewußt-gewußte Hoffnung. «Nella speranza consapevole e conosciuta non c’è mai nulla di morbido e c’è invece in essa una volontà: deve essere così, deve diventare così. In essa erompe energicamente il tratto del desiderio e della volontà, l’intensivo nell’oltrepassare, nei superamenti» (PH 167; it. 173). Desiderio (Wunsch) e volontà emergono qui come potente fattore intensivo nell’atto dell’oltrepassare che appartiene al pensiero produttivo e trasformante. Ecco dunque come desiderio e pensiero sono connessi: il desiderio è la radice dell’eccedenza del pensiero, di cui la docta spes sa farsi carico. Se ne fa carico in un due sensi: da un lato, la docta spes assume il desiderio come fattore intensivo che sospinge il soggetto verso la realizzazione delle proprie immagini di compimento, che così sono messe a confronto con la realtà per diventare sempre più complete, consapevoli e realistiche; dall’altro, però, la docta spes si fa anche carico della funzione critica del desiderio, «residuo utopico» che causa un acuto senso di incompiutezza e rende parziale ogni realizzazione, esponendola a quella peculiare «malinconia dell’adempimento» che ci coglie proprio quando dovremmo goderne. Così il pensiero accoglie le istanze del desiderio attraverso la docta spes che lo guida. La funzione utopica in essa racchiusa attinge all’eccedenza di ogni anticipazione per ultrafigurare – fortbilden – il mondo, cioè per dargli una forma che sia allo stesso tempo fattore propulsivo e fattore critico. Il Fortbilden è categoria centrale del pensiero in Experimentum Mundi, ultimo libro di Bloch, che suggella la sua opera con un’indagine dal forte impianto sistematico sulle categorie della propria filosofia utopica. Fortbilden è un’altra parola pressoché intraducibile (per approssimazione la si può rendere con ultrafigurare58), che racchiude in sé i significati
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che dunque è presente, anche se questa eccedenza è piena di parvenza (Schein) anziché di preapparizione (Vorschein). Perciò ogni attività di anticipazione mostra le sue credenziali alla funzione utopica, la quale sequestra nell’eccedenza dell’anticipare ogni possibile contenuto» (PH 170; it. 177). Stessa scelta fa Gerardo Cunico nella traduzione di Experimentum Mundi, anche se qualche volta il verbo è reso anche con “configurare-oltre”. Ultrafigurare pare preferibile sia per la scorrevolezza del testo sia per il suo più agile uso come verbo sostantivato.
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di forma e figura, tali per cui ogni figura dà una peculiare forma (Bild) e quindi una peculiare formazione (Bildung) al mondo, la quale è suscettibile di ulteriore figurazione in corrispondenza del divenire del mondo stesso. L’ultrafigurazione è, infatti, frutto di mediazione tra produrre e raffigurare.59 «È iniziato pertanto il cammino nel mondo stesso […]; ed è una conoscenza diversa dalla conoscenza rimasta meramente contemplativa, quella che deve illuminare e proseguire il viaggio cosmico. Quest’ultimo non è certo destinato con sicurezza al bene né al nihil; si trova piuttosto a essere in viaggio, con una conoscenza attiva che ne manovra gli scambi; e questo movimento, secondo un detto di Aristotele, che non si può certo tacciare di scavalcamenti, è un’entelechia incompiuta. Però anche le forme categoriali dell’esserci sono tutte incompiute e perciò tendenti a tirarsi fuori da se stesse (aus sich selbst ausziehend), ossia sono trasformabili; la loro cosa (la kantiana Ding, n.d.a.), la causa pendente nel corso del mondo assolutamente materiale, è ancora assolutamente mancante» (EM 63; it. p. 98). L’unica forma di conoscenza che può quindi illuminare questo viaggio in cui consiste il cammino del mondo è quella che non solo rispecchi, ma riproduca in se stessa la struttura desiderante della coscienza utopica; il pensiero così non coordina e governa il mondo dettando regole o sancendo le leggi eterne del divenire, ma rappresenta e raffigura il suo percorso in forme categoriali anch’esse in cammino, che si propongono di accompagnarlo più consapevolmente alla meta, la quale, di per sé, è ancora incerta. 3. Il desiderio della materia 3.1 Il finalismo aristotelico nella filosofia utopica Il viaggio cosmico, il cammino del mondo che il pensiero si sforza di conoscere è il cammino della materia. Se per Aristotele l’entelechia incompiuta è il movimento della materia, per Bloch entelechia incompiuta è la materia stessa, che non esiste indipendentemente dal variare delle sue figure e delle sue forme. Lo afferma espressamente al termine di un’opera non sempre adeguatamente presa in considerazione dalla critica, soprattutto in Italia, dove non è stata ancora tradotta: Das Materialismusproblem, seine 59
Cfr. EM 60-63; it. 96-98, par. Nell’ultrafigurare del conoscere sono mediati produrre e raffigurare.
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Geschichte und Substanz.60 Qui Bloch definisce il termine entelechia come ciò che ha in sé la sua meta da realizzare, attribuendo questo significato ad Aristotele stesso. Egli non distingue dunque nella metafisica aristotelica il termine ἐντελέχεια da quello non sempre intercambiabile di ἐνέργεια,61 ma anzi li sovrappone: entelechia è per Aristotele «quell’energia la quale, a causa della destinazione a uno scopo specifico che in essa sopraggiunge, viene chiamata anche en-telechia; si realizza attivamente di volta in volta nella materia e si manifesta sempre ulteriormente nella storia dello sviluppo del mondo» (MP 475). In questo modo l’espressione «entelechia incompiuta» non vuole essere una contraddizione in termini, un paradosso logico che esprima l’intrinseca ambiguità ancipite della materia, dibattuta tra il compimento delle sue potenzialità e l’impossibilità a raggiungere la perfezione. È invece una precisa scelta terminologica, tramite la quale Bloch esprime la sua originale concezione della materia, creando un ampio ponte tra il materialismo dialettico, cui criticamente aderisce, e la tradizione filosofica aristotelica, senza peraltro limitarsi a questi due ambiti. Das Materialismusproblem è opera che ripercorre tutta la storia della filosofia per ben due volte,62 indagando le teorie in essa di volta in volta sviluppate sulla materia, alla ricerca di quegli elementi che concordano nel concepirla quale grembo fecondo del processo del mondo, teleologicamente orientato, ma ancor sempre incerto nei suoi esiti. Il pensiero oltrepassante, la centralità dell’oscurità del presente così come la produttività e l’eccedenza del desiderio affondano le loro radici proprio in questa concezione della materia.
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Cfr. MP 475-476. Il testo è stato scritto nel 1936-37 (prima quindi de Il princpio speranza, scritto tra il 1938 e il 1947), ma rivisto e ampliato tra il 1969 e il 1971, per essere poi pubblicato soltanto nel 1972. Il suo contenuto è dunque rimasto a lungo un fondamento non esplicitato del suo pensiero. Ἐντελέχεια, termine coniato da Aristotele stesso (dal greco ἐντελής, compiuto, intero), designa lo stato di perfezione di un ente che ha raggiunto il suo fine (τέλος) attuando pienamente il suo essere in potenza. Ἐνέργεια invece è l’attività che trasforma il possibile in reale, distinta quindi dal risultato della piena attuazione. È però lo stesso Aristotele a far uso promiscuo dei due termini, aprendo così la strada all’interpretazione blochiana. L’indagine storico-teorica sul concetto di materia nella storia della filosofia si divide in due “corsi”. Il primo, dal titolo Le teorie del particolare – generale, rispetto alla materia, indaga la questione dell’universalità della materia; il secondo, dal titolo Le teorie della materia, le strade aperte alla sua finalità e apertura, indaga la materia nella sua vastità logica e non cerca di presentare una storia del materialismo, ma di illustrare l’imbarazzo idealistico in cui il concetto spesso resta impigliato, per rielaborarlo materialisticamente e dialetticamente.
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Lo stesso termine “materia” rinvia etimologicamente al latino mater, come Bloch ripete spesso, ed è questo il significato di materia che gli sta più a cuore: quello di materno grembo del mondo, di fecondo grembo partoriente (fruchtbarer, gebärender Weltschoß), significato che Bloch vede sorgere con la filosofia aristotelica e svilupparsi poi nella filosofia aristotelica araba, per arrivare fino a Giordano Bruno e al rovesciamento dell’idealismo tedesco operato da Marx. Prima di Aristotele, infatti, dal pensiero dei presocratici fino al platonismo, le determinazioni della materia sono dovute alle idee, le forme cui i fenomeni partecipano, ma non alla materia stessa, pura indeterminazione, che in sé non contiene nemmeno la possibilità del cambiamento, unica causa del quale sono le idee. Con Aristotele cambia invece qualcosa di fondamentale, seppur in un orizzonte sempre idealistico: la materia è concepita come ciò che rende possibile la realizzazione delle forme, seppur essa, concepita quale cera per lo stampo, resti inconoscibile di per sé. La materia, però, da pura indeterminazione qual era nella filosofia platonica, μὴ ὄν, non essere, diventa «determinabilità fermentante» (gärende Bestimmbarkeit), che nel suo render possibile il dato sensibile non ha soltanto un lato passivo, ereditato dalla tradizione platonica, ma anche un lato attivo: la materia è δύναμις, potenza. L’analisi della δύναμις aristotelica è centrale, in Bloch, per la definizione del concetto di possibilità obiettivo-reale, concetto che, ne Il principio speranza, coincide sic et simpliciter con la materia.63 Essa è δύναμις, essere in potenza, possibilità, sotto due aspetti tra loro opposti eppur complementari: innanzitutto, è essere-secondo-possibilità, κατὰ τò δυνατόν, ciò che di volta in volta è possibile, il luogo delle condizioni materiali necessarie all’estrinsecarsi delle entelechie – sono qui da intendersi come condizioni materiali sia quelle che si contrappongono alla realizzazione della forma (il casuale, il disturbante del senza legge e senza scopo), sia quelle che invece la favoriscono (das Helfende), perché entrambe delimitano il “possibile”; invece, nel secondo significato di essere-in-possibilità,64 δυνάμει ὄν, la materia è definita come sostrato fermentante della possibilità, o come «grembo della fecondità, da cui sgorgano inesauribilmente tutte le forme del mondo» (PH 238, it. 243): si tratta di ciò che da ultimo è possibile.
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Cfr. PH 237 e 239, it. 242 e 245. Ne Il principio speranza questa traduzione è leggermente modificata: essentesecondo-possibilità ed essente-in-possibilità (Nach-Möglichkeit- und In-Möglichkeit-Seiende al posto di -Sein). Cfr. PH 235-242, it. 241-247.
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Questo secondo aspetto è il principale e più importante, secondo Bloch, sia nella teoria aristotelica (per la quale il δυνάμει ὄν è Hauptkategorie, categoria principale), sia nella propria: qui si apre «il lato amichevole, se non addirittura quello della speranza, della possibilità obiettiva e reale […]; il totum utopico è implicito nel δυνάμει ὄν» (PH 238; it. 243). L’inesauribilità creatrice della materia implica anche la possibilità di un mondo futuro compiuto, ancora da realizzare. Proprio in quest’aspetto della materia, nel suo essere-in-possibilità, risiede il suo desiderio, il suo carattere desiderante, che coincide con il suo lato attivo ed energetico. «Aristotele a volte non dà occasione di comprendere la sua materia-possibilità in altro modo, se non come luogo delle forme che vengono configurandosi nello stato del potenziale. Proprio questo esserein-possibilità della materia contiene una sua capacità specifica, di essere a quel modo potenziale: è il suo impulso (ὁρμή, Trieb) a essere formata, la sua disposizione impulsiva a forme sempre più elevate. Tramite il desiderio (Sehnsucht) della materia a diventare forma, tramite ciò che stimola il desiderio della forma più elevata, l’energetica delle forme può finalmente diventare attiva nel portarle a realizzazione» (MP 144). L’energia creatrice della materia ha quindi due lati: in primo luogo, è condizione che limita e allo stesso tempo rende possibile ciò che esiste, in secondo luogo, è impulso a conseguire forme sempre più elevate e perfette. Verso quale forma ultima? Quella che la filosofia aristotelica eredita dall’ἔρως platonico: il desiderio del divino e del bene (ἐφίεσθαι καὶ ὀρέγεσθαι,65 Begehren und Verlangen, bramare e tendere). 3.2 Interpretazione qualitativa della materia nella storia della filosofia Risultato di quest’interpretazione è che la presunta indifferenza della materia aristotelica rispetto all’entelechia, la quale si realizza e dunque si individua solo tramite l’intervento della forma, non è affatto, com’è stato spesso sostenuto dalla tradizione filosofica seguente, in particolare dalla scolastica, un casuale «poter-essere-altro», legato a una questione puramente quantitativa, ma «l’inconcluso non-essere-ancora, poter-esseremolto-di-più rispetto alle forme già divenute. La materia allora sarebbe, con una conseguenza che diventa matura soltanto oggi, potenzialmente più ricca di qualsiasi sua forma entelechicamente determinata; essa è meno che mai limitata alle sue forme fisico-meccaniche» (MP 144-45).
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Aristotele, Fisica, I 9, Rusconi Libri, Milano 1995, p. 53.
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Si afferma qui l’opportunità di un’interpretazione qualitativa, anziché quantitativa, della materia. A sostegno di quest’interpretazione Bloch prende in esame la “sinistra aristotelica” araba,66 rifacendosi soprattutto ad Avicebron (1020-1068), Avicenna (980-1037) e Averroé (1126-1198). Il primo, nella sua opera principale, Fons vitae, originale e audace, seppur influenzata dalla filosofia neoplatonica, presenta una teoria della materia come facoltà unitaria di essere universalmente determinabile. Tale materia non è intesa soltanto quantitativamente: infatti, se essa fosse limitata agli oggetti corporei la sua determinabilità non sarebbe più universale né infinita; la materia prima vel universalis precede invece in Avicebron la distinzione tra forme spirituali e corporee: gli esseri spirituali escludono sì da sé la corporeità, ma non la materia, perché la corporeità è, esattamente come la spiritualità, una forma della materia, la quale è in condizione di assumerle entrambe. Solo Dio, in quanto volontà creatrice del mondo, è escluso dalla partecipazione alla materia, la quale fonda invece il nesso unitario dell’intero “universum”. Avicenna, che lo aveva preceduto, aveva già insistito sulla materia come quel possibile che necessita di una sollecitazione esterna per manifestarsi; sarà poi Averroé a far della materia universale la “camera del tesoro” (Schatzkammer) del mondo: nella possibilità della materia si trovano raccolte in germe tutte le forme, che vengono estratte e sviluppate dall’ugualmente increato soffio della divinità, l’atto puro. Ciò che avviene in questi pensatori, da Bloch per questo motivo definiti “aristotelici di sinistra”, è che la forma cominci ad andar perduta come principio autonomo, diventando piuttosto una proprietà stessa della materia. «In questo modo le cose non si differenziano più soltanto attraverso la loro forma, piuttosto molto più basilarmente attraverso la loro materia; certamente non soltanto, come più tardi in Tommaso, attraverso la materia come semplice quantum, bensì come materia sviluppata qualitativamente e così differenziata. Questo è un pensiero che porta avanti, da lungo tempo non ancora riscattato; […] esso prepara, al posto di una materia eternamente universale, soltanto meccanica, quella del processo qualitativo, come processo della materia immanente e da Dio non condotto nel suo conte66
In appendice a Das Materialismusproblem, seine Geschichte und Substanz è riportato l’articolo del 1952 di Ernst Bloch dal titolo Avicenna e la sinistra aristotelica, scritto in occasione del festeggiamento a Hamadan, in Iran, dei 1000 anni, secondo il calendario arabo, dalla nascita del filosofo. Cfr. MP 479-546. Rispetto a quanto segue cfr. anche MP 152-164, cap. Materia come grembo delle forme, come principio di individuazione e quantità, come fondamento (Avicebron, Avicenna-Averroé, Tommaso, Duns Scoto).
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nuto» (MP 154). In Averroè, infatti, l’atto puro del primo motore trasporta semplicemente le possibilità della materia nella realtà, attribuendole, dalla sua unità di essenza ed esistenza, ciò che unicamente le manca: l’esistenza. Anche questa creazione non avviene dal nulla, come già per Avicenna e Avicebron, bensì è rinnovata di attimo in attimo, è creazione nel tempo o «conservazione» (Erhaltung), perché la materia stessa è increata e il suo mondo eterno. Più la materia apparve come grembo delle forme, meno rimase separato da essa il Dio aristotelico, il primo motore – natura naturans e natura naturata (proprio questi due termini provengono da Averroè) diventrarono due lati dell’essere totale materiale e divino (materiell-göttliches Allwesen). Particolarità di Averroé resta che egli quasi intrecciò l’esistenza divina con le forze creatrici della materia. Dio è colui che conferisce l’esistenza, ma tutta la realizzazione è legata alle possibilità della materia – il mondo è il dispiegamento della materia universale (MP 155).
Se nella scolastica tomista prima, e nella filosofia cartesiana poi, questa concezione di materia come grembo di forme viene scavalcata da quella, poi diventata più classica, di materia come determinazione quantitativa (per Tommaso «materia signata», per Cartesio «estensione»), sarà Giordano Bruno a rinnovarla, sviluppandola ulteriormente. Anche nel suo pensiero la natura è madre, così come già lo era per Paracelso, che, sottolinea Bloch, fu il primo, tra i filosofi tedeschi, a definire gli elementi materiali “madri” di tutte le cose e a concepire la materia originaria come limbus mundi, anticamera del mondo, base indeterminata che ne contiene i semi. Bruno inneggia alla forza creatrice della natura, ma la svincola definitivamente dagli influssi di tutto ciò che non è materiale: le forme perdono ogni loro autonomia rispetto alla materia, di cui sono semplici determinazioni. La materia è l’unico principio sostanziale della natura, che è e rimane, mentre le forme sono transitorie, sorgono dal grembo della materia per poi rientrarvi. L’immanenza del mondo in Bruno è totale ed è questo il lato del suo pensiero che più affascina Bloch, secondo il quale la vera intenzione del materialismo è «spiegare il mondo a partire da se stesso» (MP 361). Altro merito di Bruno è di non limitare la materia a una fissità meccanica, come i fisici del suo tempo, bensì di valorizzarne la potenza creatrice, concependola come sede, oltre che dell’infinito dispiegamento in forme qualitative, anche della forza per compiere questo dispiegamento (che in termini aristotelici corrisponde all’entelechia, all’atto). È a questo punto sorprendente per Bloch che Bruno estrometta dalla materia il desiderio:
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«Bruno però sorprendentemente rifiuta, insieme a una potenzialità semplicemente passiva, anche l’appetitus aristotelico della materia; nonostante il fatto che questo appetitus come tendenza (Streben), esigenza (Verlangen), anelito (Sehnsucht), impulso (Trieb) nell’“anima del mondo” materiale di Bruno avrebbe avuto posto» (MP 172). Inaspettatamente, il pensiero di Bruno resta condannato a un altro tipo di fissità, quella dell’assenza di novità: la materia contiene in sé già tutte le possibili forme di essere, senza tendere a qualcosa che ancora non c’è. Di questo appetitus aristotelico, dell’ὁρμή, rimane invece traccia in un pensatore ben più idealista (e quindi, per Bloch, ben più conservatore), eppur geniale caposaldo della storia della filosofia: Leibniz. Egli riprende il termine aristotelico entelechia: per lui è la tendenza (Streben) della monade verso la realizzazione della perfezione in essa potenzialmente contenuta. Questa tendenza è la stessa che permette di distinguere i gradi di intensità delle monadi, punti di forza che possono essere attivi e passivi: l’azione consiste nel rappresentare il proprio contenuto, dal grado più scuro a quello più chiaro, la passività consiste nella chiusura della monade verso l’esterno, nella sua resistenza e impenetrabilità. Dall’equilibrio tra forza attiva e passiva si definisce l’intensità della monade. Se è vero che in Leibniz i gradi più passivi, oscuri e confusi delle monadi corrispondono alla materia, mentre quelli più attivi e chiari alla forma, la quale sola porta con sé la luce e costituisce l’entelechia, è altrettanto vero che la tendenza all’esplicazione, alla chiarezza e alla luce è propria anche della materia. «La differenza tra rappresentazioni oscure e chiare, tra materia ed entelechia viene superata tramite una proprietà essenziale anche per le rappresentazioni oscure, davvero particolarmente essenziale: tramite la “tendence” a passare verso rappresentazioni sempre più chiare. Questa tendenza – un concetto di prim’ordine, di movimento e allo stesso tempo di rischiaramento – viene chiamata da Leibniz, con significativa memoria, anche appétition. Qui risuona l’antica ὁρμή aristotelica, l’appetitus della materia verso la forma, però con la differenza che l’appétition dell’oscura materia non è trascendenza, ma il rischiaramento del proprio contenuto» (MP 191). Attraverso quest’attribuzione di un’energia immanente alla materia si ritrova anche in Leibniz un rinnovamento di quel “grembo di forme” dell’aristotelismo arabo: il novum di un grembo mosso da se stesso, allo stesso tempo “partenogenetico”. Nonostante permanga secondo Bloch la negatività di un persistente idealismo, secondo il quale si continua a concepire la materia come prodotto apparente di forze immateriali, grande merito di Leibniz è che il concetto di forza diventi inseparabile da quello di materia e che il suo pensiero renda
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già possibile porre questo fondamento materialistico-dialettico: la modalità d’essere della materia è il movimento, inteso come espressione della forza. Altrimenti detto, in termini più attuali, la materia è energia.67 3.3 Materialismo dialettico e fisica del XX secolo: qualità come alterità A questo punto è già possibile notare come il desiderio che Bloch rintraccia nella materia fino a tal punto del suo excursus teoretico, e che eredita poi nel suo pensiero, sia impulso non consapevole, Trieb, Streben, Verlangen, ma non Wunsch, desiderio consapevole e divenuto rappresentazione, che è, invece, desiderio dell’uomo.68 Eppure questa distinzione, nonostante sia una prima conclusione sul tipo di desiderio che muove la materia, non rende ancora ragione della dialetticità del movimento desiderante che la anima. È allora necessario soffermarsi ancora un poco sul materialismo dialettico di Marx, Engels e Lenin, così come Bloch lo eredita.69 Bloch cita il giovane Marx, mostrando come per lui la principale proprietà della materia sia il movimento, ma non inteso solamente come movimento matematico e meccanico, bensì piuttosto, riprendendo Jakob Böhme, come impulso, forza vitale, tensione, tormento (Qual).70 Il mate67 68 69
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Questo è vero, allo stato attuale della ricerca scientifica, in condizioni di velocità prossime a quelle della luce, come elaborato da Einstein nell’ambito della teoria della relatività (E=mc²). Per la differenza tra questi terrmini cfr. supra, cap. I, par. 1.4. Non c’è qui lo spazio, né la stringente necessità, di riflettere su alcuni altri riferimenti fondamentali per il materialismo di Bloch, quali lo spinozismo goethiano – «ricolmo d’impulso e di fiducia nell’immanenza», Hegel – inventore della dialettica, senza il quale non sarebbe potuto avvenire il capovolgimento marxiano che sposa dialettica e materia, Schelling – primo critico del panlogismo hegeliano quale teoria astratta che non consente di spiegare la natura, Feuerbach – che raccoglie almeno tre elementi classici del materialismo: precedenza dei sensi e del corpo, pathos della felicità, liberazione dalla trascendenza. Jakob Böhme (1575-1624) è noto per le sue fantasiose etimologie, come quella che collega Qual (tormento) con Quellen (fonti) e con Qualität (qualità). Come fa notare Bloch nel suo Filosofia del Rinascimento, da una etimologia completamente errata sorge in Böhme un pensiero straordinariamente profondo, secondo il quale la natura ribolle e scaturisce in forme qualitativamente connotate, in un divenire pensato speculativamente come dialettica luce/ombra. Da questo breve accenno si può notare quanto sia grande l’influenza di Böhme su Bloch, più di quanto egli stesso riconosca in alcuni passi delle sue opere. Per una presentazione di Böhme operata da Bloch cfr. ZP 227-241, it. 85-10. Se egli è assente tra i filosofi cui Bloch intitola appositi paragrafi nell’excursus storico-teorico di Das Materialismusproblem, scopriamo, grazie alla recente pubblicazione postuma curata da Gerardo Cunico, che esisteva tra i suoi manoscritti un paragrafo dedicato
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rialismo meccanicista si espone infatti alla critica, esercitata dallo stesso Marx, di non comprendere né spiegare i processi umani legati alle produzioni spirituali e di diventare così «menschenfeindlich» (avverso agli uomini).71 Proprio per evitare questi esiti Marx identifica il materialismo con un «umanesimo reale», partendo dal presupposto che la materia della storia è l’uomo, nelle sue relazioni con gli altri uomini e con la natura. Il materialismo acquisisce con Marx un nuovo sostrato: l’attività umana, il lavoro. «Il soggetto non manifesto (undeutlich) del movimento fisico si eleva a soggetto manifesto del lavoro umano; la dialettica della natura salta in una dialettica della storia umana; vita e pensiero sono forme di movimento di una materia più altamente qualificata e lo spirito non è affatto totalmente altro, tanto meno dualisticamente contrapposto, bensì è la sua “fioritura suprema”» (MP, 306). Qui entra in gioco il tema marxista che a Bloch sta più a cuore, il rapporto struttura-sovrastruttura, che rientra nel più ampio rapporto teoria-prassi, a proposito del quale egli sviluppa un suo pensiero originale, ma senza contrapporlo criticamente al marxismo classico, col quale sottolinea invece la propria continuità.72 Già Engels, infatti, aveva tentato, nella sua Dialettica della natura, di rendere conto dei salti qualitativi nella realtà naturale mediante la stessa dialettica che regola il divenire storico. L’impresa, secondo Bloch, merita di essere portata avanti e approfondita. Il salto dialettico di quanta fisici come gli atomi, che a certe condizioni evolvono in aminoacidi per poi diventare qualia organici più complessi come la cellula,73 è infatti più facilmente comprensibile del passaggio da qualia organici a qualia psichici come il pensiero, passaggio che resta sempre da chiarire e spiegare.
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alla Mystische Geburt im Wesen, nascita mistica nell’essenza, su Eckardt e Böhme. Cfr. Ernst Bloch, Logos der Materie, a cura di Gerardo Cunico, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2000, pp. 135-138. Karl Marx, Die Heilige Familie, in MEGA (Marx-Engels-Gesamtausgabe), Dietz, Berlin, I 3, p. 304ss. Questo non significa che Bloch non introduca, in altre parti della sua opera, una critica al marxismo, o meglio ad alcuni suoi esiti. A questo proposito cfr. infra, pp. 57-58, nota 81 e cap. III, par. 2. Cfr. MP 311-12. Probabilmente Bloch era a conoscenza della scoperta di Stanley Miller, che, nel 1953, partendo da composti inorganici e ricreando in vitro le condizioni primordiali del nostro pianeta, riuscì ad ottenere aminoacidi e peptidi, componenti organici fondamentali. In questo modo Miller dimostrò il passaggio qualitativo dall’inorganico all’organico, precursore delle prime forme di vita. Il suo esperimento diede anche l’avvio alle ricerche, negli anni immediatamente successivi, di Fox e Calvin sullo sviluppo degli organismi unicellulari da proteine e acidi nucleici. È possibile che Bloch fosse informato sul procedere di queste ricerche.
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La questione, riformulata in termini più aderenti al nostro tema, è: come si passa dal desiderio come impulso materiale al desiderio come immagine che ispira il pensiero, ovvero alla sua rappresentazione cosciente? Bloch ne parla, in altri termini, negli ultimi due capitoli di Das Materialismusproblem: il penultimo, Sulla corrente calda e la corrente fredda nelle immagini della natura, con la sua analisi delle teorie fisiche allora più recenti, e l’ultimo, Sul rapporto essere-coscienza, scopo e novum nel materialismo speculativo, nel quale è sviluppata la concezione utopicodialettica della materia. Nel primo di questi capitoli Bloch tenta l’arduo ma necessario esperimento di mettere in dialogo filosofia e scienza, tentativo troppo spesso trascurato a favore di una mentalità antagonistica tra le due discipline, tuttora alimentata dagli eredi della riflessione heideggeriana sulla “tecnica”. In particolare, il confronto avviene tra materialismo dialettico e nuova fisica del XX secolo. Risultati di questo esperimento sono che l’indagine fisica può fornire ulteriori basi scientifiche alla teoria filosofica e che la teoria dialettica può fungere da buona griglia conoscitiva anche in campo scientifico, soprattutto per mettere in comunicazione i diversi campi del sapere.74 Vediamo come. Attraverso la teoria quantistica ideata da Max Planck, approfondita da Heisenberg, Schrödinger ed Einstein, si delinea un nuovo concetto di materia fisica, la cui natura resta indeterminata tra onda e particella;75 ciononostante secondo Bloch questo non significa che il concetto di 74
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Riprende e sviluppa questi risultati Rainer E. Zimmermann, sostenitore di una filosofia della natura fortemente interdisciplinare, che amplî il confronto scientifico tra filosofia, scienze umanistiche e scienze naturali. In questo senso egli sottolinea la continuità tra Engels, Bloch e gli scopi perseguiti dalla filosofia contemporanea. Cfr. Rainer E. Zimmermann, Emergenz und exakte Narration des Welthaften. Zur Naturdialektik aus heutiger Sicht in Id. (Hg.), System und Struktur. Sonderband Naturdialektik heute. Aus Anlaß des 100. Todestages von Friedrich Engels, Band III, Heft 1, Cuxhaven-Dartford 1995, p. 140. Sostiene questa posizione anche Doris Zeilinger, Ernst Blochs Logikon in der Materie in “Vorschein. Jahrbuch der Ernst-Bloch-Assoziation“, n. 25/26, anno 2004/2005, pp. 13-24. Il principio di indeterminazione di Heisenberg riguarda la relazione tra l’indeterminazione della posizione di una particella subatomica (Δq) e l’indeterminazione del suo “momento”, o quantità di moto (Δp): essa è Δq × Δp ≥ h/2π, dove h è la costante di Planck. Questa relazione attesta che l’osservatore modifica ciò che viene osservato. Nell’attimo in cui nel mondo microscopico il soggetto osserva l’oggetto quest’ultimo si modifica. Quando la luce incontra una particella elementare che ha un ordine di grandezza come quello dei fotoni luminosi allora non si può determinare la posizione della particella osservata. Si può determinare l’impulso ma non la posizione e viceversa: se è determinabile la posizione, allora non lo è l’impulso.
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materia scompaia, bensì che acquisisca ulteriore definizione riguardo a due sue caratteristiche: l’infinità del suo divenire (pantha rei) e la discontinuità di questo processo (natura facit saltus). La prima, l’infinità del divenire materiale, acquisisce e accerta una nuova forma di questo movimento: l’energetica si configura come costante riferimento reciproco tra onde e particelle, tra materia come campo energetico e materia corpuscolare, e il correlato oggettivo di questi concetti alterni e reciproci (Wechselbegriffe) si comporta in modo evidentemente dialettico;76 la seconda, la discontinuità del processo, viene accertata a livello microfisico dall’analisi dei processi atomici in relazione alla teoria quantistica: ogni processo a livello atomico è passaggio mediante salti da uno stato quantico a un altro, e attraverso ogni salto si ottiene un nuovo stato qualitativo della materia.77 Queste sono però soprattutto linee guida che Bloch indica, piuttosto che traguardi già raggiunti: «sia l’uguaglianza massa = energia, sia la spiegazione della luce dal rilascio discontinuo di radiazioni quantiche potrebbero certo aprire un giorno conseguenze energetico-dialettiche – un pantha rei e un ex interruptione lux anche nella nuova fisica» (MP 338). Il procedere per salti qualitativi del processo materiale viene attestato anche dalla distinzione in tre livelli di realtà, all’interno dei quali valgono sistemi di leggi fisiche differenti, seppur essi in una certa misura si compenetrino: a livello microfisico, cioè a livello atomico, vale la fisica quantistica; a livello meso, la fisica galileiana e newtoniana; a livello macro, cioè astronomico, la teoria della relatività di Einstein.78 In questo modo la dialettica, teoria in grado di abbracciare i salti qualitativi da un livello all’al-
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Cfr. MP 331, 351-2. Cfr. MP 331, 367. Secondo la meccanica quantistica di inizio secolo, le particelle ondulatorie sono obbligate ad attraversare stati di natura discreta piuttosto che continua (teoria del salto quantico di Planck, 1900, e successive ricerche di Einstein sull’effetto fotoelettrico, 1905, che confermano questa teoria). Con il proseguire delle ricerche in quest’ambito si scoprirono ulteriori suddivisioni della materia (l’ipotesi dell’esistenza dei quark è del 1963, poi divenuta sempre più probabile attraverso verifiche sperimentali). Queste ricerche fanno prendere corpo all’ipotesi contraria, ovvero che la materia abbia struttura continua, teoria che Bloch non prende in considerazione e che a tutt’oggi resta allo stato di ipotesi scientifica. È dimostrato che a livello meso la costante di Planck e così il principio di indeterminazione di Heisenberg, fondamentali per la fisica atomica, risultano trascurabili. Allo stesso modo, le leggi causali della fisica classica non hanno luogo nel mondo atomico, né sono valide rispetto al movimento della luce, dunque a livello astronomico. Cfr. MP 332.
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tro, si offre come metodo di conoscenza in grado di superare le posizioni del relativismo scientista,79 secondo il quale la contraddizione non è più segno del processo di verità, bensì segno di falsità della teoria. Attraverso la dialettica invece non si fa valere soltanto la relatività della conoscenza storica, ma anche la conoscenza della relatività dialettico-naturale: le forme del movimento della materia si sviluppano progredendo qualitativamente, oltrepassando così ciò che le contraddice o le avversa. Seppur la nuova fisica fornisca basi scientifiche al materialismo dialettico, ciò che non le spetta è di risolvere i problemi teorici che ad esso ineriscono. L’antica croce del materialismo, che nella scolastica veniva espressa attraverso la domanda se sia più reale la singolarità sensibile o l’universalità concettuale (l’antica disputa degli universali, cui Bloch affianca l’aporia essere – coscienza e l’antinomia quantità – qualità),80 nella filosofia moderna viene risolta sostituendo alla singolarità il fatto empirico e all’universalità la legge matematica, la quale connette funzionalmente tra loro i fatti empirici. Quest’impostazione quantitativo-razionalista mantiene però la separazione idealistica tra materia sensibile e legge razionale, separazione che ripropone, seppur a un altro livello, l’«antico scandalo» della filosofia, quello della materia come corpo estraneo al pensiero. Solo con il marxismo diventa possibile superare questo scandalo grazie al concetto di materia qualitativa, anche se in realtà esso si ripresenta sotto nuove forme: la croce singolarità-universalità si rinnova nella tensione tra le coppie spontaneità – automatismo, individuo – collettivo, novità dirompente – costruzione resistente. Bloch propone di considerare, e quindi valorizzare, la singolarità come ciò che interrompe fruttuosamente una totalità non conclusa: il «colorato singolo» è das fruchtbar Unterbrechende, l’interruzione fruttuosa che dà luogo alla molteplicità delle cose. La singolarità è il frutto del salto qualitativo. Il ruolo della singolarità dunque è lo stesso di quello che svolge a livello logico la contraddizione dialettica: non soltanto disturba e interrompe in
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Bloch si riferisce qui alle posizioni di Ernst Mach, Henri Poincaré e Pierre Duhem. Cfr. MP 354 e TLU 108. Secondo un’antica critica al materialismo, rappresentata ad esempio dalla posizione del fisiologo Emil Dubois-Reymond (1818-1896), non è possibile spiegare su basi materialiste l’insorgere di fenomeni quali la coscienza o la differenza qualitativa tra gli esseri. Per illustrare questo problema Bloch risale all’antica disputa sugli universali e all’aporia aristotelica tra essere e coscienza, la quale racchiude anche l’antinomia qualità-quantità, secondo la trattazione che ne fa Engels nella Dialettica della natura. Quest’impostazione apre naturalmente la strada alla soluzione originale che egli propone.
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senso negativo, ma serve altrettanto come richiamo e mezzo di risveglio, come pietra dello scandalo contro tutto ciò che viene ordinato troppo in fretta, contro la monotonia paralizzante del concetto già accertato e definitivo. La differenza qualitativa del singolo racchiude in sé un poter essere altro (Andersseinkönnen) che può sì essere confusa, caotica e “cattiva” pluralità, ma anche infinita potenzialità e sempre nuova risorsa. L’alterità «inaugura un divenire peggiore così come un divenire migliore, tale da non concedere ancora di terminare il gioco all’uscita positiva, che non eternizza staticamente la distrazione» (MP 460). L’alterità è quindi per Bloch un altro nome dell’inquietudine dialettico-materialista, che non è più causa d’imbarazzo o confusione, ma «mezzo esplosivo» contro ciò che è generalmente statico e sorpassato.81 3.4 Aporia e antinomia del desiderio materiale Già in Engels la particolarità come fonte di determinazione e distinzione della materia porta ad analizzare, attraverso i vari salti qualitativi dal livello inorganico a quello organico a quello economico-storico, quel particolare punto di partenza, lo starting point del divenire umano, che è la coscienza. Analogamente, Bloch parte dal fruchtbar Unterbrechende, dall’interruzione fruttuosa della singolarità per giungere a quella più evidente tra essere e coscienza, così evidente da essere in buona parte non percorribile e configurarsi come aporia. «La coscienza sorge dall’essere come essere cosciente, in quanto l’essere, senz’altro innanzitutto l’essere organico, si riflette. Questa autoriflessione è possibile perché la materia non è affatto l’esteriorità e tanto meno, nella sua volgarizzazione, l’este81
Sono facilmente intuibili le implicazioni politiche di questo discorso, che nel testo di Bloch non vengono peraltro esplicitate. Se è vero che il testo è stato scritto negli anni ‘36-’37 e rivisto e ampliato tra il ’69 e il ’71, non è chiaro in quale dei due periodi sia stato composto questo brano sull’alterità (cfr. par. Crux des Einzelnen und die Fülle, Croce del singolo e molteplicità, MP 457-461). In entrambi i periodi peraltro l’obiettivo polemico era, com’è facilmente deducibile, il “marxismo reale” dei paesi comunisti (prima l’URSS di Stalin, poi l’URSS di Breznev insieme ai paesi satelliti dell’Est europeo, tra cui la DDR che Bloch aveva abbandonato nel ’61, l’anno della costruzione del muro di Berlino), i quali, con i loro regimi totalitari, sacrificavano i diritti del singolo a favore di quelli del collettivo, in nome di una teoria, il marxismo, che secondo Bloch non aveva riflettuto a sufficienza sull’importanza della singolarità, o, come usa più spesso definirla, del fattore soggettivo, che era a suo stesso fondamento. Ciò che qui è statico e sorpassato non è quindi soltanto il sistema capitalista borghese, ma lo stesso marxismo nella sua applicazione più miope.
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riorità per antonomasia, piuttosto ha in sé l’agens di tutto ciò che successivamente sarà esterno ed è insieme il grembo partoriente, col quale la sua autoriflessione chiamata coscienza può infine entrare in contatto come col sé della materia» (MP 461). In questo senso la sovrastruttura, frutto della riflessione dell’essere su di sé, non è soltanto nebbioso riflesso ideologico, ma può anche essere, nei casi in cui la coscienza non è “falsa”, autentica autoriflessione dell’essere sociale-materiale. Se la sovrastruttura riflette le forze impulsive trainanti (Triebkräfte), i bisogni materiali alla radice dei mutamenti sociali, ciò significa che essa influisce anche attivamente nel determinare la struttura, e non avviene soltanto il viceversa, cioè che la struttura determini la sovrastruttura. La sovrastruttura spinge la struttura a modificarsi, a superarsi, senza che l’una e l’altra vengano a coincidere. In questo modo rimane sempre un “Rest”, un residuo utopico, un’aporia tra ciò che è e ciò che ha coscienza di essere: il materialismo non liquida l’aporia essere e coscienza, come farebbe secondo Bloch l’idealismo, piuttosto l’appesantisce, perché l’immanenza dialetticamente irrequieta esige dal materialista sempre nuovi sforzi. L’aporia essere – coscienza, inoltre, è appesantita dall’antinomia quantità – qualità, in essa inclusa. Quest’antinomia è propria del momento in cui una qualità della materia si manifesta esteriormente staccandosi nettamente dall’aspetto quantitativo, tanto da implicare un salto qualitativo (un capovolgimento, Umschlag), nel passaggio da un piano all’altro. L’esempio è quello del suono, che è tale qualitativamente, ma quantitativamente è una vibrazione dell’aria. L’uso del termine antinomia si distingue in Bloch da quello kantiano, perché non si riferisce a oggetti trascendenti, né rispetto al mondo né rispetto alla conoscenza, bensì alle categorie reali quantità e qualità, che si scontrano. Tale antinomia è inclusa nell’aporia essere – coscienza nel senso che, se la prima costituisce il lato interno dell’essere che riflette su di sé, la seconda ne costituisce il lato rivolto all’esterno, quello dell’essere che si trasforma manifestandosi; non v’è, però, corrispondenza precisa tra i loro termini, poiché il capovolgimento quantità – qualità non avviene soltanto in esseri coscienti, ma anche in esseri senza coscienza. Importante è soprattutto ciò che differenzia la relazione essere-coscienza da quella quantità-qualità: «il salto dall’essere alla coscienza avviene a causa dello stimolo all’autoriflessione (Drang zur Selbstreflexion) dell’esere materiale, mentre il capovolgimento della quantità in qualità è dovuto fin dall’inizio allo stimolo dell’essere materiale all’automanifestazione (Drang zur Selbstmanifestation)» (MP 464). Di due tipi è dunque lo stimolo, che possiamo chiamare, nel vasto senso assunto fin dall’inzio della ri-
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cerca, il desiderio della materia: da un lato è stimolo all’automanifestazione, cioè processo di esternazione da sé che possiede una visibilità esteriore e trasforma la quantità in qualità; dall’altro è autoriflessione, cioè processo che si pone dapprima come qualcosa di non visibile in quanto trasforma l’essere in coscienza, e poi solo successivamente si esterna in opere visibili, in particolare nelle produzioni spirituali umane. Qui la dialettica luce – oscurità propria della dinamica del desiderio si precisa e si estende alla materia, sua vera sede e sua vera origine. Nel desiderio della materia, infatti, convivono questi due stimoli complementari, quello all’autoriflessione, non visibile, rivolto verso l’interiore, verso l’oscuro, e quello all’automanifestazione, visibile, rivolto verso l’esteriore, verso la luce. Il primo stimolo è quello che mira a portare alla luce quella che Bloch chiama a più riprese la latenza del non-ancora-essere, la possibilità non ancora realizzata, che è l’essenza nascosta di ogni cosa. Il secondo invece è il finalismo intrinseco al divenire, la tendenza della materia a “uscire da sé” per produrre vita. Tendenza –latenza – utopia82 è infatti un’altra formulazione sintetica della dialettica del desiderio, che corrisponde perfettamente a quella sopra illustrata: «io sono – ma non mi possiedo – perciò noi diveniamo». Ancora una volta si tratta di un processo triadico. Qui, però, si coniugano col materialismo marxista la teosofia mistica di Jakob Böhme83 e la metafisica leibniziana, dalle quali Bloch eredita la tendenza della materia alla luce, o alla progressiva determinazione qualitativa che è per essa rischiarante. Con ciò il filosofo tedesco84 non pretende di aver risolto né l’aporia essere – coscienza né l’antinomia quantità – qualità, che permangono come frutti reali degli stimoli interni alla materia, ma di aver impostato l’analisi materialista in modo più concreto, più vicino alla realtà: «Problematisch das alles gewiß, doch realproblematisch», «sicuramente problematico tutto ciò, però realmente problematico» (MP 465, corsivo mio). Manca ancora, tuttavia, un elemento, quello che costituisce il riferimento reciproco, nella materia, di autoriflessione nella coscienza e automanifestazione nell’esserci, nel Dasein: è il punto d’inizio, il punto cieco interno alla materia che non è ancora riflettuto, manifestato, né realizzato. Questo 82 83 84
Traduzione del titolo dell’ultimo volume della Gesamtausgabe. Cfr. supra, nota 70. Tedesco non solo d’origine, ma anche d’elezione filosofica. I suoi principali referenti, per quanto riguarda ovviamente la filosofia moderna, sono, infatti, per lo più filosofi tedeschi, dei quali era appassionato lettore e ottimo conoscitore: i nomi principali sono Marx, Engels, Feuerbach, Simmel, Nietzsche, von Hartmann, Schelling, Hegel, Kant, Böhme, Leibniz, Paracelso.
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punto cieco non è altro che il sé della materia, il nucleo oscuro semplicemente vissuto ma non ancora obiettivato, che nel suo significato è identico al nucleo oscuro che costituisce il sé dell’uomo. È il nucleo latente del mondo, che fonda la corrispondenza tra uomo e natura. Leggiamo Bloch. Questo sé è il sé del materiale, che ne attraversa i diversi strati in modo ancor più immanente, un nucleo in esso non ancora estrovertito, che si invia nel processo del mondo e della storia della sua tentata soluzione come mistero originario del suo sé, verso una soluzione raggiunta attraverso riflessione, manifestazione, sì, incontrando orizzonti, anticipazione. In tal modo questa x, di ciò da cui ha luogo ogni inizio, è identica nel significato a ciò che costituisce il nucleo non ancora arrivato di tutto, sia nel fattore soggettivo dell’agens umano, sia nel fattore naturale, che è stato battezzato ipoteticamente natura naturans. Questa x identica nel significato mantiene compressi insieme i due fattori e rende infine il contenuto del salto dall’essere alla coscienza e il contenuto del capovolgimento di quantità in qualità intrecciati insieme, soprattutto nell’ultimo contenuto di manifestazione arciutopico: homo sive natura, natura sive homo – entrambi come manifestazione materiale, materia manifestata (materielle Enthüllung, enthüllte Materie) (MP 466).
Il nucleo incognito della materia è quindi identico nel suo significato, nella sua oscurità e nel suo mistero, all’oscurità di cui è costituito il presente umano. Anch’essa, infatti, è un’oscurità doppia, alimentata da due movimenti: il ritorno a sé della riflessione e l’uscita da sé della manifestazione. All’origine di entrambi, lo stimolo (Drang), l’impulso (Trieb) o, come detto, il desiderio della materia, fondamento della mancanza di coincidenza con sé. È questo il motore del movimento della materia e la fonte del suo sviluppo dialettico, che procede per salti qualitativi fino a raggiungere la forma uomo, fattore soggettivo dotato di coscienza, il quale si assume la guida di quel mutamento già intrinseco alla materia, seppur in forma non consapevole di sé. Eccedenza e mancanza, gli estremi dialettici che il desiderio nel suo procedere cerca di conciliare, si radicano a loro volta nella pienezza e nell’incompletezza della materia. La prima, l’eccedenza che sgorga dalla pienezza, 85 risiede nella sua potenzialità infinita e nel suo inesauribile grembo 85
Il termine Fülle non compare in questa parte di MP, se non a titolo di un paragrafo, Crux des Einzelnen und die Fülle, Croce della singolarità e la molteplicità, in cui, come si deduce dall’argomento del paragrafo, esso non significa tanto pienezza e compiutezza, quanto molteplicità. Il termine torna anche in un paragrafo di Experimentum Mundi, dove Cunico traduce con pienezza, ricordando in nota anche l’altro significato di molteplicità. Anche in questo caso il tema dell’eccedenza e della sovrabbondanza che sgorga dall’immediata pienezza non è strettamente
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partoriente, la seconda, la mancanza, nella sua inquietudine dialettica, l’inquietudine causata dal non possedersi ancora, dal non aver raggiunto ancora la manifestazione adeguata di sé, anche a causa dell’«avversante», quando non del catastrofico, che sempre si ripresenta nella natura. È dunque questa la concezione speculativa della materia, fecondo grembo materno che genera continuamente le sue conformazioni “entelechetiche” senza ancora giungere alla completa automanifestazione: speculativa perché lo scopo di quest’entelechia incompiuta, motore energetico del mondo, è pur sempre un λογικόν, l’oggetto del desiderio che Aristotele eredita da Platone, l’ideale erotico del bene.86 Nelle parole de Il principio speranza si può ora riconoscere all’opera questo tipo di materialismo: «Il processo verso questo futuro è unicamente processo della materia, che grazie all’uomo si addensa come fioritura suprema e si forma in maniera conclusiva. Il nostro, come il non ancora nostro, ha davanti a sé questa via; essa è aspra e aperta. Uomini e cose sono unificati in questo cammino e in tal modo sono connessi in maniera ottimale uomo e mondo» (PH 285; it. 290). Nella storia del mondo ad opera dell’uomo il fattore soggettivo è dunque «la potenza non conclusa di mutare le cose, il fattore obiettivo è la potenzialità non conclusa della mutabilità, della trasformabilità del mondo nel quadro delle sue leggi, che, date nuove condizioni, variano, sempre però secondo leggi. Entrambi i fattori sono sempre intrecciati fra di loro, in interazione dialettica» (PH 286; it. 291). I due fattori sono intrecciati, perché, come abbiamo visto, il loro fattore impulsivo, il loro motore e scopo, ovvero il loro desiderio, ha una radice comune («è della stessa radice intensiva») e dunque ha anche una meta comune: «l’uomo come elemento realizzante – soprattutto non appena e dal momento in cui non è più provvisto di una falsa coscienza – concentra la potenza centrale nella potenza-potenzialità della materia processuale. Questa potenza centrale si trova perciò in maniera crescente nella possibilità di cogliere sempre più l’interesse nucleare propulsivo di ogni accadere, questa origine e contenuto dell’ultima possibilità reale, di incontrarlo, di identificarlo, anzi di farsi manifestamente identica con esso» (PH 286-287; it. 291).
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blochiano, seppur la sua dialettica desiderante indichi, a mio parere, anche verso quella direzione. Cfr. supra, cap. I, par. 1.3. Cfr. l’ultimo paragrafo, intitolato Ampiezza speculativa; logikon nella materia; non solo movimento, a maggior ragione materia come entelechia incompiuta (MP 470-478), in cui si legge: «E il contenuto dell’ultima entelechia-materia è sempre ancora un logikon, cioè l’ideale del bene» (MP 476).
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Se il desiderio della materia e il desiderio dell’uomo, nella loro meta ultima coincidono, l’ideale del bene allora è erotico in un nuovo senso, inedito rispetto all’ἔρως platonico e al desiderio di bene aristotelico: è sì ricerca di fusione con l’essere, ma ricerca memore della differenza, anche aporetica e antinomica, che lo attraversa. 4. Logica e ontologia: intensità di pensiero ed essere 4.1 Appetitus perfectionis: la logica della materia La ricerca di fusione con l’essere non è quindi, in quest’orizzonte dialettico, annichilimento d’identità, né propria né altrui, ma processo d’identificazione con il proprio sé attraverso il rapporto con l’alterità. Il blochiano anderssein (essere altro) è sì l’essere altrimenti di una possibilità non ancora realizzata, ma il rapporto con tale alterità non si riduce a una realizzazione meccanica che annulla la differenza, piuttosto invece è espressione sempre rinnovata del mistero racchiuso nel nucleo più intimo di ogni corporeità: la materia. Tramite questo processo non è soltanto l’uomo a giungere alla conoscenza di sé, ma è la materia stessa che tende progressivamente alla coincidenza con la sua meta latente: l’armonia di uomo e natura, o, con le parole di Engels a lui più care, «la naturalizzazione dell’uomo e l’umanizzazione della natura». È a causa del comune fondamento ontologico che l’uomo, fioritura suprema della materia, può cogliere, attraverso una mai conclusa interrogazione del mondo, la logicità intrinseca al processo cui uomo e natura partecipano attivamente. Proprio a causa della loro reciproca e continua trasformazione, però, il rapporto tra pensato e vissuto, tra conosciuto e sperimentato, o tra logico e materiale, non può mai essere stabilmente definito: «Il logico e il materiale non stanno fra loro nel reciproco rapporto di mera analogia o di banale corrispondenza, bensì in una corrispondenza (conformitas, a detta dello scolastico dialettico Abelardo), la cui funzione va modificata, verificata e riflettuta, tra metodica oggettiva della cosa e cammino del mondo» (EM 65; it. 99). L’armonia tra uomo e mondo, o meglio, la melodia risultante dal loro rapporto (è la melodia, infatti, che muta nel tempo, combinando più o meno armonicamente ciascuna nota con le altre – così che si potrebbe affermare che la melodia mai definitivamente conclusa rappresenti il processo del mondo, la cui materia sono le note e la cui logica è l’armonia) non è però resa deterministicamente necessaria dal comune fondamento
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ontologico.87 È piuttosto sempre a rischio, poiché l’intenzione soggettiva corre in ogni caso il rischio di isolarsi, o perseguendo il proprio interesse, ignorando quindi le condizioni ad essa esteriori (compresi gli interessi degli altri soggetti), o non riuscendo a mediare anche le proprie migliori intenzioni con la realtà oggettiva. Quale rapporto si può dunque instaurare tra logica e materia, tra pensiero ed essere, tale da favorire l’accordo realmente possibile, perché ontologicamente fondato, di uomo e mondo? Bloch, noto per la sua scrittura figurativa e metaforica, introduce la questione così: Nessun avanti sospingente (stoßendes Voran) condurrebbe innanzi, se fosse quieto e solo con se stesso. Solo nell’acqua una barca può navigare, e in una corrente naviga più facilmente. La corrente portante è qui tanto il vivente quanto il non ancora deciso che ci fa andare avanti. Senza la corrente, in cui la remata può sospingere (antreiben), in cui sono possibili il viaggio e l’arrivo, non ci sarebbe né cambiamento storico né tanto meno quell’eccedenza che è sempre anticipazione […]. Che cos’è dunque questo flusso traente, o più precisamente questo appetitus perfectionis, come dice Leibniz, che opera in modo così peculiare nel corso delle cose? (EM 144; it. 179)
A questa domanda Bloch cercò costantemente di rispondere, attraverso tutte le sue opere, ma certo la risposta filosoficamente più sistematica arrivò solo con l’ultimo libro, Experimentum Mundi, che peraltro raccoglieva i materiali di una ricerca lunga una vita. Non solo nei capitoli 17, 18 e 20 de Il prinicipio speranza e nei capitoli 22-26 della Tübinger Einleintung in der Philosophie, ma già in altri manoscritti precedenti e mai pubblicati fino a pochi anni fa,88 Bloch presenta il nucleo dell’ontologia utopica, l’«on87
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Questa, invece, la critica di Jürgen Habermas a Bloch: egli si assicurerebbe il superamento del “mondo corrotto” con la garanzia di una “necessità teoretica”. Cfr. Jürgen Habermas, Theorie und Praxis: sozialphilosophische Studien, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1978, p. 159. Smentisce questa critica anche Hans Dieter Bahr, secondo il quale l’unica necessità teoretica del suo pensiero è la critica dei sistemi ontologici conservatori, volti a giustificare lo stato di cose presente. Cfr. Hans Dieter Bahr, Ontologie und Utopie in Burghart Schmidt (Hrsg.), Materialien zu Ernst Blochs “Prinzip Hoffnung”, op. cit., pp. 291-305, in particolare pp. 303-5. Lo illustra efficacemente Gerardo Cunico nella postfazione al volume Logos der Materie, nel quale ha raccolto i due manoscritti di Bloch più ampi tra quelli rimasti non pubblicati, Aufklärung und rotes Geheimnis (Illuminismo e mistero rosso) e Theorie-Praxis der Materie (teoria-prassi della materia). Quest’ultimo, nato negli anni 1934-1937, è alla base, per quanto riguarda la parte storico-critica, dei capp. 1-40 di Das Materialismusproblem, seine Geschichte und Substanz, mentre, per quanto riguarda la parte su logica e teoria delle categorie, è, seppur modificato, alla base di Experimentum Mundi. Anche per un’illustrazione del significato della
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tologia del non-essere-ancora», che indica una strada per giungere da ciò che soggettivamente non è ancora conscio, non ancora conosciuto, a ciò che oggettivamente non è ancora divenuto. Se però in questi testi Bloch presenta soltanto le categorie centrali del processo utopico,89 in Experimentum Mundi illustra l’intera gamma dei rapporti categoriali, per rendere ancora una volta esplicito, ora sistematicamente, il significato ontologico della teoria delle categorie. Ancora una volta, il tema del desiderio tocca il nucleo della questione: l’appetitus perfectionis, «che opera in modo così peculiare nel corso delle cose», è la tendenza oggettiva che va incontro all’intenzione soggettiva, cioè il correlato oggettivo delle categorie utopiche: è il Dass che estrinseca il proprio Was. Ciò che innanzitutto è, infatti, è l’immediatezza, «prossimità non categorizzabile» (EM 69; it. 105). Questo essere immediato, talmente prossimo da non poter essere pensato, è un fatto, un Dass che, rispetto al suo Da, alla sua presenza, non è ancora esplicitato, eppure allo stesso tempo «non tollera» il suo non-qui (Nicht-Da); «è piuttosto un Dass sospingente, fame e spinta che preme da molto in basso verso l’alto, portato sempre di nuovo fuori verso il suo Was e progressivamente predicato» (EM 69; it. 105, trad. mod.). Il Was è invece l’essenza latente del Dass, il suo quid non ancora manifesto, la perfezione latente con cui il Dass tende a identificarsi, mediandosi, nel processo della sua manifestazione. Il non, la negazione, ha dunque un doppio livello: ontologico e logico. Se a livello ontologico è Trieb, impulso che pervade il Dass e funge da motore del processo utopico, a livello logico è l’antitesi che funge da motore della dialettica. I due livelli sono, però, per lo più sovrapposti nella logica della materia. In Soggetto-Oggetto, libro che suscitò una vivace polemica alla sua uscita nell’allora Germania Est (1960) e che fu uno degli ultimi fattori determinanti per la scelta di emigrazione ad Ovest (1961), Bloch affronta il rapporto con Hegel e in quel contesto analizza più a fondo la propria concezione dialettica, intesa fin dall’inizio come superamento della logica formale scolastica: la dialettica, infatti, rettifica il principio di non-contrad-
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logica nel sistema blochiano, cfr. Gerardo Cunico, Nachwort des Herausgebers, in Ernst Bloch, Logos der Materie, op. cit., pp. 451-467. Le abbiamo in buona parte già illustrate: l’attimo oscuro come sorgente e l’attimo compiuto come sbocco sperato del compimento; la materia/possibilità come substrato del processo utopico con la sua tendenza e latenza; la tensione tra il fattore intensivo che si esprime nell’immediatezza (Dass) e la categoria figurante che lo esprime nella mediazione (Was); il non dell’origine, il non-ancora nella storia, il nulla oppure il tutto alla fine.
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dizione, perché insegna che A non può nello stesso tempo restare non-A. La negazione è qui Triebkraft, forza propulsiva della dialettica, ma non in senso meramente logico come in Hegel, bensì, marxianamente, in senso materiale, come bisogno: «L’impulso veramente dialettico è il bisogno (Bedürfnis); esso solo, in quanto non appagato, non soddisfatto mediante il mondo che è divenuto di volta in volta per lui, fornisce la contraddizione che ne scaturisce ed esplode sempre di nuovo. Ogni appagamento a metà, ossia ogni figura del movimento divenuta insufficiente, ogni società storica alleva nel suo seno i portatori di bisogni più estesi e di facoltà più sviluppate per appagarli. Il bisogno, come pure la facoltà attiva, contraddice la vecchia forma di esistenza, diventa esplosivo, contiene la vocazione al futuro, cioè al gradino successivo che toglie relativamente la contraddizione. Questa è l’origine della tendenza esplosiva nella dialettica, un’origine dal bisogno, dalla forza produttiva, dalla speranza, non dal puro spirito» (SO 137-8; it. 140-1). Questa è la logica che anima la materia: bisogno e impulso, termini per Bloch equivalenti, sono la tendenza materiale a oltrepassare l’esistente; nella coscienza umana, la quale non è, hegelianamente, la prima forma di differenziazione interna tra soggetto e oggetto, ma estrinsecazione umana di un processo innanzitutto materiale, bisogno e impulso si configurano come desiderio. Un desiderio esigente, che fin dai suoi esordi nella materia, ancora inconsapevole, racchiude in sé una ricerca del supremo compimento: la perfezione. 4.2 Intensità logico-ontologica Il rapporto tra essere e pensiero è allora un rapporto intensivo: se da un lato il materialismo dialettico coniugato con l’ontologia del non-essere-ancora afferma la priorità dell’essere sulla coscienza, così come l’impossibilità della loro coincidenza a causa della loro aporeticità, dall’altro il movimento dell’essere diventa il – pur discontinuo, e oscuro nella sua immediatezza – prender coscienza di sé mediante il divenire e, nell’uomo, mediante il pensiero. L’essere come utopia, desiderando arrivare finalmente a coincidere con se stesso e quindi a conoscersi, si fa pensiero. Così facendo, peraltro, non può che operare una trasformazione dell’aporia essere-coscienza, senza mai annullarla. Ancora una volta, però, il movimento è immanente all’essere stesso, poiché l’impulso «che cerca e sospinge (treibt) ogni cosa» è Meinen, è intendere, cioè tendere a qualcosa di più di ciò che egli già è, al “Was”, al “cosa” di cui la categoria dice. Categoria fondamentale del pensiero è,
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infatti, la relazione tra Dass, fattualità immediata dell’essere, e Was, suo senso latente.90 Il Meinen, però, l’intendere, non è ancora questa relazione, ma la ricerca di essa. È un voler qualcosa, senza saper esattamente che cosa, o un primo passaggio da una generica mania (Sucht) a un’indefinita direzione dell’anelito (Sehnsucht) (cfr. EM 49 e 73; it. 83 e 109). Il Meinen, questa tensione a relazionarsi a qualcosa di esterno da sé, è la prima forma in nuce di pensiero nell’essere. In due sensi, dunque, questo tipo di intenzionalità si differenzia dall’intenzionalità husserliana: innanzitutto, non è il pensiero a intenzionare l’oggetto, ma l’essere a intenzionare il pensiero. Inoltre, l’intenzionalità del Meinen è ancora indefinita e non può cogliere l’essenza di ciò che intende, perché quest’ultima, pur provenendo dall’essere stesso, è “altra”. «Il pungolante Dass non si presenta più solo come quello in virtù del quale in generale un essere è, ma brucia andando più oltre e sospinge istigando dal basso in ogni infrastruttura. Si presenta sul piano organico come fame, sul piano socio-economico come bisogno, sul piano ideale,91 se si può dir così, come anelito (Sehnsucht). Il Dass dell’intendere, dell’impulso che dà inizio a ogni cosa, preme così, si protende verso qualcosa, tende a quel “qualcosa” (Etwas) che proviene da lui, pur rappresentando il suo essere altro (sein Anderssein), a cui lavora, in cui cerca di saziarsi e di afferrarsi. Tutto ciò che tende è in tal senso volontativo, ossia intensivo, nessun urto iniziale può, nella sua origine, essere altrimenti che intensivo. Certo, in quanto tende, è al tempo stesso una cosa che si mette sulla via del relazionare (Beziehen), però, in questo primo uscire da sé, non può essere ancora enunciato in nessun caso come relazione (Beziehung), e quindi in modo categoriale» (EM 73; it. 109). Se l’intendere non è ancora di per sé relazione, il pensiero non può ancora esprimersi a questo livello come enunciato, ma è già sempre presente come domanda. La presenza della domanda su di sé, nell’essere, che null’altro è se non il suo stupore, è il fondamento della sua infinita alterità.
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Il qualcosa (Etwas), invece, rappresenta la figura mediata del pensiero, mai definitiva né perfettamente coincidente con la realtà che rappresenta, perché mai definitivamente in possesso del Was. «Che si possa però in generale porre un nesso tra Dass e Was: questa relazione è essa stessa la categoria fondamentale, tutte le altre la sviluppano soltanto, tutte le altre sono soltanto la radura ampliata, con un loro reticolo di vie, della moltitudine dei qualcosa (Etwas) scaturenti dal Dass» (EM 71; it. 107, trad. mod.) In tedesco idealisch, qui ha il significato di “ciò che riguarda l’ideale”, in quanto immagine desiderabile nella sua perfezione, non quindi ideale nel senso di idealistico.
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È la domanda del fondamento, del Dass che realizza ogni cosa nell’essere, fondamento che è lui stesso l’essere che si mantiene ancora immediato in sé, ossia indeterminato, non apparso. E non già, come se questo Dass fosse lontanissimo, qualcosa posto soltanto al cosiddetto inizio del tempo. E non già, come se occorresse un lungo viaggio verso l’origine, ripercorrendo a ritroso il corso del mondo, oppure penetrandolo verticalmente fino a toccare il suo fondo immemorabile, per rammentarsi dell’inizio di tutte le cose. Come se questo inizio abitasse nel più profondo passato primordiale o magari, altrimenti, come si pensa di solito, nella fonte di emanazione delle supreme altezze, fluttuando sopra le acque dell’abisso e ponendo l’inizio dall’alto in basso, col suo – sia fatta la luce. Al contrario: l’urto iniziale di ogni cosa, che non è ancora mai esaurito, si trova molto vicino, per l’appunto in ogni attimo che si sta vivendo. Nel suo oscuro si rende riconoscibile, appunto come ancora irriconoscibile, la domanda prima dell’exsistere, lo stesso exsistere della domanda prima. L’intendere come tendenza e intenzione, come urto dell’essere intensivo, abita nell’uomo non solo nel cuore, ma in ogni attimo vissuto; è il palpitare di ogni attimo, il quale però non scorge ancora se stesso. È il punto zero del nocciolo di ogni cosa, non ancora colto da nessuna parte, non ancora apparso in un predicato, e che perciò continua a correre inesaudito attraverso l’esserci. L’intendere riscalda, letteralmente, fin dalla soglia, il moto dell’esserci; tenta di risolvere la sua oggettiva interrogatività nelle risposte oggettive dei “qualcosa”, nelle forme dell’esserci, che si susseguono le une alle altre. Per cancellarle, poi, contraddicendole, sviluppando dialetticamente la contraddizione in seno alla cosa, passando a nuove, più autentiche forme d’esserci. Ecco che, però, l’impulso dell’essere in sé, essendo anche infinitamente disperso negli attimi, resta incessante al di sotto di ogni cosa, ritorna sempre e poi sempre, eppure di per se stesso non c’è ancora in nessun luogo. È per così dire contiguo al qui e ora, eppure questo sarebbe di nuovo troppo per la sua indeterminatezza, che, in quanto exsistere per l’appunto troppo immanente, non è ancora affatto uscito fuori di sé da nessuna parte, perciò dovrebbe meglio designarsi come insistere. In breve, l’essere in sé non è un essente (Seiendes), questo è piuttosto il suo essere altro, il mondo pieno di infinita alterità (EM 73-5; it. 109-11, trad. mod.).
Non soltanto il pensiero, ma l’essere stesso è la risposta alla domanda sull’essere, domanda che sempre ritorna nel suo impulso a uscire da sé, in quell’intendere che ne costituisce l’intensità. L’impulso dell’essere non risale quindi a un antico passato e non si esaurisce con il suo divenire, ma, nella sua sospingente negatività, nella sua insistente oscurità, si ripresenta in ogni attimo vissuto come traccia di alterità infinita. Se il significato ontologico di questo impulso è il bisogno, la mancanza come spinta alla trasformazione, il significato logico di questa tensione non è però soltanto la contraddizione, ma anche la relazione, lo sporgersi dell’immediatezza
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verso la mediazione, che diventa possibilità di relazione fra alterità qualitative della materia. 92 Il fattore logico permette di inquadrare il riferimento del Dass al Was in una relazione categoriale sempre più chiara e distinta:93 l’elemento logico in questo modo si afferma, a differenza di quello telico, quale «luminoso cercare accompagnato dalla progressiva partecipazione dell’uomo alla luce che egli ha davanti ai suoi piedi» (EM 76; it. 112). La direzione logica del processo è quindi la luce della conoscenza, è il desiderio di perfezione che si configura come tensione all’identificazione finale di Dass e Was in una piena praesentia. Tuttavia, la tensione erotica all’unione e all’unità non si spegne mai in una banale identità reale e realizzata. Lo testimonia la stessa relazione categoriale sempre più chiara e distinta che descrive il processo conoscitivo cosmico dell’identificazione. Essa si esplica, secondo Bloch, in sette momenti categorizzanti, forme sempre più compiute del ruotare/sollevare (Drehung/Hebung) comune a tutte le categorie94: sono il predicare logico, il dimensionare nel tempo e nello spazio, l’oggettivare nelle categorie di 92
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In Experimentum Mundi Bloch distingue più rigorosamente che non in Das Materialismusproblem l’altrità quantitativa (Anderheit) dall’alterità qualitativa (Andersheit): «E proprio quest’inquietudine, non solo in quanto operante nel susseguirsi del tempo e del processo, ma anche come squilibrio tra universalità e particolarità, costituisce l’alterazione figurativa nelle categorie. Tale alteritas fra i molti “qualcosa”, a differenza dalla moltitudine aritmetica e anche dall’altrità meramente quantitativa, contraddistingue il carattere contenutistico della moltitudine, quello della prevalentemente qualitativa alterità. Innanzitutto: l’altrità quantitativa è costituita dalla divisibilità, in maniera che la sua cosa stessa non è disturbata, o addirittura annientata, dalla sua divisione, ma solo appunto moltiplicata […]. L’alterità, invece, prevalentemente qualitativa, non quantitativa, non ha assolutamente niente in comune con tale divisione, ma porta anzi senz’altro con sé un accrescere raffigurante, vale a dire una pienezza» (EM 167; it. 201, trad. mod.). Il tedesco klar und deutlich corrisponde a clare et distincte, ma Bloch usa questi termini in senso leibniziano piuttosto che cartesiano, ponendo cioè la distinzione a un grado superiore di evidenza. Se in prima battuta può sembrare strano che il pensare attraverso categorie sia assimilabile a un ruotare e sollevare, il discorso si fa più chiaro esplicitando l’immagine cui Bloch si riferisce nell’utilizzo di questi due verbi: sono le due azioni che si compiono con un bicchiere di vino, nel momento in cui se ne voglia osservare il contenuto. La rotazione è allora l’immagine dinamica della mediazione oggettivante, che gira, ruota, torce il contenuto immediato dell’esperienza per poterlo padroneggiare e il sollevare che ne segue lo inserisce nel processo di conoscenza e categorizzazione, che non è però processo di astrazione sempre maggiore, ma progressiva identificazione di soggetto e oggetto e quindi loro autentica realizzazione.
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trasmissione causali-finali, il manifestare nelle categorie-figura, il comunicare nelle categorie di area (o di settore, Gebietskategorie), l’identificare sostanziale come esperimento e la realizzazione del realizzante. Nessuno di questi momenti, nemmeno l’ultimo, segna un approdo. «Nella sequenza di categorie risuona ovunque la domanda fondamentale sul Was del Dass, verso la radura del quale il mondo come difficile esperimento è in cammino» (EM 240-41; 270-71, trad. mod.). L’intensità dell’essere si comunica a tutte le figure del pensiero: consiste nel loro tendere con forza alla realizzazione di un mondo che sia «laboratorium possibilis salutis», laboratorio, ovvero esperimento in cammino, verso una salvezza possibile. 4.3 Desiderio, garanzia di differenza La paradossalità di questo pensiero è stata ripetutamente criticata, con toni più o meno veementi, spesso benevoli nei confronti della sua ricchezza speculativa e della positività del messaggio trasmesso, ma poi implacabili riguardo al rigore teoretico. L’obiezione principale, variamente espressa sia nella letteratura secondaria italiana sia in quella tedesca, è che la filosofia blochiana assuma un andamento circolare nel momento in cui τέλος ultimo e principio primo finiscono per coincidere: ciò le renderebbe infine impossibile raggiungere i risultati che si prefigge, perché il novum autentico che cerca di realizzare diventa un presupposto ontologico del sistema, non più, quindi, realmente nuovo. Questa, ad esempio, l’obiezione di tutti quei filosofi e teologi che hanno indagato la speranza blochiana con una particolare attenzione al suo significato per l’escatologia cristiana: in Germania, Jürgen Moltmann, innanzitutto, che ha, parallelamente a Bloch, fondato una teologia della speranza, ma anche Pannenberg e Tillich;95 in 95
Cfr. Jürgen Moltmann, Theologie der Hoffnung. Untersuchungen zur Begründung und zu den Konsequenzen einer christlichen Eschatologie, Chr. Kaiser Verlag, München 1964; tr. it. Teologia della speranza, trad. it. a cura di Aldo Comba, Queriniana, Brescia 1970, in particolare pp. 349-373, Il “principio speranza” e la “teologia della speranza”, trad. it. di Das “Prinzip Hoffnung” und die christliche Zuversicht. Ein Gespräch mit Ernst Bloch, in Evangelische Theologie 23 (1963), pp. 537-557; dello stesso autore: Hoffnung ohne Glaube? Zum eschatologischen Humanismus ohne Gott, in Concilium (D) 2 (1966), pp. 416-421; tr. it. Speranza senza fede. Riflessioni sull‘umanesimo escatologico ateo, in Concilium (I) 2 (1966), pp. 53-68; Im Gespräch mit Ernst Bloch. Eine theologische Wegbegleitung, Chr. Kaiser Verlag, München 1976; tr. it. In dialogo con Ernst Bloch, trad. it e postface di Gerardo Cunico, Queriniana, Brescia 1977. Wolfhart Pannenberg, Der Gott der Hoffnung e Paul Tillich, Das Recht auf Hoffnung in Siegfrid Unseld (Hrsg.), Ernst Bloch zu ehren, op. cit. Cfr. anche Paul Schütz, Charisma
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Italia, Italo Mancini, tra i primi a occuparsi di Bloch nel nostro paese,96 poi seguito da altri filosofi attenti a salvaguardare più in generale il ruolo filosofico di trascendenza e alterità. Gerardo Cunico, attualmente uno dei maggiori conoscitori di Bloch in Italia, sottolinea ad esempio in questa prospettiva originalità e limiti dell’ontologia blochiana:97 riconosce, cioè, che la tensione desiderante che attraversa il suo pensiero apra a un’originale idea di verità non ancora compiuta, secondo cui l’essenza della cosa sarebbe solo intenzionata e ipostatizzata, ma non ancora presente in nessun luogo. Secondo Cunico, però, l’andamento circolare di quest’ontologia del non-ancora incorre in una serie di «aporie molto gravi», tra cui la duplice «antinomia escatologica»: quanto al contenuto, paiono inconciliabili utopia della quiete e utopia della continua ascesa (raffigurate rispettivamente dalla rosa mistica del paradiso dantesco e dall’alta montagna di Faust); quanto alla realizzabilità della totalità utopica, pare impossibile il raggiungimento di un totum utopico ad opera di un essere imperfetto e mortale qual è l’uomo, così come impossibile sembra un autentico novum su basi di esclusiva immanenza. Queste stesse antinomie vengono riproposte, inoltre, da Giovanni Ferretti, al fine di indicare alcune direzioni di reinterpretazione del pensiero blochiano che lo svincolino da questi problemi, ma anche Claudio Ciancio insiste sull’inautenticità del novum blochiano.98 Tali obiezioni riprendono e sviluppano, di fatto, quelle gia avanzate sia da Adorno sia da Lévinas. L’obiezione di Adorno, ripresa da Habermas e da Alfred Schmidt,99 è che l’utopia non può essere concreta
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Hoffnung. Von der Zukunft der Welt, Furche-Verlag, Hamburg 1962; Wolf-Dieter Marsch, Hoffen worauf? Auseinandersetzung mit Ernst Bloch, Furche-Verlag, Hamburg 1963; Ferdinand Kerstiens, Hoffnungsstruktur des Glaubens, MatthiasGrünewald-Berlag, Mainz 1969; Jörg Splett, Docta spes. Zu Ernst Blochs Ontologie des Noch-Nicht-Seins, in “Theologie und Philosophie“, Vierteljahresschrift, Freiburg/Breisgau, anno 54, 1969, n. 3, pp. 383-394. Cfr. Italo Mancini, Teologia, ideologia, utopia, Queriniana, Brescia 1974 e il più tardo Id., L’immagine di Sais, in “Hermeneutica”, anno 1991, n. 10, pp. 13-46. Cfr. Gerardo Cunico, Essere come utopia. I fondamenti della filosofia della speranza di Ernst Bloch, Le Monnier, Firenze 1976, in particolare pp. 156-173 sulle antinomie interne al pensiero blochiano. Cfr. anche Gerardo Cunico, Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch, Marietti, Genova 1988. Cfr. Giovanni Ferretti, Utopia in eredità. Attualità e inattualità dell’interpretazione della religione in Ernst Bloch in Gerardo Cunico (a cura di), Attualità e prospettive del “Principio speranza”, cit., pp. 45-76; Claudio Ciancio, Il paradosso della verità, Rosenberg & Sellier, Torino 1999, p. 253. Cfr. Jürgen Habermas, Ein marxistischer Schelling. Zu Ernst Blochs spekulativen Materialismus (1960) in Üeber Ernst Bloch, Frankfurt am Main 1967, pp. 61-81;
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se si dà come fondamento un’ontologia del non-ancora, perché viene data consistenza di realtà a ciò che non ne ha, cioè all’immaginazione, al preapparire, alle anticipazioni della speranza. Anche Adorno parla di antinomia insuperabile: «La sua speculazione vuole mettere radici in aria, essere ultima philosophia e tuttavia ha la struttura di prima philosophia, ambisce al grande tutto. Essa pensa la fine come radice del mondo, che muove l’essente, in cui la fine è già insita come τέλος. Essa ne fa il primum. Questa è la sua antinomia più intima, insuperabile».100 L’obiezione di Lévinas non fa che riprendere quella di Adorno riconducendola all’alterità, la quale andrebbe perduta poiché, in quanto pensata, sarebbe già da sempre presupposta.101 Laura Boella riconosce che questo sia il «problema fondamentale» della filosofia blochiana,102 ma propone una prospettiva che oltrepassi tale antinomia. Presenta, infatti, la via scelta da Bloch come «un resoconto di viaggio dell’immaginazione, di un pensiero narrativo che, attraverso figure, immagini enigmatiche, cristallizzazioni provvisorie del senso articola quella che in Spirito dell’utopia era chiamata la “domanda incostruibile”, il fondamento problematico e interrogativo di ogni sapere legato all’assoluto, all’aspirazione dell’uomo a dare un senso al proprio esistere».103 Questo pensiero narrativo è attraversato dalla tensione tra immaginazione e realtà, poiché la realizzazione del sogno si trova in conflitto con il contenuto di desiderio originario e dà così luogo a quel «residuo utopico» che istituisce la possibilità di una speranza concretamente fondata. Laura Boella individua in questa tensione fra realtà e ideale la differenza ontologica costitutiva di un «essere come utopia» che si manifesta come permanere dell’incognito e dell’oscurità, di un residuo di irrealizzazione e di incompiutezza.
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Alfred Schmidt, Der Begriff der Natur in der Lehre von Marx, Frankfurt am Main 1962, trad. it. Il concetto di natura in Marx, Bari 1969. Theodor W. Adorno, Blochs Spuren, in Noten zur Literatur II, Frankfurt am Main 1961, p. 149; trad. it. Le «Tracce» di Bloch. Sulla nuova edizione ampliata del 1959, in Note per la letteratura 1943-1961, Torino 1979, p. 235. Lévinas descrive il desiderio come ciò che aspira all’assolutamente altro, e che dunque «non aspira al ritorno, perché è il desiderio di un paese nel quale non siamo mai nati. Di un paese straniero ad ogni natura, che non è stato la nostra patria e nel quale non ci trasferiremo mai». Emmanuel Lévinas, Totalité et infini, Kluwer Academic, Paris, 1971, p. 22; tr. it. Totalità e infinito, trad it. di A. dell’Asta, Jaca Book, Milano 1977, pp. 31-32. Cfr. anche Ugo Perone, Nonostante il soggetto, op. cit., pp. 91-92. Cfr. Laura Boella, Ernst Bloch. Trame della speranza, Jaca Book, Milano 1986, pp. 19-23. Ivi, p. 21.
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Quel residuo d’oscurità, che riempie di tensione tra realtà e ideale il processo del divenire e che costituisce la differenza ontologica dell’essere come utopia, è il desiderio. Queste critiche sembrano tralasciare il fatto che il processo di cui Bloch parla non si esaurisce nella sua filosofia, ma si nutre dell’accadere reale della materia: non è la filosofia il luogo della trascendenza, o del novum autentico, o dell’alterità radicale. Semmai essa è il luogo dell’identificazione possibile di Dass e Was, in categorie e figure che restano però sperimentali e che soprattutto sono ancora da realizzare, perciò passibili di ulteriore trasformazione nella fase di realizzazione. Il pensiero è, insomma, una figura dell’essere, che non coincide con l’essere stesso, ma, semmai, lo eccede. Se si portano invece a coincidere i due termini, si ottiene allora da un lato la chiusura e l’appiattimento nel circolo vizioso dell’ultimum primum, dall’altro la paradossalità di un pensiero che cerca di affermare la realizzabilità dell’irrealizzabile: stretto in un rigore teoretico che non gli appartiene in quanto astratta funzione del pensiero, ma solo in quanto serrato metodo d’analisi, esso si riduce alla caricatura di se stesso. Lo stesso Pirola, voce piuttosto fuori dal coro di critiche degli anni ’70, afferma che le critiche di Schmidt e Habermas «risultano piuttosto impertinenti».104 La verità di questa filosofia utopica non va compresa come coerenza interna del discorso, né in termini di filosofia scolastica, o di filosofia dell’immanenza, ma neppure, soprattutto, come identità di essere e pensiero: altra cosa è la verità come rapporto di teoria e prassi. Quest’ultima non è una verità che possa essere decisa a tavolino, in un libro o in una filosofia, come afferma Bloch stesso a proposito della famosa Tesi 11 di Marx su Feuerbach (PH 319; it. 323), perché non è verità puramente contemplativa. L’essere non è ancora cosciente, e non è quindi l’illuminazione della conoscenza a costituire l’illuminazione reale del compimento nell’attimo. Certo, resta legittima la domanda sulla provenienza di questa luce – da dove la luce se l’impulso vitale a divenire è esso stesso oscuro? – e sulla realizzabilità di quel bene sempre cercato ma mai posseduto né conosciuto – da dove il λογικόν del bene, se il divenire è sempre in egual misura esposto al tutto oppure al nulla? Come realizzare il bene, se l’uomo è imperfetto e mortale, sviato dai propri bisogni immediati ed interessi egoistici, e di questo bene non può conoscere neppure la natura? Ugo Perone, criticando il principio speranza per la sua incapacità di rendere ragione della discontinuità ontologica che pur introduce, propone in 104 Giuseppe Pirola, Religione e utopia concreta in Ernst Bloch, Dedalo Libri, Bari 1977, p. 48.
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Nonostante il soggetto un arretramento della speranza al desiderio, per ragioni ontologiche. Il desiderio, che «nasce nel finito e guarda all’assoluto», pare, infatti, più adeguato a realizzare il «grande sogno della speranza»: senza presupporre una totalità continua e infine indifferente, e poggiando sul tempo non lineare del soggetto desiderante, esso riesce ad «avvertire la differenza come un principio che costruisce l’unità».105 È proprio questo l’arretramento interpretativo operato focalizzando l’attenzione sul tema del desiderio, considerato però come un’eredità non ancora indagata della filosofia blochiana: il desiderio in Bloch è il nucleo logico e ontologico dell’essere, la dialettica forza propulsiva che si pone a garanzia della sua differenza da coscienza e pensiero. Contrariamente alle aspettative, questa linea interpretativa mostra come un pensiero dell’immanenza quale quello blochiano, che spiega il mondo a partire da se stesso e concepisce unicamente un trascendere “senza trascendenza”, finalizzato a dichiarare possibile l’incontro e l’identificazione di termini ancora e sempre separati, persino avversi o ostili (uomo e natura, soggetto e oggetto, figura e materia, pensiero ed essere) finisce per farsi garante – forse addirittura contro la propria volontà – della loro differenza. L’impulso alla manifestazione e all’autoriflessione, che sgorga dal punto zero, dall’incognito e dall’oscuro della materia che pervade di sé ogni attimo, resta, nel suo cammino verso la luce, fondamento insuperabile dell’essere. L’aporia essere e coscienza testimonia di questa insuperabilità. Persino nella società senza classi il desiderio non sarà estinto e mai totalmente appagato, anzi, scrive Bloch, solo in una società giusta sarà finalmente possibile dedicarsi ai veri problemi della vita umana (dolore, noia, malinconia), di per sé non risolti dal mero mutamento storico.106 Nell’essere resta sempre ancora qualcosa da realizzare, tanto che l’identificazione possibile è raggiungibile solo nell’attimo, il quale, sì, anticipa un compimento più pieno in una terra promessa non ancora raggiunta, ma ne sancisce anche, in quanto desiderio ulteriore, l’indefinibile distanza. Il desiderio mantiene, infatti, la distinzione tra realtà e ideale, tra pensiero ed essere, e ne impedisce la reciproca identificazione, perché di questa 105 Cfr. Ugo Perone, Nonostante il soggetto, op. cit., par. Desiderio versus speranza, pp. 91-96. 106 Bloch è sicuramente cauto a questo proposito e non prende molto spesso nettamente posizione a questo riguardo. Ci sono però più brani che esprimono questo pensiero, secondo il quale, tra l’altro, l’elevato livello di solidarietà renderà la comunità umana simile a una chiesa. Solo allora, “forse”, sarà possibile chiarire “quelle domande che non lasciano riposare gli uomini anche dopo il compimento della loro opera” (EZ 408). Cfr anche GU 306-7; it. 322-23; NW 410-11.
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tensione si nutre e si alimenta: in questo senso è residuo utopico rispetto a ogni realizzazione, che per questo è sempre accompagnata da quella peculiare “malinconia dell’adempimento”, di cui in tutt’altri termini Leopardi poetava ne Il sabato del villaggio. Il desiderio è dunque differenza, ed è differenza “ontologica” non perché trascendente, o perché discriminante tra disponibilità degli enti e imperscrutabilità dell’essere, ma perché, più originariamente, è differenza propria dell’essere, costitutiva del suo impulso ad uscire da sé, a trasformarsi, a divenire, a essere ulteriormente, oltre se stesso e oltre ogni propria singola formazione, sempre qualitativamente differente da tutte le altre: è differenza dell’essere da se stesso, che infatti non viene definito, da Bloch, semplicemente “essere”, ma «non-ancoraessere», «essere come utopia». Il desiderio è però anche relazione dell’essere con le proprie figure, sospinte in avanti da quello stesso impulso desiderante che le attraversa, e con il pensiero, figura sublime che dell’essere insegue le forme, rappresentandole e dipingendole nella loro aspirazione al variopinto mondo di colori del bene. Il desiderio, preservando la differenza e costituendo il fondamento della relazione, nutre d’intensità pensiero ed essere. 5. Viaggio del desiderio verso la speranza: il multiversum 5.1 Irrequietezza del tempo e dello spazio Alimentato dal desiderio, alla ricerca dell’essere con cui infine non coincide, «il pensiero è in viaggio» (EM 63; it. 98). Le sue figure e le sue categorie, se non vengono reificate e restano invece aperte a essere ultrafigurate, non si oppongono al divenire delle cose, né lo falsificano, bensì ne rappresentano e descrivono gli approdi a qualcosa di determinato e determinabile. Il pensiero è in viaggio poiché lo è il mondo, le figure dell’uno raccontano l’esperimento dell’altro. Se l’impulso del loro divenire è il desiderio, così come l’abbiamo finora descritto, il modo del loro divenire è il tempo, che scandisce l’uscir fuori da sé della materia, le tappe della sua trasformazione nella natura come nella storia: per questo motivo il concetto di tempo è strettamente connesso al concetto di spazio. Spazio e tempo sono, con un’attualizzazione del trascendentale kantiano, le prime categorie «del portar fuori»107 a essere definite da Bloch nel 107 Il sottotitolo di Experimentum Mundi è il seguente: La domanda centrale. Le categorie del portar-fuori (Herausbringen). La prassi.
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viaggio del pensiero: sono le «categorie dimensionanti», le categorie quadro (Rahmenkategorien) dell’esperienza. Non sono certo kantiane «forme pure a priori», che fungono da filtro fisso e immodificabile dell’esperienza immediata. Sono invece categorie che si compenetrano nell’esperienza puntuale dell’oscurità dell’attimo vissuto, in cui contiguità temporale e spaziale, zugleich (contemporaneamente) e beisammen (insieme, accanto), sono i punti di partenza per estendere l’esperienza del presente. Il tempo, però, secondo Bloch, precede la spazialità dell’esistere, perché il suo scorrere è la condizione necessaria al costituirsi della coscienza come non coincidenza con sé, come oscurità dell’attimo vissuto: è il battito di palpebre dell’essere che guarda e che si guarda – l’Augen-blick108 – a costituire una presenza della coscienza che non coincide col presente vissuto. Il tempo, dunque, è il modo del divenire cosciente, dell’uscita da sé di ciò che è intensivamente rivolto su se stesso. È intensione che si fa estensione, tempo che si spazializza. Quando si amplia, tutto ciò che è intensivamente interno e “dentro di sé” ha nel tempo il modo del suo uscir fuori; il modo più genuino del suo venir fuori e avanti è così quello della funzione utopica, questa plus-formazione nel futuro. Anche qui compare l’affinità del tempo con l’elemento volontativo, impulsivo ed intensivo, in particolare con la volontà dell’uomo; il tempo è il più genuino modo dell’esserci dell’uomo. Dal lato della sua provvisorietà e inadeguatezza, ogni essere vivente può essere sottomesso alla «temporalità» e pagare il suo tributo al «tempo» (vale a dire, qui: a quel che è passeggero, al passato).109 Ma il tempo è molto più essenzialmente futuro; è infatti la categoria del cammino di quell’intensità del nocciolo che si muove anticipando, muovendo e modificando all’esterno (EM 104; it. p. 140).
Se l’inizio impulsivo e intensivo è dato nel tempo come presente frammentario e discontinuo, ora fermentante (gärendes Jetzt), attimo oscuro, la prosecuzione e lo sviluppo di quest’impeto desiderante avviene, invece, nell’estensione spazio-temporale, che richiede però una vasta differenziazione nei suoi piani, per poter rendere conto delle differenze materialmente determinate che esistono nel mondo. Il tempo differenziato, nel suo com108 Gioco di parole che Bloch fa in EM 85; it. 121, senza dimostrare razionalmente il concetto, ma lasciando, com’è suo stile, che siano le immagini a evocare il nesso logico del concetto illustrato. Augenblick, che in tedesco significa attimo, si può scomporre nelle due parole che lo compongono: Augen significa occhi e blick sguardo. Il termine attimo in tedesco contiene in sé il significato della locuzione italiana “batter d’occhi”. 109 Il tedesco di Bloch gioca qui sull’affinità etimologica tra Vergänglichkeit (transitorietà) e Vergangenheit (passato).
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plesso, come modo del cammino dell’uscir fuori (Die differenzierte Zeit insgesamt als Wegweise des Herausgehens) è il titolo di un paragrafo di Experimentum Mundi che ha una funzione centrale non solo in questo testo, ma nell’intera opera blochiana, perché prosegue e conclude l’indagine sulla Ungleichzeitigkeit (variamente tradotta con non–contemporaneità o inattualità), indagine iniziata già in Eredità del nostro tempo e approfondita nel saggio Differenziazioni nel concetto di progresso.110 Il termine tedesco Wegweise, al contrario della più faticosa traduzione italiana “modo del cammino”, ha un significato evocativo: richiama il termine Wegweiser, che significa segnale, indicazione stradale. È un richiamo voluto da Bloch. Il tempo come modalità del divenire è, infatti, tutt’altro che ininfluente su ciò che accade, è invece ciò che dà una direzione, che racchiude in sé intensità e orientamento. Per questo è «il più genuino modo dell’esserci dell’uomo», parole pressoché identiche a quelle che Bloch pronuncia in più luoghi per la Sehnsucht o per il desiderium. Il desiderio che si sviluppa e si esprime nel tempo, in un tempo che cerca compiutezza, è desiderio in cammino verso la speranza. «Il tempo può esserci realmente soltanto nella e con la trasformazione materiale, come modo del suo corso, del suo cammino (Laufweise, Wegweise), che si sviluppa e varia con lei. Rappresentando così la forma del tendere, la categoria di tempo è una delle categorie più vicine all’uomo, in quanto offre ancora un tratto di strada non solo al temere, ma soprattutto allo sperare» (EM 107; it. 143, trad. mod.). L’apertura alla speranza è innanzitutto apertura del tempo al futuro, che direziona l’accadere; per questo, più che per motivi ontologici, la categoria futuro ha assunto così grande spazio nella speculazione blochiana, in particolare nei suoi scritti più messianici, ovvero Il principio speranza, Spirito dell’utopia, Ateismo nel cristianesimo. È un aspetto fondante del suo pensiero, che tuttavia non va considerato isolatamente e ipostatizzato nella sua valenza ontologica, com’è stato spesso fatto dalla critica, ma declinato nel suo nesso con l’intensità di cui il tempo è carico, e nel suo nesso con lo spazio. «È bene avere tempo, è altrettanto bene e forse meglio che avere spazio, spazio per camminare e per dare figura. Infatti solo il tempo – come modo del cammino dell’espressione intensiva che avanza, cioè della trasformazione – permette anche di dar figura, di figurare dialetticamente. Esso fa 110 Cfr. Ernst Bloch, Differenzierungen im Begriff Fortschritt, in TE, pp. 118-147; trad. it. Differenziazioni nel concetto di progresso, in Id., Dialettica e speranza, a cura di Livio Sichirollo, Vallecchi Editore, Firenze 1967. Ha svolto un’ampia e dettagliata analisi di questo tema Remo Bodei in Id., Multiversum. Tempo e storia in E. Bloch, cit.
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dell’esterno spaziale, di per sé sempre disteso, ex-tensivo, un esterno per la tensione, per l’intensità» (EM 107; it. 143, trad. mod.). Se questa frase, nella sua perentorietà, sembra affermare che sia il tempo a riempire lo spazio di un’intensità che non gli appartiene, Bloch si corregge subito dopo, per affermare che non bisogna svalutare lo spazio, come fosse indipendente da ciò che avviene. Anche lo spazio ha, come il tempo, una struttura duplice e contraddittoria, ma in un modo non comparabile al processo temporale, che, essendo il modo della trasformazione, ha già in sé il divenire: lo spazio, invece, è forma dell’essere già divenuto, eppure reca in sé la «dura contraddizione» tra esteriorità (Äusserlichkeit) ed esternazione, o estrinsecazione (Äusserung), cioè la contraddizione tra estensione puramente metrica, in cui l’intensità è «distesa», ed estensione figurata, in cui l’intensità è distesa in modo positivo, verso figure storico-qualitative. «Ciò costituisce appunto il duplice carattere dello spazio: come esteriorità è esser-divenuto, come estrinsecazione dischiude un possibile essere figurato e riuscito. Da una parte questo duplice essere è distesa contiguità, dall’altra è contrazione che raccoglie e tiene insieme. Le ulteriori trasformazioni di questa duplice struttura di opposizione vengono in tal modo a dir questo: lo spazio è separante e collegante, è lo schema della disposizione e dell’unificazione, della divisibilità e dell’indivisibile “qualità figurativa”» (EM 113-14; it. 149-50). Ciò significa che lo spazio non è categoria della staticità, o del già divenuto, ma contiene in sé la possibilità di trasformazione dell’esteriorità in estrinsecazione, della quantità in qualità ed è quindi categoria aperta a uno sviluppo dialettico, con una sua specifica irrequietezza insita nella contraddizione che l’attraversa: può farsi «figura processuale dell’essere in cammino», così come lo è il tempo, accogliendo l’intensità di quest’ultimo nella propria estensione. È ciò che accade nel concetto d’orizzonte, in cui lo spazio, nella sua ampiezza, rivela un intreccio con la creatività contenuta nel «plus ultra del tempo» e indica in avanti (osservare l’orizzonte è infatti un’esperienza spaziale che favorisce l’abbandono alla fantasia, nella sua dimensione temporale – che essa riguardi prevalentemente il futuro è difficile a dirsi, ma senz’altro rinvia al rapporto con il cielo e dunque con ciò che ci trascende nel tempo e nello spazio);111 il tempo si inserisce poi ancor 111 Da un punto di vista escatologico, il compimento del tempo, il suo acquietarsi, consiste nella sua piena spazializzazione, come teorizza Moltmann soprattutto nell’ultima parte della sua riflessione teologica, in cui dedica sempre maggiore attenzione al tema dello spazio. Cfr. Jürgen Moltmann, Das Kommen Gottes, Chr. Kaiser, Gütersloh 1995, in particolare par. Die Erfüllung der Zeit, pp. 321-325 e cap. Das Ende des Raumes in der Gegenwart Gottes, pp. 325-338 [Il compimento
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più in profondità nello spazio quando si compie una prossimità e l’intreccio spazio-tempo, invece di estendersi come all’orizzonte, si condensa fino a concentrare il divenire in un punto (è ciò che accade in ogni esperienza di intimità, in cui il contatto profondo con una persona, o con un’opera d’arte, dà l’impressione che tempo e spazio si annullino mentre un’essenza intensiva si manifesta). Tempo e spazio si incontrano però anche, con diverse proporzioni tra estensione e intensità, ogniqualvolta l’uomo configura lo spazio che lo circonda secondo i propri bisogni e desideri, ed è quel che accade nella storia. «In tal senso Marx può ben dire che il tempo è lo spazio della storia, essendo spazio di un mondo in via di trasformazione e – il che non è affatto ovvio – passibile di trasformazione. Il tempo è quindi il coadiutore di una possibilità obiettivo-reale, anche di una possibilità cattiva, certo, ma per la sua origine, cioè provenendo dall’ora che si vuole ottenere positivamente (che vuole cioè compiersi, n.d.a.) è lo spazio del progresso verso il bene possibile» (EM 107; it. 143, trad. mod.). Ancora una volta, non è tanto il futuro a garantire il compimento del bene o a costituire il fondamento ontologico della sua possibilità obiettivo-reale, è piuttosto l’attimo desiderante, l’ora che racchiude il desiderio umano di bene, a connotare ontologicamente l’essere: l’attimo non è solamente anticipazione del bene futuro, quand’è compiuto, ma, nella sua irrequietezza e incompiutezza, è motore del tempo, tensione proiettata verso il compimento, desiderio che attraversa il tempo e introduce in esso interruzione e discontinuità. 5.2 Dialettica pluritemporale e plurispaziale In tutta l’opera blochiana ricorrono diverse analisi della discontinuità temporale introdotta dall’irruzione del nuovo, ma a partire da Eredità di questo tempo la discontinuità del tempo non è più intesa “solo” in senso messianico, come in Spirito dell’utopia, in cui l’attimo è portatore di novidel tempo e La fine dello spazio nella presenza di Dio in Id., Avvento di Dio, tr. it. di Dino Pezzetta, Queriniana, Brescia 1998, pp. 321-325 e pp. 325-337]. Dello stesso autore anche Im “Weitem Raum” der Trinität in J. Moltmann, Erfahrungen theologischen Denkens, Kaiser/Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 1999, pp. 266-290 [Nel “vasto spazio” della Trinità in J. Moltmann, Esperienze di pensiero teologico, tr. it. di C. Danna, Queriniana, Brescia 2001] e Gott und Raum in J. Moltmann, C. Rivuzumwami (Hg.), Wo ist Gott? Gottesräume – Lebensräume, Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 2002, pp. 29-41. Sul rovesciamento escatologico di cui l’orizzonte, punto di congiunzione tra cielo e terra, reca traccia, cfr. Daria Dibitonto, Dio nel mondo e il mondo in Dio. Jürgen Moltmann tra teologia e filosofia, Trauben, Torino 2007, pp. 89-99.
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tà potenzialmente salvifica, ma anche in senso storico-dialettico: l’analisi dei motivi storico-sociologici che hanno contribuito all’ascesa del nazismo si focalizza, infatti, sul concetto di non-contemporaneità (Ungleichzeitigkeit). Secondo Bloch, il fatto che né il comunismo né la socialdemocrazia riescano, negli anni ’30, a ottenere il consenso delle classi medie è dovuto al permanere, in queste classi, di modelli ormai passati rispetto agli allora attuali rapporti tra forze produttive e mezzi di produzione. Impiegati e contadini non avevano, infatti, accesso diretto alle forme di produzione industriali, come invece la borghesia e il proletariato, le uniche classi per Bloch «contemporanee» al proprio tempo. I contadini, da un lato, erano ancora legati al tempo immobile della natura, gli impiegati, dall’altro, imitavano lo stile della borghesia solo per compiacere i loro capi, ma senza far parte di quella classe. Il permanere di rapporti economici non capitalistici è quindi, in questa prospettiva, un’eredità del passato che testimonia una non-contemporaneità dialettica nella storia: poiché non esiste un progresso unico e univoco, nel tempo storico presente coesistono tempi storici qualitativamente differenti e non congruenti. In particolare, nel presente permangono sempre residui di passato non liquidato, non messo in opera e non saldato (unabgegolten), che proprio in quanto incompiuti riemergono. Sono questi residui a costituire i contenuti delle «contraddizioni non-contemporanee», che possono attivare sia il «pathos della rivoluzione» sia quello della reazione, o, trasposto al momento storico contemporaneo a Bloch, potevano sia allearsi alla causa marxista, che combatteva le contraddizioni contemporanee dovute all’accumulo di capitale, sia scontrarsi con essa, in nome di ideologie, come il nazismo, che offrivano una risposta più immediata al bisogno di distrazione dalla propria miseria e al mito del buon tempo antico. Il tentativo di Bloch – che ebbe poi scarso seguito112 – fu quello, tramite l’analisi condotta in questo testo, di coordinare l’azione del proletariato, classe übergleichzeitig (sovra-contemporanea, che stava, cioè, marxianamente sul versante anteriore del tempo, sul fronte del futuro), con le esigenze delle classi non-contemporanee, in nome di quell’eccedenza di cui ogni eredità del passato è carica nel presente: l’eccedenza del desiderio di 112 Erbschaft dieser Zeit uscì in Svizzera nel 1935, quando Bloch e con lui buona parte dell’intellighenzia tedesca di origine ebraica era già emigrata dalla Germania; il testo fu dunque quasi privo di un pubblico tedesco e fu pressoché ignorato dalla sinistra marxista, più schierata sulla linea lukacsiana, che perseguiva un ideale classico di ”eredità culturale”. Cfr. l’introduzione di Laura Boella, Il presente come storia (raccontata) in Ernst Bloch, Eredità del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1992, pp. IX-XXIII.
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un mondo compiuto, di un futuro che saldi i debiti passati e che redima il passato irredento.113 Alla molteplicità di livelli temporali che coesistono nelle rispettive distanze e che comportano anche dolorose contraddizioni, si affianca una molteplicità di strati spaziali: già nel saggio del 1928 Ludwigshafen-Mannheim, poi confluito in Eredità di questo tempo (1935), Bloch rileva come le due città, adiacenti e separate solo dal Reno, rappresentino due spazi qualitativamente differenti, non-contemporanei. La prima era, durante l’infanzia di Ernst, una neonata città industriale, sorta intorno alla BASF (Badische Anilin- und Sodafabrik) e abitata soprattutto da operai. La seconda è invece città dalle nobili origini, nata intorno al grande castello che ancora oggi costituisce il centro della città, sede della corte principesca fino al 1777, ai tempi di Bloch città residenziale ricca di stimoli culturali. Al giovane Ernst era sufficiente oltrepassare il ponte sul Reno per passare dalla città natale, Ludwigshafen, in cui «non c’è traccia di belle case», ma solo di «sporcizia della fabbrica», a Mannheim, che per molti abitanti della regione era «la domenica da cui si portavano a casa ogni sorta di beni culturali».114 Così ai due lati del fiume si trovano la città più attuale e quella più arcaica, ma entrambe irradiano un loro fascino e un loro significato nel contesto socioculturale tedesco di quel periodo, che Bloch cerca di evidenziare.115 Col testo Geographica, poi, l’indagine sulla stratificazione spaziale si amplia e si condensa in un testo che raccoglie molti saggi blochiani di descrizione di luoghi o di viaggi (1964), in cui la Verfremdung, l’estraneazione, si fa deviazione seducente e si trasforma così in esternazione, in Äußerung, esperienza qualitativa dello spazio nella sua molteplicità di significati. Già in Eredità di questo tempo Bloch teorizza una dialettica rivoluzionaria a molteplici livelli, pluritemporale e plurispaziale, che possa portare a un’alleanza tra diverse classi sociali, senza perdere il riferimento alla totalità proprio di una tendenza dialettica in sviluppo. La totalità dialettica a più livelli cui Bloch pensa dev’essere critica, in modo da smascherare
113 Bloch era solito citare, a questo proposito, come esempio positivo, la frase dei contadini sconfitti nella rivolta anabattista del 1525: «Sconfitti ce ne torniamo a casa, i nostri nipoti combatteranno meglio di noi». 114 Questa citazione è tratta invece da un saggio successivo a quello sopra citato: si tratta di un saggio del 1931, intitolato Piacevole ricordo di Mannheim. Fu poi inserito in Verfremdungen II (Geographica) nel 1964 e in Literarische Aufsätze nel 1965. Cfr. LA 405; tr. it. 11. 115 Se nel saggio Ludwigshafen-Mannheim è la prima delle due città a essere esplorata nel fascino della sua attualità, la seconda viene dipinta con toni nostalgici nel saggio citato nella nota precedente, Piacevole ricordo di Mannheim.
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residui idealistici e derivazioni mitiche, e non-contemplativa, per mettere realmente in moto il non-ancora-divenuto della storia. A questo fine è necessario rintracciare nel passato il futuro ancora possibile, le autentiche nebulose in grado di generare una stella: i Wunschbilder, le immagini di desiderio,116 cui Bloch dedicherà l’intero Principio speranza, per liberarne la potenza creativa. 5.3 Il multiversum Nel saggio Differenziazioni nel concetto di progresso (1955) la totalità a più livelli prende forma e nome di multiversum, termine che Bloch riprende da William James.117 Il multiversum ha una struttura spaziale e temporale elastica, sul modello geometrico di Riemann, che permette di cambiare le unità di misura dello spazio a seconda delle proprietà dell’oggetto misurato. Bloch propone di estendere questa concezione dello spazio al tempo: il tempo cronologico, in quanto indipendente dagli eventi e quindi ad essi indifferente, non è adatto a distinguere i diversi livelli temporali, né l’intensità e la densità vitale di cui il tempo vissuto ed esperito si fa portatore. Particolare pregnanza acquisisce questo discorso rispetto all’analisi delle diverse identità culturali, non comprensibili alla luce di un concetto univoco di spazio e di tempo, se non al costo di una loro necessaria riduzione a categorie inadeguate e necessariamente falsificanti. Se l’obiettivo polemico di Bloch era allora l’imperialismo colonialistico, oggi questa prospettiva ha come avversario ogni discorso identitario particolaristico ed escludente, ma anche ogni forma di “standardizzazione delle culture”, mentre può essere fecondamente messa in dialogo con quella che sta assumendo nome di «filosofia interculturale» e con il «polilogo» cui essa vuol dare voce.118 116 Cfr. EZ 342-343; it. 285-286. A proposito delle immagini di desiderio scrive qui Bloch: «Tali immagini diventeranno concretamente visibili solo dall’alto della coscienza in viaggio, dal punto di vista di quel totalmente nuovo che porta con sé l’«antichissimo» solo per dissolverlo ed ereditarlo in piena lucidità». 117 È questa la ricostruzione di Remo Bodei, perché Bloch non lo esplicita, in Remo Bodei, op. cit., pp. 102-103. 118 La locuzione «filosofia interculturale» è di Franz Martin Wimmer, professore all’Istituto di Filosofia dell’Università di Vienna, codirettore della rivista “Polylog. Zeitschrift für interkulturelles Philosophieren” dal 1998, che ha iniziato per primo, insieme ai colleghi Holenstein, Mall, Kimmerle, a usare il termine «interculturale» contrapponendolo ai prefissi «multi» e «trans», i quali rispettivamente parlano di una molteplicità per accumulo e quindi non necessariamente dialogante, oppure di qualcosa che valga al di là di tutte le culture prescindendo dal loro confronto. Il polilogo, a sua volta, è un procedimento di confronto tra
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In prospettiva utopica, infatti, il concetto di progresso non ha carattere necessario, né è processo univoco da imporre con la forza a chi vi si sottrae – tantomeno con la forza della rivoluzione socialista. Per Bloch il socialismo consiste piuttosto nella teoria e nella prassi di un progredire multiforme, mediato con le situazioni geografico-culturali di ciascuna società e ciascun popolo, in grado allo stesso tempo di conferire un’uniformità di tendenza, di cui oggi da più parti si lamenta l’assenza: il divenire e il realizzarsi progressivo dell’humanum, categoria che ciascuna società «variamente colora e variamente comprende». Rappresentare la storia universale come una successione di periodi è senza dubbio più facile che rappresentarla nella contemporaneità di luoghi e nella pluralità delle sue voci; questo concetto topografico esige infatti, per lo meno quando si presenta come storico-universale, un multiversum – anche nel tempo […]. L’operante multiversum delle culture è esso stesso espressione di questa verità, che la perfezione umana non è ancora stata raggiunta, ma ovunque venne cercata e sperimentata; così questo humanum sempre in divernire con le molte vie – tentativi e contributi per raggiungere se stesso – rappresenta la sola meta veramente consentita, cioè utopisticamente consentita. E quante più nazioni e culture nazionali apparterranno al campo socialista, tanto più ampia, più sicura e operante, e perciò comprensibile, diverrà l’unicità della meta per i multiversa nella nuova storia della cultura (TE 128-129; it. 20).
L’unicità della meta che Bloch qui prospetta non va intesa in senso idealistico, come totalità continua che, nonostante le mutevoli apparenze, finisce per non cambiar mai sostanzialmente, né in modo totalizzante, come uniformità a un modello culturale unico, costante, sempre uguale a se stesso. È invece anch’essa in divenire, il suo significato è sempre in via di definizione e la sua forza d’attrazione sta nella sua tendenza, nella sua intensità, piuttosto che nel suo contenuto non ancora divenuto e non ancora compiuto. Il multiversum indica dunque una molteplicità di realtà definite da spazi e tempi qualitativamente differenti, ciascuna delle quali resta però aperta alla trasformazione e quindi allo scambio dialettico come al reciproco condizionamento. Si potrebbe parlare qui di una molteplicità rizomatipunti di vista diversi e anche opposti nel quale si opera lo sforzo di reciproca comprensione attraverso il dialogo, ma prescindendo dalle “autorità assolute” cui ciascuna cultura, o punto di vista, intenderebbe affidarsi per argomentare la propria verità. Su questi temi cfr. l’intero testo di Alberto Pirni (a cura di), Logiche dell’alterità, Edizioni ETS, Pisa 2009, nel quale è inserito il colloquio di Anna Czajka con Wimmer a proposito di questo percorso teorico (pp. 173-186), ma anche una dettagliata e ragionata bibliografia su alterità, multiculturalismo e filosofia interculturale curata da Sara Mollicchi (pp. 187-225).
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ca, la cui forza propulsiva è, similmente a quanto hanno teorizzato Deleuze e Guattari, il desiderio, molteplicità che si distingue tuttavia dal «rizoma» deleuziano perché, seppur sia anch’esso un «sistema aperto», non pretende di prescindere dalla pianta cui il rizoma dà orgine: 119 il “versum” di questa molteplicità in divenire ha infatti un comune orientamento, l’humanum non ancora compiuto (la pianta ancora in crescita), ed è l’orientamento comune, dato dalla natura desiderante della materia che costituisce l’uomo stesso, a dare la possibilità di un senso da condividere, anche trasversalmente, tra culture diverse. Per Bloch il movimento politico delegato a tutelare lo sviluppo di questa trasformazione in direzione di ciò che è umano, nella sua complessità, è il socialismo marxista. Bloch non esita, infatti, a fare del suo messaggio filosofico una presa di posizione politica, e non vuole distinguere, marxianamente, tra interpretazione del senso e pratica politica della sua realizzazione. Questo è il punto in cui il suo discorso è maggiormente criticabile, oltre che storicamente smentito dai fatti e quindi decaduto. Operando questa identificazione, come ha opportunamente rilevato Pareyson in Verità e interpretazione, non è più possibile distinguere tra filosofia e ideologia, e la prima viene sacrificata inevitabilmente alla seconda.120 L’analisi del ruolo del desiderio nella filosofia blochiana è finalizzata proprio a mettere in rilievo il contenuto specificamente filosofico di un pensiero politicamente così schierato da rischiare di essere riducibile a quel che Pareyson definiva «pensiero espressivo», ovvero un pensiero che esprime niente più della propria epoca e che la concettualizza facendosene ritratto e strumento. Ben altrimenti, il pensiero rivelativo è, pareysonianamente, quello che attinge alla verità nella sua inesauribilità e ricchezza, senza pretendere di esaurirla 119 Il desiderio blochiano non è però certo pensato in termini «macchinici» – ovvero per piani di consistenza desoggettivati e desoggettivanti – come nella riflessione di Gilles Deleuze e Felix Guattari, bensì in termini pulsionali più vicini non solo al materialismo dialettico, ma anche alla psicoanalisi freudiana, da cui peraltro, forse proprio a causa di una certa base teorica comune, Bloch tiene a distinguersi. Cfr. infra, cap. III, par. 1.1 e 1.2. Sulla complessa concezione deleuziana del desiderio cfr. Nicolò Seggiaro, La chair et le pli. Merleau-Ponty, Deleuze e la multivocità dell’essere, Mimesis, Milano 2009, in particolare pp. 168-180. 120 Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 19944 (1971), pp. 9697, in cui Pareyson riconduce il marxismo a «pensiero espressivo» attraverso il suo carattere di «pragmaticità». Il marxismo blochiano, in particolare, è da Pareyson definito «marxismo profetico» e di esso dice che «la coscienza ideologica nei suoi culmini contiene non soltanto il riflesso della realtà storica, ma anche una ‘dotta speranza’, una coscienza non ancora chiara che anticipa criticamente il non ancora divenuto».
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in nessuna formulazione singola, anzi consapevole della limitatezza di ciascuna interpretazione, necessariamente storica e personale. «La rivelazione suppone un’inseparabilità di palesamento e di latenza, perché da un’oscurità così fonda da non contenere nemmeno un presagio di barlume non potrebbe prender le mosse il processo d’illuminazione, e in un’evidenza così patente da non accogliere nemmeno il più esiguo segreto andrebbe disperso il carattere sorgivo della verità come origine inesauribile».121 Bloch non intende la propria filosofia come forma di “rivelazione” o di “rapporto con la verità”, prospettiva che giudicherebbe idealistica, e tuttavia, come abbiamo visto, la dialettica del desiderio muove la latenza, l’oscurità della coscienza, a sporgersi sull’eccedenza luminosa del pensiero, o su quella talora accecante del desiderio stesso, e a oltrepassare ogni figura del possibile compimento umano con un movimento non così dissimile da quello che Pareyson individua come risultante dell’ulteriorità della verità, la «liberissima e produttiva possibilità d’incarnarsi in forme sempre nuove, con un’abbondanza inesauribile per cui (la verità) non cessa d’identificarsi di volta in volta con ciascuna di esse pur suscitandole e trascendendole tutte».122 L’unità che secondo Pareyson è garantita dall’esistenza di una verità inesauribile, in Bloch è garantita dall’invarianza della direzione del desiderio verso un bene futuro che è anche fonte di senso, perché regala una prospettiva. Il senso non è strettamente necessario per vivere, se si considera che la vita si afferma da sola, in quanto esistenza. La vita voluta, pensata e vissuta come ricerca di compimento, tuttavia – la vita umana nella sua molteplicità – non approda a nulla se non possiede un senso. «Senso è dunque prospettiva, in quanto prospettiva possibile nel mondo che dovrà mutare, in quanto ha di per sé in potenza un fine utile nella capacità di perfezionamento del mondo […]. Sempre con un significato non staticamente presente, ma che progredendo per mezzo degli uomini si può sviluppare – la via è cominciata, possa portare il viaggio a compimento» (TE 144; it. 35). La figura più rappresentativa, nel pensiero blochiano, di questo viaggio multivoco alla ricerca di compiutezza è il Faust di Goethe. Faust, figura maestra dell’irrequietezza, l’uomo erudito e geniale che vuole fare esperienza di ciò che conosce per poter finalmente sperimentare la pienezza che il desiderio irrefrenabilmente persegue, è da Bloch più volte presentata in parallelo con il viaggio dialettico della coscienza esposto nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Le due esperienze sono unificate dal motivo 121 Ivi, p. 88. 122 Ivi, p. 90.
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del viaggio della conoscenza, alla ricerca dell’attimo compiuto, da un lato, e della piena esperienza della coscienza di se stessa, dall’altro. Sono entrambi percorsi dello spirito alla ricerca di ciò che manca, ma la scommessa di Faust con Mefistofele – il «Verweile, doch, du bist so schön» (fermati, dunque, sei così bello) da pronunciare all’attimo compiuto – è in realtà il nucleo che illumina il viaggio: «l’essere per sé hegeliano viene illuminato e reso importante solo dallo sfondo della scommessa [faustiana, n.d.a.]. La forma dell’azione nel Faust si legittima hegelianamente, cioè attraverso il costante riferimento dialettico della coscienza al suo oggetto, attraverso il quale entrambi si determinano in maniera progressivamente più precisa, finché si sviluppa una identità di soggetto e oggetto. Ma la dialettica del nucleo della Fenomenologia si legittima solo con l’adempiersi dell’intensità e moralità faustiana dell’attimo intenzionato […]. Nel contenuto della scommessa di Faust, e solo in essa, è indicata la pertinente metafisica della prossimità, esattamente quella verso cui si dirigono gli oltrepassamenti di limiti» (PH 1214-15; it. 1183-84). Il viaggio del desiderio nel multiversum dell’esperienza ha in Faust l’emblema del nucleo intensivo e impulsivo materialmente incarnato nel più esigente degli umani desideri, mentre trova in Hegel la lotta contro la «falsa infinità» del desiderio e il suo adempimento nella raggiunta identità tra soggetto e oggetto. L’adempimento hegeliano, tuttavia, è un adempimento idealistico e quindi soltanto logico, teorico, spirituale, che trascura le condizioni materiali della propria realizzazione. È per questo che Bloch non si concentra sul passo della Fenomenologia dello Spirito, tanto importante per Marx, dedicato a “signoria e servitù”, in cui le due autocoscienze lottano per il proprio riconoscimento a partire da un diverso rapporto con il desiderio (Begierde): nel caso del signore il desiderio, o appetito, viene immediatamente soddisfatto e quindi, nel godimento, diventa pura negazione della cosa stessa, mentre nel caso del servo il desiderio tenuto a freno (gehemmte Begierde) consente di trasformare la cosa attraverso il lavoro, che rende la coscienza così indipendente da essere in grado di sfidare la morte e quindi il signore. Bloch riprende piuttosto l’accusa schellinghiana a Hegel di panlogismo, rimproverandogli l’assenza del fattore alogico, intensivo, materiale, ed è per questo, a mio parere, che non considera analiticamente il famoso passo su desiderio (Begierde), godimento e lavoro, in cui ancora una volta ciò che non è logico viene secondo lui occultato nel processo logico.123 Ciò che lo interessa maggiormente, invece, è il percorso della 123 In SO 203 (it. 209) Bloch scrive che Hegel parla una volta soltanto di «impulso dell’in-sé» (Trieb des Ansich), nella Scienza della logica (trad. it. di A. Moni, re-
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Fenomenologia nella sua lotta alla cattiva infinità del finito e il suo sbocco in un infinito che giunge a compimento. In Soggetto-Oggetto Bloch scrive che il legame di Hegel con Faust cessa «nella misura in cui il tendere di lui è così assolutamente incessante che non ha pace neppure in cielo» (SO 448, it. 469). In quell’eterna insoddisfazione faustiana è all’opera un demoniaco, Mefistofele, che viene sì anch’egli sconfitto e trasceso, ma solo dopo aver sperimentato l’inferno del dolore e della lontananza infinita dalla salvezza in cui «non resta più altro che impotente nostalgia (Sehnsucht); manca il tendere (Streben), la volontà, il fuoco della speranza» (SO 449, it. 470). Hegel, invece, identificando lo Spirito assoluto, la realizzazione dell’idea con il risultato finale della realtà, compie l’errore di credere di poter spegnere la Sehnsucht e lo Streben, il Trieb della materia, «con un libro»: ingenuità idealistica che Faust al contrario, nel suo viaggio che conferisce concretezza alla dialettica hegeliana, può superare con la sua «metafisica della prossimità». Lo sforzo della tensione del desiderio cerca infatti compimento, attraverso tutto il suo vagare, in ciò che è più vicino: nella prossimità, nella piccolezza dell’attimo. Il percorso della speranza, che prende seriamente le immagini di desiderio, ne libera le potenzialità creative e ne fa oggetto d’ispirazione per l’agire concreto, scopre infine come ultimo contenuto di desiderio la piccola pienezza dell’attimo, nella quale si manifestano forme compiute di goethiana memoria. La grandezza di Faust sembra infine consistere proprio nel non raggiungere la pienezza, ma nell’arrivare a un passo da essa: egli ha il presentimento, attraverso la sua esperienza di soddisfazione e godimento sempre oltrepassati, della possibilità di un compimento ancora ulteriore – per Bloch, quello di una comunità futura di uomini che condividano il mondo come loro patria, nel rispetto delle loro reciproche differenze. L’attimo compiuto, allora, nella compenetrazione del viaggio faustiano e della dialettica hegeliana, è la figura balenante del sommo bene come ultimo contenuto di desiderio che illumina il multiversum, senza svelarne il mistero (sia esso inteso pareysonianamente, come “segreto dell’origine”, o blochianamente, come contenuto attuale incompiuto) e senza cancellarne l’oscurità feconda.
vis. Di C. Cesa, Bari, Laterza 1968, vol. II, pp. 940-941) a proposito del problema del cominciamento, «ma questa designazione che non è tuttavia puramente logica viene subito nuovamente occultata nel processo logico». Begierde e Genuss della coscienza sono evidentemente per lui troppo logicizzati nel percorso dialettico dell’autocoscienza e non recano sufficientemente traccia del Trieb della materia.
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II DESIDERIO BLU: LA PROFONDITÀ DELL’ARTE A te, amore, questo giorno a te lo consacro. Nacque azzurro, con un’ala bianca in mezzo al cielo. Arrivò la luce all’immobilità dei cipressi. Gli esseri minuscoli andarono sul bordo di una foglia o verso la macchia di sole su una pietra. E il giorno rimane azzurro finché entrerà nella notte come un fiume e farà tremare l’ombra con le sue acque azzurre. […] E non ti accecherà l’oscurità o la luce smagliante: di questa pasta umana sono fatte le vite e questo pane dell’uomo mangeremo. E il nostro amore fatto di luce oscura e di ombra splendente sarà come questo giorno vincitore che entrerà come un fiume di chiarore a metà della notte. Pablo Neruda
Il desiderio, che nella sua dialettica di luce e ombra si rivela fonte di differenza tra pensiero ed essere, ma anche condizione della loro relazione, resta tuttavia – a questo punto dell’indagine – ancora piuttosto indeterminato nel suo contenuto. Sicuramente Bloch non ha trascurato d’indagare i molteplici contenuti possibili dei Wunschbilder, delle immagini di desiderio, rintracciandone la direzione comune e invariante nella speranza: questo il filo conduttore del grande capolavoro di Bloch, questa la «fe-
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nomenologia del desiderio»1 che Il principio speranza sviluppa e illustra. Non è tuttavia ripercorrendo i Wunschbilder nella loro articolazione e nella loro crescita, fino al desiderio ultimo del sommo bene, che mi propongo di indagare i contenuti del desiderio. Per far questo, sarebbe sufficiente rileggere Il principio speranza. Né intendo “smascherare” Bloch attraverso un’indagine sul desiderio volta a mostrare che qui risiede l’inganno del suo pensiero, come fa Hanna Gekle sulla scia di Adorno, sostenendo che Bloch avrebbe reso la semplice facoltà umana di desiderare una prova ontologica della realtà del desideratum.2 Mi propongo invece di ricercare i contenuti trasversali e sotterranei del desiderio, cioè di indagare le tonalità che esso assume nei diversi ambiti su cui Bloch non solo scrive, ma dai quali si lascia anche personalmente toccare e coinvolgere, prendendo posizioni esplicite e contestabili: l’arte, la psicoanalisi e la politica, la religione. Questo percorso, da un lato, offre saldezza e ricchezza di contenuti alla risposta, già articolata nel primo capitolo, alle critiche a Bloch rivolte; dall’altro permette di ereditare criticamente il cammino che il desiderio nel suo pensiero compie verso la luce della speranza. La tonalità che il desiderio assume nel discorso sull’arte è sicuramente il blu. Questo per motivi sia estrinseci sia intrinseci. Com’è noto, infatti, la formazione culturale e filosofica di Bloch avviene negli stessi anni, i primi decenni del Novecento, in cui si afferma, in Germania, la corrente culturale nota col dibattuto nome di “espressionismo”,3 e il suo primo libro, 1 2 3
Come anticipato nella nota 4 del cap. I, Hanna Gekle definisce così Il principio speranza. Cfr. Hanna Gekle, Wunsch und Wirklichkeit, cit., pp. 71-77. Ivi, pp. 30-31. Il dibattito sull’espressionismo e su quali fossero i caratteri propri di questa corrente artistica ha superato di gran lunga, com’è noto, la questione terminologica, quando negli anni ’30 l’arte espressionista è stata tra le principali correnti artistiche bandite dal regime nazista e classificata come arte degenerata. Il dibattito sull’espressionismo divenne, poi, negli anni ’37-’38, il fulcro del confronto all’interno del Fronte Popolare dissidente, i cui componenti erano per la maggior parte in esilio e avevano come principale organo di espressione la rivista moscovita Das Wort. Cfr. Hans-Jürgen Schmitt (Hrsg.), Die Expressionismusdebatte, 4. Aufl., Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983. Sull’espressionismo in generale, invece, cfr. AA.VV., Bilancio dell’espressionismo, Vallecchi, Firenze 1965; Ladislao Mittner, L’espressionismo, Laterza, Bari 1965 e Id., Storia della letteratura tedesca. Dal realismo alla sperimentazione, Tomo II, Einaudi, Torino 1971, pp. 1188-1294. Cfr. anche Paolo Chiarini, Antonella Gargano, La Berlino dell’espressionismo, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 9-11. Va notato che nei testi di critica letteraria e di storia dell’arte ben poca traccia si trova delle implicazioni politiche del dibattito degli anni ’30.
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lo Spirito dell’utopia del 1918, è fortemente impregnato dei contenuti di questa corrente, la quale aveva nel Der blaue Reiter (Il cavaliere azzurro) di Kandinsky e Marc il suo manifesto, e nel blau uno dei suoi temi e dei suoi colori ricorrenti. Il motivo estrinseco, dunque, dell’assunzione da parte del desiderio di questa tonalità nel suo pensiero, è che esso prende forma e colore in una temperie culturale di cui il blu è uno dei simboli. C’è però anche un motivo intrinseco, più essenziale. In Spirito dell’utopia Bloch assume il blu come colore in cui luce e oscurità s’incontrano e si fondono, o meglio, come il colore attraverso cui l’oscurità della latenza che è in noi, la nostra profondità, si esprime trasformandosi in luce. Nel blu pulsa la nostra oscurità, che urge in noi come «nel cuore degli oggetti»; il blu è il colore della nostra latenza, del nostro oblio, ma anche della nostra maschera, cioè della forma in cui la nostra latenza si esprime e si estrinseca (sich äußert): per questo si tratta di «costruire e costruirsi nel blu», espressione con cui Bloch chiude l’Intenzione posta a premessa di Spirito dell’utopia. Il blu è il colore della Sehnsucht che sa farsi espressione dirompente, che sa varcare soglie metafisiche e sa cercare «il vero e il reale là dove scompare il semplice dato» (GU 13; it. 6). E questo avviene, in forma suprema per l’umanità, nell’arte. Qui riecheggiano, quindi, le parole di Kandinsky sul blu, scritte ne Lo spirituale dell’arte del 1910: «Nel blu troviamo la profondità […]. La vocazione del blu alla profondità è così forte, che proprio nelle gradazioni più profonde diviene più intensa e intima. Più il blu è profondo e più richiama l’idea d’infinito, suscitando il desiderio della purezza e del soprannaturale. È il colore del cielo, come ce lo immaginiamo appunto quando sentiamo la parola “cielo”»4. Il desiderio blu è allora desiderio che acquisisce ed esprime nell’arte questi caratteri: la profondità, l’aspirazione all’infinito, alla purezza, alla dimensione spirituale che oltrepassa la datità dei fatti. E come il cielo, può variare d’intensità, profondità e significato, a seconda di quanta luce lo pervade. Preferisco tradurre blau con blu invece che col più tradizionale “azzurro”, non solo per la sua maggiore corrispondenza con la lingua tedesca,5 ma anche perché l’idea di blu sembra esprimere meglio quella dimensione di profondità che Kandinsky descrive come la più propria del blau. Se è vero che la sua affermazione «il blu è il colore tipico del cielo» giustifica la traduzione
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Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 1989, p. 63. Essa non contempla, peraltro, una corrispondente differenza tra blu e azzurro. Das Azur è infatti sostantivo di derivazione francese, che indica in modo specifico il blu del cielo, raramente usato.
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tradizionale del blau espressionista con azzurro, è però vero che egli subito dopo aggiunge che, quando tende ai colori più chiari, il blu «diventa invece indifferente e distante, come un cielo altissimo». Inoltre, se si pensa al blu tipico di Franz Marc, un blu caldo e brillante, sicuramente profondo, piuttosto che a Kandinsky, nel quale l’uso del colore blu è più variegato e complesso, il termine “azzurro” appare manifestamente inadeguato. C’è infine un’altra dimensione da sottolineare in questa indagine sul desiderio blu: se il desiderio è ciò che raffigura, ciò che dipinge in anticipo nell’immaginazione (vormalt) quel che l’uomo anela, come descritto nel primo capitolo, nell’atto del desiderare avrà allora luogo un gesto, quello del dipingere, in cui fantasia e pensiero s’incontrano. Il desiderio, concepito come gesto del dipingere nell’immaginazione, si rivela essere, quindi, la radice comune di arte e filosofia: è impulso a esistere che si trasforma, grazie alla mediazione con la realtà da parte del pensiero, in impulso a creare una realtà nuova. 1. Costruire nel blu e arte figurativa 1.1 Espressionismo e filosofia dell’arte L’espressionismo è stato una corrente artistica dirompente; l’arte figurativa ha assunto qui i caratteri della ribellione, dell’innovazione e dell’anticipazione di una nuova realtà spirituale, che ha voluto affermarsi attraverso la creatività e l’espressività dei singoli. Se è vano tentare qui una definizione precisa di questa corrente artistica, non certo l’unica rappresentante dell’“arte nuova” affermatasi nel primo Novecento, è però utile tratteggiarne alcuni caratteri specifici. Tra questi, è di particolare rilievo la tendenza espressionista a mettere in contatto forme artistiche diverse e a fonderne le strutture, dando l’avvio a quella modalità espressiva che tanta parte ancora occupa nell’arte contemporanea: la contaminazione. All’inizio del Novecento questa tensione “contaminatrice” si concretizzò in un’attenzione trasversale alle diverse arti (pittura, letteratura, musica, ma anche teatro e cinema) da parte di alcuni significativi artisti (tra cui Kokoschka, Kandinsky, Schönberg) e nella tendenza a farle convergere in un Gesamtkunstwerk, in un’opera d’arte totale, che fosse espressione dell’interiorità dell’artista in una dinamica sintesi tra facoltà percettive ed espressive differenti. L’espressionismo si caratterizza inoltre, alle sue origini, per la forte contrapposizione all’impressionismo nel campo della pittura: il gruppo Die Brücke (il Ponte, Dresda, 1905), che si propone di fare precisamente da ponte
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tra le nuove avanguardie artistiche, e il successivo Blaue Reiter (il Cavaliere azzurro, Monaco, 1911), pur se composti da artisti diversi e pur se portatori di istanze differenti, sono accomunati dalla ricerca di strumenti espressivi dirompenti, anti-accademici, e dall’obiettivo di riportare sulla tela, mediante un uso del colore e della linea sempre più libero e slegato dalla realtà, la disparità tra lacerante realtà esteriore e fervida vita interiore dell’artista. L’urlo e la geometria sono, secondo Ladislao Mittner, i tratti caratteristici di questa corrente, tratti apparentemente contrapposti, ma in realtà per lo più sintetizzati nelle singole opere, anche con esiti volutamente contrastanti e paradossali. Il carattere lancinante della realtà narrata, sia essa la realtà dello spirito, del mondo circostante o dell’uomo, è raccontato con l’uso di colori forti, sempre meno corrispondenti alla realtà esteriore e sempre più utilizzati come valori a sé stanti: l’espressione dell’interiorità dell’artista corrisponde quindi alla creazione di una realtà assurda nell’insieme non meno che nei particolari, ma non arbitraria, perché inserita in strutture geometriche tese a rappresentare l’essenzializzazione e l’assolutizzazione delle percezioni; l’obiettivo è quello di creare, da un lato, un nuovo ordine più affine all’interiorità dell’uomo, e di raggiungere, dall’altro, una nuova purezza espressiva.6 6
Questi caratteri si affermano quasi parallelamente sia nella pittura che nella poesia, sia nel teatro che nella musica, come emerge dalle già citate analisi di Ladislao Mittner. Kandinsky, autore, nel 1910, dei primi quadri astratti (Acquerello astratto, Improvvisazione 7), è il teorico dell’arte come espressione della «necessità interiore», che ricerca «l’efficace contatto con l’anima» di forme, colori e oggetti. Egli pone l’esigenza di una fusione tra «forma disegnata» e «forma colorata», concentrando la sua attenzione sui rapporti tra i centri di forza delle sue opere, nelle quali figure embrionali di colori diversi rivestono corrispondenti funzioni spirituali ed emozionali; inserisce anche vibrazioni e tensioni musicali nei suoi quadri, trovando un compagno in Schönberg (punto di riferimento, con la sua Harmonielehre (1911), anche per Bloch) riguardo all’idea di creare un nuovo Farbklangbild, un’immagine di suono colorato. Per Kandinsky l’esperimento si concretizza nella stesura del testo teatrale Il suono giallo nel 1912 e nella composizione omonima del 1916. Anche nella poesia, però, si afferma qualcosa di analogo: una progressiva essenzializzazione della parola, l’uso di immagini e metafore sempre più distanti dalla realtà, ma dirompenti, anche attraverso il contrasto di colore. Per esempio, nella poesia Der ewige Tag di Heym, in mezzo al blu del cielo meridiano la sfera infuocata del sole s’impone con tanta violenza che il rosso diventa la tinta dominante di quel cielo, senza perciò perdere il contrasto di colore: l’ultimo verso recita “Tänzer tanzt im blauen Mittagsrot” (danza il danzatore nel rosso meridiano blu). Infine, queste istanze si esprimono sia nel teatro, a partire dai drammi di Kokoschka e di Barlach (rispettivamente autori, nel 1907, di Assassinio, speranza delle donne e di Il giorno morto), che danno l’avvio a una ricca stagione teatrale espres-
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In questa temperie culturale si forma il giovane Bloch, che negli anni della prima guerra mondiale, precisamente tra il ’15 e il ’17, scrive Lo spirito dell’utopia: l’antimilitarismo, che lo aveva allontanato da Simmel e quindi da Berlino già nel 1911, si coniuga con le istanze espressioniste (molti artisti erano caduti in guerra) e con l’entusiasmo per la riuscita rivoluzione d’ottobre. Il libro nasce inizialmente come «Nebenwerk» (opera parallela) da affiancare alla preparazione di un’opera più sistematica sulla logica, e viene più volte definito da Bloch un libro «Sturm und Drang».7 Il testo non nasce dunque come opera filosofica strictu senso, ma come opera dirompente e trasversale, che mira a delineare e a unificare lo spirito del tempo in un percorso filosofico attraverso l’utopia del non-ancora-conscio e del non-ancora-compiuto; percorso che inizia con lo scandaglio della dimensione utopica nell’arte figurativa e nella musica,8 per estendersi poi alla dimensione mistica, metafisica ed escatologica nell’ultima parte. L’espressionismo di cui il testo è pervaso non è quindi soltanto assunto a livello stilistico, com’è stato affermato,9 ma è piuttosto un’impronta culturale sostanziale che trova, con Bloch, l’apertura a una dimensione filosofica che ne trascende i caratteri estetico-stilistici.10 La filosofia blochiana, infatti, acquisisce dallo slancio espressionista un vigore nuovo e un carattere del tutto originale: non più disciplina che pone criticamente i fondamenti del sapere, come con Kant e con Hegel, ma, ormai dopo Nietzsche, sguardo vivificante e salvifico sulla realtà, della quale essa in-
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sionista (drammaturghi di rilievo furono Kaiser, Toller, Sorge), sia nel cinema, che proprio in questi anni si qualifica come cinema d’arte e che garantì diffusione mondiale all’espressionismo tedesco con alcuni grandi film dell’incubo, come Il gabinetto del dottor Caligaris di Robert Wiene, del 1920, Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau, del 1922, o i famosi film di Fritz Lang, Metropolis del 1927 e M, il mostro di Dusseldorf del 1931. Cfr. Peter Zudeieck, Der Hintern des Teufels. Ernst Blochs Leben und Werk, cit., pp. 48-9 e 53. Cfr. anche Contestuale allo Spirito dell’utopia (Intervista con Ernst Bloch a Tubinga, il 1° settembre 1974, in occasione dell’edizione italiana dello Spirito dell’utopia) in GU it. p. LII. Quello che resta dei manoscritti preparatori all’opera di logica è invece oggi raccolto in Ernst Bloch, Logos der Materie, cit. Nella prima edizione del Geist der Utopie è contenuto un capitolo, L’eroe comico, nel quale si trova una teoria del dramma che può essere estesa a teoria della letteratura, come indica anche Gianni Vattimo in Id., Arte e utopia, Corso di estetica 1971-72, Litografia Artigiana M. & S., Torino 1972, p. 52. Hans Heinz Holz, Logos spermatikos. Ernst Bloch Philosophie der unfertigen Welt, Luchterhand Verlag, Darmstadt und Neuwied 1975, p. 39. Paolo Pullega afferma che lo stile espressionista è, nel Geist der Utopie, il “vero contentuto filosofico”. Cfr. Id., Ernst Bloch: sette temi per una dialettica rovesciata, Cappelli editore, Bologna 1984, p. 8.
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daga e unifica le intrinseche potenzialità utopiche che in pittura, musica e letteratura preappaiono (vor-scheinen). Certamente quest’originale lettura del fenomeno espressionista è possibile alla luce di una prospettiva messianica che all’espressionismo appartiene solo in parte: molti artisti assumono, infatti, spesso toni grotteschi, contestatori e anche acutamente pessimisti.11 Qui si esplica però ancora una volta la forza – di matrice hegeliana, poiché anche qui si tratta di volgere in positivo il negativo – del pensiero utopico: lo sprofondare nell’oscurità che l’espressionismo denuncia anche violentemente significa accogliere con serietà e profondità questa denuncia e farne espressione della speranza che nell’urlo geometrico e nell’astrazione pulsante trova voce. Quest’impostazione porta Bloch, proprio a partire da Spirito dell’utopia, a una inevitabile presa di distanza da Lukács, il quale già nel suo libro Teoria del romanzo (1915), poi più decisamente in altri saggi successivi,12 individua nel neoclassicismo la forma d’arte che più corrisponde al progresso spirituale, liberato dall’estraneazione capitalista, mentre l’espressionismo non sarebbe altro che l’espressione artistica della decadenza borghese, destinato a terminare con essa. Bloch, invece, fin da Spirito dell’utopia (1918) riconosce all’espressionismo un rilievo teorico che ne oltrepassa la dimensione storico-estetica. Lo ribadirà nell’edizione ampliata di Erbschaft dieser Zeit (1962),13 in cui raccoglie alcuni ulteriori saggi scritti tra il 1937 e il 1938 in occasione dell’acceso dibattito sull’espressionismo:14 «quanto di grande ha prodotto l’espressionismo ha tutto un altro carattere e i suoi segni – segni reali e segni di un “reale” (umano) – esercitano su di noi un influsso ben diverso. Non si tratta più qui della decadenza per amore della decadenza, ma di una tempesta che attraversa questo mondo per far posto alle immagini di un mondo più autentico» (EZ 260, it. 216).
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Non mancano toni utopici in Franz Werfel, autore di poesie come Promessa, Noi siamo o L’un l’altro, o in Ernst Stadler (Dialogo) e in Johannes Robert Becher (Caduta e trionfo), ma a questi fanno da contrappeso i toni gravi e apocalittici di Georg Heym e August Stramm e quelli tragici e pessimisti di Georg Trakl. Cfr. György Lukács, Große und Verfall des Expressionismus, in Id., Werke, Bd. 4, Probleme des Realismus I, Luchterhand, Neuwied 1971, pp. 109-149; Id., Erzählen und Beschreiben, in Ivi, pp. 197-242; Id., Das Ideal des harmonischen Menschen in der bürgerlichen Ästhetik, in Ivi, pp. 299-311; Id., Marx und das Problem des ideologischen Verfalls, in Ivi, pp. 243-298. L’edizione originale è del 1935. I saggi sull’espressionismo sono tre: L’espressionismo, oggi (1937), Discussioni sull’espressionismo (1938) e Ancora il problema dell’espressionismo (1940). EZ 255-278, it. 213-232.
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Bloch sembra ereditare in modo più organico e innovativo di Lukács la filosofia dell’arte hegeliana. Certamente Hegel individua nell’arte classica «il libero, adeguato prendere forma dell’idea, secondo il suo concetto, nella forma a essa peculiare e con la quale essa può pervenire a libera, completa armonia»,15 e Lukács imposta la sua teoria estetica assumendo questa riflessione come discriminante di ciò che si può definire arte; Hegel, però, non si ferma all’arte classica come modello di perfezione artistica, ma descrive il passaggio all’arte romantica in termini che risultano illuminanti per tutto lo sviluppo dell’arte successiva: sviluppi che Lukács fatica a comprendere. Questa elevazione dello spirito a sé, con cui egli [lo spirito, n.d.a.] acquisisce in se stesso la sua oggettività, che dovrebbe altrimenti cercare nell’esteriore e nel sensibile dell’esistenza, e con cui si sente e sa in questa unità con sé, costituisce il principio fondamentale dell’arte romantica. Si lega direttamente a ciò la determinazione necessaria che, per quest’ultima fase dell’arte, la bellezza dell’ideale classico, e quindi la bellezza nella sua forma più propria e nel suo contenuto più appropriato, non è più la cosa ultima. Infatti nella fase dell’arte romantica lo spirito sa che la sua verità non consiste nell’immergersi nella corporeità; al contrario egli diviene certo della sua verità solo per il fatto che dall’esterno si riporta nella sua intimità con sé e pone la realtà esterna come un’esistenza a lui non adeguata. Se quindi questo nuovo contenuto pur possiede in sé il compito di farsi bello, per lui tuttavia la bellezza, nel senso fin qui incontrato, rimane qualcosa di subordinato e diviene la bellezza spirituale dell’in sé e per sé interno in quanto soggettività spirituale in sé infinita.16
Con l’arte romantica, insegna Hegel, la ricerca della bellezza non avviene più nella forma esteriore ma nella spiritualità interiore, e l’espressionismo non fa che radicalizzare questa concentrazione sull’interiorità, la quale infine merita di essere espressa per quel che è, indipendentemente sia dalla sua bellezza sia dalla sua deformità. Se si accetta la definizione hegeliana di romanticismo («il vero contenuto del romantico è l’interiorità assoluta, mentre la forma corrispondente è la soggettività spirituale in quanto coglie la propria autonomia e libertà»), si può coerentemente affermare che l’espressionismo rappresenta un ulteriore sviluppo di que-
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Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, 3. Aufl., in Id., Samtliche Werke: Jubiläumsausgabe in zwanzig Banden, Band 12, Frommann, Stuttgart 1953, p. 109; trad. it. Estetica, a cura di Nicolao Merker, Einaudi, Torino 1997, p. 90. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Vorlesungen..., cit., pp. 582-83 ; trad. it. cit., p. 128-29.
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sto processo:17 l’interiorità assoluta, sciolta da ogni vincolo esterno (absoluta), scopre di non aver più nulla su cui esercitare la propria autonomia e libertà, e di essere quindi fragile, lacera ed esposta a un’esteriorità che non le corrisponde. L’arte allora, da un lato, si presenta come unica risorsa per ricreare una realtà esteriore più adeguata alla realtà interiore; dall’altro, assume un significato nuovo rispetto a quello consolidatosi tra Settecento e Ottocento: il gesto artistico diventa un fatto sociale, una presa di posizione critica rispetto alla società e alla sua tradizione, rinunciando in buona parte al suo carattere ornamentale. Bloch coniuga le due dimensioni, ma inserendole in un processo di senso più ampio, che il pensiero indaga: in questo modo la filosofia non abdica al suo ruolo in favore dell’arte, a causa di una sempre più marcata frantumazione dell’io, ma si fa carico della forte esigenza interiore di «incontro con il sé» (Selbstbegegnung), ne interpreta il significato senza volerne svelare il mistero18 e indica una direzione da seguire in vista di quest’ardua e utopica meta. Alla filosofia, in questa prospettiva, spetta il compito di comprendere il percorso dello spirito soggettivo, che con l’arte romantica aveva ricercato in sé la bellezza e che con la filosofia hegeliana si era eretto a fondatore del «reale razionale». Dopo le critiche a Hegel di Schelling, Feuerbach, Marx e dopo l’opera decostruttiva di Nietzsche, l’arte espressionista sperimenta un nuovo rapporto con il reale: un’irruzione disturbante, che nel dare un’impronta personale alla denuncia della negatività esteriore o all’espressione dell’oscurità interiore trascende l’esistente e allude a una realtà più autentica. L’incontro con il sé che può avvenire nell’arte figurativa non corrisponde certo al riconoscimento hegeliano, che con moto circolare torna a sé dopo aver tolto e superato la propria estraniazione: nell’opera d’arte possiamo piuttosto vedere l’anticipazione della nostra fisionomia segreta e non ancora realizzata (il nostro «monogramma interiore»). Per questo non di riconoscimento, ma di incontro con il sé si tratta: l’anticipazione di una forma in cui l’io non solo si specchia, ma si può sentire a casa, comporta, in prospettiva utopica, il riconoscimento sia della propria incompiutezza, sia 17 18
Mette in rilievo la continuità tra romanticismo ed espressionismo anche Carlo Migliaccio, Musica e utopia. La filosofia della musica di Ernst Bloch, Guerini e Associati, Milano 1995, pp. 41-43. Il mistero è il titolo del breve quarto capitolo di Spirito dell’utopia, che introduce al corposo capitolo quinto: La forma del problema inconstruibile. Come emerge da queste pagine, mantenere il mistero è fondamentale, per il pensiero utopico, quanto avere una meta: il finalismo utopico esclude così da sé ogni carattere di deterministica necessità.
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del sovrappiù di cui la soggettività è portatrice: la capacità di oltrepassare e ultrafigurare (fortbilden). L’identità, quindi, non è a disposizione dell’uomo se non nella coscienza del desiderio di essa e nella sua prefigurazione. 1.2 Kunstwollen come desiderio d’arte Grazie all’ampiezza d’orizzonte dello sguardo filosofico Bloch può condurre un’analisi critica dell’arte figurativa che dia all’antiaccademismo espressionista, da lui condiviso, un altro peso teorico. Egli conduce, infatti, una serrata critica all’uso dello “stile”, inteso come abilità di produrre forme artistiche corrispondenti a determinati canoni formali consolidati: l’arte applicata che si conforma all’uno o all’altro stile si riduce a riproduzione mimetica di modelli già prefissati, in vista della soddisfazione e della tranquillizzazione del fruitore. Non è certo quest’arte mimetica e seriale, sempre più diffusa con lo sviluppo della produzione industriale anche in ambito culturale, a offrire l’occasione di incontro con il sé. Il significato dell’arte si fonda invece sul carattere di ornamento che la soggettività imprime agli oggetti che crea e produce, dando voce e forma alla propria individualità. «Non si volle mai nulla che non fosse vedere apertamente se stessi. Così fin dall’inizio il legno fu intagliato e lavorato. E in pochi tratti essenziali, talvolta già tortuosi, senza bisogno di particolare talento, si fissava come per incantesimo ciò che turbava l’uomo o l’opprimeva interiormente» (GU 29; it. 29). Inizia così quella parte de La produzione dell’ornamento, il capitolo di Spirito dell’utopia dedicato all’arte figurativa, che tratta i caratteri fondamentali dell’“impulso artistico” (Kunstwollen).19 Il termine è di Alois Riegl (1858-1905) che, nel suo Spätromische Kunstindustrie (1901), distingue nell’uomo la passiva percezione sensoriale dall’attiva volontà che «aspira a conformare il mondo così come [l’uomo] se lo desidera»;20 il Kunstwollen – la volontà di fare arte – è l’intenzione formale unitaria che muove e lega fra loro le manifestazioni di un certo stile realizzatosi nella
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Scelgo la traduzione meno letterale di Kunstwollen proposta da Gianni Vattimo in Arte e utopia, cit., p. 66, invece di quella più letterale impiegata da Coppellotti nella traduzione di Spirito dell’utopia (volere artistico). Condivido, infatti, le motivazioni addotte da Vattimo: «Traduciamo con “impulso artistico” il termine tedesco Kunstwollen, che sarebbe più letteralmente reso da “intenzione artistica” o “volontà d’arte”; per Bloch, però, l’accento non cade tanto sulla varietà delle intenzioni artistiche, quanto sull’unità della spinta che muove l’uomo a fare arte e che, poi, assume varie fisionomie stilistiche». Questa traduzione permette inoltre di mettere in maggiore rilievo il ruolo del desiderio che muove l’uomo. Alois Riegl, Arte tardoromana, Einaudi, Torino 1968, p. 272.
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storia dell’arte: poiché si connette alla generale visione del mondo di una determinata epoca, ha la funzione di regolare le relazioni dell’uomo con il mondo percepito dai suoi sensi. Bloch riprende il termine anche in questo senso originario, nella sua indagine sulle forme fondamentali che esso assume nella storia dell’arte, ma non ne fa un’essenza, bensì una tendenza, una tensione verso qualcosa che manca, un desiderio d’arte, in cui l’uomo si specchia insieme alla società in cui vive. Un breve paragrafo introduttivo sui caratteri dell’impulso artistico condensa in altra forma, nella seconda edizione di Spirito dell’utopia, quei passaggi fondamentali della tendenza (Streben) creativa che, nella prima edizione, costituivano il sistema del Kunstwollen.21 Il primo momento era quello del voler definire se stessi: «non si volle mai nulla che non fosse il vedere se stessi». Il secondo era la volontà di forma in cui il sé cerca se stesso nel materiale: «il legno fu intagliato e lavorato. E in pochi tratti essenziali, talvolta già tortuosi, senza bisogno di particolare talento, si fissava come per incantesimo ciò che turbava l’uomo o l’opprimeva interiormente». Il terzo era il momento in cui il materiale prende il sopravvento sull’Io e la forma si fa costruzione inorganica astratta: «nelle prime opere funzionali, adeguate al materiale, si abbandonò il cammino che dall’uomo porta a ciò che appartiene all’uomo; nelle opere figurative si fa strada la pietra, la chiarezza strutturale, dunque l’egizio in fase iniziale, il ritorno del naturale». Il quarto momento, «il più importante, se si cerca anche nell’immagine la profondità» (GU1 37, corsivo mio), nella prima edizione era l’organico, il momento della libertà contro quello della legge, in cui la vita dell’uomo prende il sopravvento e costruisce la forma organica astratta; momento che, nella seconda edizione, segue le parti, ampliate, sul greco e sull’egizio, e corrisponde al gotico.22 Bloch probabilmente non riprende l’intero sistema dell’impulso artistico nella seconda edizione di Spirito dell’utopia sia per dare più rilievo all’unità del Kunstwollen, sia perché ne distingue più nettamente i momenti in greco, egizio e gotico, ampliando l’analisi del loro significato rispetto alla prima edizione. Non va peraltro perso, in questo modo, il carattere 21 22
Cfr. GU1 37-43 e GU 29-30; it. 30. Il riferimento all’“organico” come modello di sviluppo della forma artistica, che emerge in questa parte di Spirito dell’utopia, è sicuramente un’eredità simmeliana, anche se Bloch, che già nel 1911 aveva maturato il distacco dal circolo di Simmel, ne svolge il significato in modo da attenuare il contrasto vita – forme, contrariamente all’impostazione del suo antico maestro. Cfr. Georg Simmel, Lebenanschauung. Vier metaphysische Kapitel, Berlin 1922; trad. it. Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, Napoli 1997.
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ambiguo dell’impulso, che espone l’apparenza artistica alla caduta nell’illusione: il Kunstwollen, infatti, si caratterizza come tendenza unitaria a vedere se stessi fuori di sé, ma anche a riconoscere la propria fisionomia fissata ed eternizzata in un materiale esterno e duraturo. Bloch lo definisce anche volontà di maschera, riferendosi, com’era d’uso in quel periodo, alle maschere cultuali dei popoli africani, che recano traccia della «volontà magica» di elevarsi verso l’alto.23 Parlare di volontà di maschera è per Bloch un modo di precisare la nozione di ornamento, che ha due caratteri fondamentali: da un lato, il bisogno di esprimersi per riconoscersi; dall’altro, il desiderio di sfuggire alla morte, imprimendo la propria fisionomia su un materiale stabile. La maschera, però, si espone al rischio di diventare mistificazione, illusione e finzione: o perché, da un lato, come nell’arte applicata, corre il rischio di conformarsi a uno stile prefissato, dunque non autenticamente soggettivo né espressivo (di cui l’esempio limite è il Biedermeier), o perché, dall’altro, le forme artistiche, come nell’impulso artistico greco o in quello egizio, per essere riconoscibili tendono a farsi stabili, fisse e definitive, finendo per disconoscere la mutabilità e l’eterno divenire della vita. Se il Kunstwollen non ha il carattere di un’essenza, ma è tendenza, lo stesso vale per i suoi momenti, i tre stili nei quali secondo Bloch si riassumono le forme in cui l’impulso artistico si concretizza storicamente: greco, egizio e gotico. Sono stili connotati non dal punto di vista storico, ma da quello teorico, com’è evidente dalla loro non storica successione. Se è vero che questa distinzione richiama quella hegeliana tra i momenti dell’arte (simbolico, classico, romantico),24 se ne distanzia però profondamente, rifacendosi piuttosto al Nietzsche de La nascita della tragedia, soprattutto nelle considerazioni sullo stile greco. Lo stile greco è quello dell’arte classica, non solo greca ma anche rinascimentale. È arte dell’illusione, che tutela l’uomo greco dal tragico che lo turba: il tanto celebrato equilibrio dell’arte greca è equilibrio artificiale e superficiale tra vita e rigidezza della forma. Per potersi fissare nella forma, 23
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È noto che agli inizi del Novecento grande influenza sull’arte d’avanguardia ebbero gli oggetti d’arte africana, legati alle tradizioni cultuali dei rispettivi popoli, in quel periodo ancora considerati “primitivi”, pur se con un certo rispetto per questa condizione: trovarsi in uno stadio iniziale dello sviluppo umano significava, infatti, aver la possibilità di un accesso più diretto all’autenticità espressiva. Idea mitologica non del tutto superata, poiché l’Africa è tutt’oggi condannata a essere l’emblema del “sottosviluppo”, così come il luogo dove occidentali spaesati e insoddisfatti vanno alla ricerca di una diversa “autenticità”. Lo segnala anche Vattimo, Arte e utopia, cit., pp. 68-69.
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la vita rinuncia alla propria mutevolezza e alla propria profondità: «l’uomo greco è riuscito a fuggire, si è preparato un mondo in cui vivere ed in cui sottrarsi per sempre ai terrori del caos, ma anche alla serietà della decisione» (GU 31; it. 31). Quel che, però, agisce in ogni stile quand’esso si acquieta, ovvero quando tende a farsi essenza e a perdere il carattere di tendenza («nel caso serio della sua calma ritrovata, della quiete»), è la rigidità dell’egizio, il suo «voler-diventare come pietra» (Ägyptisch Werdenwollen wie Stein), perché il fattore dominante dell’impulso artistico risiede nel voler «costruire». Per costruire è sì necessario dare forma seguendo regole precise, ma nello stile egizio la rigidità del materiale prende il sopravvento sull’io che le dà forma e si configura come «dominio totale della natura inorganica sulla vita. Anche qui l’uomo guarda davanti a sé, ma si vede morire e si nasconde nel sepolcro» (GU 33; it. 32). L’arte sacra egizia sfugge all’«indicibile angoscia della morte» affermandola ed elevandola a monumento, senza peraltro mai raggiungere, secondo Bloch, l’interiorità dell’anima umana, che resta sovrastata, persino nella cella più centrale della piramide, dall’«assoluta smisuratezza e monumentalità litica del dio, l’eccelso dio del sole Ra» (GU 32-3; it. 32-3). La vita cristiana, invece, si esprime nel gotico, che comprende però anche lo stile romanico, il bizantino e «in genere tutti gli stili in cui il peso e l’ordine si presentano ancora come sostanza essenziale della figurazione», fino all’espressionismo stesso. Il gotico riesce a rendere viva la pietra, a costruire forme intrecciate e tortuose che traspongono nel materiale rigido l’essenza mutevole e focosa della vita. La forma gotica è l’unica forma davvero artistica, perché forma la materia mantenendone il carattere di «entelechia incompiuta» che le appartiene: l’ornamento gotico è per questo espressione autentica dell’interiorità dell’uomo e prefigura così l’immagine della sua figura più intima, il Macantropo di cabbalistica memoria,25 ma
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È il mito dell’uomo primordiale, o Adam Kadmon, l’uomo divino o celestiale, universale, detto anche Adamo Archetipale, poiché racchiude in sè, in principio, tutte le causazioni della Causa Prima. Come l’Adamo terrestre è abitacolo della Shekinah e del regno santo, così Adam Kadmon è abitacolo dell’Infinito, della sua somma Luce, cui sta vicinissimo e di cui è la vera immagine. Adam Kadmon ha origine nello spazio primordiale dello Tzim-tzum, quale prima configurazione della Luce divina. Su come in Occidente siano confluite la tradizione platonica dell’androgino e l’interpretazione cabalista della dottrina della creazione, da Leone l’Ebreo e Jakon Böhme in avanti, cfr. Ernst Benz, Adam. Der Mythus vom Urmenschen, Otto-Wilhelm-Barth-Verlag, München-Planegg 1955.
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anche l’uomo in Cristo. È arte della forma che eccede l’esistente e oltrepassa se stessa, arte che esprime lo spirito di resurrezione. «L’arte gotica (e tutto quanto l’accompagna) rende espressivo un esodo nel materiale esterno come solo la musica può fare […]. Solo così può manifestarsi l’intimo che si esprime nell’esterno, dunque l’organico di livello superiore, l’ornamento eccessivo e il sommesso rivedersi dell’Io con l’Io che io sarò: entelechia gotica di tutta l’arte figurativa. La misura alchemica di ogni costruzione non è più il sole né la geomantica [stile greco, n.d.a.] e l’astrologia [stile egizio, n.d.a.], ma l’uomo nel più profondo della sua interiorità, l’uomo come Cristo» (GU 39; it. 38). L’impulso artistico raggiunge nello stile gotico la profondità dell’umano: è desiderio d’arte che stimola all’incontro con il proprio sé più intimo e vivo. 1.3 Tensione dell’arte: il volto umano L’impreciso senso di umanitarismo che attraversa alcune opere espressioniste, come Wir sind e Einander di Franz Werfel o una poesia come Freundschaft di Karl Heynicke, trova quindi nella filosofia blochiana una dimensione ben più ampia, una fondazione di senso utopico nella storia dell’arte. Anche in arte il momento di esplicazione della produttività spirituale, come abbiamo visto, è occasione di conoscenza e fonte di luce. «Le pietre sono pervase da un impulso e da un fermento che le fa fiorire con noi e partecipare alla nostra vita […]; in queste pietre, in queste statue, in questa casa del cuore umano, la luce insegue, lussurreggia, arde; mai veniamo rinnegati, mai si concede alla forza inclusiva del materiale qualcosa di più di un tributo riflessivo, il muro è sconfitto, le finestre multicolori conducono in un paesaggio sconfinato; ci troviamo al centro dell’amore…» (GU 39-40; it. 38-9). La dimensione estetica, dunque, non è separata dalla vita stessa, ma è piuttosto ciò che, nella sua autenticità e nella sua illuminazione, ci porta al centro di essa, nell’amore. Eppure non si raggiunge così la conciliazione con la realtà, né l’equilibrio, ma semmai proprio il prefigurare luminoso dell’arte accentua la sproporzione tra mondo reale e mondo interiore, ancora non adeguati l’uno all’altro. «Vi sono certo molte sproporzioni nelle cattedrali gotiche e nella loro struttura modellata sulla forma umana, ma è la stessa sproporzione esistente tra il nostro cuore e il nostro mondo. Anche qui si impone la rottura: le creazioni dell’unica arte organicamente e metapsichicamente eidetica, l’unica che ancora ci attende, trovano tutte la loro rappresentazione e il loro culmine nei tratti della segreta figura dell’uomo; l’ornamento e il monogramma dell’immediato
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essere dell’uomo, ancora mobili ed incompresi, sono il suo unico e fondamentale oggetto a priori» (GU 40; it. 39). L’analisi blochiana del gotico non si riferisce certo alla ripresa del gotico che avvenne nella seconda metà dell’Ottocento, né fa sì che egli riconosca all’art nouveau o al liberty uno statuto particolare, nonostante riconosca a questi stili un carattere gotico nella preferenza della linea curva e della decorazione floreale: anch’essi sono esposti alla riduzione a gioco stilistico che perde la dimensione di audace e profonda espressività dell’io. Se l’espressionismo ha condotto Bloch a dare rilievo estetico e filosofico a questa peculiarità espressiva, non è però nell’espressionismo stesso che essa trova compimento, bensì nell’a priori gotico dell’arte. Dello stesso espressionismo Bloch individua, infatti, i caratteri gotici: la prevalenza del disegno sul colore, il mutamento profondo nell’uso del colore e del suo significato, il crescente astrattismo delle forme sono fattori che indicano come gli strumenti artistici vengano piegati alle loro funzioni espressive, non per riprodurre un modello, ma per far prevalere l’interiorità sull’esteriorità. Esigenze di cui si fanno portatori anche futurismo e cubismo, che rompono la crosta apparentemente fissa degli oggetti; il futurismo per penetrare al loro interno, il cubismo per coglierli nel movimento che li mette in rapporto mobile e dialettico con lo spazio circostante e gli altri oggetti che li circondano. In questo modo l’arte d’avanguardia rende l’oggetto qualcosa di scomponibile e in movimento, che può entrare in un nuovo rapporto, più vivo, col soggetto, e non gli sta di fronte come materia che si oppone e resiste allo spirito: essa apre la via a un nuovo rapporto soggetto-oggetto. In Erbschaft dieser Zeit Bloch contesta all’espressionismo di non aver concretizzato la propria tendenza a modificare la realtà, di non aver attinto direttamente al processo rivoluzionario di mediazione tra soggetto e oggetto. Indica invece nel surrealismo il suo ultimo erede, difendendone il valore artistico e filosofico per l’operazione di montaggio di materiali diversi che con esso prosegue. L’espressionismo mantiene comunque, anche in questo testo, un primato a Bloch molto caro: la centralità dell’umano. È in questa tensione artistica alla ricerca dell’uomo che il desiderio assume i toni blu della Sehnsucht e così pervade di questo colore gli oggetti che l’arte smonta e rimonta, prefigurandoli in un nuovo ordine e in un nuovo rapporto con l’uomo. L’esperienza espressionista diventa così occasione per comprendere la tendenza dell’arte figurativa, il chiaroscuro di una conoscenza che ancora non trasforma, ma colma di luce i suoi oggetti e indica, così, molto oltre se stessa.
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Qui le opere d’arte, conosciute nella loro eterogeneità, possono apparirci come specchio della terra in cui scorgiamo il nostro futuro come dissimulato ornamento della nostra figura più intima, come compimento finalmente percepito ed adeguato, come presenza del sé dell’eternamente pensato, dell’io, del noi, del tat twam asi,26 della nostra gloria che vibra nel mistero della nostra occulta esistenza divina. Ed è anche struggente desiderio (Sehnsucht) di vedere infine il volto dell’uomo; in tal modo anche per la magica opera d’arte non possono esistere strade di sogno che non portino a Sesenheim e all’esperienza del cavalcare incontro a sé,27 nessun legame oggettivo che non rispecchi in tutto il mondo i tratti segreti del volto umano, e colleghi così l’organico più astratto con l’anelito (Sehnsucht) verso il nostro cuore, verso la pienezza dell’apparire se stessi (GU 48, it. 47).
Desiderio d’arte è tensione a scoprire il volto dell’uomo e a guadagnare, così, la pienezza dell’esperienza di sé. 2. Wunschbild: colore e immagine nella parola 2.1 Morfologia dei Wunschbilder Se in Spirito dell’utopia il Kunstwollen è l’impulso artistico che dà espressione di sé in un materiale esteriore ed è quindi riferito innanzitutto all’arte figurativa, con l’ampliarsi e l’approfondirsi delle basi teoriche del pensiero blochiano la concezione dell’impulso creativo s’inserisce nella sempre più ampia dialettica del desiderio. Come abbiamo visto, ne Il principio speranza l’impulso indefinito, che innesca il divenire della materia stessa, si determina progressivamente nell’essere umano fino a diventare Wunschbild, immagine di desiderio del futuro volto dell’uomo, nel quale l’immediatezza impulsiva viene mediata dalle rappresentazioni di ciò che si desidera. Le immagini di desiderio sono però molteplici, e alimentano sia la creazione artistica, sia il pensiero. «Il desiderio è di portare alla luce e di avere quel nostro che oscuramente si è e si pensa» (PH 1089, it. 1077),
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Letteralmente in sanscrito: tu sei questo. Bloch in tedesco traduce però: da bist du, che si può rendere anche con: tu sei qui. È la formula della praesentia, di cui abbiamo scritto nel primo capitolo. Cfr. supra, cap. I, par. 1.5. Bloch allude alle poesie del canzoniere goethiano di Sesenheim, in particolare a Willkommen und Abschied, Arrivo e commiato [Johann W. Goethe, Opere, tr. it. a cura di Vittorio Santoli, Sansoni, Firenze 1970, p. 1224].
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ma per giungere a questa meta le strade sono infinite e infiniti gli smarrimenti e gli straniamenti (Verfremdungen) possibili.28 Siccome l’uomo non è mai compiuto, siccome il suo nucleo è sempre «oscuro e imprecisato», i nomi e le immagini di desiderio del suo volto sono sempre «precisabili» e ulteriormente determinabili. «Determinazioni in duplice significato: come definitio e come destinatio dell’incognita uomo; gli uomini sono ancor sempre adducibili al loro vero volto mediante esperimento» (PH 1094; it. 1082, trad. mod.). Wunschbilder è il termine più generico usato da Bloch per le immagini di desiderio che mirano a questa doppia determinazione – definizione e destinazione –, ma nel corso de Il principio speranza tali immagini assumono diverse forme, a seconda della parte dell’opera in cui compaiono, tanto da tracciare una variegata “morfologia”. Così nella seconda parte, intitolata La coscienza anticipante, Bloch esplora il «sogno diurno» (Tagtraum), o sogno ad occhi aperti, sogno di desiderio (Wunschtraum) che prende forma nella coscienza in rapporto alla realtà osservata. Nella terza parte, Immagini di desiderio allo specchio, il sogno di se stessi “esce dalla caverna”, ma si “tradisce”, perché nel mettersi in mostra si maschera e si traveste. Le «immagini di desiderio allo specchio» (Wunschbilder im Spiegel) sono le seduzioni della società borghese. Nella quarta parte, Lineamenti fondamentali di un mondo migliore, nell’indagine “geografica” sulle terre utopiche Bloch descrive i «paesaggi di desiderio» che ad esse ci conducono. Nella quinta parte, Immagini di desiderio dell’attimo compiuto, che occupa tutto il terzo volume ed è sicuramente quella in cui la ricerca del desiderio raggiunge le altezze più vertiginose, le sfaccettature sono maggiori: le immagini di desiderio si fanno «immagini-guida» (Leitbilder), «figure-guida» (Leitfiguren) e «tavole-guida» (Leittafeln) nel discorso sulla moralità, «misteri del desiderio» (Wunsch-Mysterien) nell’analisi della figura di Cristo all’interno del discorso sulla religione e «ultimo contenuto di desiderio» (letzter Wunschinhalt) nel discorso sul sommo bene. Queste “figure del desiderio”, non sistematicamente ordinate da Bloch, ma utilizzate con dovizia nella sua scrittura e nel suo pensiero, sono per lui 28
Alludo qui al saggio Entfremdung, Verfremdung in LA 277-283. Sia l’alienazione (Entfremdung) sia lo straniamento (Verfremdung) sono smarrimenti della strada verso la meta, ma l’alienazione significa distaccarsi da essa, vendersi e infine perdersi. Lo straniamento, invece, è una heimische Entfremdung, un’alienazione familiare, che sospende il nostro percorso ordinario e ci induce a osservarlo meglio. In senso brechtiano, sono i piccoli accadimenti non ordinari a dare l’occasione di riflettere: possono rappresentare un cambio di percorso che permette di trovare una via più breve per giungere alla meta.
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indispensabili al fine di restituire alla parola, e al pensiero che essa esprime, il colore e la vivida figuralità dell’immagine.29 È quel che gli permette di “categorizzare figurando”, come teorizzerà solo alla fine della sua vita in Experimentum Mundi, in cui espone, come abbiamo visto, la teoria dell’ultrafigurare (fortbilden).30 Attraverso i Wunschbilder, che alimentano anche la parola letteraria, il pensiero prende coscienza della propria funzione utopica, scopre ciò che non è ancora conscio e si mette in cammino per realizzare ciò che non è ancora divenuto, anticipando nel presente quell’immagine di desiderio che nel nostro pensiero è ancora immagine futura. Il problema è «in che misura la contromossa anticipante coincida con una semplicemente abbellente» (PH 170; it. 175, corsivo mio); in che misura, dunque, la bellezza agisca nell’immagine che di essa si fa il desiderio. Si tratta di capire il significato e il ruolo della bellezza dell’immagine in prospettiva utopica. La bellezza, infatti, rischia di essere una semplice «ripulitura del presente», che lo rende accettabile qual è senza modificarlo in profondità (è il caso sopra ricordato dell’arte applicata che culmina nel Biedermeier, ma anche di tutta l’arte di massa che ha funzione prettamente “oppiacea”). Ciò che può permettere di non incorrere in questo esito negativo è quanto Bloch analizza nella seconda parte, quella fondativa, de Il principio speranza: il fatto che la funzione utopica dell’immagine di desiderio si innesti in alcuni aspetti ancora astratti del pensiero, ovvero interesse, ideologia, archetipi, ideali, allegorie e simboli. La funzione utopica del pensiero «sequestra» i contenuti che emergono nell’eccedenza dell’immagine anticipante, anche se si tratta ancora di un’eccedenza «piena di apparenza» (Schein), non ancora di preapparizione (Vorschein) artistica. In questo modo l’immagine di desiderio non resta slegata dal contesto in cui è inserita, ma acquisisce un riferimento, un rimando, una relazione di grado sempre più approfondito, dall’interesse al simbolo, con ciò che rappresenta. La bellezza del Wunschbild non risiede dunque nell’esteriorità dell’immagine, ma nella profondità del desiderio che comunica e, nell’immagine, fa preapparire. 2.2 La parola letteraria come parola allegorica Allegoria e simbolo sono le forme in cui l’immagine di desiderio incontra la funzione utopica a livello più profondo. Entrambe le figure alludono, utopicamente, a qualcosa di «non ancora chiaro». L’allegoria si ha, però, quando il non ancora chiaro «non significa soltanto il suo oggetto proprio, 29 30
Su Senso e funzione dell’immagine nel pensiero di Bloch cfr. l’introduzione di Hans Heinz Holz a Ernst Bloch, Dialettica e speranza, op. cit., pp. XXXII-XXXV. Cfr. supra, p. 43-44 e cap. II par. 2.
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ma contemporaneamente ancora un’altra cosa», si riferisce quindi sempre all’alteritas dei significati;31 il simbolo invece si ha se quel che non è ancora chiaro allude a un’unica e identica cosa ed è quindi sempre subordinato alla unitas di un significato; l’allegoria, da un lato, contiene l’«archetipo del transeunte» e dà per questo corpo al linguaggio poetico, all’arte «ricca di figure» e alle religioni politeistiche, il simbolo invece è «rivolto verso l’unum necessarium di un arrivo» che lo vincola e lo rende proprio della grande semplicità dell’arte o delle religioni enoteistiche e monoteistiche.32 «E per il problema che qui ci occupa, dell’incontro della funzione utopica con l’allegoria e col simbolo, occorre sottolineare in entrambi la categoria della cifra, in quanto significato formato, anzi realmente presente anche negli oggetti, dell’allegorico ovvero del simbolico legato all’archetipo» (PH 201; it. 207).33
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Questo significato di allegoria è fatto esplicitamente risalire (in EM 202-3; it. 235) alla concezione benjaminiana di allegoria barocca esposta ne Il dramma barocco tedesco. Stefano Zecchi, nel suo articolo L’utopia dell’arte in Gerardo Cunico (a cura di), Attualità e prospettive del ‘Principio speranza’, cit., pp. 119-131, sottolinea come Bloch oscilli nella sua opera rispetto alla distinzione tra allegoria e simbolo, soprattutto nell’attribuire ad arte e religione l’una e/o l’altra modalità. Secondo Zecchi questo è dovuto al fatto che Bloch veda nell’allegoria la funzione di significato, di comprensione che le attribuivano Goethe e Novalis e dunque la distinzione istituita da Bloch sarebbe tutta interna al simbolo stesso. A mio parere, la distinzione tra allegoria come rinvio all’alterità e simbolo come raccoglimento del significato in unità sempre eccedente è invece preziosa e da mantenersi, senza adottare alcun esclusivismo nell’attribuizione dell’una o dell’altra dimensione a diverse forme artistiche o religiose. Cfr. anche EM 251-52. Qui Bloch riprende l’analisi di allegoria e simbolo fatta ne Il principio speranza e ne estende la portata alle cifre reali della natura. Propone di abbandonare l’approccio quantitativo alla natura proprio della scienza naturale e di interrogarla piuttosto qualitativamente a partire dalle sue categorie poetiche. Come esempio non casuale, Bloch sceglie le categorie poetiche della profondità della notte e della profondità del giorno. Per la prima cita Nietzsche, da Così parlò Zarathustra: «Che dice la mezzanotte profonda? / Io dormivo, dormivo, / Da un sogno profondo mi sono risvegliato: – / Profondo è il mondo, / E più profondo che nei pensieri del giorno /…/ Dice il dolore: perisci! / Ma ogni piacere vuole eternità – / – vuole profonda, profonda eternità!». Per la seconda cita Goethe, dal Faust: «Ascoltate! «È il rombo delle Ore / All’udito dello spirito è già nato / sonoro il giorno nuovo. / Gemono porte di macigno, / in corsa scrosciano ruote di Febo. / Quanto tumulto è la luce! /…/ L’inaudito, nessuno può udirlo!». È la cifra della luce a costituire il simbolo univoco carico di utopia che racchiude in sé profondità della notte e profondità del giorno, traccia portante per un’ontologia utopica del non-ancora.
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Nella poesia l’immagine si fa parola prevalentemente allegorica. Il principale riferimento poetico e letterario di Bloch è sicuramente Johann Wolfgang von Goethe, non solo perché costituisce lo spunto di molte citazioni o perché molte delle sue figure letterarie incarnano nell’opera di Bloch diverse immagini di desiderio, ma soprattutto perché la poetica goethiana rappresenta per lui un riferimento teorico forte.34 Sullo spinozismo goethiano si fonda, infatti, l’attenzione di Bloch alla dimensione veritativa di poesia e letteratura, che affonda le sue radici nella verità della metafora. L’allegoria è metafora che abita nella molteplicità di significati e la esprime, mentre il simbolo è metafora che conduce a unità e approdo. La «forma di entrambi» è quella che Goethe chiama «aperto mistero» (das öffentlich Geheimnis), espressione che qualifica la tensione dialettica della metafora, tesa tra ciò che viene svelato e ciò che viene celato. «In tutte le allegorie autentiche, cioè anche obiettivamente coerenti, per non dire poi dei simboli, l’aperto mistero è tale non solo per gli uomini che lo pensano, sotto un certo aspetto sulla base dell’insufficiente forza concettuale, bensì costituisce qualità reali del significato anche nel mondo esterno, indipendentemente dagli uomini» (PH 202; it. 208, trad. mod.). L’aperto mistero è il manifestarsi della tendenza nei fenomeni che di volta in volta si producono nel loro divenire, è l’oscuro che si manifesta in ciò cui allude, ma è anche l’insieme delle forme d’esserci che costituiscono l’esperimento del mondo, in cammino verso la sua figura centrale ancora latente. Allegoria e simbolo non sono quindi soltanto denominazioni, rappresentazioni figurali, della realtà, ma costituiscono un carattere della realtà stessa. «È istruttivo anche confrontare quel che del mistero è effettivamente aperto con l’apertura così realistica di Goethe al mondo: le entelechie che vivono e si sviluppano nel mondo sono tutte altrettante allegorie e simboli viventi, obiettivamente presenti. Queste cifre ci sono dunque anche nella realtà, non semplicemente nelle denominazioni allegoriche e simboliche di tale realtà; e tali cifre reali ci sono appunto perché il processo del mondo è esso stesso una funzione utopica, avente per sostanza la materia dell’obiettivamente possibile» (PH 203; it. 209, trad. mod.) Ciò significa che per Bloch la forma non è altra dalla materia, al contrario, è essa stessa «entelechia incompiuta», parziale realizzazione del desiderio della materia. Il rapporto tra forma e contenuto, dunque, non è da
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Tra i temi blochiani che rinviano a Goethe, Anna Czajka insiste soprattutto sull’interesse per il piccolo e per il fenomeno individuale, nel suo prezioso testo sulla poetica blochiana. Cfr. Anna Czajka, Tracce dell’umano. Il pensiero narrante di Ernst Bloch, cit., p. 160.
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lui concepito come una dicotomia, ma come unità dinamica in tensione. Si oppone così sia alla concezione astratta della forma introdotta nella filosofia tedesca attraverso la filosofia di Herbart, sia alla concezione simmeliana di forma come quel «più-che-vita» che finisce per irrigidirsi e opporsi alla vita stessa,35 sia, infine, alla concezione di Lukács della forma come essenza che «giudica la vita».36 Così l’arte, in particolare quella poeticoletteraria, acquisisce un peculiare “realismo”: non è rappresentazione della realtà, ma è essa stessa forma reale del processo utopico. La forma è dunque pervasa dal desiderio della materia di cui è composta e anche dal desiderio che le infonde la soggettività che la plasma, ed è proprio il desiderio a fondare realtà e concretezza della bellezza che la pervade, perché il desiderio ne fonda la tendenza all’illuminazione. Luce che, ancora una volta, nella sua purezza, va però incontro al paradossale esito di dissolvere l’oscurità di cui ciascuna forma è intrisa e violarne così il mistero, espondendo la forma stessa alla propria dissoluzione. Una conoscenza realistica della tendenza deve quindi «rendere giustizia» al mistero, e preservarlo. «Desiderio (Sehnsucht), anticipo, distanza, nascondimento ancora perdurante, queste sono determinazioni dell’allegorico-simbolico tanto nel soggetto quanto nell’oggetto. Non sono affatto determinazioni di tipo permanente, bensì compiti in direzione di una crescente illuminazione di ciò che in esse vi è di ancora indeterminato, in una parola in direzione della crescente dissoluzione del simbolico. Ma appunto la realistica conoscenza della tendenza, con la coscienza della latenza in essa, deve rendere giustizia a ciò che è stato chiamato aperto mistero» (PH 203, it. 209, trad. mod.). Allegoria e simbolo, nella loro mutabilità e precarietà, tendono a illuminare il reale cui alludono, ma nel loro ambire a qualcosa di ulteriore, sia esso alterità o unità, ne proteggono la latenza, ne custodiscono il mistero. Per questo la conoscenza non può rinunciare alla poesia, se aspira a proteggere la velatezza del reale secondo giustizia. 2.3 Creatività demonica alla radice di allegoria e simbolo Questo stesso intreccio tra filosofia e letteratura viene approfondito e ampliato nella quinta parte di Il principio speranza, dedicata alle immagini di desiderio dell’attimo adempiuto. Qui Bloch precisa la sua concezione
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Cfr. Georg Simmel, Lebenanschauung, cit; trad. it. cit. Cfr. György Lukács, Über Wesen und Form des Essays. Ein Brief an Leo Popper (1910) in Id., Die Seele und die Formen. Essays, cit., pp. 3-39; trad. it. Essenza e forma del saggio in Id., L’anima e le forme, cit., pp. 15-48.
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filosofica della letteratura, mantenendo costante il riferimento a Goethe, sia dal punto di vista teorico, sia nella scelta delle figure dell’oltrepassamento (Mignon, Tasso, Faust). In questa parte il desiderio compie un ulteriore passo verso il suo al di qua, con un «graduale fuoriuscire dall’apparenza (Erscheinung)»,37 per conquistare nel presente dell’attimo compiuto l’essere qui e ora (il Dasein) della presenza. Quest’attenzione al compimento presente del desiderio è, secondo lo stesso Bloch, goethiana. Goethe sembra in effetti diventare, in questi capitoli,38 l’alter ego di Bloch, o meglio, l’auctoritas cui egli attinge per dare consistenza e fondamento alle proprie posizioni. Sembra soltanto, perché la realtà è più profonda: il compimento del desiderio può avvenire solo nell’incontro tra arte ed eticità, tra bellezza e bontà, dove però quest’ultimo termine non va inteso nel suo senso più semplicemente morale, ma in senso poetico e filosofico: il bene è creazione artistica nella libertà della conoscenza. Ed è Goethe a incarnare sommamente, nella sua poesia, nella sua prosa e nella sua impressionante produttività, questa sintesi, ancora una volta frutto della mediazione tra due poli. Da un lato, la creazione che insegue una «lontana identità»: «L’anelito del giovane [Goethe] era che dalle sue dita sgorgasse una creazione piena di succo. E l’esigenza dell’uomo maturo fu che questo sgorgare come fa la natura fosse anche un formare come la natura, con l’interna necessità della configurazione naturale e dei suoi prodotti […]. Il mondo stesso è qui produttività verso il suo pieno contenuto, ovvero un Faust materiale, che in tutte le metamorfosi si trasforma perché davanti a lui passa la lontana identità, chiamata non soltanto Margherita» (PH 1157-8, it. 1143). Dall’altro, la conoscenza come attenzione al presente e alla prossimità: «E mai il presente, proprio questo, venne esperito in maniera più partecipe che in Goethe. Egli infatti non lo svalutò per amore di un futuro che se ne allontanava, ma già nel Werther il “grande tutto albeggiante” era per lui una via verso ogni formazione vicina e inscritto nella prossimità» (PH 1174, it. 1159). Non si tratta però certo di una sintesi lineare, né di un percorso di mediazione tutto interno a una moralità definita e definibile, tutt’altro: è un percorso umano, quindi non solo fallibile, ma anche esposto a forze non 37 38
Frase attribuita da Bloch all’anziano Goethe (PH 1214; it. 1197). Va tenuto presente che Bloch è noto per aver attribuito a molti autori frasi di cui non è mai stata provata l’autenticità. Mi riferisco in particolare al capitolo 48, Il giovane Goethe, la non rinuncia, Ariel, al capitolo 49, Figure-guida dell’oltrepassamento del limite; Faust e la scommessa sull’attimo adempiuto e al capitolo 50, Tavole-guida dell’oltrepassamento astratto e mediato di limiti mostrate sul «Don Chischiotte» e sul «Faust».
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padroneggiabili, e infine al male. Di Goethe Bloch sottolinea infatti anche il ruolo del demonico nella creazione, nel significato più affine a quello di “forza non padroneggiabile”, piuttosto che all’originario significato greco di natura intermedia tra uomo e dio, che pure è mantenuto in riferimento alla facoltà creativa che esso possiede. Più avanti, come in altri testi, il demonico è da Bloch definito anche luciferino e prometeico: 39 nella produzione artistico-spirituale, ma anche nel rapporto con Dio, è il momento culminante del percorso dell’uomo verso il regno dell’humanum, quella in cui l’uomo massimamente si espone al pericolo della seduzione delle masse e della chiusura totalitaria, ma senza la quale non sembra possibile, per Bloch, pervenire a un bene che sia liberante e creatore. Nessuna forza produttiva, secondo Bloch, «resta sicura per sé e per gli altri» e, per Goethe, essa scaturisce da un luogo in cui la luce non brilla. Diventa forza demonica, secondo Goethe, quando è «buio che esercita potere», tradizionalmente simboleggiato dal serpente o dal fuoco, ed è malia che seduce, inganna e porta alla chiusura in se stessi, alla fissazione del sé nelle forme che ha già conseguito. Quando il demonico non si comunica all’esterno, aggiunge Bloch, imprigiona, porta a ebbrezza e a ubriacatura di massa, mentre «quel che appare comunicazione è solo contagio e alla base c’è la medesima solitudine come massa». E tuttavia, così come esistono due tipi di oscurità, esistono anche due tipi di forza demonica. Oltre al demonismo oscuro esiste infatti un «demonismo propizio», fondamentale per capire il demonico alla base della produzione spirituale: è il demonismo che diventa manifesto, che comunica se stesso, che si esprime sia nella rivoluzione liberatrice sia nel genio produttivo, «plasmatore del nuovo».40 Questo «demonismo della luce» appare «dovunque lo spavento sia l’inizio del bello, non la sua fine» (PH 1163; it. 1149) e conferisce un fascino misterioso e una profondità maggiore alla fantasia poetica gioiosa e creativa, di cui è figura Ariel, il metamorfico aiutante di Prospero ne La tempesta di Shakespeare. Non solo. Il demonismo propizio fonda il carattere allegorico-simbolico dell’opera d’arte. La chiusura demonica che nella produzione spirituale si manifesta instaura necessariamente, con i propri oggetti, un rapporto di tipo allegorico-simbolico: la lingua, nel rapporto tra parola e suo conte39
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I termini sono declinazioni diverse dello stesso tema: la ribellione al divino. Così in PH 1240, it. 1222, dove Bloch stabilisce la corrispondenza tra luciferino latino, che porta luce, e il prometeico greco, che conquista il fuoco. Su luciferino e prometeico in rapporto a Dio cfr. infra, cap. IV, par. 1.1 e 1.2. Bloch fa riferimento qui al Canto del viandante nella tempesta di Goethe (PH 1162, it. 1148).
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nuto materiale, contiene un continuo interscambio tra “dentro” e “fuori”, tra ciò che vuole uscire da sé e ciò che cerca dimora, tra ciò che si svela e ciò che viene velato. E tuttavia, come abbiamo visto, allegoria e simbolo infine svelano il reale proteggendone la velatezza. La dimora provvisoria che il demonico trova in poesia è quindi la metafora, la forma oggettiva dell’aperto mistero:41 «“Le poesie sono vetrate dipinte”42 – e così, come i loro oggetti e come i colori della teoria goethiana del mondo e dei colori, stanno fra tenebre e luce. Di conseguenza, la forma di rappresentazione di questo demonismo chiaro non può essere altra che quella allegorico-simbolica; nelle prime poesie di Goethe, in diretto modo metaforico; in quelle tarde in modo spesso trasfigurato, anzi paradossale» (PH 1166; it. 1151). Il colore di questo «demonismo chiaro» è, ancora una volta, il blu, che rappresenta quindi non solo il colore del desiderio d’arte, ma anche la tonalità di questa forma peculiare di bene utopico – libertà creativa che protegge il mistero del reale43 – messo in opera dall’arte letteraria. Ne è figura culminante il blu del cielo d’alta montagna nella parte finale del Faust di Goethe, che sancisce la verticalità di una meta mai veramente compiuta: «l’alta montagna faustiana, con le sue vette sempre più alte, contiene un più profondo blu (ein dunkleres Blau) della coscienza utopica» (PH 967; it. 954). L’alta montagna faustiana è paesaggio di desiderio contrapposto da Bloch alla rosa mistica del paradiso dantesco: nella prima il desiderio indica costantemente vette più alte, è continuo trascendimento non trascendente; nella seconda il desiderio si estingue, giunto finalmente alla pienezza della meta:44 «la terra leggendaria di Dante offre la rosa del pieno compimento, la terra di Faust invece offre monti su monti nel blu disteso del cielo: qui il mistero è la soluzione presente, là la soluzione è il mistero che continua» (PH 968; it. 956). Entrambe forme artistiche di protezione del mistero, la montagna faustiana è però soprattutto allegoria, rimando a una compiutezza ancora da raggiungere, a un’alterità ancora da conoscere, mentre la rosa mistica dantesca racchiude in sé l’unità piena del simbolo. Se Bloch sembra propendere per il blu goethiano, è però forse solo perché al suo interno si possono trovare tutte le forme come «metafore di un 41 42 43 44
Concetto ripreso da Bloch nel paragrafo Il demonico e la chiusura allegoricosimbolica che dice se stessa, PH 1166; it. 1151. Bloch ripete qui la frase di Goethe già citata come esempio di «perfetta allegoria», PH 199, it. 205-6. Il carattere di “protezione del reale” è carattere propriamente filosofico, come indica Ugo Perone in Id., La verità del sentimento, Guida, Napoli 2008, pp. 173-179. «L’ardor del desiderio in me finii», Par. 33, v. 48, citazione di Dante fatta da Bloch in italiano.
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essere che si potenzia», compresa quella dantesca, la quale, nel rinunciare alla sua definitività perché inserita in una molteplicità che l’oltrepassa, non rinuncia però, e non deve rinunciare, al “mistero continuo” che svela. Produzione geniale è, per Goethe, il demonico con rasserenamento, è l’urbanizzazione del demonico, e la stessa cosa è per lui la produttività del mondo, con le sue entelechie che si sviluppano vivendo; infatti esse sono tutte altrettante allegorie e simboli viventi, obiettivamente presenti. Questo e non altro è il realismo di Goethe che dovunque cerca, trova, evidenzia «oggetti significativi»; non è un realismo della superficie ricalcata, ma del reale che in ognuna delle sue forme rappresenta la metafora di un essere che si potenzia. Quanto alla sua perfezione, certo, secondo Goethe, essa c’è già nel “coltivare sé nella natura e la natura in sé”. Qui, nell’intero panteistico, il libro della natura è per lui completamente scritto, come in Giordano Bruno, anzi come in Spinoza. Ma nell’essere in cammino delle forme, nel vero mondo goethiano, si mostra una formazione di figure in costante trasformazione, reciprocamente riferite e pertanto allegoriche, con una simbolica stella durevole che però, chiamata eterno femminino, non è a sua volta una stella fissa, ma ondeggia, ondeggia ancora»(PH 1166-67; it. 1151-52).
2.4 Figure letterarie della moralità Attraverso l’indagine dialettica su alcune figure letterarie e sull’immagine di desiderio che ciascuna di esse raffigura, Bloch riesce a precisare il contenuto etico delle aspirazioni del desiderio. La dimensione allegoricosimbolica delle figure poetiche e letterarie permette di raccontare profondità e ampiezza delle immagini di desiderio e di radicare questa loro peculiare bellezza in una volontà ordinata e consapevole, cioè eticamente responsabile. Si tratta di una responsabilità che non “domina” né soffoca il demonico, ma sa alimentarlo nella giusta direzione, la direzione utopica, perché ne conosce – anche solo attraverso i fingimenti letterari – percorsi e deviazioni possibili, ma anche l’imprescindibile meta. Il fenomeno (Erscheinung) artistico acquista allora la consistenza utopica del Vorschein, della preapparizione, che si svincola dall’illusorietà dell’apparenza (Schein), sempre esposta all’uso ideologico e strumentale dei suoi contenuti. Tra le figure che a questo proposito si fronteggiano, Mignon, personaggio del Wilhelm Meister di Goethe, rappresenta l’anelito solitario e non compiuto. Mignon è figura eterea e asessuata, il suo non è un anelito erotico, né un divenire in direzione dell’essere, ma un ondeggiare irrelato e irreale, «indubbiamente demonico» per la sua aspirazione all’incondizionato. «Mignon non è altro che anima e vaga lontano, molto oltre l’uomo. Quest’anelito va sempre verso l’incondizionato; così il soggetto dell’anelito
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in sé, in quanto anelito anonimo, nella tenera immagine di Mignon diventa un simbolo che sale liberamente, un simbolo archetipico che si dipana da sé» (PH 1169; it. 1154). Il contenuto dell’anelito resta, però, patria lontana e il soggetto dell’anelito rimane lontano dal proprio oggetto. Demonico anelito erotico è invece quello di Don Giovanni, immagineguida della seduzione, «la più splendida immagine di desiderio», affine a Faust per la ricerca di compimento nella padronanza dell’attimo, anche se in Don Giovanni il desiderio resta circoscritto alla sfera erotica, dionisiaca.45 Faust invece aspira con fervore prometeico alla bellezza dell’attimo compiuto: nel «Verweile doch, du bist so schön!» (Fermati, dunque, sei così bello!), «tavola-guida metafisica per l’esistenza piena e senza mondo ulteriore (Hinterwelt)», è contenuta tutta l’aspirazione umana all’approdo dell’incondizionato nella bellezza del compimento. Ma questa altro non è che la «moralità della fine». «La pura opera umana che Faust infine inscena e in cui sperimenta il presentimento dell’attimo supremo è piuttosto la moralità della fine; infatti ogni fine, se le cose vi accadono in modo sostanziale, è moralità» (PH 1193; it. 1177). Si intrecciano in questa visione di Faust, figura suprema dell’anelito demonico condotto per le strade del mondo e persino oltre, della lotta vittoriosa con il mefistofelico, dell’esperienza che consente di conoscere i limiti solo nel loro oltrepassamento, e che tuttavia resta racchiusa in un orizzonte tutto intramondano, l’eredità dell’etica di Spinoza e quella, complessa e dibattuta, di Nietzsche. Quest’ultimo infatti, accusato da Bloch di essersi chiuso in un oltrepassamento sempre così individuale da diventare «asociale in assoluto» e infine di ergersi solamente a distruttore, viene da lui “mitigato” con un conatus di tipo spinoziano che, metodicamente e gradualmente, comprende le strade della sua piena soddisfazione. Da Nietzsche, però, Bloch ha appreso che un’impulso demonico, capovolto dalla morale a condanna della vita, non dà luogo se non a una morale fittizia, ingannevole, simulatrice: la morale del gregge. Sempre da Nietzsche, poi, Bloch eredita quella peculiare “metafisica dell’artista” che lo stesso Faust, infatti, incarna: l’incontro col sé, con il mistero dell’uomo cui l’anelito demonico aspira può essere realizzato unicamente da un’eccedenza di «virtù che dona», eccedenza che esige di spezzare le antiche
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L’interpretazione della figura del Don Giovanni è di matrice kierkegaardiana e non tiene conto delle tante interpretazioni alternative emerse nel corso del Novecento. Vogliamo qui ricordare, per la sua originalità, quella di Max Frisch nell’opera teatrale Don Giovanni o l’amore per la geometria, trad. it. di Enrico Filippini, Feltrinelli, Milano 2004, in cui la sfera erotica di Don Giovanni è specchio della sua dimensione intellettuale.
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tavole di valori e di crearne di nuove, con una poiesis d’artista che è autodisciplina nel rapporto con la materia.46 E tuttavia, seppur ne rappresenti il culmine, Faust non esaurisce le possibilità del contenuto di bene cercato dal desiderio. Accanto alla figura suprema della moralità, vi sono altre figure marginali dell’incondizionato, figure shakespeariane come Amleto e Prospero, il primo «volontà chiusa in se stessa», il secondo «gioia per la bellezza che scintilla senza motivo»: entrambi non conoscono la dimensione dell’insaziabilità propria dei grandi oltrepassatori di limiti, ma si saziano dell’apparire artistico, che costituisce per loro (e in primo luogo per Shakespeare, naturalmente) l’unica meta raggiungibile, così come la perfezione estetica rappresenta l’unico bene di cui si può gioire. Dalla gioia per l’arte che pare l’unica pienezza in grado di vincere sull’illusione del sogno nasce però un residuo, in Prospero: l’«immotivata gioia dell’umorismo», con cui egli esce dall’arte e dall’«autarchia estetica». Lo humor, secondo la concezione di Jean Paul cui Bloch attinge, è sistema in cui il comico non dissolve soltanto i confini della realtà, ma dà nuova forma e nuova connessione agli elementi disgregati, e ha, dunque, la precisa funzione utopica di costruire e decostruire il reale, causando un salutare effetto straniante. Figura par excellence del comico è per Bloch Don Chisciotte, che da un lato resta figura di desiderio astratto, comica proprio in quanto non riesce a mediare i suoi desideri spropositati con la determinatezza del reale che lo circonda; ma dall’altro racchiude nella sua «incondizionatezza poetica» una forza che lo contrappone alla stessa moralità del Faust. «Oltrepassamento mediato al modo di Faust oppure dell’esperienza che si fa, questo realismo è quello giusto; ma l’altro Don Chisciotte, quello inteso anche positivamente, ammonisce, dopo che nel mondo Faust è divenuto più astuto dei più astuti, ad agire poi anche contro questa astuzia, cioè senza trovar pace nel mondo meramente presente, che passa in parata come bell’e pronto» (PH 1235; it. 1217, trad. mod.). Splendido accostamento, quello tra l’ardita saggezza faustiana, che termina vincitrice, e il folle proposi46
Per quanto riguarda Nietzsche, cfr. Friedrich Nietzsche, Also sprach Zarathustra, 3. Teil, “Von alten und neuen Tafeln” in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, Giorgio Colli u. Mazzino Montinari (Hrsg.), vol. VI, tomo I, pp. 242-265 [tr. it. Così parlò Zarathustra, vol. VI, tomo I delle «Opere di Friedrich Nietzsche», ed. it. condotta sul testo critico stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi 19793 (1968), pp. 240-262]. Per quanto riguarda il rapporto di Bloch con Nietzsche cfr. l’approfondito articolo di Manfred Riedel, La traccia di Nietzsche nel ‘Principio speranza’ in Gerardo Cunico (a cura di), Attualità e prospettive del ‘Principio speranza’, cit., pp. 77-106.
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to di Don Chisciotte – «liberare dall’ingiustizia / col suo braccio tutto il mondo» – che termina con il tracollo. Don Chisciotte è ingenua e anzi folle spontaneità, immediatezza insensata e «clausura onirica», eroe triste e comico di cui il mondo si fa beffe. Eppure la “tavola guida” faustiana è superiore a quella donchisciottesca solo «nella misura in cui ha fatto propria la coscienza radicale dell’immediatezza come memoria utopica in ogni mediazione» (PH 1238; it. 1220), cioè solo nella misura in cui ha ereditato la grandezza e la giustezza dell’intenzione di Don Chisciotte e la sua capacità di passare «imperterrita attraverso scherno e sconfitte non sempre discreditanti» (ibid.). Non si tratta quindi di un semplice “accostamento”, piuttosto faustismo e donchisciottismo «sono uniti in una linea di fuoco predesignata» (PH 1239; it. 1221) da cui il bene desiderato e artisticamente creato non può prescindere. Don Chisciotte – con la sua triste e comica follia – ammonisce infatti ogni acquietamento nel presente, persino quello sommamente morale di Faust, che ha lungamente mediato la sua inquietudine acquietandola però nella vittoria, a non riposare in se stesso, affinché la moralità non tradisca se stessa e non dimentichi l’«incondizionatezza poetica» dell’ideale, che la parola letteraria porta con sé. 3. L’eccedenza del suono 3.1 Musica: desiderio e mistero La tensione dialettica tra Faust e Don Chisciotte non si acquieta né si risolve in alcuna immagine di desiderio poetico-letteraria, ma oltrepassa se stessa verso un’immagine di desiderio ulteriore: la musica. La facoltà demonica e luciferina, che nelle figure poetiche permette di illuminare eticamente la realtà, «questo materiale del prometeico, tutto ciò che è stato indicato con l’oltrepassante – Don Giovanni, Don Chisciotte, Faust – si avvicina nella sua ulteriore forma, anche se assolutamente tutta interna al mondo dell’arte, in luce musicale. E così la successiva formazione dell’oltrepassamento poetico di confini, in contraddizione col mondo del presente, si trova nello strato sonoro e nella sua formazione e trasformazione, nelle figure sonore che getta, anticipando una figura del mondo, per quanto lontana» (PH 1241; it. 1223). Non è la poesia, quindi, la più spirituale delle arti, come sosteneva Hegel nelle Lezioni di estetica e come riprendeva lo stesso Schönberg nel suo Manuale di armonia, che Bloch ben conosceva e aveva presente soprattutto ai tempi della stesura di Spirito dell’utopia. Secondo Hegel la musica è spiri-
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to ancora legato alla materialità del suono, che nel suo vibrare e risuonare resta esteriore, mentre la poesia, composta di parole, è la forma d’arte più vicina all’interiorità dello spirito. Bloch, però, ha assimilato la critica alla razionalità hegeliana portata avanti, da un lato, da Schopenhauer e Nietzsche, dall’altra dalla sinistra hegeliana e da Feuerbach: la parola, in quanto λόγος, è per lui sempre esposta al rischio di irrigidire l’immediatezza della vita; il suono, invece, superiore in questo all’immagine e alla parola, racchiude nell’immediatezza della sua materialità e nella mediazione dei suoi nessi armonici e ritmici la profonda temporalità dell’attimo vissuto, oscuro nella sua immediatezza, potenzialmente compiuto nella sua mediazione. Il suono è «mistero della sensibilità», «Rätsel der Sinnlichkeit»: se da un lato questo significa che «il suono esprime allo stesso tempo quel che negli uomini stessi è ancora muto» (PH 1244; it. 1225), l’anelito a essere se stessi che non ha ancora trovato pace, d’altro lato il suono, proprio grazie all’inafferrabilità della sua essenza, garantisce, ancor più dell’allegoria letteraria, la custodia del mistero e conduce nella «calda e profonda camera gotica dell’intimo che risplende solo in mezzo all’oscura tenebra» (GU 208; it. 211). Se l’arte figurativa si suddivide in tre stili che corrispondono a tre impulsi artistici differenti, greco, egizio e gotico,47 l’impulso artistico che prevale nella musica è il gotico: la musica è arte della volontà di vita e di resurrezione. In più punti della sua opera Bloch afferma che la musica è arte utopica per eccellenza: in Spirito dell’utopia la consistente sezione di filosofia della musica è centro portante dell’intera opera;48 ne Il principio speranza la musica è immagine di desiderio del «richiamo verso ciò che manca», di cui è figura la ninfa Siringa:49 si accentua qui la dimensione architettonica 47 48
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Cfr. supra, cap. II, par. 1.2. Sull’importanza di questa sezione pongono l’accento sia Carlo Migliaccio in Id., Musica e utopia. La filosofia della musica di Ernst Bloch, Guerini e Associati, Milano 1995, pp. 75-78, ma anche pp. 57-73 per la contestualizzazione del pensiero musicale blochiano, sia Elio Matassi in Id., Ernst Bloch e la musica, Edizioni Marte, Salerno 2001: a p. 9 Matassi sottolinea l’identificazione programmatica dei termini musica e utopia in Geist der Utopie, a p. 10 nota che il titolo originario di Geist der Utopie doveva essere Muisk und Apokalipse (lo trae da Gerschom Scholem, Geschichte einer Freundschaft, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1975, p. 102) e poi riporta parole di Bloch stesso a favore della tesi della centralità della filosofia della musica in Spirito dell’utopia. Bloch si riferisce al racconto mitologico di Ovidio nelle Metamorfosi, I, p. 689712 sull’origine della musica. Il dio Pan insidia la ninfa degli alberi Siringa, che per sfuggirgli scongiura le onde del fiume che le impedisce la fuga di essere trasformata in qualcos’altro. Nel momento in cui l’afferra, a Pan restano in mano
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della musica, come tempo che si fa spazio. In Eredità del nostro tempo la maggiore attenzione alle espressioni musicali marginali, come la musica di Kurt Weill, vuole accertare come la musica di consumo, popolare, possa sottrarsi all’anonimato che le è proprio, per scontrarsi con la realtà attuale e farsi portatrice di sogni e desideri ancora incompiuti delle classi sociali più deboli. In Experimentum Mundi Bloch riafferma la superiorità utopica della musica rispetto alle altre arti, ma soffermandosi sulla sua incompiutezza: non è ancora venuto il tempo in cui l’espressività musicale possa essere dispiegata e compresa adeguatamente. Benché in ciascuna opera l’accento cada su aspetti diversi, è sicuramente riscontrabile una teoria coerente e unitaria sulla musica, che nel corso dell’evoluzione del pensiero blochiano si amplia e si approfondisce.50 Fin dallo Spirito dell’utopia, la musica è espressione dell’impulso, dello stimolo, dell’anelito all’incontro con sé; nasce dal desiderio di casa e d’identità, ma nel suo sviluppo si perde nell’oscurità del mistero, per poi ritrovare, nell’ascolto, un’inattesa prossimità al sé e al noi. 3.2 Eccedenza di Wagner e di Beethoven Il suono è il momento fenomenico del desiderio, in senso anti-schopenaueriano: nella musica non si manifesta una volontà impersonale e sovrumana che rende gli uomini semplici marionette in balia della quintessenza del mondo; se per Schopenhauer la musica svela e manifesta la cosa in sé, l’«intima essenza del mondo», la volontà, elemento ultimo che finisce per ignorare il mondo fenomenico, per Bloch la musica non può esistere senza il mondo e nemmeno senza la singolare individualità, senza l’apparire fenomenico (Erscheinung) del soggetto che la compone e del soggetto che la ascolta. Il desiderio che la musica esprime convoglia l’attenzione dei soggetti coinvolti su ascolto e incontro, senza dissolver-
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solo delle canne e i suoni che il vento produce attraverso di esse commuovono il dio, mentre si lamenta per la perdita dell’amata. Egli spezza così le canne, le gradua, le mette insieme e produce i primi suoni, con fiato di vivente e come lamento, come «richiamo di ciò che manca». L’origine della musica dalla mancanza e la possibilità della musica di rendere presente ciò che è assente, lontano e desiderato sono suoi caratteri fondamentali in tutta la trattazione de Il principio speranza. Lo sottolinea anche Carlo Migliaccio, Op. cit., p. 149. Non è mia intenzione ripercorrere qui organicamente la teoria musicale blochiana, per un’analisi approfondita della quale rimando ai testi citati nella nota 48, ma anche a Elio Matassi, Musica, Guida, Napoli 2004. Intendo piuttosto osservare come la musica sia espressione di desiderio e individuare quale significato filosofico esprima rispetto al desiderio di cui si nutre.
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si nel ritrovamento di una falsa quiete che tutto estingue, come accade invece nella concezione musicale di Schopenhauer: intendere la musica come volontà pura, liberante nell’atto della sua contemplazione, significa pretendere di aver infine svelato il mistero dell’«ineffabile intimo della musica». Non è questo lo scopo di Bloch, il quale ancora una volta ha cura di preservare il mistero. La «definizione fondamentalmente falsa di Schopenhauer della musica come “volontà in quanto tale”» è «talvolta applicabile» alla musica di Wagner (GU 132; it. 132), della quale Bloch riporta molte accurate analisi. Wagner rappresenta sicuramente, nella filosofia musicale blochiana, un punto cruciale: egli recupera nella sua musica le forme precedenti,51 ma rompe lo stile borghese del Lied ottocentesco introducendo una concezione del sinfonismo come totalità. Tre elementi della sua musica concorrono a quest’apertura: il canto, che diventa solo una «voce tra le tante», affidando all’orchestra lo sviluppo della polifonia vocale; il ritmo, sincopato e carico di tensioni, che riporta in musica l’elemento pagano della danza, nella sua sfrenata ricerca d’estasi; l’armonia, che acquista una funzione normativa, come «guida dell’invenzione», come Gestalt organizzatrice. Ciò che nella musica di Wagner vuole affermarsi, secondo Bloch, è la consonanza, ma una consonanza che ha bisogno della dissonanza per avere sussistenza e non ridursi a puro vuoto indifferenziato.52 La ricerca di questa integrazione avviene in un flusso sonoro continuo in cui la tensione dialettica tra tonica e dominante rende impossibile afferrare un punto, perché ogni tensione rimanda alla sua risoluzione e ogni risoluzione è tale 51
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È qui importante ricordare che Bloch distingue nella storia della musica tre forme di “tappeto”, termine lukacsiano che indica forme correttive del reale. Queste tre forme hanno un ruolo affine ai momenti stilistici del Kunstwollen nelle arti figurative: indicano l’atteggiamento spirituale dell’Io alla base della realtà stilisticamente determinata. Esse sono: 1) l’incessante canticchiare, la danza, la musica da camera (tappeto “primitivo”, portato a compimento da autori come Bach, Bruckner e Wagner che lo recuperano); 2) il Lied chiuso (tappeto determinato in una «leggera» regione dell’io, legato a nomi come Mozart, culmine di una concezione di espressività melodica come conchiusa e soddisfatta piacevolezza, Bach, nelle cui fughe lo struggente desiderio si configura come «profondità dell’anima che resta in sé», e Bizet, che con la sua Carmen fa emergere la tendenza del suono a introdursi nell’azione; 3) il Lied aperto (tappeto dell’opera d’azione, corale, che porta all’illuminazione delle grandi regioni dell’io, della profondità dello spirito; i grandi nomi sono qui Beethoven e Wagner, nel complesso rapporto che esaminiamo più avanti). Bloch condivide infatti l’affermazione di August Halm, secondo la quale la storia della musica coincide con la storia della dissonanza. Cfr. August Halm, Harmonielehre, Sammlung Gölchen, Leipzig 1900.
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solo in virtù delle tensioni che la precedono. L’armonia regge questa complessa dialettica, ma non come formula convenzionale, bensì come prius vivo e operante dietro il discorso musicale. L’accordo ha la funzione di polo unificante, «segreto verticalissimo» delle linee orizzontali. In questo senso, secondo Bloch, Wagner recupera l’arte del contrappunto della fuga bachiana, ma da arte architettonica e spazialmente tranquilla ne fa un’arte drammatica, beethovenianamente drammatica, perché acquisisce «il plus delle tensioni armoniche, dei contrasti ritmici, degli sviluppi tematici, insomma tutto il complesso connettivo della “sinfonia”» (GU 107; it. 108). La drammaticità della musica di Wagner ha il merito di condurre la musica al suo «limite ancora invisibile» e di aprire così l’accesso a una regione prima sconosciuta: quella del rapporto mistico con la musica, quale arte ancora incompiuta.53 Il suono, nella sua ineffabilità, eredita il compito di esprimere l’inesprimibile, il silenzio che la parola lascia dietro di sé: nel Gesamtkunstwerk wagneriano, nel suo Wort-Ton-Drama, la musica afferma il suo primato sulla parola e sulle altre arti, ma si tratta di un primato mistico, che lega intimamente la musica alla tenebra della vita. A questi esiti Wagner poté giungere proseguendo la strada aperta da Beethoven, primo musicista a scoprire le potenzialità della forma-sonata e quindi del sinfonismo come Lied aperto: il Fidelio è «il modello aprioristico del sinfonismo drammatico», primo esempio di Lied aperto. La musica qui non segue né accompagna le parole, ma le genera essa stessa, e la tensione sonora consente che si raccolga nel tempo più breve «tutto il peso dell’atmosfera». La temporalità non è melodica, ma melismatica nei recitativi e tematica nei motivi, basata sull’«impiego sfrenato del materiale sonoro», sul «fluttuare dei suoni» e sul «continuo aumento di tensione, caos e destino» (GU 78; it. 81). Le parole che Bloch usa per parlare della musica di Beethoven sono dense di passione e commozione. Già l’uso del coro, nella Missa solemnis, è espressione di desiderio che oltrepassa la parola, la quale «si ritira in secondo piano»; le voci del canto «sono in grado di effondere la piena luce sovra-drammatica ed enigmatica dell’invocazione di una comunità di oranti, se non già dell’esaudimento. Ora che l’antica comunità è andata distrutta, anche la sua opera, il coro, può essere creata e goduta non più 53
Sul rapporto di Ernst Bloch con la mistica cfr.: Klaus-Peter Steinacker-Berghäuser, Das Verhältnis der Philosophie Ernst Blochs zur Mystik, Inaugural-Dissertation, Marburn 1973; Arno Münster, Die Metaphysik des jungen Bloch in ihrem Verhältnis zur Mystik e Blochs messianischer Mystizismus, die Philosophie der „Selbstbegegnung“ und der Geist der Utopie in Id., Utopie, Messianismus und Apokalipse im Frühwerk von Ernst Bloch, Frankfurt, Suhrkamp 1982, pp. 122-180.
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come potenza ed unità effettive di fede, ma solo come il loro desiderio» (GU 78; it. 81). È però nella forma-sonata e nella sinfonia, tra le quali «sussiste una precisa affinità, perché entrambe sono articolate secondo un’azione drammatica», che si esprime tutto l’infinito desiderio del «soggetto beethoveniano»: «Come si innalza il cuore quando ti pensa, infinito! La comparsa di qualcosa di ancor più glorioso, da noi presentita, è desiderio, non realtà operante, e nel primo mare di questa musica, aspro, tempestoso, parlante, la nostra anima spumeggia fino alle stelle. Buon figlio di Lucifero, Beethoven è il demone che conduce alle cose ultime» (GU 84; it. 86-7). La drammaticità di forma-sonata e sinfonia consiste nell’articolazione dialettica del conflitto tra due temi in contrasto, di cui viene sviluppata la scissione con digressioni e smarrimenti, fino a sfociare in una ripresa del tema principale che suona come una vittoria. Esempio emblematico ne è l’Eroica, la sinfonia n. 3 di Beethoven, «la prima sinfonia-sonata consapevole e la più perfetta» (PH 1285; it. 1265): la volontà prometeica che domina soprattutto il primo movimento rappresenta l’eccedenza del soggetto, dell’artista creatore ma anche della sua opera, rispetto al mondo che lo circonda. L’antagonismo sociale che la nascente società industriale instaura nel corso del XIX secolo si riflette nella musica di Beethoven e le permette di raggiungere, per i posteri, una maturità tardiva (Nachreife):54 la sua musica può essere ascoltata come musica dell’esplosione e della rivoluzione.55 Se l’artista è il genio prometeico che si ribella alla realtà esistente e le oppone le creazioni del proprio spirito come prefigurazioni di una possibile bellezza futura, Beethoven incarna pienamente questa figura, fino a diventarne la “tavola-guida”, ne Il prinicipio speranza: «tutti gli oltrepassamenti di limiti verso l’attimo assoluto sono anche forme sonore. La scrittura della tavola-guida luciferina è fatta di Beethoven, gli oltrepassatori di limiti appartengono tutti al regno di Beethoven, in Beethoven ogni musica diventa 54
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Il concetto di «maturazione tardiva» compare ne Il principio speranza, in cui è più forte la consapevolezza della funzione dell’opera d’arte all’interno del processo storico, ma non ancora ne Lo spirito dell’utopia. Il concetto è sviluppato a partire dalla riflessione che Bloch svolge in Erbschaft dieser Zeit sull’eccedenza dell’eredità culturale. Cfr. EZ e PH 1285; it. 1265. Questa riflessione blochiana va però contestualizzata storicamente: negli anni in cui Bloch scrive Il principio speranza, gli anni della guerra e del dopoguerra, questa era la sua lettura. Ma il suo concetto di «maturazione tardiva» permette di porre un’interessante questione, intesa come attualizzazione: quale potrebbe essere oggi la maturazione tardiva della musica di Beethoven? Quale significato teorico può rivestire oggi la volontà prometeica beethoveniana per la storia del nostro tempo?
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l’overture del Prometeo, molto oltre quella giovanile e iniziale che si chiama così» (PH 1242; it. 1224). L’eroe prometeico che Beethoven incarna, nello Spirito dell’utopia, è colui che lancia il suo grido di aiuto e di rivolta nella notte senza luce, che non trova alcuna quiete nell’apparenza (Schein) della vita e che percorre tutte le gamme della passione e della fantasia, per essere poi infine risospinto su di sé e sul proprio struggente desiderio: il suo essere luciferino ne fa l’emblema del modello d’artista espressionista, che per Bloch è il modello del creatore tout court.56 Non solo, però. L’artista che si inserisce attivamente nel processo storico, seguendo il proprio dovere interiore, adempie anche ad un compito oggettivamente morale: è colui che, consapevole del momento storico in cui vive, fa convergere nella sua opera memoria e desiderio di cui il suo tempo è intriso. In questo modo il musicista può elevarsi a concetto, e trascendere il livello storico-musicale dell’arte: Bloch, come detto, pensa a un’artista «ultimo», a un nietzscheano «metafisico dell’arte» che crea esteticamente la possibilità della futura realtà compiuta e che conduce a comprendere, grazie alla “drammaticità” della propria opera, la «profondità del tutto». In una ridda di volti come negli intagli della majestas Christi si apre lo spazio veramente sinfonico dove si percepisce il Noi, dove risuona il motivo terreno della fratellanza, dove l’Es di questo evento musicale diventa definibile come multiversum individuale. Ciò si manifesta solo in Beethoven, il massimo degli eletti nello spirito dinamico e luciferico, come visione pura, stringente, eroica, sintetica e spiritualmente luciferica che consiste tutta nel contrasto e non nella garantita ontologia cristiana […]. Egli trova infatti il suo protettore e il suo oggetto non più nel primo e non ancora nel secondo Gesù, bensì in Lucifero, il Precursore, il germe del Paracleto, l’attiva essenza umana (GU 89; it. 91)
Il desiderio luciferino che Beethoven incarna anche concettualmente – ne Il prinicipio speranza Bloch ribadisce questa tesi, parlando di «categoria Beethoven» – supera, nella sua carica utopica e dunque in intensità e moralità, il desiderio “totale” e infine totalizzante di Wagner. Se soprattutto con 56
Una bella riflessione di Schönberg esprime molto bene la concezione blochiana: «L’arte è l’invocazione angosciosa di coloro che vivono in sé il destino dell’umanità. Che non se ne appagano, ma si misurano con esso. Che non servono passivi il motore chiamato “oscure potenze”, ma si gettano nell’ingranaggio in moto per comprenderne la struttura. Che non distolgono gli occhi per mettersi al riparo da emozioni, ma li spalancano per affrontare ciò che va affrontato. E che però spesso chiudono gli occhi per percepire ciò che i sensi non trasmettono, per guardare al di dentro ciò che solo in apparenza avviene al di fuori. E dentro, in loro, è il moto del mondo; fuori non ne giunge che l’eco: l’opera d’arte». Da Arnold Schönberg, Testi poetici e drammatici, Feltrinelli, Milano 1997, p. 199.
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alcune opere, come Der fliegende Holländer (1843), il Tannhäuser (1845), il Lohengrin (1850) o Die Meistersinger von Nürnberg (1868), Wagner sviluppa l’«opera d’azione» sulla strada aperta dal Fidelio di Beethoven, il Tristan (1849) e il Parsifal (1882) – quest’ultima considerata l’opera in cui la forma del Wort-Ton-Drama giunge a compimento – sono considerati da Bloch come «compimenti vantaggiosi dell’opera fiabesca mozartiana», cioè opere in cui il lirismo del mito si afferma sopra i destini degli uomini, i quali non emergono nella loro individualità, ma sono infine “ingoiati” dalla poetica wagneriana che finisce per dominare e sottomettere l’azione sinfonica della musica. Con Beethoven e con Wagner la musica percorre le strade del desiderio, sull’onda dell’eccedenza del suono rispetto alla parola, ma giunge a due esiti diversi. In Beethoven l’assunzione prometeica dell’eccedenza sonora porta la sua opera a inserirsi fruttuosamente nel processo storico, come anticipazione di un mondo liberante che è fedele all’uomo e dunque sommamente morale. Questa dimensione, ne Il principio speranza, in cui Beethoven è definito «la morale della musica in assoluto» (PH 1276; it. 1257), è direttamente connessa all’intensità: la passione morale che attraversa la musica, di Beethoven in particolare, è volontà chiarificatrice che scava nella profondità dell’animo umano, portando con sé la luce del «momentum apocalittico». In Wagner invece il fatto che la parola-suono (Wort-Ton) non nasca dallo sviluppo musicale, ma infine prevalga sulla musica stessa, fa sì che l’approfondimento dell’umano in questa musica si dissolva nella dimensione sotterranea, ctonia dell’uomo, senza riemergere alla luce. E mentre ovunque si stende la poesia interrompendo il corso dell’opera, le figure drammatiche sono rimandate in una regione dove possono essere solo i fiori dell’albero dell’anima e persino navi danzanti che partecipano passivamente al dolore, alla lotta, all’amore e al desiderio di salvezza del loro mare subumano, sopra le quali in ogni istante decisivo non passa il reciproco incontro e la profondità del destino individuale, ma l’onda cosmica della volontà schopenhaueriana […]. Non possiamo neppure considerare le anime singole come i semplici palcoscenici su cui si scontrano le potenze della sensibilità della ragione, astratte ma sempre riferite agli uomini. Si aprono invece spiragli verso il basso, l’inferiore subentra al superiore, il mare riceve l’eredità dal cielo» (GU 121; it. 121-22)
La musica di Beethoven, desiderio che s’immerge nella profondità dell’uomo per salire al cielo, supera quella di Wagner, desiderio che s’immerge nella profondità dell’uomo per inabissarsi nel mare, così come Kant supera Hegel: «mentre tutta l’opera di Wagner ha limiti precisi, Beethoven
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invece non ha limiti, e supera Wagner come Kant supera Hegel, come l’inquieto apriori supera nell’uomo ogni tipo di oggettivismo compiuto troppo presto» (GU 88; it. 90). Beethoven e Wagner rappresentano, così, due forme diverse di desiderio blu: il desiderio che si eleva al cielo e il desiderio che si inabissa nel mare. Secondo Bloch, solo il primo, non diverso dall’incolmabile desiderio faustiano che si sporge a cercare il cielo dalle vette delle alte montagne, è desiderio utopico. 3.3 Intensità della musica opposta alla morte Ne Lo spirito dell’utopia il pensiero utopico blochiano è ancora molto legato al kantismo e alla scuola neokantiana, nel cui ambito Bloch si era formato, pur distanziandosene;57 Kant mantiene, infatti, un primato su Hegel che poi nelle opere successive perderà. La profondità umana di cui la musica è espressione e ricerca si configura come latente “cosa in sé”, che ha valenza mistico-metafisica: «la cosa in sé, “manifestandosi” solo nel desiderio spirituale e perciò preordinata alla musica, è ciò che nella lontananza più prossima, nel blu attuale degli oggetti incita e sogna; e questo è ciò che non è ancora, il perduto, il presagito, il nostro incontro con il sé nascosto nella tenebra e nella latenza di ogni attimo vissuto, l’incontro con il noi (Wirbegegnung), la nostra utopia che chiama se stessa attraverso il bene, la musica e la metafisica e che tuttavia non è terrestremente realizzabile» (GU 201; it. 198-99, trad. mod.). Ne Il principio speranza la prospettiva è mutata. La musica, immagine di desiderio dell’attimo adempiuto, plasma il «richiamo di ciò che manca» (ninfa Siringa) e lo esprime. Il desiderium le è innato, essa costituisce l’«accesso migliore all’ermeneutica degli affetti, soprattutto agli affetti d’attesa» (PH 1257; it. 1239): la dimensione mistico-metafisica della musica è ricondotta qui alla fenomenologia degli affetti e del desiderio che fondano e dispiegano il principio speranza, la musica diventa punto d’incontro e di contatto tra uomo e natura. Anche il rapporto con la storia della musica e le forme che essa assume ne viene modificato: ora Mozart, Bach e Beethoven assurgono a categorie concettuali, e sebbene quest’ultimo, come detto, mantenga il ruolo di tavola-guida della moralità nella musica, ciascuna categoria rappresenta un
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La sua tesi di dottorato è infatti su Rickert e sulla teoria della conoscenza (Kritische Erörterung über Rickert und die Erkenntnistheorie), suo Doktorvater fu Osvald Külpe, psicologo sperimentale, a Würzburg. Cfr. Peter Zudeick, Der Hintern des Teufel, cit., pp. 31-34.
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diverso effetto dell’espressione intensiva del nocciolo umano nel suono. Mozart esprime l’effetto lirico della melodia, Bach quello epico della fuga e Beethoven quello dialettico – drammatico della sonata. «Queste sono le figure dell’oltrepassamento di limiti nelle sfere sonore: sono le articolazioni dell’esistere umano in una lingua dell’intensità che si forma, che vuole conseguire tutta la sua essenza nel mondo a lei pervenuto, udendosi con chiarezza ed espandendosi. Così la musica contiene la moralità e l’universalità di un punto centrale quale intensivo penetrante e penetrato» (PH 1279-80; it. 1260, trad. mod.). L’attenzione alla dimensione «intensiva» della musica porta Bloch a caratterizzarla ulteriormente in senso spaziale.58 La temporalità musicale, che reca con sé la «tonalità emotiva» della latenza, ha la tendenza a estendersi nell’oggettività esteriore e a farsi spazio; il tema, già presente ne Lo spirito dell’utopia, si amplia e approfondisce ne Il principio speranza: lo «spazio d’intensità che solo alla musica è così aperto» (PH 1280; it. 1260) è lo spazio del possibile adempimento, del paesaggio solo presagito di una terra accogliente e amica, in cui la tensione si allenta e il soggetto si predispone a un «soggiorno nell’inaudito». Tale è la dimensione della nuova musica, in cui la tensione temporale è riassorbita nel rapporto poliritmico tra note,59 ma è già la dimensione della fuga, il cui contrappunto architettonico è privo di conflitto tematico, ed è, infine, la dimensione dell’Adagio, tempo centrale e allo stesso tempo «vero finale» della sinfonia, in cui il lento procedere rinvia la lotta contro il destino e rende possibile sperimentare quel luogo dell’inaudito che è l’«essenza intensiva» della musica e dell’uomo. «I lenti miracoli della musica sono anche i più profondi in considerazione del suo oggetto; essi trascinano e mirano oltre il tempo, dunque anche oltre il trapassare. E nel vero finale è di nuovo chiaro che in quel fondo d’oro di una memoria utopica lontanissima e immediata che incide nel vicinissimo e intensivo, e di cui pittura e poesia hanno solo il compito, la musica scava il suo tesoro: l’essenza intensiva» (PH 1289; it. 1269).
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Secondo Carlo Migliaccio è questa la differenza principale tra la concezione musicale blochiana in Spirito dell’utopia e ne Il principio speranza. Cfr. Carlo Migliaccio, op. cit., pp. 119-20 e pp. 138-41. Sulla nuova musica e su Schönberg in particolare cfr. PH 1280-1289; it. 12601269. La conclusione blochiana è che nella nuova musica sia la gestione ritmica ad esprimere la tensione verso ciò che ancora non è; la tecnica dodecafonica mantiene l’apertura di questa tensione. «La nuova musica non contiene più il dinamismo di quella romantica, essa appare per così dire come il paradosso di un adagio estremamente estroverso, però intende il non-raggiunto tanto quanto la musica dinamica, se non di più» (PH it. 1264).
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Nel buio di questo spazio si gioca la lotta, ma anche l’affinità della musica con la più potente anti-utopia: la morte. Se nel canto d’amore l’anelito al congiungimento si fa speranza e consolazione, nella musica funebre lo sprofondare nella notte della morte illumina questo nero di un altro desiderio, quello della terra promessa, della patria in cui il sommo bene si realizza al di là della morte. Il Requiem e la marcia funebre sono le forme musicali in cui converge questo tema, ma è tutta la musica a esserne attraversata. «“Schlage doch, gewünschte Stunde, gewünschte Stunde, schlage doch”:60 in questa cantata di Bach l’uomo attraversa con desiderio di patria (Heimweh) l’ultima paura» (PH 1291; it. 1971, trad. mod.). Ancora una volta è Beethoven ad esprimere il culmine di questo desiderio: nella marcia funebre dell’Eroica la morte come orrore e la morte come amica, l’abbandono al nulla e il chiarore di una felicità ignota (in questo caso chiarore azzurro, das Azur) sono «due manifestazioni del medesimo contenuto». Beethoven realizza il paradossale «sogno di desiderio» (Wunschtraum) eracliteo, per il quale la via verso il basso e quella verso l’alto sono la stessa cosa: la sua musica, nell’adagio dell’Eroica, raggiunge la vera profondità dell’altezza, che non dissipa l’oscuro illuminandolo. La «più utopica di tutte le arti» può quindi raggiungere uno spazio “extraterritoriale” alla morte, sprofondandosi nel suo nucleo: lo spazio intensivo della musica nega la morte sul suo stesso terreno, si oppone al nulla col nulla del suono e del suo ineffabile mistero, e proprio nel nirgendwo del suono, al centro del mistero, scopre un possibile spazio di libertà da morte, oppressione e destino. «La felicità, che diventa mysterium, appare certo avvolta nelle dissonanze, anzi la dissonanza può esserne in se stessa un’espressione più forte che non una triade del mondo noto. La musica mostra qui l’esistenza di un ramo, non di più ma neanche di meno, che potrebbe fiorire per la gioia eterna e che seguita a esistere nell’oscurità, anzi, la racchiude in sé. Di fronte alla più dura non-utopia ciò non significa niente di certo, ma in definitiva una capacità di negarla sul suo stesso terreno» (PH 1294; it. 1274). Se il buio permane, perché permane l’incerto e con esso il suo mistero, nel buio della musica brillano «i tesori che non vengono divorati da ruggine e tarli», nel suo nocciolo intensivo pulsano speranza e tensione verso la meta, nella sua espressione trova voce il desiderio di patria: «il Requiem ruota intorno alla terra misteriosa del bene supremo».
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Suona dunque, ora desiderata, ora desiderata, suona dunque.
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La custodia del mistero nell’espressione artistica si rivela quindi direttamente legata a un’estetica utopica: solo un’arte che sia espressione del nocciolo oscuro e intensivo del reale, aperta alla possibilità del divenire, può farsi portatrice di speranza. In questo modo l’arte tralascia come inessenziale ogni questione stilistica legata al piacere estetico e si occupa piuttosto di rimettere sempre in gioco le categorie dell’umano e con esse la domanda su quale ne sia il fondamento «mantenuto aperto e tuttavia rimasto misterioso» (GU 151; it. 150).61 L’arte si fa così «strada di casa in mezzo alle tenebre», ma resta incompiuta, legata al momento fenomenico e ancora lontana dal momento apocalittico. Per questo in Spirito dell’utopia Bloch la dichiara «incapace di porre già l’uomo bisognoso nella gloria anticipata nella disperazione» (GU 152; it. 151). In Experimentum Mundi torna su questo tema, ponendo l’accento sul carattere allegorico e simbolico dell’arte: la musica, seppur in cima alla «gerarchia», è in buona parte ancora incompiuta e non risolve il conflitto col presente in cui l’arte vive e di cui si nutre. I materiali e le figure dell’arte sono «pre-apparizioni allegoriche» plurivoche, che non mirano a far saltare il mondo presente,62 ma sono luogo «per l’esecuzione e l’intuizione di esperimenti aperti, di modelli ipotetici, di soluzioni frammentarie» (EM 205; it. 238). Non è nell’arte, dunque, che il desiderio trova compimento. Tuttavia, le «soluzioni frammentarie» che preappaiono allegoricamente e simbolicamente restano l’indicazione di una strada da percorrere.
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Zecchi, nel suo già citato articolo L’utopia dell’arte, mette in contrasto la dimensione estetica dell’utopia con quella politica, come se l’arte permettesse a Bloch di “rompere” il sistema del materialismo storico e di ritrovare i suoi grandi ideali «in un altro mondo, che non a caso è un mondo romantico e preromantico» (cit., p. 129). Non concordo con questa contrapposizione: la chiave interpretativa da me scelta è finalizzata a rintracciare in tutte le tonalità del desiderio, nelle diverse figure che lo ampliano e lo approfondiscono così come nelle diverse dimensioni in cui si esplica, non solo una possibile meta comune futura, ma anche un comune modo di procedere, quello di un desiderio aperto all’inatteso, al casuale, all’insperato e pronto a scontrarsi con la mancata realizzazione come a sperimentare e conoscere un multiversum di possibilità. Bloch si sofferma a considerare l’espressionismo come possibile eccezione a questa tendenza, ma poi non lo distingue dalle altre correnti artistiche: nonostante la sua opposizione alla tradizione, non può opporsi all’uso dell’immagine, non può diventare iconoclasta come può invece essere la religione, cui è dunque attribuita, contro Feuerbach e Marx, una funzione rivoluzionaria più radicale dell’arte.
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4. La luce, il blu e il noi 4.1 Un solido anello di anime Nel cammino sulle strade dell’arte il soggetto creatore, l’autore prometeico che dà forma al proprio irrequieto desiderio, fa esperienza del mondo63 e dunque di se stesso. Questo percorso non è mai inteso da Bloch in senso solipsistico o ascetico, come abbiamo visto, ma è sempre fortemente radicato nella dimensione storica, sociale, etica e metafisica in cui avviene. L’incontro con il sé, al quale produzione artistica e opera d’arte ci predispongno, non avviene mai senza il confronto col problema limite – «incostruibile» – del noi. Se questa posizione è teoricamente fondata ne Lo Spirito dell’utopia, essa non verrà mai abbandonata in tutta l’opera blochiana. La musica è la forma d’arte più adeguata a prefigurare una reale comunità umana futura: non solo nella musica come espressione della propria intimità, ma anche nell’ascolto, l’identificazione del soggetto con il suono udito gli permette di fare esperienza della propria inesauribile profondità. L’incontro con il proprio misterioso sé è incontro col proprio fondamento utopico, che accomuna gli uomini in un «solido anello di anime» (GU 206; it. 209), al quale non corrisponde un’effettiva realtà esterna, perché la comunità desiderata non è ancora realizzata, ma che non è per questo meno reale.64 Semmai, è l’«oggetto umano» ad essere «realmente velato» a se stesso. Per questo motivo la musica, eccedente e inafferrabile, gli corrisponde più di ogni altra arte. «Il suono cammina con noi ed è noi, non ci abbandona dopo la morte come le arti figurative che pure all’inizio sembravano indicare tanto in alto oltre noi» (GU 207; it. 210); il suono è così intimo all’uomo perché nella sua ineffabilità contiene quel sovrappiù, quell’Überschuss, che si rivela extraterritoriale alla morte e che appartiene allo stesso fondamento utopico umano e al desiderio intensivo che lo costituisce. La realtà soprattutto simbolica del suono, allora, altro non è che la realtà di una «luce che splende nel lontanissimo eppure intimissimo cielo delle stelle fisse, è il vero problema del sé e del noi» (GU 207; it. 210). Al simbolo, prevalente nella musica e, in misura ancora maggiore, nella religione, appartiene qualcosa che all’allegoria sembra mancare: si tratta di quell’ec63 64
Cfr. il testo di Francesca Vidal, Kunst als Vermittlung von Welterfahrung. Zur Rekonstruktion der Ästhetik von Ernst Bloch, Königshausen und Neumann, Würzburg 1994. Sulla concezione blochiana dell’ascolto come fondamento di una comunità utopica cfr. Elio Matassi, Bloch e la musica, op. cit., pp. 69-77 e Id., Musica, op. cit., p. 29-30 e pp. 63-71.
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cedenza misteriosa e ineffabile che non si assoggetta alla transitorietà, né all’oppressione, e che svolge al contempo una funzione unificante: attrae verso una meta comune, la patria del noi.65 Se è vero che, come abbiamo visto, l’eccedenza del desiderio è struttura propria della materia realmente in divenire, del suo essere «in-possibilità» e «secondo-possibilità», il processo di trasformazione dell’impulso vitale in desiderio consapevole, poi in speranza nel conseguimento di una patria di libertà, non è mai necessario né mai garantito. La produttività del soggetto desiderante, la creatività luciferina, è però in grado di mostrare l’anticipazione della meta e di indicare il cammino verso quella. L’antica idea gnostica della salvezza attraverso la luce della conoscenza è qui ricondotta alle facoltà produttive del genio, con la differenza che le arti figurative e letterarie restano ancorate all’immagine e alla parola, senza potersi svincolare, se non allegoricamente, da fenomenicità e transitorietà, mentre la musica e, come vedremo, ancor più la “religione”,66 svincolano l’immagine di desiderio dell’attimo compiuto da una realizzazione particolare e ne fanno un simbolo mistico, che attinge al nostro «incognito morale-metafisico» e accomuna tutti gli uomini.67 L’elemento luciferino, «luogo natale» della musica, ma comune alla produttività spirituale tout court, indica il «nostro cammino più proprio e storicamente interiore»: nel cammino verso quell’unica meta che ci accomuna, il diventare umani (Menschwerdung), ha origine la «liberazione da ogni essenza dell’opera e da ogni trascendenza in cui non compaia l’uomo; per un’etica e metafisica dell’interiorità, della fraterna intimità e del mistero in se stesso svelato che sarà la totale esplosione del mondo e il mattino della verità sopra ogni effimero sepolcro» (GU 205; it. 209). Lo spirito luciferino, che desidera riconquistare la perduta luce blu del cielo e delle sue stelle, lontana eppure «intimissima», riscopre nel cuore degli oggetti e del mistero dell’uomo quel blu. Ne Il principio speranza il blu è il colore del desiderio che permea ogni stato d’animo (Stimmung), 65 66 67
Quest’affermazione va però mitigata con quanto detto nella nota 32 di questo capitolo. Non è certo la religione tradizionale a svolgere questo ruolo, ma il messianismo a misura d’uomo che in essa è sempre racchiuso – l’ateismo nel cristianesimo. Cfr. infra, cap. III, par. 1.3. Questa discutibile impostazione gerarchizzata nell’analisi del ruolo e della funzione di arte e religione è evidentemente frutto del forte influsso che il pensiero romantico-idealistico tedesco esercita sulla produzione blochiana. Questa lettura ascendente non va comunque assunta rigidamente, come già notato, perché spesso Bloch parla di intenzioni simboliche centrali che possono essere espresse da ogni tipo di produzione spirituale.
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ogni “atmosfera affettiva” del soggetto ed è contrapposto alla nera «indifferenza emotiva» della noia heideggeriana, che sfocia infine nello «stato emotivo fondamentale» (Grundbefindlichkeit) dell’angoscia; senza desiderio viene a mancare «il colorante dei sogni da svegli con cui lo stato d’animo dipinge la sua ora blu», chiaro-scuro emotivo nel quale la speranza, affetto d’attesa, sa cogliere il lato aurorale (PH 119; it. 126). «La strada dei desideri, col paesaggio verso il quale punta, non è, come strada della speranza, più ricca, ma evidentemente preferita e più viva della strada del non-desiderio o della paura; questo almeno nelle generazioni che vogliono uscire dal buio alla luce» (PH 128; it. 134-5). La strada del desiderio acquista nella sfera dell’arte una profondità morale e metafisica che apre a una dimensione comunitaria della ricerca d’identità e compimento. Quest’apertura oltrepassa però i confini dell’arte e, come abbiamo visto, appartiene all’orizzonte della filosofia. «L’ora creativa e filosofica per eccellenza è giunta: a realizzarla ci aiuta il sogno ad occhi aperti perennemente concentrato su una vita più pura e più elevata, sulla redenzione dalla malvagità, dal vuoto, dalla morte e dall’enigma, sull’unione con i santi, sulla trasformazione paradisiaca di tutte le cose. Solo questo speculativo sogno di desiderio crea qualcosa di reale ascoltando la propria profonda voce interiore, finché non riesce a penetrare nell’anima, nel terzo regno dopo le stelle e il cielo degli dei – nell’attesa della parola, volto a illuminare la realtà eccelsa» (GU 216-7; it. 220). La parola, che in letteratura resta racchiusa nell’orizzonte dell’immagine raccontata o evocata, trova il suo rilancio in una filosofia utopicamente aperta e inconclusa. Essa sgorga, inattesa, dall’ascolto della propria interiorità. Che lo gnosticismo si sposi con il messianismo ebraico in un’idea di conoscenza che sorge dall’ascolto della propria interiorità nell’attesa della parola salvifica è certamente un originalissimo tratto del pensiero blochiano, ma ancor più interessante, a mio parere, è il ruolo filosofico dell’arte all’interno di questa cornice di pensiero: in arte trova espressione l’ambito della molteplicità della vita in ricerca della propria unità, e infatti è costituita da funzione allegorica (rinvio all’alterità) e funzione simbolica (condensazione in unità), ma anche quando la seconda sembra prevalere sulla prima, è l’eccedenza dell’alterità a ripresentarsi (come la follia di Don Chisciotte arriva a disturbare la vittoria di Faust). Ha senz’altro ragione Zecchi quando sostiente che l’arte del Novecento si sviluppa in opposizione, o forse meglio, nell’oblio del concetto blochiano di utopia: è infatti arte che incontra la propria grandezza, e il proprio declino, principalmente nel mettere a tema la dissoluzione del senso e il nulla della comunicazione, ed è per questo incompatibile con la fiducia utopica e
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visionaria nell’importanza e nella forza della creatività. E tuttavia, la filosofia dell’arte blochiana sembra in grado di parlare anche in termini postmoderni, anzi, di prospettare un oltrepassamento del post-moderno: il percorso dell’arte è infatti qui quello della molteplicità frammentaria dell’io che, in ascolto del grido della propria interiorità frantumata, dà espressione artistica al proprio desiderio di utopica identità e nel far questo rompe le mura della propria solitudine per incontrare – seppur soltanto nel comune desiderio – un «solido anello di anime». Questo tema è gia centrale in Spirito dell’utopia, in cui il marxismo blochiano è circoscritto a ideologia liberante all’interno di un processo apocalittico più ampio e non costituisce ancora l’orizzonte ultimo della sua filosofia, ma, pur nelle modificazioni successive, si mantiene a suo modo costante: l’anelito luciferino del soggetto creatore trova sì una nuova formulazione ne Il principio speranza e soprattutto in Soggetto-oggetto, ma in queste opere tende comunque a identificarsi con quel «fattore soggettivo» su cui Bloch pone l’accento nella sua interpretazione della dialettica hegelo-marxista. Contro certo «materialismo mecccanicista» d’impronta marxista, che in vista della conservazione del potere e della soppressione delle libertà indivduali era fautore, nei paesi comunisti, dell’impersonalità oggettiva del processo storico e della caduta necessaria del capitalismo, Bloch difende il fattore «soggettivo-intensivo» come motore alogico della dialettica – dunque fattore sistematico, ma imprevedibile, che ne determina la continua apertura alla novità del futuro. Quest’impostazione teorica non era dovuta soltanto a motivi politici strategici, quali la difesa delle libertà individuali in un contesto storico in cui esse erano negate, ma aveva radici altrettanto forti nel suo pensiero sulla centralità dell’arte, coltivato fin dagli anni ’10-’20: nessuna autentica comunità futura può essere fondata su soggetti che non siano in ascolto della propria interiorità e della propria oscurità, dunque dei propri bisogni, desideri e tendenze, che l’arte esprime nella loro articolata radicalità. Solo attraverso questa conoscenza del sé e dell’alterità che lo abita – che ci abita – è possibile fondare una comunità utopica. La soggettività, e così l’arte di cui essa è autrice, eccede la dimensione politica della comunità, non sufficiente, da sola, a liberare l’individuo; l’arte testimonia la molteplicità delle identità possibili e indica nella comune essenza umana una meta da raggiungere. 4.2 Arte e filosofia Così come nessuna realizzazione storica può acquietare il desiderio, perché nessun compimento esaurisce il nocciolo intensivo e misterioso
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che ci costituisce, allo stesso modo la filosofia non si annulla mai, marxianamente, nella sua realizzazione, perché conoscenza e illuminazione del reale sono fondate in quel desiderio di luce blu, di cielo, che costituisce il nocciolo intensivo di tutte le cose: «ogni essente ha la sua stella utopica nel sangue e la filosofia non sarebbe nulla se non costituisse la soluzione in pensieri di questo cristallino cielo della realtà rinnovata» (GU 217; it. 221). Ciò non significa che la filosofia sia la meta ultima della conoscenza che il desiderio insegue, ma che solo la filosofia possa arrivare a pensare una meta che indichi una direzione comune nella prassi. Ne Il principio speranza, infatti, Bloch interpreta la nota tesi 11 di Marx su Feuerbach non nella direzione della soppressione della filosofia, ma come negazione della filosofia contemplativa: una filosofia utopica che conserva l’eredità marxista non disgiunge la trasformazione del mondo dalla conoscenza di esso. Anzi, non potrebbe esserci trasformazione «seria», che porti in direzione del «regno della libertà», se non ci fosse un «prius teorico-pratico» della filosofia che «con lungo respiro, con eredità culturale, non da ultimo si intende di luce ultravioletta, cioè delle qualità della realtà che sono portatrici di futuro» (PH 326; it. 330). La mediazione tra sé e noi che si realizza nell’esperienza artistica, intesa sia quale produzione sia quale fruizione dell’arte, contrariamente alla mediazione filosofica, non è ancora trasformazione, ma pre-apparizione anticipante del futuro possibile; in quanto tale è anch’essa fonte di conoscenza del nostro chiaroscuro, ma solo come guida nel percorso, non ancora come passo concreto verso l’incontro e la comunità. L’arte, per Bloch, resta, hegelianamente, ad un livello di maggior astrazione della filosofia. Tuttavia arte e filosofia sono entrambe forme di produzione spirituale e sono per questo attraversate dalla stessa tensione. Bloch ne parla in un breve e criptico saggio del 1917, pubblicato per la prima volta nel 1923 nella raccolta Durch die Wuste, poi ripubblicata nel 1964. Nel 1969, in occasione della pubblicazione dell’opera omnia, il titolo di un intero capitolo dei Philosophische Aufsätze riprende il titolo di questo saggio: La bontà dell’anima e il demonismo della luce.68 Il problema è, ancora una volta, quello del rapporto tra tensione etica e produttività spirituale: la bontà dell’anima, da un lato, non è passiva accettazione dell’esistente, né moderazione dovuta a scarsa forza di volontà, ma radicalità cristiana che sa coraggiosamente schierarsi dalla parte degli “umiliati e offesi”, mentre il demonismo della luce, dall’altro, è aura 68
Cfr. PA 190-223 e Ernst Bloch, Durch die Wuste. Frühe kritische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1964, pp. 141-147.
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produttiva prometeica che brucia e fa saltare in aria persino le porte della Gerusalemme celeste, è il lato «cattivo» e distruttivo di ogni produttività, il luciferino trasgressore, il prometeico ribelle. Come ha insegnato Cristo stesso, fare il bene non significa non dispiacere a nessuno: Egli fu «un scandalo per gli ebrei, una follia per i pagani». Questa tensione è ricondotta da Bloch a un’interpretazione post-cristiana della distinzione aristotelica tra virtù etiche e dianoetiche, che includa nel formalismo di Aristotele la volontà redentiva dell’uomo. Virtù etiche e dianoetiche rappresentano due forme diverse dello stesso divenire: da un lato, la tensione etica alla realizzazione pratica del bene e dall’altro quella dianoetica alla ricerca teorica della verità del bene. Non un dualismo, tra queste virtù dal diverso «tenore», ma «strati» diversi del divenire delle creature, del rischiaramento orientato verso lo scopo comune: il divenire umani. Nel processo si fronteggiano l’equa tenerezza (Milde) del bene e l’aspra durezza della sua forma prometeica. È in gioco qui un’unità in tensione, che non va risolta ma alimentata: né la bontà d’animo, l’eticità del comportamento, dev’essere dissolta dall’illuminazione operata dal demonismo dell’aura creatrice, né il demonismo prometeico dev’essere annullato da una bontà che finirebbe per diventare impotente. Se il demonismo si affievolisce, l’opera d’arte si riduce a «formula domenicale», a oggetto di «godimento estetico» che non comporta alcun cambiamento, alcun “divenire luciferino”, mentre se il demonismo annichila la bontà dell’anima, l’opera d’arte rischia di alimentare la conflittualità umana anziché costituire un richiamo alla futura comunità possibile. «Al giusto compimento ispirato a Cristo si addice: pianura della fraternità da realizzarsi nel cambiamento, alta montagna della prospettiva panoramica da realizzarsi, da chiamare a salire enormemente verso l’alto. E tutto ciò in un unico percorso, duramente contrastato, ma mai dualistico – doppiamente in cammino verso la luce» (PA 223, trad. propria). Dipingere il paesaggio di desiderio della meta, ovvero svolgere filosoficamente la ricerca di un’utopia concreta e multivoca, significa allora viaggiare tra la dolcezza della pianura e l’asprezza dell’alta montagna, alla ricerca della profondità del senso dell’uomo. Qui arte e filosofia possono ancora e sempre realizzare un fecondo incontro, in cui immagine, parola e suono siano tracce di quel senso utopico che sempre eccede la loro singolarità concreta. Dipingere paesaggi di desiderio significa, così, dare spazio al pensiero e aprire nuove strade per la vita umana.
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III DESIDERIO ROSSO: AMORE E RIVOLUZIONE Colori S’io riposo, nel lento divenire degli occhi, mi soffermo all’eccesso beato dei colori; qui non temo più fughe o fantasie ma la «penetrazione» mi abolisce. Amo i colori, tempi di un anelito inquieto, irresolvibile, vitale, spiegazione umilissima e sovrana dei cosmici «perché» del mio respiro. La luce mi sospinge ma il colore m’attenua, predicando l’impotenza del corpo, bello, ma ancor troppo terrestre. Ed è per il colore cui mi dono s’io mi ricordo a tratti del mio aspetto e quindi del mio limite. Alda Merini
La discesa del desiderio nella profondità del blu si rivela essere, allo stesso tempo, una salita verso la luce, ma in quest’ascesa il desiderio si colora di rosso: è il rosso del sole che sorge, il rosso dell’aurora di un nuovo giorno carico di possibilità non ancora compiute, ma è anche il rosso del coraggio di oltrepassare persino la beatitudine del cielo, per riempire la terra di calore. Il rosso è il colore di un altro, ulteriore «oltrepassare», che avviene ad opera del desiderio: il richiamo a perfezione e compimento etico, di cui l’arte è voce prometeica, vuole diventare pratico e scardinare le barriere della realtà che impediscono questo processo creativo nella prassi dell’individuo e della società. «Al colore rosso non si addice mai di fare volontariamente il timido. Ogni barriera, se viene sentita come tale, è già al tempo stesso oltrepassata. Infatti già l’urtarla presuppone, e contiene in germe, un movimento che vada oltre (eine über sich hinausgehende Bewegung)» (PH 515; it. 510, trad. mod.).
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Se nel coraggio di questo rosso oltrepassante si sente l’eco dell’Aurora (Morgenrote) nietzschiana e di quella «filosofia del mattino» in cui Bloch riconosceva il «lampo utopico» del «Dioniso crocifisso»,1 è però al marxismo, alla sua filosofia della prassi e alla speranza nella realizzazione futura di una società socialista che Bloch, com’è noto, fa riferimento quando parla di «colore rosso». Nella nota distinzione tra corrente calda e corrente fredda del marxismo, e nella corrispondente distinzione tra rosso caldo e rosso freddo, riecheggia ancora una volta Kandinksy, il quale mette in rilievo, ne Lo spirituale dell’arte, il fatto che la polarità tra caldo e freddo, possibile in ogni colore, non è mai così accentuata come nel rosso, così ricco e diversificato, nella sua «energia immensa e quasi consapevole».2 È l’intimo nesso fra desiderio e speranza ad essere in gioco in questa vivace tonalità: può riuscire il desiderio a guadagnare l’ampio orizzonte della speranza per il futuro? Come giunge il desiderio di bene per l’uomo alla speranza in un «regno della libertà» socialista? Come il desiderio di bene eredita la speranza escatologica per il mondo di cui prima voce è la Bibbia? Rosso, colore della passione come della rivoluzione: non Marx, ma Platone fu il primo a indicare nell’ἔρως la ricerca di «procreazione nel bello» che conduce al bene, quel Platone che Bloch, pur nell’accusa di idealismo reazionario, definisce «pensatore del desiderio come non ce n’erano ancora mai stati», ma che Nietzsche vorrebbe «rosso di vergogna» e che Heidegger indica come primo responsabile dell’oblio dell’essere ne La dottrina platonica della verità. Ciò che semmai la filosofia ha obliato è, invece, il desiderio che abita il pensiero, sia nella sua dimensione erotica,3 sia nella sua dimensione 1
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Cfr. Der Impuls Nietzsche in EZ 358-366; it. 299-306. In questo articolo Bloch distingue due possibili letture contrastanti dell’opera di Nietzsche, le quali attingono a elementi duplici che convivono nel suo stesso pensiero. Così, «l’aurora della vita in Nietzsche non è la “sorella rosseggiante di Apollo, che illumina il globo con la sua fiaccola sollevata”, ma è l’esatta controparte di Apollo, e rimane nella notte». La controparte di Apollo, però, altro non è che Dioniso, in verità, secondo Bloch, non controparte, ma «fratello» di Apollo, che combatte «contro l’oppressione, la legalità, la malia, contro la quiete e non contro la luce […]. Anche questo dio si fa sentire in Nietzsche, per la prima volta dopo un lungo silenzio, in un altro Nietzsche rispetto a quello delle maschere, delle bestialità e della mitologia, nel Nietzsche teleologo che ha preso invano il suo posto sul ponte del futuro, e le sue visioni sono illuminate, in un bagliore selvaggio, da un mondo che non c’è ancora» (EZ 361; it. 301-302). Kandinsky sottolinea che per questo motivo il rosso è il colore più ricco di «possibilità interiori». Cfr. Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, cit., pp. 68-69. A questo proposito è interessante leggere il provocatorio libro di Anne Dufourmantelle, Sesso e filosofia, Donzelli Editore, Roma 2004, in cui l’autrice auspica che l’appuntamento al buio sempre rinviato tra sesso e filosofia possa dar luogo, se
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rivoluzionaria.4 Il desiderio ha trovato posto nella storia del pensiero quasi esclusivamente come desiderio spirituale, o spiritualizzato.5 Nemmeno la ricerca freudiana sulle pulsioni riconsegna il desiderio alla filosofia, sancendo piuttosto una spaccatura tra psicologia e filosofia, di cui il desiderio è limite e confine: come se il ruolo che pulsioni e desideri svolgono nella strutturazione dell’identità degli individui fosse questione separata dalla ricerca di una verità che possa unire gli uomini in un comune orizzonte di senso. Se non mancano, nel Novecento, gli autori che hanno svolto coraggiosi percorsi trasversali tra le due discipline inaugurando nuove modalità di riflettere e lavorare sul desiderio, Bloch, più noto come pensatore politico, o teologico-politico, non è di solito annoverato tra questi. Si pensa piuttosto a Lacan, a Foucault, a Deleuze e Guattari in Francia e a Marcuse, a Erich Fromm in Germania, fino ad arrivare all’allievo sloveno di Lacan, Slavoj Žižek, il quale, pur avendo di recente scritto un voluminoso testo In difesa delle cause perse, riferendosi esplicitamente a marxismo e psicoanalisi, e pur dedicanto tempo e attenzione, in quanto lacaniano, al tema del desiderio, non dedica nemmeno una breve citazione al filosofo dell’utopia.6 Eppure l’analisi blochiana della funzione del desiderio nella «coscienza anticipante» raccoglie l’eredità dei maestri del sospetto (dal pensiero vitalistico nietzschiano, attraverso lo studio freudiano delle pulsioni, fino al materialismo dialettico marxista), per rifonderla in una sintesi originale, che riscopre in ambito filosofico la funzione liberante, rivoluzionaria e addirittura quasi messianica del desiderio (almeno in quanto il desiderio apre all’accoglienza del nuovo). Che la portata di questa riflessione non sia tuttora riconosciuta, che venga spesso ridotta a visione “antropologica” funzionale al resto del sistema e così velocemente liquidata, testimonia il permanere di una specifica difficoltà da parte della filosofia attuale rispetto al tema del desiderio: coglierne la portata in tutta la sua ampiezza filosofica, coniugando le sue diverse dimensioni, da quella estetica a quella etica, da quella erotica a quella rivoluzionaria, da quella economico-politica fino a quella spirituale. Non diverso da questo è l’intento del lavoro di ricerca
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non a un mondo comune, a una lingua comune che ci mantenga «nella fame, nella meraviglia, nell’amore». Cfr Herbert Marcuse, Eros e civiltà, trad. di Lorenzo Bassi, Einaudi, Torino 2001 (1964), pp. 215-249. Conduce a questo esito la stessa distinzione tra un desiderio inferiore e un desiderio superiore, alla base della distinzione tra eros e agape, di cui parla Camille Dumoulié, Il desiderio, op. cit., p. 196. Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse, tr. it. di Cinzia Arruzza, Ponte alle Grazie, Milano 2009.
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sul colore e sulle tonalità del desiderio: la portata filosofica della categoria è facilmente raffigurabile, in tutte le sue sfaccettature, attraverso i colori, che permettono di mantenere, da un lato, il riferimento alla sua materialità e, dall’altro, evocano una dimensione simbolica che la trascende. Nel caso del desiderio rosso, orizzonte del trascendere non è più la figura né la tavola guida dei valori oltrepassanti di cui l’opera d’arte si fa espressione concreta, come nel desiderio blu, ma, nell’amore, è l’essere amato che allo stesso tempo, da un lato, mi rispecchia e mi colma, mentre dall’altro mi oppone resistenza e mi sfugge nella sua inafferrabilità, a costituire l’orizzonte del trascendimento del desiderio in un una non sempre proficua alternanza tra comunione umana dal sapore divino ed esperienza di scontro con i reciproci limiti. Nella politica, poi, è la società, o meglio la comunità umana, nel suo multiversum e con la sua dialettica a più strati, a costituire l’orizzonte del trascendimento cui mirava la rivoluzione socialista e cui avrebbero dovuto mirare gli Stati che pretesero di rappresentarne l’ideologia: anch’essa racchiude quell’alterità infinita che a sua volta sfugge ai desideri migliori, per quanto ben intenzionati. La speranza può rimanere delusa, ma il desiderio rosso non può estinguersi. 1. La rivoluzione dell’autoconservazione 1.1 Bloch contra Freud: il desiderio non inganna Molti i motivi per salvaguardare il pensiero dal desiderio: l’incostanza, la mutevolezza del suo oggetto, l’irrazionalità della sua scelta, l’aspirazione totalizzante, la smania di possesso. Caratteristiche, queste, tradizionalmente attribuite al desiderio erotico, la cui irrazionalità viene continuamente riaffermata.7 Nella storia della filosofia occidentale, il pensiero 7
È questa la posizione di Jean Baudrillard, che, in De la séduction, Éditions Galilée, Paris 1979; tr. it. Della seduzione, SE, Milano 1997, separa la seduzione, che opererebbe a livello simbolico tramite immagini e segni, dal desiderio, che rimarrebbe legato all’attrazione dei corpi, sfera di cui dice essere «volgare meccanica e fisica carnale: niente di interessante». Tra gli autori più recenti che riprendono il leit-motiv dell’irrazionalità del desiderio troviamo, ad esempio, Umberto Galimberti, che nel suo ultimo libro, Le cose dell’amore, Feltrinelli, Milano 2004, a p. 66 scrive: «Il desiderio, infatti, non sa cosa vuole. È un atto infondato che trova insopportabile ogni gesto della ripetizione volto a confermare se stesso. Come una forza incontrollata irrompe nella stabilità dell’ordine, producendo nel senso, da tempo codificato, quel contro-senso che fa ruotare i discorsi senza immobilizzarli intorno a un dispositivo reale». E a p. 67 prosegue: «Per questo, nel suo impulso,
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sembra per lo più delimitare il desiderio nei sicuri recinti della razionalità, fino ad affrancarsene. Si potrebbe persino – esagerando – concepire la filosofia come strategia teorica di contenimento della secolare fobia (maschile?) nei confronti del desiderio, che a livello razionale ha trovato elaborate strade difensive rispetto al temuto oggetto di sconvolgimento, mentre a livello sociale si è per lo più configurata in strutture in cui la donna è stata soggiogata e oppressa – è un dato di fatto, purtroppo drammatico, il non avere figure di riferimento nel pensiero femminile prima del Novecento.8 Tuttavia, non sarebbe giusto ignorare che arginare e rinchiudere, a livello teorico, significa anche curare e proteggere. Così è altrettanto vero che la filosofia ha operato una strategia di protezione e cura del desiderio: nel porre argini e confini razionali al desiderio, l’uomo tende a sfruttarne con maggior saggezza le potenti energie. È certo quest’ultima la strada che Bloch percorre con “neo-idealistica” fiducia nella conoscenza, fiducia oggi apparentemente anacronistica. Sicuramente anacronistico è, piuttosto, l’approccio ideologico a quello che possiamo chiamare “l’inganno del desiderio”:9 secondo Bloch non la struttura del desiderio, ma quella della società in cui esso si realizza, è causa della sua alienazione. È la società capitalista, con la sua smania di consumi “a basso costo”, con i suoi modelli di dominio e di potere, a causare lo smarrimento del desiderio e l’alienazione dei suoi fini più autentici, che nella loro tendenza recano invece traccia di tutta la bontà della patria che il desiderio oscuramente cerca. Tanto che nei sogni di felicità borghese si possono rin-
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il desiderio non predispone una risposta e non contiene una soluzione. Non si lascia presiedere da alcuna logica. Se mai è ciò che rompe la logica del discorso, la sua grammatica, la sua sintassi. Il desiderio è ciò che nel discorso fa problema». Opposta a questa posizione quella di Remo Bodei, nel già citato articolo La logica del desiderio, cit., p. 118: «Il desiderio mantiene in tensione noi stessi. Il nostro paradossale errore non consiste, per Bloch, nel desiderare troppo, ma nel desiderare troppo poco (e male)». Lo ritengo drammatico sia dal punto di vista della storia dell’umanità, che nelle sue stesse produzioni spirituali, cioé in quanto ha prodotto di più alto, si rivela suo malgrado, di fatto, oppressiva, sia dal punto di vista del pensiero stesso, che è stato privato di troppe occasioni di confronto, dunque di sviluppo e di crescita, che avrebbero potuto avere benefiche ricadute sociali. I sempre maggiori spazi di libertà acquisiti dalla donne nell’ultimo secolo in ambito sociale hanno, infatti, sicuramente influito sulla crescente consapevolezza del ruolo degli affetti, dei sentimenti e del corpo nella formazione degli individui, consapevolezza che ha tanto positivamente influenzato la società sul piano pedagogico e culturale, ma anche legislativo. Mutuo l’espressione da Umberto Galimberti, Le cose dell’amore, cit., p. 76-84, par. Amore e seduzione. La trasparenza delle vesti e l’inganno del desiderio.
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tracciare gli elementi dell’incessante ricerca del bene. Si può dire che per Bloch il desiderio non inganna, ma viene facilmente ingannato, o sedotto, dal mondo esterno che lo condiziona e lo attrae. Dando per scontato e indiscusso questo presupposto, Bloch ignora così, nel suo confronto con Freud, quello che sarebbe stato forse l’argomento più interessante di contesa tra i due pensatori: la discussione su logica e dialettica del desiderio e sui motivi del suo inganno, se di inganno si può parlare. È stata Hanna Gekle a mettere in dialogo i due pensatori su quest’argomento, servendosi però della teoria freudiana come principio critico del pensiero blochiano. Per Freud, infatti, il desiderio inganna spesso: è regolato dal principio di piacere (Lustprinzip), il quale ha come fine la gratificazione dell’individuo e quindi tende a far coincidere desiderio e realtà a favore del primo termine e a discapito del secondo, attribuendo carattere reale a ciò che è soltanto proiezione di desiderio (fantasma). Così, se Bloch si occupa soltanto del desiderare cosciente, che ha come riferimento il mondo esterno e per questo si configura come continuo accrescimento (Vermehrung) della sua realtà, Freud, nelle sue ricerche sul conflitto tra principio di piacere e principio di realtà,10 si concentra piuttosto sulla funzione psichica del desiderio nel mondo interiore e per di più inconscio dell’uomo: il rapporto tra desiderio e realtà è allora di lotta e conflitto, il cui esito possibile non è solo l’accrescimento, ma anche l’impoverimento (Verarmung) della realtà, attraverso la strumentale deformazione che di essa viene fatta in vista del proprio godimento.11 La Gekle mette in rilievo anche due presupposti indiscussi del pensiero blochiano, che sono di altra natura rispetto a quello che abbiamo chiamato il suo approccio ideologico all’inganno del desiderio. Il primo presupposto indiscusso consisterebbe nell’assumere senza riserve lo schema hegeliano della mediazione come passaggio unidirezionale dall’immediato al mediato, in modo tale che ogni mediazione comporti progressione e accrescimento, senza spazio per un concetto di stimolo (Drang) regressivo. Il secondo presupposto indiscusso consisterebbe nella valutazione positiva del tendere (Streben) alla compiutezza, intesa come meta dell’oltrepassamento utopico in cui desiderio e realtà si riconciliano nell’identità di soggetto e oggetto, di uomo e mondo, senza spazio per criticare il sogno di onnipotenza racchiuso in questo schema.
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Sigmund Freud, Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico (1911) in Id., Opere, ed. diretta da C. L. Musatti, vol. 6, Bollati Boringhieri, Torino 1989. Cfr. Hanna Gekle, op. cit., pp. 25-31 e 253-310.
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Si può tenere presente questa critica acuta e anche parzialmente fondata, ma per operarne il rovesciamento e mettere in discussione, alla luce della filosofia blochiana, la concezione freudiana del desiderio, non solo sostanzialmente regressiva, ma anche fondata sul carattere ingannevole del godimento; concezione che tanto ha influenzato la cultura contemporanea, fino a diventare nel pensiero di Lacan, in psicoanalisi, la chiave di lettura del rapporto con l’Altro nei termini di incolmabile mancanza, che il principio del godimento mira continuamente a colmare, pur se destinato alla sconfitta. A questo approccio psicoanalitico col desiderio fa da contraltare, in filosofia, il pensiero di Lévinas, secondo il quale il rapporto con l’Altro può essere di incolmabile trascendenza etica solo se affrancato dalla logica del godimento.12 Più che soffermarsi sul ruolo del godimento, Bloch critica, fin dallo Spirito dell’utopia, il carattere esclusivamente regressivo dell’inconscio freudiano, che, rivolto solo al passato rimosso, ignora la dimensione anticipante del non-ancora-cosciente: «è soprattutto nel lavoro creativo che viene superato chiaramente il limite impressionante del non ancora conscio. Un’aurora, un’alba interiore, fatica, buio, ghiaccio che si spezza, un risveglio, una percezione sempre più prossima, una condizione ed un concetto sono pronti ad accendere la vivida luce identica e ad aprire la porta del guardare verso di sé all’oscurità dell’attimo vissuto» (GU 243; it. 245, trad. mod.). Fin dai primi scritti non è intenzione di Bloch escludere la dimensione regressiva e persino abissale dell’inconscio, ma semmai mostrarne la possibile apertura alla luce della creatività, che si fonda proprio sul continuo evolvere del proprio buio. In prospettiva estetica, ciò significa che di tutto ciò che ci abita si può fare arte, perché desideriamo creare. In prospettiva etico-politica, significa che con (e anche nonostante) tutto quello che ci abita si può fare del bene, perché desideriamo una patria comune. È la filosofia utopica a dare fondamento a queste prospettive: «la filosofia utopica, propria del pensiero che illumina sempre più verso l’alto, propria dell’anima che è confusamente circondata da incompiutezze, da percorsi mistici e dal crescente rilucere del fuoco che proviene dal futuro, comincia a dischiudere un inconscio di 12
Un’acuta critica alle tradizionali concezioni sostanzialmente negative del godimento è svolta da Roberto Mancini nell’articolo Godimento e verità. La vocazione metafisica del desiderio in Claudio Ciancio (a cura di), Metafisica del desiderio, op. cit., pp. 3-21, in cui è di rilievo il riferimento a Bloch. Sul desiderio blochiano Mancini aveva già pubblicato nel 2001 il bell’articolo Ermeneutica del desiderio. Un viaggio attraverso “Il principio speranza” di Ernst Bloch, in Annuario Filosofico, n. 16, 2001.
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ordine superiore, il fundus intimus, la latenza del mistero originario in sé che pulsa nell’attimo (die im Jetzt treibende Latenz des Urgeheimnisses an sich): l’inconscio creativo del nostro coronamento spirituale (seelischen Krönung)» (GU 243; it. 245, trad. mod.). Così, se è vero, come afferma la Gekle, che la tensione al compimento è valutata positivamente senza un approccio critico, è anche vero che il pulsare (das Treiben) della latenza dischiuso dal pensiero utopico non resta nella dimensione irrazionale della pulsione freudiana (Trieb), ma è desiderio che, nella misura in cui emerge alla coscienza e stimola il pensiero, libera l’uomo e lo indirizza alla ricerca di un «coronamento spirituale».13 Quest’idea viene ripresa, in termini meno mistici e con un’indagine più approfondita, in quattro densi capitoli de Il principio speranza.14 Qui Bloch critica la teoria freudiana della libido come energia pulsionale fondamentale, a partire dalla constatazione della molteplicità e della mutevolezza di impulsi, pulsioni e bisogni,15 che paiono impadronirsi del nostro agire e del nostro corpo senza mai essere uguali a se stessi, difficili dunque da individuare e definire. Secondo Bloch è piuttosto il nostro corpo a farsi sentire nei suoi bisogni e a perseguire i propri fini attraverso «molteplici molle pulsionali», evitando ciò che lo danneggia e cercando ciò che lo conserva. La facoltà umana di avere coscienza dei propri bisogni li moltiplica però indefinitamente: «l’uomo consapevole è l’animale più difficile da saziare; egli – nel soddisfacimento dei suoi desideri – è l’animale che fa deviazioni» (PH 54; it. 60). Altro fattore che rende difficile definire pulsioni e bisogni è la loro limitatezza storica: il sistema economico in cui il singolo corpo è inserito ne condiziona così tanto le esigenze, che gli studi sugli impulsi fondamentali dell’uomo rispecchiano in realtà le condizioni spaziotemporali, ma anche socio-economiche, in cui sono stati effettuati.
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Il pensiero utopico, rivolto verso l’alto e verso il futuro, non riconosce dunque, in contrasto con la psicoanalisi freudiana, valore liberante al ricordo, ma solo a speranza e desiderio. «Non essendo ancora mai stati presenti a noi stessi, né nell’istante vissuto né immediatamente dopo, non possiamo neppure esistere in quanto “tali” neppure nel ricordo. Ben diversamente accade nello sperare che proietta in avanti le esperienze vissute e soprattutto in ciò che vive in noi come desiderio (Sehnsucht) “più silenzioso” e “più profondo” e ci accompagna come “sogno ad occhi aperti” della liberazione da un sortilegio, di un compimento senza nome, l’unico a noi adeguato» (GU 242; it. 244, trad. mod.) Sono i capp. 11-14 del primo volume, inclusi nella seconda parte dell’opera, che costituisce la Fondazione e s’intitola La coscienza anticipante. Ricordo che nel primo capitolo è stata sottolineata l’equivalenza di questi tre termini nel linguaggio blochiano. Cfr. supra, pp. 27-28 e nota 39.
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Freud invece pare ignorare i fattori storici ed economici, e ricondurre troppo facilmente tutte le pulsioni alla libido, all’energia sessuale; anche per quanto riguarda la distinzione del secondo Freud tra pulsioni di vita e pulsioni di morte le seconde possono essere ricondotte alle prime, secondo Bloch, perché le pulsioni di morte recano con sé, nella ricerca freudiana, una tensione all’annullamento che è affine a quello ricercato dalla pulsione sessuale. Il conflitto tra principio di piacere e principio di realtà, che causa rimozione e spostamento dell’energia libidica da un oggetto all’altro ad opera di Io e Super-Io, è riletto da Bloch alla luce del contesto borghese in cui la teoria freudiana nasce: la «realtà» di cui Freud parla altro non sarebbe che l’ambiente borghese della Vienna di inizio Novecento, in cui domina un rigido moralismo benpensante, e le forze «ignote e incontrollabili», che secondo questa teoria governano la vita psichica, altro non sarebbero che «la potenza estranea del modo di produzione capitalistico, che Freud trasforma nell’Es della libido» (PH 58; it. 65). L’inconscio freudiano, così, finisce per configurarsi come «cantina della coscienza», in cui si possono accumulare vecchi ricordi e desideri insoddisfatti come fossero merci scomode, ma in cui non è possibile trovare nulla di nuovo, perché la stessa libido è relegata nell’ordine dell’irrazionalità e rimane in posizione conflittuale con Io e Super-Io, che nei suoi confronti si limitano a esercitare selezione e controllo. Se è vero che Freud riconosce il carattere liberatorio e illuminante della coscienza – la psicoanalisi è da lui concepita come percorso di acquisizione di consapevolezza e come cura – per Bloch la «brezza psicoanalitica» non è sufficiente a risolvere il «disagio della civiltà», perché non sa tener conto delle ragioni economiche che muovono la storia. Ecco in cosa l’approccio ideologico di Bloch pare comprometterne il confronto con Freud: l’accusa di filisteismo lo distoglie dall’analisi teorico-critica del rapporto tra desiderio e principio di piacere, così che la critica all’irrazionalità della libido è molto affrettata e il ruolo del godimento non viene preso in considerazione. Si comprende, dunque, che la Gekle critichi l’attribuzione irriflessa di valore positivo alla tendenza al compimento: l’autrice vede qui in opera un non consapevole principio di piacere, da Bloch effettivamente non discusso. Ciò di cui la Gekle non sembra volter tenere conto, però, sono, da un lato, le mediazioni che il pensiero filosofico blochiano compie per rendere concrete (dunque, non egoistiche, non totalizzanti, ma liberanti) le aspirazioni del desiderio (e infatti ne condanna l’andamento progressivo di stampo hegeliano); dall’altro, sembra disconoscere l’alternativa che il pensiero di Bloch sul desiderio rappresenta, per integrarlo troppo velocemente nella cornice freudiana.
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1.2 Interesse economico, rivoluzionario ed erotico nell’auto-conservazione Molto diversa da quella freudiana è, innanzitutto, la teoria blochiana delle pulsioni, non disgiunta dalla sua dialettica del desiderio. Se vi è un impulso che per Bloch può essere considerato fondamentale, pur nella sua mutevolezza storica, è l’impulso all’autoconservazione, inteso come bisogno del corpo e non, come per Freud, pulsione dell’Io da esso separata e contrapposta alle pulsioni sessuali; perciò, forma d’espressione più palpabile dell’autoconservazione è la fame, bisogno che la psicoanalisi, a causa della sua “estrazione borghese”, spesso ignora.16 «Suum esse conservare», come scrisse Spinoza, è la più concreta esigenza di tutti i viventi: «mantenersi in esistenza è e resta, secondo la splendida espressione di Spinoza, l’“appetitus” di tutti gli esseri. Se l’economia concorrenziale del capitalismo lo ha reso individuale oltre misura, esso però attraversa incessantemente tutte le società, nonostante tutte le sue trasformazioni» (PH 74; it. 80). L’impulso all’autoconservazione è dunque la forma più generale, ma anche la più materiale, del desiderio. Questo impulso non è da Bloch contrapposto né ad altri impulsi né tantomeno alle facoltà razionali, piuttosto è concepito come il motore, la spinta propulsiva che anima la vita del corpo e della coscienza. Suo interesse fondamentale è quello economico, che presiede allo sviluppo storico. Fin qui, Bloch non si scosta in nulla dal materialismo feuerbachiano e marxista. Se ne discosta, però, quando estende la trasformazione storica del bisogno, della fame e dell’interesse economico al sé dell’uomo, anch’esso stimolato dall’appetito e perciò incompiuto e in divenire. La concezione blochiana del desiderio rende conto dell’incompiutezza e dunque del disagio del sé senza trascurare né le componenti strutturali di questo disagio (la spinta propulsiva sempre in azione laddove si fa esperienza di mancanza e bisogno), né le componenti socio-economiche (le deviazioni del desiderio imposte dalle esigenze della produzione capitalista); tuttavia né il bisogno, né il desiderio, né il godimento vengono 16
Neppure la fame ha una «struttura istintuale “naturale”», anch’essa è storicamente variabile: «quale bisogno storicamente divenuto e guidato, è in interazione con gli altri bisogni sociali, e perciò storicamente varianti, ai quali essa fa da base e con i quali appunto muta altrettanto quanto li fa mutare, seguendo la crescita e le pretese di strati sempre più ampi che acquistano appetito. In breve, tutte le definizioni degli istinti fondamentali prosperano solo sul terreno del loro tempo e sono a esso limitate. Già per questo non si possono assolutizzare e staccare dal rispettivo essere economico degli uomini» (PH 76; it. 82).
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relegati nella dimensione dell’irrazionalità, dell’egoismo o del tradimento dell’alterità – che è poi solo un termine più secolare per dire “sacralità” – di ciò che ci circonda. La concezione blochiana del sé permeato di desiderio utopico oppone resistenza all’individualismo capitalista, poiché proprio sull’incompiutezza e sull’anelito di ciascun uomo a essere felice si fonda il senso di una comunità umana solidale e non semplicemente la pulsione alla propria soddisfazione, ma d’altro lato evita gli esiti massificanti dell’ideologia comunista, perché la ricerca di felicità e compiutezza sono storia e compito di ciascun individuo. Come Bloch chiarisce in altre pagine de Il principio speranza, c’è un terzo elemento al di sopra dell’alternativa individuo/collettivo: «una solidarietà ricca di persone e a più voci».17 Non è dunque così ingiustificato il salto che in queste pagine su pulsioni e bisogni Bloch un po’ inaspettatamente compie: «autoconservazione significa, in ultima istanza, l’appetito di tener pronte condizioni più autentiche e più adeguate al nostro sé che si dispiega, e che lo fa solo nella solidarietà e in quanto solidarietà» (PH 77; it. 83). L’interesse economico per l’individuo significa allora conservazione del sé, ma non in senso egoistico, perché conservare sé significa uscire da se stessi e incontrare il mondo, per ridefinire progressivamente la propria identità;18 quindi per la società e per la storia un autentico interesse economico dovrebbe significare solidarietà nello sviluppo. L’impulso all’autoconservazione, allora, inteso in senso blochiano non ha alcun tratto conservatore, anzi, all’interesse economico affianca quello rivoluzionario. «Il no al male presente, il sì a un meglio che si intravede, vengono assunti dai diseredati nell’interesse rivoluzionario. Questo interesse comincia sempre con la fame, che si trasforma, quale fame dotta, in una forza esplosiva contro la prigione della privazione. Dunque il sé non cerca soltanto di conservarsi, ma diventa esplosivo; l’autoconservazione diventa autoampliamento» (PH 84; it. 90). Con questo passaggio all’interesse rivoluzionario e all’autoconservazione come autoampliamento l’eros, che Bloch per opposizione a Freud intendeva svincolare dall’impulso fondamentale, rientra in gioco, pur senza essere nominato, nella struttura essenziale dell’impulso: assenza ed eccedenza, mancanza percepita ed ulteriorità desiderata si alternano dialetticamente nell’oltrepassare esplosivo dell’impulso che permea di sé la materia 17 18
Cfr. il paragrafo Doppia luce di individuo e collettivo, PH 1134-1139; it. 11211125. Lo abbiamo analizzato a fondo nel primo capitolo. Cfr. supra, cap. I, par. 1.
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e che conduce alla conoscenza la coscienza umana. A questo proposito la Gekle nota che l’autoconservazione come autoampliamento assume in Bloch la stessa struttura dell’eros platonico e diventa «amore».19 Più precisamente, a mio parere, l’eros costituisce, come anticipato nel primo capitolo, l’intima struttura del desiderio – di un desiderio dunque rosso – guidato non solo dall’interesse economico e da quello rivoluzionario, ma più profondamente attraversato da una tensione erotica alla fusione col bene. L’amore, però, non si identifica in Bloch così semplicemente con questa tensione; esso ha, invece, uno statuto più alto. 1.3 Statuto teologico dell’amore L’amore, infatti, non è inserito da Bloch tra gli affetti. Sicuramente, la teoria delle pulsioni – degli implusi e dei bisogni – fonda la teoria degli affetti, coi quali «un contatto intellettuale» è «necessario per ogni conoscenza del sé» (PH 80; it. 86). Gli affetti sono impulsi che vengono percepiti e agiscono in modo mediato, come sentimenti; si distinguono dalle sensazioni e dalle rappresentazioni perché «procedono, divenendo consapevoli del loro processo quale sentimento di sé ancora semi-immediato» (PH 77; it. 84). Ciò comporta che l’oggetto del sentimento non debba essere per forza chiaro e definito, affinché ci sia affetto. Gli affetti sono atti intenzionali dati a se stessi «in situazione» (sich zuständlich gegeben), in cui, cioè, la distinzione di Brentano tra “atto” e “contenuto” non è necessaria come per rappresentazioni e pensiero, perché l’affetto consiste proprio nel percepire un rapporto intenzionale, di interesse (positivo o negativo) verso un oggetto non necessariamente conosciuto o definito. Alla loro base c’è, però, lo stesso anelito, lo stesso impulso, lo stesso bisogno che è alla base di tutti gli atti intenzionali, dunque anche del pensiero. Tra gli affetti, che Bloch distingue in base all’«appetitus» in affetti pieni (erfüllte Affekte) e affetti d’attesa, l’amore non compare perché all’amore è riservato da Bloch uno “statuto teologico”. Su questo tema nessun testo toccherà i vertici lirici de Lo spirito dell’utopia,20 scritto negli anni del felice matrimonio con Else von Stritzky e rivisto negli anni immediatamente 19 20
Hanna Gekle, op. cit., p. 21. Cfr. in particolare il paragrafo Così la donna e il fondamento nell’amore (GU 262-267; it. 264-269). Il tema viene però ripreso e arricchito sia ne Il principio speranza sia in Ateismo nel cristianesimo (cfr. in particolare il par. Coppia sublime, Corpus Christi ovvero utopia già cosmica e cristiforme del matrimonio, all’interno del capitolo Sogno ad occhi aperti in figura deliziosa: Pamina ovvero l’immagine come promessa erotica, PH 368-387; it. 371-390, e il par. Digres-
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successivi alla sua morte, quando Bloch non riusciva, a causa del lutto, a intraprendere alcuna nuova opera. L’amore, ripete qui Bloch più volte, non è una condizione organica ma teologica: come il demonico creativo, come ogni realtà intensamente spirituale, l’amore appartiene «al Serpente innalzato, al rivoluzionario Serpente che risorge,21 vero Apollo Dio dei vaticini, all’originario spirito messianico nella nostra più vera profondità, che rende possibile la svestizione (non il “mascheramento”) di ogni eros per giungere ai colori, alla festa, alla nostalgia di casa (Heimweh), al ritorno (Heimkehr), alla mistica» (GU 242; it. 245). La coppia d’amore che diventa «un corpo, un’anima» è «una preformazione del mistico cerchio d’amore presente in ognuno», mentre l’erotismo è il «frutto completo» che corona la fioritura dell’essenza sessuale. Che nell’amore di coppia l’eros venga “svestito” e non mascherato significa che esso diventa percorso d’accesso privilegiato a ciò che illumina il percorso della nostra vita: i colori, la festa, la casa, la mistica. Una svestizione che non si limita all’amore di coppia, ma si estende all’“eros” cristiano, alla caritas come amore per il prossimo, che permette all’Io e al Tu di permanere in un terzo elemento: la futura onnipresenza di tutti in tutti, la figura mistica della comunità di cui Cristo è l’essere e la luce. Per questo Bloch si opporrà poi con forza, ne Il principio speranza, alla concezione junghiana dell’eros – peraltro con un approccio ancora una volta ideologico e condizionato dalle differenti prese di posizione politica. Bloch accusa infatti Jung, «lo psicoanalista che spumeggiava di fascismo», di ridurre l’eros a «unità originaria arcaicamente non scissa di tutti gli impulsi» (PH 65; it. 71), e di svalutare l’importanza della riflessione e della coscienza, con la proposta di tornare a quest’energia originaria, il noto «inconscio collettivo», per liberare le proprie energie creative: questa regressione arcaico-collettiva finirebbe invece per stimolare solo un vago «impulso all’ebbrezza», che condanna l’uomo a essere preda di forze originarie e irriflesse. L’esperienza erotica, nell’orizzonte di pensiero blochiano, è piuttosto uno dei culmini del processo di autoampliamento che ha inizio con l’impulso di autoconservazione: la struttura eccedente del desiderio spinge
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sione: la coppia sublime o la sizigie luna-sole nell’amore e nella sua utopia, AC 267-278; it. 254-263) Bloch fa riferimento alla setta gnostico-cristiana degli ofiti che, avversi al “demiurgo” dell’Antico Testamento, adoravano la serpe (ophis) del peccato originale. Derivano dagli ofiti molti libri di rivelazioni gnostiche. Cfr. Alfred Bertholet, Dizionario delle religioni, ed. it. a cura di Fausto Codino, Editori Riuniti, Roma 1991 (1964).
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l’uomo a uscire da sé, a incontrare l’altro e a coltivare nell’incontro d’amore l’immagine di desiderio della promessa erotica; l’amore di coppia può così trovare un seguito e un compimento nel matrimonio quale «avventura della saggezza erotica», in cui si sviluppa e si coltiva insieme il desiderio di casa.22 È infine vero che Bloch non indaga i motivi inconsci dell’alienazione del desiderio, che lo costringono nelle vie buie dell’affermazione egoistica di sé, dell’irrazionalità e della ricerca di possesso, come la Gekle fa notare; è però vero che Bloch concepisce quest’oscurità come strutturale al desiderio e che indica una via d’uscita nel continuo e fiducioso confronto teorico-pratico con la realtà, che la dialettica del desiderio istituisce. Né l’irrazionalità delle pulsioni freudiane, né l’arcaismo dell’inconscio collettivo junghiano sembrano essere all’altezza della serietà di un desiderio che proprio attraverso la ricerca quotidiana di un compimento mai raggiunto conserva la fiducia nella propria ricerca, nella bontà del proprio cercare e in quella dell’oggetto desiderato – desiderio che non necessita di affrancarsi dalla ricerca di godimento, ma solo di imparare a godere saggiamente, nutrendosi della luce che la sua meta spande. 2. «Il sogno» – rosso – «di una cosa» 2.1 Corrente calda e corrente fredda del sogno L’impulso all’autoampliamento, ovvero la radice più intima del desiderio, reca con sé i caldi colori dell’aurora: «Ciò che si prospetta all’impulso di autoampliamento in avanti è […] un non-ancora-conscio, qualcosa che nel passato non è mai stato conscio e mai è stato presente, un’aurora in avanti, verso il nuovo. Questa è l’aurora che può già circonfondere i più semplici sogni ad occhi aperti; da lì essa si estende nei più ampi territori della privazione negata, quindi della speranza» (PH 86; it. 92). Nella sua trattazione del sogno ad occhi aperti Bloch riprende e sviluppa una frase del giovane Marx diventata famosa, da lui spesso citata: «si vedrà allora 22
Nessuna visione idealistica del matrimonio, in queste considerazioni, che sono piuttosto l’indicazione di un percorso possibile, come emerge dalla seguente riflessione: «Mille volte meglio è la sofferenza d’amore che il matrimonio infelice, in cui c’è ancora soltanto dolore e per di più sterile, tanto disparate sono le avventure di terra dell’amore al confronto della grande navigazione che il matrimonio può essere e che non cessa con la vecchiaia, nemmeno con la morte di uno dei due» (PH 380; it. 384).
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come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente». Così, l’interesse rivoluzionario del desiderio, che nei sogni ad occhi aperti diventa consapevole e porta a trasformare la realtà, si sposa in Bloch con quel «sogno» di cui il giovane Marx scrive a Ruge in una lettera del 1843.23 Se Bloch non disgiungerà mai la propria filosofia dal progetto di edificazione di una società socialista attraverso la rivoluzione del proletariato24 e anzi identificherà fino alla fine il “regno della libertà” con la società senza classi, la sua adesione al marxismo sembra però più prossima alle idee del giovane Marx che a quelle del Marx maturo, proprio per la fiducia nell’effetto rivoluzionario e liberante del percorso di conoscenza su cui Bloch insiste. Su questo punto si focalizza il Leitmotiv della critica blochiana al marxismo, che nelle opere della maturità, a partire da Erbschaft dieser Zeit (1935) fino a Naturrecht und menschliche Würde (1961), è peraltro svolta nell’ambito dell’identificazione della propria filosofia utopica con la «teoria-prassi» marxista.25 Proprio sull’equilibrio del rapporto tra teoria e prassi Bloch torna continuamente, per scongiurare gli esiti troppo pragmatisti o troppo meccanicisti del marxismo, i quali finiscono inevitabilmente per 23
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La lettera chiarisce gli obiettivi degli Annali franco-tedeschi, progetto editoriale nato proprio in quell’anno: «Come la religione è l’indice delle battaglie teoretiche degli uomini, lo stato politico lo è delle loro battaglie pratiche. Lo stato politico esprime quindi all’interno della sua forma, sub specie rei publicae, tutte le lotte, le esigenze, le verità sociali […]. Il critico dunque non solo può, ma deve interessarsi dei problemi politici […]. Il nostro motto sarà quindi: riforma della coscienza, non mediante dogmi, bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente. Sarà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non cominci un lavoro nuovo, ma venga consapevolmente a capo del suo antico lavoro. Possiamo dunque sintetizzare in una parola la tendenza della nostra rivista: autochiarificazione (filosofia critica) del nostro tempo in relazione alle sue lotte e ai suoi desideri. Questo è un lavoro per il mondo e per noi. Esso può derivare solo da un’unione di forze». Arnold Ruge, Karl Marx, Annali franco-tedeschi, a cura di Giano Mario Bravo, trad. it. di Anna Pegoraro Chiarloni e Raniero Panzieri, Edizioni del Gallo, Milano 1965, pp. 79-83, qui p. 83. Prenderà le distanze, invece, dalla giustificazione concettuale della “dittatura del proletariato”, che in Russia ha finito per favorire la «dittatura del proletariato sul proletariato». Cfr. PM 392. Ha svolto un’accurata analisi delle differenziazioni critiche di Bloch dal marxismo Gerardo Cunico in Id., Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch, Marietti, Genova 1988, pp. 181-196.
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sopprimere il ruolo della teoria e condannare la filosofia all’annichilimento nella prassi (similmente a come pulsione sessuale e pulsione di morte freudiane condannano il desiderio a estinguersi nel proprio annullamento e infine nella morte stessa). La difesa del ruolo della teoria non è però certo soltanto una critica finalizzata a difendere ruolo e valore della conoscenza nel processo del mondo, bensì, a livello più sostanziale, consiste in una fondazione utopicoontologica del marxismo in un orizzonte in cui il «fattore soggettivo» non possa essere inghiottito dal processo storico, proprio grazie alla dialettica del desiderio che alimenta e costituisce sia la soggettività sia la storia. L’interesse rivoluzionario dell’impulso all’autoampliamento è, infatti, secondo Bloch, lo stesso «interesse alla liberazione» che fonda la «rossa parzialità (Parteilichkeit)26» del marxismo (cfr. EM 53-54; it. 87-88). Un pensiero che nasce da questo interesse ed è pervaso dalla parzialità del desiderio rosso è un pensiero caldo. Il pensiero concreto non è mai stato valutato più altamente di qui, dove è diventato la luce per l’azione, e mai l’azione è stata valutata più altamente di qui, dove è divenuta il coronamento della verità. Inoltre anche nel pensiero, essendo esso un aiuto, deve essere insito un calore. Il calore dello stesso voler aiutare, dell’amore per le vittime, dell’odio per gli sfruttatori. Sì, questi sentimenti mettono in moto la parzialità senza la quale non è socialisticamente possibile alcun vero sapere unito a buon agire. Ma un sentimento d’amore, che a sua volta non sia illuminato dalla conoscenza, blocca proprio l’azione di aiuto, nei confronti della quale pure vorrebbe aprirsi (PH 315-316; it. 320, corsivo mio).
Le pagine de Il principio speranza su corrente fredda e corrente calda del marxismo, diventate famose, illustrano il fondamento ontologico del nesso tra amore e conoscenza nel rapporto tra pensiero e azione. Corrente calda e corrente fredda del marxismo corrispondono ai due aspetti della δύναμις, della materia come possibilità reale.27 Da un lato, la fecondità, l’inesauribilità dell’impulso a divenire della materia, l’essentein-possibilità, è ciò che dà alla teoria la forza e il vigore del sentimento, ciò che ne determina lo sguardo ampio, rivolto all’orizzonte e al superamento della limitatezza attuale, perché ne costituisce la base materiale, la prassi, sempre pulsante e vibrante di vita. Dall’altro, la limitatezza, la definitezza dell’essente-secondo-possibilità, è invece ciò che delimita le 26 27
Cunico traduce „partiticità“ per rendere meglio il termine tedesco Parteilichkeit. Si tenga piuttosto presente che la parzialità di cui Bloch parla è anche parzialità partitica. Cfr. supra, pp. 47-48.
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condizioni del realizzarsi della possibilità, perché ne costituisce la prassi condizionata e condizionante; dunque è ciò che consente alla teoria di diventare prospettiva strategica volta a comprendere i limiti del reale da mantenere saldi come tali. Così, l’«inesaurita pienezza di attesa» della materia, ovvero della possibilità reale, «illumina la teoria-prassi rivoluzionaria come entusiasmo, le sue rigide determinazioni non scavalcabili richiedono [invece] una fredda analisi, una strategia prudente e precisa; quest’ultima indica un rosso freddo, la prima un rosso caldo» (PH 239; it. 245, trad. mod.). Questi due aspetti vengono ripresi alla fine de Il principio speranza, dove Bloch ribadisce che per fondare il marxismo come prospettiva seria, come «prospettiva addestrata», sono altrettanto necessari sia l’entusiasmo sia la sobrietà. Col primo, il marxismo può volgersi all’orizzonte nel senso di «un’ampiezza non deformata, smisurata, nel senso del possibile non ancora esaurito e non realizzato»; la sobrietà, invece, consente di svolgere l’indagine sulle condizioni di possibilità come sguardo sull’orizzonte limitante di ciò che oggi è possibile. Questa riflessione blochiana non è strettamente connessa al marxismo come teoria politica specifica e può essere agevolmente ereditata dal pensiero politico tout court, il quale spesso sembra trascurare l’equilibrio tra questi fattori “teorico-pratici”. La specificità del marxismo consiste invece nel suo interesse rivoluzionario a liberare dall’oppressione gli “umiliati e offesi”, consiste nell’elaborazione di una strategia teorico-pratica, dunque di una strategia politica, che nel perseguimento di questo fine sappia equilibrare entusiasmo e sobrietà, mantenendo la differenza tra rosso caldo e rosso freddo nell’unità di colore. «Queste due specie di rosso vanno indubbiamente sempre assieme, però sono diverse. Si rapportano l’una all’altra come il non ingannabile e il non deludibile, come amarezza e fede, ciascuna utilizzata a suo luogo e ciascuna per lo stesso scopo. L’atto d’analisi della situazione compiuto dal marxismo è intrecciato con l’atto entusiasmante e prospettico. I due atti sono unificati nel metodo dialettico, nel pathos della meta, nella totalità del materiale trattato, tuttavia si mostra chiaramente anche la diversità di sguardo e di situazione» (PH 239-240; it. 245). La “corrente fredda” del marxismo secondo Bloch opera sostanzialmente come smascheramento delle ideologie, in senso marxiano-lukacsiano: il fatto che la società capitalistica borghese sia basata sulla «reificazione», vale a dire sulla riduzione a cose e a rapporti fra cose, di tutte le sue componenti, comporta che le sue produzioni spirituali mascherino apologeticamente lo stato di cose e ignorino la propria base economica. La “corrente calda” del marxismo opera invece come intenzione liberante
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e come tendenza reale umano-materialistica verso la patria, intesa come solidale «regno della libertà», per realizzare il quale viene intrapreso lo smascheramento delle ideologie. Per questo è forte il ricorso all’uomo umiliato e oppresso, al proletariato come «luogo di rovesciamento verso l’emancipazione»: una volta smascherata la realtà delle condizioni economiche, la meta cercata, «la naturalizzazione dell’uomo e l’umanizzazione della natura nella materia che si sviluppa» (PH 241; it. 246), resta raggiungibile, in questa prospettiva, solo con la liberazione della classe oppressa. «Dunque soltanto il freddo e il caldo dell’anticipazione concreta insieme fanno in modo che né la via né la meta in sé vengano adialetticamente scisse l’una dall’altra e in tal modo reificate e isolate» (PH 240; it. 246). Il freddo e il caldo dell’anticipazione concreta altro non sono che il freddo della mancanza e il caldo dell’eccedenza di un desiderio reale, consapevole dei limiti della realtà attuale, ma riscaldato dalla meta che persegue nel futuro. 2.2 Marxismo: critica al nichilismo ed eredità culturale Il marxismo, da Bloch ereditato piuttosto che “criticato”, si configura nella filosofia utopica blochiana dunque più come direzione critica e allo stesso tempo amorevole del pensiero e dell’azione, che non come teoria politica: è percorso di conoscenza delle possibilità reali del processo storico in vista del suo compimento, del suo «coronamento nell’azione», piuttosto che teoria politica di partito. Come fa notare Gerardo Cunico, Bloch si distingue non solo dagli altri critici marxisti, ma anche «dalla massima parte, per non dire dalla totalità dei pensatori contemporanei»,28 proprio perché la critica all’ideologia borghese, svolta in particolare a due suoi caratteri complementari, il determinismo e il quietismo,29 non si limita al campo economico e sociale, ma si estende all’intero orizzonte cosmologico e ontologico, attraverso due temi importanti. Il primo riguarda l’atteggiamento nichilistico che pervade il meccanicismo e la sua conseguente riduzione della natura a 28 29
Cfr. Gerardo Cunico, Critica e ragione utopica, op. cit., p. 216. Cfr. l’intero capitolo sulla critica della società, pp. 198-220. Determinismo e quietismo sono solo, nel saggio Selbstlauf, auch nichts als eherne Logik und der Quietismus, due categorie diverse per colpire due suoi classici obiettivi polemici: meccanicismo e idealismo. In entrambi i casi il sapere è inteso quale conoscenza di ciò che è necessario e immodificabile, dunque di ciò che si è cristallizzato nei fenomeni esperibili e delle leggi “eterne” della sua cristallizzazione. È questa l’idea che va criticata e smascherata. Cfr. PA 537-541.
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ente privo di qualsiasi connessione con le finalità umane;30 il secondo riguarda invece il contenuto di verità che soggiace in ogni ideologia: è il problema dell’eccedenza culturale, che Bloch affronta a partire da Erbschaft dieser Zeit. Su questi due punti si fonda il peculiare marxismo blochiano; ma fare i conti con il nichilismo e con l’eccedenza culturale di ciascuna ideologia significa tener conto del fatto che i due elementi costitutivi del desiderio – mancanza ed eccedenza – confluiscono nel pensiero e qui si manifestano nel loro rilievo teorico-pratico. Vediamo meglio come. Il nichilismo oggettivistico, che svuota di qualsiasi finalità il processo del mondo e dunque lo svuota di senso, minaccia anche dall’interno la teoria-prassi marxista attraverso la tradizione meccanicista del materialismo, che rischia di introdurre nel marxismo un «automatismo oggettivista» secondo il quale le contraddizioni oggettive sarebbero sufficienti, da sole, a rivoluzionare il mondo. La critica blochiana non vuole espungere il nulla dalle possibilità della materia, ma anzi mantenerlo aperto nella sua enigmaticità e problematicità. Il “nulla”, infatti, costituisce la possibile alternativa al “tutto” alla fine della storia e, insieme al “non” dell’origine e al “non-ancora” del processo storico, è uno dei concetti ontologici fondamentali che rendono conto del movimento intensivo della materia nei suoi tre momenti principali (origine, processo, fine). Negazione e negatività costituiscono la realtà sia nella sua origine, sia nel suo possibile esito, ma la negazione del “non” e la negatività del “nulla” devono essere tenute ben distinte. Il “non” è quel vuoto e allo stesso tempo «quell’impulso ad uscirne» che sta all’origine del divenire, mentre il “nulla” è qualcosa di determinato che arriva alla fine, è il fallimento o l’annichilimento di un processo già da lungo cominciato e costituisce il pericolo costante di ogni esperimento processuale, il cui esito positivo (il “tutto”) non è mai garantito. Il “non” è la radice ontologica del desiderio, che si esprime «come fame e quel che attivamente vi si congiunge. Come intendere (Meinen) e intenzionare (Intendieren), come anelito (Sehnsucht), desiderio (Wunsch), volontà, sogno ad occhi aperti, con tutte le raffigurazioni (Ausmalungen) del qualcosa che manca. Ma il “non” si esprime anche come insoddisfazione per ciò che è divenuto, quindi allo stesso modo è sia ciò che spinge (das Treibende) al di sotto di ogni divenire, sia ciò che seguita a spingere 30
Culmine del nichilismo scientifico sarebbe il secondo principio della termodinamica, o legge dell’entropia, che condanna l’universo a un’inarrestabile dispersione di energie e infine al disordine.
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(das Weitertreibende) nella storia» (PH 360; it. 363, trad. mod.). Proprio in quest’impulso fecondamente negatore si dà l’esperienza del vuoto come «horror vacui», come «orrore del non davanti al nulla». I concetti ontologici fondamentali sono, infatti, profondamente connessi con la «teoria degli affetti»: il “non” è il concetto astratto che corrisponde a fame e privazione, il “nulla” corrisponde invece a disperazione e annichilimento e il “tutto” a fiducia e salvezza. Se la privazione del “non” è il motore della dialettica, anche la disperazione del “nulla” può avere una funzione dialettica, quando non assurge a distruzione pura e semplice, della quale, afferma con forza Bloch contro Hegel, ma anche contro Marx, non c’è dialettizzazione possibile.31 Dal nulla come distruzione pura, come male radicale, non può nascere progressione dialettica. Quando il nulla, però, è annientamento di un essere divenuto inadeguato, negazione di negazione, allora diventa il mezzo per rompere «una statica inadeguata», e stringe un collegamento col “non” in quelle morti che comportano rinascita, che diventano così apertura al “tutto” del compimento. In questo senso Bloch può affermare che «ogni avvento contiene il nichilismo in quanto applicato e vinto». Sbaglia, dunque, la Gekle quando rimprovera a Bloch di avere un’idea esclusivamente progressiva della mediazione: il regresso, il fallimento, lo scacco sono sempre possibili, nel suo pensiero, e non sempre possono essere oggetto di mediazione dialettica. Così «la speranza può venire delusa»32 e anche il marxismo può fallire. In questo modo, Bloch difende la serietà e la drammaticità del nulla quale possibile esito del reale senza cadere nel nichilismo di una teoria che irrigidisce e infine annichila il divenire ricco di senso del mondo. D’altro canto, l’apertura costitutiva della negazione al “tutto” è sancita dalla conoscenza, intesa quale fantasia oggettiva che persegue lo svilup31
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Bloch accusa infatti Marx di dipendere ancora da Hegel per il fatto di «non porre ancora, nel concetto come nello spazio linguistico, la categoria micidiale del male con la sua relativa autonomia in forma appropriata, calzante, nella sua profondità letteralmente abissale, al di là del rapporto servo-padrone» (EM 234; it. 265). Sulla categoria del male come “avversante” cfr. par. 45, Illuminismo e credenza nel diavolo; il sopravvivere dell’“avversante” (des Widersacherisches) in EM 230-238; it. 261-268. Kann Hoffnung enttäuscht werden? – può la speranza venire delusa? – è il titolo della prolusione di Bloch all’Università di Tubinga nel 1961, quando accettò la docenza come professore-ospite per emigrare dalla Germania Est, che il 13 agosto 1961 inaugurò la costruzione del muro di Berlino. Com’è noto, la risposta a questa domanda è per Bloch senz’altro affermativa, la speranza può essere delusa, altrimenti non sarebbe speranza. Cfr. LA 392-439.
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po e la realizzazione delle possibilità intrinseche alla materia. Per questo Bloch non focalizza il suo marxismo soltanto sulla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione nella struttura economica capitalistica, ma approfondisce le contraddizioni culturali nelle ideologie dominanti, che da un lato ostacolano il saggio procedere della docta spes, ma dall’altro si fondano sull’ancipite costituzione ontologica della materia (il “non” rappresenta al tempo stesso il vuoto della mancanza e l’impulso al divenire, l’“essere come utopia” è esposto sia al fallimento del “nulla” che al compimento del “tutto”). Alla contraddizione contemporanea rappresentata dal proletariato quale forza produttiva sfruttata e oppressa si affianca, quindi, l’indagine sulle contraddizioni non-contemporanee, frutto di desideri, aspirazioni e intenzioni del passato rimaste insoddisfatte e dunque non ancora esaurite né liquidate: in questo modo si può condurre non soltanto uno smascheramento ideologico, ma anche una selezione dei contenuti ereditabili in ciascuna ideologia. La prima elaborazione teorica di questa nuova concezione di critica all’ideologia avviene proprio nei saggi raccolti in Erbschaft dieser Zeit (Eredità del nostro tempo, come traduce Laura Boella per l’edizione italiana), scritti tra gli anni Venti e i primi anni Trenta. Nella premessa all’edizione del 1935 Bloch sottolinea che «l’accento non viene posto solo sullo smascheramento dell’apparenza ideologica, bensì sulla rassegna di un residuo possibile», perché «l’eredità “positiva” che permane si manifesta del resto con tanta più forza alla riflessione, o si presenta essa stessa come riflessione» (EZ 18 e 20; it. 6 e 7); si tratta di compiere un «salvataggio» di quei contenuti «irrazionali» che possono essere messi al servizio della razionalità, perché mantengono un barlume di luce; si tratta di depredare – diabolicamente – le ideologie capitaliste, i facili modelli di ricchezza e successo, per favorire, in un’epoca di transizione qual è l’«epoca del montaggio», la realizzazione di ciò che ancora manca: l’eredità del diritto di natura rettificato come «facoltà del procedere eretti» (facultas des aufrechten Gangs). Cogliere l’eccedenza di ogni ideologia e di ogni filosofia significa rintracciare nel pensiero l’“essente-in-possibilità” che mai si esaurisce, significa riconoscere la sua corrente calda per montare in modo nuovo i suoi contenuti e dare forma a una figura concettuale che sappia attualizzare anche le contraddizioni inattuali, non solo avvalendosi della funzione dialettica della loro negazione (Adorno e Benjamin), ma anche del positivo o dell’utopico della loro anticipazione. In questo modo il marxismo viene interpretato come la filosofia che può farsi carico dell’eredità culturale che lo ha preceduto, intesa come istanza di liberazione e di realizzazione del sommo bene. «Senza funzione utopica le ideologie di classe sarebbero
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arrivate soltanto a un’illusione transeunte, non ai modelli, nell’arte, nella scienza e nella filosofia. È appunto quest’eccedenza che forma il sostrato dell’eredità culturale e lo mantiene, come quel mattino che non è contenuto soltanto nelle prime ore, ma più avanti, anche nel pieno giorno di una società, anzi a volte addirittura nel crepuscolo della sua decadenza» (PH 178; it. 184). L’eccedenza culturale permette di avere “memoria utopica” (Eingedenken)33 di quel plus ultra che sempre eccede lo stesso processo storico: qui si manifesta la forza d’attrazione del fine buono che opera oltre il fallimento, contro la «metafisica dello scacco» di Adorno, che condanna ogni utopia a rovesciarsi nel negativo di ciò che essa intende. La memoria utopica, invece, come l’hegeliano Er-innerung, è capace di accogliere nell’intimo quanto è etico e metafisico senza perderne il rapporto con la temporalità, trasformando in soggetto la sostanza, ma attraverso l’intervento creativo ed espressivo del soggetto, il quale non include soltanto atti logico-razionali. Della memoria utopica l’oblio è duplicemente costitutivo, sia nella forma dello «svuotamento», dell’allontanamento dallo spirito soggettivo di quanto gli è inessenziale, sia come ripresa, rielaborazione e montaggio di ciò che è stato tralasciato, dimenticato e tradito nel passato. Il “nulla”, dunque, alimenta la «logicità appassionata» del pensiero utopico, il quale elabora produttivamente le tracce del fine ultimo, configuratesi nella storia in forma ideologica, archetipica, allegorica e simbolica, e ne rinnova l’eredità. 2.3 Critica utopica del marxismo Se in Eredità del nostro tempo e nelle grandi opere successive la memoria utopica operava una mediazione tra contraddizioni contemporanee e non contemporanee per ereditarle nell’orizzonte utopico marxista, in alcune interviste successive al 1961,34 ma soprattutto in Experimentum Mundi (1975) Bloch opererà questa stessa “critica utopica” al marxismo. Introduce in quest’opera, infatti, la distinzione tra «meta remota» (Fernziel) e 33
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Il termine Eingedenken è di origine antica, usato in particolare nella mistica di Eckhart, e sopravvive oggi nella lingua tedesca solo come avverbio o aggettivo (eingedenk, memore); è, però, centrale anche nella riflessione di Benjamin sul tempo e sulla memoria. Adotto la traduzione proposta da Laura Boella, che in Id., Ernst Bloch. Trame della speranza, op. cit., pp. 122-130, conduce un’approfondita analisi sul rilievo di questa categoria nel pensiero blochiano. Anche Gerardo Cunico adotta la stessa traduzione. Anno del forzato trasferimento di Bloch da Lipsia, DDR, a Tubinga, BRD. Cfr. nota 31 di questo capitolo.
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«meta finale» (Endziel): il fine buono che attrae non è soltanto la «meta remota» (Fernziel) della società senza classi, bensì piuttosto «il volto, che siamo noi a scoprire, di un mondo, in generale, in cui il soggetto non sia più affetto dall’oggetto come da una cosa estranea». È questo volto la vera «meta finale oltrepassante ogni confine (grenzüberschreitendes Endziel)» (EM 122; it. 158). Il problema della mediazione utopica con la meta finale si fa scottante anche per il marxismo, nell’ambito della domanda sull’“eterogenesi dei fini”,35 tanto dibattuta negli anni Settanta. È la domanda, particolarmente importante per la pretesa «finalità buona» del socialismo, che consiste nel chiedersi se e in che misura i mezzi impiegati debbano essere omogenei alla moralità del fine, se e in che misura ne inficino la bontà e infine se possano «sfigurarne il volto fino a renderlo irriconoscibile». Bloch è tra i sostenitori della tesi del marxismo reso irriconoscibile dal comunismo realizzato e porta come esempio la violenza dell’organizzazione statale centralistica russa, che ha deviato la rivoluzione dalla sua meta.36 Se gli esiti della separazione mezzi/fini possono essere drammatici (corruptio optimi pessima), tuttavia deviazioni e allontanamenti dal fine non dovrebbero portare a pensare che quest’ultimo sia pregiudicato, bensì a lavorare meglio e con più cura alle mediazioni tra mete prossime e meta finale. In quest’orizzonte, Bloch non ripudia in assoluto la violenza se al servizio della giustizia, se finalizzata a riparare il torto fatto ad altri, violenza del tutto diversa da quella compiuta per se stessi. Evita qualsiasi giustificazione del mezzo in vista del fine buono, però non esclude un «diritto alla violenza del bene, per il bene, quell’opporre al male una resistenza localizzabile, destinabile con precisione, in base al quale Gesù stesso poté dire di non essere venuto a portare la pace, ma la spada» (EM 120; it. 156). Se quest’analisi della violenza risulta oggi del tutto insufficiente di fronte alle scottanti questioni poste dagli attacchi terroristici, resta il valore della riflessione etica: il fine del raggiungimento della dignità umana in un mondo riconosciuto come casa e patria dell’uomo non più alienato né oppresso diventa il fine di un’etica che non deve rimanere indefinita, né dettare solamente le norme formali per il comportamento del singolo, ma che «deve ricevere la sua luce dalla lotta di classe degli affaticati e oppressi, degli umiliati e offesi» (EM 184; it. 218).
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Espressione che Bloch mutua da W. M. Wundt. Sul rapporto tra diritto soggettivo e oggettivo nel socialismo, con particolare attenzione al contesto giuridico sovietico e alla questione del superamento dello Stato nella società senza classi cfr. NW 238-257.
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Esporre oggi questi contenuti del pensiero blochiano significa, da un lato, comprendere le implicazioni teorico-pratiche di un pensiero del desiderio che non si arresti né al proprio orizzonte ontologico né a quello psicologico e che sappia piuttosto farsi carico del proprio peso socio-politico, ma parallelamente significa porre in modo serio la questione dell’eredità che il pensiero blochiano oggi costituisce per la filosofia. Nella sua inattualità, nella sua non-contemporaneità (Ungleichzeitigkeit) esso rende oggi conto di un desiderio insoddisfatto, non liquidato perché mai realizzato: il desiderio di un’umanità garantita nella propria dignità, liberata da strutture economiche e sociali oppressive, che si configurano come strumenti di potere al servizio dell’accumulo di capitale nelle mani di pochissimi. Se l’esperienza del “marxismo reale”, reso irriconoscibile dai regimi comunisti persino più oppressivi delle strutture che pretendevano di abbattere, ha insegnato al pensiero a salvaguardarsi dalla pericolosità del totalitarismo, gli ha anche sottratto il calore della fiducia nei sogni e negli affetti che si nutrono di desiderio. Sia il pensiero ermeneutico sia quello criticomarxista della scuola di Francoforte si prodigano a determinare i limiti da non varcare, seppur talvolta in questi risieda l’apertura a una trascendenza indisponibile: il volto dell’Altro (Lévinas), la finitezza dell’interpretazione (Pareyson), la storicità di ogni filosofia ermeneutica (Vattimo) fino alla negatività della dialettica (Adorno) e alla nostalgia del totalmente altro (Horkheimer). C’è molta freddezza nella filosofia del Novecento, la freddezza della diffidenza di fronte al godimento e della paura del pensiero forte quale strumento di dominio. Ereditare oggi il pensiero blochiano non significa dimenticare le radici di questa freddezza, né svalutare le ragioni della diffidenza di fronte al godimento quando asservito al principio di piacere, né cercare di rimuovere la legittima paura e la conseguente critica del pensiero che si presenti come arrogante depositario di una verità già raggiunta. Proprio per questo, all’ombra della vigile memoria delle violenze compiute, non si può ereditare oggi la teoria socialista della realizzabilità di una “società senza classi” attraverso la rivoluzione del proletariato, né la meta dell’abolizione della proprietà privata. Purtroppo, però, occorre prendere anche atto del fatto che la modestia e l’umiltà della filosofia del Novecento post-bellico e poi post-comunista non sono state sufficienti a moderare l’arroganza del potere politico, e ancor meno di quello economico che tanto lo condiziona. Spesso, nei paesi occidentali, si fa un uso spregiudicato e strumentale dei termini “libertà” e “democrazia”, i quali finiscono per diventare, in un confuso orizzonte di relativismo post-moderno, la facile copertura retorica, nemmeno più ideologica, degli interessi economico-politici della parte
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più ricca e potente del mondo, che può godere del proprio benessere solo mediante l’oppressione e lo sfruttamento della parte numericamente più consistente, ma economicamente più debole, dell’umanità. Il desiderio rosso scoperto nei meandri della filosofia blochiana, che spinge il pensiero ad ampliare l’orizzonte del desideratum fino al bene dell’umanità, fonda un pensiero caldo, che sa accompagnare con saggezza e misura l’impeto rivoluzionario dell’amore. È un pensiero che non sacrifica l’impegno sociale e politico, ma neppure travalica i limiti del proprio ambito filosofico per farsi strumento ideologico-politico; è un pensiero che può ereditare quella «dialettica pluritemporale e plurispaziale» (mehrzeitige und mehrräumige Dialektik) che Bloch identificava, in Erbschaft dieser Zeit, con la dialettica marxista, senza peraltro riscontrare molti consensi. Alla luce della distinzione tra meta marxista e meta dell’umanità, che va mantenuta, è possibile ripensare oggi una filosofia dialettica che mantenga un rapporto con la totalità come possibile compiutezza futura, come possibile umanità libera, che sia totalità critica e non soltanto teorico-contemplativa. Un freddo smascheramento ideologico rende il passato senza speranza, ne fa il sepolcro della memoria storica e smarrisce le risorse per alimentare l’autoampliamento del desiderio. Una calda memoria utopica, che riscopra nel passato «autentiche nebulose in grado di generare una stella», coltiva la poliritmia e il contrappunto delle tendenze storiche presenti e passate, per dare consistenza e saggezza allo slancio del desiderio verso il bene dell’umanità.
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IV DESIDERIO GIALLO-ORO: MISTERO DEL COMPIMENTO Douces colonnes, o L’orchestre de fuseaux! Chacun immole son Silence à l’unisson. - «Que portez-vous si haut, Égales radieuses? - Au désir sans défaut Nos grâces studieuses! Nous chantons à la fois Que nous portons les cieux! O seule et sage voix Qui chantes pour les yeux! […] Un temple sur les yeux Noirs pour l’éternité, Nous allons sans les dieux A la divinité! Nos antiques jeunesses, Chair mate et belles ombres, Sont fìères des finesses Qui naissent par les nombres! Filles des nombres d’or, Fortes des lois du ciel, Sur nous tombe et s’endort Un dieu couleur de miel. Paul Valéry
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Nel pensiero di Bloch accade qualcosa di cui forse lui stesso non fu del tutto consapevole, o almeno non in questi termini: il desiderio si fa principio spirituale della materia. Il desiderio di colore rosso, che alimenta l’amore e quella rivoluzione che vuole diffondere la solidarietà tra gli uomini, è desiderio che, come il fuoco, porta in sé un nucleo color oro. Se il rosso è il colore del fuoco, quindi del divenire della materia, nelle cui infinite «possibilità interiori» si «continua ad avvertire qualcosa di corporeo» (Kandinsky), l’oro è il colore dello splendore della luce, simbolo di conoscenza, ma anche di pienezza e compimento spirituale.1 L’«irrequieto fuoco vitale» eracliteo, che dà forma alle cose ed è, per questo, «inseparabilmente connesso con la materia» (PH 995; it. 982), assurge più volte in Bloch a simbolo dell’impulso vitale, del fattore volitivointensivo che dona alla materia la possibilità di creare, ma anche, quindi, di riflettere su di sé esternandosi in altro. Già in Eraclito, fa notare Bloch, la riflessione sull’essenza delle cose ha un sorprendente riflesso economico: «tutte le cose sono scambio con il fuoco e il fuoco con tutte le cose, così come lo sono le merci con l’oro e l’oro con le merci», riporta il frammento 90. L’oro rappresenta un valore durevole, eppure non sottratto allo scambio col mondo, al commercio che lo sostenta. Così è la pienezza della meta desiderata secondo Bloch: rifulge dello splendore dell’oro, ma non disdegna di farsi «moneta contante» che arricchisce concretamente la realtà. È il desiderio rosso, che aspira alla soddisfazione e al benessere dei corpi, a guidare verso i giusti camminamenti il desiderio di luce, che alimenta la vita spirituale dell’uomo. Col marxismo, «per la prima volta nella storia della cultura, l’impulso a costruire è, in questo caso, morale, è la costruzione di un mondo senza sfruttamento e senza la sua ideologia. Né la nudità né l’epigonismo contraddistinguono quest’opera, ma l’accordo cromatico di rosso con oro, manifestamente splendido e ardito. Ma nel rosso c’è al tempo stesso l’oro, che rende elettivamente affini al meglio della tradizione e ne costituisce la classicità – come contenuto in crescita, non come vecchia forma sociale» (PH 516; it. 511). Dal pensiero di Bloch si può imparare a capire come il desiderio apprenda a sperare, seguendo gli straniamenti e le alienazioni in cui pur esso incorre, senza però smarrire il riferimento a una meta non ancora raggiunta, ma ancor sempre desiderata. Egli indica nella speranza il principio-guida, la direzione unificante verso la meta comune di un mondo senza sfruttamento, regno del1
Si pensi al cattolicesimo ortodosso, le cui icone rappresentano principalmente lo splendore della santità e la gloria della risurrezione: il colore di sfondo è stato nei secoli quasi costantemente l’oro.
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la libertà e della pace. Che il contenuto di questa speranza sia oggi in gran parte rimosso, e che la “meta comune” dell’umanità resti un tema per lo più estraneo alla filosofia, sembra essere il frutto della frantumazione del nostro desiderio, che riesce a inseguire solo piccole soddisfazioni in determinati e separati ambiti, vietandosi però in ogni modo – per legittimo ma eccessivo timore di ogni “totalizzazione” – di porsi mete socialmente e spiritualmente ambiziose. Se da un lato è dunque necessario continuare a interrogarsi filosoficamente su quali possano oggi essere le forme realizzabili di un «regno della libertà» umana, dall’altro resta più che mai urgente capire trascendimento e direzione del nostro desiderare, sia per imparare a unificarne il senso e la molteplicità, sia per rimettere in questione il significato della nostra umanità. Ripensare il desiderio in termini blochiani significa, da un lato, frenare la corsa ideologica verso ogni meta totalizzante, preferendo ad essa un organico multiversum di direzioni possibili verso il bene che, oggi più che mai, va continuamente ripensato e riplasmato in concomitanza dei rapidi cambiamenti socio-culturali di una società globale complessa; dall’altro, tuttavia, significa ereditare i contenuti irrinunciabili del desiderio che si esprime nelle immagini di bene, per ritrovarne la traccia nei frammenti del finito di cui facciamo esperienza ogni giorno. Significa, infine, scoprire un’eredità non ancora indagata del pensiero blochiano: luce, oscurità e colore del nostro desiderio sono luce, oscurità e colore del nostro pensiero. 1. Ὕβρις escatologica: il desiderio di «essere come Dio» 1.1 Il mito di Prometeo, filo rosso dell’esegesi biblica Il desiderio del bene fa dell’uomo un essere costantemente in fermento, ma allo stesso tempo costituisce la sua risorsa primaria: la capacità di trascendere e di oltrepassare. L’orizzonte di questa facoltà è secondo Bloch «senza trascendenza» perché si tratta di un oltrepassare umano, fondato sulla materialità in divenire che lo costituisce. Eppure, quel «volto disvelato» dell’uomo, «meta finale» che illumina il buio della propria stessa incompiutezza, riconosce in Gesù un «segno» della propria «buona causa»: segno anch’esso ancora fermentante e in cammino, ma «legato come null’altro agli uomini», «al loro fianco come il segno più dolce e il più bruciante nella sua dolcezza, il segno che più ci spezza e più ci ama» (AC 169; it. 165). Ateismo nel cristianesimo (1968) è l’opera in cui Bloch indaga in profondità e sistematicamente il rapporto della propria filosofia utopica con il messianismo di cui la Bibbia e i Vangeli sono portatori, tema che attraver-
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sa, com’è noto, la sua intera produzione filosofica. In questo testo, riferimento cardine per il dibattito filosofico-teologico sul rapporto tra ateismo e cristianesimo sviluppatosi a partire dagli anni ’60-’70,2 il mistero e la tracotanza del desiderio, l’impulso bisognoso e la creatività rivoluzionaria, l’oscurità dell’incompiuto e la luminosità del demonico confluiscono nella suprema ribellione al Dio Creatore e dominatore dell’universo. La luce di questa ribellione, che splende già nell’Esodo, riverbera nella figura di Cristo. È il desiderio luciferino di «essere come Dio» (l’eritis sicut Deus pronunciato dal serpente della Genesi, 3,5), l’«originario desiderio religioso di essenzializzarsi in modo divino», che prende corpo nella sua persona. Questo stesso desiderio è alla base dell’esegesi biblica proposta da Bloch: individuare nelle Sacre Scritture il filo rosso della ribellione al Dio Signore e padrone, il filo rosso del mito prometeico che congiunge «la luce dell’Esodo» alla figura del Messia e di Cristo, supremo ribelle. Ancora una volta il carattere prometeico e quello luciferino sono affiancati nella loro qualità demonica, ribelle e creativa allo stesso tempo, scintilla più profonda dell’anima umana. Mediante il riferimento a Prometeo, definito il «portatore di luce», Bloch si oppone sia al programma di demitolgizzazione di Bultmann sia alla radicale trascendenza del Totalmente Altro proposta da Karl Barth ne L’epistola ai Romani. A Bultmann Bloch contesta l’analisi dell’esperienza di fede come esperienza esclusivamente esistenziale, senza alcun rilievo sociale e cosmico, vissuta in contrapposizione a una concezione unilaterale del mito, quale discorso mondano sul non-mondano, rappresentazione oggettivata di una trascendenza non oggettiva e non oggettivabile. L’esperienza di fede, invece, neanche in Bultmann può opporsi al carattere escatologico del mito 2
Soprattutto in Italia la ricezione dell’opera di Bloch è legata più alla sua riflessione filosofico-teologica che a quella filosofico-politica. Non è certamente di scarso rilievo, a questo proposito, il fatto che Ateismo nel cristianesimo sia stata la prima opera a essere tradotta integralmente in italiano, nel 1971, a soli tre anni dalla sua uscita in Germania, mentre la sua opera principale, Il principio speranza, è stata tradotta solo nel 1994, a ben trentacinque anni dalla pubblicazione in Germania dell’edizione integrale (1959). Sulla ricezione della critica della religione blochiana in Italia cfr. Francesco Coppellotti, «Cantare all’eterno un cantico nuovo..». Editoriale in Ernst Bloch, Religione in eredità, tr. it. di Francesco Coppellotti, Queriniana, Brescia 1985² (1979), pp. 7-49, in particolare pp. 20-46. Sulla ricezione teologica di Bloch cfr. Giuseppe Pirola, Religione e utopia concreta in Ernst Bloch, op. cit., pp. 89-104, in particolare nota 41, sulla ricezione dei principali teologi tedeschi, Moltmann, Pannenberg, Metz, fino alla teologia della rivoluzione dell’America Latina, come peraltro fa già notare Jürgen Moltmann nella breve introduzione del 1967 a Religione in eredità, op. cit., pp. 53-66.
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che egli preferisce ignorare: nell’«escatologia del presente» l’attimo è, kierkegaardianamente, l’arco che unisce istante ed eternità, è l’istante non costruibile perché prossimo ed immediato, che contiene e rappresenta esso stesso il segreto dell’esserci, del Dasein, e resta dunque oscuro, misterioso, inattingibile. In quanto tale si offre continuamente al mito. Bultmann invece dissolve il segreto nell’«istante qualificato», in cui la rivelazione del κήρυγμα viene vissuta come esperienza di liberazione da se stessi per imparare a vivere «davanti a Dio»: egli reintroduce così, secondo Bloch, il «mito più pesante e di vecchio tipo», secondo il quale l’uomo deve liberarsi da se stesso per farsi obbediente all’ordine che viene dall’alto, per sottomettersi a un’entità che lo oltrepassa e pretende il suo sacrificio, senza il quale esisterebbe solo superbia, peccato ed errore. Così se «prossimità» e «istante» sono motivi di fascino per Bloch, che in questi temi individua il nucleo del pensiero bultmanniano di Mythos und Kerygma, demondanizzazione e demitologizzazione finiscono per lasciare il mondo «nel più profondo stato di non cristianità» (AC 72; it. 79). Il mito di Prometeo, invece, si riferisce «all’altra parte» del mito, quella apocalittico-escatologica, che «a torto» Hermann Cohen distingueva dalla «ragione etica» del messianico.3 L’ostilità totale al mito, di Cohen come di Bultmann, priverebbe il messianismo non soltanto di un Messia in carne ed ossa, ma della stessa prospettiva di futuro generata dall’apocalittica. L’«Ecco, io faccio tutto nuovo» dell’Apocalisse (Ap 21,5) è il principio contrario dell’«Ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1,31) della Genesi: la costruzione del regno implica un salto qualitativo rispetto alla storia del creato, salto che l’identificazione del Dio Creatore col Dio Salvatore ha per lo più ignorato, a discapito dell’elemento prometeico racchiuso nella visione apocalittica, che è stato nascosto e obliato. La ragione etico-messianica non è invece in contrasto con questa visione apocalittica, non appartiene al «vecchio stupido Adamo», ma porta con sé la novità e la «luminosa chiarezza di questi miti». Essa illumina qualcosa che vive nel messianico, ma resta altrimenti nascosto: «lo spirito della rivolta» che emana dal Salvatore e dalla «luce del suo furore»,4 del suo spirito che è πνεῦμα e λόγος insieme. 3
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Hermann Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, nach dem Manuskript des Verfassers neu durchgearbeitet und mit einem Nachwort versehen von Bruno Strauss, Joseph Melzer, Köln 1959; trad. it. Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, ed. it. a cura di Andrea Poma, trad. e note di Pierfrancesco Fiorato, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994. Bloch cita più volte quest’espressione di William Blake, senza specificare ulteriormente la fonte. Riporta però la frase per intero: «lo spirito della rivolta si
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Lo stesso Barth, nonostante abbia insistito sul significato escatologico dell’alterità assoluta del Dio biblico, rimuoverebbe l’elemento prometeico del cristianesimo, secondo Bloch, che a questo proposito concorda con Moltmann, del quale riprende la critica a Barth contenuta ne La teologia della speranza: il significato dell’escatologia viene ridotto da Barth al «sovramondano», con una ricaduta nella staticità del λόγος, che mira a descrivere una realtà sempre identica a sé. Moltmann però in quel testo sostiene anche che un discorso filosofico – logico – sull’escatologia è impossibile, poiché il futuro escatologico è portatore di resurrezione e salvezza, di novità reale (novum) rispetto alla storia del mondo e non se ne può dunque parlare nei termini di una realtà eterna. Moltmann accuserà poi lo stesso Bloch di ricadere in quest’erronea pretesa filosofica, identificando l’apertura del futuro escatologico con quella del nocciolo intensivo del divenire – il desiderio della materia –, sfera extraterritoriale alla morte perché non ancora divenuta.5 Bloch non risponde direttamente a questa critica di Moltmann, ma lo fa indirettamente: se la filosofia non può avvalersi degli strumenti della logica per riflettere sull’escatologico, può però recare in sé la forza simbolica racchiusa nel mito dell’uomo che combatte per donare all’umanità la luce e il calore del “fuoco”. Proprio la luce del mito di Prometeo è in contrasto con il λόγος greco e in continuità con le Scritture, sostiene infatti Bloch attenuando la frattura tra escatologia biblica e filosofia che Moltmann aveva denunciato; anche la Bibbia si accende contro Zeus, signore del mondo cui l’eroe prometeico si ribella a favore degli uomini: egli irrompe «nel futuro con la forza del Novum, che nella Bibbia risplende per la prima volta di luce propria in tutta la sua dimensione utopica» (AC 86; it. 92). Quest’irruzione prometeica fa dell’essere pensato (sia esso pensato come creatore o come essenza del mondo) un essere storico che apre il cosmo al processo apocalittico. Così Bloch concorda poi con Moltmann sul fatto che un’escatologia che si fa storia diventi «l’orizzonte universale della teologia in genere».6 Barth resta invece fermo a una concezione astorica dell’ἔσχατον, che nell’istante
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precipitò giù dal Salvatore e la luce del suo furore apparve nei vigneti di Francia» (AC 84; it. 90). Cfr. Jürgen Moltmann, Das ‚Prinzip Hoffnung‘ und die christliche Zuversicht, in Evangelische Theologie 23 (1963), pp. 537-557; trad. it. ‚Il principio speranza’ e la ‘teologia della speranza’, in Id., La teologia della speranza, trad. a cura di Aldo Comba, Queriniana, Brescia 1970, pp. 349-373. Jürgen Moltmann, Theologie der Hoffnung. Untersuchungen zur Begründung und zu den Konsequenzen einer christlichen Eschatologie, Chr. Kaiser Verlag (KaiserTaschenbücher), Gütersloh 1997 (1964); trad. it. Teologia della speranza, cit.
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rivela sì la sua totale alterità e rinvia dunque a un plus che nega la bontà attuale del creato, operando come principio critico, ma resta estranea all’uomo e immutabile, senza storia. «Ma allora il totalmente altro, l’autentico Absconditum non dovrebbe abitare o, in altri termini, non acquisterebbe per la prima volta una reale profondità quando, venuto meno il tabù della straordinaria superstizione, esso mantenga la sua funzione al di fuori della deità, applicandosi al segreto dell’uomo, all’homo absconditus?» (AC 79; it. 85). È questa la motivazione profonda della proposta blochiana di un trascendere senza trascendenza: l’alterità e il suo mistero acquistano «reale profondità» se radicati nella fiamma umana che brucia nel desiderio di «essere come Dio», che si ribella ad ogni potenza oppressiva e assurge a creatore del proprio destino. La radice nietzschiana di questa riflessione è forte, così come imprescindibile è la critica della religione svolta da Feuerbach, che Bloch riprende e ripercorre per elaborare una «teoria del desiderio» della religione.7 Nonostante lo accusi, marxianamente, di non considerare le radici economiche dell’alienazione, riconosce però a Feuerbach di aver restituito all’uomo, quali immagini di se stesso, quelle immagini di desiderio del proprio sé che dalla religione erano state trasposte nell’al di là. In questo modo il genere umano viene finalmente celebrato come soggetto. Così «una teoria del desiderio (Wunschtheorie) della religione», in quanto «involve esattamente un atto che l’oltrepassa, un atto utopico, che non abdica al soggetto nemmeno quando tutta la sua pienezza ipostatizzata dell’aldilà è illusione», si pone in continuità con la critica di Feuerbach. «E tanto più ricco appare il rango del soggetto nella sua coscienza di sé, nel suo potere sulla natura, ormai libero dal dissolto aldilà. La sua capacità di formare immagini del desiderio si svela in tutta la sua umana potenza che non è soprannaturale, ma che all’interno della natura pur sempre trascende» (AC 282; it. 266-267). Il desiderio prometeico riconduce, feuerbachianamente, Dio all’uomo e, pur tuttavia, trascende. 1.2 Tracotanza del desiderio di «essere come Dio» Il soggetto che così emerge è, però, un soggetto tracotante di nietzschiana memoria. Non sembra dunque sufficiente mettere in evidenza le già citate antinomie del pensiero blochiano per segnalare i suoi problemi
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Il genitivo è soggettivo, ma, come viene immediatamente chiarito qui di seguito, questo soggetto, feuerbachianamente, è una falsificazione.
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aperti,8 anche perché in tale critica non si tiene conto del fatto che Bloch non intendeva risolvere all’interno del pensiero, panlogicamente, le contraddizioni del mondo, bensì incitare a progettare la loro soluzione pratica, senza prescindere né dalla mediazione del pensiero, né dalla speranza quale invariabile direzione da seguire. Se da un lato l’alterità della trascendenza sembra essere un necessario limite della soggettività, altrimenti a rischio di ipertrofia, dall’altro però la categoria “trascendenza”, che Bloch esclude per amore dell’umanità e forse, come azzarda Moltmann, per amore di Dio stesso,9 ha invece per lo più la pretesa di dare sostanza e profondità al pensiero con una categoria incomparabile e indiscutibile, che finisce per essere, pur involontariamente, una garanzia dogmatica (come negli esempi sopra citati di Barth e Bultmann). Da un punto di vista etico, inoltre, la trascendenza può avere una funzione deresponsabilizzante, nel momento in cui si faccia garante del compimento di un bene che alla limitatezza dell’uomo non compete; ma può addirittura giustificare ingiustizia e oppressione, se attraverso la teoria del “sacrificio espiatorio” viene predicata la “pazienza della croce” in vista di una salvezza futura che non sarà di questo mondo. La critica filosofica della trascendenza, così come condotta da Bloch, compiuta per amore dell’uomo, o di Dio, meglio di entrambi, è necessaria a scongiurare questi esiti, nella teologia come nella predicazione religiosa. È semmai la tracotanza del desiderio di «essere come Dio» a destare sospetto, a mio parere, nei confronti del pensiero blochiano, tracotanza che solo nel rapporto con Dio manifesta l’assenza dell’argine, dell’estremo limite. Il pensiero di Bloch ha l’ardita pretesa, sommamente filosofica, di sancire da se stesso il limite, incontrato non al di fuori di sé, come ha peraltro fatto in tutto il percorso di conoscenza del mondo attraverso l’uscita da sé dell’io, ma assunto in sé proprio quando, nel suo lungo viaggio, giunge di fronte a Dio. Genialità filosofica blochiana, quella di portare a coincidere mancanza ed eccedenza del desiderio nel nocciolo intensivo della materia, e di riuscire a spiegare dialetticamente il suo procedere antinomico: automanifestazione e autoriflessione (che significa anche autolimitazione) del nocciolo intensivo sono il suo moto, la corrente calda e la corrente fredda che lo attraversano nel divenire del regno messianico – mai assicu8 9
Riprendo e proseguo qui l’analisi delle critiche a Bloch effettuata nel cap. I, par. 4.3, di questo lavoro. Cfr. supra, pp. 72-77. Moltmann usa più volte quest’espressione affettuosa nei confronti di Bloch. Ne dà una giustificazione più estesa nel secondo paragrafo, intitolato proprio Ateismo per amore di Dio, della già citata introduzione a Ernst Bloch, Religione in eredità, cit., pp. 63-66.
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rato, ma realmente possibile – che questo processo antinomico persegue.10 Tuttavia, se il limite non risiede in altro che nella meta stessa del processo, desiderata, pensata ed esperita dal soggetto nella sua complessità, non c’è limite alla tracotanza del soggetto che pensa e desidera, nemmeno se l’amore riscalda il suo pensiero mantenendolo saldo nel nesso con il desiderio di bene. Qui, e solo qui, nel momento in cui il desiderio di bene si fa desiderio di essere come Dio e scalza con la sua ribellione il Dio Creatore, l’autolimitazione della conoscenza non è sufficiente a preservare la spinta erotica e rivoluzionaria del desiderio rosso dalla ὕβρις dell’affermazione del soggetto;11 qui e solo qui l’autolimitazione si capovolge da atto di umiltà e rispettosa conoscenza in superba assunzione su di sé del senso del mondo, qui la conoscenza improvvisamente dimentica l’alterità del mistero, che pur vorrebbe preservare sancendo l’incompiutezza del senso. La fiamma umana che trova l’oro di Dio dentro sé diventa allora pretesa di generare il senso salvifico del mondo: nonostante la rinuncia alla generazione del mondo da parte dell’uomo (che coinciderebbe con la pretesa del Dio Creatore di dominarlo), la pretesa di esaurirne il senso resta tracotante. 1.3 Misteri del desiderio in Cristo Anche l’interpretazione blochiana della figura di Cristo è coerente all’assunzione del mito di Prometeo come filo rosso dell’esegesi. Essa infatti è incentrata sul significato rivoluzionario dell’ὀμουσία, canonizzata dal Concilio di Nicea: la consustanzialità di Cristo con Dio è culmine e realizzazione del desiderio di «essere come Dio». Bloch lo riafferma sia attraverso l’interpretazione dei misteri del desiderio che Cristo incarna – resurrezione, ascensione, ritorno – sia attraverso la riproposizione della credenza nel serpente della setta gnostica degli ofiti, i quali veneravano il serpente del peccato originale in contrapposizione al Dio Creatore dell’Antico Testamento e in alcuni casi arrivarono a identificarlo col Cristo crocifisso.12 10 11
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Cfr. supra, cap. I, par. .3, Il desiderio della materia, pp. 47 e 58-64. Proseguo qui la riflessione con cui si conclude il mio Dio nel mondo e il mondo in Dio. Jürgen Moltmann tra teologia e filosofia, cit. Nell’ultimo paragrafo dell’ultimo capitolo, Eros e conoscenza, sostengo che non può esservi ὕβρις nell’eros se di esso si fa un percorso di conoscenza e che la filosofia sfugge al rischio di tradimento del reale se mantiene saldo questo nesso. Bloch cita un testo di Ippolito tratto da Hans Leisegang, Die Gnosis, Kröner, Stuttgart 1941. In appendice all’edizione ampliata di Ateismo del cristianesimo è riportato un articolo di Francesco Coppellotti dal titolo La gnosi peggiore (AC
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I misteri del desiderio che Cristo incarna – resurrezione, ascesa e ritorno – oltre a rendere illegittima ogni interpretazione della morte di Cristo quale morte espiatoria che lo rende agnello sacrificale in vista dell’obbedienza incondizionata dell’uomo dinanzi all’autorità, sono da Bloch reinterpretati non nell’orizzonte di un Dio che si fa uomo, ma dell’unità e consustanzialità tra uomo e Dio, la quale non vale solo per Cristo, ma, attraverso Cristo come esempio eminente, per l’umanità intera. Così la resurrezione di Cristo – che Bloch non mette in dubbio – incarna il mistero del desiderio umano di vita eterna, mentre l’ascensione, che apparentemente sancisce una separazione di origine docetistica tra uomo e Dio, incarna il mistero del desiderio di ascesa verso l’alto dell’essenza e dell’anima umana. Il ritorno, infine, incarna il mistero del desiderio di giustizia: il ritorno è dolce solo per gli affaticati e gli oppressi, mentre agli oppressori spetta la durezza della vendetta. «È come se nel ritorno e nella παρουσία fosse lo stesso amore per gli oppressi a venire incontro ai malvagi come un giudizio e ai liberati come una salvezza. Ed è conforme all’interpretazione molto cristocentrica di Jakob Böhme, secondo la quale nell’Apocalisse si svela la stessa luce che appare ai malvagi come ira, agli eletti come sposalizio» (AC 230; it. 219). Col ritorno di Cristo si compie il movimento opposto a quello dell’ascensione: il cielo divino scende sulla terra, il nuovo cielo e la nuova terra che l’Apocalisse annuncia si realizzano nella nuova Gerusalemme, che «si centra del tutto sull’uomo». Così attraverso l’ὀμουσία di Cristo viene annesso all’immagine del Padre anche il mondo che gli è subordinato, «il mondo del sole e della luna», che risplende nella gloria di Dio (cfr. Ap 21,23). «Ciò avviene inevitabilmente quando la categoria Figlio dell’Uomo entra a far parte dei misteri mitici ma anche mistici del desiderio e fa sì che l’impulso di Cristo possa vivere anche se Dio è morto» (AC 231; it. 220). In Erbschaft dieser Zeit un articolo dal titolo L’impulso Nietzsche affronta la valutazione critica della filosofia nietzschiana, nella quale vengono distinti gli elementi regressivi (l’eterno ritorno quale ripetizione dell’identico, la volontà di potenza quale strumento d’affermazione borghese, il superuomo, «che è già fascismo chiaro come il sole») da quelli progressivi
it. 333-353), in cui Bloch viene interpretato come uno gnostico marcionita e manicheo, svolgendo un giudizio dato personalmente da Bultmann a Coppellotti su Bloch nel 1971, dopo la prima traduzione italiana di Ateismo nel cristianesimo ad opera dello stesso Coppellotti. Si tratta, a mio parere, di un’estremizzazione di alcuni elementi presenti nel pensiero blochiano, che non determinano però affatto un dualismo gnostico radicale.
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(l’«azzurro genovese»,13 Dioniso quale fratello di Apollo, non quale suo avversario). Bloch vuole «dividere il bottino» della filosofia nietzschiana e appropriarsi della sua «teleologia dell’aldiqua», per saldare un debito non ancora onorato dalla filosofia, l’amore per la terra: «il cuore della terra è d’oro, e nell’aldiqua tutto è oro, per quanto esso non sia stato affatto scoperto e riscattato» (EZ it. 303-4). La figura di Dioniso che Bloch vuole “salvare” dal pensiero di Nietzsche ha gli stessi tratti del Cristo “ofitico” di Ateismo nel cristianesimo, uomo che si fa Dio, ribelle che rivolge la sua tensione contro Zeus, contro l’autorità che opprime, ancora una volta contro la quiete, non contro la luce. L’anticristo che Nietzsche celebra in Dioniso, dunque, per Bloch altro non è che il «primo serpente» della Genesi, che indusse a mangiare la mela, ma che portò anche la prima luce della conoscenza. «Dioniso non è la rovina o la notte in cui trova rifugio la reazione, non è la natura vulcanica “al fondo”, bensì – sulle bandiere della rivoluzione – il serpente di fuoco o il lampo utopico […]. Questa è la forza dell’antico Eritis sicut Deus che qui risorge con tutta la mescolanza di ὕβρις e di pietas umana-oltreumana sui generis» (EZ it. 306). Cristo e Anticristo sono portati a coincidere. Si vede ora ancor più chiaramente quanto il soggetto desiderante rischi di assurgere, nel rapporto con Dio, a soggetto tracotante di nietzschiana memoria, sebbene la ὕβρις sia mescolata con la pietas dell’amore per la terra e per le sue creature. Scopo di Bloch è quello di emancipare l’uomo dall’autorità oppiacea della divinità, perché «è soprattutto il timore che mantiene in schiavitù. Ma anche l’opinione che i desideri possano essere realizzati dall’alto mette l’uomo nella condizione del postulante» (AC 90; it. 95). Non è necessario, tuttavia, emanciparsi con la violenza del parricidio, o del deicidio. Se la morte di Dio avviene ad opera delle mani dell’uomo e la resurrezione di Cristo è attestata solamente dalla forza della sua fede, forse l’uomo si arroga ancora troppo potere su Dio. Ancora non è capace di porre un limite alla presunzione di conoscere e di determinare tutte le modalità di questa conoscenza, per porsi in ascolto dei segni di Dio. Bloch, come sottolinea Moltmann, cerca di scongiurare questi esiti nel momento in cui il suo ateismo diventa teologia negativa. «Colui che è ateo per amore di Dio distrugge in sé tutte le immagini, tradizioni e sentimenti religiosi che uniscono illusoriamente con Dio e lo fa per amore dell’ineffa-
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Bloch allude ai versi di una poesia di Nietzsche che cita spesso: «Aperto è il mare: verso l’azzurro si muove la mia nave genovese». Cfr. Friedrich Nietzsche, JorickColombo (1884), in Id., Ditirambi di Dioniso e poesie postume (1882-1888), Adelphi, Milano 1970, pp. 139-141.
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bile vitalità del Dio totalmente Altro. Il suo ateismo è teologia negativa».14 Sicuramente, la filosofia blochiana è pensiero caldo, pervaso d’amore. E tuttavia, la sua filosofia non si arresta di fronte all’albero della conoscenza, ma ne morde avidamente i frutti. Il desiderio di essere come Dio valica i confini del desiderio di Dio, e lo calpesta: non si arresta di fronte al divieto, né di fronte al mistero. Ateismo nel cristianesimo si conclude come Thomas Münzer teologo della rivoluzione, quindi con un richiamo esplicito a questa prima opera in cui Bloch affronta a viso aperto la teologia cristiana, nell’appello a cristiani e marxisti affinché l’alleanza tra rivoluzione e cristianesimo, realizzata nelle guerre dei contadini tedeschi del Cinquecento, non sia l’ultima. Meta del tracotante desiderio di essere come Dio non è certo il prevalere di un uomo su un altro uomo, ma l’unione di «marxismo e sogno dell’incondizionato nello stesso percorso e nello stesso progetto di spedizione; in quanto forza del viaggio e termine di ogni luogo in cui l’uomo era un essere oppresso, disprezzato, disperso; in quanto ricostruzione del pianeta terra e appello, creazione, conquista con la forza del Regno: Münzer con tutti i chiliasti rimane la voce che chiama a questo tempestoso pellegrinaggio» (TM 225; it. 201). Il sogno – rosso – di una cosa si allea, così, con l’attesa messianica di una liberazione incondizionata, «nello stesso corso, nello stesso piano di battaglia» (AC 354; it. 331). Eppure, in questa battaglia, le conseguenze della tracotanza del desiderio di essere come Dio si fanno temere. 2. Oltre religione e ateismo: mistica della prossimità 2.1 Infinita piccolezza del sommo bene Benchè «ateismo nel cristianesimo» sia il titolo che Bloch stesso dà all’opera in cui spiega la sua posizione rispetto a religione e ateismo nel senso appena illustrato, la prospettiva della sua filosofia non si esaurisce certo in questa sintesi. Né è il desiderio di «essere come Dio» a risolvere o a dissolvere il tormento del desiderio dell’uomo, sempre dilaniato nella scelta tra meglio e bene. Nessun bene è mai buono abbastanza per il desiderio, ma l’aspirazione al meglio diventa avversaria del compimento del bene, se è insaziabile. Il meglio, nella finitezza di una vita umana, non può essere superabile all’infinito. «Una volta, da una qualunque parte, dovreb14
Jürgen Moltmann, «Religione in eredità». Prefazione, op. cit., p. 66.
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be esserci un “fin qui e non oltre”, non una dichiarazione di rinuncia, come di solito, ma di adempimento. In cui è pensabile un valore principale, che in sé e per sé non oscilla né verso il basso né verso l’alto e a partire dal quale, anzi procedendo verso il quale, sono misurabili i beni. Solo questo meglio era infine voluto, per lo più per vie tortuose, a volte attraverso presagi» (PH 1552; it. 1516). Questo secondo tipo di meglio, il meglio dell’adempimento, altro non è che il sommo bene. Solo nel sommo bene il meglio e il bene vengono a coincidere senza escludersi l’uno con l’altro; solo il sommo bene è in grado di dare al desiderio la consistenza della volontà, permettendo al soggetto di dare una direzione al proprio desiderare e al proprio agire, dunque di compiere una scelta. Se per Platone il sommo bene è l’idea di un essere perfettamente autosufficiente (Filebo, 60C) e se Agostino trasferisce l’idea platonica nel Dio cristiano, quale unità inscindibile di unum, verum, bonum, Bloch eredita questi caratteri nell’«oggetto utopico che allo stesso tempo non è più tale, ma è identico al soggetto» (PH 1562; it. 1525), identità voluta dall’uomo con la massima radicalità e assolutezza. Bloch non vuole fare rinunce, a proposito del pensiero del sommo bene. Non si può che desiderare e volere il “tutto”, come sommo compimento. Pensare cosa ciò significhi è responsabilità della filosofia. Il Tutto nel senso dell’identificazione è l’assoluto di ciò che gli uomini fondamentalmente vogliono. Perciò questa identità giace nel fondo (Grund) oscuro di tutti i sogni ad occhi aperti, di tutte le speranze e utopie, ed è allo stesso tempo il fondo d’oro su cui le utopie concrete sono segnate (aufgetragen). Ogni sogno ad occhi aperti serio intende questo duplice fondo come patria; esso è il non-ancora-sperimentato, non ancora trovato, esperito in ogni esperienza finora divenuta (PH 368; it. 371).
Se si interpreta questo desiderio di totalità come un desiderio di identità che annulla la duplicità di luce dorata e di oscurità insita in ogni esperienza, e se lo si identifica senza ulteriori distinzioni con il desiderio di essere come Dio, si fa torto al senso della filosofia blochiana e anche alla filosofia del desiderio che essa lascia in eredità. A Bloch si può rimproverare di aver insistito in modo troppo spregiudicato sull’ambiguità – così radicale da essere antinomica – di una meta assolutamente voluta, assolutamente buona, eppure incompiuta e proprio per questo, proprio per la duplicità che le appartiene, per la tensione tra già e non-ancora, tra mancanza ed eccedenza, sempre in divenire. È però questa l’ambiguità del presente che la filosofia utopica si propone di pensare, e non di superare nel pensiero, cogliendo la profondità della differenza – una differenza d’essere – tra re-
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altà incompiuta e compimento desiderato. Semmai, si propone di fare da guida, da direzione invariante dell’azione, ma nella dimensione frammentaria e infinitesimale di ciascun attimo. Pensare l’ambiguità del presente per svelare la luce nella sua oscurità significa, infatti, mostrare la grandezza della meta desiderata nella piccolezza della sua origine: «l’infinitamente grande di un principio che crea si perde con il futuro Veni creator spiritus15 nell’infinitamente piccolo di un principio che ha bisogno di tutto ed è solo agli inizi» (AC 293; it. 277). Allora, a Bloch si può rimproverare di non aver distinto tra desiderio di essere come Dio e desiderio di Dio, nonostante vi sia arrivato così vicino. Se il desiderio di essere come Dio si può tradurre in desiderio di una meta infinitamente grande, il desiderio di Dio è invece un principio infinitamente piccolo, che anima silenziosamente ciascun singolo attimo vissuto. Eppure non si può rimproverare a Bloch di aver trascurato i frammenti, di non aver fatto attenzione alla marginalità degli attimi più bizzarri, apparentemente insignificanti, o strani. Pensare al futuro utopico ha significato per lui proprio acuire lo sguardo per cogliere con la giusta attenzione l’attimo presente. Sapeva bene che non altrove era racchiuso il bene supremo, e lo sapeva non dalla filosofia, ma dalle fiabe, dai racconti brevi e dalle esperienze vissute: «il bene supremo è come una fonte di costante soddisfazione, ma il punto in cui la fonte sgorga è nascosto nel non appariscente, e, se mai, in un luogo vicario» (PH 1555; it. 1518). La tensione al bene supremo spinge all’attenzione e all’ascolto di ciò che è inconsueto, inusuale, trascurato o obliato, perché in quell’incrinatura tra essere e non-essere si nasconde la fonte del bene nella sua infinita piccolezza. 2.2 Desiderio di Dio come attenzione mistica all’attimo vissuto Nell’opera che Bloch volle fosse programmaticamente la prima della Gesamtausgabe, Spuren (Tracce), è quest’attenzione per il «piccolo» ad esprimersi in un pensiero narrativo e affabulante. Anna Czajka ha analizzato a fondo la «poetica dell’attimo» che in questo testo congiunge poesia, filosofia e narrazione16 e nota che, «benché sia solo una scintilla, la veri15
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Verso di un inno di Rabano Mauro, anteposto da Mahler all’ottava sinfonia, efficace, secondo Bloch, per esprimere un senso non del tutto concorde con l’originale intenzione di Rabano Mauro: con la venuta dello Spirito a Pentecoste il Dio Creatore viene dissolto e trasferito nel soggetto, che diventa creatore a sua volta grazie alla discesa dello Spirito. Cfr. Anna Czajka, Tracce dell’umano. Il pensiero narrante di Ernst Bloch, cit.
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tà del sé esperita nella narrazione è forse la più autentica determinazione possibile del sommo bene».17 Non soltanto. Le fiabe narrano anche con sapiente immediatezza la verità del desiderio non raggiunto e incompiuto, ingannato dall’illusione, deluso da quella peculiare «malinconia dell’adempimento» che a volte impedisce persino di godere di un compimento avvenuto, eppur non più così splendente come nell’immagine di desiderio. Così Spuren può essere letto come un testo sulle infinite possibilità che desideri e «sogni realisti» hanno di spandere la loro luce e il loro colore, ma anche la loro ombra, sulla terra ancora inabitabile.18 Desiderio e seduzione possono condurre al vuoto dell’incantamento, il quale però può anche essere il «luogo vicario» dell’attrazione della salvezza: «i suoi segni e i suoi pegni all’inizio sono smilzi e crescono solo con il progredire attivo che è la maturazione e il venir fuori della cosa stessa. Ma queste differenze non sono certe al punto che si possa fare a meno del cammino o dell’assaggio del sole, che porta tutto alla luce del giorno. Incantamento e sostanza possono anche presentarsi mescolati abbastanza a lungo durante il cammino» (S 186; it. 198). Così la fascinazione del mondo, che attrae e distrae, si mescola all’attenzione per i suoi segni, per i suoi semi e i suoi processi: è il desiderio di Dio a suscitare l’attenzione mistica alla prossimità di ciò che ci tocca da vicino in ciascun attimo vissuto. «Solo qui, nella più prossima delle vicinanze, nella più immanente delle immanenze, si nasconde il mistero, a se stesso celato, nella presenza di un mondo, il mistero dell’“a-che-scopo” (Wozu) e del fine della sua presenza. Così questo enigma dell’esserci […] fermenta solo nel non-trovato dell’istante, nella più immanente delle immanenze. Il suo non sapere di sé è il vero impulso-fondamento per la manifestazione di questo mondo ed è il tormento (Qual), la fonte (Quelle), la qualità (Qualität) della sua materia che è in ogni tempo ancora carica di utopia» (AC 293-294; it. 277, trad. mod.). È dalla mistica cristiana che Bloch impara quest’attenzione per il tormento, la fonte e la qualità dell’attimo e la eredita nella sua filosofia. La parola “mistica” deriva etimologicamente da μυέιν, chiudere gli occhi, e nasce da una delle cime più alte della filosofia, il pensiero di Plotino, che la inaugurò come vetta della ragione. Così, l’ἄπλοσις, la massima sempli-
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Ibid., p. 209. Cfr. il racconto Il tema della porta (S 155-156; it. 163-164). Cfr. anche Daria Dibitonto, Oltrepassare l’ambiguità della soglia. Il tema della porta in Ernst Bloch, in “Filosofia e Teologia”, n. 1, anno 2004.
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ficazione dell’anima razionale, sancisce il culmine del pensiero nel ritiro dell’intimo dell’anima, che è uguale per essenza all’Uno originario. Bloch osserva come nel suo pensiero coscienza e ragione si estinguano «per amore di una luce forse ancora superiore, senza naufragare in convulsioni, nebbie e visioni sanguinose» (AC 93; it. 97). Si estinguono, si potrebbe anche dire, per compiere il desiderio di Dio nell’amore per lui. L’ardire di Bloch è stato quello di coniugare quest’anelito all’estinzione della coscienza con la potenza rivoluzionaria del desiderio. Così la mistica cristiana viene a far parte, nella sua ricerca, di quella «storia sotterranea della rivoluzione» che «attende ancora inascoltata», di quella tradizione eretico-mistica che ha inizio con gli albigesi e i catari, che passa per Gioacchino da Fiore per arrivare fino a Rousseau, Kant, Baader e Tolstoj, per restare a testimoniare la lotta contro ogni aldilà che trascuri l’uomo e l’umano. Sebastian Franck, mistico fedele a Münzer, pensava Dio come «indicibile sospiro posto nel fondo delle anime». E Bloch scrive a proposito: «La gloria di ciò che qui s’intende, e che in tal modo non è giunto, è insita unicamente nel desiderio del soggetto e nella profondità di questo suo fondamento» (AC it. 270); allo stesso modo, la «scintilla dell’anima» di cui parla Meister Eckhart è anch’essa nient’altro che quel desiderio profondo di luce, quel desiderio di Dio, che la mistica coltiva e che la filosofia può ereditare. Così, sebbene Bloch non abbia parlato esplicitamente di desiderio di Dio, è importante riscontrare la presenza di questa tensione nel suo pensiero, che ne attraversa le feconde polarità come la sua luce più intima e più vera. Ora arde la scintilla senza indugiare più in nessun luogo, in conformità alla più precisa delle rivendicazioni bibliche: non abbiamo qui una dimora fissa, andiamo alla ricerca di quella futura. Un modo di sentire messianico si appresta a sorgere di nuovo, finalmente familiare al peregrinare e alla forza non ingannevole del desiderio (Sehnsucht); non il desiderio della quiete della terra, di opere divenute immutabili, di false cattedrali, di una trascendenza che ha finito di ardere e che non scaturisce più in nulla, ma il desiderio di un campo di luce per l’attimo stesso da noi vissuto, dell’adeguamento del nostro stupore, del nostro presentimento, del nostro sogno di felicità continuo e profondo, di verità, di disincanto di noi stessi, sogno di divinità e di gloria nascosta (TM it. 201).
Non abbiamo una dimora fissa: ich habe mich nicht (non mi possiedo). Nella ricerca di una dimora futura c’è però un desiderio che non inganna, ed è quello che non si acquieta, non perché non sappia accontentarsi, ma perché non cerca alcunché di terreno né di esauribile nella sua realizzazio-
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ne concreta. Darum werden wir erst (perciò diveniamo): per questo non possiamo che continuare a cercare un «campo di luce» per l’attimo oscuro, agire per adeguare il nostro sogno di felicità e verità – che si nutre di stupore, di presentimenti, di disincanto – alla realtà, pur sapendo che in essa sempre si nasconde un’inafferrabile gloria divina. L’approdo del desiderio è quindi una mistica della prossimità all’uomo, alla materia e al divino che li abita, in cui luce, oscurità e colore del desiderio trovano accoglienza e riverbero. 2.3 Prossimità tra identità e alterità La mistica della prossimità non esaurisce il mistero, bensì accoglie in sé il desiderio di Dio declinandone la costitutiva inquietudine come attenzione per ciò che, costituendoci come uomini, è a noi prossimo. Resta aperta la domanda su come entrino in rapporto identità e alterità nella prossimità, domanda che a mio parere deve restare aperta, per non incorrere nel rischio di ipostatizzare i suoi termini, e che tuttavia si può articolare così: si giunge infine all’incontro con il nostro volto umano? L’incontro con il volto che ne protegge il mistero significa che nel volto dell’altro riconosco i miei tratti e mi sento unito da una comune umana essenza inesauribile che me lo rende prossimo, ma non padroneggiabile, e quindi degno della stessa attenzione e rispetto che ho per me stesso, anzi, che ho per ciò che di divino abita me e la materia del mondo in cui vivo? In altre parole, “mistica della prossimità” significa una direzione filosofica in cui identità e alterità non sono figure opposte, la prima sinonimo di essenza costitutiva, fondante e chiusa, che svolge una funzione unificante e infine quindi totalizzante, la seconda invece sinonimo di eccezionalità e diversità irriducibile, che svolge la funzione di interruzione e quindi di rinvio costitutivo alla trascendenza, bensì momenti dialettici che trascorrono l’uno nell’altro costituendosi a vicenda?19 Di certo, questa è la sua tendenza, che si rimette in discussione però creativamente coltivando la relazione con lo spazio e il tempo di volta in volta 19
Francesco Remotti ha svolto la sua interessante indagine antropologica e filosofica sul concetto di identità nel suo Id., Contro l’identità, Laterza, Bari 20074 (1996), nel quale sostiene che l’identità da combattere è quella che rinnega il proprio carattere convenzionalista e dunque disconosce il processo di costruzione socioculturale che l’ha edificata, mentre è necessario coltivare socialmente un’identità che, nella consapevolezza della propria convenzionalità, sappia riconoscere la positività del «bisogno di alterità» e interagisca creativamente con eso. Sulle diverse interpretazioni di alterità nella filosofia contemporanea cfr. Alberto Pirni (a cura di), Logiche dell’alterità, cit.
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prossimi nel multiversum del mondo e prestando attenzione mistica sia alla sua identità incompiuta che alla sua alterità infinita. In questo senso vorrei infine interpretare la conclusione di Spirito dell’utopia, intitolata Il volto della volontà, nella quale Bloch sostiene che la profondità del Treibende (Coppellotti traduce «forza che agisce», qui è meglio «impulso che sospinge»), divenuta filosofia, «apre ovunque le porte di Cristo, cioè l’adeguazione del desiderio-uomo in se stessso (Adäquation der Menschen-Sehnsucht an sich selber), e svela l’uomo segreto, questo qualcosa cui sempre tendiamo nel linguaggio (dies stets Gemeinte), questo presente sempre utopico, questa sostanza identica che corrisponde allo stesso tempo a tutta l’intenzione simbolica mistico-morale» (GU 345, it. 358, trad. mod.). La sostanza identica in cui desiderio e uomo trovano la propria corrispondenza, in cui l’uomo segreto si disvela e il presente utopico raccoglie in sé tutta l’intenzione simbolica mistico-morale, è filosofia nel senso antico della parola, nel senso di «amore per il sapere» fatto di πόρος e πενία, risorsa e povertà, di linguaggio che ricerca e costruisce (intende, meint) un compimento che ancora non c’è. E infatti «nell’estrema unione di intensità e luce che si rivelano a se stesse, la cosa in sé si definisce esattamente come volontà tesa al nostro volto (Willen zu unserem Gesicht) ed infine come il volto della nostra volontà (das Gesicht unseres Willens)» (GU 345, it. 359), ossia, ancora una volta, la cosa in sé è tensione che cerca compimento nell’immagine del volto, per poi rovesciare questa stessa immagine in una tensione dai marcati accenti nietzscheani: non è una volontà che si fa beffe di noi, come quella schopenaueriana, ma è la nostra volontà, ovvero quella che vuole la ripetizione dell’identico – dell’identico blochiano però, l’identico della luce che non dissipa l’oscuro – e lo vuole per sempre. A questa concezione blochiana del desiderio e del suo rapporto con il volto, la cui alterità è infine riconducibile a un’identità umana comune, seppur inesauribile, si oppone, con tanta maggior forza quanto grande è la loro vicinanza, quella levinassiana del Desiderio come relazione infinita con il volto d’Altri.20 «Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione, il sensibile, che è ancora afferrabile, si muta in resistenza totale alla presa. Questo mutamento è possibile solo 20
Alessandra Cislaghi ha indagato il desiderio metafisico nel Novecento a partire dal confronto tra Heidegger e Lévinas nel suo Id., Il desiderio metafisico. La questione della metafisica nell’età ermeneutica, Trauben, Torino 1999. Su alterità e trascendenza nel pensiero di Lévinas cfr. invece l’ampio studio di Giovanni Ferretti, La filosofia di Lévinas: alterità e trascendenza, Rosenberg & Sellier, Torino 1996.
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grazie all’apertura di una nuova dimensione. Infatti la resistenza alla presa non si produce come una resistenza insormontabile, come durezza della roccia contro cui è inutile lo sforzo della mano, come lontananza di una stella nell’immensità dello spazio. L’espressione che il volto introduce nel mondo non sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere. Il volto, ancora cosa tra le cose, apre un varco nella forma che per altro lo delimita. Il che significa concretamente: il volto mi parla e così mi invita ad una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss’anche godimento o conoscenza».21 Il volto d’Altri invita a una relazione etica, cioè a una relazione senza misura, come lo è l’Infinito, come lo è il Desiderio, che non può essere limitato da nessun termine e da nessuna soddisfazione e in questo senso è opposto al bisogno: «Senso non è finalità. Perché non c’è una fine, non c’è un termine. Il Desiderio dell’assolutamente Altro non verrà a spegnersi, come il bisogno, nella felicità».22 Il Desiderio levinassiano è il désir sans défaut di Valery, il desiderio intero e integro dell’etica, che produce l’essere come bontà e diventa quindi filosofia prima in quanto struttura l’esteriorità come tale. Si fronteggiano qui due idee molto diverse di desiderio: la prima, quella blochiana, descrive un desiderio umano, che trascende «senza trascendenza» e aspira all’identità con sé, ma nel suo incessante oltrepassare e oltrepassarsi incontra il multiversum del noi e si fa garanzia della differenza tra pensiero ed essere, tra fantasia e realtà, garanzia tanto più salda quanto più si apre a desiderare la trascendenza di Dio che mai possiede – mentre cerca però la piccola porta da cui far entrare il Messia quale fonte di salvezza e felicità;23 la seconda, quella levinassiana, descrive un desiderio divino,
21 22 23
Emmanuel Lévinas, Totalité et infini, cit., p. 215-216 [Totalità e infinito, cit., p. 200]. Emmanuel Lévinas, Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Paris 1972, p. 70 [Umanesimo dell’altro uomo, tr. it. di Alberto Moscato, il melangolo, Genova 1998, p. 99]. Cfr. a questo proposito il singolare racconto di Tracce intitolato La mano felice (S 198-202, it. 211-216), nel quale la vita di un commerciante viene salvata dal gesto, piccolo e quasi casuale, del rabbino cui lui racconta un proprio inquietante presentimento. Il racconto si conclude così: «Un altro rabbino, un vero cabalista, disse una volta: per instaurare il regno della pace non è necessario distruggere tutto e dare inizio a un mondo completamente nuovo; basta spostare solo un pochino questa tazza o quell’arbusto o quella pietra, e così tutte le cose. Ma questo pochino è così difficile da realizzare e la sua misura da trovare che, per quanto riguarda il mondo, gli uomini non ce la fanno ed è necessario che arrivi il Messia. Il saggio rabbi, con la sua massima, è intervenuto anche lui in favore, non dell’evoluzione pigra, ma del colpo d’occhio riuscito e della mano felice».
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che «proviene da un essere già interamente pago», indipendente, che non desidera per sé e che tuttavia si dirige verso gli Altri svuotando la soggettività di se stessa e scoprendo in essa sempre nuove risorse, che non ha però il diritto di serbare per sé, ma deve donare. «Il desiderabile non sazia il mio Desiderio, anzi gli dà un languore, cibandomi, in certo qual modo, di sempre nuove fami. Il Desiderio si rivela bontà».24 Ed è per questo che «il Desiderio d’Altri, che viviamo nella più banale esperienza sociale, è il movimento fondamentale, il trasporto puro, l’orientamento assoluto, il senso».25 Da un lato, dunque, un desiderio umano che non rinuncia a cercare le forme, piccole e deviate rispetto alla nostra intenzione originaria, in cui si dà la felicità e il bene preappare; dall’altro, un desiderio divino che è apertura infinita all’Altro e costituisce la bontà come realtà irriducibile alla felicità, perché in quest’ultima riecheggia inevitabilmente un’egoistica soddisfazione dei propri bisogni. E tuttavia, in quest’alternativa, c’è anche una vicinanza, una prossimità che non vuole né può decidere tra identità e alterità, perché è al di là di esse. Per Bloch, infatti, «nel giorno del Giudizio soltanto l’etica e la sua metafisica saranno il valore oro del nome di Dio, a cui noi dobbiamo la purezza come Egli deve a noi la redenzione» (GU 345, it. 359). Etica e metafisica corrispondono, sempre nella pagina conclusiva di Spirito dell’utopia, ai due modi di vedere il mondo di cui parla lo Zohar, cui seguono due diversi gradi dell’agire: le opere e la preghiera. «Solo i malvagi esistono in virtù del loro Dio, mentre i giusti, in virtù dei quali Dio esiste, hanno nelle loro mani la santificazione del Nome, la possibilità di chiamare per nome quel Dio che in noi agisce e preme, la porta presagita, la domanda più oscura, l’intimo esuberante che non è un fatto ma un problema. E queste sono le mani della nostra filosofia che evoca Dio, le mani della nostra verità come preghiera». La “nostra filosofia” è linguaggio che si fa prossimo al divino come fosse preghiera, ovvero invocazione in sua assenza e gratitudine in sua presenza. Sembra quasi fare eco Lévinas: «Porre l’essere come Desiderio e come bontà non significa isolare preliminarmente un io che tenderebbe in seguito verso un al di là. Significa affermare che comprendersi dall’interno – prodursi come io – è comprendersi con lo stesso gesto che è già rivolto all’esterno per estrovertire e manifestare – per rispondere di ciò che comprende – per esprimere; significa affermare che la presa di coscienza è già 24 25
Emmanuel Lévinas, Humanisme…, cit., p. 49 [it. p. 73]. Ibid.
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linguaggio; che l’essenza del linguaggio è bontà, o ancora, che l’essenza del linguaggio è amicizia e ospitalità».26 Pur nelle infinite distanze delle rispettive tradizioni di pensiero e poi delle rispettive analisi del desiderio, ciò che avvicina i due filosofi è la centralità – nell’esistenza come nel pensiero – di un desiderio che sospinge, muove e rimanda ad altro: intimità che si esprime, esteriorità che torna a sé, ricerca inestinguibile che non s’arrende di fronte a nessun male, pur non espunto banalmente da sé, e che nel far questo costituisce un io e un noi dialoganti e accoglienti, che operano e pregano, nei loro limiti, per il bene dell’uomo.
26
Emmanuel Lévinas, Totalité et infini, cit., p. 341 [Totalità e infinito, cit., p. 314].
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RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare i miei genitori per la libertà che hanno saputo concedermi e per avermi sempre sostenuta anche in un percorso tortuoso e non lineare. Ringrazio mio fratello Luca, per la dolcezza con cui, talvolta sommessamente, sa mostrarmi il suo affetto. Ringrazio tutte le mie “sorelle nell’anima”, ovvero le amiche storiche: Miriana, Elisabetta, Simonetta, Barbara, Silvia. Le tante parole condivise sono sempre state preziose scintille di luce e d’affetto. Ringrazio i miei amici e colleghi Nicolò Seggiaro e Marco Saveriano. Il piacere del confronto con loro è sempre stato la parte più gioiosa del mio lavoro e, con intatto stupore, non smette di rinnovarsi. Ringrazio il Prof. Ugo Perone e il Prof. Claudio Ciancio per la profondità e la ricchezza del loro insegnamento. Ringrazio il Prof. Jürgen Moltmann per aver stimolato le mie ricerche in questi anni sia con la forza del suo intelletto che con la generosità del suo caloroso sostegno. Ringrazio l’Università di Tubinga, nelle persone del Dr. Reinhart Brunner, del Dr. Dietmar Koch e del Prof. Eberhard Braun†, che ricordo con affetto, per l’accoglienza e l’amichevole ospitalità offertami durante la mia permanenza in Germania nel semestre estivo 2003. Ringrazio Pascal Thümling per aver sempre sostenuto con interesse e favore le mie ricerche su Ernst Bloch, cui l’accomuna, oltre alla filosofia, la città natale di Ludwigshafen. Ringrazio la Ernst-Bloch-Assoziation nella persona di Doris Zeilinger, per la cordiale accoglienza e per avermi offerto di partecipare come relatrice al seminario dell’associazione tenutosi a Salecina, in Svizzera, nel giugno 2003. Infine, non c’è ringraziamento adeguato a esprimere la mia gratitudine e il mio bene per Massimiliano, che mi dona quotidianamente la sua vita e la sua arte.
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BIBLIOGRAFIA
La bibliografia completa di Ernst Bloch è stata pubblicata e viene costantemente aggiornata sulla rivista edita dall’Ernst-Bloch-Archiv, ora ospitato all’interno dell’Ernst-Bloch-Zentrum di Ludwigshafen: “BlochAlmanach”, Periodikum des Ernst-Bloch-Archivs der Stadt Ludwigshafen am Rhein, Talheimer Verlag, Talheim – Mössingen, 1 (1981) – 23 (2004). Nella bibliografia che segue si riportano in ordine cronologico le monografie, i saggi e gli articoli consultati per il presente lavoro con l’eventuale traduzione italiana. Letteratura primaria Ernst Bloch, Gesamtausgabe in 17 Bänden, Suhrkamp, Frankfurt am Main 19591978: Bd. 1. Spuren; Tracce, tr. it. di Laura Boella, Garzanti, Milano 1994 Bd. 2. Thomas Münzer als Theologe der Revolution; Thomas Münzer teologo della rivoluzione, tr. it. di Stefano Zecchi, Feltrinelli, Milano 1980 Bd. 3. Geist der Utopie. Zweite Fassung; Spirito dell’utopia, tr. it. di Vera Bertolino e Francesco Coppellotti, La Nuova Italia, Firenze 1992 (1980) e Sansoni, Milano 2004 Bd. 4. Erbschaft dieser Zeit. Zweite Auflage; Eredità del nostro tempo, tr. it. di Laura Boella, Il Saggiatore, Milano 1992 Bd. 5. Das Prinzip Hoffnung; Il principio speranza, tr. it. di Enrico De Angelis e Tomaso Cavallo, Garzanti, Milano 1994 Bd. 6. Naturrecht und menschliche Würde; Diritto naturale e dignità umana, tr. it. di Giovanni Russo, Giappichelli, Torino 2005 Bd. 7. Das Materialismusproblem, seine Geschichte und Substanz Bd. 8. Subjekt-Objekt. Erläuterungen zu Hegel; Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, tr. it. di Remo Bodei, Il Mulino, Bologna 1982 Bd. 9. Literarische Aufsätze; parzialmente tradotto (pp. 401-548) in Geographica, Marietti, Genova 1992 Bd. 10. Philosophische Aufsätze zur objektiven Phantasie Bd. 11. Politische Messungen, Pestzeit, Vormärz
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Bd. 12. Zwischenwelten in der Philophiegeschichte; parzialmente tradotto (pp. 175-302) in La filosofia del Rinascimento, tr. it. di Remo Boderi, Il Mulino, Bologna 1981 Bd. 13. Tübinger Einleitung in die Philosophie Bd. 14. Atheismus im Christentum. Zur Religion des Exodus und des Reichs; tr. it. di Francesco Coppellotti, Ateismo nel Cristianesimo. Per la religione dell´Esodo e del Regno, Feltrinelli, Milano 20052 (1971) Bd. 15. Experimentum Mundi. Frage, Kategorien des Herausbringens, Praxis; Experimentum Mundi. La domanda centrale, le categorie del portar-fuori, la prassi, tr. it. di Gerardo Cunico, Queriniana, Brescia 1980 Bd. 16. Geist der Utopie. Erste Fassung Erg.-Bd. Tendenz – Latenz – Utopie Altre opere non comprese nella Gesamtausgabe sono: Geist der Utopie, Paul Cassirer, Berlin 19232 Durch die Wuste, Paul Cassirer, Berlin 1923 e Suhrkamp, Frankfurt am Main 1964 Vom Hasard zur Katastrophe, Politische Schriften aus dem Jahren 1934/39, hrsg. von Oskar Negt, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1972 Kampf, nicht Krieg. Politische Schriften 1917/19, hrsg. von Martin Korol, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1985 Briefe 1903-1975, Bände I-II, hrsg. von Karola Bloch u.a., Suhrkamp, Frankfurt am Main 1985 Logos der Materie, Gerardo Cunico (Hrsg.), Suhrkamp, Frankfurt am Main 2000 Ernst Bloch, Wieland Herzfelde, “Wir haben das Leben wieder vor uns”: Briefwechsel 1938-1949, Jürgen Jahn (Hrsg.), Suhrkamp, Frankfurt am Main 2001 Das Abenteuer der Treue: Briefe an Karola 1928-1949, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2005 “Ich möchte das Meine unter Dach und Fach bringen…”: Ernst Blochs Geschäftskorresopondenz mit dem Aufbau-Verlag Berlin 1946 – 1961; Eine Dokumentation, Jürgen Jahn (Hrsg.), Harrassowitz, Wiesbaden 2006 Der unbemerkte Augenblick: Feuilletons für die “Frankfurter Zeitung” 1916 – 1934, Ralf Becker (Hrsg.), Suhrkamp, Frankfurt am Main 2007 Alcune interviste e colloqui sono raccolti in: Gespräche mit Ernst Bloch, Rainer Traub (Hrsg.), Suhrkamp, Frankfurt am Main 1975 Tagträume von aufrechten Gang. Sechs Interview mit Ernst Bloch, Arno Munster (Hrsg.), Shurkamp, Frankfurt am Main 1977; Marxismo e utopia, a cura di Virginio Mazzocchi, Editori Riuniti, Roma 1984 Abschied von der Utopie?, Hanna Gekle (Hrsg.), Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980 Tra le altre traduzioni italiane di saggi o parti di libri: Dialettica e speranza, a cura di Livio Sichirollo, tr. it. di Giovanni Scorza e altri, Vallecchi, Firenze 1967
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Luce, oscurità e colore del desiderio
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