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Italian Pages [544] Year 2003
Clifford Geertz
Interpretazione di culture
Società editrice il Mulino
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ISBN 978-88-15-06693-0 Società editrice il Mulino. Edizione originale: The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books, Inc., 1973. Copyright © 1973 by Basic Books, Inc., New York. Copyright © 1988 by Società editrice il Mulino, Bologna. Nuova edizione 1998. Traduzione di Eleonora Bona. Revisione di Marco Santoro. Ristampa del 2007 con prefazione dell’autore. Edizione digitale 2020.
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Prefazione
Accingendomi, all’inizio degli anni settanta, a raccogliere questi saggi, tutti scritti nel decennio precedente, i leggendari anni sessanta, ero lungi dall’aver chiaro cosa li collegasse, a parte il fatto che li avevo scritti io. Alcuni riguardavano l’Indonesia, dove avevo lavorato per diversi anni, altri trattavano l’idea di cultura, una mia ossessione, altri ancora erano sulla religione, la politica, il tempo, l’evoluzione. E uno, destinato a divenire forse il più famoso, o famigerato (ha fatto arrabbiare sia gli studiosi marxisti sia l’intellighenzia letteraria più raffinata), era un contributo piuttosto atipico sul significato profondo dei combattimenti di galli a a Bali. Emergeva qualcosa da questo insieme? Una teoria? Un punto di vista? Un approccio? Non avevo neppure un titolo per questa raccolta, e men che meno un filo conduttore. Avevo pensato di intitolarla Significato e cultura, ma giustamente il compianto Marvin Kessler, che era il mio editor a Basic Books e che per primo aveva avuto l’idea della raccolta, non apprezzò molto questa proposta – l’evasività era troppo evidente, e la formula priva di ispirazione – e mi spinse a scrivere un’ampia introduzione analitica che esponesse la mia posizione generale. Dissi che non sapevo di averne una. Mi rispose (quelli sì, erano redattori): «La troverai». Così ho scritto Thick description: 4
Toward an interpretative theory of culture, scoprendo sia una prospettiva sia uno slogan che mi accompagna da allora. Questo ordine a ritroso – prima scrivi poi capisci di cosa stai scrivendo – può sembrare strano, o addirittura perverso, ma almeno nella maggioranza dei casi è – penso – prassi comune in antropologia culturale. A parte coloro che aspirano alla scienza pura e a una tecnica ancora più pura, nessuno di noi parte con idee strutturate da portare in posti lontani per essere verificate attraverso procedure accuratamente codificate e sistematicamente applicate. Andiamo in luoghi lontani, o oggi sempre più vicini, con alcune nozioni generali sulle cose che ci piacerebbe approfondire e sul modo in cui potremmo farlo. Poi effettivamente le investighiamo (non di rado, ne investighiamo altre che si rivelano più interessanti), dopo di che torniamo, scorriamo appunti e ricordi, entrambi lacunosi, per vedere cosa avremmo potuto scoprire che ci avrebbe condotto a chiarire, o a rivedere proficuamente certe idee consolidate, nostre o di altri, su questo o quell’argomento. Ne scaturisce una scrittura esplorativa, che si auto-interroga e che viene plasmata dalle circostanze della sua produzione più di quanto la sistemazione a posteriori in libri strutturati e monografie tematiche possa far pensare. Questa fase conclusiva del lavoro – conclusiva finché non ripartiamo, o ci volgiamo a nuovi interessi – è da un lato cruciale, dall’altro leggermente manipolativa. Cruciale perché senza di esse rimaniamo con una raccolta di vignette e riassunti, frammenti in cerca di un tutto. Manipolativa perché presenta quella che è una faticosa costruzione come se fosse una tesi ponderata e felicemente confermata. Le tesi antropologiche – e Interpretazione di culture è sicuramente 5
una di queste – sono come giustificazioni che si trovano dopo che ci si è imbattuti nell’ostacolo che le ha rese necessarie. In ogni caso, che siano elaborate prima o dopo, le affermazioni generali, come quella a cui sono fortunatamente pervenuto nel saggio sulla thick description (fortunatamente per gli sviluppi del mio lavoro e per il suo impatto), in antropologia hanno senso solo se riferite a indagini specifiche, come quelle che compongono il resto del libro. Staccate da queste, esse sembrano mere cambiali, scatole vuote, possibilità possibili. Sono gli scritti su uno scombinato funerale giavanese, sulle concezioni balinesi di tempo e identità, come pure sui combattimenti di galli in cui si gioca il melodramma nascosto di una rivalità di status animalizzata, a rendere suggestive e plausibili le affermazioni generali, non solo nel saggio sulla thick description, ma anche in «La religione come sistema culturale», «Ideologia come sistema culturale», o «Sviluppo della cultura ed evoluzione della mente». Nonostante le mie incertezze iniziali, il libro è un libro, i capitoli sono capitoli, e tutto è caratterizzato da un certo ritmo. È passato oltre un quarto di secolo dalla sua pubblicazione. Il fatto che sia oggi ancora in circolazione, dopo tutto quello che è successo sia nel mondo sia nell’antropologia, è forse un segno che alcune delle lepri che ho stanato allora sono di quelle che vale la pena inseguire. In ogni caso, io le sto ancora inseguendo.
C.G.
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Introduzione all’edizione italiana
Sono ormai trascorsi venticinque anni da quando Clifford Geertz pubblicò quello che si può considerare come il manifesto della «svolta interpretativa» in antropologia: Interpretazione di culture. L’atmosfera prevalente nelle scienze sociali, almeno nei paesi di lingua inglese, era già disposta a un mutamento di paradigma nel senso indicato da Geertz. I primi anni Settanta vedono infatti il moltiplicarsi di critiche al formalismo sociologico di Parsons, che ricopriva ancora, e non solo negli Stati Uniti, la posizione di leader indiscusso della teoria sociale, l’irruzione di metodi di analisi sociologica orientati in senso fenomenologico, il successo dell’etnometodologia, l’affermarsi di una sociologia come quella di Goffman, svincolata, più di ogni altra, da pretese strutturali e, soprattutto, di fondazione di un ordine teorico. Un tratto comune a questi stili di ricerca, come rilevava con qualche irritazione A.W. Gouldner (in La crisi della sociologia1), era un’aria vagamente hippy, da campus in ebollizione di un’università americana. La propensione al debunking, il rovesciamento ironico dei luoghi comuni della ricerca sociale, e l’attenzione prestata più alle «stranezze» della vita ordinaria che alle grandi costruzioni teoriche avrebbero rivelato, insomma, un’insofferenza per le sicurezze, teoriche e ideologiche, della vita accademica. 7
Questa immagine è sicuramente parziale, benché contenga qualche verità. Come lo stesso Geertz indicherà in una successiva raccolta di saggi (Local Knowledge)2, il mutamento di paradigma, per quanto indubbiamente influenzato anche dallo Zeitgeist, aveva profonde motivazioni teoriche; suonava infatti come una reazione al modello prevalente che, per semplificare, si sviluppa a partire da Durkheim e conduce a Parsons in sociologia e a Lévi-Strauss in antropologia: un modello secondo il quale le diverse forme di vita e organizzazione sociale possono essere ricondotte a formule complesse e in qualche modo invarianti. Un modello capace di sussumere diversi apporti teorici ottocenteschi in una costruzione teorica basata sui «valori» (Parsons), oppure di dar conto, in base a una griglia ripresa dalla linguistica strutturale, della produzione mitologica dell’umanità «primitiva» (Lévi-Strauss). Allo strutturalismo e al funzionalismo che in numerose varianti avevano dominato le teorie sociali dei primi cinque o sei decenni del secolo, le scienze sociali «interpretative» opponevano (o aggiungevano, a seconda dei casi e della consapevolezza teorica) il recupero di altre tradizioni di pensiero: Max Weber e la metodologia «comprendente», la fenomenologia di A. Schutz, la filosofia del secondo Wittgenstein (che poteva essere interpretata come un’alternativa alla linguistica strutturale e al neo-positivismo logico). In questo quadro, l’opera di un singolare antropologo e filosofo come Gregory Bateson (lui, sì, divenuto un guru dei campus americani) assumeva la funzione di sintesi di diversi apporti teorici alternativi3. Naturalmente, si tratta solo di generalizzazioni che non rendono giustizia al pluralismo della «svolta interpretativa». 8
Per fare solo un esempio, Erving Goffman, dato il suo scetticismo nei confronti delle teorie e delle filosofie, non si sarebbe riconosciuto in questo quadro iper-semplificato. Ma se consideriamo i risultati empirici delle «nuove» tendenze di ricerca possiamo apprezzare l’aria di famiglia che le rende affini: l’interesse crescente per la dimensione linguistica e comunicativa delle relazioni sociali, l’attenzione per la vita quotidiana più che per le strutture o i grandi aggregati sociali, e soprattutto la capacità di analizzare i rovesci, i bordi, le stranezze e i paradossi della società. Infine, l’inevitabile propensione all’interpretazione creativa dei «fatti» sociali piuttosto che alla loro analisi oggettiva o neutrale. Paradossalmente, benché le tendenze e le «scuole» in questione rivendicassero radici teoriche diverse (la scuola di Chicago nel caso di Goffman, l’antropologia culturale in quello di Geertz, la filosofia di Wittgenstein, di Schütz o di Husserl in altri), la svolta interpretativa portava a una riscoperta della dimensione empirica della ricerca sociale. Ma una dimensione empirica svincolata dall’ossessione per le statistiche, i rigidi quadri concettuali e soprattutto le sintesi teoriche stabili. In una parola, la svolta interpretativa si potrebbe riassumere nello slogan di sapore fenomenologico: «Ritorno alle cose stesse a partire dalla teoria». Ora che queste vicende sono entrate necessariamente a far parte della storia, certamente minore, delle scienze sociali nella seconda metà del secolo, si può affermare che la carica innovativa dei metodi interpretativi è stata neutralizzata grazie alla loro inclusione nel sapere «normale» delle scienze sociali. A Berger e Luckmann, a Goffman, all’etnometodologia e allo stesso Geertz, viene 9
riservato quasi sempre, insieme a numerosi altri autori «continentali» (da Foucault ad Habermas), un paragrafo, se non un capitolo, in una rassegna delle teorie sociali contemporanee4, almeno nella letteratura manualistica di lingua inglese (il caso italiano è un po’ diverso, data la storica prevalenza, nelle scienze sociali del nostro paese di una certa aria positivistica). Tuttavia, in questo quadro, la figura di Geertz assume un ruolo particolare. In primo luogo, per una maggiore consapevolezza, rispetto agli autori citati, delle poste teoriche implicate nella «svolta interpretativa». In secondo luogo perché, in quanto antropologo, Geertz è ancora oggi il punto di riferimento di un dibattito di grande importanza sullo statuto (metodologico e anche politico) del concetto di cultura. La sua opera, per intendersi, non è solo quella di un piccolo classico, ma di un autore che non può essere ignorato in un’epoca in cui il rapporto tra soggetto e cultura è inevitabilmente declinato in chiave politica. Diversamente dall’inizio degli anni Settanta, viviamo in una dimensione di (supposta) interferenza, conflitto e coesistenza di culture estremamente densa e problematica. Ciò che oggi si definisce, con uno slogan ormai stucchevole, «globalizzazione» ci riporta al cuore delle riflessioni di Geertz sul carattere problematico e relazionale della cultura. Prima di affrontare questo aspetto – ovvero la perdurante attualità del lavoro teorico di Geertz – è opportuno ricordare che la ricezione delle sue opere, almeno da noi, è stata tardiva e limitata ai suoi riflessi metodologici. Credo che nel 1987, quando fu pubblicata la prima traduzione italiana di The Interpretation of Cultures, il nome di Geertz fosse noto (in Italia e in Europa) solo alla cerchia degli 10
antropologi e dei pochi teorici sociali interessati al paradigma interpretativo. In realtà, Geertz aveva già alle spalle un lavoro ventennale di ricercatore sul campo in Indonesia (a Giava e Bali, soprattutto) e in Marocco che si è tradotto in numerose pubblicazioni: sulla religione di Giava, sulla modernizzazione urbana in Indonesia, sull’Islam in Indonesia e Marocco, sulla struttura politica di Bali, sulle strutture familiari a Bali e in una città del Medio Atlante, e così via. Ricerche che per certi versi, soprattutto per la capacità di interpretare le trasformazioni sociali successive alla decolonizzazione ricorrendo a raffinati modelli teorici, potrebbero essere lette parallelamente ai lavori di A.O. Hirschmann (suo collega all’Institute for Advanced Study di Princeton) sullo sviluppo economico e politico in America Latina. In altri termini, lo stile interpretativo di Geertz, così come è esposto in questo libro e nel successivo Antropologia interpretativa, non è un programma scientifico di principio, ma il risultato e la conseguenza di un lavoro empirico di grande respiro. Quando Geertz, per esempio, propone il suo metodo della thick description, cioè di un’analisi a zigzag tra l’osservazione dei particolari della vita sociale o delle minuzie degli usi linguistici («come i giavanesi classificano i sentimenti» o come «i marocchini si rivolgono ai conoscenti») e i grandi quadri concettuali, politici e morali, il lettore dovrebbe avere presente lo straordinario saggio sull’organizzazione sociale di un suq in Marocco: un saggio in cui Geertz, a partire dalle transazioni economiche e linguistiche di un mercato del Medio Atlante, ricostruisce il funzionamento della comunicazione sociale e politica di un’intera regione4. Analogamente, le sue riflessioni sull’espressione organizzata della vita sociale dovrebbero 11
essere integrate dall’analisi della teatralità politica a Bali5. Nel caso di Geertz, l’«interpretazione» non viene contrapposta teoricamente ad altri metodi o modelli, ma è una sorta di necessità che sgorga dall’analisi di sistemi sodali e culturali concreti. Ma come concepisce Geertz quell’«interpretazione» (in antropologia e in generale nelle scienze sociali) che è al cuore del libro qui presentato? Per rispondere sarà sufficiente riprendere, oltre al primo capitolo di questo libro (Verso una teoria interpretativa della cultura), il famoso saggio sul combattimento dei galli a Bali6. Una situazione sociale del tutto circoscritta – il mondo delle scommesse che ruota intorno a uno «sport» semilegale, in un villaggio di Bali – viene sondata per far emergere il complicato sistema delle gerarchie sociali e politiche della società balinese. Benché apparentemente motivato dal guadagno monetario, il gioco è l’occasione in cui i balinesi (a seconda del posto materiale e simbolico che occupano nella società) immettono un significato profondo nella loro esistenza, un significato legato soprattutto allo status di maschi – cui si allude, nel titolo originale del saggio con la parola cockfight. Tuttavia, il saggio (divenuto un riferimento obbligato in qualsiasi analisi della dimensione ludica della vita sociale), ci interessa soprattutto perché è un esempio di ciò che si potrebbe chiamare meta-analisi nelle scienze sociali. Non solo Geertz ci avverte, nelle battute conclusive, che compito dell’antropologo è interpretare l’interpretazione che una società – costruisce di se stessa, ma interpreta questa interpretazione dell’interpretazione» come ciò che le scienze sociali fanno abitualmente (anche se non ne sono troppo consapevoli). La mise en abîme operata da Geertz non è 12
ovviamente una novità assoluta: l’opera più importante di Erving Goffman, Frame Analysis7, di cui si attende ancora la traduzione italiana, costituisce in sociologia un parallelo dell’interesse di Geertz per gli strati interpretativi in cui sono organizzate sia le realtà sociali sia le attività interpretative. È indubbio che nell’inclinazione di Geertz per le prospettive «abissali» si manifesti un certo compiacimento ermeneutico – l’interpretazione thick, complessa e virtualmente interminabile, contrapposta a quella thin, o falsamente semplice, del paradigma positivistico nelle scienze sociali –, insieme però a un’autentica consapevolezza letteraria. Un lettore di Valéry, di Benn, di Auden o di Char sa come la letteratura, da più di un secolo, si concepisca come meta-letteratura, ovvero in chiave anti-naturalistica. In un certo senso, Geertz opera la stessa conversione in campo antropologico: se, in definitiva, anche l’antropologia è un’arte o una forma di letteratura, è il caso di abbandonare il modello Zola per i modelli più complessi e sperimentali della letteratura del Novecento. Questa mossa teorica, che Geertz spingerà fino a interpretare come equivalenti «testi» e «biografia», come nella ricostruzione critica dell’opera dei classici dell’antropologia novecentesca (in Opere e vite)8, è alla base di una vera e propria tendenza antropologicoletteraria, diffusa soprattutto negli Stati Uniti, a partire dai primi anni Ottanta (penso, tra gli altri a J. Clifford, V. Crapanzano, G. Marcus, R. Rosaldo, ecc.). Una scuola o corrente antropologica, tra l’altro, che è stata la prima a fare i conti con le innovazioni di Geertz, mettendone in luce le debolezze e anche una certa artificialità. Come ha scritto V. Crapanzano, analizzando il saggio sul combattimento dei 13
galli, la «soggettività» dei balinesi è proprio l’elemento assente di un testo costruito sull’idea di cultura come esperienza soggettiva. Non sarebbero i nativi e la loro cultura l’oggetto dell’analisi di Geertz, ma proprio la soggettività dell’antropologo. In questo caso, sempre secondo i critici, Geertz, più che produrre un account creativo e letterariamente suggestivo di un frammento di cultura, avrebbe soprattutto messo in scena, grazie al suo virtuosismo, la propria soggettività di antropologo bianco10. C’è qualcosa di vero in questo rilievo, in cui si esprime la critica o autocritica «dialogica» molto diffusa nell’antropologia di lingua inglese. Tuttavia, si deve notare non solo che il saggio sul combattimento dei galli è un esempio (se si vuole, sperimentale) di un lavoro di ricerca assai ampio e plurale, in cui la soggettività dell’antropologo si ritrae spesso di fronte alla resa obiettiva delle poste in gioco nella decolonizzazione. Soprattutto, c’è da dubitare che il lavoro di critica politica e letteraria dell’antropologia (cui si richiamano a diverso titolo Marcus, Clifford o Crapanzano) sarebbe stato possibile senza la decostruzione dell’idea di cultura operata da Geertz. Il rifiuto di un’idea sostanzialistica di cultura, molto evidente già nel libro qui presentato, è la condizione per un mutamento di prospettive in cui, semplificando, l’antropologia «bianca» diventa discorso tra i discorsi, certamente consapevole del proprio retaggio e delle proprie storiche ambiguità, ma pronta a confrontarsi con il punto di vista degli altri11. Come ha scritto lo stesso Geertz: Vedere noi stessi come ci vedono gli altri può essere rivelatore. Vedere che gli altri condividono con noi la medesima natura è il minimo della decenza. Ma è dalla conquista assai più difficile di vedere noi stessi tra gli altri, come un esempio locale delle forme che la vita umana ha assunto localmente, un
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caso tra i casi, un mondo tra i mondi, che deriva quella apertura mentale senza la quale l’oggettività è autoincensamento e la tolleranza mistificazione12.
In altri termini, un’«antropologia dialogica» – che cerca di annullare il presupposto indirettamente gerarchico secondo cui «noi» studiamo «loro» perché noi, diversamente da loro, siamo emancipati dalle «stranezze» della cultura – trova proprio una fondazione teorica nel «pluralismo» e nell’anti-anti-relativismo di Geertz13. Contrariamente a quanto affermato da critici talvolta prevenuti, Geertz non ha mai difeso un relativismo radicale nelle scienze sociali, quanto piuttosto una concezione aperta, secondo cui le culture si confrontano, almeno in linea di principio, su un piano di sostanziale parità. La decostruzione dell’idea di cultura (concepita, al modo di Weber, come una rete di simboli che gli uomini creano e in cui possono restare impigliati) si applica sia alla nostra cultura sia alle altre. Se non interpretiamo male il punto di vista di Geertz, la cultura è un costrutto fondamentalmente riflessivo e quindi non «dato», ma soggetto al confronto o conflitto di interpretazioni oltre che, naturalmente, alle modificazioni storiche e sociali. Se così non fosse, si ricadrebbe nella retorica delle culture primitive «fredde», statiche e invarianti, osservabili (come pensava Lévi-Strauss) solo da una prospettiva astronomica. L’importanza di questo problema trascende oggi lo statuto dell’antropologia e i suoi problemi metodologici. Nei venticinque anni trascorsi dalla pubblicazione di Interpretazione di culture, si è affermata, di qua e di là dall’Atlantico, una tendenza a «naturalizzare» l’idea di cultura. L’infinita pluralità delle culture umane in termini di 15
stili di vita, credenze e fedi religiose tende ad essere declinata come una «diversità» irredimibile. La fortuna planetaria di ideologi del «conflitto culturale» come S.P. Huntington esprime una vera e propria etnicizzazione delle forme culturali14. Lo stesso «multiculturalismo» – termine che apparentemente suggerisce una prospettiva opposta, dialogica e tollerante – presuppone che gli esseri umani, o gli animali culturali, siano cuciti alla «loro» cultura, e che quindi possano rapportarsi alle altre solo in termini di confronto o di scontro. Nell’uso popolare del termine globalizzazione c’è l’idea che l’espansione planetaria delle comunicazioni di massa e dei consumi determini un conflitto potenzialmente esplosivo tra l’omogeneizzazione della cultura materiale e la resistenza più o meno irrazionale delle culture locali. Da qui l’ossessione per i fondamentalismi, per lo «scontro delle civiltà» e così via. Questa immagine caricaturale della cultura – diffusa soprattutto nei media ma non sconosciuta nelle scienze sociali – rappresenta un’indubbia regressione rispetto al punto di vista elaborato da Geertz e ripreso nel dibattito antropologico cui ho accennato sopra. Cristallizzando le forme di vita culturali in «etnie» o «civiltà» atemporali (solitamente le «altre», e in particolare, oggi, quelle islamiche) si ripropone la superiorità del modello «bianco» (che sarebbe l’unico capace di cambiamento) e quindi il suo diritto, più o meno implicito, a intervenire sulle altre culture per eliminarne gli aspetti più arcaici, ecc. L’assunzione della «diversità» assoluta si traduce facilmente oggi nella legittimazione dell’imperialismo culturale occidentale, che l’antropologia culturale ha criticato vigorosamente negli ultimi trent’anni. Riproporre oggi Interpretazione di culture 16
significa perciò, tra gli altri motivi di interesse teorico e metodologico, tenere in vita una prospettiva più aperta e non fondamentalistica nella rappresentazione delle culture non occidentali.
Alessandro Dal Lago
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Clifford Geertz
Interpretazione di culture
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Parte prima
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1. Verso una teoria interpretativa della cultura
I Nel suo libro Filosofia in una nuova chiave1, Susan Langer osserva che certe idee esplodono con forza dirompente sulla scena intellettuale: risolvono in un sol colpo talmente tanti problemi fondamentali che sembrano essere in grado di risolverli tutti, di chiarire tutte le questioni oscure. Tutti se ne appropriano come se fossero una sorta di «apriti Sesamo» di qualche nuova scienza positiva, il nucleo concettuale intorno al quale si può costruire un sistema di analisi onnicomprensivo. La moda improvvisa di una grande idée, che per un po’ spazza via quasi tutte le altre, è dovuta, secondo lei, «al fatto che tutte le menti sensibili e attive si mettono subito a sfruttarla. La mettiamo alla prova per ogni connessione, per ogni scopo, la sperimentiamo nelle possibili estensioni del suo significato specifico, con generalizzazioni e derivazioni». Tuttavia, dopo che ci siamo familiarizzati con la nuova idea, dopo che è divenuta parte del nostro patrimonio generale di concetti teorici, le nostre aspettative tornano in equilibrio con i suoi usi effettivi e si pone termine alla sua eccessiva popolarità. Qualche entusiasta insiste nel considerarla la chiave dell’universo, ma i pensatori più cauti dopo un poco ritornano sui problemi che l’idea ha in realtà 20
generato. Cercano di applicarla e di estenderla dove è applicabile e dove è suscettibile di estensione, ma vi rinunciano dove ciò non è possibile. Essa diventa davvero, se lo era già all’inizio, un’idea seminale, un elemento permanente e duraturo del nostro patrimonio intellettuale, ma non ha più il grandioso e promettente raggio d’azione, l’apparentemente infinita versatilità di applicazione che aveva prima. La seconda legge della termodinamica, il principio della selezione naturale, la nozione della motivazione inconscia e l’organizzazione dei mezzi di produzione non spiegano tutto, e neppure tutto ciò che è umano, ma spiegano tuttavia qualcosa: e la nostra attenzione si volge a isolare proprio che cosa sia quel qualcosa, per liberarci da tutta quella pseudoscienza a cui, nel primo rigoglio della sua celebrità, essa ha dato origine. Non so se questo sia il modo in cui si sviluppano realmente i concetti scientifici veramente importanti e decisivi, ma certamente questo modello ben si adatta al concetto di cultura attorno al quale è sorta l’intera disciplina dell’antropologia, e il cui dominio questa disciplina si è sempre più interessata di delimitare, specificare, mettere a fuoco e contenere. I saggi che seguono sono tutti dedicati, in modi diversi e da differenti punti di vista, a questa delimitazione del concetto di cultura, allo scopo di continuare e preservarne l’importanza invece di indebolirla. Tutti i saggi sostengono, a volte esplicitamente, più spesso semplicemente attraverso il particolare tipo di analisi che sviluppano, un concetto di cultura circoscritto, specializzato e, a mio parere, teoricamente più efficace, il quale sostituisca il noto «insieme complesso» di E.B. Taylor che, senza con
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ciò negarne il potere generativo, mi sembra abbia raggiunto il punto in cui rende oscuro molto più di quanto riveli. Le secche concettuali a cui può condurre il modo confuso in cui Taylor teorizzava la cultura sono evidenti in quella che è ancora una delle migliori introduzioni generali all’antropologia, lo Specchiati, uomo! di Clyde Kluckhohn. Nelle circa ventisette pagine del suo capitolo dedicato a questo concetto, Kluckhohn è riuscito a definire la cultura di volta in volta come a) «il complessivo modo di vivere di un popolo»; b) «l’eredità sociale che un individuo acquisisce dal suo gruppo»; c) «un modo di pensare, sentire e credere»; d) «un’astrazione derivata dal comportamento»; e) «una teoria formulata dall’antropologo sul modo in cui effettivamente si comporta un gruppo di persone»; f) «un deposito del sapere posseduto collettivamente»; g) «una serie di orientamenti standardizzati rispetto a problemi ricorrenti»; h) «un comportamento appreso»; i) «un meccanismo per la regolazione normativa del comportamento»; l) «una serie di tecniche per adeguarsi sia all’ambiente sia agli altri uomini»; m) «un precipitato di storia»; e ricorrendo infine, forse per disperazione, alle similitudini, ha definito la cultura una mappa, un filtro, una matrice. Di fronte a questo tipo di frantumazione teoretica, anche un concetto di cultura piuttosto circoscritto e non del tutto canonico – che sia almeno internamente coerente e che, cosa più importante, abbia «qualcosa da dire» – è un vantaggio (come Kluckhohn stesso, per essere sinceri, intuì con acume). L’eclettismo è disastroso non perché ci sia una sola direzione in cui è opportuno muoversi, ma perché ce ne sono così tante, ed è necessario scegliere.
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Il concetto di cultura che esporrò e di cui i saggi seguenti cercheranno di dimostrare l’utilità, è essenzialmente un concetto semiotico. Ritenendo, con Max Weber, che l’uomo sia un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, affermo che la cultura consiste in queste reti e che perciò la loro analisi è non una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato. È una spiegazione quella che sto cercando quando analizzo delle espressioni sociali che appaiono enigmatiche. Tuttavia questa affermazione, che esprime una dottrina in una sola frase, esige essa stessa qualche spiegazione.
II L’operazionalismo come dogma metodologico non ha mai avuto molto senso rispetto alle scienze sociali e, tranne che per alcuni settori fin troppo sfruttati – il comportamentismo di Skinner, i test sull’intelligenza e così via – è adesso completamente defunto. Ciò nonostante ha espresso un principio importante, che conserva una certa forza, indipendentemente dalle nostre idee sul tentativo di definire il carisma o l’alienazione in termini di operazioni. Se volete capire che cosa sia una scienza, non dovete considerare anzitutto le sue teorie e le sue scoperte (e comunque non quello che ne dicono i suoi apologeti): dovete guardare che cosa fanno quelli che la praticano, gli specialisti. Nell’antropologia, o per lo meno nell’antropologia sociale, ciò che gli specialisti fanno è etnografia. È solo comprendendo che cosa sia l’etnografia, o più precisamente 23
che cosa significhi fare etnografia, che si può cominciare ad afferrare in che cosa consista l’analisi antropologica come forma di conoscenza. Occorre dire subito che non si tratta di una questione di metodo. Dal punto di vista dei manuali, fare etnografia significa intrattenere rapporti, scegliere degli informatori, trascrivere testi, ricostruire genealogie, tracciare mappe di «campi», tenere un diario e così via. Ma non sono queste cose, queste tecniche e procedure convenute, che definiscono l’impresa. Ciò che la definisce è l’attività intellettuale in cui consiste: un complesso avventurarsi, per usare il termine di Gilbert Ryle, in una «thick description»2. Le considerazioni di Ryle sulla thick description sono contenute nei suoi due saggi (ristampati nel secondo volume dei suoi Collected Papers) che vertono sulla questione generale di quello che, come dice lui, fa «Le Penseur»: Thinking and Reflecting e The Thinking of Toughts. Considerate, dice, due ragazzi che contraggono rapidamente la palpebra dell’occhio destro. Nel primo caso, questo è un tic involontario; nell’altro, un segnale di intesa ad un amico. I due movimenti sono come tali identici: un’osservazione di tipo meramente «fotografico», «fenomenico», non è sufficiente per distinguere un tic da un ammiccamento, e neanche per valutare se entrambi o uno dei due siano tic o ammiccamenti. Tuttavia la differenza tra un tic ed un ammiccamento, per quanto non fotografabile, è grande, come sa chiunque sia abbastanza sfortunato da aver scambiato l’uno per l’altro. Chi ammicca sta comunicando, e in un modo molto preciso e particolare: a) intenzionalmente, b) con qualcuno in particolare, c) per trasmettere un particolare messaggio, d) secondo un codice socialmente stabilito e e) senza che il resto dei presenti lo 24
sappia. Come fa notare Ryle, non è che chi ammicca ha fatto due cose, contratto le palpebre e ammiccato, mentre chi ha un tic ne ha fatto solo una, ha contratto le palpebre. Contrarre le palpebre apposta quando esiste un codice pubblico per cui farlo equivale ad un segnale d’intesa, è ammiccare. Vi è qui tutto questo: un briciolo di comportamento, un granello di cultura e – voilà – un gesto. Questo tuttavia è solo il principio. Supponete, continua, che ci sia un terzo ragazzo che «per divertire maliziosamente i suoi amici» faccia la parodia della strizzata d’occhio del primo ragazzo perché dilettantesca, goffa, banale e così via. Naturalmente lo fa nell’identico modo in cui il secondo ragazzo ha ammiccato e il primo ha avuto un tic involontario, contraendo cioè la palpebra destra: soltanto che questo ragazzo non sta né ammiccando né strizzando l’occhio involontariamente; sta parodiando il tentativo di qualcun altro, ridicolo a parer suo, di ammiccare. Anche qui esiste un codice stabilito socialmente («ammiccherà» in modo laborioso, fin troppo apertamente, forse aggiungendo una smorfia: i tradizionali artifici del clown) ed esiste anche un messaggio. Solo che in questo caso non si tratta di intesa, ma di ridicolo. Se gli altri credono che stia effettivamente ammiccando, tutto il suo progetto fallisce completamente, benché con risultati un po’ diversi, come se pensassero che abbia uno spasmo involontario. Si può andare oltre: incerto sulle sue abilità mimiche, l’aspirante comico può far pratica a casa davanti allo specchio, nel qual caso non ha un tic, non ammicca, non prende in giro, ma fa le prove; benché, per quello che registrerebbe una macchina fotografica, un comportamentista radicale o uno che crede nelle proposizioni protocollari3, stia solo contraendo rapidamente 25
la palpebra destra come tutti gli altri. Dal punto di vista logico, se non pratico, sono possibili complicazioni senza fine. Ad esempio, l’ammiccatore originario in realtà avrebbe potuto essere un falso ammiccatore, per indurre magari gli estranei ad immaginare che vi fosse un’intesa segreta dove di fatto non c’era, nel qual caso la nostra descrizione di ciò che il comico sta parodiando e l’attore provando si modifica di conseguenza. Ma l’importante è che tra quella che Ryle chiama thin description di ciò che il personaggio (parodista, ammiccatore, ragazzo con il tic…) sta facendo («contrarre rapidamente la palpebra destra») e la thick description («sta facendo la parodia di un amico che finge un ammiccamento per ingannare un ingenuo e fargli credere che sia in atto un complotto») risiede l’oggetto dell’etnografia: una gerarchia stratificata di strutture significative nei cui termini sono prodotti, percepiti e interpretati tic, ammiccamenti, falsi ammiccamenti, parodie, prove di parodie, e senza le quali di fatto questi non esisterebbero (neppure tic nudi e crudi che come categoria culturale sono in tanto non-ammiccamenti in quanto gli ammiccamenti sono non-tic). Come tante storielle che i filosofi di Oxford amano inventarsi, tutti questi ammiccamenti, falsi ammiccamenti, falsi ammiccamenti parodistici, prove di falsi ammiccamenti parodistici, possono sembrare un po’ artificiosi. Per aggiungere un’annotazione più empirica, mi sia consentito riportare, volutamente senza nessuna introduzione esplicativa, un tipico brano estratto dal mio diario sul campo per dimostrare che l’esempio di Ryle, benché schematizzato per scopi didattici, presenta un’immagine fin troppo esatta del genere di strutture sovrapposte di 26
inferenze ed implicazioni attraverso cui un etnografo cerca continuamente di aprirsi la strada. I francesi [disse l’informatore] erano appena arrivati. Costruirono una ventina di fortini sparsi tra qui, la città e la zona di Marmusha, su in mezzo alle montagne, ponendoli su alture in modo da poter sorvegliare il paese. Ma nonostante tutto non potevano garantire la sicurezza, specialmente di notte, e quindi, benché il sistema del mezrag, il patto sul commercio, fosse considerato legalmente abolito, di fatto esso continuava come prima. Una notte, quando Cohen (il quale parlava correntemente il berbero) era lassù a Marmusha, altri due ebrei che commerciavano con una tribù vicina vennero a comperare delle merci da lui. Alcuni berberi provenienti da una terza tribù vicina tentarono diirrompere in casa di Cohen, ma lui scaricò in aria il suo fucile. (Tradizionalmente, agli ebrei non era permesso di portare armi, ma in questo periodo c’era una tale confusione che molti lo facevano lo stesso.) Questo attirò l’attenzione dei francesi e i predoni fuggirono. Tuttavia tornarono la notte dopo; uno di loro, travestito da donna, bussò alla porta con una scusa. Cohen aveva dei sospetti e non voleva lasciarla entrare, ma gli altri ebrei dissero: «Va tutto bene, è soltanto una donna». Così aprirono la porta e tutta la banda fece irruzione. I due ebrei in visita furono uccisi, ma Cohen riuscì a barricarsi in una stanza adiacente. Sentì che i predoni stavano progettando di linciarlo vivo nella bottega dopo aver rubato le sue merci e aprì la porta: roteando selvaggiamente un bastone attorno a sé, riuscì a fuggire dalla finestra. Si recò poi al forte per farsi medicare le ferite e si lamentò col comandante locale, un certo capitano Dumari, dicendo che voleva il suo ‘ar – cioè quattro o cinque volte il valore della mercanzia che gli era stata rubata. I predoni venivano da una tribù che non si era ancora sottomessa all’autorità francese ed era ancora in aperta ribellione, ed egli voleva l’autorizzazione ad andare col detentore del suo mezrag, lo sceicco tribale di Marmusha, a raccogliere l’indennizzo che gli spettava secondo le regole tradizionali. Il capitano Dumari non poteva dargli ufficialmente il permesso di farlo a causa del divieto francese del mezrag, ma gli diede l’autorizzazione verbale, dicendogli: «Se ti fai ammazzare è affar tuo». Così lo sceicco, l’ebreo e una piccola compagnia di Marmushani armati si spinsero per dieci o quindici chilometri nella zona dei ribelli, dove naturalmente non c’era nessun francese, catturarono in un agguato il pastore della tribù di predoni e rubarono le sue greggi. I membri della tribù cominciarono ben presto a inseguirli a cavallo, armati di fucili e pronti ad attaccarli, ma quando videro chi erano i «ladri di pecore» ci ripensarono e dissero: «Va bene, parliamo». In effetti non potevano negare quanto era
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accaduto – che alcuni dei loro uomini avevano derubato Cohen e ucciso i suoi due ospiti – e non erano intenzionati ad iniziare coi Marmushani quella pericolosa faida che una scaramuccia col gruppo di invasori avrebbe causato. Così i due gruppi parlarono a lungo, là sulla pianura in mezzo alle migliaia di pecore, e decisero finalmente di liquidare i danni con 500 pecore. I due gruppi armati di berberi quindi si allinearono coi loro cavalli alle estremità opposte della pianura con le pecore ammassate tra di loro e Cohen con il suo abito nero, lo zucchetto e le pantofole si avviò da solo in mezzo alle pecore scegliendo le migliori per il suo pagamento, una alla volta ed a gran velocità. Così Cohen prese le sue pecore e le portò a Marmusha. I francesi nel loro fortino li udirono arrivare da una certa distanza («ba-ba-ba» diceva allegramente Cohen, rievocando la scena) e dissero «Che cosa diavolo succede?» e Cohen disse «Questo è il mio ‘ar». I francesi non riuscirono a credere che avesse fatto realmente ciò che aveva fatto e lo accusarono di essere una spia di berberi ribelli, lo misero in prigione e gli presero le pecore. In città la sua famiglia, non avendo sue notizie da tanto tempo, credeva che fosse morto. Ma dopo breve tempo i francesi lo rilasciarono ed egli tornò a casa, ma senza pecore. Allora andò in città a lamentarsi dal colonnello, il francese che comandava tutta la regione. Ma il colonnello disse: «Non posso fare niente per questa faccenda. Non è affar mio».
Citato così alla buona, questo brano ci fa comprendere abbastanza bene, come farebbe qualsiasi altro brano del genere presentato allo stesso modo, quanti fattori entrino in una descrizione etnografica anche del tipo più semplice, quanto sia straordinariamente thick. Nella stesura finale degli scritti antropologici, compreso quello raccolto qui, questo fatto – che ciò che chiamiamo i nostri dati sono in realtà le nostre ricostruzioni delle ricostruzioni di altri su ciò che fanno loro e i loro compatrioti – rimane nell’ombra perché tutto quello che ci occorre per comprendere un particolare evento, un rituale, un’usanza, un’idea o qualunque altra cosa, viene inserito come informazione di sfondo prima che la cosa stessa sia esaminata. (Perfino il rivelare che questo piccolo dramma ebbe luogo sugli altipiani del Marocco centrale nel 1912 – e qui venne raccontato ancora nel 1968 – significa determinare gran 28
parte della nostra comprensione di esso.) Non c’è niente di male in tutto ciò, e in ogni caso è inevitabile, ma questo ci porta a concepire la ricerca antropologica come un’attività più basata sull’osservazione, e meno sull’interpretazione di quanto non sia in realtà. E invece, già al momento dell’esposizione dei fatti veri e propri – il nocciolo duro, se pure ve ne è uno, dell’intera storia – noi stiamo già dando spiegazioni: e, quel che è peggio, spiegazioni di spiegazioni. Ammiccamenti ad ammiccamenti ad ammiccamenti… Pertanto l’analisi consiste nella scelta delle strutture di significazione – ciò che Ryle chiama codici convenuti, un’espressione un po’ fuorviante perché fa pensare che si tratti dell’impresa di un telegrafista quando è molto più simile a quella di un critico letterario – e nella identificazione della loro base sociale e della loro importanza. Qui, nel nostro testo, una simile scelta comincerebbe distinguendo le tre diverse linee di interpretazione (ebrea, berbera e francese) che rientrano nella situazione, e quindi procederebbe a dimostrare come (e perché), a quell’epoca e in quel luogo, la loro presenza contemporanea abbia prodotto una situazione in cui la sistematica incomprensione ha ridotto le forme della tradizione a una farsa sociale. A fare inciampare Cohen e con lui tutta l’antica struttura di rapporti sociali ed economici entro i quali egli operava, fu una confusione di linguaggi. Tornerò più tardi su questo aforisma sin troppo sintetico, come pure sui particolari del testo stesso. Per ora la cosa importante è solo rilevare che l’etnografia è thick description. Tranne che quando segue (come naturalmente deve fare) le pratiche più automatizzate della raccolta di dati, l’etnografo 29
si trova di fronte a una molteplicità di strutture concettuali complesse, molte delle quali sovrapposte o intrecciate fra di loro, che sono al tempo stesso strane, irregolari e nonesplicite, che egli deve in qualche modo riuscire prima a cogliere e poi a rendere. E questo è vero ai livelli più bassi della sua attività di lavoro sul campo: intervistare gli informatori, osservare i rituali, definire i termini usati per la parentela, tracciare i confini delle proprietà, censire le famiglie… e scrivere il diario. Fare etnografia è come cercare di leggere (nel senso di «costruire una lettura di») un manoscritto – straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti tendenziosi, ma scritto non in convenzionali caratteri alfabetici, bensì con fugaci esempi di comportamento strutturato.
III La cultura, questo sorta di documento agìto, è quindi pubblica come la parodia di un ammiccamento o una finta incursione contro delle pecore. Benché comprenda il mondo delle idee (ideational) non esiste nella testa di nessuno; benché non sia fisica, non è un’entità occulta. L’interminabile (perché non terminabile) dibattito all’interno dell’antropologia se la cultura sia «soggettiva» o «oggettiva», insieme con lo scambio reciproco di insulti intellettuali («idealista!», «materialista!», «mentalista!», «comportamentista!», «impressionista ! », «positivista!») che lo accompagna, è tutto basato su un malinteso. Una volta che il comportamento umano sia visto (la maggior 30
parte delle volte, perché i tic veri comunque esistono) come azione simbolica – azione che come la fonazione nel discorso, il pigmento nella pittura, la riga nello scritto o il suono nella musica ha un significato – la questione se la cultura sia comportamento strutturato o forma mentale, o anche le due cose in qualche modo mescolate, non ha più senso. Quello che ci si deve chiedere sulla parodia di un ammiccamento o su un’incursione semiseria per rubare delle pecore non è quale sia il loro status ontologico. È lo stesso di quello delle rocce da una parte e dei sogni dall’altra: si tratta di cose di questo mondo. La cosa da chiedersi è quale sia il loro significato: cosa quindi – ridicolo o sfida, ironia o rabbia, snobismo od orgoglio – viene detto quando avvengono e mediante la loro azione. Questa può apparire una verità ovvia, ma ci sono molti modi per renderla oscura. Uno è immaginare che la cultura sia una realtà autonoma «superorganica» dotata di forze e scopi suoi propri: vale a dire reificarla. Un altro modo è di pretendere che consista nel grezzo schema degli eventi comportamentali che osserviamo accadere di fatto in una qualche comunità identificabile: vale a dire ridurla. Ma, sebbene queste due distorsioni esistano ancora e indubbiamente ci accompagnino sempre, la fonte principale della confusione teorica nell’antropologia contemporanea è una concezione che si è sviluppata come reazione a queste e che proprio ora è ampiamente diffusa – cioè, per citare Ward Goodenough, forse il suo principale alfiere, l’idea che «la cultura [sia situata] nella mente e nel cuore degli uomini». Chiamata di volta in volta etnoscienza, analisi componenziale o antropologia cognitiva (un ondeggiare 31
terminologico che riflette una incertezza più profonda), questa scuola di pensiero ritiene che la cultura sia composta di strutture psicologiche per mezzo di cui gli individui o i gruppi di individili guidano il loro comportamento. «La cultura di una società – per citare ancora Goodenough, questa volta in un passo che è divenuto il locus classicus dell’intero movimento – consiste in tutto ciò che si deve sapere o credere per operare in maniera accettabile ai suoi membri». Da questo modo di vedere la cultura deriva una concezione, altrettanto sicura di sé, di cosa significhi descriverla – la compilazione di regole sistematiche, un algoritmo etnografico che, se seguito, renderebbe possibile agire in modo da passare per un indigeno (a parte l’aspetto fisico). In tal modo un estremo soggettivismo si sposa con un estremo formalismo, col risultato previsto: un’esplosione di dibattiti sul problema se particolari analisi (che si esprimono sotto forma di tassonomie, paradigmi, tabelle, diagrammi ad albero e altri higegnosi espedienti) riflettono ciò che «realmente» pensano gli indigeni, oppure sono semplicemente abili simulazioni, equivalenti dal punto di vista logico ma diverse nella sostanza, di ciò che essi pensano. Dato che, a prima vista, questo metodo può sembrare abbastanza simile a quello qui elaborato, al punto da essere scambiato con esso, è utile chiarire ciò che li distingue. Se, lasciando da parte per il momento i nostri ammiccamenti e le nostre pecore, prendiamo – per esempio – un quartetto di Beethoven come un campione di cultura (un esempio piuttosto speciale, lo ammetto, ma che illustra molto bene i nostri scopi), nessuno, penso, lo identificherebbe con il suo spartito, con le abilità e la conoscenza necessarie per 32
suonarlo, con la sua comprensione da parte dell’esecutore o dell’ascoltatore, né (pensando en passant ai riduzionisti e ai reificatoti) con una sua esecuzione particolare o con qualche misteriosa entità che trascenda l’esistenza materiale. Il «nessuno» è forse troppo forte: ci sono sempre persone incorreggibili; ma che un quartetto di Beethoven sia una struttura tonale temporalmente sviluppata, una sequenza coerente di suono modulato: in una parola, che sia musica e non quello che qualcuno conosce o crede di saper suonare, questa è un’affermazione su cui è probabile che concordi la maggior parte delle persone, dopo aver riflettuto. Per suonare il violino è necessario possedere certe attitudini, abilità, conoscenze, determinati talenti, sentirsi in vena di suonare e (come dice una vecchia storiella) avere un violino. Ma suonare il violino non coincide con le attitudini, le abilità, la conoscenza e così via, né con la vena, né (ciò che invece evidentemente ritengono i credenti nella «cultura materiale») con il violino stesso. Per fare un patto commerciale in Marocco dovete compiere determinate cose in determinati modi (tra cui sgozzare, cantando in arabo coranico, un agnello davanti ai membri maschi adulti non deformi riuniti della vostra tribù) ed essere in possesso di certe caratteristiche psicologiche (tra le altre, il desiderio di cose lontane). Ma un patto commerciale non è né lo sgozzamento né il desiderio, benché questo sia sufficientemente reale come scoprirono sette parenti del nostro sceicco di Marmusha quando, in una precedente occasione, furono giustiziati davanti a lui per aver rubato a Cohen una pelle d’agnello tignosa, del tutto priva di valore. La cultura è pubblica perché lo è il significato. Non potete strizzare l’occhio (o farne una parodia) senza sapere 33
che cosa significa ammiccare o come si fa, fisicamente, a contrarre la palpebra, e non potete rubare un gregge di pecore (o mimare il furto) senza sapere che significa rubare una pecora e come realizzare praticamente la cosa. Ma trarre da tali verità la conclusione che saper ammiccare è ammiccare e saper rubare una pecora è rubare una pecora tradisce una confusione profonda come, scambiando la descrizione thin con quella thick, identificare l’ammiccamento con le contrazioni delle palpebre o il furto di pecore con l’atto di cacciare animali lanosi fuori dai pascoli. L’errore cognitivista – per cui la cultura consiste (per citare un altro portavoce del movimento, Stephen Tyler) in «fenomeni mentali che possono [vuol dire «dovrebbero»] essere analizzati con metodi formali simili a quelli della matematica e della logica» – è altrettanto dannoso per un uso efficace del concetto quanto gli errori dei comportamentisti e degli idealisti, di cui è una correzione distorta. Forse lo è anche di più, visto che i suoi errori sono più complicati e le sue distorsioni più sottili. Dopo il primo Husserl e il secondo Wittgenstein le polemiche generalizzate contro le teorie sulla privatezza del significato costituiscono così tanta parte del pensiero moderno che non occorre proseguirle ulteriormente qui. E necessario invece far sì che l’antropologia ne divenga consapevole, e in particolare che si chiarisca questo: dire che la cultura consiste in strutture di significato socialmente stabilite, nei cui termini le persone fanno cose come lanciarsi dei segnali d’intesa e regolarsi di conseguenza, o percepire insulti e rispondere, non significa affermare che essa sia un fenomeno psicologico, una caratteristica della mente di qualcuno, o della sua personalità, della sua struttura 34
cognitiva o qualunque altra cosa più di quanto non significhi affermare lo stesso del tantrismo, della genetica, della forma progressiva del verbo, della classificazione dei vini, della common lata o della nozione di «maledizione condizionale» (come Westermarck definì il concetto di ‘ar nei cui termini Cohen sollecitò le sue richieste di indennizzo). In un posto come il Marocco, ciò che più impedisce a quelli di noi che sono cresciuti facendo altri ammiccamenti o badando ad altre pecore, di capire che cosa fanno gli uomini, non è ignorare come operano i processi cognitivi (benché sarebbe meglio saperne di più, visto che, si presume, tra di loro agiscono allo stesso modo che tra di noi), quanto la mancanza di familiarità con l’universo immaginativo entro il quale i loro atti diventano segni. Dato che si è evocato Wittgenstein, si può anche citarlo. Noi… diciamo di alcune persone che per noi sono trasparenti. E tuttavia importante ricordare per quanto riguarda questa osservazione che un essere umano può essere per un altro un completo enigma. Ne diventiamo consapevoli quando arriviamo in un paese straniero con tradizioni totalmente estranee e, quel che è peggio, anche se con la padronanza della lingua del paese. Noi non capiamo gli altri. (E non perché non sappiamo cosa si dicono.) Non riusciamo a metterci nei loro panni.
IV La ricerca etnografica, in termini di esperienza personale, consiste nel metterci nei loro panni, un’impresa snervante che non riesce mai perfettamente; tentare di esprimere i motivi per cui ci si immagina, sempre troppo ottimisticamente, di esserci riusciti: in questo consiste la scrittura antropologica come impresa scientifica. Noi, o 35
almeno io, non cerchiamo di diventare indigeni (parola squalificata in ogni caso) o di scimmiottarli: soltanto i romantici o le spie, a quanto sembra, lo troverebbero sensato. Noi cerchiamo di dialogare (nel senso esteso del termine che abbraccia molto più del parlare) con loro, una cosa molto più difficile di quanto non si riconosca comunemente, e non soltanto con gli stranieri: «Se parlare per qualcun altro sembra essere un procedimento misterioso – ha notato Stanley Cavell – questo può essere perché parlare a qualcuno non sembra abbastanza misterioso». In questa prospettiva, lo scopo dell’antropologia è l’ampliamento dell’universo del discorso umano. Naturalmente questo non è il suo unico scopo – altri sono la trasmissione della conoscenza, il divertimento, i consigli pratici, lo sviluppo morale, e la scoperta dell’ordine naturale nel comportamento umano – né l’antropologia è l’unica disciplina che lo persegua. Ma è uno scopo a cui si adatta particolarmente bene il concetto semiotico di cultura. In quanto costituita di sistemi interconnessi di segni interpretabili (ciò che io chiamerei simboli, mettendo da parte gli usi locali), la cultura non è un potere, qualcosa a cui si possano causalmente attribuire eventi sociali, comportamenti, istituzioni o processi; essa è un contesto, qualcosa entro cui tutti questi fatti possono essere descritti in maniera intelligibile – cioè in modo thick. Il famoso coinvolgimento antropologico nell’esotico (per noi) – cavalieri berberi, trafficanti ebrei, legionari francesi – è pertanto essenzialmente un espediente per dislocare quell’ottundente senso di familiarità che ci nasconde il mistero della nostra capacità di relazionarci con gli altri in modo percettivo. Guardare le cose ordinarie nei luoghi dove 36
queste prendono forme inusitate non rivela l’arbitrarietà del ‘comportamento umano, come si è preteso tanto spesso (non c’è nulla di particolarmente arbitrario nello scambiare in Marocco il furto di pecore per insolenza), ma la misura in cui il.suo significato varia secondo il modello di vita da cui è influenzato… Comprendere la cultura di un popolo ne mette in luce la normalità senza ridurne le peculiarità. (Più riesco a seguire le cose che stanno facendo i marocchini, più esse mi appaiono logiche e singolari.) Le rende accessibili: ponendole nella cornice delle loro banalità, ne dissolve l’opacità. È da questa manovra, definita di solito troppo incidentalmente come «vedere le cose dal punto di vista dell’attore», troppo librescamente come «il metodo del verstehen» o troppo tecnicamente come «analisi emica», che deriva così l’idea che l’antropologia sia una varietà di lettura della mente a grande distanza o una fantasticheria sulle isole dei cannibali e che, se si è ansiosi di navigare oltre i relitti di una dozzina di filosofie affondate, deve però essere eseguita con molta cura. Per comprendere che cosa sia l’interpretazione antropologica e fino a che punto sia interpretazione, è necessario comprendere soprattutto che cosa significhi –e che cosa non significhi – dire che le nostre formulazioni dei sistemi di simboli di altri popoli devono essere orientate rispetto agli attori4. Significa che le descrizioni della cultura berbera, ebrea o francese devono essere espresse nei termini delle interpretazioni che, così come noi le immaginiamo, i berberi, gli ebrei o i francesi attribuiscono al mondo in cui vivono, alle formule che usano per definire quanto accade loro. Ciò non significa che tali descrizioni siano esse stesse 37
berbere, ebree o francesi: vale a dire parte della realtà che stanno palesemente descrivendo. Esse sono antropologiche: cioè parte di un sistema in evoluzione di analisi scientifica. Devono essere espresse nei termini delle interpretazioni a cui persone di una particolare categoria sottopongono la loro esperienza, poiché questo è ciò di cui dichiarano di essere le descrizioni; sono antropologiche perché sono, di fatto, gli antropologi ad avanzarle. Normalmente non è necessario definire in modo tanto sofisticato che l’oggetto dello studio è una cosa e lo studio di esso un’altra cosa: è abbastanza chiaro che il mondo fisico non è la fisica e A Skeleton Key to Finnegan’s Wake non è Finnegan’s Wake. Tuttavia, dato che nello studio della cultura l’analisi penetra nell’oggetto stesso – vale a dire, noi cominciamo con le nostre interpretazioni di ciò che fanno i nostri informatori, o quello che pensiamo che facciano, e poi le sistematizziamo – il confine tra la cultura (marocchina) come fatto naturale e la cultura (marocchina) come entità teorica tende a divenire confuso. Tanto più che quest’ultima è presentata sotto forma di descrizione (vista con l’occhio di un attore) delle concezioni (marocchine) di ogni cosa, dalla violenza all’onore, dalla divinità alla giustizia, dalla tribù alla proprietà, dal patronato al ruolo di capo. In breve, gli scritti antropologici sono essi stessi interpretazioni, e per di più di secondo o di terzo ordine. (Per definizione solo un «indigeno» fa quelle di prim’ordine: è la sua cultura)5. Sono quindi invenzioni, invenzioni nel senso che sono «qualcosa di fabbricato», «qualcosa di confezionato» – il significato originario di fictio – non che sono false, irreali o semplicemente ipotesi pensate «come se». Costruire delle descrizioni orientate rispetto agli 38
attori sulle interrelazioni tra uno sceicco berbero, un trafficante ebreo e un soldato francese nel Marocco del 1912 è chiaramente un atto immaginativo, non tanto diverso dall’interpretare, ad esempio, le interrelazioni tra un dottore francese di provincia, la sua sciocca moglie adultera e il suo inetto amante nella Francia dell’Ottocento. In quest’ultimo caso i personaggi sono rappresentati come se non fossero esistiti e gli avvenimenti come se non fossero accaduti, mentre nel primo sono rappresentati come se fossero, o fossero stati, reali. Questa è una differenza di importanza non trascurabile: in effetti, proprio quella che Madame Bovary non riusciva ad afferrare. Ma l’importante non sta nel fatto che la sua storia fu inventata mentre quella di Cohen venne solo annotata. Le condizioni e lo scopo della loro creazione (per non parlare dello stile e della qualità) sono diverse, ma l’una è fictio, «una costruzione», tanto quanto l’altra. Non sempre gli antropologi sono stati consapevoli di questo fatto quanto avrebbero potuto: che, sebbene la cultura esista nella stazione commerciale, nel forte sulla collina o nei pascoli delle pecore, l’antropologia esiste nel libro, nell’articolo, nella conferenza, nella mostra al museo o, talvolta, ai giorni nostri, nel film. Rendersi conto di questo significa comprendere che nell’analisi culturale, così come nella pittura, non si può . tracciare il confine tra i modi di rappresentazione e il contenuto effettivo; e questo fatto a sua volta sembra minacciare lo status oggettivo della conoscenza antropologica, suggerendo che la sua fonte non è la realtà sociale ma un artificio dello studioso. La minaccia esiste, ma non è pericolosa. L’interesse di un resoconto etnografico si basa non sull’abilità del suo autore 39
di cogliere fatti primitivi in luoghi remoti e portarli a casa come una maschera o una scultura, ma sul grado in cui è capace di chiarire ciò che accade in questi luoghi, di ridurre lo sconcerto – che tipi di uomini sono questi? – naturalmente suscitato da atti poco familiari che emergono da sfondi sconosciuti. Certo, questo genera qualche serio problema di verifica: o, se «verifica» è una parola troppo forte per una scienza così poco rigida (io stesso preferirei «valutazione»), qualche problema sul modo di distinguere un resoconto buono da uno meno buono. Ma proprio questa è la sua virtù. Se l’etnografia è descrizione thick e se gli etnografi sono coloro che descrivono, allora il problema determinante per ogni esempio fornito – si tratti di un frammento di un diario sul campo o di una monografia di dimensioni malinowskiane – è se distingue gli ammiccamenti dai tic e gli ammiccamenti veri da quelli parodiati. Non è nei confronti di una massa di dati non interpretati, di descrizioni radicalmente thin che dobbiamo misurare la forza delle nostre spiegazioni, ma rispetto alla capacità dell’immaginazione scientifica di metterci in contatto con le vite delle persone estranee. Non vale la pena, come diceva Thoreau, fare il giro del mondo per contare i gatti di Zanzibar.
V Ora, l’affermazione secondo cui non è nel nostro interesse amputare il comportamento umano proprio delle caratteristiche che ci interessano maggiormente prima di cominciare ad esaminarlo, ha assunto un significato più 40
ampio: e cioè che, dato che sono soltanto quelle caratteristiche ad interessarci, non c’è affatto bisogno di badare al comportamento globale se non superficialmente. Secondo questo ragionamento, la cultura è trattata nel modo più efficace puramente come sistema simbolico (lo slogan è «nei suoi propri termini»), isolandone gli elementi, specificando i rapporti interni fra quegli elementi e quindi caratterizzando l’intero sistema in qualche modo generico – in base ai simboli centrali attorno a cui è organizzata, alle strutture fondamentali di cui è un’espressione superficiale o ai principi ideologici su cui si fonda. Benché sia un notevole miglioramento rispetto alla concezione della cultura come «comportamento appreso» e «fenomeni mentali», e fonte di alcune delle più stimolanti concezioni teoriche dell’antropologia contemporanea, mi pare che questo approccio ermetico corra il rischio (che si è concretizzato sempre più spesso) di separare l’analisi culturale dal suo proprio oggetto, la logica informale della vita reale. Serve a poco disincagliare un concetto dalle secche dello psicologismo solo per farlo subito ripiombare in quelle dello schematismo. Bisogna occuparsi del comportamento, e con una certa precisione, perché è attraverso il flusso del comportamento – o, più esattamente dell’azione sociale – che le forme culturali trovano articolazione. La trovano anche, naturalmente, in vari tipi di manufatti e in vari stati di consapevolezza, ma questi traggono il loro significato dal ruolo che assumono (Wittgenstein direbbe dal loro «uso») in un modello effettivo di vita, non dai rapporti intrinseci che li legano. Il nostro dramma pastorale è stato creato da Cohen, dallo sceicco e dal capitano Dumari con quello che 41
facevano quando hanno intralciato a vicenda i propri scopi – esercitare il commercio, difendere l’onore, istituire un predominio – e questo perciò è l’argomento del dramma. Qualunque cosa e dovunque siano i sistemi simbolici «nei loro propri termini», noi otteniamo un accesso empirico ad essi esaminanÉoli, e non sistemando entità astratte in schemi unificati. Questo implica anche che la coerenza non può essere la maggior prova di validità per una descrizione culturale. I sistemi culturali devono avere un grado minimo di coerenza, o altrimenti non li chiameremmo sistemi e, se li osserviamo di norma ne hanno anche di più, ma non c’è nulla di più coerente delle allucinazioni di un paranoide o della storia di un imbroglione. La forza delle nostre interpretazioni non può basarsi. come spesso accade ora sulla compattezza con cui sono assemblate, o sulla sicurezza con cui sono argomentate. Credo che nulla abbia contribuito a screditare l’analisi culturale più di impeccabili elaborazioni formali, alla cui esistenza nessuno può credere veramente. Se l’interpretazione antropologica consiste nel costruire una lettura di ciò che accade, separarla da ciò che accade – da quello che, in questo momento o in quel luogo, dicono o fanno le specifiche persone, o quello che vien fatto loro, da tutto il gran lavorìo del mondo – significa separarla dalle sue applicazioni e renderla vuota. Una buona interpretazione – di una poesia, una persona, una storia, un rituale, un’istituzione, una società – ci porta nel cuore di quello di cui essa è l’interpretazione. Quando non lo fa e ci conduce invece da qualche altra parte – all’ammirazione della sua eleganza, dell’intelligenza del suo autore, della sua bellezza di ordine euclideo – può avere il suo fascino intrinseco, ma è 42
qualcosa di diverso da ciò che richiede il compito in questione: capire di che cosa tratta tutta quella tiritera sulle pecore. La tiritera sulle pecore – il finto furto, il trasferimento riparatorio, la confisca politica degli animali – è (o era) essenzialmente un discorso sociale, anche se, come ho suggerito prima, condotto in molteplici lingue, sia con le azioni sia con le parole. Reclamando il suo ‘ar, Cohen invocava il patto sul commercio; riconoscendone la pretesa, lo sceicco sfidava la tribù degli assalitori; accettando la responsabilità, quest’ultima ha pagato l’indennizzo; ansioso di chiarire ugualmente agli sceicchi ed ai trafficanti chi comandasse, il francese ha sfoggiato il suo potere. Come in ogni discorso, il codice non determina la condotta, e non occorreva dire quello che è stato detto effettivamente. Cohen avrebbe potuto decidere di non presentare il suo reclamo, dato che era illegale agli occhi dell’autorità francese. Lo sceicco avrebbe potuto respingerlo per ragioni simili. La tribù degli assalitori, che resisteva ancora all autorità francese, avrebbe potuto decidere di considerare l’incursione «vera» e combattere invece di trattare. I francesi, se fossero stati più habiles e meno durs (come divennero poi in effetti, sotto la tutela di tipo feudale del maresciallo Lyautey), avrebbero potuto permettere a Cohen di tenere le sue pecore, strizzando l’occhio –come diciamo noi – alla continuazione del patto commerciale e quindi alla limitazione della loro autorità. E ci sono altre possibilità: i marmushani avrebbero potuto considerare l’azione francese come un insulto troppo grande da tollerare e avrebbero potuto passare anche loro dalla parte dei ribelli; i francesi avrebbero potuto tentare 43
non solo di rifarsi su Cohen ma di piegare maggiormente lo sceicco stesso, e Cohen avrebbe potuto concludere che tra berberi rinnegati e soldati alla Beau Geste non valeva più la pena di trafficare sugli altipiani dell’Atlante, e ritirarsi verso i dintorni della città, meglio governati. In effetti questo è più o meno quanto accadde un po’ di tempo dopo, quando il protettorato stava per diventare una autentica sovranità. Ma non mi interessa descrivere qui che cosa accadde o meno in Marocco (da questo semplice incidente si può arrivare fino alle grandiose complessità dell’esperienza sociale); mi interessa mostrare in che cosa consiste un frammento di interpretazione antropologica: tracciare l’andamento di un discorso sociale, fissarlo in una forma che si possa esaminare. L’etnografo «inscrive» il discorso sociale, lo annota: nel farlo, lo trasforma da avvenimento fugace, che esiste solo nell attimo in cui si verifica, in un resoconto che esiste nei suoi scritti e si può consultare. Lo sceicco è morto da molto tempo, ucciso nel processo di «pacificazione», come lo chiamarono i francesi; il capitano Dumari, il pacificatore, vive in pensione nella Francia meridionale con i suoi ricordi; e Cohen l’anno scorso è andato in Israele, a «casa», in parte da profugo, in parte da pellegrino, in parte da patriarca morente. Ma quello che si «dissero» – in senso esteso come intendo io – sessantanni fa su un altopiano dell’Atlante, è conservato per lo studio, anche se non perfettamente. «Che cosa fissa la scrittura?» chiede Paul Ricoeur, da cui ho preso a prestito, e in qualche modo distorto, tutta l’idea dell’iscrizione dell’azione. Non l’evento del parlare, ma il «detto» del parlare, espressione con cui intendiamo quell’esteriorizzazione 44
intenzionale che costituisce lo scopo del discorso grazie a cui il sugen – il dire – vuol diventare l’aussage – l’enunciazione, l’enunciato. In breve, ciò che noi scriviamo è il noema (il «pensiero», il «contenuto», il «succo») del parlare. È il significato dell’evento discorsivo, non l’evento come tale. Questo non è di per sé tanto un «detto» – se i filosofi di Oxford ricorrono alle storielle, i fenomenologi ricorrono alle frasi lunghe – ma ci porta comunque ad una risposta più precisa alla nostra domanda originaria, «Che cosa fa l’etnografo?»: scrive6. Anche questa può apparire una scoperta non proprio sorprendente, e per qualcuno che conosca bene la «letteratura» corrente, pure poco plausibile. Ma poiché la risposta standard alla nostra domanda è stata «egli osserva, registra, analizza» – una specie di concezione alla veni, vidi, vici –, ha forse conseguenze più vaste di quanto non appaia a tutta prima, non ultima quella che può anche essere normalmente impossibile distinguere queste tre fasi della ricerca cognitiva; ed esse possono di fatto non esistere come «operazioni» autonome. La situazione è anche più delicata perché, come si è già notato, quello che noi iscriviamo (o cerchiamo di iscrivere) non è il discorso sociale bruto a cui non abbiamo accesso diretto, non essendone gli attori se non in modo molto marginale o eccezionalmente, ma soltanto quella piccola parte di esso che i nostri informatori possono portarci a capire7. Questa non è un’affermazione definitiva, come sembra, perché in effetti non tutti i cretesi sono bugiardi e non è necessario sapere tutto per capire qualcosa, ma fa apparire piuttosto zoppicante la concezione dell’analisi antropologica come manipolazione concettuale di fatti 45
scoperti, come ricostruzione logica di una pura e semplice realtà. Estrarre cristalli simmetrici di significato, purificati dalla complessità materiale in cui erano collocati, e poi attribuire la loro esistenza a principi di ordine autogeni, proprietà universali della mente umana, o vaste Weltanschauungen aprioristiche, è simulare una scienza che non esiste e immaginare una realtà che non si può trovare. L’analisi culturale consiste (o dovrebbe consistere) nell’ipotizzare significati, valutare le ipotesi e trarre conclusioni esplicative dalle ipotesi migliori, ma non scoprire il Continente del Significato e tracciarne il paesaggio immateriale su una sorta di carta geografica.
VI Ecco quindi le tre caratteristiche della descrizione etnografica: è interpretativa; quello che interpreta è il flusso del discorso sociale; e l’interpretazione ad essa inerente consiste nel tentativo di preservare il «detto» di questo discorso dalle possibilità che esso svanisca e di fissarlo in termini che ne consentono una lettura. Il kula è scomparso o mutato ». ma, nel bene e nel male, Gli argonauti del Pacifico occidentale restano. Esiste inoltre una quarta caratteristica di questa descrizione, almeno come la pratico io: è microscopica. Questo non vuol dire che non ci siano interpretazioni antropologiche su vasta scala di intere civiltà, società, avvenimenti mondiali e così via: è proprio questa estensione delle nostre analisi a contesti più ampi che, insieme alle loro implicazioni teoriche, le raccomanda all’attenzione generale 46
e giustifica la loro costruzione da parte nostra. Nessuno si cura più di quelle pecore, neppure Cohen (beh… Cohen forse sì). La storia può avere i suoi punti di svolta in sordina, «grandi rumori in una piccola stanza», ma questo piccolo episodio non era sicuramente uno di questi. Ciò significa semplicemente che l’antropologo si avvicina in modo caratteristico a queste più ampie interpretazioni e più astratte analisi procedendo da conoscenze molto estese di faccende estremamente piccole. Egli affronta le stesse grandiose realtà che altri – gli economisti, i politologi, i sociologi – affrontano nei loro contesti più fatidici: il Potere, il Mutamento, la Fede, l’Oppressione, il Lavoro, la Passione, l’Autorità, la Bellezza, la Violenza, l’Amore, il Prestigio: ma li affronta in contesti abbastanza oscuri – luoghi come Marmusha e vite come quella di Cohen – per togliere loro le maiuscole. In contesti così umili queste costanti troppo umane, «quelle parole grosse che ci intimoriscono tutti», assumono una forma dimessa: ma il vantaggio è proprio questo; ci sono già abbastanza cose profonde nel mondo. Tuttavia non si risolve così facilmente, con vaghe allusioni alle virtù della concretezza e del buon senso, il problema del passaggio da una raccolta di miniature etnografiche del genere della nostra storia di pecore – una pluralità di osservazioni e di aneddoti – ai grandiosi affreschi della nazione, dell’epoca, del continente, della civiltà. Per una scienza nata fra le tribù indiane, le isole del Pacifico e i lignaggi africani, e successivamente assorbita da più grandi ambizioni, questo ha finito per essere un grosso problema metodologico, in genere malamente trattato. Infatti i modelli che gli antropologi hanno elaborato per giustificare il loro spostamento da conoscenze locali a visioni generali hanno 47
contribuito a minare il loro sforzo quanto tutto ciò che i loro critici – sociologi ossessionati dalla taglia dei campioni, psicologi ossessionati dalle misurazioni, o economisti dagli aggregati – sono stati capaci di escogitare contro di loro. Di questi i due principali sono stati il modello del «microcosmo» (per cui Jonesville è gli Usa) e il modello dell’«esperimento naturale» (per cui l’isola di Pasqua è un caso probante). O il cielo in un granello di sabbia, o le sponde più remote della possibilità. Il «Jonesville è gli Usa», in caratteri minuscoli (o «gli Usa sono Jonesville», in maiuscolo), è un errore così ovvio che l’unica cosa da spiegare è come abbia fatto la gente a crederci ed aspettarsi che ci credano gli altri. L’idea che si possa trovare l’essenza delle società nazionali, delle civiltà, delle grandi religioni o che altro, riassunta e semplificata nelle cittadine e paesetti cosiddetti «tipici» è un’evidente sciocchezza. Nelle cittadine e nei paesetti si trova, ahimè, la vita della cittadina e del villaggio. Se la rilevanza delle ricerche localizzate, microscopiche, dipendesse realmente da una simile premessa – racchiudere il mondo grande in uno piccolo – esse non ne avrebbero alcuna. Ma naturalmente non è così. Il luogo della ricerca non è l’oggetto della ricerca. Gli antropologi non studiano i villaggi (le tribù, le città, i quartieri…): studiano nei villaggi. Potete studiare cose diverse in luoghi diversi e certe cose – ad esempio, gli effetti del dominio coloniale su determinate strutture delle aspettative morali – potete studiarle meglio in località appartate, ma questo non fa del luogo l’oggetto delle vostre ricerche. Nelle province più remote del Marocco e dell’Indonesia ho lottato con gli stessi problemi affrontati da altri scienziati sociali in località più centrali –per esempio, 48
come mai le più accese pretese di umanità sono espresse nelle forme dell’orgoglio di gruppo? – e all’incirca con le stesse conclusioni. Si può aggiungere una dimensione – molto necessaria nel clima attuale delle scienze sociali «misura-e-risolvi» – ma questo è tutto. Ha un certo valore, se dovete occuparvi dello sfruttamento delle masse, l’aver visto un bracciante giavanese zappare la terra sotto un diluvio tropicale o un sarto marocchino ricamare caffettani alla luce di una lampadina da 20 watt. Ma che questo vi dia il quadro completo (e vi elevi su un terreno di vantaggio morale dal quale potete guardar dall’alto coloro eticamente meno privilegiati) è un’idea che potrebbe accarezzare solo uno che è stato nella macchia per troppo tempo. Il concetto di «laboratorio naturale» è stato ugualmente pernicioso, non solo perché l’analogia è falsa – che genere di laboratorio è se nessuno dei parametri è manipolabile? –ma perché rimanda all’idea che i dati derivati dalle ricerche etnografiche sono più puri, o più fondamentali, o più solidi e meno condizionati (la parola favorita è «elementare») di quelli ricavati da altri tipi di indagine sociale. La grande variazione naturale delle forme culturali è certo non solo la grande (e logorante) risorsa dell’antropologia, ma anche la radice del suo dilemma teorico più profondo: come poter accordare questa variazione con l’unità biologica della specie umana? Ma essa non è, neanche metaforicamente, una variazione sperimentale, perché il contesto in cui si verifica varia con essa, e non è possibile (anche se c’è chi ci prova) isolare gli y dagli x per scrivere una funzione vera e propria. Le famose ricerche che si propongono di dimostrare che il complesso di Edipo era rovesciato tra i Trobriandesi, che i 49
ruoli dei sessi erano invertiti presso i Ciambuli e che gli indiani Pueblo, mancavano di aggressività (è caratteristico che fossero tutti esempi negativi: «ma non nel Sud») non si fondano su ipotesi «scientificamente provate e dimostrate», quale che sia la loro validità empirica. Sono interpretazioni giuste o sbagliate come ogni altra, ottenute come ogni altra, e intimamente inconcludenti come ogni altra, e il tentativo di investirle dell’autorità della sperimentazione fisica è soltanto un gioco di destrezza metodologico. Le scoperte etnologiche non sono privilegiate, sono particolari: notizie da un altro paese. Considerarle come qualcosa di più (o qualcosa di meno) distorce loro e le loro implicazioni, che sono molto più profonde, per la teoria sociale, della semplice elementarità. Notizie da un altro paese: il motivo per cui le descrizioni ripetute di lontani furti di pecore (e un etnografo veramente bravo si sarebbe addentrato nel problema di che razza fossero) hanno una rilevanza generale è che esse offrono al pensiero sociologico materiale sostanzioso a cui attingere. Nelle scoperte dell’antropologo la cosa importante è la loro complessa specificità, il fatto che siano ricche di particolari. È col genere di materiale prodotto con una ricerca sul campo a lungo termine, principalmente (anche se non esclusivamente) qualitativa, molto partecipativa e quasi ossessivamente filtrata, in contesti limitati che ai megaconcetti da cui è afflitta la scienza sociale contemporanea – la legittimità, la modernizzazione, l’integrazione, il conflitto, il carisma, la struttura, … il significato – può attribuirsi quella sorta di realtà sensibile che rende possibile non solo pensare ad essi in modo
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realistico e concreto ma, cosa più importante, pensare con essi in modo creativo e immaginifico. Il problema metodologico generato dalla natura microscopica dell’etnografia è reale e critico, ma non lo si può risolvere considerando una remota località come il mondo in una tazza di tè e come l’equivalente sociologico di una camera oscura: si deve risolverlo – o per lo meno tenerlo decentemente a bada – con da consapevolezza che le azioni sociali sono commenti su qualcosa che le trascende; che l’origine di una interpretazione non determina la sua destinazione. I piccoli fatti parlano ai grandi problemi, gli ammiccamenti all’epistemologia, le razzie di greggi di pecore alla rivoluzione, perché questa è la loro funzione.
VII E questo ci porta infine alla teoria. Il lato debole degli approcci interpretativi a qualunque genere di cosa – la letteratura, i sogni, i sintomi, la cultura – è che essi tendono a resistere, o vien loro permesso di farlo, all’articolazione concettuale e a sfuggire così alle valutazioni di tipo sistematico. Si capisce un ‘interpretazione oppure no, se ne vede l’importanza oppure no, la si accetta oppure no. Imprigionata nell’immediatezza del suo proprio dettaglio, è presentata come autoconvalidantesi o, peggio, convalidata dalla sensibilità presumibilmente sviluppata dalla persona che la presenta: un qualunque tentativo di esprimere ciò che dice in termini diversi dai propri è considerato un travisamento, è considerato etnocentrico, il termine più severo usato dall’antropologo come insulto morale. 51
Questo non va assolutamente bene per un campo di studi che afferma di essere una scienza, anche se timidamente (per quanto io non sia affatto timido a questo proposito). Non esiste nessuna ragione per cui la struttura concettuale di un’interpretazione culturale dovrebbe essere meno definibile, quindi meno suscettibile di essere valutata in base a canoni espliciti, di quella, ad esempio, di un’osservazione biologica o di un esperimento fisico – nessuna ragione se non che i termini in cui si possono esprimere queste definizioni sono, se non del tutto, quasi inesistenti. Siamo ridotti ad insinuare delle teorie perché ci manca la forza di affermarle. Allo stesso tempo si deve ammettere che esistono diverse caratteristiche nell’interpretazione culturale che ne rendono lo sviluppo teorico più difficile del solito. La prima è la necessità che la teoria resti più vicina a terra di quanto tende ad essere nel caso di altre scienze maggiormente in gradoni abbandonarsi all’astrazione immaginativa, Soltanto i voli brevi del raziocinio tendono ad essere efficaci in antropologia: quelli più lunghi tendono a scivolare in sogni logici, sconfinamenti accademici nelle simmetrie formali. Lo scopo di un approccio semiotico alla cultura è, come ho detto, di aiutarci a raggiungere l’accesso al mondo concettuale in cui vivono i nostri soggetti così che possiamo dialogare con loro, in qualche senso esteso del termine. La tensione tra l’impulso a penetrare in un universo sconosciuto di azione simbolica e le esigenze di avanzamento tecnico nella teoria della cultura, tra il bisogno di capire e quello di analizzare, è di conseguenza necessariamente grande ed essenzialmente ineliminabile. In effetti, con il progresso dello sviluppo teorico, questa 52
tensione diventa sempre più grande. Questa è la condizione primaria per una teoria della cultura: non essere padrona di se stessa. Essendo inseparabile dalle immediatezze presentate dalla thick description, la sua libertà di modellarsi nei termini della sua logica interna è piuttosto limitata. Ciò che generalmente riesce a raggiungere nasce dalla finezza delle sue distinzioni, non dalla potenza delle sue astrazioni. E da questo deriva il modo particolare in cui, come semplice questione di fatto empirico, la nostra conoscenza della cultura… delle culture… di una cultura si sviluppa: essa cresce a sprazzi. Invece di seguire una curva ascendente di scoperte cumulative, l’analisi culturale si frammenta in una sequenza sconnessa ma intellegibile di sortite sempre più audaci. Le ricerche si edificano su altre ricerche, non nel senso che riprendono dove le altre smettono, ma nel senso che, meglio informate e meglio concettualizzate, approfondiscono di più le stesse cose. Ogni seria, analisi culturale comincia da un qualsiasi inizio e termina dove riesce ad arrivare prima di esaurire il suo impulso intellettuale. Si mobilitano fatti scoperti in precedenza, si usano concetti sviluppati in precedenza, si provano ipotesi formulate in precedenza; ma non si procede da teoremi già dimostrati alla dimostrazione di teoremi nuovi; si passa invece da un goffo brancolare verso la comprensione più elementare a una pretesa ben fondata di averla raggiunta e quindi superata. Una ricerca costituisce un progresso se è più incisiva – qualunque cosa ciò significhi – di quelle che l’hanno preceduta, ma non si appoggia sulle loro spalle, corre invece al loro fianco, come sfidante e sfidata. È per questo motivo, tra gli altri, che il saggio, fosse di 30 pagine o di 300, è sembrato il genere naturale in cui 53
presentare interpretazioni culturali e le teorie che le sostengono, ed è per questo che, se si cercano trattati sistematici in questo campo, si hanno delle delusioni, specialmente se li si trovano. Anche le rassegne sono rare in questo campo, e il loro interesse non supera quello bibliografico. Non solo i maggiori contributi teorici si trovano in ricerche specifiche – questo è vero quasi in ogni campo – ma è molto difficile estrapolarli da tali ricerche e integrarli in qualcosa che si potrebbe chiamare una vera e propria «teoria della cultura». Le formulazioni teoriche si elevano così poco sopra le interpretazioni che governano che, separate da esse, non hanno molto senso né interesse. E non perché non siano generali (se non sono generali, non sono teoriche) ma perché, affermate indipendentemente dalle loro applicazioni, sembrano banali o prive di senso. Si può, e questo è il modo in cui il campo progredisce concettualmente, prendere una linea di ricerca teorica sviluppata in connessione con un esercizio di interpretazione etnografica e impiegarla in un altro, portandola ad una maggior precisione ed una più ampia rilevanza, ma non si può scrivere una «teoria generale dell’interpretazione culturale». O meglio si può farlo, ma serve a poco, perché il compito essenziale nel costruire una teoria non è di codificare regolarità astratte, ma rendere possibile la thick description; non di generalizzare attraverso i casi, ma al loro interno. Generalizzare all’interno dei casi si chiama, almeno in medicina e nella psicologia del profondo, inferenza clinica. Invece di cominciare con una serie di osservazioni e tentare di sottoporle a una legge che le governi, questa inferenza comincia con una serie di segni (presumibilmente) 54
significativi e cerca di collocarli entro una struttura intelligibile. Le misure sono abbinate alle predizioni teoriche, ma i sintomi (anche se misurati) sono esaminati per le loro peculiarità teoriche – sono cioè diagnosticati. Nell’analisi della cultura i segni significativi non sono sintomi o aggregati di sintomi, ma atti simbolici o aggregati di atti simbolici, e lo scopo non è la terapia, ma l’analisi del discorso sociale. Il modo in cui si usa la teoria – estrarre la segreta importanza delle cose – è comunque lo stesso. Arriviamo così alla seconda condizione della teoria della cultura: non è, almeno nel senso stretto della parola, predittiva. Il diagnostico non predice il morbillo: decide che uno ce l’ha, o al massimo anticipa che probabilmente uno se lo prenderà entro un breve lasso di tempo. Ma questa limitazione, che è piuttosto reale, è stata comunemente fraintesa ed esagerata, perché si è pensato che l’interpretazione culturale fosse semplicemente post facto: che, come il contadino nella vecchia storiella, prima facciamo i buchi nello steccato e poi ci dipingiamo intorno gli occhi del toro. Non si può negare che ci sia parecchio di questo in giro, anche in posti importanti; si deve però escludere che sia il risultato inevitabile di un approccio clinico all’uso della teoria. È vero che nello stile clinico della formulazione teorica la concettualizzazione è diretta al fine di generare interpretazioni di questioni già disponibili, e non di proiettare risultati di manipolazioni sperimentali o di dedurre stati futuri di un determinato sistema. Ma questo non significa che la teoria debba solo adattarsi a realtà passate (o meglio a generarne valide interpretazioni): deve anche sopravvivere –sopravvivere intellettualmente – a 55
realtà che verranno. Anche se talvolta formuliamo la nostra interpretazione di una serie di ammiccamenti o di un caso di abigeato molto tempo dopo che sono avvenuti, la struttura teorica entro i cui termini si fa una tale interpretazione deve poter continuare a sfornare interpretazioni plausibili via via che appaiono all’orizzonte nuovi fenomeni sociali. Benché ogni tentativo di thick description, al di là dell’ovvio e del superficiale, inizi da uno stato di confusione generale su che diavolo stia accadendo – cercando di raccapezzarsi – non si comincia mai (o non si dovrebbe) a mani vuote. Le idee teoriche non si creano totalmente dal nulla in una ricerca: come ho detto, si traggono da ricerche affini e, raffinandole nel corso della ricerca, si applicano a nuovi problemi interpretativi. Se cessano di essere utili riguardo a tali problemi, tendono a non essere usate e sono più o meno abbandonate. Se continuano ad essere utili, aprendo la via a nuove interpretazioni, sono ulteriormente elaborate e continuano ad essere usate8. Questa concezione del funzionamento della teoria in una scienza interpretativa fa pensare che la distinzione, in ogni caso relativa, presente nelle scienze sperimentali o basate sull’osservazione, tra la «descrizione» e la «spiegazione» prenda qui la forma di una distinzione, anche più relativa dell’altra, tra «inscrizione» (thick description) e «specificazione» («diagnosi») – tra lo stabilire che significato abbiano le particolari azioni sociali per coloro che le eseguono ed affermare, il più esplicitamente possibile, che cosa dimostri la conoscenza così ottenuta rispetto alla società in cui è stata ricavata e inoltre rispetto alla vita sociale come tale. Il nostro duplice compito è di scoprire le strutture concettuali che informano gli atti dei nostri attori, 56
il «detto» del discorso sociale, e costruire un sistema di analisi nei cui termini ciò che è pertinente a quelle strutture, ciò che appartiene loro perché sono quello che sono, risalterà sullo sfondo di altre determinanti del comportamento umano. Nell’etnografia, il compito della teoria è di fornire un vocabolario in cui si possa esprimere ciò che l’azione simbolica ha da dire su di sé – cioè sul ruolo della cultura nella vita umana. A parte un paio di studi orientativi che riguardano questioni più fondamentali, è in questo modo che opera la teoria nei saggi raccolti in questo libro. Un repertorio di concetti e sistemi di concetti molto generali e accademici – «integrazione», «razionalizzazione», «simbolo», «ideologia», «ethos», «rivoluzione», «identità», «metafora», «struttura», «rituale», «visione del mondo», «attore», «funzione», «sacro», naturalmente «cultura» – viene inserito nel corpo della thick description etnografica, nella speranza di rendere scientificamente eloquenti i semplici eventi9. Lo scopo è di trarre grandi conclusioni da fatti piccoli, ma fittamente intessuti: di sostenere affermazioni generali sul ruolo della cultura nella costruzione della vita collettiva, confrontandole nei dettagli con l’analisi di casi specifici. Così non è solo l’interpretazione a scendere al più immediato livello di osservazione, ma anche la teoria da cui tale interpretazione concettualmente dipende. Il mio interesse per la storia di Cohen, come quello di Ryle per gli ammiccamenti, è derivato da alcune nozioni veramente generiche. Il modello della «confusione delle lingue» – l’idea che il conflitto sociale non sia qualcosa che avviene quando per debolezza, imprecisione, obsolescenza o trascuratezza le forme culturali cessano di operare, ma piuttosto qualcosa 57
che accade quando, come gli ammiccamenti burleschi, tali forme sono sospinte da situazioni insolite o intenzioni insolite ad operare in modi insoliti – non è un’idea che ho tratto dalla storia di Cohen, ma un’idea che le ho aggiunto, istruito da colleghi, studenti e predecessori. I nostri «appunti alla buona», dall’aspetto innocente, sono più che un ritratto delle cornici di significato di commercianti ebrei, guerrieri berberi e proconsoli francesi, e delle loro interferenze reciproche: sono la dimostrazione che rielaborare il modello dei rapporti sociali significa risistemare le coordinate del mondo vissuto. Le forme della società sono la sostanza della cultura.
VIII C’è una storia indiana – almeno l’ho appresa come storia indiana – di un inglese che, avendo udito che il mondo poggiava su una piattaforma che poggiava sul dorso di un elefante il quale poggiava a sua volta sul dorso di una tartaruga, chiese (forse era un etnografo: è il loro modo di comportarsi): su che cosa poggiava la tartaruga? Su un’altra tartaruga. E quella tartaruga? «Ah, Sahib, dopo quella sono tutte tartarughe». Questa è in verità la condizione delle cose. Non so quanto a lungo sia utile meditare sull’incontro di Cohen, lo sceicco e Dumari (forse ho già oltrepassato il limite) ma so che, per quanto potessi continuare, non arriverei mai a toccare il fondo. Né ci sono mai andato vicino in tutto quello che ho scritto, sia nei saggi successivi sia altrove. L’analisi culturale è intrinsecamente incompleta e, ancor peggio, più si 58
approfondisce tanto meno è completa. È una strana scienza, le cui affermazioni più rivelatrici sono quelle con la base più vacillante, in cui portare a compimento l’argomento che si sta trattando significa aumentare i sospetti, sia vostri, sia altrui, che la strada intrapresa non sia proprio quella giusta. Ma questo è quello che fa l’etnografo, oltre a tormentare la gente intelligente con domande stupide. Esistono diversi modi di evitare ciò – trasformare la cultura in folklore e farne collezione, trasformarla in caratteristiche ed enumerarle, trasformarla in istituzioni e classificarle, trasformarla in strutture e manipolarle. Ma queste sono scappatoie. Il fatto è che affidarsi ad un concetto semiotico della cultura e ad un approccio interpretativo per studiarla significa affidarsi a una concezione delle proposizioni etnografiche come, prendendo a prestito l’ormai famosa frase di W.B. Gallie, «essenzialmente contestabili». L’antropologia, o per lo meno l’antropologia interpretativa, è una scienza i cui progressi sono contrassegnati più da un raffinamento dei dibattiti che da un aumento di consenso: ciò che migliora è la precisione con cui ci tormentiamo a vicenda. È molto difficile accorgersene quando l’attenzione è monopolizzata da una sola delle parti che discutono. I monologhi valgono poco qui, perché non vi sono conclusioni da riportare, ma soltanto una discussione da sostenere. Quale che sia l’importanza dei saggi qui raccolti, essa non è tanto in quello che dicono ma in quello che testimoniano: un enorme aumento di interesse, non solo in antropologia, ma nelle scienze sociali in genere, verso il ruolo delle forme simboliche nella vita umana. Il significato, quella pseudoentità sfuggente e mal definita che un tempo 59
lasciavamo volentieri ai filosofi ed ai critici letterari perché ci giocassero, è ora ritornato nel cuore della nostra disciplina. Anche i marxisti citano Cassirer, e i positivisti Kenneth Burke. La mia posizione in mezzo a tutto ciò è stata di cercare di resistere al soggettivismo da una parte e al cabalismo dall’altra, di cercare di tenere l’analisi delle forme simboliche il più strettamente possibile legata agli eventi sociali concreti, al mondo pubblico della vita in comune, e di organizzarla in modo tale che le connessioni tra le formulazioni teoriche e le interpretazioni descrittive non fossero oscurate dal ricorso a scienze occulte. Non mi sono mai lasciato influenzare dall’argomento che, essendo la completa obiettività impossibile in queste faccende (come naturalmente è), tanto vale lasciar libero sfogo ai propri sentimenti. Come ha notato Robert Solow, ciò equivale a dire che, non esistendo un ambiente perfettamente asettico, tanto vale esercitare la chirurgia in una fogna. Né d’altra parte mi ha influenzato la pretesa che la linguistica strutturale, l’ingegneria dei calcolatori o qualche altra forma di pensiero avanzata ci metterà in grado di capire gli uomini senza conoscerli. Per screditare in fretta un approccio semiotico alla cultura non c’è altro da fare che lasciarlo scivolare in una combinazione di intuizionismo e alchimia, anche se le intuizioni sono espresse in modo elegante e l’alchimia è fatta apparire moderna. Il pericolo che l’analisi della cultura, in cerca di tartarughe troppo in profondità, perda il contatto con le superfici dure della vita – con le realtà dell’economia, della politica, della stratificazione sociale in cui gli uomini sono sempre inseriti – e con le necessità biologiche e fisiche su cui 60
poggiano quelle superfici, è sempre presente. La sola difesa contro di esso, e quindi contro la trasformazione dell’analisi della cultura in una specie di estetismo sociologico, è svolgere questa analisi in primo luogo su queste realtà e queste necessità. È così che ho scritto sul nazionalismo, sulla violenza, l’identità, la natura umana, la legittimità, la rivoluzione, l’etnicità, l’urbanizzazione, lo status, la morte e soprattutto sui particolari tentativi di particolari popoli di collocare queste cose in qualche tipo di struttura comprensibile e significativa. Osservare le dimensioni simboliche dell’azione sociale – l’arte, la religione, l’ideologia, la scienza, il diritto, la moralità, il senso comune – non significa allontanarsi dai dilemmi esistenziali della vita alla ricerca di qualche empireo di forme desensibilizzate: significa immergersi in mezzo ad esse. La vocazione essenziale dell’antropologia interpretativa non è di rispondere alle nostre domande più profonde, ma di mettere a disposizione risposte che altri (badando ad altre pecore in altre vallate) hanno dato e includerle così nell’archivio consultabile di ciò che l’uomo ha detto.
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Parte seconda
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2. L’impatto del concetto di cultura sul concetto di uomo
I Verso la fine del suo libro sulle categorie in uso presso i popoli tribali, Il pensiero selvaggio, l’antropologo francese Lévi-Strauss nota che la spiegazione scientifica non consiste nella riduzione dal complesso al semplice, come siamo stati indotti a credere, ma piuttosto nel sostituire una complessità poco intelligibile con una che lo è di più. Per quanto riguarda lo studio dell’uomo, ritengo si possa andare anche oltre, e concludere che la spiegazione consiste spesso nel sostituire immagini semplici con altre complesse, cercando di mantenere in qualche modo la chiarezza persuasiva che si accompagnava a quelle semplici. Penso che l’eleganza resti un ideale scientifico generale, ma nelle scienze sociali gli sviluppi veramente creativi avvengono spesso discostandosi da questo ideale. Di solito l’avanzamento della scienza consiste in una complicazione progressiva di quella che prima sembrava una serie di nozioni meravigliosamente semplici, ma che ora ci appaiono intollerabilmente semplicistiche. È dopo questa specie di disincanto che l’intelligibilità, e quindi il potere esplicativo, comincia a basarsi sulla possibilità di sostituire ciò che è complicato ma comprensibile a ciò che è complicato ma resta incomprensibile (e proprio a questo si riferisce Lévi63
Strauss). Whitehead offrì una volta alle scienze naturali la massima «Cerca la semplicità e diffidane»; alle scienze sociali avrebbe potuto ben offrire «Cerca la complessità e dalle un ordine». Certamente l’analisi della cultura si è sviluppata come se fosse questa la massima seguita. La nascita di un concetto scientifico di cultura corrispose, o almeno fu collegata, al rovesciamento della concezione della natura umana dominante nell’Illuminismo – una concezione che con i suoi pregi e difetti era chiara e semplice – ed alla sua sostituzione con una concezione non solo più complicata, ma molto meno chiara. Il tentativo di chiarirla, di ricostruire una descrizione comprensibile di che cosa è l’uomo, è stato da allora il fondamento del pensiero scientifico sulla cultura. Dopo aver cercato la complessità, e dopo averla trovata su una scala più vasta di quanto avessero mai immaginato, gli antropologi hanno finito per impigliarsi in un tortuoso sforzo per darle un ordine. E non si intravede ancora la fine. La concezione illuministica dell’uomo sosteneva del resto che egli era tutt’uno con la natura e ne condivideva un’uniformità generale di composizione, scoperta dalla scienza naturale sotto l’impulso di Bacone e la guida di Newton. Si tratta, in breve, di una natura umana regolarmente organizzata, assolutamente immutabile e meravigliosamente semplice come l’universo di Newton. Forse alcune sue leggi sono diverse ma esistono delle leggi; forse qualcosa della sua immutabilità è oscurata dalle complicazioni della moda locale, ma è immutabile. Un brano che Lovejoy (di cui sto seguendo la magistrale analisi) cita da uno storico dell’Illuminismo, Mascou,
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presenta questa posizione con l’utile schiettezza che si trova spesso negli scrittori minori. Lo scenario (in tempi e luoghi diversi) è alterato, gli attori cambiano le vesti e l’aspetto, ma i loro moti interiori sorgono dagli stessi desideri e passioni umane, e producono i loro effetti nelle vicissitudini dei regni e dei popoli1.
Questa opinione non si può certo disprezzare, né si può dire che sia scomparsa dal pensiero antropologico contemporaneo, nonostante i miei facili riferimenti a un «rovesciamento» di un momento fa. L’idea che gli uomini siano uomini qualunque sia il loro aspetto e il loro ambiente, non è stata sostituita da «altri costumi, altri animali». Tuttavia il concetto illuministico della natura della natura umana, espresso com’era, aveva delle implicazioni molto meno accettabili, di cui la principale era che, per citare questa volta lo stesso Lovejoy, «tutto ciò la cui intelligibilità, verificabilità o concreta affermazione è limitata a uomini di una speciale età, razza, temperamento, tradizione o condizione è (in sé e per sé) senza verità o valore, o per lo meno senza importanza per un uomo ragionevole»2. La grandissima varietà di differenze tra gli uomini, nelle credenze e nei valori, nelle usanze e nelle istituzioni, sia nel tempo sia nello spazio, è essenzialmente insignificante per la definizione della sua natura. Consiste in semplici aggiunte, distorsioni perfino, che coprono e oscurano quello che è veramente umano – il costante, il generale, l’universale – nell’uomo. Così, in un brano ora molto noto, Johnson vide che il genio di Shakespeare stava nel fatto che «i suoi personaggi non sono modificati dalle usanze di luoghi particolari, non praticate dal resto del mondo; dalle caratteristiche degli 65
studi o delle professioni che possono agire solo su un piccolo numero di persone, o dalla casualità di mode passeggere od opinioni temporanee»3. E Racine considerava il successo delle sue tragedie su temi classici come la prova che «il gusto di Parigi… si conforma a quello di Atene; i miei spettatori si sono lasciati commuovere dalle stesse cose che, in altri tempi, hanno fatto piangere le classi più colte della Grecia»4. Il guaio con questo tipo di concezione – a parte il fatto che suona comica venendo da una persona profondamente inglese come Johnson o francese come Racine – è che l’immagine di una natura umana costante, indipendente da tempo, luogo e circostanze, dagli studi e dalle professioni, dalle mode passeggere e dalle opinioni temporanee, è forse un’illusione, e che ciò che l’uomo è può intrecciarsi talmente con il luogo in cui si trova, con la sua identità locale e con le sue credenze da diventarne inseparabile. È proprio la considerazione di una simile possibilità che portò alla nascita del concetto di cultura e al declino della concezione uniformista dell’uomo. L’antropologia moderna, indipendentemente da quali altre cose affermi – e pare che abbia affermato quasi tutto in diverse occasioni – è salda nella convinzione che uomini non modificati dalle usanze di luoghi particolari non esistono, non sono mai esistiti e, cosa assai importante, non potrebbero esistere per la natura stessa della cosa. Non esiste, né può esistere un retroscena dove si possa andare a gettare un’occhiata agli attori di Mascou come «persone vere», che si aggirano con i loro abiti di strada, distolti dalla loro professione, mentre esibiscono con una franchezza priva di artifici i loro desideri spontanei e le loro sincere passioni. Possono cambiare la 66
parte, lo stile di recitazione, anche il dramma in cui recitano, ma – come naturalmente osservò lo stesso Shakespeare – stanno sempre recitando. Questa circostanza rende molto difficile tracciare un confine tra quello che è naturale, costante e universale nell’uomo e quello che è convenzionale, locale e variabile: si finisce infatti per pensare che tracciare questo confine significa falsificare la situazione umana o almeno travisarla seriamente. Consideriamo la trance balinese. I balinesi cadono in stati di estrema dissociazione in cui compiono tutti i generi di attività spettacolari – staccare la testa di polli vivi con un morso, colpirsi con pugnali, contorcersi selvaggiamente, parlare lingue strane, compiere prodigi di equilibrismo, mimare il rapporto sessuale, mangiare gli escrementi e così via – più facilmente e più in fretta di quanto la maggior parte di noi non si addormenti. Gli stati di trance sono una parte fondamentale di ogni cerimonia. A volte vi possono cadere 50 o 60 persone, una dopo l’altra («come una fila di petardi che scoppiano», a detta di un osservatore) venendone fuori dopo cinque minuti o magari parecchie ore, totalmente inconsapevoli di quello che hanno fatto e convinti, nonostante l’amnesia, di aver avuto l’esperienza più straordinaria e profondamente soddisfacente che un uomo possa avere. Che cosa si impara sulla natura umana da questo genere di cose e da mille altre ugualmente particolari che gli antropologi discutono, investigano e descrivono? Che i balinesi sono creature di tipo speciale? Marziani dei mari del Sud? Che sono proprio come noi alla radice, ma con delle usanze particolari, ancorché incidentali, che noi per caso non abbiamo adottato? Che sono dotati per nascita 67
o spinti per istinto in certe direzioni piuttosto che in altre? O che la natura umana non esiste e gli uomini sono puramente e semplicemente come li fa la cultura? È fra interpretazioni come queste, tutte insoddisfacenti, che l’antropologia ha tentato di farsi strada verso un più utile concetto di uomo, in cui si tenesse conto della cultura e della variabilità della cultura, invece di liquidarla come un capriccio e un pregiudizio, e al tempo stesso un concetto in cui il principio che governa il campo, «la fondamentale unità del genere umano», non si mutasse in una frase vuota. Per quanto riguarda lo studio dell’uomo, prendere le distanze dalla concezione uniformista dell’uomo significa lasciare il paradiso terrestre. Coltivare l’idea che la diversità di usanze nello spazio e nel tempo non è solo questione di costumi e di apparenza, di scenari e di maschere, vuol dire credere anche che l’umanità è tanto varia nella sua essenza quanto lo è nell’espressione. E con questa riflessione si sciolgono alcuni ormeggi filosofici che erano ben stretti, e si comincia ad andare malamente alla deriva in acque pericolose. Pericolose perché, se si scarta l’idea che l’Uomo con la U maiuscola va cercato «dietro», «sotto» o «al di là» delle sue usanze, e la si sostituisce con quella che l’uomo scritto con la minuscola va cercato «dentro» di esse, si corre il pericolo di perderlo completamente di vista. O si dissolve senza lasciare residui nel suo tempo e nel suo spazio, come un figlio e un perfetto prigioniero del suo tempo, o diventa un soldato arruolato in un vasto esercito tolstoiano, sprofondato in uno di quei terribili determinismi storici che ci hanno appestato da Hegel in poi. Nelle scienze sociali abbiamo avuto, e fino a un certo punto ancora abbiamo, entrambe queste 68
aberrazioni – una che si pone sotto la bandiera del relativismo culturale, l’altra sotto quella dell’evoluzione culturale. Ma abbiamo anche avuto, e più spesso, dei tentativi di evitarle cercando negli stessi modelli culturali gli elementi che definiscono un’esistenza umana che, sebbene non costanti nell’espressione, hanno tuttavia un carattere specifico.
II I tentativi di collocare l’uomo in mezzo alle sue usanze hanno preso parecchie direzioni e adottato tattiche diverse, ma tutti o quasi hanno proceduto nei termini di un’unica strategia teorica generale: quella che chiamo, tanto per avere a portata di mano una definizione, la concezione «stratigrafica» dei rapporti tra fattori biologici, psicologici, sociali e culturali della vita umana. In questa concezione l’uomo è un composto di «livelli», ciascuno che si sovrappone a quelli sottostanti sostenendo quelli sopra. Analizzando l’uomo si sfogliano gli strati uno dopo l’altro: ognuno è in quanto tale completo e irriducibile, e rivela sotto di sé un altro strato, di tipo completamente diverso. Sfogliando le forme variegate della cultura, si trovano le regolarità strutturali e funzionali dell’organizzazione sociale; sfogliando anche queste a loro volta si trovano i fattori psicologici di base – i «bisogni fondamentali» o comunque li si chiami – che le sorreggono e le rendono possibili. Sfogliando i fattori psicologici troviamo le fondamenta biologiche – anatomiche, fisiologiche, neurologiche – di tutto l’edificio della vita umana. 69
L’attrattiva di questo tipo di concettualizzazione, a parte il fatto che garantiva alle discipline accademiche costituite la loro sovranità e indipendenza, era che sembrava rendere possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca. Non era necessario affermare che la cultura dell’uomo era tutto ciò che c’era per esigere che fosse, ciò nonostante, un ingrediente essenziale e irriducibile, perfino supremo, della sua natura. Si potevano interpretare i fatti culturali sullo sfondo di fatti non culturali senza dissolverli in quello sfondo e senza dissolvere lo sfondo in essi. L’uomo era un animale gerarchicamente stratificato, una specie di deposito evolutivo, nella cui definizione ogni livello – organico, psicologico, sociale e culturale – aveva un posto assegnato e incontestabile. Per vedere che cos’era veramente bastava sovrapporre le scoperte di varie scienze eminenti – l’antropologia, la sociologia, la psicologia, la biologia – una sull’altra come tante striature di colore in un marezzo, e una volta fatto questo, l’importanza fondamentale del livello culturale, il solo specifico dell’uomo, sarebbe apparsa naturalmente, come pure ciò che aveva da dirci, a pieno diritto, su ciò che era realmente. All’immagine settecentesca dell’uomo come puro ragionatore che faceva la sua comparsa quando si spogliava dei suoi costumi culturali, l’antropologia del tardo Ottocento e del primo Novecento sostituì l’immagine dell’uomo come un animale trasfigurato che veniva alla luce solo quando indossava i suoi costumi. Sul piano della ricerca concreta e dell’analisi specifica, questa grande strategia si manifestò, in primo luogo, in una caccia agli universali nella cultura, alle uniformità empiriche che si potevano trovare dovunque all’incirca nello stesso modo, nonostante la diversità di usanze in tutto il mondo e 70
attraverso i tempi; in secondo luogo, in uno sforzo per correlare questi universali, una volta trovati, alle costanti fisse della biologia umana, della psicologia e dell’organizzazione sociale. Se dall’affollato catalogo della cultura umana si potevano trarre delle usanze comuni a tutte le varianti locali, e se queste si potevano connettere in un certo modo con alcuni punti di riferimento invariabili a livello subculturale, allora si poteva fare almeno qualche progresso verso la specificazione di quali tratti culturali siano essenziali all’esistenza umana e quali semplicemente casuali, periferici od ornamentali. In tal modo l’antropologia poteva determinare le dimensioni culturali di un concetto di uomo commensurate alle dimensioni fornite in modo simile dalla biologia, dalla psicologia o dalla sociologia. Nella sua essenza questa non è un’idea del tutto nuova. Il concetto del consensus gentium – l’idea che vi sono alcune cose che tutti gli uomini si troveranno d’accordo nel definire corrette, reali, giuste o attraenti, e che queste cose sono perciò corrette, reali, giuste ed attraenti – era presente nell’Illuminismo, e probabilmente lo è stato in tutti i tempi e sotto tutti i cieli, in questa o quell’epoca. È una di quelle idee che prima o poi vengono in mente quasi a tutti. Tuttavia il suo sviluppo nell’antropologia moderna – cominciando con l’elaborazione negli anni Venti da parte di Clark Wissler di quello che chiamava «il modello culturale universale», passando attraverso la presentazione di Bronislaw Malinowski negli anni Quaranta di un elenco di «tipi istituzionali universali», fino all’elaborazione da parte di G.P. Murdock durante e dopo la seconda guerra mondiale di una serie di «comuni denominatori della cultura» – aggiunse qualcosa di nuovo. Aggiunse l’idea che, 71
per citare Clyde Kluckhohn, forse il più convincente dei teorizzatori del consensus gentium, «alcuni aspetti della cultura assumono la loro forma specifica unicamente come risultato di incidenti storici mentre altri sono plasmati da forze che si possono propriamente definire come universali»5. Con questo la vita culturale dell’uomo è spaccata in due: parte di essa è, come le vesti degli attori di Mascou, indipendente dai «moti interiori» degli uomini newtoniani; parte è emanazione di quei moti stessi. La questione che quindi sorge è: questa costruzione a metà strada tra il diciottesimo e il ventesimo secolo può stare in piedi davvero? La risposta dipende dal fatto se si possa stabilire e sostenere il dualismo tra gli aspetti della cultura empiricamente universali radicati nelle realtà subculturali e gli aspetti empiricamente variabili non così radicati. E questo richiede a sua volta a) che gli universali proposti siano sostanziali e non vuote categorie; b) che siano specificamente basati su processi biologici, psicologici o sociologici particolari, non soltanto vagamente associati a «realtà sottostanti»; c) che si possano utilizzare in modo convincente come elementi costitutivi di una definizione di umanità, al cui confronto le molto più numerose specificità culturali sono chiaramente di secondaria importanza. Su tutti questi tre punti mi sembra che il metodo del consensus gentium fallisca: invece di avvicinarsi ai requisiti essenziali della situazione umana, se ne allontana. Il motivo per cui la prima di queste richieste – che gli universali proposti siano sostanziali e non vuote categorie – non è stata esaudita è perché non può esserlo. C’è un conflitto logico tra asserire che, ad esempio, la «religione», il 72
«matrimonio» o la «proprietà» sono universali empirici e conferire ad essi un contenuto determinato, perché dire che sono universali empirici è dire clic hanno lo stesso contenuto, e questo significa scontrarsi col fatto innegabile che non è vero. Se si definisce la religione in modo generico e indeterminato – ad esempio, come il più importante orientamento dell’uomo verso la realtà – non si può attribuire contemporaneamente a tale orientamento un contenuto molto circostanziato; perché chiaramente ciò che creava l’orientamento più importante verso la realtà tra gli esaltati Aztechi, che levavano verso il cielo i cuori pulsanti strappati dal torace di vittime sacrificali ancor vive, non è lo stesso che spinge i pacifici Zuñi a danzare in massa per supplicare i benevoli dei della pioggia. Il ritualismo ossessivo e il rilassato politeismo degli indù esprimono una visione piuttosto differente del «veramente reale» rispetto all’assoluto monoteismo e all’austero legalismo dei musulmani sunniti. Anche se si cerca di scendere a livelli meno astratti e di affermare, come Kluckhohn, che il concetto di un aldilà è universale o, come Malinowski, che il senso della provvidenza è universale, si resta ossessionati dalla stessa contraddizione. Perché la generalizzazione di un aldilà valga ugualmente per i confuciani e i calvinisti, i buddisti zen e i buddisti tibetani, occorre definirla in termini molto generici – tanto generici, in effetti, che tutta la forza del concetto praticamente evapora. Lo stesso avviene anche per ogni idea di un senso della provvidenza, che possa accogliere sia le concezioni navajo sia quelle trobriandesi sui rapporti tra dei e uomini. E come avviene con la religione così è per il «matrimonio», il «commercio» e tutto il resto di quelli che A.L. Kroeber giustamente chiamò «falsi 73
universali», sino a una cosa apparentemente tangibile come il «riparo». Che dappertutto le persone si uniscano e facciano dei figli, abbiano un certo senso del mio e del tuo, si proteggano dalla pioggia e dal sole in un modo o in un altro, non sono né idee false né, da un certo punto di vista, poco importanti, ma ci aiutano poco a tracciare un ritratto dell’uomo che abbia una vera e onesta somiglianza e non sia una specie di generico cartone animato. La mia opinione, che dovrebbe essere chiara e che spero lo diverrà ancor di più tra un istante, è che non vi sono generalizzazioni che si possano fare circa l’uomo come tale, tranne che è un animale molto vario, o che lo studio della cultura non può in alcun modo contribuire alla scoperta di queste generalizzazioni. La mia opinione è che non si scoprono queste generalizzazioni attraverso una ricerca baconiana degli universali culturali, una specie di sondaggio d’opinione tra i popoli del mondo in cerca di un consensus gentium che di fatto non esiste, e inoltre che il tentativo di farlo conduce proprio al tipo di relativismo che tutto il metodo si proponeva espressamente di evitare. «La cultura zuñi apprezza il ritegno», scrive Kluckhohn, «la cultura kwakiutl incoraggia l’esibizionismo da parte dell’individuo. Questi sono valori in contrasto, ma nell’aderirvi gli Zuñi e i Kwakiutl dimostrano la loro sottomissione ad un valore universale: l’adesione alle norme specifiche della propria cultura»6. Questa è pura evasione, ma è solo più evidente, non meno evasiva, della discussione sugli universali culturali in generale. Che cosa ci serve dire con Herskovits che «la moralità è un universale, e così pure il godimento della bellezza, e qualche criterio di verità», se nella frase seguente siamo obbligati come lui ad aggiungere che «le forme 74
molteplici che assumono questi concetti sono soltanto i prodotti della particolare esperienza storica delle società che li manifestano»?7 Una volta che si abbandona l’idea ossessiva di uniformità, anche se solo in modo incerto e parziale, come i teorizzatori del consensus gentium, il relativismo diventa un vero pericolo, che si può tenere a bada solo affrontando direttamente e pienamente le differenze della cultura umana, il ritegno degli Zuñi e l’esibizionismo dei Kwakiutl, e incorporandoli nella propria concezione dell’uomo, non scivolando oltre con vaghe tautologie e banalità prive di forza. Naturalmente la difficoltà di trovare universali culturali che siano al tempo stesso sostanziali ostacola anche l’adempimento della seconda richiesta inerente all’approccio del consensus gentium, quella di fondare questi universali in particolari processi biologici, psicologici o sociologici. Ma c’è dell’altro: la concettualizzazione «stratigrafica» dei rapporti tra i fattori culturali e non culturali è un ostacolo ancor più grave a questa fondazione. Una volta che la cultura, la psiche, la società e l’organismo sono stati convertiti in «livelli» scientifici separati, di per sé autonomi e completi, è molto difficile rimetterli insieme. Il modo più comune di tentare di farlo è con l’utilizzazione di cosiddetti «punti invariabili di riferimento». Questi punti si possono trovare, per citare una delle espressioni più famose di questa strategia, compresa in Toward a Common Language for the Areas of the Social Sciences [Verso un linguaggio comune per i settori delle scienze sociali], il documento redatto da Talcott Parsons, Kluckhohn, O.H. Taylor ed altri all’inizio degli anni Quaranta, 75
nella natura dei sistemi sociali, nella natura biologica e psicologica degli individui che li compongono, nelle situazioni esterne in cui vivono ed agiscono, nella necessità di coordinazione nei sistemi sociali. Nella [cultura] … questi «nuclei» di struttura non sono mai ignorati. Si deve in qualche modo «adattarli» o «tenerne conto».
Gli universali culturali sono concepiti come risposte cristallizzate a queste inevitabili realtà, modi istituzionalizzati di venire a patti con esse. L’analisi consiste quindi nell’accostare presunti universali a necessità sottostanti, cercando di dimostrare che fra di essi vi è una certa corrispondenza. A livello sociale si fa riferimento a fatti irrefutabili come quello che tutte le società, per sopravvivere, devono riprodurre la coesione tra i membri o distribuire beni e servizi, da cui deriva l’universalità di una qualche forma di famiglia o di commercio. A livello psicologico si fa ricorso a bisogni fondamentali come la maturazione personale – da qui l’ubiquità delle istituzioni educative – o a problemi di tutta l’umanità, come il complesso di Edipo – da qui l’ubiquità di dei che puniscono e di dee nutrici. Biologicamente esistono il metabolismo e la salute; culturalmente, i costumi alimentari e le tecniche curative. E così via. La tattica consiste nel prendere in esame le esigenze umane fondamentali di un tipo o di un altro, e poi cercare di dimostrare che quegli aspetti della cultura che sono universali sono, per usare di nuovo l’espressione di Kluckhohn, «confezionati» da queste esigenze. Il problema qui non è tanto di scoprire se in linea di massima esiste questo tipo di coerenza, ma se è qualcosa di non troppo vago e indeterminato. Non è difficile correlare alcune istituzioni umane a quelli che la scienza (o il senso comune) ci dicono essere requisiti per l’esistenza umana, ma 76
è molto più difficile stabilire questo rapporto in forma non equivoca. Non solo quasi ogni istituzione soddisfa una molteplicità di bisogni sociali, psicologici ed organici (per cui dire che il matrimonio è un semplice riflesso del bisogno sociale di riprodursi, o che le buone maniere a tavola sono un riflesso delle necessità del metabolismo sfiora la parodia), ma non c’è modo di stabilire in modo preciso e dimostrabile i rapporti che sono supposti esistere tra i vari livelli. Nonostante l’apparenza, non c’è qui nessun serio tentativo di applicare i concetti e le teorie della biologia, della psicologia e neppure della sociologia all’analisi della cultura (e naturalmente neppure un accenno a fare l’opposto), ma soltanto si giustappongono dei fatti dedotti dai diversi livelli subculturali e culturali, così da indurre la vaga sensazione che vi sia un certo rapporto fra di loro –un’oscura specie di «confezionamento». Non vi è alcuna integrazione teorica ma una semplice correlazione, e per di più intuitiva, di scoperte separate. Con il metodo dei livelli non possiamo mai, neanche invocando i «punti di riferimento “invarianti”», costruire delle vere interconnessioni funzionali tra fattori culturali e fattori non culturali ma soltanto analogie più o meno convincenti, parallelismi ed affinità. Tuttavia anche se sbagliassi (come sicuramente sosterrebbero molti antropologi) affermando che il metodo del consensus gentium non può produrre né universali sostanziali né connessioni specifiche tra i fenomeni culturali e non culturali per spiegarli, resta ancora il problema se prendere questi universali come elementi centrali nella definizione dell’uomo, per quanto basso sia il comune denominatore che vogliamo assumere per l’umanità. Questo peraltro, in quanto tale, è un problema filosofico e non 77
scientifico, ma l’affermazione per cui l’essenza di ciò che significa essere umani si rivela molto più chiaramente in quei tratti della cultura umana che sono universali piuttosto che in quelli che sono specifici a un popolo è un pregiudizio che non siamo costretti a condividere. È nel capire questi fatti generali – l’uomo ha ovunque un qualche genere di «religione» – o nel capire la ricchezza di questo o quel fenomeno religioso – la trance balinese o il ritualismo indiano, il sacrificio umano azteco o la danza della pioggia degli Zuñi – che noi comprendiamo l’uomo? Il fatto che il matrimonio sia universale (se lo è) dice davvero qualcosa tanto penetrante su ciò che siamo, quanto i fatti che riguardano la poliandria himalayana, o le fantastiche regole matrimoniali australiane, o gli elaborati sistemi di compenso matrimoniale dei Bantu africani? L’opinione secondo cui Cromwell era l’inglese più tipico del suo tempo proprio perché era il più bizzarro può essere importante anche a questo riguardo: è forse nelle peculiarità culturali dei popoli – nelle loro bizzarrie – che si possono trovare alcune delle rivelazioni più istruttive su che cosa significa essere genericamente umani; e forse il maggior contributo della scienza dell’antropologia alla costruzione – o ricostruzione – di una concetto di uomo può consistere nel mostrarci come trovarle.
III Il motivo principale per cui quando si è posto il problema di definire l’uomo gli antropologi si sono tenuti alla larga dalle peculiarità culturali e si sono invece rifugiati negli 78
esangui universali è che, esposti come sono alle enormi variazioni del comportamento umano, essi sono tormentati dalla paura dello storicismo, di perdersi in un turbine di relativismo culturale tanto convulso da privarli di ogni possibile solido punto di riferimento. E le occasioni per aver paura non sono mancate: i Modelli di cultura di Ruth Benedict, probabilmente il libro di antropologia più famoso mai pubblicato negli Usa, con la sua strana conclusione che tutto ciò che un gruppo di persone è incline a fare è degno di rispetto da parte di un altro gruppo, è forse l’esempio più clamoroso della posizione imbarazzante in cui si può finire abbandonandosi senza indugi a quello che Marc Bloch chiamava «il brivido di imparare cose singolari». Ma questa paura è solo uno spauracchio. L’idea che un fenomeno culturale, se non è empiricamente universale, non può riflettere nulla della natura dell’uomo ha all’incirca la stessa forza logica dell’idea secondo cui l’anemia non può dirci nulla sui processi genetici dell’uomo, poiché non è una malattia universale. Ciò che rileva per la scienza non è se i fenomeni sono empiricamente comuni – altrimenti perché Becquerel si sarebbe tanto interessato al singolare comportamento dell’uranio? – ma se si può fare in modo che svelino i duraturi processi naturali che ne stanno alla base. Vedere il cielo in un granello di sabbia non è un artificio che possono usare solo i poeti. In breve, noi dobbiamo cercare rapporti sistematici tra fenomeni diversi, non identità sostanziali tra quelli simili. E per farlo con efficacia dobbiamo sostituire la concezione «stratigrafica» dei rapporti tra i vari aspetti dell’esistenza umana con una sintetica, una concezione cioè in cui i fattori biologici, psicologici, sociologici e culturali possono essere 79
trattati come variabili entro sistemi unitari di analisi. L’instaurazione di un linguaggio comune nelle scienze sociali non consiste semplicemente nel coordinare delle terminologie o, peggio ancora, nel coniarne delle nuove artificiali, e nemmeno nell’imporre una sola serie di categorie a un intero settore scientifico. Consiste invece nell’integrare tipi diversi di teorie e concetti in modo da poter formulare affermazioni significative che integrano scoperte ora relegate in campi di studio separati. Proponendo questa integrazione dal lato antropologico, e di raggiungere con essa un’immagine dell’uomo più esatta, voglio avanzare due idee. La prima è che la cultura è concepita meglio non come insiemi di modelli concreti di comportamento – costumi, usi, tradizioni, insiemi di abitudini – com’è stato grossomodo finora, ma come una serie di meccanismi di controllo – progetti, prescrizioni, regole, istruzioni (quello che gli ingegneri informatici chiamano «programmi») – per orientare il comportamento. La seconda è che l’uomo è proprio l’animale più disperatamente dipendente da simili meccanismi di controllo extragenetici ed extracorporei, i programmi culturali appunto, per dare ordine al suo comportamento. Nessuna di queste idee è del tutto nuova, ma alcuni recenti sviluppi sia nell’antropologia sia in altre scienze (la cibernetica, la teoria dell’informazione, la neurologia, la genetica molecolare) le hanno rese suscettibili di una formulazione più precisa, conferendo loro un sostegno empirico che in precedenza non avevano. E da queste riformulazioni del concetto di cultura e del ruolo della cultura nella vita umana deriva, a sua volta, una definizione dell’uomo che fa risaltare non tanto le regolarità empiriche 80
del suo comportamento, nello spazio e nel tempo, ma piuttosto i meccanismi grazie ai quali l’ampiezza e l’indeterminatezza delle sue capacità intrinseche sono ridotte alla ristrettezza ed alla specificità delle sue azioni effettive. Uno dei fatti più significativi che ci riguardano è che noi tutti veniamo al mondo con l’equipaggiamento naturale adatto per vivere mille tipi di vita, ma finiamo con l’averne vissuta una sola. La concezione della cultura come «meccanismo di controllo» inizia dall’assunto che il pensiero umano è fondamentalmente sia sociale sia pubblico – che il suo habitat naturale è il cortile di casa, il mercato e la piazza principale della città. Il pensare non consiste in «avvenimenti nella testa» (benché gli avvenimenti lì e altrove sono necessari perché il pensare abbia luogo), ma nel traffico di quelli che sono stati chiamati, da G.H. Mead ed altri, simboli significanti – per lo più parole, ma anche gesti, disegni, suoni musicali, congegni meccanici come gli orologi od oggetti naturali come i gioielli – cioè qualunque cosa che sia avulsa dalla sua semplice realtà e usata per conferire significato all’esperienza. Dal punto di vista di un qualunque individuo questi simboli sono in gran parte dati. Li trova già, di solito, nella comunità dove nasce e rimangono in circolazione anche dopo la sua morte con qualche aggiunta, sottrazione e alterazione parziale a cui può partecipare oppure no. Finché vive li usa tutti o in parte, talvolta deliberatamente e con cura, molto spesso spontaneamente e con facilità, ma sempre con lo stesso scopo: fornire un’interpretazione degli avvenimenti che costituiscono la sua vita, orientarsi entro «il corso avanzante delle cose di cui si fa esperienza» per usare una vivida frase di John Dewey. 81
L’uomo ha bisogno di queste fonti simboliche di illuminazione per trovare la sua strada nel mondo, perché quelle di tipo non simbolico, inserite nel suo corpo costituzionalmente, gettano una luce troppo soffusa. Negli animali inferiori i modelli di comportamento si danno insieme alla loro struttura fisica, quanto meno in misura superiore all’uomo: le fonti di informazione genetiche ordinano le loro azioni entro possibilità di variazione molto più ristrette, sempre più ristrette e conchiuse via via che il livello dell’animale scende. All’uomo sono date capacità innate di reazione estremamente generali che lo regolano con molta minor precisione, anche se gli consentono un’elasticità e una complessità molto maggiori e, nelle occasioni in cui tutto funziona come dovrebbe, una maggior efficacia di comportamento. Questa è dunque l’altra faccia del nostro ragionamento: non diretto da modelli culturali – sistemi organizzati di simboli significanti – il comportamento dell’uomo sarebbe praticamente ingovernabile, un puro caos di azioni senza scopo e di emozioni in tumulto, e la sua esperienza sarebbe praticamente informe. La cultura, la totalità accumulata di questi modelli, non è un ornamento dell’esistenza umana ma la base principale della sua specificità, una condizione essenziale per essa. Nell’ambito dell’antropologia, alcune delle prove più eloquenti a sostegno di questa posizione vengono dai recenti progressi nella nostra comprensione di quello che si soleva chiamare l’origine dell’uomo: l’emergere dell’Homo sapiens da uno sfondo generale di primati. Di questi progressi tre sono di basilare importanza: a) l’abbandono di una concezione sequenziale dei rapporti tra l’evoluzione fisica e 82
lo sviluppo culturale dell’uomo a favore di una concezione interattiva o di sovrapposizione; b) la scoperta che il grosso dei cambiamenti biologici che produssero l’uomo moderno dai suoi progenitori più immediati ebbe luogo nel sistema nervoso centrale e più specificamente nel cervello; c) l’acquisizione della tesi secondo cui l’uomo è, in termini fisici, un animale incompleto, non finito; ciò che lo distingue più vistosamente dai non-uomini è la quantità e la varietà di cose che deve imparare prima di poter funzionare, piuttosto che la sua pura abilità ad imparare (per quanto possa esser grande). Esaminerò ora separatamente ciascuno di questi punti. Nella concezione tradizionale dei rapporti tra il progresso biologico e il progresso culturale dell’uomo, quello biologico era stato completato in tutti i suoi fini e intenti prima che cominciasse quello culturale. In altri termini, tale concezione era ancora stratigrafica: l’essere fisico dell’uomo si era evoluto attraverso il solito meccanismo della variazione genetica e della selezione naturale, finché la sua struttura anatomica non era arrivata più o meno alla condizione in cui la troviamo oggi: poi si era messo in moto lo sviluppo culturale. A un certo particolare stadio della sua storia filogenetica, un cambiamento genetico marginale di qualche tipo lo rese capace di produrre e tramandare cultura e da quel momento la sua forma di risposta adattativa alle pressioni ambientali fu quasi esclusivamente culturale invece che genetica. Quando l’umanità si diffuse sulla terra, indossò pellicce nei climi freddi e un perizoma (o niente del tutto) in quelli caldi: insomma non modificò il suo modo innato di reagire alla temperatura dell’ambiente. Fabbricò armi per estendere le sue capacità predatorie 83
ereditarie e cucinò i cibi per renderne digeribili il maggior numero. L’uomo divenne uomo, continua la storia, quando, dopo aver varcato un Rubicone mentale, fu in grado di trasmettere con l’insegnamento «conoscenza, credenza, diritto, morale, costumi» (per citare gli elementi della classica definizione della cultura di Sir Edward Tylor) ai suoi discendenti ed ai suoi vicini e di acquisirle dai suoi vicini e dai suoi antenati con l’apprendimento. Da quel magico momento, il progresso degli ominidi dipese quasi interamente dall’accumulazione culturale, dalla lenta crescita delle pratiche convenzionali invece che dal mutamento organico fisico come nelle epoche passate. Il solo guaio è che questo momento pare non sia mai esistito. Secondo le stime più recenti, furono necessari parecchi milioni di anni al genere Homo per compiere il passaggio al modo di vita culturale che, esteso in tal modo, non comportò solo uno o pochi cambiamenti genetici marginali, ma una loro sequenza lunga, complessa e rigorosamente ordinata. Secondo l’opinione corrente, l’evoluzione dell’Homo sapiens – l’uomo moderno – dalla sua immediata origine pre-sapiens iniziò quasi quattro milioni di anni fa con la comparsa degli ora famosi australopitechi – i cosiddetti uomini-scimmia dell’Africa meridionale ed orientale – e culminò con l’emergere dello stesso sapiens in un periodo valutato da centomila a trecentomila anni fa. Quindi, sembra che forme di attività culturale, o se volete protoculturale, almeno elementari, fossero presenti tra alcuni degli australopitechi: ci fu una sovrapposizione di forse più di un milione di anni tra l’inizio della cultura e la comparsa dell’uomo come lo conosciamo oggi. Le date 84
precise – che ora sono puramente indicative e che ulteriori ricerche potrebbero modificare in una direzione o nell’altra – non sono importanti: quel che importa è che ci fu una sovrapposizione ed anche molto estesa. Le fasi finali (finali sino ad ora, comunque) della storia filogenetica dell’uomo ebbero luogo nella stessa grande era geologica – la cosiddetta era glaciale – delle fasi iniziali della sua storia culturale. Gli uomini festeggiano il loro singolo compleanno, ma l’uomo come tale non lo può fare. Questo significa che la cultura, invece di essere aggiunta, per così dire, ad un animale ormai completo, o virtualmente completo, fu un ingrediente, e il più importante, nella produzione di questo stesso animale. La lenta, quasi impercettibile, crescita della cultura nell’era glaciale modificò l’equilibrio delle pressioni selettive a favore dell’Homo che si evolveva, in modo tale da svolgere un importante ruolo direttivo nella sua evoluzione. Il perfezionamento degli attrezzi, l’adozione delle pratiche organizzate della caccia e della raccolta, gli inizi della vera organizzazione familiare, la scoperta del fuoco e, cosa assai importante, benché ancora molto difficile da ricostruire in ogni particolare, il crescente affidamento a sistemi di simboli significanti (il linguaggio, l’arte, il mito, il rituale) per l’orientamento, la comunicazione e l’autocontrollo crearono tutti per l’uomo un nuovo ambiente a cui egli fu quindi obbligato ad adattarsi. Mentre la cultura, un passo infinitesimale dopo l’altro, si accumulava e si sviluppava, veniva conferito un vantaggio selettivo a quegli individui della popolazione più abili ad approfittarne – il cacciatore efficiente, il raccoglitore tenace, l’abile fabbricante di attrezzi, il capo pieno di risorse – finché quello che era stato 85
un Australopithecus dal cervello piccolo, protoumano, divenne il pienamente umano Homo sapiens dal cervello sviluppato. Tra il modello culturale, il corpo e il cervello fu creato un effettivo sistema di retroazione in cui ciascuno foggiava il progresso dell’altro, un sistema del quale l’interazione tra l’uso crescente degli attrezzi, la mutante anatomia della mano e la espansione della rappresentazione del pollice sulla corteccia cerebrale è soltanto uno degli esempi più vistosi. Sottomettendosi alla guida di programmi simbolicamente mediati per produrre manufatti, organizzare la vita sociale o esprimere emozioni, l’uomo determinò, anche se inconsciamente, le fasi culminanti del suo destino biologico. Letteralmente, anche se senza saperlo, creò se stesso. Benché, come ho già detto, ci sia stato un certo numero di importanti cambiamenti nell’anatomia complessiva del genere Homo durante il periodo della sua cristallizzazione – nella forma del cranio, nella dentizione, nella dimensione del pollice e così via – i più importanti e drammatici furono quelli che ebbero evidentemente luogo nel sistema nervoso centrale; perché fu allora che il cervello umano e particolarmente il diencefalo e il telencefalo si ingrossarono fino a raggiungere le attuali enormi proporzioni. I problemi tecnici sono complicati e controversi, ma il punto principale è che, sebbene gli australopitechi avessero una configurazione del torso e delle braccia non radicalmente diversa dalla nostra, e una formazione del bacino e delle gambe almeno tendente alla nostra, avevano capacità craniche di poco superiori a quelle delle scimmie attuali – cioè da un terzo a metà delle nostre. A distinguere il vero uomo dal protouomo è soprattutto la complessità 86
dell’organizzazione nervosa, non la forma generale del corpo. Sembra che il periodo di sovrapposizione dei cambiamenti culturali e di quelli biologici sia consistito in un’intensa concentrazione sullo sviluppo neurale e forse in raffinamenti tra loro correlati dei vari comportamenti – delle mani, della capacità di camminare con le sole gambe – per cui erano già state sicuramente poste le fondamenta anatomiche di base – spalle e polsi mobili, ilio allargato e così via. Di per sé non è forse stupefacente ma, unito a quanto ho già detto, suggerisce delle conclusioni su che genere di animale è l’uomo piuttosto lontane, credo, non solo da quelle del Settecento, ma anche da quelle dell’antropologia di solo dieci o quindici anni fa. Per dirla in breve, fa pensare che non esiste una cosa come una natura umana indipendente dalla cultura. Gli uomini senza cultura non sarebbero gli intelligenti selvaggi di Il signore delle mosche di Golding ricacciati nella crudele saggezza dei loro istinti animaleschi; non sarebbero i nobili figli della natura del primitivismo illuministico e neppure, come vorrebbe la teoria classica dell’antropologia, le scimmie naturalmente dotate di talento che in qualche modo non erano riuscite a trovare se stesse. Sarebbero assurde mostruosità con pochissimi istinti utili, ancor meno sentimenti riconoscibili, e nessun intelletto: casi mentali disperati. Poiché il nostro sistema nervoso centrale – e specialmente la sua maggior maledizione e gloria, la neocorteccia – è cresciuto in gran parte in interazione con la cultura, è incapace di dirigere il nostro comportamento o di organizzare la nostra esperienza senza la guida fornita dai sistemi di simboli significanti. Quel che ci accadde nell’era glaciale è che fummo costretti ad abbandonare la regolarità 87
e la precisione di un controllo genetico dettagliato sulla nostra condotta a favore della flessibilità e dell’adattabilità di un controllo genetico più generalizzato benché naturalmente non meno reale. Per avere le informazioni addizionali necessarie per poter agire, fummo obbligati successivamente a basarci sempre di più sulle fonti culturali – il patrimonio accumulato di simboli significanti. Questi simboli non sono pertanto semplici espressioni, strumentalità, o corrispettivi della nostra esistenza biologica, psicologica e sociale: ne sono i prerequisiti. Senza uomini certamente non c’è cultura; ma allo stesso modo, e cosa più importante, senza cultura non ci sarebbero uomini. Per concludere, noi siamo animali incompleti o non finiti che si completano e si perfezionano attraverso la cultura – e non attraverso la cultura in genere, ma attraverso forme di cultura estremamente particolari: dobuana e giavanese, hopi e italiana, di classe superiore e inferiore, accademica e commerciale. La grande capacità di apprendere dell’uomo e la sua duttilità sono state notate spesso, ma ancor più decisiva è la sua estrema dipendenza da un certo tipo di sapere: la costruzione, di concetti, l’apprendimento e l’applicazione di sistemi specifici di significato simbolico. I castori costruiscono dighe, gli uccelli nidi, le api localizzano il cibo, i babbuini organizzano gruppi sociali e i topi si accoppiano sulla base di forme di apprendimento che poggiano prevalentemente sulle istruzioni racchiuse in codice nei loro geni, e richiamate da modelli appropriati di stimoli esterni: chiavi fisiche inserite in serrature organiche. Ma gli uomini costruiscono dighe o rifugi, localizzano il cibo, organizzano i loro gruppi sociali o trovano partner sessuali sotto la guida di istruzioni codificate in diagrammi 88
di flusso e progetti, costumi di caccia, sistemi morali e giudizi estetici: strutture concettuali che modellano talenti informi. Noi viviamo, come è stato acutamente scritto, in una «lacuna di informazioni». Tra quello che ci dice il nostro corpo e quello che dobbiamo sapere per funzionare c’è un vuoto che dobbiamo riempire noi stessi, e lo riempiamo con le informazioni (o disinformazioni) fornite dalla nostra cultura. Il confine tra quel che si controlla in modo innato e quel che si controlla culturalmente è mal definito e oscillante. Alcune cose sono tutte controllate intrinsecamente, per tutti gli intenti e scopi; non abbiamo bisogno di orientamento culturale per imparare a respirare più di quanto ne abbia un pesce per imparare a nuotare. Altre sono quasi certamente in gran parte culturali: non tentiamo di spiegare su una base genetica il motivo per cui alcuni ripongono la loro fiducia nella pianificazione centralizzata ed altri nel mercato libero, anche se potrebbe essere un esercizio divertente. Quasi tutta la complessa natura umana è del resto il risultato dell’interazione, e non della somma, delle due cose. La nostra capacità di parlare è sicuramente innata; la nostra capacità di parlare l’inglese è sicuramente culturale. Sorridere per gli stimoli piacevoli ed accigliarsi per quelli spiacevoli è certamente determinato geneticamente in qualche misura (anche le scimmie aggrottano il muso davanti a odori molesti), ma il sorriso sardonico e il cipiglio burlesco sono con altrettanta certezza sicuramente culturali, come forse dimostra la definizione balinese di pazzo: qualcuno che, come fanno gli americani, sorride quando non c’è niente da ridere. Tra i progetti fondamentali per la nostra vita tracciati dai nostri geni – la 89
capacità di parlare o di sorridere – e il preciso comportamento che mettiamo in. atto – parlare inglese con un certo tono di voce, sorridere enigmaticamente in una situazione sociale delicata – si trova una complessa serie di simboli significanti sotto la cui direzione trasformiamo i primi nei secondi, i progetti di base in attività. Le nostre idee, i nostri valori, i nostri atti, perfino le nostre emozioni sono, come lo stesso nostro sistema nervoso, prodotti culturali fabbricati usando tendenze, capacità e disposizioni con cui siamo nati, ma ciò non di meno fabbricati. Chartres è fatta di pietra e di vetro, ma non è solo pietra e vetro: è una cattedrale, e non solo una cattedrale, ma una particolare cattedrale costruita in una certa epoca da determinati membri di una particolare società. Per capire ciò che significa, per percepirla esattamente, dovete sapere qualcosa di più delle proprietà generiche della pietra e del vetro e qualcosa di più di quanto è comune a tutte le cattedrali. Dovete capire anche – e secondo me nel modo più critico – i concetti specifici dei rapporti tra Dio, l’uomo e l’architettura, concetti che la cattedrale incarna, dato che ne hanno diretto la creazione. Con gli esseri umani non è diverso: anche gli uomini, fino all’ultimo tra essi, sono prodotti culturali.
IV Per quanto mostrino delle differenze, le diverse definizioni della natura umana adottate dall’Illuminismo e dall’antropologia classica hanno una cosa in comune: sono entrambe fondamentalmente tipologiche. Cercano di 90
costruire una immagine dell’uomo come modello, archetipo, idea platonica o forma aristotelica, rispetto a cui gli uomini veri – voi, io, Churchill, Hitler e il cacciatore di teste del Borneo – sono solo riflessi, distorsioni, approssimazioni. Nel caso dell’Illuminismo, gli elementi di questo tipo essenziale dovevano essere scoperti strappando agli uomini reali le bardature della cultura e vedendo che cosa rimaneva – l’uomo naturale. Nell’antropologia classica, lo stesso metodo era realizzato identificando gli aspetti comuni nella cultura e vedendo che cosa appariva: l’uomo come soggetto consensuale. In entrambi i casi il risultato è lo stesso che tende ad emergere da tutti gli approcci tipologici ai problemi scientifici in genere: le differenze tra gli individui e i gruppi di individui sono rese secondarie. L’individualità finisce per essere un caso eccentrico, la specificità una deviazione accidentale dal solo oggetto di studio legittimo per il vero scienziato: il tipo di base, immutabile, normativo. Tuttavia, in questo approccio, anche se formulato in modo elaborato e abilmente argomentato, il particolare vivo annega nel morto stereotipo: siamo alla ricerca di un’entità metafisica, l’Uomo con la U maiuscola, nel cui interesse sacrifichiamo l’entità empirica che di fatto incontriamo, l’uomo con la u minuscola. Il sacrificio però non è né utile né necessario. Non esiste opposizione tra la comprensione teorica generale e la comprensione circostanziata, tra la visione sinottica e la raffinata ricerca dei particolari. Una teoria scientifica – la scienza stessa, anzi – deve essere giudicata dalla sua capacità di ricavare proposizioni generali da fenomeni particolari. Se vogliamo scoprire in che cosa consiste l’uomo, possiamo trovarlo solo in ciò che gli uomini sono: ed essi sono 91
soprattutto differenti. E comprendendo questa varietà – la sua ampiezza, la sua natura, i suoi fondamenti e le sue implicazioni – che riusciremo a costruire una concezione della natura umana che abbia sostanza e verità, non un’ombra statistica e nemmeno un sogno primitivista. È qui, per tornare infine al titolo del presente saggio, che il concetto di cultura ha il suo impatto sul concetto di uomo. Concepita come una serie di espedienti simbolici per controllare il comportamento, di fonti di informazione extrasomatiche, la cultura fornisce il legame tra quello che gli uomini sono intrinsecamente capaci di diventare e ciò che in effetti sono divenuti, nella loro specificità. Diventare umani è diventare individui, e noi lo diventiamo sotto la guida di modelli culturali, sistemi di significato creati storicamente, nei cui termini noi diamo forma, ordine, scopo e direzione alla nostra vita. E i modelli culturali coinvolti non sono generali ma specifici – non già «il matrimonio», ma una serie peculiare di nozioni capaci di dire come sono gli uomini e le donne, come si dovrebbero trattare i coniugi, o chi si dovrebbe sposare; non tanto «la religione», ma la credenza nella ruota del karma, l’osservanza di un mese di digiuno, o la pratica del sacrificio di animali. L’uomo non deve essere definito soltanto in base alle sue capacità innate, come cercò di fare l’Illuminismo, né solo in base ai suoi effettivi comportamenti, come cerca di fare gran parte della scienza sociale contemporanea, ma piuttosto partendo dal legame tra di essi, dal modo in cui le prime si trasformano nei secondi, le sue potenzialità generiche si realizzano nelle sue imprese specifiche. È nella carriera dell’uomo, nel processo temporale che lo caratterizza, che possiamo discernere la sua natura, per 92
quanto vagamente, e sebbene la cultura sia solo uno degli elementi che determinano tale processo, non è certo il meno importante. Come la cultura ci ha plasmati come singola specie – e senza dubbio lo sta ancora facendo – così ci plasma come individui distinti. Questo è quanto abbiamo realmente in comune, non un’identità subculturale immutabile o un consenso stabilito interculturalmente. È abbastanza strano – ma forse a ripensarci non lo è – che molti dei nostri soggetti sembrano rendersene conto più chiaramente di noi antropologi. A Giava, ad esempio, dove ho fatto molto del mio lavoro, la gente dice chiaro e tondo: «Essere umani è essere giavanesi». I bambini piccoli, gli zoticoni, i sempliciotti, i pazzi, quelli apertamente immorali si dice che sono ndurung djawa, «non ancora giavanesi». Un adulto normale, capace di agire nei termini dell’elaboratissimo sistema di etichetta, possessore delle delicate percezioni estetiche associate con la musica, la danza, il dramma e il disegno dei tessuti, reattivo alle sottili suggestioni del divino che albergano nella quiete della coscienza interiore di ciascun individuo, è sampun djawa, «già giavanese», cioè già umano. Essere umani non è soltanto respirare: è controllare il proprio respiro con tecniche yoga così da udire nell’inalarlo e nell’esalarlo la voce letterale di Dio che pronuncia il Suo nome, «hu Allah». Non è solo parlare, ma pronunciare le parole e le frasi convenienti nelle appropriate situazioni sociali con il giusto tono di voce e con la giusta evasiva obliquità. Non è solo mangiare: è preferire certi cibi cucinati in un certo modo e seguire una rigida etichetta a tavola quando li si consuma. Non è neppure sentire, ma sentire certe emozioni
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specificamente giavanesi (ed essenzialmente intraducibili) – «pazienza», «distacco», «rassegnazione», «rispetto». Essere umani qui non significa essere un qualsiasi uomo: vuol dire essere un particolare tipo d’uomo, e naturalmente gli uomini sono diversi. «Altri campi – dicono i giavanesi – altre cavallette». All’interno della società sono riconosciute altre differenze: il modo in cui un coltivatore di riso diventa umano e giavanese è diverso da quello di un impiegato statale. Non è una questione di tolleranza e relativismo etico, perché non tutti i modi di essere umano sono considerati ugualmente ammirevoli; il modo con cui si comportano i cinesi locali, ad esempio è tenuto in gran spregio. Il fatto è che vi sono modi diversi e, rivolgendoci ora alla prospettiva dell’antropologo, è nell’analisi e osservazione sistematica che egli compie – del coraggio dell’indiano delle pianure, dell’ossessività dell’indù, del razionalismo del francese, dell’anarchismo del berbero, dell’ottimismo dell’americano (per elencare una serie di etichette che non vorrei difendere come tali) – che scopriremo che cosa sia, o possa essere, essere un uomo. Dobbiamo in breve scendere nei particolari, oltre le etichette fuorviami, oltre i tipi metafisici, oltre le vuote somiglianze, per cogliere appieno il carattere essenziale non solo delle varie culture, ma dei vari tipi di individui entro ogni cultura, se vogliamo incontrare l’umanità faccia a faccia. In quest’area la via verso la semplicità della scienza generale e rivelatrice passa attraverso l’interesse per il particolare, il circostanziato, il concreto, un interesse però organizzato e diretto nei termini del tipo di analisi teorica che ho accennato – analisi dell’evoluzione fisica, del funzionamento del sistema nervoso, dell’organizzazione 94
sociale, del processo psicologico, del modellamento culturale, e così via – e specialmente nei termini dell’interazione fra di essi. Ciò significa che la strada, come per ogni genuina Ricerca, passa attraverso una terrificante complessità. «Lasciatelo solo per un minuto o due», scrive Robert Lowell, non, come si potrebbe pensare, a proposito dell’antropologo, ma di un altro eccentrico studioso della natura dell’uomo, Nathaniel Hawthorne: Lasciatelo solo per un minuto o due, e lo vedrete con la testa piegata, meditare, meditare, gli occhi fissi su qualche scheggia, qualche pietra, qualche pianta comune, la cosa più comune, come se fosse l’indizio. L’occhio disturbato si leva furtivo, frustrato, insoddisfatto, dalla meditazione sul vero e sull’insignificante8.
Chino sulle sue schegge, pietre e piante comuni, anche l’antropologo medita sul vero e l’insignificante, scorgendovi, o così pensa, fugacemente e con qualche incertezza, l’immagine inquietante e mutevole di sé.
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3. Sviluppo della cultura ed evoluzione della mente L’affermazione «che la mente è il suo proprio luogo», come potrebbero interpretarla i teorici, non è vera, perché la mente non è un «luogo», neppure metaforico. Al contrario la scacchiera, il marciapiede, la scrivania dello studente, il banco del giudice, il sedile del camionista, lo studio dell’artista e il campo di calcio sono alcuni fra i suoi luoghi. È qui che le persone lavorano e giocano in maniera intelligente o stupida. «Mente» non è il nome di un’altra persona, che lavora o scherza dietro uno schermo impenetrabile; non è il nome di un altro luogo dove si eseguono il lavoro o i giochi; e non è il nome di un altro arnese con cui si compie il lavoro, o di un altro strumento con cui si gioca. Gilbert Ryle
I Nella storia intellettuale delle scienze del comportamento il concetto di «mente» ha svolto un curioso duplice ruolo. Chi riteneva che lo sviluppo di queste scienze comportasse un’estensione diretta dei metodi della scienza fisica nella sfera dell’organico l’ha intesa come una parola diabolica, il cui referente erano tutti quei metodi e quelle teorie che non riuscivano a mantenersi all’altezza di un ideale di «oggettivismo» piuttosto eroico. Termini come intuizione, comprensione, pensiero concettuale, immagine, idea, sentimento, riflessione, fantasia ed altri sono stati stigmatizzati come «mentalistici», cioè «contaminati dalla soggettività della coscienza», e si è deplorato il ricorso ad essi in quanto penoso indebolimento della potenza scientifica1. Chi al contrario riteneva che il passaggio dalla 96
sfera fisica a quella organica, e soprattutto umana, comportasse delle importanti revisioni nell’approccio teorico e nella procedura di ricerca, è stato incline a usare «mente» come concetto precauzionale, inteso più a sottolineare i difetti dell’attività del comprendere che a porvi riparo, più a far risaltare i limiti della scienza positiva che ad estenderli. Per questi pensatori, la sua funzione principale è stata dare un’espressione, definita vagamente ma intuitivamente valida, alla loro ferma convinzione che l’esperienza umana sia fornita di dimensioni tali che la teoria fisica (e, pari passu, le teorie psicologiche e sociali modellate sulla teoria fisica) tralascia di considerare. L’immagine di Sherrington di una «mente nuda» – «tutto ciò che conta nella vita: il desiderio, il piacere, la verità, l’amore, la conoscenza, i valori» – che appare «nel nostro mondo spaziale più spettrale di un fantasma» riassume questa posizione, così come quella opposta può essere sintetizzata da ciò che si racconta su Pavlov, cioè la sua abitudine di imporre delle multe agli studenti che solo pronunciassero una parola mentalistica nel suo laboratorio2. Effettivamente, a parte alcune eccezioni, il termine «mente» non ha funzionato come concetto scientifico, ma come strumento retorico, anche quando ne è stato vietato l’uso. Più precisamente, è servito a comunicare – e talvolta a sfruttare – una paura invece che a definire un processo, la paura del soggettivismo da una parte e del meccanicismo dall’altra. «Anche se è pienamente consapevole della natura del soggettivismo antropomorfico e dei suoi pericoli – ci ammonisce solennemente Clark Hull – il pensatore più esperto ed attento resterà probabilmente vittima delle sue seduzioni», proponendoci perciò come «profilassi» il 97
metodo di considerare tutti i comportamenti come se fossero prodotti da un cane, un topo albino o, meglio di tutti, da un robot3. Al contrario Gordon Allport confessa di vedere una minaccia alla dignità umana in un metodo simile, lamentando che «i modelli che abbiamo seguito sono privi dell’orientamento a vasto raggio che è l’essenza della moralità… Dedicarci alle macchine, ai topi o ai lattanti ci porta a sopravvalutare quei tratti del comportamento umano che sono periferici, immediati o genetici [e] a sottovalutare quei tratti che sono centrali, progettuali o simbolici»4. Di fronte a descrizioni così contraddittorie dello spettro che assilla lo studio dell’uomo, non c’è da stupirsi se un gruppo di psicologi, lacerati tra il desiderio di presentare un’analisi convincente degli aspetti principali del comportamento umano e quello di rispettare i canoni scientifici dell’obiettività, si sono recentemente lasciati tentare dal disperato stratagemma di definirsi «comportamentisti soggettivi»5. Nella misura in cui è coinvolto il concetto di mente, questo stato di cose è veramente sfavorevole perché trasforma in idea antiquata una nozione straordinariamente utile e per cui forse non vi è l’equivalente, salvo forse l’arcaico «psiche». Ancor più sfavorevole perché le paure che hanno tanto svalutato la parola sono in gran parte prive di fondamento, echi morenti della finta guerra civile tra il materialismo e il dualismo originato dalla rivoluzione newtoniana. Il meccanicismo è una specie di spauracchio, come ha detto Ryle, perché il timore di esso si basa sull’affermazione che è contraddittorio dire che lo stesso avvenimento sia governato da leggi meccaniche e principi morali, come se un giocatore di golf non potesse uniformarsi 98
alle leggi della balistica, obbedire alle regole del golf e giocare con eleganza allo stesso tempo6. Ma anche il soggettivismo è uno spauracchio, perché la paura di esso è fondata su un assunto ugualmente stravagante: poiché non posso sapere che cosa avete sognato la notte scorsa, o quello che pensavate mentre imparavate a memoria una sfilza di sillabe senza senso, o quello che pensate intorno alla teoria della dannazione degli infanti se non decidete di dirmelo, tutte le mie teorizzazioni sul ruolo avuto da questi fatti mentali nel vostro comportamento si devono basare, per una falsa analogia «antropomorfica», su quello che so o penso di sapere sul ruolo che hanno nel mio comportamento. Lo sferzante commento di Lashley per cui «i metafisici e i teologi hanno passato così tanti anni tessendo favole sulla [mente] che hanno finito per credere alle reciproche fantasie» è errato solo perché omette di dire che molti scienziati comportamentisti si sono impegnati nello stesso genere di autismo collettivo7. Uno dei metodi suggeriti più di frequente per riabilitare la mente come utile concetto scientifico è di trasformare il nome (mind) in un verbo o in un participio (minding). «Mind is minding8, la reazione di un organismo nel suo complesso, un’unità coerente… [una concezione che] ci libera dalla schiavitù verbale di una metafisica sterile e paralizzante, e ci lascia liberi di seminare e di raccogliere in un campo che produrrà dei frutti»9. Ma questa «cura» ci fa scontrare con la storiella udita sui banchi di scuola secondo cui «un nome è una parola che denomina una persona, un luogo o una cosa», che però non era vera. L’uso di nomi in quanto termini che indicano delle disposizioni – parole cioè che denotano capacità e propensioni piuttosto che attività o 99
enti – è in effetti una pratica consolidata e indispensabile in un linguaggio sia quotidiano sia scientifico10. Se si deve espungere «mente», andranno espunti anche «fede», «speranza» e «carità», quindi anche «causa», «forza», «gravitazione», «motivazione», «ruolo» e «cultura». «Mind is minding» può essere corretto e «scienza è “scienzieggiare”» forse è accettabile11, ma «superego è superegare» è decisamente sciocco. Cosa ancor più importante, anche se è vero che parte della nebbia confusionale sorta intorno al concetto di mente è il risultato di una falsa analogia con nomi che indicano persone, luoghi o cose, essa deriva principalmente da fonti molto più profonde di quelle puramente linguistiche. Di conseguenza, trasformarla in un verbo non è affatto una vera protezione contro «una metafisica sterile e paralizzante». I soggettivisti sono uomini di infinite risorse, come i meccanicisti, e un’entità occulta può semplicemente sostituire un’attività occulta, come nel caso, ad esempio, di «introspezione». Dal punto di vista scientifico, identificare la mente con un comportamento, la «reazione di un organismo nel suo complesso» è renderla inutilmente ridondante, come identificarla con un’entità «più spettrale di uno spettro». L’idea che sia più giustificabile trasformare una realtà in un’altra realtà che trasformarla in un’irrealtà non è giusta: un coniglio scompare completamente sia che lo si muti per magia in un cavallo sia che lo si muti in un centauro. «Mente» è un termine che denota una classe di abilità, inclinazioni, capacità, tendenze, abitudini: in un passo Dewey si riferisce a essa come a «uno sfondo attivo ed attento che aspetta e impegna tutto ciò in cui si imbatte»12. E, come tale, non è né un’azione né una cosa, ma un 100
organizzato sistema di disposizioni che trova la sua manifestazione in talune azioni e cose. Come ha fatto notare Ryle, se un uomo maldestro inciampa accidentalmente, non riteniamo giusto attribuire le sue azioni alle sue operazioni mentali, ma se un clown inciampa apposta sentiamo che è giusto dire così: L’abilità di un clown si può vedere nelle sue capriole e piroette. Inciampa e si rotola proprio come fanno le persone maldestre, tranne che lo fa apposta e nel momento migliore e dove i bambini possono vederlo, e in modo da non farsi male. Gli spettatori applaudono la sua capacità di sembrare goffo, ma quello che applaudono non è una qualche altra performance fatta di nascosto «nella sua testa». È la sua performance visibile che ammirano, e non l’ammirano perché è l’effetto di cause interne nascoste, ma perché è un esercizio di abilità. L’abilità non è un atto, perciò non è un atto che possa o non possa avere testimoni. Riconoscere che una performance è l’esercizio di una abilità vuol dire apprezzarlo alla luce di un fattore che non potrebbe essere registrato separatamente da una macchina fotografica, ma il motivo per cui l’abilità esercitata in una performance non può essere registrata separatamente da una macchina fotografica non è perché sia un avvenimento occulto o spettrale, ma perché non è affatto un avvenimento. È una disposizione, o un complesso di disposizioni, e una disposizione è un fattore del tipo logico sbagliato che deve essere visto o non visto, registrato o non registrato. Proprio come l’abitudine di parlare a voce alta non è essa stessa né alta né bassa, dato che non è il tipo di termine che si possa definire come «alto» o «basso» o come la disposizione alle emicranie per la stessa ragione non è né sopportabile né insopportabile, così le abilità, i gusti e le inclinazioni che si esercitano in operazioni palesi o interne non sono di per se stesse palesi o interne, testimoniabili o non testimoniabili13.
Un ragionamento simile si applica agli oggetti: non faremmo riferimento, se non in maniera metaforica, al leggendario maialino bruciato da un cinese mentre andava a fuoco incidentalmente la sua casa, e da questi presentato come «cotto», anche se lo mangiò, perché non fu prodotto dall’esercizio di una capacità mentale chiamata «conoscenza della cottura». Ma ci riferiremmo al secondo maialino che il cinese, ora istruito, riuscì a cuocere bruciando 101
deliberatamente la sua casa di nuovo, perché questo risultò da una sua capacità, non importa quanto rozza. Questi giudizi possono essere sbagliati, essendo empirici: un uomo può aver inciampato davvero mentre, credevamo che facesse il buffone, o un maiale può essere stato davvero cotto quando pensavamo che fosse solo bruciato. Ma il punto è che quando attribuiamo una mente a un organismo, non parliamo né delle azioni dell’organismo né dei suoi prodotti per sé, ma della sua capacità ed attitudine, della sua disposizione a compiere certi tipi di azioni ed a produrre certi tipi di prodotti, una capacità e un’attitudine che naturalmente deduciamo dal fatto che a volte compie tali azioni e produce tali prodotti. In questo non c’è nulla di straordinario: si dice solo che un linguaggio privo di termini indicanti le disposizioni renderebbe straordinariamente difficile la descrizione scientifica e l’analisi del comportamento umano e ne pregiudicherebbe gravemente lo sviluppo, allo stesso modo in cui una lingua come l’arapesh, nella quale si deve contare dicendo «uno, due, due e uno, un cane e due e uno (cioè “quattro”), un cane e uno, un cane e due, un cane e due e uno, due cani…» eccetera, ostacola lo sviluppo della matematica rendendo così fastidioso il contare che la gente fa troppa fatica ad andare oltre due cani e due cani e due cani (cioè 24) e si riferisce a tutte le quantità superiori definendole «un mucchio»14. Entro questa generale struttura concettuale è inoltre possibile discutere in concomitanza i determinanti biologici, psicologici, sociologici e culturali della vita mentale dell’uomo, senza perciò fare alcuna ipotesi riduttiva. Questo avviene perché la capacità di fare qualcosa, o l’inclinazione a 102
fare una cosa, non essendo né un’entità né una prestazione, semplicemente non è suscettibile di riduzione. Nel caso del clown di Ryle, potrei dire (senza dubbio sbagliando) che le sue capriole erano riducibili a una catena di riflessi condizionati, ma non potrei dire che la sua abilità lo era altrettanto, perché con abilità voglio dire soltanto che è capace di far capriole. Invece di «il clown può far capriole» è possibile, anche se semplicistico, scrivere «(questo organismo) può (produrre la serie di riflessi descritta)», ma è possibile togliere dalla frase il «può» sostituendolo solo con «è in grado di», «ha la capacità di» eccetera, che non è una riduzione, ma solo un’insignificante trasposizione da una forma verbale ad una aggettivale o nominale. Nell’analisi delle abilità tutto quello che si può fare è mostrare il modo in cui esse sono (o non sono) dipendenti da vari fattori come la complessità del sistema nervoso, il desiderio represso di esibirsi, l’esistenza di istituzioni sociali come i circhi, o la presenza di una tradizione culturale che imita la goffaggine allo scopo di deriderla. Una volta che i presupposti della disposizione sono ammessi nella descrizione scientifica, essi non sono eliminati da spostamenti nel «livello» di descrizione impiegato. E col riconoscimento di questo fatto si può metter tranquillamente da parte un’intera schiera di pseudoproblemi, false questioni e paure irrealistiche. In nessun campo di indagine, forse, è più utile evitare i paradossi prefabbricati che nello studio dell’evoluzione mentale. Gravata in passato da quasi tutti gli errori classici dell’antropologia – l’etnocentrismo, una preoccupazione eccessiva dell’unicità umana, una storia ricostruita con la fantasia, un concetto di cultura superorganico, stadi 103
aprioristici del mutamento evolutivo – tutta la ricerca sulle origini della mentalità umana ha sempre sfiorato il discredito, o per lo meno è stata trascurata. Ma le domande legittime – e come l’uomo sia giunto ad avere la sua mente è una domanda legittima – non sono invalidate da risposte mal concepite. Almeno per quanto riguarda l’antropologia, uno dei vantaggi più importanti di una risposta basata sulle disposizioni alla domanda «Che cos’è la mente?» è che ci permette di riaprire un problema classico senza resuscitare le classiche controversie.
II Negli ultimi cinquantanni si sono diffuse due concezioni sull’evoluzione della mente umana, entrambe inadeguate. La prima è la tesi che il tipo di processi del pensiero umano che Freud chiamava «primari» – la sostituzione, l’inversione, la condensazione e così via – sono filogeneticamente precedenti a quelli che chiaiiiava «secondari» – il ragionamento coerente, ordinato logicamente, e così via15. Entro i confini dell’antropologia questa tesi si è basata sull’assunto che è possibile semplicemente identificare modelli di cultura e modalità di pensiero16. In base a questo assunto, gruppi di persone prive di quelle risorse culturali della scienza moderna che sono state tanto efficacemente impiegate, almeno in certi contesti, nel ragionamento sistematico, in Occidente sono stati ritenuti ipso facto privi della capacità intellettiva stessa al cui servizio queste risorse si trovano: come se la limitazione degli Arapesh alle combinazioni di «uno» «due» e «cane» fosse il risultato, e 104
non la causa, della loro mancanza di abilità matematica. Se si aggiunge a questo argomento l’errata generalizzazione empirica secondo cui i popoli tribali usano a fini intellettuali le loro misere risorse culturali con minor frequenza, minor costanza e minor prudenza dei popoli occidentali, l’affermazione che il modo di pensare dei processi primari precede filogeneticamente il modo di pensare dei processi secondari richiede ancora solo l’errore finale di considerare i popoli tribali come forme primitive di umanità, «fossili viventi», per essere completa17. Fu per reagire a questa serie di errori che sorse la seconda concezione dell’evoluzione della mente umana, e cioè che non solo l’esistenza della mente umana nella sua forma essenzialmente moderna è un prerequisito per l’acquisizione della cultura, ma che la crescita della cultura in sé non ha avuto alcun significato per l’evoluzione mentale: L’uccello rinunciò ad un paio di arti semoventi per acquistare le ali. Aggiunse una facoltà nuova trasformando parte di una vecchia… L’aeroplano invece conferì agli uomini una facoltà nuova senza diminuire o danneggiare nessuna di quelle che possedevano in precedenza. Non condusse a nessun cambiamento corporeo visibile, a nessuna alterazione della capacità mentale18.
Ma a sua volta questo ragionamento implica due corollari, di cui uno, la dottrina dell’unità psichica del genere umano, ha trovato una crescente convalida empirica col progredire della ricerca antropologica, ma l’altro, la teoria del «punto critico» della comparsa della cultura, è diventato sempre più evanescente. La dottrina dell’unità psichica del genere umano che oggi, a quanto ne so, non è seriamente messa in discussione da nessun antropologo di fama, non è altro che la diretta contraddizione del ragionamento della mentalità primitiva: afferma che non esistono differenze essenziali 105
nella natura fondamentale del processo del pensiero tra le varie razze di uomini viventi. Se si ritiene che l’esistenza di un tipo di mente moderno sia il prerequisito per l’acquisizione della cultura, il possesso universale della cultura da parte di tutti i gruppi umani contemporanei fa naturalmente della dottrina dell’unità psichica una semplice tautologia; ma, sia veramente tautologica o no, si tratta di un ‘affermazione della cui validità empirica vi sono prove schiaccianti sia etnografiche sia psicologiche19. In quanto alla teoria del punto critico della comparsa della cultura, essa postula che lo sviluppo della capacità di acquisire cultura fu un tipo di avvenimento improvviso, tutto-o-nulla, nella filogenesi dei primati20. In qualche preciso momento nella nuova irrecuperabile storia dell’ominazione avvenne un’alterazione organica prodigiosa, ma probabilmente secondaria in termini genici o anatomici – presumibilmente nella struttura della corteccia – in cui un animale i cui genitori non erano stati predisposti a «comunicare, apprendere e insegnare, a generalizzare dalla catena infinita dei sentimenti e negli atteggiamenti distinti» venne predisposto e «con ciò egli cominciò ad essere in grado di agire come ricevitore e trasmettitore, e ad iniziare quell’accumulazione che è la cultura»21. Con lui era nata la cultura e, una volta nata, iniziò il suo corso sviluppandosi in modo del tutto indipendente dall’ulteriore evoluzione organica dell’uomo. L’intero processo della creazione della capacità dell’uomo moderno di produrre e usare la cultura, il suo attributo mentale più specifico, è concettualizzato come un processo di cambiamento quantitativo marginale che diede origine ad una differenza qualitativa radicale, come quando l’acqua, scesa di temperatura un grado dopo 106
l’altro senza alcuna perdita di fluidità, improvvisamente gela a zero gradi centigradi, o quando un aereo che rulla acquista sufficiente velocità per lanciarsi in volo22. Ma non stiamo parlando di acqua o di aeroplani, e la questione è se si possa tracciare effettivamente una rigida linea di separazione tra l’uomo inculturato e il non-uomo non-inculturato che questa visione comporta, o, se dobbiamo fare delle analogie, se non sia più adatta una visione più storica, come lo sviluppo graduale e ininterrotto dell’Inghilterra moderna da quella medievale. Nell’antropologia fisica il dubbio che si possa parlare della comparsa dell’uomo «come se fosse stato promosso all’improvviso da colonnello a generale di brigata e ci fosse una data di promozione», si è insinuato con crescente rapidità via via che i fossili degli australopitechi, originariamente del Sudafrica ma ora trovati in molti altri luoghi, hanno finito per essere collocati con sempre più frequenza nella linea evolutiva degli ominidi23. Questi fossili, che risalgono ai periodi del Pliocene superiore e del Pleistocene inferiore, tre o quattro milioni di anni fa, mostrano un impressionante mosaico di caratteristiche morfologiche insieme primitive e progredite, in cui i tratti più rilevanti sono la conformazione del bacino e delle gambe molto simili a quelli di un uomo moderno e d’altra parte una capacità cranica appena maggiore di quella delle scimmie viventi24. Sebbene la tendenza iniziale fosse di ritenere che questa combinazione di un sistema locomotorio bipede «simile all’uomo» e di un cervello «simile alla scimmia» indicasse che gli australopitechi rappresentavano una linea di sviluppo aberrante e temporanea distinta dagli ominidi e dai pongidi, attualmente si è d’accordo nel seguire 107
la conclusione di Howell che «i primi ominidi fossero ominoidi proto australopitechi col cervello piccolo, divenuti bipedi da poco, e che ciò che noi abbiamo sempre inteso con “uomo” rappresenti forme successive di questo gruppo con adattamenti secondari nella direzione di cervelli grossi e scheletri modificati della stessa forma»25. Ora, questi ominidi più o meno eretti, col cervello piccolo, le mani libere dalle esigenze della locomozione, fabbricavano arnesi e probabilmente cacciavano piccoli animali. Ma è improbabile che con circa 500 cc di cervello potessero aver avuto una cultura sviluppata paragonabile a quella, ad esempio, degli aborigeni australiani, o possedessero un linguaggio nel moderno senso del termine26. Sembra quindi che abbiamo negli australopitechi uno strano tipo di «uomo» che evidentemente era capace di acquisire alcuni elementi di cultura – fabbricazione di semplici arnese sporadica «caccia», e forse qualche sistema di comunicazione più progredito di quello delle scimmie contemporanee e meno progredito del vero linguaggio – ma non molto di più, uno stato di cose che getta dubbi abbastanza seri sulla validità della teoria del «punto critico»27. In effetti, poiché il cervello dell’Homo sapiens è grande circa tre volte quello degli australopitechi, la maggior parte dell’espansione corticale umana ha seguito, e non preceduto, l’«inizio» della cultura, circostanza alquanto inesplicabile se si ritiene che la capacità di produrre cultura sia stata il risultato unitario di un cambiamento quantitativamente piccolo, ma qualitativamente critico, come il congelamento dell’acqua28. Non solo è divenuto ora fuorviarne usare l’immagine della «promozione» a un gradino superiore per la comparsa dell’uomo, ma «è 108
egualmente dubbio se dobbiamo parlare ancora in termini di “comparsa della cultura”, come se anche la cultura fosse improvvisamente balzata nell’esistenza insieme con l’“uomo”»29. Come il paradosso è il segno di un errore antecedente,( il fatto che uno dei suoi corollari sembri valido e l’altro no fa pensare che sia di per se stessa errata la tesi che ritiene l’evoluzione mentale e l’accumulazione culturale due processi completamente separati, per cui il primo sarebbe stato essenzialmente completato prima che iniziasse il secondo. E se le cose stanno così, diventa necessario trovare un modo per sbarazzarci di questa tesi senza minacciare al tempo stesso la dottrina dell’unità psichica, mancando la quale «dovremmo disfarci come di rottami della maggior parte della storia dell’antropologia e della sociologia, e ricominciare da capo con un’interpretazione genetica psicosomatica dell’uomo e delle sue varietà»30. Dobbiamo essere in grado sia di negare ogni significativo rapporto tra la conquista culturale (di gruppo) e la capacità mentale innata nel presente, sia di affermare un tale rapporto nel passato. Lo strumento per eseguire questo compito stranamente bicefalo si trova in quello che può apparire come un semplice espediente tecnico, ma che è in effetti un importante riorientamento metodologico: la scelta di una scala temporale più fittamente graduata, nei cui termini differenziare gli stadi del cambiamento evolutivo che hanno prodotto l’Homo sapiens da un protominoide dell’Eocene. Vedere la comparsa della capacità culturale come un avvenimento più o meno brusco, istantaneo, o come uno sviluppo continuo in lento movimento, ovviamente dipende, 109
in parte almeno, dalle dimensioni delle unità elementari nella propria scala del tempo; ad un geologo che misura sulla scala dei periodi, tutta l’evoluzione dei primati può apparire una esplosione qualitativa indifferenziata. Infatti la confutazione della teoria del punto critico potrebbe formularsi con più precisione come obiezione contro la sua derivazione da una scelta inappropriata della scala temporale, una scala i cui intervalli di base sono troppo ampi per un’analisi approfondita della recente storia dell’evoluzione, allo stesso modo in cui un biologo così sciocco da studiare lo sviluppo umano con un intervallo di decenni vedrebbe l’età adulta come un’improvvisa trasformazione dell’infanzia e salterebbe completamente l’adolescenza. Un buon esempio di un approccio così disinvolto alle considerazioni temporali è implicito in ciò che è probabilmente il più frequente tipo di dati scientifici invocati a sostegno della concezione della cultura umana secondo cui «esiste differenza nel genere piuttosto che nel grado»: il confronto dell’uomo coi suoi più prossimi parenti viventi, i pongidi, e particolarmente lo scimpanzé. L’uomo può parlare, simbolizzare, può acquisire cultura, secondo questo ragionamento, ma lo scimpanzé (e per estensione, tutti gli animali meno dotati) non può. Perciò l’uomo è unico sotto questo riguardo, e per quanto riguarda la mentalità «siamo di fronte ad una serie di salti, non ad un continuum in ascesa»31. Ma si trascura così il fatto che, anche se i pongidi possono essere i parenti più stretti dell’uomo, «stretto» è un termine elastico e, data una scala del tempo realistica dal punto di vista evolutivo, in realtà non sono tanto stretti, dal momento che gli ultimi antenati comuni 110
risalgono al minimo a una scimmia del Pliocene superiore (e al massimo dell’Oligocene superiore) e la differenziazione filogenetica ha progredito con rapidità sempre crescente a partire da allora. Il fatto che gli scimpanzé non parlano è importante e interessante, ma trarne la conclusione che la parola sia un fenomeno «o tutto o niente» significa ridurre d’un colpo un periodo da uno a quaranta milioni di anni ad un solo istante di tempo e perdere tutta la linea presapiens degli ominidi, proprio come il nostro biologo ha perduto l’adolescenza. Il confronto interspecifico tra animali viventi, se trattato con cura, è un espediente legittimo, anzi indispensabile, per dedurre le tendenze evolutive generali ma, come la lunghezza d’onda finita della luce limita la possibile discriminazione nelle misurazioni fisiche, così il fatto che i parenti più stretti viventi dell’uomo siano al massimo dei cugini abbastanza lontani (non antenati) riduce il grado di precisione della misura del cambiamento evolutivo nella linea degli ominidi, quando ci si limita alle differenze tra le forme ancora esistenti32. Se invece applichiamo alla filogenesi umana una scala temporale più adeguata, concentrando l’attenzione su quanto pare essere accaduto nella linea «umana» dalla sparizione degli ominoidi, e in particolare dall’emergere dell’Australopithecus verso la fine del Pliocene, si rende possibile un’analisi più minuziosa della crescita evolutiva della mente. Diventa soprattutto evidente che non solo l’accumulazione culturale era avviata ben prima che cessasse lo sviluppo organico, ma che, molto probabilmente, questa accumulazione ebbe un ruolo attivo nel modellare le fasi di sviluppo finali. Benché sia ovvio che l’invenzione dell’aeroplano non ha condotto a cambiamenti visibili nel 111
corpo, ad alterazioni della capacità mentale (innata), questo non è avvenuto necessariamente nel caso dell’arnese di pietra o dell’ascia rudimentale, nella cui scia non solo sono probabilmente intervenuti mutamenti come la statura più eretta, la dentatura ridotta e una mano più dominata dal pollice, ma anche l’espansione del cervello alle sue dimensioni attuali33. Poiché la fabbricazione di arnesi valorizza l’abilità manuale e la capacità di progettare, la sua comparsa deve aver influenzato lo spostamento delle pressioni selettive così da favorire la rapida crescita del proencefalo, come fecero con tutta probabilità i progressi nell’organizzazione sociale, nella comunicazione e nella regolamentazione morale che – vi è ragione di credere – avvennero pure durante questo periodo di sovrapposizione del mutamento culturale e di quello biologico. E questi mutamenti nel sistema nervoso non furono puramente quantitativi: le alterazioni nelle interconnessioni tra i neuroni e il loro modo di funzionare possono aver avuto un’importanza anche maggiore del loro semplice aumento numerico. A parte i dettagli, tuttavia, – e il grosso di questi resta ancora da definire – il punto è che la generica costituzione innata dell’uomo moderno (quella che in tempi più semplici si chiamava «natura umana») appare ora essere un prodotto sia culturale sia biologico, dato che «è probabilmente più corretto pensare a gran parte della nostra struttura come risultato della cultura che pensare ad uomini anatomicamente simili a noi che scoprono lentamente la cultura»34. Il periodo del Pleistocene, con le sue variazioni climatiche rapide e radicali, la formazione di terre e la vegetazione, è stato a lungo riconosciuto come un periodo in cui esistevano 112
condizioni ideali per un rapido ed efficace sviluppo evolutivo dell’uomo; ora pare che sia stato anche un periodo in cui un ambiente culturale ha sempre più sostituito l’ambiente naturale nel processo di selezione, così da accelerare ulteriormente il ritmo dell’evoluzione dell’ominide fino ad una velocità senza precedenti. Sembra che l’era glaciale non sia stata solo un periodo di rimpicciolimento delle arcate sopracciliari e di riduzione del prognatismo, ma un’epoca in cui si formarono tutte quelle caratteristiche dell’esistenza dell’uomo che sono più vistosamente umane: il suo sistema nervoso interamente centrato nell’encefalo, la sua struttura sociale basata sul tabù dell’incesto, la sua capacità di creare ed usare simboli. Il fatto che queste caratteristiche specifiche dell’umanità siano emerse parallelamente in una complessa interazione reciproca invece che in serie, come si è supposto per molto tempo, è di eccezionale importanza nell’interpretazione della mentalità umana, poiché fa pensare che il sistema nervoso dell’uomo non lo mette semplicemente in grado di acquisire cultura, ma esige decisamente che lo faccia per poter funzionare. La cultura, più che agire per integrare, sviluppare ed estendere capacità su base organica logicamente e geneticamente precedente ad essa, sembrerebbe essere un ingrediente di questa stessa capacità. Un essere umano privo di cultura probabilmente non risulterebbe essere una scimmia intrinsecamente dotata ma incompiuta, bensì una mostruosità completamente priva di mente e di conseguenza non operativa. Come il cavolo a cui tanto somiglia, il cervello dell’Homo sapiens, essendo sorto nel contesto organizzato della cultura umana, non potrebbe funzionare al di fuori da essa35. 113
Sembra effettivamente che durante l’intera evoluzione dei primati sia stato di importanza cruciale il rapporto reciprocamente creativo tra i fenomeni somatici e quelli extrasomatici. Naturalmente è molto dubbio che si possa dire di qualunque primate infraominide (vivente o estinto) che possiede vera cultura – nel senso ristretto di «un sistema regolato di significati e di simboli… nei cui termini gli individui definiscono il loro mondo, esprimono i loro sentimenti e formulano i loro giudizi»36. Ma è ora definitivamente accertato che le scimmie, grosse e piccole, sono creature così intrinsecamente sociali da essere incapaci di raggiungere la maturità emotiva in isolamento, da acquisire molte delle loro maggiori capacità esecutive attraverso l’apprendimento imitativo e da sviluppare tradizioni sociali collettive, variabili tra le specie, che si trasmettono di generazione in generazione come retaggio non biologico37. Come osserva De Vore in una rassegna del materiale disponibile, «I primati hanno letteralmente un “cervello sociale”»38. Così molto prima di essere influenzata dalle forze culturali come tali, l’evoluzione di quello che divenne infine il sistema nervoso umano fu effettivamente modellata dalle forze sociali39. D’altro canto, tuttavia, negare la semplice indipendenza dei processi socioculturali e biologici nel pre-Homo sapiens non implica il rifiuto della dottrina dell’unità psichica, perché la differenziazione filetica nella linea degli ominidi cessò effettivamente con la diffusione, durante il periodo terminale del Pleistocene, dell’Homo sapiens in quasi tutto il mondo e l’estinzione di tutte le altre specie di Homo che potevano esistere a quel tempo. Quindi, benché indubbiamente siano accaduti alcuni cambiamenti evolutivi 114
di scarsa importanza dopo la nascita dell’uomo moderno, tutti i popoli viventi fanno parte di una specie differenziata e, come tali, subiscono variazioni anatomiche e fisiologiche molto limitate40. La combinazione di meccanismi indeboliti di isolamento riproduttivo, un periodo prolungato di immaturità sessuale dell’individuo e l’accumulo di cultura sino al punto in cui la sua importanza come fattore di adattamento prevalse quasi interamente sul suo ruolo come fattore selettivo, produssero una decelerazione così accentuata nel ritmo evolutivo degli ominidi che pare sia stato precluso lo sviluppo di qualunque variazione significativa nella capacità mentale innata tra i sottogruppi umani. Con il netto trionfo dell’Homo sapiens e la fine delle glaciazioni, il legame tra mutamento organico e culturale venne, se non spezzato, almeno notevolmente indebolito. Da allora l’evoluzione organica nella linea umana è molto rallentata, mentre la crescita della cultura ha continuato a procedere con sempre crescente rapidità. È perciò inutile postulare un modello di evoluzione umana discontinuo, tale da comportare una «diversità di genere» o un ruolo non selettivo della cultura durante tutte le fasi dello sviluppo degli ominidi per mantenere la generalizzazione stabilita empiricamente che «per quanto riguarda la loro capacità [innata] di imparare, conservare, trasmettere e trasformare la cultura, i diversi gruppi di Homo sapiens si devono considerare egualmente competenti»41. L’unità psichica forse non è più una tautologia, ma è ancora un fatto.
III
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Uno degli sviluppi più incoraggianti – per quanto stranamente ritardato – delle scienze del comportamento è l’attuale tentativo della psicologia fisiologica di ridestarci dall’incantesimo prodotto dalle meraviglie dell’arco riflesso. L’immagine convenzionale di un impulso sensorio che si fa strada attraverso un labirinto di sinapsi fino a giungere ad un nervo motorio sta per essere rivista, un quarto di secolo dopo che l’esponente più illustre di questa teoria aveva fatto notare che era inadeguata a spiegare gli aspetti integrati del comportamento di un passero o di un cane da pastore, per non parlare di un uomo42. La soluzione di Sherrington era una mente fantasmatica che coordinasse le cose (quella di Hull era un non meno misterioso quadro di comandi automatico)43. Oggi si avanza un’ipotesi più verificabile: il concetto di un modello ritmico, spontaneo, elaborato centralmente, di attività nervosa su cui si sovrappongono le configurazioni dello stimolo periferico e da cui emergono degli efficaci comandi effettori. Avanzando al motto di «un organismo attivo» e sostenuta dalla tesi del circuito anatomicamente chiuso di Gayal e de Nò44, questa nuova teoria sottolinea il modo in cui i processi in corso sia del cervello sia degli aggregati neuronali subordinati selezionano le istruzioni, fissano le esperienze e le altre reazioni così da produrre uno schema di comportamento finemente modulato: Il funzionamento del sistema nervoso centrale si può spiegare in termini di una gerarchia, in cui le funzioni ai livelli superiori non trattano direttamente con le unità strutturali finali, come i neuroni o le unità motorie, ma operano attivando strutture inferiori che hanno una loro unità strutturale relativamente autonoma. La stessa cosa vale per l’input sensoriale, che non si riproduce nell’ultimo processo comune dei neuroni motori, ma opera influenzando e in qualche modo modificando le strutture di coordinazione centrale in qualche modo preesistenti e preformate, che a loro volta
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trasmettono le loro modificazioni sui sistemi effettori inferiori e così via. L’output finale è il risultato di questa trasmissione gerarchicamente determinata di distorsioni e modificazioni di sistemi di eccitazione intrinsecamente strutturati che non sono in alcun modo copie dell’input. La struttura dell’input non determina la struttura dell’output, ma modifica solo le attività nervose intrinseche che hanno una propria organizzazione strutturale45.
L’ulteriore sviluppo di questa teoria di un sistema nervoso centrale eccitato autonomamente ed organizzato gerarchicamente, non solo promette di rendere meno misteriosa dal punto di vista fisiologico la vivace abilità del cane pastore di Sherrington, che raccoglie il suo gregge sparso sul fianco della collina, ma dovrebbe anche dimostrarsi efficace nel fornire un sostegno neurologico credibile al complesso di abilità e di attitudini che costituiscono la mente umana; la capacità di seguire una dimostrazione logica, o la tendenza ad agitarsi quando si è invitati a parlare, richiedono più di un arco riflesso, condizionato o no, per spiegare il loro fondamento biologico. E, come ha fatto notare Hebb, la nozione stessa di livelli di mentalità evolutivi «superiori» o «inferiori» sembra sottintendere una analoga graduazione nell’autonomia del sistema nervoso centrale: Spero di non scandalizzare i biologi dicendo che una caratteristica dello sviluppo filogenetico è la crescente dimostrazione di quello che in talune cerehie si conosce come libero arbitrio: quand’ero studente, si chiamava Legge di Harvard, ed afferma che, qualunque animale da esperimento ben addestrato, su stimolazione controllata, farà quel che diavolo gli piace. Una formulazione più dotta è che l’animale superiore è meno legato allo stimolo. L’azione del cervello è meno pienamente controllata dall’input relativo, perciò il comportamento è meno deducibile dalla situazione in cui viene posto l’animale. Si riconosce un ruolo maggiore all’attività ideativa nell’abilità dell’animale a «trattenere» per qualche tempo una gamma di stimoli prima di agire su di essi, e nel fenomeno del comportamento intenzionale. Nel cervello superiore c’è più attività autonoma e più selettività
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su quale attività afferente verrà integrata col «flusso di pensiero», l’attività dominante in uso nel controllo del comportamento. Tradizionalmente diciamo che il soggetto è «interessato» a questa parte dell’ambiente, non interessato a quella: in questi termini l’animale superiore ha una varietà di interessi più ampia, e l’interesse del momento ha una parte maggiore nel comportamento, il che significa una maggior imprevedibilità dello stimolo a cui si reagirà ed alla forma della reazione46.
Queste tendenze evolutive generali – capacità crescente a concentrare l’attenzione, a ritardare la reazione, variare l’interesse, mirare allo scopo e, in genere, trattare positivamente le complessità dello stimolo presente – culminano nell uomo facendone il più attivo degli organismi attivi, come anche il più imprevedibile. L’estrema complicazione, flessibilità ed ampiezza di quelli che Kluckhohn e Murray hanno giustamente definito i processi dominanti del cervello umano – i processi che rendono fisicamente possibili queste abilità – sono soltanto il risultato di uno sviluppo filogenetico definibile che si può far risalire fino ai celenterati47. Benché siano privi di una massa nervosa centrale – di un cervello – e perciò le varie parti dell’animale operino in relativa indipendenza, dato che ognuna possiede il suo corredo di elementi sensoriali, neurali e motorii, queste semplici meduse, anemoni di mare e simili mostrano tuttavia un grado sorprendente di modulazione intrinseca dell’attività nervosa: un forte stimolo ricevuto durante il giorno può esser seguito da locomozione nella notte successiva; certi coralli, assoggettati sperimentalmente ad eccessiva stimolazione, emettono una luminescenza che dura parecchi minuti, con una frenesia spontanea che fa pensare alla pazzia; e stimolazioni regolarizzate possono portare, attraverso qualche forma ancora oscura di «memoria», ad una coordinazione dell’attività nei diversi muscoli e ad una ricorrenza 118
prestrutturata di attività straordinaria48. Negli invertebrati superiori (come i crostacei) appaiono molteplici vie d’accesso, potenziali sinaptici graduati e reazioni provocate, permettendo un esatto controllo cardiaco delle funzioni interne come nel cuore dell’aragosta, mentre, passando ai vertebrati inferiori, si perfezionano sia gli elementi periferici sensoriali ed effettori sia la conduzione neuronaie tra di essi – appunto il famoso arco riflesso49. Ed infine gran parte delle innovazioni fondamentali nello schema dei circuiti nervosi – cioè i circuiti chiusi, la sovrapposizione strutturale e funzionale di circuiti di livello superiore su altri di livello inferiore e così via – si realizzò probabilmente con la comparsa dei mammiferi, quando si conseguirono anche le differenziazioni, almeno di base, del proencefalo50. In termini funzionali, sembra che tutto il processo sia stato di espansione e di diversificazione dell’attività nervosa endogena relativamente costante, e di centralizzazione quindi crescente di quelli che in precedenza erano processi parziali isolati, che agivano indipendentemente. Che tipo di evoluzione neuronaie si sia verificato durante la differenziazione filetica dei mammiferi – cioè, in particolare, durante lo sviluppo dei primati e degli ominidi – evidentemente è meno chiaro e più controverso. Da una parte Gerard ha dedotto che i cambiamenti sono stati quasi interamente quantitativi, una crescita del mero numero dei neuroni, che si è riflesso nella rapida espansione delle dimensioni del cervello: Gli ulteriori aumenti di capacità, che si vedono in modo più evidente nella linea dei primati e che culminano nell’uomo, sono dovuti ad un semplice aumento numerico piuttosto che ad un miglioramento delle unità e delle strutture. Che le dimensioni crescenti del cervello si accompagnino a maggiori prestazioni, anche per particolari regioni e funzioni (ad esempio la
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zona motoria della lingua e della parola) è un luogo comune: come esso operi è meno chiaro. Il semplice aumento del numero, senza specificazione secondaria (che pure ce) sembrerebbe incapace di generare nuove abilità e in grado solo di intensificarne delle vecchie, ma questo non è il caso… Nel cervello un aumento della popolazione anatomica dei neuroni eleva il numero dei neuroni di riserva e permette così una maggior varietà di selezione e maggior ricchezza di analisi e di combinazione espressa in un comportamento modificabile e capace di percezioni sempre più differenziate51.
Ma Bullock, benché concordi sul fatto che i sistemi nervosi degli animali superiori e dell’uomo non rivelino differenze importanti in termini di meccanismi o architetture neurofisiologici conosciuti, contesta radicalmente questo punto di vista, e conclude che è urgente cercare modalità di funzionamento nervoso non ancora scoperte, «livelli di crescente complessità di rapporti fisiologici tra neuroni in masse» per spiegare le sottigliezze del comportamento negli organismi progrediti: Anche se non possiamo segnalare elementi fondamentalmente nuovi nei meccanismi neuronali dei centri superiori, è tuttavia difficile presumere che l’enorme estensione delle loro capacità sia da attribuirsi unicamente al grande aumento della quantità e delle interconnessioni tra di essi, a meno che questo stesso fatto non comporti nuove proprietà e meccanismi. Evidentemente molti ritengono, come prima approssimazione, che il fattore principale nell’aumento delle complessità di comportamento nell’evoluzione sia il numero di neuroni – evocando anche una specie di massa critica che permette nuovi livelli di comportamento… [ma] sembra chiaro che il numero di neuroni è collegato così vagamente con la complessità di comportamento da spiegare poco, a meno che aggiungiamo, come parte essenziale, che certi tipi di neuroni, ora non definibili, oppure – il che è lo stesso – che certi tipi di proprietà più nuove di conseguenze o di architettura neuronale siano il substrato decisivo del progresso… Non credo che sia possibile spiegare il comportamento mediante estrapolazioni dell’attuale fisiologia dei neuroni. Il fattore principale del progresso evolutivo non risiede solo nei numero delle cellule e delle connessioni… La nostra speranza si basa sulla scoperta di nuovi sistemi di funzionamento neuronali52.
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Per un outsider l’aspetto che forse più colpisce in questa controversia è come le due parti sembrino a disagio e vagamente insoddisfatte delle versioni contrastanti del loro argomento, di quanto poco sembri plausibile anche a loro. Da una parte ce l’ammissione che l’esatta natura del rapporto tra dimensioni del cervello e complessità del comportamento è davvero poco chiara, e vengono avanzate alcune riserve sotto voce [in italiano nel testo] sulla «specificazione secondaria»; dall’altra c’è un imbarazzo palese riguardo l’evidente assenza di nuovi meccanismi e un fiducioso mormorio su «proprietà emergenti». Vi è una specie di accordo sul fatto che attribuire l’aumento della capacità mentale dei mammiferi solo e semplicemente a un complessivo aumento della popolazione di neuroni appare poco credibile. La differenza è che in un caso i dubbi sono acquetati dal fatto che esiste realmente un parallelismo tra le dimensioni crescenti del cervello e le prestazioni più ampie; mentre nell’altro i dubbi sono accentuati dal fatto che pare manchi qualcosa per rendere tale parallelismo spiegabile in modo soddisfacente. Questo problema si può forse chiarire, come suggerisce Gerard, coi progressi nella ricerca sui circuiti dei calcolatori dove le prestazioni migliorano effettivamente con una semplice moltiplicazione di unità identiche; oppure, come suggerisce Bullock, con approfondimenti ulteriori nell’analisi delle differenze chimiche tra le cellule nervose53. Ma più probabilmente la strada maestra per trovare la soluzione sta nell’abbandono della concettualizzazione decisamente nativistica del funzionamento nervoso nei mammiferi superiori che sembra implicita in entrambi i metodi. L’emergere sincronico nei primati di un proencefalo 121
espanso, di forme elaborate di organizzazione sociale e, almeno dopo che gli australopitechi cominciarono ad usare attrezzi, di modelli di cultura istituzionalizzati, indica che la procedura standard di trattare in serie i parametri biologici, sociali e culturali – il primo considerato primario rispetto al secondo, e il secondo al terzo – è errata. Al contrario, questi cosiddetti livelli dovrebbero intendersi come reciprocamente collegati e quindi da esaminare congiuntamente. E se si fa così, il tipo di nuove proprietà che cercheremo dentro il sistema nervoso centrale come base fisica dello straordinario sviluppo di campi autonomi di continua eccitazione neurale nei primati in genere e nell’uomo in particolare, sarà radicalmente diverso dal tipo di proprietà che cercheremmo se considerassimo quei campi «logicamente e geneticamente precedenti» alla società ed alla cultura, e perciò richiedenti una piena determinazione unicamente in termini di parametri fisiologici intrinseci. Forse abbiamo chiesto troppo ai neuroni; o, se non troppo, quanto meno la cosa sbagliata. Infatti, per quanto riguarda l’uomo, una delle caratteristiche più sorprendenti del suo sistema nervoso centrale è la relativa incompletezza con cui, agendo solo entro i limiti di modalità auto-costituite, è in grado di specificare il comportamento. In genere, quanto più l’animale è inferiore, tanto più tende a reagire ad uno stimolo «minaccioso» con una serie intrinsecamente connessa di attività preordinate che, prese insieme, formano una reazione di «fuga» o «combattimento»54 relativamente stereotipata – che non vuol dire non appresa55. La risposta tipica dell’uomo ad un simile stimolo tende invece a consistere in una diffusa eccitazione da «paura» o da 122
«rabbia», di intensità variabile, accompagnata da poche (se pure ci sono) modalità di comportamento automaticamente preordinate, ben definite. Come un animale spaventato, un uomo impaurito può correre, nascondersi, infuriarsi, fingere, calmarsi o, preso dal panico, attaccare: ma nel suo caso la precisa configurazione di questi atti generici è guidata prevalentemente da moduli più culturali che genetici. Nella sfera sempre rivelatrice del sesso, dove il controllo del comportamento procede filogeneticamente dalle gonadi all’epifisi, sino alla preponderanza del sistema nervoso centrale, è evidente una tendenza evolutiva simile, che conduce da sequenze di attività fisse ad un’eccitazione generalizzata e ad una «crescente flessibilità e capacità di modificazione dei modelli sessuali»; e di questa tendenza la giustamente famosa variazione culturale nelle pratiche sessuali dell’uomo parrebbe rappresentare un’estensione logica56. Quindi, con un apparente paradosso, la crescente autonomia, la complessità gerarchica e la predominanza dell’attività del sistema nervoso centrale sembrano accompagnarsi ad una determinazione meno dettagliata di tale attività da parte del sistema nervoso centrale in sé e di per sé, cioè intrinsecamente. Tutto questo indica che alcuni degli sviluppi più importanti nell’attività neuronale avvenuti durante il periodo di sovrapposizione tra il cambiamento biologico e quello socioculturale migliorano le capacità di prestazione del sistema nervoso centrale, ma ne riducono l’autonomia funzionale. Da questo punto di vista appare del tutto errata la concezione consolidata che il funzionamento della mente sia essenzialmente un processo intracerebrale, che può essere aiutato o amplificato solo in via secondaria dai vari 123
meccanismi artificiosi che quello stesso processo ha permesso all’uomo di inventare. Al contrario, essendo impossibile una definizione esauriente, pienamente specificata dei processi nervosi superiori in termini di parametri intrinseci, il cervello umano è completamente dipendente dalle risorse culturali per il suo stesso funzionamento; e queste risorse sono di conseguenza non aggiuntive, ma costitutive dell’attività mentale. Infatti il pensare come atto palese, pubblico, che comprende la deliberata manipolazione di materiali oggettivi, è probabilmente fondamentale per gli esseri umani; ed il pensare come atto occulto, privato e senza il ricorso a questi materiali è una capacità derivata, anche se non inutile. Come dimostra l’osservazione del modo in cui gli scolaretti imparano a fare i conti, sommare i numeri con la testa è effettivamente un’abilità più sofisticata che sommarli con carta e matita, sistemando dei bastoncini o contando le dita delle mani e dei piedi. Leggere a voce alta è un’abilità più elementare che leggere mentalmente, visto che quest’ultima si e sviluppata di fatto solo nel Medioevo57. E spesso si è giunti alla stessa conclusione per la parola: tranne che nei momenti di maggiore riflessione, siamo tutti come la vecchietta di Forester – non sappiamo che cosa pensiamo finché non vediamo quel che diciamo. Contro quest’ultimo punto si è talvolta obiettato che «le prove comparate, come pure la letteratura scientifica sull’afasia, mettono il pensiero in posizione precedente rispetto al discorso, e non condizionato da questo»58. Ma questa obiezione, benché abbastanza vera di per sé, non indebolisce la posizione generale qui assunta – che la cultura umana sia un ingrediente, non una mera aggiunta del 124
pensiero umano – per parecchie ragioni. Primo, il fatto che animali subumani imparino a ragionare con efficacia talvolta sorprendente, senza imparare a parlare, non prova che lo possano fare gli uomini, non più di quanto il fatto che un topo possa copulare senza la mediazione dell’apprendimento imitativo o della pratica dimostri che possa farlo anche uno scimpanzé. In secondo luogo, gli afasici sono persone che hanno imparato a parlare e ad interiorizzare il discorso e poi hanno perduto (o, più spesso, perduto parzialmente) la prima di queste due capacità, non persone che non hanno mai imparato a parlare del tutto. Terzo, e importantissimo, la parola nel senso specifico di discorso vocalizzato è lontana dall’essere il solo strumento pubblico disponibile a individui proiettati in un ambiente culturale preesistente. Casi come quello di Helen Keller59, che imparò a pensare combinando la manipolazione di oggetti culturali come boccali e rubinetti con l’apprendimento di sensazioni tattili sulla sua mano appositamente provocate dalla sua insegnante Miss Sullivan, o come un bimbo non ancora in età di parlare che sviluppa il concetto di numero ordinale mediante due pile parallele di cubi assortiti, dimostrano che la cosa essenziale è l’esistenza di un palese sistema simbolico di qualunque tipo60. Per l’uomo in particolare concepire il pensiero come un processo essenzialmente privato è trascurare quasi completamente che cosa fanno effettivamente le persone quando sono intente a ragionare: Pensare per immagini è né più né meno che costruire un immagine dell’ambiente, far andare il modello più in fretta dell’ambiente e predire che l’ambiente si comporterà come fa il modello… Il primo passo verso la soluzione di un programma consiste nella costruzione di un modello o di un’immagine delle «caratteristiche rilevanti» [dell’ambiente]. Questi modelli
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si possono costruire partendo da molte cose, comprese parti del tessuto organico del corpo e, dall’uomo, con carta, matita e veri e propri manufatti. Una volta che il modello è stato costruito, può essere manipolato sotto varie condizioni e costrizioni ipotetiche. L organismo può quindi «osservare» il risultato di queste manipolazioni e proiettarle nell’ambiente in modo da rendere possibile una predizione. Secondo questa concezione, quando un ingegnere aeronautico manipola il modello di un nuovo aeroplano in una galleria a vento sta pensando. L’automobilista pensa quando fa scorrere il dito su una linea della carta geografica, dove il dito serve da modello degli aspetti rilevanti dell’automobile, la carta come modello della strada. Modelli esteriori di questo tipo si usano spesso pensando a complessi [ambienti]. Le immagini usate nel pensiero interiore dipendono dalla disponibilità degli avvenimenti fisico-chimici dell’organismo che si devono usare per formare dei modelli61.
Questa concezione del pensiero riflesso in quanto formato non da avvenimenti che accadono nella testa ma dall’accostamento degli stati e dei processi di modelli simbolici con stati e processi del mondo più ampio implica inoltre che è il deficit di stimolo che fa iniziare l’attività mentale e la «scoperta» dello stimolo che la fa terminare62. L’automobilista che fa scorrere il dito su una carta stradale lo fa perché è privo di informazioni sul modo come arrivare alla sua meta, e smetterà di farlo quando avrà acquisito quell’informazione. L ingegnere compie i suoi esperimenti nella galleria del vento per scoprire come si comporta il suo modello di aereo in varie condizioni aerodinamiche prodotte artificialmente, e smetterà di compierli se e quando lo scoprirà davvero. Un uomo che cerca una moneta in tasca lo fa perché gli manca una moneta in mano e smette di cercare quando ne viene in possesso – o, naturalmente, quando giunge alla conclusione che tutto il progetto è inutile, perché si dà il caso che non abbia una moneta simile in tasca, o che è antieconomico, perché lo sforzo che comporta è tale che la ricerca «costa di più di quanto non 126
ottenga»63. A parte i problemi di motivazione (che implicano un diverso senso del «perché»), il ragionamento orientato in base a un piano comincia con la perplessità e finisce o con l’abbandono della ricerca o con la soluzione della perplessità. «La funzione del pensiero riflessivo è… trasformare una situazione in cui si sperimenta oscurità… di qualche tipo, in una situazione che è chiara, coerente, stabilita ed armoniosa»64. Insomma il ragionamento umano, nel senso specifico di ragionamento orientato in base a un piano, dipende dalla manipolazione di certi tipi di risorse culturali in modo tale da produrre (scoprire, selezionare) gli stimoli ambientali necessari – per qualunque scopo – all’organismo; è una ricerca di informazioni. E questa ricerca è tanto più pressante a causa dell’alto grado di genericità delle informazioni rese intrinsecamente disponibili all’organismo da fonti genetiche. Quanto più l’animale è inferiore, tanto meno gli occorre scoprire dettagliatamente l’ambiente prima dell’azione: gli uccelli non hanno bisogno di costruire gallerie del vento per sperimentare i principi dell’aerodinamica prima di imparare a volare – li «conoscono» già. L’«unicità» dell’uomo è stata spesso espressa nei termini di quanto e quante cose diverse è capace di apprendere. Che le scimmie, i piccioni e perfino i polipi possano di tanto in tanto sconcertarci con le cose piuttosto «umane» che si dimostrano capaci di imparare a fare, in linea generale questo è abbastanza vero. Ma ha un’importanza teorica forse ancor più fondamentale sottolineare quanto e quante cose l’uomo debba apprendere. Spesso si è fatto notare che nella sua condizione «fetale», di essere «domesticato» e generalmente poco robusto com’è, 127
l’uomo sarebbe un animale fisicamente poco valido senza la cultura65. Meno di frequente si è notato che sarebbe poco valido anche mentalmente66. Tutto ciò vale tanto per il lato affettivo del pensiero umano quanto per il lato intellettivo. In una serie di libri ed articoli, Hebb ha elaborato la stimolante teoria che il sistema nervoso umano (e in grado corrispondentemente minore quello degli animali inferiori) ha bisogno di un flusso relativamente continuo di stimoli ambientali esistenti allo stato ottimale come condizione preliminare per una prestazione competente67. Da una parte il cervello dell’uomo non è «come una macchina calcolatrice azionata da un motore elettrico, che può restare in ozio, senza input, per periodi indefiniti; deve invece essere tenuto riscaldato e in azione con un input costantemente variato, almeno durante i periodi di veglia, se deve funzionare efficacemente»68. D’altra parte, data la fortissima suscettibilità emotiva intrinseca dell’uomo, questo input non può essere troppo intenso, troppo variato, troppo sconvolgente perché ne deriverebbero un collasso emotivo e uno sfascio completo del processo del pensiero. Tanto la noia quanto l’isteria sono nemiche della ragione69. Quindi, visto che «l’uomo è l’animale più emotivo come pure il più razionale», è necessario un accuratissimo controllo culturale degli stimoli della paura, della rabbia, della suggestione – attraverso i tabù, la standardizzazione del comportamento, la rapida «razionalizzazione» di stimoli sconosciuti in termini di concetti familiari e così via – per impedire una continua instabilità affettiva, una oscillazione costante tra gli estremi della passione70. Ma poiché l’uomo non sa agire con efficienza in assenza di un grado 128
abbastanza elevato di attivazione emotiva ragionevolmente persistente, sono ugualmente necessari meccanismi culturali che assicurino la pronta disponibilità del tipo di esperienza sensoriale, continuamente variabile, che può alimentare queste attività. I regolamenti istituzionalizzati che proibiscono l’esposizione dei cadaveri al di fuori di contesti ben definiti (come i funerali), proteggono un animale particolarmente eccitabile dai timori suscitati dalla morte e dalla distruzione del corpo; osservare o partecipare a corse automobilistiche (che non avvengono tutte su pista) stimola piacevolmente le stesse paure. Combattere per un. premio suscita sentimenti ostili; una affabilità interpersonale fortemente istituzionalizzata li modera. Gli impulsi erotici sono eccitati da una serie di artifici indiretti che evidentemente non finiscono mai; ma sono trattenuti dallo scatenarsi, privilegiando lo svolgimento in privato di attività esplicitamente sessuali. Contrariamente a quanto indicano questi esempi piuttosto semplicistici, il raggiungimento di una vita emotiva funzionale, ben ordinata, chiaramente articolata non è per l’uomo una semplice questione di ingegnoso controllo strumentale, una specie di abile ingegneria idraulica degli affetti: si tratta piuttosto di dare una forma specifica, esplicita, determinata, al flusso generale, diffuso e continuo delle sensazioni corporee; di imporre alle continue variazioni di sensibilità a cui siamo soggetti per natura un ordine riconoscibile, sensato, così che possiamo non solo sentire ma anche sapere che cosa sentiamo ed agire conseguentemente: [è] l’attività mentale… [che] principalmente determina il modo in cui una persona affronta il mondo circostante. La pura sensazione – ora il dolore, ora
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il piacere – non avrebbe nessuna unità, e cambierebbe la recettività del corpo per futuri piaceri e dolori solo in modi rudimentali. È la sensazione, ricordata e anticipata, temuta o cercata, o anche immaginata ed evitata, che è importante nella vita umana. È la percezione plasmata dall’immaginazione che ci dà il mondo esterno che conosciamo. Ed è la continuità del pensiero che sistematizza le nostre reazioni emotive in atteggiamenti con toni affettivi distinti, e crea un certo campo d’azione per le passioni dell’individuo. In altri termini: in virtù del nostro pensiero e della nostra immaginazione noi abbiamo non solo sentimenti, ma una vita di sentimenti71.
In questo contesto, la nostra funzione mentale si sposta da una raccolta di informazioni sulla struttura degli avvenimenti nel mondo esterno per se verso una determinazione del significato affettivo, dell’importanza emotiva di quello schema di avvenimenti. Non ci interessa risolvere i problemi, ma chiarire i sentimenti. Ciononostante, l’esistenza di risorse culturali, di un sistema adeguato di simboli collettivi, è essenziale a questo tipo di procedimento come lo è a quello del ragionamento direttivo. E quindi lo sviluppo, la conservazione ed il dissolvimento di «stati d’animo», «atteggiamenti», «sentimenti» e così via – che sono «sentimenti» nel senso di stati o condizioni, non sensazioni o motivazioni – non costituiscono negli esseri umani un’attività fondamentalmente privata più di quanto lo sia il «pensiero» direttivo. L’uso di una carta stradale ci permette di fare l’itinerario da San Francisco a New York con precisione, la lettura dei romanzi di Kafka ci permette di formarci un atteggiamento specifico e ben definito nei riguardi della moderna burocrazia. Noi acquistiamo l’abilità di progettare aeroplani che volano nelle gallerie del vento; noi sviluppiamo la capacità di sentire un vero timore reverenziale in chiesa. Il bambino conta sulle dita prima di contare «nella testa»; sente l’amore sulla pelle prima di 130
sentirlo «nel cuore». Non soltanto le idee, ma anche le emozioni nell’uomo sono manufatti culturali72. Considerata la mancanza di specificità di sentimento intrinseco nell’uomo, il raggiungimento di un flusso ottimale di stimolazione al suo sistema nervoso è un’operazione molto più complicata di una prudente navigazione tra il «troppo» e il «troppo poco». Comporta piuttosto una regolazione qualitativa molto delicata di quello che penetra attraverso l’apparato sensoriale; una questione, ancora, più di attiva ricerca degli stimoli richiesti che di semplice vigile attesa di essi. Dal punto di vista neurologico, questa regolazione si ottiene con impulsi efferenti dal sistema nervoso centrale che modificano l’attività ricettoria73. Dal punto di vista psicologico, lo stesso processo si può definire nei termini di controllo attitudinale della percezione74. Ma il punto è che nell’uomo non si possono formare con sufficiente precisione né campi predominanti né sistemi mentali in assenza di una guida da parte di modelli simbolici di emozione. Per prendere una decisione dobbiamo conoscere i nostri sentimenti riguardo alle cose, e per conoscere questi abbiamo bisogno delle immagini pubbliche del sentimento che soltanto il rituale, il mito e l’arte possono fornire.
IV Il termine «mente» si riferisce ad un certo insieme di disposizioni di un organismo. La capacità di contare è una caratteristica mentale, così come l’allegria perenne ed anche l’avidità – sebbene qui non sia stato possibile discutere il 131
problema della motivazione. Quello dell’evoluzione della mente non è quindi né un falso problema generato da una metafisica sbagliata, né una questione di scoprire in che punto della storia della vita un’anima invisibile fu preposta alla materia organica. Si tratta invece di ricostruire lo sviluppo di certi tipi di abilità, capacità, tendenze e propensioni negli organismi e di identificare i fattori o i tipi di fattori da cui dipende l’esistenza di tali caratteristiche. Secondo recenti ricerche antropologiche75 si può ritenere errata l’opinione prevalente che le disposizioni mentali dell’uomo siano geneticamente antecedenti alla cultura e che le sue effettive capacità rappresentino l’amplificazione o l’estensione di queste precedenti disposizioni per mezzo della cultura. Il fatto evidente che gli stadi finali dell’evoluzione biologica dell’uomo vennero dopo le fasi iniziali della crescita della cultura implica che la natura umana «basilare», «pura» e «incondizionata», nel senso di costituzione innata dell’uomo, è tanto incompleta funzionalmente da risultare inefficiente. Gli attrezzi, la caccia, l’organizzazione familiare e poi l’arte, la religione e la «scienza» modellarono l’uomo somaticamente, e sono quindi necessari non solo alla sua sopravvivenza ma alla sua realizzazione esistenziale. L’applicazione di questa concezione riveduta dell’evoluzione umana conduce all’ipotesi che le risorse culturali siano ingredienti fondamentali, e non già semplici accessori, del pensiero umano. Muovendosi filogeneticamente dagli animali inferiori a quelli superiori, il comportamento è caratterizzato da una crescente imprevedibilità attiva rispetto agli stimoli presenti, una tendenza sorretta evidentemente sotto il profilo fisiologico 132
da una crescente complessità e prevalenza delle strutture di attività nervosa che procedono dal centro. Fino al livello dei mammiferi inferiori, si può spiegare almeno la maggior parte di questa crescita di zone centrali autonome nei termini dello sviluppo di nuovi meccanismi neurali, ma nei mammiferi superiori questi nuovi meccanismi finora non sono stati trovati. Benché il semplice aumento numerico dei neuroni possa probabilmente spiegare da solo lo sviluppo della capacità mentale nell’uomo, il fatto che il grosso cervello dell’uomo e la cultura umana sono emersi sincronicamente e non in serie indica che i più recenti sviluppi nell’evoluzione della struttura nervosa consistono nella comparsa di meccanismi che permettono il mantenimento di campi di predominio più complessi ed al tempo stesso rendono sempre meno possibile la definizione esauriente di questi campi in termini di parametri intrinseci (innati). Il sistema nervoso umano si affida inevitabilmente all’accessibilità di strutture simboliche pubbliche per costruire il suo schema autonomo di attività. Questo implica a sua volta che il pensiero umano è in primo luogo un atto palese svolto con i materiali oggettivi della cultura comune, e solo secondariamente una questione privata. Sia per quanto riguarda il ragionamento direttivo sia per l’espressione di sentimenti, come pure l’integrazione di questi sino a formare motivazioni, i processi mentali dell’uomo si svolgono sul banco dello studente o sul campo di calcio, nello studio dell’artista o sul sedile del camionista, sul marciapiede di una stazione, davanti a una scacchiera, o al banco del giudice. L’isolazionista sostiene che la cultura, l’organizzazione sociale, il comportamento individuale o la fisiologia nervosa sono essenzialmente dei sistemi chiusi; al 133
contrario, il progresso dell’analisi scientifica della mente umana presuppone un attacco congiunto praticamente da parte di tutte le scienze comportamentali, in cui le scoperte di ciascuna di esse imporranno continue nuove riformulazioni teoriche alle altre.
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Parte terza
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4. La religione come sistema culturale Ogni tentativo di parlare senza parlare una lingua particolare non è più disperato del tentativo di avere una religione che non dev’essere nessuna religione in particolare… Perciò ogni religione viva e sana ha una spiccata caratteristica. Il suo potere consiste nel suo messaggio speciale e sorprendente e nella direzione che questa rivelazione imprime alla vita. Le prospettive che apre e i misteri che propone sono un altro mondo in cui vivere: e un altro mondo in cui vivere – che ci aspettiamo di entrarci interamente oppure no – è ciò che intendiamo con avere una religione. Santayana, La ragione nella religione
I Confrontando il lavoro antropologico sulla religione svolto dopo la seconda guerra mondiale con quello compiuto subito prima e subito dopo la prima guerra mondiale mi colpiscono due caratteristiche. Una è che l’antropologia non ha fatto su questo fronte progressi teorici di grande rilievo: sta vivendo sul capitale concettuale dei suoi antenati, aggiungendovi molto poco, salvo un certo arricchimento empirico. La seconda è che essa trae i propri concetti da una tradizione intellettuale molto circoscritta: ci sono Durkheim, Weber, Freud o Malinowski, e in ogni lavoro particolare si segue la prospettiva di una o due di queste figure eccezionali, con solo alcune correzioni marginali rese necessarie dalla tendenza naturale all’eccesso delle menti molto fervide, o dalla espansione dell’insieme dei dati descrittivi a cui si può fare riferimento. A nessuno 136
viene in mente di guardare altrove – alla filosofia, alla storia, al diritto, alla letteratura o alle scienze «più dure» – come invece fecero questi autori famosi, per cercarvi idee analitiche. E mi viene da pensare anche che queste due curiose caratteristiche siano collegate. Se l’analisi antropologica della religione è in effetti in uno stato di stagnazione generale, dubito che si rimetterà in movimento producendo altre lievi varianti sui temi teorici classici. Tuttavia una più meticolosa dimostrazione di alcune tesi ben radicate – come quella che il culto degli antenati sorregge l’autorità giuridica degli anziani, che i riti di iniziazione sono mezzi per stabilire l’identità sessuale e lo status di adulto, che le affiliazioni rituali riflettono le opposizioni politiche, o che i miti costituiscono gli statuti delle istituzioni e giustificano i privilegi sociali – può alla fine convincere molte persone, all’interno e fuori della professione, che gli antropologi, come i teologi, si dedicano con tenacia a dimostrare l’indubitabile. Nell’arte questa solenne riproduzione delle acquisizioni di maestri ormai riconosciuti si chiama accademismo, e io penso che questo sia il nome adatto anche alla nostra malattia. Solo se abbandoniamo, per usare una frase di Leo Steinberg, quel dolce senso di compiuta realizzazione che ci viene dall’esibire capacità abituali e ci rivolgiamo a problemi abbastanza oscuri da rendere possibili nuove scoperte, possiamo sperare di compiere un lavoro che non si limiterà a ricalcare quello dei grandi autori del primo quarto di secolo, ma ne reggerà il confronto1. Il modo per fare tutto ciò non consiste nell’abbandonare le tradizioni costituite dell’antropologia sociale in questo campo, ma nell’ampliarle. Almeno quattro dei contributi 137
degli studiosi che, a mio parere, dominano il nostro pensiero fino al punto di renderlo provinciale – la discussione di Durkheim sulla natura del sacro, la metodologia weberiana del Verstehen, il parallelo di Freud tra i rituali personali e quelli collettivi, e le indagini di Malinowski sulla distinzione tra religione e senso comune – mi sembrano punti di partenza inevitabili per qualunque utile teoria antropologica della religione. Ma sono solo punti di partenza. Per andare oltre dobbiamo porli in un quadro del pensiero contemporaneo molto più ampio di quello che essi da soli abbracciano. I rischi di questa strategia sono ovvi: eclettismo arbitrario, teorizzazione superficiale e semplice confusione mentale. Io però non riesco a scorgere nessun’altra via d’uscita da quella che, riferendosi all’antropologia più in generale, Janowitz ha chiamato «l’influenza opprimente della competenza»2. Lavorando a favore di questa espansione dell’ambito concettuale in cui si svolgono i nostri studi, ci si può muovere, naturalmente, in molte direzioni: e forse il problema iniziale più importante è evitare di partire contemporaneamente in tutte queste direzioni, come il poliziotto a cavallo di Stephen Leacock. Da parte mia mi limiterò a sviluppare, seguendo Parsons e Shils, quella che definisco la dimensione culturale dell’analisi religiosa3. Il termine «cultura» ha ormai acquisito una certa aura di cattiva fama nelle cerchie dell’antropologia sociale, per la molteplicità dei suoi referenti e la voluta indeterminatezza con cui lo si è troppo spesso chiamato in causa. (Per quanto io non capisca bene perché dovrebbe essere più inadeguato di «struttura sociale» o di «personalità».) In ogni caso, il concetto di cultura a cui aderisco non ha né una molteplicità 138
di referenti né, per quanto posso vedere, alcuna insolita ambiguità: denota un modello di significati trasmesso storicamente, significati incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita. Naturalmente termini come «significato», «simbolo» e «concezione» richiedono una spiegazione, ma è proprio qui che entrano in gioco l’ampliamento, l’allargamento e l’espansione di cui ho parlato. Se Langer ha ragione quando dice che «il concetto di significato, in tutte le sue varietà, è il concetto filosofico dominante del nostro tempo», che «segno, simbolo, denotazione, significazione, comunicazione… sono la nostra riserva [intellettuale]», è forse tempo che l’antropologia sociale, e specialmente quella parte che riguarda lo studio della religione, ne divenga consapevole4.
II Poiché dobbiamo trattare del significato, cominciamo con un paradigma: i simboli sacri servono a sintetizzare l’ethos di un popolo – il tono, il carattere e la qualità della sua vita, il suo stile ed il suo sentimento morale ed estetico, nonché la sua visione del mondo, l’immagine che ha di come sono effettivamente le cose, le sue idee più generali di ordine. Nella credenza e nella pratica religiosa l’ethos di un gruppo è reso intellettualmente razionale quando si dimostri che esso rappresenta un modo di vivere idealmente adattato allo stato effettivo di cose che la visione del mondo descrive, 139
mentre la visione del mondo è resa emotivamente convincente venendo presentata come immagine di un effettivo stato di cose specificamente congegnate per accordarsi con questo modo di vivere. Questo confronto e questa reciproca conferma hanno due effetti fondamentali. Da un lato oggettivizzano le preferenze morali ed estetiche, presentandole come le condizioni di vita imposte implicite in un mondo che ha una particolare struttura, come semplice buon senso data la forma inalterabile della realtà. Dall’altro, sorreggono queste credenze consolidate sul nucleo del mondo richiamandosi a sentimenti morali ed estetici profondamente sentiti come prova sperimentale della loro verità. I simboli religiosi esprimono una coerenza di base tra un particolare stile di vita e una metafisica specifica (anche se molto spesso implicita) e in tal modo si sostengono a vicenda con l’autorità presa a prestito l’uno dall’altro. Formulazione a parte, questo si può forse dare per scontato. Il concetto secondo cui la religione accorda le azioni umane con un ordine cosmico prefigurato e proietta immagini di ordine cosmico sul piano dell’esperienza umana non è per nulla nuovo, ma non è neppure stato studiato, per cui non sappiamo molto bene come si compia in termini empirici questo particolare miracolo. Sappiamo solo che avviene ogni anno, mese, settimana, giorno, per certuni quasi ogni ora, ed abbiamo un’enorme letteratura etnografica per dimostrarlo. Ma non esiste la struttura teorica che ci permetterebbe di fornirne un resoconto analitico, come quello che possiamo fornire per la segmentazione del lignaggio, la successione politica, il mercato del lavoro o la socializzazione del bambino. 140
Riduciamo quindi il nostro paradigma ad una definizione, perché, anche se le definizioni notoriamente non stabiliscono nulla, di per se stesse forniscono, se costruite con sufficiente cura, un utile orientamento o riorientamento del pensiero, così che la loro esplicitazione può essere un modo efficace di sviluppare e controllare una nuova direzione di indagine. Esse hanno l’utile virtù della chiarezza: sono chiare come non è la prosa discorsiva che, specialmente in questo campo, sostituisce spesso il ragionamento con la retorica. Senza altri preamboli, una religione allora è: 1) un sistema di simboli che opera (o funziona) 2) stabilendo profondi, diffusi e durevoli stati d’animo e motivazioni negli uomini per mezzo della 3) formulazione di concetti di un ordine generale dell’esistenza e del 4) rivestimento di questi concetti con un’aura di concretezza tale che 5) gli stati d’animo e le motivazioni sembrano assolutamente realistici.
1. Un sistema di simboli che opera… Sulla parola «simbolo» grava un carico così pesante che la nostra prima mossa deve consistere nel decidere con una certa precisione che cosa vogliamo intendere con essa. Non è un compito facile perché «simbolo», come «cultura», è stato usato riferendosi a una grande varietà di cose, spesso a parecchie insieme e contemporaneamente. Da certuni è usato per ogni cosa che significhi per qualcuno qualcos’altro: le nuvole scure sono i precursori simbolici di una pioggia imminente. Da altri è usato solo per segni esplicitamente convenzionali di questo o quel tipo: 141
una bandiera rossa è simbolo di pericolo, una bianca di resa. Per altri ancora è limitato a qualcosa che esprime in modo indiretto e figurato ciò che non si può esprimere in modo diretto e letterale, così che vi sono simboli nella poesia ma non nella scienza, e logica simbolica è una espressione errata. Altri ancora, tuttavia, lo usano per ogni oggetto, atto, avvenimento, qualità o rapporto che serva da veicolo per un concetto – il concetto è il «significato» del simbolo – e questo è il punto di vista che seguirò qui5. Il numero 6 scritto, immaginato, rappresentato da una fila di sassi o anche dai fori nelle schede di un calcolatore, è un simbolo; ma lo è anche la Croce, discussa, visualizzata, tracciata con preoccupazione nell’aria o toccata con devozione al collo, lo è il pezzo di tela pitturata chiamata «Guernica» o la pietra dipinta chiamata churinga, la parola «realtà» e perfino il morfema «-endo». Sono tutti simboli, o almeno elementi simbolici, perché sono formulazioni tangibili di nozioni, astrazioni dall’esperienza fissate in forme percepibili, incarnazioni concrete di idee, atteggiamenti, giudizi, desideri o credenze. Intraprendere lo studio dell’attività culturale – attività di cui il simbolismo forma il contenuto positivo – non significa dunque abbandonare l’analisi sociale per una platonica caverna di ombre, entrare in un mondo mentale di psicologia introspettiva o, peggio, di filosofia speculativa e vagarvi per sempre in una nebbia di «Cognizioni», «Affetti», «Volizioni» ed altre entità sfuggenti. Gli atti culturali, la costruzione, l’apprendimento e l’utilizzazione di forme simboliche sono eventi sociali come qualsiasi altro: sono pubblici come il matrimonio, ed osservabili come l’agricoltura.
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Non sono però esattamente la stessa cosa: o, per meglio dire, la dimensione simbolica degli eventi sociali, come quella psicologica, è teoricamente astraibile da quegli avvenimenti come totalità empiriche. Per parafrasare un’osservazione di Kenneth Burke, c’è pur sempre una differenza tra costruire una casa e disegnare il progetto per costruire una casa, e leggere una poesia sul mettere al mondo dei figli nel matrimonio non è proprio la stessa cosa che avere bambini col matrimonio6. Anche se la costruzione della casa può procedere sotto la guida del progetto o – evento meno probabile – l’aver bambini può essere motivato dalla lettura della poesia, si deve dire qualcosa per non confondere il nostro rapporto con i simboli con quello con oggetti o esseri umani, perché questi ultimi non sono di per sé simboli, anche se possono spesso funzionare come tali7. Per quanto profondamente nella vita quotidiana di una famiglia, o di una fattoria, nelle poesie e nei matrimoni possano intrecciarsi il culturale, il sociale e lo psicologico, nell’analisi è utile distinguerli e, così facendo, isolare i tratti generici di ciascuno sullo sfondo uniformizzato degli altri due. Per quanto riguarda i modelli culturali, cioè i sistemi o i complessi di simboli, il tratto generale che è per noi di maggior importanza qui è che essi sono fonti estrinseche di informazione. Per «estrinseche» intendo solo che – a differenza dei geni, ad esempio – si trovano all’esterno dei confini dell’organismo umano come tale, in quel mondo intersoggettivo di conoscenze comuni in cui nascono tutti gli individui, in cui essi perseguono le loro carriere separate e che lasciano così com’è dopo che sono morti. Con «fonti di informazione» intendo solo che – come i geni – essi 143
forniscono un progetto o un ricalco nei cui termini si può dare una forma definita ai processi a loro esterni. Come l’ordine delle basi in una spirale di Dna forma un programma codificato, una serie di istruzioni o una prescrizione per la sintesi delle proteine strutturalmente complesse che danno forma al funzionamento organico, così i modelli culturali forniscono programmi simili per l’istituzione dei processi sociali e psicologici che danno forma al comportamento collettivo. Benché il tipo di informazioni e le modalità di trasmissione siano molto diversi nei due casi, questo paragone tra gene e simbolo non è un’analogia forzata del tipo della ben nota «ereditarietà sociale». È in effetti un rapporto sostanziale, dato che è proprio perché i processi programmati geneticamente sono tanto generici nell’uomo, in confronto con gli animali inferiori, che quelli programmati culturalmente sono così cruciali: è solo perché il comportamento umano è determinato così poco dalle fonti di informazione intrinseche, che quelle estrinseche sono così cruciali. Per costruire una diga un castoro ha bisogno solo di un luogo adatto e di materiali adeguati – le sue modalità di azione sono foggiate dalla sua fisiologia. Ma l’uomo, i cui geni tacciono in materia di costruzioni, ha bisogno anche di una concezione di cosa significhi costruire che può attingere solo da qualche fonte simbolica – un progetto, un libro di testo o le parole di qualcuno che sa già come si costruiscono le dighe – o, naturalmente, può attingere dalla manipolazione di elementi grafici o linguistici in modo da farsi un’idea di che cosa sono le dighe e come si costruiscono. Questo punto viene a volte discusso asserendo che le strutture culturali sono «modelli», che sono insiemi di 144
simboli i cui reciproci rapporti costituiscono il «modello» dei rapporti tra le entità, i processi o tutto quello che vi è nei sistemi fisici, organici, sociali o psicologici, «riproducendoli», «imitandoli» o «simulandoli»8. Nel termine «modello» sono contenuti tuttavia due sensi – un senso «di» e uno «per» – e, benché siano solo aspetti dello stesso concetto di base, vale la pena di distinguerli per scopi analitici. Nel primo si mette in rilievo la manipolazione delle strutture simboliche in modo da portarle più o meno in parallelo con i sistemi non simbolici prestabiliti, come quando afferriamo il funzionamento delle dighe sviluppando una teoria di idraulica o costruendo un diagramma di flusso. La teoria o il diagramma propongono un modello dei rapporti fisici in modo tale da renderne possibile l’apprendimento – e cioè esprimendo la loro struttura in forma sinottica si tratta di un modello di «realtà». Nel secondo è messa in rilievo la manipolazione dei sistemi non simbolici nei termini dei rapporti espressi in quelli simbolici, come quando costruiamo una diga secondo le caratteristiche implicite in una teoria idraulica o nelle conclusioni tratte da un diagramma di flusso. Qui la teoria è un modello sotto la cui guida sono organizzati i rapporti fisici: è un modello per la «realtà». È la stessa cosa per i sistemi psicologici e sociali, e per i modelli culturali che di solito non si definiscono «teorie» ma piuttosto «dottrine», «melodie» o «riti». A differenza dei geni e delle altre fonti di informazione non simboliche, che sono soltanto modelli per e non modelli di, i modelli culturali hanno un duplice aspetto intrinseco: essi conferiscono significato, cioè forma concettuale oggettiva, a realtà sociali e psicologiche sia conformandosi ad esse sia plasmandole. 145
È questo duplice aspetto a distinguere i veri simboli dagli altri tipi di forme significative. I modelli per si trovano, come indica l’esempio del gene, in tutto l’ordine della natura, perché dovunque vi sia la comunicazione di un modello si richiedono, a rigor di logica, simili programmi. Tra gli animali, l’apprendimento per imprinting è forse l’esempio più probante, perché implica la presentazione automatica di una appropriata sequenza di comportamento da parte di un animale modello alla presenza di un animale che apprende che serve, in modo parimenti automatico, ad evocare e stabilire una certa serie di reazioni costruite geneticamente nell’animale che apprende9. La danza di comunicazione di due api, una che ha trovato il nettare e l’altra che lo cerca, è un altro esempio un po’ diverso, con un codice più complesso10. Craik ha perfino sostenuto che l’esile rivoletto d’acqua che si apre la strada dalla sorgente sui monti fino al mare e scava un piccolo canale per il maggior volume d’acqua che segue è una specie di modello per la funzione11. Ma modelli di – processi linguistici, grafici, meccanici, naturali che funzionano non per fornire fonti di informazione nei cui termini modellare altri processi, ma per rappresentare quei processi modellati come tali, per esprimere la loro struttura in un medium alternativo – sono molto più rari e forse, tra gli animali viventi, si possono limitare all’uomo. La percezione di una congruenza strutturale tra una serie di processi, attività, rapporti, entità e un’altra serie per la quale la prima funge da programma, così che si può prendere il programma come una rappresentazione, o una concezione – un simbolo – di ciò che è programmato, costituisce l’essenza del pensiero umano. La reciproca trasposizione di modelli per e modelli 146
di che la formulazione simbolica rende possibile è la caratteristica specifica della nostra mente.
2. … stabilendo profondi, diffusi, e durevoli stati d’animo e motivazioni negli uomini per mezzo della… Nel caso dei simboli e dei sistemi simbolici religiosi questa possibilità di trasposizione è chiara. La resistenza, il coraggio, l’indipendenza, la perseveranza e l’appassionata ostinazione che caratterizzano la ricerca della visione a cui si dedica l’indiano delle pianure sono le stesse appariscenti virtù con cui cerca di vivere: mentre raggiunge il senso di una rivelazione definisce il senso di una direzione12. La consapevolezza dell’obbligo inadempiuto, la colpa celata e, ottenuta la confessione, la pubblica vergogna sono momenti di una messinscena in cui si articola la seduta spiritica del Manus, ma sono anche i sentimenti che stanno alla base dell’etica del dovere attraverso cui si mantiene la sua società pervasa dal senso della proprietà: l’ottenimento di un’assoluzione comporta la forgiatura di una coscienza13. E la stessa autodisciplina che ricompensa un mistico giavanese quando fissa la fiamma di una lampada con quella che egli considera un’ispirazione divina, lo addestra a quel controllo rigoroso dell’espressione emotiva che è necessaria ad un uomo che voglia seguire uno stile di vita quietistico14. Interpretare la concezione di uno spirito custode personale, di un nume tutelare della famiglia o di un Dio immanente come formulazioni sinottiche del carattere della realtà o come strumenti di ricalco per produrre una realtà di questo 147
carattere, può sembrare alquanto arbitrario, ma un aspetto almeno della questione si può, per il momento, mettere a fuoco: il modello di o il modello per. I simboli concreti adottati – questa o quella figura mitologica che si materializza nel deserto, il teschio del capofamiglia defunto che pende dalle travi con aria di biasimo, o una disincarnata «voce nella quiete» che canta a bassa voce un’enigmatica poesia classica – puntano in entrambe le direzioni. Esse esprimono il clima del mondo e insieme lo modellano. Modellano il mondo inducendo nel devoto una qualche serie specifica di disposizioni (tendenze, capacità, propensioni, abilità, abitudini, inclinazioni), che conferiscono un carattere definitivo al flusso della sua attività ed alla qualità della sua esperienza. Una disposizione non indica un attività o un avvenimento ma la probabilità che un’attività sia compiuta o un avvenimento accada in certe circostanze: «Quando si dice che la mucca è un ruminante, o che un uomo è un fumatore di sigarette, non si sta dicendo che la mucca sta ruminando adesso o che l’uomo sta fumando una sigaretta adesso. Essere un ruminante è tendere a ruminare di tanto in tanto, ed essere fumatore di sigarette è aver l’abitudine di fumare sigarette»15. Allo stesso modo, essere pii non significa compiere qualcosa che chiameremmo un atto di pietà, ma essere disposti a compiere un atto simile. Così avviene anche con l’audacia dell’indiano delle pianure, la compunzione del Manus o il quietismo del giavanese che, nei loro rispettivi contesti, formano la sostanza della pietà. Il merito di questo modo di concepire ciò che solitamente si chiamano «tratti mentali» o, se si sconfessa il cartesianesimo, «forze psicologiche» (termini di per sé abbastanza poco discutibili) 148
è che li trae fuori da una sfera cupa e inaccessibile di sensazioni private per porli nello stesso mondo ben illuminato di cose osservabili in cui si collocano la fragilità del vetro, l’infiammabilità della carta e, per tornare alla metafora, l’umidità dell’Inghilterra. Per quanto riguarda le attività religiose (e imparare a memoria un mito è un’attività religiosa quanto tagliarsi un dito alla nocca), due tipi di disposizioni diverse sono indotte da esse: gli stati d’animo e le motivazioni. Una motivazione è una tendenza persistente, un’inclinazione cronica, a compiere certi tipi di atti e sperimentare certi tipi di sentimenti in certi tipi di situazioni, essendo i «tipi» delle classi comunemente molto eterogenee e piuttosto mal definite in tutti e tre i casi sopra considerati: Sentendo che un uomo è vanitoso [cioè motivato dalla vanità], ci attendiamo che si comporti in certi modi, che parli molto di sé, che si apparti in compagnia delle persone eminenti, che rifiuti le critiche, che cerchi le luci della ribalta e si sottragga alle conversazioni sui meriti degli altri. Ci attendiamo che indulga in rosee fantasticherie sui propri successi, che eviti di ricordare i fallimenti passati e che faccia progetti per il suo avanzamento. Essere vanitosi è tendere ad agire in questo e innumerevoli altri modi del genere. Certo, ci aspettiamo anche che l’uomo vano provi certi spasimi e batticuore in certe situazioni: ci aspettiamo che provi un’acuta sensazione di sprofondare quando una persona eminente dimentica il suo nome, e si senta baldanzoso nel cuore e leggero quando sente le disgrazie dei suoi rivali. Ma i sentimenti di dispetto e di baldanza non sono più direttamente indicativi di vanità di quanto siano le millanterie pubbliche e le fantasticherie private16.
Lo stesso vale per qualunque motivazione. Come tale, il «coraggio appariscente» consiste in durevoli inclinazioni come digiunare nel deserto, fare incursioni solitarie contro il campo nemico ed eccitarsi al pensiero di fare un bel colpo. La «circospezione morale» consiste in tendenze radicate 149
come onorare gravose promesse, confessare peccati segreti davanti alla severa disapprovazione pubblica, e sentirsi colpevole quando vengono fatte accuse vaghe e generiche nelle sedute spiritiche. E l’«impassibile calma» consiste in inclinazioni persistenti come mantenere la padronanza di sé in qualunque situazione, provare disgusto alla presenza di una manifestazione emotiva anche moderata, e indulgere in contemplazioni imperturbabili di oggetti privi di particolare interesse. Le motivazioni non sono quindi né atti (cioè comportamenti intenzionali) né sentimenti, ma inclinazioni a compiere particolari tipi di atti o ad avere particolari tipi di sentimenti. E quando diciamo che un uomo è religioso, motivato cioè dalla religione, questo è almeno una parte – anche se una parte soltanto – di quello che intendiamo. Un’altra parte di quello che intendiamo con questo aggettivo è che egli, quando è adeguatamente stimolato, è soggetto a cadere in certi stati d’animo, che noi a volte raggruppiamo insieme sotto etichette come «reverenziale», «solenne» o «venerante». Queste definizioni generalizzate nascondono però l’enorme varietà empirica delle disposizioni implicate, e di fatto tendono ad assimilarle al tono insolitamente grave della maggior parte della nostra vita religiosa. Gli stati d’animo indotti dai simboli sacri, in epoche e luoghi diversi, spaziano dall’esultanza alla malinconia, dalla fiducia in se stessi all’autocommiserazione, da un’incorreggibile giocosità a una blanda svogliatezza – per non dire niente del potere erogeno di tanti miti e rituali del mondo. Come non c’è un’unica specie di motivazione che si possa chiamare pietà, così non c’è un solo tipo di stato d’animo che si possa definire venerante.
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La differenza più importante tra stati d’animo e motivazioni è che, mentre le seconde sono, per così dire, qualità vettoriali, le prime sono semplicemente scalari. Le motivazioni hanno un valore direzionale, descrivono un certo corso generale, gravitano verso certi esiti, di solito temporanei. Gli stati d’animo variano invece solo per intensità: non vanno da nessuna parte. Sorgono da certe circostanze ma non sono indirizzate a nessuno scopo. Come le nebbie, si posano e si alzano; come i profumi, si diffondono ed evaporano. Quando sono presenti sono totalizzanti: se uno è triste, tutto e tutti sembrano tetri; se uno è allegro, tutto e tutti paiono splendidi. Quindi, anche se un uomo può essere vano, coraggioso, volitivo e indipendente allo stesso tempo, non può essere allo stesso tempo giocoso e svogliato, o esultante e melanconico17. Inoltre, mentre le motivazioni persistono per periodi di tempo più o meno estesi, gli stati d’animo ricorrono solo con maggiore o minor frequenza, andando e venendo per ragioni spesso insondabili. Ma per quanto ci riguarda, forse la differenza più importante tra stati d animo e motivazioni è che le motivazioni sono «rese significative» in relazione ai fini verso cui si suppone conducano, mentre gli stati d’animo sono «resi significativi» in relazione alle condizioni da cui si ritiene abbiano origine. Interpretiamo le motivazioni nei termini dei loro esiti, mentre interpretiamo gli stati d’animo nei termini delle loro fonti. Diciamo che una persona è industriosa perché vuole aver successo; diciamo invece che una persona è preoccupata perché è consapevole della pendente minaccia dell’olocausto nucleare. E questo accade anche quando le interpretazioni sono definitive o assolute. La carità diventa carità cristiana 151
quando è racchiusa nella concezione dei fini di Dio; l’ottimismo è ottimismo cristiano quando si fonda su una particolare concezione della natura di Dio. La tenacia dei Navajo trova il suo fondamento nella credenza che, visto che la «realtà» opera meccanicamente, essa può venire forzata; la loro timorosità cronica trova il suo fondamento nella convinzione che la «realtà», comunque operi, è straordinariamente potente e terribilmente pericolosa18.
3. … formulazione di concetti di un ordine generale dell’esistenza e del… Non dovrebbe causare sorpresa il fatto che i simboli o sistemi simbolici che inducono e definiscono le disposizioni da noi chiamate religiose e quelli che pongono quelle disposizioni all’interno di una cornice cosmica siano gli stessi. Che cos’altro intendiamo dicendo che un particolare stato di timore reverenziale è religioso e non laico, se non che deriva da una concezione, come il mana, di vitalità onnipervasiva e non da una visita al Gran Canyon? O cos’altro intendiamo dicendo che un particolare caso di ascetismo è un esempio di motivazione religiosa se non che è diretto al raggiungimento di uno scopo assoluto come il nirvana e non di uno scopo limitato come la riduzione di peso? Se i simboli sacri non inducessero contemporaneamente disposizioni negli esseri umani e non formulassero idee generali di ordine, anche se in modo indiretto, inarticolato e non sistematico, allora non esisterebbe la differenza empirica dell’attività religiosa o dell’esperienza religiosa. Si può dire che un uomo è 152
«religioso» a proposito del golf, ma non semplicemente se lo pratica con passione e lo gioca tutte le domeniche: deve vederlo anche come simbolico di qualche verità trascendente. E il ragazzo in età puberale che guarda appassionatamente negli occhi della ragazza coetanea in un fumetto di William Steig e mormora: «C’è in te qualcosa, Ethel, che mi dà una specie di sensazione religiosa» è soltanto confuso, come la maggior parte degli adolescenti. Quello che ogni religione afferma sulla natura fondamentale della realtà può essere oscuro, superficiale o, come troppo spesso avviene, perverso, ma, se non deve consistere nella semplice raccolta delle pratiche comunemente accettate e dei sentimenti convenzionali che di solito definiamo come moralismo, deve affermare qualcosa. Se si dovesse tentare una definizione minimale della religione oggi, probabilmente non sarebbe la famosa «credenza in esseri spirituali» di Tylor, a cui ci ha recentemente incitato a tornare Goody, stanco di sottigliezze teoriche, ma piuttosto quello che Salvador de Madariaga ha chiamato «il dogma relativamente modesto che Dio non è pazzo»19. Naturalmente le religioni di solito affermano molto di più di questo; come osservò James, noi crediamo a tutto quello che possiamo e crederemmo ad ogni cosa se solo potessimo20. La cosa che sembriamo meno in grado di sopportare è una minaccia ai nostri poteri concettuali, l’idea anche vaga che possa venirci meno la capacita di creare, afferrare ed usare i simboli, perché se questo accadesse noi saremmo più impotenti dei castori, come ho già fatto notare. L’estrema genericità, vaghezza e variabilità delle capacità di reazione innate (cioè geneticamente programmate) dell’uomo significa che, senza l’aiuto di modelli culturali, 153
egli sarebbe funzionalmente incompleto, non semplicemente una scimmia dotata di talento, a cui era stato sfortunatamente impedito, come ad un bambino povero, di realizzare le sue piene potenzialità, ma una specie di mostro informe senza meta né capacità di autocontrollo, un caos di impulsi spasmodici e di vaghe emozioni. L’uomo dipende dai simboli e dai sistemi simbolici con una dipendenza tanto grande da essere decisiva per la vita stessa di questa creatura e di conseguenza la sua sensibilità anche all’indicazione più remota che essi possano risultare insufficienti a far fronte a questo o quell’aspetto dell’esistenza suscita in lui la forma più grave di ansia: [l’uomo] può adattarsi in qualche modo a tutto quello che la sua immaginazione può affrontare, ma non può trattare col Caos. Dato che la sua funzione caratteristica e il suo bene più alto è la capacità concettuale, la sua paura più grande è quella di imbattersi in quello che non può interpretare, il «misterioso», come è chiamato popolarmente. Non occorre che sia un oggetto nuovo: noi incontriamo cose nuove e le «comprendiamo» prontamente, anche se per tentativi, per analogia, quando la nostra mente funziona liberamente, ma sotto uno stress mentale anche le cose perfettamente familiari possono diventare all’improvviso disorganizzate e incuterci orrore. Perciò le nostre doti più importanti sono sempre i simboli del nostro orientamento generale in natura, sulla terra, nella società e in quello che stiamo facendo: i simboli della nostra Weltanschauung e Lebensanschauung [«visione del mondo» e «visione della vita»]. Di conseguenza, in una società primitiva, un rituale quotidiano viene incorporato nelle attività comuni, nel mangiare, nel lavarsi, nell’accendere i fuochi, come pure in quelle cerimoniali, perché si sente costantemente il bisogno di riaffermare la morale tribale e di riconoscerne le condizioni cosmiche. Nell’Europa cristiana, la Chiesa faceva inginocchiare gli uomini ogni giorno (in alcuni ordini religiosi anche ogni ora) per decretare, se non contemplare, il loro assenso ai concetti ultimi21.
Ci sono almeno tre luoghi in cui il caos – un tumulto di avvenimenti privi non solo di interpretazioni ma di interpretabilità – minaccia di scagliarsi sull’uomo: ai limiti 154
delle sue capacità analitiche, ai limiti del suo potere di sopportazione, ed ai limiti della sua visione morale. Lo stupore, la sofferenza e un senso di insopportabile paradosso etico sono tutti, se divengono abbastanza intensi o se provati abbastanza a lungo, sfide radicali all’affermazione che la vita è comprensibile e che noi possiamo, se riflettiamo, orientarci efficacemente all’interno di essa – sfide che ogni religione che speri di durare, per quanto primitiva, deve cercare di fronteggiare in qualche modo. Di questi tre problemi, il primo è quello che è stato studiato di meno dai moderni antropologi sociali (benché la classica discussione di Evans-Pritchard sul motivo per cui i granai cadano su certi Azande, e non su altri, sia una notevole eccezione)22. Anche considerare le credenze religiose della gente come tentativi di riportare avvenimenti o esperienze anomale – morte, sogni, fughe mentali, eruzioni vulcaniche, o infedeltà coniugali – nell’ambito di quello che è almeno potenzialmente spiegabile, sembra risentire del tylorismo o peggio. Ma è certo che almeno alcuni uomini – con tutta probabilità, la maggior parte di loro – sono incapaci di lasciare semplicemente non chiariti problemi di analisi non chiariti, di guardare i caratteri più strani del panorama del mondo con muto stupore o blanda apatia, senza cercare di sviluppare qualche idea, anche se fantastica, inconsistente o ingenua, sul modo di conciliare questi caratteri con le più comuni acquisizioni dell’esperienza. Ogni fallimento irreversibile dell’apparato esplicativo, il complesso cioè di modelli culturali comunemente accettati (il buon senso, la scienza, la speculazione filosofica, il mito) di cui si dispone per avere una mappa del mondo empirico, 155
nello spiegare cose che invocano una spiegazione, tende a produrre un’inquietudine profonda – e si tratta di una tendenza ben più diffusa e un ‘ in quietudine assai più profonda di quanto noi stessi abbiamo talvolta supposto dopo aver abbandonato giustamente la concezione della credenza religiosa in quanto pseudoscienza. Dopo tutto, anche il gran sacerdote dell’ateismo eroico, Lord Russell, una volta osservò che, sebbene il problema dell’esistenza di Dio non l’avesse mai turbato, l’ambiguità di certi assiomi matematici aveva minacciato di scardinargli la mente. E la profonda insoddisfazione di Einstein sulla meccanica quantistica era basata sulla sua incapacità – sicuramente religiosa – di credere che, nelle sue stesse parole, Dio giocasse ai dadi con l’universo. Ma questa ricerca di lucidità e l’impeto di ansia metafisica che si produce quando i fenomeni empirici minacciano di restare implacabilmente opachi è rinvenibile anche a livelli intellettuali molto più umili. Certamente nel mio lavoro sono rimasto colpito, molto più di quanto mi aspettassi, dalla misura in cui i miei informatori più inclini all’animismo si comportavano come veri seguaci di Tylor. Pareva che usassero costantemente le loro credenze per «spiegare» i fenomeni, o, meglio, per convincersi che i fenomeni erano spiegabili entro lo schema accettato delle cose, perché di solito mostravano un attaccamento minimo per le ipotesi che essi stessi avanzavano circa la possessione di un’anima particolare, lo squilibrio emotivo, l’infrazione dei tabù o l’incantesimo, ed erano sin troppo pronti ad abbandonarle per altre dello stesso genere, che li colpivano come più plausibili in determinate circostanze. Quello che
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non erano disposti a fare era abbandonarle senza avanzare nessun’altra ipotesi: lasciare gli eventi a loro stessi. Ciò che più conta, essi adottavano questo atteggiamento conoscitivo piuttosto agitato riguardo a fenomeni che non avevano alcuna conseguenza pratica immediata sulla loro vita, o su quella di qualcun altro. Quando in casa di un falegname spuntò nel breve spazio di alcuni giorni (alcuni dissero di ore) un grosso fungo velenoso di forma strana, la gente venne da miglia di distanza per vederlo, e tutti avevamo una qualche spiegazione – alcuni di tipo animistico, altri di tipo animatistico, altri una ancora diversa. Tuttavia sarebbe difficile sostenere che il fungo avesse un qualche valore sociale nel senso di RadcliffeBrown, o fosse in qualche modo collegato con qualcosa che avesse un valore sociale o che avrebbe potuto rappresentarlo, come la cicala andamanese23. Nella vita giavanese i funghi velenosi hanno lo stesso ruolo che nella nostra, e nel corso ordinario delle cose i giavanesi nutrono per essi lo stesso nostro interesse. Era solo che questo era «strano» «bizzarro», «misterioso» – aneh. E il bizzarro, lo strano, il misterioso devono essere spiegati – o, di nuovo, si deve sostenere la convinzione che si potrebbero spiegare. Non si trascura un fungo che cresce cinque volte più veloce di quanto abbia il diritto di fare. Nel senso più ampio, lo «strano» fungo aveva delle conseguenze, e conseguenze critiche, per coloro che ne sentivano parlare. Minacciava la loro generale capacità di capire il mondo, sollevava la scomoda questione se le loro credenze sulla natura fossero fondate, se i criteri di verità che usavano fossero validi. Non si deve pensare che siano soltanto o anche principalmente le apparizioni improvvise di eventi 157
straordinari a generare nell’uomo la sensazione inquietante che le sue risorse conoscitive possano dimostrarsi inefficaci o che questa intuizione appaia solo nella sua forma acuta. Di solito è una difficoltà persistente, sperimentata di continuo nell’afferrare certi aspetti della natura, dell’individuo e della società, nel riportare certi fenomeni sfuggenti entro la sfera dei fatti culturalmente formulabili, ciò che mette cronicamente a disagio l’uomo e verso la quale si dirige di conseguenza un flusso più costante di simboli diagnostici. È ciò che si trova al di là di una frontiera relativamente fissa di conoscenza accreditata che, balenando come sfondo costante della routine quotidiana della vita pratica, colloca l’esperienza umana in un contesto permanente di preoccupazione metafisica e suscita l’oscuro sospetto in fondo alla mente che si possa andare alla deriva in un mondo assurdo. Altro argomento oggetto di questa tipica indagine intellettuale [tra gli Iatmul] è la natura delle increspature e delle onde sulla superficie dell’acqua. Si dice segretamente che uomini, maiali, alberi, erba, tutti gli oggetti del mondo, siano soltanto repliche, varianti trasformate dalle onde. Sembra che in realtà su questo punto vi sia un certo accordo anche se ciò forse contrasta con la teoria della reincarnazione, secondo cui lo spirito del morto viene sospinto come bruma dal vento dell’est sul fiume e nel ventre della moglie del figlio morto. Comunque sia vi sono ancora questioni su come increspature e onde nascano. Il clan che rivendica il vento dell’est come totem e abbastanza chiaro su questo punto: il vento, con il suo ventaglio di zanzare, provoca le onde. Ma altri clan hanno personificato le onde e dicono che sono una persona (Kontum-mali) indipendente dal vento. Altri clan hanno altre teorie. Una volta andai con alcuni Iatmul sulla costa e trovai un uomo che sedeva contemplando rapito Toccano. Era un giorno senza vento ma una leggera risacca si rompeva sulla riva. Tra gli antenati totemici del suo clan egli annoverava un tamburo a fessura personificato che aveva navigato lungo il fiume fino al mare e che si riteneva avesse provocato le onde; e ora guardava fissamente le onde che si sollevavano e si rompevano senza che il vento soffiasse, dimostrando la veridicità del mito del suo clan24.
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La seconda sfida empirica davanti alla quale il senso di un particolare modello di vita minaccia di dissolversi in un caos di nomi senza referenti e di referenti senza nome – il problema della sofferenza – è stato maggiormente studiato, o almeno descritto, soprattutto per la grande attenzione prestata nello studio sulla religione tribale a quelli che sono forse i suoi due interessi principali: la malattia e il lutto. Tuttavia, nonostante il fascino e l’interesse dell’aura emotiva che circonda queste situazioni estreme, e fatte poche eccezioni come la recente discussione sui Dinka di Lienhardt, vi sono stati scarsi progressi concettuali al di là della rudimentale teoria avanzata da Malinowski: che cioè la religione aiuti a sopportare «situazioni di stress emotivo» «aprendo delle vie di scampo da situazioni che non offrono nessuna via d’uscita empirica, se non col rituale e la credenza nel dominio del soprannaturale»25. È chiaro che questa «teologia dell’ottimismo», come l’ha chiamata piuttosto ironicamente Nadel, è assolutamente inadeguata26. Nel suo corso, la religione probabilmente ha turbato gli uomini nella stessa misura in cui li ha rincuorati: li ha costretti ad affrontare direttamente, senza batter ciglio, il fatto che essi nascono per tribolare, e, altrettanto spesso, ha permesso loro di evitare questo confronto proiettandoli in una specie di favoloso mondo infantile dove – come dice ancora Malinowski – «la speranza non può venir meno né il desiderio ingannare»27. Sono poche le tradizioni religiose, «grandi» o «piccole», dove non si affermi con vigore che la vita procura dolore, e in alcune questo fatto è praticamente glorificato. Era una vecchia [della tribù dei Ba-Ila], appartenente a una famiglia con una lunga genealogia. Leza, «colui che incombe», alzò la mano contro la famiglia. Uccise il padre e la madre quando lei era ancora bambina, e nel
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corso degli anni tutti i suoi parenti perirono. Lei si disse: «Sicuramente conserverò quelli che mi siedono in grembo». Ma no, anche loro, i figli dei suoi figli, le furono portati via… Allora le entrò nel cuore un desiderio disperato di trovare Dio e di chiedere il significato di tutto questo… Così cominciò a viaggiare, attraversando un paese dopo l’altro, sempre con un pensiero nella mente: «Andrò fino ai confini della terra e là troverò una strada verso Dio e gli chiederò: Che cosa ti ho fatto perché tu mi dia tanta afflizione?”». Non trovò mai dove finisce la terra, ma, benché disillusa, non rinunciò alla sua ricerca, e quando attraversava i diversi paesi le chiedevano. «Per che cosa sei venuta, vecchia?» E la risposta era «Sto cercando Leza». «Cercare Leza! perché?» «Fratello, tu me lo chiedi! Al mondo ce solo uno che soffre come ho sofferto io». E le chiedevano ancora: «Come hai sofferto?» «In questo modo, sono sola. Come mi vedete, una vecchia solitaria: ecco cosa sono!». Ed essi rispondevano : «Si, vediamo. Ecco cosa sei! Privata degli amici e del marito? In che cosa sei diversa dagli altri? Colui che incombe sta seduto sulla schiena di ciascuno di noi e non possiamo scrollarcelo di dosso». Non riuscì a soddisfare mai il suo desiderio: morì di crepacuore28.
In quanto problema religioso, il problema della sofferenza non è, paradossalmente, come evitarla, ma come soffrire, come fare del dolore fisico, del lutto personale, della sconfitta terrena o della contemplazione impotente dell’agonia altrui qualcosa di sopportabile, di sostenibile: qualcosa, come diciamo, di tollerabile (sufferable). Fu in questo sforzo che la donna Ba-Ila – forse necessariamente, forse no – fallì, e non sapendo letteralmente che sentimenti provare per quello che le era accaduto, morì nella confusione e nella disperazione. Mentre gli aspetti più razionali di quello che Weber chiamava il «problema del senso» riguardano l’affermazione della comprensibilità finale dell’esperienza, gli aspetti più affettivi consistono nell’affermarne la sua finale tollerabilità. Se la religione, da una parte, fonda il potere delle nostre risorse simboliche per formulare concetti analitici su una concezione autoritativa della forma generale della realtà, dall’altra àncora il potere 160
delle nostre risorse, anch’esse simboliche, per esprimere le emozioni – stati d’animo, sentimenti, passioni, affetti, sensazioni – a una concezione analoga della pervasività, e del tono e del carattere, intrinseci della realtà. Per quelli in grado di adottarli, e finché possono farlo, i simboli religiosi forniscono una garanzia cosmica della loro capacità non solo di comprendere il mondo, ma anche, comprendendolo, di dare precisione ai loro sentimenti, una definizione delle loro emozioni che permetta loro di sopportarle in tristezza o allegria, con viso arcigno o spavalderia. Consideriamo in quest’ottica i famosi riti terapeutici dei Navajo chiamati di solito «canti»29. Un canto – i Navajo ne hanno circa sessanta diversi per scopi diversi, ma praticamente sono tutti intesi a rimuovere qualche tipo di malattia fisica o mentale – è una specie di psicodramma religioso in cui sono presenti tre attori principali: il «cantore» o guaritore, il paziente e, come una specie di coro antifonale, la famiglia e gli amici del paziente. La struttura di tutti i canti, la trama del dramma, è molto simile. Ci sono tre azioni principali: una purificazione del paziente e del pubblico; una dichiarazione, per mezzo di cantilene ripetitive e di manipolazioni rituali, del desiderio di riportare il benessere (l’«armonia») nel paziente; una identificazione del paziente col Popolo Sacro e la sua successiva «cura». I riti della purificazione comportano sudore forzato, vomito indotto e via dicendo, per espellere fisicamente la malattia dal paziente. Le cantilene, che sono innumerevoli, consistono principalmente in semplici frasi ottative («possa il paziente star bene», «sto migliorando dappertutto» eccetera). E infine l’identificazione del paziente col Popolo Sacro, e con l’ordine cosmico in 161
generale, si compie attraverso un dipinto di sabbia che raffigura il Popolo Sacro in qualche ambiente mitico appropriato. Il cantore pone il paziente sul dipinto, toccando i piedi, le mani, le ginocchia, le spalle, il petto, la schiena e la testa delle figure divine e poi le corrispondenti parti del paziente, compiendo così essenzialmente un’identificazione corporea tra umano e divino30. Questo è il momento culminante del canto: tutto il processo curativo può essere paragonato, dice Reichard, a un osmosi spirituale in cui la malattia dell’uomo e il potere della divinità penetrano la membrana rituale in entrambe le direzioni, in modo che la prima sia neutralizzata dalla seconda. La malattia viene espulsa con il sudore, con il vomito e con gli altri riti purificatori; la salute penetra all’interno via via che il paziente navajo tocca, per mezzo del guaritore, il sacro dipinto di sabbia. Chiaramente il simbolismo del canto si accentra sul problema della sofferenza umana e tenta di affrontarlo ponendolo in un contesto significativo, fornendo una modalità di azione attraverso cui possa essere espresso, essendo espresso compreso, ed essendo compreso sopportato. L effetto corroborante del canto (e dato che la malattia più comune è la tubercolosi, in molti casi può essere solo corroborante) si basa alla fine sulla sua capacità di dare alla persona colpita un vocabolario nei cui termini cogliere la natura del proprio male e riferirla al mondo esterno. Come un calvario, una recita dell’uscita di Budda dal palazzo di suo padre, o un esecuzione dell’Oedipus Tyrannus in altre tradizioni religiose, un canto ha principalmente lo scopo di presentare un’immagine specifica e concreta della sofferenza genuinamente umana e perciò sopportabile, abbastanza potente da resistere alla 162
sfida dell’insensatezza emotiva suscitata dall’esistenza di un dolore brutale, intenso e incurabile. Il problema della sofferenza sconfina facilmente nel problema del male, perché la sofferenza, se è abbastanza intensa, di solito (benché non sempre) sembra anche moralmente immeritata, almeno al sofferente. Ma essi non sono esattamente la stessa cosa – un fatto che mi sembra Weber non riconobbe pienamente nella sua generalizzazione dei dilemmi della teodicea cristiana in Oriente, perché troppo influenzato dai preconcetti di una tradizione monoteista in cui, poiché i vari aspetti dell’esperienza umana si devono concepire come procedenti da un’unica fonte volontaristica, il dolore dell’uomo si riflette direttamente sulla bontà di Dio. Questo perché, mentre il problema della sofferenza riguarda le minacce alla nostra capacità di porre in una specie di ordine militaresco i nostri «indisciplinati drappelli emotivi», il problema del male riguarda le minacce alla nostra capacità di formulare giudizi morali integri. Nel problema del male non viene messa in discussione l’adeguatezza delle nostre risorse simboliche a governare la nostra vita affettiva, ma l’adeguatezza di tali risorse a fornire un insieme efficace di criteri etici, di guide normative che governino la nostra azione. La questione qui sta nello scarto tra le cose come sono e come dovrebbero essere se le nostre concezioni del giusto e dell’ingiusto fossero valide, lo scarto tra quello che secondo noi meritano i vari individui e quello che vediamo che ottengono – un fenomeno riassunto in quella profonda quartina: La pioggia cade sul giusto e sull’ingiusto;
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ma soprattutto sul giusto perché l’ingiusto ha l’ombrello del giusto.
Oppure, se questa sembra un espressione troppo disinvolta di un problema che in forme diverse anima il libro di Giobbe e il Baghavad Gita, la seguente poesia classica giavanese, conosciuta, cantata, e ripetutamente citata a Giava praticamente da tutti quelli che hanno superato i sei anni, espone con maggior eleganza il problema – la discrepanza tra le prescrizioni morali e le remunerazioni materiali, l’apparente incoerenza tra «è» e «dovrebbe»: Abbiamo vissuto per vedere un mondo senz’ordine in cui ciascuno ha la mente confusa. Uno non può sopportare di unirsi alla follia, ma se non lo fa non avrà una parte del bottino e come risultato morirà di fame. Sì, Dio; il male è male: felici coloro che dimenticano, ma più felici quelli che ricordano ed hanno una visione profonda.
Non occorre possedere una profonda coscienza teologica per essere raffinati dal punto di vista religioso. La preoccupazione per l’intrattabile paradosso etico, la sensazione inquietante che la propria concezione morale è inadeguata alla propria esperienza morale, è tanto viva a livello delle religioni cosiddette primitive quanto lo è a livello di quelle cosiddette civilizzate. L’insieme di nozioni sulla «divisione nel mondo» descritta da Lienhardt per i Dinka ci fornisce un utile esempio31. Come tanti popoli, i Dinka credono che il cielo dove è collocata la «Divinità» e la terra dove dimora l’uomo fossero un tempo contigui, col cielo appoggiato proprio sopra la terra e collegato ad essa per mezzo di una corda, in modo che gli uomini potessero 164
muoversi a piacere tra i due regni. La morte non esisteva, ed al primo uomo ed alla prima donna erano concessi solo un granello di miglio al giorno, il che era tutto ciò che occorreva loro a quel tempo. Un giorno la donna – naturalmente – decise, per avidità, di piantare più del granello di miglio concesso, e nella sua avida fretta e nel suo zelo colpì accidentalmente la Divinità col manico della zappa. Offesa, essa tagliò la fune e si ritirò nel lontano cielo di oggi, e lasciò l’uomo a faticare per il suo nutrimento, a soffrire la malattia e la morte, e a sperimentare la separazione dalla fonte della sua esistenza, il suo Creatore. Tuttavia per i Dinka il significato di questa storia stranamente familiare non è omiletico, ma descrittivo, come lo è la Genesi per ebrei e cristiani: Quelli [tra i Dinka] che hanno commentato queste storie hanno spesso detto chiaramente che le loro simpatie vanno all’Uomo nella sua afflizione, ed hanno attirato l’attenzione sulla esiguità della colpa per cui la Divinità ritirò i benefici della sua vicinanza. L’immagine della Divinità colpita con una zappa… suscita spesso un certo divertimento, quasi come se la storia fosse trattata con indulgenza come troppo infantile per spiegare le conseguenze attribuite all’avvenimento. Ma è chiaro che lo scopo del racconto del ritrarsi della Divinità dagli uomini non è suggerire un giudizio morale del comportamento umano per migliorarlo: è di rappresentare una situazione complessiva oggi nota ai Dinka. Gli uomini adesso sono – come divennero allora il primo uomo e la prima donna – attivi, consci dei propri diritti, indagatori, avidi di imparare. Tuttavia sono anche soggetti alla sofferenza ed alla morte, incapaci, ignoranti e poveri. La vita è insicura: i calcoli umani spesso si dimostrano erronei, e gli uomini spesso devono imparare dall’esperienza che le conseguenze dei loro atti sono diverse da quelle che possono aver anticipato o considerato eque. L allontanarsi della Divinità dall’Uomo come risultato di un’offesa relativamente lieve secondo i parametri umani, presenta il contrasto tra gli equi giudizi umani e l’azione del Potere che si ritiene controlli alla fine ciò che accade nella vita dei Dinka… Per i Dinka l’ordine morale è fondato da ultimo su principi che spesso sfuggono agli uomini, che l’esperienza e la tradizione in parte rivelano, e che l’azione umana non ,può cambiare… Il mito del ritrarsi della Divinità riflette quindi i fatti dell’esistenza come sono conosciuti. I Dinka
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vivono in un universo che è ampiamente fuori dal loro controllo, e dove gli eventi possono contraddire le più ragionevoli aspettative umane32.
Così il problema del male, o forse si dovrebbe dire il problema circa il male, appartiene essenzialmente allo stesso tipo di problemi che scaturiscono dalle situazioni di sconcerto o dalla sofferenza. La strana opacità di certi avvenimenti della nostra esperienza, la muta insensatezza del dolore intenso o inesorabile, e l’enigmatica inspiegabilità di ciò che appare vistosamente ingiusto suscitano tutti lo scomodo sospetto che forse il mondo, e quindi la vita dell’uomo nel mondo, non abbiano alcun autentico ordine – nessuna regolarità empirica, nessuna forma emotiva, nessuna coerenza morale. E la reazione religiosa a questo sospetto è in ogni caso la stessa: la formulazione, per mezzo di simboli, di una immagine di autentico ordine nel mondo tale da spiegare, e perfino celebrare, le ambiguità, gli enigmi e i paradossi percepiti nell’esperienza umana. Lo sforzo non sta nel negare l’innegabile – che vi sono avvenimenti non spiegati, che la vita causi afflizione, o che la pioggia cada sopra il giusto – ma nel negare che esistano eventi inesplicabili, che la vita sia insopportabile o che la giustizia sia un miraggio. I principi che costituiscono l’ordine morale possono invero spesso sfuggire agli uomini, come dice Lienhardt, nello stesso modo in cui sfuggono loro spiegazioni pienamente soddisfacenti di eventi anomali, così come forme efficaci per l’espressione di sentimenti. Quello che è importante, almeno per un uomo religioso, è che questa sfuggevolezza può essere spiegata, che non è il risultato del fatto che non esistono tali principi, spiegazioni e forme, che la vita è assurda e il tentativo di trarre un senso morale intellettuale o emotivo dall’esperienza è infruttuoso. 166
I Dinka possono anche ammettere (e in effetti vi insistono molto) le ambiguità morali e le contraddizioni della vita come la vivono perché queste ambiguità e contraddizioni non sono viste come definitive, ma come risultato «razionale», «naturale», «logico» (qui ciascuno può scegliersi il suo aggettivo, poiché nessuno di essi è veramente adeguato) della struttura morale della realtà quale viene raffigurata (o come dice Lienhardt «immaginata») dal mito del ritiro della Divinità. Il «problema del significato» in ciascuno dei suoi aspetti interrelati (come questi aspetti si trasformino gradatamente in ogni caso particolare, che tipo di interazione ci sia tra il senso di impotenza analitica, emotiva e morale, mi sembra uno dei problemi più importanti, e mai affrontati, se non da Weber, per la ricerca comparata in tutto questo campo) consiste nell’affermare, o almeno nel riconoscere, l’inevitabilità dell’ignoranza, del dolore e dell’ingiustizia sul piano umano, negando contemporaneamente il fatto che queste irrazionalità siano caratteristiche del mondo in generale. Ed è in termini di simbolismo religioso, un simbolismo che rapporta la sfera dell’esistenza dell’uomo ad una sfera più ampia in cui si ritiene abbia il suo fondamento, che sono espresse sia l’affermazione sia la negazione33.
4. … rivestimento di questi concetti con un’aura di concretezza tale che… Qui sorge però un problema più profondo: come arriva ad essere creduta questa negazione? Come passa l’uomo religioso dalla percezione di disordine e dalla sensazione di 167
turbamento alla convinzione più o meno salda di un ordine fondamentale delle cose? Che cosa significa «credenza» in un contesto religioso? Di tutti i problemi con cui si scontrano i tentativi di un’analisi antropologica della religione, questo è forse il più imbarazzante e quindi il più spesso evitato, solitamente relegato nella psicologia, quella spregevole disciplina a cui gli antropologi sociali affidano sempre i fenomeni che sono incapaci di trattare entro il contesto teorico di un durkheimismo snaturato. Ma il problema non scompare, in quanto non è puramente «psicologico» (niente di sociale lo è) e nessuna dottrina antropologica della religione che non riesca ad affrontarlo è degna di questo nome. È troppo tempo che tentiamo di mettere in scena Amleto senza il Principe. A me sembra che il modo migliore di iniziare un approccio a questo problema sia riconoscere francamente che la credenza religiosa implica non un’induzione baconiana dall’esperienza di tutti i giorni – perché allora saremmo tutti agnostici – ma piuttosto una aprioristica accettazione dell’autorità che trasforma quell’esperienza. L’esistenza dello sconcerto, del dolore e del paradosso morale – del «problema del significato» – è una delle cose che spingono gli uomini a credere negli dei, negli spiriti, nei principi totemici o nell’efficacia spirituale del cannibalismo (un avvolgente senso della bellezza o un’abbagliante percezione del potere sono cose diverse), ma questa non è la base su cui poggiano tali credenze, bensì il loro campo di applicazione più importante: Noi indichiamo lo stato del mondo come capace di illustrare la dottrina, ma mai come prova di essa. Così Belsen illustra un mondo di peccato originale, ma il peccato originale non è un ipotesi per spiegare fatti come Belsen. Noi giustifichiamo una particolare credenza religiosa mostrando la
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sua collocazione nella concezione religiosa totale; giustifichiamo una credenza religiosa nel suo complesso facendo riferimento all’autorità. Accettiamo l’autorità perché la scopriamo in qualche punto del mondo che adoriamo, in cui accettiamo la sovranità di qualcosa diversa da noi. Non adoriamo l’autorità, ma accettiamo l’autorità perché definisce che cosa è degno di adorazione. Così qualcuno può scoprire la possibilità di culto nella vita delle chiese riformate ed accettare l’autorità della Bibbia; o nella vita della chiesa romana ed accettare l’autorità papale34.
Questa è naturalmente un’esposizione cristiana della questione, ma non per questo è da disprezzare. Nelle religioni tribali l’autorità risiede nel potere di persuasione delle immagini tradizionali; in quelle mistiche nella forza apodittica dell’esperienza extrasensoriale; in quelle carismatiche nell’attrazione ipnotica di una personalità straordinaria. Ma la priorità dell’accettazione di un criterio autoritativo nelle questioni religiose rispetto alla rivelazione che si ritiene sgorghi da quell’accettazione non è meno completa che nelle religioni basate sulle scritture o su sacerdoti. L’assioma che sta alla base di quella che potremmo forse chiamare la «prospettiva religiosa» è lo stesso dappertutto: colui che vuole sapere deve prima credere. Ma parlare di «prospettiva religiosa» significa, per implicazione, parlare di una prospettiva tra tante. Una prospettiva è un modo di vedere, nel senso ampio della parola «vedere» che sta per «discernere», «apprendere», «capire» o «afferrare». È un modo particolare di guardare la vita, un modo particolare di interpretare il mondo, come quando parliamo di prospettiva storica, di prospettiva scientifica, di prospettiva estetica, di prospettiva del senso comune, o anche della bizzarra prospettiva che si materializza nei sogni e nelle allucinazioni35. Si giunge quindi alla questione di stabilire, in primo luogo, che cosa 169
sia la «prospettiva religiosa» considerata genericamente, in quanto differenziata dalle altre prospettive e, in secondo luogo, come gli uomini giungano ad adottarla. Se poniamo la prospettiva religiosa sullo sfondo di tre delle altre maggiori prospettive nei cui termini gli uomini interpretano il mondo – quella del senso comune, quella scientifica e quella estetica – emerge più nitidamente il suo peculiare carattere specifico. Ciò che distingue il senso comune come modo di «vedere» è, come ha fatto notare Schutz, una semplice accettazione del mondo, dei suoi oggetti e dei suoi processi come se fossero proprio come sembrano essere – ciò che a volte si chiama realismo ingenuo –e il movente pragmatico, il desiderio di agire sul mondo così da piegarlo ai propri scopi pratici, di padroneggiarlo o, dove questo si riveli impossibile, di adattarsi ad esso36. Il mondo della vita quotidiana, esso stesso naturalmente un prodotto culturale, perché è inquadrato nei termini della concezione simbolica del «fatto tenace» tramandato di generazione in generazione, è la scena prestabilita e l’oggetto dato delle nostre azioni. È lì, come il monte Everest, e l’unica cosa da fare, se si sente il bisogno di fare qualcosa, è scalarlo. Nella prospettiva scientifica è esattamente questa «datità» che scompare37. Il dubbio deliberato e l’indagine sistematica, la sospensione della motivazione pratica in favore dell’osservazione disinteressata, il tentativo di analizzare il mondo in termini di concetti formali il cui rapporto con le concezioni informali del buon senso diventa sempre più problematico – ecco le garanzie del tentativo di cogliere il mondo scientificamente. Per quanto riguarda la prospettiva estetica, che forse è stata quella più sottilmente esaminata sotto 170
l’etichetta di «atteggiamento estetico», essa comporta un tipo diverso di sospensione del realismo ingenuo e dell’interesse pratico, poiché invece di interrogare le credenziali dell’esperienza quotidiana, si ignora semplicemente tale esperienza in favore di un avido indugio sulle apparenze, un’attenzione alle superfici, un assorbimento nelle cose, come diciamo «in loro stesse»: «La funzione dell’illusione artistica non è “far credere”… ma proprio l’opposto; il disimpegno dal credere – la contemplazione delle qualità sensibili senza il loro solito significato “ecco quella sedia”, “quello è il mio telefono”… eccetera. Sapere che ciò che sta davanti a noi non ha nessun significato pratico nel mondo è ciò che ci permette di prestare attenzione alla sua apparenza in quanto tale»38. E come la prospettiva del senso comune e quella scientifica (o quella storica, filosofica o artistica), questa prospettiva, questo «modo di vedere» non è il prodotto di qualche misteriosa alchimia cartesiana, ma è indotta, mediata ed effettivamente creata per mezzo di curiosi quasi-oggetti – poesie, drammi, sculture, sinfonie – che, dissociandosi dal solido mondo del senso comune, assumono quel genere particolare di eloquenza che solo le pure apparenze possono raggiungere. La prospettiva religiosa differisce da quella del senso comune per il fatto che, come è già stato osservato, si muove al di là delle realtà della vita quotidiana verso realtà più ampie che le correggono e le completano, e la sua preoccupazione caratteristica non è un’azione su quelle realtà più ampie ma l’accettazione di esse, la fede in esse. Differisce dalla prospettiva scientifica in quanto mette in dubbio le realtà della vita quotidiana non per uno 171
scetticismo istituzionalizzato che dissolve la datità del mondo in un turbine di ipotesi probabilistiche, ma nei termini di quelle che ritiene essere verità più forti, non ipotetiche. La sua parola d’ordine è impegno, non distacco; incontro, non analisi. E differisce dall’arte in quanto, invece di disimpegnarsi da tutta la questione della fattualità, fabbricando deliberatamente un’atmosfera di parvenza e di illusione, approfondisce l’interesse per i fatti e cerca di creare un’aura di estrema realtà. La prospettiva religiosa si basa su questo senso del «realmente reale» e le attività simboliche della religione come sistema culturale si dedicano a produrlo, intensificarlo e, fin dove è possibile, renderlo inviolabile dalle rivelazioni discordanti dell’esperienza laica. Impregnare un certo complesso specifico di simboli – la metafisica che formulano e lo stile di vita che raccomandano – di un’autorità persuasiva: questa è, da un punto di vista analitico, l’essenza dell’azione religiosa. Il che ci porta finalmente al rituale. È infatti nel rituale – cioè nella condotta consacrata – che si genera in qualche modo questa convinzione che le concezioni religiose sono veritiere e le direttive religiose sono valide. È in una specie di forma cerimoniale – anche se questa forma non è altro che il racconto di un mito, la consultazione di un oracolo o la decorazione di una tomba – che gli stati d’animo e le motivazioni che i simboli sacri inducono negli uomini si incontrano e si rafforzano con i concetti generali sull’ordine dell’esistenza che essi formulano per gli uomini. In un rituale, il mondo com’è vissuto e il mondo com’è immaginato, fusi insieme sotto l’azione di un unico complesso di forme simboliche, si rivelano essere lo stesso 172
mondo, producendo cosi quella trasformazione idiosincratica del senso della realtà a cui si riferisce Santayana nella epigrafe di questo capitolo. Qualunque ruolo abbia, o non abbia, l’intervento divino nella creazione della fede – e non sta allo scienziato pronunciarsi in un senso o nell’altro in tale materia – è fuori dal contesto degli atti concreti di osservanza religiosa che emerge – almeno all’inizio – la convinzione religiosa sul piano umano. Tuttavia, benché qualunque rituale religioso, anche se apparentemente automatico o convenzionale (ma se è veramente automatico o puramente convenzionale non è religioso), comporti questa fusione simbolica dell’ethos e della visione del mondo, sono principalmente certi rituali più elaborati e di solito più pubblici, in cui sono coinvolti una vasta gamma di stati d’animo e di motivazioni da un lato, e di concezioni metafisiche dall’altro, che plasmano la coscienza spirituale di un popolo. Usando un utile termine introdotto da Singer, possiamo chiamare queste fastose cerimonie «rappresentazioni culturali» e notare che esse rappresentano non solo il punto in cui per il credente convergono gli aspetti disposizionali e concettuali della vita religiosa, ma anche il punto dove l’osservatore distaccato può cogliere più prontamente l’interazione tra di essi: Ogni volta che i bramini di Madras (e anche i non bramini, se è per questo) desideravano mostrarmi qualche caratteristica dell’induismo, citavano sempre o mi invitavano a vedere un particolare rito o cerimonia nel ciclo della vita, nella festa di un tempio, o nella sfera generale delle rappresentazioni religiose e culturali. Riflettendo su questo nel corso delle mie interviste ed osservazioni trovai che le generalizzazioni più astratte sull’induismo (tanto le mie quanto quelle che ascoltavo da altri) si potevano controllare, direttamente o indirettamente, contrapponendole a queste rappresentazioni osservabili39.
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Naturalmente non tutte le idee culturali sono religiose e in pratica non è sempre così facile tracciare la linea di separazione tra queste e quelle artistiche o politiche, perché, come le forme sociali, così le forme simboliche possono servire a molteplici usi. Ma il fatto è che, parafrasando un poco, gli Indiani – «e forse tutti i popoli» – sembrano pensare alla loro religione «come se fosse incapsulata in queste singole rappresentazioni che essi (possono) mostrare ai visitatori ed a loro stessi»40. Il modo dell’esibizione è tuttavia radicalmente diverso per i due tipi di testimoni, un fatto apparentemente trascurato da quanti sostengono che «la religione è una forma di arte umana»41. Mentre per i «visitatori» le rappresentazioni religiose possono essere, a seconda del caso, solo la presentazione di una particolare prospettiva religiosa, e così apprezzate dal punto di vista estetico o dissezionate scientificamente, per i partecipanti sono anche messa in atto, materializzazioni, realizzazioni di essa – non solo modelli di ciò che essi credono, ma anche modelli per crederlo. In queste rappresentazioni plastiche gli uomini raggiungono la fede mentre la rappresentano o raffigurano. Prendiamo come esempio una rappresentazione culturale spettacolarmente teatrale di Bali – quella in cui una terribile strega di nome Rangda intraprende un combattimento rituale con un tenero mostro chiamato Barong42. Questo dramma, presentato di solito, ma non necessariamente, in occasione di celebrazioni funebri in un tempio, consiste in una danza mascherata in cui la strega – descritta come una vecchia vedova devastata, prostituta e mangiatrice di bambini – viene a spargere la pestilenza e la morte nel paese ed è contrastata dal mostro – presentato come una specie di 174
incrocio tra un goffo orso, uno stupido cucciolo ed un traballante dragone cinese. Rangda, impersonata da un giovane, è una figura repellente. Gli occhi le fuoriescono dalla fronte come pustole gonfie. I denti divengono zanne che le si incurvano sulle guance e toccano il mento. I capelli ingialliti ricadono in una matassa intricata. I seni sono capezzoli penduli e rinsecchiti irti di peli, tra i quali penzolano fila di interiora colorate, simili a salsicce. La sua lunga lingua rossa è un torrente di fuoco. E mentre balla allarga le mani di un biancore mortale, da cui sporgono unghie simili ad artigli lunghe dieci pollici, ed emette urla snervanti e risate metalliche. Barong, impersonato da due uomini travestiti da cavallo come nelle operette, è un’altra cosa. Alla sua pelliccia arruffata come quella di un cane da pastore sono appesi ornamenti d’oro e di mica che scintillano nella penombra. È ornato di fiori, frange, piume, specchietti e una comica barba fatta di capelli umani. E benché sia anche un demone, strabuzza gli occhi e fa schioccare le mandibole provviste di zanne con misurato ardore quando reagisce a Rangda o ad altri affronti alla sua dignità; il grappolo di campanelli tintinnanti che gli pendono dalla coda assurdamente inarcata fa sì che la sua aria spaventosa risulti in qualche modo mitigata. Se Rangda è un’immagine satanica, Barong è farsesca e il loro scontro è uno scontro (inconcludente) tra il malvagio e il ridicolo. Questo bizzarro contrappunto di malvagità implacabile e di commedia grossolana pervade tutta la rappresentazione. Rangda, stringendo il suo magico abito bianco, si muove barcollando lentamente, ora fermandosi immobile, pensierosa o incerta, ora piegandosi in avanti all’improvviso. Il momento del suo ingresso (si vedono dapprima quelle 175
terribili mani dalle unghie lunghe quando essa spunta attraverso la porta sfondata in cima ad una breve scalinata di pietra) è un momento di forte tensione, in cui sembra, quanto meno a un «visitatore», che tutti siano sul punto di crollare e fuggir via terrorizzati. Lei stessa sembra pazza di paura e di odio, mentre urla imprecazioni contro Barong in mezzo al selvaggio tintinnio del gamelan. In effetti può cadere in preda all’amok. Io stesso ho visto dei Rangda lanciarsi a capofitto nel gamelan e correre freneticamente in confusione totale, riportati alla calma ed al controllo solo dalla forza congiunta di una mezza dozzina di spettatori; e si sentono molte storie di Rangda in preda all’amok che hanno terrorizzato per ore un villaggio, e di interpreti che sono rimasti per sempre sconvolti dalle loro esperienze. Ma Barong, benché dotato dello stesso potere sacro simile al mana (sakti in balinese) di Rangda, e sebbene anche i suoi interpreti siano in trance, sembra aver grandi difficoltà a restare serio. Scherza col suo seguito di demoni (che contribuiscono all’allegria con le loro burle grossolane), si sdraia su un metallofono mentre viene suonato o batte con le gambe su un tamburo, muove la metà anteriore in una direzione e quella posteriore in un’altra o piega il suo corpo segmentato in ridicoli contorcimenti, scaccia via le mosche dal corpo o annusa aromi nell’aria, e in generale saltella qua e là in un parossismo di narcisistica vanità. Il contrasto non è assoluto, perché a volte Rangda è momentaneamente comica come quando finge di lucidare gli specchietti sulla veste di Barong e Barong diventa un po’ più serio quando appare Rangda, facendo schioccare nervosamente i denti contro di lei e infine attaccandola direttamente. L’umoristico e l’orrido non sono sempre tenuti rigidamente 176
separati, come in quella singolare scena in una sezione del ciclo in cui parecchie streghe meno importanti (discepole di Rangda) lanciano in aria il corpo di un bambino nato morto tra il convulso divertimento del pubblico; o un’altra scena, non meno singolare, in cui la vista di una donna incinta che alterna istericamente lacrime e risate mentre viene picchiata da un gruppo di becchini sembra per qualche motivo straordinariamente buffa. I temi gemelli dell’orrore e della ilarità trovano la loro espressione più pura nei due protagonisti e nella loro incessante ed incerta lotta per il predominio, ma sono intrecciati per tutta la trama del dramma in modo volutamente intricato. È di essi – o meglio delle relazioni tra di loro – che si parla. Non occorre tentare qui una descrizione completa di una rappresentazione Rangda-Barong: queste rappresentazioni variano molto nei particolari, sono formate da parecchie parti non troppo integrate e in ogni caso hanno una struttura tanto complessa da non poter essere riassunta in breve. Per i nostri scopi il punto da sottolineare è che il dramma per i balinesi non è uno spettacolo da guardare, ma un rituale da eseguire. Non vi è alcuna distanza estetica che separi gli attori dal pubblico e che collochi gli avvenimenti descritti nel mondo impenetrabile dell’illusione, e, nel momento in cui un duello tra Rangda e Barong si conclude, la maggioranza, se non tutto il gruppo che lo ha promosso risulta coinvolto in esso non solo con la fantasia, ma anche col corpo. In uno degli esempi di Belo ho contato più di 75 persone – uomini, donne e bambini – che partecipano all’attività in un momento o nell’altro, e in genere un numero di 30 o 40 partecipanti non è affatto insolito. In quanto rappresentazione, il dramma è simile ad una messa 177
solenne, non ad una recitazione di Assassinio nella cattedrale: è un avvicinarsi, non un restare indietro. In parte questo ingresso nel cuore del rituale avviene attraverso l’azione dei vari ruoli secondari in esso contenuti – streghe poco importanti, demoni, vari tipi di figure mitiche e leggendarie – che sono recitati da abitanti del villaggio prescelti. Ma soprattutto avviene grazie allo straordinario sviluppo di una capacità di dissociazione psicologica da parte di una quota consistente della popolazione. Uno scontro Rangda-Barong è inevitabilmente caratterizzato ovunque da tre-quattro fino a parecchie dozzine di spettatori che vengono posseduti da questo o quel demone, cadono in violenti stati di trance «come petardi che esplodono uno dopo l’altro»43 e, afferrando dei kriss, corrono a gettarsi nella mischia. La trance di massa, dilagando come Il panico, proietta l’individuo balinese fuori dal mondo normale in cui vive di solito per gettarlo nel mondo straordinario in cui vivono Rangda e Barong. Per i balinesi cadere in trance è varcare la soglia che porta in un altro ordine di esistenza – la parola che indica la trance è nadi, da dadi, tradotto spesso con «diventare» ma che si potrebbe rendere più semplicemente anche con «essere». E anche quelli che per qualche ragione non varcano questa soglia sono coinvolti nell’azione, perché devono impedire che le frenetiche attività di quanti sono in trance sfuggano di mano, mediante costrizioni fisiche se sono uomini comuni, aspergendoli di acqua santa e pronunciando incantesimi se sono sacerdoti. Un rito Rangda-Barong ondeggia, o sembra ondeggiare, quando è all’apice, sull’orlo di un amok collettivo in cui il gruppo sempre più esiguo dei non invasati lotta disperatamente (e pare quasi sempre con successo) per 178
controllare il gruppo in crescita di coloro che cadono in trance. Nella sua forma standard – se si può dire che ne abbia una – la rappresentazione inizia con l’apparizione di Barong che saltella e si pavoneggia, come profilassi generale contro quello che deve seguire. Quindi possono succedere varie scene mitiche che riferiscono la storia – e non sono sempre esattamente le stesse – su cui si fonda la rappresentazione, finché appaiono finalmente Barong e poi Rangda. Ha inizio il loro combattimento, Barong ricaccia Rangda verso la porta del tempio della morte, ma non ha il potere di espellerla completamente, ed a sua volta è respinto verso il villaggio. Alla fine, quando sembra che Rangda avrà la meglio, un certo numero di invasati si alza, col kriss in mano, e si precipita a dar man forte a Barong. Ma quando si avvicinano a Rangda (che ha girato la schiena per meditare) essa si volta verso di loro e, agitando il suo abito bianco sakti, li stende a terra in stato comatoso. Rangda allora si ritira in fretta (o viene portata) nel tempio, dove anche lei crolla, nascosta dalla folla eccitata che – mi hanno detto i miei informatori – la ucciderebbe se la vedesse in stato di impotenza. Il Barong si muove tra i danzatori di kriss e li risveglia facendo schioccare i denti e toccandoli con la barba. Quando riprendono la «conoscenza», ancora in trance, sono infuriati per la scomparsa di Rangda e incapaci di attaccarla, rivolgono il kriss contro il loro petto (senza farsi male perché sono in stato di trance) in preda alla frustrazione. A questo punto di solito scoppia un vero pandemonio con i membri della folla, di entrambi i sessi, che cadono in trance ovunque nel cortile e si agitano freneticamente per pugnalarsi, lottare tra di loro, divorare 179
polli vivi o escrementi, rotolarsi convulsamente nel fango e così via, mentre i non invasati tentano di privarli dei loro kriss e di tenerli almeno un po’ sotto controllo. Col tempo coloro che sono caduti in trance sprofondano uno dopo l’altro nel coma, da cui sono destati dall’acqua santa dei sacerdoti e il grande combattimento ha termine – ancora una volta alla pari. Rangda non è stata vinta, ma non ha vinto neanche lei. Un posto in cui frugare per trovare il significato di questo rituale è il complesso di miti, racconti ed esplicite credenze che si ritiene esso ponga in atto. Tuttavia non solo questi miti sono vari e mutevoli – per alcuni Rangda è un’incarnazione di Durga, la malvagia consorte di Siva; per altri è la Regina Mahendradatta, una figura di una leggenda di corte ambientata nella Giava dell’undicesimo secolo; per altri è il capo spirituale delle streghe, come il sacerdote bramino è il capo spirituale degli uomini. Le idee su chi (o «che cosa») sia Barong sono egualmente varie e anche più vaghe – ma sembrano avere solo un ruolo secondario nella percezione del dramma dei Balinesi. È nell’incontro diretto con le due figure nel contesto della rappresentazione effettiva che l’abitante del villaggio arriva a conoscerli, per quanto lo interessa, come genuine realtà. Non sono rappresentazioni di qualcosa, ma presenze. E quando gli abitanti del villaggio cadono in trance divengono – nadi – loro stessi parte del regno in cui esistono queste presenze. Se uno chiede ad un uomo che è stato Rangda, come ho fatto io una volta, se crede che essa sia reale, può farsi sospettare di idiozia. L’accettazione dell’autorità che sta alla base della prospettiva religiosa incarnata dal rituale sgorga quindi dal 180
compimento del rituale stesso. Inducendo una serie di stati d’animo e di motivazioni – un ethos – e definendo un’immagine di ordine cosmico – una visione del mondo – per mezzo di un’unica serie di simboli, la rappresentazione rende il modello per e il modello di, i due aspetti della credenza religiosa, semplici trasposizioni reciproche. Rangda non si limita ad evocare la paura (come pure l’odio, il disgusto, la crudeltà, l’orrore e la lussuria, anche se non sono stato in grado di trattare qui gli aspetti sessuali della rappresentazione), ma la personifica: Il fascino che la figura della Strega esercita sui balinesi si può spiegare solo quando si riconosce che la Strega non è solo una figura che incute paura, ma è la Paura. Le sue mani dalle lunghe unghie non afferrano né artigliano le sue vittime, benché i bambini che giocano a fare le streghe contraggano le mani con un tal gesto. Ma la Strega stessa stende le braccia con le palme in fuori e il dito piegato all’indietro nel gesto che i balinesi chiamano kapar, un termine che applicano alla reazione sussultoria improvvisa di un uomo che cade da un albero… Solo quando vediamo la Strega spaventata lei stessa, oltre che spaventosa, è possibile spiegare il suo potere di richiamo, e il pathos che la circonda quando danza, pelosa, arcigna, zannuta e solitaria, prorompendo nelle sue strane risate acute e occasionali44.
E da parte sua Barong non provoca solo il riso, ma incarna la versione balinese dello spirito comico – una particolare combinazione di giocosità, esibizionismo e stravagante amore per l’eleganza che, insieme con la paura, è forse il motivo dominante della loro vita. La lotta costantemente ricorrente di Rangda e Barong verso un pareggio inevitabile è quindi – per i balinesi credenti – tanto la formulazione di una generale concezione religiosa quanto un’esperienza che con autorevolezze la giustifica, e anzi costringe alla sua ac~ ceti azione.
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5. … gli stati d’animo e le motivazioni sembrano assolutamente realistici Ma nessuno, neppure un santo, vive di continuo nel mondo che i simboli religiosi producono, e la maggior parte degli uomini ci vive solo in certi momenti. Il mondo quotidiano degli oggetti di senso comune e delle azioni pratiche è, come dice Schutz, la realtà dominante nell’esperienza umana – «preminente» nel senso che è il mondo in cui siamo più saldamente radicati, di cui non possiamo mettere in dubbio l’intrinseca concretezza (anche se possiamo metterne in dubbio certe parti di essa) e alle cui richieste e pressioni possiamo difficilmente sfuggire45. Un uomo (persino grandi gruppi di uomini) può essere insensibile dal punto di vista estetico, non interessato alla religione, e non equipaggiato per compiere analisi scientifiche formali, ma non può essere completamente privo di buon senso e sopravvivere. Le disposizioni attivate dai rituali religiosi hanno quindi il loro effetto più importante – da un punto di vista umano – al di fuori dei confini del rituale stesso, poiché esse si ripercuotono nelle concezioni che gli individui hanno del mondo dei fatti fornendo loro una coloritura specifica. Il tono particolare che contraddistingue la ricerca della visione dell’indiano delle pianure, la confessione manus, o l’esercizio mistico giavanese pervade diverse altre zone della vita di questi popoli ben al di là della sfera immediatamente religiosa, imprimendo loro uno stile distintivo nel senso di uno stato d’animo dominante e di un movimento caratteristico. L’intreccio di malvagio e di comico, che il combattimento Rangda-Barong rappresenta, anima un campo assai vasto del comportamento quotidiano balinese, molto del quale, come 182
il rituale stesso, ha un’aria di genuina paura appena contenuta da una giocosità ossessiva. La religione è sociologicamente interessante non perché, come direbbe il volgare positivismo, descrive l’ordine sociale (il che avviene, nella misura in cui avviene, non solo molto indirettamente, ma anche in modo molto incompleto), ma perché, come l’ambiente, il potere politico, la ricchezza, l’obbligazione giuridica, l’affetto personale e il senso della bellezza, dà ad esso una forma. Il movimento oscillatorio tra la prospettiva religiosa e quella del senso comune è effettivamente uno degli accadimenti empirici più ovvi sulla scena sociale, per quanto esso sia uno dei fenomeni più trascurati dagli antropologi sociali, e nonostante che praticamente tutti l’abbiano potuto osservare innumerevoli volte. La credenza religiosa è stata di solito presentata come una caratteristica unica di un individuo, alla stessa stregua del suo luogo di residenza, del suo ruolo professionale, della sua posizione nella famiglia e così via. Ma la credenza religiosa, quale si determina nel rituale, quando essa assorbe tutta la persona, trasportandola, per quanto la riguarda, in un altro genere di esistenza, e la credenza religiosa come pallido riflesso di quell’esperienza rievocata nel mezzo della vita quotidiana, non sono esattamente la stessa cosa, e l’incapacità di rendersene conto ha portato a qualche confusione, specialmente in relazione al problema della cosiddetta mentalità primitiva. Molte delle difficoltà di Lévy-Bruhl e Malinowski sulla natura del «pensiero indigeno», per esempio, nascono dalla mancanza di un pieno riconoscimento di questa distinzione: laddove il filosofo francese si interessava della visione della realtà che i selvaggi adottavano quando assumevano una prospettiva 183
specificamente religiosa, l’etnografo anglo-polacco si interessava di quella che adottavano quando assumevano una prospettiva basata sul senso comune46. Forse entrambi avvertivano vagamente che non parlavano proprio della stessa cosa, ma il punto in cui andarono fuori strada fu la mancata spiegazione del modo in cui queste due forme di «pensiero» – o, come direi io, queste due modalità di espressione simbolica – interagiscono: infatti, mentre i selvaggi di Lévy-Bruhl tendevano a vivere, checché ne dicano i suoi successivi detrattori, in un mondo interamente composto di incontri mistici, quelli di Malinowski tendevano a vivere, nonostante l’accento da lui posto sull’importanza funzionale della religione, in un mondò interamente composto di azioni pratiche. Entrambi divennero riduzionisti (un idealista è altrettanto riduzionista di un materialista) loro malgrado, perché non riuscirono a vedere l’uomo in quanto capace di muoversi più o meno agevolmente e comunque molto di frequente, tra modi di guardare il mondo radicalmente in contrasto, modi che non sono contigui bensì separati da abissi culturali, per superare i quali occorre fare salti kierkegaardiani in entrambe le direzioni: Vi sono tanti innumerevoli generi di esperienze traumatiche quante sono le diverse provincie finite di significato sulle quali io posso porre l’accento della realtà. Ecco alcuni esempi: il trauma di addormentarsi come salto nel mondo dei sogni; la trasformazione interiore cui noi siamo sottoposti quando si alza il sipario come transizione nel mondo del palcoscenico; il mutamento radicale del nostro atteggiamento se, dinanzi a un quadro, facciamo in modo che il nostro campo visivo si limiti a ciò che è dentro la cornice, come passaggio nel mondo pittorico; il nostro imbarazzo, che si rilassa nel ridere, se, nel dare ascolto ad una storia scherzosa, siamo per un momento disposti ad accettare il suo mondo fittizio come una realtà in relazione a cui il mondo della nostra vita quotidiana assume un carattere di assurdità; il volgersi del bambino verso il suo giocattolo come passaggio al mondo del gioco, e così
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via. Ma anche le esperienze religiose in tutte le loro varietà – per esempio l’esperienza da parte di Kierkegaard dell’astante» come salto nella sfera religiosa – costituiscono esempi di tale trauma, così come la decisione dello scienziato di sostituire alla partecipazione emotiva alle cose di «questo mondo» un disinteressato atteggiamento contemplativo47.
Il riconoscimento e l’esplorazione della differenza qualitativa – una differenza empirica, non trascendentale – tra la religione pura e la religione applicata, tra un incontro con il presunto «realmente reale» e una contemplazione dell’esperienza ordinaria alla luce di quello che l’incontro sembra rivelare, ci avvicineranno quindi alla comprensione di ciò che intende un Bororo quando dice «io sono un parrocchetto» o un cristiano quando dice «io sono un peccatore», ben più di quanto farebbe una teoria del misticismo primitivo in cui il mondo comune scompare in una nuvola di idee curiose o di pragmatismo primitivo in cui la religione si disintegra in una raccolta di utili finzioni. Quello del parrocchetto, che prendo da Percy, è un buon esempio48. Infatti, come egli fa notare, è insoddisfacente dire che il Bororo pensa di essere letteralmente un parrocchetto (perché non cerca di accoppiarsi con gli altri parrocchetti), o che la sua dichiarazione è falsa o stupida (perché chiaramente egli non sta offrendo – o per lo meno non sta solo offrendo – quel tipo di argomentazione di appartenenza a una classe, che può essere confermata o confutata, come ad esempio «io sono un Bororo») o ancora che è falso scientificamente ma vero miticamente (perché conduce immediatamente alla nozione di finzione pragmatica che, dato che nega l’assimilazione della verità al «mito» nell’atto stesso di concedergliela, è internamente contraddittoria). Con maggior coerenza bisognerebbe vedere la frase come dotata di un senso particolare nel 185
contesto della «provincia finita di significato» formato dalla prospettiva religiosa, e di un altro senso nella provincia di significato del senso comune. Nella prospettiva religiosa il nostro Bororo è «veramente» un «parrocchetto» e in un contesto rituale appropriato potrebbe benissimo «accoppiarsi» con altri «parrocchetti» (metafisici come lui, non quelli normali che volano materialmente tra gli alberi). Nella prospettiva del senso comune invece egli è un parrocchetto nel senso che – ritengo – appartiene ad un clan i cui membri considerano il parrocchetto come il loro totem, un’appartenenza da cui derivano certe conseguenze morali e pratiche, data la natura fondamentale della realtà quale è rivelata dalla prospettiva religiosa. Un uomo che dice di essere un parrocchetto, se lo afferma in una normale conversazione, dice che, come dimostrano il mito ed il rituale, egli è pervaso dalla «parrocchettità» e che questo fatto religioso ha delle importanti implicazioni sociali – noi parrocchetti dobbiamo serrare i ranghi, non dobbiamo sposarci fra di noi, o mangiare i parrocchetti di questo mondo e così via, perché fare altrimenti è agire contro il senso dell’universo intero. È questo porre atti immediati o banali in contesti aventi un valore definitivo ciò che rende la religione tanto potente sul piano sociale, almeno di solito. Essa altera, spesso radicalmente, l’intero panorama che si presenta al senso comune, e lo altera in modo tale che gli stati d’animo e le motivazioni indotte dalla pratica religiosa sembrano essi stessi supremamente pratici, i soli che è sensato adottare considerato il modo in cui le cose stanno «realmente». Essendo «saltato» ritualmente (l’immagine è forse un po’ troppo atletica per come si svolgono davvero i fatti 186
–«scivolato» sarebbe forse più esatto) nel contesto di significato definito dalle concezioni religiose, ed essendo ritornato nel mondo del senso comune, alla fine del rituale, un uomo risulta cambiato – a meno che tale esperienza sia stata troppo debole per rimanere impressa, come talvolta accade. E come è cambiato lui, lo è anche il mondo del senso comune, poiché ora è visto solamente come forma parziale di una più ampia realtà che lo corregge e lo completa. Ma la correzione ed il completamento non sono dappertutto gli stessi nel contenuto, come direbbero certi studiosi di «religione comparata». La natura della direzione che la religione imprime alla vita ordinaria varia a seconda della religione stessa, cioè delle particolari disposizioni indotte nel credente dalle specifiche concezioni di ordine cosmico che egli ha finito per accettare. La specificità organica di una religione particolare è di solito riconosciuta a livello delle «grandi» religioni, a volte ribadita sino a giungere al fanatismo. Ma anche ai suoi livelli popolari e tribali più semplici – dove l’individualità delle tradizioni religiose si è così spesso dissolta in categorie aride come «animismo», «animatismo», «totemismo», «sciamanismo», «culto degli antenati» e tutte le altre insipide categorie per mezzo delle quali gli etnografi della religione devitalizzano i loro dati – il carattere idiosincratico del modo in cui si comportano i vari gruppi di uomini a causa di quello che credono di aver sperimentato è chiaro. Un tranquillo giavanese non sarebbe a suo agio nella società manus ossessionata dal senso di colpa più di quanto un frenetico crow lo sarebbe nell’apatica Giava. E nonostante tutte le streghe e i clown rituali del mondo, Rangda e Barong sono 187
raffigurazioni della paura e della gaiezza non generalizzate ma del tutto singolari. Quello a cui credono gli uomini è vario come ciò che sono – e questa affermazione manterrebbe il suo valore anche se venisse capovolta. È questo carattere sempre particolare dell’impatto dei sistemi religiosi sui sistemi sociali (e sui sistemi della personalità) che rende impossibili valutazioni generiche della religione in termini morali o funzionali. Gli stati d’animo e le motivazioni che caratterizzano un uomo che ha appena assistito ad un sacrificio umano azteco sono alquanto diversi da quelli di uno che si è appena tolto la sua maschera katchina. Anche all’interno della stessa società, ciò che uno «apprende» sul modello essenziale della vita da un rito stregonesco o da un pranzo con commensali avrà effetti alquanto diversi sul funzionamento sociale e psicologico. Uno dei principali problemi metodologici quando si scrive scientificamente della religione è riuscire a mettere subito da parte il tono dell’ateo del villaggio e quello del predicatore del villaggio, come pure i loro equivalenti più sofisticati, così che possano emergere in una luce chiara e neutrale le implicazioni sociali e psicologiche delle particolari credenze religiose. E quando si sia fatto ciò, le questioni generali se la religione sia «buona» o «cattiva», «funzionale» o «disfunzionale», «rafforzatrice dell’ego» o «generatrice di ansia» scompaiono come le chimere che sono, e si resta con valutazioni, giudizi e diagnosi particolari su casi particolari. Naturalmente resta il problema non trascurabile, se questa o quella asserzione religiosa sia vera, se questa o quella esperienza religiosa sia genuina, o se siano possibili asserzioni religiose veridiche e esperienze religiose genuine. Ma non si possono porre simili domande, né tanto meno 188
trovar loro una risposta, entro i limiti che la prospettiva scientifica si autoimpone.
III Secondo l’antropologo, l’importanza della religione risiede nella sua capacità di funzionare, per l’individuo o per il gruppo, come una fonte di concezioni generali e tuttavia peculiari circa il mondo, l’io e i rapporti tra l’io e il mondo (è l’aspetto della religione come modello di) e come fonte di disposizioni «mentali» radicate, e non meno specifiche (l’aspetto della religione come modello per). Da queste funzioni culturali derivano a loro volta le sue funzioni sociali e quelle psicologiche. I concetti religiosi si estendono oltre il loro contesto specificamente metafisico per fornire una cornice di idee generali nei cui termini si può dare una forma densa di significato a una vasta gamma di esperienze – intellettuali, emotive, morali. I cristiani vedono il movimento nazista sullo sfondo della Caduta che, per quanto non lo spieghi in senso causale, lo colloca in una prospettiva morale, conoscitiva, perfino affettiva. Un azande interpreta il crollo di un granaio sopra un parente o un amico sullo sfondo di una nozione concreta e piuttosto particolare di stregoneria ed evita così il dilemma filosofico come pure lo stress psicologico dell’indeterminismo. Un giavanese trova nel concetto di rasa (senso – gusto – sentimento – significato) che la sua società ha preso a prestito e rielaborato, un mezzo per «vedere» i fenomeni coreografici, gustativi, emotivi e politici sotto una nuova luce. Una sinossi di ordine cosmico, 189
un insieme di credenze religiose è anche una chiosa sul mondo dei rapporti sociali e degli avvenimenti psicologici e politici: li rende afferrabili. Ma più che una chiosa queste credenze svolgono anche il ruolo di modelli. Non interpretano semplicemente i processi sociali e psicologici in termini cosmici – nel qual caso sarebbero credenze filosofiche e non religiose – bensì danno ad essi una forma. Nella dottrina del peccato originale sono racchiusi anche un prescritto atteggiamento verso la vita, uno stato d’animo ricorrente e un insieme di motivazioni persistenti. L’azande impara dai concetti della stregoneria non solo a capire gli «incidenti» come tali, ma a reagire a questi incidenti illeciti con un giusto odio per chi li ha provocati ed a procedere contro di lui con la dovuta risolutezza. Rasa, oltre ad essere una concezione della verità, della bellezza e della bontà, è anche un modo privilegiato di sperimentare le cose, una sorta di distacco affettivo, una varietà di blando riserbo, una calma imperturbabile. Gli stati d’animo e le motivazioni prodotte da un orientamento religioso gettano una luce riflessa, lunare sui solidi tratti della vita secolare di un popolo. Delineare il ruolo psicologico e sociale della religione non significa tanto reperire delle correlazioni tra specifici atti rituali e specifici legami sociali – anche se queste correlazioni ovviamente esistono e sono degne di un’investigazione continua, specialmente se si può trovare qualcosa di nuovo da dire a tale proposito. Piuttosto, si tratta di capire come le nozioni, per quanto implicite, di ciò che gli uomini ritengono essere «realmente reale», nonché le disposizioni indotte in loro da queste nozioni, assumano un’aura di ragionevolezza, praticabilità, umanità, moralità. 190
Fin dove queste nozioni arrivino (in molte società gli effetti della religione sembrano molto circoscritti, in altre molto diffusi) e a quale profondità (alcuni uomini e gruppi di uomini sembrano non prendere troppo sul serio la loro religione nelle faccende del mondo, mentre altri paiono applicare la loro fede ad ogni occasione, anche se banale) e con quanta efficacia esse operino (l’ampiezza del divario tra ciò che la religione raccomanda e ciò che la gente effettivamente fa è molto variabile attraverso le culture) – tutti questi sono problemi fondamentali nella sociologia e nella psicologia comparata della religione. Anche il grado con cui i sistemi religiosi stessi si sono sviluppati sembra variare ampiamente, e non su una semplice base evolutiva. In una società il livello di elaborazione delle formulazioni simboliche relative alla realtà ultima delle cose può raggiungere gradi di complessità e di articolazione sistematica straordinari; in un’altra, non meno sviluppata socialmente, queste formulazioni possono restare primitive nel vero senso della parola, poco più che ammassi di credenze derivate e frammentarie, di immagini isolate, di riflessi sacri, di pittogrammi spirituali. È sufficiente pensare agli australiani ed ai boscimani, ai toradja e agli aloresi, agli hopi e agli apache, agli indù e ai romani, e perfino agli italiani e ai polacchi, per constatare che il grado di articolazione religiosa non è una costante neppure tra società di complessità equivalente. Lo studio antropologico della religione è pertanto un’operazione in due fasi: dapprima un’analisi del sistema di significati incarnati nei simboli che formano la religione vera e propria, e quindi il collegamento di questo sistema ai processi sociali, culturali e psicologici. La mia 191
insoddisfazione per tanta parte del lavoro che l’antropologia sociale contemporanea ha dedicato alla religione è dovuta non già al fatto che essa si interessa della seconda fase, ma che trascura la prima, e così facendo dà per scontato quello che maggiormente necessita di delucidazioni. Discutere il ruolo del culto degli antenati nel regolare la successione politica, delle feste sacrificali nel definire gli obblighi di parentela, del culto degli spiriti nel pianificare le pratiche agricole, della divinazione nel rafforzare il controllo sociale o dei riti di iniziazione nel favorire la maturazione della personalità, non sono in alcun senso imprese poco importanti, e io non sto raccomandando che vengano abbandonate per quell’inconsistente cabalismo in cui può così facilmente cadere l’analisi simbolica di fedi esotiche. Ma non mi sembra particolarmente promettente intraprendere questi tentativi disponendo di un’idea molto generica, basata sul mero senso comune, di quello che sono il culto degli antenati, il sacrificio animale, il culto degli spiriti, la divinazione ed i riti di iniziazione in quanto modelli religiosi. Solo quando disporremo di un’analisi teorica dell’azione simbolica paragonabile per raffinatezza a quella che abbiamo ora per l’azione sociale e psicologica, saremo in grado di affrontare validamente quegli aspetti della vita sociale e psicologica in cui la religione (o l’arte, la scienza, o l’ideologia) svolge un ruolo determinante.
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5. Rituale e mutamento sociale: un esempio giavanese Come in molti altri campi di interesse antropologico, il funzionalismo, sia del tipo sociologico associato al nome di Radcliffe-Brown sia del tipo psicologico-sociale associato a quello di Malinowski, ha dominato per molto tempo le discussioni teoriche sul ruolo della religione nella società. Partendo inizialmente da Le forme elementari della vita religiosa di Durkheim e da Lectures on the Religion of the Semites di Robertson-Smith, l’approccio sociologico (o, come preferiscono chiamarlo gli antropologi inglesi, l’approccio dell’antropologia sociale) mette in rilievo il modo in cui le credenze, e in particolare il rituale, rafforzano i legami sociali tradizionali tra gli individui; sottolinea il modo in cui la struttura sociale di un gruppo è rafforzata e perpetuata attraverso la simbolizzazione ritualistica o mitica dei valori sociali di base su cui si fonda1. L’approccio psicologico-sociale, di cui Frazer e Tylor furono forse i pionieri ma che trovò la sua definizione più chiara nel classico di Malinowski Magia, scienza e religione, pone in risalto quello che la religione fa per l’individuo: come soddisfa le sue esigenze cognitive e affettive per un mondo stabile, dominabile e comprensibile e come gli permette di mantenere un atteggiamento di sicurezza interiore di fronte alle contingenze naturali2. Insieme, i due metodi ci hanno dato una comprensione sempre più particolareggiata delle «funzioni» sociali e psicologiche della religione in una vasta gamma di società. 193
L’approccio funzionalista però è stato meno incisivo nel trattare i mutamenti sociali. Come è stato notato da parecchi scrittori, la concentrazione sui sistemi in equilibrio, sull’omeostasi sociale e sulle immagini di strutture atemporali portano a privilegiare le società «bene integrate» in equilibrio stabile e ad accentuare gli aspetti funzionali degli usi e costumi sociali di un popolo piuttosto che le loro conseguenze disfunzionali3. Nelle analisi della religione questo approccio statico e astorico ha portato ad una concezione ultraconservatrice del ruolo del rituale e della credenza nella vita sociale. Nonostante gli avvertimenti di Kluckhohn4 e di altri sui «costi e benefici» delle varie pratiche religiose come la stregoneria, si è affermata la tendenza ad accentuare gli aspetti armonizzatori, integrativi e di sostegno psicologico dei modelli religiosi piuttosto che gli aspetti distruttivi, disintegrativi e psicologicamente disturbanti: si è preferito dimostrare come la religione conservi la struttura sociale e psicologica e non come la distrugga o la trasformi. Dove si è affrontato il problema del mutamento, come nel lavoro di Redfield sullo Yucatan, lo si è fatto soprattutto in termini di disintegrazione progressiva: «i mutamenti della cultura che nello Yucatan appaiono “andare di pari passo con” la diminuzione dell’isolamento e dell’omogeneità sembrano essere principalmente tre: la disorganizzazione della cultura, la secolarizzazione e l’individualizzazione»5. Tuttavia una conoscenza anche superficiale della nostra storia religiosa ci rende esitanti ad accettare un ruolo così semplicemente «positivo» per la religione in generale. La tesi di questo capitolo è che una delle ragioni principali per cui la teoria funzionalista è inadatta ad 194
affrontare il mutamento sta nella sua incapacità di trattare i processi sociologici e quelli culturali in termini di parità: è quasi inevitabile che un tipo di processo o l’altro sia ignorato o sacrificato per divenire un semplice riflesso, un’«immagine speculare» dell’altro. La cultura viene considerata, come se derivasse interamente dalle forme di organizzazione sociale (approccio caratteristico degli strutturalisti inglesi e di molti sociologi americani), o le forme dell’organizzazione sociale sono considerate come incarnazioni, nei comportamenti, dei modelli culturali (approccio di Malinowski e di molti antropologi americani). In entrambi i casi, il termine minore tende a perdersi come fattore dinamico, e si resta con un concetto onnicomprensivo di cultura («quell’insieme complesso…») oppure con un concetto onnicomprensivo di struttura sociale («la struttura sociale non è un aspetto della cultura ma l’intera cultura di un dato popolo trattata in una particolare costruzione teorica»6). In una situazione simile, gli elementi dinamici del mutamento sociale, generati dall’impossibilità di una perfetta coerenza tra i modelli culturali e le forme di organizzazione sociale, restano non tematizzati. «Noi funzionalisti – ha osservato recentemente E.R. Leach – non siamo in realtà “antistorici” per principio; semplicemente non riusciamo ad adattare i materiali storici al nostro schema concettuale»7. Una revisione dei concetti della teoria funzionalista allo scopo di renderli capaci di trattare più efficacemente i «materiali storici», potrebbe ben cominciare con un tentativo di distinguere analiticamente tra gli aspetti culturali e gli aspetti sociali della vita umana, e di trattarli come fattori indipendentemente variabili e tuttavia come 195
reciprocamente interdipendenti. Anche se sono separabili solo sul piano concettuale, la cultura e la struttura sociale saranno allora ritenute suscettibili di una vasta gamma di integrazioni reciproche, di cui l’integrazione isomorfica è solo un caso limite – un caso comune soltanto nelle società che sono stabili da così tanto tempo da rendere possibile un buon adattamento tra aspetti sociali e aspetti culturali. Nella maggior parte delle società, nelle quali il mutamento è una caratteristica più che un accadimento eccezionale, ci aspetteremo di trovare discontinuità più o meno radicali tra le due dimensioni. Sosterrò che proprio in queste discontinuità possiamo trovare alcune delle forze che più spingono verso il mutamento. Uno dei modi più utili – ma certo non il solo – di distinguere tra cultura e sistema sociale è quello di concepire la prima come un sistema ordinato di significato e di simboli, nei cui termini ha luogo l’interazione sociale; e di vedere il secondo come il modello dell’interazione sociale stessa8. Su un piano c’è il complesso di credenze, simboli espressivi e valori nei cui termini gli individui definiscono il loro mondo, esprimono i loro sentimenti e formulano i loro giudizi; sull’altro, il processo incessante dei comportamenti interattivi, la cui forma durevole chiamiamo struttura sociale. La cultura è l’intelaiatura di significato nei cui termini gli esseri umani interpretano la loro esperienza e orientano la loro azione; la struttura sociale è la forma che prende l’azione, la rete di rapporti sociali realmente esistente. Pertanto la cultura e la struttura sociale sono soltanto diverse astrazioni degli stessi fenomeni: una considera l’azione sociale rispetto al suo significato per quelli che la compiono, l’altra la considera nei termini del 196
suo contributo al funzionamento di un qualche sistema sociale. La natura della distinzione tra cultura e sistema sociale viene spiegata con maggiore chiarezza quando si prendono in considerazione i tipi opposti di integrazione caratteristici di ciascuno di essi. Il contrasto è tra quella che Sorokin ha chiamato «integrazione logico-significativa» e quella da lui definita «integrazione causale-funzionale»9. Con integrazione logico-significativa, tipica della cultura, si intende il genere di integrazione che si trova in una fuga di Bach, in un dogma cattolico o nella teoria generale della relatività: è un’unità di stile, di implicazione logica, di significato e di valore. Con integrazione causale-funzionale, propria del sistema sociale, si intende il tipo di integrazione che si trova in un organismo dove tutte le parti sono unite in un’unica rete causale: ogni parte è un elemento di un anello di cause che si riverberano vicendevolmente e che «fanno funzionare il sistema». E visto che questi due tipi di integrazione non sono identici, visto che dalla forma particolape che uno di essi assume non consegue direttamente la forma che prenderà l’altro, esistono incoerenza e tensione intrinseche tra i due e tra entrambi e un terzo elemento, quel modello di integrazione motivazionale proprio dell’individuo che di solito chiamiamo struttura della personalità: Così concepito, un sistema sociale è solo uno dei tre aspetti della strutturazione di un sistema di azione sociale del tutto concreto. Gli altri due sono i sistemi di personalità degli attori individuali e il sistema culturale che è costruito dentro la loro azione. Si deve ritenere ciascuno dei tre come un centro indipendente dell’organizzazione degli elementi del sistema dell’azione, nel senso che nessuno di essi è teoricamente riducibile nei termini di uno o nella combinazione degli altri due. Ciascuno è indispensabile agli altri due, nel senso che senza personalità e cultura non ci
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sarebbe nessun sistema sociale e così via seguendo l’elenco di possibilità logiche. Ma questa interdipendenza e interpenetrazione è una faccenda molto diversa dalla riducibilità, che significherebbe che le proprietà importanti e le procedure di una classe di sistema potrebbero essere derivate teoricamente dalla nostra conoscenza teorica di uno o entrambi gli altri due. La struttura attiva di riferimento è comune a tutti e tre e questo fatto rende possibili certe «trasformazioni» tra di essi. Ma al livello teorico tentato qui, essi non costituiscono un singolo sistema, per quanto questo potrebbe rivelarsi su qualche altro livello teorico10.
Tenterò di dimostrare l’utilità di questo approccio funzionalista più dinamico applicandolo ad un caso particolare di rituale che non è riuscito a funzionare adeguatamente. Cercherò di mostrare che un approccio che non distingua tra gli aspetti «logico-significativi» inerenti alla dimensione della cultura e gli aspetti «causalifunzionali» inerenti alla struttura sociale, non è in grado di spiegare adeguatamente questo fallimento del rituale, mentre a partire da questa distinzione siamo in grado di analizzare più esplicitamente la causa dell’insuccesso. In questo modo – come tenterò di mostrare – si potrà evitare la visione semplicistica del ruolo funzionale della religione come mera conservazione della struttura sociale e si adotterà una concezione più complessa dei rapporti tra le credenze e le pratiche religiose da un lato e la vita sociale dall’altro. In una concezione del genere si possono inserire i materiali storici, e pertanto l’analisi funzionale della religione può essere ampliata per trattare più adeguatamente i processi di mutamento.
1. L’ambiente
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Il caso qui descritto è quello di un funerale tenutosi a Modjokuto, una cittadina nella parte orientale di Giava centrale. Un ragazzo di circa dieci anni, che abitava con lo zio e la zia, morì all’improvviso. La sua morte, invece di essere seguita dalla solita cerimonia funebre giavanese affrettata, modesta, ma metodicamente efficiente, e dalla routine della sepoltura, produsse un lungo periodo di forte tensione sociale e una acuta tensione psicologica. Il complesso di credenze e di rituali che per generazioni aveva guidato innumerevoli giavanesi attraverso il difficile periodo «post mortem» improvvisamente non riuscì a funzionare con la sua efficienza abituale. Capire il motivo di questo fallimento richiede la conoscenza e la comprensione di una vasta gamma di mutamenti sociali e culturali che si sono verificati a Giava dal primo decennio di questo secolo. Questo funerale scombinato fu in effetti solo un microscopico esempio dei più ampi conflitti, dei dissolvimenti strutturali e dei tentativi di reintegrazione che, in una forma o nell’altra, sono caratteristici della società indonesiana contemporanea. La tradizione religiosa di Giava, in particolare dei contadini, è un composto di elementi indiani, islamici e indigeni del sud-est asiatico. L’emergere dei grandi regni militaristici nei bacini interni del riso nei primi secoli dell’era cristiana fu accompagnato dalla diffusione dei modelli culturali induisti e buddisti nell’isola; l’espansione del commercio internazionale marittimo nelle città portuali della costa settentrionale nel quindicesimo e sedicesimo secolo fu invece accompagnata dalla diffusione dei modelli islamici. Aprendosi la strada tra la massa dei contadini, queste due religioni universali si fusero con le tradizioni 199
animistiche preesistenti, caratteristiche di tutta la regione culturale malese. Il risultato fu un equilibrato sincretismo di miti e di rituali in cui gli dei e le dee indù, i profeti e i santi islamici e gli spiriti e i demoni locali trovarono tutti una loro adeguata collocazione. La forma rituale al centro di questo sincretismo è una festa comunitaria, chiamata slametan. Le feste slametan, che hanno luogo con solo lievi variazioni nella forma e nel contenuto in quasi tutte le occasioni di significato religioso – nei punti di passaggio del ciclo della vita, nelle vacanze del calendario, in certe fasi del ciclo del raccolto, quando si cambia residenza e così via – sono intese sia come offerte agli spiriti sia come meccanismi di integrazione sociale per i vivi mediante la commensalità. Il pasto, che consiste in piatti preparati in modo speciale, ognuno dei quali simboleggia un particolare concetto religioso, viene preparato dalle donne di una famiglia nucleare e servito su stuoie in mezzo al soggiorno. Il capo maschile della famiglia invita i capifamiglia delle otto o dieci case contigue a partecipare: nessun vicino è trascurato a favore di altri che vivono più lontano. Dopo un discorso tenuto dal padrone di casa che spiega lo scopo spirituale della festa ed una breve cantilena araba, ogni uomo inghiotte alcuni bocconi di cibo in modo frettoloso, quasi furtivo, avvolge il resto del pasto in un cesto di foglie di banano* e torna a casa per spartirlo con la sua famiglia. Si dice che gli spiriti traggano la propria sussistenza dall’odore del cibo, dall’incenso che si brucia e dalla preghiera musulmana: i partecipanti umani traggono invece la loro sussistenza dalla sostanza materiale del cibo e dalla loro interazione sociale. Il risultato di questo piccolo
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rituale tranquillo e non drammatico è duplice: gli spiriti vengono acquietati e la solidarietà del vicinato è rafforzata. I canoni ordinari della teoria funzionalista sono del tutto adeguati per l’analisi di questo modello. Si può dimostrare facilmente che lo slametan mira sia a «accordare gli atteggiamenti sui valori fondamentali» necessari all’effettiva integrazione di una struttura sociale basata sulla territorialità sia a soddisfare i bisogni psicologici di coerenza intellettuale e di stabilità emotiva caratteristici di una popolazione rurale. Il villaggio giavanese (una volta o due all’anno si tengono degli slametan che interessano l’intero villaggio) è essenzialmente un complesso di abitazioni di famiglie nucleari territorialmente contigue, ma piuttosto consapevoli della loro autonomia, la cui interdipendenza economica e politica è, grosso modo, dello stesso tipo circoscritto ed esplicitamente definito di quello dimostrato nello slametan. La coltura intensiva del riso e dei prodotti che crescono all’asciutto richiede la perpetuazione di modalità specifiche di cooperazione tecnica e impone un senso comunitario alle famiglie altrimenti piuttosto chiuse – un senso comunitario che viene chiaramente rinforzato dallo slametan. E quando consideriamo il modo in cui i vari elementi concettuali e comportamentali derivati dall’induismo, dal buddismo, dall’islamismo e dall’«animismo» sono reinterpretati e bilanciati per formare uno stile religioso specifico e quasi omogeneo, risulta ancor più evidente lo stretto adattamento funzionale tra il modello di festa comunitaria e le condizioni di vita rurale giavanese. Ma il fatto è che dappertutto, fatta eccezione per le parti di Giava più isolate, sia la semplice base territoriale dell’integrazione sociale del villaggio sia la base sincretica 201
della sua omogeneità culturale sono state progressivamente minate durante gli ultimi cinquantanni. La crescita della popolazione, l’urbanizzazione, la monetizzazione, la differenziazione occupazionale e cose simili si sono unite per indebolire i legami tradizionali, della struttura sociale contadina, e i venti ideologici che hanno accompagnato la comparsa di questi cambiamenti strutturali hanno turbato la semplice uniformità della credenza e della pratica religiosa caratteristiche del periodo precedente. L’insorgere del nazionalismo, del marxismo e della riforma islamica come ideologie, provocato in parte dalla crescente complessità della società giavanese, non solo ha interessato le grandi città dove queste dottrine hanno fatto la loro prima comparsa ed hanno sempre avuto la loro maggior forza, ma ha anche avuto un forte impatto sulle città più piccole e sui villaggi Infatti gran parte dei recenti mutamend sociali giavanesi si possono forse correttamente caratterizzare come un passaggio da una situazione in cui i legami integrativi primari tra gli individui (o tra le famiglie) erano espressi in termini di vicinanza territoriale a una situazione in cui sono espressi mediante somiglianze di mentalità ideologica. Nei villaggi e nelle cittadine questi grossi mutamenti ideologici sono apparsi soprattutto sotto forma di una frattura sempre più ampia tra coloro che accentuavano gli aspetti islamici del sincretismo religioso indigeno e quelli che accentuavano gli elementi induisti ed animistici. È vero che, fin dall’arrivo dell’Islam, sono presenti alcune differenze tra queste varie sottotradizioni; alcuni individui sono sempre stati particolarmente esperti nelle cantilene arabe o particolarmente versati nella legge islamica, mentre altri sono stati dediti a pratiche induiste più mistiche o si 202
sono specializzati nelle tecniche locali di guarigione. Ma questi contrasti erano addolciti dalla benevola tolleranza dei giavanesi per una vasta gamma di concezioni religiose, purché i modelli rituali di base – cioè gli slametan – fossero fedelmente seguiti: qualunque divisione sociale essi stimolassero, questa era ampiamente superata dal preponderante senso di comunità della vita rurale e delle piccole città. Tuttavia la comparsa del modernismo islamico dopo il 1910 (come pure una vigorosa reazione conservatrice contro di esso) e del nazionalismo religioso tra le classi commerciali economicamente e politicamente elevate delle maggiori città, ha rafforzato il sentimento per l’Islam come credenza esclusivista e antisincretistica tra l’elemento più ortodosso della massa della popolazione. Allo stesso modo il nazionalismo laico e il marxismo, diffondendosi tra gli impiegati statali e il proletariato in espansione di queste città, hanno rafforzato gli elementi preislamici (vale a dire induisti-animisti) del modello sincrético, che questi gruppi tendevano a far valere come contrappeso all’Islam puritano, e che alcuni di essi hanno adottato come modello religioso generale, in cui inserire le loro idee più specificamente politiche. Da un lato è comparso un musulmano più consapevole di se stesso, che basa più esplicitamente le sue credenze e le sue pratiche religiose sulle dottrine internazionali e universalistiche di Maometto; dall’altro è sorto un «nativista» pure più consapevole di sé, che tenta di sviluppare un sistema religioso generalizzato a partire dal materiale della sua tradizione religiosa ereditaria, mettendo la sordina agli elementi più islamici. E il contrasto tra il primo tipo di uomo, chiamato santri, e il secondo, chiamato 203
abangan, è divenuto sempre più acuto, fino a formare oggi la principale distinzione culturale nell’intera area di Modjokuto. È soprattutto nella città che questo contrasto ha finito per rivestire un ruolo fondamentale. L’assenza delle pressioni verso la cooperazione interfamiliare un tempo esercitate dalle esigenze tecniche della coltivazione del riso nell’acqua, come pure la diminuita validità delle forme tradizionali di governo del villaggio di fronte alle complessità della vita urbana indeboliscono sensibilmente i sostegni sociali del modello di villaggio sincretico. Quando ogni uomo si guadagna da vivere – come autista, commerciante, impiegato o bracciante – più o meno indipendentemente da come lo fanno i suoi vicini, il suo senso dell’importanza della comunità di vicinato naturalmente diminuisce. Un sistema di classi più differenziato, forme di governo più burocratiche e impersonali, una maggiore eterogeneità nel retroterra sociale, tutto tende a portare allo stesso risultato: l’indebolimento dei legami strettamente territoriali a favore di legami prevalentemente ideologici. Per l’abitante della città la distinzione tra santri e abangan diventa ancor più netta, perché emerge come punto primario di riferimento sociale: diviene un simbolo della sua identità sociale più che un semplice contrasto di credenze. Il tipo di amici che avrà, il tipo di organizzazione a cui si iscriverà, il tipo di leadership politica che seguirà, il tipo di persona che lui o suo figlio sposeranno, saranno tutti fortemente influenzati dal ramo di questa biforcazione ideologica che sceglierà come suo11. Sta così emergendo nella città – anche se non solamente in città – un nuovo modello di vita sociale organizzato nei 204
termini di una struttura alterata di classificazione culturale. Nell’élite questo nuovo modello si è già molto sviluppato, ma tra la massa urbana è ancora in corso di formazione. Soprattutto nei kampong, i sobborghi dove i comuni cittadini giavanesi abitano ammassati insieme in una profusione di casette di bambù costruite a casaccio, si può osservare una società in transizione in cui le forme tradizionali di vita rurale si stanno progressivamente dissolvendo e nuove forme si stanno progressivamente costruendo. In queste enclaves di contadini inurbati (o figli e nipoti di contadini inurbati), la cultura originaria di Redfield si trasforma costantemente nella sua cultura urbana, benché quest’ultima sia caratterizzata in modo non accurato da termini negativi e residui come «secolarizzata», «individualizzata» e «culturalmente disorganizzata». Ciò che accade nei kampong non è tanto una distruzione dei modi di vita tradizionali, quanto la costruzione di un modo nuovo; l’aspro conflitto sociale caratteristico di questi sobborghi abitati dalle classi inferiori non è semplicemente indicativo di una perdita di consenso culturale, quanto piuttosto di una ricerca, non del tutto riuscita, di modelli di credenza e di valore nuovi, più generalizzati e flessibili. A Modjokuto, come nella maggior parte dell’Indonesia, questa ricerca avviene principalmente nel contesto sociale dei partiti politici di massa, come anche nei club femminili, nelle organizzazioni giovanili, nei sindacati e in altre organizzazioni collegate ad essi formalmente o informalmente. Vi sono parecchi di questi partiti (anche se le elezioni del 1955 ne hanno drasticamente ridotto il numero) guidati ciascuno dalle élite urbane colte – funzionari statali, insegnanti, commercianti, studenti e simili 205
– e ciascuno in competizione con gli altri per guadagnarsi la fedeltà politica sia degli abitanti dei kampong, metà rurali, metà urbani, sia della massa dei contadini. E quasi senza eccezioni essi fanno appello all’una o all’altra parte della frattura santri-abangan. Di questo complesso di partiti politici e di associazioni, solo due sono di immediato interesse per noi: il Masjumi, un diffuso partito politico a base islamica e il Permai, un culto politico-religioso vigorosamente antimusulmano. Il Masjumi è un discendente più o meno diretto del movimento riformista islamico d’anteguerra. Guidato, a Modjokuto almeno, da intellettuali santri modernisti, costituisce una versione socialmente consapevole, antiscolastica e piuttosto puritana del fondamentalismo islamico. Assieme agli altri partiti musulmani, sostiene anch’esso l’istituzione di uno «stato islamico» in Indonesia in luogo dell’attuale repubblica laica. Tuttavia il significato di questo ideale non è del tutto chiaro. I nemici del Masjumi lo accusano di premere per una teocrazia intollerante, medievale, in cui gli abangan e i non musulmani sarebbero perseguitati e costretti a seguire rigorosamente le prescrizioni della legge musulmana; al contrario, i leader del Masjumi affermano che l’Islam è per natura tollerante e che essi desiderano solo un governo basato esplicitamente sul credo musulmano, le cui leggi siano in accordo con gli insegnamenti del Corano e del Hadith. In ogni caso il Masjumi, il più grande partito musulmano del paese, è uno dei principali portavoce, a livello nazionale e locale, dei valori e delle aspirazioni della comunità santri. Il Permai non è così influente su scala nazionale. Benché sia un partito nazionale, è piuttosto piccolo ed ha forza solo 206
in alcune regioni piuttosto circoscritte. Nella zona di Modjokuto, tuttavia, si trovò ad avere una certa importanza, e quello che gli mancava a livello nazionale lo compensava in intensità locale. Il Permai è costituito sostanzialmente da una fusione della politica marxista con i modelli religiosi abangan. Ad un antioccidentalismo, anticapitalismo e antimperialismo abbastanza espliciti unisce un tentativo di formalizzare e generalizzare alcuni dei più caratteristici e diffusi temi del sincretismo religioso contadino. Le riunioni del Permai seguono tanto il modello slametan, che prevede l’uso dell’incenso e di cibo simbolico (ma senza cantilene islamiche) quanto la procedura parlamentare moderna; gli opuscoli Permai contengono sistemi divinatori basati sui calendari e sulla combinazione dei numeri, insegnamenti mistici, ma anche analisi del conflitto di classe; e i discorsi che si tengono alle riunioni Permai riguardano l’elaborazione di concetti religiosi e politici. A Modjokuto il Permai è anche un culto curativo, con le sue speciali pratiche mediche e i suoi incantesimi religiosi, una parola d’ordine segreta, e le sue interpretazioni cabalistiche di brani degli scritti sociali e politici dei leader. Ma la caratteristica più notevole del Permai è il suo rigido atteggiamento antimusulmano. Accusando l’Islam di essere di importazione straniera, inadatto ai bisogni e ai valori dei giavanesi, il culto incita a ritornare alle «pure» e «originali» credenze giavanesi, ciò che sembra voler dire un ritorno al sincretismo indigeno con l’accantonamento degli elementi più islamici. Seguendo questa linea, il partito-culto ha iniziato una campagna a livello nazionale e locale a favore del matrimonio e dei riti funerari laici (vale a dire non islamici). Al momento attuale, tutti, tranne i cristiani e gli 207
indù balinesi, devono farsi legalizzare il matrimonio per mezzo di un rituale musulmano12. I riti funerari sono una questione individuale ma, a causa della lunga storia di sincretismo, sono così profondamente intrecciati con le usanze islamiche che un funerale autenticamente non islamico tende ad essere praticamente impossibile. L’azione del Permai a livello locale a favore del matrimonio e delle cerimonie funerarie non islamiche ha assunto due forme. Una è stata una forte pressione sui funzionari governativi locali perché permettessero queste pratiche, e l’altra è stata una forte pressione sui propri membri perché seguissero volontariamente dei rituali purificati dagli elementi islamici. Nel caso del matrimonio, il successo fu più o meno precluso perché le mani dei funzionari locali erano legate dalle ordinanze del governo centrale, ed anche i membri del culto più ideologizzati non oserebbero celebrare un matrimonio apertamente «illegale». Senza un cambiamento della legge il Permai aveva poche possibilità di alterare le forme del matrimonio, benché siano stati fatti alcuni tentativi abortiti di condurre cerimonie civili sotto l’egida di capi-villaggio di mentalità abangan. Il caso dei funerali era un po’ diverso, perché rimandava ad un problema di usanze più che di leggi. Durante il periodo in cui facevo ricerca sul campo (1952-54) la tensione tra il Permai ed il Masjumi divenne molto acuta. Ciò era dovuto in parte all’imminenza delle prime elezioni generali in Indonesia, e in parte agli effetti della guerra fredda. Vi contribuirono però anche vari avvenimenti particolari, come la notizia che il capo nazionale del Permai aveva pubblicamente chiamato Maometto falso profeta; un discorso tenuto nella vicina capitale regionale da un leader 208
Masjumi in cui accusava il Permai di voler allevare una generazione di bastardi in Indonesia; una difficile elezione di un capo di villaggio svoltasi in gran parte come si fosse trattato di un duello tra santri e abangan. Come risultato, il locale funzionario della provincia, un preoccupato burocrate intrappolato tra i contendenti, convocò una riunione tra tutti i funzionari religiosi del villaggio, o Modin. Tra i molti altri incarichi, un Modin è tradizionalmente responsabile della conduzione dei funerali: dirige tutto il rituale, istruisce i partecipanti sui particolari tecnici della sepoltura, dirige i canti del Corano e legge accanto alla tomba un discorso preparato rivolto al defunto. Il funzionario provinciale avvertì i Modin – la maggioranza dei quali erano leader Masjumi del villaggio – che in caso di morte di un membro del Permai dovevano solo prender nota del nome e dell’età del defunto e tornare a casa: non dovevano prender parte al rituale. Li ammonì che, se non facevano come li consigliava, sarebbero stati responsabili di eventuali tumulti e lui non sarebbe accorso in loro aiuto. Questa era la situazione il 17 luglio 1904, quando Paidjan, nipote di Karman, un membro attivo e ardente del Permai, morì all’improvviso nel kampong di Modjokuto dove io abitavo.
2. Il funerale L’atmosfera di un funerale giavanese non comporta lutto isterico, singhiozzi irrefrenabili e neppure grida di dolore formali per la dipartita del defunto. È piuttosto un lasciarsi andare riservato, calmo, quasi languido, un breve 209
abbandono ritualizzato di un rapporto non più possibile. Le lacrime non sono approvate e certamente non sono incoraggiate; lo sforzo è di portare a termine il compito, non di indulgere ai piaceri del dolore. La procedura dettagliata del funerale, gli scambi sociali cortesemente formali con i vicini che si affollano da tutte le parti, la serie di slametan commemorativi prolungati per quasi tre anni ad intervalli regolari – si presume che tutta la sequenza del sistema rituale giavanese faccia superare il dolore senza gravi disturbi emotivi. Per colui che è in lutto, si dice che il funerale ed il rituale post-funerario producano un senso di iklas, una specie di deliberata impassibilità, una condizione di distacco e statica «noncuranza», mentre per il gruppo dei vicini si dice che produca rukun, «armonia comunitaria». Il servizio vero e proprio è essenzialmente un’altra versione dello slametan, adattato alle particolari esigenze della sepoltura. Quando si diffonde in una zona la notizia di un decesso, tutti i vicini devono interrompere quello che stanno facendo e andare subito nella casa dei parenti del morto. Le donne portano ciotole di riso, che viene cotto in uno slametan; gli uomini cominciano ad intagliare lapidi di legno ed a scavare una fossa. In breve giungono i Modin e si mettono a dirigere le attività. La salma è lavata in acqua, preparata secondo una speciale cerimonia dai parenti (i quali impassibili tengono in grembo il cadavere per dimostrare il loro affetto per il defunto ed anche il loro autocontrollo); poi è avvolta nella mussola. Una dozzina di santri, sotto la direzione dei Modin, cantano preghiere arabe sopra il corpo per cinque o dieci minuti; poi questo è portato, fra svariati atti rituali, in una processione cerimoniale, al cimitero, dove viene sepolto nei modi 210
prescritti. Il Modin legge un discorso funebre al defunto, ricordandogli i suoi doveri come musulmano credente e il funerale ha termine, di solito due o tre ore dopo la morte. Il funerale vero e proprio è seguito da slametan commemorativi nella casa dei sopravvissuti a tre, sette, quaranta e cento giorni dalla morte; il primo e il secondo anniversario del decesso e infine il millesimo giorno, quando si ritiene che il corpo si sia mutato in polvere e l’abisso tra morti e vivi sia divenuto insuperabile. Questo era il modello rituale che fu evocato quando Paidjan morì. Non appena spuntò l’alba (la morte avvenne nelle prime ore del mattino) Karman, lo zio, mandò un telegramma ai genitori del ragazzo in una città vicina, dicendo loro, nella caratteristica maniera giavanese, che il loro figlio era malato. Questo sotterfugio doveva addolcire l’impatto della morte, permettendo loro di divenirne consapevoli più gradualmente. I giavanesi pensano che il danno emotivo derivi non dalla gravità di una frustrazione ma dalla subitaneità con cui giunge, il grado in cui «sorprende» chi è impreparato. È questo «shock», non il dolore in se stesso, che è temuto. Quindi, aspettandosi che i genitori sarebbero arrivati entro poche ore, Karman mandò a chiamare il Modin per dare inizio alla cerimonia. Ciò venne fatto credendo che nel momento in cui sarebbero giunti i genitori essi avrebbero avuto ben poco da fare oltre a seppellire il corpo, e così sarebbe anche stato loro risparmiato un inutile stress. Entro le dieci al massimo tutto sarebbe finito’ un triste incidente, ma attenuato dal rituale. Ma quando il Modin, come mi riferì più tardi, arrivò a casa di Karman e vide il manifesto che mostrava il simbolo politico del Perniai, disse a Karman che non poteva 211
compiere il rituale. Dopo tutto Karman apparteneva a «un’altra religione», e lui, il Modin, non ne conosceva il corretto cerimoniale funerario: tutto quello che conosceva era l’Islam. «Non voglio insultare la vostra religione – disse piamente –al contrario, la tengo nella massima considerazione perché nell’Islam non vi è alcuna intolleranza. Ma non conosco il vostro rituale; i cristiani hanno i loro rituali ed il loro specialista (il predicatore locale), ma il Perniai che cosa fa? Bruciano il corpo o che cosa fanno?» (Questa è una maligna allusione alle pratiche funerarie indù: evidentemente il Modin si divertiva enormemente in questo dialogo.) Karman, mi disse il Modin, era piuttosto sconvolto da tutto ciò ed evidentemente era sorpreso, perché, sebbene fosse un membro attivo del Perniai, .non era certo un intellettuale raffinato. Chiaramente non gli era mai venuto in mente che l’agitazione del partito per i funerali antimusulmani avrebbe potuto diventare un problema concreto, o che il Modin si sarebbe effettivamente rifiutato di officiarlo. Karman non era veramente un uomo cattivo, concluse il Modin: era succube dei suoi leader. Dopo aver lasciato Karman, ormai molto agitato, il Modin andò direttamente dal funzionario provinciale per chiedergli se aveva agito correttamente. Il funzionario fu moralmente obbligato a dire di sì e, così fortificato, il Modin tornò a casa, dove trovò Karman e il poliziotto del villaggio, da cui Karman si era recato per disperazione, che lo aspettavano. Il poliziotto, un amico personale di Karman, disse al Modin che, secondo le tradizioni stabilite nel tempo, egli doveva seppellire tutti con imparzialità, indipendentemente dal suo accordo o meno con le loro idee politiche. Ma il Modin, 212
avendo ricevuto l’appoggio personale del funzionario, insistè che non rientrava più nelle sue responsabilità. Suggerì tuttavia che, se Karman lo desiderava, lui poteva andare nell’ufficio del capo del villaggio e firmare una pubblica dichiarazione, suggellata dal timbro del governo e controfirmata dal capo del villaggio alla presenza di due testimoni, dove si affermava che lui, Karman, era un sincero credente musulmano e che voleva che il Modin seppellisse il corpo secondo la tradizione islamica. Al suggerimento di abbandonare ufficialmente le sue credenze religiose, Karman si infuriò e uscì di corsa dalla casa, comportamento piuttosto insolito per un giavanese. Quando arrivò a casa sua, totalmente confuso sul da farsi, trovò con sgomento che si era diffusa la notizia della morte del ragazzo e tutto il vicinato si stava già radunando per la cerimonia. Come la maggior parte dei kampong della città di Modjokuto, quello in cui abitavo io era abitato da devoti santri e ardenti abangan (ed anche da un certo numero di meno ferventi seguaci delle due parti) mescolati assieme piuttosto a casaccio. In città la gente è costretta a vivere dove può e ad accettare per vicino chiunque trovi, in contrasto con le zone rurali dove interi vicinati, perfino interi villaggi, tendono ancora ad essere formati esclusivamente o da abangan o da santri. La maggioranza dei santri del kampong erano membri del Masjumi, e la maggioranza degli abangan erano seguaci del Permai, e nella vita quotidiana l’interazione sociale tra i due gruppi era minima. Gli abangan, che erano per lo più piccoli artigiani o lavoratori manuali, si radunavano ogni tardo pomeriggio nel caffè di Karman sul bordo della strada, per le oziose conversazioni al crepuscolo che sono tipiche della vita delle 213
cittadine e dei villaggi di Giava; i santri – sarti, commercianti, e negozianti per la maggior parte – si riunivano di solito in una delle botteghe gestite da santri per lo stesso scopo. Ma, nonostante la mancanza di stretti legami sociali, la dimostrazione dell’unità territoriale a un funerale era ancora sentita come dovere imprescindibile da entrambi i gruppi: tra tutti i rituali giavanesi, il funerale è probabilmente quello che comporta il maggior obbligo di presenza. Ci si aspetta che tutti quelli che vivono entro un certo raggio (definito approssimativamente) dalla casa dei sopravvissuti vengano alla cerimonia, e in questa occasione lo fecero tutti. Con queste premesse, quando arrivai a casa di Karman verso le otto, non fui sorpreso di trovare due gruppi separati di uomini tetri accovacciati sconsolatamente sui due lati del cortile, un gruppo nervoso di donne bisbiglianti sedute oziosamente dentro la casa vicino al corpo ancora vestito, e un’atmosfera generale di dubbio e di disagio invece del solito tranquillo affaccendarsi per la preparazione dello slametan, il lavacro del corpo e il ricevimento degli ospiti. Gli ahangan erano raggruppati vicino alla casa, dove era accoccolato Karman, con gli occhi fissi nel vuoto, e dove Sudjoko e Sastro, il presidente e il segretario cittadini del Permai (i soli non residenti nel kampong presenti), sedevano sulle sedie, con un’aria vagamente fuori posto. I santri erano ammassati assieme sotto l’esigua ombra di un palmizio a circa trenta yarde di distanza, e chiacchieravano tranquillamente tra di loro di tutto tranne che del problema in questione. La scena quasi immobile faceva pensare ad una interruzione inaspettata in un dramma familiare, come quando un film si ferma nel bel mezzo dell’azione. 214
Dopo circa mezz’ora, alcuni degli abangan cominciarono a intagliare svogliatamente dei pezzi di legno per fare delle lapidi e alcune donne si misero a fabbricare delle piccole offerte di fiori non avendo qualcosa di meglio da fare, ma era chiaro che il rituale si era fermato e che nessuno sapeva bene che cosa fare. La tensione aumentava lentamente. La gente guardava nervosamente il sole che saliva sempre più alto nel cielo, o sbirciava l’impassibile Karman. Si cominciarono a sentire dei brontolii sul triste stato degli affari («di questi tempi ogni cosa è un problema politico – mi borbottò un vecchio tradizionalista sugli ottant’anni – non si può neanche morire senza che questo diventi un problema politico»). Infine, verso le nove e mezza, un giovane sarto santri di nome Abu decise di tentare di fare qualcosa: prima che la situazione si deteriorasse del tutto si alzò e fece un segno a Karman, il primo serio atto pratico che fosse avvenuto in tutta la mattinata. E Karman, distolto dalle sue meditazioni, attraversò la terra di nessuno per parlargli. In effetti Abu occupava una posizione piuttosto particolare nel kampong. Benché fosse un pio santri e un leale membro del Masjumi, aveva più contatti col gruppo Permai perché la sua bottega di sarto si trovava proprio dietro il caffè di Karman. Sebbene Abu, che restava incollato alla sua macchina da cucire giorno e notte, non fosse propriamente un membro di questo gruppo, scambiava spesso dei commenti con loro dal suo banco di lavoro a circa venti piedi di distanza. È vero che esisteva una certa tensione tra lui e quelli del Permai per questioni religiose. Una volta, mentre facevo delle indagini sulle loro credenze escatologiche, parlarono di Abu in modo 215
sarcastico, dicendo che era un esperto, e lo derisero apertamente su quella che consideravano la ridicola teoria islamica dell’aldilà. Ciò nonostante egli aveva una specie di legame sociale con loro, e forse era ragionevole che fosse lui a tentare di sbloccare la situazione. «È già quasi mezzogiorno – disse Abu – le cose non possono andare avanti così». Egli suggerì di mandare Umar, un altro dei santri, a vedere se si poteva convincere il Modin a venire; forse ora le cose si erano calmate con lui. Nel frattempo, lui stesso poteva far iniziare i lavacri e la vestizione della salma. Karman rispose che ci avrebbe pensato e ritornò dall’altro lato del cortile per discutere con i due leader del Permai. Dopo aver gesticolato vigorosamente ed aver annuito per alcuni minuti, Karman tornò e disse semplicemente: «Va bene così». «So quello che provi – disse Abu – farò tutto quello che è necessario per tener fuori l’Islam il più possibile». Egli riunì i santri ed essi entrarono in casa. La prima cosa indispensabile era spogliare la salma (che giaceva ancora per terra, e nessuno riusciva a decidersi a muoverla). Ma ormai il corpo era rigido e fu necessario tagliare i vestiti con una procedura insolita che turbò profondamente tutti, specialmente le donne raggruppate intorno. I santri riuscirono finalmente a spogliare il cadavere e innalzarono il recinto per i lavacri. Abu chiese dei volontari per il lavaggio: rammentò loro che Dio avrebbe considerato una simile azione come un’opera buona. Ma i parenti, che normalmente avrebbero dovuto eseguire questo compito, erano ormai così profondamente scossi e confusi da non essere in grado di decidersi a tenere il ragazzo in braccio secondo l’usanza. Ci fu un’altra attesa mentre la 216
gente si guardava scoraggiata. Infine Pak Sura, un membro del gruppo di Karman che non era un parente, prese sulle ginocchia il ragazzo, benché fosse palesemente spaventato e continuasse a mormorare un incantesimo per proteggersi. Una ragione con cui i giavanesi spiegano la loro usanza di seppellire in fretta è che è pericoloso lasciare lo spirito del defunto aggirarsi intorno alla casa. Prima che potessero iniziare i lavacri, tuttavia, qualcuno sollevò la questione se una persona era sufficiente: di solito non erano tre? Nessuno era proprio sicuro, compreso Abu: qualcuno pensava che non era obbligatorio avere tre persone, anche se questa era la consuetudine, ed altri ritenevano che tre fosse il numero necessario. Dopo una decina di minuti di discussione concitata, un cugino del ragazzo e un falegname, non legato a lui da parentela, riuscirono a trovare il coraggio di unirsi a Pak Sura. Abu, cercando di fare la parte del Modin il meglio possibile, spruzzò alcune gocce d’acqua sul corpo che fu poi lavato in modo piuttosto approssimativo e in acqua non consacrata. Giunti al termine, tuttavia, il procedimento fu nuovamente interrotto, perché nessuno sapeva con esattezza come sistemare i piccoli tamponi di cotone che, secondo la legge musulmana, dovevano tappare gli orifizi del corpo. La moglie di Karman, sorella della madre del defunto, evidentemente non ce la faceva più, perché scoppiò in lunghi ed irrefrenabili gemiti, l’unica dimostrazione di questo tipo di cui fui testimone nella dozzina di funerali giavanesi a cui partecipai. Tutti restarono ulteriormente sconvolti da questo sviluppo, e la maggior parte delle donne del kampong fecero sforzi frenetici, benché vani, per confortarla. Gli uomini per lo più restarono seduti in cortile, 217
esternamente calmi e impassibili, ma l’imbarazzato disagio presente fin dall’inizio sembrava volgere verso una terribile disperazione. «Non è bello che lei urli in quel modo – mi dissero parecchi uomini – non è conveniente». A questo punto arrivò il Modin. Era però ancora irremovibile. Avvertì inoltre Abu che con le sue azioni correva il rischio della dannazione eterna. «Dovrai rispondere a Dio nel giorno del giudizio – disse – se commetti degli errori nel rituale. Sarà tua la responsabilità. Per un musulmano la sepoltura è una faccenda seria e dev’essere eseguita seguendo la Legge da qualcuno che sa che cos’è la Legge, non secondo la volontà dell’individuo». Suggerì quindi a Sudjoko e Sastro, i leader del Vernai, che si facessero carico del funerale, poiché come «intellettuali» del partito dovevano certamente sapere che tipo di riti funerari seguiva il Permai. I due leader, che non si erano mossi dalla sedia, presero in considerazione la proposta mentre tutti li osservavano in attesa, ma alla fine rifiutarono con un certo rincrescimento, dicendo che non sapevano realmente come procedere. Il Modin alzò le spalle e si allontanò. Uno degli astanti, un amico di Karman, suggerì allora di portar fuori la salma e di seppellirla dimenticandosi di tutto il rituale: era estremamente pericoloso lasciare ancora le cose come stavano. Non so se si sarebbe seguito questo straordinario suggerimento, perché fu a questo punto che entrarono nel kampong la madre e il padre del ragazzo morto. Sembravano molto composti. Erano al corrente del decesso, perché il padre più tardi mi disse che aveva avuto dei sospetti ricevendo il telegramma: lui e sua moglie si erano preparati per il peggio e al momento del loro arrivo erano più o meno rassegnati. Quando si avvicinarono al 218
kampong e videro riunito l’intero vicinato, capirono che le loro paure erano ben fondate. Quando la moglie di Karman, i cui pianti si erano un poco calmati, vide entrare nel cortile la madre del ragazzo morto, si divincolò da quelli che la stavano confortando e si precipitò urlando ad abbracciare sua sorella. In un attimo le due donne furono travolte da un attacco isterico e la folla si precipitò dentro e le spinse via, trascinandole verso case alle estremità opposte del kampong. Continuavano ad urlare senza diminuire il volume, e cominciarono a circolare nervosi commenti a proposito del fatto che dovevano continuare il funerale in un modo o nell’altro, prima che lo spirito del ragazzo si impossessasse di qualcuno. Ma ora la madre insisteva per vedere il corpo di suo figlio prima che venisse rivestito. Il padre dapprima lo proibì, imponendole rabbiosamente di smettere di piangere – non sapeva che questo comportamento avrebbe oscurato il percorso del ragazzo verso l’altro mondo? Ma lei continuava, e così la portarono incespicando nel luogo dove si trovava il corpo, nella casa di Karman. Le donne cercarono di impedirle di avvicinarsi troppo, ma lei si divincolò e cominciò a baciare il ragazzo attorno ai genitali. Fu strappata via quasi immediatamente dal marito e dalle donne, benché urlasse che non aveva ancora finito; e la cacciarono in una stanza sul retro dove piombò in una sorta di torpore. Poco dopo – il corpo era stato finalmente avvolto nel sudario, e il Modin si era abbastanza calmato per indicare dove andavano messi i tamponi di cotone – lei parve perdere completamente il controllo e cominciò ad aggirarsi per il cortile stringendo le mani a tutte le persone che le erano completamente estranee, e dicendo «Perdonate 219
le mie colpe, perdonate le mie colpe». La trattennero di nuovo con la forza; la gente diceva: «Calmati; pensa agli altri tuoi figli – vuoi seguire tuo figlio nella tomba?». Il cadavere fu ora avvolto nel sudario e si consigliò di nuovo di portarlo subito al cimitero. A questo punto, Abu si avvicinò al padre avendo compreso di avere ormai sostituito Karman come responsabile ufficiale delle procedure. Abu spiegò che il Modin, essendo un funzionario governativo, non si sentiva libero di avvicinare il padre personalmente, ma avrebbe voluto sapere in che modo desiderasse che il ragazzo fosse sepolto – alla maniera islamica o come? Il padre, alquanto confuso, disse: «Naturalmente alla maniera islamica. Io non ho una vera religione, ma non sono cristiano e, quando si tratta della morte, il funerale si dovrebbe fare alla maniera islamica. Completamente islamica». Abu spiegò nuovamente che il Modin non poteva avvicinare direttamente il padre, ma che lui, essendo «libero», poteva fare come voleva. Disse che aveva cercato di essere di aiuto il più possibile ma aveva fatto attenzione a non fare nulla di islamico prima dell’arrivo del padre. Era un peccato, si scusò, che tutta la tensione che c’era nell’aria e le differenze politiche avessero creato un simile scompiglio. Ma dopo tutto ogni cosa doveva essere «chiara» e «legale» nel funerale: era importante per l’anima del ragazzo. I santri ora cantavano con una certa allegria le loro preghiere sulla salma, che fu portata alla fossa e sepolta nel solito modo. Il Modin pronunciò il solito discorso funebre, nella forma appropriata per i ragazzi, e il funerale venne finalmente portato a termine. Nessuno dei parenti o delle donne andò al cimitero, ma quando tornammo a casa – mezzogiorno era passato da un pezzo – fu finalmente servito 220
lo slametan, e presumibilmente lo spirito di Paidjan lasciò il kampong per iniziare il suo viaggio nell’altro mondo. Tre giorni dopo, di sera, si tenne il primo dei tre slametan commemorativi, ma si scoprì che non solo non era presente nessun santri, ma che si trattava più di una riunione di politica e di culto religioso Permai che di un rituale di lutto. Karman cominciò in modo tradizionale, annunciando in giavanese aulico che era uno slametan in memoria della morte di Paidjan. Sudjoko, il leader del Permai, scoppiò subito a dire: «no, no, è sbagliato. Ad uno slametan del terzo giorno vi limitereste a mangiare ed a pronunciare una lunga cantilena islamica per i defunti, e certamente noi non lo faremo». Si lanciò quindi in un lungo discorso incoerente. Tutti, disse, dovevano conoscere i fondamenti filosoficoreligiosi del paese. «Immaginate che questo americano (mi additò: non era per niente soddisfatto della mia presenza) venisse qui a chiedervi: qual è il fondamento spirituale del paese? e voi non lo sapeste: non provereste vergogna?». Andò avanti di questo passo, costruendo tutta una spiegazione assai complessa dell’attuale struttura politica nazionale sulla base di una interpretazione mistica dei «Cinque Punti» del presidente Sukarno (Monoteismo, Giustizia Sociale, Umanitarismo, Democrazia e Nazionalismo), che sono il fondamento ufficiale e ideologico della nuova repubblica. Aiutato da Karman e dagli altri, elaborò una teoria della corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo in cui si deve vedere l’individuo solamente come una piccola replica dello Stato, e lo Stato solamente come un’immagine ingrandita dell’individuo. Se lo Stato dev’essere ordinato, allora lo deve essere anche l’individuo: ciascuno implica l’altro. Come i Cinque Punti del presidente 221
sono alla base dello Stato, così i cinque sensi sono alla base dell’individuo. Il processo della loro armonizzazione è lo stesso, ed è questo che dobbiamo esser certi di sapere. La discussione andò avanti per quasi mezz’ora, spaziando attraverso i problemi religiosi, filosofici e politici (compresa, evidentemente a mio beneficio, una discussione sull’esecuzione dei Rosenberg). Facemmo una pausa per il caffè e, quando Sudjoko stava per ricominciare, il padre di Paidjan, che era rimasto seduto quieto ed impassibile, si mise a parlare all’improvviso, dolcemente e in modo curiosamente meccanico, senza nessuna intonazione, come se stesse ragionando tra sé, ma senza molta speranza di successo. «Mi scuso per il mio rozzo accento cittadino – disse – ma desidero molto dire qualcosa». Sperava che l’avrebbero perdonato; avrebbero potuto continuare la loro discussione dopo un minuto. «Sto cercando di essere iklas («distaccato», «rassegnato») sulla morte di Paidjan. Sono convinto che è stato fatto tutto quello che si poteva fare per lui, e che la sua morte è solo un avvenimento che semplicemente è accaduto». Disse che era tuttora a Modjokuto perché non poteva ancora affrontare la gente dove abitava, non sapeva trovare la forza di dire ad ognuno di loro quello che era accaduto. Anche sua moglie, disse, era un po’ più iklas adesso. Era difficile, benché continuasse a dirsi che era solo la volontà di Dio, ma era così difficile perché oggigiorno la gente non era più d’accordo sulle cose: una persona ti dice una cosa e altre te ne dicono un’altra. È difficile sapere che cosa è giusto, sapere che cosa credere. Disse che era grato a tutte le persone di Modjokuto che erano venute al funerale, e gli dispiaceva di tutta la confusione che c’era stata. «Io non 222
sono molto religioso, personalmente. Non sono Masjumi e non sono fermai. Ma volevo che il ragazzo fosse sepolto alla vecchia maniera. Spero di non aver urtato i sentimenti di nessuno». Ripeté che cercava di essere iklas, di dire a se stesso che era il volere di Dio, ma era durò, perché le cose erano così confuse a quel tempo. Era difficile capire perché al ragazzo fosse toccato morire. Questo tipo di espressione pubblica dei propri sentimenti è estremamente insolito – unico nella mia esperienza – tra i Giavanesi, e nel modello tradizionale e formalizzato di slametan essa non è semplicemente possibile (né lo è una discussione filosofica o politica). Tutti i presenti restarono piuttosto scossi dal discorso del padre, e ci fu un penoso silenzio. Sudjoko infine ricominciò a parlare, ma questa volta descrisse dettagliatamente la morte del ragazzo. Narrò come a Paidjan fosse arrivata all’improvviso la febbre e Karman avesse chiamato lui, Sudjoko, perché venisse a pronunciare un incantesimo Permai. Ma il ragazzo non aveva reagito. Alla fine l’avevano portato nel reparto maschile dell’ospedale, dove gli avevano fatto un’iniezione. Ma era ancora peggiorato. Vomitava sangue e aveva le convulsioni, come Sudjoko descrisse in modo piuttosto espressivo, e quindi morì. «Non so perché l’incantesimo Permai non abbia funzionato – disse – ha funzionato in precedenza. Questa volta no. Non so perché, questo tipo di cose non si può spiegare, indipendentemente da quanto ci pensiate. A volte funziona e a volte no». Ci fu ancora silenzio e poi, dopo un’altra discussione di dieci minuti, ci lasciammo. Il padre tornò a casa il giorno successivo ed io non fui invitato agli slametan successivi. Quando terminai la mia ricerca sul campo circa quattro mesi dopo, la moglie di 223
Karman non si era ancora del tutto ripresa dall’esperienza, la tensione tra santri e abangan nel kampong era aumentata e tutti si chiedevano che cosa sarebbe successo la prossima volta che ci sarebbe stato un decesso in una famiglia Permai.
3. Analisi «Di tutte le fonti della religione» – scriveva Malinowski – «la crisi suprema e finale della vita, la morte, è quella di maggior importanza»13. La morte, sosteneva, provoca nei sopravvissuti una duplice reazione di amore e di ribrezzo, una profonda ambivalenza emotiva di fascino e di paura che minaccia le fondamenta psicologiche e sociali dell’esistenza umana. I parenti del defunto sono attratti verso il defunto dal loro affetto per lui, ma respinti dalla terribile trasformazione operata dalla morte. I riti funebri, e le pratiche di lutto che li seguono, si imperniano attorno a questo desiderio paradossale di mantenere il legame di fronte alla morte e di rompere il vincolo immediatamente e completamente, e di assicurare il predominio della volontà di vivere sulla tendenza a scomparire. I rituali funebri mantengono la continuità della vita umana, impedendo ai sopravvissuti di cedere all’impulso di fuggire dalla scena in preda al panico o all’impulso contrario di seguire il defunto nella tomba: E qui la religione entra in questo gioco di forze emotive, in questo supremo dilemma di vita e di morte finale, scegliendo il credo positivo, la visione confortante, la credenza culturalmente valida nell’immortalità, nello spirito indipendente dal corpo, nella continuità della vita dopo la morte. Nelle varie cerimonie mortuarie, nella commemorazione e nella comunione con i defunti e nel culto degli spiriti degli antenati, la religione dà corpo e
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forma alle credenze salvifiche… La stessa funzione la adempie esattamente anche riguardo all’intero gruppo. Il cerimoniale della morte, che lega i sopravvissuti alla salma e li inchioda al luogo della morte, le credenze nell’esistenza dello spirito, nei suoi influssi benefici o nelle sue intenzioni malevole, nei doveri di una serie di cerimonie commemorative o sacrificali – in tutto questo la religione si contrappone alle forze centrifughe della paura, dello sgomento, della demoralizzazione, e fornisce il mezzo più potente per reintegrare la solidarietà scossa del gruppo e per ristabilirne la morale. In breve, la religione qui assicura la vittoria della tradizione sulla reazione puramente negativa dell’istinto frustrato14.
A questo tipo di teoria, un caso come quello appena descritto pone chiaramente alcuni problemi difficili. Non solo la vittoria della tradizione e della cultura sull’«istinto frustrato» fu di stretta misura, ma sembrò come se il rituale lacerasse la società invece di integrarla, disorganizzasse le personalità invece di curarle. A questo il funzionalista ha pronta la risposta, che prende una di queste due forme, a seconda che segua la tradizione di Durkheim o quella di Malinowski: disintegrazione sociale o demoralizzazione culturale. I rapidi mutamenti sociali hanno disgregato la società giavanese e questo si riflette in una cultura disintegrata: come lo stato unificato della società tradizionale del villaggio si rispecchiava nello slametan unificato, così la società frammentata del kampong si rispecchia nello slametan frammentato del rituale funerario di cui siamo appena stati testimoni. Oppure, per usare l’altra fraseologia, la decadenza culturale ha portato alla frammentazione sociale: la perdita di una vigorosa tradizione popolare ha indebolito i legami morali tra gli individui. Mi sembra che in questo ragionamento ci siano due aspetti erronei, indipendentemente dal lessico usato: esso identifica il conflitto sociale (o culturale) con la 225
disintegrazione sociale (o culturale): nega ruoli indipendenti alla cultura ed alla struttura sociale, considerando una delle due come un semplice epifenomeno dell’altra. In primo luogo, la vita del kampong non è semplicemente anomica. Benché contrassegnata da vigorosi conflitti sociali, come lo è la nostra società, procede tuttavia con una certa efficienza nella maggior parte delle aree. Se le istituzioni governative, economiche, familiari, relative alla stratificazione o al controllo sociale funzionassero male come al funerale di Paidjan, un kampong sarebbe davvero un posto scomodo per viverci. Ma benché vi siano presenti in certo grado alcuni dei sintomi tipici del radicale mutamento urbano – come l’aumento del gioco d’azzardo, la piccola delinquenza e la prostituzione – la vita sociale del kampong non è certamente sull’orlo del collasso: l’interazione sociale quotidiana non zoppica assieme all’amarezza repressa e alla profonda incertezza che abbiamo visto concentrate nel funerale. Per la maggior parte dei suoi abitanti, un sobborgo semi-urbano di Modjokuto offre quasi sempre un modo di vivere accettabile, pur con i suoi svantaggi materiali e il suo carattere di transizione; e nonostante tutto il sentimentalismo profuso nelle descrizioni della vita rurale a Giava, questo probabilmente è tutto quello che si potrebbe dire per il villaggio. In effetti gli avvenimenti più seriamente laceranti sembrano addensarsi attorno alle credenze ed alle pratiche religiose – slametan, feste, cure, stregonerie, gruppi di culto e così via. La religione qui è in qualche modo il centro e la fonte dello stress, non solo il riflesso dello stress esistente altrove nella società.
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Tuttavia ciò non avviene perché si sarebbe indebolito l’attaccamento ai modelli ereditati di credenza e di rituale. Il conflitto sulla morte di Paidjan avvenne semplicemente perché tutti i residenti del kampong avevano in comune una tradizione culturale sui funerali fortemente integrata. Non si discusse sul fatto se il modello slametan fosse il rituale corretto, se i vicini fossero tenuti a partecipare, o se i concetti soprannaturali su cui si basa il rituale fossero quelli validi. Nei kampong, sia per i santri sia per gli abangan, lo slametan mantiene la sua forza come autentico simbolo sacro; fornisce ancora una struttura densa di significato per fronteggiare la morte – per la maggior parte delle persone la sola struttura significativa. Non possiamo attribuire il fallimento del rituale alla secolarizzazione, ad un aumento di scetticismo, o ad uno scarso interesse per le tradizionali «credenze salvifiche» più di quanto possiamo attribuirlo all’anomia. Questo fallimento va piuttosto ascritto, ritengo, ad una discontinuità tra la forma di integrazione esistente nella dimensione della struttura sociale («causale-funzionale») e la forma di integrazione esistente nella dimensione culturale («logico-significativa») – una discontinuità che non porta ad una disintegrazione sociale e culturale, ma ad un conflitto sociale e culturale. Più concretamente, anche se in termini alquanto aforistici, la difficoltà sta nel fatto che socialmente la gente del kampong è urbanizzata, mentre culturalmente non lo è ancora. Ho già rilevato che il kampong giavanese rappresenta un tipo transitorio di società, che i suoi membri si trovano a metà strada tra l’élite più o meno pienamente urbanizzata e i contadini più o meno tradizionalmente organizzati. Le 227
forme di struttura sociale a cui essi prendono parte sono per lo più quelle urbane. L’avvento di una struttura professionale fortemente differenziata in luogo di quella quasi interamente agricola della campagna; la quasi scomparsa del tradizionale governo semiereditario del villaggio come cuscinetto tra l’individuo e la burocrazia razionalizzata del governo centrale e la sua sostituzione con le forme più duttili della moderna democrazia parlamentare; l’evoluzione di una società pluriclassista in cui il kampong, a differenza del villaggio, non è neppure un’entità potenzialmente autosufficiente, ma soltanto una subunità dipendente – tutto questo significa che l’uomo del kampong vive in un mondo molto urbanizzato. Socialmente la sua è un’esistenza di Gesellschaft. Ma a livello culturale – a livello di significato – c’è molto meno contrasto tra l’abitante del kampong e quello del villaggio; molto di più tra lui e il membro di una élite urbana. I modelli di credenza, espressione, e valore a cui l’uomo del kampong è legato – la sua visione del mondo, il suo ethos, la sua etica o quel che volete – differiscono pochissimo da quelli seguiti dall’abitante del villaggio. In un ambiente sociale radicalmente più complesso, egli resta vistosamente attaccato ai simboli che guidavano lui o i suoi genitori nel corso di tutta la vita nella società rurale. Ed è questo fatto che diede origine alla tensione sociale e psicologica che circondò il funerale di Paidjan. La disorganizzazione del rituale risultava da un’ambiguità di fondo nel significato del rito per quelli che vi prendevano parte. Per dirla semplicemente, questa ambiguità stava nel fatto che i simboli che compongono lo slametan avevano un significato sia religioso sia politico, erano carichi di valenze 228
sacre e profane. La gente che andò nel cortile di Karman, compreso lo stesso Karman, non era sicura se era impegnata in una riflessione sacralizzata sulle prime ed ultime cose o in una lotta laica per il potere. Per questa ragione il vecchio (che era un guardiano del cimitero, in effetti) si lamentò con me che oggigiorno morire era un problema politico; per questo il poliziotto del villaggio accusò il Modin di essere spinto da motivi non religiosi ma politici nel rifiuto di seppellire Paidjan; per questo l’ingenuo Karman restò sbalordito quando i suoi impegni ideologici improvvisamente si ersero come ostacoli alle sue pratiche religiose; per questo Abu era lacerato tra il desiderio di sommergere le differenze politiche nell’interesse di un funerale armonioso e quello di non prendere alla leggera le sue credenze religiose nell’interesse della sua personale salvezza; per questo il rito commemorativo oscillò tra una diatriba politica ed una ricerca spasmodica per spiegare adeguatamente ciò che era accaduto – per questo, insomma, il modello religioso dello slametan aveva vacillato quando aveva tentato di «intromettersi» nel «credo positivo» e nella «credenza culturalmente valida». Come ho già fatto notare in precedenza, la gravità del contrasto tra santri e abangan era dovuta in gran parte alla nascita di movimenti sociali nazionalisti nell’Indonesia del ventesimo secolo. Nelle città più grandi dove questi movimenti sono nati, essi erano in origine di vario tipo: società di commercianti per combattere la concorrenza cinese; sindacati di lavoratori per resistere allo sfruttamento delle piantagioni; gruppi religiosi che cercavano di ridefinire i concetti fondamentali; club di discussioni filosofiche che tentavano di chiarire le nozioni indonesiane di metafisica e 229
di morale; associazioni scolastiche che lottavano per ridar vita all’istruzione in Indonesia; società in cooperativa che tentavano di elaborare nuove forme di organizzazione economica; gruppi culturali che si muovevano in direzione di una rinascita della vita artistica indonesiana; e naturalmente partiti politici che lavoravano per costruire una valida opposizione al dominio olandese. Con l’andar del tempo, tuttavia, la lotta per l’indipendenza assorbì sempre di più le energie di tutti questi gruppi essenzialmente élitari. Indipendentemente dagli scopi specifici di ciascuno di essi – ricostruzione economica, riforma religiosa, rinascita artistica – tutto sprofondò in una ideologia politica diffusa: tutti i gruppi si interessavano sempre di più ad un solo scopo come prerequisito di ogni ulteriore progresso sociale e culturale: la libertà. Quando ebbe inizio la rivoluzione del 1945, la riformulazione delle idee al di fuori della sfera politica era notevolmente rallentata e la maggior parte degli aspetti della vita erano divenuti intensamente ideologizzati, tendenza che è continuata nel periodo postbellico. Nei villaggi e nei kampong delle piccole città, la prima fase specifica del nazionalismo ebbe scarsissimo effetto. Ma quando il movimento si unificò e si mosse verso il trionfo finale, anche le masse cominciarono ad essere influenzate e, come ho fatto notare, questo avvenne soprattutto per mezzo dei simboli religiosi. L’élite profondamente urbanizzata definì i legami con i contadini non in termini di una complessa teoria politica ed economica, ma in termini di concetti e valori già presenti. Come la principale linea di demarcazione tra le élite passava tra quanti prendevano la dottrina islamica come base generale del loro appello alla massa e quanti prendevano per base uno sviluppo filosofico 230
generalizzato della tradizione sincretica indigena, così nelle campagne santri e abangan divennero presto delle categorie non semplicemente religiose ma politiche, che caratterizzavano i seguaci di questi due diffusi approcci all’organizzazione della società che stava emergendo come nazione indipendente. Quando il raggiungimento della libertà politica rafforzò l’importanza della politica partitica nel governo parlamentare, la distinzione santri-abangan divenne, almeno a livello locale, uno dei principali assi intorno a cui avveniva il processo di manovra dei partiti. L’effetto di questo sviluppo è stato di far sì che il dibattito politico e la propiziazione religiosa fossero condotti nello stesso lessico. Un canto coranico diventava sia un’affermazione di fedeltà politica sia un peana a Dio: bruciare l’incenso esprimeva la propria ideologia laica quanto le proprie credenze religiose. Gli slametan tendevano allora ad essere contrassegnati da ansiose discussioni sui vari elementi nel rituale, su quale fosse il loro «reale» significato; da diatribe se una particolare pratica fosse essenziale od opzionale; dal disagio degli abangan quando i santri alzavano gli occhi per pregare e dal disagio dei santri quando gli abangan recitavano un incantesimo protettivo. Nel momento della morte, come abbiamo visto, i simboli tradizionali tendevano a rendere gli individui compatti di fronte alla perdita sociale e a ricordar loro le loro differenze; ad accentuare i temi decisamente umani della mortalità e della sofferenza immeritata e quelli strettamente sociali dell’opposizione delle fazioni e della lotta dei partiti; a rafforzare i valori che i partecipanti hanno in comune e ad «armonizzare» animosità e sospetti. I rituali stessi diventavano materia di conflitto politico; le forme per 231
la sacralizzazione del matrimonio e della morte si trasformavano in importanti questioni di partito. In un ambiente culturale così equivoco, il giavanese medio del kampong trovava sempre più difficile determinare l’atteggiamento più conveniente per un particolare avvenimento, scegliere il significato di un dato simbolo appropriato ad un dato contesto sociale. Questa interferenza dei significati politici con i significati religiosi si presenta con il proprio corollario, vale a dire: l’interferenza dei significati religiosi con quelli politici. Dato che nei contesti politici e religiosi si usano gli stessi simboli, la gente spesso ritiene che la lotta politica non comporti solo il solito flusso e riflusso della manovra parlamentare, il necessario dare-e-prendere del governo democratico, ma anche decisioni sui valori fondamentali e definitivi. La gente dei kampong in particolare tende a vedere la lotta aperta per il potere esplicitamente istituzionalizzata nelle nuove forme repubblicane di governo come una lotta per il diritto di imprimere il marchio dell’ufficialità su problemi essenzialmente religiosi: «Se arrivano gli abangan, agli insegnanti del Corano verrà proibito di fare lezione»; «se arrivano i santri, dovremo pregare cinque volte al giorno». Il normale conflitto presupposto da una battaglia elettorale è acuito dall’idea che è in palio letteralmente tutto: l’idea del tipo «se vinciamo noi, il paese è nostro», secondo la quale il gruppo che ottiene il potere ha il diritto, come disse un uomo, «di mettere le sue fondamenta sotto lo stato». La politica assume così una specie di asprezza sacralizzata; ed effettivamente si dovette tenere due volte un’elezione in un villaggio suburbano di Modjokuto a causa delle intense pressioni generate in questo modo. 232
L’uomo del kampong è, per così dire, preso tra i suoi concetti ultimi e quelli più prossimi. Essendo costretto a formulare le sue idee essenzialmente metafisiche, la sua risposta a «problemi» fondamentali come il destino, la sofferenza e il male negli stessi termini in cui esprime le sue pretese al potere secolare, i suoi diritti e le sue aspirazioni politiche, prova difficoltà a celebrare un funerale socialmente e psicologicamente efficace o a far filar liscia un’elezione. Ma un rituale non è solo una struttura di significato, è anche una forma di interazione sociale. Così, oltre a creare un’ambiguità culturale, il tentativo di trasportare un modello religioso da uno sfondo rurale relativamente poco differenziato ad un contesto urbano dà anch’esso origine ad un conflitto sociale, semplicemente perché il genere di integrazione sociale dimostrata dal modello non è coerente con i principali modelli di integrazione nella società in generale. Il modo in cui la gente dei kampong tende a mantenere la solidarietà nella vita di ogni giorno è completamente diverso dal modo in cui gli slametan insistono a «dire» che dovrebbero sostenerla. Come è già stato fatto notare in precedenza, lo slametan è essenzialmente un rituale basato su rapporti territoriali: presuppone che il legame più importante tra le famiglie sia quello della vicinanza delle abitazioni. Un gruppo di vicini è considerato come un’unità sociale significativa (politicamente, religiosamente, economicamente) contrapposta ad un altro gruppo di vicini; un villaggio è considerato in contrapposizione ad un altro villaggio, un agglomerato di villaggi in contrapposizione ad un altro agglomerato di villaggi. In città questo modello è molto 233
cambiato. I gruppi sociali significativi sono definiti da una pluralità di fattori –classe, impegno politico, occupazione, etnia, origini regionali, preferenza religiosa, età, sesso e residenza. La nuova forma urbana di organizzazione consiste in un attento equilibrio di forze in conflitto che sorgono da contesti diversi: le differenze di classe sono attenuate dalle somiglianze ideologiche; i conflitti etnici dai comuni interessi economici; l’opposizione politica, come abbiamo visto, dalla prossimità delle abitazioni. Ma in mezzo a tutto questo controllo e bilanciamento pluralistico, lo slametan resta immutato, sordo alle principali linee di demarcazione sociale e culturale nella vita urbana. Per esso, la più importante caratteristica che classifica un individuo è dove abita. Così quando insorge un’occasione che richiede sacralizzazione – una transizione nel ciclo della vita, una festività, una malattia grave – la forma religiosa che si deve usare agisce non assieme ma contro la tendenza dell’equilibrio sociale. Lo slametan ignora quei meccanismi di isolamento sociale, escogitati di recente, che nella vita quotidiana mantengono il conflitto di gruppo entro limiti stabiliti, come pure ignora i modelli di integrazione sociale tra gruppi opposti che si sono evoluti di recente e che bilanciano in modo ragionevolmente efficace tensioni contraddittorie. La gente è spinta in un’intimità che vorrebbe subito evitare; dove l’incoerenza tra gli assunti sociali del rituale («siamo tutti contadini culturalmente omogenei») e quelle che sono le circostanze effettive («siamo tipi diversi di persone che devono vivere insieme per forza, nonostante i nostri gravi disaccordi sulla scala di valori») porta al profondo disagio di cui il funerale di 234
Paidjan è stato solo un caso limite. Nel kampong, tenere uno slametan serve sempre di più a rammentare con enfasi alla gente che i legami di vicinato che essi rafforzano attraverso una rappresentazione drammatica non sono più i legami che li tengono assieme. Questi ultimi sono vincoli ideologici, di classe, occupazionali e politici, legami divergenti che non si sintetizzano più adeguatamente in rapporti territoriali. Per concludere, la crisi del funerale di Paidjan può ricondursi ad un’unica fonte: un’incoerenza tra la struttura culturale di significato e il patterning dell’interazione sociale, un’incoerenza dovuta al persistere in un ambiente urbano di un sistema religioso simbolico adatto alla struttura sociale contadina. Il funzionalismo statico, sia del tipo sociologico sia del tipo sociopsicologico, è incapace di isolare questo genere di incoerenza perché non riesce a discriminare tra l’integrazione logico-significativa e quella causalefunzionale; perché non riesce a rendersi conto che la struttura culturale e la struttura sociale non sono semplicemente dei riflessi l’una dell’altra, ma variabili indipendenti benché interdipendenti. Le forze trainanti che operano nel cambiamento sociale possono essere chiaramente formulate solo da una forma più dinamica di teoria funzionalista, che tenga conto del fatto che il bisogno dell’uomo di vivere in un mondo a cui egli possa attribuire qualche significato, di cui sente che può cogliere l’essenza, spesso diverge dal suo bisogno altrettanto pressante di mantenere un organismo sociale funzionante. Un concetto diffuso di cultura come «comportamento appreso», una visione statica della struttura sociale come modello equilibrato di interazione, e un assunto espresso o inespresso che le due debbano in qualche modo (tranne che 235
in situazioni «disorganizzate») essere semplici immagini speculari luna dell’altra, costituisce un apparato concettuale troppo primitivo con cui affrontare problemi come quelli suscitati dallo sfortunato ma istruttivo funerale di Paidjan.
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6. La «conversione interna» nella Bali contemporanea Ogni popolo ha il suo arsenale di credenze e di pratiche, e molte tra queste sopravvivenze sono belle ed aggraziate e mantengono la continuità di una civiltà. C’è da sperare che le moderne idee matèrialiste non le cancelleranno del tutto e lasceranno intatta la cultura malese. Richard Winstedt, The Malay Magician
Oggi sentiamo parlare molto della modernizzazione politica ed economica nei nuovi stati africani ed asiatici, ma poco della modernizzazione religiosa. Quando non è completamente ignorata, la religione tende ad essere considerata o come un ostacolo squisitamente arcaico al necessario progresso o come la custode in pericolo di preziosi valori culturali minacciati dai poteri erosivi del rapido mutamento. Si presta poca attenzione allo sviluppo religioso in sé, alle regolarità delle trasformazioni che avvengono nei sistemi di rituali e di credenze di società sottoposte a rivoluzioni sociali globali. Al massimo abbiamo degli studi sul ruolo svolto dagli impegni e dalle identificazioni religiose tradizionali nei processi politici ed economici, ma la nostra concezione delle religioni asiatiche ed africane come tali è stranamente statica: ci aspettiamo che fioriscano o decadano, mai che cambino. Nel caso di Bali – forse l’angolo più riccamente dotato di credenze e pratiche magiche belle e affascinanti nell’Asia sudorientale – questo approccio è praticamente universale, e il dilemma della scelta tra un tradizionalismo culturale donchisciottesco e uno sterile materialismo culturale appare 237
perciò particolarmente crudele. In questo saggio mi propongo di mostrare che questo dilemma è con tutta probabilità falso, che si può conservare la continuità della civiltà balinese anche se la natura fondamentale della sua vita religiosa si è totalmente trasformata. E voglio anche evidenziare alcuni deboli e incerti segni dei modi in cui questa trasformazione è già effettivamente in corso di svolgimento.
1. Il concetto di razionalizzazione religiosa Nella sua grande opera sulle religioni comparate, il sociologo tedesco Max Weber tracciò una distinzione tra due antitetici tipi ideali di religione realizzati nella storia del mondo, il «tradizionale» e il «razionalizzato», distinzione che, quantunque troppo generica e formulata in maniera incompleta, è ancora un utile punto di partenza per una discussione del processo di mutamento autenticamente religioso1. L’asse di questo contrasto ruota attorno ad una differenza nel rapporto tra concetti religiosi e forme sociali. I concetti religiosi tradizionali (Weber li chiama anche magici) stereotipizzano rigidamente pratiche sociali consolidate. Inestricabilmente intrecciati con il costume laico quasi punto per punto, essi attirano «tutti i rami dell’attività umana… nel cerchio della magia simbolica» e assicurano così che il flusso dell’esistenza quotidiana continui a scorrere costantemente entro un corso fisso e stabilmente tracciato2. I concetti razionalizzati non sono invece 238
intrecciati così integralmente con i dettagli concreti della vita comune. Essi sono «a parte», «al di sopra» o «al di fuori» di essi, e i rapporti dei sistemi di rituale e di credenza in cui questi concetti si materializzano con la società secolare non sono intimi e sottratti all’esame critico, ma deboli e problematici. Una religione razionalizzata è consapevole di sé e del suo ruolo nel mondo, almeno nella misura in cui è razionalizzata. Il suo atteggiamento verso la vita mondana può essere vario, dalla rassegnata accettazione del nobile confucianesimo all’attiva padronanza dell’ascetico protestantesimo, ma non è mai ingenuo3. A questa differenza nel rapporto tra la sfera religiosa e quella secolare si accompagna anche una differenza nella struttura della sfera religiosa stessa. Le religioni tradizionali consistono in una schiera di entità sacre definite molto concretamente ma ordinate in modo molto vago, una collezione disordinata di meticolosi atti rituali e vivide immagini animistiche capaci di intromettersi in maniera indipendente, frammentaria e immediata in quasi tutti i generi di eventi effettivi. Questi sistemi (perché sono sistemi, nonostante siano privi di regolarità formale) affrontano i problemi perenni della religione, quelli che Weber chiama i «problemi del senso» del mondo e della vita – il male, la sofferenza, la frustrazione, lo sconcerto e così via – in modo frammentario. Li attaccano opportunisticamente, via via che insorgono in ogni esempio particolare – ogni morte, ogni raccolto mancato, ogni avvenimento naturale o sociale sfavorevole – impiegando questa o quell’arma scelta, in base all’appropriatezza simbolica, dal loro affollato arsenale di mito e magia. (La stessa strategia si impiega nelle attività meno difensive della 239
religione: la celebrazione della continuità umana, della prosperità e della solidarietà.) Come è discontinuo j e irregolare l’approccio delle religioni tradizionali ai fondamentali problemi spirituali, così lo è anche la loro forma caratteristica. D’altro canto le religioni razionalizzate sono più astratte, più coerenti dal punto di vista logico e formulate in termini più generali. I problemi di senso, che nei sistemi tradizionali sono espressi solo in modo implicito e frammentario, trovano qui formulazioni esaustive ed evocano atteggiamenti comprensivi. Essi vengono qui concettualizzati come qualità universali e intrinseche dell’esistenza umana in quanto tale, piuttosto che venir visti come aspetti inseparabili di questo o quell’evento specifico. La questione non si pone più – per usare un esempio classico proposto dall’antropologo inglese Evans-Pritchard – nei termini della domanda «Perché il granaio è caduto su mio fratello e non sul fratello di qualcun altro?», ma «Perché i buoni muoiono giovani e il male è sempreverde come l’alloro?»4. Oppure, per sfuggire alle convenzioni della teodicea cristiana, non «Con che mezzo posso scoprire chi ha praticato la stregoneria contro mio fratello, facendo sì che gli cadesse addosso il granaio?», ma «Come si può conoscere la verità?». Non «Quali azioni specifiche devo compiere per vendicarmi della strega?», ma «Quali sono le basi su cui si può giustificare la punizione dei malvagi?». Naturalmente i problemi più circoscritti e concreti permangono, ma ricadono nell’orbita di quelli più ampi e contribuiscono quindi a produrre le loro più inquietanti suggestioni. E a questa insorgenza in forma estesa e generalizzata delle questioni più ampie si
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accompagna la necessità di rispondere ad esse in maniera egualmente completa, universale e definitiva. Le cosiddette religioni universali si svilupparono, secondo Weber, come risposte alla comparsa in forma acuta di questo genere di bisogno. Il giudaismo, il confucianesimo, il bramanesimo filosofico ed il razionalismo greco (anche se superficialmente quest’ultimo potrebbe non sembrare una religione) emersero ciascuno da una massa di culti locali, di mitologie popolari e di credenze secondarie ad hoc il cui significato aveva cominciato a venir meno per certi gruppi determinanti nelle società interessate5. Questa sensazione, provata soprattutto da intellettuali religiosi, che il complesso tradizionale di rituali e di credenze non fosse più adeguato, e la presa di coscienza in forma esplicita del problema del «senso», sembra aver fatto parte, in ciascun caso, di uno sconvolgimento molto più generale del modo di vita tradizionale. Non occorre indugiare sui particolari di questi sconvolgimenti (o di quelli che apparvero nelle successive religioni universali che si svilupparono da queste prime quattro): quello che è importante è che il processo di razionalizzazione religiosa sembra essere stato ovunque provocato da uno scossone delle fondamenta dell’ordine sociale. Provocato, ma non determinato. Infatti, a parte il fatto che una profonda crisi sociale non ha sempre prodotto una profonda creatività religiosa (o qualche altra forma di creatività), le vie lungo le quali questa creatività si è mossa dopo la sua apparizione sono state molto diverse. La grande comparazione effettuata da Weber tra le religioni della Cina, dell’India, di Israele e dell’Occidente si basava sul concetto che esse rappresentassero direzioni differenti della 241
razionalizzazione, scelte contrastanti tra una serie finita di possibili sviluppi che si dipartono dal realismo magico. Ciò che tali sistemi avevano in comune non era il contenuto specifico del loro messaggio, il quale si approfondiva nella sua particolarità con l’ampliarsi del loro campo d’azione, bensì il modello formale, lo stampo generico al cui interno il contenuto prendeva forma. In tutti il senso della sacralità era distillato, come tanti raggi di luce convergenti nel fuoco di una lente, a partire dagli innumerevoli spiriti degli alberi e giardini incantati attraverso cui prima era indistintamente diffuso, per concentrarsi in un concetto unitario (anche se non necessariamente monoteistico) del divino. Per citare la famosa frase di Weber, il mondo fu sottratto all’incantesimo, fu «disincantato»: il luogo del sacro venne rimosso dalla cima degli alberi, dai cimiteri, dai crocevia della vita quotidiana e riposto, in un certo senso, in un’altra sfera, dove dimoravano Jahveh, Logos, Tao e Brama6. A questo notevole aumento di «distanza», per così dire, tra l’uomo e il sacro, si accompagna la necessità di conservare i legami tra di loro in modo molto più consapevole e critico. Poiché il divino non può più essere appreso passando attraverso innumerevoli gesti rituali concreti, quasi riflessivi, sparsi strategicamente per tutto il corso della vita, diviene imperativo stabilire un rapporto con esso più generale e comprensivo, se non si vuole abbandonare ogni interesse in questo campo. Weber individuò due modi principali per farlo: uno è attraverso la costruzione di un codice giuridico-morale consapevolmente sistematizzato, formale, consistente in imperativi etici concepiti come dati all’uomo dalla divinità attraverso profeti, scritti sacri, segnali miracolosi e così via. L’altro 242
modo è il contatto diretto, individuale, sperimentale, con il divino, servendosi del misticismo, della visione interiore, dell’intuizione estetica e via dicendo, spesso con l’aiuto di vari tipi di discipline spirituali ed intellettuali fortemente organizzate, come lo yoga. Il primo metodo è tipico, anche se non esclusivo, del vicino Oriente; il secondo è tipico, anche se non esclusivo, del lontano Oriente. Ma che siano le due uniche possibilità (cosa che pare improbabile) o no, essi colmano, o cercano di colmare, lo iato enormemente allargatosi tra il sacro ed il profano in una maniera cosciente, metodica, esplicitamente coerente. Essi conservano, per quelli che vi sono dediti, 0 senso di un legame denso di significato tra l’uomo e il divino che è stato posto su un altro piano. Come accade con tutte le categorie polari di Weber, tuttavia, quella di tradizionale e razionale (l’opposto del quale non è l’irrazionale, ma il non razionalizzato) è tanto nebulosa nei fatti quanto è chiara in teoria. In particolare, non si deve presumere che le religioni dei popoli illetterati siano totalmente prive di elementi razionalizzati e quelle dei popoli letterati completamente razionalizzate. Non solo molte delle cosiddette religioni primitive mostrano i risultati di dosi significative di critica consapevole, ma una religiosità popolare di tipo tradizionale persiste con grande forza nelle società dove il pensiero religioso ha raggiunto il vertice più alto della raffinatezza filosofica7. Tuttavia, in termini relativi, si può dire che le religioni universali rivelano una maggiore generalizzazione concettuale, una più stretta integrazione formale e un senso dottrinale più esplicito di quelle «piccole» del clan, delle tribù, del villaggio o del popolo. La razionalizzazione religiosa non è un processo esclusivo, 243
irreversibile, o inevitabile; però, empiricamente, è un pr0cesso reale.
2. La religione balinese tradizionale Dato che i balinesi sono indù, nel senso ampio del termine, ci si potrebbe aspettare che almeno una parte significativa della loro vita religiosa sia relativamente ben razionalizzata, che sopra e più in alto del solito torrente di religiosità popolare esista un sistema ben sviluppato di teologia etica o mistica. Ma le cose stanno diversamente. Nonostante un certo numero di descrizioni superintellettualizzate, la religione balinese, anche tra i sacerdoti, è concreta, imperniata sull’azione, intrecciata con i particolari quotidiana, e poco o nulla toccata dall’elaborazione filosofica o dalle problematiche generalizzate del bramanesimo classico o della sua derivazione buddista8. Il suo approccio ai problemi del «senso» rimane implicito, circoscritto e frammentario. Il mondo è ancora incantato e (a parte per il momento alcune recenti complicazioni) la rete ingarbugliata del realismo magico è quasi completamente intatta, lacerata soltanto in alcuni punti da esitazioni e riflessioni individuali. Fino a che punto questa assenza di un corpo dottrinale sviluppato sia il risultato della persistenza dell’elemento indigeno (vale a dire preindù), del relativo isolamento di Bali dal mondo esterno dopo il quindicesimo secolo e della conseguente provincializzazione della sua cultura o del grado piuttosto insolito in cui la struttura sociale balinese è riuscita a conservare una forma solidamente tradizionale, è 244
una questione controversa. A Giava, dove la pressione delle influenze esterne è stata incessante e dove la tradizionale struttura sociale ha perso molto della sua elasticità, si sono sviluppati non uno ma parecchi sistemi di credenza e di culto relativamente ben razionalizzati, che danno un senso consapevole di diversità religiosa, di conflitto e di perplessità ancora del tutto ignoti a Bali9. Quindi, se si arriva a Bali, dopo aver lavorato a Giava, come ho fatto io, si è colpiti dall’assenza quasi totale di dubbi o dogmatismi, dalla noncuranza metafisica; da questo e dalla stupefacente proliferazione di attività cerimoniali. I balinesi, che intessono continuamente intricate offerte di foglie di palma, che preparano complicati pasti rituali, che decorano ogni genere di tempio, che marciano in massicce processioni e che cadono in trance improvvise sembrano troppo affaccendati a praticare la loro religione per pensare (o preoccuparsi) molto ad essa. Tuttavia, dire che la,religione balinese non è metodicamente ordinata non vuol dire ancora che non sia ordinata affatto. Non solo essa è pervasa da un tono costante molto particolare (una specie di assidua teatralità che solo una descrizione particolareggiata potrebbe evocare), ma gli elementi che la formano si raggruppano attorno ad un certo numero di complessi rituali relativamente ben definiti, che mostrano a loro volta un approccio preciso ai problemi strettamente religiosi, non meno ragionevole per il fatto di essere implicito. Di questi, tre sono forse della massima importanza: a) il sistema dei templi, b) la santificazione della, disuguaglianza sociale, c) il culto della morte e delle streghe. Dato che i particolari etnografici rilevanti sono facilmente disponibili nella 245
letteratura, la mia descrizione di questi complessi può essere veloce10. Il sistema dei templi è un esempio tipico del modo complessivo in cui diversi filoni di una religione tradizionale si intrecciano con la struttura sociale entro cui si collocano. Benché tutti i templi (ne esistono letteralmente a migliaia) siano costruiti su un modello generalmente simile di corte aperta, ciascuno è dedicato ad un qualche problema specificamente definito: la morte, il patriottismo di vicinato, la solidarietà del gruppo di parentela, la fertilità agricola, l’orgoglio di casta, la sudditanza politica e così via. Ogni balinese appartiene a due o tre dozzine di templi simili e, poiché la congregazione di ciascuno di essi è composta da quelle famiglie che si trovano ad usare lo stesso cimitero, ad abitare nello stesso vicinato, a coltivare gli stessi campi o ad avere altri legami, su queste associazioni e sui pesanti obblighi .rituali che implicano si basano in modo piuttosto diretto il tipo di rapporti sociali con cui è costruita la vita quotidiana balinese. Le forme religiose associate con i vari templi, come l’architettura che varia assai poco da un tempio all’altro, sono di natura quasi interamente cerimoniale. Oltre un livello minimo non c’è quasi nessun interesse per la dottrina o l’interpretazione generalizzata di quello che sta accadendo. Ci si basa sull’ortoprassia non sull’ortodossia – l’importante è che ogni dettaglio rituale sia corretto ed al posto giusto. Se non lo è, un membro della congregazione cadrà senza volerlo in trance, diventando così il messaggero prescelto degli dei, e si rifiuterà di tornare alla vita normale finché non sarà stato corretto l’errore annunciato nelle sue farneticazioni. La dimensione concettuale è molto meno 246
importante: di solito i fedeli non sanno neppure chi siano gli dei nei templi, non si interessano del significato del ricco simbolismo e sono indifferenti a quello che gli altri possono credere o non credere. Praticamente, potete credere tutto quello che volete, compreso che tutta la faccenda è una barba, e potete anche dirlo, ma se non eseguite i compiti rituali di cui siete responsabili, sarete condannati all’ostracismo più completo, non solo dalla congregazione del tempio, ma dall’intera comunità. Anche l’esecuzione delle cerimonie ha un’aria stranamente esteriorizzata. La più importante di tali cerimonie ha luogo al «compleanno» di ogni tempio, ogni 210 giorni, momento in cui gli dei discendono dalla loro dimora in cima al grande vulcano nel centro dell’isola, entrano nelle figurine iconiche poste su un altare nel tempio, si fermano per tre giorni e poi se ne vanno. Il giorno del loro arrivo la congregazione organizza un’allegra parata, avanzando per incontrarli al limite del villaggio, accogliendoli con musiche e danze, e scortandoli fino al tempio dove sono ulteriormente intrattenuti; il giorno della partenza sono congedati con una processione simile, benché più triste e contenuta. Ma la maggior parte del rituale tra il primo e l’ultimo giorno è compiuta dal sacerdote del tempio da solo, dato che il compito principale della congregazione è quello di preparare delle offerte tremendamente complicate e di portarle al tempio. Qui si svolge il primo giorno un importante rituale collettivo in cui si aspergono d’acqua santa i membri della congregazione, mentre essi, applicando il palmo della mano alla fronte, compiono il classico gesto indù di obbedienza agli dei. Ma anche a questa cerimonia apparentemente sacramentale deve partecipare un solo 247
membro della casa, e di solito è delegata una donna o un adolescente, dato che gli uomini generalmente se ne disinteressano, purché qualche goccia dell’acqua consacrata cada in segno di protezione su qualche rappresentante della loro famiglia. La santificazione della diseguaglianza sociale si impernia da una parte intorno ai sacerdoti bramini e dall’altra intorno alle colossali cerimonie celebrate da dozzine di re, principi e signorotti di Bali per esprimere e rafforzare il loto ascendente. A Bali la simbolizzazione della diseguaglianza sociale, del rango, è sempre stata l’elemento unificatore dell’organizzazione politica al di sopra dei villaggi. Sin dalle primissime fasi, le forze trainanti principali nel processo di formazione dello stato si sono espresse nella stratificazione sociale più che nella politica, hanno riguardato più lo status che l’arte del governare. Non è stato un impulso verso livelli superiori di efficienza amministrativa, fiscale e neppure militare ad agire come elemento dinamico fondamentale nella formazione del sistema di governo balinese, ma piuttosto un forte privilegiamento dell’espressione cerimoniale di distinzioni sottilmente graduate nella condizione sociale. Si è fatta poggiare l’autorità del governo, che resta così dipendente e precario, su differenze di prestigio tra gli strati sociali; e gli effettivi meccanismi di controllo politico attraverso i quali una oligarchia autoritaria esercita il suo potere si sono sviluppati in modo molto meno sofisticato di quelli attraverso cui una élite culturale tradizionale dimostra la sua superiorità spirituale – vale a dire il rituale di stato, l’arte di corte e l’etichetta patrizia. In questo modo, là dove i templi sono associati in primo luogo con gruppi di villaggi egualitari (forse il principio 248
strutturale fondamentale intorno a cui sono organizzati è che all’interno del contesto del tempio tutte le differenze di rango sociale tra i membri della congregazione sono irrilevanti), la classe sacerdotale e le spettacolari cerimonie della casta superiore legano la nobiltà e i contadini in rapporti che sono decisamente asimmetrici. Mentre qualunque maschio della casta dei bramini è eleggibile come sacerdote, solo una minoranza intraprende però il prolungato periodo di addestramento e purificazione che costituisce un prerequisito all’effettivo esercizio del ruolo11. Benché, non ci sia nessuna vera organizzazione, dato che ogni sacerdote opera indipendentemente, la casta sacerdotale nell’insieme si identifica molto strettamente con la nobiltà. Si dice che il governatore e il sacerdote stiano fianco a fianco come «veri fratelli». Ciascuno senza l’altro cadrebbe, il primo per mancanza di potere carismatico, il secondo per mancanza di protezione armata. Ancor oggi, ogni famiglia gentilizia ha un legame simbiotico con una particolare famiglia sacerdotale che ne è ritenuta la controparte spirituale, e nel periodo precoloniale non solo le corti regali erano largamente fornite di sacerdoti, ma nessun sacerdote poteva essere consacrato senza il permesso del governante locale, e nessun governante poteva essere legittimamente insediato se non da un sacerdote. Rispetto alla gente comune o alla casta più umile ciascun prete «possiede» un certo numero di seguaci assegnati o in questa o quella occasione alla sua casa da un qualche casato gentilizio, e conseguentemente ereditato di generazione in generazione. Questi seguaci sono sparsi sul territorio, se non a casaccio, per lo meno in modo molto diffuso – tre, diciamo, in un villaggio, quattro nel successivo, molti di più 249
nel terzo e così via – ed evidentemente il motivo di questa pratica è il desiderio da parte della nobiltà di mantenere la casta sacerdotale politicamente debole. Così in ogni villaggio un uomo e il suo vicino dipenderanno normalmente da sacerdoti diversi per le loro necessità religiose, la più importante delle quali è il procurarsi l’acqua santa, un elemento essenziale non solo per le cerimonie del tempio, ma praticamente per tutti i rituali importanti. Soltanto un sacerdote bramino può rivolgersi direttamente agli dei per consacrare l’acqua, visto che egli possiede, grazie al suo regime di vita ascetico e alla sua purezza di casta, la forza spirituale di trafficare senza rischio con il terribile potere magico in gioco. I sacerdoti sono quindi più professionisti della magia che veri sacerdoti: non servono il divino né lo spiegano, ma lo utilizzano per mezzo di cantilene sanscrite mal comprese e di gesti sacri stupendamente stilizzati. I seguaci di un sacerdote si riferiscono a lui come al loro siwa, dal nome della divinità da cui è posseduto durante le fasi estatiche del suo rito, ed egli si riferisce a loro come i suoi sisija, grosso modo «clienti»: e in tal modo la differenziazione sociale gerarchica tra caste superiori e inferiori è assimilata simbolicamente al contrasto spirituale tra sacerdoti e uomini comuni. L’altro mezzo mediante cui si conferisce espressione e fondamento religioso al rango – le meravigliose cerimonie della nobiltà – sfrutta un’istituzione di clientela più politica che rituale – una corvée – per sottolineare la legittimità di una radicale diseguaglianza sociale. Qui non è il contenuto dell’attività cerimoniale ad essere importante, ma il fatto che si sia in grado di mobilitare le risorse umane per produrre una simile stravaganza. 250
Imperniate di solito su avvenimenti del ciclo vitale (limatura dei denti, cremazione) queste cerimonie coinvolgo gli sforzi collettivi di grandi masse di sudditi, dipendenti e così via per un considerevole arco di tempo, e formano perciò non soltanto il simbolo, ma la sostanza stessa della lealtà e dell’integrazione politica. Sembra che nelle epoche precoloniali la preparazione e l’esecuzione di questi grandi spettacoli abbiano consumato più tempo ed energia di tutte le altre attività di stato messe assieme, guerra compresa, e quindi, in un certo senso, si può dire che il sistema politico sia esistito per sostenere il sistema rituale piuttosto che il contrario. E nonostante il colonialismo, l’occupazione, la guerra e l’indipendenza, il modello in gran parte persiste – la nobiltà è ancora, per usare la bella frase di Cora Du Bois, «l’espressione simbolica della grandezza dei contadini» e i contadini sono ancora la linfa vitale delle aspirazioni dei nobili12. Il culto della morte e delle streghe, è il lato «oscuro» della religione balinese e, benché praticamente penetri in ogni angolo della vita quotidiana, aggiungendo una nota di ansia al modo di vita altrimenti equilibrato, esso trova la sua espressione più diretta e più colorita nell’estatico combattimento rituale di quelle due strane figure mitologiche che sono Rangda e Barong. In Rangda, mostruosa regina delle streghe, vecchia vedova, logora prostituta, incarnazione della dea della morte che assassina i bambini e – se Margaret Mead ha ragione – proiezione simbolica della madre che respinge, i balinesi hanno creato una possente immagine del male assoluto13. In Barong, una divinità vagar, mente benigna e leggermente ridicola, che appare ed agisce come un incrocio tra un goffo orso, uno 251
stupido cucciolo e un barcollante dragone cinese, essi hanno costruito invece una rappresentazione quasi parodistica della forza e della debolezza umana. Il fatto che nei loro incontri diretti questi due demoni, ciascuno saturo di quel potere simile al mana che i balinesi chiamano sakti, arrivino inevitabilmente ad un autentico stallo non è perciò privo di un certo significato, nonostante la sua magica concretezza. Le rappresentazioni effettive della battaglia tra Rangda e Barong avvengono di solito, anche se non inevitabilmente, durante la cerimonia «di compleanno» di un tempio della morte. Un abitante del villaggio (un uomo) danza raffigurando Rangda, indossando la maschera feroce ed il costume ripugnante; altri due, sistemati come a formare un cavallo da operetta, mimano l’elegante Barong. Entrambi in stato di trance, la strega e il drago avanzano cautamente dai lati opposti del cortile tra maledizioni, minacce e crescente tensione. Dapprima Barong combatte da solo, ma ben presto degli spettatori cominciano a cadere senza volerlo in trance, afferrano i kriss e si precipitano in suo aiuto. Rangda avanza verso Barong ed i suoi sostenitori, agitando il suo panno magico. È orrenda e terrificante, ed essi, sebbene la odino con furia terribile e la vogliano distruggere, indietreggiano. Quando essa, tenuta a bada dal sakti, si volta per andar via, diviene all’improvviso irresistibilmente attraente (almeno così hanno riferito i miei informatori) ed essi la rincorrono con bramosia, cercando a volte perfino di montarla da dietro, ma, ad un cenno del suo capo e un tocco del suo panno, essi cadono impotenti in coma. Infine, essa si ritira dalla scena imbattuta ma almeno messa sotto controllo, ed i sostenitori di Barong disperatamente frustrati esplodono in una furia autodistruttiva, volgendo il loro kriss 252
(senza risultato perché sono in trance) contro il petto, agitandosi disperatamente, divorando polli vivi e così via. Dal lungo momento di tremula attesa che precede l’apparizione iniziale di Rangda fino a questa dissoluzione finale in un’orgia di futile violenza e degradazione, tutta la rappresentazione ha l’aria di essere ad ogni momento sul punto di ridursi a puro panico e selvaggia distruzione. Evidentemente non succede, ma il senso allarmante di precarietà, con il gruppo sempre più esiguo degli invasati che cerca di tenere in pugno la situazione, è nell’insieme sconvolgente, anche per un semplice osservatore. Le dimensioni, sottili come un rasoio, della linea che divide la ragione dalla non-ragione, eros da thanatos, o il divino dal demoniaco, non potrebbero essere drammatizzate in maniera più efficace.
3. La razionalizzazione della religione balinese Tranne alcuni movimenti che hanno avuto conseguenze limitate come il Bahai o il mormonismo (e lasciando da parte, come casi equivoci, le cosiddette religioni politiche come il comunismo e il fascismo), dopo Maometto non è sorta alcuna nuova religione universale razionalizzata. Di conseguenza quasi tutti i popoli tribali e contadini del mondo che hanno abbandonato da allora, in una certa misura, la loro fede tradizionale, lo hanno fatto attraverso la conversione all’una o all’altra delle grandi religioni missionarie – il Cristianesimo, l’Islam o il Buddismo. A Bali, tuttavia, questa via sembra preclusa: i missionari cristiani non hanno mai fatto grandi progressi sull’isola e, legati come 253
sono allo screditato regime coloniale, le loro possibilità sembrerebbero adesso più esigue che mai. Né è probabile che i balinesi diventino musulmani in massa, nonostante il generale islamismo dell’Indonesia. Come popolo, sono intensamente consapevoli e penosamente fieri di essere un’isola indù in un mare musulmano, e il loro atteggiamento verso l’Islam è quello della duchessa con lo scarafaggio. Diventare cristiano o musulmano vorrebbe dire, ai loro occhi, smettere di essere balinese, e in verità un individuo che per caso si è convertito è ancora considerato, anche dai più tolleranti e intellettualmente raffinati, come se avesse abbandonato non solo la religione balinese ma Bali stessa e forse anche la ragione. Tanto il Cristianesimo quanto l’Islam potranno forse influenzare ulteriori sviluppi religiosi sull’isola, ma praticamente non hanno nessuna possibilità di controllarli14. È tuttavia evidente da ogni parte che le fondamenta dell’ordine sociale balinese stanno per ricevere uno scossone, che forse ha già iniziato a farsi sentire. L’avvento della, repubblica unita e l’inclusione di Bali all’interno di essa, come sua componente, hanno introdotto nell’isola l’istruzione moderna, le moderne forme di governo, e la moderna coscienza politica. Le comunicazioni radicalmente migliorate hanno apportato crescente consapevolezza del mondo esterno e un incremento di contatti con esso, ed hanno fornito nuovi parametri per misurare il valore della propria cultura e di quella altrui. E gli inevitabili mutamenti interni – l’aumentata, urbanizzazione, la pressione crescente della popolazione, e così via – hanno reso progressivamente più difficile conservare in forma immutata sistemi tradizionali di organizzazione sociale. Ciò che accadde in 254
Grecia o in Cina dopo il V secolo a.C. – il disincantamento del mondo – sembra sul punto di accadere, in un contesto storico completamente diverso e con un significato storico completamente diverso, nella Bali della seconda metà del ventesimo secolo. A meno che – cosa sempre possibile – gli avvenimenti si muovano troppo in fretta per conservare la propria eredità culturale, è probabile che i Balinesi razionalizzino il loro sistema religioso con un processo di «conversione interna». Seguendo, in termini generali e non acritici, le linee direttrici delle religioni indiane, a cui sono da lungo tempo nominalmente affiliati, ma dal cui spirito dottrinale sembrano quasi interamente tagliati fuori, essi paiono sul punto di produrre un autoconsapevole «bali-ismo» che, nelle sue dimensioni filosofiche, si avvicinerà alle religioni universali sia nella generalità delle domande che pone sia nell’ampiezza delle risposte che dà. Le domande per lo meno vengono già poste, particolarmente dai giovani. Tra i giovani dai 18 ai 30 anni, istruiti o semiistruiti, che formarono l’avanguardia ideologica della rivoluzione, sono apparsi segni sporadici ma evidenti di un cosciente interesse per problemi spirituali di un genere che sembra ancora in gran parte privo di senso a quelli più vecchi di loro o ai loro contemporanei meno engagés. Una notte, ad esempio, ad un funerale nel villaggio dove abitavo, iniziò una discussione filosofica in piena regola su questi problemi tra dieci o dodici giovani accovacciati intorno al cortile dediti a «custodire» la salma. Come gli altri aspetti della religione balinese tradizionale che ho già descritto, le cerimonie funebri sono formate in gran parte da 255
una schiera di dettagliate piccole routine meticolose, e tutto l’interesse per le prime ed ultime cose che la morte può generare viene sommerso da un agitato ritualismo. Ma questi giovani, che si impegnavano in tutto ciò solo in minima misura, dato che le incombenze necessarie erano per lo più svolte dagli anziani, si immersero spontaneamente in una penetrante discussione sulla natura della religione in quanto tale. Dapprima si occuparono di un problema che ha ossessionato allo stesso modo i religiosi e gli studiosi di religione: come puoi dire dove cessa la tradizione laica e comincia la religione, quello che è veramente sacro? Tutte le fasi nel dettagliato rito funebre sono realmente un omaggio necessario agli dei, cose autenticamente sacre? Oppure molte sono semplicemente usanze umane compiute per cieca abitudine e tradizione? E se è così, come si possono differenziare le une dalle altre? Uno avanzò l’idea che le pratiche che erano chiaramente connesse col radunare assieme la gente, col rafforzare i loro reciproci vincoli – per esempio la costruzione comunitaria della portantina funebre da parte di tutto il villaggio, o la preparazione del corpo da parte dei parenti – erano costume e come tale non sacre, mentre quelle direttamente connesse con gli dei – l’omaggio familiare allo spirito del defunto, la purificazione del corpo con l’acqua santa e così via – erano propriamente religiose. Un altro ipotizzò che quegli elementi che appaiono generalmente nelle incombenze rituali, che si trovano praticamente dappertutto, dalla nascita alla morte, nei templi e nelle recite di Rangda (l’acqua santa è di nuovo un buon esempio) erano religiosi,
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ma quelli che avvenivano solo qua e là, o si limitavano ad uno o due riti, non lo erano. Poi la discussione si spostò, come avviene in simili casi, sui presupposti di validità della religione in quanto tale. Un uomo, influenzato in una certa misura dal marxismo, propose il relativismo sociale: quando sei a Roma fa’ come fanno i romani, frase che egli citò nella forma indonesiana. La religione è un prodotto, umano. L’uomo escogitò Dio e poi gli diede un nome. La religione è utile e apprezzabile, ma non ha validità soprannaturale. Quella che per un uomo è fede per un altro è superstizione. In fondo tutto si riduce al puro e semplice costume. Questa posizione fu accolta con opposizione, disapprovazione e sgomento generali. Come reazione, il figlio del capo del villaggio propose un tipo di credenza semplice, non razionale. Le argomentazioni intellettuali sono del tutto irrilevanti. Egli sa in cuor suo che gli dei esistono. La fede viene prima, il pensiero è secondario. La persona veramente religiosa, come lui, sa solo che gli dei entrano veramente nei templi – puoi sentirne la presenza. Un altro uomo di tendenze più intellettuali, costruì, quasi su due piedi, una complessa simbologia allegorica per risolvere il problema. La limatura dei denti significa che l’uomo diventa più simile agli dei e meno simile agli animali che hanno le zanne. Questo rito significa questa cosa, quest’altro quell’altra cosa; questo colore indica la giustizia, quello il coraggio e così via. Ciò che appare senza senso è pieno di significati nascosti, se solo avete la chiave: un cabalista balinese. Un altro uomo tuttavia, più agnostico, benché non fosse ateo, ci offrì la regola aurea: non potete pensare veramente a queste 257
cose, perché escono dall’ambito della comprensione umana. Semplicemente non sappiamo. La miglior politica è quella conservatrice – credere appena a metà di quel che si sente. In questo modo non si può sbagliare. E così si andò avanti per buona parte della notte. Chiaramente questi giovani, che erano tutti (tranne il figlio del capo del villaggio che era un impiegato governativo in una città vicina) contadini e maniscalchi, erano seguaci di Weber più di quanto non sapessero. Da un lato cercavano di separare la religione dalla vita sociale in generale, dall’altro cercavano dì colmare il divario tra questo mondo e quell’altro, tra il profano e il sacro, che veniva così svelato per mezzo di un atteggiamento deliberatamente sistematico, un impegno generale. Ecco la crisi della fede, il crollo dei miti, uno scossone ai fondamenti in una forma ben poco mascherata. Anche nei contesti liturgici sta cominciando ad apparire qua e là la stessa specie di nuova serietà. In un certo numero di cerimonie al tempio – soprattutto quelle officiate direttamente da un sacerdote bramino, come avviene sempre più spesso, invece che da un sacerdote del tempio di bassa casta che il bramino rifornisce semplicemente di acqua santa – sta facendo la sua comparsa un fervore quasi pietistico da parte di alcuni dei giovani membri maschi (ed anche femmine) della congregazione. Piuttosto che concedere a un solo membro della famiglia di partecipare per tutti alla genuflessione agli dei, tutti si uniscono, affollandosi vicino al sacerdote per farsi spruzzare addosso più acqua santa. Invece del contesto di bambini vocianti e adulti che chiacchierano oziosamente, entro il quale si compie di solito questo sacramento, essi chiedono, ed 258
ottengono, un’atmosfera silenziosa e riverente. Parlano poi dell’acqua santa in termini non magici ma emotivi, dicendo che il loro disagio e la loro incertezza interiori sono «rinfrescati» dall’acqua che cade su di loro, e parlano anch’essi di come sentono in modo immediato e diretto la presenza degli dei. Da tutte queste cose i più anziani e tradizionalisti non possono ricavare un granché: li guardano, come dicono loro stessi, come una mucca guarda un’orchestra gamelan – con uno stupore ottuso, imbronciato (ma certamente non ostile). Questi sviluppi razionalizzanti che si verificano a livello più personale,richiedono tuttavia una specie di razionalizzazione corrispondente anche a livello di dogma e di credo per poter durare, cosa che sta in effetti accadendo in qualche misura per l’azione di parecchie case editrici da poco fondate: esse tentano di mettere un’ordine dotto nella classica letteratura scritta su foglie di palma su cui si basa la pretesa di apprendimento della casta sacerdotale bramina, di tradurla in balinese moderno o in indonesiano, di interpretarla in termini simbolico-morali e di pubblicarla in edizioni economiche per le masse crescenti di alfabetizzati. Queste case editrici stanno pubblicando anche traduzioni di opere, indiane, sia indù che buddiste, ed hanno pubblicato anche parecchie opere originali di scrittori balinesi sulla storia ed il significato della loro religione15. Sono ancora i giovani istruiti a comprare per lo più questi libri, ma spesso li leggono ad alta voce ai parenti a casa loro. L’interesse è molto grande, specialmente per i vecchi manoscritti balinesi, anche da parte della gente più legata ai costumi tradizionali. Quando acquistai alcuni libri di questo genere e li lasciai in giro nella nostra casa nel villaggio, il 259
nostro porticato divenne un centro letterario dove venivano a sedersi per ore gruppi di abitanti del villaggio, leggendoseli a vicenda, commentandone di tanto in tanto il significato, ed osservando quasi sempre che solo dopo la rivoluzione avevano avuto il permesso di vedere questi scritti, perché nel periodo coloniale le caste superiori ne impedivano in genere la diffusione. L’intero processo rappresenta quindi una diffusione della letteratura religiosa al di là delle tradizionali caste sacerdotali – per le quali gli scritti in ogni caso erano testi di magia esoterica più che scritture canoniche – verso le masse, una volgarizzazione, in senso letterale, della conoscenza e della teoria religiosa. Per la prima volta, almeno alcuni balinesi comuni cominciano a sentire di poter capire qualcosa della loro religione; e, cosa più importante, di avere nello stesso tempo bisogno e diritto di questa comprensione. Tenuto conto di questo scenario, potrebbe sembrare paradossale che la forza principale che sta dietro a questo movimento di diffusione letteraria della religione e di interpretazione filosofico-morale, sia la nobiltà, o parte di essa, generalmente la più giovane, cioè quei giovani membri dell’aristocrazia che stanno raccogliendo e traducendo i manoscritti e fondando le case editrici per pubblicarli e distribuirli. Ma il paradosso è soltanto apparente. Come ho osservato, gran parte dello status tradizionale della nobiltà si fondava su basi cerimoniali; una gran parte dell’attività cerimoniale tradizionale tendeva a produrre un’accettazione istantanea e volontaria, quasi riflesso della superiorità dei nobili e del loro diritto a comandare. Ma oggi questa semplice affermazione di superiorità sta diventando sempre più 260
difficile: è messa in pericolo dai mutamenti economici e politici dell’Indonesia repubblicana e dall’ideologia radicalmente populista che ha accompagnato questi mutamenti. Quantunque a Bali persista ancora una grande quantità di ritualismo su vasta scala, e quantunque la classe dirigente continui ad esprimere la sua pretesa ad essere superiore, in termini di stravaganza rituale, i giorni delle cremazioni colossali e delle titaniche limature dei denti sembrano avvicinarsi al termine. Le scritte sui muri sono quindi molto chiare per gli aristocratici più perspicaci: sé continuano a fondare il loro diritto a governare su basi interamente tradizionali lo perderanno presto. L’autorità richiede ora qualcosa di più del cerimonialismo di corte per essere giustificata: esige delle «ragioni» – vale a dire una dottrina. Ed è la dottrina che quegli aristocratici cercano di fornire, con la reinterpretazione della letteratura balinese classica e la ricostruzione di contatti intellettuali con l’India, Quello, che di solito si basava su usanze rituali deve ora basarsi su credenze dogmatiche razionalizzate. I temi principali su cui si concentra il contenuto della «nuova» letteratura – la riconciliazione tra politeismo e monoteismo, la valutazione dell’importanza relativa degli elementi «indù» e «balinesi» nella religione «indù-balinese», il rapporto della forma esterna col contenuto interno del culto, il rintracciare le origini storico-mitologiche dell’ordinamento delle caste e così via – tutto ciò serve a porre il tradizionale sistema sociale gerarchico in un contesto esplicitamente intellettuale. L’aristocrazia (o parte di essa) si è calata nel ruolo di leader del nuovo «bali-ismo» per mantenere la sua posizione più generale di predominio sociale. 261
Vedere in tutto ciò null’altro che una forma di machiavellismo, tuttavia, vorrebbe dire attribuire ai giovani nobili troppo e troppo poco credito allo stesso tempo. Non solo essi sono, nel migliore dei casi, solo parzialmente consapevoli di quello che stanno facendo, ma, come i miei teologi di villaggio, sono almeno in parte motivati più religiosamente che politicamente. Le trasformazioni introdotte dalla «nuova Indonesia» hanno colpito la vecchia élite altrettanto duramente quanto ogni altro gruppo nella società balinese, mettendo in discussione i fondamenti della loro credenza circa la loro vocazione e quindi la loro idea della natura stessa della realtà in cui tale vocazione è, a loro giudizio, radicata. La minaccia di un loro spodestamento appare come un problema non solo sociale, ma anche spirituale. Il loro improvviso interesse per il dogma è perciò in parte dettato dalla necessita di giustificarsi moralmente e metafisicamente non solo agli occhi della massa della popolazione ma anche ai loro, e di conservare almeno i punti essenziali della radicata concezione balinese del mondo e del sistema di valori in un ambiente sociale profondamente mutato. Come tanti altri innovatori religiosi, essi sono al tempo stesso riformisti e restauratori. A parte l’intensificazione dell’interesse religioso e la sistematizzazione della dottrina, vi è un terzo aspetto di questo processo di razionalizzazione – quello socioorganizzativo. Se deve fiorire un nuovo «bali-ismo», esso ha bisogno non solo di un cambiamento popolare di sentimenti e di una codificazione esplicita, ma di una struttura istituzionale organizzata più formalmente in cui si possa incarnare socialmente. Questo bisogno, essenzialmente di tipo ecclesiastico, finisce per ruotare attorno al problema del 262
rapporto della religione balinese con lo stato nazionale, in particolare attorno alla sua collocazione – o mancanza di collocazione – nel ministero repubblicano del Culto. Questo ministero, che è capeggiato da un membro del gabinetto, ha il suo centro a Giacarta, ma i suoi uffici sono sparsi per gran parte del paese. È interamente dominato dai musulmani, e le sue attività principali sono la costruzione di moschee, la pubblicazione di traduzioni indonesiane del Corano e dei relativi commentari, la nomina di mediatori matrimoniali musulmani, il sostegno di scuole coraniche, la diffusione di informazioni sull’Islam e così via. Esso è provvisto di un’elaborata burocrazia in cui vi sono speciali sezioni per i protestanti ed i cattolici (che ad ogni modo lo boicottano in massa per motivi di separatismo) riconosciute come religioni distinte. Ma la religione balinese è lasciata nella generica categoria residuale che forse si può tradurre al meglio come «selvaggia» – vale a dire pagana, incolta, primitiva e così via – i cui membri non hanno autentici diritti né aiuti dal ministero. Queste religioni «selvagge» sono considerate, nella classica distinzione musulmana tra «popoli del Libro» e «religioni dell’ignoranza», come minacce per la vera pietà e un buon terreno per la conversione16. Naturalmente i balinesi hanno una visione un po’ negativa di tutto ciò, ed hanno inviato a Giacarta continue petizioni per ottenere un eguale riconoscimento rispetto al Protestantesimo, al Cattolicesimo e all’Islam come quarta religione principale. Il presidente Sukarno, lui stesso balinese per metà, e molti altri leader nazionali non erano insensibili alle richieste, ma non potevano permettersi di alienarsi le simpatie dei musulmani ortodossi politicamente 263
molto potenti e così hanno esitato, offrendo un sostegno molto debole. I musulmani dicono che i fedeli dell’Induismo balinese sono tutti in un sol luogo, diversamente dai cristiani che sono disseminati per tutta l’Indonesia, e i balinesi fanno notare che vi sono comunità balinesi a Giacarta e in altri luoghi a Giava, come pure nella parte meridionale di Sumatra (sono emigranti) e citano come esempio la recente erezione di templi balinesi nella parte orientale di Giava. I musulmani dicono: non avete nessun Libro, come potete essere una religione universale? I balinesi rispondono: noi abbiamo manoscritti e iscrizioni che risalgono ad epoche anteriori a Maometto. I musulmani dicono: voi credete in molti dei e adorate le pietre; i balinesi sostengono: Dio è Uno ma ha molti nomi, e la «pietra» è il veicolo di Dio, non Dio stesso. Alcuni dei balinesi più intellettualmente raffinati pretendono perfino che la vera ragione per cui i musulmani non sono disposti ad ammetterli nel ministero è il timore che se il «bali-ismo» dovesse diventare una religione ufficialmente riconosciuta, molti giavanesi, che sono islamici solo di nome e ancora molto indù-buddisti di spirito, si convertirebbero, e il «baliismo» crescerebbe rapidamente, a spese dell’Islam. In ogni caso c’è una impasse. E, come risultato, i balinesi hanno creato il loro «ministero del Culto» indipendente, finanziato localmente, e stanno cercando di riorganizzare con esso le loro istituzioni religiose più importanti. Finora lo sforzo principale si è concentrato (con risultati molto scarsi) sulla regolarizzazione delle qualifiche dei sacerdoti bramimi. Invece di basare il ruolo sacerdotale principalmente sul suo aspetto ereditario, che naturalmente essi non mettono in questione di per sé, oppure sul virtuosismo rituale ad esso 264
collegato, il «ministero» desidera fondarlo principalmente sulla conoscenza e saggezza religiosa. Vuole assicurarsi che i sacerdoti conoscano il significato delle scritture e sappiano collegarle alla vita contemporanea, siano di buon carattere morale, abbiano raggiunto almeno un certo grado di autentico sapere e via dicendo. I nostri giovani – dicono i funzionari – non seguiranno più un uomo solo perché è un bramino, dobbiamo farne una figura degna di rispetto morale ed intellettuale, una vera guida spirituale. E a questo scopo stanno cercando di esercitare un qualche controllo sull’ordinazione, sino al punto di fissare degli esami di qualificazione, e di rendere la casta sacerdotale più corporativa, tenendo riunioni di tutti i sacerdoti di una zona. I rappresentanti del «ministero» fanno anche il giro dei villaggi pronunciando discorsi pedagogici sul significato morale della religione balinese, sulle virtù del monoteismo e i pericoli del culto degli idoli e così via. Stanno perfino cercando di fare un po’ d’ordine nel sistema dei templi, di stabilire una classificazione sistematica dei templi e forse di innalzarne alla fine un tipo – molto probabilmente il tempio dell’origine del villaggio – al grado più elevato, in una struttura universalistica paragonabile a quella di una moschea o di una chiesa. Tutto questo però è ancora in gran parte nella fase di progetto sulla carta, e non si può affermare che si sia verificata una grande riorganizzazione nella struttura istituzionale della religione balinese. Ma adesso c’è un ufficio del «ministero» in ogni reggenza balinese, diretto da un sacerdote bramino stipendiato (e un clero «ufficiale» regolarmente pagato è di per sé qualcosa di rivoluzionario) assistito da tre o quattro impiegati, per la maggior parte 265
anch’essi membri della casta dei bramini. È stata fondata una scuola religiosa, indipendente dal ministero ma da esso incoraggiata, e perfino un piccolo partito politico religioso guidato da un nobile di rango e dedicato ad incoraggiare questi cambiamenti, così che sono manifesti almeno i vaghi inizi di una burocratizzazione religiosa. Che cosa uscirà da tutto questo – l’intensificarsi delle problematiche religiose, il diffondersi della letteratura religiosa, e il tentativo di riorganizzare le istituzioni religiose – resta semplicemente da vedersi. Sotto molti aspetti, tutta la tendenza del mondo moderno sembrerebbe essere contro il tipo di movimento verso la razionalizzazione religiosa che questi sviluppi annunziano, e forse la cultura balinese alla fine verrà sommersa e abbandonata come qualcosa di scarso interesse proprio dal genere di «idee materialistiche moderne» che teme Sir Richard Winstedt. Tuttavia, non solo queste tendenze generali – quando non si rivelano essere miraggi – passano spesso sopra configurazioni culturali profondamente radicate con minor effetto di quanto avremmo creduto possibile, ma, nonostante tutta la sua attuale debolezza, il potenziale rigenerativo di un’alleanza triangolare di giovani turbati, aristocratici minacciati e sacerdoti in fermento non dovrebbe essere sottovalutato. Oggi a Bali sembra che alcuni di quegli stessi processi sociali ed intellettuali, i quali hanno dato origine alle più fondamentali trasformazioni religiose della storia del mondo, abbiano almeno avuto un buon inizio, e qualunque saranno le loro vicissitudini o il loro risultato finale, il loro percorso non potrà mancare di essere istruttivo. Guardando da vicino ciò che accadrà in questa particolare piccola isola nei prossimi decenni, potremo ottenere delle immagini circa 266
la dinamica del mutamento religioso con una specificità e un’immediatezza che la storia, essendo già accaduta, non potrà mai darci17.
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Parte quarta
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7. Ideologia come sistema culturale
I Una delle piccole ironie della storia della cultura moderna è che il termine «ideologia» sia stato esso stesso totalmente ideologizzato. Un concetto che un tempo indicava solo un insieme di proposte politiche, forse alquanto intellettualistiche e poco pratiche, ma in ogni caso idealistiche – «romanticherie sociali» come qualcuno le ha chiamate (forse Napoleone) – significa adesso, per citare il Webster, «il complesso integrato di affermazioni, teorie e scopi che costituiscono un programma politico-sociale, spesso con implicazioni di propaganda artificiosa; ad esempio, il fascismo fu modificato in Germania per adattarsi all’ideologia nazista» – una definizione che incute molto più timore. Anche nelle opere che, in nome della scienza, dichiarano di usare questo termine in modo neutrale, l’effetto del suo impiego tende ciò nonostante ad essere spiccatamente polemico: in Il credo dell’imprenditore americano di Sutton, Harris, Kaysen e Tobin, libro per molti versi eccellente, l’affermazione che «uno non ha motivo per sentirsi sgomento od offeso perché le sue concezioni sono definite “ideologia” più di quanto ne avesse il famoso personaggio di Molière scoprendo di aver parlato in prosa per tutta la vita» è immediatamente seguita dall’elenco delle 269
principali caratteristiche dell’ideologia come preconcetto, ipersemplificazione, linguaggio emotivo e adattamento al pregiudizio pubblico1. Nessuno, almeno fuori del blocco comunista, dove è istituzionalizzata una concezione alquanto specifica del ruolo del pensiero nella società, si definirebbe ideologo o acconsentirebbe ad essere così definito dagli altri senza protestare. Si applica adesso quasi universalmente il famoso detto parodistico: «Io ho una filosofia sociale; tu hai opinioni politiche; lui ha un’ideologia». Il processo storico attraverso cui il concetto di ideologia finì per essere una parte della materia stessa a cui si riferisce è stato delineato da Mannheim: la scoperta (o forse era solo un ammissione) che il pensiero sociopolitico non nasce dalla riflessione disincantata ma «è sempre legato alla reale situazione di vita del pensatore» pareva contaminare tale pensiero con la volgare lotta per il privilegio alla quale aveva dichiarato di essere superiore2. Ma di importanza ancor più immediata è il problema se questo assorbimento nel suo referente ne abbia o no distrutto l’utilità scientifica, se, essendo diventato un termine polemico, possa continuare ad essere un concetto analitico o no. Nel caso di Mannheim questo problema era il nucleo di tutta la sua opera – la costruzione, secondo la sua espressione, di una «concezione non valutativa dell’ideologia». Ma quanto più lo trattava, tanto più profondamente restava impigliato nelle sue ambiguità finché, spinto dalla logica dei suoi assunti iniziali a sottoporre all’analisi sociologica perfino il suo punto di vista egli non finì per cadere, come ben si sa, in un relativismo etico ed epistemologico che egli stesso trovava scomodo. E proprio perché il suo lavoro successivo in 270
questo campo è stato qualcosa di più che solo tendenzioso o biecamente empirico, esso ha comportato il ricorso ad una serie di scappatoie metodologiche più o meno ingegnose per sfuggire a quello che può essere chiamato il «paradosso di Mannheim» (perché, come il paradosso di Achille e la tartaruga, colpiva le basi stesse della conoscenza razionale). Come il «paradosso di Zenone» sollevava (o almeno esprimeva) problemi inquietanti circa la validità del ragionamento matematico, così il «paradosso di Mannheim» li sollevava riguardo all’oggettività dell’analisi sociologica. Dove (se esiste un dove) l’ideologia cessa e la scienza comincia è stato l’enigma della Sfinge di gran parte del pensiero sociologico moderno e l’arma inossidabile dei suoi nemici. Sono state avanzate pretese di imparzialità in nome dell’adesione disciplinata alle procedure di ricerca impersonali, dell’isolamento istituzionale dell’accademico dalle preoccupazioni immediate della vita quotidiana e della sua vocazione alla neutralità, e della consapevolezza deliberatamente coltivata e quindi della possibilità di correggere i propri preconcetti e i propri interessi. Queste pretese si sono però scontrate con posizioni che negavano la neutralità (e l’efficacia) delle procedure di ricerca, la possibilità di un vero isolamento, e una autentica e genuina consapevolezza. «Mi rendo conto – conclude un po’ nervosamente un osservatore delle preoccupazioni ideologiche diffuse tra gli intellettuali americani – che molti affermeranno che la mia posizione è di per sé ideologica»3. Qualunque possa essere il destino delle altre sue predizioni, non si può dubitare della validità di questa. Benché sia stato ripetutamente proclamato l’avvento di una sociologia scientifica, il riconoscimento della sua esistenza è tutt’altro 271
che unanime anche presso gli stessi scienziati sociali; e la resistenza alle pretese di oggettività non è in alcun settore tanto forte come nello studio dell’ideologia. Nella letteratura apologetica delle scienze sociali si sono ripetutamente citate numerose cause di questa resistenza. La natura valoriale dell’oggetto è forse quella più frequentemente invocata: gli uomini non vogliono che credenze a cui essi attribuiscono un grande significato morale siano esaminate spassionatamente, anche se il fine è disinteressato; e se sono essi stessi fortemente ideologizzati, potranno trovare semplicemente impossibile credere che un approccio disinteressato ai problemi critici delle convinzioni sociali e politiche possa essere qualcosa di diverso da una mistificazione intellettualistica. L’elusività propria del pensiero ideologico, espresso com’è in intricate ragnatele simboliche tanto vagamente definite quanto emotivamente pregne; il fatto riconosciuto che la perorazione ideologica di parte è stata tanto spesso, da Marx in poi, camuffata da «sociologia scientifica»; l’atteggiamento di difesa delle classi intellettuali socialmente affermate, le quali scorgono nell’indagine scientifica delle radici sociali delle idee una minaccia al loro status: anche queste sono cause spesso citate. E quando tutto il resto viene meno, è sempre possibile rilevare ancora una volta che la sociologia è una scienza giovane, fondata così di recente che non ha avuto il tempo di raggiungere i livelli di solidità istituzionale necessari per sostenere le sue pretese alla libertà di ricerca in aree delicate. Tutti questi argomenti hanno indubbiamente una certa validità, ma quello che spesso non si prende in considerazione – per una curiosa omissione selettiva che i rudi potrebbero marchiare come ideologica – è la possibilità 272
che gran parte del problema stia nella carenza di una più raffinata elaborazione concettuale nella scienza sociale stessa, che la resistenza dell’ideologia all’analisi sociologica sia così grande perché queste analisi sono di fatto fondamentalmente inadeguate; che l’armatura teorica che impiegano sia largamente incompleta. Cercherò di dimostrare in questo saggio che le cose stanno proprio in questo modo: che le scienze sociali non hanno ancora sviluppato una concezione dell’ideologia veramente avalutativa; che questo insuccesso scaturisce più dall’incertezza teoretica che dall’indisciplina metodologica; che questa incertezza si manifesta principalmente nel trattare l’ideologia come un’entità a sé stante – come un sistema ordinato di simboli culturali, invece di considerarla nella concretezza dei suoi contesti sociali e psicologici (rispetto ai quali il nostro apparato analitico è molto più raffinato) e che il modo di sfuggire al «paradosso di Mannheim» sta quindi nel perfezionamento di un apparato concettuale capace di trattare il significato con maggiore accortezza. Per dirla semplicemente, ci occorre una concettualizzazione più esatta del nostro oggetto di studio, per non trovarci nella posizione di quel personaggio del folklore giavanese, detto il «ragazzo stupido», che, consigliato da sua madre di cercarsi una moglie tranquilla, tornò con un cadavere.
II Che la concezione dell’ideologia oggi predominante nelle scienze sociali sia del tutto valutativa (vale a dire 273
peggiorativa) lo si dimostra abbastanza in fretta. «[Lo studio dell’ideologia] si occupa di un modo di pensare deviato dal suo debito corso» – ci informa Werner Stark – «il pensiero ideologico è… qualcosa di equivoco, qualcosa che dovrebbe essere vinto e bandito dalla nostra mente». Non è (proprio) lo stesso che mentire, perché, mentre il bugiardo arriva almeno al cinismo, l’ideologo resta solo uno stupido. «Entrambi hanno a che fare con la falsità, ma, mentre il bugiarde tenta di falsificare il pensiero degli altri, benché il suo pensiero personale sia giusto, benché egli stesso sappia bene dov’è la verità, una persona che è attratta da una ideologia è essa stessa ingannata nei suoi pensieri personali, e, se svia gli altri, lo fa involontariamente ed inconsapevolmente»4. Seguace di Mannheim, Stark ritiene che tutte le forme di pensiero siano socialmente condizionate per la natura stessa delle cose, ma che l’ideologia abbia in aggiunta la sfortunata prerogativa di essere psicologicamente «deformata» («contorta», «contaminata», «falsificata», «distorta», «oscurata») dalla pressione delle emozioni personali come l’odio, il desiderio, l’ansia o la paura. La sociologia della conoscenza tratta dell’elemento sociale nella ricerca e nella percezione della verità, della sua inevitabile limitazione a una o ad altra prospettiva esistenziale. Ma lo studio dell’ideologia – un’impresa completamente diversa – verte sulle cause dell’errore intellettuale: Le idee e le credenze, abbiamo cercato di spiegare, possono essere in rapporto con la realtà in due modi: o con i fatti della realtà, o con le tendenze a cui questa realtà, o piuttosto la reazione a questa realtà, dà origine. Quando esiste il primo tipo di rapporto, troviamo un pensiero che è, come principio, veritiero; i quando si afferma il secondo tipo, ci troviamo di fronte a idee che possono essere vere soltanto per caso, e che probabilmente sono viziate da inclinazioni, prendendo le parole nel senso più vasto possibile. Il primo tipo
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di pensiero merita di essere chiamato teoretico; il secondo deve essere definito come para-teoretico. Forse si potrebbe anche definire il primo come razionale, il secondo come influenzato emotivamente. Il primo come puramente cognitivo, il secondo come valutativo. Prendiamo a prestito la similitudine di Theodor Geiger […]: il pensiero determinato dei fatti sociali è come una corrente pura, cristallina, trasparente; le ideologie sono come un fiume sporco, infangato e contaminato dalle impurità che vi si sono riversate. Dal primo si può bere; il secondo deve essere evitato come veleno5.
Tutto questo è assai elementare; ma la stessa limitazione del referente del termine «ideologia» ad una forma di radicale perversione intellettuale appare anche in contesti dove i ragionamenti politici e scientifici sono molto più raffinati e infinitamente più penetranti. Nel suo fondamentale saggio Ideology and civility, ad esempio, Edward Shils abbozza un ritratto della «concezione ideologica» che e7 se possibile, ancora più cupo di quello di Stark6. Manifestandosi «in una varietà di forme, ciascuna delle quali pretendeva di essere unica» – il fascismo italiano, il nazionalsocialismo tedesco, il bolscevismo russo, il comunismo francese e italiano, l’Action Française, l’Unione britannica dei fascisti, «e il loro parente americano ancora in fasce, il maccartismo, che morì nell’infanzia» – questa concezione «circondò e invase la vita pubblica dei paesi occidentali nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo… minacciò di raggiungere il predominio universale». Essa consiste principalmente nell’«asserzione che la politica dovrebbe essere condotta dal punto di vista di una serie di credenze coerente ed onnicomprensiva che deve aver la meglio su ogni altra considerazione». Come la politica che sostiene, essa è dualistica, opponendo il «noi» integro al malvagio «loro», proclamando che chi non è con me è contro di me. È alienante in quanto diffida, attacca e opera per minare le istituzioni politiche esistenti. È dottrinaria in 275
quanto reclama il possesso completo ed esclusivo della verità politica ed aborre il compromesso. È totalitaria in quanto mira ad ordinare tutta la vita sociale e culturale ad immagine dei suoi ideali, futuristica in quanto si muove verso una utopistica meta della storia in cui si realizzerà questo ordinamento. In breve non è il genere di prosa che è probabile possa ammettere di parlare un buon bourgeois gentilhomme (e neanche un buon democratico). Nemmeno a livelli più astratti e teorici, dove l’interesse è più squisitamente concettuale, scompare l’idea che il termine «ideologia» si applichi propriamente alle concezioni di coloro che sono «rigidi nelle opinioni, e sempre in errore». Nella più recente analisi, compiuta da Talcott Parsons, sul «paradosso di Mannheim», ad esempio, «le deviazioni dall’oggettività scientifica [sociale]» emergono come i «criteri essenziali di una ideologia»: «Il problema dell’ideologia sorge dove vi è una discrepanza tra ciò che si crede e ciò che si può [stabilire come] scientificamente corretto»7. Le «deviazioni» e le «discrepanze» di cui si parla sono di due tipi generali. In primo luogo, mentre la scienza sociale, plasmata come tutto il pensiero dai valori generali della società in cui si sviluppa, è selettiva nel genere di domande che pone, nei problemi particolari che sceglie di affrontare e così via, le ideologie sono soggette ad una selettività ulteriore «secondaria», più perniciosa dal punto di vista cognitivo, in quanto esse mettono in rilievo alcuni aspetti della realtà sociale – ad esempio quella realtà che è rivelata dal corrente sapere sociale scientifico – e trascurano o perfino sopprimono altri aspetti. «Così l’ideologia economica, ad esempio, esagera sostanzialmente il contributo degli uomini d’affari al benessere nazionale e 276
sottovaluta il contributo degli scienziati e dei professionisti. E nell’ideologia corrente dell’“intellettuale” viene esagerata l’importanza delle “pressioni al conformismo” sociali e sono ignorati o svalutati i fattori istituzionali nella libertà dell’individuo». In secondo luogo, il pensiero ideologico, non soddisfatto della semplice iperselettività, distorce anche quegli aspetti della realtà sociale che riconosce, distorsione che diventa manifesta solo quando ciò che si sostiene viene confrontato con le autorevoli acquisizioni della scienza sociale. «Il criterio di distorsione si riferisce al fatto che si fanno affermazioni sulla società che secondo i metodi delle scienze sociali si possono dimostrare empiricamente errate, mentre la selettività entra in gioco là dove le affermazioni sono “vere” al loro livello specifico, ma non costituiscono un resoconto equilibrato della verità disponibile». Sembra tuttavia piuttosto improbabile che agli occhi del mondo vi sia molto da scegliere tra l’essere chiaramente in errore e fornire un resoconto poco equilibrato della verità disponibile: anche qui l’ideologia è un fiume piuttosto torbido. Non occorre moltiplicare gli esempi, anche se si potrebbe farlo facilmente. È più importante domandarsi che cosa faccia un concetto così carico di ambiguità in mezzo agli strumenti analitici di una scienza sociale che, in base ad una pretesa di fredda obiettività, propone le sue interpretazioni teoriche come visioni della realtà sociale «non distorte» e perciò normative. Se il potere critico delle scienze sociali scaturisce dal loro disinteresse, non resta compromesso quando l’analisi del pensiero politico è guidata da un simile concetto, proprio come l’analisi del pensiero religioso
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sarebbe (ed occasionalmente lo è stata) compromessa se condotta alla stregua di uno studio della «superstizione»? L’analogia non è artificiosa. Nell’Oppio degli intellettuali di Raymond Aron, ad esempio, non solo il titolo – che riecheggia ironicamente l’amaro iconoclasma di Marx – ma tutta la retorica della discussione – («miti politici», «idolatria della storia», «religiosi e fedeli», «clericalismo laico» e così via) ricorda molto la letteratura dell’ateismo militante8. La tattica di Shils, che è quella di evocare le patologie estreme del pensiero ideologico – il nazismo, il bolscevismo o che altro – come sue forme paradigmatiche, richiama la tradizione intellettuale che concepisce l’Inquisizione, la corruzione personale dei papi del Rinascimento, la ferocia delle guerre della Riforma o la rozzezza del fondamentalismo della Bible belt come archetipi della credenza e del comportamento religiosi. E il concetto di Parsons, per cui l’ideologia è definita dalle sue insufficienze cognitive vis-à-vis la scienza, non è forse così lontano come potrebbe sembrare dall’idea di Comte secondo cui la religione si caratterizza per una concezione non critica, meramente allegorica/simbolica della realtà, che una sociologia seria, purificata dalle metafore, renderebbe presto obsoleta. Possiamo attendere la «fine dell’ideologia» per tutto il tempo che i positivisti hanno atteso la fine della religione. Forse non è esagerato suggerire che, come l’ateismo militante dell’Illuminismo e dei tempi successivi fu una risposta agli autentici orrori di uno scoppio spettacolare di bigottismo, di persecuzione e di lotta religiosa (e ad una conoscenza più vasta del mondo naturale), così l’approccio attivamente ostile all’ideologia è una reazione analoga agli olocausti politici dell’ultimo mezzo secolo (ed a una 278
conoscenza più ampia del mondo sociale). E se questo suggerimento è valido, anche il destino dell’ideologia potrà rivelarsi simile: l’isolamento dalla corrente principale del pensiero sociale9. Né si può liquidare il problema come se fosse semplicemente semantico. Naturalmente, se lo si desidera, si può limitare il referente del termine «ideologia» a «qualcosa di nebuloso»: e forse si possono citare casi storici a tale proposito. Ma, se si pongono queste limitazioni, non si possono scrivere delle opere sulle ideologie degli uomini d’affari americani, degli intellettuali «letterati» di New York, dei membri della British Medical Association, dei leader dei sindacati industriali laburisti o degli economisti famosi, ed aspettarsi che i soggetti in questione e gli uomini della strada interessati li considerino neutrali10. Le analisi di idee sociopolitiche che le accusino ab initio – nei termini delle parole stesse usate per definirle – di essere deformate o peggio, non danno nessuna risposta alle questioni che pretendono di sollevare. Naturalmente è anche possibile che il termine «ideologia» venga semplicemente eliminato dal discorso scientifico e abbandonato al suo destino polemico – come è stato in effetti per il termine «superstizione». Ma, dato che al momento non sembra esistere niente per sostituirlo e dato che si è, almeno parzialmente, radicato nel lessico delle scienze sociali, sembra più consigliabile procedere nello sforzo di renderlo meno pericoloso11.
III
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Come i difetti di un attrezzo si rivelano al momento di adoperarlo, così le debolezze intrinseche del concetto valutativo di ideologia si rivelano quando viene usato. In particolare saltano all’occhio negli studi sulle origini e le conseguenze sociali dell’ideologia, perché in questi studi tale concetto è connesso con un apparato teorico molto elaborato tratto dall’analisi dei sistemi sociali e della personalità – il cui stesso potere serve solo a mettere in rilievo la mancanza di un potere simile per l’aspetto culturale (vale a dire il sistema simbolico). Nelle indagini sui contesti sociali e psicologici del pensiero ideologico (o per lo meno in quelle «buone»), la sottigliezza con cui sono trattati i contesti fa risaltare la goffaggine con cui è trattato il pensiero, e un’ombra di imprecisione è gettata su tutta la discussione, che neppure la più rigorosa austerità metodologica può aggirare. Esistono attualmente due approcci principali per lo studio dei fattori sociali che determinano l’ideologia: la teoria dell’interesse e la teoria della tensione (strain)12. Per la prima l’ideologia è una maschera ed un’arma; per la seconda, un sintomo ed un rimedio. Nella teoria dell’interesse, le dichiarazioni ideologiche sono viste sullo sfondo di una lotta universale per il privilegio, mentre nella teoria della tensione sono collocate sullo sfondo di uno sforzo continuo per correggere lo squilibrio sociopsicologico. Nell’una gli uomini inseguono il potere; nell’altra sfuggono all’ansia. Poiché naturalmente essi possono fare le due cose allo stesso tempo – e perfino una per mezzo dell’altra – le due teorie non sono necessariamente in contraddizione, ma la teoria della tensione (che nacque come reazione alle difficoltà empiriche 280
incontrate dalla teoria dell’interesse), essendo meno semplicistica, è più penetrante, meno materiale, più comprensiva. I punti fondamentali della teoria dell’interesse sono troppo noti per aver bisogno di una riesposizione. Sviluppati fino ad una sorta di perfezione dalla tradizione marxista, essi fanno ora parte dell’equipaggiamento intellettuale standard dell’uomo della strada, fin troppo consapevole che nella disputa politica quel che conta è di chi è il bue che viene sacrificato. Il grande vantaggio della teoria dell’interesse era ed è la sua capacità di radicare i sistemi di idee culturali nel solido terreno della struttura sociale, grazie all’accento posto sulle motivazioni di quelli che professano questi sistemi ideali e sulla dipendenza di quelle motivazioni a loro volta dalla posizione sociale, più specificamente dalla classe sociale. Inoltre la teoria dell’interesse saldava la speculazione politica al conflitto politico, facendo notare che le idee sono armi e che un modo eccellente di istituzionalizzare una particolare concezione della realtà – quella di un gruppo, di una classe, di un partito – è di impadronirsi del potere politico e farlo valere. Questi contributi sono permanenti, e se la teoria dell’interesse non ha più l’egemonia che aveva una volta, non è tanto perché si è dimostrata errata, quanto perché il suo apparato teorico si è rivelato troppo rudimentale per affrontare la complessità dell’interazione tra fattori sociali, psicologici e culturali che esso stesso ha scoperto. Com’è accaduto per la meccanica newtoniana, non è stata spiazzata dagli sviluppi successivi, ma assorbita in essi. I principali difetti della teoria dell’interesse sono che la sua psicologia è troppo anemica e la sua sociologia troppo 281
materiale/fisica. Mancando di un’analisi soddisfacente della motivazione, è stata sempre costretta ad oscillare tra un utilitarismo angusto e superficiale, che vede gli uomini spinti dal calcolo razionale del loro vantaggio personale consapevolmente riconosciuto, e uno storicismo più comprensivo, ma non meno superficiale, che parla con una studiata vaghezza delle idee degli uomini come di qualcosa «che riflette», «che esprime», «che corrisponde a», «che emerge da» o «è condizionato da» i loro impegni sociali. Entro questo quadro, lo studioso si trova di fronte alla scelta o di rivelare l’esilità della sua teoria psicologica con l’essere tanto specifico da risultare poco credibile o di nascondere il fatto che egli non ha nessuna teoria psicologica con una genericità tale da produrre semplici truismi. Il ragionamento che per i soldati di professione «le politiche interne [di governo] sono importanti soprattutto come mezzo per rafforzare e allargare l’istituzione militare [perché] questo è il loro lavoro, questo è ciò per cui sono stati addestrati» sembra rendere scarsa giustizia anche a una mente così poco complicata come si ritiene sia quella del militare; mentre l’argomentazione che i petrolieri americani «non possono essere puri e semplici petrolieri», perché «i loro interessi sono tali» che «essi sono anche uomini politici» è illuminante quanto la teoria (proveniente anch’essa dalla fertile mente di M. Jourdain) che la ragione per cui l’oppio vi fa addormentare è che ha dei poteri sonniferi13. D’altra parte l’idea che l’azione sociale sia fondamentalmente una lotta senza fine per il potere porta ad una concezione indebitamente machiavellica dell’ideologia come una forma di astuzia più elevata, e di conseguenza a trascurarne le funzioni sociali più generali e meno 282
drammatiche. L’immagine bellica della società come un conflitto di interessi appena camuffati da conflitto di principi distoglie l’attenzione dal ruolo che hanno le ideologie nel definire (o nell’oscurare) le categorie sociali, nello stabilizzare (o sconvolgere) le aspettative sociali, nel conservare (o minare) le norme sociali, nel rafforzare (o indebolire) il consenso sociale, nell’alleviare (o esacerbare) le tensioni sociali. Ridurre l’ideologia ad un’arma in una guerre de plume conferisce alla sua analisi un rassicurante tono militante, ma significa anche ridurre l’ambito intellettuale entro cui si può condurre questa analisi al realismo cogente della tattica e della strategia. La farsa della teoria dell’interesse è – per trarre un’immagine da Whitehead – soltanto la ricompensa della sua limitatezza. L’«interesse» – qualunque siano le ambiguità di questo termine – è al tempo stesso un concetto psicologico e sociologico in quanto si riferisce sia a un vantaggio sentito da un individuo o da un gruppo di individui sia alla struttura oggettiva di opportunità entro cui si muove un individuo o un gruppo; lo stesso si può dire per la «tensione», poiché si riferisce sia ad uno stato di ansia personale sia ad una condizione di disordine della società. La differenza è che con «tensione» si descrivono più sistematicamente lo sfondo motivazionale e il contesto della struttura sociale, come pure i loro rapporti reciproci. E, infatti, l’unione di una concezione elaborata dei sistemi della personalità (fondamentalmente freudiani) da una parte e dei sistemi sociali (fondamentalmente durkheimiani) dall’altra e dei loro modi di interpenetrazione – il contributo di Parsons – che trasforma la teoria dell’interesse nella teoria della tensione14. 283
L’idea chiara e distinta da cui deriva la teoria della tensione è la debole integrazione della società. Nessun dispositivo sociale riesce o potrà mai riuscire a risolvere del tutto i problemi funzionali che si trova inevitabilmente di fronte. Tutti questi dispositivi sono tormentati da antinomie insolubili: tra la libertà e l’ordine politico, la stabilità e il cambiamento, l’efficienza e la benevolenza, la precisione e la flessibilità e via dicendo. Vi sono delle discontinuità tra le norme nei diversi settori della società – l’economia, la politica, la famiglia e così via. Vi sono degli sfasamenti tra gli scopi all’interno dei diversi settori – tra l’accento posto sul profitto e sulla produttività nelle aziende o tra l’avanzamento del sapere e la sua diffusione nelle università, ad esempio. E vi sono le contraddittorie aspettative di ruolo di cui si è tanto parlato nella recente letteratura sociologica americana sul caporeparto, la moglie lavoratrice, l’artista e l’uomo politico. L’attrito sociale è diffuso quanto l’attrito meccanico – e altrettanto inestinguibile. Inoltre l’attrito o la tensione sociale appare a livello della personalità individuale – di per sé un sistema inevitabilmente male integrato di desideri in conflitto, di sentimenti arcaici e di difese improvvisate – come tensione psicologica. Quello che è visto collettivamente come incoerenza strutturale è vissuto individualmente come insicurezza personale, perché è nell’esperienza dell’attore sociale che le imperfezioni della società e le contraddizioni del carattere si incontrano e si esasperano. Ma allo stesso tempo il fatto che la società e la personalità siano, nonostante i loro insuccessi, sistemi organizzati, piuttosto che semplici congerie di istituzioni o accumulazione di bisogni, significa che le tensioni sociopsicologiche da esse 284
indotte sono anch’esse sistematiche, che le ansie derivate dall’interazione sociale hanno una loro forma e un loro ordine. Nel mondo moderno almeno, la maggior parte degli uomini vive un’esistenza di disperazione strutturata. Il pensiero ideologico è pertanto considerato come (una sorta di) reazione a questa disperazione: «L’ideologia è la reazione strutturata alle tensioni strutturate di un ruolo, sociale»15. Essa fornisce uno «sfogo simbolico» ai disturbi emotivi generati dallo squilibrio sociale. E come si può presumere che questi disturbi siano, almeno in generale, comuni a tutti o alla maggior parte di coloro che occupano un dato ruolo o una posizione sociale, così le reazioni ideologiche ai disturbi tenderanno ad essere simili – una somiglianza solo rafforzata dai presunti elementi comuni nella «struttura di personalità di base» tra i membri di una particolare cultura, classe o categoria occupazionale. Qui il modello non è militare, ma medico: un’ideologia è una malattia (Sutton et al. citano il morsicchiarsi le unghie, l’alcolismo, i disturbi psicosomatici e i «ghiribizzi» tra le sue varie alternative) e richiede una diagnosi. «Il concetto di tensione non è di per sé una spiegazione dei modelli ideologici, ma un’etichetta generalizzata per i tipi di fattori da ricercare quando si vuole elaborare una spiegazione»16. Ma nella diagnosi, medica o sociologica, vi è di più che l’identificazione di tensioni pertinenti: si comprendono i sintomi non solo eziologicamente ma ideologicamente – nei termini dei modi in cui essi agiscono come meccanismi, anche se inutili, per trattare i disturbi che li hanno generati. Quattro principali tipi di spiegazioni sono stati usati più di frequente: catartica, morale, solidale e patrocinatoria. Per «spiegazione catartica» si intende la venerabile teoria della 285
valvola di sicurezza o. del capro espiatorio. La tensione emotiva viene alleviata incanalandola contro nemici simbolici («gli ebrei», «l’alta finanza», «i rossi» e così via). La spiegazione è semplice quanto il dispositivo, ma è innegabile che l’ideologia possa in qualche modo alleviare il dispiacere di essere un piccolo burocrate, un bracciante o il bottegaio in una piccola città, fornendo legittimi oggetti di ostilità (o indifferentemente di amore). Per «spiegazione morale», si intende la capacità di un’ideologia di sostenere individui (o gruppi) di fronte alla tensione cronica, o negandola direttamente o legittimandola in termini di valori superiori. Tanto il piccolo affarista che lotta riponendo la sua fiducia illimitata nell’inevitabile giustizia del sistema americano quanto l’artista ignorato che attribuisce il suo fallimento al mantenimento di standard decenti in un mondo di filistei sono in grado, con tali mezzi, di proseguire il loro lavoro. L’ideologia supera il divario emotivo tra le cose come sono e come si vorrebbe che fossero, assicurando cosi la recita di ruoli che potrebbero altrimenti venir abbandonati per apatia o per disperazione. Per «spiegazione della solidarietà» si intende il potere dell’ideologia di tenere unito un gruppo o una classe sociale. Nella misura in cui esiste, l’unità del movimento dei lavoratori, della comunità degli affari o della professione medica si basa ovviamente in modo significativo su un comune orientamento ideologico; e il Sud non sarebbe «il Sud» senza l’esistenza di simboli popolari carichi delle emozioni di una diffusa, e difficile, condizione sociale. Infine per «spiegazione patrocinatoria» si intende l’azione delle ideologie e degli ideologi nell’esporre anche se in modo parziale e confuso le tensioni che li animano, portandoli così all’attenzione pubblica. «Gli 286
ideologi definiscono i problemi per il grosso della società prendono posizione sui problemi esistenti e “li presentano davanti al tribunale” sulla piazza del mercato ideologico»17, benché i patrocinatori delle ideologie (non molto diversamente dagli altri avvocati, quelli dei tribunali) a volte rendano oscura, più che chiarire, la vera natura dei problemi m gioco, essi almeno, richiamando l’attenzione sulla loro esistenza e polarizzando le questioni, fanno sì che non cadano nell’oblio. Senza l’attacco marxista, non ci sarebbe stata nessuna riforma del lavoro; senza i nazionalisti neri nessuna conquista. È qui, tuttavia, nell’analisi dei ruoli sociali e psicologici dell’ideologia in quanto distinti dai loro fattori determinanti, che la stessa teoria della tensione comincia a scricchiolare e la sua forza superiore, in confronto con la teoria dell’interesse, viene meno. La maggior precisione nella identificazione delle fonti dell’interesse ideologico non arriva fino alla discriminazione delle sue conseguenze; qui, al contrario, l’analisi diviene debole ed ambigua. Le conseguenze previste, indubbiamente di per sé autentiche, sembrano quasi casuali, sottoprodotti accidentali di un processo espressivo essenzialmente non razionale, quasi automatico, volto inizialmente in un’altra direzione – come quando un uomo inciampando emette un «ohò» involontario e accidentalmente dà sfogo alla sua rabbia, segnala la sua sofferenza e si consola col suono della sua stessa voce; o come quando, preso in un ingorgo della metropolitana, esclama spontaneamente un «maledizione!» di frustrazione e sentendo imprecazioni simili provenire da altri, matura un perverso senso di comunanza coi suoi compagni di sventura. 287
Naturalmente questo difetto può essere trovato in gran parte dell’analisi funzionale nelle scienze sociali: un modello di comportamento formato da un certo sistema di forze, per una coincidenza plausibile e purtuttavia misteriosa, si rivela servire a scopi solo vagamente apparentati a quelle forze. Un gruppo di primitivi comincia, in tutta onestà, a pregare per la pioggia e finisce col rafforzare la propria solidarietà sociale; un uomo politico di second’ordine si dà da fare per il proprio tornaconto e finisce per mediare tra gruppi di immigrati non ancora assimilati e un’impersonale burocrazia governativa; un ideologo comincia con l’esporre le sue lagnanze e si trova a contribuire, grazie al potere diversivo delle sue illusioni, al prolungamento della validità dello stesso sistema che lo affligge. Di solito si invoca il concetto di funzione latente per smascherare questo stato di cose anomalo, ma esso dà solo un nome al fenomeno (la cui realtà non è messa in questione) senza spiegarlo, e il risultato finale è che le analisi funzionali – e non solo quelle dell’ideologia – restano inevitabilmente ambigue. L’antisemitismo del piccolo burocrate può offrirgli in effetti una valvola di sfogo per la rabbia repressa generata in lui dal costante servilismo verso quelli che considera intellettualmente come suoi inferiori e così farne sbollire una parte, ma può anche semplicemente aumentare la sua ira, fornendogli un altro oggetto da affrontare con impotente amarezza. L’artista ignorato può sopportare meglio l’insuccesso di pubblico invocando i canoni classici della sua arte, ma questa invocazione può rendergli talmente drammatico il divario tra le possibilità del suo ambiente e le pretese della sua visione da far diventare il gioco indegno della candela. La comunanza 288
della percezione ideologica può legare assieme gli uomini, ma può anche fornir loro, come dimostra la storia di un certo settarismo marxista, un vocabolario con cui esplorare più in dettaglio le differenze che li dividono. Lo scontro degli ideologi può portare all’attenzione pubblica un problema sociale, ma può anche caricarlo di tale forza emotiva che ogni possibilità di trattarlo razionalmente viene preclusa. Di tutte queste possibilità i teorici della tensione sono naturalmente ben consapevoli. Essi tendono ad accentuare le possibilità e i risultati negativi più di quelli positivi, e raramente pensano all’ideologia come a qualcosa di più di un tappabuchi faute de mieux – come rosicchiarsi le unghie. Ma il punto principale è che, nonostante tutta la sua sottigliezza nello scovare i motivi dell’interesse ideologico, l’analisi compiuta dalla teoria della tensione sulle conseguenze di tale interesse rimane rozza, vacillante e sfuggente. Dal punto di vista diagnostico è convincente, da quello funzionale non lo è. La ragione di questa debolezza è la quasi totale assenza nella teoria della tensione (così come in quella dell’interesse) di qualcosa di più di una concezione rudimentale dei processi di costruzione simbolica. Si parla molto delle emozioni «che trovano uno sfogo simbolico» o «che finiscono con l’aderire strettamente a simboli appropriati», ma si hanno idee molto poco chiare sul modo con cui ciò avviene. Il legame tra le cause dell’ideologia e i suoi effetti sembra precario perché l’elemento di connessione – il processo autonomo di espressione simbolica – viene passato praticamente sotto silenzio. Sia la teoria dell’interesse che quella della tensione passano direttamente dall’analisi della fonte all’analisi delle conseguenze, senza mai esaminare 289
seriamente le ideologie come sistemi di simboli interagenti, come modelli costituiti da significati interconnessi. Naturalmente i temi sono ben definiti, e l’analisi del contenuto permette di enumerarli. Ma per chiarirli non si fa riferimento ad altri temi o a qualche tipo di teoria semantica, ma si va o all’indietro, all’effetto che presumibilmente essi rispecchiano, o in avanti, alla realtà sociale che presumibilmente distorcono. Il problema del modo in cui, dopo tutto, le ideologie trasformano il sentimento in significato e lo rendono così socialmente disponibile, è aggirato col rozzo espediente di porre particolari simboli e particolari tensioni (o interessi) fianco a fianco, in modo tale da far sembrare semplice senso comune – o almeno senso comune post-freudiano, postmarxista – che i primi siano derivati dei secondi. E così avviene, se lo studioso è abbastanza abile18. In questo modo, la connessione non viene spiegata ma semplicemente dedotta. La natura del rapporto tra le tensioni sociopsicologiche che suscitano atteggiamenti ideologici e le strutture simboliche attraverso le quali si conferisce esistenza pubblica a questi atteggiamenti è troppo complicata per essere compresa nei termini di una vaga e inverificabile nozione di risonanza emotiva.
IV È particolarmente interessante, in questo contesto, il fatto che, sebbene la teoria delle scienze sociali sia stata profondamente influenzata nel suo corso generale da quasi tutti i movimenti intellettuali importanti deg i u timi 290
centocinquanta anni – marxismo, darwinismo, utilitarismo, idealismo, freudismo, comportamentismo, positivismo, operazionalismo – ed abbia tentato di avvantaggiarsi raccogliendo pezzi praticamente in ogni campo importante dell’innovazione metodologica – dall’ecologia, l’etologia e la psicologia comparata alla teoria dei giochi, la cibernetica e la statistica – essa è rimasta praticamente immune, tranne pochissime eccezioni, da una delle tendenze più importanti del pensiero recente: lo sforzo di costruire una scienza indipendente di quella che Kenneth Burke ha chiamato «azione simbolica»19. Né l’opera di filosofi come Peirce, Wittgenstein, Cassirer, Lange, Ryle o Morris, né quella di critici letterari come Coleridge, Eliot, Burke, Empsom, Blackmur, Brooks o Auerbach sembra aver avuto un impatto apprezzabile sul modello generale dell’analisi scientifica sociale20. A parte alcuni linguisti più avventurosi (e ampiamente programmatici) – come Whorf o Sapir – la questione di come i simboli simboleggiano, come funzionano per mediare i significati, è stata semplicemente aggirata. «Il fatto imbarazzante – ha scritto il medicoromanziere Walker Percy – è che non esiste oggi una scienza naturale empirica del comportamento simbolico in quanto tale… Il pacato rimprovero di Sapir circa la mancanza di una scienza del comportamento simbolico e la necessità di una scienza simile è decisamente più fondato oggi di quanto non lo fosse trentacinque anni fa»21. È l’assenza di una simile teoria e, in particolare, l’assenza di un quadro analitico entro cui trattare il linguaggio figurato, che ha ridotto i sociologi a considerare le ideologie come elaborate urla di dolore. Senza alcuna idea del modo in cui operano la metafora, l’analogia, l’ironia, l’ambiguità, il 291
gioco di parole, il paradosso, l’iperbole, il ritmo e tutti gli altri elementi di quello che chiamiamo «stile» – senza neanche, nella maggior parte dei casi, il riconoscimento che questi espedienti sono di qualche importanza nel tradurre atteggiamenti personali in una forma pubblica: ai sociologi mancano le risorse simboliche con cui produrre una concezione più adeguata. Proprio mentre le arti stabilivano il potere cognitivo della «distorsione» e la filosofia insidiava l’adeguatezza di una teoria del significato basata sulle emozioni, i sociologi respingevano la prima ed abbracciavano la seconda. Non è quindi sorprendente che essi eludano il problema di interpretare la rilevanza delle affermazioni ideologiche semplicemente non riuscendo a riconoscerlo come problema22. Allo scopo di rendere esplicito quello che voglio dire, offrirò un esempio che è, spero, così banale in sé da acquietare ogni sospetto che io abbia un interesse nascosto per la sostanza del problema politico trattato e, cosa più importante, tale da stabilire definitivamente che i concetti elaborati per l’analisi degli aspetti più elevati della cultura – la poesia ad esempio – sono applicabili a quelli più umili senza offuscare in alcun modo le enormi distinzioni qualitative tra i due. Nel discutere le insufficienze cognitive con cui secondo essi l’ideologia si definisce, Sutton e i suoi colleghi usano come esempio della tendenza dell’ideologo a «ipersemplificare» la definizione, data dal sindacato, della legge Taft-Hartley come «legge sul lavoro coatto»: L’ideologia tende ad essere semplice e netta, anche dove la semplicità e la chiarezza non rendono giustizia al tema in discussione. La rappresentazione ideologica usa linee nette e contrasti in bianco e nero. L’ideologo esagera e caricaturizza alla maniera del fumettista. Al contrario, è probabile che una descrizione scientifica dei fenomeni sociali sia nebulosa e indistinta. Nella
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recente ideologia laburista la legge Taft-Hartley è stata una «legge sul lavoro coatto». Ad un esame imparziale, la legge non merita questa etichetta. Qualsiasi valutazione distaccata della legge dovrebbe considerare singolarmente i suoi molti articoli. Su qualsiasi sistema di valori, anche quello dei sindacati, una tale valutazione emetterebbe un verdetto misto. Ma i verdetti misti non sono materia dell’ideologia: sono troppo complicati, troppo nebulosi. L’ideologia deve classificare la legge nel suo insieme mediante un simbolo per chiamare all’azione i lavoratori, gli elettori ed i legislatori23.
Lasciando da parte la questione puramente empirica se sia vero o no che le formulazioni ideologiche di una data serie di fenomeni sociali siano inevitabilmente «più semplici» delle formulazioni scientifiche degli stessi fenomeni, si può notare in questo ragionamento una visione curiosamente svalutativa – si potrebbe anche dire «ipersemplificata» – dei processi di pensiero dei leader sindacali da una parte e dei «lavoratori, elettori e legislatori» dall’altra. È piuttosto difficile credere che coloro che hanno coniato e diffuso lo slogan credessero essi stessi o si aspettassero che qualcun altro pensasse che la legge avrebbe effettivamente ridotto (o fosse intesa a ridurre) il lavoratore americano alla condizione di schiavo, o che quella frazione di pubblico per cui lo slogan aveva un significato lo percepisse in questi termini. Eppure è proprio questa visione appiattita della mentalità altrui che lascia al sociologo soltanto due interpretazioni, entrambe inadeguate, dell’efficacia che può avere il simbolo: o esso inganna i disinformati (secondo la teoria dell’interesse) o eccita le persone incapaci di riflettere (secondo la teoria della tensione). Non si prende neanche in considerazione l’idea che il simbolo potrebbe trarre il proprio potere dalla sua capacità di cogliere, formulare e comunicare realtà sociali che sfuggono al linguaggio moderato della scienza, 293
che possa mediare significati più complessi di quanto non suggerisca la sua interpretazione letterale. «Legge sul lavoro “coatto”» può essere, dopo tutto, non un’etichetta ma un tropo. Più esattamente, sembra che sia una metafora o almeno un tentativo di metafora. Benché siano pochissimi gli scienziati sociali che ne hanno letto qualcosa, la letteratura sulla metafora – «il potere per cui la lingua, anche con un vocabolario ristretto, riesce ad abbracciare molti milioni di cose» – è vasta e ormai concorde24. Nella metafora si ha, naturalmente, una stratificazione di significato, in cui un’incongruità di senso ad un livello produce un flusso di significato ad un altro. Come ha fatto notare Percy, la caratteristica della metafora che ha più turbato i filosofi (e, avrebbe potuto aggiungere, anche gli scienziati) è che è «sbagliata»: «afferma di una cosa che è qualcosa altro». E, peggio ancora, tende ad essere tanto più efficace quanto più è «sbagliata»25. Il potere di una metafora deriva proprio dall’interazione tra i significati discordanti che essa costringe simbolicamente entro una cornice concettuale unitaria, e dal grado di successo che questa coercizione ottiene nel sopraffare la resistenza psichica che una simile tensione semantica inevitabilmente ingenera in tutti quelli che sono in grado di percepirla. Quando agisce, una metafora trasforma una falsa identificazione (per esempio quella tra le politiche del lavoro del Partito repubblicano e quelle dei bolscevichi) in un’analogia appropriata; quando fallisce, è una pura stravaganza. Appare abbastanza evidente che per la maggior parte della gente l’immagine della «legge sul lavoro coatto» era distorta (e perciò non ebbe mai alcuna efficacia nel «guidare 294
all’azione lavoratori, elettori e legislatori») ed è questo insuccesso, non la sua presunta semplicità, che la fa apparire niente di più di un fumetto. La tensione semantica tra l’immagine di un Congresso conservatore che mette fuori legge il controllo del posto di lavoro da parte delle Trade Unions (closed shop) e quella dei campi di prigionia in Siberia era palesemente troppo grande per risolversi in un unico concetto, quanto meno nel caso di un espediente stilistico cosi rudimentale come lo slogan. Tranne forse che per alcuni fanatici, l’analogia non emergeva: la falsa identificazione restava falsa. Ma l’insuccesso non è inevitabile, anche ad un livello così elementare. Benché il verdetto reciso «la guerra è l’inferno» di Sherman non sia una proposizione sociologica, probabilmente neppure Sutton e colleghi lo considererebbero un’esagerazione o una caricatura. Più importante, tuttavia, di qualunque valutazione dell’adeguatezza dei due tropi come tali è il fatto che, poiché i significati tra cui essi tentano di far scoccare la scintilla sono dopo tutto socialmente radicati, il successo o il fallimento del tentativo è legato non solo alla potenza dei meccanismi stilistici impiegati, ma anche a quei tipi di fattori su cui la teoria della tensione concentra l’attenzione. Le pressioni della guerra fredda, i timori di un movimento dei lavoratori solo da poco emerso da un’aspra lotta per l’esistenza, e la minacciata eclisse del liberalismo del New Deal dopo vent’anni di successo prepararono la scena sociopsicologica sia per la comparsa dell’immagine del «lavoro coatto» sia – quando si dimostrò incapace di elaborare i due concetti in una analogia convincente – per il suo fallimento. I militaristi giapponesi del 1934 che aprivano 295
un loro opuscolo sulla Teoria di base della difesa nazionale e suggerimenti per il suo rafforzamento con la metafora dal suono familiare «La guerra è il padre della creazione e la madre della cultura» indubbiamente avrebbero trovato la massima di Sherman altrettanto poco convincente quanto lui la loro26. I primi si stavano preparando con energia per una guerra imperialista nel contesto di un’antica nazione che cercava la sua collocazione nel mondo moderno, il secondo stava faticosamente portando avanti una guerra civile in una nazione non ancora compiuta, lacerata da odi interni. Non è quindi la verità che muta nei diversi contesti sociali, psicologici e culturali, ma i simboli che noi costruiamo nel nostro tentativo, ugualmente vano, di afferrarla. La guerra è l’inferno e non la madre della cultura, come i giapponesi alla fine scoprirono – benché senza dubbio essi esprimessero il fatto in un linguaggio più nobile. Si dovrebbe chiamare la sociologia della conoscenza sociologia del significato, perché ciò che viene determinato socialmente non è la natura della concezione, ma i veicoli della concezione. In una comunità che beve il caffè nero, osserva Henle, corteggiare una ragazza dicendole «tu sei la crema del mio caffè» darebbe un’impressione del tutto errata; e se il fatto di essere onnivori fosse considerato una caratteristica più significativa degli orsi che non la loro impacciata goffaggine, chiamare un uomo «vecchio orso» potrebbe voler dire non che è rozzo, ma che ha gusti eclettici27. O, per prendere un esempio da Burke, giacché in Giappone la gente sorride quando si nomina la morte di un intimo amico, l’equivalente semantico (dal punto di vista sia comportamentale sia verbale) nell’inglese americano non è «egli sorrise» ma «la sua faccia si contrasse»: in questo 296
modo infatti «traduciamo l’uso sociale accettato in Giappone nel corrispondente uso sociale accettato dall’Occidente»28. E, più vicino alla sfera ideologica, Sapir ha fatto notare che la presidenza di un comitato ha la forza rappresentativa che attribuiamo ad essa solo perché riteniamo che «le funzioni amministrative in qualche modo identificano una persona come superiore rispetto a quelli che vengono diretti»: «se la gente arrivasse a percepire le funzioni amministrative come poco più di automatismi simbolici, la presidenza di un comitato sarebbe considerata poco più di un simbolo pietrificato e il valore particolare che le viene ora attribuito tenderebbe a sparire»29. Le cose non stanno diversamente con la «legge sul lavoro coatto». Se, per qualunque motivo, i campi di lavoro forzato finissero per avere una parte meno importante nell’immagine americana dell’Unione Sovietica, a svanire non sarebbe la veridicità del simbolo ma il suo stesso significato, la sua stessa capacità di essere entrambe le cose, vero o falso. Bisognerebbe allora inquadrare l’argomento – che la legge Taft-Hartley è una minaccia mortale per il lavoro organizzato – in qualche altro modo. In breve, tra un’immagine ideologica come l’espressione «legge sul lavoro coatto» e le realtà sociali della vita americana nel cui contesto essa emerge, esiste un sottile gioco di interazione che concetti come «distorsione», «selettività» o «ipersemplificazione» semplicemente non sono in grado di cogliere30. Non solo la struttura semantica dell’immagine è molto più complessa di quanto non appaia in superficie, ma l’analisi di questa struttura ci obbliga a rintracciare una molteplicità di connessioni referenziali tra di essa e la realtà sociale, così che Immagine finale è quella 297
di una configurazione di significati diversi, dalla cui interazione derivano tanto il potere espressivo quanto la forza retorica del simbolo finale. Questa interazione è di per sé un processo sociale, un accadimento non «nella testa», ma in quel mondo pubblico dove «le persone parlano insieme, nominano le cose, fanno affermazioni e in qualche modo si capiscono»31. Lo studio dell’azione simbolica è una disciplina sociologica come lo studio dei piccoli gruppi, delle burocrazie o del mutamento di ruolo della donna americana; solo è molto meno sviluppato.
V Porre la domanda, che la maggior parte degli studiosi di ideologia omette di porre – che cosa vogliamo dire esattamente quando affermiamo che le tensioni sociopsicologiche sono «espresse» in forme simboliche? – mette quindi subito in imbarazzo: induce ad una teoria poco tradizionale ed evidentemente paradossale della natura del pensiero umano come attività pubblica e non, o almeno non fondamentalmente, privata32. Non si possono ricercare qui i particolari di questa teoria, né si possono produrre quantità significative di prove per sostenerla. Ma dobbiamo almeno definirla nelle sue linee generali, se vogliamo trovare una via per uscire dal mondo sfuggente dei simboli e dei processi semantici e passare in quello (apparentemente) più solido dei sentimenti e delle istituzioni, se vogliamo rintracciare in modo circostanziato i modi di interpenetrazione della cultura, della personalità e del sistema sociale. /
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La proposizione che definisce questo tipo di approccio al pensiero en plein air – quella che, seguendo Galanter e Gerstenhaber, possiamo chiamare la «teoria estrinseca» – è che il pensiero consiste nella costruzione e manipolazione di sistemi simbolici, i quali sono impiegati come modelli di altri sistemi, fisici, organici, sociali, psicologici e via dicendo, in modo tale che la struttura di questi altri sistemi – e, in caso favorevole, il modo in cui ci si può aspettare che si comportino – è, come diciamo noi, «compresa»33.Il pensiero, la concettualizzazione, la formulazione, la comprensione, l’intendimento o quel che volete, non consistono in accadimenti fantasmatici nella testa, ma in un accoppiarsi degli stati e dei processi dei modelli simbolici con gli stati e i processi del mondo più vasto: Pensare per immagini è né più né meno che costruire un’immagine dell’ambiente, far andare il modello più in fretta dell’ambiente e predire che l’ambiente si comporterà come fa il modello… Il primo passo verso la soluzione di un programma consiste nella costruzione di un modello o di un’immagine delle «caratteristiche rilevanti» [dell’ambiente]. Questi modelli si possono costruire partendo da molte cose, comprese parti del tessuto organico del corpo e, dall’uomo, con carta, matita e veri e propri manufatti. Una volta che il modello è stato costruito, può essere manipolato sotto varie condizioni e costrizioni ipotetiche. L’organismo può quindi «osservare» il risultato di queste manipolazioni e proiettarle nell’ambiente in modo da rendere possibile una predizione. Secondo questa concezione, quando un ingegnere aeronautico manipola il modello di un nuovo aeroplano in una galleria a vento sta pensando. L’automobilista sta pensando quando fa scorrere il dito su una linea della carta geografica, dove il dito serve da modello degli aspetti rilevanti dell’automobile, e la carta come modello della strada. Modelli esteriori di questo tipo si usano spesso pensando a complessi [ambienti]. Le immagini usate nel pensiero interiore dipendono dalla disponibilità degli avvenimenti fisico-chimici dell’organismo che occorre usare per formare dei modelli34.
Questa concezione naturalmente non nega la coscienza, ma la definisce. Ogni percezione consapevole – come ha 299
mostrato Percy – è un atto di riconoscimento, un accoppiamento in cui un oggetto (o un avvenimento, un atto, un’emozione) è identificato ponendolo sullo sfondo di un simbolo appropriato: Non basta dire che si è consapevoli di qualcosa: si è anche consapevoli di qualcosa che è qualcosa. C’è differenza tra l’apprendimento di una Gestalt (un pulcino percepiva l’effetto Jastrow bene quanto un essere umano) e il coglierla entro il suo veicolo simbolico. Quando mi guardo in giro nella stanza, mi rendo conto di una serie di atti di accoppiamento compiuti quasi senza sforzo: vedere un oggetto e capire che cosa sia. Se mi cadono gli occhi su una cosa che non mi è familiare, mi rendo conto immediatamente che manca uno dei due termini da accoppiare. Io chiedo che cosa sia [l’oggetto] – domanda estremamente misteriosa35.
Quello che manca e quello che si chiede non è altro che un modello simbolico applicabile, sotto cui sussumere «la cosa non familiare» e renderla così familiare: Se vedo un oggetto ad una certa distanza e non lo riconosco completamente, posso vederlo, e in effetti lo vedo, come una successione di cose diverse, ciascuna delle quali – quanto più mi avvicino – viene respinta dal criterio di adeguamento tinche una non viene attestata positivamente. Una chiazza di sole in un campo la posso effettivamente vedere come un coniglio – una visione che va molto oltre la congettura che possa essere un coniglio: no, la Gestalt percettiva è così interpretata, contrassegnata dall’essenza della «coniglità»; avrei potuto giurare che era un coniglio. Avvicinandosi di più, la macchia di luce cambia quanto basta per respingere l’immagine del coniglio. Il coniglio svanisce e io formo un’altra immagine: è un sacchetto di carta, e cosi via. Ma la cosa più significativa è che anche l’ultimo riconoscimento, quello «corretto» è un apprendimento altrettanto mediato quanto quelli sbagliati: è anch’esso un’occhiata, un accoppiamento, un’approssimazione. E notiamo di passaggio che, anche se è corretta, anche se è confermata da tutti gli indici, può servire allo stesso modo a nascondere o a scoprire. Quando riconosco m un uccello strano un passero, tendo a collocare l’uccello sotto la sua etichetta appropriata: è soltanto un passero36.
Nonostante il tono un po’ intellettualistico di questi diversi esempi, la teoria estrinseca del pensiero si può estendere anche al lato affettivo della mentalità umana . ^me 300
una carta stradale trasforma delle semplici collocazioni fisiche in «luoghi», collegati da strade numerate e separati da distanze misurate, e ci mette così in grado di trovare la via in cui siamo e in cui vogliamo andare, allo stesso modo una poesia, ad esempio Felix Randal di Hopkins, attraverso il potere evocativo del suo linguaggio particolarmente pregnante, ci fornisce un modello simbolico dell’impatto emotivo della morte prematura: la sua acutezza, come quella della carta stradale, trasforma le sensazioni fisiche in sentimenti ed atteggiamenti e ci permette di reagire ad una tragedia di questo tipo non «ciecamente» ma «intelligentemente». I rituali strategici di una religione – una messa, un pellegrinaggio, un carroboree – sono modelli simbolici (qui più in forma di attività che di parole) di un particolare senso del divino, un certo tipo di stato d’animo devoto che la loro continua ripetizione tende a produrre nei partecipanti. Naturalmente, visto che la maggior parte degli atti di ciò che viene di solito chiamato «cognizione» sono più simili all’identificazione di un coniglio che al far funzionare una galleria del vento, quasi tutto quello che si chiama «espressione» (la dicotomia è spesso esagerata e quasi universalmente fraintesa) è mediata più da modelli tratti dalla cultura popolare che dall’arte colta e dal rituale religioso formale. Ma il punto è che lo sviluppo, la conservazione e la dissoluzione di «stati d’animo», «atteggiamenti», «sentimenti» e via dicendo non costituiscono «un processo fantasmatico che avviene in flussi di coscienza che ci è proibito visitare» più di quanto non lo sia la discriminazione di oggetti, eventi, strutture, processi e così via nel nostro ambiente. Anche qui «noi
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descriviamo i modi in cui… la gente interpreta la parte del proprio comportamento prevalentemente pubblico»38. Quali che siano le loro altre differenze, sia i simboli o sistemi di simboli cosiddetti cognitivi sia quelli cosiddetti espressivi hanno almeno una cosa in comune: sono fonti di informazione estrinseche nei cui termini si può plasmare la vita umana: meccanismi extrapersonali per la percezione, la comprensione, il giudizio e la manipolazione del mondo. I modelli culturali – religiosi, filosofici, estetici, scientifici, ideologici – sono «programmi»: essi forniscono uno stampo o uno schema per l’organizzazione di processi sociali e psicologici, proprio come i sistemi genetici forniscono uno schema simile per l’organizzazione dei processi organici: Queste considerazioni definiscono i termini in cui noi ci accostiamo al problema del «riduzionismo» in psicologia e nella scienza sociale. I livelli che abbiamo individuato per tentativi [l’organismo, la personalità, il sistema sociale, la cultura] … sono… livelli di organizzazione e di controllo. I livelli più bassi «condizionano» e in un certo senso «determinano» le strutture in cui entrano, nello stesso senso in cui la stabilità di un edificio dipende dalle proprietà dei materiali con cui è costruito. Ma le proprietà fisiche dei materiali non determinano il progetto dell’edificio: questo è un fattore di ordine diverso, di organizzazione. E l’organizzazione controlla i rapporti dei materiali tra di loro, i modi con cui sono utilizzati nell’edificio, in virtù dei quali esso costituisce un sistema ordinato di un tipo particolare – guardando «in giù» nella serie possiamo sempre ricercare e scoprire gruppi di «condizioni» da cui dipende il funzionamento di un ordine superiore di organizzazione. Vi è pertanto una serie immensamente complicata di condizioni fisiologiche da cui dipende il funzionamento psicologico, e via dicendo. Queste condizioni, ben comprese e valutate, sono sempre autentici determinanti di processo nei sistemi organizzati ai livelli immediatamente superiori. Noi possiamo tuttavia guardare anche «verso l’alto» nella serie. In questa direzione vediamo «strutture», «modelli di organizzazione», modelli di significato, «programmi» ecc. che sono il nucleo dell’organizzazione del sistema al livello su cui abbiamo concentrato la nostra attenzione39.
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La ragione per cui questi stampi simbolici sono necessari è che, come è stato spesso osservato, il comportamento umano è intrinsecamente molto plastico. Non essendo controllato strettamente, bensì soltanto in via generale, da programmi o modelli genetici – fonti interne di informazione –questo comportamento, per avere una qualche forma e una qualche efficacia, dev’essere controllato in misura considerevole da fonti esterne. Gli uccelli imparano a volare senza gallerie del vento, e le reazioni che gli animali inferiori hanno davanti alla morte sono in gran parte innate, fisiologicamente preformate40. L’estrema generalità, vaghezza e variabilità delle capacità di reazione innate dell’uomo indicano che il particolare modello assunto dal suo comportamento è guidato prevalentemente da calchi più culturali che genetici: questi ultimi predispongono il contesto psicologico generale entro cui precise sequenze di attività sono organizzate dai primi. L’animale che fabbrica attrezzi, ride o mente – l’uomo – è anche l’animale incompleto o per meglio dire che si autocompleta. Autore della propria realizzazione, dalla propria capacità generale di costruire modelli simbolici crea le abilità specifiche che lo definiscono. O – per tornare infine al nostro discorso – è attraverso la costruzione di ideologie, immagini schematiche di ordine sociale, che l’uomo fa di se stesso, per il meglio e per il peggio, un animale politico. Inoltre, poiché i vari tipi di sistemi di simboli culturali sono fonti esterne di informazione, calchi per l’organizzazione di processi sociali e psicologici, essi assumono particolare importanza in situazioni dove manca il particolare genere di informazioni che essi contengono, dove le guide istituzionalizzate per il comportamento, il 303
pensiero o il sentimento sono deboli o assenti. È in un paese poco familiare dal punto di vista emotivo o topografico che si sente il bisogno di poesie e di carte stradali. Così avviene anche con l’ideologia. Nelle strutture politiche comprese in ciò che Edmund Burke ha giustamente definito «antiche opinioni e regole di vita» il ruolo dell’ideologia in ogni senso esplicito è marginale. In sistemi politici così autenticamente tradizionali i partecipanti agiscono (per usare un’altra frase di Burke) come uomini dai sentimenti spontanei; nei loro giudizi e nelle loro attività sono guidati, emotivamente ed intellettualmente, da pregiudizi non esaminati, che non li lasciano «esitanti nel momento della decisione, scettici, perplessi e indecisi». Ma quando – come nella Francia rivoluzionaria che Burke denunciava e nella sconvolta Inghilterra dalla quale, come forse maggior ideologo del paese, egli pure denunciava – quelle sacre opinioni e regole di vita vengono messe in dubbio, fiorisce la ricerca di formulazioni ideologiche sistematiche per rafforzarle o per sostituirle. La funzione dell’ideologia è di rendere possibile una politica autonoma, fornendo i concetti autorevoli che la rendono significativa, le immagini suadenti grazie alle quali si può afferrare sensibilmente41. È proprio nel momento in cui un sistema politico comincia a liberarsi dal dominio immediato di una tradizione, dalla guida diretta e dettagliata di canoni religiosi o filosofici da un lato e dai precetti non riflessivi del moralismo convenzionale dall’altro che le ideologie formali tendono ad emergere e a prender piede42. La differenziazione di un mondo politico autonomo implica anche la differenziazione di un modello culturale di azione politica separato e distinto, perché i modelli più vecchi, non 304
specializzati, sono o troppo generici o troppo concreti per fornire il tipo di guida che esige un simile sistema politico: o intralciano la condotta politica caricandola di significato trascendentale, o soffocano l’immaginazione politica legandola al vacuo realismo del giudizio abituale. Proprio quando né gli orientamenti culturali più generali di una società né quelli più banali e pragmatici bastano più a fornire un’immagine adeguata dei processi politici le ideologie cominciano a diventare importanti come fonti di significati ed atteggiamenti sociopolitici. In un certo senso, questa affermazione è solo un altro modo di dire che l’ideologia è una reazione alla tensione, ma ora vi comprendiamo anche la tensione culturale oltre a quella sociale e psicologica. È una perdita di orientamento ciò che più direttamente dà origine all’attività ideologica, una incapacità, per mancanza di modelli fruibili, di comprendere l’universo di diritti e responsabilità civiche in cui ci si trova posti. Lo sviluppo di un mondo politico differenziato (o di una maggiore differenziazione interna entro di esso) può produrre (e di solito lo fa) gravi sconvolgimenti sociali e tensione psicologica, ma produce anche confusione concettuale, mentre le immagini tradizionali di un ordine politico perdono di importanza o sono trascinate nel discredito. La ragione per cui la rivoluzione francese fu, almeno fino al suo tempo, la maggior incubatrice di ideologie estremistiche, tanto «progressiste» quanto «reazionarie», nella storia umana non fu perché l’insicurezza personale o lo squilibrio sociale fossero più profondi e diffusi che in molti periodi precedenti – benché lo fossero abbastanza –, ma perché il principio organizzativo centrale della vita politica, il diritto 305
divino del re, fu distrutto43. È una confluenza di tensione sociopsicologica e assenza di risorse culturali – per mezzo delle quali dare un senso alla tensione – che, aggravandosi a vicenda, prepara il terreno per la nascita di ideologie sistematiche (politiche, morali o economiche). Ed è a sua volta il tentativo delle ideologie di rendere significative delle situazioni sociali altrimenti incomprensibili, di interpretarle in modo da rendere possibile agire con uno scopo nel loro ambito, che spiega la natura estremamente figurata delle ideologie e l’intensità con cui sono mantenute, una volta accettate. Come una metafora estende il linguaggio ampliandone la sfera semantica, permettendogli di esprimere significati che non può esprimere almeno in senso letterale, così lo scontro frontale dei significati letterari nell’ideologia – l’ironia, l’iperbole, l’antitesi esagerata – fornisce nuove cornici simboliche in cui inserire «le cose poco familiari» che, come un viaggio in un paese straniero, sono prodotte da una trasformazione nella vita politica. Tutte le altre possibili ideologie – proiezioni di paure non riconosciute, travestimenti per nuovi motivi, espressioni emotive di solidarietà di gruppo – sono sicuramente mappe di una realtà sociale problematica e matrici per la creazione di una coscienza collettiva. Che, in ogni caso specifico, la mappa sia accurata e la coscienza credibile, è una questione a sé, a cui è difficile dare la stessa risposta per il nazismo ed il sionismo, per i nazionalismi di McCarthy e di Churchill, per i difensori della segregazione razziale ed i suoi oppositori.
VI 306
Benché i fermenti ideologici siano naturalmente molte? diffusi nella società moderna, la loro sede più importante si trova al momento nei nuovi (o rinnovati) stati dell’Asia, dell’Africa e in alcune parti dell’America Latina; proprio in questi stati infatti, comunisti o non, si stanno compiendo i primi passi per allontanarsi da una politica tradizionale fatta di devozione e di proverbi. Il raggiungimento dell’indipendenza, il rovesciamento delle classi dominanti da tempo stabilite, la divulgazione del concetto di legittimità, la razionalizzazione della pubblica amministrazione, la nascita di élite, moderne, il diffondersi dell’alfabetizzazione e delle comunicazioni di massa, e l’ingresso, deliberato o no, di governi senza esperienza in mezzo a un precario disordine internazionale che neanche i suoi protagonisti più vecchi capiscono, tutto contribuisce a creare un senso diffuso di disorientamento, davanti al quale le immagini tradizionali, dell’autorità, della responsabilità e del fine civico sembrano radicalmente inadeguate. La ricerca di un nuovo inquadramento simbolico nei cui termini formulare, pensare e reagire ai problemi pubblici – sotto forma di nazionalismo, marxismo, liberalismo, populismo, razzismo, cesarismo, clericalismo o qualche varietà di tradizionalismo ricostruito (oppure più spesso una mescolanza confusa di parecchi di questi) – è perciò estremamente intensa. Intensa, ma indeterminata. Nella maggior parte dei nuovi stati stanno ancora cercando a tastoni concetti politici fruibili, non li stanno cogliendo; e in quasi tutti i casi, almeno in quelli di paesi non comunisti, il risultato è incerto non solo nel senso che il risultato di ogni processo storico è di per sé incerto, ma nel senso che anche un’ampia e 307
generale valutazione della direzione predominante è estremamente difficile da dare. Intellettualmente tutto è in movimento, e le parole di quello stravagante poeta dedito alla politica, Lamartine, scritte nella Francia dell’Ottocento, si applicano ai nuovi stati con appropriatezza anche maggiore di quanto non facessero con l’agonizzante monarchia di luglio: Questi tempi sono tempi di caos: le opinioni sono confuse, i partiti sono un groviglio; la lingua delle nuove idee non è stata creata; nulla è più difficile che dare una buona definizione di se stessi nella religione, nella filosofia o nella politica. Si sente, si sa, si vive, ed al bisogno si muore per la propria causa, ma non si riesce a darle un nome. Classificare le cose e gli uomini è il problema di questo tempo… il mondo ha rimescolato il suo catalogo44.
Quest’affermazione non era più vera in nessun altro posto che nell’Indonesia del 1964, dove l’intero processo politico si era impantanato in una palude di simboli ideologici, ognuno dei quali tentava, senza riuscirvi, di riordinare il catalogo della repubblica, di dare un nome alla sua causa, e di dare senso e scopo alla sua politica. È il paese delle false partenze e delle frenetiche revisioni, della disperata ricerca di un ordine politico la cui immagine, come un miraggio, retrocede quanto più si crede di esserle vicino. Lo slogan salvatore in mezzo a tutta questa frustrazione è «La rivoluzione è incompleta!». E lo è davvero. Ma solo perché nessuno, nemmeno quelli che gridano a voce più alta quello che fanno, sa esattamente che cosa fare per completarla45. I concetti di governo più sviluppati nell’Indonesia tradizionale erano quelli su cui vennero costruiti i classici stati induisti dal quarto al quindicesimo secolo, concetti che persistettero in forma alquanto riveduta ed attenuata anche dopo che questi stati furono prima islamizzati e poi ampiamente sostituiti o sovrastati dal regime coloniale 308
olandese. E il più importante di questi concetti era quello che si potrebbe chiamare la teoria del centro esemplare, l’idea che la città capitale (o più esattamente il palazzo del re) era al tempo stesso un microcosmo dell’ordine soprannaturale – «un’immagine… dell’universo su una scala più piccola» – e l’incarnazione materiale dell’ordine politico46. La capitale non era semplicemente il nucleo, il motore o il perno dello stato: era lo stato. Nel periodo indù, il castello del re comprendeva praticamente l’intera città. Una «città celeste» divisa in quadrati, costruita secondo i concetti della metafisica indiana, era più di un luogo di potere: era un paradigma sinottico della forma ontologica dell’esistenza. Al suo centro era il re divino (incarnazione di una divinità indiana); il suo trono simboleggiava il monte Meru, sede degli dei; gli edifici, le strade, le mura della città ed anche ritualmente le sue mogli e il suo seguito personale erano dispiegati a quadrangolo intorno a lui secondo le direzioni dei quattro venti sacri. Non solo lo stesso re, ma il suo rituale, le sue insegne regali, la sua corte ed il suo castello erano pervasi di significato carismatico. Il castello e la vita del castello erano il fulcro del reame e chi (spesso dopo aver meditato in una landa desolata per raggiungere un appropriato status spirituale) conquistava il castello, conquistava tutto l’impero, afferrava il carisma della carica regale e spodestava il re non più sacro47. Le prime entità politiche non erano tanto unità territoriali solidali quanto congerie sparse di villaggi orientati su un centro urbano comune, e ognuno di questi centri gareggiava cogli altri per il predominio. Quale grado di egemonia regionale o a volte interregionale prevalesse non dipendeva 309
da una sistematica organizzazione amministrativa di un esteso territorio sotto un unico re, ma dalle capacità variabili dei re di mobilitare ed applicare efficaci forze d’urto con cui saccheggiare le capitali rivali, capacità che si ritenevano basate su fondamenta essenzialmente religiose – vale a dire mistiche. Dato che il modello era territoriale, esso consisteva in una serie di cerchi concentrici di potere religioso-militare che si estendevano intorno alle varie capitali delle città-stato, come le onde radio si diffondono da un trasmettitore. A seconda della vicinanza di un villaggio alla città, aumentava l’impatto economico e culturale della corte su quel villaggio; e reciprocamente, quanto maggiore era lo sviluppo della corte – sacerdoti, artigiani, nobili e re – tanto più grandi erano la sua capacità di funzionare come epitome dell’ordine cosmico, la sua forza militare e l’ampiezza dei cerchi del suo potere che si estendeva verso l’esterno. L’eccellenza spirituale e il predominio politico erano fusi insieme. Il potere magico e l’influenza amministrativa fluivano in un solo fiume verso l’esterno e verso il basso, dal re attraverso i ranghi discendenti dei suoi sudditi e delle corti minori che erano subordinate a lui, defluendo infine nella massa contadina, spiritualmente e politicamente marginale. L’organizzazione politica di queste corti era concepita come un fac-simile dell’ordine soprannaturale rispecchiato microscopicamente nella vita della capitale a sua volta ulteriormente e più debolmente riflesso nella campagna, producendo una gerarchia di copie sempre meno fedeli di un regno eterno, trascendente. In questo sistema, l’organizzazione amministrativa, cerimoniale e militare della corte ordina il mondo attorno ad essa iconicamente, fornendogli un esemplare tangibile48. 310
Quando arrivò l’Islam, la tradizione politica indù era alquanto indebolita, specialmente nei regni commerciali costieri che circondano il mare di Giava. Ciò nonostante la cultura di corte persisteva, benché fosse incrostata e intrecciata con simboli e idee islamici, e collocata in mezzo ad una massa urbana etnicamente più differenziata, che percepiva con meno timore reverenziale l’ordinamento classico. Il costante aumento – specialmente a Giava – del controllo amministrativo olandese dalla metà dell’Ottocento ai primi del Novecento limitò ancor di più il potere della tradizione. Ma, dato che i livelli inferiori della burocrazia continuavano ad essere occupati quasi per intero da giavanesi delle antiche classi superiori, la tradizione rimase anche allora, la matrice dell’ordine politico sovralocale. La Reggenza o l’Ufficio distrettuale restava non solo l’asse della struttura politica, ma la sua incarnazione, una struttura politica rispetto a cui la maggior parte degli abitanti dei villaggi non erano tanto attori quanto pubblico. La nuova élite dell’Indonesia repubblicana si trovò con questa tradizione dopo la rivoluzione. Questo non vuol dire che la teoria del centro esemplare restasse immutata, fluttuando come un archetipo platonico nell’eternità della storia indonesiana, poiché (come la società nel suo insieme) essa si evolveva e si sviluppava, divenendo alla fine forse più consuetudinaria e meno religiosa. Né questo significa che le idee straniere, nate dal parlamentarismo europeo, dal marxismo, dal moralismo islamico e via dicendo non finissero per avere un ruolo essenziale nel pensiero politico indonesiano, perché il moderno nazionalismo indonesiano è lungi dall’essere semplicemente vino vecchio in una botte nuova. Solo che, il passaggio concettuale dall’immagine 311
classica di un’entità politica come centro di pompa e di potere, che rappresentava un punto di convergenza del timore reverenziale popolare e sapeva sferrare colpi militari contro i centri in concorrenza, all’immagine di una entità politica come comunità nazionale organizzata sistematicamente non è ancora stato completato, nonostante questi cambiamenti e questi influssi: anzi, è stato bloccato e in un certo grado rovesciato. Questo fallimento culturale è reso evidente da crescente clamore ideologico, apparentemente interminabile, che ha inghiottito la politica indonesiana dopo la rivoluzione. Il tentativo più appariscente di costruire – per mezzo di un’estensione figurata della tradizione classica, ossia una sua rielaborazione essenzialmente metaforica – un nuovo inquadramento simbolico in cui dare forma e significato alla emergente struttura repubblicana, è stato il famoso concetto della Pantjasila del presidente Sukarno, espresso per la prima volta in un discorso pubblico verso la fine dell’occupazione giapponese49. Collegandosi alla tradizione indiana dei gruppi fissi di precetti enumerati – i tre gioielli, i quattro stati d’animo sublimi, l’ottuplice sentiero, le venti condizioni per un governo ben riuscito e così via – questa concezione consisteva in cinque (pantja) principi (sila) che dovevano formare i «sacri» fondamenti ideologici di un’Indonesia indipendente. Come tutte le buone costituzioni, la Pantjasila era breve, ambigua e impeccabilmente pretenziosa, visto che i cinque punti erano il «nazionalismo», l’«umanitarismo», la «democrazia», il «benessere sociale» e il «monoteismo» (pluralistico). Alla fine questi concetti moderni, collocati con tanta grazia in una cornice medioevale, furono esplicitamente identificati 312
con un concetto contadino indigeno, gotong rojong (letteralmente «il carico collettivo di tutti i fardelli», in senso figurato «la devozione di tutti per gli interessi di tutti»), fondendo così insieme la «grande tradizione» dello stato esemplare, le dottrine del nazionalismo contemporanee e le «piccole tradizioni» dei villaggi in un’unica immagine luminosa50. I motivi che fecero fallire questa trovata ingegnosa sono numerosi e complessi, e solo alcuni – come la forza in certi settori della popolazione di concetti di ordine politico islamici, che era difficile conciliare con il laicismo di Sukarno – sono prettamente culturali. La Pantjasila, facendo leva sull’immagine microcosmo-macrocosmo e sul sincretismo tradizionale del pensiero indonesiano, doveva accogliere al proprio interno gli interessi politici dei musulmani e dei cristiani, della nobiltà e dei contadini, dei nazionalisti e dei comunisti, dei commercianti e degli agrari, dei giavanesi e dei gruppi di stranieri residenti in Indonesia – doveva insomma rielaborare il vecchio modello dell’ordine politico come fac-simile in una struttura costituzionale moderna in cui queste svariate tendenze potessero trovare un modus vivendi a ciascun livello dell’amministrazione e della lotta dei partiti, ognuna mettendo in rilievo uno dei vari aspetti della dottrina. Il tentativo non fu del tutto inefficace e intellettualmente vano, come è stato talvolta detto. Il culto della Pantjasila (perché tale divenne veramente, completo di riti e commentari) fornì per un certo periodo un flessibile contesto ideologico entro cui si plasmavano, in modo corretto anche se graduale, istituzioni parlamentari e sentimenti democratici a livello locale e nazionale. Ma la combinazione di una situazione economica 313
in via di deterioramento, un rapporto disperatamente patologico con la precedente metropoli, la rapida crescita di un partito totalitario sovversivo (per principio), la rinascita del fondamentalismo islamico, l’incapacità (o mancanza di volontà) dei leader con capacità intellettuali e tecniche sviluppate di conquistare l’appoggio delle masse, e gli insuccessi personali di quelli che erano capaci (e fin troppo desiderosi) di conquistarsi tale appoggio, portò ben presto lo scontro tra le fazioni ad un livello tale che tutta la struttura si sciolse. All’epoca della Convenzione costituzionale del 1957, la Pantjasila era passata da un linguaggio del consenso ad un vocabolario dell’insulto, poiché ogni fazione la usava più per esprimere la sua inconciliabile opposizione alle altre fazioni che il suo fondamentale accordo con esse a seguire le regole del gioco, e la Convenzione, il pluralismo ideologico e la democrazia costituzionale crollarono in un solo mucchio di rovine51. Le ha sostituite qualcosa che somiglia molto al vecchio modello del centro esemplare, anche se ora su una base consapevolmente dottrinaria invece che istintivamente religiosa, ed espressa più nel linguaggio dell’egualitarismo e del progresso sociale che in quello della gerarchia e dello splendore patrizio. Da una parte, sotto il presidente Sukarno ci sono stati la famosa teoria della «democrazia guidata» e il suo appello per la reintroduzione della costituzione rivoluzionaria (vale a dire autoritaria) del 1945, che è tanto una omogeneizzazione ideologica (in cui i filoni di pensiero discordi – specialmente quelli del modernismo musulmano e del socialismo democratico – sono stati semplicemente soppressi come illegittimi) quanto una vistosa accelerazione del traffico di simboli – come se, fallito 314
lo sforzo di creare una nuova forma di governo, si volesse fare un disperato tentativo di infondere nuova vita in quella vecchia. Dall’altra parte, la crescita del ruolo politico dell’esercito, non tanto come corpo esecutivo o amministrativo, quanto come strumento di freno e di repressione con potere di veto su tutta la serie delle istituzioni politiche rilevanti (dalla presidenza e l’amministrazione pubblica ai partiti ed alla stampa) ha fornito l’altra metà dell’immagine tradizionale – quella minacciosa. Come la Pantjasila prima, anche questo tentativo di rivisitazione (o rivificazione) è stato introdotto da Sukarno in un discorso importante («La riscoperta della nostra rivoluzione»), pronunciato nel Giorno dell’Indipendenza (17 agosto) del 1959, un discorso che egli più tardi dichiarò essere – insieme con le note espositive su di esso preparate da un gruppo di aiutanti personali conosciuti come il comitato supremo dei consiglieri – «manifesto politico della repubblica»: È nato quindi un catechismo sui fondamenti, i fini e i doveri della rivoluzione indonesiana; le forze sociali della rivoluzione indonesiana, la sua natura, il suo futuro e i suoi nemici; e il suo programma generale, che investe i campi politico, economico, sociale, mentale, culturale e della sicurezza. All’inizio degli anni Sessanta si affermò che il messaggio centrale del famoso discorso consisteva di cinque idee – la costituzione del 1945, il socialismo all’indonesiana, la democrazia guidata, l’economia guidata e la personalità indonesiana – e si misero assieme le prime 5 lettere di queste 5 espressioni per formare l’acronimo USDEK. Quando il «manifesto politico» divenne il «Manipol» il nuovo credo assunse la denominazione di «ManipolUSDEK»52.
Come era accaduto precedentemente alla Pantjasila, l’immagine Manipol-USDEK dell’ordine politico trovò una pronta risposta in una popolazione per la quale le opinioni 315
sono diventate davvero un pasticcio, i partiti un groviglio, i tempi un caos: Molte persone erano attratte dall’idea che l’Indonesia avesse bisogno soprattutto di uomini con la giusta forma mentale, il giusto spirito, la giusta devozione patriottica. Il «ritorno alla nostra personalità nazionale» era attraente per molti che volevano ritirarsi dalle sfide della modernità, ed anche per quelli che volevano credere nell’attuale leadership politica ma si rendevano conto dei suoi insuccessi nel modernizzare rapidamente paesi come l’India e la Malesia. E per i membri di alcune comunità indonesiane, specialmente per molti giavanesi [dalla mentalità indiana] vi era un significato autentico nei vari schemi complessi che il presidente presentava nell’elaborazione del Manipol-USDEK, spiegando il significato particolare e i compiti dell’attuale fase storica. [Ma] forse l’appello più importante del Manipol-USDEK, tuttavia, stava nel semplice fatto che prometteva di dare agli uomini un pegangan – qualcosa a cui tenersi attaccati stretti. Erano attirati non tanto dal contenuto di questo pegangan quanto dal fatto che il presidente ne aveva offerto uno in un momento in cui si sentiva acutamente la mancanza di uno scopo. Dato che i valori e i modelli conoscitivi erano in movimento e in conflitto, gli uomini ricercavano ansiosamente formulazioni dogmatiche e schematiche del bene politico53.
Mentre il presidente ed il suo entourage si interessano quasi esclusivamente della «creazione e ricreazione della mistica», l’esercito si occupa principalmente di combattere le numerose proteste, congiure, ammutinamenti e ribellioni che avvengono quando la mistica non riesce a raggiungere l’effetto sperato o quando sorgono pretese rivali alla leadership54. Benché sia coinvolto in alcuni aspetti della pubblica amministrazione, nella gestione delle imprese olandesi confiscate ed anche nel governo (non parlamentare), l’esercito non è stato in grado di svolgere, per mancanza di addestramento, unità interna o senso direttivo, i compiti amministrativi, programmatici ed organizzativi del governo in modo preciso o con efficacia. Il risultato è che questi compiti o non sono stati eseguiti o lo sono stati in modo molto inadeguato, e la politica centrale – 316
lo stato nazionale – si restringe sempre più nei limiti del suo dominio tradizionale – la città capitale, Giacarta – più un certo numero di città tributarie semi-indipendenti costrette ad un minimo di fedeltà dalla minaccia della forza esercitata dal centro. È alquanto dubbio che questo tentativo di far rivivere la politica della corte esemplare sopravviva a lungo: viene già messo a dura prova dalla sua incapacità di affrontare i problemi tecnici ed amministrativi che il governo di uno stato moderno comporta. Lungi dall’arrestare lo sprofondamento dell’Indonesia in quello che Sukarno ha chiamato Inabisso dell’annientamento», l’abbandono del parlamentarismo dichiaratamente convulso e malamente funzionante del periodo della Pantjasila per l’alleanza Manipol-USDEK fra un presidente carismatico e un esercito che opera come un cane da guardia l’ha probabilmente accelerato. Ma è impossibile dire chi sarà il successore di questa struttura ideologica quando, come sembra sicuro, anch’essa si dissolverà, o da dove giungerà una concezione dell’ordine politico più adeguata ai bisogni ed alle ambizioni attuali dell’Indonesia55. Non che i problemi dell’Indonesia siano puramente o primariamente ideologici o che svaniranno davanti ad un mutamento politico di sentimenti – come già pensano troppi Indonesiani. Il disordine è più generale, e il fallimento nel creare una struttura concettuale nei cui termini modellare una struttura politica moderna è in gran parte esso stesso un riflesso delle terribili tensioni sociali e psicologiche che il paese e la popolazione stanno subendo. Le cose non solo sembrano aggrovigliate – sono aggrovigliate, e per dipanarle ci vorrà più della teoria. Occorrerà abilità amministrativa, 317
conoscenza tecnica, coraggio e risolutezza personale, pazienza e tolleranza infinite, enormi sacrifici, una coscienza pubblica praticamente incorruttibile e moltissima fortuna (improbabile) nel senso più autentico della parola. La costruzione ideologica, anche se elegante, non può sostituire nessuno di questi elementi; e infatti in loro assenza essa degenera, come ha fatto in Indonesia, in una cortina di fumo per nascondere il fallimento, una diversione per arginare la disperazione, una maschera per nascondere la realtà invece di un ritratto per rivelarla. Con terribili problemi di popolazione; straordinarie differenze etniche, geografiche e regionali; un’economia agonizzante; una spaventosa mancanza di personale addestrato; una povertà popolare del tipo più aspro; un diffuso, implacabile scontento sociale, i problemi dell’Indonesia sembrano praticamente insolubili, anche senza il pandemonio ideologico. L’abisso in cui Sukarno pretende di aver guardato esiste veramente. Tuttavia, al tempo stesso, sembra impossibile che l’Indonesia (o qualunque nazione nuova, per quanto ne so) riesca a trovare la sua strada in mezzo a questa selva di problemi senza una guida ideologica56. La motivazione per ricercare (e ancor più importante, usare) l’abilità e la conoscenza tecnica, l’elasticità emotiva per alimentare la pazienza e la risolutezza necessarie, e la forza morale per sostenere i sacrifici e l’incorruttibilità devono arrivare da qualche parte, da qualche visione di uno scopo pubblico ancorata in una immagine evocatrice della realtà sociale. Che tutte queste qualità non siano forse presenti; che la tendenza attuale verso il tradizionalismo revivalistico e la fantasia sbrigliata forse continui; che la prossima fase ideologica sia forse ancor più lontana dell’attuale dagli ideali 318
per cui fu chiaramente combattuta la rivoluzione; che l’Indonesia continui forse ad essere, come Bagehot ha detto della Francia, il laboratorio di esperimenti politici da cui gli altri traggono molto profitto ma lei stessa ben poco; che il risultato finale possa essere malvagiamente totalitario e selvaggiamente settario è tutto molto vero. Ma in qualunque modo si muovano gli eventi, le forze determinanti non saranno interamente sociologiche o psicologiche, ma in parte culturali – vale a dire concettuali. Creare una struttura teorica adeguata all’analisi di questi processi tridimensionali è il compito dello studio scientifico dell’ideologia: un compito appena iniziato.
VII Le opere di critica e di fantasia sono risposte a domande poste dalle situazioni in cui sono sorte. Non sono semplicemente risposte, sono risposte strategiche, risposte stilizzate. Vi è infatti differenza di stile o di strategia se si dice «sì» in tonalità che sottintendono «grazie a Dio!» o in tonalità che sottintendono «ahimè!». Proporrei pertanto una distinzione operativa iniziale tra «strategie» e «situazioni», per cui noi pensiamo… ad ogni opera di stampo critico o immaginativo… come all’adozione di varie strategie per comprendere la situazione. Queste strategie misurano le situazioni, danno un nome alla loro struttura e ai loro principali componenti, e danno loro un nome che implica un certo atteggiamento nei loro confronti. Questo punto di vista non ci vincola assolutamente a un soggettivismo storico o personale. Le situazioni sono reali: le strategie per affrontarle hanno un contenuto pubblico; per quanto le situazioni travalicano da individuo a individuo, o da un periodo storico ad un altro, le strategie possiedono rilevanza universale (Kenneth Burke, The Philosophy of the Literary Form).
Dato che scienza e ideologia sono «opere» della critica e della fantasia (cioè strutture simboliche), sembra più probabile che si possa raggiungere una formulazione 319
obiettiva delle differenze importanti tra di esse e della natura del loro rapporto reciproco partendo da questo concetto di strategie stilistiche, invece che affannarsi nella ricerca dello status epistemologico o assiologico delle due forme di pensiero. Come gli studi scientifici della religione non dovrebbero cominciare con domande inutili sulla legittimità delle pretese che caratterizzano in modo sostanziale il loro stesso oggetto, così anche gli studi scientifici dell’ideologia dovrebbero evitare queste domande iniziali. Il modo migliore per affrontare il «paradosso di Mannheim» – come ogni vero paradosso – è di aggirarlo, riformulando la propria strategia teorica, così da evitare di ripercorrere la via ormai consumata dell’argomentazione che ha condotto ad esso la prima volta. Le differenze tra scienza e ideologia come sistemi culturali si devono ricercare nei tipi di strategia simbolica utilizzata per comprendere le situazioni che esse rispettivamente rappresentano. La scienza definisce la struttura delle situazioni in modo tale che l’atteggiamento implicito verso di esse è il disinteresse. Il suo stile è contenuto, scarno, decisamente analitico; respingendo gli espedienti semantici che esprimono molto efficacemente il sentimento morale, cerca di massimizzare la chiarezza intellettuale. L’ideologia invece definisce la struttura delle situazioni in modo tale che l’atteggiamento implicito nei loro confronti è di impegno. Il suo stile è ricercato, vivace, deliberatamente suggestivo: oggettivando il sentimento morale con gli stessi espedienti che la scienza rifugge, cerca di indurre all’azione. Entrambe si preoccupano di definire una situazione problematica e sono reazioni ad una mancanza avvertita di un’informazione ritenuta necessaria. 320
Ma l’informazione necessaria è completamente diversa, anche nei casi in cui la situazione è la stessa. Un ideologo non è un povero scienziato sociale, così come uno scienziato sociale non è un povero ideologo. I due operano – o almeno dovrebbero farlo – in campi di lavoro completamente diversi, su linee tanto diverse che c’è poco da guadagnare e molto da confondere misurando le attività dell’una in funzione degli scopi dell’altra57. Mentre la scienza e la dimensione diagnostica, critica della cultura, l’ideologia è quella giustificatoria, apologetica – si riferisce a «quella parte della cultura che si interessa attivamente di stabilire e difendere modelli di credenza e valore»58. È quindi chiaro che esiste una tendenza naturale delle due ad entrare in conflitto, specialmente quando sono dirette all’interpretazione della stessa gamma di situazioni; ma che lo scontro sia inevitabile e che le scoperte della scienza (sociale) mettano necessariamente in pericolo la validità delle credenze e dei valori che l’ideologia ha scelto di difendere e propagare sembrano affermazioni molto dubbie. Un atteggiamento al tempo stesso critico ed apologetico verso la stessa situazione non e una contraddizione in termini (anche se vi può essere una contraddizione empirica), bensì un segno di un certo livello di raffinamento intellettuale. Ricordiamo l’aneddoto – probabilmente una ingegnosa invenzione – su Churchill il quale dopo aver terminato il suo famoso appello perché l’isolata Inghilterra stringesse i ranghi («Noi combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei luoghi di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline…»), si girò verso un aiutante e sussurrò «e li
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colpiremo sulla testa con le bottigliette della soda, perché non abbiamo armi». La qualità della retorica sociale nell’ideologia non è quindi prova che la visione della realtà sociopsicologica su cui si basa è falsa e che trae il suo potere di persuasione da uno sfasamento tra ciò che si crede e ciò che si può stabilire come scientificamente corretto ora o in futuro. È anche troppo evidente che essa può perdere davvero il contatto con la realtà in un’orgia di fantasia autistica – soprattutto in situazioni dove manca la possibilità di una critica da parte di una scienza libera o di ideologie concorrenti ben radicate nella struttura sociale generale. Ma, per quanto le patologie possano essere interessanti per chiarire il funzionamento normale (e benché empiricamente possano essere comuni), esse sono fuorvianti come prototipi. Sebbene per fortuna ciò non abbia mai dovuto essere dimostrato, sembra assai probabile che gli inglesi avrebbero combattuto davvero sulle spiagge, sui luoghi di sbarco, nelle strade e sulle colline – anche con le bottigliette della soda, se si fosse dovuti arrivare a tanto – perché Churchill formulò con precisione lo stato d’animo dei suoi compatrioti e, formulandolo, lo mobilitò facendone un possedimento pubblico, un fatto sociale, invece di una serie di emozioni private, sconnesse e inconsapevoli. Anche le espressioni ideologiche moralmente ripugnanti possono cogliere acutamente lo stato d’animo di un popolo o di un gruppo. Hitler non distorceva la coscienza tedesca quando esprimeva il demoniaco odio dei suoi compatrioti contro se stessi nella figura tropologica dell’ebreo magicamente contaminante: trasformando quella che era soprattutto una nevrosi personale in una potente forza sociale, non faceva che oggettivare quella coscienza. 322
Ma per quanto la scienza e l’ideologia siano imprese diverse, non sono prive di rapporti. Le ideologie avanzano effettivamente delle pretese empiriche sulla condizione e la direzione della società, che è compito della scienza (e quando la conoscenza scientifica manca, del buon senso) valutare. La funzione sociale della scienza di fronte alle ideologie è prima di tutto quella di capirle – che cosa sono, come funzionano, che cosa le fa sorgere – e secondariamente di criticarle, di obbligarle a scendere a patti con la realtà (ma non necessariamente di arrendersi ad essa). L’esistenza di una tradizione vitale di analisi scientifica dei problemi sociali è una delle garanzie più efficaci contro l’estremismo ideologico, dato che fornisce una fonte incomparabilmente affidabile di conoscenza positiva perché l’immaginazione politica operi con e per onore. Ma non è l’unica possibilità di controllo in questo senso. L’esistenza, come detto, di ideologie competitive introdotte nella società da altri gruppi potenti è almeno altrettanto importante; come lo è un sistema politico liberale in cui i sogni, di potere totale sono evidenti fantasie; come lo sono condizioni sociali stabili in cui le aspettative convenzionali non sono continuamente frustrate e le idee convenzionali non sono del tutto fuori luogo. Dedita con tranquilla intransigenza a una immagine di se stessa, forse è questa, però, la tradizione più indomabile.
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8. Dopo la rivoluzione: il destino del nazionalismo nei nuovi Stati Tra il 1945 e il 1968 sessantasei «paesi» – le condizioni effettive richiedono le virgolette – hanno raggiunto l’indipendenza politica dal dominio coloniale. Mettendo da parte l’intervento americano in Vietnam, che è un caso ambiguo, l’ultima grande lotta per la liberazione nazionale fu quella che trionfò in Algeria nell’estate del 1962. Benché altri scontri debbano probabilmente ancora verificarsi – nei territori portoghesi in Africa, ad esempio1 – la grande rivoluzione contro il dominio occidentale dei popoli del Terzo Mondo è sostanzialmente finita. Politicamente, moralmente e sociologicamente i risultati non sono omogenei, ma, dal Congo alla Guiana, i popoli assoggettati all’imperialismo sono, in ogni caso formalmente, liberi2. Considerando tutto quello che l’indipendenza pareva promettere – governo del popolo; rapida crescita economica, eguaglianza sociale, nascita culturale, grandezza nazionale e, soprattutto, fine dell’egemonia occidentale – non è sorprendente che il suo effettivo avvento sia stato deludente. Non che non sia accaduto niente, che non si sia entrati in una nuova era: il fatto è che, dopo esservi entrati, è necessario viverci invece di immaginarla soltanto, e questa è inevitabilmente un’esperienza deludente. I segni di questa atmosfera incupita sono dappertutto: nella nostalgia per le personalità rilevanti e gli eventi 324
drammatici ben architettati della lotta rivoluzionaria; nella disillusione per la politica dei partiti, il parlamentarismo, la burocrazia e la nuova classe di soldati, impiegati e poteri locali; nell’incertezza della direzione, la stanchezza ideologica e l’aumento costante della violenza fine a se stessa; e, non ultima, nella crescente consapevolezza che le cose sono più complicate di quanto non sembrino, che i problemi sociali, economici e politici, che un tempo erano considerati semplici riflessi del dominio coloniale, destinati a svanire con esso, hanno radici meno superficiali. Filosoficamente, le linee di distinzione tra realismo e cinismo, tra prudenza ed apatia, tra maturità e disperazione possono essere molto distanti, ma sociologicamente sono sempre molto ravvicinate. E nella maggior parte dei nuovi Stati proprio ora si sono indebolite, quasi fino al punto di svanire. Dietro allo stato d’animo, che naturalmente non è omogeneo, si trovano le realtà della vita sociale postcoloniale. I leader sacri delle guerre nazionali o sono scomparsi (Gandhi, Nehru, Sukarno, Nkrumah, Maometto V, U Nu, Jinnah, Ben Bellah, Keita, Azikiwe, Nasser, Bandaranaike), sostituiti da eredi meno sicuri o da generali meno teatrali, o sono stati ridotti a semplici capi di stato (Kenyatta, Nyerere, Burghiba, Lee, Seku Turé, Castro). Le speranze quasi millenarie di una liberazione politica, consegnate un tempo ad un pugno di uomini straordinari, non solo si sono diffuse tra un numero maggiore di uomini decisamente meno straordinari, ma si sono esse stesse attenuate. L’enorme concentrazione di energie sociali che la leadership carismatica può chiaramente produrre, quali che siano gli altri suoi difetti, si disperde quando scompare 325
questa leadership. La scomparsa della generazione di liberatori-profeti nell’ultimo decennio è stato un avvenimento, quasi altrettanto importante, se non proprio ugualmente drammatico, nella storia dei nuovi Stati, quanto la loro apparizione negli anni trenta, quaranta e cinquanta. Qua e là, senza dubbio, di tanto in tanto ne emergeranno di nuovi, ed alcuni potranno causare un impatto considerevole sul mondo. Ma, a meno che un’ondata di insurrezioni comuniste percorra il Terzo Mondo producendo uno stuolo di Che Guevara, cosa di cui non vi è alcun segno, non ci sarà presto un’altra galassia di vittoriosi eroi rivoluzionari come ci fu ai tempi olimpici della conferenza di Bandung. La maggior parte degli Stati sono pronti per un periodo di governanti scontati. Oltre alla diminuita grandiosità della leadership, vi è stato il consolidamento di una élite di colletti bianchi – quello che i sociologi americani amano chiamare «la nuova classe media» e i francesi, meno eufemisticamente, chiamano la «classe dirigente» – che circonda, e in molti luoghi inghiotte, questa leadership. Proprio come il dominio coloniale tendeva quasi ovunque a trasformare quelli che si trovavano ad essere all’epoca del suo avvento socialmente ascendenti (ed anche sottomessi alle sue richieste) in una classe privilegiata di funzionari e sovraintendenti, così l’indipendenza quasi dappertutto ha creato una classe simile, anche più vasta, con quelli che si trovavano ad essere dominanti (e reattivi al suo spirito) al momento del suo avvento. In alcuni casi, la continuità di classe tra la nuova élite e la vecchia è netta, in altri meno; determinarne la composizione è stata la posta della lotta politica interna più importante del periodo rivoluzionario ed immediatamente 326
post-rivoluzionario. Ma accomodante, parvenu o qualcosa di mezzo, questa élite è ora definitivamente al suo posto, e i canali della mobilità, che per un momento sembravano tanto aperti, adesso lo sembrano molto meno alla maggior parte della gente. Come la leadership politica è scivolata verso il «normale», o ad ogni modo questo sembra fare, così ha fatto anche il sistema di stratificazione. Così è avvenuto anche alla società nel suo insieme. La coscienza di un movimento massiccio, univoco, irresistibile, lo slancio verso l’azione di un intero popolo che l’attacco al colonialismo ha prodotto quasi ovunque, non è sparito del tutto, ma è sensibilmente diminuito. Si parla oggi molto meno, nei nuovi Stati e nella letteratura che studia questo argomento, della «mobilitazione sociale» di quanto non si facesse cinque, per non dire dieci anni fa (e quello che si dice sembra sempre più inutile). E questo avviene perché di fatto vi è molta meno mobilitazione sociale. Il cambiamento continua, e forse sta anche accelerando sotto l’illusione generale che non accada niente di importante, un’illusione suscitata in buona parte dalle grandi aspettative che accompagnarono all’inizio la liberazione3. Ma il movimento generale di «tutta la nazione, della nazione come insieme, è stato sostituito da un movimento complesso, diseguale, spinto in molte direzioni dalle sue varie componenti, il che porta ad un senso di stagnazione instabile più che di progresso». Tuttavia, nonostante il senso di leadership attenuata, di privilegi rinascenti e di movimento frenato, la forza della grande emozione politica su cui era costruito dappertutto il movimento per l’indipendenza resiste, ancorché leggermente offuscata. Il nazionalismo – amorfo, senza una 327
meta precisa, semindistinto, ma nonostante tutto altamente infiammabile – è ancora la passione collettiva più importante nella maggior parte dei nuovi Stati, e in alcuni è praticamente l’unica. Che, come la guerra di Troia, la rivoluzione mondiale possa anche non avvenire come era stata progettata, che la povertà, la disuguaglianza, lo sfruttamento, la superstizione e la politica delle grandi potenze continueranno ad esistere per un certo periodo, è un’idea con cui la maggior parte della gente può almeno cercare di convivere in qualche modo, anche se la trova umiliante. Ma, una volta sorto, il desiderio di diventare un popolo anziché una popolazione, un soggetto riconosciuto e rispettato nel mondo che conta ed a cui si presta attenzione, è chiaramente inestinguibile, se non viene soddisfatto. O almeno da nessuna parte si è ancora estinto, per ora. In effetti, le novità del periodo postrivoluzionario hanno in molti casi esacerbato questo desiderio. La percezione che lo squilibrio di potere tra i nuovi Stati e l’Occidente non solo non è stato corretto dopo la fine del colonialismo, ma sotto certi aspetti è aumentato, mentre allo stesso tempo il cuscinetto costituito dal vecchio dominio coloniale contro l’impatto diretto di questo squilibrio è stato rimosso, lasciando Stati inesperti a difendersi contro Stati più forti, più esperti, più strutturati, rende la sensibilità nazionalista all’«interferenza esterna» in quanto tale molto più intensa e generalizzata. Allo stesso modo, il fatto di emergere nel mondo come Stato nazionale ha condotto a una sensibilizzazione simile verso le azioni e le intenzioni degli Stati confinanti – anch’essi per la maggior parte appena sorti – che non era presente in questi Stati quando non erano liberi attori ma «appartenevano» ad una lontana potenza. E, 328
all’interno, la fine del dominio europeo ha scatenato quei nazionalismi entro i nazionalismi che praticamente tutti i nuovi Stati conoscono, ed ha prodotto, sotto forma di provincialismo o separatismo, una minaccia diretta e in alcuni casi (Nigeria, India, Malesia, Indonesia, Pakistan) immediata per la nuova identità nazionale, nel cui nome si era fatta la rivoluzione. Gli effetti di questo persistente sentimento nazionalistico in un quadro di delusione nazionale sono stati naturalmente svariati: un ritiro nell’isolazionismo assoluto, come in Birmania; un rigurgito di neotradizionalismo, come in Algeria; una svolta verso l’imperialismo regionale, come nell’Indonesia prima del colpo di stato; un’ossessione per il nemico vicino, come nel Pakistan; una caduta nella guerra civile etnica, come in Nigeria; oppure, nella maggioranza dei casi dove il conflitto è per il momento meno grave, una versione sottosviluppata del muddling-through, un arrabattarsi, cavarsela alla meno peggio, che contiene tutto questo, più una certa dose di brancolamenti nel buio. Si era pensato che il periodo postrivoluzionario sarebbe stato un periodo per l’organizzazione di un progresso sociale, economico e politico, rapido, su vasta scala, ampiamente coordinato, mentre si è rivelato piuttosto una continuazione in circostanze mutate, e in qualche modo anche meno propizie, del motivo principale dei periodi rivoluzionari e immediatamente prerivoluzionari: la definizione, creazione e istituzionalizzazione di una valida identità collettiva. In questo processo, si scopre che la liberazione formale dal dominio coloniale è stata non la fase culminante ma un passaggio: uno stadio critico e necessario, ma non più di questo, e forse nemmeno il più gravido di conseguenze. 329
Come in medicina la gravità dei sintomi superficiali e la gravità della patologia sottostante non sono sempre strettamente correlate, così in sociologia il dramma degli avvenimenti pubblici e l’ampiezza del mutamento strutturale non sono sempre in preciso accordo. Alcune delle rivoluzioni più importanti avvengono nell’oscurità.
1. Quattro fasi del nazionalismo Nella storia generale della decolonizzazione si dimostra abbastanza chiaramente che la velocità del cambiamento esteriore e della trasformazione interna sono tendenzialmente sfasate. Se, tenendo presenti tutte le limitazioni della periodizzazione, si divide quella storia in quattro fasi principali – quella in cui i movimenti nazionalisti si formarono e si cristallizzarono; quella in cui trionfarono; quella in cui si organizzarono in Stati; e quella (l’attuale) in cui, organizzati in Stati, si trovano costretti a definire e stabilizzare i loro rapporti sia verso gli altri Stati sia verso le società sregolate da cui sono nati – questa incongruenza balza chiaramente agli occhi. I cambiamenti più evidenti, quelli che attirarono e trattennero l’attenzione del mondo intero, avvennero nella seconda e nella terza fase, ma il grosso dei cambiamenti di maggior portata, quelli che alterano la forma e la direzione generale dell’evoluzione sociale, avvennero o stanno accadendo nella prima e quarta fase, meno spettacolari. La prima fase del nazionalismo, quella formativa, consistette essenzialmente nel confrontare la densa congerie 330
di categorie culturali, razziali, locali e linguistiche di autoidentificazione e di lealtà sociale che secoli di storia non scritta avevano prodotto, con un concetto semplice, astratto, deliberatamente costruito e quasi dolorosamente autoconsapevole di etnicità politica – una vera e propria «nazionalità» alla maniera moderna. Le immagini granulari a cui, nella società tradizionale, le opinioni degli individui sulla loro identità sono tanto strettamente legate, furono sfidate da concezioni più generali, più vaghe ma non meno pregnanti, di identità collettiva, basate su un senso diffuso di destino comune, che tendono a caratterizzare gli Stati industrializzati. Gli uomini che lanciarono questa sfida, gli intellettuali nazionalisti, stavano quindi innescando una rivoluzione che era tanto culturale, perfino epistemologica, quanto politica. Stavano tentando di trasformare la struttura simbolica attraverso la quale la gente sperimentava la realtà sociale, e quindi, nella misura in cui la vita è ciò che ne facciamo, quella realtà stessa. Non occorre dire – o non occorrerebbe farlo, se non si fosse così spesso affermato il contrario – che questo sforzo per rivedere i quadri dell’autopercezione era una battaglia difficile, che quasi dappertutto era poco più che appena iniziata e che tutto in essa restava confuso e incompleto. In verità, lo stesso successo dei movimenti per l’indipendenza nel suscitare l’entusiasmo delle masse e nel dirigerlo contro la dominazione straniera tendeva a mettere in ombra la fragilità e l’angustia dei fondamenti culturali su cui tali movimenti si basavano, perché portava all’idea che l’anticolonialismo e la ridefinizione collettiva sono la stessa cosa. Ma non lo sono, nonostante la densità (e la complessità) delle loro interconnessioni. Per la maggior 331
parte dei tamil, karen, brahmani, malesi, sikh, ibo, musulmani, cinesi, niloti, bengali o ascianti, fu molto più facile assimilare l’idea di non essere inglesi che non l’idea di essere indiani, birmani, malesi, ghanani, pakistani, nigeriani o sudanesi. Via via che l’attacco in massa (più massiccio e più violento in alcuni luoghi che in altri) contro il colonialismo si sviluppava, sembrò creare da solo la base di una nuova identità nazionale che l’indipendenza avrebbe semplicemente ratificato. La mobilitazione popolare per uno scopo politico comune, estremamente specifico – un avvenimento che sorprese i nazionalisti quasi quanto i colonialisti – fu preso per un segnale di più profonda solidarietà che, prodotto da questa, le sarebbe ancora sopravvissuto. Il nazionalismo finì per indicare, puramente e semplicemente, il desiderio – e la richiesta – di libertà. La trasformazione della concezione che un popolo ha di se stesso, della propria società, della propria cultura (il progetto che assorbì Gandhi, Jinnah, Fanon, Sukarno, Senghor e invero tutti i più accorti teorizzatori di un risveglio nazionale) fu identificata, in gran parte da alcuni di questi stessi uomini, con l’accesso di tali popoli all’autogoverno. «Cercate prima il potere politico»: i nazionalisti avrebbero creato lo Stato, e lo Stato avrebbe creato la nazione. Il compito di creare lo Stato si rivelò abbastanza impegnativo da permettere che questa illusione, anzi tutta l’atmosfera morale della rivoluzione, si prolungasse per qualche tempo dopo il trasferimento della sovranità. Il grado in cui questo si dimostrò possibile, necessario o perfino auspicale, variò ampiamente dall’Indonesia o dal 332
Ghana ad un estremo alla Malaysia o alla Tunisia all’altro, ma, con poche eccezioni, ormai tutti i nuovi Stati hanno organizzato governi che mantengono il dominio generale entro le proprie frontiere e, bene o male, funzionano. E quando il governo si assesta in una qualche forma istituzionale ragionevolmente riconoscibile – oligarchia di partiti, autocrazia presidenziale, dittatura militare, monarchia restaurata oppure, molto parzialmente e nel migliore dei casi, democrazia rappresentativa – diventa sempre meno facile evitare di affrontare il fatto che fare l’Italia non significa fare gli italiani. Una volta che la rivoluzione politica è compiuta, ed uno Stato è fondato, anche se non si è ben consolidato, la domanda: «chi siamo noi che abbiamo fatto tutto ciò?» riemerge dal facile populismo degli ultimi anni della decolonizzazione e i primi dell’indipendenza. Ora che il semplice sogno di uno Stato locale è stato sostituito da una realtà concreta, il compito dell’ideologizzazione nazionalista cambia radicalmente: non consiste più nello stimolare l’alienazione popolare da un ordine politico dominato dallo straniero, né nell’orchestrare una celebrazione di massa della sparizione di quell’ordine. Consiste nel definire, o tentare di definire, un soggetto collettivo a cui si possono collegare internamente le azioni dello Stato; nel creare, o nel tentare di creare, un «noi» esperienziale dalla cui attività sembrano fluire spontaneamente le attività di governo. E così, questo compito tende a ruotare intorno al problema del contenuto, del peso relativo e del rapporto reale di due astrazioni piuttosto imponenti: «il modo di vivere indigeno» e «lo spirito dell’epoca». 333
Accentuare la prima significa guardare i costumi locali, le tradizioni radicate e le unità di esperienza comune – la «tradizione», la «cultura», il «carattere nazionale» o perfino la «razza» – alla ricerca delle radici di una nuova identità. Accentuare la seconda significa guardare le linee generali della storia del nostro tempo, e in particolare quella che si ritiene essere la direzione e il significato generale di quella storia. Non vi è nessun nuovo Stato in cui non siano presenti entrambi questi due temi (che chiamerò, tanto per dar loro un nome, «essenzialismo» ed «epocalismo»); pochi in cui non siano fittamente intrecciati tra di loro, e solo una piccola minoranza, non completamente decolonizzata, in cui la tensione tra di essi non stia invadendo ogni aspetto della vita nazionale, dalla scelta della lingua alla politica estera. La scelta della lingua, in effetti, è un buon esempio, quasi paradigmatico. Non riesco a pensare a un nuovo Stato in cui questo problema non sia divenuto centrale in una qualche forma a livello di politica nazionale4. L’intensità del tumulto che questo problema ha così prodotto, come pure l’efficacia con cui è stato trattato, varia molto, ma, nonostante tutta la diversità delle sue espressioni, la «questione della lingua» rimanda proprio al dilemma essenzialismo-epocalismo. Per chi la parla, una lingua è al tempo stesso più o meno la sua e più o meno quella di un altro, più o meno cosmopolita e più o meno provinciale – un prestito o un retaggio, un passaporto o una cittadella. Il problema di stabilire se, quando e per quali scopi usarla, è quindi anche il problema di stabilire fino a che punto un popolo debba formarsi secondo le inclinazioni del suo genio o le richieste dei suoi tempi.
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La tendenza ad accostarsi alla «questione della lingua» dal punto di vista linguistico, impressionistico o scientifico, ha messo un po’ in ombra questo fatto. Le discussioni all’interno e all’esterno dei nuovi Stati sull’«appropriatezza» di una determinata lingua” rispetto” all’uso nazionale sono state fuorviate dall’idea che ciò dipenda dalla natura intrinseca della lingua – dall’adeguatezza delle sue risorse grammaticali, lessicali o «culturali» ad esprimere complesse idee filosofiche, scientifiche, politiche o morali. Ma in realtà essa dipende dall’importanza relativa di essere capace di imprimere ai propri pensieri, rozzi o sottili che siano, il tipo di forza che conferisce il parlare la propria madrelingua in confronto alla capacità di poter partecipare a movimenti di pensiero a cui solo lingue «straniere» o in qualche caso «letterarie» possono dare accesso. Non importa quindi se, in concreto, il problema è lo status dell’arabo classico nei confronti di quello colloquiale in uso nei paesi del Medio Oriente; la collocatone di una lingua occidentale «elitaria» nel contesto dei linguaggi «tribali» nell’Africa subsahariana; la complessa stratificazione delle lingue, locali, regionali, nazionali e internazionali in India o nelle Filippine; o la sostituzione di una lingua europea di portata mondiale limitata con altre di maggiore importanza in Indonesia: il problema di base è lo stesso. Non se questa o quella lingua sia «sviluppata» o «capace di sviluppo»; ma se questa o quella lingua sia psicologicamente immediata e se sia una via d’accesso alla comunità più ampia della cultura moderna. I problemi della lingua sono così importanti nel Terzo Mondo non tanto perché lo swahili manca di una sintassi stabile o perché l’arabo non può costruire forme 335
combinatorie (in ogni caso si tratta di affermazioni dubbie)5, ma perché, per la stragrande maggioranza dei parlanti le lingue dei nuovi Stati, i due lati di questa duplice questione tendono a funzionare in modo opposto. Quello che, dal punto di vista del parlante comune, è il veicolo naturale del pensiero e del sentimento (e specialmente in casi come l’arabo, l’hindi, l’amarico, il khmer o il giavanese il deposito di una avanzata tradizione religiosa, letteraria ed artistica per di più) è, dal punto di vista della corrente principale della civiltà del ventesimo secolo, praticamente un patois. E quelli che per questa corrente sono i veicoli costituiti della sua espressione, per il parlante comune sono tutt’al più linguaggi poco familiari di popoli ancor meno familiari6. Formulata in questo modo, la «questione della lingua» non è altro che «la questione della nazionalità» scritta a lettere minuscole, benché in alcuni luoghi i conflitti che da essa nascono sono abbastanza intensi da far apparire rovesciato il rapporto. Generalizzata, la domanda «chi siamo» chiede quali forme culturali – quali sistemi di simboli significativi – impiegare per dare valore e significato alle attività dello Stato e, per estensione, alla vita civile dei suoi abitanti. Le ideologie nazionaliste costruite con forme simboliche tratte dalle tradizioni locali – che sono cioè essenzialiste – tendono ad essere, come i dialetti, psicologicamente immediate ma socialmente isolanti; costruite con forme interessate dal movimento generale della storia contemporanea – vale a dire epocali – tendono, come le lingue franche, ad essere socialmente sprovincializzanti, ma psicologicamente coatte. Tuttavia di rado un’ideologia simile è puramente essenzialista o puramente epocalista: sono tutte mescolate e 336
al massimo si può parlare di tendenza verso questa o quella direzione, e spesso neanche di questo. L’immagine che Nehru aveva dell’«India» era pesantemente epocalista, mentre quella di Gandhi era fortemente essenzialista, ma il fatto che il primo era discepolo del secondo e il secondo il patrono del primo (e che nessuno dei due riuscisse a convincere tutti gli indiani di essere in un caso degli inglesi dalla pelle scura e nell’altro dei reazionari medioevali) dimostra che il rapporto tra queste due vie alla scoperta di se stessi è sottile e perfino paradossale. In verità i nuovi Stati più ideologizzati – Indonesia, Ghana, Algeria, Egitto, Ceylon e simili – hanno teso ad essere intensamente epocalisti e intensamente essenzialisti allo stesso tempo, mentre paesi più puramente essenzialisti come la Somalia o la Cambogia, o epocalisti come la Tunisia e le Filippine, sono stati piuttosto delle eccezioni. La tensione tra questi due impulsi – muoversi con la marea del presente e mantenere una rotta sperimentata – conferisce al nazionalismo dei nuovi Stati la sua prerogativa di essere al tempo stesso pazzamente voglioso di modernità e moralmente offeso dalle sue manifestazioni. In questo vi è una certa irrazionalità, che è più di una confusione collettiva: è un cataclisma sociale nel processo del suo accadimento.
2. Essenzialismo ed epocalismo L’interazione di essenzialismo ed epocalismo non è quindi un tipo di dialettica culturale, un logicismo di idee astratte, ma un processo storico concreto come l’industrializzazione 337
e tangibile come la guerra. I problemi non vengono dibattuti solamente a livello della dottrina e dell’argomentazione – benché ce ne siano in abbondanza – ma, in modo molto più significativo, nelle trasformazioni materiali a cui sono sottoposte le strutture sociali di tutti i nuovi Stati. Il mutamento ideologico non è una corrente di pensiero indipendente che scorre a fianco del processo sociale e lo riflette (o lo determina), è una dimensione di quello stesso processo. L’impatto all’interno della società di ogni nuovo Stato dell’esigenza di coerenza e di continuità da una parte e del desiderio di dinamismo e di contemporaneità dall’altra è molto variabile ed ha mille sfumature. La spinta della tradizione indigena è sentita soprattutto dai custodi preposti alla sua conservazione e di questi tempi piuttosto assediati (monaci, mandarini, pandit, capi, ‘ulema e così via); mentre quella esercitata da ciò che si chiama, non sempre con esattezza, «Occidente» è avvertita soprattutto dalla gioventù urbana, dagli studenti in fermento del Cairo, di Giacarta o di Kinshasha che hanno circondato parole come shabb, pemuda e jeunesse di un’aura di idealismo, energia, impazienza e minaccia. Ma tra questi due estremi anche troppo visibili si stende il grosso della popolazione, in mezzo a cui i sentimenti essenzialisti ed epocalisti si mescolano in una immensa confusione di idee che soltanto la corrente del mutamento sociale può ordinare, visto che è stata questa corrente a ingenerarla. Come casi illustrativi – sia pure ridotti alle dimensioni di aneddoti storici – della nascita di questa confusione e degli sforzi che si fanno ora per eliminarla, l’Indonesia e il Marocco vanno bene quanto ogni altro paese. La ragione 338
per cui li ho scelti è che sono i casi che conosco direttamente e, trattando dell’interazione tra mutamento istituzionale e ricostruzione culturale, una visione sinottica può sostituire solo in parte una visione diretta. Le loro esperienze sono uniche, come tutte le esperienze sociali, ma non sono così diverse l’una dall’altra o da quelle dei nuovi Stati in generale da non poter rivelare, nella loro peculiarità stessa, qualche tratto generale dei problemi affrontati da società che lottano per portare ciò che amano chiamare la loro «personalità» in linea con quello che amano chiamare il loro «destino». In Indonesia l’elemento essenzialista è, e da molto tempo, estremamente disomogeneo. Entro certi limiti questo è vero praticamente per tutti i nuovi Stati, che tendono ad essere ammassi di tradizioni rivali raccolte accidentalmente in strutture politiche inventate, piuttosto che civiltà che si stanno evolvendo in modo organico. Ma in Indonesia, avamposto al tempo stesso dell’India, della Cina, dell’Oceania, dell’Europa e del Medio Oriente, la diversità culturale è stata per secoli particolarmente grande e particolarmente complessa; se essa è il limite di tutto ciò che è classico, qui si è presentata come uno spudorato eclettismo. Fin verso il terzo decennio di questo secolo, gli svariati elementi tradizionali – indiani, cinesi, islamici, cristiani, polinesiani – restarono sospesi in una specie di mezza soluzione in cui stili di vita e concezioni del mondo contrastanti, perfino opposti, riuscivano a coesistere, se non proprio senza tensioni, e neppure senza violenza, almeno in una specie di combinazione di solito efficace, del tipo «a ciascuno il suo». Questo modus vivendi cominciò a mostrare 339
segni di tensione sin dalla metà dell’Ottocento, ma la sua dissoluzione si mise decisamente in moto solo con lo sviluppo, dal 1912 in avanti, del nazionalismo; il suo crollo, che non è ancora totale, cominciò solo nel periodo rivoluzionario e in quello postrivoluzionario. Fu allora infatti che quelli che erano stati tradizionalismi paralleli, incapsulati in località e classi, divennero definizioni rivali dell’essenza della Nuova Indonesia. Quello che a volte era, per impiegare un termine che ho usato altrove, una specie di «equilibrio culturale del potere» divenne una guerra ideologica di un genere particolarmente implacabile. Così, con apparente paradosso (benché in effetti sia stato un avvenimento quasi universale nei nuovi Stati) il movimento verso l’unità nazionale intensificò le tensioni di gruppo all’interno della società, sradicando dai loro contesti particolari forme culturali stabilite, espandendole in forme di sudditanze generali e politicizzandole. Sviluppandosi, il movimento nazionalista si divise in correnti. Nella rivoluzione queste correnti divennero partiti, ognuno dei quali promuoveva un aspetto diverso dell’eclettica tradizione come unica vera base dell’identità indonesiana. I marxisti guardavano soprattutto al complesso popolare della vita contadina per trovare l’essenza del retaggio nazionale; i tecnici, gli impiegati e gli amministratori della «classe dirigente» guardavano all’estetismo indiano dell’aristocrazia giavanese; e i mercanti e i proprietari terrieri più concreti guardavano all’Islam. Populismo da villaggio, elitarismo culturale, puritanesimo religioso: alcune differenze di opinioni ideologiche si possono forse appianare, ma non queste.
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Invece di essere appianate furono accentuate, poiché ciascuna corrente cercava di innestare un richiamo modernista sulla sua base tradizionalista. Per l’elemento populista, questo era il comunismo; e il partito comunista indonesiano, dichiarando di scorgere una tradizione radicale indigena nel collettivismo, nell’egualitarismo sociale e nell’anticlericalismo della vita rurale, divenne il portavoce principale sia dell’essenzialismo contadino (specialmente dell’essenzialismo contadino giavanese), sia dell’epocalismo rivoluzionario del genere «sollevazione delle masse». Per i salariati, il richiamo modernista fu la società industriale come si trova (o si immagina di trovare) in Europa e negli Stati Uniti, e propose un matrimonio di convenienza tra là spiritualità orientale e la tendenza occidentale, tra la «saggezza» e la «tecnica», che avrebbe in qualche modo preservato i valori prediletti, pur trasformando la base materiale della società da cui tali valori erano sorti. E per i credenti si trattava naturalmente della riforma religiosa, una celebrazione dello sforzo di rinnovare la civiltà islamica in modo tale da riguadagnare la sua perduta, legittima leadership del progresso morale, materiale e intellettuale dell’umanità. Ma di fatto nessuna di queste cose – la rivoluzione contadina, l’incontro tra Oriente ed Occidente o il rinascimento culturale dell’Islam – si verificò. Ciò che avvenne fu il massacro di massa del 1965, in cui persero la vita da 250.000 a 750.000 persone. Il bagno di sangue in cui annegò con penosa lentezza il regime di Sukarno fu il risultato di un vasto insieme di cause, e sarebbe assurdo ridurlo ad un’esplosione ideologica. Tuttavia, qualunque fosse il ruolo dei fattori economici, politici, psicologici o – per quel che vale – accidentali nel provocare questo 341
massacro (e nel prolungarlo, cosa ancor più difficile da spiegare), esso segnò la fine di una fase specifica del progresso del nazionalismo indonesiano. Non soltanto gli slogan dell’unità («un popolo, una lingua, una nazione»; «da molti, uno»; «armonia collettiva» e così via), a cui fin dall’inizio non era stato facile dar credito, divennero ora del tutto impraticabili, ma la teoria che l’eclettismo congenito della cultura indonesiana avrebbe facilmente ceduto il passo a un modernismo generalizzato arroccato su uno o l’altro dei suoi componenti venne definitivamente screditata. Multiforme nel passato, pareva dovesse esserlo anche nel presente. In Marocco l’ostacolo maggiore alla definizione di una identità nazionale integrale non è stata l’eterogeneità culturale, che in termini relativi non è stata così grande, ma il particolarismo sociale, che in termini comparativi è stato estremo. Il Marocco tradizionale era formato da un campo enorme e male organizzato di costellazioni politiche in rapida formazione e in rapido dissolvimento ad ogni livello, dalla corte all’accampamento, su ogni base, da quella mistica alla professionale, e ogni scala, dalla enorme alla microscopica. La continuità dell’ordine sociale stava non tanto nella durata degli ordinamenti che lo componevano o dei gruppi che lo incarnavano, perché i più solidi erano fugaci, quanto nella costanza dei processi con cui si formava, si riformava e si ri-riformava, rielaborando quegli ordinamenti e ridefinendo quei gruppi. Nella, misura in cui questa società instabile aveva un centro, questo era la monarchia alauita. Ma, anche nei momenti migliori, la monarchia era poco più dell’orso più grosso nel giardino. Incastrata in una burocrazia 342
patrimoniale del tipo più classico, in un assortimento casuale di cortigiani, capi-tribù, scribi e giudici, lottava di continuo per mettere sotto controllo centri di potere rivali – di cui ne esistevano letteralmente centinaia, ciascuno poggiante su basi leggermente diverse dal successivo. Sebbene non abbia mai fallito interamente il suo scopo tra la sua fondazione nel diciassettesimo secolo e la sua sottomissione nel 1912, il suo successo non fu mai più che parziale. Senza essere del tutto né un’anarchia né un’unità politica, lo stato marocchino, nonostante il suo particolarismo endemico, ebbe sufficiente realtà per durare. L’effetto iniziale della dominazione coloniale, che solo formalmente durò circa quarant’anni, fu di svuotare la monarchia e di ridurla ad una specie di tableau vivant moresco; ma le intenzioni sono una cosa e i fatti un’altra, e il risultato finale del dominio europeo fu che il re si costituisse come perno del sistema politico marocchino in modo più deciso di quanto non rosse stato in origine. Benché i primi passi verso l’indipendenza fossero mossi da una coalizione imbarazzata e, come si rivelò poi, instabile di intellettuali educati alla maniera occidentale e di riformatori musulmani neotradizionalisti, furono l’arresto, l’esilio e la trionfante restaurazione di Muhammad V nel 1953-55 che rafforzarono alla fine il movimento indipendentista e, in tal modo, fecero del trono il centro del senso di nazionalità nascente, ancorché intermittente, del Marocco. Il paese riebbe il suo centro rivivificato, ideologizzato e meglio organizzato, ma riebbe anche, come presto si rivelò, il suo particolarismo, anch’esso rafforzato. Gran parte della storia politica postrivoluzionaria ha dimostrato questo fatto: che per quanto trasformata la lotta 343
fondamentale consiste ancora nel tentativo da parte del re e del suo seguito di sostenere la monarchia come istituzione valida in una società dove ogni cosa, dal paesaggio e la struttura di parentela alla religione ed al carattere nazionale, cospira a frazionare la vita politica in esibizioni disparate e sconnesse di potere provinciale. La prima di queste esibizioni si ebbe con una serie di cosiddette rivolte tribali – in parte aizzate da stranieri, in parte risultato di manovre politiche interne, in parte risposta di quelli che erano stati oppressi culturalmente – che afflissero lo Stato durante i primissimi anni di indipendenza. Alla fine furono domate con una combinazione di forza regale e di regali intrighi, ma erano solo i primi rudimentali segnali di quella che sarebbe stata resistenza di una classica monarchia che, riemergendo dal limbo della soggezione coloniale, doveva affermarsi al tempo stesso come espressione autentica dell’anima della nazione e veicolo appropriato della sua modernizzazione. Come ha fatto notare Samuel Huntington, il destino caratteristico delle monarchie in quasi tutti i nuovi Stati è quello di essere anche monarchie modernizzatrici, o per lo meno di sembrare tali7. Un re che si accontenta solo di regnare può restare come un’icona politica, come un pezzo di bric-à-brac culturale. Ma se vuole anche governare, come hanno sempre fortemente desiderato i re marocchini, deve diventare espressione di una qualche forza significativa nella vita sociale contemporanea. Per Muhammad V e, dal 1961, per suo figlio Hassan II, questa forza ha coinciso con l’emergere per la prima volta nella storia del paese di una classe educata alla maniera occidentale, abbastanza vasta da permeare l’intera società ed abbastanza definita da rappresentare un interesse ben preciso. Benché i loro stili 344
siano stati alquanto diversi (Hassan distaccato, Muhammad paternalistico) essi hanno lottato per organizzare e al tempo stesso porsi alla testa della nuova borghesia, i settori intermedi, la «classe dirigente», l’élite nazionale o comunque debba propriamente chiamarsi questa folla crescente di ufficiali, funzionari, manager, insegnanti, tecnici e pubblicisti. La soppressione delle rivolte tribali non significò quindi la fine del vecchio ordine, quanto la fine di una strategia inefficace per dominarlo. Dopo il 1958 emerse chiaramente il punto fondamentale di quello che era divenuto il metodo fisso del palazzo per assicurarsi una presa maggiore sulla semientità politica marocchina: la costruzione di una monarchia costituzionale, abbastanza costituzionale da attirare l’appoggio dell’élite istruita e abbastanza monarchica da mantenere la sostanza del potere regale. Non desiderando né il destino della monarchia inglese né di quella irachena, Muhammad V ed ancor più Hassan II hanno cercato di creare un’istituzione che, facendo appello all’Islam, all’arabismo, e a tre secoli di dominio alauita, potesse trarre la sua legittimazione dal passato e, invocando il razionalismo, il dirigisme e la tecnocrazia, la sua autorità dal presente. Non occorre ricordare qui le fasi della storia recente di questo sforzo di trasformare il Marocco, con una specie di incrocio razziale e politico, in ciò che si può chiamare una repubblica regalistica: la separazione delle ali laica, religiosa e tradizionalista dal movimento nazionalista e la conseguente formazione di un sistema pluripartitico nel 1958-59; l’insuccesso del partito di coalizione del re, il Fronte per la difesa delle istituzioni costituzionali, per 345
ottenere la maggioranza parlamentare nelle elezioni generali del 1963; la sospensione del Parlamento da parte del re nel 1965, dichiaratamente temporanea; l’assassinio sensazionalistico (in Francia) del maggior oppositore di tutto il progetto, Mehdi Ben Barka, nel 1968. Il punto è che la tensione tra l’essenzialismo e l’epocalismo si può osservare tanto nelle vicissitudini del sistema politico marocchino postrivoluzionario come in quelle del sistema indonesiano; e se non ha ancora raggiunto una conclusione così drammatica, e speriamo che non avvenga mai, questa tensione si è mossa nella stessa direzione di crescente ingovernabilità, via via che diviene sempre più netto il contrasto tra quello che Edward Shils ha chiamato «la volontà di essere moderni» e quello che Mazzini chiamava «il bisogno di esistere e di avere un nome»8. E benché mutino la forma che prende e la velocità a cui si muove, lo stesso processo sta avvenendo se non forse in tutti, nella stragrande maggioranza dei nuovi Stati quando, compiuta la rivoluzione, se ne ricerca il fine.
3. Concetti di cultura Fino a che Talcott Parsons, sviluppando ulteriormente il duplice rigetto (e la duplice accettazione) di Weber nei confronti dell’idealismo tedesco e del materialismo marxista, non fornì una valida alternativa, il concetto dominante di cultura nella scienza sociale americana identificava la cultura con il comportamento appreso. Questo concetto non si può dire «sbagliato» (i concetti isolati non sono né «sbagliati» né «giusti») e per molti scopi, soprattutto di routine, era e resta 346
utile. Ma è ora chiaro praticamente a tutti coloro i cui obiettivi vanno oltre un interesse meramente descrittivo che è molto difficile produrre analisi di grande respiro teorico a partire da una nozione così vaga ed empirica. È ormai finito il tempo in cui si spiegavano i fenomeni sociali ridescrivendoli come modelli di cultura e notando che tali modelli si tramandano di generazione in generazione. E Parsons – il quale insiste a dire con la sua voce seria e atona che interpretare il modo in cui un gruppo di esseri umani si comporta come espressione della loro cultura, pur definendo la loro cultura come la somma dei modi in cui essi hanno imparato a comportarsi, non dice molto – è altrettanto responsabile di questa scomparsa quanto altre singole figure della scienza sociale contemporanea. Invece di questa quasi-idea, Parsons – seguendo non solo Weber ma un filone di pensiero che risale almeno fino a Vico – ha elaborato un concetto di cultura come sistema di simboli con cui l’uomo conferisce significato alla propria esperienza. I sistemi di simboli, creati dall’uomo, condivisi, convenzionali, ordinati e certamente appresi, forniscono agli esseri umani una struttura di significato per orientarsi nei riguardi l’un dell’altro, del mondo intorno a loro e di se stessi. Prodotti e determinanti al tempo stesso di interazione sociale, questi sistemi stanno al processo della vita sociale come il programma del calcolatore sta alle sue operazioni, l’elica del Dna allo sviluppo dell’organismo, il progetto alla costruzione del ponte, la partitura all’esecuzione della sinfonia oppure, per scegliere una analogia più umile, la ricetta alla cottura di un dolce – così il sistema simbolico è la fonte di informazioni che, in una misura che possiamo
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anche determinare, dà forma, direzione, caratteristiche particolari e scopo ad un flusso di attività in divenire. Tuttavia queste analogie, le quali suggeriscono l’idea di uno stampo preesistente che imprime la forma su un processo esterno ad esso, trascurano con una certa faciloneria quello che è emerso come il problema teorico centrale per questo approccio più sofisticato, vale a dire il modo più appropriato di concettualizzare la dialettica tra la cristallizzazione di questi «modelli di significato» direttivi del comportamento e il corso concreto della vita sociale. Si può anche asserire che il programma di un calcolatore è un risultato di precedenti sviluppi nella tecnologia informatica, che una spirale particolare è un risultato della storia filogenetica, che un progetto lo è rispetto a esperimenti precedenti nella costruzione di ponti, e così una, partitura rispetto all’evoluzione di esecuzioni musicali e una ricetta rispetto a una lunga serie di dolci riusciti e no. Ma il semplice fatto che in questi casi gli elementi di informazione sono materialmente separabili da quelli processuali (si può, almeno in linea di principio, scrivere il programma, isolare l’elica, tracciare il progetto, pubblicare lo spartito, annotare la ricetta) li rende meno utili come schemi di riferimento per intendere l’interazione tra modelli culturali e processi sociali. A parte alcuni campi più intellettualizzati come la musica e la cottura dei dolci, il vero problema è infatti come si debba anche nel pensiero effettuare questa separazione. La validità del concetto parsonsiano di cultura dipende quasi interamente dal grado in cui un simile modello può essere costituito – dal grado cioè in cui il rapporto tra lo sviluppo dei sistemi simbolici e la dinamica del processo sociale può essere esposto 348
dettagliatamente, rendendo così la descrizione di tecnologie, rituali, miti e terminologie di parentela, come fonti di informazione create dall’uomo per l’ordinamento direttivo del comportamento umano, qualcosa di più di una metafora. Questo problema ha ossessionato gli scritti di Parsons sulla cultura, dai primi tempi in cui considerava la cultura come una serie di «oggetti esterni» (Whitehead), incorporati psicologicamente nelle personalità e quindi istituzionalizzati per estensione nei sistemi sociali, fino ai tempi recenti in cui essa gli appare più come meccanismo di controllo in senso cibernetico. Ma in nessun altro luogo Parsons ha colto nel segno più di quando ha discusso l’ideologia, perché, di tutti i domini della cultura, l’ideologia è quello in cui il rapporto tra le strutture simboliche e il comportamento collettivo è al tempo stesso il più vistoso e il meno chiaro. Per Parsons, un’ideologia non è altro che un tipo speciale di sistema simbolico: Un sistema di credenze condivise dai membri di una collettività… che è orientato alla integrazione valutativa della collettività, per mezzo dell’interpretazione della natura empirica della collettività e della situazione in cui è posta, i processi per cui si è sviluppata nel suo determinato stato, gli scopi verso cui i suoi membri sono orientati collettivamente, e il loro rapporto con il futuro corso degli eventi9.
Tuttavia, fermandosi qui, questa formulazione fonde assieme modi di autointerpretazione che non vanno necessariamente insieme e, sorvolando sulla tensione morale intrinseca all’attività ideologica, oscura le fonti interne del suo enorme dinamismo sociologico. In particolare, le due espressioni che ho sottolineato, r«interpretazione della natura empirica della collettività» e « [l’interpretazione] 349
della situazione in cui [quella collettività] è posta», non sono, come spero di aver ormai dimostrato, così coordinate come imprese pratiche nell’autodefinizione sociale quanto potrebbe suggerire il semplice «e» che le unisce. Per quanto riguarda il nazionalismo dei nuovi Stati, essi sono in profondo, e in alcuni casi irriconciliabile, disaccordo. Dedurre che cosa sia la nazione da una concezione della situazione storica mondiale in cui la si considera racchiusa – l’«epocalismo» – genera una specie di universo politicomorale; diagnosticare la situazione che la nazione deve affrontare a partire da una precedente concezione di ciò che essa è intrinsecamente – l’«essenzialismo» – ne genera una tutta diversa; e fondere le due (il metodo più comune) produce un miscuglio confuso di casi misti. Per questa ragione, fra le altre cose, il nazionalismo non è un semplice sottoprodotto, ma l’essenza stessa del mutamento sociale in tanti nuovi Stati: non il suo riflesso, la sua causa, la sua espressione, o il suo motore, ma la cosa stessa. Vedere il proprio paese come il prodotto dei «processi coi quali si è sviluppato fino al suo stato determinato» o, in alternativa, vederlo come il terreno del «futuro corso degli eventi», significa vederlo in modi piuttosto diversi. Ma significa ancora di più: e cioè guardare in posti diversi per vederlo; da una parte verso i genitori, le figure autorevoli tradizionali, il costume e la leggenda; dall’altra, gli intellettuali laici, la generazione futura, gli «avvenimenti correnti» e i mass media. Fondamentalmente, la tensione tra le correnti essenzialista ed epocalista nel nazionalismo dei nuovi Stati non è una tensione tra passioni intellettuali, ma tra istituzioni sociali cariche di significati culturali discordanti. Un aumento della tiratura dei giornali, un 350
fermento di attività religiosa, un declino della compattezza familiare, un’espansione delle università, una riaffermazione del privilegio ereditario, una proliferazione di associazioni per lo studio del folklore sono – come i loro opposti – elementi nel processo generale da cui dipendono il carattere e il contenuto di quel nazionalismo, in quanto «fonte di informazione» per il comportamento collettivo. I «sistemi di credenze» organizzati, propagati dagli ideologi di professione, rappresentano tentativi di sollevare aspetti di questo processo al livello di pensiero cosciente e quindi di controllarlo deliberatamente. Ma, come la coscienza non esaurisce la mentalità, così l’ideologia non esaurisce il nazionalismo: quello che fa, in modo selettivo ed incompleto, è di articolarlo. Le immagini, le metafore, e le virate retoriche con cui si costruiscono le ideologie nazionalistiche sono essenzialmente espedienti – espedienti culturali destinati a rendere esplicito uno o l’altro aspetto del vasto processo di ridefinizione collettiva, a plasmare l’orgoglio essenzialista o la speranza epocalista con specifiche forme simboliche nelle quali, più che vagamente percepiti, quei sentimenti possono essere descritti, sviluppati, celebrati ed usati. Formulare una dottrina ideologica è trasformare (o tentare di farlo – ci sono infatti più fallimenti che successi) quello che era uno stato d’animo generalizzato in una forza pratica. Il dissidio delle sette politiche in Indonesia e le vacillanti fondamenta della monarchia in Marocco (un evidente fallimento il primo, un ambiguo successo il secondo) rappresentano questi tentativi di trasformare le realtà intangibili del mutamento concettuale in forme culturali articolate. Ma essi rappresentano anche, in modo persino 351
più immediato, una lotta per il potere, il posto, il privilegio, la ricchezza, la fama e tutte le altre cosiddette remunerazioni «reali» della vita. In effetti è proprio perché in esse è rappresentato tutto ciò che la capacità delle ideologie di mettere a fuoco e di trasformare le nozioni degli uomini circa il «chi sono» e «come dovrebbero agire» è tanto grande. I «modelli di significato» che intervengono a dar forma al mutamento sociale sorgono dai processi di quel mutamento stesso e, cristallizzati in ideologie appropriate o incorporati in atteggiamenti popolari, servono a loro volta a guidarlo, in una misura inevitabilmente limitata. Il «progresso» dalla diversità culturale alla lotta ideologica e poi alla violenza di massa in Indonesia, o il tentativo di dominare il campo dei particolarismi sociali fondendo i valori di una repubblica con i fatti di un’autocrazia in Marocco, sono indubbiamente le più dure delle dure realtà politiche, economiche e sociali (di stratificazione sociale); vero sangue è stato versato, vere segrete sono state costruite – e, per essere corretti, vera sofferenza è stata alleviata. Ma queste realtà sono anche la registrazione degli sforzi compiuti da quei paesi per infondere intellegibilità in un’idea di «nazionalità» attraverso la quale queste stesse realtà, ed eventuali altre peggiori, possano essere affrontate, plasmate e capite. E questo è vero per tutti i nuovi Stati in genere. Via via che i sussulti eroici della rivoluzione politica contro il dominio coloniale si disperdono in un passato fonte di ispirazione per lasciare il posto a movimenti più squallidi, ma non meno convulsi, nello sconfortante presente, gli analoghi secolari dei famosi «problemi del senso» di Weber diventano sempre più disperati. Non è solo nella religione 352
che le cose non sono «semplicemente qui e ora» bensì «hanno un “senso” e sono qui per questo senso», ma anche in politica, e in particolare nella politica dei nuovi Stati. Le domande «A che serve tutto questo?», «Qual è l’utilità?» e «Perché andare avanti?» sorgono nel contesto della povertà di massa, della corruzione ufficiale o della violenza tribale quanto in quello della malattia devastante, della speranza delusa o della morte prematura. Non ottengono migliori risposte ma, per quante ne ottengono, le hanno da immagini di un retaggio degno di essere conservato o da una promessa degna di essere perseguita, e benché queste non debbano necessariamente essere immagini nazionalistiche, quasi tutte – comprese quelle marxiste – lo sono10. Come la religione, il nazionalismo ha una cattiva fama nel mondo moderno e, come la religione, più o meno se la merita. Sia l’uno che l’altro (e a volte insieme), il bigottismo religioso e l’odio nazionalista hanno probabilmente arrecato più disastri all’umanità che qualsiasi altra forza nella storia, e indubbiamente ne causeranno molti altri. Tuttavia, come anche la religione, il nazionalismo è stato una forza trainante in alcuni dei mutamenti più creativi nella storia, e indubbiamente lo sarà ancora in molti altri che verranno. Sembrerebbe quindi il caso di sprecare meno tempo a biasimarlo – è un po’ come maledire i venti – e più a cercare di capire perché prenda queste o quelle forme e come si potrebbe impedirgli di lacerare, proprio mentre le crea, le società in cui sorge, e di lacerare al di là di ciò l’intero tessuto della civiltà moderna. Infatti, nei nuovi Stati, l’era dell’ideologia, non solo non è finita, ma sta solo cominciando, mentre cominciano ad emergere alla luce pubblica di una dottrina esplicita i mutamenti appena 353
abbozzati del concetto di se provocati dai drammatici avvenimenti degli ultimi quaranta anni. Per prepararci a capirli e ad affrontarli, o forse solo a sopravvivere loro, la teoria della cultura di Parsons, convenientemente emendata, è uno dei più potenti strumenti intellettuali.
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9. Politica passata, politica presente: alcune note sugli usi dell’antropologia nella comprensione dei nuovi Stati
I Negli ultimi anni, il principale terreno di incontro dei vari rami del sapere che formano, in modo un po’ vago, le scienze sociali è stato lo studio del cosiddetto Terzo Mondo: le nazioni in formazione e i vacillanti Stati dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. In questo ambiente pieno di enigmi, l’antropologia, la sociologia, la scienza politica, la storia, l’economia, la psicologia ed anche la più antica delle nostre discipline, la divinazione, si sono trovate nella scomoda posizione di trattare separatamente lo stesso corpo di dati. L’esperienza non è sempre stata confortevole. Il terreno di incontro si è spesso trasformato in terreno di scontro, e le linee di demarcazione professionali si sono irrigidite: come gli inglesi all’estero sono spesso più britannici che a Londra, così gli economisti all’estero sono spesso più econometrici che al Mit. Inoltre, alcuni tra i più entusiasti hanno abbandonato quasi del tutto la loro professione per una specie di eclettismo alessandrino che ha prodotto degli ippogrifi davvero strani: Freud, Marx e Margaret Mead in un solo informe calderone.
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Ma l’effetto generale è stato certamente salutare. Il senso di autosufficienza intellettuale, quella particolare arroganza concettuale e metodologica che deriva dall’aver trattato troppo a lungo e con troppa insistenza un universo tascabile di proprietà esclusiva (il ciclo economico statunitense; la politica dei partiti in Francia; la mobilità delle classi in Svezia; il sistema di parentele in alcune tribù africane dell’interno) e che è forse il nemico più temibile di una scienza generale della società, è stato scosso seriamente e, penso, per sempre. La società chiusa è stata demolita completamente tanto per quelli che hanno studiato le nazioni nuove quanto per quelli che ci vivono. Comincia a farsi luce, anche nella mente dei più isolazionisti tra questi studiosi, che la loro non solo è una scienza particolare ma una scienza speciale che non può funzionare senza molti sussidi di altre scienze speciali che in precedenza avevano disprezzato: qui, ad ogni modo, ha compiuto qualche progresso Tidea che siamo tutti colleghi l’uno dell’altro. Uno degli esempi più impressionanti di questa convergenza da diverse direzioni sullo stesso insieme di materiali è la rinascita dell’interesse per la struttura ed il funzionamento degli stati tradizionali. In passato, per parecchi anni, si è sentito con crescente intensità, in un’ampia varietà di campi, il bisogno di elaborare una scienza politica generale delle società preindustriali, allo scopo di avere, come ha detto il sociologo Frank Sutton, «una base da cui capire le società di transizione che affollano la scena attuale»1. Dato che i campi sono stati svariati, lo sono state anche le risposte. Ma il saggio vecchio di cinquant’anni di Max Weber sul patrimonialismo e 356
raccolto in Economia e società non è più un «monumento isolato» come giustamente l’aveva definito Sutton, che scriveva solo dieci anni fa. Ora è solo uno di una serie di discorsi, alcuni più monumentali di altri e alcuni un po’ troppo monumentali in ogni caso, sulla natura del governo nelle società, chiamiamole così, contadine: società con troppe somiglianze con la nostra per poterle bollare come primitive e con troppo poche perché le si possa celebrare come moderne. Per semplificare, nell’ultimo decennio si sono sviluppate quattro principali linee interpretative sulla questione della natura della politica tradizionale. In primo luogo vi è stata la ripresa, in gran parte per opera di Karl Wittfogel, della vecchia idea di Marx sul modo di produzione asiatico, ora interpretato come agricoltura idraulica, e dell’idea di uno Stato radicalmente dispotico – «terrore totale, sottomissione totale, solitudine totale», secondo la retorica da volantino di Wittfogel – considerato causalmente come un riflesso del modo di produzione2. In secondo luogo c’è stato il lavoro di antropologi sociali, per lo più inglesi e praticamente tutti africanisti, sui cosiddetti Stati segmentari – Stati in cui i gruppi di parentela e le lealtà parentali hanno un ruolo fondamentale in netto contrasto con la visione monolitica degli Stati tradizionali che emerge dall’approccio di Wittfogel, questo lavoro concepisce tali Stati come delicati equilibri tra centri sparsi di potere semi-indipendente, che ora si costruiscono sotto la guida di miti tribali mediante rituali pubblici verso un punto culminante, ora precipitano nella gelosia di clan, nella rivalità locale e nell’intrigo fraterno3. 357
In terzo luogo, vi è stata un’attenzione rinnovata su quello che si potrebbe chiamare feudalesimo comparato, sulla questione cioè se il feudalesimo sia una categoria storica con un unico esempio europeo, esso stesso poco omogeneo, o una categoria scientifica con molti esempi almeno grosso modo simili. Qui la figura chiave è indubbiamente Marc Bloch, di cui non si apprezza ancora pienamente il profondo influsso sulle scienze sociali, neanche da parte di coloro su cui è stato esercitato4. Ma questo interesse è anche, naturalmente, la continuazione principale della tradizione weberiana, e nelle mani di un sociologo come Eisenstadt, col suo interesse per il ruolo della burocrazia negli imperi arcaici, o di uno storico dell’economia come Karl Polanyi, col suo interesse per la direzione politica dell’attività commerciale in questi imperi, esso si sviluppa al di là del feudalesimo vero e proprio per occuparsi della gamma di strutture autoritarie trovate in società dove la feudalizzazione è solo una di un determinato numero, limitato, di possibilità istituzionali5. In quarto luogo, c’è stata la riconsiderazione tra gli studiosi di preistoria – principalmente archeologi, ma anche alcuni orientalisti ed etnologi – delle dimensioni e del campo d’azione degli Stati antichi e delle fasi di sviluppo attraverso cui sembra che questi Stati siano passati. Maya, Teotihuacan, Indo, Angkor, Madjapahit, Inca, Mesopotamia, Egitto – tutti nomi magici – rappresentano oggigiorno non tanto le scintillanti barbarie dell’età del bronzo nate già adulte dalla «rivoluzione urbana» di Gordon Childe, quanto piuttosto cicli di sviluppo, estesi e graduali, alcuni tra loro simili, altri diversi. O, per meglio dire, essi indicano fasi, spesso momentanee, in questi cicli: 358
fasi che sono state forse meno grandiose di quanto non proclamino le loro leggende o di quanto a prima vista non sembrino indicare i loro resti architettonici, e collegate in modo più complesso alle condizioni materiali di base di quanto non immaginino solitamente i teorici marxisti, anche i teorici marxisti revisionisti6. Gli antropologi sono rimasti profondamente coinvolti in tutte queste quattro linee d’attacco alla natura del governo nelle società contadine. Due di esse – lo studio degli stati segmentari e dei cicli di sviluppo degli stati preistorici –sono state quasi esclusivamente antropologiche. Ma anche le teorie di Wittfogel hanno avuto un impatto enorme: le abbiamo viste applicate dagli antropologi al Tibet, alla valle del Messico, ai Pueblos del sud-ovest degli Stati Uniti e a certe parti dell’Africa. L’approccio comparativoistituzionale è stato seguito meno di frequente e questo è in parte dovuto al fatto che Weber tende a spaventare gli antropologi, anche se il suo raffinato stile tedesco si può vedere molto chiaramente in un certo numero di studi recenti sugli Stati più sviluppati dell’Africa nera (Buganda, Busoga, Fulani, Etiopia, Ashanti). Con questi coinvolgimenti, gli antropologi, come ho suggerito, si sono fatti trascinare volenti o nolenti in un’impresa che va ben al di là dei confini della loro disciplina, e così si trovano di fronte alla questione imprevista di quello che essi hanno da offrire, in quanto antropologi piuttosto che autodidatti sociologi, storici, scienziati politici o qualunque altra cosa. La risposta più facile, quella ancora preferita in alcuni circoli, consiste nei dati, preferibilmente dati anomali che demoliranno la teoria finemente elaborata di qualche sociologo. Ma accettare 359
questa risposta è ridurre l’antropologia ad una specie di sprezzante etnografia, capace, come qualche critico letterario, di disapprovare le costruzioni letterarie ma non di crearle, e forse neppure di capirle. Per quanto riguarda l’ampia visione del professor Sutton – «una scienza politica generale comparata delle società preindustriali» – io ritengo, tanto per cominciare, che si possa dare un contributo maggiore. E allo scopo di indicare (certamente non di stabilire, nello spazio qui riservatomi) quale potrebbe essere questo contributo, voglio fare due cose che sono essenzialmente antropologiche: discutere un caso curioso che giunge da una terra lontana, e trarre da tale caso alcune conclusioni di fatto e di metodo più lungimiranti di quelle che qualunque esempio isolato di questo genere potrebbe consentire.
II Il paese lontano è Bali; il caso curioso è lo Stato quale esisteva laggiù nel secolo scorso. Sebbene in termini formali fosse parte delle Indie orientali olandesi a partire – immagino che si dovrebbe dire – dal 1750 in avanti, Bali entrò a far parte dell’impero olandese in senso concreto soltanto dopo l’invasione della parte meridionale dell’isola nel 1906. In sostanza, lo Stato balinese nell’Ottocento era una struttura indigena e benché, come qualunque istituzione sociale, fosse cambiata durante il corso dei secoli – e non per ultimo motivo come risultato della presenza olandese a Giava – l’aveva fatto solo marginalmente e lentamente.
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Per semplificare la mia descrizione di quanto in realtà resiste ad ogni semplificazione, discuterò prima le fondamenta culturali dello Stato (le credenze e i valori, per lo più quelli religiosi, che lo animarono, gli diedero un orientamento, un significato ed una forma) e in secondo luogo discuterò gli assestamenti della struttura sociale, ovvero gli strumenti politici, nei termini dei quali questo Stato tentò, con alterna fortuna, di sostenere la direzione e di raggiungere la forma che gli erano proprie. In seguito vedremo che questa separazione tra idee e istituzioni non è un mezzo espediente pragmatico, come potrebbe sembrare, ma il fulcro stesso del mio ragionamento. In relazione alle fondamenta culturali dello Stato – parlando ora nel presente etnografico – presenterò brevemente tre idee balinesi relative al contenuto della politica non strettamente locale. La prima di queste idee sarà chiamata dottrina del centro esemplare; la seconda, concetto di status declinante; la terza, concezione espressiva della politica (la convinzione cioè che i principali strumenti del governo hanno meno a che fare con tecniche amministrative che con le arti del teatro). La dottrina del centro esemplare è essenzialmente una teoria della natura e della base della sovranità. Questa teoria afferma che la corte-e-capitale è ad un tempo un microcosmo di ordine soprannaturale – un’«immagine», come ha detto Robert Heine-Geldern, «dell’universo su scala ridotta» – e l’incarnazione materiale dell’ordine politico7. Non è solo il nucleo, il motore, o il perno dello stato: è lo Stato. E questa curiosa equazione della sede del governo con il dominio del governo è più di una fugace metafora, è 361
l’affermazione di una idea politica dominante: vale a dire che, col semplice atto di fornire un modello, un esemplare, un’immagine impeccabile dell’esistenza civilizzata, la corte plasma il mondo che la circonda, facendo sì che esso sia un fac-simile almeno rudimentale della sua stessa eccellenza. La vita rituale della corte, e di fatto la vita della corte in genere, è perciò paradigmatica, non già un mero riflesso dell’ordine sociale. Ciò che riflette è, come affermano i sacerdoti, l’ordine soprannaturale, «il mondo indiano senza tempo degli dei», su cui gli uomini dovrebbero cercare, in rigida proporzione al proprio status, di modellare la propria vita8. La funzione fondamentale della legittimazione, la conciliazione di questa metafisica politica con l’effettiva distribuzione del potere nella Bali classica, fu effettuata per mezzo di un mito: cosa abbastanza caratteristica, si trattava di un mito colonizzatore. Nel 1343 gli eserciti del grande regno giavanese orientale di Madjapahit avrebbero sconfitto, vicino ad un luogo chiamato Gelgel, quelli del «re di Bali», un mostro soprannaturale con la testa di maiale – un avvenimento straordinario in cui i balinesi vedono l’origine di un po’ tutta la loro civiltà, anche di loro stessi (dato che tranne pochissime eccezioni, si considerano discendenti degli invasori giavanesi, non dei difensori protobalinesi). Come il mito dei «padri fondatori» negli Stati Uniti, il mito della «conquista di Madjapahit» divenne la storia originaria con cui spiegare e giustificare gli effettivi rapporti di comando e sottomissione. A parte tutti gli elementi autenticamente storici che la leggenda può contenere (in ogni caso ho dato solo il sommario più schematico di quella che è una storia molto complessa e con molte versioni), essa esprime nelle 362
immagini concrete di una storia reale la concezione che i balinesi hanno del loro sviluppo politico. Agli occhi dei balinesi, la fondazione di una corte giavanese a Gelgel (dove, a quanto si crede, il palazzo fu progettato per rispecchiare in ogni dettaglio il più esemplare dei centri esemplari, lo stesso palazzo di Madjapahit) creò non solo un centro di potere – che era esistito anche prima – ma un parametro di civiltà. La conquista da parte di Madjapahit fu considerata il grande spartiacque della storia balinese, perché separò di netto l’antica Bali della barbarie animalesca dalla Bali rinascente dell’eleganza estetica e dello splendore liturgico. Il trasferimento della capitale (e l’invio di un nobile giavanese, drappeggiato in paramenti magici, per abitarla) fu il trasferimento di una civiltà, l’insediamento di una corte che nell’atto stesso di riflettere l’ordine divino generò l’ordine umano. Secondo la concezione balinese tuttavia, questo riflesso e questo ordinamento non avrebbero mantenuto la loro purezza e la forza fino al secolo scorso ma si sarebbero offuscati e indeboliti col passar del tempo. Nonostante il fatto che siano entrambi in un certo senso miti «coloniali», che iniziano con un insediamento proveniente da rive straniere, di maggiore cultura, la concezione che i balinesi hanno della loro storia politica non presenta – come invece è per gli americani – una immagine di come l’unità si plasmò da una diversità d’origine, ma al contrario il dissolvimento dell’unità originaria in una crescente diversità: non un incessante progresso verso una società migliore, ma una graduale scomparsa dalla scena di un classico modello di perfezione.
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Si ritiene che questa scomparsa abbia avuto luogo nello spazio e nel tempo. L’idea, certamente errata, è che durante il periodo Gelgel (all’incirca dal 1300 al 1700) Bali fu governata da una sola capitale, ma che dopo quel periodo ebbe luogo una serie di rivolte e di scissioni che condussero a stabilire capitali in ciascuna delle regioni più importanti, via via che i membri inferiori della casa reale vi fuggivano per insediarsi come governanti esemplari per proprio conto. A loro volta, schegge derivanti da altre schegge portarono a capitali di terzo livello nelle regioni delle varie capitali di secondo livello, e così via, se non proprio ad infinitum, in modo molto simile. A parte i dettagli, il risultato finale (cioè nel 1800) fu un’acrobatica piramide di «regni» con grado variabile di autonomia sostanziale e di potere effettivo, poiché i principali signori di Bali reggevano il capo supremo sulle loro spalle e a loro volta poggiavano sulle spalle di quelli il cui status derivava dal loro, come il loro dal primo, e così via risalendo. Il centro esemplare tra i centri esemplari era ancora Gelgel, o meglio il suo erede diretto, Klungkung, il cui splendore naturalmente si offuscava via via che si diffondeva in questo medium sempre più volgare. Più importante era comunque che si appannava anche il suo lustro, a misura che la sua originaria concentrazione di carisma, importata da Giava, si diffondeva in questi centri minori. Il quadro globale è quello di un declino generale di status e di potere spirituale che riguarda non solo le linee periferiche via via che si allontanano dal nucleo della classe governante, ma il nucleo stesso mentre queste si allontanano. Nel corso del suo sviluppo, la forza esemplare dello Stato balinese un tempo unitario si era indebolita al 364
centro come si era assottigliata ai confini. O almeno così pensano i balinesi, ed è a questa visione della storia come di un fuoco morente, che pervade la società balinese fin nei suoi angoli più remoti, che qui si fa riferimento con il concetto di status declinante. Eppure questo non fu sentito come un deterioramento inevitabile, un declino predestinato a partire da un’età dell’oro: per i balinesi, il declino era il modo in cui la storia si era casualmente svolta, non quello in cui doveva obbligatoriamente svolgersi. E gli sforzi degli uomini, e specialmente dei loro leader spirituali e politici, non dovrebbero di conseguenza essere diretti né a rovesciarla (il che è impossibile, perché non si possono correggere gli avvenimenti) né a celebrarla (il che sarebbe inutile, dato che consisteva in una serie di allontanamenti da un ideale) ma piuttosto ad annullarla, a riesprimere direttamente, immediatamente, e con la maggior forza e vitalità possibili, il paradigma culturale col quale gli uomini di Gelgel e Madjapahit avevano a loro tempo guidato la loro vita. Come ha fatto notare Gregory Bateson, la visione del passato dei balinesi non è veramente storica nel senso proprio del termine: attraverso tutta la loro fabbricazione di miti esplicativi, i balinesi frugano nel passato non tanto per ricercarvi le cause del presente quanto per ottenere il metro con cui giudicarlo, il modello immutabile su cui si dovrebbe plasmare in modo appropriato il presente, ma che tanto spesso non si riesce a seguire per fatalità, ignoranza, indisciplina o incuria. Questa correzione quasi estetica del presente sulla base di ciò che era stato ad un certo punto il passato, i signori locali cercarono di effettuarla eseguendo dei grandi tableaux 365
cerimoniali. Dal più infimo al più elevato, cercavano continuamente di stabilire, ciascuno al suo livello, un centro più autenticamente esemplare che, se non poteva eguagliare e neppure avvicinarsi a Gelgel per splendore (e alcuni dei più ambiziosi speravano di fare anche questo), potesse almeno cercare di imitarlo ritualmente e ricreare così, in una certa misura, la radiosa immagine di civiltà che lo Stato classico aveva incarnato e la storia postclassica aveva offuscato. La natura espressiva dello Stato balinese, e della vita politica che sosteneva, apparve chiaramente nel corso di tutta la sua storia conosciuta, perché esso puntò sempre non alla tirannia, di cui era incapace a realizzare la sistematica concentrazione di potere, e neppure metodicamente al governo, che perseguiva con indifferenza e perfino con esitazione, ma piuttosto allo spettacolo, alla cerimonia, alla drammatizzazione pubblica delle ossessioni dominanti della cultura balinese: la diseguaglianza sociale e l’orgoglio di status. Era uno stato-teatro, in cui i re ed i principi erano gli impresari, i sacerdoti, i direttori, i contadini, gli attori, i comprimari ed il pubblico. Le stupende cremazioni, le limature di denti, le dediche dei templi, i pellegrinaggi ed i sacrifici cruenti, che mobilitavano centinaia e addirittura migliaia di persone e grandi quantità di ricchezze, non avevano deliberati fini politici, ma erano fini essi stessi, erano ciò a cui serviva lo Stato. Il cerimonialismo di corte era la forza trainante della politica di corte. Il rituale di massa non era un espediente per puntellare lo Stato; lo Stato era invece un dispositivo per la rappresentazione di un rituale di massa. Governare non era tanto scegliere quanto rappresentare. La cerimonia non era la forma, ma la 366
sostanza. Il potere era al servizio della pompa, non la pompa del potere. Occupandomi della struttura sociale che era progettata per sorreggere questo sforzo ma di fatto serviva più a sminuirlo, dovrò essere ancora più inflessibile nel ridurre i fatti alle loro ombre, perché le istituzioni balinesi classiche erano all’incirca tanto complicate quanto possono arrivare ad essere continuando a funzionare. Ma il punto principale per capire lo Stato balinese come struttura di potere concreta è che, lungi dal condurre verso la centralizzazione del potere, esso conduceva, e con forza, verso la sua dispersione. Pochissime élite politiche hanno ricercato così intensamente la lealtà dai sottoposti con mezzi tanto ingegnosamente progettati per produrre tradimento, come quella balinese. In primo luogo, la stessa élite era, come ho indicato, non una classe di governo organizzata, ma una folla di sovrani o meglio di aspiranti sovrani terribilmente competitivi. Anche i lignaggi nobili, le diverse casate reali che formavano le varie corti, non erano unità solidali ma fazioni guidate da fazioni, ammassi di sottolignaggi e sotto-sottolignaggi, ciascuno intento ad indebolire gli altri a proprio vantaggio. In secondo luogo, il governo più efficiente nel senso proprio del termine era quello locale. I villaggi non solo avevano costituzioni scritte, consigli popolari e organi esecutivi, ma resistevano, in modo molto efficace, all’ingerenza della corte negli affari locali. L’irrigazione era in mano a gruppi corporali distinti, anch’essi locali, di cui ne esistevano a centinaia sul territorio; e invece di portare allo sviluppo di una burocrazia centralizzata per dirigere i lavori idraulici, questo sistema di fatto impediva il sorgere di 367
questa burocrazia. I lignaggi locali, le congregazioni dei templi, i gruppi volontari erano egualmente autonomi, egualmente gelosi dei loro diritti di fronte agli altri e allo Stato. In terzo luogo, i legami strutturali tra lo Stato (cioè ogni corte particolare) e questo complesso di istituzioni locali (il «villaggio», se volete) erano anch’essi molteplici e scoordinati. I tre obblighi principali imposti dalla nobiltà ai contadini – il sostegno militare-rituale, l’affitto della terra e la tassazione – non erano fusi, ma distribuiti in tre diversi tipi di legami. Poteva accadere che un uomo dovesse sostegno rituale e militare ad un signore, versasse l’affitto ad un secondo e pagasse le tasse ad un terzo. Ancor peggio: questi legami non erano, per la maggior parte, concentrati sul territorio, così che un uomo e il suo vicino, che poteva essere addirittura suo fratello, potevano, e spesso così accadeva, avere obblighi di sudditanza verso signori diversi. Ma, per fermarci qui prima di scomparire in boschi incantati, il fatto è che l’organizzazione politica sovralocale a Bali non consisteva in una serie ben definita di Stati sovrani organizzati gerarchicamente, nettamente divisi tra di loro e impegnati in «rapporti con l’estero» attraverso frontiere ben disegnate. Meno ancora consisteva in un dominio generale da parte di uno «Stato con un solo centro di apparato» in mano ad un despota assoluto, «idraulico» o cose del genere. Essa consisteva piuttosto in un campo esteso di legami politici molto dissimili, che si stringevano in nodi di misura e solidità variabile nei punti strategici e poi si assottigliavano di nuovo per collegare praticamente ogni cosa con tutto il resto, in modo straordinariamente complesso.
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In ciascun punto di questo campo mobile e differenziato la lotta era più per gli uomini, per ottenere il loro rispetto, il loro appoggio e la loro lealtà personale, che non per la terra. Il potere politico si incarnava più nella gente che nella proprietà, era più una questione di accumulo di prestigio che di territorio. I disaccordi tra i vari principati praticamente non riguardavano mai problemi di confine, ma delicate questioni di status reciproco e specialmente il diritto di mobilitare particolari gruppi di uomini, persino particolari uomini, per il rituale di Stato e per la guerra (che era la stessa cosa). Korn racconta un aneddoto che riguarda le Celebes Meridionali, dove gli assestamenti politici si avvicinavano a quelli di Bali, e che illustra questo punto con la pesante ironia dell’arguzia tradizionale9. Gli Olandesi, che per ragioni amministrative volevano una volta per tutte tracciare nettamente il confine tra due minuscoli principati, convocarono i principi interessati e chiesero loro dove si trovassero davvero i confini. Entrambi furono d’accordo nel dire che il confine del principato A si trovava nel punto più lontano da dove si potevano ancora scorgere le paludi, mentre il confine del principato B si trovava nel punto più lontano da dove si poteva ancora scorgere il mare. Allora non avevano mai combattuto per la striscia di terra che si trovava in mezzo, da dove non si poteva vedere né la palude né il mare? «Mijnherr» – rispose uno dei vecchi principi – «abbiamo ragioni molto migliori per darci battaglia che queste squallide collinette». Insomma, la politica balinese dell’Ottocento può essere vista come lacerata da due forze opposte, quella centripeta del rituale statale e quella centrifuga della struttura statale. 369
Da un lato c’era l’effetto unificatore del cerimoniale di massa sotto il comando di uno o dell’altro signore; dall’altro c’era il carattere intrinsecamente dispersivo, segmentario della organizzazione politica considerata come una istituzione sociale concreta, un sistema di potere composto di fatto da una dozzina di governanti indipendenti, semiindipendenti, e indipendenti solo per un quarto. Il primo, l’elemento culturale, proveniva giù dalla cima, dal centro «esterno»; il secondo, l’elemento del potere, veniva su dal fondo e dalla periferia «interna». Come risultato, quanto più ampio era il campo d’azione a cui aspirava la leadership esemplare, tanto più fragile era la struttura politica che la sosteneva, perché maggiormente costretta a basarsi sull’alleanza, l’intrigo, il raggiro e il bluff. I signori, sospinti dall’ideale culturale dello Stato raffinatamente espressivo, lottavano di continuo per estendere la loro abilità a mobilitare uomini e materiali così da sostenere cerimonie più grandi e più splendide e più grandi e più splendidi templi e palazzi in cui celebrarle. Nel far questo, operavano direttamente contro una forma di organizzazione politica la cui naturale tendenza, specialmente sotto le pressioni intensificate per l’unificazione, era verso la progressiva frammentazione. Ma, volenti o nolenti, essi lottarono con questo paradosso della megalomania culturale e del pluralismo organizzativo proprio sino alla fine, e non sempre senza una qualche misura di temporaneo successo. Se il mondo moderno, nella forma dei battaglioni olandesi, alla fine non li avesse sconfitti, indubbiamente starebbero ancora lottando.
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III Per mantener fede alla mia promessa di generalizzare al di là dei dati, mi sia consentito fissare due punti a mo’ di conclusione circa il contributo dell’antropologia ad una scienza politica comparata e generale delle società contadine. Il primo è che distinguere le ambizioni culturali degli Stati tradizionali da una parte e dall’altra le istituzioni sociali, nei cui termini queste ambizioni culturali venivano di solito realizzate in modo incompleto, costituisce ciò che possiamo chiamare il realismo sociologico. Il «punto base» del professor Sutton per capire gli sviluppi più recenti diventa così meno una sorta di tipo ideale retrospettivo, un modello costruito per spiegare quelle che il suo ideatore considera le caratteristiche più interessanti del presente, e più una realtà storica radicata nel suo tempo e nel suo luogo: quel genere di cosa da cui si sviluppano i documenti che si trovano nel mondo, anziché quelli che si trovano meramente nei libri. Il secondo punto è che questo incremento di realismo sociologico rende possibile accostarsi alla domanda centrale in questo campo – quali sono di fatto i rapporti tra il modo in cui si comportano i nuovi Stati e quello in cui si comportavano quelli tradizionali – senza restare vittima di uno di due assunti ugualmente fuorviami (e al presente egualmente popolari): che gli Stati contemporanei siano soltanto i prigionieri del loro passato, la riedizione in vesti vagamente moderne di drammi arcaici; o invece che questi Stati siano completamente sfuggiti al loro passato, siano
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prodotti assoluti di un’età che non deve nulla a nessuno all’infuori di se stessa. Sul primo punto, è evidente che i dati balinesi, se sono quelli che io affermo, suffragano molto meglio il concetto di Stato segmentano, cioè la concezione delle organizzazioni politiche tradizionali in quanto costituite da instabili piramidi di potere inghirlandate da simboli di una grandezza più auspicata che raggiunta, di quanto non faccia la concezione di Wittfogel del «potere dispotico – totale e non benevolo». Ma il problema non è se Wittfogel (che è stato così incauto da citare Bali a sostegno delle sue tesi) ci abbia dato una teoria valida oppure no. Personalmente penso di no, ma non voglio tentare di controbattere affermazioni sulla Cina con fatti relativi a Bali. La mia idea è solo che nel separare – come ogni studio etnografico accurato delle concrete organizzazioni politiche tradizionali deve fare – le ambizioni dei governanti, le idee e gli ideali che li spingono verso un qualche fine d’ordine generale, dagli strumenti sociali con cui si perseguono questi fini, l’antropologia contribuisce a convalidare l’idea che, tanto negli Stati tradizionali quanto in quelli moderni, il raggio d’azione ideale di un uomo politico non è esattamente la stessa cosa di quello che poi riesce a fare. Ciò detto, il mio messaggio può sembrare il solito messaggio negadvo per cui l’antropologia è meritatamente famosa: «Non sull’isola di Pasqua». In effetti ritengo che il lavoro sugli Stati segmentari, come quello degli archeologi dello sviluppo, promette di offrire e che anzi ha già offerto un importante contributo per realizzare un’immagine più corretta delle organizzazioni politiche tradizionali, e proprio seguendo le linee che ho indicato. Quello che Evans372
Pritchard ha fatto per il re divino degli Shilluk (distinguere il suo ruolo rituale da quello politico e così ridurre almeno un caso di dispotismo africano alla sua reale fragilità) e una schiera di studiosi ha fatto per i Maya (distinguere lo splendido edificio religioso della società da quel tipo piuttosto banale di comunità ad agricoltura itinerante che ne stava alla base, e così risolvere il paradosso di una Bisanzio della giungla) sta per essere fatto, senza dubbio, per un numero sempre maggiore di Stati tradizionali; e i risultati non solo non saranno negativi, ma trasformeranno tutta la nostra concezione delle fonti di potere, la natura dell’autorità, e le tecniche di amministrazione in questi Stati10. Ma per quanto riguarda il problema della «politica passata, politica presente» il mio secondo punto è il più significativo. La separazione concettuale delle idee di ordine da cui sono guidati gli attori in ogni organizzazione politica e il contesto istituzionale entro cui agiscono rende possibile affrontare il problema dei rapporti tra quello che era un tempo e quello che è ora con qualcosa di più di truismi reversibili del tipo «Non c’è null’altro nel presente che il passato» o «Il passato è un mucchio di ceneri». Più specificamente, sarà così possibile distinguere il contributo ideologico ad uno Stato contemporaneo fornito dalle tradizioni culturali di cui è erede dal contributo organizzativo che proviene dai sistemi di governo che l’hanno preceduto; e sarà pure possibile constatare che il primo, il contributo ideologico, è molto più significativo del secondo, a parte alcune eccezioni. Come concrete strutture di governo, il Ghana di oggi, l’Indonesia di oggi, o anche il Marocco di oggi11, hanno rapporti solo assai remoti con le 373
istituzioni della confederazione ashanti, dello stato-teatro giavanese-balinese, o con quella variopinta raccolta di guardie del corpo ed esattori fiscali che era il Makhzan magrebino. Ma, come incarnazioni di questa o quella concezione del governo e della politica, il rapporto tra Stati tradizionali e Stati transizionali può essere assai più stretto di quanto possano indurre a credere i vocabolari presi a prestito con cui si esprimono solitamente le ideologie del Terzo Mondo. Quando l’apparato culturale di uno Stato tradizionale – i suoi miti particolareggiati, i suoi rituali elaborati, le sue etichette ricercate – va in pezzi, come è successo nella maggioranza degli Stati del Terzo Mondo e senza dubbio succederà presto in quasi tutti gli altri, esso finisce per essere sostituito da una serie di nozioni concernenti la natura e lo scopo della politica più astratte, più deliberate e più ragionate, almeno nel senso formale del termine. Queste nozioni – scritte in una costituzione formale, incorporate in una nuova struttura di istituzioni governative, gonfiate in una dottrina universale, nozioni che chiamerei ideologia nel senso proprio del termine – svolgono un ruolo simile a quelle meno disciplinate, preideologiche, che le hanno precedute. Vale a dire, esse forniscono una guida all’attività politica, un’immagine per afferrarla, una teoria per spiegarla e un parametro con cui giudicarla. Questo inoltrarsi in una dimensione più consapevole, o per lo meno più esplicita, di ciò che un tempo erano solo atteggiamenti prestabiliti e convenzioni ricevute è una delle caratteristiche principali di quello che abbiamo finito per chiamare, per metà fiduciosi e per metà preoccupati, «processo di costruzione della nazione» (nation building). 374
Tutto questo non vuol dire che le strutture ideologiche entro cui operano gli Stati del Terzo Mondo siano semplicemente versioni ammodernate delle idee e degli ideali del passato. Le loro élite hanno chiaramente imparato molto da altre fonti, molto poco tradizionali. L’osservazione ravvicinata da parte di Sukarno dei giapponesi in azione fu probabilmente l’esperienza più rivelatrice della sua carriera; possiamo immaginare che Nkrumah abbia letto almeno alcuni di quegli opuscoli che i suoi successori hanno bruciato così spettacolarmente, e basta solo dare un’occhiata al pubblico politicizzato dell’India o dell’Algeria per vedere che Harold Laski e Jean-Paul Sartre non hanno faticato invano. È proprio questa confusione delle voci più riconoscibili del presente con le strane, ma non meno insistenti, voci del passato, che rende tanto difficile determinare quale meta pensino di avere i politici, sia civili che militari, di qualunque Stato del Terzo Mondo. Una volta sembrano giacobini ad oltranza; la volta dopo sono perseguitati da fantasmi così antichi ed incrollabili come le furie. Una volta sembrano altrettanti Madison e Jefferson autodidatti, che edificano apparati politici tanto ingegnosi quanto non si era mai visto prima né in terra né in cielo; la volta dopo sembrano altrettanti tronfi Mussolini che creano imitazioni inferiori dei più ridicoli esempi del fascismo europeo. Una volta sembrano possessori fiduciosi di un saldo senso di orientamento, pieni di speranza e di nobili scopi; la volta dopo opportunisti frenetici, in preda alla confusione, alla paura e ad uno sconfinato odio per se stessi. Non serve, tuttavia, evidenziare questo o quel lato di queste svariate antinomie e semplicemente affermare con 375
saggezza che sono antinomie, che i due lati opposti sono davvero presenti e che la situazione è complessa: bisogna distinguere tra le voci mescolate così da poter sentire che cosa dice ciascuna di esse e valutare il clima ideologico, se non con grande sicurezza, almeno con una qualche accuratezza e precisione di dettagli. In questo sforzo un elemento essenziale è dato dalla determinazione esatta del contributo ideologico della politica del passato a quella del presente – nel caso in esame, ad esempio, della leadership esemplare, del carisma decrescente e dell’arte drammaturgica di governo. E l’antropologia si trova in una posizione ideale per fornire questo elemento (tanto per far rullare un’ultima volta il mio tamburo), almeno se si può ora ricordare quello che era tanto facile dimenticare su un’isola del Pacifico: che non si è soli al mondo.
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Parte quinta
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10. Persona, tempo e comportamento a Bali
1. La natura sociale del pensiero Il pensiero umano è profondamente sociale: nelle sue origini, nelle sue funzioni, nelle sue forme, nelle sue applicazioni. In fondo il pensare è un’attività pubblica – il suo habitat naturale è il cortile di casa, la piazza del mercato e quella del municipio. Le implicazioni di questo fatto per l’analisi antropologica della cultura di cui qui mi occupo sono enormi, complesse e insufficientemente considerate. Voglio evidenziare alcune di queste implicazioni per mezzo di quella che a prima vista potrebbe sembrare un’indagine troppo specifica, perfino un po’ esoterica: un esame dell’apparato culturale nei cui termini gli abitanti di Bali definiscono, percepiscono e reagiscono a – cioè pensano –le persone individuali. Questa indagine, tuttavia, è specifica ed esoterica solo nel suo aspetto descrittivo. I fatti di per sé sono di scarso interesse immediato oltre i confini dell’etnografia, e li riassumerò il più brevemente possibile. Ma se si guardano sullo sfondo di una generale intenzione teorica – determinare che cosa consegue per l’analisi della cultura dall’affermazione che il pensiero umano è essenzialmente un’attività sociale – i dati balinesi assumono un’importanza particolare.
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Non soltanto le idee balinesi in questo campo sono insolitamente sofisticate ma, da un punto di vista occidentale, sono sufficientemente strane da illuminare alcuni rapporti generali tra diversi ordini di concettualizzazione culturale, rapporti che ci restano nascosti quando consideriamo solo la nostra struttura concettuale, fin troppo familiare, mediante cui identifichiamo, classifichiamo e trattiamo gli individui umani e quasi-umani. In particolare esse mettono in luce alcune connessioni poco evidenti tra il modo in cui la gente percepisce se stessa e gli altri, il modo in cui sperimenta il tempo, e il tono affettivo della vita collettiva – connessioni che hanno importanza non solo per la comprensione della società balinese, ma per quella della società umana in generale.
2. L’analisi della cultura Molte delle recenti teorizzazioni nell’ambito delle scienze sociali si sono in definitiva configurate come tentativi di distinguere e specificare due importanti concetti analitici: cultura e struttura sociale1. Lo stimolo verso questo sforzo analitico è sorto dal desiderio di tener conto dei fattori ideazionali nei processi sociali, senza restar vittime delle forme di riduzionismo hegeliano o marxista. Per evitare di dover considerare le idee, i concetti, i valori e le forme espressive o come ombre proiettate dall’organizzazione della società sulle dure superfici della storia o come l’anima della storia, il cui progresso sarebbe solo un’elaborazione della loro dialettica interna, si è dimostrato necessario 379
considerarle come forze indipendenti ma non autosufficienti – come se agissero ed esercitassero la loro influenza solo entro specifici contesti sociali a cui si adattano, da cui sono stimolate ma su cui hanno, in maggiore o minor misura, un influsso determinante. «Vi aspettate davvero – scriveva Marc Bloch nel suo piccolo libro Apologia della storia – di conoscere i grandi mercanti dell’Europa del Rinascimento, i venditori di stoffe o di spezie, i detentori del monopolio del rame, del mercurio o dell’allume, i banchieri dei re e dell’imperatore, conoscendo solo la loro mercanzia? Ricordatevi che furono ritratti da Holbein, e che leggevano Erasmo e Lutero. Per capire l’atteggiamento del vassallo medioevale verso il suo signore dovete anche indagare il suo atteggiamento verso Dio». Si devono capire tanto l’organizzazione dell’attività sociale, le sue forme istituzionali, quanto i sistemi di idee che la animano, come pure la natura delle relazioni esistenti tra di loro. È a questo fine che è stato diretto il tentativo di chiarire i concetti di struttura sociale e di cultura. È indubbio, tuttavia, che in questo duplice sviluppo sia stato il lato culturale che si è rivelato più refrattario e che è rimasto più indietro. Per la loro stessa natura, le idee sono più difficili da trattare scientificamente dei rapporti politici, economici e sociali tra gli individui e i gruppi che da queste idee prendono forma. E ciò è tanto più vero quanto più le idee trattate non sono le dottrine esplicite di un Lutero o di un Erasmo, o le immagini articolate di un Holbein, ma le nozioni grossolanamente sistematizzate, mezze definite, date per scontate, che orientano le attività normali degli uomini comuni nella vita di ogni giorno. Se lo studio scientifico della cultura si è attardato, se si è impantanato molto spesso 380
nel puro descrittivismo, è stato in gran parte perché il suo stesso oggetto è sfuggente. Il problema iniziale di ogni scienza – definire il proprio oggetto di studio in modo tale da renderlo suscettibile di analisi –si è qui rivelato insolitamente difficile da risolvere. È a questo punto che la concezione del pensare come atto fondamentalmente sociale, il quale ha luogo nello stesso mondo pubblico in cui avvengono gli altri atti sociali, può trovare il suo ruolo più costruttivo. La prospettiva secondo cui il pensiero non consiste in misteriosi processi situati in quella che Gilbert Ryle chiamava una grotta segreta dentro la testa, ma in un traffico di simboli significativi – oggetti che si trovano nell’esperienza (rituali e strumenti; idoli intagliati e pozze d’acqua; gesti, segni, immagini e suoni) sui quali gli uomini hanno impresso un significato – fa dell’analisi della cultura una scienza positiva come qualunque altra2. I significati che i simboli – veicoli materiali del pensiero – incorporano, sono spesso sfuggenti, vaghi, fluttuanti e involuti, ma possono in linea di principio essere scoperti con un’indagine empirica sistematica – specialmente se le persone che li percepiscono cooperano un pochino – alla stessa stregua del peso atomico dell’idrogeno o della funzione delle ghiandole surrenali. È attraverso i modelli culturali, insiemi ordinati di simboli significanti, che l’uomo dà un senso agli avvenimenti che vive. Lo studio della cultura, la totalità accumulata di questi modelli, è quindi lo studio dell’armamentario che gli individui e i gruppi di individui impiegano per orientarsi in un mondo altrimenti opaco. In ogni particolare società, il numero dei modelli culturali generalmente accettati e frequentemente usati è molto 381
grande, così che anche scegliere i più importanti e definire i rapporti che possono avere tra di loro è uno sforzo analitico che lascia storditi ma che viene un po’ alleviato dal fatto che certi tipi di modelli e certi tipi di rapporti tra i modelli ricorrono da una società all’altra, e questo semplicemente perché rispondono a requisiti orientativi, genericamente umani. I problemi, essendo esistenziali, sono universali; le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse. Ma la natura dei problemi di base rispetto a cui questi modelli sono una risposta adeguata, può essere colta veramente attraverso la comprensione circostanziata di queste soluzioni uniche, e a parer mio solo in questo modo. Qui, come in tanti rami del sapere, la via verso le grandi astrazioni della scienza passa attraverso un fitto nugolo di fatti singoli. Una di queste necessità orientative diffuse è sicuramente la caratterizzazione degli esseri umani individuali. I popoli hanno sviluppato dappertutto strutture simboliche nei cui termini le persone sono percepite non solo come tali, come semplici membri della razza umana, ma come rappresentanti di certe categorie di persone distinte, tipi specifici di individui. In ogni caso particolare vi è inevitabilmente una pluralità di tali strutture. Alcune, per esempio le terminologie di parentela, sono imperniate sull’ego, cioè definiscono lo status di un individuo nei termini del suo rapporto con qualche specifico attore sociale. Altre sono imperniate su uno o l’altro sottosistema o aspetto della società e sono invarianti rispetto alle prospettive degli attori individuali: i ranghi dei nobili, gli status dei gruppi di età, le categorie occupazionali. Alcune, – nomi e nomignoli personali – sono informali e particolarizzanti; altre – titoli burocratici e designazioni di casta – sono formali e 382
standardizzanti. Il mondo quotidiano in cui i membri di ogni comunità si muovono, il loro campo d’azione sociale stabilmente acquisito, non è popolato da uomini senza volto, senza qualità, ma da classi concrete di persone determinate, positivamente caratterizzate e debitamente etichettate. E i sistemi di simboli che definiscono queste classi non sono dati nella natura delle cose – sono costruiti storicamente, conservati socialmente ed applicati individualmente. Anche riducendo il compito dell’analisi culturale ai soli modelli che hanno qualcosa a che fare con la caratterizzazione delle persone individuali lo si rende appena meno spaventoso. Questo succede perché non esiste ancora una struttura teorica perfezionata entro cui eseguirlo. La cosiddetta analisi strutturale in sociologia e in antropologia sociale può scoprire le implicazioni funzionali di un particolare sistema di categorie di persone in una data società e a volte può anche predire come questo sistema potrebbe cambiare sotto l’impatto di certi processi sociali, ma solo se il sistema – le categorie, i loro significati e i loro rapporti logici – si possono già dare per conosciuti. La teoria della personalità in psicologia sociale può scoprire la dinamica motivazionale che sta alla base della formazione e dell’uso di questi sistemi e può valutare il loro effetto sulle strutture di carattere degli individui che le usano effettivamente, ma soltanto se, in un certo senso, essi sono già dati, se si è determinato in qualche modo come gli individui in questione vedono se stessi e gli altri. Quel che occorre è un modo sistematico, e non semplicemente letterario o impressionistico, di scoprire che cosa è dato, che cosa sia effettivamente la struttura concettuale incorporata 383
nelle forme simboliche attraverso le quali le persone vengono percepite. Quello che vogliamo, e ancora non abbiamo, è un metodo maturo per descrivere e analizzare la struttura di significato che informa l’esperienza (in questo caso, l’esperienza di persone), così come viene percepita da membri rappresentativi di una particolare società in un particolare momento – in breve, una fenomenologia scientifica della cultura.
3. Predecessori, contemporanei, consociati e successori Vi sono stati, tuttavia, alcuni tentativi sparsi e piuttosto astratti di analisi culturale così concepita dai cui risultati è possibile trarre utili orientamenti per la nostra indagine più focalizzata. Tra le scorrerie più interessanti vi sono quelle compiute dal defunto filosofo e sociologo Alfred Schutz, la cui opera rappresenta un tentativo alquanto eroico, e non privo di successo, di fondere le influenze derivanti da un lato da Scheler, Weber e Husserl con quelle derivanti da James, Mead e Dewey dall’altro3. Schutz si occupò di una marea di argomenti – quasi sempre senza una considerazione estesa o sistematica di specifici processi sociali – cercando sempre di scoprire la struttura di significato di quella che egli considerava «la realtà suprema» nell’esperienza umana: il mondo della vita quotidiana così come gli uomini l’affrontano, ci agiscono e ci vivono. Per i nostri scopi, uno dei suoi esercizi di fenomenologia sociale speculativa – la scomposizione della nozione vaga di «consimili» in «predecessori», «contemporanei», «consociati» e «successori» – offre un punto di partenza 384
particolarmente valido. Guardare l’insieme di modelli culturali che i balinesi usano per caratterizzare gli individui nei termini di questa scomposizione mette in risalto, in modo molto suggestivo, i rapporti tra le concezioni di identità personale, le concezioni di ordine temporale, e le concezioni di stile comportamentale che, come vedremo, sono implicite in essi. Le distinzioni non sono di per sé astruse, ma il fatto che le classi che esse definiscono si sovrappongono e si compenetrano rende difficile formularle con la ferma precisione pretesa dalle categorie analitiche. I «consociati» sono individui che effettivamente si incontrano, persone in cui ci si imbatte in qualche luogo nel corso della vita quotidiana. Essi quindi condividono, anche se brevemente o superficialmente, non solo una comunanza di tempo, ma anche di spazio. Essi sono «coinvolti nelle reciproche biografie» almeno a livello minimo; «invecchiano insieme» almeno momentaneamente, interagendo in modo diretto e personale come ego, come soggetti. Gli amanti sono consociati, finché dura l’amore, come lo sono i coniugi finché non si dividono o gli amici finché non si perdono di vista. Lo stesso si può dire per i membri di un’orchestra, i giocatori di una stessa squadra, gli estranei che si mettono a chiacchierare sui treni, quelli che discutono sul prezzo in un mercato, o gli abitanti di un paese; qualunque gruppo di persone che abbiano un rapporto immediato, faccia, a faccia. Quelli che formano il nucleo della categoria, tuttavia, sono quanti intrattengono questi rapporti in modo più o meno continuativo e per qualche scopo durevole, e non sporadicamente o incidentalmente. Gli altri sfumano nella seconda categoria di consimili, i «contemporanei». 385
I contemporanei sono persone che condividono una comunanza di tempo ma non di spazio; vivono (più o meno) nello stesso periodo storico ed hanno rapporti sociali, spesso molto fugaci, tra di loro, ma non si incontrano – almeno nel corso normale delle cose. Non sono legati dalla diretta interazione sociale, ma attraverso una serie generalizzata di assunti formulati simbolicamente (vale a dire culturali) sui modi tipici di comportamento reciproco. Inoltre, il livello di generalizzazione implicato è una questione di grado, così che la graduazione di coinvolgimento personale nei rapporti tra consociati – dagli amanti fino alle conoscenze occasionali (si tratta pur sempre, com’è ovvio, di rapporti regolati culturalmente) – prosegue finché i legami sociali scivolano in una anonimità, standardizzazione ed intercambiabilità sempre più totali: Pensando al mio amico assente A., mi formo un tipo ideale della sua personalità e comportamento basati sulla mia passata esperienza di A. come mio consociato. Mettendo una lettera nella cassetta, mi aspetto che persone sconosciute, chiamate postini, agiscano in un modo tipico, non proprio comprensibile per me, col risultato che la mia lettera arriverà alla persona a cui è indirizzata in tempo tipicamente ragionevole. Senza aver mai incontrato un francese o un tedesco, capisco perché «la Francia teme il riarmo della Germania». Ubbidendo ad una regola della grammatica inglese [nei miei scritti] seguo un modello di comportamento socialmente approvato di consimili contemporanei anglofoni al quale mi devo conformare per farmi capire. E infine qualunque manufatto o strumento si riferisce all’anonimo consimile che l’ha prodotto perché fosse usato da altri anonimi consimili per raggiungere tipiche mete con tipici mezzi. Questi sono solo pochi esempi, ma sono sistemati a seconda del grado di crescente anonimità implicata e quindi dell’interpretazione necessaria per capire l’Altro e il suo comportamento4.
Infine, i «predecessori» e i «successori» sono individui che non condividono neppure una comunanza di tempo e quindi, per definizione, non possono interagire e, come tali, formano una specie di classe a parte rispetto ai consociati e 386
ai contemporanei, che invece interagiscono fra loro. Ma dal punto di vista del singolo attore particolare non hanno esattamente lo stesso significato. I predecessori, avendo già vissuto, possono essere conosciuti o, per meglio dire, si può essere al corrente di loro e le loro azioni possono avere influenza sulla vita di quelli per cui sono predecessori (cioè i loro successori), benché l’inverso non sia ovviamente possibile. I successori, d’altra parte, non possono essere conosciuti e neppure possiamo esserne al corrente, perché sono gli abitanti non ancora nati di un futuro a venire; e benché la loro vita possa essere influenzata dalle azioni compiute da coloro di cui sono i successori (cioè i loro predecessori), di nuovo il contrario non è possibile5. A fini empirici, tuttavia, è più utile formulare queste distinzioni meno rigidamente, e far notare che, come quelle che separano i consociati dai contemporanei, esse sono relative e lungi dall’essere nettamente definite nell’esperienza quotidiana. Con qualche eccezione, i nostri consociati e contemporanei più anziani non sprofondano all’improvviso nel passato, ma svaniscono più o meno gradualmente fino a diventare nostri predecessori via via che invecchiano e muoiono: e durante questo periodo di apprendistato per divenire antenati noi possiamo avere qualche effetto su di loro, così come i figli tanto spesso plasmano la fase conclusiva della vita dei loro genitori. E i nostri consociati e contemporanei più giovani crescono gradualmente fino a divenire i nostri successori, così che quelli di noi che vivono abbastanza a lungo hanno il dubbio privilegio di sapere chi ci deve sostituire e anche, occasionalmente, di avere qualche fugace influenza sulla direzione della sua crescita. «Consociati», «contemporanei», 387
«predecessori» e «successori» si percepiscono meglio non come caselle in cui gli individui si distribuiscono per scopi classificatori, ma come indicanti certe relazioni generali e non perfettamente distinte, concrete, che gli individui immaginano stabilire tra loro e gli altri. Ma di nuovo questi rapporti non sono percepiti puramente come tali; sono, colti solamente attraverso la mediazione delle formulazioni culturali. E, essendo formulati culturalmente, il loro carattere preciso differisce da società a società come differisce l’inventario dei modelli culturali disponibili; differisce pure da situazione a situazione entro una singola. società, a seconda dei modelli ritenuti di volta in volta.più appropriati tra la pluralità di quelli che sono disponibile e da attore ad attore entro situazioni simili, quando entrano in gioco le abitudini idiosincratiche, le preferenze e le interpretazioni. Nella vita umana non vi sono, almeno dopo che è passata l’infanzia, delle precise esperienze sociali di una qualche importanza; ogni cosa è colorata dal significato che le viene imposto, e i propri simili, come i gruppi sociali, le obbligazioni morali, le istituzioni politiche o le condizioni ecologiche, sono compresi solo attraverso uno schermo di simboli significanti che sono i veicoli della loro oggettivazione, uno schermo che quindi è molto lontano dall’essere neutrale riguardo alla loro «reale» natura. I consociati, i contemporanei, i predecessori e i successori vengono costruiti nella stessa misura in cui nascono6.
4. Gli ordinamenti balinesi di definizione delle persone
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A Bali7 ci sono sei tipi di etichette che una persona può applicare ad un’altra per identificarla come individuo unico e che intendo considerare sullo sfondo concettuale generale delineato prima: a) nomi propri; b) nomi secondo l’ordine di nascita; c) termini di parentela; d) tecnonimi; e) titoli di status (chiamati solitamente «nomi di casta» nella letteratura su Bali); e f) titoli pubblici, coi quali intendo titoli quasi occupazionali portati da capi, reggitori, sacerdoti e divinità. Nella maggior parte dei casi, queste diverse etichette. non sono impiegate simultaneamente, ma alternativamente, a seconda delle situazioni e talvolta degli individui. Non sono neppure tutti i tipi di etichette usate, ma sono le uniche ad essere generalmente riconosciute e regolarmente applicate. E poiché ogni tipo consiste non solo in una semplice raccolta di utili cartellini, ma in un sistema terminologico specifico e ben definito, mi riferirò ad essi come «ordini simbolici di definizioni di persona» e li considererò dapprima uno per uno, e solo dopo come un insieme più o meno coerente.
4.1. Nomi propri L’ordine simbolico definito dai nomi propri è il più semplice da descrivere, perché in termini formali è il meno complesso e in termini sociali il meno importante. Tutti i balinesi hanno nomi propri, ma raramente li usano per riferirsi a se stessi o agli altri o nel rivolgersi a qualcuno. (Riferendosi ai propri antenati, compresi i genitori, è in realtà sacrilego usarli). Invece si parla spesso dei bambini, e all’occasione ci si rivolge ad essi, con i loro nomi propri. 389
Questi nomi sono perciò chiamati nomi «da bambino» o «piccoli», anche se, una volta assegnati ritualmente 105 giorni dopo la nascita, sono mantenuti invariati nell’intero corso della vita dell’uomo. In generale, i nomi propri si sentono di rado ed hanno un ruolo assai poco pubblico. Tuttavia, nonostante questa marginalità sociale, il sistema dei nomi propri ha delle caratteristiche che, pur in modo piuttosto ambiguo, sono estremamente significative per la comprensione delle idee balinesi sulla personalità. In primo luogo, i nomi propri sono, almeno tra la gente comune (circa il 90% della popolazione) sillabe prive di senso coniate arbitrariamente. Non sono tratti da un fondo di nomi prestabiliti che potrebbero dar loro un significato secondario essendo «comuni» o «insoliti», come se riflettessero il fatto che uno prende il nome «da» qualcuno – un antenato, un amico dei genitori, un personaggio famoso – o come se fossero propiziatori, convenienti o caratteristici di un gruppo o di una regione, o indicassero una relazione di parentela, e così via8. In secondo luogo, la duplicazione dei nomi propri in una singola comunità – cioè un insediamento politicamente unificato e compatto – è accuratamente evitatar Questo insediamento (chiamato bandjar, o «villaggio») è il principale gruppo a base personale (face-to-face) all’esterno della sfera puramente domestica della famiglia, e sotto alcuni aspetti è perfino più intimo. Solitamente molto endogamo e sempre fortemente corporato, il villaggio è il mondo balinese dei consociati per eccellenza; e all’interno di esso ogni persona possiede almeno i rudimenti di una identità culturale assolutamente unica, anche se non evidenziato a livello sociale. In terzo luogo, i nomi propri sono monomiali, e quindi non indicano 390
legami familiari o appartenenza a qualche tipo di gruppo. E infine non vi sono (a parte alcune rare eccezioni, e in ogni caso soltanto parziali) nomignoli, non ci sono epiteti del tipo «Riccardo Cuor di Leone» o «Ivan il Terribile» tra la nobiltà, e neppure diminutivi per i bambini, o vezzeggiativi per amanti, coniugi e via dicendo. Quindi, qualunque ruolo abbia l’ordine simbolico di definizione di persona coincidente con il sistema dei nomi propri nel distinguere i balinesi gli uni dagli altri o nell’ordinare i loro rapporti sociali, esso è per sua natura residuale. Il nome è ciò che resta quando tutte le – altre etichette culturali, socialmente molto più rilevanti, attaccate ad una persona vengono tolte. Come indica il fatto virtualmente religioso che si evita di usarlo direttamente, un nome proprio è una faccenda assolutamente privata. A dire il vero, verso la fine della vita di un uomo, quando egli è a un passo dall’essere la divinità che diverrà dopo la sua morte e la sua cremazione, lui solo (o lui e pochi amici ugualmente anziani) possono ormai sapere quale sia di fatto; quando scompare, il suo nome scompare con lui. Nel mondo bene illuminato della vita quotidiana, la parte puramente personale della definizione culturale di un individuo, quella che più completamente e pienamente nel contesto della immediata comunità consociata è sua e sua soltanto, è molto sfumata. E con essa sono sfumati gli aspetti più idiosincratici, puramente biografici e quindi transitori, della, sua esistenza come essere umano (quello che nella nostra prospettiva più egoistica chiamiamo «personalità») a favore di quelli più tipici, più convenzionali e di conseguenza più duraturi.
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4.2. Nomi dell’ordine di nascita Le più elementari tra queste etichette più standardizzate sono quelle affibbiate automaticamente a un bambino, anche se nato morto, al momento della sua nascita, asseconda che sia il primo, secondo, terzo, quarto, o altro membro di un gruppo di fratelli. Vi sono alcune variazioni nell’uso locale e a seconda dei gruppi di status, ma il sistema più comune è di usare Wayan per il primo figlio, Njoman per il secondo, Made (o Nengah) per il terzo e Ktut per il quarto, ricominciando il ciclo con Wayan per il quinto, Njoman per il sesto e così via. Questi nomi di ordine di nascita sono i termini più frequentemente usati con cui si parla e ci si rivolge nel villaggio ai bambini, ai giovanotti e alle ragazze che non hanno ancora avuto prole. Al vocativo, sono usati quasi sempre così come sono, cioè senza l’aggiunta del nome proprio: «Wayan, dammi la zappa» e via dicendo. Quando usati per riferirsi a qualcuno, possono essere integrati dal nome proprio, specialmente se non c’è altro modo per capire di quale tra le dozzine di Wayan e di Njoman del villaggio si tratti: «Non Wayan Rugrug, Wayan Kepig» e così via. I genitori si rivolgono ai propri figli e i fratelli senza figli si chiamano tra di loro quasi esclusivamente con questi nomi, piuttosto che con i nomi propri o quelli di parentela. Per persone che hanno avuto figli, non sono mai usati all’interno della famiglia o fuori, dato che, come vedremo, al loro posto sono usati i tecnonimi, così che i balinesi che arrivano alla maturità senza generare figli (una piccola minoranza) restano loro stessi, in termini culturali, bambini – cioè sono raffigurati simbolicamente come tali – un fatto normalmente molto vergognoso per loro e imbarazzante per 392
i loro consociati, che spesso tentano di evitare del tutto di dover usare i vocativi con loro9. Il sistema dell’ordine di nascita per la definizione della persona rappresenta, perciò, una specie di approccio del tipo plus ça change alla denominazione degli individui. Li distingue infatti secondo quattro appellativi completamente privi di contenuto, che non definiscono vere classi (perché non vi è alcuna realtà concettuale o sociale sotto alla classe di tutti i Wayan o tutti i Ktut di una comunità) né esprimono alcuna caratteristica concreta degli individui a cui si applicano (perché non vi è l’idea che i Wayan abbiano qualche speciale tratto psicologico o spirituale in comune rispetto ai Njoman o gli Ktut). Questi nomi, che non hanno nessun significato letterale di per sé (non sono né numerali né derivati da numerali) non indicano la posizione di fratello o sorella né il rango in qualche modo realistico o attendibile10. Un Wayan può essere il quinto (o il nono!) figlio come il primo; e, considerata la tradizionale struttura demografica contadina – grande fertilità più un alto tasso di figli nati morti e di mortalità infantile – un Made o uno Ktut può essere in effetti il più vecchio di una lunga fila di fratelli e un Wayan il più giovane. Quello che stanno a indicare è che, nonostante tutte le coppie che procreano, le nascite formano una successione circolare di Wayan, Njoman, Made, Ktut e ancora da capo di Wayan, un’infinita riproduzione in quattro fasi di una forma imperitura. Fisicamente gli uomini vanno e vengono come gli esseri effimeri che sono, ma socialmente le dramatis personae rimangono eternamente le stesse, via via che nuovi Wayan e Ktut emergono dal mondo senza tempo degli dei (perché anche i neonati sono solo a un passo di distanza dalla 393
divinità) per sostituire quelli che in esso ancora una volta si dissolvono.
4.3. Termini di parentela Formalmente, la terminologia di parentela balinese è di tipo, molto semplice, essendo della varietà nota tecnicamente come «hawaiana» o «generazionale». In questo tipo di sistema, un individuo classifica i suoi parenti in primo luogo secondo la generazione che essi occupano rispetto alla sua. Vale a dire, i fratelli e le sorelle, i fratellastri e le sorellastre e i cugini e cugine (e i fratelli e le sorelle dei coniugi, e così via) sono raggruppati insieme sotto b tutti gli zii e le zie dell’uno e dell’altro lato sono classificati terminologicamente con la madre e il padre;, tutti i figli dei fratelli, delle sorelle, dei cugini e così via (cioè i nipoti di ogni genere) sono identificati con i propri figli; e così via scendendo per le generazioni dei nipoti e dei pronipoti, e risalendo per quelle dei nonni e dei bisnonni. Per ogni dato attore l’immagine generale è quella di una organizzazione dei parenti come su una torta a strati, dove ogni strato è formato da una diversa generazione di parenti: gli strati dei genitori o dei figli di ego, dei suoi nonni o dei suoi nipoti e così via, con lo strato di ego, quello da cui vengono fatti questi calcoli, collocato esattamente a metà della torta11. Data l’esistenza di questo tipo di sistema, il dato più significativo (e piuttosto insolito) circa il modo in cui esso opera a Bali è che i termini che esso contiene non sono mai usati al vocativo, ma solo come riferimenti alla terza persona, e neppure molto spesso. Con rare eccezioni, uno 394
non chiama il proprio padre (o zio) «padre», il proprio figlio (o nipote, maschio o femmina) «figlio», il proprio fratello (o cugino) «fratello» e via dicendo. Per i parenti genealogicamente più giovani le forme al vocativo non esistono neppure; per i parenti più anziani esistono ma, come con i nomi propri, usarli è sentito come una dimostrazione di mancanza di rispetto per le persone più anziane. Di fatto anche le forme referenziali sono usate solo quando sono richieste specificamente per trasmettere qualche informazione di parentela in quanto tale, quasi mai come mezzi generalmente validi per identificare le persone. I termini di parentela appaiono nel discorso pubblico solo in risposta a qualche domanda o per descrivere qual che avvenimento che si è verificato o deve verificarsi, rispetto al quale l’esistenza di un legame di parentela è sentita, come un’informazione di. rilievo. («Andrai alla limatura dei denti del Padre-di-Regreg?» «Sì, è mio “fratello”».) Pertanto i modi di rivolgersi o di riferirsi all’interno della famiglia non sono più (o molto più) intimi o rivelatori dei legami di parentela di quelli in uso all’interno del villaggio in generale. Non appena un bambino è abbastanza grande per poterlo fare (verso i sei anni circa), egli chiama, suo padre e sua madre con lo stesso termine – un tecnonimo, un titolo del gruppo di status, o un titolo pubblico – che tutti gli altri loro conoscenti usano parlando con loro, ed a sua volta viene chiamato Wayan, Ktut, ecc. da loro. E con certezza ancora maggiore, anch’egli farà riferimento a loro, sia che possano sentirlo o no, con questo termine popolare, extradomestico. In breve, il sistema balinese di terminologia di parentela definisce gli individui con un linguaggio che è in primo 395
luogo tassonomico, non colloquiale, che identifica i parlanti come occupanti regioni in un campo sociale, e non compagni nell’interazione sociale. Esso funziona quasi totalmente come una mappa culturale su cui si possono collocare certe persone e non certe altre, se non fanno parte del paesaggio rappresentato. Naturalmente una volta che sono fatte tali determinazioni, una volta che viene accertato il posto di una persona nella struttura ne derivano alcune nozioni di comportamento interpersonale appropriato. Ma il punto critico è che, nella pratica concreta, la terminologia di parentela viene impiegata quasi solo in funzione dell’accertamento, non del comportamento, il quale viene modellato prevalentemente da altre costruzioni simboliche12. Le norme sociali associate con la parentela, benché abbastanza reali, sono solitamente sopraffatte, anche all’interno dei gruppi formati sulla parentela (famiglie, casate, lignaggi), da norme culturalmente più attrezzate, associate con la religione, la politica e, cosa più fondamentale di tutte, con la stratificazione sociale. Tuttavia, benché abbia un ruolo piuttosto secondario nel plasmare il flusso elementare dell’interazione sociale, il sistema di terminologia parentale, come il sistema dei nomi propri, contribuisce in modo importante, anche se indiretto, al concetto balinese di personalità. Infatti, come sistema di simboli significanti, anch’esso incarna una struttura concettuale sotto la cui azione si possono afferrare gli individui, la propria identità e quella degli altri; una struttura concettuale che è oltre tutto straordinariamente coerente con quelle incarnate negli altri ordini di definizione di persona ancorché diversamente costruiti e differentemente orientati. Anche qui il motivo conduttore è 396
l’immobilizzazione del tempo attraverso l’iterazione della forma. Questa iterazione si compie con una caratteristica della terminologia di parentela balinese che devo ancora menzionare: nella terza generazione prima e dopo quella dell’attore, i termini diventano completamente speculari. Vale a dire il termine per «bisnonno» e quello per «pronipote» è lo stesso: kumpi. Le due generazioni, e gli individui che le rappresentano, sono culturalmente identificati. Simbolicamente, un uomo è equiparato verso l’alto con il più lontano ascendente, verso il basso con il più lontano discendente; è anche probabile che interagisca con essi in quanto persone viventi. Effettivamente questa sorta di terminologia reciproca procede lungo la quarta generazione e anche oltre, ma, poiché è estremamente raro che la vita di un uomo e quella del suo bisnonno (o del suo nipote) si sovrappongano, questa continuazione ha un interesse puramente teorico, e la maggior parte della gente non conosce neppure i termini ad essa attinenti. È l’arco di tempo di quattro generazioni (cioè quella dell’attore più tre ascendenti o discendenti) che è considerato l’ideale realizzabile, l’immagine di una vita pienamente vissuta, come quella dei nostri settant’anni, attorno a cui la terminologia kumpi-kumpi pone, per così dire, un’enfatica parentesi culturale. Questa parentesi è ulteriormente accentuata dai rituali che circondano la morte. Al funerale di una persona, tutti i suoi parenti più giovani devono rendere omaggio al suo spirito alla maniera indù, portando le palme delle mani alla fronte, sia accanto al suo catafalco sia, più tardi, accanto alla sua tomba. Ma quest’obbligo praticamente assoluto (nucleo 397
sacramentale della cerimonia funebre) si interrompe bruscamente con la terza generazione di discendenti, quella dei suoi «nipoti». I suoi «pronipoti» sono i suoi kumpi, come lui è il loro e quindi, come dicono i balinesi, non sono realmente più giovani di lui, ma piuttosto «della stessa età». Come tali, non solo non si richiede loro di rendere omaggio al suo spirito, ma è loro espressamente proibito farlo. Un uomo prega solo gli dei e, ciò che è la stessa cosa, quelli più vecchi di lui, non i suoi eguali o quelli più giovani13. La terminologia di parentela balinese, quindi, non solo divide gli esseri umani in strati generazionali rispetto a un determinato attore, ma piega questi strati in una superficie continua che unisce il «più basso» col «più alto», in modo che forse l’immagine di un cilindro suddiviso in sei fasce parallele, chiamate «se stesso», «genitore», «nonno», «kumpi», «nipote» e «figlio» è più esatta di quella di una torta a strati14. Quella che a prima vista sembra una formulazione diacronica, che sottolinea la progressione incessante delle generazioni, è di fatto un’affermazione della sostanziale irrealtà – o in ogni caso della scarsa importanza – di questa progressione. Il senso di sequenza, di serie di collaterali che si susseguono nel tempo, è un’illusione prodotta dal fatto di guardare tutto il sistema terminologico come se fosse usato per formulare la qualità mutevole delle interazioni faccia a faccia tra un uomo e i suoi parenti via via che invecchia e muore – come invero sono usati molti, se non la maggior parte, di questi sistemi. Quando lo si guarda, come fanno in primo luogo i balinesi, come una tassonomia, basata sul buon senso, dei possibili tipi di rapporti familiari che gli esseri umani possono avere, una classificazione dei parenti in gruppi naturali, è chiaro che le fasce sul cilindro 398
servono a rappresentare l’ordine genealogico dell’anzianità tra le persone viventi e nulla più. Esse raffigurano i rapporti spirituali (e, ciò che è la stessa cosa, strutturali) tra le generazioni coesistenti, non la collocazione delle generazioni successive in un processo storico irripetibile.
4.4. I tecnonimi Se i nomi propri sono trattati come se fossero segreti militari, se i nomi dell’ordine di nascita sono applicati principalmente ai bambini ed ai giovani adolescenti, e i termini di parentela invocati tutt’al più sporadicamente, e soltanto per scopi di specificazione secondaria, allora come si rivolgono l’un l’altro i balinesi e come fanno riferimento alle persone? Per la grande massa dei contadini la risposta è: coi temonimi15. Non appena si dà un nome al primo figlio di una coppia, la gente comincia a rivolgersi a loro ed a parlarne come «padre-di» e «madre-di» Regreg, Pula o qualunque sia il nome del bambino. Essi continueranno ad essere chiamati (ed a chiamare se stessi) così finché non sarà nato il loro primo nipote, nel qual momento si comincerà a rivolgersi ed a riferirsi ad essi come «nonno-di» e «nonna-di» Suda, Lilir o chi altro; ed un passaggio simile avviene se vivono abbastanza per vedere il loro pronipote16. Così nell’arco di tempo «naturale» comprendente quattro generazioni, da kumpi a kumpi, il termine con cui un individuo è conosciuto cambierà tre volte, dapprima quando lui stesso genera un figlio, poi quando lo fa almeno uno dei suoi figli e infine quando lo fa almeno uno dei suoi nipoti. 399
Naturalmente molte, se non la maggior parte, di queste persone non vivono così a lungo né si rivelano così fortunate nella fertilità dei loro discendenti, ed un ampia varietà di fattori diversi interviene a complicare ulteriormente questa immagine semplificata. Ma, tralasciando le sottigliezze, la cosa importante è che noi abbiamo qui un sistema di tecnonimia eccezionalmente elaborato culturalmente ed eccezionalmente influente socialmente. Che impatto ha esso sulle percezioni che l’individuo balinese ha di se stesso e dei suoi conoscenti? Il suo primo effetto è quello di identificare la coppia marito-moglie, come fa nella nostra società l’assunzione da parte della sposa del cognome del marito, con la differenza che qui a produrre l’identificazione non è l’atto del matrimonio, ma quello della procreazione. Simbolicamente, il legame tra marito e moglie è espresso nei termini del loro rapporto comune verso i loro figli, nipoti o pronipoti, non nei termini dell’assorbimento della moglie nella «famiglia» del marito (alla quale essa ad ogni modo appartiene, dato che il matrimonio è fortemente endogamo). Questa coppia marito-moglie (o più esattamente padremadre) ha una grandissima importanza economica, politica e spirituale: è di fatto l’unità costitutiva fondamentale della società. Gli scapoli non possono partecipare al consiglio del villaggio, dove i seggi sono assegnati alle coppie sposate e, con rare eccezioni, solo gli uomini con figli hanno un certo peso in questa sede. (In effetti, in alcuni villaggi, agli uomini non viene neppure assegnato un seggio finché non hanno un figlio.) Lo stesso avviene per i gruppi di discendenza, le organizzazioni volontarie, le società di irrigazione, le congregazioni dei templi e così via. Praticamente in tutte le 400
attività locali, da quella religiosa a quella agricola, la coppia dei genitori partecipa come unità, in cui il maschio adempie a certe funzioni, la femmina ad altre complementari. Legando marito e moglie coll’incorporare il nome di uno dei loro discendenti diretti, nel proprio, la tecnonimia sottolinea sia l’importanza della coppia sposata nella società locale sia l’enorme valore che è attribuito alla procreazione17. Questo valore appare anche, e in modo più esplicito, nella seconda conseguenza culturale dell’uso pervasivo dei tecnonimi, la classificazione degli individui in quelli che si possono chiamare, in mancanza di un termine migliore, strati procreazionali. Dal punto di vista di ogni attore, i suoi compaesani si dividono in persone senza figli, chiamati Wayan, Made, e così via; persone con figli, chiamati «padredi» (o «madre-di»); persone con nipoti, chiamati «nonno di» (o «nonna-di»); e persone con pronipoti, chiamati «bisnonni-di». Ed a questa suddivisione è legata un’immagine generale della natura della gerarchia sociale: le persone senza figli sono minorenni dipendenti; i padri-di sono cittadini attivi che dirigono la vita della comunità; i nonni-di sono anziani rispettati che danno saggi consigli da dietro le quinte; e i bisnonni-di sono anziani dipendenti, già tornati per metà nel mondo degli dei. In ogni singolo caso si devono impiegare vari meccanismi per adattare questa formula un po’ troppo schematica alle realtà pratiche, in modo da permetterle di definire una scala sociale praticabile. Ma con gli opportuni adattamenti è proprio questo che fa, e di conseguenza lo «status procreativo» di un uomo è un elemento importante nella sua identità sociale, sia ai suoi occhi che a quelli di tutti gli altri. A Bali, le fasi della vita umana non sono concepite in termine di processi 401
di invecchiamento biologico, a cui viene prestata scarsa attenzione culturale, ma in termini di rinascita sociale. Quindi non è importante il semplice potere riproduttivo come tale, cioè quanti bambini può generare una persona. Una coppia con dieci figli non è più onorata di una che ne ha cinque, mentre una coppia con un solo figlio, che a sua volta ne abbia procreato un altro, anche uno soltanto, le supera entrambe in rango. Ciò che conta è la continuità riproduttiva, la conservazione della capacità della comunità a perpetuarsi così com’è, un fatto che viene messo bene in luce dal terzo risultato della tecnonimia, la designazione di catene procreative. Il modo in cui la tecnonimia balinese definisce queste catene lo si può vedere dal diagramma nella figura 1. Per semplicità ho mostrato solo i tecnonimi maschi ed ho usato nomi inglesi per la generazione di riferimento. Ho anche costruito il modello in modo da sottolineare il fatto che l’usanza dei tecnonimi riflette l’età in assoluto e non l’ordine genealogico (o il sesso) dei discendenti eponimi. Come indica la figura 1, la tecnonimia non definisce solo gli status procreativi ma anche le sequenze specifiche di questi status per due, tre, o quattro (molto, molto occasionalmente cinque) generazioni. Quali particolari sequenze siano tracciate è ampiamente casuale: se Mary fosse nata prima di Joe, o Don prima di Mary, tutto l’allineamento sarebbe stato alterato. Ma benché i particolari individui presi come referenti, e quindi le particolari sequenze di filiazione che ricevono un riconoscimento simbolico, siano una faccenda arbitraria e con scarse conseguenze, il fatto che tali sequenze vengano tracciate mette in rilievo un fattore importante circa l’identità 402
personale dei balinesi: un individuo non è percepito nel contesto di chi erano i suoi antenati (,questo, dato il velo culturale che avvolge i defunti, non è neppure noto), ma piuttosto nel contesto di coloro rispetto ai quali egli è un antenato. Uno non viene definito, come in molte società del mondo, nei termini di chi l’ha prodotto, di un qualche fondatore più o meno lontano, più o meno famoso, della propria linea genealogica, ma nei termini di chi egli ha generato, un individuo specifico, nella maggior parte dei casi ancora vivente, un individuo che è per metà il proprio figlio, nipote o pronipote, il legame col quale viene tracciato attraverso una serie particolare di nessi procreativi18. Quello che lega il «bisnonno-di-Joe», il «nonno-di-Joe» e il «padredi-Joe» è il fatto che, in un certo senso, .essi abbiano collaborato a produrre Joe: vale a dire a sostenere il metabolismo sociale della gente balinese in generale e del loro villaggio in particolare. Di nuovo, quella che sembra la celebrazione di un processo temporale è in effetti una celebrazione del mantenimento di quello che, appropriandosi di un termine della fisica, Gregory Bateson ha appropriatamente chiamato «stato stazionario»19. In questa specie di regime tecnonimico, l’intera popolazione è classificata nei termini del suo rapporto con e dalla sua rappresentazione in quella sottoclasse della popolazione nelle cui mani si trova ora più immediatamente la rinascita sociale – la coorte a venire di possibili genitori. Sotto questo aspetto, anche la condizione umana più saturata dal tempo, quella di bisnonno, appare solo come componente di un presente imperituro.
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Nota: Mary è più vecchia di Don; Joe è più vecchio di Mary, Jane e Don. Le età relative di tutte le altre persone, salvo naturalmente il fatto che siano ascendenti e discendenti, sono irrilevanti rispetto alla tecnonimia. Fig. 1. La tecnonimia balinese.
4.5. Titoli di status In teoria, tutti (o quasi tutti) a Bali hanno un titolo – Ida Bagus, Gusti, Pasek, Bauh e via dicendo – che pone ciascuno su un particolare gradino di una scala di status che comprende tutta Bali; ogni titolo rappresenta un grado specifico di superiorità o di inferiorità culturale rispetto a ciascuno ed a ogni altro, così che l’intera popolazione è classificata in una serie di caste uniformemente graduate. Di 404
fatto, come hanno scoperto quelli che hanno tentato di analizzare il sistema in questi termini, la situazione è molto più complessa. Non è semplicemente che paesani di basso rango sostengano che essi (o i loro genitori) hanno in qualche modo «dimenticato» quelli che sono i loro titoli; né che vi siano vistose incongruenze nella graduatoria dei titoli da un luogo all’altro, a volte perfino da informatore a informatore; né che, nonostante la loro base ereditaria, vi siano dei modi per cambiare i titoli. Questi sono solo particolari (non privi di interesse) riguardanti il funzionamento del sistema nella vita quotidiana. Quello che è importante è che i titoli di status non sono collegati affatto ai gruppi, ma solo agli individui20. A Bali lo status, o almeno quel tipo di status che è determinato dai titoli, è una caratteristica personale, è indipendente da qualunque fattore inerente la struttura sociale. Naturalmente ha importanti conseguenze pratiche, che sono organizzate ed espresse attraverso un’ampia gamma di istituzioni sociali, dai gruppi di parentela alle istituzioni governative. Ma essere un Dewa, un Pulosari, un Pring o un Maspadan fondamentalmente significa solo aver ereditato il diritto di portare quel titolo e di esigere i pubblici pegni di deferenza ad esso associati: non significa avere alcun ruolo particolare, appartenere ad alcun gruppo particolare, né occupare alcuna particolare posizione economica, politica o sacerdotale. Il sistema dei titoli di status è un sistema basato sul puro prestigio. Dal titolo di un uomo sapete esattamente, considerando il vostro, quale atteggiamento dovreste tenere nei suoi confronti, e lui verso di voi, praticamente in ogni 405
contesto della vita pubblica, indipendentemente da quali altri legami sociali esistano tra di voi e qualunque cosa possiate pensare di lui come uomo. L’etichetta balinese è molto elaborata e controlla rigorosamente la superficie esteriore del comportamento sociale, praticamente per tutto l’arco della vita quotidiana. Lo stile del discorso, la posa, il vestire, il mangiare, il matrimonio, perfino la costruzione della casa, il luogo di sepoltura e le modalità della cremazione sono modellati nei termini di un preciso codice di comportamento che non nasce tanto da una passione per l’eleganza sociale come tale quanto da alcune considerazioni metafisiche di respiro piuttosto ampio. ILtipo di disuguaglianza umana incorporato nel sistema dei titoli di status e nel sistema di etichetta che lo esprime non è né morale, né economico, né politico – è religioso. Questa ineguaglianza non è altro che il riflesso nell’interazione quotidiana dell’ordine divino, e nella misura in cui si ritiene che tale interazione debba essere plasmata a partire da quell’ordine, essa si configura come una forma di rituale. Il titolo di un uomo non segnala la sua ricchezza, il suo potere e neppure la sua reputazione morale: segnala invece la sua composizione spirituale; e lo scarto tra questa e la sua posizione mondana può essere enorme. Alcuni dei maggiori agitatori e mestatori a Bali sono tra quelli avvicinati più rudemente, mentre alcuni di quelli trattati con maggiori attenzioni sono i meno rispettati. Sarebbe difficile immaginare qualcosa di più lontano dallo spirito balinese del commento di Machiavelli che non sono i titoli che riflettono onore sugli uomini, ma piuttosto gli uomini sui loro titoli.
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In teoria – la teoria balinese – tutti i titoli provengono dagli dei. Ciascuno di essi è stato trasmesso, non sempre senza alterazioni, di padre in figlio, come un sacro retaggio, e la differenza nel valore di prestigio dei diversi titoli è il risultato del grado variabile in cui gli uomini da essi investiti hanno osservato i patti spirituali in essi incorporati. Portare un, titolo significa acconsentire, almeno implicitamente, a rispettare i parametri di azione divini, o almeno ad avvicinarvisi, e non tutti gli uomini sono stati capaci di farlo nella stessa misura. Il risultato è lo sfasamento esistente tra il rango dei titoli e quello di coloro che li portano. Lo status culturale, in quanto opposto alla posizione sociale, è qui ancora una volta il riflesso della distanza dalla divinità. Associati con praticamente ogni titolo, vi sono uno o una serie di avvenimenti leggendari, di natura molto concreta, riferiti a qualche errore spiritualmente significativo compiuto da questo o quel detentore del titolo. Queste offese – è difficile chiamarle peccati – specificano, a quanto si crede, il grado in cui il titolo ha perduto di valore, la misura della sua distanza da uno status pienamente trascendente e quindi fissano, almeno genericamente, la sua posizione nella scala generale del prestigio. Particolari (anche se mitiche) migrazioni geografiche, matrimoni tra titoli incrociati, insuccessi militari, infrazioni all’etichetta del lutto, negligenze rituali e simili si ritiene che abbiano abbassato il titolo in maggiore o minore misura; maggiore per i titoli inferiori, minore per quelli superiori. Tuttavia, nonostante le apparenze, questo deterioramento diseguale non è, nella sua essenza, né un fenomeno storico né un fenomeno morale. Non è morale, perché gli eventi che si ritiene lo abbiano causato non sono per la maggior parte 407
quelli contro cui si esprimerebbe normalmente un giudizio etico negativo, a Bali non più che altrove, mentre le vere colpe morali (crudeltà, tradimento, disonestà, dissolutezza) danneggiano solo le reputazioni, che escono di scena coi loro possessori, non i titoli che restano. Non è storico, perché questi avvenimenti, fatti isolati di un tempo che fu, non sono evocati come cause di realtà presenti, ma come affermazioni circa la loro natura. Il fatto importante relativo agli eventi che sminuiscono il titolo non è che siano avvenuti nel passato, e nemmeno che siano accaduti, ma che sono sminuenti. Essi non rappresentano i processi che hanno dato vita allo stato di cose esistente, e neppure esprimono un qualche giudizio morale su di esso (i balinesi non mostrano molto interesse per nessuno di questi due esercizi intellettuali): sono invece immagini del rapporto di base tra la forma della società umana e il modello divino di cui essa è, per la natura stessa delle cose, un’espressione imperfetta – più imperfetta in alcuni punti che in altri. Ma se, dopo tutto quello che è stato detto sull’autonomia del sistema dei titoli, si ritiene che esista un tale rapporto tra modelli cosmici e forme sociali, come lo si concepisce esattamente? Come si può collegare il sistema dei titoli, basato esclusivamente su concezioni religiose, su teorie delle differenze intrinseche di valore spirituale tra i singoli uomini, con quelle che, guardando la società dall’esterno, chiameremmo le «realtà» del potere, dell’influenza, della ricchezza, della reputazione e così via, implicite nella divisione sociale del lavoro? Come si inserisce, in breve, l’ordine effettivo dell’autorità sociale in un sistema gerarchico di prestigio interamente indipendente da esso, così da spiegare e sostenere la correlazione vaga e generica 408
che di fatto esiste fra di essi? La risposta è: eseguendo ingegnosamente una specie di gioco di destrezza con una famosa istituzione culturale importata dall’India e adattata ai gusti locali, il sistema Varna. Per mezzo del sistema Varna i balinesi modellano una collezione di etichette di status molto disordinata dando ad essa una forma assai semplice rappresentata come se scaturisse naturalmente fuori da questa collezione, ma di fatto imposta arbitrariamente. Come in India, il sistema Varna consiste in quattro grandi categorie: Brahmana, Satria, Wesia e Sudra, collocate in ordine di prestigio discendente; le prime tre (chiamate a Bali Triwangsa – «i tre popoli») definiscono un patriziato spirituale contrapposto alla quarta categoria plebea. Ma.a Bali il sistema Varna non è di per sé un espediente culturale per creare delle distinzioni di status, bensì uno strumento per organizzare quelle già create dal sistema dei titoli. Esso traduce i sottili confronti, letteralmente infiniti, impliciti in quel sistema, in una separazione netta (sotto qualche aspetto anche troppo netta) delle pecore dalle capre, e delle pecore di prima qualità da quelle di seconda, di quelle di seconda da quelle di terza21. Gli uomini non si percepiscono a vicenda come Satria o Sudra ma come, ad esempio, Dewa o Kebun Tubuh, semplicemente usando la distinzione SatriaSudra per esprimere genericamente, e per scopi di organizzazione sociale, il tipo di opposizione che comporta l’identificare Dewa come titolo Satria e Kebun Tubuh come Sudra. Le categorie Varna sono etichette applicate non. agli uomini, ma ai titoli che portano; esse esprimono la struttura del sistema del prestigio; i titoli, d’altro canto, sono etichette applicate ai singoli individui: essi collocano le persone entro quella struttura. Nella misura in cui la classificazione Varna 409
dei titoli è coerente con l’effettiva distribuzione del potere, ricchezza e stima nella società – cioè col sistema di stratificazione sociale –la società è considerata ben ordinata. I tipi giusti di uomini sono ai tipi giusti di posti – il valore spirituale e il livello sociale coincidono. Questa differenza di funzione tra titolo e Varna risulta chiara dal modo in cui si usano effettivamente le forme simboliche ad essi associate. Tra la nobiltà Triwangsa dove, a parte alcune eccezioni, la tecnonimia non viene impiegata, il titolo di un individuo viene usato come principale termine per indirizzarsi o riferirsi a lui. Si chiama un uomo Ida Bagus, Njakan o Gusi (non Brahmana, Satria o Wesia) e si fa riferimento a lui con gli stessi termini, aggiungendo a volte un nome di ordine di nascita per una più esatta specificazione (Ida Bagus Made, Njakan Njoman e così via). Tra i Sudra, i titoli sono usati solo alla terza persona, mai al vocativo, e prevalentemente con riferimento ai membri di un villaggio diverso dal proprio, dove può essere che il tecnonimo della persona non sia conosciuto, oppure, se conosciuto, considerato di tono troppo familiare per essere usato da qualcuno che non sia un compaesano. All’interno del villaggio, l’uso dei titoli Sudra alla terza persona occorre solo quando l’informazione sullo status di prestigio è considerata rilevante («il padre-di-Joe è un Kedisan, e quindi inferiore a noi Pande», e così via), mentre ci si rivolge direttamente in termini di tecnonimi. Oltre i confini del villaggio, dove, tranne che tra amici intimi, i tecnonimi vengono abbandonati, il termine più comune di indirizzo è Djero. Letteralmente significa «interno» o «abitante dell’interno», quindi un membro dei Triwangsa, che sono ritenuti l’«interno», in contrapposizione ai Sudra, che sono 410
«l’esterno» (Djaba); ma in questo contesto significa: «Allo scopo di essere cortese, mi sto rivolgendo a te come se fossi un Triwangsa, cosa che non sei (se tu lo fossi, ti chiamerei col titolo che ti spetta) ed io mi aspetto la stessa finzione da te in cambio». Come per i termini Varna, essi sono usati, sia dai Triwangsa che dai Sudra, solo nel concettualizzare la gerarchia di prestigio in termini generali, una necessità che di solito si manifesta in connessione con questioni politiche, sacerdotali o relative alla stratificazione tra villaggi diversi. «I re di Klungkung sono Satria, ma quelli di Tabanan sono Wesia» – oppure – «ci sono molti ricchi bramini a Sanur, e questo è il motivo per cui i Sudra laggiù hanno così poco da dire sulle questioni del villaggio», e così via. Il sistema Varna compie quindi due funzioni. Collega una serie di distinzioni di prestigio che sembrano essere ad hoc ed arbitrarie – i titoli – con l’induismo, o con la versione balinese dell’induismo, radicandole così in una concezione generale del mondo. Inoltre interpreta le conseguenze di quella concezione del mondo, e perciò i titoli, per l’organizzazione sociale: i gradienti di prestigio impliciti nel sistema dei titoli si dovrebbero riflettere nell’effettiva distribuzione della ricchezza, del potere e della stima nella società, e di fatto coincidere completamente con essa. Naturalmente la misura in cui tale coincidenza si verifica nella realtà è assai modesta, ma, per quante eccezioni vi possano essere alla regola (i Sudra con enorme potere, i Satria che lavorano come fittavoli, i bramini né stimati né meritevoli di stima), è la regola e non le eccezioni che i balinesi ritengono veramente illuminante circa la condizione umana. Il sistema Varna ordina il sistema dei titoli in modo, tale da rendere possibile considerare la vita sociale sotto 411
l’aspetto di un insieme generale di nozioni cosmologiche: nozioni in cui la diversità del talento umano e le dinamiche dei processi storici sono considerate fenomeni superficiali, se confrontate con la collocazione delle persone in un sistema di categorie di status standardizzate, tanto indifferenti al carattere individuale quanto sono immortali.
4.6. Titoli pubblici Quest’ultimo ordine simbolico di definizione di persona è in superficie quello che maggiormente ricorda uno dei nostri modi più importanti di caratterizzare e identificare gli individui22. Anche noi spesso (troppo spesso, forse) vediamo le persone attraverso il filtro di categorie occupazionali – non solo come se praticassero questa o quella professione, ma come se fossero veramente pervasi fisicamente dalla qualità di postino, camionista, politico o venditore.. La funzione sociale serve da veicolo simbolico attraverso cui si percepisce l’identità personale: gli uomini sono quello che fanno. La somiglianza, tuttavia, è soltanto apparente. Posta nel contesto di un complesso diverso di idee sull’essenza dell’identità, collocata sullo sfondo di una diversa concezione filosofico-religiosa di ciò in cui consiste il mondo, ed espressa in termini di una serie diversa di dispositivi culturali – i titoli pubblici – che le rappresentano, l’idea balinese del rapporto tra ruolo sociale e identità personale attribuisce una declinazione completamente diversa al significato ideografico di quello che noi
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chiamiamo occupazione e che i balinesi chiamano linggih, «posto», «posto a sedere», «posto per dormire». Questa nozione di «posto a sedere» si basa sull’esistenza, nel pensiero e nella pratica balinese, di una distinzione molto netta tra il settore civico e quello domestico della società. Il confine tra la sfera pubblica della vita e quella privata è tracciato molto chiaramente, sia nei concetti sia nelle istituzioni. Ad ogni livello, dal villaggio al palazzo reale, le questioni di interesse generale sono nettamente divise ed accuratamente isolate da quelle di interesse individuale o familiare, e non è permesso che interferiscano come accade in tante altre società. Il senso balinese del pubblico come entità corporata avente scopi ed interessi suoi propri è fortemente sviluppato. Ad ogni livello, essere gravato di speciali responsabilità riguardo à quegli interessi e quegli scopi significa essere distinto dal complesso dei propri simili che non sono così gravati, ed è questo speciale status che viene espresso dai titoli pubblici. Allo stesso tempo, benché i balinesi concepiscano il settore pubblico della società come limitato ed autonomo, non ritengono che esso formi un insieme indifferenziato e neppure un insieme: lo vedono piuttosto come formato da un certo numero di campi separati, discontinui e a volte anche competitivi, ciascuno autosufficiente, circoscritto, geloso dei propri diritti e basato sui propri principi organizzativi. I più importanti di questi settori sono: il villaggio come comunità politica corporata; il tempio locale come entità religiosa corporata, una congregazione; la società per l’irrigazione come entità agricola corporata e, al di sopra di questi, le strutture del governo e del culto regionali – vale a 413
dire, al livello superiore dei villaggi – imperniate sulla nobiltà e l’alto sacerdozio. Una descrizione di questi vari campi o settori pubblici comporterebbe un’analisi estesa della struttura sociale balinese che sarebbe fuori luogo in questo contesto23. Quello che va ricordato qui è che, associati con ciascuno di essi, vi sono funzionari responsabili – forse sovrintendenti è un termine migliore – che di conseguenza portano titoli particolari: Klian, Perbekel, Pekaseh, Pemangku, Anak Agung, Tjakorda, Dewa Agung, Pedanda e così via fino a cinquanta o forse più. E a questi uomini (una frazione piccolissima della popolazione complessiva) ci si rivolge e si fa riferimento con questi titoli ufficiali – a volte combinati con i nomi dell’ordine di nascita, i titoli di status o, nel caso dei Sudra, i tecnonimi, per fini di specificazione secondaria24. I vari «capi del villaggio» e «sacerdoti popolari» a livello dei Sudra, e, a quello dei Triwangsa, la schiera di «re», «principi», «signori» ed «alti sacerdoti», non occupano semplicemente un ruolo: agli occhi loro e di quelli che li circondano essi ne vengono assorbiti. Sono uomini realmente pubblici, uomini per i quali gli altri aspetti della personalità – il carattere individuale, l’ordine di nascita, i rapporti di parentela, lo status procreativo e il rango di prestigio – assumono, almeno simbolicamente, una posizione secondaria. Concentrandoci sui tratti psicologici come fulcro dell’identità personale, noi diremmo che hanno sacrificato la propria identità vera al loro ruolo; focalizzandoci sulla posizione sociale, diremmo che il loro ruolo fa parte dell’essenza delle loro vere identità. L accesso a questi ruoli che comportano un titolo pubblico è strettamente connesso al sistema dei titoli di 414
status e della sua organizzazione in categorie Varna – connessione effettuate per mezzo di quella che si potrebbe chiamare la «dottrina dell eleggibilità spirituale». Questa dottrina afferma che i «posti» politici e religiosi di significato sovralocale – regionale o dell’intera Bali – devono essere occupati solo dai Triwangsa, mentre quelli di importanza locale dovrebbero essere appropriatamente nelle mani dei Sudra. Ai livelli superiori la dottrina e rigida: solo i Satria – vale a dire gli uomini che portano titoli ritenuti di rango satria, possono essere re o grandi principi, soltanto i Wesia o i Satria signori o principi minori; soltanto i bramini grandi sacerdoti, e così via. Ai livelli inferiori è meno rigida, ma è saldo il concetto che i capi dei villaggi, i direttori delle società per l’irrigazione e i sacerdoti popolari dovrebbero essere Sudra – che i Triwangsa cioè dovrebbero stare ai loro posti. In entrambi i casi, tuttavia, la stragrande maggioranza di persone che portano titoli di status della categoria Varna o di categorie teoricamente eleggibili per i ruoli di sovraintendenti a cui sono connessi i titoli pubblici, non hanno questi ruoli né è probabile che li ottengano. Al livello dei Triwangsa, l’accesso è ampiamente ereditario, perfino primogeniturale, e viene fatta una netta distinzione tra il gruppetto di individui che «possiedono il potere» e la vasta maggioranza della nobiltà che non lo detiene. Al livello dei Sudra, l’accesso agli uffici pubblici è più spesso elettivo, ma il numero di uomini che hanno la possibilità di essere impiegati è ancora abbastanza limitato. Lo status di prestigio decide che tipo di ruolo pubblico si può presumere di occupare: se questo ruolo lo si occupa oppure no, è tutt’altra faccenda.
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Tuttavia, a causa della correlazione generale tra status di prestigio ed ufficio pubblico prodotta dalla dottrina dell’eleggibilità spirituale, l’ordine dell’autorità politica ed ecclesiastica nella società è agganciato all’idea generale secondo cui l’ordine sociale riflette vagamente, e dovrebbe rifletterlo chiaramente, l’ordine metafisico; e, oltre a ciò, l’identità personale dovrebbe essere definita non in termini di questioni così superficiali, puramente umane, come l’età, il sesso, il talento, il carattere o il successo – cioè, biograficamente – ma in termini di collocazione in una gerarchia spirituale generale (cioè tipologicamente). Come tutti gli altri ordini simbolici di definizione di persona, quello prodotto dai titoli pubblici consiste nella formulazione, riferita a diversi contesti sociali, di un assunto di fondo: ciò che conta non è ciò che l’uomo è in quanto uomo (come diremmo noi), ma dove si colloca in una serie di categorie culturali che non solo non mutano ma, essendo transumane, non possono mutare. Ed anche qui queste categorie si elevano verso la divinità (o con la stessa accuratezza ne discendono), e la loro capacità di neutralizzare il carattere ed annullare il tempo aumenta col passaggio da un grado all’altro. Non solo i titoli pubblici di livello superiore portati da esseri umani si stemperano gradualmente in quelli portati dagli dei, divenendo all’apice identici a questi, ma al livello degli dei non resta letteralmente nulla dell’identità, tranne il titolo stesso. A tutti gli dei ed a tutte le dee ci si rivolge e ci si riferisce o come Dewa (femminile Dewi) o, per quelli di rango superiore, come Betara (femminile Betari). In alcuni casi questi appellativi generici sono seguiti da altri più specifici: Betara Guru, Dewi Sri e così via. Ma anche le 416
divinità con nomi tanto ‘specifici non sono ritenute in possesso di personalità distinte: si pensa semplicemente che siano responsabili, dal punto di vista amministrativo per così dire, della regolazione di certe questioni di significato cosmico: la fertilità, il potere, il sapere, la morte e via dicendo. Nella maggior parte dei casi i balinesi non sanno, e non vogliono sapere, quali dei e dee siano quelli adorati nei loro vari templi (ce n’è sempre una coppia, un maschio e una femmina) ma li chiamano semplicemente «Dewa (Dewi) Pura tal dei tali» – dio (o dea) del tempio tal dei tali. A differenza degli antichi greci e romani, il balinese medio mostra scarso interesse per le azioni dettagliate degli dei particolari, o per le loro motivazioni, la loro personalità o la loro storia individuale. Riguardo a tali questioni si mantiene la stessa circospezione e correttezza che si ha per questioni simili concernenti le persone più anziane ed i superiori in genere25. Il mondo degli dei è, in conclusione, solo un’altra sfera pubblica, trascendente tutte le altre e pervasa da un ethos che gli altri cercano di incarnare in se stessi, nell’ambito delle proprie capacità. Gli interessi di questa sfera si trovano a livello cosmico piuttosto che politico, economico o rituale (cioè umano), e i suoi sovraintendenti sono uomini senza caratteristiche, individui rispetto ai quali gli indici abituali dell’umanità peritura non hanno alcun significato. Le icone quasi senza volto, rese del tutto convenzionali, immutabili, con cui divinità senza nome, conosciute solo col loro titolo, sono, anno dopo anno, rappresentate nelle migliaia di festività dei templi nell’isola, sono l’espressione più pura del concetto balinese di personalità. Genuflettendosi a loro (o più esattamente agli dei che momentaneamente risiedono in 417
esse), i balinesi non riconoscono solo il potere divino, ma si raffrontano all’immagine di ciò che essi ritengono in fondo di essere: un immagine che le contingenze biologiche, psicologiche e sociologiche dell’essere vivi, semplici materializzazioni del tempo storico, tendono solo ad oscurare.
5. Un triangolo culturale di forze Sono molti i modi in cui gli uomini sono resi consapevoli, o meglio si rendono consapevoli, del passare del tempo: segnando il mutamento delle stagioni, le variazioni della luna, o il progredire della vita vegetale; stabilendo un ciclo ritmato dei riti, del lavoro agricolo, o delle attività domestiche; preparando e programmando atti da compiere e memorizzando e valutando gli atti compiuti; preservando le genealogie, recitando leggende, formulando profezie. Ma sicuramente il modo più importante sta nel riconoscimento in se stessi e nei propri simili del processo di invecchiamento biologico, la nascita, la maturazione, il decadimento e la scomparsa degli individui concreti. La visione di questo processo influenza quindi, e profondamente, l’esperienza del tempo. Tra la concezione di un popolo relativa a cosa significhi essere una persona e la sua concezione della struttura della storia vi è un legame interiore che non si può spezzare. Ora, come ho messo in rilievo, la cosa che più colpisce nei modelli culturali in cui si incarnano le nozioni balinesi di identità personale è il grado in cui esse raffigurano praticamente tutti – amici, parenti, vicini ed estranei; vecchi 418
e giovani; superiori ed inferiori; uomini e donne; capi, re, sacerdoti e dei; perfino i morti e quelli non nati – come contemporanei stereotipati, consimili astratti ed anonimi. Ciascuno degli ordini simbolici di definizione di persona – dai nomi tenuti segreti ai titoli ostentati – contribuisce a sottolineare e rafforzare la standardizzazione, l’idealizzazione e la generalizzazione implicite nel rapporto tra individui il cui legame principale consiste nel fatto casuale di essere vivi nello stesso momento, mentre contribuisce ad attenuare o dissimulare la standardizzazione, l’idealizzazione e la generalizzazione implicite nel rapporto tra consociati (uomini intimamente coinvolti nelle reciproche biografie) o tra predecessori e successori (uomini che stanno l’uno rispetto all’altro come il testatore cieco e l’erede ignaro). Naturalmente le persone di Bali sono direttamente, e talvolta profondamente, coinvolte nella vita gli uni degli altri; sentono veramente che il loro mondo è stato plasmato dalle azioni di quelli che sono venuti prima di loro ed orientano le loro azioni al fine di plasmare il mondo di quelli che verranno dopo di loro. Ma non sono questi aspetti della loro esistenza come persone – la loro immediatezza e individualità o il loro speciale, irripetibile impatto sul flusso degli avvenimenti storici – ad essere culturalmente accentuati, simbolicamente enfatizzati: è il loro posizionamento sociale, la loro collocazione particolare entro un ordine metafisico persistente, a ben vedere eterno26. L’illuminante paradosso delle formulazioni balinesi della personalità è che esse sono – nei nostri termini comunque – spersonalizzanti. In questo modo i balinesi sminuiscono, benché naturalmente non possano cancellarle, tre delle più 419
importanti fonti del senso di temporalità: la percezione dei propri compagni (e di se stessi con loro) come continuamente morenti; la consapevolezza del peso con cui le vite terminate dei morti gravano sulle vite incomplete dei vivi; e l’apprezzamento dell impatto potenziale sui non ancora nati delle azioni che vengono intraprese adesso. I consociati, quando si incontrano, si confrontano e si captano in un presente immediato, un «adesso» sinottico e, così facendo, sperimentano quanto sia sfuggente ed effimero questo «adesso», mentre scivola via nel flusso incalzante dell’interazione faccia a faccia. Per ogni membro, il corpo dell’altro, i suoi gesti, il suo portamento e le sue espressioni facciali, sono immediatamente osservabili, non semplicemente come cose o eventi del mondo esterno ma nel loro significato fisiognomico, cioè come sintomi dei pensieri dell’altro […]. Ogni membro partecipa allo scorrere della vita dell’altro, può afferrare in un vivido presente i pensieri dell’altro così come essi si costituiscono di momento in momento. Essi possono così condividere le anticipazioni del futuro come progetti, o speranze, o ansie da parte dell’altro […] essi sono reciprocamente coinvolti l’uno nella biografia dell’altro; essi diventano vecchi insieme27.
Per quanto riguarda i predecessori ed i successori, separati da un abisso materiale, essi si percepiscono in termini di origini e di esiti, e, così facendo, sperimentano la «cronologicità» propria degli avvenimenti, il progresso lineare del tempo standard, transpersonale: il tempo che si può misurare con orologi e calendari28. Nel minimizzare culturalmente tutte e tre queste esperienze – quella del presente evanescente evocata dall’intimità dei consociati; quella del passato determinante, evocata dal pensiero rivolto ai predecessori; e quella del futuro plasmabile evocata dalla anticipazione dei successori – in favore del senso di pura simultaneità generato 420
dall’incontro anonimo dei semplici contemporanei, i balinesi producono ancora un secondo paradosso. Collegata alla loro spersonalizzante concezione della personalità, vi è una concezione detemporalizzante (di nuovo dal nostro punto di vista) del tempo.
5.1. I calendari tassonomici e il tempo puntuale Le concezioni balinesi del calendario – il loro apparato culturale per la demarcazione di unità temporali – riflettono chiaramente ciò; infatti esse sono ampiamente usate non per misurare il fluire del tempo, e neppure per accentuare l’unicità e l’irripetibilità dell’attimo fuggente, ma per contrassegnare e classificare le modalità qualitative nei cui termini il tempo si manifesta nell’esperienza umana. Il calendario balinese (o meglio i calendari; come vedremo, ce ne sono due) suddivide il tempo in unità definite non per contarle e sommarle, ma per descriverle e caratterizzarle, per esprimere il loro diverso significato sociale, intellettuale e religioso29. I due calendari usati dai balinesi sono uno lunare-solare e l’altro costruito intorno all’interazione di cicli indipendenti di nomi dei giorni, che chiamerò «permutazionale». Il calendario permutazionale è di gran lunga il più importante. Esso è formato da dieci cicli diversi di nomi dei giorni; e questi cicli hanno varie lunghezze. Il più lungo contiene dieci nomi di giorni che si susseguono in un ordine fisso, dopo il quale riappare il primo nome del giorno ed il ciclo ricomincia. Allo stesso modo, vi sono cicli di nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due e perfino di un solo nome 421
di giorno – l’ultimo di una visione del tempo «contemporaneizzata». Anche i nomi in ciascun ciclo sono differenti, ed i cicli scorrono in concomitanza, cioè ogni dato giorno ha, almeno in teoria, dieci nomi differenti, che provengono singolarmente dai dieci cicli. Tuttavia, dei dieci cicli solo quelli che contengono cinque, sei o sette nomi di giorni sono di grande importanza culturale, benché il ciclo dei tre nomi sia usato per definire la settimana del mercato ed abbia un ruolo nel fissare certi rituali minori, come la cerimonia per l’attribuzione del nome proprio già menzionata. Ora, l’interazione di questi tre cicli principali – quello di cinque, di sei, di sette – fa sì che un dato giorno designato trinominalmente (cioè un giorno con una particolare combinazione di nomi da tutti i tre cicli) apparirà una volta ogni 210 giorni, il semplice prodotto di cinque, sei e sette. Interazioni simili tra i cicli dei cinque e dei sette nomi producono giorni designati binominalmente, che ritornano ogni 35 giorni; interazioni tra cicli di sei e sette danno luogo a giorni designati binominalmente che cadono ogni 42 giorni; e interazioni tra cicli di sei e cinque determinano giorni designati binominalmente che appaiono ad intervalli di 30 giorni. Le congiunzioni definite da ciascuna di queste quattro periodicità, per così dire supercicli (ma non le periodicità stesse), sono considerate non solo socialmente significative, ma anche riflettenti, in un modo o nell’altro, la struttura stessa della realtà. Il risultato di tutto questo computo (rotelline che girano entro ingranaggi più grandi) è una visione del tempo consistente in serie ordinate di 30, 35, 42 o 210 unità («giorni»), ognuna delle quali ha un particolare significato 422
qualitativo di qualche tipo indicato dal suo nome trinomiale o binomiale (abbastanza simile alla nostra idea della sfortuna del venerdì 13). Per identificare un giorno nella serie dei 42 – e stabilirne così il significato pratico e/o religioso – occorre determinarne la collocazione, cioè il nome nel ciclo dei sei giorni (diciamo, Ariang) e in quello di sette (diciamo, Boda): il giorno è Boda-Ariang, e uno regola le proprie azioni di conseguenza. Per identificare un giorno nella serie dei 35, occorre la sua collocazione e il suo nome nel ciclo dei cinque nomi (per esempio Klion) e in quello di sette; ad esempio, Boda-Klion – questo è il rainan, il giorno in cui si devono esporre piccole offerte in vari luoghi per «nutrire» gli dei. Per la serie dei 210 giorni, una determinazione unica richiede nomi da tutte e tre le settimane; per esempio Boda-Anang-Khon, che è il giorno in cui si celebra la più importante festa balinese, il Galungan30. Dettagli a parte, la natura del calcolo del tempo che questo tipo di calendario facilita è tale, chiaramente, da privilegiare non la durata, ma l’esattezza, la puntualità. Cioè, esso non viene usato (e potrebbe esserlo solo con molta difficoltà e con l’aggiunta di alcuni espedienti ausiliari) per misurare la scansione del tempo, quanto ne è trascorso da quando è accaduto un qualche avvenimento, o quanto ne resta per completare qualche progetto; è invece adatto ed usato per distinguere e classificare particelle di tempo discrete e autosufficienti – i «giorni». I cicli e i supercicli sono infiniti, disancorati, impossibili da contare, e senza un momento culminante, dato che il loro ordine interno non ha nessun significato. Essi non accumulano, non costruiscono e non sono consumati. Non vi dicono che giorno è: vi dicono che tipo di giorno è31. 423
L’uso del calendario permutazionale si estende praticamente a tutti gli aspetti della vita balinese. In primo luogo determina (con una sola eccezione) tutte le feste – vale a dire le celebrazioni generali della comunità – che Goris ha dimostrato essere 32 in tutto, in media circa un giorno su sette32. Queste tuttavia non compaiono in un ritmo generale percepibile. Se cominciamo arbitrariamente con RaditéTungleh-Paing inteso come «uno», le feste compaiono nei giorni numerati con 1, 2, 3, 4, 14, 15, 24, 49, 51, 68, 69, 71, 72, 73, 74, 77, 78, 79, 81, 83, 84, 85, 109, 119, 125, 154, 183, 189, 193, 196, 205, 21033. Il risultato di questo tipo di ricorrenza spasmodica di festività, grandi e piccole, è una percezione del tempo – vale a dire dei giorni – come se ricadessero grosso modo in due grandi categorie generali, giorni «pieni» e giorni «vuoti»; giorni in cui succede qualcosa di importante e altri in cui non accade niente, o per lo meno poco: i primi sono chiamati spesso «tempi» o «congiunture» e gli altri «buchi». Tutte le altre applicazioni del calendario si limitano a rafforzare e affinare questa percezione generale. Tra queste altre applicazioni, la più importante è la determinazione delle celebrazioni dei templi. Nessuno sa quanti templi vi siano a Bali, benché Swellengrebel abbia calcolato che ne esistano più di 20.00034. Ciascuno di questi templi – templi di famiglia, templi di gruppi di discendenza, templi agricoli, templi della morte, templi dell’insediamento, templi associativi, templi di «casta», templi di Stato e via dicendo – ha un suo proprio giorno di celebrazione, chiamato odalan, un termine che, sebbene comunemente – ed erratamente – tradotto come «compleanno» o peggio «anniversario», significa letteralmente «venuta», 424
«emersione», «apparizione» – cioè non il giorno in cui il tempio fu costruito, ma il giorno in cui fu «attivato» (e da quando è nato lo è sempre stato), in cui gli dei scendono dai cieli per abitarlo. Negli intervalli tra gli odalan è quieto, disabitato, vuoto; e, a parte alcune offerte preparate dai suoi sacerdoti in certi giorni, non vi accade nulla. Per la grande maggioranza dei templi, l’odalan è determinato secondo il calendario permutazionale (per i rimanenti l’odalan è determinato dal calendario lunaresolare, che, come vedremo, arriva alle stesse conclusioni per quanto riguarda i modi di percepire il tempo), ancora nei termini dell’interazione dei cicli di cinque, sei e sette nomi. Questo significa che le cerimonie dei templi – che vanno dall’incredibilmente elaborato al semplice quasi invisibile – sono, per usare un eufemismo, un avvenimento frequente a Bali, benché vi siano anche qui certi giorni in cui cadono molte di queste festività ed altri in cui non ne cade nessuna, per ragioni essenzialmente metafisiche35. La vita balinese quindi è inframezzata irregolarmente non solo da frequenti festività che tutti celebrano, ma da celebrazioni di templi anche più frequenti, che coinvolgono soltanto quelli che sono membri del tempio, generalmente per nascita. Dato che la maggior parte dei balinesi appartiene a circa una mezza dozzina di templi o più, questo dà luogo ad una vita rituale piuttosto intensa, per non dire frenetica, sebbene oscilli in modo irregolare tra l’iperattività e la calma. In aggiunta a queste faccende più religiose di feste e di celebrazioni di templi, il calendario permutazionale invade ed abbraccia anche quelle più laiche della vita quotidiana36. Vi sono giorni buoni e cattivi nei quali costruire una casa, 425
intraprendere un’impresa economica, cambiare residenza, mietere i raccolti, affilare gli speroni di un gallo, tenere uno spettacolo di marionette, o (nei tempi andati) iniziare una guerra o concludere una pace. Il giorno in cui uno è nato, che non è un compleanno nel nostro senso della parola (se chiedete ad un balinese quando è nato la sua risposta equivale all’incirca a «giovedì, il nono», il che non è di grande aiuto per stabilire la sua età) ma si ritiene che il suo odalan controlli, o meglio indichi, gran parte del suo destino37. Gli uomini nati in questo giorno sono inclini al suicidio, in quest’altro a diventare dei ladri, in questo ad essere ricchi, in quell’altro ad essere poveri; quelli nati in questo giorno sono inclini a star bene, ad avere lunga vita, ad essere felici; quelli nati in quest’altro ad essere malaticci, ad avere vita breve, ad essere infelici. Il temperamento viene determinato allo stesso modo, e così pure il talento.. La diagnosi e la cura delle malattie sono integrate in modo complesso con determinazioni di calendario, che possono riguardare gli odalan sia del paziente sia del curatore, il giorno in cui si è ammalato ed anche i giorni associati metafisicamente con i sintomi e con la medicina. Prima di contrarre il matrimonio, si confrontano gli odalan degli sposi per vedere se la loro congiunzione è di buon auspicio, e se non lo è non vi sarà nessun matrimonio – almeno se le due parti sono prudenti, come è quasi sempre. C’è un tempo per seppellire ed un tempo per cremare, un tempo per sposarsi ed un tempo per divorziare, un tempo – per passare dall’idioma ebraico a quello balinese – per la cima della montagna ed un tempo per il mercato, uno per il ritiro dalla società e uno per la partecipazione sociale. Le riunioni del consiglio di villaggio, delle società di irrigazione, delle 426
associazioni volontarie sono tutte fissate nei termini del calendario permutazionale (o più raramente di quello lunare-solare); e così lo sono i periodi per restar seduti a casa tranquillamente e cercare di tenersi fuori dai guai. Il calendario lunare-solare, benché costruito su una base diversa, incorpora la stessa concezione puntuale del tempo di quello permutazionale. La sua sola differenza, che per certi scopi è anche un vantaggio, è che è più o meno saldamente ancorato a qualcosa: non fluttua a seconda delle stagioni. Questo calendario è formato da dodici mesi numerati, ciascuno dei quali va da novilunio a novilunio38. Questi mesi sono quindi divisi in due tipi di giorni (anch’essi numerati): lunari (tithi) e solari (diwasa). In un mese vi sono sempre trenta giorni lunari ma, dato lo sfasamento tra anno lunare ed anno solare, in un mese vi sono a volte trenta giorni solari ed a volte ventinove. In quest’ultimo caso, si considera che due giorni lunari cadano in un solo giorno solare – vale a dire si salta un giorno lunare. Questo avviene ogni 63 giorni ma, benché questo calcolo sia astronomicamente quasi esatto, la determinazione effettiva non è fatta sulla base dell’osservazione e della teoria astronomica, per cui i balinesi non hanno il necessario bagaglio culturale (per non parlare dell’interesse): è stabilita dall’uso del calendario permutazionale. Naturalmente in origine il calcolo fu fatto astronomicamente, ma dagli Indù, dai quali i balinesi, nel più remoto passato, importarono il calendario. Per i balinesi il doppio giorno lunare – il giorno che ne vale due – è solo un tipo di giorno più particolare imposto dall’elaborazione dei cicli e dei supercicli del calendario permutazionale – una conoscenza a priori, non a posteriori. 427
In ogni caso, la correzione lascia ancora una deviazione di nove-undici giorni dal vero anno solare, e questa viene compensata con l’interpolazione di un mese bisestile ogni trenta mesi, operazione che, benché originariamente sia di nuovo il risultato dell’osservazione astronomica e del calcolo indù, qui è semplicemente meccanica. Sebbene il calendario lunare-solare sembri astronomico, e quindi sembri basato su alcune percezioni dei processi temporali naturali, degli orologi celesti, questa è un’illusione derivante dall’attenzione rivolta alle sue origini più che ai suoi usi. I suoi usi sono altrettanto distaccati dall’osservazione dei cieli – o da qualunque altra esperienza del tempo che passa – quanto quelli del calendario permutazionale da cui viene così rigorosamente distinto. Come già nel caso del calendario permutazionale, è il sistema, automatico, particellare, fondamentalmente non metrico ma classificatorio, che vi dice che giorno (o che tipo di giorno) è, non l’apparizione della luna, che, quando la si guarda casualmente levando gli occhi in alto, è vista non come un determinante del calendario ma come un riflesso di esso. Quello che è «veramente reale» è il nome – o, in questo caso, il numero (duplice) del giorno, la sua collocazione nella tassonomia trans-empirica dei giorni, non il suo riflesso epifenomenico nel cielo39. In pratica, il calendario lunare-solare viene usato allo stesso modo e per gli stessi tipi di cose di quello permutazionale. Il fatto che sia (vagamente) ancorato lo rende più funzionale nei contesti agricoli, così che la semina, la sarchiatura, il raccolto e simili sono di solito regolati nei suoi termini, ed alcuni templi che hanno un legame simbolico con l’agricoltura o la fertilità celebrano la loro 428
accoglienza degli dei secondo questo calendario. Ciò significa che queste accoglienze ricorrono solo circa ogni 355 giorni (negli anni bisestili circa ogni 385) invece di ricorrere ogni 210. Ma negli altri casi lo schema è immutato. Inoltre vi è una festa importante, Njepi («calmare») che è celebrata secondo il calendario lunare-solare. Essa è chiamata spesso dagli studiosi occidentali «il Capodanno balinese», anche se non cade all’inizio (cioè al novilunio) del primo, ma del decimo mese, e non implica il rinnovamento o la riconsacrazione, ma un’accentuata paura dei demoni e un tentativo di tranquillizzare le proprie emozioni. Njepi viene osservato con un bizzarro giorno di silenzio: nessuno esce per le strade, non si esegue nessun lavoro, non si accende nessuna luce o fuoco, mentre la conversazione è sommessa, anche all’interno dei cortili delle case. Il sistema lunare-solare non è molto usato per scopi «divinatori», benché si ritenga che i giorni di novilunio e di plenilunio abbiano certe caratteristiche qualitative, sinistre nel primo caso, di buon auspicio nel secondo. In generale, il calendario lunare-solare è più un ‘integrazione di quello permutazionale che un’alternativa ad esso. Rende possibile l’impiego di una concezione del tempo classificatoria, del tipo pieno-e-vuoto, «detemporalizzata», in contesti in cui il fatto che le condizioni naturali varino periodicamente dev’essere almeno minimamente riconosciuto.
5.2. La cerimonia, il timore del palcoscenico e l’assenza di un «climax»
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L’anonimizzazione delle persone e l’immobilizzazione del tempo sono quindi solo due facce del medesimo processo culturale: la svalutazione simbolica, nella vita quotidiana dei balinesi, della percezione dei propri simili come consociati, successori o predecessori in favore della loro percezione come contemporanei. Come i vari ordini simbolici di definizione di persona nascondono il fondamento biologico, psicologico e storico di quella mutevole struttura di talenti ed inclinazioni che chiamiamo personalità dietro ad uno schermo compatto di identità costruite in serie, di esseri iconici, così il calendario, o meglio l’applicazione del calendario, indebolisce la sensazione di giorni che si dissolvono e di anni che svaniscono, inevitabilmente indotta da quei fondamenti e da quella struttura, polverizzando il flusso del tempo in particelle sconnesse, prive di dimensioni e di movimento. Un puro e semplice contemporaneo ha bisogno di un presente assoluto in cui vivere: un presente assoluto può essere abitato solo da un uomo contemporaneizzato. Tuttavia vi è una terza dimensione di questo processo la quale lo trasforma da una coppia di predisposizioni complementari in un triangolo di forze culturali che si rafforzano vicendevolmente: la cerimonializzazione delle relazioni sociali. Per conservare l’anonimizzazione (relativa) degli individui con cui si è in quotidiano contatto, per smorzare l’intimità implicita nei rapporti faccia a faccia – in breve, per rendere i consociati contemporanei – è necessario formalizzare i rapporti con loro in misura piuttosto elevata, affrontarli ad una distanza sociologica media in cui sono abbastanza vicini da essere identificati ma non tanto da essere afferrati; quasi estranei, quasi amici. La cerimonialità di tanta parte della 430
vita quotidiana, la misura (e l’intensità) con cui le relazioni interpersonali sono controllate da un elaborato sistema di convenzioni e di regole di buona creanza, costituiscono pertanto un correlato logico di un approfondito tentativo di nascondere alla vista gli aspetti più carnali della condizione umana – l’individualità, la spontaneità, la mortalità, l’emotività, la vulnerabilità. Questo tentativo ha, come gli altri analoghi, un successo solo parziale, e la cerimonializzazione dell’interazione sociale balinese non è più riuscita di quanto lo siano l’anonimizzazione delle persone o l’immobilizzazione del tempo. Ma l’intensità con cui si desidera che riesca, l’intensità con cui costituisce un ideale ossessivo, spiega fino a che punto arrivi la cerimonializzazione, sino a che punto a Bali le buone maniere non sono una semplice questione di convenienza pratica o di decorazione accidentale, ma di profondo interesse spirituale. La cortesia calcolata – una forma esteriore pura e semplice – ha qui un valore normativo che noi, che la riteniamo gratuita o comica quando non la consideriamo ipocrita, non possiamo più apprezzare, ora che Jane Austen è lontana quanto Bali. Questo apprezzamento è reso anche più difficile dalla presenza all’interno di questa accurata levigatura delle superfici della vita sociale, di una nota particolare, una sfumatura di stile che, penso, non ci aspetteremmo di trovare qui. Essendo di stile ed essendo una sfumatura (benché nell insieme assai diffusa) è molto difficile da comunicare a qualcuno che non l’abbia provata personalmente. «Teatralità giocosa» è forse la definizione più adeguata, se si capisce che la giocosità non è leggera ma quasi grave, e la teatralità non è spontanea ma quasi forzata. 431
I rapporti sociali balinesi sono al tempo stesso un gioco solenne ed un dramma studiato. Questo si vede molto chiaramente nel loro rituale e (il che è lo stesso) nella vita artistica, che in gran parte è solo un ritratto ed uno stampo della loro vita sociale. L’interazione quotidiana è così ritualistica e l’attività religiosa così civica che è difficile dire dove una cessi e l’altra cominci: ed entrambe sono soltanto espressioni di quello che è giustamente il più famoso attributo culturale di Bali: il suo genio artistico. Gli elaborati cortei dei templi, le opere magniloquenti, i balletti da equilibristi e le artificiose rappresentazioni di ombre; il parlare per perifrasi e i gesti enfatici – tutto questo fa parte di uno spettacolo teatrale. L’etichetta è un genere di danza, la danza un genere di rituale, e il culto una forma di etichetta. L’arte, la religione e la cortesia esaltano tutte l’aspetto esterno delle cose, studiato e ben elaborato; celebrano le forme, ed è l’instancabile manipolazione di queste forme – quello che i balinesi chiamano «recitare» – a conferire alla loro vita la sua aura stabile di cerimonia. Lo stile manierato dei rapporti interpersonali balinesi, la fusione di rito, tecnica e cortesia, portano quindi a riconoscere la qualità più peculiare e specifica del loro particolare tipo di socialità: il suo estetismo radicale. Gli atti sociali, tutti gli atti sociali, sono in primo luogo e principalmente intesi a compiacere – compiacere gli dei, compiacere il pubblico, compiacere l’altro, compiacere se stessi; ma compiacere come fa la bellezza, non la virtù. Come le offerte ai templi e i concerti di gamelan, gli atti di cortesia sono opere d’arte, e come tali dimostrano, e sono
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intesi dimostrare, non la rettitudine (o quello che noi chiameremmo rettitudine), ma la sensibilità. Ora, da tutto questo – che la vita quotidiana è spiccatamente cerimoniosa; che questa cerimoniosità prende la forma di una specie perfino diligente di «recitazione» con forme pubbliche; che la religione, l’arte e l’etichetta sono quindi soltanto manifestazioni molteplici di un’affascinazione culturale per la studiata apparenza delle cose; e che pertanto qui la moralità è fondamentalmente estetica – è possibile raggiungere una comprensione più esatta di due fra i tratti più accentuati (e più notati) del tono affettivo della vita balinese: l’importanza emotiva di quella che è stata (erroneamente) chiamata «vergogna» nelle relazioni interpersonali, e il fallimento dell’attività collettiva – religiosa, artistica, politica, economica – nel costruire in direzione di obiettivi definibili, quello che è stato (acutamente) chiamato la sua «mancanza di climax»40. Il primo di questi temi riporta direttamente verso concezioni della personalità, l’altro, non meno direttamente, verso concezioni del tempo, assicurando così i vertici del nostro triangolo metaforico che collega lo stile di comportamento balinese con l’ambiente ideazionale in cui si muove. Il concetto di «vergogna», insieme al concetto imparentato di «colpa», è stato molto discusso nella letteratura. Intere culture sono a volte designate come «culture della vergogna» per la presunta preminenza in esse di un forte interesse per l’«onore», la «reputazione» e simili, a spese di un interesse, ritenuto dominante ñeñe «culture della colpa», per il «peccato», il «valore interiore» e via dicendo41. Lasciando da parte l’utilità di una categorizzazione così generica ed i complessi problemi di 433
dinamica psicologica comparata che essa comporta, in questi studi si è rivelato difficile privare il termine «vergogna» di quello che, dopo tutto, è il suo significato più comune in inglese – «consapevolezza della colpa» – e scinderlo così del tutto dalla colpa come tale – «il fatto o la sensazione di aver commesso qualcosa di riprovevole». Di solito si è insistito sul contrasto per il fatto che la «vergogna» tende ad essere riferita (benché non certo esclusivamente) a situazioni in cui la trasgressione e manifestata pubblicamente, e la «colpa» (benché anch’essa non certo esclusivamente) a situazioni in cui non lo è. La vergogna è il sentimento di disgrazia e di umiliazione che segue una trasgressione scoperta; la colpa è il sentimento che si avverte per una segreta cattiveria e che accompagna chi non è stato scoperto, o non ancora. Così, sebbene la vergogna e la colpa non siano esattamente la stessa cosa nel nostro vocabolario etico e psicologico, sono della stessa famiglia; luna è un rivestimento dell’altra, l’altra è una maniera per nascondere la prima. Ma la «vergogna» balinese, o quello che è stato così tradotto (lek), non ha nulla a che fare con trasgressioni, esplicite o meno, riconosciute o nascoste, semplicemente immaginate o effettivamente compiute. Questo non vuol dire che i balinesi non provino né colpa né vergogna, che siano senza coscienza od orgoglio, più di quanto siano inconsapevoli che il tempo passa o che gli uomini sono individui unici. Vuol dire che né la colpa né la vergogna hanno un importanza fondamentale come regolatori affettivi del loro comportamento interpersonale, e che il lek, che è di gran lunga il più importante di questi regolatori, quello culturalmente accentuato con maggior intensità, non 434
dovrebbe perciò essere tradotto con «vergogna» ma piuttosto, per continuare a seguire la nostra immagine teatrale, come «paura del palcoscenico». Non è né il senso di aver trasgredito né il senso di umiliazione che fa seguito ad una trasgressione scoperta, entrambi poco sentiti e prontamente cancellati a Bali, ciò che^ controlla l’emozione negli incontri balinesi faccia a faccia. È invece un nervosismo diffuso, di solito blando (anche se in certe situazioni può diventare praticamente paralizzante), davanti alla prospettiva (ed al fatto) dell’interazione sociale: una preoccupazione cronica, non troppo intensa, di non essere in grado di affrontarla con la delicatezza richiesta42. Quali ne siano le cause più profonde, la paura del palcoscenico consiste nel timore che, per mancanza di abilità o di autocontrollo, o forse per puro accidente, un’illusione estetica non verrà mantenuta, che l’attore si mostrerà attraverso il suo ruolo e il ruolo si dissolverà così nell’attore. La distanza estetica sparisce, il pubblico (e l’attore) perde di vista Amleto e scorge, con grande disagio per tutti gli interessati, un balbettante John Smith qualunque, penosamente fuori ruolo come principe di Danimarca. A Bali succede la stessa cosa, anche se il dramma è più modesto. Quel che si teme – blandamente nella maggior parte dei casi, intensamente in altri – è che la rappresentazione pubblica, ovvero l’etichetta, sia abborracciata, che la distanza sociale mantenuta dall’etichetta scompaia di conseguenza e che la personalità dell’individuo si apra un varco provocando la scomparsa dell’identità pubblica standardizzata. Quando questo avviene, come capita a volte, il nostro triangolo si sfascia: la cerimonia svanisce, l’immediatezza del momento è sentita 435
con un’intensità tormentosa, e gli uomini divengono riluttanti consociati paralizzati in un reciproco imbarazzo, come se inavvertitamente fossero penetrati nella privacy altrui. Lek è al tempo stesso la consapevolezza della possibilità sempre presente di un simile disastro interpersonale e, come la paura del palcoscenico, una forza motivante che spinge ad evitarlo. È la paura di faux pas – resi solo più probabili da un’elaborata cortesia – a mantenere il rapporto sociale sui suoi binari volutamente rigidi. È lek, più di ogni altra cosa, che protegge i concetti balinesi di personalità dalla forza individualizzante degli incontri faccia a faccia. L’«assenza di un climax», l’altra qualità rilevante del comportamento sociale balinese, è così peculiarmente specifica e così particolarmente bizzarra che solo un’estesa descrizione di avvenimenti concreti potrebbe rievocarla convenientemente. Essa consiste nel fatto che le attività sociali non operano, né vien loro permesso di operare, in direzione di un esito definitivo. I dissensi appaiono e scompaiono, occasionalmente persistono, ma non arrivano quasi mai ad una conclusione. I problemi non vengono esasperati per giungere ad una decisione, sono smorzati e addolciti nella speranza che il semplice evolversi delle circostanze li risolverà o che, ancor meglio, essi semplicemente svaniranno. La vita quotidiana è formata da incontri circoscritti, monadici, in cui qualcosa avviene o non avviene – un’intenzione viene realizzata oppure no, un compito eseguito oppure no. Quando la cosa non avviene – l’intenzione è frustrata, il compito non eseguito – si può rifare lo sforzo dal principio un altra volta, o il tentativo può essere semplicemente abbandonato. Le rappresentazioni 436
artistiche iniziano, proseguono (spesso per periodi molto prolungati in cui non si è sempre presenti ma ci si sposta avanti e indietro, si chiacchiera per un poco, si dorme per un poco, si osserva rapiti per un poco) e si fermano: sono prive di centro come una parata, prive di direzione come un corteo. Spesso, come nelle celebrazioni dei templi, sembra che il rituale consista in gran parte nel prepararsi e far le pulizie. Il cuore della cerimonia, l’obbedienza agli dei scesi sui loro altari, viene deliberatamente smorzato fino a che talvolta sembra quasi un ripensamento, un confronto fuggevole ed esitante di persone anonime portate molto vicine fisicamente e tenute molto lontane socialmente. È tutto un salutarsi e dirsi addio, pregustare e risentire il sapore, in una specie di incontro effettivo con le sacre presenze cerimonialmente attutito, ritualmente isolato. Anche una cerimonia drammaticamente accentuata come il combattimento Rangda-Barong, strega tremenda e drago stupido, finisce in uno stato di irresolutezza totale, una sospensione mistica, metafisica e morale che lascia esattamente tutto com’era, e l’osservatore – o in ogni caso l’osservatore straniero – con la sensazione che era sul punto di accadere qualcosa di decisivo che però non è mai accaduto43. In breve, gli avvenimenti accadono come le reste. Appaiono, svaniscono e ricompaiono – ciascuno separato, auto-sufficiente, una manifestazione particolare dell’ordine prefissato delle cose. Le attività sociali sono rappresentazioni distinte: non marciano verso qualche destinazione, non si raccolgono per qualche conclusione. Come il tempo è puntuale, così lo è la vita: non senz’ordine, bensì qualitativamente ordinata, come i giorni stessi, in un 437
numero limitato di tipi prestabiliti. La vita sociale balinese manca di un climax perché avviene in un presente immobile, in un «ora» non vettoriale. O, cosa egualmente vera, il tempo balinese manca di movimento perché la vita sociale balinese manca di un climax. Le due cose si implicano a vicenda, ed entrambi implicano insieme e sono implicati dalla contemporaneizzazione balinese delle persone. La percezione degli individui, l’esperienza della storia e l’indole della vita collettiva – quella che a volte è stata chiamata ethos – sono agganciati insieme da una logica precisa. Ma la logica non è sillogistica: è sociale.
6. Integrazione culturale, conflitto culturale, mutamento culturale Facendo riferimento sia ai principi formali del ragionamento sia alle connessioni razionali tra i fatti e gli avvenimenti, «logica» è una parola traditrice, e mai quanto nell’analisi della cultura. Quando si tratta di forme di significato, la tentazione di vedere il rapporto tra di esse come immanente, come formato da qualche sorta di affinità (o disaffinità) intrinseca che hanno fra di loro, è praticamente irresistibile. E così noi sentiamo parlare dell’integrazione culturale come di un’armonia di significato, del mutamento culturale come di un’instabilità di significato, e del conflitto culturale come di un’incompatibilità di significato, sottintendendo che l’armonia, l’instabilità o l’incompatibilità sono proprietà del significato stesso, come, ad esempio, la dolcezza è una proprietà dello zucchero o la fragilità del vetro. 438
Tuttavia, quando tentiamo di trattare queste proprietà come faremmo con la dolcezza o la fragilità, non riusciamo a comportarci, «logicamente», nel modo aspettato. Quando cerchiamo i costituenti dell’armonia, dell’instabilità o dell’incompatibilità, non riusciamo a trovarli in ciò di cui sono presumibilmente proprietà. Non si possono far passare le forme simboliche attraverso una specie di vaglio culturale per scoprire il loro contenuto di armonia, la loro misura di stabilità o il loro indice di incompatibilità; si può solo cercare di vedere se le forme in questione sono di fatto coesistenti, mutevoli o interferenti tra di loro in un modo o nell’altro, il che è come assaggiare lo zucchero per vedere se è dolce o far cadere un vetro per vedere se è fragile, non come indagare sulla composizione chimica dello zucchero o la struttura fisica del vetro. Il motivo, naturalmente, è che il significato non è intrinseco agli oggetti, agli atti, ai procedimenti o ad altro che lo posseggono ma – come hanno fatto notare Durkheim, Weber e tanti altri – è imposto su di essi; e perciò la spiegazione delle sue proprietà va ricercata in quello che fa colui che l’impone – negli uomini, che vivono in società; Lo studio del pensiero, per ricorrere ad una frase di Joseph Levenson, è lo studio degli uomini che pensano44; e poiché essi pensano non in qualche loro luogo speciale, ma nello stesso luogo – il mondo sociale – dove fanno tutto il resto, la natura dell’integrazione culturale, del mutamento culturale o del conflitto culturale va ricercata qui; nelle esperienze di individui e gruppi di individui mentre essi, sotto la guida di simboli, percepiscono, sentono, ragionano, giudicano ed agiscono.
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Fare questa affermazione non è però cedere allo psicologismo, che assieme al logicismo è l’altro grande sabotatore dell’analisi culturale; perché l’esperienza umana – l’effettivo vivere attraverso gli eventi – non è mera sensibilità, ma, dalla più immediata percezione al più mediato giudizio, sensibilità significante – sensibilità interpretata, sensibilità afferrata. Per gli esseri umani, con la possibile eccezione dei neonati, che tranne che per la loro struttura fisica sono in ogni caso umani solo in posse, tutta l’esperienza è esperienza interpretata e formata, e le forme simboliche nei cui termini viene interpretata determinano così – in connessione ad un’ampia varietà di altri fattori che vanno dalla geometria cellulare della retina agli stati endogeni della maturazione psicologica – la sua trama intrinseca. Abbandonare la speranza di trovare la «logica» dell’organizzazione culturale in qualche «sfera di significato» pitagorica non è abbandonare la speranza di trovarla affatto. È rivolgere la nostra attenzione verso ciò che conferisce ai simboli la loro vita: il loro uso45. Ciò che lega le strutture simboliche balinesi per definire le persone (nomi, termini di parentela, tecnonimi, titoli ed altro) alle loro strutture simboliche per la caratterizzazione del tempo (calendari permutazionali e così via) ed entrambi alle loro strutture simboliche per ordinare il comportamento interpersonale (l’arte, il rituale, la cortesia eccetera) è l’interazione degli effetti che ciascuna di queste strutture ha sulle percezioni di quelli che le usano, il modo in cui i loro effetti esperienziali entrano in gioco e si rafforzano a vicenda. La tendenza a «contemporaneizzare» i propri simili ottunde il senso dell’invecchiamento biologico; un senso smorzato dell’invecchiamento biologico allontana una delle 440
fonti principali del senso del flusso temporale; un senso del flusso temporale ridotto conferisce una qualità episodica agli avvenimenti interpersonali. L’interazione cerimonializzata sostiene le percezioni standardizzate degli altri; le percezioni standardizzate degli altri sostengono una concezione della società come «stato stazionario»; una concezione della società come «stato stazionario» sostiene una percezione del tempo tassonomica. E così via: si potrebbe cominciare con le concezioni del tempo e percorrere, in un senso o nell’altro, lo stesso cerchio. Il cerchio, benché continuo, non è strettamente parlando chiuso, perché nessuno di questi modi di esperienza è più di una tendenza dominante, un’accentuazione culturale, e i loro opposti soggiogati, egualmente ben radicati nelle condizioni generali dell’esistenza umana e non senza qualche espressione culturale loro propria, coesistono con essi, e invero agiscono contro di essi. Tuttavia queste tendenze sono dominanti; si rafforzano a vicenda; e sono persistenti. Ed è a questo stato di cose, né permanente né perfetto, che si può legittimamente applicare il concetto di «integrazione culturale» – quello che Weber chiamava Sinnzusammenhang. In questa concezione, l’integrazione culturale non è più considerata un fenomeno sui generis segregato dalla vita comune dell’uomo in un suo mondo logico. Cosa ancor più importante, tuttavia, non deve neppure essere considerato come un fenomeno che abbraccia tutto, diffuso e illimitato. In primo luogo, come abbiamo appena notato, modelli contrapposti a quelli primari esistono come temi sottodominanti e tuttavia importanti in qualunque cultura, per quanto possiamo affermare. Ordinariamente, senza 441
scomodare Hegel, gli elementi di negazione di una cultura sono racchiusi, con maggiore o minor forza, dentro di essa. Per quanto riguarda i balinesi, ad esempio, un’indagine delle loro credenze sulle streghe (o, per parlare fenomenologicamente, delle loro esperienze di streghe) come l’inverso di quelle che si potrebbero chiamare le loro credenze sulle persone, o una indagine del loro comportamento estatico come l’inverso della loro etichetta, sarebbe molto illuminante sotto questo aspetto ed aggiungerebbe profondità e complessità alla nostra analisi. Alcuni degli attacchi più famosi contro caratterizzazioni culturali acquisite – rivelazioni di sospetto e faziosità tra gli Indiani Pueblos «amanti dell’armonia» o di un «lato amabile» tra i competitivi Kwakiutl – consistono essenzialmente nell’affermazione dell’esistenza e 46 dell’importanza di tali temi . Ma al di là di questa specie di contrappunto naturale vi sono anche delle discontinuità semplicemente non colmate tra alcuni degli stessi temi più importanti. Non tutte le cose sono collegate con tutte le altre con pari immediatezza; non tutto entra subito in gioco con o contro tutto il resto. Una simile interconnessione primaria, valida universalmente, dev’essere quanto meno dimostrata empiricamente, non soltanto assunta in modo assiomatico come spesso è accaduto. La discontinuità culturale e la disorganizzazione sociale che ne possono derivare, anche nelle società più profondamente stabili, sono reali quanto l’integrazione culturale. L’idea, ancora molto diffusa nell’antropologia, che la cultura sia una rete senza cuciture, è una petitio principii non meno dell’idea più vecchia secondo cui la cultura è un 442
insieme di pezze e di toppe – idea che essa sostituì, con un certo eccesso di entusiasmo, dopo la rivoluzione operata da Malinowski nei primi anni Trenta. I sistemi, per essere tali, non hanno bisogno di essere completamente interconnessi. Lo possono essere in modo stretto o vago, ma quali siano – quanto giustamente siano integrati – è una questione empirica. Per affermare l’esistenza di connessioni tra modi di esperire, come tra ogni variabile, è necessario trovarle (e trovare i modi per trovarle), non darle semplicemente per scontate. E poiché vi sono delle ragioni teoriche piuttosto impellenti per credere che un sistema che sia complesso (come lo è ogni cultura), e nello stesso tempo perfettamente integrato, non possa funzionare, il problema dell’analisi culturale consiste anche nel determinare indipendenze come interconnessioni, abissi come anche ponti47. L’immagine appropriata, se si devono avere immagini, dell’organizzazione culturale, non è né la tela di ragno né la torre di sabbia. Essa è più simile al polipo, i cui tentacoli sono in gran parte integrati distintamente, e sono collegati tra di loro e con quello che nel polipo passa per un cervello in misura assai debole dal punto di vista neuronale, e che cionondimeno riesce a muoversi ed a conservarsi, almeno per un certo periodo, come entità funzionale anche se piuttosto goffa. La stretta e immediata interdipendenza tra le concezioni di persona, tempo e condotta che è stata proposta in questo saggio è, per quanto posso dire, un fenomeno generale, anche se la sua particolare forma balinese è in certo grado singolare, perché questa interdipendenza è inerente al modo in cui è organizzata l’esperienza umana, un effetto necessario delle condizioni in cui si conduce l’esistenza 443
umana. Ma è solo una di un numero vasto e sconosciuto di interdipendenze simili, ad alcune delle quali risulta collegata più o meno direttamente, ad altre solo molto indirettamente, ad altre ancora praticamente non lo è affatto. L’analisi della cultura non sfocia quindi in un eroico assalto «totalizzante» contro le «configurazioni di base della cultura» – un supergerarchico «ordine degli ordini» da cui si possono ricavare configurazioni più limitate come semplici deduzioni – ma in una ricerca di simboli significanti, di agglomerati di simboli significanti, e di agglomerati di agglomerati di simboli significanti – veicoli materiali della percezione dell’emozione e della comprensione – e nell’affermazione delle regolarità fondamentali dell’esperienza umana implicite nella loro formazione. Se si vuole giungere a una teoria utilizzabile della cultura, occorre partire da modi di pensiero direttamente osservabili e costruire su questa base: si considereranno dapprima famiglie ben delimitate di questi modi di pensiero per passare poi a sistemi più variabili che, come il polipo, risultano meno strettamente coerenti, ma pur sempre ordinati, per scorgere infine confluenze di integrazioni parziali, incoerenze parziali e parziali indipendenze. La cultura si muove anche un po’ come un polipo – non tutta insieme in una sinergia di parti fluidamente coordinate, una massiccia coazione del tutto, ma con movimenti disgiunti di questa o di quella parte o di quell’altra ancora che in qualche modo si assommano per un mutamento direzionale. Quando in una data cultura, lasciando stare i cefalopodi, appariranno i primi impulsi verso il progresso, e come ed in che misura si diffonderanno nel sistema, è, in 444
questa fase della nostra ricerca, ampiamente se non interamente imprevedibile. Tuttavia non sembra troppo irragionevole supporre che, se tali impulsi appariranno in qualche regione del sistema strettamente interconnessa e socialmente coerente, probabilmente la loro forza trainante sarà grande. Ogni sviluppo che intaccasse efficacemente le percezioni balinesi delle persone, le esperienze balinesi del tempo o le idee balinesi delle convenienze sarebbe probabilmente carico di potenzialità per trasformare la maggior parte della cultura balinese. Questi non sono gli unici luoghi in cui potrebbero apparire dei mutamenti così rivoluzionari (qualunque cosa che intaccasse le idee balinesi sul prestigio e le sue basi parrebbe almeno ugualmente straordinaria), ma sicuramente sono tra i più importanti. Se i balinesi svilupperanno una concezione degli altri meno spersonalizzata, o un senso del tempo più dinamico, o uno stile di interazione sociale più informale, molto – non tutto, ma moltissimo – dovrebbe cambiare nella vita balinese, se non altro perché uno qualunque di questi mutamenti provocherebbe immediatamente e direttamente gli altri, e tutti e tre hanno, in modi diversi e in contesti diversi, un ruolo cruciale nel modellare quella vita. In teoria, questi mutamenti culturali potrebbero venire dall’interno della società balinese o dall’esterno, ma, considerando il fatto che Bali fa ora parte di uno Stato nazionale in via di sviluppo, il cui centro di gravità è altrove – nelle grandi città di Giava e di Sumatra – verrà molto probabilmente dall’esterno. L’emergere per la prima volta nella storia indonesiana di un leader politico che è umano, fin troppo umano, non 445
semplicemente di fatto ma anche nell’immagine, parrebbe comportare una specie di sfida alle tradizionali concezioni balinesi della personalità. Non soltanto Sukarno è una personalità unica, vivida e intensamente intima agli occhi dei balinesi, egli sta anche, per così dire, invecchiando in pubblico. Nonostante che essi non si impegnino in una interazione faccia a faccia con lui, fenomenologicamente egli è molto più loro consociato che loro contemporaneo, e il suo ineguagliabile successo nel raggiungere questo tipo di rapporto – non solo a Bali, ma nell’Indonesia in genere – è il segreto di buona parte della sua presa sulla popolazione e del fascino che su di essa esercita. Come per tutte le figure veramente carismatiche, il suo potere deriva in gran parte dal fatto che non rientra nelle categorie culturali tradizionali, ma le spalanca celebrando la sua unicità. Lo stesso vale, con ridotta intensità, per i leader minori della nuova Indonesia, fino a quei piccoli sosia di Sukarno che cominciano ad apparire nella stessa Bali48. Il genere di individualismo che, secondo Burckhardt, avrebbero introdotto i principi del Rinascimento in Italia per pura forza di carattere – e con esso la coscienza moderna occidentale – forse è sul punto di essere introdotto a Bali, in forma piuttosto diversa, dai nuovi principi populisti dell’Indonesia. Allo stesso modo, la politica di crisi continua in cui si è imbarcato lo Stato nazionale, un desiderio di spingere gli avvenimenti verso il loro culmine invece di allontanarli da esso, sembrerebbe porre lo stesso tipo di sfida alle concezioni balinesi del tempo. E quando una politica simile viene posta, come avviene sempre di più, nella cornice storica quasi ovunque così caratteristica del nazionalismo 446
della Nuova Nazione – grandezza originaria, oppressione straniera, lotta estesa, sacrificio ed autoliberazione, modernizzazione imminente – l’intera concezione del rapporto tra quello che sta accadendo ora e quello che è accaduto e accadrà viene alterata. Ed infine la nuova informalità della vita urbana e della cultura pan-indonesiana che la domina – la crescita d’importanza della gioventù e della cultura giovanile con la conseguente riduzione, talvolta perfino il capovolgimento, della distanza sociale tra le generazioni; il cameratismo sentimentale dei compagni rivoluzionari; l’egualitarismo populista dell’ideologia politica, marxista o non marxista allo stesso modo – sembra contenere una simile minaccia al terzo lato del triangolo balinese, l’ethos o stile di comportamento. Tutte queste sono chiaramente pure ipotesi (benché non del tutto infondate, se si guarda agli eventi dei quindici anni di indipendenza); quando, come, con quanta rapidità e in che ordine muteranno le percezioni balinesi della persona, del tempo e del comportamento è, se non del tutto imprevedibile in generale, molto imprevedibile nei particolari. Ma nella misura in cui cambiano – cosa che mi pare certa, e infatti pare che vi sia già stato un inizio di mutamento49 – il tipo di analisi qui elaborato dei concetti culturali come forze attive, del pensiero come fenomeno pubblico con effetti come gli altri fenomeni pubblici, ci può aiutare a scoprirne i contorni, la dinamica e, cosa ancor più importante, le implicazioni sociali. Allo stesso modo, in altre forme e con altri risultati, può essere utile altrove.
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11. Il «gioco profondo»: note sul combattimento di galli a Bali
1. L’irruzione All’inizio di aprile del 1958, mia moglie ed io arrivammo, sofferenti di malaria e diffidenti, in un villaggio balinese che, come antropologi, intendevamo studiare. Un posto piccolo, con circa 500 abitanti, e relativamente remoto, che formava un mondo a sé. Eravamo degli intrusi di professione, e gli abitanti del villaggio ci trattavano come sembra che i balinesi trattino sempre le persone che non fanno parte della loro vita, ma che si inoltrano tra di loro: come se non esistessimo. Per i balinesi, e in certa misura per noi stessi, eravamo non-persone, spettri, uomini invisibili. Ci stabilimmo all’interno di un recinto di case occupato da una famiglia estesa (in base ai nostri precedenti accordi con il governo della provincia), recinto che apparteneva ad una delle quattro fazioni più importanti del villaggio. Ma, tranne che per il nostro padrone di casa e il capo del villaggio, di cui era cugino e cognato, tutti ci ignoravano nel modo in cui solo i balinesi sanno fare. Quando andavamo in giro incerti, ansiosi, desiderosi di piacere, la gente pareva guardare attraverso il nostro corpo, con lo sguardo fisso su qualche pietra o albero, più reale, parecchi metri dietro di noi. Quasi nessuno ci salutava, ma nessuno ci diceva neppure qualcosa di sgradevole né ci faceva smorfie, il che 448
sarebbe stato quasi gratificante. Se osavamo avvicinarci a qualcuno (cosa che si è fortemente inibiti a fare in un’atmosfera simile) questi si allontanava con indifferenza ma anche con determinazione. Se riuscivamo ad intrappolarlo seduto od appoggiato ad un muro, non diceva assolutamente nulla o borbottava quella che per i balinesi è la non-parola per antonomasia: «sì». L’indifferenza naturalmente era apparente; gli abitanti del villaggio osservavano ogni mossa che facevamo, ed avevano un’enorme quantità di informazioni accurate su chi eravamo e che cosa avevamo intenzione di fare. Ma agivano come se noi semplicemente non esistessimo, cosa che in effetti non era vera, almeno per il momento, come questo stesso comportamento era inteso a dirci. Questo è, come dico, il modo di fare normale a Bali. In ogni altro luogo dove sono stato in Indonesia, e più tardi in Marocco, quando entravo in un villaggio nuovo la gente si riversava da tutte le parti per squadrarmi ben bene da vicino, e spesso anche per toccarmi in modo fin troppo inquisitorio. Nei villaggi balinesi, almeno in quelli lontani dal circuito turistico, non accade assolutamente nulla. La gente continua a saltellare, a chiacchierare, a fare offerte, a fissare nel vuoto, a portare ceste mentre uno va in giro sentendosi vagamente smaterializzato. E lo stesso è vero a livello individuale. Quando incontrate per la prima volta un balinese, sembra che praticamente non abbia nulla a che fare con voi: egli è «via», per usare l’espressione che Gregory Bateson e Margaret Mead hanno reso famoso1. Poi – dopo un giorno, una settimana, un mese (con certe persone il momento magico non arriva mai) – egli decide, per ragioni che non sono mai stato capace di sondare, che 449
siete reale, e allora diviene una persona calorosa, allegra, sensibile, simpatica, benché, essendo balinese, sempre perfettamente controllata. In qualche modo, avete varcato una linea d’ombra morale o metafisica. Anche se non vi si prende esattamente come uno di Bali (per questo bisogna esserci nati), siete almeno considerato un essere umano, invece di una nuvola o di una raffica di vento. Nella maggior parte dei casi l’intera fisionomia del vostro rapporto si trasforma repentinamente in un’altra, dolce e quasi affettuosa – una cordialità in tono minore, piuttosto scherzosa, piuttosto manierata, piuttosto attenuata. Mia moglie ed io eravamo ancora nella fase «raffica-divento» – una fase molto frustrante ed anche molto snervante, perché presto si comincia a dubitare sul serio di essere veramente reali – quando, circa dieci giorni dopo il nostro arrivo, si tenne sulla pubblica piazza un grosso combattimento di galli per raccogliere fondi per una nuova scuola. Ora, a parte alcune occasioni speciali, i combattimenti di galli sono illegali a Bali sotto la repubblica (come lo erano sotto gli olandesi, per ragioni non del tutto diverse) in gran parte in conseguenza delle pretese di puritanesimo che tendono ad accompagnare il nazionalismo2. L’élite, poi non tanto puritana, si preoccupa del povero contadino ignorante che scialacqua tutto il denaro al gioco, di che cosa penseranno gli stranieri, della perdita di tempo che sarebbe meglio impiegato ad edificare il paese; essa vede il combattimento di galli come «primitivo», «arretrato», «non progressista» e in genere disdicevole per una nazione ambiziosa; e come per le altre cose imbarazzanti – le fumerie
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d’oppio, la mendicità, o i seni scoperti – cerca, in modo poco sistematico, di porvi fine. Naturalmente, come il bere durante il proibizionismo o il fumare la marijuana oggi, i combattimenti di galli, essendo una parte del «modo di vivere balinese» continuano ad aver luogo, e con una straordinaria frequenza. E, come per il proibizionismo o la marijuana, di tanto in tanto la polizia (che, almeno nel 1958, era quasi tutta non balinese ma giavanese) si sente in dovere di fare un’irruzione, confiscare i galli e gli speroni, multare alcune persone e perfino talvolta esporle al sole tropicale per un giorno come soggetti di una lezione che non viene mai appresa, anche se qualche volta, ma solo qualche volta, il soggetto muore. Di conseguenza, i combattimenti di galli si tengono di solito in un angolo isolato del villaggio in semisegretezza, un fatto che tende a rallentare un poco l’azione – non molto, ma ai balinesi non importa proprio nulla se rallenta. In questo caso tuttavia, forse perché stavano raccogliendo fondi per una scuola che il governo non era in grado di dar loro, forse perché le irruzioni erano state poche di recente, forse perché, come capii da successive discussioni, pensavano di aver pagato le bustarelle necessarie, ritennero di poter sfidare la sorte sulla piazza centrale e di riunire una folla più grande e più entusiasta senza attirare l’attenzione della legge. Si sbagliavano. Nel mezzo del terzo incontro, con centinaia di persone, tra cui io e mia moglie che eravamo ancora trasparenti, ammucchiate intorno al ring – un superorganismo in senso letterale – un furgoncino pieno di poliziotti armati di mitra arrivò rombando. Tra acuti strilli di «pulisi! pulisi!» provenienti dalla folla, i poliziotti 451
balzarono fuori e, saltando nel centro del ring, cominciarono a far roteare le loro armi come gangster in un film, benché non si spingessero fino al punto di fare fuoco. Il superorganismo si disintegrò all istante ed i suoi componenti si sparpagliarono in tutte le direzioni. La gente correva per la strada, scompariva a capofitto oltre i muri, si rannicchiava sotto le piattaforme delle case, si piegava dietro paraventi di vimini, sgattaiolava su palme di cocco. Galli armati di speroni d’acciaio abbastanza acuminati da tagliar via un dito o fare un buco in un piede correvano di qua e di là impazziti. Tutto era polvere e panico. In base al principio antropologico consolidato «Quando sei a Roma fai come i romani» mia moglie ed io decidemmo, solo un po’ meno rapidamente di tutti gli altri, che la cosa da farsi era scappare anche noi. Corremmo per la strada principale del villaggio, in direzione nord, lontano da dove abitavamo, perché eravamo su quel lato del ring. A metà strada un altro fuggiasco si tuffò all’improvviso in un casale – il suo, come risultò – e noi, non vedendo davanti null’altro che campi di riso, aperta campagna ed un altissimo vulcano – lo seguimmo. Quando tutti e tre piombammo nel cortile, sua moglie, che evidentemente era pratica della faccenda, fece apparire un tavolo, una tovaglia, tre sedie e tre tazze di tè e tutti e tre, senza nessuna comunicazione esplicita di nessun genere, ci mettemmo a sedere, cominciammo a sorseggiare il tè e cercammo di ricomporci. Pochi minuti dopo, uno dei poliziotti entrò nel cortile con aria di importanza, cercando il capo del villaggio. (Il capo non solo aveva assistito al combattimento, ma l’aveva organizzato. Quando era arrivato il furgoncino era corso al fiume, si era strappato il sarong e si era tuffato dentro, in 452
modo che, quando alla fine l’avevano trovato seduto laggiù che si versava l’acqua sulla testa, poté dire che stava facendo il bagno quando era successa tutta la faccenda e che lui non ne sapeva nulla. Non gli avevano creduto e lo avevano multato per trecento rupie, raccolte collettivamente dal villaggio.) Vedendo me e mia moglie, «uomini bianchi», nel cortile, il poliziotto compì una classica doppia mossa. Quando ritrovò la voce chiese più o meno che diavolo credevamo di fare laggiù. Il nostro ospite (era tale da cinque minuti) balzò in piedi istantaneamente a nostra difesa, producendo una spassionata descrizione di chi eravamo e che cosa facevamo, così dettagliata ed accurata che questa volta fui io a restare sbalordito, dato che quasi non comunicavo con alcun essere umano, eccezion fatta per il mio padrone di casa e il capo del villaggio, da più di una settimana. Avevamo perfettamente diritto di essere lì, affermò lui guardando il giavanese dritto negli occhi. Eravamo professori americani; il governo ci aveva autorizzati; eravamo lì per studiare la cultura; avevamo intenzione di scrivere un libro per raccontare di Bali agli americani. Eravamo stati a bere il tè e a parlare di questioni culturali per tutto il pomeriggio, e non sapevamo niente di combattimenti di galli. Inoltre non avevamo visto il capo del villaggio per tutto il giorno; doveva essere andato in città. Il poliziotto si ritirò totalmente sopraffatto, e lo stesso facemmo anche noi dopo un intervallo adeguato, stupefatti ma sollevati perché eravamo sopravvissuti ed eravamo sfuggiti alla galera. Il mattino dopo il villaggio era per noi un mondo completamente diverso. Non solo non eravamo più invisibili, all’improvviso eravamo al centro di tutta 453
l’attenzione, l’oggetto di una grande effusione di cordialità, interesse e soprattutto divertimento. Ognuno nel villaggio sapeva che eravamo scappati come tutti gli altri. Ce lo chiesero ripetutamente (alla fine della giornata credo di aver raccontato la storia cinquanta volte in ogni suo più piccolo particolare), deridendoci gentilmente ma insistentemente: «Perché non siete rimasti lì e non avete detto alla polizia chi eravate?»; «Perché non avete detto che stavate solo a guardare e non scommettevate?»; «Avevate davvero paura di quei piccoli fucili?». Come sempre, dotati di una mente cinestetica e capaci del portamento più equilibrato del mondo, anche quando scappavano per salvare la vita (o, come accadde otto anni dopo, per arrendersi) essi continuavano a parodiare gaiamente il nostro modo di correre sgraziato e le nostre espressioni facciali su cui si disegnava, a sentir loro, il panico. Ma, soprattutto, tutti erano estremamente compiaciuti ed ancor più sorpresi che non avessimo semplicemente «tirato fuori i documenti» (sapevano anche di questi) ed asserito il nostro status di Distinti Visitatori, bensì avessimo dimostrato la nostra solidarietà con quelli che erano adesso i nostri compaesani. (Ciò che avevamo veramente dimostrato era la nostra codardia, ma anche in quella c’è fratellanza.) Perfino il prete bramino, un tipo vecchio e austero già incamminato verso il cielo che, a causa dei suoi rapporti con l’aldilà, non sarebbe mai stato coinvolto, neppure alla lontana, in un combattimento di galli, e che era difficile avvicinare anche per gli altri balinesi, ci fece chiamare nel suo cortile per interrogarci su quanto era accaduto, ridacchiando felice per la straordinarietà di tutto quanto.
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A Bali essere presi in giro significa essere accettati. Fu il punto di svolta per quanto riguardava il nostro rapporto con la comunità, e divenimmo letteralmente «alla moda». L’intero villaggio ci spalancò le porte, probabilmente più di quanto non avrebbe fatto altrimenti (in effetti forse non sarei mai arrivato a quel prete e il nostro casuale ospite divenne uno dei miei migliori informatori) e certamente molto più in fretta. Farsi catturare o quasi in un’incursione poliziesca non è forse una ricetta molto generalizzabile per ottenere quella misteriosa necessità del lavoro antropologico sul campo – il rapporto – ma per me funzionò molto bene. Mi fece accettare in modo improvviso e insolitamente completo in una società estremamente difficile da penetrare per gli estranei. Mi rese padrone, in modo immediato e penetrante, di un aspetto della «mentalità contadina» che normalmente gli antropologi non abbastanza fortunati da scappare a precipizio con i loro oggetti di studio dalla polizia non colgono. E quel che è più importante, dato che le altre cose avrebbero potuto arrivare in altri modi, mi mise molto rapidamente in rapporto con una combinazione di esplosione emotiva, conflitto di status e dramma filosofico di importanza cruciale per la società di cui desideravo comprendere l’intima natura. Quando partii, avevo passato tanto tempo ad osservare i combattimenti di galli quanto ne avevo spesi a studiare la stregoneria, l’irrigazione, la casta o il matrimonio.
2. Uomini e galli
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Bali, soprattutto perché è Bali, è un luogo molto studiato. La sua mitologia, la sua arte, il suo rituale, la sua organizzazione sacra, i suoi modelli di allevamento dei bambini, le sue forme giuridiche, perfino i suoi stili di trance, sono stati esaminati al microscopio alla ricerca di tracce di quella sostanza sfuggente che Jane Belo chiamò il «temperamento balinese»3. Ma, a parte alcune note estemporanee, il combattimento di galli non ha goduto di un’attenzione particolare benché, come ossessione popolare di straordinaria potenza, esso sia una rivelazione dell’essenza balinese almeno altrettanto importante quanto questi fenomeni più celebrati4. Come molto dell’America affiora in un campo da gioco, su un percorso di golf, in una pista da corse o attorno ad un tavolo di poker, molto di Bali affiora in un ring per galli, Perché solo apparentemente vi combattono dei galli, in realtà sono uomini. Per chiunque sia stato a Bali per un certo periodo di tempo, è indubbia la profonda identificazione psicologica degli uomini balinesi con i loro galli. La corrispondenza simbolica qui è voluta: funziona esattamente allo stesso modo in balinese come in inglese, fino al punto di produrre gli stessi stanchi scherzi, i giochi di parole forzati, e le oscenità scontate. Bateson e Mead hanno perfino suggerito che, in accordo con la concezione balinese del corpo come di un insieme di parti animate separatamente, i galli sono visti come dei peni distaccabili, operanti da soli, genitali ambulanti con una loro propria vita5. E sebbene io non possieda il tipo di materiale inconscio per confermare o smentire questa idea affascinante, il fatto che siano simboli maschili per eccellenza è praticamente indubbio, e per i
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balinesi ugualmente palese del fatto che l’acqua scorre verso il basso. Il linguaggio del moralismo quotidiano è intriso, dal lato maschile, di immagini da pollaio. Sabung, la parola per «gallo» (che appare nelle iscrizioni fin dal 922 d.C.) è usata metaforicamente per indicare «eroe», «guerriero», «campione», «uomo di parte», «candidato politico», «scapolo», «dandy», «rubacuori» o «duro». Un uomo borioso che si comporta come se fosse di una condizione sociale superiore è paragonato ad un gallo senza coda che si pavoneggia come se ne avesse una grande e spettacolare. Un uomo disperato che fa un ultimo sforzo irrazionale per districarsi da una situazione impossibile è paragonato ad un gallo morente che dà un’ultima stoccata al suo torturatore per trascinarlo insieme con lui nella comune distruzione. Un uomo avaro, che promette molto, dà poco e lo lesina è paragonato ad un gallo che, tenuto per la coda, balza addosso ad un altro senza impegnarlo in un effettivo combattimento. Un uomo celibe ancora vergognoso con l’altro sesso o qualcuno che fa un nuovo lavoro ed è ansioso di fare buona impressione è chiamato «gallo da combattimento ingabbiato per la prima volta»6. I processi nei tribunali, le guerre, le competizioni politiche, i litigi per le eredità e le discussioni per strada sono paragonate tutte a combattimenti di galli7. La stessa isola di Bali è vista per la sua forma come un piccolo gallo orgoglioso, bene in posa, col collo proteso, il dorso rigido, la coda sollevata, eternamente in sfida contro la grande, inetta, informe Giava8. Ma l’intimità degli uomini coi loro galli è più che metaforica. Gli uomini balinesi, o per lo meno la grande 457
maggioranza, passano un’enorme quantità di tempo coi loro favoriti, istruendoli, nutrendoli, esaminandoli, mettendoli alla prova l’uno contro l’altro, o solo fissandoli con un miscuglio di ammirazione estatica e di concentrazione onirica. Quando vedete un gruppo di uomini balinesi accovacciati oziosamente nella capanna del consiglio o per la strada con le anche giù, le spalle curve, le ginocchia sollevate, metà o più di loro avrà in mano un gallo, lo terrà tra le cosce, lo farà rimbalzare dolcemente su e giù per rinforzargli le gambe, arruffandone le penne con distratta sensualità, aizzandolo contro il gallo di un vicino per eccitarne lo spirito, tirandolo tra le proprie gambe per calmarlo di nuovo. Di tanto in tanto, per affezionarsi ad un altro volatile, uno si trastullerà in questo modo col gallo di un altro per un po’, ma di solito si sposterà lui per accovacciarsi dietro all’animale invece di farselo passare come se fosse una semplice bestia. Nel cortile, nei recinti dalle alte mura entro cui vive la gente, i galli da combattimento sono tenuti in gabbie di vimini, spostate di frequente in modo da mantenere l’equilibrio ottimale tra sole e ombra. Sono alimentati con una dieta speciale, che varia alquanto secondo le teorie individuali ma che è formata principalmente da mais, setacciato per liberarlo dalle impurità con cura molto maggiore di quando devono mangiarlo degli esseri umani, ed offerto all’animale chicco per chicco. Viene loro ficcato nel becco e nell’ano del pepe rosso per rinfrancarne lo spirito. Vengono immersi nella stessa mistura rituale di acqua tiepida, erbe medicinali, fiori e cipolle in cui si immergono i neonati, e se si tratta di un campione anche con la stessa frequenza. Gli si spunta la cresta, gli si lisciano 458
le penne, gli si affilano gli speroni e gli si massaggiano le zampe, e vengono ispezionati alla ricerca di difetti con la maliziosa concentrazione di un commerciante di diamanti. Un uomo appassionato di galli, un entusiasta nel senso letterale del termine, può passare con loro la maggior parte della sua vita, ed anche quelli non del tutto in preda a una passione intensa (che sono la maggioranza), possono passare con loro, e lo fanno, una quantità di tempo che sembra smodata non solo ad un estraneo, ma a loro stessi. «Vado pazzo per i galli» gemeva il mio padrone di casa, un comunissimo aficionado secondo i parametri balinesi, quando andava a spostare un’altra gabbia, a somministrare un altro bagno, o a provare una nuova alimentazione. «Andiamo tutti pazzi per i galli». La follia ha tuttavia delle dimensioni meno visibili perché, sebbene sia vero che i galli sono espressioni simboliche od esaltazioni della personalità del loro possessore, lego maschile narcisistico raffigurato in termini esopici, essi sono anche espressioni – e pure piuttosto immediate – di ciò che i balinesi considerano l’esatto contrario, esteticamente, moralmente e metafisicamente, della condizione umana: l’animalità. La repulsione balinese per qualunque comportamento considerato animalesco può essere difficilmente esagerata. Ai bambini non è permesso camminare a carponi per questo motivo. L’incesto, anche se disapprovato, è un delitto molto meno orripilante della bestialità. (La punizione appropriata per quest’ultima è la morte per annegamento, mentre per il primo è la costrizione a vivere come un animale)9. Quasi tutti i demoni sono rappresentati – nella scultura, nella danza, nel rituale, nel mito – in una qualche forma 459
animalesca reale o fantastica. Il principale rito della pubertà consiste nella limatura dei denti del bambino, in modo che non abbiano l’aspetto di zanne bestiali. Non solo la defecazione, ma anche il mangiare, sono considerati un’attività disgustosa, quasi oscena, che si deve praticare in fretta e privatamente, perché associata con l’animalità. Anche il cadere o qualunque forma di goffaggine sono ritenuti negativi per queste ragioni. A parte i galli ed alcuni animali domestici – i buoi, le anatre – privi di significato emotivo, i balinesi sono ostili agli animali e trattano i loro numerosi cani non solo con indifferenza ma con crudeltà fobica. Identificandosi col suo gallo, il balinese non si identifica solo con il suo ego ideale, e neppure col suo pene, ma anche, ed allo stesso tempo, con ciò che più teme e odia, e data l’esistenza dell’ambivalenza, con ciò da cui è più affascinato – «le potenze delle tenebre». Il collegamento dei galli e dei combattimenti con queste potenze, con i demoni animalistici che minacciano costantemente di invadere il piccolo spazio lindo in cui i balinesi hanno costruito con tanta cura la loro vita, e di divorare i suoi abitanti, è molto esplicito. Un combattimento di galli, uno qualsiasi, è in prima istanza un sacrificio cruento offerto, con i canti e le offerte appropriate, ai demoni, allo scopo di acquietare la loro fame rabbiosa, cannibalesca. Non si può celebrare nessuna festività in un tempio senza farne uno. (Se si trascura di farlo, qualcuno inevitabilmente cadrà in trance e ordinerà con la voce di uno spirito adirato che si rimedi immediatamente alla negligenza.) Le reazioni collettive ai mali naturali – le malattie, i raccolti perduti, le eruzioni vulcaniche – comportano quasi sempre dei sacrifici. E quella famosa festa 460
di Bali, «il giorno del silenzio» (Njepi), quando tutti restano seduti immobili e silenziosi l’intera giornata per evitare contatti con un improvviso influsso di demoni momentaneamente scacciati dall’inferno, è preceduta il giorno prima da combattimenti di galli su vasta scala (in questo caso legali) in quasi tutti i villaggi dell’isola. Nel combattimento di galli l’uomo e la bestia, il bene e il male, l’ego e l’id, il potere creativo della mascolinità eccitata ed il potere distruttivo dell’animalità liberata si fondono in un sanguinoso dramma di odio, crudeltà, violenza e morte. Non c’è da stupirsi che, quando il padrone di un gallo vincitore (secondo una regola invariabile) porta a casa la carcassa del perdente – spesso fatta a pezzi dall’infuriato proprietario – per mangiarsela, provi un miscuglio di imbarazzo sociale, soddisfazione morale, disgusto estetico e gioia cannibalesca; o che un uomo che ha perduto un combattimento importante sia spinto a volte a devastare i suoi altari familiari e maledire gli dei, un atto di suicidio metafisico (e sociale); o che, cercando sulla terra qualcosa di analogo al paradiso ed all’inferno, i balinesi paragonino il primo allo stato d animo di un uomo il cui gallo ha appena vinto, e il secondo a quello di un uomo il cui gallo ha appena perso.
3. Il combattimento I combattimenti di galli (tetadjen, sabungan) si tengono in un ring di circa 50 piedi quadrati. Di solito cominciano verso il tardo pomeriggio e durano tre o quattro ore fino al tramonto. Un programma è formato da nove o dieci incontri 461
(sehet) separati. Ogni incontro è esattamente come gli altri nello schema generale: non c’è un incontro principale, nessun collegamento tra gli incontri individuali, nessuna variazione nelle dimensioni, ed ognuno è combinato su una base del tutto ad hoc. Dopo che un combattimento è terminato e le macerie emotive sono state tolte di mezzo – pagate le scommesse, pronunciate le maledizioni, afferrate le carcasse – sette, otto, forse perfino una dozzina di uomini scivolano con noncuranza nel ring con un gallo e cercano di trovargli un avversario adeguato. Questo procedimento, per cui di rado occorrono meno di dieci minuti, e spesso molti di più, viene condotto in maniera molto sommessa, obliqua, perfino dissimulata. Quelli che non vi sono direttamente interessati vi prestano una attenzione furtiva, tutt’al più solo simulata; quelli che, imbarazzati, lo sono, cercano di fingere in qualche modo che l’intera faccenda non stia realmente accadendo. Combinato l’incontro, gli altri pretendenti si ritirano con la stessa studiata indifferenza, e ai galli selezionati vengono applicati i loro speroni (tadji) – lame d’acciaio appuntite ed affilate come rasoi, lunghe quattro o cinque pollici. Questo è un lavoro delicato che sa fare acconciamente solo una ridotta frazione di uomini, all’incirca mezza dozzina in quasi tutti i villaggi. L’uomo che attacca gli speroni è lo stesso che li fornisce e, se il gallo che egli assiste vince, il suo proprietario lo ricompensa con la zampa speronata della vittima. Gli speroni vengono applicati avvolgendo un lungo tratto di spago attorno alla base dello sperone e alla zampa del gallo. Per motivi che dirò tra poco, lo si fa in modo un po’ diverso da caso a caso, ed è una faccenda ossessivamente studiata. La scienza degli speroni è vasta: vengono affilati 462
solo durante le eclissi e l’oscuramento della luna, si dovrebbero tenere lontano dalla vista delle donne e via dicendo. E vengono maneggiati, sia durante l’uso che fuori, con la stessa curiosa combinazione di meticolosità e sensualità che i balinesi usano verso gli oggetti rituali in genere. Dopo che sono stati apposti gli speroni, i due galli sono collocati dai loro preparatori (che possono essere o meno i loro padroni) uno di fronte all’altro al centro del ring10. Si pone in un secchio d’acqua una noce di cocco con un piccolo foro, che impiega circa 21 secondi ad affondare, periodo noto come tjeng e contrassegnato all’inizio ed alla fine dal rintocco di un gong fessurato. Durante questi 21 secondi ai preparatori (pengangkeb) non è permesso toccare i loro galli. Se, come avviene a volte, gli animali non hanno combattuto durante questo tempo, essi vengono ripresi, scossi, tirati, pungolati, puniti in altri modi, e rimessi nel centro del ring dove l’incontro ricomincia. Qualche volta essi si rifiutano del tutto di combattere, o continuano a correr via. In questo caso vengono imprigionati insieme in una gabbia di vimini, cosa che di solito li fa risolvere al combattimento. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i galli si attaccano quasi immediatamente sbattendo le ali, spingendo avanti la testa, scalciando in un’esplosione di furia animalesca così pura, cosi assoluta e, a suo modo, cosi bella da essere quasi astratta, un idea platonica dell’odio. Dopo pochi istanti uno o l’altro mette a segno un colpo forte col suo sperone. Il preparatore, il cui gallo ha inferto il colpo, lo solleva immediatamente in modo che non riceva il colpo di risposta, perché altrimenti è probabile che l’incontro finisca in un 463
groviglio mortale in cui i due volatili si riducono selvaggiamente a brandelli. Questo è vero specialmente se, come spesso accade, lo sperone si conficca nel corpo della vittima, perché allora l’aggressore è alla mercé del suo avversario ferito. Quando i volatili sono di nuovo nelle mani dei loro preparatori, la noce di cocco viene ora affondata tre volte, dopo di che il gallo che ha sferrato il colpo dev’essere messo giù per far vedere che è ben saldo, cosa che dimostra aggirandosi oziosamente per il ring per la durata dell’affondamento di una noce di cocco. Questa viene poi fatta affondare altre due volte e il combattimento deve ricominciare. Durante questo intervallo, che dura poco più di due minuti, il preparatore del gallo ferito lavora freneticamente su di lui come un allenatore che rappezza un pugile mal concio tra due round, per rimetterlo in forma per un ultimo, disperato tentativo di vincere. Gli soffia in bocca, mettendosi tutta la testa del gallo nella sua stessa bocca, succhiando e soffiando, gli imbottisce le ferite di vari tipi di medicamenti, e in genere tenta tutto quello che può per far rivivere l’ultimo barlume di spirito che potrebbe celarsi da qualche parte dentro di lui. Quando è costretto a rimetterlo per terra, di solito è inzuppato di sangue di pollo ma, come negli incontri di pugilato, un buon preparatore (nel senso di massaggiatore) vale tant’oro quanto pesa. Alcuni di loro possono praticamente far camminare i morti, almeno per il secondo e conclusivo round. In un combattimento caratterizzato da un punto culminante (se c’è, perché a volte il gallo ferito spira semplicemente tra le mani del preparatore non appena viene 464
rimesso per terra), il gallo che ha inferto il primo colpo di solito prosegue sino a che non uccide il suo avversario indebolito. Ma questa non è assolutamente l’inevitabile conclusione, perché un gallo, se può camminare, può combattere e, se può combattere, può uccidere e ciò che conta è quale gallo spira per primo. Se quello ferito riesce ad infliggere una speronata ed a barcollare ritto finché l’altro non cade, è il vincitore ufficiale, anche se un momento dopo crolla pure Intorno a tutto questo melodramma – che la folla ammassata proprio attorno al ring segue quasi in silenzio, muovendo i corpi in simpatia cinestetica con il movimento degli animali, applaudendo i propri campioni con muti gesti delle mani, alzate di spalle, girate di testa, ritirandosi in massa quando il gallo con lo sperone assassino sbanda verso un lato del ring (si dice che talvolta gli spettatori perdono occhi e dita per essere stati troppo coinvolti), e piegandosi in avanti quando i galli si sbirciano a vicenda – esiste un vasto insieme di regole straordinariamente elaborate e precisate. Queste regole, insieme con la complessa dottrina sui galli ed i combattimenti di galli che le accompagnano, sono scritte su manoscritti di foglie di palma (lontar, rontal) tramandati di generazione in generazione come parte della tradizione generale, giuridica e culturale, dei villaggi. In un combattimento, l’arbitro (saja komong; djuru kembar) – l’uomo che gestisce le noci di cocco – è incaricato della loro applicazione, e la sua autorità è assoluta. Non ho mai visto mettere in discussione il giudizio di un arbitro su qualunque argomento, neanche da parte dei perdenti più affranti, né ho mai udito, neanche in privato, accuse di slealtà rivolte 465
contro uno di loro, o lamentele arbitrali in genere. Solo i cittadini eccezionalmente fidati, seri e, data la complessità del codice, molto ferrati, fanno questo lavoro, ed in effetti la gente porta i suoi galli soltanto ai combattimenti presieduti da uomini simili. All’arbitro vengono anche riferite le accuse di imbroglio che occasionalmente insorgono, benché estremamente rare, ed è lui che, nel caso non infrequente in cui i due galli muoiano contemporaneamente, decide quale (se esiste, perché, sebbene ai balinesi non piaccia un esito simile, possono esserci dei pareggi) è morto per primo. Assimilato ad un giudice, un re, un sacerdote e un poliziotto, è tutte queste persone, e sotto la sua sicura direzione la passione animalesca per il combattimento procede entro la pubblica certezza della legge. Nelle dozzine di combattimenti di galli che ho osservato a Bali, non ho mai visto un alterco sulle regole: a dire il vero, non ho mai visto alcun alterco palese, se non quelli tra i galli. Questa duplicità incrociata di un avvenimento che, inteso come fatto naturale, è furia scatenata e, inteso come fatto culturale, è forma compiuta, definisce il combattimento di galli come entità sociologica. Un combattimento di galli è ciò che, cercando un nome per una cosa non abbastanza strutturata per essere chiamata «gruppo» e non abbastanza poco strutturata per essere chiamata «folla», Erving Goffman ha chiamato «riunione mirata» (focused gathering) –un gruppo di persone assorbite in un flusso comune di attività e che si rapportano tra di loro nei termini di quel flusso11. Queste riunioni si formano e si disperdono; i partecipanti fluttuano; l’attività che li accomuna è discreta – un processo parcellizzato che si ripete, non uno continuo
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che dura. Esse prendono forma dalla situazione che le evoca, il pavimento su cui sono poste, come dice Goffman; ma ciò nonostante si tratta di una forma, e una forma articolata. La situazione, il «pavimento» stesso (nelle deliberazioni di una giuria, nelle operazioni chirurgiche, negli incontri di gruppo, nei sit-in, nei combattimenti di galli) viene infatti creato dalle preoccupazioni culturali – in questo caso, come vedremo, la celebrazione delle rivalità di status – che non solo specificano il fuoco ma, riunendo gli attori e sistemando lo scenario, lo portano effettivamente ad esistere. Nei tempi classici (cioè prima dell’invasione olandese del 1908), quando non c’erano in giro burocrati a migliorare la moralità pubblica, la messa in scena di un combattimento di galli era una faccenda di tipo esplicitamente sociale. Portare un gallo ad un combattimento importante era, per un maschio adulto, un dovere obbligatorio del cittadino; la tassazione dei combattimenti, che si faceva solitamente nei giorni di mercato, era una fonte importante di reddito pubblico; il patrocinio di quest’arte era una responsabilità esplicita dei principi; e il ring dei galli, il wantilan, stava nel centro del villaggio vicino agli altri monumenti della civiltà balinese – la casa del consiglio, il tempio delle origini, la piazza del mercato, la torre delle segnalazioni e l’albero di ficodindia. Oggi, a parte alcune occasioni speciali, il recente moralismo rende impossibile un affermazione così esplicita della connessione tra le emozioni della vita collettiva e quelle di questo sport cruento; ma, espressa in modo meno diretto, la connessione resta stretta e intatta. Per esporla, è necessario, tuttavia, focalizzare l’attenzione sull’aspetto dei combattimenti di galli attorno a cui ruotano tutti gli altri, ed 467
attraverso cui questi esercitano la loro forza, aspetto che finora ho deliberatamente trascurato. Parlo, naturalmente, del gioco d’azzardo.
4. Scommesse sbilanciate e alla pari I balinesi non fanno mai in modo semplice quello che possono fare in modo complicato, e le scommesse nei combattimenti di galli non fanno eccezione a questa regola generale. In primo luogo vi sono due tipi di scommesse, o toh12. C’è la scommessa assiale, al centro, tra i due contendenti principali (toh ketengah) e vi è la massa informe delle scommesse periferiche attorno al ring tra gli spettatori (toh kesasi). La prima è tipicamente grossa; la seconda tipicamente piccola. La prima è collettiva, e coinvolge coalizioni di scommettitori che si raggruppano intorno al proprietario del gallo; la seconda è individuale, da uomo a uomo. La prima presuppone accordi studiati, molto quieti, quasi furtivi, tra i membri della coalizione e l’arbitro stretti come cospiratori al centro del ring; la seconda si accompagna con urla sfrenate, pubbliche offerte e pubbliche accettazioni da parte della folla eccitata ai bordi del ring. E, cosa assai curiosa, e come vedremo molto rivelatrice, mentre la prima è, senza eccezioni alla pari la seconda, ugualmente senza eccezioni non è mai tale. Quello che è denaro bilanciato al centro è denaro sbilanciato ai lati. La scommessa al centro è quella ufficiale, di nuovo delimitata da un intrico di regole, e fatta tra i due proprietari dei galli, con l’arbitro come supervisore e 468
pubblico testimone13. Questa scommessa che, ripeto, è sempre relativamente grossa e talvolta anche molto, non viene mai finanziata soltanto dal proprietario nel cui nome è fatta, ma da lui insieme con quattro, cinque, talvolta sette od otto alleati – parenti, compaesani, vicini, amici intimi. Egli può anche, se non è particolarmente benestante, non essere il contribuente maggiore, anche se, fosse solo per dimostrare di non essere coinvolto in nessuna truffa, dev’essere un contribuente importante. Dei 57 incontri per cui ho dati precisi ed affidabili sulla scommessa di centro, il range va da 15 ringgit a 500, con una media di 85 ed una distribuzione piuttosto netta in tre tipi fondamentali: combattimenti piccoli (con una media di 35 ringgit e variazioni in più o meno di 15) che costituiscono circa il 45% del numero totale; medi (media 70 con oscillazioni di 20) per circa il 25%; e grossi (media 175 con oscillazioni di 75) per circa il 20%, con alcuni combattimenti molto piccoli e altri molto grossi agli estremi. In una società dove la paga quotidiana normale di un lavoratore manuale – un fabbricatore di mattoni, un bracciante comune, un facchino del mercato – era di circa tre ringgit al giorno, e considerando il fatto che i combattimenti si tenevano in media ogni due giorni e mezzo nella zona che studiavo, si tratta chiaramente di gioco d’azzardo forte, anche se le scommesse sono fatte in gruppo invece di essere imprese individuali. Le scommesse periferiche, tuttavia, sono qualcosa di completamente diverso. Invece del patteggiamento solenne e codificato del centro, le scommesse avvengono nel modo in cui soleva lavorare la borsa quando non era controllata. C’è uno schema delle quote fisso e conosciuto che si 469
sviluppa in serie continua da dieci-a-nove nell’estremo favorevole a due-a-uno in quello sfavorevole: 10-9, 9-8, 8-7, 7-6, 6-5, 5-4, 4-3, 3-2, 2-1. Chi vuole sostenere il gallo sfavorito (lasciando stare, per il momento, il problema di come si stabiliscono i favoriti, kebut, e gli sfavoriti, ngai) grida il numero dalla parte favorevole indicante la quotazione a cui vuole che il gallo sia dato. Vale a dire, se urla gasal, «cinque», vuole che il gallo sfavorito sia dato cinque-a-quattro (o, per lui, quattro-a-cinque); se grida «quattro», lo vuole quattro-a-tre (lui sostiene di nuovo il «tre»); se «nove», a nove-a-otto, e così via. Uno che sostiene il favorito, e pensa quindi di dare delle quotazioni, se può ottenerle, abbastanza favorevoli, indica il fatto gridando il colore tipo di quel gallo – «marrone», «chiazzato» o quello che è14. Mentre assordano la folla con le loro urla, quelli che accettano le scommesse (i sostenitori del gallo sfavorito) e quelli che le propongono (i sostenitori del favorito) cominciano a fissarsi come coppie potenziali di scommettitori spesso guardandosi da lontano attraverso il ring. Quello che le accetta cerca urlando di convincere quello che le propone a quote più sfavorevoli, quello che le propone cerca di convincere l’altro a quote più favorevoli15. Colui che le accetta, che in questa situazione è il corteggiatore, segnalerà l’entità della scommessa che desidera fare alle quote che urla sollevando un certo numero di dita all’altezza della faccia ed agitandole vigorosamente. Se il corteggiato risponde a tono, la scommessa è fatta: altrimenti distolgono lo sguardo e la ricerca continua. Le scommesse periferiche, che avvengono dopo che si è fatta la scommessa di centro e se ne è annunciata l’entità, 470
consistono in un crescendo di grida via via che i sostenitori del gallo sfavorito fanno le loro offerte a chiunque voglia accettarle, mentre quelli che sostengono il favorito, ma non gradiscono il prezzo offerto, gridano in modo ugualmente frenetico il colore del gallo, per dimostrare che anche loro sono disposti a scommettere, ma a quote più favorevoli. Quasi sempre le richieste di quotazioni, che tendono ad essere molto concordi in quanto quasi tutti gridano la stessa cosa nello stesso momento, iniziano verso il lato sfavorevole della serie – cinque-a-quattro o quattro-a-tre – e quindi si spostano, sempre consensualmente, verso il lato più favorevole con maggiore o minor rapidità e in maggiore o minore misura. Gli uomini che gridano «cinque» e ricevono come risposta solo «marrone» si mettono a gridare «sei», sia trascinando con loro piuttosto in fretta gli altri che stanno gridando, sia ritirandosi dalla scena quando le loro offerte troppo generose sono accolte al volo. Se si fa il cambio e i partner sono ancora pochi, si ripete la procedura spostandosi sul «sette» e così via, raggiungendo solo raramente, e nei combattimenti più grossi, i livelli finali di «nove» e «dieci». Qualche volta, se i galli sono chiaramente male assortiti, può anche non esserci alcuno spostamento verso l’alto, o anche una discesa giù per la scala sul quattroa-tre, tre-a-due, molto, molto raramente al due-a-uno, spostamento che si accompagna ad un numero calante di scommesse, come lo spostamento verso l’alto si accompagna ad un numero crescente. Ma la tendenza generale è che le scommesse si spostino di molto o di poco su per la scala verso il polo inesistente alla pari, per le scommesse marginali, con la stragrande maggioranza delle scommesse
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che oscillano nell’arco compreso tra il quattro-a-tre e l’ottoa-sette16. Via via che si avvicina il momento in cui i preparatori lasciano liberi i galli, le grida, almeno in un incontro dove la scommessa di centro è grossa, raggiungono proporzioni quasi frenetiche, mentre gli scommettitori restanti che non ce l’hanno fatta tentano disperatamente di trovare un partner dell’ultimo momento ad un prezzo per essi sostenibile. (Quando la scommessa di centro è piccola, tende ad accadere l’opposto: le scommesse si diluiscono fino a ridursi al silenzio, mentre le quote diventano sfavorevoli e la gente perde interesse.) In un incontro ben fatto, con grosse scommesse – il tipo di incontro che i balinesi considerano «un vero combattimento di galli» – è molto forte l’impressione di una scena affollata, la sensazione che stia per scatenarsi il vero caos, con tutti quegli uomini che ondeggiano, urlano, spingono, si arrampicano, effetto che è solo rafforzato dalla calma assoluta che piomba all’improvviso, come se qualcuno avesse tolto la corrente, quando risuona il gong, i galli vengono messi giù e la battaglia comincia. Quando finisce, da quindici secondi a cinque minuti più tardi, tutte le scommesse vengono immediatamente pagate. Non ci sono assolutamente dei «pagherò», almeno verso l’avversario di scommessa. Naturalmente si può ricorrere al prestito di un amico prima di offrire od accettare una scommessa, ma per offrire od accettare si deve già avere il denaro in mano e, se si perde, si deve pagare sul posto, prima che cominci l’incontro successivo. Questa è una regola ferrea; come non ho mai sentito di una decisione arbitrale messa in discussione (anche se, indubbiamente, 472
talvolta ce ne devono essere), così non ho neppure mai sentito di una scommessa non pagata, forse perché in mezzo ad una folla eccitata di un combattimento di galli le conseguenze potrebbero essere, come talvolta si dice lo siano per i bari, drastiche ed immediate. In ogni caso, questa asimmetria formale tra le scommesse equilibrate del centro e quelle sbilanciate degli spettatori è ciò che costituisce il problema analitico più importante per una teoria che concepisce le scommesse nei combattimenti di galli come il legame che unisce il combattimento dei galli al più vasto mondo della cultura balinese. Ma questa asimmetria indica anche il modo per riuscire a risolverlo e a dimostrare il nesso in questione. A questo riguardo, la prima considerazione da fare è che più alta è la scommessa del centro, più è probabile che l’incontro sarà di fatto equilibrato. Lo suggeriscono semplici considerazioni di razionalità. Se stai scommettendo quindici ringgit su un gallo, potresti essere disposto a cavartela in parità, anche se senti che il tuo animale è in qualche modo il meno promettente. Ma se ne stai scommettendo cinquecento, è molto probabile che un’idea simile sia lontana dalla tua testa. Quindi negli incontri con scommesse grosse, dove naturalmente sono coinvolti gli animali migliori, si pone grandissima cura nel far sì che i galli siano il più (umanamente) possibile pari come dimensioni, condizioni generali, combattività e via dicendo. Per garantire questa parità si ricorre spesso ai diversi modi di sistemare gli speroni degli animali. Se un gallo sembra più forte, si stipulerà un accordo per sistemargli lo sperone ad un angolo leggermente meno vantaggioso – una specie di penalizzazione in cui gli applicatoti di speroni sono, a 473
quanto si dice, estremamente abili. Si porrà anche maggior cura ad impiegare preparatori esperti e ad equilibrarli esattamente in termini di relative abilità. In breve, in un combattimento con grosse scommesse, la pressione per fare dell’incontro una lotta veramente alla pari è enorme, ed è consapevolmente sentita come tale. Per i combattimenti medi la pressione è in qualche modo minore, e per quelli piccoli ancora inferiore, benché vi sia sempre lo sforzo di rendere le cose almeno approssimativamente uguali, poiché anche per una scommessa di quindici ringgit (la paga per cinque giorni di lavoro) nessuno vuole fare una scommessa alla pari in una situazione chiaramente sfavorevole. E le statistiche in mio possesso tendono di nuovo a mettere in rilievo questo fatto. Nei 57 incontri a cui ho assistito, il favorito ha vinto in tutto 33 volte, lo sfavorito 24, nella proporzione di 1,4 a 1. Ma se si dividono i casi utilizzando come discrimine le scommesse di centro di almeno 60 ringgit, la proporzione si rivela essere di 1,1 a 1 (12 favoriti, 11 sfavoriti) per quelli al di sopra di questo limite, e di 1,6 a 1 (21 e 13) per quelli al di sotto. O, se prendete gli estremi, per i combattimenti molto grossi, quelli con le scommesse di centro superiori ai 100 ringgit la proporzione è di 1 a 1 (7 e 7); per i combattimenti molto piccoli, quelli inferiori ai 40 ringgit, è di 1,9 a 1 (19 e 10)17. Ora, da questa proposizione – che più alta è la scommessa di centro, più il combattimento è alla pari – derivano più o meno due cose: a) più la scommessa di centro è alta, maggiore è la tendenza delle scommesse periferiche a muoversi verso l’estremo delle quote favorevoli nello spettro delle scommesse e viceversa; b) più la scommessa di centro è
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alta, maggiore è il volume delle scommesse periferiche, e viceversa. La logica è simile in entrambi i casi. Infatti, quanto più il combattimento si avvicina alla parità tanto meno attraente apparirà il lato sfavorevole delle quote, e perciò dev’essere tanto più favorevole se si vuole che qualcuno l’accetti. Che le cose stiano così risulta evidente ad una semplice occhiata, ma è pure confermato dall’analisi del problema fatta dagli stessi balinesi e dalle osservazioni più sistematiche che ho potuto raccogliere. Data la difficoltà di ottenere registrazioni complesse e precise delle scommesse periferiche, è difficile tradurre questo ragionamento in forme numeriche, ma in tutti i miei casi il punto di accordo tra allibratore e scommettitore, un «punto di sella» molto pronunciato18, dove si realizza effettivamente il grosso delle scommesse (direi nella maggior parte dei casi da due terzi a tre quarti), era situato a tre o quattro punti di distanza lungo la scala verso l’estremità più favorevole per le scommesse di centro grosse rispetto a quelle piccole, con quelle medie generalmente nel mezzo. Nei particolari naturalmente la corrispondenza non è perfetta, ma lo schema generale è assolutamente coerente: il potere della scommessa di centro di attirare le scommesse periferiche verso il proprio schema alla pari è direttamente proporzionale alla sua dimensione, perché la sua dimensione è direttamente proporzionale alla misura in cui i galli sono effettivamente di pari forza. Per quanto riguarda il volume, le scommesse in totale sono maggiori nei combattimenti con la scommessa di centro grossa, perché questi combattimenti sono considerati più «interessanti» non solo nel senso che sono meno prevedibili, ma soprattutto perché la posta in palio è maggiore – in 475
termini di denaro, in termini di qualità dei galli e di conseguenza, come vedremo, in termini di prestigio sociale19. Il paradosso del denaro bilanciato nel centro e sbilanciato all’esterno è soltanto apparente. I due sistemi di scommesse, benché formalmente incoerenti, non sono veramente in contraddizione tra di loro, ma sono parti di un sistema più vasto in cui la scommessa di centro è, per così dire, il «centro di gravità» che attira, in misura proporzionale alla propria grossezza, le scommesse esterne verso il lato delle quote favorevoli della scala. La scommessa di centro quindi «fa il gioco» o, per meglio dire, lo definisce, e segnala quella che, seguendo un’idea di Jeremy Bentham, chiamerò la sua «profondità». I balinesi tentano di creare un incontro interessante, «profondo» se volete, rendendo la scommessa di centro il più grande possibile così che i galli appaiati saranno i più eguali e i più bravi possibile e quindi il risultato il più possibile imprevedibile. Non sempre ci riescono. Quasi metà degli incontri sono banali, relativamente poco interessanti – usando la terminologia presa a prestito, cose «poco profonde». Ma questa constatazione non va contro la mia interpretazione più di quanto la constatazione che la maggior parte dei pittori, poeti e drammaturghi siano mediocri vada contro il concetto che lo sforzo artistico è diretto alla profondità e, con una certa frequenza, vi si approssima. L’immagine della tecnica artistica è davvero esatta: la scommessa di centro è un mezzo, un dispositivo per creare incontri «interessanti», «profondi», non la ragione, o almeno non la ragione principale, per cui sono interessanti, la fonte del loro fascino, la sostanza della loro 476
profondità. La questione del perché questi incontri sono interessanti – per i balinesi addirittura affascinanti – ci porta al di fuori della sfera degli interessi formali spingendoci verso questioni più generalmente sociologiche e sociopsicologiche, e ad un concetto meno puramente economico di che cosa sia la «profondità» nel gioco20.
5. Giocare col fuoco Il concetto di «gioco profondo» di Bentham si trova nella sua The Theory of Legislation21. Con esso intende un gioco in cui le poste sono così alte che, dal suo punto di vista utilitaristico, è irrazionale che gli uomini vi si impegnino. Se un uomo che ha un patrimonio di mille sterline (o ringgit) ne impegna 500 in una scommessa alla pari, l’utilità marginale della somma che può vincere è chiaramente inferiore allo svantaggio marginale di quella che può perdere. Nel vero gioco profondo, questo avviene per entrambe le parti: sono tutte e due impegnate al di sopra delle loro possibilità. Dopo essersi uniti alla ricerca del piacere, sono entrati in un rapporto che porterà ai partecipanti, considerati collettivamente, più dolore netto che piacere netto. La conclusione di Bentham perciò era che il gioco profondo era immorale a partire dai primi principi e, sviluppo tipico per lui, doveva essere proibito per legge. Più interessante del problema etico, almeno per quanto ci interessa qui, è il fatto che, nonostante la forza logica dell’analisi di Bentham, gli uomini si impegnano in questo gioco, con passione e con frequenza, ed anche di fronte alla minaccia della legge. Per Bentham e per quelli che la 477
pensano come lui (oggigiorno soprattutto giuristi, economisti ed alcuni psichiatri), la spiegazione è, come ho detto, che questi uomini sono esseri irrazionali – drogati, feticisti, bambini, pazzi, selvaggi – che devono solo essere protetti contro loro stessi. Per i balinesi invece, benché naturalmente non la formulino con tante parole, la spiegazione è che in questo gioco il denaro non è tanto una misura di utilità, avuta o sperata, quanto un simbolo di importanza morale, percepita o imposta. In effetti è nei giochi superficiali, quelli in cui sono interessate cifre minori di denaro, che gli aumenti e le diminuzioni di denaro liquido sono quasi sinonimi di utilità e di danno, nel limitato senso ordinario – del piacere e del dolore, della felicità e dell’infelicità. In quelli profondi, dove le somme di denaro sono grosse, è in palio molto di più del guadagno materiale: vale a dire la stima, l’onore, la dignità, il rispetto – in breve lo status, nonostante che a Bali questa sia una parola decisamente importata22. È in palio simbolicamente, perché (tranne alcuni casi di giocatori incalliti rovinati) lo status non viene mai effettivamente alterato dal risultato di un combattimento di galli; esso viene solo confermato od offeso, e per di più momentaneamente. Ma per i balinesi, per i quali nulla è più gradevole di un affronto fatto indirettamente e nulla è più doloroso di uno indirettamente ricevuto – specialmente quando sono presenti dei conoscenti comuni, che non si lasciano ingannare dalle apparenze – questo gioco di valutazione è davvero profondo. Ciò, devo subito sottolinearlo, non significa che il denaro non ha importanza, o che ai balinesi non dispiace perdere 500 ringgit più che se fossero 15. Una conclusione simile 478
sarebbe assurda. È proprio perché il denaro ha importanza, in questa società difficilmente immaterialistica, e ne ha anche molta, che quanto più uno ne rischia, tanto più rischia anche altre cose come il proprio orgoglio, il proprio equilibrio, la propria obiettività, la propria virilità: momentaneamente, certo, ma anche pubblicamente. Nei «profondi» combattimenti di galli il proprietario ed i suoi collaboratori, e, come vedremo, in misura minore ma del tutto effettiva, anche i loro sostenitori esterni, mettono il loro denaro là dov’è il loro status. È in gran parte perché lo svantaggio marginale della perdita è tanto grande ai livelli di scommessa più alti che impegnarsi in tali scommesse significa porre in gioco la propria identità pubblica: allusivamente e metaforicamente, per mezzo del proprio gallo. E anche se agli occhi di un benthamista questo non sarebbe altro che un aumentare ulteriormente l’irrazionalità dell’impresa, per un balinese ciò che si accresce è la significatività del tutto. E dato che (per seguire Weber più di Bentham) l’imprimere un significato alla vita è la condizione principale e primaria dell’esistenza umana, questa possibilità di conferire significato compensa largamente i costi economici che comporta23. In effetti, data la condizione di parità degli incontri più grossi, i cambiamenti importanti di ricchezza materiale tra quelli che vi partecipano regolarmente sembrano praticamente inesistenti, perché le cose a lungo andare più o meno si pareggiano. È nei combattimenti più piccoli, superficiali, dove si trovano coinvolti piccoli gruppi di giocatori più puri, preda del vizio – quelli che ci stanno principalmente per i soldi – che si verificano dei mutamenti reali nella posizione sociale, in gran parte verso il basso. Gli uomini di 479
questo tipo, gli imprudenti, sono molto disprezzati dai «veri combattenti di galli» che li considerano come sciocchi che non capiscono il significato dello sport, gente volgare che non ne coglie Importanza. Questi viziosi sono considerati una facile preda per i veri entusiasti, quelli che se ne intendono davvero, e che sono sempre capaci di prelevare un po’ di denaro agli altri – cosa abbastanza agevole da fare se li si attira in scommesse irrazionali su galli male assortiti, facendo leva sulla loro avidità. La maggior parte di costoro riesce davvero a rovinarsi in un tempo notevolmente breve, ma sembra che ce ne siano sempre in giro uno o due, che impegnano la loro terra e vendono gli abiti pur di scommettere, in qualunque momento24. Questa correlazione graduata del «gioco dello status» con i combattimenti più profondi e, viceversa, del «gioco di denaro» con quelli più superficiali è molto generalizzata. Gli scommettitori stessi formano una gerarchia socio-morale in questi termini. Come ho notato prima, nella maggior parte dei combattimenti di galli, proprio ai bordi della zona dell’incontro, vi è un gran numero di giochi d’azzardo d’intrattenimento, basati puramente sul caso (roulette, dadi, testa o croce) gestiti da concessionari. Soltanto le donne, i bambini, gli adolescenti ed altri vari tipi di persone che non partecipano (o non ancora) ai combattimenti di galli –la gente estremamente povera, socialmente disprezzata, con idiosincrasie personali – partecipano a questi giochi, naturalmente con pochissimi soldi. I partecipanti ai combattimenti di galli si vergognerebbero di andar loro vicino. Ad un livello leggermente superiore vi sono coloro che, benché non partecipino ai combattimenti di galli, scommettono sugli incontri minori ai bordi. 480
Successivamente vi sono quelli che fanno combattere i galli in incontri piccoli, talvolta medi, ma non hanno lo status per entrare in quelli grossi, anche se di tanto in tanto possono scommettere al fianco di questi. E infine vi sono i membri della comunità veramente importanti, quei cittadini attorno ai quali ruota la vita locale, che prendono parte ai combattimenti grossi e scommettono su di essi. Elemento focalizzatore in queste riunioni mirate, questi uomini generalmente dominano e definiscono lo sport allo stesso modo in cui dominano e definiscono la società. Quando un balinese maschio parla, in quel suo modo quasi reverenziale, del «vero combattente di galli», il bebatoh («scommettitore») o il djuru kurung («il custode delle gabbie»), allude a questo tipo di persona, non a quelli che introducono la mentalità del giocatore di lippa nel diverso e inappropriato contesto del combattimento di galli, il giocatore coatto (potét, parola che ha come secondo significato quello di ladro o di reprobo) e il bighellone speranzoso. Per un uomo così, quello che veramente accade in un incontro è qualcosa che si avvicina di più ad una affaire d’honneur (anche se, col talento balinese per la fantasia pratica, il sangue versato è umano solo in senso figurato) che non allo stupido, meccanico scatto di una slot machine. Ciò che rende profondo il combattimento di galli balinese non è quindi il denaro di per sé, ma quello che il denaro fa accadere, in misura tanto maggiore quanto maggiore è la quantità in gioco: la traslazione della gerarchia di status balinese nel corpo del combattimento di galli. Da un punto di vista psicologico si tratta di una rappresentazione esopica dell’identità del maschio balinese, piuttosto narcisista, fatta 481
nei termini dell’opposizione ideale/demoniaco; sotto il profilo sociologico è invece una rappresentazione ugualmente esopica dei complessi campi di tensione instaurati dall’interazione controllata, sommessa, cerimoniale e tuttavia profondamente sentita, di quelle identità nel contesto della vita quotidiana. I galli possono essere dei surrogati della personalità dei loro padroni, specchi animaleschi di una forma psichica, ma il combattimento di galli è – o meglio è trasformato – in una simulazione della matrice sociale, del complicato sistema di gruppi corporati che si intersecano e si sovrappongono – villaggi, gruppi di parentela, società di irrigazione, congregazioni di templi, «caste» – in cui vivono i suoi adepti25. E come il prestigio, ovvero la necessità di affermarlo, difenderlo, celebrarlo, giustificarlo e semplicemente cullarsi in esso (ma non cercarlo, dato il forte carattere ascrittivo della stratificazione balinese) è forse la forza motrice centrale della società, così è pure del combattimento di galli – lasciando perdere i peni ambulanti, i sacrifici cruenti e gli scambi monetari. Questo apparente divertimento che sembra uno sport è, per prendere un’altra frase da Erving Goffman, un «bagno di sangue per lo status»26. Il modo più facile per chiarire questo punto, e per dimostrarlo almeno in qualche misura, è ritornare al villaggio di cui ho meglio osservato le attività nel campo dei combattimenti di galli – quello dove avvenne l’incursione della polizia e da cui ho preso i miei dati statistici. Come tutti i villaggi balinesi, questo – Tihingan, nella regione Klungkung della Bali sudorientale – è organizzato in modo intricato, è un labirinto di alleanze ed opposizioni. 482
Ma, a differenza di molti altri, vi spiccano due tipi di gruppi corporati, che sono anche gruppi di status, e noi possiamo concentrarci su di essi, prendendo una parte per il tutto, senza distorsioni indebite. In primo luogo, il villaggio è dominato da quattro grandi gruppi di discendenza patrilineare, in parte endogami, che sono costantemente in lotta fra di loro e formano le principali fazioni del villaggio. A volte si raggruppano a due a due, o per meglio dire le due più grosse contro le due più piccole, più tutte le persone non affiliate; a volte operano in modo indipendente. Al loro interno vi sono anche sottofazioni, e poi altre sottofazioni all’interno delle sottofazioni, e così via fino a livelli di distinzione molto sottili. E in secondo luogo vi è il villaggio stesso, quasi interamente endogamo, che è opposto a tutti gli altri villaggi intorno nel suo circuito di combattimento di galli (che, come è stato spiegato, è la regione del mercato), ma forma anche alleanze con alcuni di questi vicini contro certi altri, in vari contesti politici e sociali al di sopra dei villaggi. La situazione precisa è dunque, come dappertutto a Bali, molto specifica, ma lo schema generale di una gerarchia ordinata di rivalità di status tra raggruppamenti fortemente corporati, anche se variamente fondati, è molto diffuso. Per suffragare la tesi generale che il combattimento di galli, e specialmente quello profondo, è fondamentalmente una drammatizzazione dei problemi di status, occorre considerare i fatti seguenti che, per evitare una estesa descrizione etnografica, dichiarerò essere semplicemente fatti – sebbene le prove concrete, gli esempi, le dichiarazioni ed i numeri che si potrebbero citare per avvalorarli siano ampi ed inconfutabili. 483
1. Un uomo non scommette praticamente mai contro un gallo di proprietà di un membro del suo stesso gruppo di parentela. Di solito si sente obbligato a scommettere a suo favore, tanto di più quanto più stretto è il legame di parentela e profondo il combattimento. Se dentro di sé è sicuro che non vincerà, può darsi che non scommetta affatto, specialmente se è solo il gallo di un secondo cugino o se il combattimento è superficiale. Ma di regola sente di doverlo sostenere e nei combattimenti profondi lo fa quasi sempre. Pertanto, la grande maggioranza delle persone che grida «cinque» o «chiazzato» in modo così plateale sta esprimendo la propria fedeltà al congiunto, non la propria valutazione del volatile, né la sua comprensione della teoria della probabilità e neppure le speranze di un reddito non sudato. 2. Questo principio viene esteso logicamente. Se il vostro gruppo di parentela non è interessato, voi sosterrete alla stessa maniera un gruppo alleato contro uno non alleato e così via attraverso le reti di alleanze assai intricate che costituiscono questo villaggio balinese come ogni altro. 3. Lo stesso vale per il villaggio nel suo insieme. Se un gallo forestiero combatte contro qualunque gallo del vostro villaggio, tenderete a sostenere quello locale. Se – circostanza più rara ma che qualche volta si verifica – un gallo esterno al vostro circuito di combattimenti combatte all’interno di esso, tenderete a sostenere l’«uccello di casa». 4. I galli che vengono da lontano sono quasi sempre favoriti, per la teoria che l’uomo non avrebbe osato 484
portarlo se non fosse un buon gallo, e tanto migliore sarà ritenuto quanto più lontana è la sua provenienza. I suoi seguaci sono obbligati naturalmente a sostenerlo, e quando si tengono i combattimenti di galli legali su grande scala (nelle festività e simili) gli abitanti del villaggio prendono i galli che ritengono migliori, indipendentemente dai proprietari, e vanno a sostenerli, anche se quasi certamente dovranno darli per vincenti e fare grosse scommesse per dimostrare che non sono un villaggio di poco conto. In effetti questi «giochi fuori casa», benché infrequenti, tendono a sanare le fratture tra i membri del villaggio che i frequentissimi «giochi in casa», dove le fazioni del villaggio sono più opposte che unite, esacerbano. 5. Quasi tutti gli incontri sono sociologicamente rilevanti. È raro che si abbiano combattimenti tra due galli venuti da fuori, o due galli senza nessun gruppo particolare che li sostenga, o con un gruppo sostenitore che non sia organizzato in qualche modo significativo. Quando ciò si verifica, il gioco è molto superficiale, le scommesse molto modeste e tutta la cosa è molto noiosa, attirando solo l’interesse dei contendenti diretti e di un giocatore incallito o due. 6. Analogamente, è difficile avere due galli dello stesso gruppo, ancor più raramente della stessa sottofazione, e praticamente mai della stessa sotto-sottofazione (che nella maggior parte dei casi coinciderebbe con una famiglia estesa). Allo stesso modo, nei combattimenti al di fuori del villaggio raramente vengono opposti due membri dello stesso villaggio, anche se, come accaniti rivali, lo farebbero con entusiasmo sul terreno di casa. 485
7. A livello individuale, le persone coinvolte in un rapporto di ostilità istituzionale, chiamato puik, in cui non si parlano né hanno a che fare altrimenti tra di loro (le cause di questa rottura formale di rapporti sono numerose: seduzione di mogli, dispute su eredità, differenze politiche), scommetteranno molto forte, a volte in modo maniacale, l’una contro l’altra in quello che è un attacco franco e diretto contro la virilità stessa dell’avversario, l’ultimo terreno del suo status. 8. La coalizione della scommessa di centro è composta, sempre tranne che nei giochi più superficiali, da alleati strutturali – non è mai in gioco «denaro esterno». Quello che è «esterno» naturalmente dipende dal contesto, ma, a parte questo, il denaro esterno non entra mai nella scommessa principale; se i contendenti non riescono a raccoglierlo, non si fa. La scommessa centrale, specialmente nei giochi più profondi, è quindi l’espressione più diretta e più aperta dell’opposizione sociale, il che è una delle ragioni per cui essa e la preparazione dell’incontro sono avvolti da una simile atmosfera di disagio, furtività, imbarazzo e via dicendo. 9. La regola per prendere a prestito del denaro – che si può prendere per una scommessa ma non in una scommessa – deriva (e i balinesi ne sono perfettamente consapevoli) da considerazioni simili: in questo modo non siete mai alla mercé economica del vostro nemico. I debiti di gioco, che possono diventare molto cospicui entro breve termine, sono sempre con amici, mai con nemici (in termini di strutture sociali). 10. Quando due galli sono «strutturalmente» irrilevanti o neutrali per quanto riguarda voi (anche se, come 486
abbiamo già detto, non lo sono quasi mai per loro stessi), non dovete chiedere neanche ad un parente o ad un amico su chi sta scommettendo, perché se voi sapete come scommette e lui sa che voi sapete, e voi fate l’opposto, questo creerà delle tensioni. Questa regola è esplicita e rigida: per evitare di infrangerla si prendono delle precauzioni abbastanza elaborate, perfino piuttosto artificiose. Per lo meno dovete fingere di non notare quello che sta facendo, e lui quello che fate voi. 11. C’è una parola speciale per le scommesse controcorrente, che è anche la parola per «scusa» (mpura). È considerata una cosa brutta da fare, benché, se la scommessa di centro è piccola, a volte va benissimo purché non lo facciate troppo spesso. Ma quanto più la scommessa è grossa e maggiore la frequenza con cui la fate, tanto più il sistema delle «scuse» condurrà alla disgregazione sociale. 12. Di fatto il rapporto di ostilità istituzionalizzato, il puik, viene spesso iniziato formalmente (anche se le sue cause risiedono sempre altrove) da una scommessa di questo genere in un combattimento profondo, che è un po’ come soffiare simbolicamente sul fuoco. Allo stesso modo la fine di un rapporto simile e la ripresa di normali relazioni sociali sono spesso segnalate (ma di nuovo non prodotte) da uno o l’altro dei nemici che comincia a sostenere l’uccello dell’altro. 13. Nelle situazioni ambigue, contraddittorie, che naturalmente si ritrovano spesso in questo sistema sociale straordinariamente complesso, quando un uomo è intrappolato tra due lealtà opposte e più o 487
meno bilanciate, egli tende ad allontanarsi e andare a prendere un caffè o qualcosa di analogo per evitare di dover scommettere (una forma di comportamento che ricorda quello degli elettori americani in situazioni simili)27. 14. Le persone coinvolte nelle scommesse di centro sono, specialmente nei combattimenti profondi, quasi sempre leader del loro gruppo – di parentela, di villaggio, o altro. Inoltre, quelli che scommettono ai margini (comprese queste persone) sono, come ho già notato, i membri bene inseriti del villaggio – i cittadini più noti. I combattimenti di galli sono per quelli che si interessano anche della quotidiana politica del prestigio, non per i giovani, le donne, i subordinati e simili. 15. Per quanto riguarda il denaro, l’atteggiamento manifestato esplicitamente nei suoi confronti fa sì che esso appaia una questione secondaria. Non che non abbia importanza, come ho già detto; i balinesi non sono più contenti di altri di perdere il guadagno di parecchie settimane, ma essi vedono gli aspetti finanziari dei combattimenti di galli come una faccenda che si sistema da sola, di denaro che gira, che circola entro un gruppo abbastanza ben definito di seri combattenti di galli. Le vincite e le perdite davvero importanti sono viste soprattutto in altri termini, e l’atteggiamento generale verso le scommesse non esprime speranza di fare piazza pulita, di sfondare (tranne che per i giocatori incalliti), ma è più simile a quello espresso dalla preghiera dello scommettitore sui cavalli: «Oh Dio, ti prego, lasciami finire alla pari». In 488
termini di prestigio però non si vuole finire alla pari, ma per un momento almeno vincere clamorosamente. La conversazione (che non smette mai) verte sui combattimenti di un certo gallo di un tal dei tali che il vostro gallo ha demolito, non su quanto avete vinto (un fatto che le persone, anche per le scommesse grosse, ricordano solo per un certo tempo, mentre ricorderanno per anni il giorno in cui fecero fuori il più bel gallo di Pan Loh). 16. Dovete scommettere sui galli del vostro gruppo oltre che per considerazioni di pura lealtà, perché altrimenti la gente dirà: «Che! È troppo orgoglioso per quelli come noi? Deve andare a Giava o a Den Pasa [la capitale] per scommettere, è un uomo tanto importante?». Vi è quindi una pressione generale perché scommettiate non solo per dimostrare che siete importante localmente, ma anche che non siete tanto importante da guardare tutti gli altri dall’alto in basso, come se non fossero degni di essere vostri rivali. Allo stesso modo, le persone della squadra di casa devono scommettere contro i galli forestieri o i forestieri li accuseranno – accusa grave – di volere solo raccogliere i soldi dei biglietti di ingresso e di non essere veramente interessati al combattimento, come pure di essere arroganti e insultanti. 17. Infine gli stessi contadini di Bali sono perfettamente consapevoli di tutto questo e possono dichiararlo, per lo meno ad un etnografo, quasi negli stessi termini usati da me. I combattimenti di galli – l’hanno detto quasi tutti i balinesi con cui ho discusso l’argomento – sono come giocare col fuoco senza bruciarsi. Si 489
rinfocolano le rivalità e le ostilità del villaggio e dei gruppi di parentela ma in forma «ludica», avvicinandosi in modo pericoloso ed affascinante all’espressione di una diretta ed aperta aggressione interpersonale e intergruppo (una cosa che non avviene quasi mai nel corso normale della vita comune) ma mai del tutto, perché, dopo tutto, è solo «un combattimento di galli». Si potrebbero aggiungere altre osservazioni di questo tipo, ma forse il problema generale è stato, se non risolto, almeno ben descritto, e tutta la discussione fin qui può essere riassunta in un paradigma formale: Quanto più un incontro è… 1. 1. Tra persone di status quasi pari (e/o nemici personali) 2. 2. Tra individui di status elevato tanto più l’incontro è profondo. Più profondo è l’incontro… 1. Più stretta è l’identificazione tra gallo e uomo (o, per meglio dire, più l’incontro è profondo, più l’uomo metterà in campo il suo gallo migliore, quello con cui si identifica maggiormente). 2. Più i galli coinvolti sono belli, e maggiore sarà la cura con cui verranno abbinati. 3. Maggiore sarà l’emotività investita e maggiore sarà il coinvolgimento nell’incontro. 4. Più le scommesse di centro e quelle periferiche saranno alte, più tenderanno ad essere favorevoli le quotazioni delle scommesse esterne, e più le scommesse saranno generali. 5. Più la concezione del gioco sarà «di status» e non «economica», e più «solidi» saranno i cittadini che scommetteranno28.
Tesi opposte valgono per i combattimenti più superficiali che culminano, nel senso del segno opposto, nei giochetti 490
tipo lancio della moneta o lancio dei dadi. Per i combattimenti profondi non vi sono limiti assoluti verso l’alto, benché naturalmente ve ne siano di pratici, e vi sono moltissime storie leggendarie di grandi combattimenti, tipo «duello al sole», tra signori e principi nelle epoche classiche (perché il combattimento di galli è sempre stato di interesse sia elitario sia popolare), molto più profondi di quanto chiunque, anche un aristocratico, potrebbe produrre oggigiorno in ogni parte di Bali. In verità uno dei grandi eroi culturali a Bali è un principe, chiamato per la sua passione per lo sport «il combattente di galli», a cui era capitato di essere lontano per un combattimento molto profondo con un principe suo confinante allorché la sua intera famiglia – padre, fratelli, mogli, sorelle – fu assassinata da usurpatori di rango inferiore. Essendo quindi sopravvissuto, egli tornò per sedare la rivolta, riconquistare il trono, ricostituire la nobile tradizione balinese e ricostruire il suo stato più potente, glorioso e prospero. Insieme con tutte le altre cose che i balinesi vedono nei galli da combattimento – loro stessi, il loro ordine sociale, l’odio astratto, la virilità, il potere demoniaco – essi vedono anche l’archetipo della virtù dello status, il giocatore arrogante, deciso, folle per l’onore, che sa giocare con il vero fuoco, il principe ksatria29.
6. Piume, sangue, folle e soldi «La poesia non fa accadere nulla» – dice Auden nella sua elegia su Yeats – «sopravvive nella valle del suo dire… un modo di accadere, una bocca». Anche il combattimento di 491
galli, in questo senso familiare, non fa accadere niente. Gli uomini continuano ad umiliare allegoricamente e ad essere umiliati, giorno dopo giorno, gloriandosi tranquillamente dell’esperienza se hanno trionfato, snobbati in modo appena meno palese se hanno perso. Ma in realtà non cambia lo status di nessuno. Non si può risalire la scala dello status vincendo combattimenti di galli; non si può, in realtà, salire affatto come individui. E neanche si può scendere in questo modo30. Tutto quello che si può fare è gioire ed assaporare, o soffrire e sopportare, sensazione distillata di un movimento drastico e subitaneo lungo una rappresentazione estetica di quella scala, una specie di salto di status al di là dello specchio che ha l’apparenza della mobilità senza averne la sostanza. Come ogni forma artistica – perché di questo in fondo stiamo trattando – il combattimento di galli rende comprensibile l’esperienza comune, quotidiana, presentandola in termini di azioni ed oggetti le cui conseguenze pratiche sono state rimosse e che sono stati ridotti (o se preferite innalzati) al livello di pure apparenze, dove il loro significato può essere più fortemente articolato e più esattamente percepito. Il combattimento è «veramente reale» solo per i galli – non uccide nessuno, non castra nessuno, non riduce nessuno allo status di animale, non altera i rapporti gerarchici tra le persone, né rimodella la gerarchia: non ridistribuisce neppure il reddito in maniera significativa. Fa quello che per altri popoli con temperamenti e convenzioni diverse compiono Re Lear e Delitto e castigo: prende questi temi – la morte, la virilità, l’ira, l’orgoglio, la perdita, la beneficenza, il caso – e, ordinandoli in una struttura che comprende tutto, li 492
presenta in modo tale da mettere in rilievo una concezione particolare della loro natura essenziale. Li sottopone a un’interpretazione; li rende, per coloro che in virtù della loro posizione storica possono apprezzarne l’interpretazione, significativi – visibili, tangibili, afferrabili – «reali», in un senso ideazionale. Immagine, finzione, modello, metafora, il combattimento di galli è un mezzo di espressione; la sua funzione non è né di placare le passioni sociali né di sublimarle (benché, giocando col fuoco, faccia un po’ tutte e due le cose) ma di mostrarle, in un’atmosfera di piume, sangue, folle e denaro. Il fatto di come è che noi percepiamo qualità che non sentiamo di poter affermare esistere veramente, in cose come quadri, libri, melodie, commedie, costituisce un problema che in questi ultimi anni è venuto a porsi al centro stesso della teoria estetica31. Né i sentimenti dell’artista, che rimangono i suoi, né quelli del pubblico, che rimangono pure suoi, possono spiegare l’inquietudine di un dipinto o la serenità di un altro. Noi attribuiamo grandezza, brio, disperazione, esuberanza a stringhe di suoni; leggerezza, energia, violenza, fluidità a blocchi di pietra. Di certi romanzi si dice che hanno forza, di edifici che hanno eloquenza, di spettacoli teatrali che hanno impeto, di balletti che hanno armonia. In questo contesto di affermazioni eccentriche, dire che il combattimento di galli, almeno nei casi più perfetti, è «inquietante» non sembra affatto innaturale ma solo, visto che ho appena escluso sue possibili conseguenze pratiche, alquanto sconcertante. L’inquietudine sorge, «in qualche modo», dalla congiunzione di tre attributi del combattimento: la sua immediata forma drammatica, il suo contenuto metaforico e 493
il suo contesto sociale. Figura culturale su uno sfondo sociale, il combattimento è al tempo stesso un rigurgito convulso di odio animalesco, una guerra per burla di esseri simbolici e una simulazione formale di tensioni di status, ed il suo potere estetico deriva dalla sua capacità di unire strettamente queste tre diverse realtà. Il motivo per cui è inquietante non consiste nel fatto che ha effetti materiali (ne ha alcuni, ma sono poco importanti); la ragione è che, connettendo l’orgoglio alla personalità, la personalità ai galli e i galli alla distruzione, esso porta alla realizzazione immaginativa una dimensione dell’esperienza balinese normalmente del tutto nascosta alla vista. Il trasferimento di un senso di gravità in quello che è di per sé uno spettacolo piuttosto vacuo e invariato – un turbinio di ali che sbattono e di zampe che fremono – è effettuato interpretandolo come l’espressione di un qualcosa di sconvolgente nel modo di vita dei suoi autori, del suo pubblico, nonché, in termini ancor più sinistri, in ciò che essi sono. Come forma drammatica, il combattimento rivela una caratteristica che non sembra così importante, finché non ci si rende conto che non dovrebbe esserci: una struttura radicalmente atomistica32. Ogni incontro è un mondo a sé stante, un’esplosione particellare di forma. C’è la preparazione, c’è la scommessa, c’è il combattimento, c’è il risultato – assoluto trionfo ed estrema sconfitta – e c’è l’affrettato, imbarazzato trasferimento del denaro. Il perdente non viene consolato. La gente si scosta da lui, lo squadra, gli lascia assimilare la sua momentanea discesa nel non-essere, ricomporsi la faccia e tornare nella mischia privo di cicatrici ed intatto. Non si fanno le congratulazioni ai vincitori, né si rievocano gli avvenimenti: una volta che 494
l’incontro è terminato, l’attenzione della folla si volge interamente al successivo, senza guardarsi indietro. Un’ombra dell’esperienza rimane indubbiamente sui contendenti, forse anche tra alcuni dei testimoni di un combattimento profondo, come resta tra di noi quando lasciamo il teatro dopo aver visto una possente tragedia ben rappresentata, ma ben presto svanisce per divenire al più un ricordo schematico – un bagliore soffuso o un brivido astratto – e di solito neppure questo. Qualunque forma espressiva vive solo nel suo presente – quello che essa stessa crea. Ma qui quel presente è suddiviso in una serie di lampi, alcuni più lucenti di altri, ma tutti solo dei «quanti» estetici sconnessi. Qualsiasi cosa dica il combattimento di galli, lo dice a strappi. Ma, come ho estesamente spiegato altrove, i balinesi vivono «a tratti»33. La loro vita, come la sistemano e la percepiscono, non è tanto un flusso, un movimento direzionale proveniente dal passato, che attraversa il presente diretto verso il futuro, quanto una pulsazione intermittente di significato e di vacuità, un’alternanza aritmica di brevi periodi in cui «qualcosa» (cioè qualcosa di significante) sta accadendo e di periodi egualmente brevi dove «nulla» (cioè nulla di importante) accade – un’alternanza tra quelli che loro stessi chiamano tempi «pieni» e tempi «vuoti» o, in un altro linguaggio, «congiunture» e «buchi». Focalizzando l’azione fino a ridurla ad una minuscola lente ustoria, il combattimento di galli è puramente balinese nello stesso modo in cui, dagli incontri monadici della vita quotidiana, al divisionismo fragoroso della musica dei gamelan, alle celebrazioni dei templi nel giorno di visita degli dei, ogni cosa qui lo è. Non 495
è un’imitazione della frammentazione della vita sociale balinese, e nemmeno una sua raffigurazione, o una espressione di essa: ne è un’esempio, accuratamente preparato34. Se un aspetto della struttura del combattimento di galli, la sua mancanza di direzionalità temporale, lo fa sembrare un tipico segmento della vita sociale in genere, l’altro, tuttavia, la sua aggressività accanita, testa contro testa (o sperone contro sperone), lo fa apparire una contraddizione, un capovolgimento, perfino una sovversione di essa. Nel corso normale delle cose, i balinesi sono timorosi fino all’ossessione del conflitto aperto. Obliqui, cauti, sommessi, controllati, maestri della tortuosità e della dissimulazione – ciò che chiamano alus, «levigato»35, «liscio» – affrontano raramente quello da cui possono fuggire, insistono raramente su quello che possono evitare. Qui invece si raffigurano come selvaggi ed assassini, con esplosioni maniacali di istintiva crudeltà. Una potente interpretazione della vita come i balinesi intimamente non la vogliono (per adattare una frase che Frye ha usato a proposito dell’accecamento di Gloucester) è posta nel contesto di un esempio di essa come di fatto l’hanno36. E poiché il contesto indica che l’interpretazione, anche se non è una descrizione diretta, è tuttavia più di un’oziosa fantasia, è qui che emerge l’inquietudine – l’inquietudine del combattimento, non (in ogni caso non necessariamente) di coloro che l’organizzano o che vi assistono, i quali di fatto sembrano godersela un mondo. Il massacro dei galli sul ring non è una raffigurazione di come vanno letteralmente le cose tra gli uomini ma, cosa ancor peggiore, di come esse appaiano immaginativamente, sotto una particolare angolazione37. 496
L’angolazione, naturalmente, è connessa alla stratificazione. Come abbiamo già visto, ciò di cui più animatamente parla il combattimento di galli sono i rapporti di status, e quello che ne dice è che si tratta di una questione di vita o di morte. Che il prestigio sia una faccenda profondamente seria è evidente ovunque si volga lo sguardo a Bali – nel villaggio, nella famiglia, nell’economia, nello Stato. Peculiare fusione di titoli di rango polinesiani e di caste indù, la gerarchia dell’orgoglio è la spina dorsale morale della società. Ma solo nei combattimenti di galli i sentimenti su cui si basa questa gerarchia si rivelano nei loro colori naturali: avvolti altrove in un alone di etichetta, una spessa coltre di eufemismi e di cerimonie, gesti ed allusioni, essi sono qui espressi sotto il più esile travestimento di una maschera animalesca, una maschera che di fatto li svela molto più di quanto li nasconda. A Bali la gelosia costituisce un elemento importante tanto quanto il portamento, e così l’invidia come la grazia, la brutalità come il fascino; ma senza il combattimento dei galli i balinesi ne avrebbero certamente una comprensione molto minore, il che presumibilmente è il motivo per cui lo tengono in così alta considerazione. Qualunque forma espressiva opera (quando opera) sconvolgendo i contesti semantici in modo tale che le proprietà ascritte convenzionalmente a certe cose vengono ascritte non convenzionalmente ad altre, le quali sono quindi viste come se effettivamente possedessero quelle proprietà. Chiamare il vento zoppo, come fa Stevens, fissare il tono e manipolare il timbro, come fa Schònberg o, più vicini al caso nostro, chiamare un critico d’arte orso dissoluto, come fa Hogarth, significa incrociare fili 497
concettuali: le congiunzioni stabilite tra oggetti e qualità sono alterate, e i fenomeni – il tempo d’autunno, la forma melodica o il giornalismo culturale – sono rivestiti di significanti che normalmente si rivolgono ad altri referenti38. Allo stesso modo, collegare – e continuare a collegare ~ lo scontro dei galli con le distinzioni di status è indurre un trasferimento di percezioni dal primo alle seconde, un trasferimento che è al tempo stesso una descrizione ed un giudizio. (Da un punto di vista logico, il trasferimento potrebbe naturalmente anche avvenire in senso inverso, ma, come la maggior parte di noi, i balinesi sono più interessati a comprendere gli uomini di quanto non lo siano a comprendere i galli.) Ciò che colloca il combattimento di galli al di fuori del corso ordinario della vita, che lo eleva dalla sfera degli affari pratici quotidiani e lo circonda di un’aura di considerevole importanza non è, come vorrebbe la sociologia funzionalista, il fatto che esso rafforza le discriminazioni di status (questo rinforzo non è certo indispensabile in una società dove ogni azione le proclama), ma il fatto che fornisce un commento metasociale all’intera questione del sistemare gli esseri umani in categorie gerarchiche fisse e quindi organizzare la maggior parte dell’esistenza collettiva attorno a questa sistemazione. La sua funzione, se volete chiamarla così, è interpretativa: è una lettura balinese dell’esperienza balinese, una storia che essi raccontano su se stessi.
7. Dire qualcosa di qualcosa
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Porre la questione in questo modo significa riaggiustare un poco il proprio tiro in senso metaforico, perché questo sposta l’analisi delle forme culturali da una prospettiva nella quale essa si configura in generale come un’operazione analoga a quella di sezionare un organismo, diagnosticare un sintomo, decifrare un codice o ordinare un sistema – le analogie prevalenti nell’antropologia contemporanea – ad una prospettiva in cui verrebbe assimilata, invece, all’operazione di penetrare un testo letterario. Se si prende il combattimento di galli, o qualunque altra struttura simbolica sostenuta collettivamente, come un mezzo per «dire qualcosa di qualcosa» (per riprendere una famosa espressione aristotelica), allora ci si trova di fronte ad un problema non già di meccanica sociale, ma di semantica sociale39. Per l’antropologo, che si preoccupa di formulare dei principi sociologici e non di promuovere o di apprezzare combattimenti di galli, la questione è: che cosa si impara su questi principi dall’esame della cultura intesa come un insieme di testi? Questa estensione dell’idea di testo al di là del materiale scritto, e perfino al di là di quello verbale, anche se metaforico, non è poi una grande novità. La tradizione medioevale della interpretatio naturae che, culminando in Spinoza, tentò di leggere la natura come Scrittura, lo sforzo di Nietzsche di valutare i sistemi di valori come glosse alla volontà di potenza (o quello di Marx di trattarli come glosse ai rapporti di proprietà), e la sostituzione compiuta da Freud del testo enigmatico del sogno manifesto con quello chiaro del sogno latente, tutti offrono dei precedenti, anche se non ugualmente raccomandabili40. Ma l’idea resta teoricamente non sviluppata, e il corollario più profondo, 499
per quanto riguarda l’antropologia, secondo il quale le forme culturali possono essere trattate come testi, come opere dell’immaginazione costruite con materiali sociali, deve ancora essere sfruttato sistematicamente41. Nel caso in questione, trattare il combattimento di galli come testo significa porre in evidenza una sua caratteristica (secondo me la più importante) che il trattarlo come rito o come passatempo, le due alternative più ovvie, tenderebbe a mettere in ombra: il suo uso dell’emozione per scopi cognitivi. Quello che il combattimento di galli dice lo dice in un vocabolario di sentimenti – il brivido del rischio, la disperazione della perdita, il piacere del trionfo. Tuttavia ciò che dice non è semplicemente che il rischio è eccitante, la perdita deprimente, o il trionfo gratificante, banali tautologie sentimentali, ma che è con queste emozioni, così esemplificate, che la società è costruita e gli individui sono aggregati. Assistere a combattimenti di galli e parteciparvi è, per il balinese, una specie di educazione sentimentale. Qui egli apprende quale aspetto hanno l’ethos della sua cultura e la sua sensibilità personale (o comunque certi loro aspetti) quando vengono espressi esternamente in un testo collettivo; che entrambi sono abbastanza simili da essere articolati nel simbolismo di questo singolo testo; e che – elemento inquietante – il testo in cui si compie questa rivelazione consiste in un pollo che incurantemente ne fa a brandelli un altro. Ogni popolo, dice il proverbio, predilige la sua forma di violenza. Il combattimento di galli è la riflessione balinese sulla propria: sul suo aspetto, i suoi usi, la sua forza, il suo fascino. Attingendo quasi da ogni livello dell’esperienza balinese, esso pone in connessione temi – la crudeltà 500
animale, il narcisismo maschile, il gioco d’azzardo dei contendenti, la rivalità di status, l’eccitazione di massa, il sacrificio cruento – il cui nesso principale è costituito dal riferimento al furore e alla paura del furore e, collegandoli entro un insieme di regole che al tempo stesso li contiene e li lascia agire, costruisce una struttura simbolica in cui si può sentire, ripetutamente ed in maniera intelligibile, la realtà della loro intima connessione. Se, citando ancora Northrop Frye, noi andiamo a vedere Macbeth per capire come si sente un uomo dopo che ha guadagnato un regno ed ha perduto l’anima, il balinese va ai combattimenti di galli per scoprire come si sente un uomo, di solito composto, distaccato, chiuso in se stesso in modo quasi ossessivo, una specie di autocosmo morale, quando, attaccato, tormentato, sfidato, insultato e mandato di conseguenza su tutte le furie, ha completamente trionfato o è stato abbattuto. Tutto il brano è degno di essere citato, poiché ci riporta ad Aristotele (anche se più alla Poetica che all’Ermeneutica): Ma il poeta [contrapposto allo storico], dice Aristotele, non fa mai nessuna vera affermazione, certamente nessuna affermazione specifica. Il compito del poeta non è di dirvi quello che è accaduto, ma quello che accade: non quello che ha avuto luogo, ma il genere di cose che avviene sempre. Vi dà l’avvenimento tipico, ricorrente, quello che Aristotele chiamerebbe universale. Voi non andreste a vedere Macbeth per imparare qualcosa sulla storia della Scozia – ci andate per apprendere come si sente un uomo dopo che ha guadagnato un regno e ha perso l’anima. Quando incontrate un personaggio come Micawber in Dickens, non sentite che dev’essere esistito un uomo che Dickens conosceva che era esattamente come questo: sentite che c’è un po’ di Micawber in quasi tutti quelli che conoscete, voi compresi. Le nostre impressioni della vita umana sono raccolte una ad una, e per la maggior parte di noi restano sparse e disordinate. Ma nella letteratura troviamo continuamente cose che in un attimo coordinano e mettono a fuoco moltissime di queste impressioni, e questo è parte di quello che Aristotele intende con avvenimento umano tipico o universale42.
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È questa messa a fuoco delle varie esperienze della vita quotidiana che compie il combattimento di galli, separato dalla vita come «soltanto un gioco» e ricollegato ad essa come «più di un gioco», creando così quello che, più che tipico o universale, si potrebbe chiamare avvenimento umano paradigmatico – cioè un avvenimento che ci dice non tanto quello che accade quanto il genere di cose che accadrebbe se, diversamente dal vero, la vita fosse arte e potesse essere plasmata da modi di sentire altrettanto liberamente quanto Macbeth o David Copperfield. Rappresentato e rirappresentato, finora senza un termine, il combattimento di galli mette in grado il balinese, come il Macbeth letto e riletto mette in grado noi, di cogliere una dimensione della propria soggettività. Mentre egli osserva un combattimento dopo l’altro, insieme all’attiva osservazione del proprietario e dello scommettitore (poiché il combattimento di galli non è più interessante come sport per spettatori puri del croquet o delle corse di cani), si familiarizza con esso e con quanto ha da dirgli, proprio come l’assiduo ascoltatore di quartetti d’archi o l’assorto contemplatore di nature morte si familiarizza lentamente con essi in un modo che gli schiude la propria soggettività43. Eppure, visto che – con un altro di quei paradossi che, insieme con i sentimenti dipinti e gli atti non conseguenti, ossessionano l’estetica – la soggettività non esiste realmente finché non è così organizzata, le forme artistiche generano e rigenerano quella soggettività stessa che fingono solo di evidenziare. Quartetti, nature morte, combattimenti di galli non sono semplicemente riflessi di una sensibilità preesistente, rappresentata per analogia: sono agenti positivi nella creazione e nel mantenimento di tale sensibilità. Se ci 502
vediamo come una banda di Micawber, è perché leggiamo troppo Dickens (se ci vediamo come realisti disincantati, è perché ne leggiamo troppo poco), e lo stesso vale per i balinesi, i galli e i combattimenti di galli. È in questo preciso modo, colorando l’esperienza con la luce che esse vi gettano, e non attraverso effetti materiali che possono avere, che le arti, in quanto arti, svolgono il loro ruolo nella vita sociale44. Nel combattimento di galli, quindi, il balinese forma e scopre il suo temperamento e l’indole della sua società allo stesso tempo; o per essere più precisi, ne forma e scopre una particolare sfaccettatura. Non solo vi sono molti altri testi culturali che forniscono commenti sulla gerarchia di status e la considerazione di sé a Bali, ma vi sono molti altri settori critici della vita balinese, oltre quello della stratificazione e quello agonistico, che sono disposti a ricevere un commento di tal genere. La cerimonia che consacra un sacerdote bramino – una questione di controllo della respirazione, di immobilità posturale, e di concentrazione sulle profondità dell’essere – manifesta una proprietà della gerarchia sociale totalmente diversa, ma ugualmente reale per i balinesi – il suo slancio verso il trascendente divino. Posta non nella matrice dell’emotività cinetica degli animali, ma in quella dell’impassibilità statica della mentalità divina, questa cerimonia esprime tranquillità, non inquietudine. Le feste di massa nei templi del villaggio, che mobilitano tutta la popolazione locale in una accurata accoglienza degli dei in visita – canti, danze, ossequi, doni – affermano l’unità spirituale degli abitanti del villaggio contro l’ineguaglianza del loro status e proiettano uno stato d’animo di amicizia e fiducia45. Il combattimento di galli non è la chiave principale per capire la vita balinese, non più di quanto lo sia la corrida 503
per quella spagnola. Quello che ci dice di quella vita non è squalificato e neppure smentito da quello che ci dicono altre affermazioni culturali ugualmente eloquenti. Ma in questo non vi è nulla di sorprendente, così come non sorprende il fatto che Racine e Molière erano contemporanei, o che le stesse persone che dispongono i crisantemi fondono le spade46. La cultura di un popolo è un insieme di testi, anch’essi degli insiemi, che l’antropologo si sforza di leggere sedendosi sulle spalle di quelli a cui appartengono di diritto. Vi sono difficoltà enormi in questa impresa, trabocchetti metodologici tali da far tremare un freudiano, ed anche alcune perplessità morali. Non è il solo modo in cui si possano maneggiare sociologicamente delle forme simboliche: esiste il funzionalismo, così come lo psicologismo. Ma considerare queste forme come se «dicessero qualcosa di qualcosa» e dirlo a qualcuno significa almeno schiudere la possibilità di un’analisi che si attenga alla loro sostanza, piuttosto che alle formule riduttive che pretendono di spiegarle. Come negli esercizi più familiari di lettura ravvicinata, si può cominciare in qualsiasi punto nel repertorio di forme di una cultura e terminare in qualsiasi altro punto. Si può restare, come ho fatto io qui, entro una singola forma, più o meno circoscritta, e muoversi costantemente all’interno di essa. Ci si può muovere tra le forme in cerca di unità più ampie o di opposizioni da cui ottenere informazioni. Si possono anche confrontare forme tratte da culture diverse per definire il loro carattere mediante una reciproca illuminazione. Ma quale che sia il livello a cui si opera, e per quanto complesso, il principio guida è lo stesso: le società, 504
come le vite umane, contengono la propria interpretazione. Si deve solo imparare come riuscire ad avervi accesso.
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Note
Introduzione 1. A.W. Gouldner, The Coming Crisis of Western Sociology, New York, Basic Books, 1970, trad. it. La crisi della sociologia, Bologna, Il Mulino, 1980. ↵ 2. C. Geertz, Local Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, New York, Basic Books, 1983, trad. it. Antropologia interpretativa, Bologna, Il Mulino, 1988. ↵ 3. Cfr. G.E. Marcus, Una opportuna rilettura di «Naven»: Gregory Bateson saggista oracolare, in appendice a G. Bateson, Naven, Stanford, Stanford University Press, 19582, trad. it. Naven. Un rituale di travestimento in Nuova Guinea, Torino, Einaudi, 1988. ↵ 4. L’opera cui si deve l’inclusione delle nuove tendenze nella sociologia accademica è sicuramente A. Giddens, New Rules of Sociological Method: A Positive Critique of Interpretative Sociology, London, Hutchinson, 1976, trad. it. Le nuove regole del metodo sociologico, Bologna, Il Mulino, 1979. ↵ 5. C. Geertz, H. Geertz e S. Rosen, Meaning and Order in a Moroccan Society, Cambridge, Cambridge University Press, 1979. ↵ 6. C. Geertz, Negara: The Theatre State in Nineteenth Century Bali, Princeton, Princeton University Press, 1980. ↵ 7. C. Geertz, Deep Play: Notes on the Balinese Cockfight, in «Daedalus», 101, 1972, pp. 1-37, trad. it. Il «gioco profondo»: note sul combattimento dei galli a Bali, in questo volume. ↵ 8. E. Goffman, Frame Analysis. An Essay on the Social Organization of Experience, London, Penguin Harmondsworth, 1975 (ma le ricerche di Goffman all’origine di questo saggio risalgono al decennio precedente). ↵ 9. C. Geertz, Works and Lives. The Anthropologist as Author, Stanford, Stanford University Press, trad. it. Opere e vite. L’antropologo come autore, Bologna, Il Mulino, 1990. ↵ 10. V. Crapanzano, Hermess’ Dilemma: The Masking of Subversion in Ethnographic Description, in J. Clifford e G.E. Marcus (a cura di), Writing Culture. The Poetics and Politics of Ethnography, Berkeley, University of California Press, 1986, pp. 51-76, trad. it. Il dilemma di Ermes. Il mascheramento della sovversione nella descrizione etnografica, Milano, Anabasi, 1995. ↵ 11. Ma si veda ora, su questo movimento autocritico in antropologia, la riflessione autobiografica dello stesso Geertz in Beyond the Fact. Two Countries, Four Decades, One Anthropologist, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1995, trad. it. Oltre i fatti. Due paesi, quattro decenni, un antropologo, Bologna, Il Mulino, 1995. ↵ 12. Geertz, Antropologia interpretativa, cit., p. 22. ↵
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13. Mi riferisco qui a C. Geertz, Anti Anti-relativism, in «American Anthropologist», 2, 1984. ↵ 14. Per una critica del concetto di «identità etnica», cfr. U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995. ↵
Capitolo 1 1. S. Langer, Philisophie in a new Key, Cambridge, Mass., 1960, trad. it. Filosofia in una nuova chiave, Roma, Armando, 1972. ↵ 2. Thick significa «denso», «spesso» ma anche, nella particolare accezione di Geertz, «complesso», «stratificato». Si noti inoltre che thick significa colloquialmente «ottuso», nel senso di qualcosa «che non penetra al fondo delle cose». Analoghe considerazioni valgono per thin che significa «sottile», «rado», ma anche «banale», «superficiale». Il significato delle due espressioni è comunque chiaro nel contesto [N.d.R.]. ↵ 3. Cioè un positivista logico [N.d.R.]. ↵ 4. Non solo degli altri popoli: l’antropologia può essere applicata sulla cultura di cui essa stessa fa parte, e questo avviene sempre più spesso; fatto di grande importanza ma che metterò da parte per il momento, visto che solleva alcuni problemi di second’ordine insidiosi e piuttosto particolari. ↵ 5. Di nuovo il problema dell’ordine è complesso. I lavori antropologici basati su altri lavori antropologici (quelli di Lévi-Strauss, ad esempio) possono, naturalmente, essere di quart’ordine o superiori, e spesso, perfino abitualmente, gli informatori danno delle interpretazioni di second’ordine – quelli che hanno finito per essere noti come «modelli indigeni». Nelle culture alfabetizzate, dove le interpretazioni «indigene» possono procedere a livelli superiori – riguardo al Maghreb, basta pensare ad Ibn Khaldun, per gli Stati Uniti, a Margaret Mead – questioni di questo genere diventano davvero complicate. ↵ 6. O ancora, più esattamente «inscrive». In effetti la maggior parte dell’etnografia si trova nei libri e negli articoli, piuttosto che in film, dischi, esposizioni di musei o altro; ma anche nei libri e negli articoli possiamo trovare naturalmente fotografie, disegni, diagrammi, tabelle e via dicendo. L’auto-consapevolezza degli antropologi circa le modalità di rappresentazione (per non parlare degli esperimenti su di esse) è stata finora molto carente. ↵ 7. Nella misura in cui ha rafforzato l’impulso dell’antropologo ad impegnarsi con i propri informatori come persone più che come oggetti, il concetto di «osservatore partecipante» è stato molto prezioso. Ma, nella misura in cui ha portato l’antropologo ad ignorare la natura molto particolare, messa culturalmente tra virgolette, del suo ruolo e ad immaginarsi come qualcosa di più di un ospite interessato (nel duplice senso della parola), è stata la nostra fonte maggiore di malafede. ↵ 8. Chiaramente questa è una forma di idealizzazione. Dato che le teorie sono ben di rado smentite definitivamente nell’uso clinico e si limitano a diventare sempre più ingombranti, improduttive, forzate o vacue, spesso esse persistono molto tempo dopo che tutti, tranne un pugno di persone (che sono però spesso decisamente appassionate) hanno perduto molto del loro interesse. A dire il vero, per quanto riguarda l’antropologia, costituisce maggiormente un problema eliminare le idee ormai esaurite dalla letteratura che introdurvi quelle produttive, e quindi molta più discussione teorica di quanto si vorrebbe è più critica che costruttiva, e intere carriere
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sono state dedicate ad affrettare la dipartita di idee moribonde. Via via che la ricerca progredisce si spererebbe che questa specie di controllo delle erbacce intellettuali diventasse una parte meno importante delle nostre attività, ma per il momento resta vero che le vecchie teorie, invece di morire, tendono a trasferirsi nelle seconde edizioni. ↵ 9. La maggior parte dei capitoli successivi riguarda più l’Indonesia del Marocco, perché ho appena iniziato ad affrontare i problemi del mio materiale nordafricano che, per la maggior parte, è stato raccolto più di recente. Il lavoro sul terreno in Indonesia è stato compiuto nel 1952-54, 1957-58, e nel 1971; in Marocco nel 1964, 1965-66, 1968-69 e nel 1972. ↵
Capitolo 2 1. A.O. Lovejoy, Essays in the History of Ideas, New York, 1960, p. 173, trad. it. L’albero della conoscenza. Saggi di storia delle idee, Bologna, Mulino, 1982. ↵ 2. Ibidem, p. 80. ↵ 3. Johnson, Johnson on Shakespeare, London, 1931, pp. 11-12. ↵ 4. J. Racine, Préfation à Iphigénie, trad. it. Iphigénie, Milano, Signorelli. ↵ 5. A.L. Kroeber (a cura di), Anthropology Today, Chicago, 1953, p. 516.↵ 6. G. Kluckhohn, Culture and Behaviour, New York, 1962, p. 280. ↵ 7. M.J. Herskovits, Cultural Anthropology, New York, 1955, p. 364. ↵ 8. R. Lowell, Hawthorne, in For the Union Dead, London, 1964, p. 39. ↵
Capitolo 3 1. M. Scheerer, Cognitive Theory, in Handbook of Social Psychologhy, Reading, Mass., 1954. ↵ 2. C. Sherrington, Man on His Nature, New York, 1953, p. 61; L.S. Kubie, Psychiatric and Psychoanalytic Considerations of the Problem of Consciousness, in E. Adrian et al. (a cura di), Brian Mechanism and Consciousness, Oxford, 1954, pp. 444-467. ↵ 3. C.L. Hull, Principies of Behaviour, New York, 1943, trad. it. Principi del comportamento. Introduzione alla teoria del comportamento, Roma, Armando, 1978. ↵ 4. G.W. Allport, Scientific Models and Human Morals, in «Psychology Review», 54, 1947, pp. 182192. ↵ 5. G.A. Miller, E.H. Galanter e K.H. Pribram, Plans and the Structure of Behavior, New York, 1960. ↵ 6. G. Ryle, The Concept of Mind, New York, 1949, traci, it. Lo spinto come comportamento,
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Torino, Einaudi, 1955. ↵ 7. K.S. Lashley, Cerebral Organization and Behavior, in H. Solomon et al. (a cura di), The Brain and Human Behavior, Baltimore, 1958. ↵ 8. In inglese to mind non significa «far funzionare la mente» ma «preoccuparsi», «aver cura», «concentrarsi», ecc.; in questo, come negli esempi ironici che seguono, Geertz sottolinea l’evidente insensatezza dell’uso di questi verbi tratti da sostantivi [N.d.T.]. ↵ 9. L.A. White, The Science of Culture, New York, 1949, trad. it. La scienza della cultura. Uno studio sull’uomo e la civiltà, Firenze, Sansoni, 1969. ↵ 10. Ryle, The Concept of Mind, cit. ↵ 11. White, The Science of Culture, cit. ↵ 12. J. Dewey, Art as Experience, New York, 1934, trad. it. L’arte come esperienza, Firenze, La Nuova Italia, 1967. ↵ 13. Ryle, The Concept of Mind, cit., p. 33. ↵ 14. M. Mead, Comment, in J. Tanner e B. Inhelder (a cura di), Discussions in Child Development, New York, vol. I, pp. 480-503. ↵ 15. S. Freud, Die Traumdeutung (1900), in Gesammelte Werke, Frankfurt am Mein, 1952, vol. II, trad. it. L’interpretazione dei sogni, in Opere, Torino, Boringhieri, 19713, vol. III. ↵ 16. L. Lévy-Bruhl, La mentalité primitive, Paris, 1922, trad. it. La mentalità primitiva, Torino, Einaudi, 19814. ↵ 17. Inoltre questa affermazione è stata suffragata, come ha fatto notare Hallowell (A.I. Hallowell, The Recapitulation Theory and Culture, adesso in Idem, Culture and Experience, Philadelphia, 1939, pp. 14-31), da un’applicazione acritica della «legge di ricapitolazione» di Haeckel, ora respinta, in cui si usavano presunti parallelismi nel pensiero dei bambini, degli psicotici e dei selvaggi come dimostrazione della priorità filogenetica dell’autismo. Per indicazioni sul fatto che i processi primari non sono neppure ontogeneticamente precedenti a quelli secondari, cfr. H. Hartmann, Ich-Psychologie und Anpassung problem (1939), ed. ingl. Ego Psychology and the Problem of Adaption, adesso in versione ridotta in Organization and Pathology of Thought, a cura di D. Rapaport, New York, 1951, pp. 362-396, trad. it. Psicologia dell’io e problema dell’adattamento, Torino, Boringhieri, 1973; cfr. anche H. Hartmann, E. Kris e R. Lowenstein, Comments on the Formation of Psychic Structure, in «The Psychoanalitic Study of the Child», vol. 2, 1946, pp. 11-38. ↵ 18. A.L. Kroeber, Anthropology, New York, 1948, trad. it. Antropologia, Milano, Feltrinelli, 1983. ↵ 19. C. Kluckhohn, Universal Categories of Culture, in A.L. Kroeber (a cura di), Anthropology Today, Chicago, 1953, pp. 507-523; cfr. anche Kroeber, Anthropology, cit., p. 573. ↵ 20. Kroeber, Anthropology, cit., pp. 71-72. ↵ 21. Ibidem. ↵ 22. Ibidem; White, The Science of Culture, cit., p. 33. ↵
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23. W.W. Howells, Concluding Remarks of the Chairman, in «Cold Spring Harbor Symposia on Quantitative Biology», 15, 1950, pp. 79-86. ↵ 24. Sulle scoperte originali degli australopitechi, cfr. R.A. Dart, Adventures with the Missing Link, New York, 1959; per un’analisi recente, cfr. P.V. Tobias, The Taxonomy and Phylogeny of the Australopithecines, in B. Chiarelli (a cura di), Taxonomy and Phylogeny of Old World Primates with Reference to the Origin of Man, Torino, 1968, pp. 277-315. ↵ 25. Con «ominoide» si intende la superfamiglia di animali, viventi ed estinti, a cui appartengono sia l’uomo sia le scimmie pongidi (gorilla, orango scimpanzé e gibbone), ma non le scimmie. Per l’opinione «aberrante», vedi E. Hooton, Up from the Ape, New York, 1949; per la concezione accettata, Howells, Concluding Remarks of the Chairman. L’affermazione che gli australopitechi furono i «primi ominidi» dovrebbe, credo, essere modificata. ↵ 26. Per una rassegna generale, cfr. A.I. Hallowell, Self, Society and Culture in Phylogenetic Perspective, in S. Tax (a cura di), The Evolution of Man, Chicago, 1960, pp. 309-372. Nell’ultimo decennio tutta la discussione è andata avanti con velocità accelerata e crescente precisione. Per una serie di riferimenti, cfr. l’articolo riassuntivo di E.L. Holloway ed E. SzineyMerse, Human Biology: A Catholic Review, in «Biennial Review of Anthropology», 1971, pp. 83-166. ↵ 27. Per una discussione generale della teoria del «punto critico» alia luce del recente lavoro antropologico, cfr. C. Geertz, The Transition to Humanity, in S. Tax (a cura di), Horizons of Anthropology, Chicago, 1964, pp. 37-48. ↵ 28. S.L. Washburn, Speculations on the Interrelations of Tools and Biological Evolution, in J.M. Spuhler (a cura di), The Evolution of Man’s Capacity for Culture, Detroit, 1959, pp. 21-31. ↵ 29. A.I. Hallowell, Culture, Personality and Society, in A.L Kroeber (a cura di), Anthropology Today, Chicago, 1953, pp. 597-620. Cfr. A.I. Hallowell, Behavioral Evolution and the Emergence of the Self in B.J. Meggers (a cura di), Evolution and Anthropology: A Centennial Appraisal, Washington, D.C., 1959, pp. 36-60. ↵ 30. Kroeber, Anthropology, cit., p. 573. ↵ 31. L.A. White, Four Stages in the Evolution of Mindings, in S. Tax (a cura di), The Evolution of Man, Chicago, 1960, pp. 239-253; l’argomentazione è molto comune. ↵ 32. Per una discussione generale sui pericoli che comporta un uso acritico dei confronti tra forme contemporanee per generare ipotesi storiche, cfr. G. Simpson, Some Principles of Historical Biology Bearing on Human Organismus, in «Cold Spring Harbor Symposia on Quantitative Biology», 15, 1950, pp. 55-66. ↵ 33. Washburn, Speculations on the Interrelations, cit. ↵ 34. Ibidem. ↵ 35. Per quanto riguarda i «bambini-lupo» ed altre fantasie ferine, cfr. K. Lorenz, Comment, in J. Tanner e B. Inhelder (a cura di), Discussions on Child Development, New York, s.a., vol. I, pp. 95-96. ↵ 36. Vedi il IV capitolo di questo libro. ↵ 37. Sull’isolamento, cfr. H. Harlow, Basic Social Capacity of Primates, in J. Spuhler (a cura di), The Evolution of Man’s Capacity for Culture, Detroit, 1959, pp. 40-52; sull’apprendimento imitativo,
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H.W. Nissen, Problems of Mental Evolution in the Primates, in J. Gavan (a cura di), The NonHuman Primates and Human Evolution, Detroit, 1955, pp. 99-109. ↵ 38. B.I. De Vore, Primate Behavior and Social Evolution, dattiloscritto inedito. ↵ 39. Alcuni mammiferi sottoprimati seguono anch’essi un modo di vita decisamente sociale, così che tutto il processo probabilmente è antecedente ai primati in generale. Il comportamento sociale di alcuni uccelli ed insetti è di rilevanza meno immediata, tuttavia, perché questi ordini sono tangenti rispetto alla linea di sviluppo umana. ↵ 40. M.F.A. Montagu, A Consideration of the Concept of Race, in «Cold Spring Harbor Symposia on Quantitative Biology», 15, 1950, pp. 315-334. ↵ 41. M. Mead, Cultural Determinants of Behavior, in A. Roe e G. Simpson (a cura di), Culture and Behavior, New Haven, 1958. ↵ 42. Sherrington, Man on His Nature, cit. ↵ 43. Hull, Principles of Behavior, cit. ↵ 44. L. de Nò, Cerebral Cortex Architecture, in J.F. Fulton (a cura di), The Physiology of the Nervous System, New York, 1943; J.S. Bruner, Neural Mechanisms in Perception, in H. Solomon et al. (a cura di), The Brain and Human Behavior, Baltimore, 1958, pp. 118-143; R.W. Gerard, Becoming: the Residue of Change, in S. Tax (a cura di), The Evolution of Man, Chicago, 1960, pp. 255-268; K.S. Lashley, The Problem of Serial Order in Behavior, in L. Jeffress (a cura di), Cerebral Mechanismus and Behavior, New York, 1951, pp. 112-136. ↵ 45. P. Weiss, Comment on Dr. Lashley’s Paper, in L.A. Jeffress (a cura di), Cerebral Mechanisms in Behavior, cit., pp. 140-142. ↵ 46. D.O. Hebb, The Problem of Consciousness and Introspection, in Brain Mechanics and Consciousness, a cura di E. Adrian et al., Oxford, 1954, pp. 402-417. ↵ 47. C. Kluckhohn e H. Murray (a cura di), Personality in Nature, Society and Culture, New York, 1948; T.H. Bullock, Evolution of Neurophysiological Mechanisms, in A. Roe e G. Simpson (a cura di), Behavior and Evolution, New Haven, 1958, pp. 165-177. ↵ 48. Bullock, Evolution, cit. ↵ 49. Ibidem; Gerard, Becoming, cit. ↵ 50. Bullock, Evolution, cit.; K.H. Pribram, Comparative Neurology and the Evolution of Behavior, in A. Roe e G. Simpson (a cura di), Behavior and Evolution, New Haven, 1948, pp. 140-164. ↵ 51. Gerard, Becoming, cit.; cfr. anche R.W. Gerard, Brains and Behavior, in J. Spuhlen (a cura di), The Evolution of Man’s Capacity for Culture, Detroit, 1959, pp. 14-20. ↵ 52. Buliock, Evolution, cit. ↵ 53. Gerard, Brains and Behavior, cit.; Bullock, Evolution, cit. ↵ 54. K. Lorenz, King Solomon’s Ring, London, 1952, trad. it. L’Anello di Re Salomone, Milano, Adelphi, 1981. ↵ 55. D.O. Hebb e W.R. Thompson, The Social Significance of Animal Studies, in Handhook of
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Psychology, Reading, Mass., 1954, pp. 532-561, trad. it. Manuale di psicologia, Firenze, La Nuova Italia, 1970. L’uso acritico del termine «istinto» in modo da confondere tre contrasti separati (ma non privi di correlazioni) – quello tra i modelli di comportamento che si basano sull’apprendimento e quelli che non si basano; quello tra i modelli di comportamento che sono innati (cioè il risultato di processi fisici programmati geneticamente) e quelli che non lo sono (cioè il risultato di processi fisici programmati extrageneticamente) ; e quello tra i modelli di comportamento che sono rigidi (stereotipati) e quelli che sono flessibili (variabili) – ha portato ad affermare erratamente che dire che un modello di comportamento è innato significa dire che è rigido nella sua espressione. (Cfr. Pribram, Comparative Neurology and Evolution, cit.; e F.A. Beach, The De-scent of Instinct, in «Psychology Review», 62, 1955, pp. 401-410). Qui il termine «intrinseco», contrapposto ad «estrinseco», è usato per caratterizzare un comportamento che, su basi comparative, sembra poggiare ampiamente, o per lo meno prevalentemente, su disposizioni innate, indipendentemente da problemi di apprendimento o flessibilità come tali. ↵ 56. F.A. Beach, Evolutionary Aspects of Psycho-Endocrinology, in A. Roe e G. Simpson (a cura di), Culture and Behavior, New Haven, 1958, pp. 81-102; C.S. Ford e F.A. Beach, Patterns of Sexual Behavior, New York, 1951. Ma ancora una volta questa tendenza generale sembra ben radicata già nei primati subumani: «Alcuni scimpanzé [maschi] devono imparare a copulare. Si è notato che i maschi sessualmente maturi ma inesperti, posti insieme alla femmina ricettiva, mostrano segni di marcata eccitazione sessuale, ma i tentativi successivi di compiere la copula di solito non riescono. Il maschio ingenuo appare incapace di eseguire la sua parte dell’atto dell’accoppiamento, e si è dedotto che è necessaria molta pratica e molto apprendimento per un coito biologicamente efficace in questa specie. I roditori maschi adulti che sono stati allevati in isolamento copulano normalmente la prima volta che viene loro offerta una femmina in calore». F.A. Beach, Evolutionary Changes in the Physiological Control of Mating Behavior in Mammals, in «Psychology Review», 54, 1947, pp. 293-315. Per delle descrizioni vivaci della paura e della rabbia generalizzate negli scimpanzé, vedi Hebb e Thompson, Social Significance, cit. ↵ 57. Ryle, The Concept of Mind, cit., p. 27. ↵ 58. Hebb, Problems of Consciousness and Introspection, cit. ↵ 59. Celebre caso di una bambina sorda, cieca e parzialmente muta, che imparò a comunicare [N.d.R.]. ↵ 60. Sui numeri ordinali, vedere K.S. Lashley, Persistent Problems in the Evolution of Mind, in «Quarterly Review», 24, 1949, pp. 28-42. È forse anche consigliabile far notare esplicitamente che il concetto secondo cui gli umani imparano normalmente a parlare intelligentemente ad alta voce e con gli altri prima di imparare a «parlare» tra di sé non implica né una teoria motoria del pensiero né la deduzione che ogni operazione mentale abbia luogo in termini di parole immaginate. ↵ 61. E. Galanter e M. Gerstenhaber, On Thought: the Extrinsic Theory, in «Psychology Review», 58, 1956, pp. 218-227. ↵ 62. J.A. Deutsch, A New Type of Behaviour Theory, in «British Journal of Psychology», 44, 1953, pp. 304-317. ↵ 63. Ibidem. ↵ 64. J. Dewey, Intelligence and the Modern World, a cura di T. Ratner New York, 1939, p. 851. ↵ 65. Ad esempio W. La Barre, The Human Animal, Chicago, 1954. ↵
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66. Vedere tuttavia J. Dewey, The Need for a Social Psychology, in «Psychology Review», 24, XXIV, 1917, pp. 226-277; Hallowell, Culture, Personality and Society, cit. ↵ 67. D.O. Hebb, Emotion in Man and Animal: An Analysis of the Intuitive Process of Recognition, in «Psychology Review», 53, 1946 pp. 88-106; D.O. Hebb, The Organization of Behavior, New York, 1949, trad, it. Organizzazione del comportamento. Una teoria neuropsicologica, Bologna, Il Mulino, 1975; Hebb, Problem of Consciousness and Introspection, cit.; Hebb e Thompson, Social Significance of Animal Behavior, cit. ↵ 68. Hebb, Problem of Consciousness and Introspection, cit. ↵ 69. P. Solomon et al., Sensory Deprivation: A Review, in «American Journal of Psychiatry», 114, 1957, pp. 357-363; L.F. Chapman, Highest Integrative Functions of Man During Stress, in H. Solomon (a cura di), The Brain and Human Behavior, Baltimore, 1958, pp. 491-534. ↵ 70. Hebb e Thompson, Social Significance of Animal Studies, cit. ↵ 71. S, Langer, Feeling and Form, New York, 1953, p. 372, trad. it. Sentimento e forma, Milano, Feltrinelli, 1975, corsivo nell’originale. ↵ 72. Il genere di simboli culturali che servono ai lati intellettivo ed affettivo della mentalità umana tendono a differire – linguaggio discorsivo, routine sperimentali, matematica e così via, da una parte; mito, rituale ed arte dall’altra. Ma non si dovrebbero contrapporre troppo drasticamente: la matematica ha i suoi usi affettivi, la poesia quelli intellettuali; e la differenza in ogni caso è solo funzionale, non sostanziale. ↵ 73. R. Granit, Receptors and Sensory Perception, New Haven, 1955. ↵ 74. J-S. Bruner e L. Postman, Emotional Selectivity in Perception and Reaction, in «Journal of Personality», 16, 1947, pp. 69-77. ↵ 75. Usando termini così ambigui come «mente» e «cultura», la decisione di quanto vadano estesi giù per la scala filogenetica – cioè con quanta ampiezza vadano definiti – è in gran parte solo una questione di usanze, politica e buon gusto. Qui, in maniera forse incoerente, ma in linea con quello che sembra essere l’uso comune, sono state fatte delle scelte opposte per la mente e la cultura: si è definita ampiamente la mente come comprendente le capacità apprese delle scimmie di comunicare o dei topi di risolvere i labirinti a T; si è definita strettamente la cultura come includente solo i modelli simbolici successivi alla fabbricazione di attrezzi. Per una analisi della definizione della cultura come «un modello appreso del significato di segnali e segni» ed estesa a tutto il mondo degli organismi viventi, vedere T. Parsons, An Approach to Psychological Theory in Terms of the Theory of Action, in S. Koch (a cura di), Psychology: A Study of Science, New York, 1959, vol. III, pp. 612-711. ↵
Capitolo 4 1. L. Steinberg, The eye is part of the mind, in «Partisan Review», 70, 1953, pp. 194-212. ↵ 2. M. Janowitz, Anthropology and the Social Sciences, in «Current Anthropology», 4, 1963, p. 139 e pp. 146-154. ↵ 3. T. Parsons e E. Shils, Toward a General Theory of Action, Cambridge, Mass., 1951. ↵
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4. S. Langer, Philosophical Sketches, Baltimore, 1962. ↵ 5. S. Langer, Philosophy in a New Key, Cambridge, Mass., 19644, trad. it. Filosofia in una nuova chiave, Roma, Armando, 1972. ↵ 6. K. Burke, The Philosophy of Literary Form, Baton Rouge, Lousiana State University Press, 1941, p. 9. ↵ 7. L’errore opposto, particolarmente comune tra i neokantiani come Cassirer, di considerare i simboli identici ai o «costitutivi» dei loro referenti è ugualmente dannoso (cfr. E. Cassirer, Der Philosophie der symbolischen Formen, Berlin, 1923-1929, trad. it. La filosofia delle forme simboliche, Firenze, La Nuova Italia, 1967). «Si può indicare la luna col proprio dito – si presume abbia detto un qualche maestro Zen, probabilmente immaginario – ma scambiare il dito per la luna significa essere sciocchi». ↵ 8. K. Craik, The Nature of Explanation, Cambridge, 1952. ↵ 9. K. Lorenz, King Solomon’s Ring, London, 1952, trad. it. L’anello di Re Salomone, Milano, Adelphi 1981. ↵ 10. K. von Frisch, Dialects in the Language of the Bees, in «Scientific American», agosto 1962. ↵ 11. Craik, The Nature of Explanation, cit. ↵ 12. R.H. Lowie, Primitive Religion, New York, 1924. ↵ 13. R.F. Fortune, Manus Religion, Philadelphia, 1935 ↵ 14. C. Geertz, The Religion of Java, Glencoe, Ill., 1960. ↵ 15. G. Ryle, The Concept of Mind, New York, 1949, trad. it. Lo spirito come comportamento, Torino, Einaudi, 1955. ↵ 16. Ibidem. ↵ 17. Ibidem. ↵ 18. C. Kluckhohn, The Philosophy of the Navajo Indians, in F.S.C. Northrop (a cura di), Ideological Differences and World Order, New Haven, 1949, pp. 356-384. ↵ 19. J. Goody, Religion and Ritual: The Definition Problem, in «British Journal of Psychology», 12, 1961, pp. 143-164. ↵ 20. W. James, The Principies of Psychology, New York, 1890, trad. ìt. Principi di psicologia, Milano, Edit. Libraria, 1901. ↵ 21. Langer, Philosophy in a New Key, cit., p. 287, corsivo nell’originale. ↵ 22. E. Evans-Pritchard, Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande, Oxford, 1937, trad. it. Stregoneria, miracoli e magia tra gli Azande, Milano, Angeli, 1976. ↵ 23. A. Radcliffe-Brown, Structure and Function in Primitive Society, Glencoe Ill., 1972, trad. it. Struttura e funzione nella società primitiva, Milano, Jaca Book, 1972. ↵ 24. G. Bateson, Naven, Stanford, 19582, trad. it. Naven, Torino, Einaudi, 1988, p. 216. Che le
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forme croniche ed acute di questa specie di interesse conoscitivo siano strettamente correlate, e che le reazioni alle cause più insolite di esso siano modellate su reazioni stabilitesi nell’affrontare le cause più comuni, appare tuttavia chiaro dalla descrizione di Bateson, quando prosegue dicendo (pp. 216-217): Un’altra volta chiamai uno dei miei informatori ad assistere allo sviluppo delle lastre fotografiche. Le sviluppavo con una luce fioca in un largo piatto e quindi egli poteva vedere il graduale apparire delle immagini. La cosa lo interessò molto e alcuni giorni dopo mi fece promettere che non avrei mai mostrato il procedimento ai membri di altri clan. Kontum-mali era uno dei suoi antenati ed egli vide nel processo di sviluppo fotografico la vera incarnazione delle increspature dell’acqua in immagini e lo considerò la dimostrazione della verità del segreto clanico. ↵ 25. G. Lienhardt, Divinity and Experience, Oxford, 1961, pp. 151 ss.; B. Malinowski, Magic, Science, and Religion, Boston, 1948, p. 67, trad. it. Magia, scienza e religione, Roma, Newton Compton. ↵ 26. S.F. Nadel, Malinowski on Magic and Religion, in R. Firth (a cura di), Man and Culture, London, 1957, pp. 189-208. ↵ 27. Malinowski, Magic, Science, and Religion, cit., p. 67. ↵ 28. C.W. Smith e A.M. Dale, The Ila-Speaking Peoples of Northern Rhodesia, London, 1920, p. 197, citato in P. Radin, Primitive Man as a Philosopher, New York, 1957, pp. 100-101. ↵ 29. C. Kluckhohn e D. Leighton, The Navajo, Cambridge, Mass., 1946; G. Reichard, Navajo Religion, New York, 1950. ↵ 30. Ibidem. ↵ 31. G. Lienhardt, Divinity and Experience, Oxford, 1961. ↵ 32. Ibidem. ↵ 33. Questo tuttavia non significa dire che tutti Io fanno in tutte le società, perché, come notò una volta l’immortale Don Marquis, non dovete avere un’anima a meno che non la vogliate realmente. La generalizzazione ripetuta che la religione è un universale umano incarna la confusione tra l’affermazione, probabilmente vera (anche se non dimostrabile m base alle prove presenti) che non vi è società umana in cui manchino totalmente i modelli culturali che possiamo chiamare religiosi in base alla presente definizione o una simile, e l’affermazione, sicuramente non vera, che tutti gli uomini in tutte le società sono religiosi in qualunque significato sensato del termine. Ma, se lo studio antropologico dell’impegno religioso è poco sviluppato, lo studio antropologico del disimpegno religioso è inesistente. L antropologia della religione diventerà maggiorenne quando un più sottile Malinowski scriverà un libro sul tema «Credenza e non credenza (o anche “Fede e ipocrisia”) in una società primitiva». ↵ 34. A. MacIntyre, The Logical Status of Religious Belief, in Metaphysical Beliefs, London, 1957, pp. 167-211. ↵ 35. Il termine «atteggiamento» usato come nelle espressioni «atteggiamento estetico» o «atteggiamento naturale» è un altro termine, forse più comune, che avrei usato qui al posto di «prospettiva». (Per il primo, vedi C. Bell, Art, London, 1914; per il secondo, benché la frase sia originariamente di Husserl, cfr. A. Schutz, The Problem of Social Reality, in Collected Papers, vol. I, The Hague, 1962, trad. it. parziale, Saggi sociologici, Torino, Utet, 1979.) Ma l’ho evitato a causa delle sue forti connotazioni soggettivistiche, della sua tendenza a porre l’accento su un presunto stato interiore di un attore invece che su un certo tipo di rapporto – simbolicamente mediato – tra un attore ed una situazione. Questo non vuol dire, naturalmente, che un’analisi
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fenomenologica dell’esperienza religiosa, se espressa in termini intersoggettivi, non trascendentali, veramente scientifici (ad esempio W. Percy, Symbol, Consciousness and Intersubjectivity, in «Journal of Philosophy», 15, 1958, pp. 631-641) non sia essenziale per una piena comprensione della credenza religiosa, ma semplicemente che non è qui il centro del mio interesse. «Concezione», «cornice (frame) di riferimento», «cornice mentale», «orientamento», «presa di posizione», «assetto mentale» e via dicendo sono altri termini talvolta impiegati, a seconda che l’analisi voglia mettere in rilievo gli aspetti sociali, psicologici o culturali del problema. ↵ 36. Schutz, The Problem of Social Reality, cit. ↵ 37. Ibidem. ↵ 38. S. Langer, Feeling and Form, New York, 1953, p. 49, trad. it. Sentimento e forma, Milano, Feltrinelli, 1975. ↵ 39. M. Singer, The Cultural Pattern of Indian Civilization, in «Far Eastern Quarterly», 15, 1955, pp. 23-26. ↵ 40. M. Singer, The Great Tradition in a Metropolitan Center: Madras, in M. Singer (a cura di), Traditional India, Philadelphia, 1958, pp. 140-182. ↵ 41. R. Firth, Elements of Social Organization, London e New York, 1951, p. 350. ↵ 42. Il complesso Rangda-Barong è stato estesamente descritto ed analizzato da una serie di etnografi insolitamente dotati ed io non farò nessun tentativo qui di presentarlo se non in forma schematica. Cfr. ad esempio J. Belo, Bali: Rangda and Barong, New York, 1960; B. DeZoete e W. Spies, Dances and Drama in Bali, London, 1938; G. Bateson e M. Mead, Balinese Character, New York, 1942; M. Covarrubias, The Island of Bali, New York, 1937. Gran parte della mia interpretazione del complesso si basa su osservazioni personali fatte a Bali negli anni 1957-58. ↵ 43. Belo, Trance in Bali, cit. ↵ 44. Bateson e Mead, Balinese Character, cit., p. 36. ↵ 45. Schutz, The Problem of Social Reality, cit., pp. 226 ss., trad. it. pp. 200 ss. ↵ 46. Malinowski, Magic, Science and Religion, cit.; L. Lévy-Bruhl, La mentalité primitive, Paris, 1922, trad. it. La mentalité primitiva, Torino, Einaudi, 19844. ↵ 47. Schütz, The Problem of Social Reality, cit., p. 231, trad. it. Saggi sociologici, cit., p. 205. ↵ 48. W. Percy, The Symbolic Structure of Interpersonal Process, in «Psychiatry», 24, 1961, pp. 39-52. ↵
Capitolo 5 1. E. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris, 1912, trad. it. Le forme elementari della vita religiosa, Milano, Edizioni di Comunità, 1971; W. Robertson-Smith, Lectures on the Religion of the Semites, Edinburgh, 1894. ↵
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2. B. Malinowski, Magic, Science and Religion, Boston, 1948, trad. it. Magia, scienza e religione, Roma, Newton Compton, 1976. ↵ 3. Cfr., ad esempio, E.R. Leach, Political Systems of Highland Burma, Cambridge, Mass., 1944 (trad. it. Sistemi politici birmani, Milano, Angeli, 1979) e R. Merton, Social Theory and Social Structure, Glencoe, Ill., 1949 (trad. it. Teoria e struttura sociale, Bologna, Il Mulino, 19928). ↵ 4. Cfr. C. Kluckhohn, Navajo Witchcraft, Peaboy Museum Papers, Cambridge, Mass., 1944. ↵ 5. R. Redfield, The Folk Culture of Yucatan, Chicago, 1941, p. 339. ↵ 6. M. Fortes, The Structure of Unilineal Descent Groups, in «American Anthropologist», 55, 1953, pp. 17-41. ↵ 7. Leach, Political Systems of Highland Burma, cit., p. 282. ↵ 8. T. Parsons e E. Shils, Toward a General Theory of Action, Cambridge, Mass., 1951. ↵ 9. P. Sorokin, Social and Cultural Dynamics, New York, 1937, trad, it. La dinamica sociale e culturale, Torino, Utet, 1975. ↵ 10. T. Parsons, The Social System, Glencoe, Ill., 1951, p. 6, trad. it. Il sistema sociale, Milano, Comunità, 1981 ↵ 11. L’uso del presente in tutto ciò che segue non va ovviamente inteso come descrizione di una situazione ancora persistente, ma come «presente etnografico» [N.d.R.]. ↵ 12. In effetti ci sono due fasi nei riti matrimoniali giavanesi. Una, che è parte del sincretismo generale, si tiene a casa della sposa e comprende uno slametan ad un elaborato «incontro» rituale tra la sposa e lo sposo. L’altra, che agli occhi del governo è la cerimonia ufficiale, segue la legge musulmana ed ha luogo nell’ufficio del funzionario religioso del sottodistretto, o Naib. Cfr. C. Geertz, The Religion of Java, Glencoe, Ill., 1960, pp. 51-61, 203. ↵ 13. Malinowski, Magic, Science and Religion, cit., p. 29. ↵ 14. Ibidem, pp. 33-35. ↵
Capitolo 6 1. La principale discussione teorica della religione da parte di Weber è contenuta in Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, 1925, pp. 225-356 (trad. it. Economia e società, Milano, 1961), mentre applicazioni del suo approccio possono trovarsi nella sua Religionsoziologie, per cui cfr. M. Weber, Sociologia della religione, 2 voll., Milano, Comunità, 1982. Le migliori discussioni sull’opera di Weber in inglese sono di T. Parsons, The Structure of Social Action, Glencoe, Ill., 1949, trad. it. La struttura dell’azione sociale, Bologna, Il Mulino, 19682, e di R. Bendix, Max Weber: An Intellectual Portrait, New York, 1960, trad. it. Max Weher. Un ritratto intellettuale, Bologna, Zanichelli, 1984. ↵ 2. Citato in Parsons, The Structure of Social Action, cit., p. 566. ↵ 3. Weber, Sociologia della religione, cit. ↵
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4. E. Evans-Pritchard, Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande, Oxford, 1932, trad. it. Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Milano, Angeli, 1976. ↵ 5. Per l’analisi di Weber sul ruolo dei ceti nel cambiamento religioso cfr. Bendix, Max Weber, cit., pp. 103-111. Il mio contributo a questa discussione deve molto a un saggio inedito di Robert Bellah, Religion in the Process of Cultural Differentiation, e si veda anche la sua Tokugawa Religion, Glencoe, Ill., 1957. ↵ 6. Bellah, Religion. The Process of Cultural Differentiation, cit. ↵ 7. Sugli elementi razionalizzati nelle religioni «primitive» cfr. P. Radin, Primitive Man as a Philosopher, New York, 1957. Sulla religione popolare nelle civiltà sviluppate, cfr. Bendix, Weber, cit., pp. 112-116. ↵ 8. La natura molto parziale dell’unica piccola eccezione a questo la si può vedere nella breve descrizione dell’addestramento intellettuale di un sacerdote in V.E. Korn, The Consecration of a Priest, in J.L. Swellen-grebel et al., Bali: Studies in Life, Thought and Ritual, L’Aia e Bandung, 1960, pp. 133-153. ↵ 9. Su Giava cfr. C. Geertz, The Religion of Java, Glencoe, Ill., 1960. ↵ 10. Per una visione generale, cfr. M. Covarrubias, Island of Bali, New York, 1956. ↵ 11. Un sacerdote di solito deve avere una moglie bramina per essere consacrato, e la moglie ne può ricoprire il ruolo, dopo la morte di lui, come sacerdote a tutti gli effetti. ↵ 12. C. Du Bois, Social Forces in Southeast Asia, Cambridge, Mass., 1959, p. 31. ↵ 13. G. Bateson e M. Mead, Balinese Character: A Photographic Analysis, New York, 1942. ↵ 14. Per un giudizio simile da parte di un linguista missionario, cfr. J.L. Swellengrebel, Introduction, in Swellengrebel et al., Bali, cit., pp. 68-76. Dato che il presente saggio fu scritto sul campo prima che apparisse quello di Swellengrebel, la convergenza di una parte del materiale presentato da lui col mio funziona come una specie di sostegno indipendente dell’autenticità del processo qui delineato. ↵ 15. Cfr. Swellengrebel, Bali, cit., pp. 70-71, per la descrizione di parte di questa letteratura. ↵ 16. Cfr. Swellengrebel, Bali, cit., per qualche dibattito parlamentare su questo problema. ↵ 17. Nel 1962 la «religione balinese» venne finalmente ammessa come una «grande religione» ufficiale in Indonesia. Da allora, e particolarmente dai grandi massacri del 1956, le conversioni dall’Islam al «bali-ismo» hanno realmente registrato un grande aumento a Giava. E nella stessa Bali il movimento riformista indù è divenuto una forza importante. Su tutto ciò cfr. C. Geertz, Religious Change and Social Order in Soeharto’s Indonesia, in «Asia», 27, 1972, pp. 62-84. ↵
Capitolo 7 1. F.X. Sutton, S.E. Harris, C. Kaysen e J. Tobin, The American Business Creed, Cambridge, Mass., 1956, pp. 3-6, trad. it. Il credo dell’imprenditore americano, Milano, Etas Libri, 1972. ↵
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2. K. Mannheim, Ideology and Utopia, New York, Harvest, 1936, pp. 59-83, trad. it. Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino, 19742; cfr. anche R. Merton, Social Theory and Social Structure, New York, 1949, pp. 217-220, trad. it. Teoria e struttura sociale, Bologna, Il Mulino, 19832. ↵ 3. W. White, Beyond Conformity, New York, 1961, p. 211. ↵ 4. W. Stark, The Sociology of Knowledge, London, 1958, p. 48, trad. it. Sociologia della conoscenza, Milano, Etas Libri, 1967, p. 62. ↵ 5. Ibidem, pp. 90-91, trad. it. pp. 115-116. Corsivo nell’originale. Per accostarsi alla stessa discussione in Mannheim, formulata come distinzione tra ideologia «totale» e «particolare», cfr. Mannheim, Ideology and Utopia, cit., pp. 55-59. ↵ 6. E. Shils, Ideology and Civility: on the Politics of the Intellectual, in «The Sewanee Review», 56, 1958, pp. 450-480. ↵ 7. T. Parsons, An Approach to the Sociology of Knowledge, in Transactions of the Fourth World Congress of Sociology, Milano e Stresa, 1959, pp. 25-49. Corsivo nell’originale. ↵ 8. R. Aron, L’opium des intellectuels, Paris, 1955, trad. it. L’oppio degli intellettuali, Milano, Editoriale Nuova, 1979. ↵ 9. Dato che qui il pericolo di essere male interpretato è serio, posso sperare che la mia critica sarà giudicata tecnica e non politica se farò notare che la mia posizione generale ideologica (così vorrei chiamarla apertamente) è molto simile a quella di Aron, Shils, Parsons e così via; che sono d’accordo con la loro richiesta di una politica civile, temperata, non eroica? Si dovrebbe anche osservare che la richiesta di una concezione non valutativa dell’ideologia non equivale ad una richiesta di non valutare le ideologie, non più di quanto un concetto non valutativo della religione comporti un relativismo religioso. ↵ 10. Sutton et al., American Business Creed, cit.; White, Beyond Conformity, cit.; H. Eckstein, Pressure Group Politics: the Case of the British Medical Association, Stanford, 1960; C. Wright Mills, The New Men of Power, New York, 1948; J. Shumpeter, Science and Ideology, in «American Economic Review», 39, 1949, pp. 345-359. ↵ 11. In effetti vi sono stati molti altri termini usati in letteratura per tutta la gamma di fenomeni denotati dall’«ideologia», dalle «nobili menzogne» di Platone ai «miti» di Sorel e alle «derivazioni» di Pareto, ma nessuno di essi è riuscito a raggiungere un livello di neutralità tecnica superiore a quello di «ideologia». Vedi H.D. Lasswell, The Language of Power, in H.D. Lasswell et al., Language of Politics, New York, 1949, pp. 3-19. ↵ 12. Sutton et al., American Business Creed, cit., pp. 11-12 e 303-310. ↵ 13. Le citazioni sono tratte dal più importante teorico recente dell’interesse, C. Wright Mills, The Causes of World War Three, New York, 1958, pp. 54, 65. ↵ 14. Per lo schema generale, vedi T. Parsons, The Social System, New York, 1951, specialmente i capitoli I e VII, trad. it. Il sistema sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1980. L’elaborazione più completa della teoria della tensione si trova in Sutton et al., The American Business Creed, cit.; specialmente nel cap. 15. ↵ 15. Sutton et al., The American Business Creed, cit., pp. 307-308. ↵ 16. Parsons, An Approach to the Sociology of Knowledge, cit. ↵
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17. White, Beyond Conformity, cit., p. 204. ↵ 18. Forse la prova d’abilità più impressionante in questo genere paratattico è N. Leites, A Study of Bolshevism, New York,1953. ↵ 19. K. Burke The Philosophy of Literary Form. Studies in Symbolic Action, Baton Rouge, 1941. Nella discussione che segue uso «simboli» nel senso ampio di ogni atto od oggetto fisico, sociale o culturale che funzioni da veicolo per una concezione. Per una spiegazione di questo punto di vista, per cui «cinque» e «la Croce» sono «ugualmente simbolici», cfr. S. Langer, Philosophy in a New Key, Cambridge, Mass., I960, pp. 60-66 trad. it. Filosofia in una nuova chiave, Roma, Armando, 1972. ↵ 20. Utili sintesi generali della tradizione della critica letteraria si possono trovare in S.E. Hyman, The Armed Vision, New York, 1948, e in R. Welleck e A. Warren, Theory of Literature, New York, 19582, trad. it. Teoria della letteratura, Bologna, Il Mulino, 1965. Non sembra disponibile un resoconto simile della tradizione filosofica (alquanto diversa), ma le opere fondamentali sono C.S. Peirce, Collected Papers, a cura di C. Hartshorne e P. Weiss, Cambridge, Mass., 19311958; E. Cassirer, Die Philosophie der symholischen Formen, Berlin, 1923-1929, trad. it. La filosofia delle forme simboliche, Firenze, La Nuova Italia, 1967; C.W. Morris, Signs, Language and Behavior, Englewood Cliffs, N.J., 1944, trad. it. Segni, linguaggio e comportamento, Milano, Longanesi, 1964; e L. Wittgenstein, Philosophical Investigations, Oxford, 1953, trad. it. Osservazioni filosofiche, Torino, Einaudi, 1981. ↵ 21. W. Percy, The Symbolic Structure of Interpersonal Process, in «Psychiatry», 24, 1961, pp. 39-52. Corsivo nell’originale. Il riferimento è a E. Sapir, Status of Linguistics as a Science (1929), adesso in Selected Writings of Edward Sapir, a cura di D. Mandlebaum, Berkeley e Los Angeles, 1949, pp. 160-166. ↵ 22. Una parziale eccezione a questa critica, benché guastata dalla ossessione del potere come essenza e sostanza della politica, è H.D. Lasswell, Style in the Language of Politics, in Lasswell et al., Language of Politics, cit., pp. 20-39. Si dovrebbe anche notare che l’enfasi apposta sul simbolismo verbale nella discussione che segue è puramente dovuta all’amore per la semplicità e non intende negare l’importanza delle trovate non linguistiche, plastiche, teatrali o altro – la retorica delle uniformi, dei palcoscenici illuminati e delle bande che marciano – nel pensiero ideologico. ↵ 23. Sutton et al., American Business Creed, cit., pp. 4-5. ↵ 24. Un’eccellente sintesi si può trovare in P. Henle (a cura di), Language, Thought and Culture, Ann Harbor, 1958, pp. 173-195. La citazione è presa da Langer, Philosophy, cit., p. 117. ↵ 25. W. Percy, Metaphor as Mistake, in «The Sewanee Review», 56, 1958, pp. 77-79. ↵ 26. Citazione da J. Crowley, Japanese Army Factionalism in the Early 1930’s, in «The Journal of Asian Studies», 21, 1958, pp. 309-326. ↵ 27. Henle (a cura di), Language, Thought and Culture, cit., pp. 4-5. ↵ 28. K. Burke, Counterstatement, Chicago, 1957, p. 149. ↵ 29. Sapir, Status of Linguistics, cit., p. 568. ↵ 30. La metafora non è naturalmente l’unica risorsa stilistica da cui attinge l’ideologia. La metonimia («Tutto quello che ho da offrire è sangue, sudore e lacrime»), l’iperbole («il Reich millenario»), la litote (il «ritornerò» di MacArthur), la sineddoche («Wall Street»), rossimoro («la cortina di
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ferro»), la personificazione («la mano che reggeva il pugnale l’ha affondato nella schiena del suo vicino») e tutte le altre figure dei re-tori classici così diligentemente raccolte e così accuratamente classificate sono utilizzate ripetutamente, come lo sono gli espedienti sintattici quali l’antitesi, l’inversione e la ripetizione; quelli prosodici come la rima, il ritmo e l’allitterazione; quelli letterari come l’ironia, l’eulogia ed il sarcasmo. Né tutta l’espressione ideologica è figurata. La maggior parte di essa è formata da affermazioni del tutto letterali, per non dire piatte che, a parte una certa tendenza verso una scarsa plausibilità prima facie, sono difficili da distinguere da affermazioni propriamente scientifiche: «La storia di tutta la società esistita finora è storia di lotte di classe»; «tutta la moralità in Europa è basata sui valori che sono utili al gregge», e così via. Come sistema culturale, un’ideologia che si è sviluppata al di là della fase dei puri e semplici slogan consiste in una intricata struttura di significati correlati – correlati nei termini dei meccanismi semantici che li formulano – di cui l’organizzazione a due livelli di una metafora isolata è soltanto una sbiadita rappresentazione. ↵ 31. Percy, The Symbolic Structure, cit. ↵ 32. G. Ryle, The Concept of Mind, New York, 1949, trad. it. Lo spirito come comportamento, Torino, Einaudi. ↵ 33. E. Galanter e M. Gerstenhaber, On Thought: The Extrinsic Theory, in «Psychological Review», 68, 1956, pp. 218-227. ↵ 34. Ibidem. Ho riportato questo passo incisivo in un saggio precedente (pp. 99-100) per tentare di collocare la teoria estrinseca del pensiero nel contesto delle recenti scoperte antropologiche evoluzionistiche, neurologiche e culturali. ↵ 35. W. Percy, Symbol, Consciousness and Intersubjectivity, in «Journal of Philosophy», 55, 1958, pp. 631-641. Corsivo nell’originale. ↵ 36. Ibidem. ↵ 37. S. Langer, Feeling and Form, New York, 1953. ↵ 38. Le citazioni sono prese da Ryle, Concept of Mind, cit., p. 51. ↵ 39. X Parsons, An Approach to Psychological Theory in Terms of the Theory of Action, in S. Koch (a cura di), Psychology: A Study of a Science, New York, 1959. Corsivo nell’originale. Si confronti con questo passo: «Per spiegare questa selettività è necessario presumere che la struttura dell’enzima è correlata in qualche modo alla struttura del gene. Per estensione logica di questa idea, arriviamo al concetto che il gene è una rappresentazione – una copia cianografica per così dire – della molecola dell’enzima, e che la funzione del gene è di servire da fonte di informazione riguardo alla struttura dell’enzima. Appare evidente che la sintesi di un enzima – una molecola gigante proteica formata da centinaia di unità di aminoacidi sistemati in un ordine specifico ed unico con le estremità che si toccano – richiede un modello o una serie di istruzioni di qualche tipo. Queste istruzioni devono essere caratteristiche della specie; devono essere trasmesse automaticamente da una generazione all’altra e devono essere costanti ma capaci di un cambiamento evolutivo. La sola entità conosciuta che potrebbe compiere una funzione simile è il gene. Vi sono molti motivi per credere che esso trasmetta delle informazioni, agendo come modello o strumento di ricalco». N.H. Horowitz, The Gene, in «Scientific American», 1956, p. 85. ↵ 40. Questo punto è esposto forse in modo troppo scarno alla luce delle recenti analisi dell’apprendimento degli animali, ma la tesi essenziale – che vi sia una tendenza generale verso un controllo più diffuso, meno determinato del comportamento per mezzo di parametri intrinseci (innati), spostandosi dagli animali inferiori a quelli superiori – sembra ben
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consolidata. Si veda più sopra, il saggio Sviluppo della cultura ed evoluzione della mente. ↵ 41. Naturalmente vi sono ideologie morali, economiche e perfino estetiche, come pure altre specificamente politiche, ma dato che pochissime ideologie di qualche rilevanza sociale sono prive di implicazioni politiche, è forse ammissibile esaminare qui il problema sotto quest’ottica alquanto ristretta. In ogni caso, le argomentazioni elaborate per le ideologie politiche si applicano con uguale forza a quelle non politiche. Per un’analisi dell’ideologia morale espressa in termini molto simili a quelli usati in questo saggio, cfr. A.L. Green, The Ideology of AntiFluoridation Leaders, in «The Journal of Social Issues», 18, 1961, pp. 13-25. ↵ 42. Che tali ideologie possano richiedere, come quella di Burke e di De Maistre, il rafforzamento delle tradizioni o la reimpostazione dell’egemonia religiosa non è naturalmente una contraddizione. Si creano argomenti a favore della tradizione solo quando sono state messe in discussione le sue credenziali. Nella misura in cui questi argomenti hanno successo essi portano non un ritorno al tradizionalismo ingenuo, ma alla ri-tradizionalizzazione ideologica – una cosa completamente diversa. Cfr. K. Mannheim, Conservative Thought, nei suoi Essays on Sociology and Social Psychology, New York, 1953, specialmente pp. 94-98. ↵ 43. È importante ricordare anche che il principio venne distrutto molto tempo prima del re: in effetti, egli fu una vittima sacrificale del principio successivo. «Quando [Saint-Just] esclama: “Determinare il principio in virtù del quale l’accusato [Luigi XVI] dovrà forse morire, significa determinare il principio per cui la società che lo giudica vive”, egli dimostra che sono i filosofi quelli che uccideranno il Re: il Re deve morire in nome del contratto sociale». A. Camus, L’homme révolté (1951), trad. it. L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani, 1976. ↵ 44. A. de Lamartine, Declaration of Principles, in Introduction to Contemporary Civilization in the West, a Source Book, New York, 1946 vol. II, pp. 328-333. ↵ 45. La discussione seguente, molto schematica e necessariamente ex cathedra, si basa principalmente sulle mie ricerche e rappresenta solo le mie opinioni, ma ho attinto largamente anche dall’opera di Herbert Feith per il materiale empirico. Vedi specialmente i suoi The Decline of Constitutional Democracy in Indonesia, New York, 1962 e Dynamics of Guided Democracy, in R. McVey (a cura di), Indonesia, New Haven, 1963, pp. 309-409. Per l’analisi culturale generale in cui si inquadrano le mie interpretazioni, vedi C. Geertz, The Religion of Java, New York, 1960. ↵ 46. R Heine-Geldern, Conceptions of State and Kinship in South-East Asia, in «Far Eastern Quarterly», 2, 1942, pp. 15-30. ↵ 47. Ibidem. ↵ 48.
«L’intera superficie di Yawa-land (Giava) va paragonata ad una sola città del regno del Principe. A migliaia [si contano] le dimore del popolo, da paragonare alle magioni dei servitori reali, che circondano il nucleo del palazzo reale. Tutti i generi di isole straniere, da confrontare con esse sono le zone di terra coltivata, rese felici e tranquille. Dell’aspetto dei parchi, poi, sono le foreste e le montagne, tutte quante percorse da Lui, senza sentire ansia». Canto 17, stanza 3 del «Nagara Kertagama», un poema epico regale del 1300. Tradotto in T. Piegeaud, Java in the 14th Century, L’Aia, 1960, pp. 3-21. Il termine nagara significa ancora, ovunque a Giava, «palazzo», «città capitale», «stato», «paese», o «governo» – talvolta anche «civiltà». ↵
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49. Per una descrizione del discorso sulla Pantjasila, cfr. G. Kahin, Nationalism and Revolution in Indonesia, Ithaca, 1952, pp. 122-127. ↵ 50. Le citazioni sono prese dal discorso sulla Pantjasila, ibidem, p. 126. ↵ 51. Gli atti della Convenzione, purtroppo non ancora tradotti, formano una delle testimonianze più complete e istruttive della lotta ideologica nei nuovi stati che siano disponibili. Cfr. Tentang Negava Republik Indonesia Dalam Konstituante, 3 voll. (Giacarta?), senza data (1958?). ↵ 52. Feith, Dynamics of Guided Democracy, cit., p. 367. Una descrizione vivida, anche se un po’ stridula, del «Manipol-USDEKismo» in azione la si può trovare in W. Hanna, Bung Karno’s Indonesia, New York, 1961. ↵ 53. Feith, Dynamics of Guided Democracy, cit., pp. 367-368. Pegang letteralmente significa «afferrare», per cui pegangan è «qualcosa di afferrabile». ↵ 54. Ibidem. ↵ 55. In quale direzione si sia sviluppata la storia indonesiana successiva è cosa nota: la notte del 30 settembre 1965 un gruppo di generali con a capo Sukarno operava un colpo di stato consegnando il paese in mano ai militari [N.d.R.]. ↵ 56. Per un’analisi del ruolo dell’ideologia in una nazione africana emergente, condotta in una direzione simile alla nostra, cfr. L.A. Fallers, Ideology and Culture in Uganda Nationalism, in «American Anthropologist», 68, 1961, pp. 677-686. Per un superbo studio sul caso di una nazione «adolescente», in cui sembra che il processo di una completa ricostruzione ideologica sia stato condotto con ragionevole successo, cfr. B. Lewis, The Emergence of Modem Turkey, London, 1961, specialmente il cap. 10. ↵ 57. Questo tuttavia non equivale a dire che i due tipi di attività non possano essere portati avanti insieme, non più di quanto un uomo non possa, ad esempio, dipingere il ritratto di un uccello che sia al tempo stesso ornitologicamente accurato ed esteticamente valido. Marx naturalmente è il caso più vistoso, ma per una più recente sincronizzazione ben riuscita di analisi scientifica e di discussione ideologica cfr. E. Shils, The Torment of Secrecy, New York, 1956. Tuttavia questi tentativi di mescolare generi diversi sono per lo più decisamente meno felici. ↵ 58. Fallers, Ideology and Culture, cit. I modelli di credenza e valore difesi possono essere naturalmente quelli di un gruppo socialmente subordinato, come pure quelli di un gruppo socialmente dominante, e l’«apologia» può quindi riguardare la riforma o la rivoluzione. ↵
Capitolo 8 1. Geertz scrive nel 1971, quattro anni prima della proclamazione dell’indipendenza dell’Angola [N.d.R.]. ↵ 2. Il termine «nuovi Stati», indefinito sin dall’inizio, può diventarlo ancor di più via via che il tempo passa e gli Stati crescono. Benché il mio referente principale siano i paesi che hanno ottenuto l’indipendenza dopo la seconda guerra mondiale, non esito, dove si addica ai miei scopi e sembri realistico, ad estendere il termine sino a comprendere Stati come quelli del Medio Oriente, che ottennero prima l’indipendenza formale, o anche quelli, come l’Etiopia, l’Iran o la Thailandia, che non furono mai delle colonie in senso stretto. ↵
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3. Per una discussione incisiva, anche se aneddotica, del modo in cui le condizioni sociali contemporanee del Terzo Mondo ostacolano il riconoscimento di un mutamento da parte degli «indigeni» ed anche degli osservatori stranieri, cfr. A. Hirschman, Underdevelopment, Obstacles to the Perception of Change and Leadership, in «Dedalus», 97, 1968, pp. 925-937. Per qualche mio commento relativo alla tendenza degli studiosi occidentali – e conseguentemente degli intellettuali del Terzo Mondo – a sottovalutare l’attuale velocità (e a fraintenderne la direzione) del mutamento nei nuovi Stati, cfr. Myrdal’s Mythology, in «Encounter», giugno 1969, pp. 2634. ↵ 4. Per un’analisi generale, cfr. J.A. Fishman et al. (a cura di), Language Problems of Developing Nations, New York, 1968. ↵ 5. Per la prima (non accettata, ma attaccata), cfr. I. Harries, Swahili in Modem East Africa, in Fishman et al. (a cura di), Language Problems, cit., p. 426. Per la seconda (accettata nel corso di un’incisiva discussione lungo le linee generali qui sviluppate), cfr. C. Gallagher, North African Problems and Prospects: Language and Identity, in Fishman et al. (a cura di), Language Problems, cit., p. 140. Il mio punto di vista, naturalmente, non è che le questioni linguistiche tecniche non abbiano nessuna rilevanza rispetto ai problemi della lingua nei nuovi Stati, ma semplicemente che le radici di quei problemi sono molto più profonde e che espandere lessico, standardizzare le usanze, migliorare i sistemi di scrittura e razionalizzare l’istruzione, benché interventi validi di per sé, eludono la difficoltà principale. ↵ 6. La principale eccezione finora, per quanto riguarda il Terzo Mondo, è l’America Latina, ma laggiù – confermando la regola – i problemi linguistici sono molto meno rilevanti che negli Stati davvero nuovi e tendono a ridursi ai problemi dell’istruzione e delle minoranze. (Ad esempio, cfr. D.H. Burns, Bilingual Education in the Andes of Perù, in Fishman et al. (a cura di), Language Problems, cit., pp. 403-413.) Fino a che punto il fatto che lo spagnolo (o più il portoghese) sia un veicolo sufficiente del pensiero moderno da essere sentito come una via ad esso, o piuttosto veicolo abbastanza marginale da non essere in effetti molto efficace, abbia avuto un ruolo nella provincializzazione dell’America Latina – in modo che di fatto essa ha avuto un problema linguistico senza rendersene conto – è una questione diversa ed interessante. ↵ 7. S.P. Huntington, The Political Modernization of Traditional Monarchies, in «Daedalus», 95, 1966, pp. 738-768; cfr. anche il suo Political Order in Changing Societies, New Haven, 1968, trad. it. parziale Ordinamento politico e mutamento sociale, Milano, Angeli, 1975. Tuttavia non sono d’accordo con l’analisi generale di Huntington, troppo influenzata, a mio parere, dall’analogia con la lotta del re contro l’aristocrazia nell’Europa premoderna. Per il Marocco, ad ogni modo, l’immagine di una monarchia populista «fuori tono nelle cerehie della borghesia» che, passando sopra le teste del «privilegio locale, dell’autonomia corporativa [e] del potere feudale» fa appello alle masse nell’interesse di una riforma progressiva mi sembra quasi esattamente l’opposto della verità. Per avere delle opinioni più realistiche sulla politica marocchina post-indipendentista, cfr. J. Walterbury, The Commander of the Faithful, London, 1970. ↵ 8. E. Shils, Political Development in the New States, in «Comparative Studies in Society and History», 2, 1960, pp. 265-292, 379-411. ↵ 9. T. Parsons, The Social System, Glencoe, Ill., 1951, p. 349, trad. it. Il sistema sociale, Milano, Comunità, 19812. Corsivo aggiunto. ↵ 10. II problema del rapporto tra il marxismo e il nazionalismo è molto dibattuto, e ci vorrebbe un altro saggio anche solo per presentarlo. Qui basti dire che, per quanto riguarda i nuovi Stati, i movimenti marxisti, comunisti e non, sono stati quasi ovunque profondamente nazionalistici sia nello scopo che nel linguaggio, e non vi sono segnali che indichino una diminuzione in tal
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senso. In effetti si potrebbero trarre le stesse conclusioni sui movimenti politico-religiosi – musulmani, buddisti, indù o altro –: anch’essi tendono ad essere tanto localizzati di fatto quanto sono senza una sede per principio. ↵
Capitolo 9 1. F.X. Sutton, Representation and the Nature of Political Systems, in «Comparative Studies in Society and History», 2, 1959, pp. 1-10. ↵ 2. K. Wittfogel, Oriental Despotism, New Haven, 1957, trad. it. Il dispotismo orientale, Milano, SugarCo, 1980. ↵ 3. Per un esempio rappresentativo di questa linea di pensiero, cfr. A. Southall, Alur Society, Cambridge, 1954. ↵ 4. R. Coulburn (a cura di), Feudalism in History, Princeton, 1956, presenta una utile rassegna di questi studi. Per M. Bloch, cfr. la sua Societé féodale, Paris, 1939-1940, trad. it. La società feudale, Torino, Einaudi, 1965. ↵ 5. 3 S.M. Eisenstadt, The Political Systems of Empires, New York, 1963; K. Polanyi, C. Arensberg e H. Pearson (a cura di), Trade and Markets in Early Empires, Glencoe, Ill., 1957. ↵ 6. Per una rassegna e un’esame di quest’opera, cfr. R. Braidwood e G. Willey, Courses toward Urban Life, New York, 1962. Vedi anche R.M. Adams, The Evolution of Urban Society, New York-Chicago, 1966. ↵ 7. R. Heine-Geldern, Conceptions of State and Kingship in Southeast Asia, in «Far Eastern Quarterly», 2, 1942, pp. 15-30. ↵ 8. J.L. Swellengrebel, Introduzione a J.L. Swellengrebel et al., Bali: Life, Thought and Ritual, The Hague, 1960. ↵ 9. V.E. Korn, Het Adatrecht van Bali, The Hague, 1932, p. 440. ↵ 10. Per gli Shilluk, cfr. E.E. Evans-Pritchard, The Divine Kingship of the Shilluk of the Nilotic Sudan, Oxford, 1948. La discussione sui Maya è ancora in corso ma, per un utile sommario, cfr. G. Willey, Mesoamerica, in Braidwood e Willey, Courses toward Urban Life, cit., pp. 84-101. ↵ 11. Geertz scrive nel 1967 [N.d.R.]. ↵
Capitolo 10 1. Le discussioni più sistematiche e più estese si trovano in T. Parsons e E. Shils (a cura di), Toward a General Theory of Action, Cambridge, Mass., 1959; T. Parsons, The Social System, Glencoe, 111., 1951, trad, it. Il sistema sociale, Milano, Comunità, 19812. All’interno dell’antropologia alcune delle trattazioni più notevoli, non tutte concordi, comprendono: S.F. Nadel, Theory of Social Structure, Glencoe, Ill., 1957; E. Leach, Political Systems of Highland
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Burma, Cambridge, Mass., 1954, trad. it. Sistemi politici birmani. Struttura sociale dei kachin, Milano, Angeli, 1978; E.E. Evans-Pritchard, Social Anthropology, Glencoe, Ill., 1951; R. Redfield, The Primitive World and its Transformations, Ithaca, 1953; C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, Paris, 1958, trad. it. Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1966; R. Firth, Elements of Social Organization, New York, 1951; M. Singer, Culture, in International Encyclopedia of the Social Sciences, New York, 1968, vol. III, p. 527. ↵ 2. G. Ryle, The Concept of Mind, New York, 1949, trad. it. Lo spirito come comportamento, Torino, Einaudi, 1955. Ho già trattato di questi problemi filosofici, qui passati sotto silenzio, suscitati dalla «teoria estrinseca del pensiero» nel III capitolo, e devo ora solo ripetere che questa teoria non implica un’adesione al comportamentismo, né alle sue forme metodologiche né a quelle epistemologiche, e neppure significa mettere in discussione il puro e semplice fatto che sono gli individui, non le collettività, che pensano. ↵ 3. Per un’introduzione all’opera di Schutz in questo campo, cfr. il suo The Problem of Social Reality, in Collected Papers, a cura di M. Natanson, The Hague, 1962, vol. I (trad. it. parziale, Saggi sociologici, Torino, Utet, 1979). ↵ 4. Ibidem, p. 18. Parentesi aggiunte, paragrafi modificati. ↵ 5. Dove il «culto degli antenati» da un lato o la «credenza negli spiriti» dall’altro sono presenti, si possono considerare i successori come (ritualmente) capaci di interagire con i loro predecessori, o i predecessori capaci di interagire (misticamente) con i loro successori. Ma in questi casi le «persone» coinvolte sono, finché si ritiene avvenga l’interazione, non i predecessori ed i successori, ma i contemporanei e perfino i consociati. Si dovrebbe tenere bene a mente che qui e nella discussione seguente le distinzioni sono formulate dal punto di vista dell’attore, non da quello di un osservatore in terza persona, estraneo. Per la collocazione dei costrutti orientati sull’attore (a volte erroneamente denominati «soggettivi») nelle scienze sociali cfr. T. Parsons, The Structure of Social Action, Glencoe, Ill., 1937, trad. it. La struttura dell’azione sociale, Bologna, Il Mulino, 19682, specialmente i capitoli sugli scritti metodologici di Max Weber. ↵ 6. È sotto questo aspetto che la formulazione consociato-contemporaneo-predecessore-successore differisce criticamente da almeno alcune versioni della formulazione umwelt-mitwelt-vorweltvogelwelt da cui deriva, perché qui non si tratta di asserzioni apodittiche di «soggettività trascendentale» alla Husserl, ma piuttosto di «forme di comprensione» elaborate sociopsicologicamente e trasmesse storicamente alla Weber. Per una discussione estesa, anche se in qualche modo inconcludente su questo contrasto, cfr. M. Merleau-Ponty, Le primat de la perception et ses conséquences philosophiques (1933-34), Grenoble, 1989, trad. it. La fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1972. ↵ 7. Nella discussione che segue sarò costretto a schematizzare rigidamente le pratiche balinesi e a rappresentarle come molto più omogenee ed alquanto più coerenti di quanto non siano in realtà. In particolare le affermazioni categoriche sia in senso positivo sia in senso negativo («Tutti i balinesi… nessun balinese…») si devono leggere con raggiunta implicita o con «… fin dove giunge la mia conoscenza», ed a volte anche come se calpestassero violentemente eccezioni ritenute «abnormi». Presentazioni più esaurienti dal punto di vista etnografico di alcuni dei dati riassunti qui si possono trovare in H. e C. Geertz, Teknonymy in Bali: Parenthood, Age-Grading, and Genealogical Amnesia, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», 94, (1964), parte II, pp. 94-108; C. Geertz, Tihingan: A Balinese Village, in «Bijdragen tot de taalland- en volkenkunde», 120, 1964, pp. 1-33; C. Geertz, Form and Variation in Balinese Village Structure, in «American Anthropologist», 61, 1959, pp. 991-1012. ↵ 8. Mentre i nomi propri delle persone comuni sono pure invenzioni prive di per sé di significato, quelli dei nobili sono talvolta tratti da fonti sanscrite e «significano» qualcosa, di solito qualcosa
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di piuttosto altisonante, come «guerriero virtuoso» o «sapiente coraggioso». Ma questo significato è più ornamentale che denotativo, e nella maggior parte dei casi non si sa effettivamente quale sia il significato del nome (in contrapposizione al semplice fatto che ne abbia uno). Questo contrasto tra i semplici balbettii dei contadini e la vuota magniloquenza dei nobili non è privo di significato culturale, ma questo risiede soprattutto nella sfera dell’espressione e della percezione della diseguaglianza sociale, non dell’identità personale. ↵ 9. Ciò naturalmente non significa che queste persone sono ridotte in termini sociologici (ed ancor meno psicologici) a recitare la parte di un bambino, perché esse sono accettate come adulti, seppure incompleti, dai loro consociati. L’incapacità di avere figli, tuttavia, è un particolare handicap per chiunque desideri molto potere o prestigio locale, e da parte mia non ho mai conosciuto un uomo senza figli che avesse molto peso nei consigli dei villaggi, o che non fosse socialmente marginale in generale. ↵ 10. Da un punto di vista puramente etimologico, essi hanno effettivamente una certa sfumatura di significato, perché derivano da radici obsolete indicanti il «primo», il «mediano» ed il «successivo», ma questi tenui significati non hanno un vero valore quotidiano e sono percepiti, sempre che ciò accada, in modo molto approssimativo. ↵ 11. Per essere precisi, il sistema balinese (e, con ogni probabilità, qualunque altro sistema) non è puramente generazionale, ma il mio intento qui è soltanto di descrivere la forma generale del sistema, non la sua struttura precisa. Per il sistema terminologico completo, cfr. H. e C. Geertz, Teknonimy in Bali, cit. ↵ 12. Per una distinzione simile a quella qui fatta tra l’aspetto «ordinatorio» e quello della «designazione di ruolo» delle terminologie di parentela, cfr. D. Schneider e G. Homans, Kinship Terminology and the American Kinship System, in «American Anthropologist», 57 (1955), pp. 1195-1208. ↵ 13. Neanche vecchi della stessa generazione del defunto gli rivolgono preghiere, naturalmente, per la stessa ragione. ↵ 14. Potrebbe sembrare che la continuazione dei termini oltre il livello kumpi sia in contrasto con questa concezione, ma di fatto la suffraga. Infatti, nel raro caso in cui l’uomo ha un propronipote (kelab) («reale» o «classificatorio») abbastanza vecchio da adorarlo alla sua morte, al bambino viene ancora proibito di farlo. Ma non perché abbia la stessa età del defunto, ma perché è «(di una generazione) più vecchio» – cioè l’equivalente del «padre» del defunto. Similmente un vecchio che viva abbastanza da avere un pro-pronipote kelab che abbia superato l’infanzia e sia poi morto pregherà – da solo – sulla tomba del bambino, perché il bambino è (di una generazione) più anziano di lui. Come principio, lo stesso schema si applica alle generazioni più lontane, quando il problema diviene del tutto teorico, dato che i balinesi non usano termini di parentela per riferirsi ai morti o ai non nati: «Questo è come li chiameremmo e come li tratteremmo se ne avessimo, il che non avviene mai». ↵ 15. I pronomi personali sono un’altra possibilità e si potrebbero davvero considerare come un ordine simbolico distinto di definizione di persona. Ma di fatto si tende ad evitarne l’uso ogni volta che si può, spesso a prezzo di una certa goffaggine nell’esprimersi. ↵ 16. Quest’uso del nome proprio di un discendente come parte di un tecnonimo non contraddice in alcun modo le mie affermazioni precedenti sulla mancanza di una diffusione pubblica di questi nomi. Il «nome» qui è parte dell’appellativo della persona che porta il tecnonimo, non lo è (neanche secondariamente) del bambino eponimo il cui nome è preso solo come punto di riferimento e senza alcun valore simbolico indipendente, per quanto ne sappia. Se il bambino muore, anche nell’infanzia, il tecnonimo di solito è mantenuto invariato; il bambino eponimo si rivolge e si riferisce a suo padre o a sua madre col tecnonimo che comprende il suo stesso nome
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del tutto inconsciamente: non vi è l’idea che il bambino il cui nome è compreso nei tecnonimi dei genitori, dei nonni o dei bisnonni sia, per questo motivo, in alcun modo diverso o privilegiato rispetto ai fratelli i cui nomi non sono compresi; non si ha notizie di cambiamenti di tecnonimi per includere i nomi di rampolli favoriti o più capaci, e così via. ↵ 17. Sottolinea anche un altro tema che attraversa tutti gli ordini di definizione di persona discussi qui, e cioè la minimizzazione della differenza tra i sessi, che sono rappresentati come praticamente intercambiabili per quanto riguarda la maggior parte dei ruoli sociali. Per un’interessante discussione su questo tema, cfr. J. Belo, Rangda and Barong, Locust Valley, N.Y., 1949. ↵ 18. In questo senso, i termini delPordine di nascita si potrebbero definire in un’analisi più elegante come «tecnonimi zero», e comprendere in quest’ordine simbolico; una persona chiamata Wayan, Njoman, ecc., è una persona che non ha prodotto nessun discendente, almeno per il momento. ↵ 19. G. Bateson, Bali: The Value System of a Steady State, in M. Fortes (a cura di), Social Structure: Studies Presented to Radcliffe-Brown, New York, 1963, pp. 35-53. Bateson fu il primo a notare, anche se un po’ indirettamente, la particolare natura acronica del pensiero balinese, e la mia analisi focalizzata in modo più ristretto è stata molto stimolata dalle sue correzioni generali. Cfr. anche il suo An Old Temple and a New Myth, in «Djawa» (Jogjakarta), 17, (1937), pp. 219-307. (Ora ristampato in Traditional Balinese Culture, a cura di J. Belo, New York 1970, pp. 111-136; 304-402.) ↵ 20. Non si sa né quanti diversi titoli si trovino a Bali (benché ve ne debbano essere ben più di cento), né quanti individui portino ciascun titolo, perché non è mai stato fatto un censimento in questi termini. In quattro villaggi che ho studiato a fondo nella Bali sudorientale erano rappresentati un totale di 32 diversi titoli, il più diffuso dei quali era portato da quasi 250 individui, il più limitato da uno, con una media di 50 o 60. Vedi Geertz, Tihingan: A Balinese Village, cit. ↵ 21. Le categorie Varna sono spesso suddivise, specialmente da persone di status elevato, in tre classi gerarchiche: la superiore (ulama), la media (madia) e l’inferiore (nista) – dove i vari titoli della categoria generale sono adeguatamente riuniti in sottogruppi. Non si può fornire qui un’analisi completa del sistema balinese di stratificazione sociale – che è di tipo tanto polinesiano quanto indiano. ↵ 22. Si dovrebbe almeno nominare l’esistenza di un altro ordine, che ha a che vedere con i segnalatori del sesso (Ni per le donne, I per gli nomini) Nella vita ordinaria, questi titoli sono aggiunti solo ai nomi propri (che per la maggior parte sono sessualmente neutri) ed ai nomi propri più il nome dell’ordine di nascita, ed anche così di rado. Conseguentemente essi sono, dal punto di vista della definizione della persona, di importanza solo accidentale, ciò che giustifica che io abbia tralasciato di prenderli esplicitamente in considerazione. ↵ 23. Per un tentativo in questa direzione, cfr. Geertz, Form and Variation in Balinese Village Structure, cit. ↵ 24. I nomi di luoghi associati alla funzione espressa dal titolo sono forse ancor più comuni come specificazione secondaria: in «Klian Pau», Pau è il nome del villaggio di cui la persona è klian (capo, anziano), nel caso di Anak Agung Kaleran, «Kaleran» – letteralmente «nord» o «settentrionale» – è il nome (e la collocazione) del palazzo del signore. ↵ 25. I testi tradizionali, alcuni dei quali sono piuttosto ampi, relativi alle attività degli dei, esistono davvero e frammenti delle storie sono noti. Tuttavia, non solo questi miti riflettono anche la visione tipologica della personalità, la visione statica del tempo e lo stile ritualizzato di
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interazione che sto cercando di descrivere, ma la generale reticenza a discutere o a pensare al divino significa che le storie che riferiscono c’entrano solo di sfuggita con i tentativi balinesi di capire e adattarsi al «mondo». La differenza tra greci e balinesi non sta tanto nel tipo di vita che conducono i loro dei, scandalosa in entrambi i casi, quanto nel loro atteggiamento verso queste vite. Per i greci, si riteneva che i fatti privati di Zeus e dei suoi compagni illuminassero i fatti anche troppo simili compiuti dagli uomini, e quindi il pettegolezzo su di loro aveva un’importanza filosofica. Per i balinesi, le vite private di Betara Guru e dei suoi compagni sono solo questo, private, e il pettegolezzo su di loro è scortese – perfino impertinente, visto il loro posto nella gerarchia del prestigio. ↵ 26. È l’ordine generale che si ritiene sia fisso, non la collocazione dell’individuo all’interno di esso, che è mobile, benché segua più certi assi di altri. Ma la cosa importante è che questo movimento non è concepito, o per lo meno non principalmente, in quelli che riterremmo termini temporali; quando un «padre di» diventa «nonno di» l’alterazione è percepita meno come di invecchiamento che di mutamento nelle coordinate sociali (e il che qui è lo stesso, cosmiche) un movimento diretto attraverso un particolare genere di attributo immutabile, lo spazio. Inoltre, entro alcuni ordini simbolici di definizione di persona, la collocazione non è percepita come qualità assoluta perché le coordinate sono dipendenti dall’origine: a Bali come altrove, il fratello di un uomo è lo zio di un altro uomo. ↵ 27. Schutz, The Problem of Social Reality, cit., pp. 16-17, trad. it. p. 17. Parentesi aggiunte. ↵ 28. Ibidem, pp. 221-222. ↵ 29. Come premessa alla discussione seguente, e appendice alla precedente, si dovrebbe notare che, proprio come i balinesi hanno rapporti da consociati tra di loro ed hanno un certo senso della connessione sostanziale tra antenati e discendenti, essi hanno anche, come diremmo noi, dei «veri» concetti calendariali – date assolute nel cosiddetto sistema Caka, nozioni induiste di epoche successive, come pure accesso al calendario gregoriano. Ma queste non ‘ sono (almeno nel 1958) sottolineate e sono di importanza decisamente secondaria nel corso ordinario della vita quotidiana: modelli varianti si applicano in contesti ristretti per scopi specifici da parte di certi tipi di persone in occasioni sporadiche. Un analisi completa della cultura balinese – nella misura in cui è possibile una cosa del genere – dovrebbe davvero tenerne conto, e da certi punti di vista non sono privi di un significato teorico. La questione, qui come altrove, non è, in questa analisi del tutto introduttiva, che i balinesi siano, come sono ritenuti essere gli ungheresi, immigrati da un altro pianeta, completamente dissimili da noi, ma solo che l’impatto principale del loro pensiero riguardo a certe questioni di importanza sociale critica spinge, almeno per il momento, in una direzione spiccatamente diversa dalla nostra. ↵ 30. Poiché i cicli dei 37 nomi (uku) che formano i supercicli di 210 giorni hanno anch’essi un nome, essi si possono usare, e normalmente lo sono, in congiunzione coi nomi dei cinque e dei sette giorni, eliminando così la necessità di invocare i nomi dal ciclo di sei nomi. Ma questa è solo una questione di annotazione: il risultato è esattamente lo stesso, benché i giorni dei supercicli di 30 e di 42 giorni siano così messi in ombra. Gli strumenti balinesi – diagrammi, elenchi, calcoli numerici, dati mnemonici – per giungere a determinazioni di calendario e valutare il loro significato sono complessi e vari, e vi sono differenze nella tecnica e nell’interpretazione a seconda degli individui, dei villaggi e delle regioni dell’isola. I calendari di Bali stampati (innovazione ancora non molto diffusa), riescono a mostrare subito l’uku: il giorno in ciascuno dei dieci cicli variabili (compreso quello che non cambia mai!); il giorno ed il mese nel sistema lunare-solare; il giorno, il mese e l’anno nei calendari gregoriano ed islamico; e il giorno, mese, anno e nome dell’anno nel calendario cinese – completi di annotazioni di tutte le feste importanti, da Natale al Galungan, che questi vari sistemi definiscono. Per discussioni più esaurienti delle idee dei balinesi sul calendario ed il loro significato socioreligioso, cfr. R. Goris, Holidays and Holy Days, in J.L. Swellengrebel (a cura di), Bali, The Hague, 1960, pp. 115-129, insieme con i riferimenti citati qui. ↵
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31. Più esattamente: i giorni che definiscono vi dicono che genere di tempo è. Benché i cicli ed i supercicli, essendo tali, siano ricorrenti, non è questo il fatto a cui si bada o a cui si attribuisce importanza. Le periodicità di 30, 35, 42 e 210 giorni e quindi gli intervalli che delimitano, non sono percepiti come tali, o lo sono molto perifericamente, e neppure sono percepiti gli intervalli impliciti nelle periodicità elementari, i cicli propriamente detti, che le generano – un fatto che è stato a volte messo in ombra chiamando i primi «mesi» ed «anni», e gli ultimi «settimane». Sono solo i «giorni» che contano – non lo si dice mai abbastanza – e il senso balinese del tempo non è molto più ciclico di quanto sia disinteressato alla durata: è particellare. All’interno dei singoli giorni vi è una certa dose di misurazione di durata a breve raggio, non molto accuratamente calibrata, per mezzo della battitura pubblica di gong fessurati in vari punti (mattino, mezzogiorno, tramonto e così via) del ciclo diurno, e, per certi compiti di lavoro collettivo, dove i contributi individuali devono essere bilanciati approssimativamente, per mezzo di orologi ad acqua. Ma anche questo ha poca importanza: rispetto al loro apparato calendariale, i concetti ed i sistemi di orologi balinesi sono molto poco sviluppati. ↵ 32. Goris, Holidays and Holy Days, cit., p. 121. Naturalmente non tutte le feste sono importanti: molte di esse vengono celebrate semplicemente all’interno della famiglia e sono di routine. Ciò che le rende feste è che sono identiche per tutti i balinesi, cosa che non avviene per altri tipi di celebrazioni. ↵ 33. Ibidem. Naturalmente vi sono dei sottoritmi risultanti dalle elaborazioni dei cicli: così ogni trentacinquesimo giorno è festa perché questa viene determinata dall’interazione dei cicli di cinque e sette nomi, ma nei termini della mera successione di giorni non ce n’è nessuna, benché qua e là vi sia qualche raggruppamento. Goris considera Radité-Tungleh-Paing come il «primo giorno dell’… anno balinese (permutazionale)» (e quindi quei giorni come i primi giorni dei loro cicli rispettivi), ma benché ci possa essere (oppure no: Goris non lo dice) qualche base testuale per questo, non sono riuscito a trovare delle prove che i balinesi in effetti lo percepiscano così. Infatti, se c’è un giorno che dev’essere considerato quello che noi definiremmo una pietra miliare temporale questo è il Galungan (numero 74 nel calcolo summenzionato). Ma anche quest’idea resta debolmente elaborata, nel migliore dei casi: come altre feste, il Galungan semplicemente accade. Presentare il calendario balinese, anche parzialmente, nei termini delle idee del flusso temporale occidentali significa, secondo me, fraintenderlo fenomenologicamente. ↵ 34. Swellengrebel (a cura di), Bali, cit., p. 12. Questi templi sono di tutte le dimensioni e gradi di significato, e Swellengrebel nota che l’ufficio degli affari religiosi di Bali ha fornito una cifra (esatta in modo sospetto), verso il 1953, di 4661 templi «grandi ed importanti» per l’isola che, si dovrebbe ricordare, ha una superficie di 2170 miglia quadrate, all’incirca la dimensione dello stato del Delaware. ↵ 35. Per la descrizione di un odalan sontuoso (la maggior parte dei quali dura tre giorni invece di uno solo) cfr. J. Belo, Balinese Temple Festival, Locust Valley, New York, 1953. Questi odalan sono ancora calcolati di solito con l’uso dell’uku invece che del ciclo di sei nomi, insieme coi cicli di cinque e sette nomi. Cfr. la nota 30. ↵ 36. Ci sono anche vari concetti metafisici associati con i giorni che portano nomi diversi – costellazioni di dei, demoni, oggetti naturali (alberi, uccelli, animali), virtù e vizi (amore, odio…) e via dicendo – che spiegano «perché» abbia il carattere che ha – ma non è necessario prenderli in esame qui. In questo campo, come pure nelle operazioni associate di «predizione della fortuna» descritte nel testo, le teorie e le interpretazioni sono meno standardizzate e il calcolo non è limitato ai cicli di cinque, sei e sette nomi, ma esteso a varie permutazioni degli altri, fatto che rende le possibilità praticamente illimitate. ↵ 37. Rispetto agli individui il termine più spesso applicato è otonan invece di odalan, ma il significato della radice è esattamente lo stesso: «emersione», «comparsa», «venuta fuori». ↵
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38. I nomi degli ultimi due mesi – presi a presti dal sanscrito – non sono, strettamente parlando, numeri come quelli degli altri dieci; ma nei termini delle percezioni balinesi essi «significano» undicesimo e dodicesimo. ↵ 39. In effetti – altro prestito indiano – anche gli anni sono numerati ma, al di fuori delle cerehie sacerdotali dove tale conoscenza è più una questione di prestigio dotto, di ornamento culturale, che qualunque altra cosa, l’enumerazione dell’anno non ha praticamente nessun ruolo nell’uso effettivo del calendario, e le date lunari-solari sono date quasi sempre senza l’anno, che non è, a parte rarissime eccezioni, né conosciuto né oggetto di attenzione. I testi e le iscrizioni antiche indicano a volte l’anno, ma nel corso normale della vita i balinesi non «datano» mai niente, nel nostro senso del termine, tranne forse che per dire che un certo avvenimento – un’eruzione vulcanica, una guerra o altro – è accaduto «quand’ero piccolo», «quando c’erano gli olandesi», oppure, i balinesi illo tempore, «ai tempi del Madjapahit» e così via. ↵ 40. Sul tema della «vergogna» nella cultura balinese, cfr. M. Covarrubias, The Island of Bali, New York, 1956, e sull’«assenza di culmine», G. Bateson e M. Mead, Balinese Character, New York, 1942. ↵ 41. Per una rassegna critica generale, cfr. G. Piers e M. Singer, Shame and Guilt, Springfield, Ill., 1953. ↵ 42. Qui sono ancora interessato alla fenomenologia culturale, non alla dinamica psicologica. Naturalmente è possibilissimo, anche se non credo che vi siano delle prove disponibili a favore o contro, che la «paura del palcoscenico» balinese sia collegata ad inconsci sentimenti di colpa di qualche tipo. Voglio dire soltanto che tradurre lek come «colpa» o «vergogna» è, visto il senso abituale di questi termini, fraintenderlo, e che la nostra espressione «paura del palcoscenico» – «nervosismo sentito quando si appare davanti ad un pubblico», dà un’idea molto migliore, benché ancora imperfetta, di che cosa dicono in effetti i balinesi quando parlano di lek, ciò che fanno quasi sempre. ↵ 43. Per una descrizione del combattimento Rangda-Barong, cfr. Belo, Rangda and Barong, cit.; per una brillante evocazione della sua atmosfera, Bateson e Mead, Balinese Character, cit. ↵ 44. J. Levenson, Modem China and Its Confucian Past, Garden City, 1964, p. 212. Qui come altrove uso «pensiero» in riferimento non solo alla deliberata riflessione ma all’attività intelligente di ogni tipo, e «significato» in riferimento non solo ai «concetti astratti», ma al significato di ogni genere. Questo è forse un po’ arbitrario ed un po’ vago, ma si devono avere dei termini generali per parlare di argomenti generali, anche se quello che ricade sotto questi argomenti è lungi dall’essere omogeneo. ↵ 45. «Ogni segno di per sé sembra morto. Che cosa gli dà vita? – nell’uso esso è vivo. Gli viene ispirata dentro la vita? Oppure è il suo uso la sua vita?». L. Wittgenstein, Philosophical Investigations, New York, 1953, p. 128, trad. it. Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1983. Corsivo nell’originale. ↵ 46. Li An-che, Zuñi; Some Observations and Queries, in «American Anthropologist», 39, 1937, pp. 62-76; H. Codere, The Amiable Side of Kwakiutl Life, in «American Anthropologist», 58, 1956, pp. 334-351. Quale di due modelli, o gruppi di modelli, antitetici, sia in effetti principale, se ve n’è uno, è naturalmente un problema empirico, ma non insolubile, specialmente se si pensa a quello che significa «principale» in questo contesto. ↵ 47. «È stato così dimostrato che, perché si accumulino adattamenti, non ci devono essere canali… da alcune variabili… ad altre… L’idea tanto spesso implicita negli scritti di fisiologia che tutto andrà bene se soltanto saranno disponibili sufficienti connessioni incrociate, è… del tutto errata». W.R. Ashby, Design for a Brain, New York, 19602, p. 155. Corsivo nell’originale.
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Naturalmente il riferimento qui è alle connessioni dirette –quelle che Ashby chiama «giunzioni primarie». Ogni variabile senza alcuna relazione qualsivoglia alle altre variabili nel sistema semplicemente non sarebbe parte di esso. Per una discussione sul nucleo dei problemi teorici coinvolti qui, cfr. ibidem, pp. 171-183, 205-218. Per una dimostrazione che la discontinuità culturale può non solo essere compatibile col funzionamento effettivo dei sistemi sociali che essi governano ma anche di sostegno a tale funzionamento, cfr. J.W. Fernandez, Symbolic Consensus in a Fang Reformative Cult, in «American Anthropologist», 67, 1965, pp. 902-929. ↵ 48. È forse indicativo che l’unico balinese di grande importanza nel governo centrale indonesiano durante i primi anni della repubblica – per un periodo fu ministro degli esteri – fu il più grande principe Satria di Gianjar, uno dei regni balinesi tradizionali, che portava il «nome» meravigliosamente balinese di Anak Agung Gde Agung. «Anak Agung» è il titolo pubblico portato dai membri della casata dominante di Gianjar, Gde è un titolo di ordine di nascita (l’equivalente Triwangsa di Wayan) e Agung, benché sia un nome proprio, è di fatto solo un’eco del titolo pubblico. Dato che «gde» e «agung» significano entrambi «grande», e «anak» significa uomo, l’intero nome suona come «Grande, Grande Grande Uomo» – come lo fu davvero, finché cadde in disgrazia presso Sukarno. La maggior parte dei recenti leader politici a Bali hanno preso ad usare i loro nomi propri più individualizzati alla maniera di Sukarno abbandonando i titoli, nomi di ordine di nascita, tecnonimi e via dicendo perché «feudali» e «antiquati». ↵ 49. Questo venne scritto all’inizio del 1965: per i drammatici mutamenti che avvennero successivamente cfr. The Integrative Revolution, cap. X (qui non tradotto) dell’edizione inglese di questo volume, p. 282. ↵
Capitolo 11 1. G. Bateson e M. Mead, Balinese Character: A Photographic Analysis, New York, 1942, p. 68. ↵ 2. In inglese, cock significa «gallo» (compreso il senso figurato di «capo», ecc.) ma anche, in gergo, organo sessuale maschile, «uccello». In questo saggio, «combattimento di galli» ha quindi anche il significato di «esibizione di virilità». Si tenga presente il periodo in cui C. Geertz svolgeva le sue ricerche sul campo: si tratta del 1958, come egli stesso precisa (anche se il saggio relativo apparirà solo nel 1973). Solo nel 1949 le ultime forze militari dei Paesi Bassi avevano lasciato il suolo della ex-colonia olandese, pure formalmente indipendente dal 1945. L’Indonesia viveva allora la contraddittoria ma intensa e nuova fase politica di Sukarno. Meno di tre anni erano trascorsi dal Congresso di Bandung [N.d.R.]. ↵ 3. J. Belo, The Balinese Temper, in J. Belo (a cura di), Traditional Balinese Culture (1935), New York, 1970, pp. 85-110. ↵ 4. La migliore discussione sul combattimento dei galli è di nuovo in Bateson e Mead, Balinese Character, cit., pp. 24-25, 140, ma anch’essa è generica ed affrettata. ↵ 5. Ibidem, pp. 25-26. Il combattimento di galli ha qualcosa di insolito all’interno della cultura balinese perché è un’attività pubblica monosessuale da cui l’altro sesso è totalmente ed espressamente escluso. La differenziazione sessuale, dal punto di vista culturale, è estremamente ridotta a Bali, e la maggior parte delle attività, formali ed informali, comportano la partecipazione di uomini e donne a livello paritetico, di solito come coppie. Dalla religione, alla politica, all’economia, alla parentela, all’abito, Bali è una società piuttosto «unisex», fatto
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che le sue usanze ed il suo simbolismo rivelano chiaramente. Anche nei contesti dove le donne hanno un ruolo poco importante – la musica, la pittura, certe attività agricole – la loro assenza, che in ogni caso è solo relativa, è più una questione pratica che un’imposizione sociale. Di questo modello generale, il combattimento di galli, interamente composto di uomini, da uomini e per uomini (le donne – almeno le donne balinesi – non fanno neanche da spettatrici), è l’eccezione più vistosa. ↵ 6. C. Hooykaas, The Lay of the Jaya Prana, London, 1958, p. 39. Questo canto contiene una strofa con il tema dello sposo riluttante. Jaya Prana, il protagonista del mito di un Uria balinese, risponde al signore che gli ha offerto la più bella delle sue seicento ancelle: «Divino Sovrano, mio Signore e Padrone / Ti supplico, dammi licenza di andare: queste cose non sono ancora nella mia mente: come un gallo da combattimento in gabbia / invero io sono impegnato a fondo / io sono solo / finora la fiamma non è stata attizzata». ↵ 7. Cfr. V.E. Korn, Het Adatrecht van Bali, The Hague, 19322, nell’indice sotto toh. ↵ 8. Vi è una leggenda in cui si dice che la separazione tra Giava e Bali è dovuta all’azione di una potente figura religiosa giavanese che voleva proteggersi contro un eroe della cultura balinese (l’antenato di due caste Ksatria), che era un appassionato giocatore ai combattimenti di galli. Cfr. C. Hooykaas, Agama Tirtha, Amsterdam, 1964, p. 184. ↵ 9. Una coppia incestuosa è costretta a portare al collo un giogo da maiale, a strisciare fino ad un trogolo ed a mangiarvi direttamente dalla bocca. Su questo, cfr. J. Belo, Customs Pertaining to Twins in Bali, in Belo (a cura di), Traditional Balinese Culture, cit., p. 49; sulla repulsione per la bestialità in genere, Bateson e Mead, Balinese Character, cit., p. 22. ↵ 10. Tranne che per i combattimenti poco importanti, con piccole scommesse (sul problema dell’importanza dei combattimenti, si veda più avanti), l’affissione dello sperone è fatta di solito da qualcuno che non è il proprietario. Se il proprietario maneggia il suo gallo o no dipende più o meno dalla sua abilità, fattore la cui importanza è di nuovo commisurata all’importanza del combattimento. Quando gli applicatoli di speroni ed i preparatori del gallo sono una persona diversa dal proprietario, sono quasi sempre un parente molto stretto – un fratello o un cugino – o un suo amico molto intimo. Pertanto sono quasi estensioni della sua personalità, come dimostra il fatto che tutti e tre si riferiscono al gallo come «mio», dicono che «io» ho combattuto questo e quell’altro, e così via. Inoltre, le triadi proprietario-preparatoreapplicatore tendono ad essere abbastanza stabili, benché gli individui possano partecipare a parecchie di esse, e spesso si scambino i ruoli all’interno di ciascuna. ↵ 11. E. Goffman, Encounters: Two Studies in the Sociology of Interaction, Indianapolis, 1961, pp. 910. ↵ 12. Questa parola, che letteralmente significa macchia o segno indelebile, come nel caso di una voglia sulla pelle o una venatura in una pietra, viene anche usata per un deposito in un caso giudiziario, come pegno, come garanzia offerta in un prestito, per la rappresentazione di qualcun altro in un contesto legale o rituale, come caparra in una transazione d’affari, come contrassegnò posto in un campo ad indicarne la proprietà in una disputa, e per lo status di una moglie infedele dal cui amante il marito deve avere soddisfazione o al quale deve cederla. Cfr. Korn, Het Adatrecht van Bali, cit.; T. Pigeaud, Javaans-Nederlands Handwoordenboek, Groningen, 1938; H.H. Juynball, Oudjavaansche-Nederlandsche Woordenlijst, Leiden, 1923. ↵ 13. La scommessa di centro dev’essere fatta in denaro contante da entrambe le parti prima dell’effettivo combattimento. L’arbitro trattiene le poste finché non viene pronunciato il verdetto e poi le consegna al vincitore, evitando, tra le altre cose, il profondo imbarazzo che vincitore e perdente proverebbero se quest’ultimo dovesse pagare personalmente dopo la sua sconfitta. Viene sottratto circa il 10% delle entrate del vincitore per la quota dell’arbitro e
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quella degli sponsor del combattimento. ↵ 14. In effetti la classificazione dei galli, che è estremamente elaborata (ne ho individuato più di venti classi, elenco certamente incompleto), non si basa sul colore soltanto, ma su una serie di indicatori indipendenti, interagenti, che comprendono – oltre al colore – la dimensione, lo spessore delle ossa, il piumaggio ed il temperamento. (Ma non il pedigree. I balinesi non hanno allevamenti di galli in misura significativa, e neppure ne hanno mai avuti, per quanto ho potuto scoprire. L’asil, o gallo della giungla, che è la razza combattente di base ovunque si trovi questo sport, è nativa dell Asia meridionale, e se ne può acquistare un buon esemplare nel reparto pollame di quasi ogni mercato balinese per una cifra oscillante tra i quattro o cinque ringgit ai cinquanta o più.) L’elemento colore è solo quello normalmente usato come nome tipo, tranne quando i due galli di tipi diversi – come per principio devono essere – hanno lo stesso colore, nel qual caso si aggiunge un’indicazione secondaria tratta da una delle altre caratteristiche («a macchia larga» in opposizione «a macchia piccola», ecc.). I tipi sono coordinati alle varie idee cosmologiche che aiutano a creare la composizione degli incontri, così che, ad esempio, si fa combattere un gallo piccolo, ostinato, a chiazze brune su fondo bianco con le penne che stanno piatte e le zampe sottili dal lato orientale del ring in un certo giorno del complesso calendario balinese, ed un gallo grosso, prudente, tutto nero con le piume a ciuffi e le zampe tozze dal lato nord in un altro giorno, e così via. Tutto questo è ancora registrato sui manoscritti di foglia di palma e discusso senza fine dai balinesi (che non hanno tutti sistemi identici), ed un’analisi su scala reale, componenziale e simbolica, delle classificazioni dei galli sarebbe preziosa sia come integrazione alla descrizione dei combattimenti di galli sia di per sé. Ma i miei dati sull’argomento, anche se estesi e diversificati, non sembrano essere abbastanza completi e sistematici per tentare un’analisi del genere qui. Per le idee cosmologiche balinesi più in generale, cfr. Belo (a cura di), Traditional Balinese Culture, cit., e J.L. Swellengrebel (a cura di), Bali: Studies in Life, Thought and Ritual, The Hague, 1960. ↵ 15. A fini di completezza etnografica, si dovrebbe notare che è possibile per l’uomo che appoggia il favorito – quello cioè che dà le quotazioni – fare una scommessa in cui vince se vince il suo gallo o se vi è un pareggio, con una piccola diminuzione della posta (non ho una casistica sufficiente per essere preciso, ma sembra che avvengano pareggi ogni quindici ed anche ogni venti incontri). Egli indica il suo desiderio di fare così gridando sapih (pareggio) invece del tipo di gallo, ma queste scommesse sono poco frequenti. ↵ 16. L’esatta dinamica del movimento delle scommesse è uno degli aspetti del combattimento di galli più interessanti, più complicati ed anche più difficili da studiare, date le febbrili condizioni in cui si svolge. Probabilmente sarebbe necessario filmarla e in più avere osservatori multipli, per trattarla efficacemente. Anche impressionisticamente – l’unico approccio possibile per un etnografo solitario preso nel vortice della situazione – è chiaro che certi uomini hanno la preminenza sia nel determinare il favorito (cioè nel fare le chiamate d’apertura del tipo di gallo che iniziano sempre il processo), sia nel dirigere il movimento dei pronostici, e questi opinion leaders sono i più dotati tra i combattenti di galli che sono al tempo stesso seri cittadini di cui si parlerà più avanti. Se costoro cominciano a cambiare le loro chiamate, altri li seguono; se cominciano a fare scommesse, le fanno anche altri e – benché vi sia sempre un gran numero di scommettitori frustrati che invocano quotazioni più favorevoli o più sfavorevoli fino alla fine – a quel punto il movimento più o meno cessa. Ma una comprensione dettagliata dell’intero processo attende, ahimè, quello che probabilmente non si avrà mai: un teorico delle decisioni armato di osservazioni esatte sul comportamento individuale. ↵ 17. Considerando solo la variabilità binomiale, la deviazione standard da una media del 50% nel caso da 60 ringgit in giù è di 1,38 o (in un test unidirezionale) una possibilità di otto su cento dovuta al caso soltanto; per il caso al di sotto dei 40 ringgit la deviazione standard è di 1,65, o di circa cinque su cento. Il fatto che questi scarti, benché reali, non siano forti, indica solo che, anche nei combattimenti più piccoli, persiste la tendenza ad abbinare galli ragionevolmente allo
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stesso livello. È una questione di relativa mitigazione delle pressioni verso l’equilibrio, non di una loro eliminazione. La tendenza delle contese con scommesse alte ad essere del genere «testa e croce» è anche più impressionante, e fa pensare che i balinesi sappiano benissimo che cosa stanno facendo. ↵ 18. Saddle point: terminologia tratta dalla teoria matematica dei giochi [N.d.T.] ↵ 19. La riduzione delle scommesse nei combattimenti più piccoli (che, naturalmente, si autoalimenta: una delle ragioni per cui la gente trova poco interessanti i combattimenti più piccoli è che vi si fanno meno scommesse, e per quelli grossi avviene il contrario) ha luogo in tre modi che si rafforzano a vicenda. In primo luogo, vi è un semplice calo di interesse quando la gente si allontana per prendere una tazza di caffè o chiacchierare con un amico. In secondo luogo, i balinesi non riducono matematicamente le poste, ma scommettono direttamente nei termini di poste dichiarate come tali. Quindi, per una scommessa nove a otto, uno scommette nove ringgit, l’altro otto; per una cinque a quattro, uno ne scommette cinque, l’altro quattro. Per ogni unità monetaria stabilita, come il ringgit, il denaro giocato in una scommessa dieci-anove è 6,3 volte quello giocato in una scommessa due-a-uno, ad esempio, e, come si è osservato, nei combattimenti piccoli le quotazioni si stabilizzano verso la parte più sfavorevole. Infine le scommesse che si fanno tendono ad essere di un dito invece che di due o tre o, come accade nei combattimenti molto grossi, di quattro o cinque dita. (Le dita indicano i multipli delle quote delle scommesse fissate in palio, non le cifre assolute. Due dita in una situazione sei-a-cinque significano che uno vuol scommettere dieci ringgit sul gallo sfavorito contro dodici, tre dita in una situazione otto-a-sette, ventuno contro ventiquattro, e così via.) ↵ 20. Oltre alle scommesse vi sono altri aspetti economici del combattimento di galli, specialmente il suo collegamento molto stretto col sistema di mercato locale che, anche se secondari rispetto alla sua motivazione ed alla sua funzione, non sono privi di importanza. I combattimenti di galli sono avvenimenti pubblici a cui si può recare chiunque abbia voglia di andare, talvolta da zone molto lontane, ma per oltre il 90%, probabilmente per oltre il 95%, sono eventi strettamente locali, e il luogo interessato non è definito dal villaggio, e neppure dal distretto amministrativo, ma dal sistema del rurale. Bali ha una «settimana» mercantile di tre giorni, con una rotazione dei mercati rispondente al tipo «sistema solare». Benché i mercati stessi non si siano mai sviluppati molto, restando piccole realtà del mattino sulla piazza del mercato, è la microregione generalmente ad essere delimitata da questa rotazione – dieci o venti miglia quadrate, sette od otto villaggi contigui (il che nella Bali di oggi vorrà dire di solito da cinque a dieci o undicimila persone), da cui viene il grosso del pubblico di ogni combattimento, spesso praticamente tutto il pubblico. Di fatto la maggior parte dei combattimenti sono organizzati e sponsorizzati da cartelli di piccoli mercanti rurali, con la premessa generale, accettata unanimemente da loro e da tutti i balinesi, che i combattimenti di galli vanno bene per il commercio perché «tirano fuori di casa i soldi, li fanno circolare». Ai bordi del campo vengono eretti dei banchetti che vendono vari generi di cose e si organizzano dei giochi d’azzardo assortiti, basati solo sulla fortuna (vedere sotto), in modo che il tutto assume l’aspetto di una piccola fiera. Il collegamento tra combattimenti di galli e mercati e mercanti è molto antico, come indica, tra le altre cose, la loro congiunzione nelle iscrizioni. R. Goris, Prasasti Bali, Bandung, 1954. Il commercio ha seguito il gallo per secoli nella Bali rurale, e questo sport è stato uno dei principali promotori della monetizzazione dell’isola. ↵ 21. L’espressione si trova nella traduzione Hildreth, International Library of Psychology (1931), nota a p. 106; cfr. L.L. Fuller, The Morality of Law, New Haven, 1964, pp. 6 ss. ↵ 22. Naturalmente anche per Bentham l’utilità non è di solito limitata come concetto alle perdite ed ai guadagni monetari, e il mio argomento si potrebbe qui esprimere meglio dicendo che non è vero che per i balinesi, come per ogni altro popolo, l’utilità (il piacere, la felicità…) è identificabile semplicemente con la ricchezza. Ma questi problemi di terminologia sono in ogni caso secondari rispetto al punto essenziale: il combattimento di galli non è la roulette. ↵
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23. M. Weber, Sociologia della religione, trad it. Milano, Comunità, 1982. Naturalmente non vi è nulla di specificamente balinese circa il significato più profondo del denaro, come dimostra la descrizione di Whyte dei ragazzi di strada in una zona operaia di Boston: «Il gioco d’azzardo ha un ruolo importante nella vita della gente di Cornerville. Qualunque sia il gioco che fanno i ragazzi di strada, scommettono quasi sempre sul risultato. Quando non c’è niente in palio, il gioco non è considerato una vera contesa. Questo non significa che l’elemento finanziario sia l’unico importante. Ho udito spesso uomini dire che l’onore di vincere era molto più importante del denaro in palio. I ragazzi di strada considerano giocare a soldi la vera prova di abilità, e se un uomo non si comporta bene quando è in palio del denaro non è considerato un buon concorrente». W.F. Whyte, Street Corner Society, Chicago, 19552, p. 140, trad. it. Little Italy. Uno slam italo-americano, Bari, Laterza, 1968. ↵ 24. Gli estremi a cui si ritiene che giunga occasionalmente questa pazzia – ed il fatto è che è considerata pazzia – sono dimostrati dalla leggenda popolare balinese I Tuhung Kuning. Un giocatore resta talmente sconvolto da questa passione che, partendo per un viaggio, ordina alla moglie incinta di aver cura del futuro neonato se è maschio, ma di darlo in pasto ai galli da combattimento se è femmina. La madre partorisce una femmina, ma invece di dare la bambina ai galli, dà loro un grosso topo e nasconde la piccola presso la sua stessa madre. Quando il marito torna, i galli, cantando una filastrocca, lo informano dell’inganno ed egli, infuriato, parte per uccidere la bambina. Dal cielo scende una dea che porta con sé la bimba. I galli muoiono per il cibo dato loro, il proprietario ridiventa savio, la dea riporta al padre la bambina, che lo ricongiunge a sua moglie. La storia è riportata col nome di «Geel Komkommertie» in J. Hooykaas-van Leuwen Bookamp, Sprookjes en Verhalen van Bali, The Hague, 1956, pp. 12-25. ↵ 25. Per una descrizione più esauriente della struttura sociale rurale balinese, cfr. C. Geertz, Form and Variation in Balinese Village Structure, in «American Anthropologist», 61, 1959, pp, 94108; «Tihingan, A Balinese Village», in R.M. Koenttjaraningrat, Villages in Indonesia, Ithaca, 1967, pp. 210-243; e, benché un po’ fuori dalla norma rispetto ai villaggi balinesi, V.E. Korn, De Dorpsrepubliek tnganan Pagringsingan, Santpoort, 1933. ↵ 26. Goffman, Encounters, cit., p. 78. ↵ 27. B.R. Berelson, P.F. Lazersfeld e W.N. McPhee, Voting: A Study of Opinion Formation in a Presidential Campaign, Chicago, 1954. ↵ 28. Essendo un paradigma formale, esso è inteso a mostrare la struttura logica, non quella effettuale, del combattimento di galli. A che cosa conduca ciascuna di queste considerazioni, in che ordine, e per quale meccanismo, è un’altra faccenda – su cui ho cercato di fare un po di luce nella discussione generale. ↵ 29. In un altra delle leggende popolari di Hooykaas-van Leeuwen Bookamp («De Gast», Sprookjes en Verhalen vati Bali, cit., pp. 172-180), un Sudra di bassa casta, un uomo generoso, pio, spensierato che è anche un bravo combattente di galli perde un combattimento dopo l’altro, nonostante la sua abilità, finché non solo resta senza denaro ma anche col suo ultimo gallo. Tuttavia non si dispera: «Scommetto – dice – sul Mondo Invisibile». Sua moglie, una donna buona e laboriosa, sapendo quanto gli piacciano i combattimenti di galli, gli dà il suo ultimo denaro del «giorno di pioggia» per andare a scommettere. Ma, pieno di timori per la sua continua malasorte, egli lascia a casa il suo gallo e scommette solo ai lati. Ben presto perde tutto tranne una moneta o due e si rifugia in un banchetto di alimentari per fare uno spuntino, dove incontra un mendicante decrepito, maleodorante e nell’insieme repellente che si appoggia ad un bastone. Il vecchio chiede del cibo, e l’eroe spende le sue ultime monete per comprarglielo. Il vecchio chiede quindi di passare la notte con l’eroe, cosa che l’eroe lo invita lietamente a fare. Dato che in casa non ce niente da mangiare, tuttavia, l’eroe dice alla moglie di uccidere l’ultimo gallo per pranzo. Quando il vecchio scopre questo fatto, dice
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all’eroe che ha tre galli nella sua capanna di montagna e afferma che l’eroe può averne uno per combattere. Chiede anche al figlio dell’eroe di accompagnarlo come servitore, e così viene fatto dopo che il figlio ha acconsentito. Il vecchio si rivela essere Siva e quindi abita in un grande palazzo nel cielo, benché l’eroe non lo sappia. Col tempo, l’eroe decide di andare a trovare il figlio e di prendere il gallo promesso. Innalzato alla presenza di Siva, gli viene offerta la scelta di tre galli. Il primo canta «Ho battuto quindici avversari», il secondo canta «Ho battuto venticinque avversari» il terzo canta «Ho battuto il re». «Quello, il terzo, è la mia scelta», dice l’eroe, e torna con esso sulla terra. Quando arriva al combattimento di galli, gli viene chiesto di pagare un biglietto d ingresso e risponde: «Non ho denaro; pagherò dopo che il mio gallo avrà vinto». Poiché si sa che non vince mai, viene lasciato entrare dato che il re, che è lì a combattere, lo odia e spera di farlo suo schiavo quando avrà perso e non potrà pagare. Per assicurarsi che ciò avvenga, il re fa combattere il suo gallo più bello contro quello dell’eroe. Quando i galli vengono piazzati, quello dell’eroe fugge, e la folla, aizzata dall’arrogante re, scoppia in urli e risate. Allora il gallo dell’eroe vola contro il re in persona, uccidendolo con un colpo di sperone in gola. L’eroe fugge. La sua casa è circondata dagli uomini del re. Il gallo si trasforma in Garuda, il grande uccello mitico della leggenda indiana, e porta in salvo nei cieli l’eroe e sua moglie. Vedendo questo, il popolo proclama l’eroe e sua moglie re e regina e come tali ritornano sulla terra. Più tardi anche il loro figlio, liberato da Siva, ritorna ed il re-eroe annuncia la sua intenzione di entrare in un eremo. («Non prenderò più parte a combattimenti di galli, ho scommesso sull’Invisibile ed ho vinto».) Egli entra nell’eremo e suo figlio diviene re. ↵ 30. I giocatori incalliti non sono tanto declassati (infatti il loro status è ereditato, come quello di tutti gli altri) quanto semplicemente impoveriti e personalmente caduti in disgrazia. Il più notevole giocatore incallito nel mio circuito di combattimenti era un satria di casta molto elevata che aveva scialacquato la maggior parte del suo considerevole patrimonio terriero per alimentare la sua passione. Anche se tutti in privato lo ritenevano uno stupido e qualcosa di peggio (alcuni, più caritatevoli, lo consideravano malato), in pubblico egli veniva trattato con la elaborata deferenza e cortesia dovuta al suo rango. Sulla mancanza di connessione tra reputazione personale e status pubblico si veda il capitolo precedente. ↵ 31. Per quattro trattazioni, alquanto diverse, cfr. S. Langer, Feeling and Form, New York, 1953, trad. it. Sentimento e forma, Milano, Feltrinelli, 1975; R. Wollheim, Art and Its Objects, New York, 1968; N. Goodman, Languages of Art, Indianapolis, 1968, trad. it. I linguaggi dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 1976; M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, trad. it. Lecce, Milella, 1971, pp. 159-190. ↵ 32. I combattimenti di galli inglesi (questo sport fu messo al bando nel 1840) pare che ne fossero privi, e che pertanto abbiano generato una famiglia di forme del tutto diversa. Nei combattimenti inglesi un numero di galli convenuto in anticipo veniva allineato in due squadre e combatteva in serie. Si teneva il punteggio e le scommesse si facevano tanto sugli incontri individuali che su tutta la serie nel suo complesso. C’erano anche «battaglie campali», tanto in Inghilterra che sul continente, in cui un gran numero di galli veniva liberato nello stesso momento, e in cui vinceva quello che restava in piedi all’estremità sinistra. E nel Galles il cosiddetto «combattimento gallese» seguiva uno schema di eliminatorie, sul modello degli attuali tornei di tennis, con i vincitori che proseguivano nel secondo round. Come genere, il combattimento di galli ha forse meno duttilità compositiva, diciamo, della commedia latina, ma non ne è completamente privo. Sui combattimenti di galli più in generale, cfr. A. Ruport, The Art of Cockfighting, New York, 1949; G.R. Scott, History of Cockfighting, London, 1957 e L. Fitz-Barnard, Fighting Sports, London, 1921. ↵ 33. Come detto nel capitolo Persona, tempo e comportamento a Bali. ↵ 34. Sulla necessità di distinguere tra «descrizione», «rappresentazione», «esemplificazione» ed «espressione» (e l’estraneità della «imitazione» rispetto a tutte queste) come modi di
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riferimento simbolico, cfr. Goodman, Languages of Art, cit., pp. 49-91, 61-110, 225-241. ↵ 35. Polished significa in inglese sia lucido, lucente, ripulito, sia – ed è il significato qui più interessante – raffinato, elegante, gentile [N.d.T.]. ↵ 36. N. Frye, The Educated Imagination, Bloomington, Ind., 1964, p. 99. ↵ 37. Vi sono altri due valori positivi e negativi balinesi che, rapportati con la temporalità frammentata da una parte e l’aggressività sfrenata dall’altra, consolidano il concetto che il combattimento di galli è al tempo stesso una continuazione della comune vita sociale e la sua diretta negazione: quello che i balinesi chiamano ramé, e quello che chiamano paling. Ramé significa affollato, rumoroso e attivo, ed è uno stato sociale molto ambito; i mercati gremiti, le feste di massa, le strade molto frequentate sono tutte ramé, come lo è, naturalmente all’estremo, un combattimento di galli. Ramé è quello che accade nei tempi «pieni» (il suo contrario, sepi, «quiete» è quanto accade in quelli «vuoti»). Paling è la vertigine sociale, la sensazione di stordimento, di disorientamento, di sbalestramento che si prova quando il proprio posto nelle coordinate dello spazio sociale non è chiaro, ed è uno stato terribilmente disgraziato, che produce un’ansia tremenda. I balinesi ritengono che l’esatta conservazione dell’orientamento spaziale («non sapere dov e il nord» significa essere pazzi), dell’equilibrio, del decoro, dei rapporti di status e via dicendo, sono fondamentali per una vita ordinata (krama) e che paling, la confusione turbinosa di posizioni esemplificata dai galli che si azzuffano, sia il suo peggior nemico e la sua maggior contraddizione. Su ramé, cfr. Bateson e Mead, Balinese Character, cit., pp. 3, 64; su paling, op. cit., p. 11 e Belo (a cura di), Traditional Balinese Culture, cit., pp. 90 ss. ↵ 38. Il riferimento a Stevens è al suo Motive for Metaphor: «You like it under the trees in autumn / Because everything is half dead, / The wind moves like a cripple among the leaves / And repeats words without meaning». W. Stevens, Collected Poems of Wallace Stevens, Alfred Knopf, 1947. («Ti piace sotto gli alberi in autunno / perché tutto è metà morto / Il vento si muove come uno zoppo tra le foglie / e ripete parole senza senso» [N.d.T.].) Il riferimento a Schönberg è al terzo dei suoi Cinque pezzi per orchestra (Opera 16) ed è preso da H.H. Drager, The Concept of Tonal Body, in S. Langer (a cura di), Reflections on Art, New York, 1961, p. 174. Su Hogarth e su tutto questo problema – quivi chiamato «accostamento di matrici multiple» – cfr. E.H. Gombrich, The Use of Art for the Study of Symbols, in Phychology and the Visual Arts, a cura di J. Hogg, Baltimore, 1969, pp. 149-170, trad. it. Arte e illusione, studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Torino, Einaudi, 1972. Il termine più comune per questo genere di alchimia semantica è «trasferimento metaforico» e se ne possono trovare buone discussioni tecniche in M. Black, Models and Metaphors, Ithaca, N.Y., 1962, pp. 25 ss.; Goodman, Language as Art, cit., pp. 44 ss.; e W. Percy, Metaphor as Mistake, in «Sewanee Review», 66, 1958, pp. 78-99. ↵ 39. L’espressione è presa dal secondo libro dell’Organon, Sull’interpretazione. Per una discussione di questo, e per tutta l’analisi su come liberare «la nozione di testo… dalla nozione di scritto o di scrittura» e costruire quindi un’ermeneutica generale, cfr. P. Ricoeur, De l’interpretation: essai sur Freud, Paris, 1965, trad. it. Dell’interpretazione: saggio su Freud, Milano, Il Saggiatore, 1979. ↵ 40. Ibidem. ↵ 41. Lo «strutturalismo» di Lévi-Strauss potrebbe sembrare un’eccezione, ma lo è solo apparentemente, perché, invece di prendere miti, riti totemici, norme matrimoniali o che altro come testi da interpretare, Lévi-Strauss li prende come messaggi cifrati da risolvere, il che non è proprio la stessa cosa. Egli non cerca di comprendere le forme simboliche nei termini di come funzionano in situazioni concrete e nell’organiz-zare percezioni (significati, emozioni, concetti, atteggiamenti): cerca di comprenderle interamente nei termini della loro struttura interna,
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indépendentes de tout sujet, de tout objet, et de tout contexte. ↵ 42. Frye, The Educated Imagmation, cit., pp. 63-64. ↵ 43. L’uso dell’idioma visuale, «naturale» per gli europei, per la percezione – «vedere», «osservare» e così via – qui è più fuorviarne del solito, per il fatto che, come ho menzionato in precedenza, i balinesi seguono l’andamento del combattimento tanto (o forse di più, dato che i galli combattenti sono piuttosto difficili da vedere se non come macchie in movimento) con i corpi quanto con gli occhi, muovendo gli arti, la testa e il tronco in una mimica gestuale delle manovre del gallo, il che significa che gran parte dell’esperienza individuale del combattimento è più cinestetica che visiva. Se c’è un esempio della definizione di Kenneth Burke di un atto simbolico come «la danza di un atteggiamento» (The Philosophy of the Literary Form, New York, 1957, p. 9), questo è il combattimento di galli. Sul ruolo importantissimo della percezione cinestetica nella vita balinese, Bateson e Mead, Balinese Character, cit., pp. 84-88; sulla natura attiva della percezione estetica in generale, Goodman, Language of Art, cit., pp. 241-244. ↵ 44. Tutti questi accostamenti della grandezza occidentale con la bassezza orientale disturberanno indubbiamente certi tipi di esteti, come i precedenti sforzi degli antropologi di parlare di cristianesimo e totemismo nello stesso ambito disturbavano certi tipi di teologi. Ma, come le questioni ontologiche sono (o dovrebbero essere) messe tra virgolette nella sociologia della religione, così quelle valutative sono (o dovrebbero essere) messe tra virgolette nella sociologia dell’arte. In ogni caso, il tentativo di sprovincializzare il concetto di arte è solo una parte della generale cospirazione antropologica per sprovincializzare tutti i concetti sociali importanti – il matrimonio, la religione, il diritto, la razionalità – e sebbene questo sia una minaccia per le teorie estetiche che considerano certe opere d’arte al di fuori della portata dell’analisi sociologica, non costituisce una minaccia alla convinzione, per cui Robert Graves pretende di essere stato ripreso agli esami di laurea a Cambridge, che alcune poesie sono migliori di altre. ↵ 45. Sulla cerimonia di consacrazione, cfr. V.E. Korn, The Consecration of the Priest, in Swellengrebel (a cura di), Bali: Studies, cit., pp. 131-154; sulla comunione dei villaggi (un po’ esagerata), Goris, The Religious Character of the Balinese Village, cit., pp. 79-100. ↵ 46. Che quanto il combattimento di galli ha da dire su Bali non sia impercettibile e che l’inquietudine che esprime sul modello generale della vita balinese non sia del tutto senza ragione è attestato dal fatto che in due settimane del dicembre del 1956, durante le sommosse seguite al fallito colpo di stato a Giacarta, un numero compreso tra quaranta e ottantamila balinesi (su una popolazione di circa due milioni) morirono, in gran parte uccidendosi tra di loro: la più grave rivolta del paese. Cfr. J. Hughes, Indonesian Upheaval, New York, 1967, pp. 173-183 (le cifre di Hughes sono naturalmente delle stime piuttosto generiche, ma non sono le più alte). Questo, naturalmente, non significa che le uccisioni furono causate dai combattimenti di galli, che avrebbero potuto essere predette sulla base di essi, o che fossero una sorta di versione ingrandita con le persone al posto dei galli – tutte queste sono sciocchezze. Vuol solo dire che, se si guarda Bali non solo attraverso le sue danze, i suoi spettacoli di ombre, la sua scultura e le sue ragazze, ma – come fanno i balinesi stessi – anche attraverso i suoi combattimenti di galli, il fatto che abbia avuto luogo il massacro sembra, se non meno spaventoso, meno in contraddizione con le leggi della natura. Come più di un Gloucester in carne ed ossa ha scoperto, a volte la gente prende la vita esattamente come nel proprio intimo non vuole. ↵
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INDICE Prefazione Introduzione all'edizione italiana Interpretazione di culture
4 7 18
Parte prima 19 1. Verso una teoria interpretativa della cultura 20 I 20 II 23 III 30 IV 35 V 40 VI 46 VII 51 VIII 58 Parte seconda 62 2. L'impatto del concetto di cultura sul concetto 63 di uomo I 63 II 69 III 78 IV 90 3. Sviluppo della cultura ed evoluzione della 96 mente I 96 II 104 540
III IV Parte terza 4. La religione come sistema culturale I II 1. Un sistema di simboli che opera… 2. … stabilendo profondi, diffusi, e durevoli stati d'animo e motivazioni negli uomini per mezzo della… 3. … formulazione di concetti di un ordine generale dell'esistenza e del… 4. … rivestimento di questi concetti con un'aura di concretezza tale che… 5. … gli stati d'animo e le motivazioni sembrano assolutamente realistici III 5. Rituale e mutamento sociale: un esempio giavanese 1. L'ambiente 2. Il funerale 3. Analisi 6. La «conversione interna» nella Bali contemporanea 1. Il concetto di razionalizzazione religiosa 2. La religione balinese tradizionale 3. La razionalizzazione della religione balinese 541
115 131 135 136 136 139 141 147 152 167 182 189 193 198 209 224 237 238 244 253
Parte quarta 268 7. Ideologia come sistema culturale 269 I 269 II 273 III 279 IV 290 V 298 VI 306 VII 319 8. Dopo la rivoluzione: il destino del 324 nazionalismo nei nuovi Stati 1. Quattro fasi del nazionalismo 330 2. Essenzialismo ed epocalismo 337 3. Concetti di cultura 346 9. Politica passata, politica presente: alcune note sugli usi dell'antropologia nella comprensione 355 dei nuovi Stati I 355 II 360 III 371 Parte quinta 377 10. Persona, tempo e comportamento a Bali 378 1. La natura sociale del pensiero 378 2. L'analisi della cultura 379 3. Predecessori, contemporanei, consociati e 384 successori 4. Gli ordinamenti balinesi di definizione 388 delle persone 542
4.1. Nomi propri 4.2. Nomi dell'ordine di nascita 4.3. Termini di parentela 4.4. I tecnonimi 4.5. Titoli di status 4.6. Titoli pubblici 5. Un triangolo culturale di forze 5.1. I calendari tassonomici e il tempo puntuale 5.2. La cerimonia, il timore del palcoscenico e l'assenza di un «climax» 6. Integrazione culturale, conflitto culturale, mutamento culturale 11. Il «gioco profondo»: note sul combattimento di galli a Bali 1. L'irruzione 2. Uomini e galli 3. Il combattimento 4. Scommesse sbilanciate e alla pari 5. Giocare col fuoco 6. Piume, sangue, folle e soldi 7. Dire qualcosa di qualcosa Note Introduzione Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 543
389 392 394 399 404 412 418 421 429 438 448 448 455 461 468 477 491 498 506 506 507 508 508
Capitolo 4 Capitolo 5
513 516
Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11
517 518 523 525 525 532
544