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Italian Pages 195 [194] Year 1997
COME PENSARE :SAGGI
CarloSini
Rln1esis l$AGGlQuesto spazio ideale è il luogo'di tutti iluo~ ghi, e sebbene taliluoghi, come abbiamo vjsto; siano ambigui, ndn c'è dubbio che tutti accadano nel luogo del mondo; Questo luogo
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potremmo definirlo come la totalità o l'insieme di tutto ciò che è, che ha luogo, o di tutto ciò che accade. Questo luogò universale si configura come l'"in-cui" dell'evento, tolti i càratteri specifici del suo aver luogo. Per esempio, il fiore fiorisce nel campo, l'eclissi apparve nel cielo; il campo e il cielo stanno poi nello spazio del mondo; cioè stanno nello stesso spazio, tolti i caratteri specifici che distinguono il dove d~l fiorire dal dove dell'apparire dell'eclissi. Ma se ora ci rivolgiamo al quando, vediamo che le cose non stanno nello stesso modo. Noi possiamo dire che tutti i tempi specifici stanno nel tempo universale e cosmico; per esempio il 1981 è un punto o trattino della linea ideale continua del tempo cosmico. Ma tutti questi cosiddetti tempi specifici non hanno caratteri specifici. Il dove del fiorire è parte integrante del che cosa di questo evento: che l'evento accada nel campo e non nel giardino fa differenza, e tanto più ne fa poiché in ogni caso non accade nel cielo. Fa differenza per il che cosa dell'evento. Ma che il fiorire accadain un quando ò in un altro non cambia nulla per il che cosa. Infatti il quando non aggiunge nulla al che cosa. La specificità dei tempi non li caratterizza in modo diverso, cioè non ne fa tempi con caratteri diversi. "23 settembre" e "24 settembre" dice solo: dopo il 23 viene il 24, ma il che cosa non cambia per i/fatto che è il 23 oppure il 24. Possiamo allora delineare queste.provvisorie conclusioni: a) Lo spazio cosmico è il risultato di un procedimento astrattivo che prescinde da tutti i caratteri specifici di tutti i luoghi degli eventi. . b) Il tempo cosmico non può essere ottenuto in modo.analogo, poiché non vi sono caratteri temporali specifici, dai quali prescindere, negli eventi, per poi costruire, una volta operata questa astrazione, una serie temporale universale. Non ci sono, per esempio, caratteri specifici del 1981 d.C. dai quali prescindere per poter poi ·ricondurre questo quando allo stesso quando di tutti i quando o tempo cosmico: esso infatti vi è già. c) La serie dei quando è sempre universale e vuota, riducendosi a: ora, prima di ora, dopo di ora. . . . d) Il quando, allora, non sta dalla stessa parte del che cosa e del dove. Questi due determinano, dçfiniscono l'evento, rendendolo ciò che (what) esso è; il quando non determina niente, ma indica piuttosto che (that) l'evento è. (Le espressioni what e that sono qui prese a prestito dall'uso che ne fece Bradley). Quando dicevamo all'inizio che l'evento è circoscritto da una 15.2
serie di parametri, e tra questi nominavamo il quando, non diceyamo bene. Il quando noncircoscrive o deliQ.1ita l'evento; esso ha piuttosto l'aria di stare dalla parte stessa dell'evento, di no;minare il suo puro accadere. È dei fiori iÌ fiorire nel campo, è dei lampi il balenare nel cielo; in questo che cosa che si dà (può darsi, si è dato, si darà: si dà- es gibt, dirà Heidegger - il fiorire nel campo, si dà il balenare nel cielo) si inserisce ilquando; ma, si direbbe, come pura coniugazione verbale: fiorì il fiore nel campo; balena il lampo nel cielo. Ciò dice appunto che l'evento accade, è accaduto, accadrà. La singolare vuotezza del quando allora si spiega: poiché sta dalla parte dell'evento, il quando dice solo il suo (dell'evento) puro accadere, l'evento in quanto accade, in quanto, in se stesso, e-viene. Il quando allora è l'evento stesso? L'evento non è altro che tempo (il temporalizzarsi del tempo in una serie di quando successivi)? Non siamo certo in grado di affrontare ora queste domande; però la via sin qui battuta è giunta se rion altro a mostrarci perché tante filosòfie hanno considerato il tempo come forma originaria della realtà, e come problema tra i più profondi e decisivi per il pensiero. Noi però badiamo ora a proseguire il nostro paziente cammino. D) Il perché dell'evento. Ogni che cosa dell'evento ha un perché. Questa formula è però fuorviante, in quanto favorisce i pregiudizi metafisici del pensare comune. Essa infatti non va intesa nel senso della nota frase kantiana che dice "ogni cangiamento ha la sua causa'.', ma in un senso più originario che ora cercheremo di descrivere. Npn ci sono eventi come fiori che poi anche fioriscono o appassiscono; non ci sono fulmini che poi anche balenano e non ci sono battaglie che poi anche si ingaggino. L'evento è proprio il fiorire, o l' appassire, del fiore, il balenare del fulmine, ecc. Accade (es gibt) il fio: rire. Ci sono fiori perché fioriscono; ci sono lampi perché balenano. E in questo senso che va colto il perché. Ciò vuol dire che il che cosa è sempre circondato da una attesa. L'attesa è quello spazio (quel far luogo) che dà luogo al dove dell'evento e al suo che cosa. Ci si aspetta che i fiori fioriscano, che i lampi balenino, che le battaglie si ingaggino, che.i re.governino, che i professori insegnino, e infine .anche che non accada nulla. L'attesa·non va qui presa in un senso. "psicologico"; essa è una struttura complessa di relazioni concentriche. Infatti essa, possiamo dire, va da·un minimum, che è l'attesa puntuale,. a un maximum, 153
che è l'attesa onniperimetrale. C'è attesa che finisca di pronunciarsi la parola (la "p-a-r-o-1-a"): attende chi ascolta e anche chi la pronuncia; c'è attesa che si completi la frase, il periodo, la lezione, l'essere andati all'università, la giornata, la settimana, il mese, l'anno, ecc. C'è attesa del fiore nel campo, del campo nella campagna, della campagna nella regione, ecc.; c'è attesa del balenare nel temporale, del temporale nell'estate, dell'estate nelle scagioni, ecc.; c'è attesa che la battaglia cominci, che la guerra proceda, che arrivi la pace, che si consegua la vittoria, che un popolo sormonti, che la sua imposizione perduri, poi magari che declini, ecc. In ognuno di questi esempi, da un iniziale punto centrale ci si dilata a una serie di sfere concentriche. · Ora, nell'attesa puntuale del che cosa noi si è già forniti dei perché: nell'andare al campo ci si aspetta il fiore, perché i fiori fioriscano nei campi; nell'osservare le fotografie ci si aspettano i ricordi, perché le fotografie risvegliano i ricordi. E nell'attendere inquieti nel cuore della notte ci si aspetta anche che non accada nulla, perché che nulla accada può sempre accadere. Nell'attesa onniperimecrale, invece, si attende sempre che tf mondo accada (in termini generali: che accada qualcosa e che accada nulla). L'attesa, in realtà, dà sempre luogo all'accadere del mondo, e perciò a quelle varie strutture (i vari che cosa e dove) dell'accadere che accadono col mondo, che sono cioè un accadere del mondo: il mondo accade nel fiorire, nel balenare, nell'ingaggiarsi della battaglia, nell'evocazione del ricordo, ecc. L'evento dunque accade col suo che cosa e il suo dove, e in un quando (collocato nella serie del tempo cosmico); ma perché possa accadere, perché possa aver luogo, deve essere anche predisposto uno spazio che fa luogo, e questo spazio è appunto l'attesa. L'evento accade perché è atteso. Ogni attesa puntuale ha in sé implicitamente delle attese più ampie, e infine ha in sé l'attesa massima, o attesa onniperimetrale, l'attesa che il mondo accada. Mi attendo che piova, perché si rannuvola; il che significa: mi attendo la pioggia nel dove delle nuvole, nel dove del cielo, nel dove del mondo. È in base a queste attese originarie che noi perveniamo in seguito al "perché" causale della frase di Kant ("ogni cangiamento ha la sua causa"); e allora diciamo: la causa (il perché) della pioggia sono le nubi. Si può conseguentemente osservare che se Aristotele, nella Metafisica, cercava le cause e i principi primi in questo senso, allora la sua ricerca non si impiantava su un terreno originario; per altro 154
verso egli dava così l'avvio a quel pensare metafisico che, rendendo "tecnico" il perché originario, istituiva la ratio scientifica occidentale. In una dimensione originaria non si danno ' 'cause'', ma si danno "luoghi", tra loro concentricamente collegati, e connessi infine nel luogo dell'accadere del mondo. Ma l'accadere del mondo (l'evento del mondo) può a sua volta accadere se gli si fa luogo, se l'attesa gli dà spazio. Sorge peraltro una domanda: ma 1'attesa non è dunque nel mondo? Il perché dell'evento non è nel mondo? Il mondo è la totalità di ciò che accade, ma l'attesa non è di questo mondo. L'attesa non ''accade''. _ Ci accorgiamo così che i cinque parametri che delimitano l'evento non sono solo diversi, ma svolgono anche funzioni non omogenee: 1. Il che cosa e il dove riguardano ciò che l'evento è. 2. Il quando riguarda il modo di e-venire dell'evento (il suo che). 3. Il perché riguarda la condizione dell'accadere dell'evento. In conclusione: l'evento accade perché è atteso. Ma come stanno le cose in relazione al per chi o in rapporto a che? La questione è ora matura e ci consentirà di fare un ulteriore passo avanti. E) Il per chi o in rapporto a che dell'evento. Un evento accade col suo che cosa e nel suo dove in un quando, a condizione che gli sia dato spazio per accadere (ciò che diciamo il suo perché o l'attesa). Ma il dar spazio dell'attesa è insieme il per chi o in rapporto a che dell'evento. Essi nominano, insieme al perché, le ''condizioni' ' dell'evento. L'accadere dell'evento comporta un elemento di novità: ciò che, qui e sinora, non era accaduto, è accaduto. (Anche quando diciamo: non è accaduto nulla, abbiamo un elemento di novità; il non essere accaduto nulla non equivale infatti a un "puro nulla": viene avvertito che non è accaduto nulla). L'accadere dell'evento è così un entrare nella presenza (a-létheia) di ciò che prima non stava nella presenza. (Dove stava? Stava già nel mondo, oppure no? Dovremo affrontare questo problema, ma per ora accantoniamolo). Ma perché un elemento di novità si inserisca nella presenza, questa deve in qualche modo esserci già. In altri termini: deve esserci un quadro di riferimento in cui faccia la sua comparsa l'evento. Questo quadro di riferimento è appunto il per chi o in rapporto a che dell'evento.
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Essi sono in certo modo una specificazione del perché o dell 'attesa: il perché o attesa è quel far luogo, quel dare spazio generale all'evento, che in concreto è sempre un chi o un che ai quali (in rapporto ai quali) l'evento accade. Ma la cosa è in realtà assai più complessa. Non è che tra attesa e per chi (o in rapporto a che) ci sia una semplice differenza quantitativa: anche l'attesa puntuale è attesa, e non è il per chi o in rapporto a che. Inoltre (ed è il punto essenziale), mentre l'attesa non è nel mondo, il per chi o in rapporto a che sono nel mondo. Il per chi o in rapporto a che, infatti, nominano il luogo della presenza in rapporto al quale l'evento appare, si manifesta, accade. L'evento accade per la presenza di chi o di che cosa? ecco la domanda. Il per chi o in rapporto aJhe sono dunque le condizioni del che cosa e del dove dell'evento. E in rapporto a un che "botanico" già nella presenza che accade il fiorire del fiore, come evento che ha il suo che cosa nel fiorire e il suo dove nel campo. La situazione si configura allora come segue: - Il che cosa e il dove (ciò che, what) dell'evento hanno la loro condizione nel per chi o in rapporto a che. - Il quando (che, that) dell'evento ha la sua condizione nel perché. Immaginiamo di raffigurare l'evento con una grande circonferenza. La linea di questa circonferenza rappresenta il tempo cosmico o che dell'evento; essa rinvia al perché come sua attesa, come luogo dell'aver luogo dell'evento. Nello spazio interno della circonferenza abbiamo invece lo specificarsi del che cosa-dove che rinviano, entro il medesimo spazio, al per chi o in rapporto a che come loro condizioni, come loro specifico luogo dell'aver luogo. Ora forse vediamo meglio come la frase "ogni cangiamento ha la sua causa'' derivi la sua validità universale dal fatto per cui ogni evento ha il suo perché nèl senso che ogni evento ha lo spazio o il luogo della sua attesa: c'è un perché, cioè un luogo, di ogni evento, e questo perché va cercato in un per chi o in rapporto a che; la riduzione di questa struttura originaria dell'accadere al semplice nesso di causa-effetto costituisce quella riduzione del "comprendere" che dà il via alla ratio metafisico-scientifico-tecnica. Potremmo ora riassumere le nostre ultime considerazioni e immagini in questo modo: l'evento del mondo, o il mondo che accade nell'evento, accade sempre in un mondo. Cioè accade in una presenza costituita dal luogo del per chi o in rapporto a che. Vi è (si dà) il 156
luogo ''botanico'' della presenza perché il fiorire del fiore possa accadere come che cosa e trovarvi il suo dove; si dà il luogo "storico" della presenza perché l'ingaggiarsi della battaglia possa accadere; si dà il luogo "psichico" della presenza perché l'emergere del presentimento possa accadere; si dà il luogo della presenza come aspettativa del nulla perché che non accade nulla possa accadere. C'è dunque sempre già un mondo perché il mondo possa accadere. Ma queste affermazioni potrebbero dar luogo a un fraintendimento. Esse potrebbero venir intese così: c'è un mondo "passato" che "permane" e costituisce, col suo permanere, il luogo della presenza (ciò che prima chiamammo anche "quadro di riferimento"). In realtà non si tratta di questo. Anzitutto, quale sia il luogo del passato è un grande problema del quale, per ora, non sappiamo nulla. Del quando, infatti, abbiamo appreso solo questo: che esso si specifica in ora, pn·ma d'ora, dopo di ora; ma di che tipo siano le relazioni tra questi ora (che significhi propriamente "prima di" e "dopo di") e in che modo vada pensato il "che" dell'evento come "ora" non lo sappiamo. In secondo luogo: con che diritto solidifichiamo la presenza? Nell'affermare, come abbiamo fatto, che vi deve essere già una presenza perché accada una presenza (un evento del mondo, o un mondo come evento), che cosa effettivamente intendiamo? Che l'evento accade nella presenza o che accade la presenza? (Ciò che Heidegger chiamerebbe l" 'aperto", la Lichtung des Seins). Rispondiamo così: c'è un mondo nella presenza che fronteggia l'evento, ma questo mondo che fronteggia, questo luogo o quadro di riferimento, accade esso stesso nella presenza e con la presenza. Non c'è un cielo immoto in cui accade il fulmine: il cielo in cui accade il fulmine non è lo stesso in cui il fulmine non è ancora accaduto; così pure, non c'è un animo immutato io cui accade il presentimento. Accadono insieme: il fulmine e il suo cielo, il presentimento e il suo animo. Potremmo dire che accade propriamente questa relazione. Ma, un momento: il cielo, l'anima, questi non sono dei per chi o in rapporto a che, bensì dei dove. Non stiamo forse confondendo? Tutto si complica terribilmente. Con l'esame dell'ultimo parametro dell'evento ci troviamo presi come da una vertigine e da un senso di fastidio, invero molto simili a quelli che avvertiamo ogni volta che ci riferiamo all'esempio del nulla che "accade". E infatti il filosofare genera vertigine e fastidio da sempre. I filo: sofi '' danno fastidio'', con la loro smania di sezionare le parole. E 157
dal tempo di Platone che i filosofi esercitano questo curioso mestiere di "anatomisti del linguaggio comune". Perché lo fanno? Da sempre il senso comune li bolla come "inutili" e "buoni a nulla"; e tuttavia da sempre i filosofi sono anche considerati ''pericolosi''. È strano: come può essere pericolosa un'attività che non serve a nulla e che è palesemente remota da ogni "pratica" ? In verità ci vuole ''stomaco'' per fare filosofia, così come ce ne vuole per anatomizzare il corpo umano. Si direbbe che la "gente comune" (che anche il filosofo è, che ognuno è) si "difenda" dalle "anatomie" filosofiche. E in effetti il "ridicolo" che da sempre viene dispensato su coloro che "fanno filosofia" ha tutta l'aria di essere una difesa psicologica. Ne è una riprova il fatto che dalla presa in giro si passa con fulminea rapidità all'ira: si provi a proporre, a delle persone di "buon senso", alcune delle nostre questioni su ciò che significhi propriamente che è accaduto un fulmine: la prima reazione sarà quella di farsi quattro risate alle nostre spalle; ma, via via che il discorso procede e che emergono difficoltà di definizione e di parola, i nostri interlocutori entreranno in uno stato d'animo d'irritazione e di rabbia nei nostri confronti (è ciò che accade molto spesso agli interlocutori di Socrate nel Dialoghi di Platone). Volevano divertirsi e non si divertono per nulla; ma neppure riescono a lasciar perdere; anzi, si accaniscono sulla questione e su colui che l'ha sollevata. Hanno l'aria di credere che costui sia uno sfacciato provocatore, un uomo sgradevole che, tutto sommato, meriterebbe una "lezione". P7rché sottilizzare tanto sulla frase "è accaduto un fulmine"? Tutti, essi dicono, intendono questa frase, e tanto basta. Essi cioè difendono accanitamente le evidenze del linguaggio comune: lo si lasci stare così com'è. Ma noi potremmo chiedere: che cosa nasconde il linguaggio comune? Che è che non si deve vedere sotto il linguaggio comune? Perché si ha orrore di sollevarlo (così come si ha orrore di sollevare la pelle del corpo e vedere le "interiora")? Bisogna però aggiungere: che uomini sono costoro, i filosofi, che non hanno orrore di anatomizzare il linguaggio comune e manifestano anzi il piacere sadico di sezionarlo? Perché fanno ciò che fanno? Nietzsche se l'era chiesto: non tutto è buono - aveva detto nella ''volontà di verità'' che anima la filosofia. E ancora ci sarebbe da chiedere perché la filosofia caratterizza la nostra, e non altre, civiltà. C'è qui il segno di un destino la cui natura è ancora da chiarire. Ma chiudiamo questa digressione e torniamo al punto. 158
2. Il luogo dell'evento
Non dobbiamo confondere il dove col per chi o in rapporto a che. Sappiamo che l'evento è un accadere sia del che cosa sia del dove; ma questi hanno la loro condizione nel per chi o in rapporto a che come luoghi in cui il che cosa-dove possono accadere. E in un luogo meteorologico, si è detto, che può accadere il fulmine nel cielo. E questi luoghi, essendo "condizioni" (un "dar luogo"), devono esserci già. Come però "ci sono già"? Anch'essi, si è pure detto, accadono in occasione dell'evento. Dove stanno "prima"? e "dopo"? Vediamo anzitutto come accadono, e scopriremo ulteriori complicazioni. Se osserviamo il come dell'accadere dei ''luoghi' ' dell'evento ci accorgiamo che un evento può stare in luoghi diversi; e inoltre scopriamo che questi cosiddetti luoghi possono mutare. Facciamo, come sempre, alcuni esempi. Il fulmine che balena nel cielo ha il suo dove nel cielo, in questo cielo tempestoso. Ma il per chi o in rapporto a che di questo evento non è solo né necessariamente un luogo meteorologico. (Ora vediamo con quanta superficialità differenziavamo all'inizio le varie strutture del dove). L'esperienza del fulminare attraversa per decine e anzi centinaia di migliaia d'anni la storia delle esperienze dell'umanità; ma per l'uomo preistorico non c'è un luogo meteorologico: il cielo non è per lui costituito come un insieme di ''fenomeni meteorologici''. Questo luogo appartiene invece al nostro sapere, sia al sapere comune sia a quello scientifico, che certamente influenza il primo. E c'è naturalmente differenza anche tra noi a seconda se il .cielo è riferito all'uomo comune oppure allo scienziato, al fisico, all'astronomo, ecc. In questo caso, nel caso di noi uomini "moderni", l'evento accade in rapporto a che? evidentemente, in rapporto a un ''sapere'' che sta nella presenza e che si manifesta in 159
occasione del balenare del fulmine. Ma il fulmine non accade solo in relazione a un sapere. Esso accade anche e anzitutto in rapporto al luogo della corporeità percipiente: luogo del vedere, dell'udire, ecc., che accomuna diverse vite animali percettive (anche il cane e altri animali sono dotati, nella presenza, di un luogo per i fulmini). Inoltre il fulmine accade in un luogo psichico cosciente: l'esplodere del fulmine, potremmo dire, accade unitamente a uno stato d'animo che lo accoglie: sobbalzare allarmato, irritazione, timore, allegria, oppure indifferenza (che non significa evidentemente: non mi accorgo di ... , ma: oppongo indifferenza; la vecchietta è spaventata dal fulmine, e io sorrido, facendomi forte della mia consapevole indifferenza). Infine (per limitare l' analisi solo ad alcune strutture essenziali), c'è un luogo psichico inconscio che, potremmo supporre, costituisce in qualche modo un permanere di luoghi arcaici in cui il fulminare si collocava (arcaici nella storia dell'individuo e nella storia della specie umana, animale, ecc.). Di qui forse la' 'paura", che molti (e non soltanto le vecchiette) ancora provano, paura che non ha la sua radice nella coscienza razionale, nel sapere o nell'esser consapevoli. Questi "fatti" ci sono attestati anche da alcune frasi comuni. Noi diciamo, per esempio, ''i fulmini della commissione di disciplina'', ed evochiamo inconsapevolmente i fulmini giustizieri di Giove. E c'è tutta una tradizione culturale nella quale il fulmine svolge una sua funzione simbolica: la morte di Gesù è accompagnata da un fulmine. E anche Beethoven, il musicista "titanico", muore nell'istante in cui su Vienna si abbatte un fulmine, nel corso di un violento temporale. Poteva morire altrimenti il musicista che aveva sfidato il "destino", così come i Titani avevano sfidato i fulmini di Giove? Il dove del fulmine, dunque, è il cielo. Dice Vico: "Alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo"; è così che i "bestioni" primitivi uscirono dalla selva e si incamminarono verso la civiltà: a suon di fulmini. Ma se il cielo è il dove del fulmine, i luoghi del per chi o in rapporto a che che gli fanno luogo si specificano in una pluralità innumerabile: luoghi meteorologici, percettivi, psichici, ·morali, comunicativi (i fulmini come messaggi e segni degli Dei: così li interpretarono e li accolsero i bestioni di Vico). Di fronte a questo stato di cose, noi siamo portati a intendere così: la realtà e verità del fulmine è di essere un fenomeno meteorologico; questa è la sua realtà in sé e il suo in rapporto a che "obiettivo". Stati d'animo, percezioni, significati morali, ecc., sono invece 160
"interpretazioni" soggettive del fenomeno, o al più sue "circostanze'' a loro volta soggettive, che non mutano la sostanza oggettiva del fenomeno stesso. Pensare in questo modo è però corretto? È questa una verità assoluta nella quale confidare? Vediamo. I lampi accadono nel cielo; i fiori fioriscono sulla terra. Ma questi dove in che modo si sono costituiti come luoghi dell'e-venire dell'evento? Come dapprincipio è stato collocato il cielo come cielo e la terra come terra? Tutto ciò non è da sempre pacifico. Si potrebbe obiettare: comunque si siano formati i "luoghi" e poi i dove resi possibili da questi luoghi, il fulmine resta il fulmine. Esso, in se stesso, "prescinde" da stati d'animo, valutazioni morali, teorie scientifiche, ecc. · Se è cosl, il fulmine di cui stiamo parlando non è né il fulmine dei bestioni vichiani e neppure il nostro. Il fulmine è un evento concreto, proprio questo evento, in quanto non prescinde; se noi chiediamo: che cosa è accaduto? la risposta deve dar conto di tutto ciò che è accaduto, senza prescindere in base a un'idea preconcetta di quel che l'evento sarebbe. Ora, l'evento concreto del fulminare comporta molti che cosa, molti dove, molti per chi o in rapporto a che. Noi dobbiamo proprio non prescinderne. E in questo caso, ci accorgiamo che gli eventi mutano luogo. La divinità, per esempio, è un evento che ha mutato luogo. Essa si è collocata, è "apparsa", volta a volta, negli animali, negli astri, nel più alto dei cieli, nell'anima o voce della coscienza, nei sentimenti superstiziosi dell'uomo, nel suo bisogno di consolazione dai mali della terra e dalla paura della morte, e cosl via. Il che significa che l'apparire nella presenza dell'animale sacro, dell'astro, del prodigio miracoloso, ecc., non erano in alcun modo gli stessi eventi che un animale, una stella, un fenomeno inconsueto della natura sono per noi; non erano letteralmente gli stessi eventi. Cosl è da dire dei sogni. Per gli antichi essi stavano anzitutto nella mente degli Dei, in quanto messaggi da trasmettere ai mortali. Ma per gli scienziati positivisti essi stavano nella dinamica delle cellule cerebrali che, durante il sonno, continuano a funzionare a vuoto, donde la stranezza e insignificanza del loro contenuto. Per Freud però essi stanno nell'inconscio, o emergono dalla censura allentata dal sonno, e trasmettono messaggi niente affatto assurdi e men che meno insignificanti. Per i bambini intervistati da Piaget, infine, essi stanno nella stanza, fuori della finestra, e cosl via. E dovremmo poi aggiungere come li sperimentano varie civiltà diverse dalla nostra. Queste esperienze sono 161
eventi concreti; essi non divengono meno concreti per il fatto che noi vorremmo svalutarli osservando: ma i bambini, i selvaggi, gli antichi, si sa ... Che cosa in effetti "si sa"? Forse l'unica cosa certa è che anche il nostro "sapere" muterà in seguito luogo e valore presso un'umanità futura. E ancora: la generazione. A noi può sembrare strano, ma essa è stata a sua volta in luoghi diversi. Per migliaia e migliaia d'anni essa non è stata connessa con il coito e il suo luogo non erano gli organi sessuali, ma i boschi, le fonti, i laghi, il vento e così via. In un futuro non poi così remoto, essa potrebbe di nuovo mutar luogo, svincolandosi dal coito. Analogamente si deve dire per la malattia mentale; basti qui rinviare alle analisi svolte da Foucault nella Storia della follia. Oltre a mutar luogo, poi, gli eventi stanno contemporaneamente in molti luoghi diversi. La comparsa del ferro fu un evento storico, ma anche tecnologico, mineralogico, sacrale e così via. Lo stesso è da dire delle odierne armi atomiche e, in genere, di qualsiasi evento. Gli eventi stanno in molti luoghi, mutano questi luoghi e addirittura scompaiono dalla faccia della terra. Dove è finito per esempio il ''flogisto"? Sino a quando durerà l" 'isteria"? Che. cosa concludere da tutto ciò? una cosa direi che l'abbiamo imparata; e cioè che non possiamo dire più che l'evento accade nella presenza. Dobbiamo dire invece: l'evento è l'accadere della presenza. Quel che accade è la presenza. Precedentemente ci siamo fatti fuorviare dal senso comune e dai suoi trabocchetti linguistici. Dicevamo: accade il fulminare, il fiorire, il presentire; e il resto (sottintendevamo) sta fermo. Ma in verità il resto non sta fermo (che cosa mai starebbe fermo? È su questa presupposizione insostenibile che si è fondato tutto l'antico sostanzialismo filosofico). Il punto essenziale è che "il resto" è sempre il resto del balenare, del fiorire, del presentire, ecc., un resto che accade con questo balenare, ecc. Quel che facevamo era di concentrarci su una parte dell'accadere dell'evento, astraendo dal resto. E in verità proprio l'analisi sin qui condotta dei cinque parametri dell'evento ci ha indotto a ricrederci, sicché essa non è di certo stata inutile, anche se molte difficoltà tuttora ci assillano e rimangono irrisolte.
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3. L 'evento come accadere della presenza
Come accade la presenza, in quanto ci è risultato che questo accadere è lo stesso accadere dell'evento? La presenza accade collocando e dislocando. Ciò che accade è propriamente una relazione, una struttura relazionale che ha ai suoi poli il collocare e il dislocare. Potremmo descrivere la cosa così: la presenza è l'accadere di un'apertura in cui si collocano i che cosadove; questi però sono dislocati nel per chi o in rapporto a che (la presenza come questo balenare del cielo tempestoso accadi.'. in rapporto a che? ecco la questione). Ne deriva che ogni collocazione è "misurata" dalla dislocazione: è dislocandosi che l'evento acquista una sua spazialità e temporalità, un suo ''movimento'', poiché è solo nella relazione al per chi o in rapporto a che che qualcosa si muove e si distanzia, si stacca dallo sfondo, ecc. È in questo senso che noi dobbiamo intendere il carattere di "condizione" del per chi o in rapporto a che: condizione del che cosa-dove. Non vi è infatti alcun che cosa-dove (alcun ciò che, what) se non in rapporto al per chi o in rapporto a che. Non ci sono fulmini e cieli per i morti, ma c'è la memoria per i morti; non ci sono presentimenti per le eclissi, ma ci sono previsioni per le eclissi; non c'è fiorire dei campi per la geometria, ma ci sono figure spaziali per la geometria; non ci sono comete per gli insetti, ma c'è il fiorire dei campi per gli insetti. E infine (ma questo esempio non è per ora adeguatamente comprensibile): non c'è il nulla per la presenza, ma c'è l'accadere del nulla nella presenza. L'accadere della presenza è dunque l'accadere di un mondo costituito da una relazione che specifica la presenza stessa in un che cosa collocato in e assieme a un dove, a loro volta dislocati in un per chi o in rapporto a che. Ma che significa propriamente "dislocare"? Qualcosa può essere "collocato" solo in relazione a una distanza o 163
differenza. Il dove del fiorire (qui e ora) è nel campo in quanto il campo è dis-locato dal '' luogo botanico'' come suo per chi o in rapporto a che. Tra il campo e il luogo botanico si pone quella che Peirce avrebbe chiamato una "differenza interna". E a partire dal "luogo botanico'', dislocandosi da esso, che il campo si colloca nella presenza come dove del fiorire. Ma ora dobbiamo fare un altro passo: poiché è la presenza che propriamente accade, e non il fiorire del campo (diciamo che la presenza, caso mai, accade come fiorire del campo in rapporto al luogo botanico), ci accorgiamo ora di un'altra nostra indebita astrazione. Infatti, se l'accadere della presenza è, come si è detto, l'accadere di un mondo, allora il fiorire non può essere che un "aspetto" dell'accadere, e non propriamente l'"evento" da assumere, così isolato, quale tema delle nostre riflessioni e analisi. Si dà il fiorire, ma si danno anche altre "cose", che accadono nella presenza. L'accadere della presenza, come accadere di un mondo, non è un accadere uni-verso, ma multi-verso. Riprendiamo il nostro solito esempio: accade il fulminare; esso è il che cosa dell'evento (che è accaduto? chiediamo era un fulmine). Allora accade anche: il cielo tempestoso (dove dell'evento); e poi tutti quei luoghi (abbiamo visto che sono molti) del per chi o in rapporto a che rispetto ai quali il che cosa-dove dell'evento si disloca. Collocandosi nel cielo e dislocandosi rispetto ai suoi luoghi, il fulminare si pone al centro della presenza che accade. Il suo accadere illumina il dove che accade col fulminare e per il fulminare. Tra questi due aspetti dell'accadere della presenza si pone, potremmo dire, una differenza di primo e secondo piano: in primo piano sta il fulminare, in secondo piano il cielo tempestoso; ma ancora più in là stanno i luoghi del per chi o in rapporto a che: i luoghi emergono a loro volta, silenziosi e inavvertiti, ritraendosi e dando spazio al fulminare. E proprio questo ritrarsi il dislocare che colloca. Strano: i luoghi accadono (con la presenza) tirandosi indietro, nascondendosi nel e dietro il che cosa e il dove dell'evento. Abbiamo qui un terzo piano improprio, invisibile, che accade ritraendosi. In verità è nel senso di questo ritrarsi che va intesa la funzione di ''condizioni'' attribuita al per chi o in rapporto a che. Torniamo ora a quella spazialità e temporalità dell'evento in quanto mùurate dalla dislocazione, cui si è fatto cenno poc'anzi. La presenza, accadendo, si spazializza in due sensi: colloca il dove; e disloca il luogo di questo dove (il dove è de-finito dal luogo che lo circoscrive e lo orla ritraendosi; il per chi o in rapporto a che non sono 164
dunque e propriamente un terzo piano della presenza, ma l'orlo della presenza). Inoltre la presenza, accadendo, anche si temporalizza; essa cioè definisce la sfera dell' "ora" con le sue interne relatività temporali: il balenare corre rapido, ''istantaneo'', rispetto al cielo; questo si muove più lentamente, e così via. Con queste considerazioni abbiamo inaspettatamente ritrovate:> il quando, quel parametro dell'evento che ci era apparso stranamente vuoto e astratto. Effettivamente ora possiamo vedere con chiim:zza perché la temporalità cosmica, intesa come semplice somma o sun·c11sione di istanti-ora, è un'astrazione assolutamente indebita: t>flOÌ "ora" ha la sua "misura'', in quanto l'evento si disloca Il J.ntrti1·c d1t luoghi multiversi e diversi. Il fiorire non si temporalizza come Ufui• minare, il presentire come l'ingaggiarsi della battaglia, e c::osl vin, E! che nella notte (non) è accaduto nulla ha temporalità strane: e: divrr• se, circoscritte dall'orlo dell'attesa. Per tutte queste ragioni, non dobbiamo nemmeno prendere l'accadere dell'evento come l'accadere di un evento-ora. Ogni "ora" si dilata senza soluzione di continuità: il balenare nel temporale, il fiorire nella primavera, la battaglia nella guerra, il presentire nell'ansioso chiedersi conto, e così via (e il nulla-ora dove mai si dilata?). Questo ''dilatarsi'' ha la sua condizione nel per chi o in rapporto a che: è l'orlo che, ritraendosi, dà luogo all'evento e al suo dilatarsi. Ogni ''ora'', potremmo dire, è un mondo che accade con il suo orlo ritraentesi; ma ogni "ora" è anche interno a un altro "ora" più ampio. l" 'ora" che accade nel fulminare accade a sua volta nell" 'ora" del temporale (del quale potremmo contare i fulmini), e questo nell' "ora" della perturbazione, della stagione, dell'anno, ecc. Per di più, questo "insieme" si colloca in altri e innumeri "insiemi". Nell" 'ora" del temporale un uomo è morto; costui ha avuto l' "ora" della morte nell" 'ora" della malattia, questa nell" 'ora" della vita, ecc. E si trattava poi di un musicista che ha il suo "ora" nell'"ora" della storia dell'arte e della pratica musicale. Oppure: nell'"ora" del temporale è insieme accaduta l"'ora" del funerale di Mozart, che ha avuto come per chi solo il cane del padrone. CC?._me si collocano questi vari "ora" che accadono uno dentro l'altro? E ben chiaro, a questo punto, che noi compiamo un'indebita astrazione, quando diciamo: l'evento è il fulminare; è ben altro ciò che accade; peraltro anche il fulminare accade. Riprendiamo dunque con pazienza la nostra analisi. - Ogni "ora" che accade è delimitato dal suo orlo che ritraendosi 165
fa luogo. L'orlo che si ritrae, cioè il per chi o in rapporto a che, non sta prima nella presenza e poi si ritrae per lasciar essere il fulminare, il fiorire e simili; il per chi o in rapportò a che non è mai un contenuto della presenza, ma la sua condizione e il suo orlo ritraentesi. L'evento dell'accadere ha la sua condizione in un distanziaredistanziarsi del per chi o in rapporto a che. Questo distanziaredistanziarsi è quel collocare dislocando di cui si è già parlato: i che cosa-dove sono collocati dislocandosi dal per chi o in rapporto a che; è così che è dato loro luogo. Sicché l'evento è un distanziare dislocando e collocando. In questo distanziare, l'orlo è posto a distanza. Come dobbiamo pensare questo ritrarsi dell'orlo? Anzitutto noi lo "vediamo", o lo immaginiamo, come un trarsi indietro; ma ciò non è esatto: l'orlo si ritrae anche in avanti, e anzi in tutte le direzioni. Utilizzando delle espressioni temporali, potremmo dire che l' orlo, ritraendosi, non dà spazio solo al passato della presenza, ma anche al suo futuro e alla multiversa contemporaneità del presente. Il fulminar~. per esempio, prepara il tuonare; quest'ultimo è già ''atteso" nel mentre fulmina. E anche: nel fulminare è aperto uno spazio di contemporaneità che consente di dire: al momento del fulminare Beethoven esalò l'ultimo respiro. Abbiamo insomma un accadere multiverso all'indietro, in avanti e contemporaneamente, in quanto l'orlo si ritrae. Ne consegue che quando noi diciamo: l'evento è il fulminare, è come se puntassimo il dito su un "ora" che accade. Questo indicare è in verità arbitrario (ben altro accade, come si è visto), ma non immotivato, poiché il fulminare, anche il fulminare, certamente, nell'esempio, accade. Dopo aver puntato il dito e aver indicato il fulminare, assumendolo come primo piano dell'evento, come suo "ora" centrale, ci accorgiamo però che l'evento, quello stesso "ora", si estende e si protende, all'indietro, in avanti, in ogni direzione. E per di più ci accorgiamo che noi non abbiamo alcuna ragione di indicare e fissare un "ora" come centro di un concentrico accadere: questo "ora'' che indicando fissiamo, a sua volta proviene; esso è la periferia aperta da un altro' 'ora'' e aprente altri' 'ora''; e non se ne sta affatto fermo al centro di immaginari cerchi, o sfere concentriche. Noi stessi che indichiamo, poi, come ci dobbiamo considerare? Noi, potremmo dire, siamo il "per chi" di ciò che indichiamo. Ma anche noi, in verità, ''accadiamo'', accadiamo a nostra volta provenendo; anche a noi è stato dato luogo. Sicché dobbiamo concludere 166
che l'evento che accade "ora", dilatandosi in tutte le direzioni, non si estende e protende a partire da un centro fisso; esso piuttosto precipita e con lui precipita il suo stesso centro, il suo primo piano, e tutto il resto. L'ora, potremmo dire, si dilata precipitando. Bisogna tentare di immaginare l'aprirsi di un luogo come se fosse un esplodere in tutte le direzioni; ma questo stesso esplodere esplode, nel senso che non ha un centro dell'esplosione, ma di continuo, esplodendo, precipita, e ogni centro non è più/mai centro. Queste immagini danno le vertigini. Ma cerchiamo di' 'riempirle" con dei riferimenti concreti. Anzitutto rndendo più concreta quell'espressione ricorrente e strana che abbiamo sinora usato senza un adeguato svolgimento del suo contenuto: il per chi o in rapporto a che.
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4. L'interpretante e il mondo cosmo-storico
Quando diciamo per chi o in rapporto a che, che cosa propria~ mente intendiamo? E perché abbiamo usato due espressioni per designare il quinto parametro dell'evento? Potremmo rispondere cosl: 1. Per chi designa un osservatore interpretante; diciamo meglio: un osservare interpretando-rispondendo (il per chi si manifesta sem· pre in una "risposta"). 2. In rapporto a che designa invece un mondo cosmo-storico. Prendiamo il nostro soliì.O esempio: l'accadere della presenza come fulminare. Qual è il per chi di questo evento? Potremmo dire: noi, in quanto osservatori che interpretano il fenomeno. Ma che vuol dire "noi"? Forse "noi uomini"? In tal caso cadremmo in molte ambiguità. L'uomo che osserva il fulminare è a sua volta un che cosadove che sta nella stessa presenza del fulminare'. Quest'uomo potrebbe essere bruciato dal fulmine, mentre il per chi, in quanto orlo della presenza e non suo contenuto interno, rion lo potrebbe. Il per chi non siamo "noi", né l'uomo, ma è la risposta collocante, che prende nota e assegna. È questa risposta, propriamente, che colloca anche ' 'noi'', noi uomini, entro la presenza del fulminare. Noi siamo un esempio, un'incarnazione, di quella risposta. A sua volta, però, questa risposta rinvia a un mondo cosmostorico, è una manifestazione di quel mondo cosmo-storico. Si era detto, tempo fa, che l'evento è l'accadere di un mondo nel mondo. Ora quell'espressione si chiarisce: il secondo mondo ìn cui accade il primo è infatti un mondo cosmo-storico. Propriamente, non fulmina (solo) nel cielo, ma in un mondo cosmo-storico. Ma che significa l'espressione "mondo cosmo-storico" ? Significa che il fulminare "ora" coinvolge il tutto dell'accadere che accade con quel fulminare (l"'ora" del temporale, l'"ora" della stagione, l"'ora" della terra, l'' 'ora'' del sistema solare, l' ''ora'' della galassia, ecc.); e poi signifi168
ca che questa totalità cosmica che accade è "storica", cioè "precipita". È all'interno di un determinato mondo cosmo-storico che sono disponibili e possibili certe "risposte" (il per chz). Solo le nostre risposte di uomini ''moderni' ' al fulminare possono rivelare una visio~ ne copernicana di questo fenomeno - nonché una visione '' disincantata" dei fenomeni atmosferici, con i quali non c'entrano più Dei, angeli o diavoli. Ma, potremmo chiedere, come fulminava sul Liceo di Aristotele? Come fulmina sugli indiani Bororo visitati da Lévi-Strauss? O sui bestioni vichiani nella selva nemea? Ogni evento disegna un cosmo-ora; ma nello stesso tempo questo cosmo viene mutando. Non fulmina già più come al tempo di mia nonna, né accadono gli stessi presentimenti: essa ''presentiva'' il fidanzato sotto la.finestra, noi che squilli il telefono. Analogamente gli stessi che cosa dell'evento mutano. Nel cosmo-ora di Vico gli uomini avevano 6000 anni di età, i seiinila anni del racconto biblico; nel cosmo-:ora darwiniano, in cui ci troviamo a vivere, gli uomini sono diventati enormemente più antichi e tutta la loro storia è mutata_. Ma anche questa ''verità'' precipita ·e sta precipitando, mentre ne parliamo. ·Torniamo ora all'immagine dell'orlo. I per chi o in rapporto a che delimitano l'orlo della presenza. Anzi, possiamo dire adesso, i due lati dell'orlo: quello interno e quello esterno. All'interno poniamo ilper chi, come risposta interpretante-assegnante; esso si pone di faccia al che cosa-dove della presenza. Il per chi è però determinato a fare ciò che fa,. a interpretare come interpreta, a rispondere come risponde, dall't"n rappòrto a che, cioè dàl mondo cosmo-storico al quale partecipa e del quale è un'incarnazione. Questo mondo cosino~ storico lo possiamo raffigurare come l'orlo esterno della presenza. Non c'èurtmondo cosmo-storico: esso piuttosto si rivela, nascondendosi e ritraendosi; nelle risposte interpretànti:e colloèanti delper chi. Sicché un mondo cosmo-storico è un~ pluralità di interpretazioni multiverse, di cui la singola risposta è un nodo parziale. Resta tuttavia l'enigma del precipitare: che cosa fa precipitare il cosmo rendendolo "storico'' . o, · come direbbe . Heidegger, "gettato"? · :! · Se ci riferiamo all'ordinamento cosmico che è proprio del mon~ do del mito ci. sembra che il .precipitare non ci sia. Nel mondo dell'umanità del tempo del mito l'accadere degli eventi, dei fulmini come dei ,sogni, del fiòrire come del caccia(e; del guerreggiare come 169
dell'accoppiarsi, è un circolo che sempre ritorna e che sempre si riporta ai racconti degli Dei e degli Eroi come l'in rapporto a che di quel mondo: orlo eterno e concluso. A questo mondo si attaglia un'immagine di sfere perfettamente concentriche, ruotanti su un centro inamovibile. Qui il per chi che risponde interpretando e collocando è la perfetta incarnazione dei modelli mitici che fungono come il suo in rapporto a che. Tutto ciò rende conto del particolare "distanziarsi" del mondo mitico, del suo spazializzarsi e temporalizzarsi, cioè delle sue "misure": non c'è un tempo progressivocumulativo, nè un passato che più non ritorna e un futuro ignoto e oscuro; tutto anzi torna da capo e i riti celebrano questa eterna rigenerazione. Anche nel cosmo mitico accadono eventi: tuona e balena, e il re muore; ma tutto ciò accade in una significanza totale: gli eventi circolano in un destino pre-scritto, secondo il fato degli Dei, e attorno al centro sacrale di ogni cosa, piccola o grande. Il cosmo mitico non si espande in uno spazio infinito; esso si spazializza e colloca a partire da un centro stabilito, scandendo il ''frammezzo'' tra il cielo (sede degli Dei immortali) e la terra (sede dei mortali). In questo modo il mondo _mitico costruisce e abita lo spazio. Il precipitare del centro è invece l'esperienza propria delle civiltà storiche, cioè della nostra: noi precipitiamo. Col tramonto del mondo mitico emerge la civiltà della ratio, disposta in un tempo lineare, progressivo e cumulativo, e in uno spazio infinito. Se però consideriamo più da vicino questi due mondi (quello mitico e quello storico) ci accorgiamo che le cose non stanno esattamente così come le abbiamo descritte. Anche il mondo del mito precipita, solo che esso si muove e si decentra diversamente e anche assai più lentamente di quanto non faccia il mondo storico. Come le nuvole paiono ferme rispetto al precipitare della folgore, così le civiltà mitiche sembrano immobili rispetto alle civiltà storiche. E tuttavia si muovono. Resta in ogni caso la domanda: perché il centro precipita? perché l'in rapporto a che, nel sottrarsi per far luogo all'evento, si distanzia anche e continuamente da se stesso, rendendo l'accadere dell'evento un fenomeno cosmo-storico? Liberiamo anzitutto il terreno da un possibile fraintendimento del senso comune, cioè quello di prendere il che cosa-dove dell'evento come realtà '' in sé'', come fatti di ''pura natura'', estranei a ogni interpretazione del per chi. In tal caso noi ragioneremmo in questo modo: c'è un fulminare "naturale", un fiorire "naturale", ecc. Questi eventi accadono poi anche in relazione a un mondo cosmo170
storico "umano": i primi sono quello che sono e tali restano; il secondo invece muta, rivelando appunto di essere "storico" e non "naturale". Ma che cosa sarebbero i "fatti naturali" extra interpretationem? Nessuno ha avuto mai davanti a sé la supposta ''pura natura". Anche la "natura" è un'interpretazione, ed è mutevole. Questa osservazione va generalizzata: ogni risposta del per chi è un'interpretazione; essa si riporta all'in rapporto a che, si disloca da esso. Ma l'in rapporto a che, si è detto poc'anzi, non è a sua volta che un insieme di interpretazioni. In altri termini: ogni interpretare è interpretazione di un'interpretazione, che non trova mai davanti a sé i puri/atti, l'evento ''naturale'' puro. Questi atti interpretativi fanno "catena": una catena di mondi cosmo-storici. Lo stregone che compie il rito della pioggia reinterpreta una tradizione, cioè una precedente interpretazione. Ma in nessun luogo è mai caduta, o accaduta, la "pioggia" in sé, extra interpretationem. È a questo movimento dell'interpretazione che ora dobbiamo rifarci, nel tentativo di comprendere il precipitare dei mondi cosmo-storici.
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5. La kinesis dell'interpretazione
Vediamo dunque più da vicino questo movimento (kinesis) dell'interpretazione. L'orlo, si era detto, si ritrae indietro e avanti (si dà un "passato" e un "futuro") per lasciar essere l'accadere della presenza (l'accadere del mondo nella presenza). L'orlo si dilata in tuttele direzioni e così lascia essere il che cosa-dove. Ma questo ritrarsi, ora sappiamo, è propriamente un interpretare. Sicché ciò che accade è che l'orlo, interpretando, porta avanti ciò che ha ripreso dietro. E questi due movimenti sono in realtà un movimento solo (in avanti perché indietro). Questo ''ritrarsi'' dell'orlo significa: nell'apparire dell 'interpre~ tato (il che cosa-dove), l'Interpretante (il per chi o in rapporto a che) si nasconde. L'Interpretante, in quanto "condizione" dell'interpretato, non si mostra; piut__tosto, si mette in mostra tramite l'interpretato. Ma come si ritrae? E su questa kinesis che ora portiamo l'attenzione. Si ritrae perché l'Interpretante come condizione ha a sua volta la propria condizione nell'aver già interpretato. Per esempio, l'evento del fiorire (accadono nella presenza fiori perché si dà il fiorire): questo evento accade provenendo dall'aver già interpretato questo "si dà". L'Interpretante "si attende che" fiorisca (si ricordino le considerazioni relative al perché-attesa). Ogni momento della dispiegantesi presenza del fiorire si apre, in quanto tale dispiegarsi .è così collocato dislocandosi da un aver già interpretato il fiorire. Cioè si apre in funzione di questo aver già interpretato (se l'interpretante non ha già interpretato il fiorire, non c'è attesa di questo evento: non ci sono primavere per i lattanti). Riferiamoci a un esempio in cui è compreso un "errore" e vedremo meglio il dispiegarsi· della kinesis. Supponiamo che io stia cammìnando lungo un marciapiede che fiancheggia le vetrine di vari 172
negozi. Ecco che accade nella mia presenza interpretante l'evento '' manichino in vetrina'' . Con tale evento si apre uno spazio interpretato in cui ogni elemento che ''viene incontro';' si colloca dislocandosi dalla risposta interpretante che ha come suo primo piano di senso il che cosa ''manichino in vetrina" nel dove della vetrina. Tutto, per così dire, si accomoda con questa forma dell'e-venire dell'evento, sulla base dell'aver già altra volta interpretato l'evento "manichino · nella vetrina''. Ricorrendo indietro a questa passata interpretazione, l'Interpretante apre nel contempo lo spazio dell'interpretare futuro, con una serie di attese che cercano conferma nella dispiegantesi kinesis dell'evento. Ma ora supponiamo che nell'aprirsi di questo ins terpretare alcune attese vadano deluse, non trovino conferma: l'in~ terpretare secondo la forma "manichino nella vetrina"urta contro alcune impossibilità. Protendendosi in .avanti (perché ind.ietro) ·la forma non regge; .l'orlo dispiegantesi non incontra conferme ma smentite. Per esempio, il "manichino" si muove. Ecco che io devo allora· rielaborare il che cosa dell'evento, tornando fulmineamente indietro a un aver già interpretato per poter ancora interpretare: ''commessa che aggiusta la vetrina''. Questo nuovo evento esplode a sua volta protendendo il suo orlo in avanti, ordinando l'insieme de: gli.elementi e disponendosi all'attesa delle conferme interpretative future. L'esempio vuol mostrare: che ogni momento dell'accadere del.l'evento si dispiega e si apre ritraendosi indietro all'aver già interpretato (Perché si è già interpretato) e protraendosi in avanti all'aver da interpretare; che senza, quindi, aver già interpretato nulla si apre o si presenta; che l'Interpretante (cioè l'insieme del per chi o in rap" porto a èhe come orlo a due facce, interno ed esterno, della prèsenza) dà luogo alla presenza, ritraendosi nell'aver già interpretato e, perciò, protendendosi nell'aver da interpretare. Nella presenza, infatti, non c'è che vedo un manichino perché ho già visto dei manichini; ma,· al contrario, c'è nella presenza un manichino, perché ho già visto manichini. Analogamente, nell'interpretare l'accadere del fulmi~ ne, non compare il sapere interpretante scientifico (anziché mitico) che ci caratterizza come per chi moderni: essb, dando luogo, corre indietro all'aver già interpretato scientificamente. E nell'accadere del nulla (del "non è accaduto nulla") è all'aver già fatto esperienza del nulla che si ricorre per dargli luogo. , In conclusione: l'accadere di un mondo cosmo-storico è l'accadere di un'interpretazione (il per chi o in rapporto a che come condi173
zioni dell'accadere; "condizione" nel senso di kinesis, come già si è detto). Ciò che propriamente accade è dunque una interpretazione, che a sua volta ha la sua condizione nell'aver già interpretato (e che è pertanto interpretazione di un'interpretazione). Se così non fosse, come potremmo riconoscere gli eventi nel loro che cosa-dove? Come potremmo ' 'nominarli' ' ? Come potremmo dire, secondo una nota formula whiteheadiana, "eccolo di nuovo"? Ecco di nuovo il fiorire, il fulminare, il presentire; ecco di nuovo la "vita" (e la morte); ed ecco di nuovo che nulla è accaduto nell'attesa. E come potremmo "indicare" un che cosa e un dove e riflettendo evidenziare un per chi o in rapporto a che, come viventi condizioni che, interpretando, orlano il mondo facendo luogo al mondo? Ma guardiamo ora con più cura questo ricorso, questo rinculo all'aver già interpretato. Esso propriamente evidenzia una catena di interpretanti (si ricordi che col termine "Interpretante" nominiamo l'insieme del per chi o in rapporto a che). Questa catena si sprofonda nell'aver sempre già interpretato e apre, correndo avanti, l'aver da interpretare. Consideriamo la cosa sotto un duplice profilo. Sotto il profilo del "per chi": abbiamo qui l'"osservatore", cioè la risposta che interpreta e assegna (colloca dislocando). C'è un. ri-correre alle e delle esperienze "private" (la storia "gettata" dall'osservatore come punto o nodo cosmico del multiverso; "osservatore" però non significa, per esempio, un "uomo", ma un tipo di ''risposta''; un ''uomo'' è un complesso multiverso di queste risposte; così in quell'"uomo'' che io sono, al balenare del fulmine sta in attesa una risposta che ha in sé l'aver già interpretato i fulmini, in un remoto passato' 'personale'', unitamente alla risposta di mia nonna, che si faceva il segno della croce). Queste risposte "private", che si incarnano nel per chi, peraltro si formano e si conformano in presenza di un esperire ''pubblico'' (la storia' 'gettata'' del mondo cosmostorico). Sotto il profilo del/'' 'in rapporto a che'': abbiamo qui l'insieme delle risposte specificantisi nel multiverso cosmico. C'è un ri-correre alle e delle risposte cosmo-storiche. Questo intreccio di interpretazioni e attese non è compatto: strati ''arcaici'' permangono accanto a strati più recenti (si ricordino, come esempio, i vari luoghi del fulminare). L'immagine dell'orlo si stratifica, si deforma e si frastaglia: nel "dar luogo" attuale è compreso l'aver dato luogo infinitamente lontano. Ciò accade secondo sfondi e primi piani. E c'è anche un non dar più luogo. Alla Dea Levana, invocata dai padri romani nel mo174
mento in cui, sollevando ritualmente da terra il neonato, lo riconoscevano come proprio figlio, oggi non è più dato luogo. E tuttavia c'è forse un impercettibile dar luogo che ancora permane come ricorso di e da quell'esperienza. C'è un istante della mia esperienza "privata" che, tra altri, non potrò certo dimenticare; accadde nella moderna sala d'aspetto di una clinica, quando comparve un'infermiera che, evitando con decisione e fermezza lo stuolo agitato e vociante di suocere, nonne, zie e altri "parenti" che tentava di bloccarla, depose con solenne consapevolezza sulle mie braccia esitanti una neonata serenamente immersa nel sonno. Fu quell'infermiera a "nominarmi" padre e a darmi il senso del ruolo eterno e preponderante che io, sino allora negletto e confuso tra la masnada dei parenti che "la sapevano lunga", dovevo giocare in quella partita. A me, che non sapevo nulla di parti e di bambini, pervenne allora il messaggio di una forza di accettazione misteriosa, infinitamente superiore al circolo della mia esistenza; chi può negare con certezza che in quella provenienza anche la Dea Levana avesse una sua piccola parte?
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6. Il precipitare dei significati
Ora vediamo meglio che cosa "precipita". Si era detto: in ogni "ora"· accade un mondo cosmo-storico; ma questo mondo cosmostorico, accadendo, anche muta; il suo centro precipita. (Anche noi, che incarniamo il per chi, accadiamo provenendo; anche a noi è stato "dato luogo"; e anche noi, accadendo, mutiamo e precipitiamo). L'"ora", dunque, si dilata precipitando. Le interpretazioni, si è anche detto, fanno catena. Questa catena è come un intreccio multiverso di innumerevoli fili. Ogni filo incarna il perdurare di un'attesa e di una risposta. Se supponiamo che questi fili si distinguano per il diverso colore, accade allora~ nella continuità della catena interpretante, che le proporzioni cromatiche mutino nei loro capponi quantitativi (qualcosa di simile immaginava Anassagora per l'intreccio delle sue omeomerie). Il colore della Dea Levana, che un tempo infiammava di sé quasi tutta la catena, ora è ridotto a qualche filo impercettibile nell'insieme. O forse, certi fili scompaiono del tutto; le risposte che essi incarnano non torneranno più; la loro attesa cade nel nulla. Dopo essersi sempre più decentrata dal luogo della presenza versoio sfondo, alla fine la stessa attesa.è caduta oltre l'orlo, nell'oblio. · Se teniamo fermo a questi risultati della nostra analisi, potremmo dire: accade sempre il passato (ed esso accade sempre come futuro); ma il passato che acc~de non è mai identico; esso accade :adattandosi-modificandosi. E come se l'accadere interpretante fosse un continuo "errore" (e perciò un continuo "errare", un andare errando, come direbbe Heidegger). Accade sempre il passato come fu. turo e quanto al futuro, esso è l'aver da accadere del passato che, ritornando, però anche muta. Il presente, a sua volta, non è che l'aprirsi, la kinesis, di questo duplice (e unico) sprofondare verso il passato che ritorna e il futuro che ha da essere un passato che, tor176
nando, non può ritornare. Il presente è questori-conoscere che assegna un aver da essere: un compito e un destino. Sicèhé, potremmo anche dire, il passato è la "possibilità" presente di questo impossibile futuro. Il presente; d'altra parte, poggia il piede sul passato (sulle passate interpretazioni), ma queste sprofondano e squilibrano il piede . .Ma sopra tutto il presente è l'aprirsi dell'attesa, delperché. L'attesa, si era detto, si specifica nel per chi o in rapporto a che; cioè si specifica nella kfnesù dell'Jnterpretante,(degli Interpretanti). Ciò significa: interpretando come ri-conos~ere (l'aver già interpretato) si attende che il mondo ri-accada. Interpretando-reinterpretando l'iniziale fiorire si attende, dando luogo, allo sbocciare: ci saranno bocci perché fiorisce. Così si attende il tuonare dal balenare; e si attende anche, ansiosi, che nulla accada. · · . Ciò che è atteso, nell'attesa, è che il mondo c,orrisponda alle ri~ sposte dell'Interpretante .. Ma il mondo non corrisponde del tutto: questa differenza misura una distanza, cioè quel distanziarsi della · . presenza in se stessa che. è il suo ''precipitare''. Ma dove si colloca l'attesa? Essa, sappiamo, non è nel mondo. Piuttosto, essa accade nella puntualità dell" 'ora", in ogni puntuali. tà dell'"ora". Ma questa "puntualità" ha in s€, in ogni sé, un'atte~ sa onniperimetrale che indefinitamente si ripercuote: l'attesa origi. naria (la distanza originaria) che ha sempre da essere. Avendo già inte_rpretato, si apre il luogo dell'aver da corrispondere; questo aprirsi è l'attesa puntuale. Ma ogni attesa puntuale riproduce:Ia str,ittura ori., ginaria dell'attesa; questa dipende dal fatto per cui la. catena delle interpretazioni non può mai, risalendo all'indietro o in. avanti, tro. vare la "cosa stessa" (per esempio, la "pura natura" cui si faceva cenno dianzi): c'è sempre una distanza da colmare, c'è sempre un aver interpretato e un aver ancora da interpretare .. Questa situazione è ciò che noi chiamiamo "attesa onniperimetrale". Ne deriva che l'attesa originaria, in quanto attesa onniperimetrale, è anche ora e qui, e in ogni' 'ora'' e ''qui''. ln tal c;iso, ciò che precipita è l'attesa. Che signifièa questa affermazione? L'attesa si specifica nel mo~ viinento dell'Interpretante. Interpretando nel senso delri-conoscere. (cioè· in forza dell'aver già interpretato), si attende che il mondo ri~ accada. Ma ogni interpretazione muove da un'attesa; perciò l'attesa (onniperi:metrale e puntuale) è sovrabbondante: apre il futuro dell'interpretazione, ma non· si appaga in nessuna interpretazione. Che cosa attende l'attesa? La risposta a questa domanda è lari177
sposta all'enigma del precipitare - all'enigma della sovrabbondanza dell'attesa che è il che (that) dell'interpretare. Non abbiamo qui la risposta. Possiamo avanzare solo un sospetto, formulabile sul filo di un esempio sempre ric~rrente e ogni volta inquietante: forse che l'attesa attende ''nulla''? E questa la ''sovrabbondanza''? E ciò vuol forse dire che l'attesa attende che la vita ritorni a "nulla"? Lasciamo per ora irrisolte queste domande e osserviamo invece che, con le ultime considerazioni relative al precipitare dell'attesa, l'intero senso del cammino sin qui compiuto sembra svelarsi e chiarirsi. Questo senso può essere riassunto così: poiché l'Interpretante è la condizione di ogni che cosa-dove dell'evento, noi allora ci troviamo sempre di fronte a interpretazioni, a "significati". L'evento inseguito dal nostro discorso non è mai un puro "accadimento" ("pura natura"), ma è sempre un significato. Dicendo che l'evento è l'accadere di un mondo cosmo-storico, noi diciamo che ciò che accade è un intreccio di "significati". Come potremmo infatti ri-conoscere il qualcosa che accade, se non specificando il suo che cosa-dove (di cui è condizione il per chi o in rapporto a che aperto dall'attesa-perché che accade in un che-quando dell'evento)? Ma la specificazione di un che cosa-dove è appunto, sempre, un significato: il fulmine, il fiore, il cielo, il campo: tutti "significati" ("concetti"). E d'altronde, senza queste specificazioni, che accade qualcosa sarebbe del tutto equivalente a: non accade nulla. Ogni mondo cosmo-storico è un intreccio di significati (che cosa, dove, per chi, in rapporto a che: tutti significati). Fulmini, fiori, presentimenti, battaglie: tutti, ancora, si~nificati. Che essi accadano e il mutar luogo del loro accadere resta mvece ancora oscuro. Ciò che abbiamo compreso è come accadono i mondi cosmo-storici, con i loro accadimenti interni: mondi che fulminano, fioriscono, trasaliscono, combattono, ecc. E abbiamo visto come questi mondi si dilatano all'indietro o in avanti; e che così facendo ritornano e insieme mutano. In una parola, abbiamo visto il movimento, la kinesis, del significato. Per esempio: che significa che accade il mondo e che significano tutti gli accadimenti di un mondo. Ma allora scopriamo anche, con stupore, che abbiamo sempre parlato del significato, e mai dell'evento. , Credevamo di parlare dell'evento, inseguendolo e nominandolo senza posa; ma esso, in realtà, restava sempre un passo indietro, come l'ombra di tutti i nostri discorsi, l'invisibile delle nostre visioni, 178
il non-detto del nostro detto. L'evento è rimasto così nella sua intatta distanza e differenza. Sappiamo bene, a questo punto, come ci accade di significare ciò che accade; questo è in fondo il nostro guadagno. Ma che è ciò che accade non ne sappiamo nulla. Sicché che nulla può sempre accadere non è più un'espressione verbale, quale più volte è stata formulata; questo "fatto" comincia stranamente e fastidiosamente a entrare nella nostra esperienza, ma in modo oscuro ed enigmatico. Il punto in cui, dopo tanto faticare, ci troviamo arenati, potrebbe venir formulato in queste due domande: 1. in che consiste la differenza tra evento e significato? 2. qual è la kinesis di questa differenza? Il nostro ''sapere'' appare inadeguato a rispondere a queste domande; il sapere del senso comune addirittura le vela e le nasconde. ~a dietro lo _sc~ermo d~ questi saperi impotenti o ignari, il centro, mcanto, preop1ta, e noi con esso.
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7. L'accadere del nulla
Che i significati accadono e il mutar luogo del loro accadere si è dunque configurato come il problema irrisolto del nostro cammino. Potremmo anche dire: il come del mutamento e del ritorno è ora il nostro problema. Esaminiamo dapprima, più da vicino, il ritorno ("eccolo di nuovo", secondo la formula di Whitehead). C'è un correre indietro - si disse - all'aver già interpretato. Il fiorire riaccade per noi che abbiamo già interpretato il fiorire. E anche ."noi" riaccadiamo, come risposta interpretante del fiorire. Ma che significa che riaccade l'aver già interpretato? Significa forse che riaccade il "passato"? No, non riaccade la stessa primavera. Il poeta (ma anche l'uomo comune) da sempre lo sa: "questa primavera, questo fiore, e io, e tu, mai più, mai più torneremo" . . Si era anche chiesto: qual è il luogo del passato? Come possono stare le cose nel passato (nel tempo che scorre e che è scorso, trascorso) e poi anche tornare dal passato? Che cosa propriamente ritorna? E dove sta (stava) ciò che ritorna? Questi modi di dire, palesemente insensati, rivelano l'impotenza del nostro pensiero, il non aver mai potuto (saputo) pensare l'enigma del passato e del tempo. E d'altra parte, come possono le cose non ritornare se noi diciamo "eccolo di nuovo"? E se è vero che per interpretare dobbiamo "correre indietro" all'aver già interpretato? Torniamo indietro a chi o a che? Consideriamo ora il problema sotto il profilo del mutamento. Poiché il passato non ritorna, non riaccade la stessa primavera e lo stesso fiore, in ogni evento si annuncia un elemento di novità irripetibile che, nonostante l' ''eccolo di nuovo'', non ritorna. Come afferrare però questo elemento di novità, dal momento che ciò che pos·siamo afferrare è sempre un "eccolo di nuovo", un "significato" (il ''fiore'' la ''primavera'', ''io'', ''tu'', quel tutto-nulla che ora acca180
de·tra noi e che noi chiamiamo ''amore'', ecc.)? Noi sentiamo la presenza del mutamento come novità irripetibile; ma come dirlo? L'appello al tempo che scorre è là grande illusione della metafisica occidentale. Abbiamo visto a suo tempo quale vuotezza inconcludente e inconsistente comporti il pensiero di un puro scorrere della serie temporale come serie degli "ora". E in verità noi non sentiamo alcuno scorrere di ora, né alcun ''ora''. Ecco ben delimitato il nostro problema. Non cerchiamo di rispondere precipitandoci a testa bassa contro la questione. Prendiamo invece la cosa molto alla lontana e chiediamo: come dobbiamo pensare una catena di interpretazioni (di Interpretanti)? Possiamo dividere la questione in due parti; esaminando partitamente l'unità e la dimensione .deHa catena di Interpretanti. l. L'unità della catena di Interpretanti'. L'Interpretante, come sappiamo, ha la sua manifestazione nella risposta. L'unità di un Interpretante (e di tutta la sua catena) può dunque essere stabilita tra. due estremi ideali che sono la risposta minimale (o "atomica") e la risposta massimale, per la quale possia;mo immaginare come esempio l'intreccio di un ,intero mondo cosmo-storico. Con queste osservazioni non pare che abbiamo proceduto affatto nel cammino; ma esse potranno. mostrare la loro utilità i.n seguito. . . . 2. La dimensione della cate~a di Interpretanti. Una catena di Interpretanti si protende sino al suo Interpretante finale, che la riassume in sé e ne racchiude il senso. Leibniz parlava, con un proposito affine,.di ''entelechia''. Ora, se noi disponiamo l'.Interpretante finale all'infinito, anche la catena è infinita. Ma che accade se e qùando così nòri è? Anzitutto.dobbiamo dire che noi sappiamo che, in mplti casi, così non.è. Facciamo come aLsolito·un esempio. , . . . . La bugia del dignitario .bizantino. Una mattina del 963 d.C. l'eunuco Basilio,. ministro assai famoso per la sua,scaltrezza, disse una bugia al suo imperatore, il grande Niceforo Foca. Nessuno però seppe nulla di quella bugia, che non venne mai scoperta e che del resto non produsse alcuna conseguenza. Questo è l' imm~ginario esempio. Noi allora chiediamo: che ne è di quell'evento, cioè di quella bugia? Esso accadde con quel mattino, in un''' ora'' di quel mondo; . · che ne è di quel mattino? che ne è di quel mondo? E d'altra parte potremmo anche chiedere: che ne è delle dominazioni degli Assiri, degli ·imperi degli Incas e. dei Maya? Che ne è degli innumerevoli eventi .di quei .mondi dì. cui nessuno più sa nulla? 181
Dice Whitehead: ciò che è accaduto, è accaduto per sempre. Ebbene, non è vero. Gli Interpretanti finiscono (muoiono). Un evento può mantenere la sua ' 'efficacia' ' (per usare la terminologia di Whitehead), ovvero la sua ''presenza'' (sia pure relativa), sino a che si dirige a un Interpretante futuro (come dice Peirce); cioè sino a che esso è preso nella kinesis "retrograda" dell'interpretazione che, riaccogliendolo e reinterpretandolo, apre l'orlo del futuro dell'interpretazione. In altri termini: l'evento permane sino a che esso giace entro la catena degli Interpretanti cui appartiene, e questa si dilata prolungandosi. Certamente l'impero bizantino ancora sta in quella catena di Interpretanti che costituisce il nostro mondo cosmo-storico. Della bugia dell'esempio, però, non ne è nulla. Sorge allora un'inquietante domanda: qual è la ''realtà'' di ciò che non ha più Interpretanti avanti a sé? A questo punto non basta dire che ''non ha più realtà''. Ciò che si deve dire è altro. Questo altro suona così: esso propriamente non è mai accaduto. Non è accaduto nulla. Questa conclusione ripugna al senso comune. Tuttavia essa è inevitabile, salvo ammettere un tempo cosmico lineare come luogo di tutti gli eventi e un Interpretante finale assoluto come meta prefissata del cammino di tutte le catene di Interpretanti. In questo Interpretante assoluto si raccoglierebbe la totalizzazione cosmica universale. Tutti gli eventi troverebbero in questo Interpretante finale la loro u~tima interpretazione e il loro senso definitivo, cioè la loro conservazione sempiterna. In forza di queste considerazioni si rivela allora il senso profondo dell'annuncio di Nietzsche relativo alla "morte di Dio", come evento che inavvertitamente (ma sempre meno inavvertitamente) si viene dispiegando. Esso apre l'età del nichilismo nella quale viviamo. Da quell'annuncio e dal problema del suo senso hanno preso avvio molti cammini, molte avventure del pensiero che hanno contraddistinto la nostra epoca. Il senso di quell'annuncio sembra ora a noi più chiaramente comprensibile. Se Dio è morto, non c'è un punto di vista privilegiato, conclusivo, in base al quale sia possibile convenire con la frase di Whitehead: ciò che è accaduto, è accaduto per sempre. Dicono gli scienziati che tra qualche miliardo di anni l' equilibrio gravitazionale che regge il sistema solare collasserà, a causa del progressivo raffreddamento del sole. Anche la terra allora, assieme all'intero sistema, scomparirà. Di quel punto infinitesimale dell'uni182
verso che noi chiamiamo la terra non ne sarà più nulla. Propriamente, non sarà accaduto nulla; la terra non ci sarà mai (più) stata. Rispetto a chi o a che, infatti, ''ci sarà stata'' la terra, la sua vita, la sua "bella d'erbe famiglia e d'animali", e i suoi "animali intelligenti", come disse ancora Nietzsche? In quale serie del tempo cosmico, calcolato da dove o da chi, in quale catena di Interpretanti essa potrebbe conservare il suo "esserci stata"? Ma "di fatto" ci sarà stata, si potrebbe obiettare. Di fatto? Che fatto è mai un fatto che non ha luogo? Questo fatto, che noi diciamo, sarà letteralmente un nulla "affatto": la terra non c'è stata affatto; essa non è mai accaduta. Questo è, per parafrasare ancora una volta Nietzsche, il "pensiero terribile'', insopportabile per il senso comune, che si annuncia nell'età del nichilismo dispiegato; il pensiero di cui solo ora, inavvertitamente, cominciamo a fare esperienza. Per quanto riguarda il nostro cammino dobbiamo dire così: perseguendo la kinesis del significato, sulle tracce dell'evento, questa kinesis ci ha infine mostrato che il significato finisce nel nulla. Questo nulla, però, non è solo la conclusione o meta ultima della kinesis: la conclusione, a sua volta, corre indietro e cancella 1' intera kinesis, la catena complessiva degli Interpretanti, sicché di essa ne è nulla. Ciò che accade, del significato, è che non è accaduto (mai) nulla. Ma dobbiamo guardare la cosa più da vicino, vincendo le ripugnanze del senso comune. Un significato è il risultato (la risposta) di un intreccio di Interpretanti. Ogni Interpretante minimale incarna una risposta minimale, col suo significato minimale. Ora, il punto essenziale da inténdere è il seguente: che ogni accadere di qualcosa è, nello stesso tempo e senso, l'accadere del nulla. Circa quest'ultima espressione, ciò che va pensato non è "non è accaduto nulla", ma piuttosto "è accaduto nulla''. Ogni evento, minimale o massimale che sia, presenta pertanto due facce: ciò che accade è un'interpretazione (un significato); ciò che accade è nulla. Queste due facce sono poi come il ''recto'' e il "verso" di cui parlava De Saussure: sono due modi di considerare e di "dire" l'evento, che in sé è indifferentemente l'uno e l'altro. L'evento è anzi proprio l' in-differenza del suo recto e del suo verso. Questa in-differenza è la kinesis della differenza tra significato e nulla. Questa kinesis è lo stesso evento. Dopo le "proposizioni di principio" che abbiamo testé enunciato, dobbiamo cercare di comprenderne il senso e di fare, nei loro confronti, una concreta esperienza di pensiero. Torniamo dunque 183
all'intreccio di Interpretanti. Esso costantemente si decentra; e in tal modo la catena "procede" (muta). Questo decentramento è determinato dal venir meno, entro la catena, di alcuni suoi "fili" interpretantj: ci sono di continuo degli Interpretanti che finiscono nel nulla. E così che il nulla si inserisce nella catena. Dalla morte degli Interpretanti minimali si procede verso l'estinzione della catena nel suo insieme. Ma come si "inserisce" il nulla? Come dobbiamo pensare questa espressione? Certamente il nulla si inserisce come differenza tra interpretanti. Questo pensiero venne colto da Parmenide sul far del mattino della ratio occidentale. Egli disse: perché vi siano due esseri, è necessario che tra loro si ponga, a discrimine, il non-essere. Ma poiché, aggiunse, il non-essere non è (non è nulla), non c'è discrimine e l'essere è unico, immobile, imperituro, ingenerato. Platone trasformò il non essere parmenideo intendendolo come semplice "diverso". Su questa interpretazione egli fondò la possibilità della ''scienza'' (epistéme) e della dialettica della ratio; a condizione però di lasciar cadere nell'impensato il non-essere assoluto inteso come "nulla", e non come semplice "diverso", sollevato da Parmenide. "Noi a un contrario dell'essere, se è o se non è, se è pensabile o del tutto impensabile, abbiamo da un pezzo detto addio", si legge nel Sofista, 258e. Da allora la ratio, e poi la scienza, non ha più voluto saperne del nulla, come mostra efficacemente Heidegger in Che cos'è la metafisica? e nella Introduzione alla metafisica. Ora, è proprio questo nulla radicale, escluso e impensato dalla metafisica, l'aldilà della metafisica. Esso è, in certo modo o in prima istanza, l'altra faccia di Parmenide. In questa forma venne presumibilmente colto da Gorgia che, come riferisce Isocrate (10,3), "ebbe il coraggio di sostenere che nessuno degli enti è", ovvero che "nulla è" (oudèn éstin). II "segreto" di Gorgia, quel segreto che Socrate non riusciva a decifrare e perciò chiedeva: "Giorgia, dicci chi sei", sarebbe consistito nell'aver già profeticamente consumato, al modo di Nietzsche, l'esito "tragico" della ratio occidentale, colta nelle sue decisive radici parmenidee. Riferimenti siffatti esigerebbero però approfondimenti e sviluppi adeguati. Qui invece basti osservare, per i nostri scopi, che il nulla è comunque ciò che consente l'accadere del significato. Esso comporta (è) il cadere nel nulla dell'Interpretante. Nascita e morte sono tutt'uno. Il bambino che, come si dice, viene al mondo, proviene dalla morte di quell'Interpretante che è l'unità organica di madre e bambino. Sicché ogni evento, minimale o massimale, è una nascita e 184
una morte. Considerando le cose nella loro natura complessiva, dobbiamo allora dire che non c'è differenza tra nulla e significato, né propriamente kinesù. Oppure che c'è una kinesis sui generis; il che significa nostrigenens, cioè dal punto di vista che noi assumiamo in quanto Interpretanti che incarnano un significato: dal punto di vista del significato il significato non è uguale a nulla; ma dal punto di vista dell'evento, in quanto unità di nulla e significato, che accade qualcosa (il significato) è assolutamente lo "stesso" di "accade nulla". Questa è l'ardua "verità" sulla quale bisogna compiere un'esperienza di pensiero.
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8. L'evento come inviato del segno
La kinesis del significato è l'accadere del nulla. Ciò, come abbiamo visto, va inteso in due sensi: 1. Col venir meno dell'Interpretante finale il significato complessivo della catena degli Interpretanti perviene a questa conclusione: che non è accaduto nulla, nulla è mai accaduto. 2. Ma questo non è da intendersi semplicemente come quel risultato finale della catena degli Interpretanti che fa sì che la catena stessa prima ci sia e poi scompaia, sparisca nel nulla; piuttosto: che non è accaduto nulla accade continuamente e costantemente in tutta la catena, nel senso che in essa, di continuo, accade nulla, nulla è sempre accaduto. Questo risultato deve esser compreso sotto tre profili: a) sotto il profilo della kinesis tra nulla e significato in quanto kinesis dell'evento. (A questo punto del cammino ci accorgiamo che il titolo della nostra ricerca è inadeguato: la kinesis, il movimento della differenza, non è tra evento e significato, ma tra nulla e significato, e questa stessa kinesis è l'evento); b) sotto il profilo del fatto per cui "accade qualcosa" e "accade nulla" sono lo "stesso" (anche se non l" 'eguale", per usare una nota terminologia heideggeriana); e) sotto il profilo del luogo proprio dell'evento, il quale è assegnato dalla comprensione del punto b., di cui qualcosa si è in precedenza già detto. Cominciamo dal punto c.: siamo in grado di assegnare finalmente all'evento il suo luogo proprio. Ma qual è il luogo proprio dell'evento? Inseguendo l'evento, noi abbiamo visto disegnarsi la kinesis del significato, senza però mai raggiungere l'evento. L' evento, si disse, è qualcosa che sfugge alla kinesis del significato. Esso si configura come il "residuo" di questa kinesis. Con questa ultima os186
servazione noi però possiamo misurare il punto della nostra massima distanza dalla posizione heideggeriana relativa all 'Ereignis, così come essa è per esempio esposta in Tempo e essere. Inseriamo a questo proposito, una breve digressione. Heidegger appare mosso da una duplice preoccupazione: 1. pensare l'evento (l'Ereignis, che non significa semplicemente "evento" nel senso di ciò che accade, sebbene esso abbia certamente a che fare con ciò che noi chiamammo l'accadere della presenza; Heidegger direbbe: lasciar essere la presenza) come radicalmente ''altro'' dal significato. Il che comporta, per Heidegger, abbandonare il pensiero "ontico" (lasciare la metafisica a se stessa) per aprirsi a un cosiddetto '' nuovo pensare''; 2. porre l 'Ereignis come la dimensione di ciò che dona o che invia (lo Es che ''assegna'' la presenza, secondo la dubbia nozione di ''segno'' fatta valere dal protocollo alla conferenza Tempo e essere). Questo a1Tecare la presenza è un "arrecare ostensivo-celante" (das Hchtend-verbergende Reichen): qualcosa "si dà", qualcosa "si cela". Il celarsi è un ritrarsi (das Entzug) e un dispropriare (das Ent-eignis, di quello stesso "impropriare" (porre nel proprio) che è l' Er-eignis. Questo impropriare è anche il quadruplice gioco del Tempo/Spazio (Zeit!Raum). In tal modo però Heidegger mostra: 1. di pensare ancora sulla base della nozione comune di temporalità; 2. di pensare ancora l'Ereignis come un ente (sia pure speciale). Infatti, se lo Es che dà/ dona quel dono (la Gabe dello es gzbt) che è la presenza è ancora inteso come ciò che nomina "la presenza di un'assenza", ciò che sottraendo "tiene in serbo", allora questo modo di pensare pensa l'assenza come un non più, o non ancora, presente, secondo l'abituale immagine del tempo che "scorre" dal prima al poi. Heidegger non avrebbe infatti risposte per le domande da noi a suo tempo formulate: dove sta ciò che è assente? che luogo è quello del tenere in serbo? come ciò che è tenuto in serbo si ripresenta nella presenza futura o invia, come dono, alla presenza futura? In secondo luogo: poiché Heidegger pensa l'Ereignis come !'"altro" (radicale) dalla presenza (dal mondo ontico), egli pensa ancora I' Ereignis come un ''ente speciale'': sia perché egli lo pensa' 'accanto" all'ente (e in questo senso diverso da esso); sia perché l'"altro" dall'ente (il non-ente: cfr. la teologia negativa - che è pur sempre "teologia") ha la sua misura nell'ente, di cui è appunto "altro". Altro dall'ente è pur sempre "qualcosa" sui generis, sebbene noi si sia di principio inibiti a dire "cosa" (ontologia negativa). Accanto all'ente sta qualcosa che non è "cosa". Ma in tal modo lo sguardo 187
non è affatto distolto, come Heidegger vorrebbe, dall'ente. Il fatto è che lo sguardo non può distogliersi dall'ente, né lo deve; in questo preteso distoglimento sta la radice del "silenzio" e dello "smacco" heideggeriani. Heidegger pensa ancora alla maniera di Parmenide: poiché il nulla non è(ciò significa: non è essere, non è "qualcosa"), allora il nulla è "altro" da tutto ciò che è, dall'ente (e dall'essere dell'ente). Secondo questo schema viene posto il problema dell' Ereignis, come ciò che non può venir pensato dal pensiero che pensa l'ente e che abbisogna dunque di un "pensiero speciale" (che però non si può immaginare quale sia). Una cosa viene nondimeno immaginata (benché non saputa, poiché essa non può ridursi a un ''sapere"): che la presenza "pro-viene", come "dono", dalle imprevedibili capriole storico-destinali dell 'Ereignis. Sono esse che ' 'danno tempo'' e '' danno essere'', cioè presenza. Heidegger è così lontanissimo dal poter pensare l'unità profonda del nulla e del significato entro la kinesis dell'evento. Torniamo a noi. Se l'evento è pensato come "residuo" della kinesis del significato, l'evento non è affatto ciò che invia, ciò che dona o ciò che assegna; al contrario: l'evento è l'inviato dal e del significato (dal e del segno). Sicché, è la presenza del significato (della sua kinesis) ciò che pro-duce l'evento, come orlo mobile di ogni presenza. Se ogni interpretazione è un cadere nel nulla, l'evento è allora un effetto dell'interpretazione. Interpretare "vuol dire": dislocarsi nel nulla (dell'evento). Si dà interpretazione, cioè accade qualcosa (accade una prospettiva nel multiverso, accade, in una parola, il significato); ma il qualcosa che accade fa accadere anche nulla. Supponiamo, con un esempio ridotto all'estrema semplificazione, che accada a. Che significa "accade a"? Ciò non significa: c'è a e null'altro; se c'è solo a, e null'altro, non c'è appunto nulla. Accade a significa invece un "aver da essere", cioè una possibilità di risposta, cioè un aver da interpretare avendo interpretato. Questo è propriamente il ''significato'' di a, che già comporta un decentrarsi. Avendo da essere, a trascorre verso l'orlo esterno della presenza, sino a cadere nel nulla. Questo nulla però non "c'era prima" (dove?): esso è cominciato ad accadere con a, come nulla-provenienza-destino di a. In tal modo, a rivela di essere fasciato e compenetrato di nulla; esso è propriamente il nulla che accade: a ac-cade nel nulla che accade con a. In altri termini: il significato si indirizza al suo nulla, al suo' 'non esser mai accaduto", nel continuo accadere del nulla. Questo accadere 188
è il continuo spostarsi della kinesis verso il margine della presenza, se consideriamo la cosa dal punto di vista del significato (della kinesis del significato); ma nel contempo questo accadere è il non essersi mai spostati dal nulla (da: accade nulla), se consideriamo la cosa dal punto di vista del nulla. L'unità di questo duplice punto di vista (non la somma o la sintesi dei due punti di vista, ma ciò che è uno in entrambi) è l'evento. Poiché la kinesis del significato insegue l'accadere entro l'evento del nulla (cioè del nulla del significato), allora potremmo dire che l'evento è il nulla del significato (il nulla che appartiene al significato). Questo nulla si viene producendo entro la kinesis del significato, e anzi è la stessa kinesis del significato. Dunque, quando sin dall'inizio inseguivamo l'evento entro la kinesis del significato non cercavamo l'evento nel luogo sbagliato (come crede Heidegger); semplicemente: non avevamo occhi per vederlo. Questo che si è detto, va inteso allora come una "definizione" dell'evento? Niente affatto: che l'evento è il nulla del significato è kinesis del significato. propriamente una definizione della Dell'evento, infatti, non c'è nulla da dire. Non c'è un dire "appropriato" all'evento, non c'è mai stato e non ci sarà mai: Heidegger cerca e attende invano; non esiste né può esistere una parola de/l'evento; esiste solo l'evento della parola. Dell'evento non c'è nulla da dire, non per una nostra carenza o povertà o incapacità. Parafrasando Husserl che osservava: neppure Dio potrebbe suonare un'equazione di secondo grado sul violino, potremmo a nostra volta osservare: neppure Dio potrebbe dire l'evento. Non c'è da "dire" l'evento, come dire "speciale", perché ogni dire lo dice (e lo fa accadere): l'evento è sempre "detto" in ogni significato, in quanto accadere del nulla, cioè kinesis del significato che pro-duce l'evento, lo "in-via". Questo "inviarsi" del significato (nel nulla) è l'evento. È quindi l'evento che de-finisce, de-limita, come orlo, il significato; ed è per questo che nessun significaw può "definire" l'evento. L'aver collocato l'evento nel suo luogo proprio consentirebbe ora di affrontare la capitale questione più volte sollevata: qual è il luogo del passato? Ciò condurrebbe a una resa dei conti radicale col problema del tempo. La questione è però troppo complessa perché possa essere qui convenientemente chiarita. Questo chiarimento dovrebbe infatti cominciare a liberare la questione dalle indebite incrostazioni ''psicologiche'' che sono proprie della metafisica occidentale in quanto fondata sulla "strategia dell'anima". La psicologicizzazio189
ne del tempo accade a partire dal Timeo di Platone; trova la sua formulazione essenziale già in Aristotele e poi in Agostino, ove tempo diviene equivalente a extensio animae; gioca la sua estrema partita a partire dallo "schematismo" kantiano e poi nella temporalità husserliana, dalla quale muove Heidegger - oltre che da Aristotele e da Kant - nell'estremo tentativo, in larga misura fallito, di liberarsi dalla concezione metafisica del tempo. Ciò che qui si può fare è di dare solo una breve indicazione di carattere generale, relativamente al problema del ''passato' ', cioè per quel tanto che lo esige la nostra esposizione dell'evento. Se ' 'passato" vuol dire "possibilità del ritorno" ("eccolo di nuovo"), questo passato non è mai trascorso: esso, letteralmente, sta nella presenza. In quale presenza? Il senso di questa domanda è da intendersi nel modo seguente: per chi.o in rapporto a che? Ovvero: presenza a partire da quale Interpretante? Da quale Interpretante significa: da quale "unità" (minimale, massimale o intermedia) della catena degli Interpretanti e a partire da quale ''dimensione'' della catena stessa? Queste distinzioni a suo tempo avanzate divengono ora decisive. Se, per esempio, chiediamo dove stanno tutte le passate primavere, possiamo rispondere che esse stanno nella presenza della terra in quanto luogo delle stagioni nella rotazione del loro ciclico prodursi. Esse sono tutte presenti come fasi della circolarità del tempo atmosferico (Wetter, non Zeit) della terra. Tutte presenti e nondimeno via via decentrate entro la ''storia'' della terra (la sua catena di Interpretanti). Se infatti ogni primavera che si annuncia fosse l'eterno ritorno dell'eguale (primavera), noi avremmo una presenza totalmente in primo piano di tutte le primavere della terra. Ma questo è esattamente corrispondente all'esserci una sola primavera. E poiché la primavera è una fase della circolazione stagionale, avremmo allora un solo circolo stagionale (un solo "anno"). Ma se abbiamo un solo anno, un solo tempo stagionale, allora non ne abbiamo nessuno: la terra non ha tempo stagionale. Siamo infatti nel caso dell'esempio di poc'anzi: un singolo a non è nulla. E infatti, l'eterno ritorno dell'eguale è esattamente equivalente a non è accaduto nulla (che non significa, si badi, è accaduto nulla: questa è la differenza essenziale rispetto al nichilismo di Nietzsche). Ogni primavera che si annuncia, invece, è il ritorno, non eterno, dello ''stesso''. Questo ritorno è la kfnesis verso il nulla che chiamiamo "storia della terra". Sicché, attraverso il trascorrere delle primavere della terra, qualcosa non ritorna: c'è un cadere nel nulla del 190
mai accaduto. Questo trascorrere è in cammino verso il nulla di quell'Interpretante che è la terra; questo nulla dirà infine, o equivarrà infine a ciò: che le primavere della terra siano accadute non è mai accaduto. Se però, invece di muovere da quell'Interpretante che è la terra, assumiamo l'Interpretante "umanità", oppure "singolo individuo umano", altro diviene allora l'intreccio dell'analisi. Io, per esempio, sono nella (mia) presenza, le mie "primavere": quelle primavere che "ho visto" e che insieme designano, nel parlare comune, una metafora (ma è poi una metafora?) della mia età. Come quelle della terra, ma secondo intrecci e catene di Interpretanti diversi, anche queste primavere stanno cadendo, assieme a me, assieme all'Io come Interpretante finale della catena della mia esistenza, nel nulla. Da queste brevi indicazioni si ricava: l'immagine comune, cioè psicologica, del tempo è illusoria. Il tempo può esser compreso sericondotto all'aver luogo cosmico dei significati. È in questo luogo (e non nella quadrimensionalità del Tempo/Spazio heideggeriano) che possono acquistar senso le tre estasi tradizionali del tempo: passato, presente, futuro. Accontentiamoci di questo rapido excursus e torniamo ai punti a. e b. che attendono ancora il loro svolgimento. Essi concernono la kinesis della differenza tra evento e significato (in quanto differenza tra nulla e significato) e la medesimezza delle due posizioni: accade nulla-accade qualcosa. Tratteremo le due questioni nella loro unità consequenziale, senza ulteriori partizioni. Abbiamo visto che il significato è sempre dif-ferito verso il nulla; esso è un differir-si nel nulla. Poiché il significato è un aver da es" sere (un pro-dursi dell'attesa e perciò, come direbbe Derrida, un dif.ferire la presenza), esso è sempre all'inseguimento di un Oggetto che infine si rivela come "nulla". La kinesis del significato è dunque questo dif-ferire; ma che cosa propriamente differisce il significato? La risposta ci è già ampiamente nota: il significato differisce il ''nulla" (lo pro-duce, spostandolo ai margini, sull'orlo della presenza). La kinesis della differenza è allora da pensare come quell'accadere del significato che pro-duce l'evento come suo "residuo" (come già si era notato all'inizio di queste considerazioni conclusive). Questa però è solo una parte della ''verità''. Infatti ciò che si è sin qui detto descrive l'accadere dal punto di vista del significato. Ora però dobbiamo, per così dire, rovesciare la prospettiva e chiedere: come, a sua volta, si pro-duce il significato? 191
Un significato, in quanto "qualcosa" (che cosa-dove) ha luogo nell'aprirsi dell'Interpretante (per chi o in rapporto a che). La domanda quindi diviene: come si produce un Interpretante? (Si può notare che questa è proprio la domanda che rimane senza risposta nella semiotica e nella faneroscopia di Peirce). L'Interpretante è l'accadere della presenza di un mondo cosmostorico, sia che questo mondo venga preso nella sua unità massimale, sia nella sua puntualità atomica, sia (e più concretamente) in una dimensione intermedia qualsivoglia tra questi suoi due estremi ideali. Questa presenza accade a partire da un'assenza. Presenza e assenza non vanno però pensate come momenti successivi dello scorrere temporale (sappiamo già che questa immagine temporale è inadeguata e ''psicologica'', cioè metafisica). L'Interpretante che accade nella presenza pro-viene dall'assenza di un altro Interpretante, cioè proviene dal nulla (del secondo Interpretante). Esso è la presenza della stessa precedente presenza, meno l'Interpretante caduto nell'assenza (oltre l'orlo della presenza); cioè, è la stessa presenza, ma decentrata da quella assenza. È in questo modo che ogni presenza è un decentrarsi in se stessa. Questo decentrarsi non è un muoversi ''reale'', secondo il concetto di movimento del senso comune: dove si muoverebbe la presenza? Da dove e verso dove? Vi è invece un mutar luogo come quel dislocare che colloca. Questo dislocare (che, come sappiamo, colloca il che cosa-dove) non è a sua volta uno spostarsi "reale" dell'Interpretante, ma è un decentrarsi dal primo piano ai piani successivi determinato dal cadere nel nulla di uno (o più) Interpretanti della catena della presenza. Questo cadere nel nulla è a sua volta, come sappiamo, da pensarsi come l'accadere del nulla, ~ perciò il non aver mai avuto luogo dell'Interpretante "caduto". E a partire da questo cadere-accadere che si pone un (altro) Interpretante. In termini generali: l'Interpretante accade a partire dall'accadere del nulla. Questo accadere è lo stesso e-venire dell'evento (di ogni evento, mi~ nimale o massimale). La sostanza di questo discorso è però ancora una volta resa possibile dal punto di vista dell'Interpretante che accade nella sua differenza dal nulla. Se però, senza abbandonare ciò che qui si è detto, ci sforziamo di cogliere la totalità della kinesis indicata, siamo allora condotti a questa conclusione: l'accf!dere del nulla e l'accadere dell'Interpretante sono il medesimo. E in questo senso che ''accade qualcosa" è lo "stesso" di "accade nulla". La totalità della visione alla quale siamo qui sollecitati è l" 'altra parte della verità". Essa non 192
è dicibile in termini diversi da quelli sin qui usati, poiché l'accadere del nulla non può essere descritto dal punto di vista del nulla; esso anzi non deve, perché ciò equivarrebbe a prendere il nulla come un significato. Non avremmo allora lo "stesso", ma l" 'identico", e la kinesis (sui generis) dell'evento come dif-ferire di nulla e significato ne uscirebbe vanificata. Quando si afferma che ''accadere qualcosa'' è lo stesso di' 'accadere nulla'' non si intende sostenere che tutto ciò che accade è ''nulla",· "polvere e cenere", che "nulla vale la pena" poiché tutto, prima o poi, finirà, e anzi non avrà mai avuto luogo. Si intende proprio dire che il qualcosa che accade è in se stesso, per quel che è (bello o brutto, sensato o insensato: non si pongono né si possono porre qui questioni "morali"), proprio nella sua realtà "attuale", accadere di nulla. Questa affermazione è per ora una pura nozione di pensiero, assai ardua anche da pensare. Il suo destino è (potrebbe essere) di divenire un'esperienza (Peirce direbbe: la Qualità materiale di un Interpretante futuro). In quanto tale, questo destino è già la verità di quell'esperienza. Il che significherebbe che noi già ora e oscuramente esperiamo questa verità nella presenza del nostro quotidiano interpretare (essere Interpretanti). Come possiamo però "valutare" il senso di queste affermazioni? Da Parmenide e Platone il nulla è !'assolutamente "altro" dal qualcosa. Leibniz cominciò a chiedere: perché c'è essere e non piuttosto nulla? Questa domanda pensava ancora il nulla come !'assolutamente altro dall'essere; tuttavia, proprio domandando nel modo in cui domandava, Leibniz già poneva essere e nulla su un piano di assoluta equipollenza; equipollenza designata da un aut aut parmenideo, ma già dubbiosa circa la scelta da compiere tra i due. Sul filo di questa domanda Heidegger è proceduto oltre: egli ha portato l'essere entro la kinesis del nulla, reinterpretando la questione a partire dai Greci. Tuttavia, neppure Heidegger ''se la sente'' di portare l' essere e il nulla alla loro totale medesimezza. In tal modo il nichilismo non è condotto al compimento del suo destino; e l'età della tecnica (ciò che oggi si totalizza '' intorno al globo terrestre'') non è condotta alla sua verità. Pensare nichilisticamente sino in fondo il nichilismo è ciò che Heidegger non ha "potuto" fare. Il ''portare a compimento'' non è una scelta della volontà psicologica e soggettiva. Questo "portare" è in realtà un "esser portati", in quanto risposte partecipi della catena degli Interpretanti che e-vengono: esser portati verso una nuova esperienza umana che ab193
bandona la ratio al nulla, in quanto essa è ciò ·che non vuol saperne del nulla. Come rampollo della ratio, anche il senso comune aborre dal nulla; e noi ora sappiamo perché esso aborre anche dagli enigmi del linguaggio e dalla crudele vivisezione filosofica delle parole. Il senso comune non vuole vedere il nulla che si cela nel fondo del parlare comune, e di ogni evento: del fiorire come del fulminare, dell'amare come dell'odiare. Non lo vuol vedere perché pensa il nulla come l 'assolutamente altro del qualcosa (lo pensa cioè "metafisicamente"); in termini psicologici lo pensa come l'insensato, il misterioso, il terrificante: emblema di morte; teschio e tibie incrociate(' 'Fratello ricordati che dobbiamo morire''). Nella sua immaginazione, il comparire del nulla dietro il qualcosa rende ogni cosa equivalente: il bello come il brutto, il bene come il male. In questo suo terrore, il senso comune non può accorgersi che il nulla e la ricchezzamultiversa della vita sono "lo stesso". Come un ''fanciullino'', il senso comune ha paura del nulla. Raccontandogli la favola dell'aldilà, Socrate non lo liberò dalla paura; anzi, lo ribadì nell'errore. E del resto, istituendo l'anima nel cuore della ratio occidentale, Socrate favorì la nascita di un'umanità impegnata a combattere con tutti i mezzi la morte. Quale sia il _destino vedtativo di questa umanità, che sta diventando "planetaria'.', non è possibile dire. Ma il suo rischio estremo e connaturato è certamente quello di perdere la vita. Questo rischio viene rimosso e non più visto proprio dalla lotta coiuro la morte che si configuri come eliminazione del nulla. Ma se il nulla è respinto, la vita non ha "significato".
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Indice
Avvertenza Parte I.; Per i.rn' ermeneutica del segno Il problema del segno in Hu,ssed e in Peirce Il problema del segnp in Heidegger 3. Dai segni ai signa 4. L'oggetto della filosofia 5. · Tecnica e violenza . . 6. Modelli di razionalità e scienze umane 7. Realtà psichica e funzione del segno 8. Il luogo dell'inconscio · 1.
2.
13 30 48
69 78 95 115
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Parte Il: Kinesis. Il movimento della differenza ua evento e significato 1. 2.
3. 4.
5. 6. 7. 8.
Premessa I cinque parametri dell'evento Il luogo dell'evento . L'evento come accadere della presenza L'Interpretante e ti mondo cosmo-storico La k:inesis dell'interpretazione Il precipitare dei sigt;ificati L'accadere del nulla L'evento come invzato del segno
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:163 168 172 176
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