Internazionale 5/11 gennaio 2024. Numero 1544. Profonda Russia

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5/11 gennaio 2024 Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo

n. 1544 • anno 31

internazionale.it

4,50 €

Lea Ypi Bisogna sempre avere speranza

Scienza L’importanza del microbiota

Attualità Le famiglie cancellate della Striscia di Gaza

Profonda Russia

SETTIMANALE • PI, SPED IN APDL 353/03 ART 1, 1 DCB VR • AUT 12,90 € • BE 8,60 € CH 10,30 CHF • CH CT 10,00 CHF D 11,00 € • PTE CONT 8,30 € • E 8,30 €

Reportage da un paese sempre più nazionalista e chiuso in se stesso. E all’oscuro di quello che succede in Ucraina

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5/11 gennaio 2024 • Numero 1544 • Anno 31 “Io rifiuto la politica della vittima attraente”

Sommario 5/11 gennaio 2024 Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo

n. 1544 • anno 31

internazionale.it

4,50 €

Lea Ypi Bisogna sempre avere speranza

Scienza L’importanza del microbiota

Attualità Le famiglie cancellate della Striscia di Gaza

Profonda Russia

Cose Profonda Russia

Tom Whitwell, giornalista britannico, racconta ogni anno le 52 cose che ha imparato nei dodici mesi precedenti. Eccone alcune del 2023. A un gruppo di uccelli domestici è stato insegnato a usare un tablet per chiamarsi. Sembrano essersi divertiti e hanno stretto nuove amicizie. La crittografia psichedelica è un modo per nascondere i messaggi (di solito nei video) in modo che solo le persone che hanno assunto lsd possano decifrarli. Alcuni poliziotti messicani corrotti hanno cominciato a usare i pos per rendere più rapida la riscossione di mazzette ai posti di blocco. Nel diciannovesimo secolo lo champagne era addolcito in base ai gusti locali. I russi aggiungevano 300 grammi di zucchero, gli inglesi 50 grammi. Nel 1842 Perrier-Jouët introdusse lo champagne non zuccherato. L’esperimento fallì e la gente lo chiamò “Brut”: è il gusto di tutto lo champagne di oggi. Tre quarti degli omicidi di Chicago sono causati da discussioni animate che degenerano. Una nuova ricerca dimostra che i placebo sono efficaci per ridurre i sensi di colpa, ma funzionano meno bene sulla vergogna. Gli ombelichi finti sono tatuaggi temporanei che si applicano qualche centimetro sopra l’ombelico, dando l’illusione di avere gambe più lunghe. Solo 28 libri hanno venduto più di 500mila copie negli Stati Uniti nel 2022. Otto erano della scrittrice di romanzi rosa Colleen Hoover. Il 31 per cento dei bambini ricoverati al centro ustioni dell’università di Chicago si è scottato con i noodles istantanei. Il 40 per cento delle persone a cui è stata mostrata un’immagine photoshoppata di se stessi da bambini a bordo di una nave vichinga ha affermato di ricordare la circostanza, in realtà mai avvenuta. Gli scienziati di Singapore hanno sviluppato una minuscola batteria alimentata dal sale delle lacrime e progettata per lenti a contatto intelligenti. Nel 1992 a Los Angeles c’era una rapina in banca ogni 45 minuti. Quando l’Italia ha temporaneamente vietato ChatGpt, la produttività degli sviluppatori italiani che scrivono codice è scesa del 50 per cento. u

Reportage da un paese sempre più nazionalista e chiuso in se stesso. E all’oscuro di quello che succede in Ucraina (p. 36). Foto di Alessandro Cosmelli.

SETTIMANALE • PI, SPED IN APDL 353/03 ART 1, 1 DCB VR • AUT 12,90 € • BE 8,60 € CH 10,30 CHF • CH CT 10,00 CHF D 11,00 € • PTE CONT 8,30 € • E 8,30 €

Reportage da un paese sempre più nazionalista e chiuso in se stesso. E all’oscuro di quello che succede in Ucraina

Giovanni De Mauro

IN COPERTINA

ISRAELE-PALESTINA

20 Le famiglie cancellate nella Striscia di Gaza Haaretz ISRAELE

23 La corte suprema boccia la riforma della giustizia The Times of Israel UCRAINA

26 La strategia delle bombe Frankfurter Allgemeine Zeitung STATI UNITI

28 Trump costringe

52 L’isola caraibica

SCIENZA

56 Noi siamo moltitudini New Scientist

di TikTok Zeynep Tufekci Bisogna sempre avere speranza Lea Ypi GIAPPONE

46 Dimmi come ti siedi The Japan Times

Il nuovo Internazionale Kids è in edicola

Alice Rohrwacher

74

Giorgio Cappozzo

76

Nadeesha Uyangoda

Le opinioni

78

Giuliano Milani

95

Stefano Feltri

Le rubriche

di tenerezza Valery Poshtarov

8

Dalla redazione di Internazionale

VIAGGI

16

Posta

19

Editoriali

66 Appunti sott’acqua Der Spiegel RITRATTI

72 Topolino libero

32 Non è tutta colpa

16

PORTFOLIO

ASIA MERIDIONALE

OPINIONI

Schermi, libri, suoni

60 Rari momenti

69 Fabrice Arfi.

imperfette si preparano al voto Nikkei Asia

74

divisa da un muro Le Monde

a studiare la costituzione The Wall Street Journal

30 Democrazie

34

Cultura

REPUBBLICA DOMINICANA

Perle rare Süddeutsche Zeitung

86

Poesia

96

Strisce

97

L’oroscopo

98

L’ultima

Articoli in formato mp3 per gli abbonati

CULTURA

The Guardian POP

82 Chi ha il diritto di parlare Mohammed el Kurd SCIENZA

88 Cosa scopriremo nel 2024 Nature ECONOMIA E LAVORO

94 Quando le notizie false fanno crollare le azioni Foreign Policy ABBONATI O REGALA UN ABBONAMENTO A INTERNAZIONALE Un anno di Internazionale a 99 euro invece di 109. Solo fino all’8 gennaio 2024. Scopri tutte le altre offerte su internazionale.it/abbonati

Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

7

internazionale.it/sommario

La settimana

MOHAMMED EL KURD A PAGINA 86

Dalla redazione di Internazionale Per ritrovare gli articoli di cui si parla in questa pagina si può usare il codice qr o andare qui: intern.az/1IDu

Internazionale Kids In edicola

IN COPERTINA

Zealandia, il continente sommerso

◆ La Nuova Zelanda può essere considerata un paese formato da due isole, che si trova nell’oceano Pacifico, oppure parte di un continente sommerso. Lo scoprirete leggendo l’articolo di copertina del numero in edicola di Internazionale Kids, che parla della Zealandia. Se prima d’ora non ne avete mai sentito parlare è perché fino a poco tempo fa neanche i geologi la conoscevano. Poi un giorno un geologo marino ha deciso di studiare le rocce in fondo all’oceano e ha trovato un intero continente, grande più del doppio della Groenlandia. L’illustrazione è di François Ravard.

ECONOMIA

ATTUALITÀ

L’anno di Taylor Swift I suoi concerti hanno talmente successo che sono un affare anche per le città dove si svolgono.

Cosa dire della guerra Il conflitto in Medio Oriente ha messo gli insegnanti in una posizione difficile. Bisogna parlarne in classe?

AMBIENTE

TEST

Avventure nel bosco Dondolarsi su un’amaca è molto più divertente che stare sul divano, parola di due ragazze svedesi.

Che minerale sei Morbido come il talco, colorato come l’apatite, raro come l’opale nero o duro come il diamante.

PORTFOLIO

Nuovo odore Quando arriva la pubertà, i nostri odori cambiano.

FUMETTO

Liberi come i sami Alla scoperta della popolazione nativa del nord Europa.

RICETTA SCIENZA

A che serve la matematica

internazionale.it

Video

Pasta con ragù di finocchi, olive e feta

Podcast

Articoli ITALIA

Le ferite invisibili dei minori stranieri Storie di ragazzi in bilico tra culture, e di chi li aiuta a fare i conti con rabbia e isolamento. CULTURA

Tutto McCullin Una mostra a Roma raccoglie l’intero percorso professionale del grande fotografo britannico. DR

SOCIETÀ

Un esempio dalle Canarie El Hierro è un paradiso naturale al largo delle coste del Marocco. Nel 2000 l’Unesco l’ha dichiarato riserva della biosfera e circa il 60 per cento del suo territorio è protetto. Negli ultimi anni è diventato un esempio di sostenibilità, riuscendo a produrre l’energia di cui ha bisogno grazie a impianti eolici e idroelettrici per 28 giorni di seguito. Il notiziario di Arte, che racconta le società e la vita dei cittadini europei.

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Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

Viaggiare in modo diverso Lo scambio di casa permette di fare un’esperienza fuori dai circuiti turistici tradizionali. DISUGUAGLIANZE

Un mondo di donne Quando le donne stanno bene, tutto il mondo sta meglio. Dall’archivio di Internazionale.

◆ Il Mondo è il podcast quotidiano di Internazionale: ogni giorno due notizie scelte e raccontate dai giornalisti e dalle giornaliste della redazione e dalle persone che collaborano con Internazionale. Il Mondo è disponibile tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, a partire dalle 6.30, sulle principali piattaforme di ascolto e sul sito di Internazionale al link internazionale.it/ilmondo.

Immagini Dopo il sisma Anamizu, Giappone 3 gennaio 2024 Una casa crollata nella cittadina di Anamizu, prefettura di Ishikawa, la zona che ha riportato i danni più gravi a causa del sisma di magnitudo 7,6 che ha colpito la penisola di Noto il 1 gennaio. Nel terremoto almeno 73 persone sono morte, più di trecento sono rimaste ferite e 33mila sono sfollate. Nei primi giorni le operazioni di soccorso sono state complicate dal maltempo. Foto di Kazuhiro Nogi (Afp/Getty)

Immagini Coraggio da leoni Valparaíso, Cile 28 dicembre 2023 Durante una protesta dei pescatori di Valparaíso, in Cile, alcuni leoni marini hanno attraversato la strada, bloccando i veicoli blindati della polizia. I pescatori chiedevano al governo di essere risarciti per il divieto di pesca al nasello, che ha colpito più di novecento famiglie. Le autorità non hanno accolto la loro richiesta. Rodrigo Garrido (Reuters/Contrasto)

Immagini Buon anno Nanchino, Cina 1 gennaio 2024 I festeggiamenti per il nuovo anno a Nanchino, nella provincia orientale di Jiangsu. Secondo le statistiche del ministero della cultura e del turismo, durante i tre giorni di vacanza per il capodanno ci sono stati in Cina 135 milioni di spostamenti interni, un aumento del 155,3 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e del 9,4 per cento rispetto al 2019, prima della pandemia di covid-19. Aumentano anche i viaggi da e per l’estero, dopo che Pechino ha deciso di allentare le restrizioni sui visti per ridare slancio al turismo. Afp/Getty

[email protected] Perché prendere sul serio le fantasie di complotto sul clima u Ho apprezzato molto l’inchiesta di WuMing 1 (internazionale.it). Ogni tanto è bello perdersi nelle citazioni al di là di ciò che è vero o falso, giusto o sbagliato. Pier Paolo Martinini u L’articolo apre finestre di pensiero fuori dalla narrativa quotidiana, ed è straordinario come accompagna il lettore nella capacità di conciliare posizioni che percepiamo come contrastanti e diametralmente opposte. Abbiamo estremamente bisogno di un’attività giornalistica come questa, accessibile e divulgativa. Luisana

Gli occhi di tutti sulla sfera u Mi ha colpito moltissimo l’articolo sulla Sfera di Las Vegas (Internazionale 1542) e la scelta degli U2 di prestarsi senza nessuna difficoltà a ripetere per un mese intero il loro

spettacolo all’interno di quella struttura. Credo che risulterà un po’ difficile per loro in futuro offrire l’immagine di un gruppo molto attento alle istanze sociali e climatiche. Flavio

Un’isola modello di sostenibilità u È interessante il video sulla produzione di energia in un’isola delle Canarie (internazionale.it). Bisogna considerare che l’isola è circondata dall’oceano e c’è molto vento: sarà possibile esportare questa tecnica in altri paesi? Salvatore Zampino

Parole u Abbiamo tutti bisogno di riti, di prevedibilità e di familiarità. Che sia la voce di una persona cara o la lettura di una breve rubrica in un settimanale. Ma tutti sappiamo anche che, un pezzetto alla volta, la familiarità muta e ricomincia, così va il mondo. Complimenti a Domenico Starnone per la sua breve ma sempre ricca ru-

brica. Una rubrica che sapeva costruire un universo partendo da una semplice virgola. O che, partendo da una cosa a prima vista banale, in un paragrafo dimostrava che banale non era. Domenico Marchesan

u Su Internazionale 1542, a pagina 113, l’arcipelago Krakatoa è segnalato nel mappamondo in Africa occidentale anziché in Indonesia; su Internazionale 1541, a pagina 102, la traduzione corretta dell’espressione tone row è “serie di note” (non “fila di toni”). Su Internazionale 1540, a pagina 113, la superficie dell’iceberg A23a è di circa quattromila chilometri quadrati. Errori da segnalare? [email protected] PER CONTATTARE LA REDAZIONE

Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718 Posta via Volturno 58, 00185 Roma Email [email protected] Web internazionale.it

Una transizione più semplice

Secondo uno studio dell’università della California pubblicato nel 2022, il numero degli adolescenti trans è raddoppiato negli ultimi anni. In particolare i ragazzi e le ragazze fra i tredici e i diciassette anni che negli Stati Uniti si identificano come trans sono l’1,3 per cento. Ma nessun segnale indica che essere trans sia diventato socialmente desiderabile. Una ricer-

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ca pubblicata l’anno scorso sulla rivista Pediatrics, per esempio, indica che il 45 per cento dei ragazzi e delle ragazze trans è stato vittima di bullismo, contro il 17 per cento dei coetani etero e cisgender. I motivi di questa esplosione di casi potrebbero essere altri. Per esempio il fatto che oggi essere trans non comporta più necessariamente l’assunzione di ormoni o interventi chirurgici perché molte persone compiono la loro transizione senza voler adattare il corpo al genere a cui sentono di appartenere. E poi c’è una questione di maggiore consapevolezza sociale. Karen

Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

Alice Rohrwacher

Nel falò dell’epifania

Errata corrige

Dear Daddy Claudio Rossi Marcelli

È la seconda volta in pochi mesi che sento di amici che hanno a che fare con figli trans. Questi casi sono davvero in aumento? O si tratta solo di una moda? –Andrea

Un anno con

Berg, una senatrice del Kentucky, ha fatto un paragone che trovo molto appropriato: “Il motivo per cui oggi si sente parlare di giovani trans molto più di quindici anni fa è lo stesso per cui, nei primi anni cinquanta, quando abbiamo smesso di obbligare i bambini a scrivere con la mano destra, c’è stata un’esplosione di mancini, che poi ha raggiunto un picco e si è stabilizzata. Non è che li abbiamo spinti a diventare mancini: lo erano già, i mancini esistevano già, e noi finalmente li abbiamo lasciati esistere”. [email protected]

u Ho sempre amato l’epifania più di ogni Natale e compleanno. Per il nome così luminoso: epifania, festa della manifestazione. Ma anche perché era il giorno della calza della befana, e l’idea che i regali avessero la misura di un contenitore mi emozionava. Nonostante le sue dimensioni, la calza era imprevedibile. Impossibile intuire cosa nascondesse: una caramella, un temperamatite, un pugno di lenticchie, del carbone, un anellino. Ogni volta che mettevo la mano nella calza il mistero mi aspettava. Anni dopo lessi Figure dell’infanzia: Walter Benjamin, giocando da bambino con le calze, imparò che “forma e contenuto, custodia e custodito sono la stessa cosa”. Ero così fedele alla befana che un anno decisi di essere buonissima per non ricevere carbone, e quando lei me lo lasciò provai un grande tormento. Ero stata cattiva senza saperlo! Per il falò dell’epifania gli uomini del paese si vestivano da befane, ma spesso confondevano tra befane e donne, e tra donne e puttane: la festa era una sfilata di minigonne e décolleté, scope di boa di struzzo, calzamaglie a rete. Mi chiedevo: è davvero questa l’immagine che rimandiamo noi donne? Poi ho scoperto che il carbone non era per la mia cattiveria, era un simbolo. E l’idea di donna che i maschi raccontavano con le loro mascherate era il simbolo di una mentalità che potevamo far sparire nel suo falò. Che la cara vecchia befana ci protegga.

Autumn/Winter 23-24

solidi e alberi - archivioleonardi.it

Editoriali

Democrazie alla prova nel 2024 “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra filosofia” William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De Mauro Vicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo Zanchini Editor Giovanni Ansaldo (opinioni), Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Gabriele Crescente (scienza, ambiente), Camilla Desideri (America Latina), Francesca Gnetti (Medio Oriente), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Stati Uniti), Stefania Mascetti (Europa, caposervizio) Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa), Junko Terao (Asia e Pacifico), Piero Zardo (cultura, caposervizio) Copy editor Giovanna Chioini (caposervizio), Anna Franchin, Pierfrancesco Romano (coordinamento, caporedattore) Photo editor Giovanna D’Ascenzi (web), Mélissa Jollivet, Maysa Moroni, Rosy Santella (web) Impaginazione Beatrice Boncristiano, Pasquale Cavorsi (caposervizio), Marta Russo Podcast Claudio Rossi Marcelli, Giulia Zoli (caposervizio) Web Annalisa Camilli, Simon Dunaway (notizie), Giuseppe Rizzo, Giulia Testa Internazionale Kids Alberto Emiletti, Martina Recchiuti (caporedattrice) Internazionale a Ferrara Luisa Ciffolilli Segreteria Monica Paolucci, Gabriella Piscitelli Correzione di bozze Lulli Bertini, Sara Esposito Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla fine degli articoli. Giuseppina Cavallo, Stefania De Franco, Francesco De Lellis, Andrea De Ritis, Susanna Karasz, Davide Lerner, Giusy Muzzopappa, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella, Nicola Vincenzoni Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto grafico Mark Porter Hanno collaborato Giulia Ansaldo, Cecilia Attanasio Ghezzi, Francesco Boille, Jacopo Bortolussi, Daniele Cassandro, Catherine Cornet, Sergio Fant, Claudia Grisanti, Ikyung Hong, Anita Joshi, Alberto Riva, Concetta Pianura, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pauline Valkenet Editore Internazionale spa Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro Sede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e diffusione Angelo Sellitto Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli, Ester Corda, Alessia Salvitti Concessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del Marketing Editoriale srl Tel. +39 06.69539344 - Mail: [email protected] Subconcessionaria Download Pubblicità srl Stampa Elcograf spa, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi) Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993 Iscrizione al Roc n. 3280 Direttore responsabile Giovanni De Mauro Chiuso in redazione alle 19 di mercoledì 3 gennaio 2024 Pubblicazione a stampa ISSN 1122-2832 Pubblicazione online ISSN 2499-1600 PER ABBONARSI E PER INFORMAZIONI SUL PROPRIO ABBONAMENTO Telefono 02 4957 2022 (lun-ven 9.00-19.00), dall’estero +39 02 8689 6172 Fax 030 777 23 87 Email [email protected] Online internazionale.it/abbonati Imbustato in Mater-Bi

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Pascal Martin, Le Soir, Belgio Dire che il 2024 sarà un anno pieno di pericoli potrebbe essere un’esagerazione. Ma vale la pena lanciare un avvertimento: i sostenitori della democrazia di tutto il mondo hanno di che preoccuparsi, vista l’enorme posta in gioco delle numerose elezioni previste nei prossimi mesi. Si voterà in India, Stati Uniti, Russia e non solo: una trentina di paesi sceglierà il presidente o rinnoverà il suo parlamento. Più della metà della popolazione mondiale sarà chiamata alle urne per indicare a molte società e, più in generale, al pianeta la direzione da seguire. Che ne sarà del ruolo svolto dagli Stati Uniti nella guerra in Ucraina se il potere tornerà al Partito repubblicano, e in particolare a Donald Trump? Che mosse potrebbe azzardare Vladimir Putin per mantenere il controllo sul Cremlino? Quale sarà la sorte di chi difende i valori liberali dopo la prossima ondata populista? Non ci sono risposte ovvie a questi interrogativi ma i fatti sono chiari: la democrazia arranca in tutto il mondo. Il consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite stima un regresso ai livelli del 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino. Si calcola che oggi i regimi autoritari siano tre vol-

te più numerosi di quelli democratici. La storia insegna che nulla è immutabile, soprattutto la democrazia. Instabile e fragile, dev’essere continuamente costruita e rinnovata. I suoi nemici sono noti. La sensazione di insicurezza e precarietà della popolazione contribuisce a indebolire le forze democratiche. Questo scenario ha molte varianti. L’ascesa di movimenti identitari, il ritorno dei leader religiosi in politica, l’impennata delle migrazioni, la crisi ambientale: sono tutti fattori che creano confusione. A questi si aggiungono i social network e, ancor più, l’intelligenza artificiale come strumenti per seminare dubbi e proporre soluzioni semplicistiche a elettori in difficoltà. Ma quella che si prospetta non è una distopia orwelliana. È ora che le democrazie si diano nuove priorità e un nuovo quadro di riferimento. Per guarire le nostre società, ma anche per resistere all’autoritarismo. La riconquista democratica non ha niente di magico. Di recente il Brasile e la Polonia hanno dato l’esempio. Teniamolo presente nei mesi a venire. In particolare dovremmo ricordare che l’astensione fa il gioco degli estremisti. ◆ gim

Curare l’obesità in modo più equo The Guardian, Regno Unito Nel 2023 il giornalista esperto di tecnologie Paul Ford ha raccontato che la sua vita è cambiata grazie a un farmaco che aumenta il senso di sazietà. Il medicinale gli ha offerto una possibilità di rinascita senza cambiare stile di vita. Può sembrare allettante per chi nel 2024 ha espresso il buon proposito di migliorare la propria vita. I farmaci per dimagrire rivelano che l’obesità non è legata al carattere di una persona, ma è qualcosa di più contingente: un prodotto della modernità, non solo delle cattive abitudini. Deriva dalla sedentarietà e dall’abbondanza di alimenti ipercalorici e ultraprocessati. Le nuove terapie, tutt’altro che economiche, ci spingono a chiederci che tipo di società vogliamo. Al momento sono in fase di sviluppo una settantina di nuove cure per l’obesità, dunque è probabile che i costi si riducano. Il problema è la disponibilità limitata: per esempio, c’è carenza di semaglutide, il principio attivo dell’Ozempic, un medicinale creato per curare il dia-

bete di tipo 2, ma utile anche a perdere peso. Il risultato è che i ricchi possono procurarselo, mentre i malati restano senza. La Novo Nordisk, la produttrice danese dell’Ozempic, è diventata una delle aziende di maggior valore in Europa, e si sta espandendo per soddisfare la domanda dei suoi prodotti. Ma alcuni paesi cercano di mettere la salute prima dei profitti. Il Brasile potrebbe produrre la semaglutide già nel 2026, dopo che un tribunale ha stabilito che il monopolio dell’azienda danese potrà essere interrotto cinque anni prima, perché il brevetto della Novo Nordisk ha reso la cura più costosa e meno accessibile, violando il diritto alla salute garantito dalla costituzione brasiliana. Circa il 10 per cento degli abitanti del mondo soffre la fame, mentre un altro 10 per cento è obeso. Entrambi i problemi hanno bisogno di risposte. I progressi scientifici promettono cambiamenti rapidi. Ma dovremmo assicurarci che possano beneficiarne molte più persone. ◆ as Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Attualità

ABED ZAGOUT (ANADOLU/GETTY)

Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, il 2 gennaio 2024

ISRAELE-PALESTINA

Le famiglie cancellate nella Striscia di Gaza Amira Hass, Haaretz, Israele I bombardamenti israeliani hanno ucciso interi nuclei familiari. Creando un trauma che segnerà a lungo la società palestinese, dove i legami affettivi hanno un ruolo centrale all’inizio della guerra gli abitanti della Striscia di Gaza vivono con la consapevolezza che in qualunque momento i loro familiari e loro stessi potrebbero essere uccisi dalle bombe israeliane o morire dissanguati sotto le macerie. Le conversazioni telefoniche con queste persone somigliano all’addio a un condannato a

D 20

Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

morte. Ogni giorno parenti e amici fuori dalla Striscia reprimono il pensiero di ricevere la terribile notizia della morte dei propri cari: anziani e giovani, donne e uomini, tutti insieme. “La cancellazione di un’intera famiglia dal registro anagrafico”, come la definiscono i palestinesi, non è semplicemente una paura, ma una constatazione agghiacciante basata sulla realtà. Israele bombarda quotidianamente decine di obiettivi: persone, edifici con i residenti dentro, tunnel o mercati. Lo spazio in cui sta comprimendo 2,3 milioni di abitanti diminuisce sempre di più. Anche le zone dichiarate “sicure” dall’esercito sono bombardate. Si deve considerare che i figli sposati di solito vivono con le famiglie in palazzine

costruite con i risparmi, dove i genitori anziani e i fratelli e le sorelle non sposati abitano al piano terra. È naturale che si resti uniti quando scoppia la guerra, nella propria casa o in un ricovero pubblico per gli sfollati. Ed è naturale che i più fortunati vadano nelle case dei parenti dopo che il loro quartiere è stato bombardato. Così, quando cade una bomba, è logico che tra i tanti morti ci siano persone con gli stessi cognomi, imparentate per sangue o per matrimonio. E dato che il governo e l’esercito israeliani si preparano a molti altri mesi di guerra, il numero di famiglie spazzate via è destinato ad aumentare. “All’inizio paragonavamo la guerra alla nakba”, dice la sociologa palestinese Honaida Ghanim riferendosi alla “catastrofe”, la cacciata dei palestinesi dalle loro terre nel 1948, “ma ci siamo resi conto che la portata dei massacri e la cancellazione di intere famiglie vanno oltre quello che abbiamo vissuto all’epoca”. L’espulsione, la distruzione e la perdita della terra all’epoca della fondazione di Israele sono un processo centrale nella storia del popolo palestinese, ma secondo Ghanim “il danno oggi è al cuore della

stessa esistenza palestinese. L’esilio era tollerabile in una certa misura perché si mantenevano la struttura del villaggio e quella delle famiglie allargate. Il meccanismo sociale interno continuava a funzionare. Per questo c’è bisogno di persone vive. Anche nei massacri del 1948 furono uccise intere famiglie, ma ora il numero è di gran lunga maggiore. Il loro annientamento lascia un buco nero. Nessuna lingua può descrivere quello che succede lì”.

La fine di Shafiqa Il 19 novembre, quando il numero di morti registrati dal ministero della sanità controllato da Hamas era di 11.078 persone, si stimava che fossero 1.330 le famiglie che avevano avuto varie vittime. Quel giorno si è aggiunta Shafiqa Abu Skheilleh, 83 anni (conoscevo Shafiqa e adoravo ascoltare i suoi ricordi). È morta insieme ai suoi bisnipoti: a Dunya, moglie del suo figlio maggiore; a Maram, moglie di uno dei suoi nipoti; e ad altri parenti delle due donne e i loro figli. La figlia più giovane di Shafiqa, Salwa, non sa quanti parenti fossero nell’edificio del campo profughi di Jabaliya, nel nord della città di Gaza, che è crollato su di loro. Salwa non ne conosceva molti, perché da quarant’anni vive a Ramallah, dove ha studiato all’università di Birzeit. Dal 1991 Israele proibisce la libera circolazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, e l’ultimo permesso ottenuto da Salwa per visitare la famiglia risale al 2000. Nel 2013 madre e figlia si sono abbracciate per l’ultima volta, quando a Shafiqa è stato concesso di andare a Ramallah per delle cure mediche. Da allora si sono viste solo in videochiamata. Lo shock è evidente negli occhi senza lacrime di Salwa. “Non riesco a realizzare che mamma se n’è andata, che questa è stata la sua fine”, dice nel tono distante e pragmatico con cui racconta gli ultimi giorni di Shafiqa, che cinque mesi prima della guerra aveva avuto un ictus e non riusciva più a parlare o muoversi. Due nipoti erano sempre a casa sua e una fisioterapista andava da lei due volte al giorno. Quando è scoppiata la guerra, i figli di Shafiqa l’hanno trasferita a Beit Lahia, dove vivevano loro. Poi l’esercito israeliano ha ordinato a tutti gli abitanti del nord della Striscia di andare verso sud. Molti hanno scelto di restare, perché non credevano che la “zona sicura” sarebbe stata effetti-

vamente sicura o perché avevano difficoltà a spostarsi. Questo è stato il caso della famiglia Abu Skheilleh, che si è trasferita da alcuni parenti nel campo profughi di Jabaliya: la maggior parte dei ragazzi e degli uomini in una casa, le donne, i bambini e alcuni uomini in un’altra. I frequenti attacchi aerei spaventavano Shafiqa. Durante la notte stringeva il braccio della nipote Sumaya, che dormiva accanto a lei. Sumaya si è salvata, ma ha gravi ustioni sul viso e fratture alla colonna vertebrale e alle gambe. Si trova all’ospedale europeo di Khan Yunis nel sud di Gaza, “intorno al quale ci sono continui spari ed esplosioni”, dice Salwa. Mancano anche letti, medici e farmaci. “Un’amica andava a trovare mia madre ogni volta che poteva”, racconta Salwa. “Quando è arrivata la mattina dopo il bombardamento è rimasta sconvolta nel vedere un cumulo di macerie. I vicini sono riusciti a salvare Sumaya e a recuperare cinque corpi: mia madre, Dunya e suo fratello Talal, Maram e la sua figlia piccola Rama. Sono stati sepolti subito. Gli altri corpi sono stati estratti dalle macerie successivamente”. Salwa ricorda che la madre, rimasta vedova a 27 anni, aveva cominciato a ricamare per mantenere i figli e mandarli all’università. “Alla fine degli anni novanta, quando i miei figli erano piccoli e mia madre ebbe il permesso di venirci a trovare, le chiesi di restare con noi e lei rifiutò. Amava Gaza, la casa di Jabaliya, la vita nella grande famiglia che era lì, i legami affettivi con tutti i parenti e i vicini”. Nel suo libro del 2015 “La religio-politicizzazione del lutto nella società palestinese: genere, religione e nazionalità”, che tratta di famiglie palestinesi uccise dalle forze di sicurezza israeliane, Maram Massarwa, ricercatrice e docente dell’Al Qassemi college e dell’università di Tel Aviv, scrive: “L’islam considera un obbligo reli10 km

Mar Mediterraneo

Valico di Erez Beit Lahia Gaza

Striscia di Gaza (PALESTINA) Deir al Balah

Wadi Gaza Maghazi

Khan Yunis Rafah

EGITTO

Valico di Rafah

ISRAELE

gioso il sostegno sociale e comunitario nei momenti di lutto, come la partecipazione ai funerali e il conforto”. Soprattutto quando si tratta di una morte violenta nel contesto dell’occupazione, “questi rituali hanno un ruolo nel fornire supporto e nell’esprimere una solidarietà sociale ed emotiva. Contribuiscono alla stabilità e a un senso di sicurezza attraverso la rappresentazione simbolica della perdita”. Ma oggi, quando ogni giorno sono uccise tante persone, quando dieci chilometri diventano una distanza troppo grande a causa dei bombardamenti e le cattive notizie arrivano a volte solo dopo giorni, i vivi non possono dire addio ai morti. Di fronte alla morte di massa quotidiana gli abitanti di Gaza “non riescono a sperimentare i processi umani universali della perdita e del lutto”, dichiara Massarwa a Haaretz. “Non passano attraverso l’elaborazione del lutto né personalmente né collettivamente. Questo trauma collettivo, ripetuto di continuo, non permette di cominciare a piangere per qualcuno che già si annuncia un’altra morte. Non appena si comincia ad accettarla, ne arriva un’altra. Si crea un’inflazione di perdite e di lutti. Questa realtà è emotivamente estenuante”. Massarwa concorda con l’affermazione di un abitante della città di Gaza, secondo il quale le persone sono diventate insensibili alla morte che le circonda, e alla loro stessa morte.

Modalità sopravvivenza Come Ghanim, anche Massarwa ritiene che la portata delle uccisioni a Gaza costituisca “una situazione inedita per i palestinesi. Nonostante tutte le perdite che la società palestinese ha vissuto per generazioni, il numero di vittime oggi è inconcepibile sia numericamente sia in termini del trauma della morte”. La ricercatrice osserva che “il sostegno sociale e familiare del passato – materiale, emotivo o simbolico – oggi è quasi inesistente. Le persone sono in una modalità di sopravvivenza, accompagnate da un costante terrore esistenziale. Non hanno da mangiare, non dormono, non hanno coperte né acqua potabile. Questa esperienza le lascia sole dentro il trauma”. Anche Rafiq (uno pseudonimo) vive a Ramallah. Fa parte di una famiglia cristiana che vive nella città di Gaza da cinquecento anni. Tredici persone della sua famiglia allargata sono state uccise il 19 Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Attualità ottobre, quando una bomba ha colpito il complesso della chiesa greco-ortodossa di San Porfirio, dove avevano trovato riparo cristiani e musulmani sfollati. Rafiq non conosceva i nipoti che sono morti. Sente nelle sue ossa il dolore dei loro padri sopravvissuti. La vecchia casa di famiglia si trova nel quartiere di Zeitoun, che era il cuore della città. “Tutte le chiese di Gaza sono a Zeitoun”, racconta Rafiq. “Se non sono già state distrutte, lo saranno presto. Mi sento un uomo senza storia. Conoscevo ogni angolo e albero di Gaza. Ora non è rimasto niente: né luoghi né persone”.

Ferite emotive Il 27 dicembre, quando il ministero della sanità di Gaza ha dichiarato che il bilancio delle vittime nella Striscia aveva raggiunto i 21.110 morti (senza contare le migliaia di persone disperse), le famiglie che avevano avuto varie vittime erano 1.779. Una di queste è la famiglia Al Mughrabi. Il 22 dicembre un bombardamento israeliano su un edificio nella città di Gaza ha ucciso Issam al Mughrabi, 56 anni, dipendente del programma di sviluppo dell’Onu, sua moglie Lamia, 53 anni, le loro due figlie, i due figli e una nuora. Sono stati uccisi anche tra cinquanta e sessanta componenti della famiglia allargata. Decine di persone appartenenti alle stesse famiglie sono state uccise anche nel campo profughi di Maghazi, nel centro della Striscia. Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre sono state colpite quattro case. Senza lampioni, con il buio trafitto solo dalle torce dei cellulari, i vicini e i volontari delle squadre di soccorso hanno provato a districare i vivi dai mucchi di cemento. Le vittime appartenevano alle famiglie Ghaban, Abu Rahma, Al Nawasra, Abu Hamida, Masem, Qandil e Abu Awwad. In ogni casa c’erano anche parenti sfollati dal nord (in seguito l’esercito ha ammesso che il bombardamento è stato commesso per errore, e ha dichiarato di essere dispiaciuto). I feriti sono stati portati all’ospedale Al Aqsa di Deir al Balah. Anche le strade erano state bombardate e questo ha ostacolato le ambulanze. I video mostrano le solite immagini: cadaveri avvolti in teli bianchi stesi uno accanto all’altro nel piazzale davanti all’ospedale. Abdel Latif al Haj, un chirurgo che è anche direttore del ministero della sanità di Gaza, recentemente è andato a lavora-

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Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

re all’ospedale di Deir al Balah. Fino a un mese fa era all’ospedale Nasser a Khan Yunis. Era lì il 21 novembre in un turno senza fine, quando un aereo israeliano ha sganciato una bomba sulla sua casa nel campo di Nuseirat, piena di parenti sfollati dal nord della Striscia. Il bombardamento ha ucciso il suo figlio maggiore, Majd, un ingegnere informatico di 32 anni, la moglie Amani e il loro neonato; sua figlia Dima, impiegata dell’Organizzazione mondiale della sanità, il marito Mohammed e il loro figlio di cinque mesi; suo figlio Omar, 17 anni; la sorella Fadwa, 52 anni, e i suoi due figli di 17 e 18 anni. Altri 34 parenti rifugiati nella casa sono stati uccisi: quattro generazioni di una famiglia delle comunità palestinesi di Kawkaba, Iraq Suwaydan e Majdal, spopolate nel 1948, sono state cancellate. La moglie di Al Haj, la figlia di 22 anni e due nipoti, un bambino di nove anni e una neonata di due settimane, che hanno perso i genitori, sono stati estratti vivi dalle macerie. Hanno subìto contusioni, fratture ed emorragie e oggi si stanno riprendendo dalle ferite al corpo in casa di altri parenti. Inutile sprecare parole sulle ferite emotive. E questi sono i nomi dei diciassette nipoti e pronipoti morti nel bombardamento: Sari, quattro mesi; Abd al Hakim, cinque mesi; Sara, 14 mesi; Siwar, due anni; Yahya, quattro anni; Leen e Wasim, sei; Mohammed, sette; Adam, nove; Adnan, Kanan e Ismail, dieci; Liyan, 13; Lubda e Izz al Din, 14; Misk, 15; e Zayn, 16. “La famiglia era ed è la base strategica della società palestinese, in una situazione in cui lo stato non c’è, oppure non opera e non funziona per le persone”, dice Ghanim. “Quando subisci un regime di occupazione la famiglia è un meccanismo di supporto. Ora che tante famiglie sono state annientate il supporto sociale si affievolisce. Si crea una situazione di perdita del contesto. Tutto è andato perduto: la casa, i legami sociali, le persone che costruiscono un futuro e ricordano i morti. Non c’è più nessuno a raccontare la storia dell’esilio. La Palestina esiste in uno spazio immaginato, e quando scompaiono tante persone scompare anche quello spazio”. u fdl Amira Hass è una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, e scrive per il quotidiano Haaretz.

Le ultime notizie

Un’uccisione a Beirut u Il 2 gennaio 2024 a Beirut, in Libano, un drone attribuito a Israele ha ucciso Saleh al Arouri, un leader politico di Hamas. Israele non ha confermato né negato l’accaduto, ma un portavoce del governo ha parlato di “un attacco chirurgico contro la leadership di Hamas”. u Il 1 gennaio il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari ha dichiarato che le truppe si preparano a “combattimenti prolungati” nella Striscia di Gaza, che dureranno “tutto l’anno”. Hagari ha anche precisato che migliaia di soldati saranno temporaneamente ritirati dal territorio palestinese facendo riferimento alle ripercussioni della mobilitazione militare sull’economia del paese. L’epicentro delle operazioni dell’esercito è Khan Yunis, la città principale del sud della Striscia, ma tra il 1 e il 2 gennaio sono stati bombardati anche Rafah, al confine con l’Egitto, e i dintorni del campo profughi di Jabaliya, a nord. Il 2 gennaio il ministero della sanità di Hamas ha annunciato un nuovo bilancio: dal 7 ottobre le operazioni militari israeliane hanno causato 22.185 morti e 57.035 feriti nella Striscia di Gaza. u Il 1 gennaio l’ong israeliana Yesh Din ha annunciato che le azioni violente dei coloni israeliani contro i palestinesi in Cisgiordania hanno registrato un record nel 2023 e hanno causato almeno dieci morti. L’ufficio dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) ha denunciato 1.225 attacchi di coloni contro i palestinesi nel 2023, anno durante il quale secondo l’Autorità nazionale palestinese l’esercito e i coloni israeliani hanno ucciso almeno 317 palestinesi. u Una dichiarazione del ministero della difesa siriano il 30 dicembre 2023 ha accusato Israele di aver colpito una postazione militare iraniana ad Aleppo, in Siria. Tre giorni dopo sono stati presi di mira obiettivi militari vicino a Damasco. u Il 29 dicembre il Sudafrica si è rivolto alla Corte internazionale di giustizia accusando Israele di commettere “azioni di genocidio” nella Striscia di Gaza. Afp, Bbc

Africa e Medio Oriente I giudici della corte suprema a Gerusalemme, il 28 settembre 2023

te, non può, approvando o modificando una legge fondamentale, alterare il carattere di Israele come stato ebraico e democratico. Il giudice Yosef Elron ha scritto che la knesset non può danneggiare i diritti individuali fondamentali, sostenendo così i princìpi della democrazia israeliana.

MENAHEM KAHANA (REUTERS/CONTRASTO)

Un segnale chiaro

ISRAELE

La corte suprema boccia la riforma della giustizia Jeremy Sharon, The Times of Israel, Israele La sentenza che respinge una norma fondamentale della riforma voluta dal governo di Benjamin Netanyahu tutela i cittadini e mette un limite al potere della maggioranza a sentenza del 1 gennaio con cui la corte suprema ha bocciato la legge voluta dal governo per ostacolare l’uso della cosiddetta clausola della ragionevolezza (in base al quale i giudici possono abolire un provvedimento considerato irragionevole) passerà alla storia non perché ha bloccato una norma discutibile, ma perché rafforza il principio dell’inviolabilità della democrazia israeliana. Dopo il più clamoroso braccio di ferro tra governo e magistratura nella storia del paese, i giudici hanno stabilito che la knesset (il parlamento) non è onnipotente, che il governo deve essere soggetto a vincoli esterni e che una maggioranza politica ristretta non può minacciare i diritti degli individui e delle minoranze. I giudici, liberali e conservatori,

L

hanno insistito sul fatto che le passioni popolari di cui le coalizioni di governo, spesso precarie, sono un riflesso devono essere sottoposte a un controllo giudiziario, anche quando si tratta dell’assetto costituzionale di Israele. È la prima volta che la corte suprema revoca un aspetto di una delle 14 leggi fondamentali che fungono da costituzione in Israele. In apparenza, la sentenza si presenta come una vittoria di misura per una corte divisa, con solo otto giudici liberali a favore e sette conservatori contrari. Ma in realtà tredici giudici hanno scritto che, contrariamente alle affermazioni del governo e dei suoi esponenti più radicali, la corte ha l’autorità di annullare le leggi fondamentali di Israele in alcune circostanze. Infatti, cinque dei sette giudici che hanno votato contro erano comunque dell’opinione che la possibilità della knesset di formulare ed emendare le leggi fondamentali di Israele non equivale a un lasciapassare per cambiarle, annullarle o stravolgerle. I giudici hanno appoggiato la dottrina dell’ex presidente della corte Esther Hayut, da poco andata in pensione, secondo cui la knesset, per quanto poten-

Sullo sfondo della lotta titanica dei primi nove mesi del 2023 tra il governo e la magistratura, la sentenza rappresenta un’enorme vittoria per chi sosteneva che la riforma della giustizia fosse pericolosa e andasse fermata. Secondo molti studiosi il pacchetto di leggi presentato un anno fa – pochi giorni dopo l’insediamento della coalizione guidata da Benjamin Netanyahu – rappresentava un attacco al sistema giudiziario e la sua approvazione avrebbe danneggiato mortalmente le fondamenta liberaldemocratiche di Israele. Le leggi per dare al governo il controllo quasi totale sulle nomine giudiziarie e per annullare il controllo della magistratura sulle leggi approvate in parlamento sono state fermate solo dalle proteste che si sono sollevate contro il governo. La sentenza implica che la democrazia israeliana non dipende solo dalle motivazioni dei cittadini o dai capricci di chi è al potere, ma che esiste una protezione nella forma della corte suprema che non permetterà ai poteri esecutivo e legislativo di calpestare facilmente i princìpi democratici fondamentali del paese. Per quanto riguarda la clausola della ragionevolezza, la ristretta maggioranza di otto a sette è meno significativa, soprattutto alla luce del ritiro di Hayut e della giudice Anat Baron. In effetti, se il governo ripresentasse la stessa legge, ci sarebbe una maggioranza per sostenerla. C’erano altre opzioni, tra cui il rinvio alla knesset per abolire la clausola o limitarne la portata. Questo avrebbe comunque affermato l’autorità della corte di controllare le leggi fondamentali, anche se in modo parziale. In ogni caso, la decisione ha dato un chiaro segnale al governo e ai posteri: la corte suprema non rimarrà in silenzio mentre una ristretta maggioranza politica cerca di rimodellare la natura fondamentale dei valori democratici di Israele. La corte ha affrontato il governo nella più grande crisi costituzionale del paese e ha dichiarato: “C’è un limite al potere della maggioranza”. u dl Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Africa e Medio Oriente IZETTIN KASIM (ANADOLU/GETTY)

Idlib, Siria, novembre 2023

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JUSTIN MAKANGARA (REUTERS/CONTRASTO)

Dal 1 gennaio il programma alimentare mondiale (Pam) ha interrotto la distribuzione degli aiuti alla popolazione siriana, a causa della mancanza di fondi. L’agenzia delle Nazioni Unite l’aveva annunciato all’inizio di dicembre e già dall’estate scorsa aveva dimezzato il numero dei beneficiari, passati da 5,6 a tre milioni. Con la fine degli aiuti alimentari “si può dire che i siriani vanno verso un nuovo periodo di fame, se non di carestia”, ha scritto la giornalista siriana Manahel al Sahawi sul sito libanese Daraj.

Almeno 103 persone sono morte e 141 sono rimaste ferite in un attentato compiuto il 3 gennaio a Kerman, nel sud dell’Iran, vicino alla tomba del generale iraniano Qassem Soleimani, in occasione del quarto anniversario della sua morte. Una folla composta da rappresentanti del regime e cittadini si era radunata nei dintorni della moschea Saheb al Zaman per una cerimonia commemorativa, scrive Tehran Times. Soleimani, considerato il coordinatore delle operazioni militari iraniane in Medio Oriente, era stato ucciso il 3 gennaio 2020 nell’attacco di un drone statunitense in Iraq.

Tensioni nel Corno d’Africa

Un Natale di violenze

The East African, Kenya

Nello stato di Plateau, nella Nigeria centrale, gli attacchi compiuti tra il 23 e il 25 dicembre contro una ventina di villaggi hanno causato più di 160 morti e costretto seimila persone ad abbandonare le loro case, scrive il quotidiano Daily Trust. Le aggressioni, attribuite alla comunità degli allevatori nomadi di etnia fulani, hanno colpito i coltivatori stanziali. Secondo la radio Deutsche Welle, le divisioni tra i due gruppi avevano già causato altre violenze nel 2023 e continuano a inasprirsi per via della competizione per la terra, delle strumentalizzazioni politiche e della disinformazione diffusa sui social network. Il governo ha promesso di “fare giustizia” ma la situazione sta assumendo i contorni di un’emergenza umanitaria.

Kinshasa, 31 dicembre 2023

RDC

Il presidente dovrà fare di più Félix Tshisekedi, presidente uscente della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), ha ottenuto più del 73 per cento dei voti alle presidenziali del 20 dicembre 2023. I risultati, ancora provvisori, sono stati annunciati dalla commissione elettorale il

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31 dicembre, ma sono già stati contestati dai leader dell’opposizione. Saranno convalidati dopo che la corte costituzionale avrà esaminato tutti i ricorsi. Durante il voto sono stati denunciati vari tipi di irregolarità, atti di violenza e vandalismo. Si calcola inoltre che undicimila seggi siano rimasti chiusi (su un totale di 75mila). In ogni caso, fa notare il giornale filogovernativo Le Phare, Tshisekedi ha ottenuto una vittoria schiacciante di fronte a un’opposizione divisa, il cui candidato di punta, Moise Katumbi, ha ottenuto solo il 18 per cento dei voti. Il messaggio degli elettori è chiaro, scrive Aujourd’hui au Faso: nel suo secondo mandato, Tshisekedi “dovrà fare di meglio” e affrontare una volta per tutte i mali che affliggono il paese.

Johannesburg, agosto 2023 ALET PRETORIUS (REUTERS/CONTRASTO)

SIRIA

Anniversario con attentato

NIGERIA

Il 2023 “è stato un brutto anno per l’Etiopia”, scrive The East African, commentando la notizia che Addis Abeba non ha pagato 33 milioni di dollari d’interessi su un’obbligazione decennale da un miliardo di dollari. Insieme a Zambia e Ghana, l’Etiopia è il terzo paese insolvente in Africa da quando è scoppiata la pandemia di covid-19. Oltre alle difficoltà finanziarie, la crescita etiope è stata ostacolata dalla grave siccità e dall’instabilità che caratterizza il paese, anche dopo l’accordo che ha messo fine al conflitto tra il governo e i ribelli tigrini. Secondo il settimanale, la fine della guerra nel Tigrai potrebbe averne alimentata un’altra nella regione Amhara, dove alcune milizie rifiutano il disarmo. Il 2 gennaio ci sono state nuove tensioni anche con la vicina Somalia, che ha richiamato il suo ambasciatore in Etiopia per consultazioni. All’origine della disputa c’è l’annuncio di un’intesa tra Etiopia e Somaliland (un territorio del nord della Somalia proclamatosi indipendente nel 1991) con cui Addis Abeba ottiene l’accesso al mar Rosso, in cambio del riconoscimento dell’indipendenza della regione. ◆

Il rischio della fame

IRAN

ETIOPIA

IN BREVE

Economia Il 1 gennaio altri cinque paesi sono entrati nel gruppo delle economie emergenti Brics (nella foto, il vertice del 2023): Egitto, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Etiopia. L’organizzazione è stata creata nel 2006 da Brasile, Russia, India e Cina, e ha accolto il Sudafrica nel 2010. Arabia Saudita Le condanne a morte eseguite nel 2023 sono state 170, contro le 147 del 2022. Sudafrica È morto a 91 anni Peter Magubane, fotografo che con le sue immagini denunciò la brutalità dell’apartheid.

Europa ENS KALAENE (PICTURE-ALLIANCE/AP/LAPRESSE)

SPAZIO SCHENGEN

Compromesso accettabile La Romania e la Bulgaria entreranno nello spazio Schengen il 31 marzo 2024. Ma solo parzialmente: i controlli di confine con gli altri paesi dell’Unione europea saranno infatti annullati solo alle frontiere aeree e marittime. Questa soluzione di compromesso, che rimanda a data da definire il pieno ingresso dei due paesi nello spazio di libera circolazione, è arrivata dopo dodici anni di negoziati e in seguito al superamento del veto dell’Austria. “In un altro momento”, scrive il bulgaro Club Z, “l’accordo sarebbe stato considerato un fallimento. Ma considerata la vicinanza della Bul-

FRANCIA

Chi difende Depardieu

Paesi dell’area Schengen Paesi parzialmente dell’area Schengen

SERBIA

In piazza dopo il voto

DANIMARCA

Fine di un regno La regina Margrethe II, 83 anni, ha annunciato nel suo discorso di capodanno che abdicherà il 14 gennaio. La corona passerà al figlio maggiore, il principe Frederik, 55 anni. Margrethe è sul trono da 52 anni ed è l’ultima regina in Europa dopo la morte di Elisabetta II, sua cugina di terzo grado. Vedova dal 2018 di un diplomatico francese, è molto amata dai danesi. Non è stata annunciata la data dell’insediamento del nuovo re, ma secondo Politiken “non ci sarà alcuna cerimonia di incoronazione come quella avvenuta nel Regno Unito, con l’unzione, lo scettro e la pesante corona. In Danimarca la tradizione dell’unzione e dell’incoronazione si è interrotta nel 1849 quando è stata approvata la costituzione”.

La protesta a Belgrado, 30 dicembre 2023

La protesta dei medici Dal 3 gennaio è in corso uno sciopero di sei giorni dei junior doctors (più o meno equivalenti agli specializzandi in Italia): è il più lungo nella storia del sistema sanitario britannico. Negli ultimi mesi le proteste dei junior doctors si sono intensificate a causa dell’assenza di un accordo con il governo per adeguare gli stipendi all’inflazione. Nel Regno Unito i medici specializzandi sono quasi settantamila e le loro giornate di sciopero hanno portato finora alla riprogrammazione di quasi un milione di appuntamenti e interventi, scrive il Guardian.

MARKO DJURICA (REUTERS/CONTRASTO)

REGNO UNITO

Margrethe II di Danimarca

IN BREVE

La vittoria del partito del presidente Aleksandar Vučić alle elezioni legislative anticipate del 17 dicembre 2023 in Serbia ha innescato una serie di proteste culminate in un grande corteo il 30 dicembre a Belgrado. Le opposizioni accusano Vučić e il suo Partito progressista serbo (Sns, populista e nazionalista) di aver manipolato il processo elettorale e di aver “rubato la vittoria”. Alla corte costituzionale chiedono quindi l’annullamento del voto e nuove elezioni. Nel frattempo, racconta Deutsche Welle, il 1 gennaio il voto è stato ripetuto in più di trenta seggi dove c’erano state irregolarità e brogli. Anche in questo caso la vittoria è andata all’Sns. u

Russia L’oppositore Aleksej Navalnyj, di cui a dicembre si erano perse le tracce per tre settimane, è stato trasferito in una colonia penale oltre il circolo polare artico. Turchia Trentaquattro persone sono state arrestate con l’accusa di spionaggio e pianificazione di rapimenti per conto dei servizi segreti israeliani. Spagna Jenni Hermoso, giocatrice della nazionale spagnola di calcio femminile, ha dichiarato in tribunale che il bacio ricevuto dall’ex presidente della federazione spagnola di calcio Luis Rubiales non era consensuale.

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KELD NAVNTOFT (RITZAU SCANPIX/AFP/GETTY IMAGES)

Il 25 dicembre il quotidiano Le Figaro ha pubblicato un appello contro il presunto “linciaggio” in corso nei confronti di Gérard Depardieu (nella foto). In sua difesa è intervenuto anche il presidente Emmanuel Macron. In un documentario su Depardieu trasmesso sul canale televisivo France 2 il 7 dicembre si sentivano alcune sue frasi sessiste rivolte a delle ragazze. Il 16 dicembre 2020 l’attore era stato accusato di stupro e violenza sessuale da una giovane attrice. Da allora, altre quindici donne lo hanno denunciato per molestie.

garia alle due guerre in corso e l’avanzata del populismo in Europa, questo compromesso è un’opportunità a cui non potevamo rinunciare”. Intanto, dal 1 gennaio 2024, è in vigore il regime di liberalizzazione dei visti tra l’Unione europea e il Kosovo: per entrare in Europa ai cittadini dell’ex provincia autonoma jugoslava sarà sufficiente il passaporto.

Europa

REUTERS/CONTRASTO

Belgorod, Russia, 30 dicembre 2023

UCRAINA

La strategia delle bombe Gerhard Gnauck e Reinhard Veser, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Germania Le continue offensive russe sugli obiettivi civili ucraini. La ritorsione di Kiev contro la città di Belgorod. L’ultima settimana è stata segnata dagli attacchi più violenti dall’inizio della guerra er una volta sembra che Dmitrij Peskov, il portavoce di Vladimir Putin, sia stato sincero. “Non è vero”: con queste parole ha respinto le voci secondo cui il presidente russo avrebbe registrato una seconda versione del suo discorso di fine anno dopo il bombardamento del 30 dicembre contro la città russa di Belgorod. Alcuni canali Telegram e siti internet avevano riportato che, nel suo intervento, Putin avrebbe parlato degli attacchi missilistici contro Belgorod, a cinquanta chilometri dal confine ucraino. Si è trattato dell’attacco di gran lunga più pesante, e con le conseguenze più gravi, tra quelli sferrati finora dall’Ucraina in territorio russo. In realtà, il presidente ha parlato

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Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

della guerra in Ucraina in modo indiretto, senza pronunciare il nome del paese aggredito e senza fare riferimento all’“operazione militare speciale”, come il conflitto è ufficialmente chiamato in Russia. Solo a metà dei quattro minuti del suo discorso il presidente ha ricordato che il paese è in guerra: “Oggi voglio rivolgermi ai nostri soldati, a tutti quelli che combattono in prima linea nella lotta per la verità e la giustizia: siete i nostri eroi”. Al di là di questa frase, ha fatto vaghi giri di parole: i russi, ha detto Putin, “sono profondamente consapevoli della grandissima importanza della fase storica che il paese sta attraversando”. L’attacco a Belgorod è scomparso in fretta anche dalle prime pagine dei giornali controllati dal Cremlino. È vero che molte città hanno annullato i festeggiamenti pubblici per il capodanno, ma solo pochi politici russi hanno commentato la vicenda. La reazione di Mosca più decisa è stata la richiesta di una seduta straordinaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, convocata a New York il 31 dicembre. In quell’occasione, l’ambascia-

tore russo ha dato la colpa dell’“attacco terroristico” contro Belgorod a Stati Uniti, Unione europea e Regno Unito. In Russia deputati e mezzi d’informazione di stato hanno definito l’attacco una provocazione di Kiev, decisa a colpire i civili e a seminare l’odio. Secondo la propaganda russa, in Ucraina le forze russe attaccano esclusivamente obiettivi militari, cosa che però non corrisponde assolutamente al vero: dall’inizio dell’invasione, l’esercito russo ha regolarmente colpito obiettivi civili come edifici residenziali, ospedali, centri commerciali, centrali elettriche e perfino chiese. Nella notte tra il 28 e il 29 dicembre, in uno dei più vasti attacchi mai sferrati fino a questo momento, sono state colpite diverse città in tutta l’Ucraina. Stando ai dati ufficiali, negli attacchi sono rimaste uccise almeno 41 persone. La leadership ucraina non ha rilasciato commenti ufficiali su Belgorod, come avviene per tutti gli attacchi in territorio russo. Tuttavia, riferiscono le trasmissioni in lingua russa della Bbc, secondo alcune fonti interne ai servizi segreti ucraini l’attacco a Belgorod sarebbe una ritorsione per i bombardamenti del 29 dicembre sui centri abitati ucraini. Sempre stando a ciò che riporta la Bbc, a Belgorod l’Ucraina avrebbe preso di mira esclusivamente infrastrutture militari, e il fatto che ci siano state vittime civili sarebbe da imputare unicamente agli “errori e all’imperizia della contraerea russa”. Nel fine settimana, la Russia ha bombardato diversi obiettivi civili in tutta l’Ucraina, soprattutto nella regione di Charkiv, nel nordest del paese, ma anche a Odessa, a sud, e a Leopoli, a ovest. A Charkiv è stato colpito anche un hotel del centro spesso usato dai giornalisti. Nel bombardamento sono rimasti feriti due collaboratori della tv tedesca Zdf. Il ministero della difesa russo ha fatto sapere che l’attacco all’albergo era mirato: Mosca sostiene che nella struttura ci fossero “mercenari stranieri” e agenti dei servizi segreti ucraini implicati nell’attacco a Belgorod.

Un paese più forte Neanche il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj ha nominato esplicitamente gli avvenimenti recenti nel suo discorso di fine anno. Si è limitato a celebrare la forza degli ucraini e la loro volontà di combattere, che si manifesta tanto al fronte quanto

nello sforzo per tenere in piedi le infrastrutture e l’economia. “Purtroppo la guerra ha spaccato le famiglie, portando via ai genitori i figli e le figlie. Allo stesso tempo, però, ci ha uniti, rendendoci un’unica grande famiglia. E questo è il momento di rimanere uniti”. Nella “lotta per il nostro paese, per la nostra libertà e per la nostra vita”, ha continuato Zelenskyj, l’Ucraina è diventata più solida. Lo stesso hanno fatto i suoi cittadini, che oggi sono più forti “dei blocchi e dei veti, dei dubbi e dello scetticismo” dei paesi occidentali, ha osservato il presidente ucraino, riferendosi al fatto che alcuni partner stranieri sono sempre meno disponibili ad aiutare l’Ucraina. Con l’avvio dei negoziati per l’adesione all’Unione europea, Kiev ha ottenuto una “vittoria storica” che presto porterà alla “piena adesione a un’Europa forte, che si estenderà da Lisbona a Luhansk”. Zelenskyj ha poi ringraziato tutti i cittadini che “hanno lavorato, combattuto o fatto donazioni” per la causa ucraina, sottolineando che, nella lotta contro lo stato russo, “la più grande organizzazione terroristica del mondo”, i soldati non hanno “ceduto un solo chilometro della nostra libertà”. E ha esortato la popolazione a continuare a combattere: “La vittoria non ce la regalerà nessuno, bisogna conquistarla sul campo”. Al termine del discorso, Zelenskyj ha ringraziato anche i sostenitori dell’Ucraina e ha detto che nel 2024 la fabbricazione di armi sul territorio nazionale, con la produzione di “almeno un milione di droni Fpv” (first person view, pilotabili a distanza attraverso una telecamera), avrà un ruolo chiave nel determinare il corso della guerra. ◆ sk

Da sapere Missili e droni

◆ Il 2 gennaio 2024 la Russia ha attaccato con missili e droni varie città ucraine, tra cui la capitale Kiev, la città nordorientale di Charkiv e la regione di Zaporižžja: almeno cinque persone sono morte e altre 130 sono rimaste ferite. Il 29 dicembre 2023 Mosca aveva lanciato uno dei più pesanti bombardamenti dall’inizio della guerra, colpendo Kiev, Odessa, Dnipro, Charkiv e Leopoli e uccidendo 41 persone. Il 3 gennaio, il Cremlino ha affermato di aver abbattuto una decina di missili ucraini diretti contro la città russa di Belgorod, dove il 30 dicembre 24 persone erano morte in un precedente attacco missilistico ucraino. Reuters

Dall’Ucraina

Una giornata di paura A. Query, O. Zaško e I. Hromotska, The Kyiv Independent, Ucraina L’offensiva russa del 29 dicembre 2023 nel racconto degli abitanti di Kiev a mattina del 29 dicembre dense colonne di fumo si innalzavano nel cielo di Kiev. Secondo il ministro dell’interno ucraino Ihor Klymenko l’esercito russo ha colpito in tre punti della capitale e ha effettuato 158 attacchi con droni e missili in tutto il paese. È una delle più grandi operazioni aeree dall’inizio dell’invasione, nel febbraio 2022. L’aeronautica di Kiev sostiene di aver abbattuto 114 dei 158 droni e missili lanciati dalla Russia. Oltre che a Kiev, ci sono state vittime anche a Leopoli, Dnipro, Zaporižžja, Odessa, Charkiv. Il bilancio complessivo degli attacchi del 29 dicembre è di 41 morti e 160 feriti. “Sono stato fortunato”, dice al Kyiv Independent Oleksandr Lytvyn, autista di 32 anni sfuggito alle bombe a pochi metri da un magazzino in fiamme. Altri hanno avuto una sorte peggiore. Poco prima l’amministrazione comunale di Kiev aveva comunicato che dieci persone erano rimaste intrappolate sotto le macerie. Otto sono state salvate. Gli attacchi hanno danneggiato diversi palazzi residenziali, negozi e una stazione del métro. Fuori della capitale le forze russe hanno colpito alcuni grattacieli, una scuola, un centro commerciale, un ospedale e altre strutture civili. Il portavoce dell’aeronautica Jurij Ihnat ha dichiarato che un attacco di simile portata “non si vedeva da tempo”, aggiungendo che l’esercito russo ha usato ogni tipo di missile a sua disposizione, eccetto i Kalibr. La difesa ucraina ha abbattuto più di trenta missili lanciati su Kiev. Secondo lo stato maggiore, i russi hanno anche cercato di distruggere infrastrutture militari e industriali. Jevhen Čyževsky, un quarantenne impiegato nel magazzino colpito, ha saputo dell’attacco mentre andava al lavoro:

L

“Sono arrivato e ho trovato tutto in fiamme. Ma i miei colleghi sono vivi e questo è l’importante”. “Era tutto normale. E poi, bum!”, dice Čyževsky, osservando lo scheletro carbonizzato dell’edificio. “I macellai ci hanno augurato buon anno”. Nel distretto di Lukjanivka gli operai sono già al lavoro per sostituire i vetri infranti con pannelli di legno. Olena, residente del quartiere, ha visto i missili da vicino. “Ero alla finestra. Mi sono passati davanti agli occhi”, racconta. “Erano due, uno dopo l’altro. C’è stato un rumore fortissimo”. Miracolosamente, le finestre di casa sono rimaste intatte, ma la porta è stata divelta. Olena non usa mezzi termini per esprimere i suoi sentimenti verso i russi: “Pezzi di merda. Onestamente non riesco a trovare le parole per descrivere cosa penso di loro”, dice. “Dobbiamo colpire il Cremlino e Mosca. Forse allora le cose cambieranno”. Lina Vasylivna, che ha 66 anni e fa la portiera a pochi passi da dove è avvenuto l’attacco, ha insistito affinché pubblicassimo il suo nome e patronimico. Davanti ai missili che hanno colpito Lukjanivka non si è scomposta. Si è ferita alle mani nel tentativo di rimuovere i vetri dalla strada. “Vivo al quattordicesimo piano. Nei rifugi non ci vado più”, racconta. Olena e altre vittime degli attacchi russi su Kiev hanno ricordato anche i bombardamenti sulle altre città ucraine. A Dnipro, dove i russi hanno colpito un centro commerciale e un ospedale, sono morte sei persone, tra cui un bambino e un agente di polizia. I feriti sono stati 28. Anche se il bilancio è meno grave di quello di Kiev, a Dnipro la paura e l’angoscia seguite all’attacco contro un ospedale sono state più forti. “Quando il missile russo ha colpito l’edifico, nel reparto maternità c’erano dodici donne in travaglio e quattro neonati”, ha detto il governatore Serhij Lysak. Gli infermieri e i pazienti si sono messi al riparo appena hanno sentito le sirene. A quanto pare nell’ospedale non ci sono state vittime. ◆ as Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Americhe STATI UNITI

Trump costringe a studiare la costituzione Jan Wolfe, The Wall Street Journal, Stati Uniti In che caso si può parlare di insurrezione contro gli Stati Uniti? Fino a dove arriva l’immunità di un ex presidente? Le accuse contro Donald Trump fanno discutere giuristi e politici l tentativo di Donald Trump di tornare alla Casa Bianca sta costringendo molti giudici statunitensi, compresi quelli della corte suprema, ad affrontare questioni giuridiche e costituzionali che per decenni hanno interessato solo i circoli accademici, e che invece potrebbero avere conseguenze enormi in questa fase storica. Un primo esempio: quando si può parlare di insurrezione contro gli Stati Uniti? Tutto ruota intorno alla terza sezione del 14° emendamento della costituzione, ratificata poco dopo la guerra civile, combattuta dal 1861 al 1865 tra il sud schiavista e il nord antischiavista. La sezione stabilisce che non può ricoprire incarichi pubblici chi è stato coinvolto in insurrezioni o rivolte contro lo stato dopo aver ANGELA WEISS (AFP/GETTY)

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giurato sulla costituzione. Fu introdotta per impedire ai funzionari della confederazione sudista di tornare al potere. L’ultima volta che il congresso la usò fu nel 1919, per impedire l’insediamento di Victor Berger, un socialista accusato di aver aiutato la Germania durante la prima guerra mondiale. Se ne è ricominciato a parlare nel 2022, dopo che un tribunale statale del New Mexico l’ha invocata per rimuovere dall’incarico un commissario di contea che aveva partecipato all’assalto al congresso del 6 gennaio 2021. Da allora molti gruppi di sinistra, sostenuti dai conservatori moderati, hanno presentato una serie di esposti nei tribunali di tutto il paese sostenendo che l’ex presidente non può candidarsi alle elezioni, visto che il 6 gennaio del 2021 ha incoraggiato i suoi sostenitori alla rivolta. Dopo una serie di sconfitte, i querelanti hanno ottenuto una vittoria sorprendente il 19 dicembre 2023, quando la corte suprema del Colorado ha stabilito che Trump non può partecipare alle primarie del Partito repubblicano nello stato a causa dei suoi sforzi per ribaltare il

Donald Trump a New York, il 9 dicembre 2023

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risultato delle elezioni del 2020. Pochi giorni dopo la segretaria di stato del Maine, la massima autorità elettorale in quello stato, ha deciso che Trump non può candidarsi alle primarie, mentre la corte suprema del Michigan ha stabilito il contrario. La questione dovrà quindi essere risolta dalla corte suprema federale. Trump sosterrà che la terza sezione del 14° emendamento si riferisce esplicitamente ai parlamentari, ai grandi elettori (i delegati statali che sono scelti dai votanti e poi nominano il presidente) e in generale ai “funzionari degli Stati Uniti”, e non si applica invece ai presidenti. I giudici del principale organo della giustizia statunitense probabilmente si faranno anche un’altra domanda prima di raggiungere un verdetto: il fatto che sia un tribunale a stabilire chi può essere eletto presidente costituisce un sovvertimento della democrazia? Questa tesi è appoggiata dagli altri candidati alle primarie del Partito repubblicano.

Prigione o Casa Bianca Un’altra questione che finirà sotto l’esame dei giudici della corte suprema riguarda l’immunità presidenziale. Gli avvocati di Trump dicono che un politico non può essere processato per presunti reati commessi mentre era presidente. Trump è imputato in due processi – uno in un tribunale federale a Washington, l’altro in una corte statale della Georgia – per i suoi tentativi di restare al potere e sovvertire il risultato delle elezioni presidenziali. Nel 1982, nel caso Nixon contro Fitzgerald, la corte suprema stabilì che gli ex presidenti non possono essere processati per azioni compiute durante il mandato, purché queste azioni rientrino nel “perimetro allargato” dei loro compiti ufficiali. Nel processo a Washington gli avvocati di Trump hanno citato il precedente di Nixon per sostenere che il loro cliente non può essere perseguito penalmente. Sostengono che Trump si fosse limitato a chiedere che il processo elettorale fosse trasparente e che si stesse semplicemente esprimendo su questioni di pubblico interesse, una condotta che l’accusa starebbe manipolando per farla sembrare un comportamento criminale. Il 1 dicembre la giudice distrettuale Tanya Chutkan ha respinto le tesi degli avvocati di Trump, affermando che il pre-

Da sapere

Cominciano le primarie

ARGENTINA

Le riforme di Milei

Il 1 gennaio il governo cubano ha celebrato il 65° anniversario della rivoluzione. Insieme al presidente Miguel Díaz-Canel è riapparso Raúl Castro, che ha guidato il paese tra il 2008 e il 2018. Entrambi hanno messo l’accento sull’unità del popolo cubano, ma per l’isola “il 2024 comincia tra molte difficoltà”, scrive El País. “Nel 2023 il calo del pil tra l’1 e il 2 per cento ha aggravato la crisi economica. I cubani soffrono per la mancanza di beni di prima necessità come cibo e medicine. Il governo sostiene che la situazione è stata aggravata dall’inasprimento delle sanzioni statunitensi”.

Protesta contro Milei a Buenos Aires, 27 dicembre

Un mese dopo aver vinto le elezioni presidenziali in Argentina, alla fine di dicembre Javier Milei ha presentato un piano di riforme strutturali. “Si tratta di provvedimenti che, se approvati, trasformerebbero in diversi modi la politica e la società”, scrive La Nación. Milei vuole sostituire l’attuale sistema elettorale proporzionale con uno basato sui collegi uninominali, simile a quello in vigore negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Il presidente, da sempre su posizioni ultraliberiste in politica economica, vorrebbe anche privatizzare circa quaranta aziende statali, tra cui la compagnia petrolifera Ypf, quelle per il trasporto aereo e ferroviario, le aziende che gestiscono la rete idrica e il sistema postale e anche la banca centrale argentina. Il pacchetto di leggi inoltre aumenterebbe le pene per chi “dirige, organizza o coordina una riunione o una manifestazione che ostacola il traffico o il trasporto pubblico o privato”. Secondo molti commentatori, il partito del presidente non avrebbe i numeri in parlamento per far passare il pacchetto di riforme. u

STATI UNITI

Stabilmente violenti Nel 2023 negli Stati Uniti ci sono stati 656 mass shootings, sparatorie con almeno quattro vittime tra morti e feriti. “Il dato è stabile dal 2020, quando ci fu un aumento rispetto al periodo precedente”, scrive Time. Nel 2023 i morti per arma da fuoco sono stati 42.926, di cui 24.090 suicidi. Nel 2023 alcuni stati, tra cui California, Illinois e Colorado, hanno approvato leggi per ridurre la violenza causata dalle armi. La violenza causata dalle armi negli Stati Uniti nel 2023

Morti*

42.926

Feriti

36.322

Mass shootings**

656

*Di cui 24.090 suicidi **Sparatorie con almeno quattro vittime (feriti e morti)

STATI UNITI

Crisi migratoria al confine

FONTE: GUN VIOLENCE ARCHIVE

u Il 15 gennaio 2024 cominceranno in Iowa le primarie del Partito repubblicano per scegliere il candidato alle elezioni presidenziali del 5 novembre. Si concluderanno il 4 giugno con i voti di Montana, New Jersey, New Mexico e South Dakota. Ogni stato assegna un certo numero di delegati alla convention nazionale, che si terrà a luglio a Milwaukee, in Wisconsin. Ottiene la nomina il candidato che raccoglie almeno 1.234 delegati. L’ex presidente Donald Trump è nettamente favorito. I sondaggi lo danno in vantaggio in tutti gli stati su Nikki Haley, ex governatrice della South Carolina ed ex rappresentante degli Stati Uniti all’Onu, e su Ron DeSantis, attuale governatore della Florida. Secondo la maggior parte dei commentatori, i processi contro Trump – in particolare quello che dovrebbe cominciare a Washington il 4 marzo, in cui l’ex presidente è accusato di aver incoraggiato l’assalto al congresso il 6 gennaio 2021 – non dovrebbero avere un impatto sul voto. Buona parte dell’elettorato repubblicano crede infatti che i processi abbiano motivazioni politiche e che Joe Biden sia un presidente illegittimo. Reuters

CUBA

Inizio difficile

AUGUSTIN MARCARIAN

cedente di Nixon non garantisce agli ex presidenti l’immunità penale. “Gli Stati Uniti hanno solo un presidente per volta e questo ruolo non conferisce un salvacondotto per evitare la prigione in eterno”, ha scritto Chutkan. La giudice ha fissato l’inizio del processo per il 4 marzo 2024. C’è infine un’ultima questione sollevata dalle quattro incriminazioni contro l’ex presidente (Trump andrà a processo anche per i pagamenti all’attrice porno Stormy Daniels e per aver portato documenti riservati nella sua tenuta privata): cosa succede se una persona viene eletta presidente mentre è imputata in un processo penale? Durante un’udienza recente, Steve Sadow, primo avvocato di Trump nel processo in Georgia, ha detto che in un caso simile il procedimento dovrebbe essere sospeso fino al termine del mandato. Questa opinione sembra essere condivisa dalla maggior parte dei costituzionalisti. Ma non significa che la discussione non arriverà alla corte suprema e che non ci potranno essere sviluppi imprevedibili in un momento in cui i processi e la campagna elettorale di Trump procedono in parallelo. u as

Più di 300mila persone hanno attraversato il confine tra Stati Uniti e Messico nel dicembre 2023, il dato mensile più alto di sempre. Circa 250mila migranti sono entrati illegalmente in territorio statunitense, mentre altri cinquantamila sono arrivati attraverso un

sistema di appuntamenti creato dall’amministrazione Biden. “È il momento più complicato di una crisi al confine che dura da più di tre anni e che ha messo a dura prova le risorse delle città di confine, lasciando decine di migliaia di migranti ad aspettare l’esame delle loro pratiche e alimentando lo scontro politico tra i partiti in vista delle elezioni presidenziali del 2024”, scrive il Texas Observer.

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Asia e Pacifico

DECHEN WANGDI (AFP/GETTY)

Un seggio elettorale a Thimpu, Bhutan, 30 novembre 2023

ASIA MERIDIONALE

Democrazie imperfette si preparano al voto Chietigj Bajpaee, Nikkei Asia, Giappone Quasi tutti i paesi dell’Asia meridionale, dal Bangladesh all’India e al Pakistan, andranno alle urne nel 2024. Dato il peso strategico della regione, i risultati avranno implicazioni globali el 2024 quasi tutti i paesi dell’Asia meridionale andranno alle urne. Un anno elettorale inaugurato nel settembre 2023 con le presidenziali alle Maldive. A novembre in Bhutan sono cominciate le votazioni per il rinnovo del parlamento che finiranno il 9 gennaio. Il 7 gennaio sarà la volta delle elezioni in Bangladesh e a febbraio di quelle in Pakistan, seguite dal voto in India a maggio. Più avanti si terranno le presidenziali e le legislative in Sri Lanka. L’anno elettorale nell’Asia meridionale è importante per due motivi. Il primo è la fragilità delle democrazie della regione. Il Bhutan e le Maldive hanno avuto elezioni davvero democratiche solo a partire dal 2007 e dal 2008. Il Bangladesh dal 2009 è guidato dallo stesso partito. Nes-

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sun primo ministro pachistano ha mai completato un mandato. La democrazia in Sri Lanka e in India sembra aver fatto passi indietro. Poiché gli abitanti dell’Asia meridionale formano metà della popolazione mondiale che vive sotto governi indicati dalle urne, quello che succede nella regione sarà determinante per lo stato della democrazia mondiale. Il secondo motivo è che l’Asia meridionale riveste un’importanza strategica sempre maggiore. In termini economici, quest’anno potrebbe diventare la regione con la crescita più rapida al mondo, alimentata in gran parte dal fatto che quasi il 40 per cento della popolazione ha meno di diciott’anni. Significa che le scelte compiute nei paesi dell’Asia meridionale avranno vaste ripercussioni sulle questioni di politica internazionale. Prendiamo per esempio le Maldive, il Bhutan e lo Sri Lanka, tutti e tre coinvolti nel fuoco incrociato della rivalità tra India e Cina. Il presidente delle Maldive Mohamed Muizzu ha promesso di abbandonare la relazione privilegiata con l’India del suo predecessore, scegliendo legami più stretti con Pechino. A ottobre il ministro degli esteri

bhutanese Tandi Dorji ha compiuto una visita senza precedenti in Cina, forse un segnale dell’intenzione di stabilire relazioni diplomatiche formali che modificherebbero la politica estera di Thimpu, da sempre centrata sull’India. In realtà nessun paese della regione può svincolarsi completamente da una delle due potenze, data l’influenza geografica ed economica di entrambe. La rivalità sinoindiana in Asia meridionale ha però implicazioni politiche più ampie. È emerso con chiarezza quando l’erogazione della seconda rata del pacchetto di salvataggio del Fondo monetario internazionale per lo Sri Lanka è stata ritardata per mesi, un fatto che alcuni hanno ricondotto alle resistenze della Cina sul ruolo dell’India nel comitato dei creditori di Colombo, insieme a Giappone e Francia. Pechino ha mostrato un’evidente avversione a partecipare a iniziative regionali e globali a guida indiana, come dimostra l’assenza del presidente cinese Xi Jinping al G20 di New Delhi a settembre. Questa posizione ha delle implicazioni per la stabilità dello Sri Lanka e riflette più in generale le sfide della ristrutturazione del debito per i paesi di cui Cina e India sono creditori.

Di pari passo Il Bangladesh invece è un esempio importante di paese dove lo sviluppo economico e l’arretramento democratico sono andati di pari passo. La prima ministra Sheikh Hasina ha consolidato la sua posizione in tre mandati consecutivi al potere. Migliaia di attivisti dell’opposizione sono stati incarcerati e questo ha provocato crescenti tensioni con l’occidente. In molti, però, hanno accolto con favore la fine dell’epoca delle due “signore in guerra” – quando il potere oscillava, a volte sfociando nella violenza, tra la Lega Awami di Hasina e il rivale Partito nazionale del Bangladesh di Khaleda Zia – e la nascita di un panorama politico più stabile e prevedibile, che a sua volta ha facilitato lo sviluppo economico. I bangladesi sotto la soglia di povertà sono meno del 13 per cento, mentre nel 1991 erano il 50 per cento. Il paese ha superato il Pakistan in termini di reddito pro capite, un traguardo importante se si considera che il Bangladesh fino al 1971 faceva parte del Pakistan. Questi risultati s’inseriscono nel perenne dibattito sui compromessi tra democrazia e sviluppo.

COREA DEL SUD

GIAPPONE

Sicurezza insufficiente

Terremoto e incidente Suzu, Giappone, 3 gennaio 2024

FRED MERY (AFP/GETTY)

Lee Jae-myung (nella foto), leader del Partito democratico, è stato ferito al collo con un coltello il 2 gennaio a Busan, mentre visitava il luogo dove sorgerà un nuovo aeroporto. Il capo della principale forza d’opposizione del paese stava rispondendo alle domande dei giornalisti quando un uomo, che aveva in testa una corona di carta con scritto sopra “Sono Lee Jae-myung”, l’ha assalito. Non è ancora chiaro il movente, scrive il Korea Times, ma la polizia ha detto che intensificherà le misure di sicurezza durante le visite pubbliche di personalità in vista.

BANGLADESH

Il 1 gennaio un terremoto di magnitudo 7,6 della scala Richter ha colpito la penisola di Noto, nel Giappone occidentale, con un bilancio di almeno 73 morti, più di trecento feriti e 33mila sfollati. I danni peggiori sono stati riportati a Wajima, Suzu e Nanao, nella prefettura di Ishikawa, sul mar del Giappone. Dopo la prima scossa, onde alte cinque metri si sono abbattute sulla costa, scrive l’Asahi Shimbun. Due giorni dopo, 110mila famiglie nelle prefetture di Ishikawa, Toyama e Niigata erano senz’acqua corrente. Il 2 gennaio un aereo della guardia costiera in partenza dall’aeroporto Haneda di Tokyo per portare soccorsi alle zone terremotate è stato travolto sulla pista da un apparecchio della Japan Airlines con 379 persone a bordo, che poi ha preso fuoco. Cinque delle sei persone dell’equipaggio della guardia costiera sono morte, mentre i passeggeri del volo di linea sono stati tratti in salvo. È il primo incidente aereo in Giappone dal 1985. u

Sei mesi al Nobel Yunus

BIRMANIA

SOHN HYUNG-JOO (YONHAP/AP/LAPRESSE)

Il Pakistan, dal canto suo, è stato colpito di recente da attacchi terroristici, inondazioni devastanti e crisi economica, tutti problemi peggiorati da una politica disfunzionale. Le prossime elezioni sono state rinviate oltre la scadenza regolare per la decisione tardiva di procedere prima del voto a una riorganizzazione elettorale basata sul censimento. Tra le proteste dei sostenitori di Imran Khan, primo ministro sfiduciato dal parlamento nel 2022 e incarcerato lo scorso agosto dopo una condanna per corruzione, e l’improvviso ritorno in Pakistan dall’ex premier Nawaz Sharif, anche lui rimosso in passato, c’è il timore che la “classe dirigente” del paese – ovvero i servizi d’intelligence militare – stia cercando di manipolare il processo democratico. La precaria situazione politica di Islamabad è un rischio per la stabilità della regione, in particolare per l’Afghanistan, dove il rimpatrio forzato di circa 300mila profughi che vivevano in Pakistan ha peggiorato la crisi umanitaria in corso. Le tensioni croniche con l’India sono motivo di ulteriori preoccupazioni. L’India è l’elefante nella stanza che, pur continuando a essere una vivace democrazia, è sempre più spesso accusata di essere diventata, con il primo ministro Narendra Modi, una democrazia illiberale o un regime autoritario. In occidente l’India è spesso considerata la più grande democrazia del mondo. Ma New Delhi raramente promuove la democrazia come elemento della sua politica estera. Perciò se è vero che l’India e l’occidente hanno interessi comuni – tenere a bada l’ascesa della Cina – non vuol dire che abbiano valori condivisi. L’India è una sostenitrice dell’ordine internazionale basato sulle regole, che però non equivale all’ordine internazionale liberale, su cui New Delhi ha una posizione più ambigua. Sarà importante tenere a mente questa distinzione quando il governo fisserà la data delle elezioni e si celebrerà la straordinaria capacità del paese di condurre il più grande esercizio elettorale del mondo. Che le democrazie dell’Asia meridionale siano imperfette è noto. Ma dato l’effetto a catena di questa situazione sulle questioni globali – dalla sostenibilità del debito alla crisi climatica all’estremismo religioso, dalle relazioni tra grandi potenze alla natura stessa della democrazia – l’anno elettorale in Asia meridionale sarà particolarmente importante. u gim

L’economista bangladese Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006 per l’invenzione del microcredito, è stato condannato a sei mesi di carcere per violazione della legge sul lavoro. Yunus, libero su cauzione, da tempo denuncia di essere perseguitato dalla prima ministra Sheikh Hasina, scrive il Dhaka Tribune. Hasina punta a un quarto mandato consecutivo alle elezioni del 7 gennaio, boicottate dall’opposizione.

La guerra e l’oppio La Birmania nel 2023 è diventata il primo paese produttore di oppio superando l’Afghanistan, dove i taliban, al governo dal 2021, hanno operato un giro di vite contro il traffico di droga. Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, nel paese del sudest asiatico sono stati prodotti 1.080 metri cubi di

oppio nel 2023. Il triangolo d’oro, la zona di confine tra Birmania, Laos e Thailandia, è da tempo un’area di produzione e traffico di stupefacenti, in particolare oppio e metanfetamine. Il valore dell’“economia dell’oppio” in Birmania potrebbe aver raggiunto i 2,4 miliardi di dollari, pari al 4,1 per cento del pil del paese nel 2022. Con l’instabilità dovuta alla guerra civile, scrive Frontier Myanmar, molti agricoltori si sono dati alla coltivazione del papavero da oppio.

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Le opinioni

Non è tutta colpa di TikTok Zeynep Tufekci iviamo in un’epoca in cui i social net- contenuti antisemiti e falsità. Ho visto filmati vergowork, e in particolare TikTok, sono il gnosi sugli attentati di Hamas del 7 ottobre, in cui si capro espiatorio. Molti cittadini e negano le atrocità commesse dal movimento islamipolitici statunitensi non si rendono sta. Ma non penso che i giovani sarebbero ottimisti conto di una cosa: questi strumenti sulla guerra a Gaza o sull’economia se non ci fossero i possono avere un’influenza enorme video virali su TikTok. e a volte pericolosa sulla società, ma allo stesso temPerché non sappiamo di più sull’influenza dei sopo i politici li usano come pretesto per evitare criti- cial sull’opinione pubblica? Perché questo richiedeche legittime. La maggior parte dei giovani è insoddi- rebbe una ricerca indipendente e costosa, possibile sfatta della linea statunitense sulla solo con la collaborazione delle piattaguerra a Gaza? Sarà a causa della “pro- Serve una forme. È come se le multinazionali del spettiva sul mondo che si crea su Tik- regolamentazione tabacco raccogliessero dati sul cancro Tok”, ha dichiarato il senatore John Fet- dei social network? ai polmoni. Per esempio è stato dimoterman, un democratico filoisraeliano. Certo. L’unica strato che i social sono dannosi per la Questo atteggiamento è comune a tutti conclusione a cui salute degli adolescenti, soprattutto gli schieramenti. I cittadini sono insod- arrivo, però, è che delle ragazze. La percentuale di ragazze disfatti dell’economia? Di sicuro c’entra per i politici tra i 12 e i 17 anni colpite da gravi episodi TikTok. Alcuni esperti sostengono che è più comodo usarli depressivi è rimasta stabile fino al 2011, il malcontento dei consumatori sia una quando hanno cominciato a diffondersi come capro vibecession, un sentimento alimentato smartphone e social network. Dopo è dalla negatività che riempie i social e espiatorio più che raddoppiata. Nello stesso perionon dagli effetti dell’inflazione o del do si è registrata una flessione globale prezzo degli alloggi. Alcuni danno la colpa a fenome- nei punteggi dei test di lettura e matematica. ni online come i video Silent depression, diventati viraQuesti dati fanno pensare. Il cambiamento storico li su TikTok, che paragonano l’economia di oggi a sarebbe avvenuto comunque? O è stato causato soquella degli anni trenta. prattutto da smartphone e social network? La queNon è un mistero che i social network possano dif- stione rimane irrisolta. E di sicuro non avere informafondere contenuti fuorvianti e perfino dannosi, visto zioni più precise ostacola la ricerca di soluzioni. Oggi che il loro modello di affari dipende dal coinvolgi- le aziende tecnologiche possono contestare gli appelmento degli utenti e dunque amplifica spesso i conte- li a favore di leggi più restrittive sostenendo che non nuti provocatori, che fanno più clic. E il fatto che Tik- sappiamo se i social siano davvero dannosi. Nel fratTok, un’azienda con sede a Pechino, stia dominando tempo i politici oscillano tra l’uso di questi strumenti i flussi d’informazione globali dovrebbe generare ul- per trarne vantaggio e la corsa a condannarli. teriori timori. Già nel 2012 una ricerca pubblicata da In vista delle elezioni del 2024 negli Stati Uniti, per Facebook su Nature dimostrava che le aziende posso- molti versi sembra essere cambiato poco dal 2008, no alterare i comportamenti nella vita reale, per quando ci fu la “Facebook election”, definita così peresempio la partecipazione al voto. ché Facebook e i big data ebbero un ruolo chiave nella Questo non vuol dire però che sia giusto prender- vittoria di Barack Obama. Si discute ancora di disinsela con i social tutte le volte che le persone esprimo- formazione e ingerenze elettorali, ma non ci sono no opinioni scomode per i potenti. Anche se i parago- leggi capaci di rispondere alle sfide poste da internet. ni con la grande depressione non sono azzeccati, oggi Serve una regolamentazione dei social network? i giovani affrontano enormi sfide economiche: i prez- Certo. L’unica conclusione a cui arrivo, però, è che, zi delle case e i tassi dei mutui sono alti e gli affitti me- nonostante la retorica bipartisan sulle colpe dei sono accessibili. I generi alimentari sono diventati mol- cial, per i politici è più comodo usarli come capro to più costosi e fare carriera è più difficile. espiatorio anziché approvare norme sensate. Allo stesso modo, viste le stime sulle vittime paleI timori sui social network non vanno liquidati sostinesi a Gaza (che nel 40 per cento dei casi sono lo come un esempio di panico morale o un modo per bambini) causate dai bombardamenti israeliani, si prendere in giro i “ragazzi di oggi”. Ma, finché le istipuò dire che la popolazione più giovane abbia le sue tuzioni non capiranno e regolamenteranno le piattaragioni per criticare il sostegno che il presidente sta- forme e non cercheranno di affrontare le cause più tunitense Joe Biden sta offrendo a Tel Aviv? Non c’è profonde del malcontento dei cittadini, dare la colpa dubbio che su TikTok e su altre piattaforme circolino a TikTok equivale solo a fare rumore. u gim

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ZEYNEP TUFEKCI

è una sociologa che studia l’interazione tra società, tecnologie digitali e intelligenza artificiale. Insegna all’università della North Carolina e al Berkman Klein center for internet and society di Harvard. Questo articolo è uscito sul New York Times.

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Le opinioni

Bisogna sempre avere speranza Lea Ypi l momento del 2023 che mi ha dato più spe- nel periodo dell’illuminismo, almeno all’epoca alla ranza è stato quello in cui pensavo di averla gente questo genere di cose piaceva. Un altro ha ospersa. Era un venerdì mattina di metà otto- servato che nel settecento non c’erano algoritmi, bre e avevo appena cominciato ad approfon- social network o eco chamber (una situazione in cui dire con i miei studenti della London school sono ammesse solo notizie conformi alle nostre opiof economics il saggio intitolato Risposta alla nioni), perciò era ancora possibile avere fiducia nel domanda: che cos’è l’Illuminismo? scritto dal filosofo dibattito pubblico. Una terza studente, proveniente tedesco Immanuel Kant nel 1784. La maggior parte dai Balcani, ha chiesto: cos’ha fatto per noi l’illumidelle persone pensa alla speranza come a un atteggia- nismo, se non è stato nemmeno in grado di aiutarci a mento oscillante tra un desiderio e una mettere fine al genocidio? convinzione: il desiderio di ottenere un I princìpi Ho alzato gli occhi e ho guardato certo risultato e la convinzione che dell’illuminismo fuori dalla finestra. Tutto ciò che avevo qualcosa in particolare possa favorirne sono fondamentali continuato a ripetere fino a quel mola realizzazione. Cerchiamo nel mondo per colmare mento sembrava ridicolo. C’era un tale prove della sua conformità alle nostre il divario tra divario tra il mondo in cui credevo e di aspirazioni e, se le troviamo, alimentia- il mondo in cui cui parlavo agli studenti e quello in cui mo le nostre aspettative. Altrimenti no. viviamo e quello stavo vivendo. Ogni mattina controllaPer me, però, la speranza è una cosa che abbiamo vo i social network cercando di dare un diversa. Avere speranza non ha niente senso alle notizie che leggevo, e non la responsabilità a che fare con l’andamento del mondo. trovavo altro che sforzi per convincere È una sorta di dovere, un complemen- di costruire il mondo che uccidere dei civili innoto imprescindibile della moralità. Che centi era accettabile in determinate senso ha cercare di fare la cosa giusta se non abbia- condizioni e per alcuni popoli. Ero pazza a voler remo motivo di pensare che anche gli altri faranno lo stare fedele a quel motto illuminista e alla consestesso? Che senso ha ritenere gli altri responsabili se guente critica della doppia morale? Era così assurdo pensiamo che la responsabilità vada ben oltre le loro credere che la politica può pur sempre rimanere mocapacità? ralmente responsabile? La speranza è il contrario del nichilismo. ParadosMi ero già fatta queste domande e mi ero sempre salmente, più il mondo va male, più dobbiamo nutrire sforzata di ricordare il dovere etico della speranza. speranza per poter continuare a lottare. Essere fidu- Ma stavolta non funzionava più. Avevo perso fiducia ciosi non significa garantire il raggiungimento di un nella ragione, e le mie parole avevano perso significatraguardo ma salvaguardare il principio giusto: quello to, perfino per me. in base al quale ha senso un mondo basato sull’etica. Come ho fatto a riprendermi? Ho cercato di ricorE dunque cosa significava nel mio caso perdere la dare a me stessa la particolare posizione che occupasperanza? Significava perdere fiducia in quel princi- vo nel mondo. E quanto la mia disperazione esistenpio. Eccomi lì, durante il mio corso di storia del pen- ziale, i miei dilemmi etici e i miei interrogativi rifletsiero politico, a discutere sul motto illuminista “sa- tessero il mio privilegio. Le persone che subiscono pere aude” (abbi il coraggio di servirti della tua intel- ingiustizie, che affrontano ogni giorno offese alla loro ligenza) e ad analizzare perché Kant l’abbia definito dignità, che vengono costrette ai margini, messe a “l’uscita dell’essere umano dallo stato di minorità tacere, sfruttate, lasciate a morire o uccise non possoche egli deve imputare a se stesso”. Pensare con la no permettersi una riflessione sulla speranza: si agpropria testa, mettersi nei panni degli altri e riflette- grappano alla vita, cercano di cavarsela, lottano. Il re in modo coerente: sono i princìpi del pensiero illu- loro sforzo continuo, a prescindere dalla forma che minista, dicevo ai miei studenti. E, anche se potreb- assume, non può contemplare una perdita di fiducia. bero sembrarlo, non sono astratti né individualisti Il minimo che il resto di noi può offrire è evitare di né legati allo status quo. Al contrario, sono princìpi mettere in dubbio le ragioni per cui bisogna provare fondamentali per colmare il divario tra il mondo in speranza, nonostante tutto. cui viviamo e quello che abbiamo la responsabilità di Forse è questo il vero significato politico dell’illucostruire. minismo: che ci sia o no la speranza è una domanda Ma in quel momento vedevo gli studenti tergiver- essenziale solo per chi ha il privilegio di fare riflessiosare. Tutto molto bello, ha detto alla fine della spie- ni del genere. E si tratta di una frazione di mondo gazione uno di loro. Kant è stato fortunato a vivere piuttosto piccola. u gim

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LEA YPI

è nata a Tirana, in Albania, insegna teoria politica alla London school of economics e collabora con il quotidiano britannico The Guardian, che ha pubblicato questo articolo. Il suo ultimo libro è Libera. Diventare grandi alla fine della storia (Feltrinelli 2022).

In copertina

Stalin, caviale e Marzio G. Mian, Harper’s Magazine, Stati Uniti Foto di Alessandro Cosmelli

Seimila chilometri e quattro settimane di viaggio lungo il Volga, alla scoperta della Russia profonda. Un paese sempre più nazionalista e ripiegato su se stesso, dove la guerra in Ucraina è solo una presenza lontana e spettrale a Russia oggi è una terra lontana, misteriosa, ostile. Sembra incredibile che si sappia così poco del paese più vasto del mondo e che ha sconvolto l’ordine internazionale. Un buio ancor più fitto che ai tempi più cupi dell’Unione Sovietica. Se la Russia sembra diventata un pianeta a sé stante è in gran parte responsabilità di un regime che ha dichiarato guerra anche ai giornalisti stranieri, impedendogli d’oltrepassare i perimetri stabiliti dalla propaganda. Nell’estate del 2023 ho viaggiato con il fotografo Alessandro Cosmelli per un mese lungo il fiume Volga per seimila chilometri. Matuška, lo chiamano, i russi: la piccola madre. Scorre dalle colline di Valdaj – tra San Pietroburgo e Mosca – alla terra dei ciuvasci, dei tatari, dei cosacchi, dei calmucchi, e ad Astrachan sfocia nel mar Caspio: dove l’Europa e l’Asia s’incontrano, o si separano, ponte o confine, a seconda di ciò che indica la bussola della storia. È qui che tutto è cominciato, che l’impero ha messo le sue radici: lungo il fiume si trovano molte delle città che han-

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Valdaj Rybinsk

Mosca

Jaroslavl Nižnij Novgorod

UCRAINA

Balakovo

Kazan

RUSSIA

Uljanovsk Rostov sul Don Volgograd

lga Vo

Samara

Astrachan

Mar Caspio

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KAZAKISTAN 500 km

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no fondato la cultura e la fede russa, da Uljanovsk, la città natale di Lenin, a Stalingrado (oggi Volgograd), luogo della più grande battaglia della seconda guerra mondiale. Ed è questa la storia che pesa sull’identità russa di oggi, mentre il paese guarda indietro e si aggrappa al passato per alimentare il mito della sua grandezza. Sembra di nuovo pronto a resistere e a soffrire – una delle cose che ai russi sono sempre riuscite meglio –e appare rassegnato a un futuro d’isolamento, autoritarismo e forse anche autodistruzione. Prima di cominciare la discesa lungo il fiume ho incontrato Michail Piotrovskij, direttore dell’Ermitage di San Pietroburgo, nel suo studio al piano terra del museo, dove si è ritagliato uno spazio tra pile di libri, scartoffie e opere ancora imballate. Le fotografie che affollano la stanza – e che lo ritraggono con eminenti leader occidentali: un sorridente Tony Blair, una mesta Angela Merkel – sembravano anch’esse reperti di un’altra epoca, quanto l’arazzo appartenuto a Caterina la Grande appeso sopra la sua scrivania. “Il Volga era tutto, ed è ancora tutto”, mi ha detto. “Perché ti fa aspirare alla grandezza. Offre una sorta d’intimità, di riparo sotto un cielo luminoso, non come gli ampi spazi della steppa o dei fiumi siberiani, che ti fanno sentire un puntino nel cosmo”. Piotrovskij è un illustre studioso di islam. Lo conosco da anni, ma finora avevamo sempre parlato del Canaletto, di Bisanzio, dei grandi esploratori arabi e dei suoi amati vini siciliani. Questa volta l’ho trovato in pieno fervore bellico. E non perché dovesse difendere la sua prestigiosa posizione: alla sua età, 79 anni, potrebbe tranquillamente tenere la testa bassa e andare avanti in silenzio, co-

nazionalismo

Monumento al soldato sovietico. Ržev, Russia, luglio 2023 Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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In copertina me ha scelto di fare la maggior parte dei russi. Ha parlato con la sua solita calma, ma sembrava febbricitante, come se qualcosa lo stesse divorando dall’interno. Il mite intellettuale Piotrovskij è diventato un guerriero. “La Russia è molti popoli, ma una sola nazione”, mi ha detto. “Lungo il Volga è stata in grado d’incorporare tutti. L’islam è una religione della tradizione e dell’identità russe quanto l’ortodossia cristiana. In Europa, in America, parlate sempre di multiculturalismo, ma le vostre città scoppiano d’odio. Noi, senza chiacchiere, abbiamo incluso tutti, perché siamo una civiltà imperiale”. Poi si è animato. “Guardate l’Ermitage!”, ha esclamato allargando le esili braccia e strabuzzando gli occhi. “È l’enciclopedia della cultura mondiale, ma è scritta in russo perché è la nostra interpretazione della storia del mondo. Può essere arrogante, ma è questo che siamo”. Ha fatto un respiro profondo, perché stava per parlare di Stalingrado, la sua Gerusalemme: “Non la chiamo Volgograd, ma Stalingrado. Oggi più che mai è il nostro punto di riferimento, un simbolo ineguagliabile di resistenza, il peggior incubo dei nostri nemici. Durante la grande guerra patriottica [come i russi chiamano la seconda guerra mondiale] lì si è difeso il Volga come corridoio vitale. Ed è stato lo stesso negli ultimi mesi. Il Volga e il Caspio alimentano il nostro commercio con l’Iran. Esportiamo petrolio in India e importiamo quel che ci serve, aggirando le sanzioni”. Si è tolto gli occhiali per pulirli con un lembo della giacca. “Stalingrado è totem e destino. Se i nazisti l’avessero presa, avrebbero tagliato il Volga e conquistato tutta la Russia. Materia che si è fatta spirito. Stalingrado è un monito. Chiunque ci provi farà la fine di tutti gli altri: gli svedesi, Napoleone, i tedeschi e i loro alleati”. Poi ha proseguito. “I russi sono come gli sciti: aspettano, soffrono, muoiono e poi uccidono”.

Una porta sull’Iran Nel corso del viaggio ho ripensato spesso a questo incontro; seguendo il fiume, ricordavo lo sguardo severo di Piotrovskij e sentivo l’eco delle sue parole. Quando ho visitato un allevamento di storioni ad Astrachan, sul delta del Volga, ho capito che aveva ragione. Olesja Sergeeva, la biologa alla guida dell’azienda, ha ribadito l’importanza del commercio con l’Iran. Nel suo piccolo – si fa per dire, perché Sergeeva fornisce il caviale anche al Cremlino – ha aggirato le sanzioni, acquistando mangime dall’Iran invece che dall’Euro-

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pa. “Ormai tutto passa da qui”, ha detto. “Sul delta si stanno costruendo nuovi moli per i portacontainer e le petroliere”. Sergeeva mi ha portato a visitare i quartieri ebraico, armeno e iraniano di Astrachan. All’esterno di un parco era stata allestita una mostra fotografica sui volontari civili che sostengono l’esercito. Al tramonto, l’elegante lungofiume era affollato di famiglie e gruppi di giovani che parlavano e ridevano in tono sommesso. Le coppie stavano sedute sul parapetto a mangiare anguria, i barconi-ristorante proiettavano luci multicolori sul fiume. L’atmosfera era in qualche modo un po’ fin de siècle, volute di fumo s’alzavano dal-

“I russi sono come gli sciti: aspettano, soffrono, muoiono e poi uccidono” le griglie dove cuocevano gli šašlyk (spiedini alla brace), la brezza calda portava con sé il lamento d’un violino lontano. Le facciate dei caffè e i balconi in ferro battuto ricordavano New Orleans. Sergeeva mi ha fatto notare i restauri in corso ovunque, i cantieri sul canale che attraversa la città vecchia, le ville ottocentesche in legno che diventeranno alberghi o residenze di lusso. “Erano destinate alla rovina”, ha detto. “Ma ora che i soldi girano, Astrachan è di nuovo la porta della Russia europea, dell’Asia centrale e dell’India. Per ora è così”. Sul delta, che si estende a ventaglio per quasi cento chilometri prima di raggiungere il mar Caspio, coppie di caccia sfrecciavano a bassa quota. Ho cercato di dare un’occhiata alla dogana del porto commerciale, ma c’erano posti di blocco su ogni via d’accesso e il porto turistico era chiuso. Anche il traghetto non era più in servizio. Da lontano, tuttavia, s’intravedevano le gru del porto intente a caricare e scaricare merci, una decina di navi-cargo e tre chiatte in rada, dove il ramo principale del fiume è più largo. Lungo 101 chilometri, il canale Volga-Don fu costruito sotto Stalin con il lavoro di settantamila detenuti e inaugurato nel 1952. Fa parte della via d’acqua che collega il Volga a Rostov sul Don, da dove si può raggiungere la città ucraina di Mariupol, oggi occupata dai russi. A sud di Volgograd ho provato a percorrere una strada sterrata che portava all’imbocca-

tura del canale, ma sono stato intimorito dalla presenza di un elicottero e mi sono accontentato di raccogliere delle dolcissime fragoline di bosco. Ad Astrachan girava voce che l’Iran avesse investito un miliardo di dollari nello sviluppo del corridoio Caspio-Volga-Don. Si parlava di traffici di prodotti agricoli e petrolio, ma anche di turbine, pezzi di ricambio, componenti mediche e nucleari. Non ho potuto verificarlo, ma ormai è chiaro che Astrachan è uno snodo essenziale nella strategia del blocco economico antioccidentale che guarda a est. Il pregiato caviale di Sergeeva è prodotto con un sistema di sua invenzione: estrae le uova dallo storione con una piccola incisione, senza ucciderlo. Sullo stesso pesce l’operazione può essere ripetuta per tre volte. Ha garantito che la produzione e la vendita del suo caviale sono ai livelli di prima della guerra. “In Russia non c’è festa senza caviale, anche nella situazione attuale”, ha affermato. Poi ha spiegato che da quando è stato vietato il prelievo di storioni selvatici nel Caspio, nella regione del Volga gli allevamenti sono proliferati, passando da tre a sessanta negli ultimi cinque anni. Sergeeva viaggiava molto e in Europa è conosciuta per il suo uso dell’acquacoltura. Potrebbe trovare lavoro ovunque. Quindi perché restare? “Sono nata qui, ho studiato qui, mio marito è russo, mio figlio è russo, io sono russa”, ha detto. “Non direi che sono una patriota, e non voglio esprimere il mio pensiero su Putin e sulla guerra. Ma posso assicurarvi che la mia vita non è cambiata. Non è cambiata per niente”. È arrossita, nell’imbarazzo di parlare di un argomento sconveniente. “I russi stanno reagendo alle sanzioni in modo straordinario, anche con il rublo debole e l’inflazione. I prezzi dei beni di prima necessità sono rimasti stabili. E oggi si consumano prodotti migliori e più sani di prima della guerra, dei formaggi eccezionali, per esempio”.

Il pane di Putin Mai avrei immaginato che uno dei temi ricorrenti del mio viaggio sarebbe stato il cibo patriottico a chilometro zero. Ma sembra che lungo il bacino del Volga le sanzioni occidentali e l’economia di guerra abbiano innescato una sorta di movimento per la riscoperta della tradizione gastronomica russa. L’abitudine ai prodotti occidentali ha viziato il palato del russo medio metropolitano, che oggi compra camembert e prosciutto made in

tribuire a salvare i valori rurali russi “con­ tro il consumismo scopiazzato dall’Ameri­ ca”. “La gente disprezzava il pane russo”, dice. “Pensava che fosse roba da poverac­ ci. Volevano le baguette, i signorini! Le mie sono vecchie ricette, di molto prima della perestrojka. Quando eravamo felici”.

Un tuffo in Unione Sovietica

In alto da sinistra in senso orario: il prete ortodosso Michail Rodin. Zarina, figlia di Pavel, che si è arruolato ed è morto in guerra. Il professor Dmitrij Rusin. Monica, cameriera alla mensa del kombinat Zvenigovskij.

Russia. Una versione culinaria del russkij mir (mondo russo), l’idea putiniana della supremazia della civiltà russa. Sui menù dei ristoranti lungo il Volga è spesso indi­ cato che i prodotti sono “del territorio”, con il nome dell’azienda produttrice. Si servono svekolnik e okroška, semplici zup­ pe fredde estive, per esaltare la qualità dei ravanelli locali, coltivati senza fertilizzan­ ti occidentali. A Rybinsk, nell’oblast di Jaroslavl, un tempo “pescheria dello zar”, non si pesca più; in compenso la città s’è reinventata

come “forno di Mosca”. Ogni giorno i ca­ mion partono per la capitale carichi di pa­ gnotte calde. Le panetterie sono ovunque e nella regione la coltivazione di grano e segale è aumentata del 40 per cento. Uno dei primi ad accendere un forno è stato Andrej Kovalev, 44 anni, che fino a tre an­ ni fa non sapeva nemmeno come guada­ gnarselo il pane. “Ho imparato a usare la zakvaska, un lievito tradizionale”, mi rac­ conta nel suo grande laboratorio sulla piazza Rossa di Rybinsk, dove dopo la ri­ voluzione d’ottobre la statua di Lenin so­ stituì quella di Alessandro II. Kovalev è la star del posto: offre assaggi ai passanti sfoggiando una barba infarinata, una ca­ sacca da mugico e ai piedi un paio di lapti, le antiche calzature fatte di rafia di betulla intrecciata. Aprire una panetteria per Ko­ valev è stato un atto politico, voleva con­

Non fosse stato per quel gigantesco mani­ festo elettorale piazzato su un raro incro­ cio nella steppa, che mostrava Sergej Ka­ zankov accanto a Lenin e Stalin, forse mi sarei perso il più surreale dei revival dell’Unione Sovietica. Usando una vpn per proteggere le mie ricerche online, ap­ prendo che nel 2021 Kazankov è stato rie­ letto alla duma di stato (la camera bassa del parlamento) con i comunisti, che è stato colpito dalle sanzioni occidentali per aver sostenuto l’invasione dell’Ucraina e che suo padre, Ivan Kazankov, è stato a lungo un pezzo grosso del partito. Per un periodo Sergej ha diretto il kombinat agro­ alimentare Zvenigovskij, di proprietà del padre Ivan. A questo punto del viaggio sto attraver­ sando la repubblica autonoma dei mari, a circa 150 chilometri da Kazan, la capitale della repubblica del Tatarstan. Più preci­ samente mi trovo nel distretto di Zveni­ govskij, che dà il nome all’azienda di Ka­ zankov, nota nella regione come l’“ultimo sovkhoz”, cioè fattoria collettiva su larga scala. Mi basta fare una piccola deviazio­ ne, attraversare una distesa di girasoli e chiedere indicazioni a un distributore di benzina (“Quando vedi il monumento a Marx sei praticamente arrivato”) per arri­ vare all’edificio che, a prima vista, sembra una rievocazione del paese dei soviet. La bandiera rossa dell’Urss sventola sopra il complesso bianco e giallo. Secondo l’a­ zienda è grande quanto quella ammainata al Cremlino il 25 dicembre 1991. Le pareti dello stabilimento sono ricoperte di scrit­ te rosse con il punto esclamativo tanto caro ai bolscevichi: “Onore e gloria agli operai del kombinat Zvenigovskij!”; “Compagni, lottiamo per il nostro villag­ gio, lottiamo per la Russia!”; “Ora e per sempre, guerra al fascismo!”. Il viale che porta all’ingresso degli stabilimenti è ab­ bellito dalle foto dei trenta stacanovisti premiati nel 2023, tra cui il miglior insac­ catore, il miglior trattorista – un tale con baffi e maglietta Nike – e il miglior mecca­ nico dell’anno. Camion e furgoni contras­ segnati da falce e martello escono dai can­ celli. Tutto sotto lo sguardo compiaciuto di Stalin, casacca e pantaloni da operaio Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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In copertina infilati negli stivali, che saluta bonaria­ mente dal suo piedistallo a quattro gradi­ ni. Un po’ a margine vigila accigliato Le­ nin, la mano infilata nel cappotto come Napoleone, pittato di color porporina, si­ stemato su soli due gradini e parzialmente coperto dalle fronde di una betulla. L’in­ gresso dell’edificio della direzione, una solida struttura modernista, è dominato dalla scritta Cccp (Sssr, cioè Urss in carat­ teri cirilici) in bronzo. Le guardie alla re­ ception indossano la mimetica. Presto mi rendo conto che si tratta di una delle prin­ cipali aziende agroalimentari della Rus­ sia, con una produzione di migliaia di ton­ nellate di carne e latticini all’anno. Fonda­ to nel 1995, ben dopo la morte dell’Unio­ ne Sovietica, il kombinat si definisce un’impresa comunista­stalinista. Ivan Kazankov ha 81 anni e uno sguar­ do grigio, da lupo. È alto e corpulento, un’ampia cravatta rossa adagiata sulla pancia. Mostra subito curiosità per la stra­ na e non annunciata visita, e nessuna cir­ cospezione: si capisce che è un vero boss, uno che non risponde a nessuno, capo as­ soluto di questa Stalingrado agraria, del suo piccolo impero rurale sul Volga, para­ dossalmente ispirato al più grande stermi­ natore di contadini della storia. L’ufficio, d’altronde, sembra fatto apposta per diso­ rientare chiunque speri di capire qualcosa della Russia del 2023: busti di Stalin ac­ canto a icone ortodosse russe, un ritratto di Nicola II che incombe su una statuetta della Sojuz, una foto di Vladimir Putin ap­ pesa accanto a un’immagine di sant’An­ drea, il santo patrono della Russia. Al caos di questo pantheon si aggiunge l’opacità intorno alla natura dell’azienda, che mi è stata presentata come “cooperativa agri­ cola statale, esattamente come ai tempi dell’Urss”, ma che poi si scopre essere una privatissima holding di famiglia, alla cui guida il tovarišč (compagno) Ivan ha piaz­ zato la figlia per sostituire il figlio, ormai deputato. “L’importante è che funzioni come prima”, spiega. “I profitti servono ad aumentare i salari dei quattromila di­ pendenti e a espandere l’azienda”. Più tardi, a Kazan, mi raccontano che in mezzo alle rapine e alla corruzione de­ gli anni novanta, quando i banditi più spregiudicati saccheggiavano le attrezza­ ture industriali e militari sovietiche, an­ che Kazankov si è preso la sua modesta parte. Ha messo le mani su una fattoria in rovina e l’ha abilmente trasformata in questo colosso industriale, adattando il sistema produttivo del kombinat socialista al selvaggio mercato post­sovietico. L’oli­

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garca delle salsicce Kazankov sa bene quanto i consumatori russi soffrano anco­ ra per la perdita del collettivismo di stato. Da allora, il suo patrimonio è diventato leggenda. E continua a crescere con l’eco­ nomia di guerra. Perché Kazankov è un grande sostenitore delle sanzioni occi­ dentali: “Sono uno strumento di sviluppo incredibile per la Russia”, dice. “L’occi­ dente avrebbe dovuto imporle già negli anni novanta. Saremmo diventati la loco­ motiva del mondo. Peccato”. Per lui le sanzioni sono adrenalina pura. Si entusia­ sma nel raccontare come alla Zveni­ govskij hanno copiato perfettamente i “mezzi di produzione” italiani, tedeschi e

Khairutdinov mi dice che mi considera un nemico e che nessuno vuole parlare con me israeliani: “Abbiamo raddoppiato le linee in un anno e riforniamo quasi mille super­ mercati in tutta la Russia”. Ivan ritiene che la sua “azienda comunista a ciclo integra­ to” sia il modello ideale per “ricostruire una nuova Unione Sovietica con cibo sano e locale proveniente dalla nostra terra”. Mi mostra una stalla appena inaugura­ ta, a una decina di chilometri di distanza, dove ha riprodotto gli impianti di mungi­ tura israeliani. Le mandrie pascolano in ampie radure ben delimitate. Il suo autista ci porta in giro con una Mercedes blindata nuova di zecca importata dal Kirghizi­ stan, una delle vie preferite dal contrabbando tedesco. Per l’e­ scursione, Kazankov indossa un cappelli­ no da baseball con la scritta Cccp cucita sul davanti e la falce e martello ai lati. Mi confida che sta pensando di marchiare an­ che le mucche allo stesso modo. “Allevia­ mo mucche da latte e maiali, fino al confe­ zionamento del prodotto finito, carne, formaggi, kefir”, spiega osservando il suo regno dai finestrini oscurati dell’auto. “Perfino gelati, buoni come quelli della mia infanzia. Gorbačëv e Eltsin avevano rovinato anche i gelati, vigliacchi”. La guerra in Ucraina ha fruttato una montagna di rubli al compagno presiden­ te. “La produzione di formaggio è aumen­ tata dell’80 per cento”, dice. “Sostituiamo i formaggi francesi e italiani. Continuia­ mo a comprare, siamo a 120mila frisone”. Gli chiedo della guerra. “Ovviamente vin­ ceremo”, ha risposto, “perché sappiamo

come combattere e perché non possiamo perdere. Se necessario useremo armi ato­ miche, distruggeremo la terra, distrugge­ remo tutto”.

Produrre o comprare Arrivato a Kazan, mi invita a pranzo Farid Khairutdinov, un imprenditore tataro di 48 anni che mi è stato descritto come una “figura molto importante in città”. Ci sia­ mo scambiati messaggi attraverso un ca­ nale criptato, e ha promesso di procurarmi incontri interessanti. Quando arrivo alla Tatarskaja usadba, un famoso ristorante locale, lo trovo ad aspettarmi in una stan­ za privata con Mansur Hazrat Jalaletdi­ nov, il mullah della moschea Al Marjani, l’unica attiva a Kazan prima del 1990. Da allora ne sono sorte circa cento. Khairut­ dinov mi informa che la settimana prece­ dente, allo stesso tavolo, c’era Dmitrij Medvedev, ex primo ministro e presiden­ te russo, oggi vicepresidente del consiglio di sicurezza della Federazione Russa. Do­ po una lunga premessa mi fa sapere che mi considera “un nemico” e che nessuno vuole incontrarmi o rispondere alle mie domande. Farei meglio a visitare un mu­ seo, aggiunge. Poi mi ricorda che ha pre­ stato servizio nell’Fsb, i servizi segreti russi. Il mullah annuisce, evidentemente soddisfatto. Detto questo, per mostrarmi l’ospitalità tataro­russa, mi offrono un pranzo indimenticabile: dodici portate e tre ore di conversazione tanto assurda quanto istruttiva. Sostengono che nella lingua tatara non esi­ ste la parola “ritirata”; che i tata­ ri erano i migliori arcieri di Pie­ tro il grande; e che Michail Kutu­ zov, il generale che sconfisse Napoleone, era un tataro. Gli faccio nota­ re che Kutuzov era stato il militare che aveva abbattuto la resistenza tatara in Cri­ mea alla fine del settecento. “In effetti perse un occhio”, replica Khairutdinov, e il mullah annuisce. “Ci piace fare la guerra. Dico bene, Mansur?”. “È vero”, risponde il mullah. “Combat­ tiamo anche contro i nostri demoni”. Speravo di approfondire il tema, ma Khairutdinov cambia discorso: “Le san­ zioni ci hanno uniti ancora di più”. Quando arriva l’agnello allo spiedo, Khairutdinov dice che prima della guerra avrei mangiato “dell’agnello di merda del­ la Nuova Zelanda”, ma che invece questa carne, tenera e saporita, è russa. Non solo: fino a ieri l’agnello che ci stanno servendo pascolava a pochi chilometri di distanza. L’ha allevato lui stesso, sostiene. È un pro­

Il Volga vicino a Kostroma, Russia, luglio 2023 duttore di carne biologica, agnelli e oche, con negozi in tutto il Tatarstan. “Non c’è concorrenza, è fantastico. Pensa che importavamo le oche dalla Romania e dalla Francia. I miei cosciotti e il prosciutto d’oca ora li esporto anche in Turchia”. Chiedo perché non allevassero agnelli e oche anche prima della guerra, anzi perché la Russia producesse così poco e importasse quasi tutto, senza generare ricchezza che non fosse quella derivante dal petrolio e dal gas. Il mullah mi guarda negli occhi e mi dice che proprio qui stava il genio russo: “Comprare senza produrre”, spiega. “Perché dovrei produrre una bicicletta se posso semplicemente comprarla? Spendo meno. Semplice”.

L’eterno conflitto Più di trent’anni fa raccontai la prima estate del conflitto in Jugoslavia dalle spiagge del paese, che stava andando in pezzi. Ricordo un’orchestra di anziani musicisti che suonava un foxtrot solo per me, unico ospite di un grande albergo sull’isola di Rab. In quel momento i mortai sparavano

e la gente moriva a pochi chilometri dalla costa dalmata. Qui, lungo il Volga, la guerra e la morte sembrano presenze spettrali. La gente balla la techno e si concede cocktail dai nomi improbabili: Hiroshima, guerra russo-giapponese, tedesco ubriaco. In quasi un mese di viaggio ho visto solo quattro bombardieri: volavano sopra Tver, vicino alla sorgente del Volga. Ho sentito il rombo dei caccia solo una volta, nel basso corso del fiume. Ho incontrato alcuni soldati disarmati in licenza, e ho visto una colonna di venti camion che trasportavano carri armati coperti da teloni, diretti probabilmente al fronte, a centinaia di chilometri di distanza. Per il resto, la solita Russia. Almeno in apparenza. Anzi, una Russia insolitamente dinamica. Ho visto cantieri e gru in attività nelle periferie delle città, restauri di palazzi e chiese nei centri storici, imponenti lavori in corso sulle strade federali, ruspe e operai all’opera nell’interramento di nuove condotte, squadre di giardinieri nei parchi, netturbini diligenti e cestini dei rifiuti sempre vuoti. Mi sono imbattuto nelle code estenuan-

ti dei weekend, quando i russi – cascasse il mondo – vanno nelle case di campagna. Fatalismo? Indifferenza? O arroganza, come aveva insinuato Piotrovskij all’Ermitage? Ho faticato a trovare posto negli alberghi o sui traghetti, tutti sovraccarichi di turisti costretti a rinunciare al Mediterraneo e ad accontentarsi del Volga. Come Tatiana, la manager di mezza età di una catena di supermercati. Quando l’ho incontrata, su un traghetto a Jaroslavl, indossava un cappello panama, occhiali da sole Gucci e sandali capresi; stava andando a sud, verso la dacia dove passava le estati da ragazza. “Ho una barca a Mykonos, chissà quando la rivedrò”, mi ha detto. “Sto imparando a conoscere di nuovo il mio fiume. Incontro amici che non vedevo da trent’anni. Una vacanza interessante”. Le ho detto che sembrava un po’ triste e rassegnata. “I russi sono stati tristi e rassegnati per millenni”, ha risposto. “È così che resistiamo. Sono contraria a questa guerra, ma non posso fare altro che aspettare, come tutti. Ci manipolano con idee artificiali. Spazzatura. Ma anche l’occiInternazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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In copertina dente ci umilia da troppi anni, avremo pure il diritto di essere ciò che vogliamo senza doverci sentire dei barbari, o no?”. Pensare che le idee antioccidentali che scorrono nelle vene del paese siano semplicemente il frutto dell’indottrinamento del regime sarebbe sopravvalutare Putin e ignorare ciò che ha guidato la Russia nel corso della sua storia, almeno dai tempi di Pietro il grande: l’attrazione, se non l’invidia, per l’occidente – quello di Voltaire o quello di Hollywood – e allo stesso tempo la difesa orgogliosa, superba, prepotente della propria diversità. I russi hanno sempre alternato il desiderio di essere inclusi alla paura di essere contaminati e corrotti. Dal complesso d’inferiorità a quello di superiorità. Un conflitto di civiltà lacerante esemplificato dallo scontro intellettuale tra il filoliberale Ivan Turgenev e l’identitario e slavofilo Fëdor Dostoevskij. Purtroppo oggi non si vola a quei livelli, anzi non esiste nemmeno un dibattito, forse ancora meno che ai tempi dell’Unione Sovietica. Ma è chiaro che i russi sono nella loro fase Dostoevskij: sta riemergendo dal sottosuolo, anche in chi rifiuta il revanscismo neoimperiale di Putin e della chiesa ortodossa, la voglia di chiudersi nel proprio piccolo, ma sconfinato mondo. Anna, per esempio, è una giovane donna che si definisce “antisistema, pacifista, pagano-ambientalista” e afferma che “oggi ci fanno essere degli zombi per spedirci a uccidere i nostri fratelli”. Eppure difende i “valori della famiglia” e “l’amore per gli antenati”. La sua priorità, spiega, è “preservare la tradizione russa”. Rifiuta “la moderna cultura occidentale dove tutto è lecito, facile e divertente”. Si spinge a dire che oggi sono quelli come lei, “quelli che tengono la vecchia Russia nel cuore, a custodire le radici europee del paese”. I suoi capelli sono lunghi e biondi come il grano, i suoi occhi verde smeraldo, indossa collane etniche e un lungo abito color giada. Ha 34 anni e vive nella “Giamaica del Volga”, ai piedi dei monti Žiguli, che si tuffano nel fiume creando effetti botanici meravigliosi, come l’abbondante crescita di marijuana selvatica. Per la raccolta arrivano volontari da tutta la Russia. “Feste memorabili”, racconta Anna. “Ma ora che il governo ha praticamente vietato i raduni non ufficiali, è come essere in prigione”. Mi racconta di essere una guaritrice sciamanica, ma ufficialmente fa l’infermiera. Il suo compagno suona il cosiddetto Volga dub, una sorta di reggae che è la colonna sonora dei pirati del fiume.

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Per raggiungere il loro covo, sull’isola segreta, partiamo dopo il tramonto su una zattera a motore costruita con pallet e tavole da surf. Siamo ospiti di Shukhrat e Albert: hanno fuso i loro nomi per chiamare l’isola Shubert. La loro amicizia è scoppiata insieme alla guerra, Shukhrat ha perso un figlio, Albert ha spedito il suo in Svezia. Non accettavano più la realtà e hanno deciso d’abbandonarla, occupando una striscia di sabbia emersa in primavera nel mezzo dell’immenso Volga. Pian piano sono stati raggiunti da altri fuggiaschi che si sono accampati con le famiglie. Ne è nata una comunità indipendente con le sue regole, prima tra tutte non seguire le

Pavel faceva il tassista e si era indebitato. Una sera si è ubriacato e si è arruolato notizie. Meditano, organizzano incontri e corsi di yoga. Cantano canzoni reggae contro la guerra, usano solo strumenti tradizionali, come balalaika, domra e bayan. Ogni venerdì sera arrivano amici e musicisti da Kazan, Samara, Togliatti e va in scena una piccola Woodstock. “Non è una fuga dal mondo”, dice Albert, ex ingegnere di sistemi di sicurezza, “ma la creazione di un mondo separato. Questa ora è la nostra patria, basata sui veri valori russi. Là fuori tutto era spaventoso”. L’isolamento nell’isola di Shubert non è riuscito a lenire i suoi tormenti. Albert aveva intrecciato un rapporto speciale con due youtuber ucraini, e aveva in programma di andare a trovarli in moto nel Donbass, proprio nel febbraio 2022. “Poi quel giorno maledetto mi hanno lasciato dei messaggi vocali, mi chiedevano se ero loro nemico e perché li stavamo bombardando e ammazzando”, mi confida. “Ancora non so perché siamo finiti dall’altra parte, è terribile. Posso solo piangere, ma mia madre mi diceva che i ragazzi non devono piangere”. Quelle sulle guance di Albert sono le uniche lacrime che vedo durante il mio viaggio.

Un uomo rispettato Un venerdì sera mi ritrovo a Nižnij Novgorod, la città di Maksim Gorkij, sul viale principale, sotto il famoso Cremlino locale, travolto da un ciclone di giovani ubriachi. I locali traboccano di gente e si balla fin sui marciapiedi, con i drink in mano.

La facciata di un edificio di sei piani è ricoperta dalla lettera Z, simbolo del sostegno alla guerra in Ucraina. Sono in compagnia di Artëm Fomenkov, storico e professore di scienze politiche. Gli chiedo come giudica l’inquietante contrasto tra i ragazzi della movida e i loro coetanei inviati al fronte. “Quelli che combattono non vengono dalle grandi città, ma dai piccoli centri. Dalle periferie più miserabili, dove si arruolano solo per denaro”, mi spiega. “È improbabile che la maggior parte della popolazione urbana si senta direttamente colpita dalla guerra”. Poi riflette un attimo e aggiunge: “Ed è per questo che continuano a vivere così. Non sono coinvolti e quindi fanno la stessa cosa che facevano due anni fa, cento anni fa, duecento anni fa: macerare in un miscela di nostalgia, malinconia e disperazione. Putin è solo l’ultimo a sfruttare questa passività”, continua. “Ricorda: i russi sono responsabili del loro destino, non vittime”. Basta allontanarsi di duecento metri dalla baraonda per sbattere il muso contro la realtà. In città la via Ošarskaja è ancora chiamata bordel, perché era la via della prostituzione ai tempi di Gorkij. Nello stesso stabile oggi hanno sede l’Fsb e la polizia militare. Chiunque finisca trascinato da queste parti di notte ha un’alta probabilità di essere mandato in un campo di addestramento e poi al fronte. “I ragazzi che avete visto in realtà sono terrorizzati, bevono molto più di prima”, dice Fomenkov. “Sanno bene che non devono farsi trovare in certe zone soli, ubriachi, senza un alibi sicuro o almeno un cognome importante”. Il giorno dopo mi ritrovo in una strada senza nome, nel soggiorno di un’izba (piccola casa tradizionale russa) dipinta di celeste e circondata da galline scheletriche e carcasse d’auto che fungono da pollai. Era la casa di Pavel, morto nel Donbass nell’autunno 2022, quaranta giorni dopo essersi arruolato. La figlia Zarina, diciott’anni, è incinta e mi guarda con occhi stupefatti, verdi e gialli come l’erba della steppa. È seduta su un divano bordeaux accanto a sua madre Valentina, minuta e provata. Mi raccontano che Pavel faceva il tassista e si era indebitato. Una sera era tornato a casa ubriaco e aveva detto di essersi arruolato. Aveva mostrato a Valentina il contratto, poco più di duecentomila rubli al mese (circa duemila euro). Guidare un taxi gliene fruttava al massimo quarantamila, alcuni mesi quasi niente. Il soffitto della casa è basso, un

Il Volga vicino a Volgograd, Russia, luglio 2023

grande cielo blu di plexiglass con le nuvole. Alle pareti sono appese le foto dei bambini: in una nuotano nel Volga con il padre. Poi c’è Pavel, raggiante con il suo nuovo decespugliatore. “Era un uomo buono, rispettato”, dice Valentina. “Non potevo fermarlo. L’ha fatto per i suoi tre figli, per pagare il mutuo”. Dieci giorni di addestramento ed è partito. Sembra sia saltato su una mina. “L’hanno mandato avanti per controllare il terreno. Ma non lo sapremo mai”, dice Zarina, mordendosi le labbra. Poi sono arrivati due ufficiali del distretto militare a consegnare la lettera prestampata di Putin, la medaglia e tutto il resto. Valentina mi assicura che la gente è stata solidale, anche i vicini con cui non parlava da anni sono venuti con focacce e vodka. Lei e Pavel si amavano, racconta, ma non si erano mai sposati. Valentina ha fatto causa alla madre di lui per ottenere i milioni di rubli con cui lo stato risarcisce le vite dei caduti ai legittimi eredi. “Cosa pensava? Pavel aveva le sue idee. Diceva che era ora di fargliela vedere a quelli che avevano abbandonato l’Unione Sovietica.

Ma è partito solo per fare due soldi, in fondo era un mercenario, no?”. Nell’angolo, vicino allo stereo e ai cd, le luci rischiarano un piccolo memoriale sormontato dal tricolore russo: ci sono la fisarmonica di Pavel, il suo cappello di paglia per le feste zigane, girasoli finti, immagini della Madonna a cui era devoto, i peluche che ancora regalava a Zarina. E poi, sorridente come lo zio bonaccione di famiglia, Stalin. “Il suo adorato Stalin”, dice Valentina.

Anima asiatica Eccola la vera icona dell’estate russa: Stalin, il Che Guevara della “generazione Z”. Lenin avrà pure più statue di tutti, settemila solo in Russia, ma non è più il suo braccio a indicare l’avvenire. Stalin, invece, sta vivendo una seconda giovinezza, il suo nome ricorre come un mantra. C’è perfino una marca di salsicce che porta il suo nome. Il suo più grande sponsor è Putin: nominandolo, il presidente sa di toccare la corda magica che risveglia sogni di gloria covati in segreto da un paio di gene-

razioni. “Putin non si paragona a Lenin”, afferma lo storico Dmitrij Rusin. “Troppo cerebrale e complesso per questi tempi di facili approssimazioni. E troppo europeo”. Rusin è professore all’università statale di Uljanovsk. Nel 1970 hanno costruito un enorme monumento a Lenin nel centro della sua città di origine. “Putin, invece, ama essere affiancato alla figura di Stalin, così come Stalin associava la sua spietata idea del potere russo a quella di Ivan il terribile”, mi racconta Rusin mentre ci avviciniamo al monumento. “Un’idea non europea, ma piuttosto asiatica, che non tiene in nessuna considerazione la vita dell’individuo. Questo ritorno del culto di Stalin, soprattutto tra i giovani, m’inorridisce. Sento la catastrofe arrivare”. La fontana davanti al memoriale è asciutta. “Il complesso l’hanno chiuso per restauri cinque anni fa”, dice il professore. “Doveva riaprire nel 2020, ora parlano del 2025. Ma da Mosca non arrivano i fondi. Vogliono impoverire Uljanovsk”. Volgograd è un’altra storia. Putin vuole ripristinare il vecchio nome di StalinInternazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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In copertina grado per meglio strumentalizzare il simbolo della battaglia con cui Stalin cambiò le sorti della seconda guerra mondiale. “Siamo di nuovo minacciati dai carri armati tedeschi”, ha detto il presidente nel febbraio 2023, inaugurando un nuovo monumento a Stalin nel museo dedicato ai duecento giorni dell’assedio, in cui morì un milione di soldati sovietici e tedeschi. “Ancora una volta siamo chiamati a respingere l’aggressione dell’occidente”. Tuttavia è Samara, cinquecento chilometri a nord di Volgograd, il luogo dove il fantasma di Stalin ci fa capire quanto poco conosciamo la Russia. Il suo monumento si trova nel punto in cui il Volga piega prepotentemente verso oriente, quasi attirato dagli Urali. La città è conosciuta come la Chicago russa, per la sua grande vitalità industriale, culla di mercanti e gangster. Ma in estate Samara diventa la Saint-Tropez del Volga, con spiagge eleganti e il mondano passeggio sul lungofiume, secondo solo a quello di Soči. E, proprio come Soči, è meta dei putiniani di più stretta osservanza. Sui monopattini circolano ragazzini e ragazzine borghesi con costose sneakers americane e la maglietta oggi più di moda, quella con il faccione di Stalin: “Ci fossi io non ci sarebbe tutta questa merda”, c’è scritto sopra. Fatto costruire dal dittatore nel 1942 sotto il vecchio palazzo del partito a Samara, quando i nazisti erano alle porte di Mosca, il bunker locale è diventato meta di pellegrinaggio anche per le scuole. Nel mio turno oltre la metà sono giovani sui vent’anni. Scendiamo fino a 37 metri sottoterra, dove furono attrezzati l’appartamento per il leader sovietico e la sala operativa d’emergenza. L’appartamento non è mai stato usato, ma la guida spiega che è stato risistemato ai tempi della crisi di Cuba e anche dopo l’annessione della Crimea nel 2014. Oggi può ospitare fino a seicento persone per cinque giorni. E dentro “prende pure il cellulare”. Andrej, ingegnere elettronico di 24 anni, arrivato da Mosca insieme a tre amici, mi confida che secondo lui “Stalin era un vincente”. Siamo davanti a una mappa militare originale della controffensiva sovietica. “Per noi giovani, Stalin è il numero uno. Dobbiamo combattere il male come durante la grande guerra patriottica. Aspetti negativi? Si dicono tante cose, ma l’importante sono i risultati”, dice. “Credo che ci siano stati più morti negli anni novanta con le guerre tra criminali e l’alcol. Quella è stata la nostra prima esperienza di democrazia: il periodo peggiore della nostra storia”.

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Nella seconda estate della “guerra contro il male”, come l’ha definita Andrej, addirittura i pope d’assalto sono indulgenti con Stalin, che confiscò i beni della chiesa ortodossa e trasformò molte cattedrali in prigioni, fabbriche e caserme. Era stato Piotrovskij, all’Ermitage, a suggerirmi d’incontrare un giovane sacerdote di nome Michail Rodin, “una delle voci emergenti”, della chiesa russa. “Vive a Balakovo”, mi aveva detto Piotrovskij, “un posto dimenticato da Dio”. Rodin, che ha 44 anni e quattro figli, appartiene alla chiesa dei vecchi credenti, nata nel seicento da uno scisma causato da controversie rituali e liturgiche con la chiesa ortodossa ufficiale. Una lunga storia di repressioni e clandestinità. Ma oggi la conflittualità con la chiesa governata dal patriarca Kirill sembra essere rientrata, grazie alla piena sintonia sul sostegno all’invasione dell’Ucraina e alla sacra missione della Russia nel nome di dio.

Credere e morire Arrivo a Balakovo di sera, nell’aria c’è odore di ammoniaca. In città tutto gira intorno a due delle più grandi centrali elettriche del Volga, ma le strade sono buie. L’unico segno di vita proviene dal Lucky pub, che ospita un concerto dei Kiss, una rock band locale con un certo seguito: i ragazzi del pubblico cantano a memoria le loro canzoni. Sembra di stare in pieno Midwest; ci sono tavoli da biliardo, freccette, patatine fritte in cestini con carta a quadretti, e un cartello con la scritta luminosa “No war here”. Rodin, che parla un ottimo inglese, mi dice che la sua chiesa – una casetta con tronchi di pino rosso profumato, il forno per il pane dell’eucarestia e icone preziosissime, collocata però nello squallido quartiere industriale della città – è stata finanziata da un certo Robert Stubblebine, uno statunitense che si è trasferito a Mosca. Stubblebine è vicepresidente e primo azionista di Yandex, il Google russo, lanciato dal suo socio d’affari Arkadij Volož, un oligarca che ha definito la guerra “barbara” (probabilmente nel tentativo, non riuscito, di essere depennato dalla lista dei miliardari colpiti dalla sanzioni). Rodin ha altre idee: “La guerra è l’ultima possibilità di salvezza per l’anima dell’uomo”, dice con un sorriso serafico. “Già nel libro dell’Apocalisse, Giovanni il teologo scriveva degli ultimi momenti della razza umana, quando ognuno dovrà scegliere il proprio cammino: stare con Dio o andare incontro a dolori e sofferen-

ze eterne”. Il suo tono non cambia quando gli chiedo della rinnovata popolarità di Stalin. “Non voglio giudicare, perché Dio non può essere rimosso dal cuore dei russi”, risponde. “Ma nessuno chiede aiuto a Stalin o al partito. Tutti invocano Dio!”. Conosco abbastanza bene i preti russi, tendono a essere bruschi e sussiegosi. Rodin è diverso, moderno e arcaico allo stesso tempo. Usa i social e ha modi da medioevo. Ha girato il mondo, ma per lui non esiste che la Russia. Gli chiedo cosa significhi essere russi. “Siamo influenzati dagli spazi immensi pieni di nulla, e dal clima duro”, dice. “In una terra così bisogna avere un obiettivo, un sogno. Noi russi abbiamo bisogno di avere qualcosa di grande a cui tendere. Sognavamo il comunismo, l’uguaglianza e una vita in cui nessuno fosse sfruttato da nessuno. Ogni persona uguale all’altra”. Poi prosegue: “Se i russi credono in qualcosa, ci credono fino alla fine. Credono in Dio, e sono pronti a morire per la fede. Credono nel comunismo, e sono pronti a morire per il comunismo. Credono nella Russia, e sono pronti a immolarsi per la Russia”. Anche a usare la bomba atomica, batjuška (padre in russo)? “Certo che sì”, risponde secco. “Siamo pronti a sacrificarci. Perché se non vinciamo, bruceremo tutto. Se non otteniamo questo futuro luminoso allora che senso ha vivere?”. A questo punto Rudin ha gli occhi infuocati. “Il nostro presidente sta dicendo quello che tutti pensano. Se non abbiamo la Russia che vogliamo, siamo pronti al martirio, a sacrificare noi stessi e il mondo intero, se è ingiusto e malvagio. Non c’è bisogno di un mondo così”. Sono di nuovo in strada quando mi accorgo che Albert mi ha mandato un messaggio dall’isola di Shubert. Un reggae in inglese, appena composto: “Al tramonto il Volga è immerso in una luce pura; al mio cuore succede lo stesso, quando è illuminato dall’amore”. ◆

GLI AUTORI

◆ Marzio G. Mian è un giornalista italiano. Il suo ultimo libro è Guerra bianca. Sul fronte artico del conflitto mondiale (Neri Pozza 2022). ◆ Alessandro Cosmelli è un fotografo documentarista italiano. Il suo ultimo libro è Havana buzz (Damiani 2017), realizzato con la fotografa Gaia Light. ◆ Questo reportage è stato realizzato con il sostegno del Pulitzer center on crisis reporting di Washington.

Foto di Francesca Leonardi

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Giappone

Dimmi come ti siedi Thu-huong Ha, The Japan Times, Giappone. Foto di Werner Bischof

Il mondo si può dividere tra chi usa la sedia e chi si accomoda per terra. In Giappone l’abitudine di sedersi sul pavimento ha generato uno stile unico nelle case e nei giardini. E ha influenzato ogni aspetto della vita el 2020, quando il mondo intero era chiuso in casa, le vendite di sedie da ufficio negli Stati Uniti sono aumentate del 75 per cento. Podcast, articoli, manuali e guide all’acquisto spuntavano dalla sera alla mattina in risposta all’inquietante realtà che molti impiegati dovevano affrontare: le sedie che avevano in casa erano terribili. Quelli di noi che fanno un lavoro da scrivania – e in Giappone si calcola siano il 28 per cento degli occupati – hanno un problema comune e persistente che si chiama seduta. Anche prima della pandemia erano comparsi sul mercato marchingegni di ogni genere: scrivanie per lavorare in piedi, mentre si cammina o si fa la cyclette; sedie ergonomiche o su cui inginocchiarsi, e addirittura sedie che rimbalzano.

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Un paese seduto Ma la pandemia ha eliminato il pendolarismo con l’ufficio, costringendo molti a prendere atto che ormai passavamo circa un terzo della giornata fermi su una sedia. È diventato comune arrivare alla fine della giornata solo per rendersi conto di aver fatto cinquanta passi in totale – fino alla cucina e ritorno, fino al bagno e ritorno – e di aver deliberatamente allungato il giro delle commissioni, anche inutili, solo per sgranchirsi le gambe. Rimanere fermi sulla sedia aumenta il rischio di insonnia, depressione, obesità, problemi cardiovascolari e morte. Ripetiamo da anni che stare seduti è il nuovo fumare, ma dopo tre anni di pandemia abbiamo tutti la tos-

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se del fumatore. O il sedere da scrivania, se preferite. “Siamo bravi a camminare e a correre, e ci piace stare sdraiati quando dormiamo. Il problema è la posizione intermedia”, scrive l’architetto Witold Rybczynski in Now I sit me down, la sua storia delle sedie. “Ogni sedia rappresenta una lotta per risolvere un conflitto tra gravità e anatomia umana. Mettersi seduti è sempre una sfida”. Nell’ultimo mese, quando dicevo che stavo lavorando a una storia sulla “posizione seduta”, i miei interlocutori avevano una reazione che mi ha sorpreso. Tutti si lamentavano delle sedie che hanno al lavoro o della loro postazione domestica ed erano ansiosi di ricevere qualche briciola di saggezza ergonomica. Come per il sonno, c’è una promessa: se fai qualche piccola modifica cambierai la tua vita. E come per il sesso, c’è una paura strisciante: lo starò facendo male? Il Giappone sta molto seduto. Uno studio dei 2011 pubblicato nell’American Journal of Preventive Medicine riferiva che, in base a un sondaggio tra più di

La storia di come ci si siede in Giappone è un microcosmo dei problemi legati alla rapida modernizzazione

49mila adulti in venti paesi, i giapponesi e i sauditi erano quelli che passavano più tempo seduti, con una media ponderata di 420 minuti nei giorni feriali. Il rapporto dei giapponesi con la posizione seduta è ulteriormente complicato dall’antica usanza di sedersi sul pavimento. Turisti e stranieri che vivono in Giappone potrebbero riconoscere facilmente la scena: arrivare in un ristorante con il tatami e puntare dritti al lato del chabudai (il tavolo basso) che tocca una parete, oppure rischiare di stramazzare, per il formicolio, dopo una ventina di minuti (o tirare un sospiro di sollievo quando allungando i piedi si scopre che sotto il tavolo c’è un buco dove far oscillare le gambe). Non basta, la cultura giapponese sostiene che c’è un modo “corretto” di sedersi, chiamato seiza, con un’intensa pressione sulle caviglie e le ginocchia che è parte integrante della pratica di arti tradizionali come il kendō, l’ikebana (la disposizione dei fiori) e il sadō (la cerimonia del tè). Il modo in cui ti siedi, si scopre, può dire molto di te. Uno studio del 2022 pubblicato dal Journal of Physical Education and Sport, rivelava che le persone sedute dritte su una sedia o nella posizione seiza erano percepite da un gruppo di 132 universitari giapponesi come più pulite (vale a dire meno disordinate) di chi stava ingobbito. Erano anche ritenute più etiche, un concetto definito da caratteristiche come “il contributo al gruppo e alla società”, “il rispetto delle regole e delle buone maniere” e perfino “un sentimento di venerazione” nei confronti di quanto è al di là del potere umano, come la

© WERNER BISCHOF ESTATE/MAGNUM/CONTRASTO

Una studente di moda, Tokyo, 1951

natura. Le persone accasciate sulla sedia erano considerate moralmente inferiori, e quelle appoggiate allo schienale reclinato all’indietro erano associate alla moralità più bassa. Alcuni influencer che si occupano di salute ritengono addirittura che sedersi sul pavimento e lo stile di vita incoraggiato da questa posizione siano fattori cruciali per l’aspettativa di vita incredibilmente lunga dei giapponesi. Dan Buettner, esploratore e sostenitore entusiasta della longevità, autore di una serie di libri intitolati Zone blu (un riferimento alle regioni del mondo dove la durata della vita è mol-

to alta), teorizza che “la pratica di Okinawa di sedersi sul pavimento è legata a salute, mobilità e longevità” e propone video su come, per esempio, guardare il telefono mentre si è seduti per terra.

La sedia di Dio Esiste un modo giusto di sedersi? E il Giappone l’ha individuato? La domanda è molto più complessa di così. La storia di come i giapponesi si siedono è un microcosmo dei problemi della sua rapida modernizzazione e attraversa centinaia di anni di cultura, politica e religione. Il mondo può essere genericamente diviso

tra chi usa le sedie e chi si siede sul pavimento. E fin dall’antichità il Giappone rientra nella seconda categoria, insieme alle culture islamiche del Medio Oriente e del Nordafrica, alle tribù di nativi americani e ai popoli dell’India e della Corea, come ha mostrato l’antropologo Gordon W. Hewes nel suo studio sulle posture del mondo negli anni cinquanta. Le sedie sembrano una componente d’arredo soprattutto europea, ma in realtà le prime sono attribuite agli antichi egizi e risalgono al 2600 aC. Secondo gli studiosi denotavano lo status sociale. “Dio è seduto su una sedia”, dice Hidemasa Yatabe, Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Giappone designer e studioso di tecniche corporee, a proposito delle prime raffigurazioni di questo oggetto. “Quando Dio siede sulla sedia, il re riceve il diritto di governare da Dio. Il re siede rispetto ai suoi sudditi nel modo in cui Dio siede rispetto al re”. Nel 200 dC la Cina aveva già realizzato uno sgabello pieghevole, poi intorno all’anno mille comparve la sedia e si diffuse rapidamente. Anche in Giappone si usavano le sedie, fin dal 500 dC, come provano dei resti trovati nella zona che fu colpita dall’eruzione del monte Haruna, nella prefettura di Gunma. Da molto tempo erano in uso anche sedili pieghevoli detti shōgi e seggi in legno scolpito usati dai monaci buddisti, chiamati kyokuroku. Ma ci sono voluti secoli prima che le sedie si diffondessero.

Pavimenti rialzati Le cose sarebbero potute andare diversamente, come ha scritto nel 1986 l’architetto Arata Isozaki, vincitore del premio Pritzker. “Lo sgabello pieghevole era usato dai guerrieri per indicare la loro posizione di superiorità rispetto ai contadini, che s’inginocchiavano o sedevano per terra”, spiega, suggerendo che le sedie basse furono originariamente adottate in Giappone per motivi legati alla pulizia e alla gerarchia sociale. Ma la classe aristocratica dei guerrieri cominciò a costruire nelle sue case pavimenti di legno rialzati. Questi, lontani dalla sporcizia delle pietre o della terra battuta, portarono con sé un nuovo modo di vivere direttamente sul pavimento. In altri termini, il pavimento diventò una sedia. E così, malgrado l’entusiasmo con cui nel periodo Nara (710794) si ispirò alla Cina per l’arte, la calligrafia e l’architettura, il Giappone voltò le spalle alle sedie. Isozaki scrive che l’abitudine di sedersi sul pavimento si rivelò cruciale per lo sviluppo di un originale stile giapponese. La progettazione di stanze e giardini era concepita pensando a qualcuno che stava seduto o in ginocchio sul pavimento. Il più celebre regista inconfondibilmente giapponese, Yasujirō Ozu, era noto per l’uso di una cinepresa statica collocata molto in basso, vicino al suolo. “Quando riprendeva le famiglie, protagoniste predilette dei suoi film, Ozu preferiva gli interni, soprattutto nelle case in stile giapponese”, scrive Mark Schilling, critico cinematografico del Japan Times. “Girava da una posizione bassa, con la cinepresa sistemata all’altezza di una persona seduta su un tatami, per dare una sensazione d’intimità”. Yatabe,

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che ha scritto diversi libri sul modo di sedersi, si spinge più in là. Circondato da eleganti sedie artigianali realizzate in palissandro e ippocastano bianco giapponese nel suo Istituto giapponese di ricerca sulla cultura fisica, a Tokyo, Yatabe studia la storia delle posture ed estetica del corpo. Con il crepitio del caminetto in sottofondo, provo varie sedie che ha progettato per lavorare e per meditare. Mi siedo su una che ricorda un po’ uno strumento di tortura, e appoggiandomi allo schienale dalla gola mi scappa un fievole gemito non propriamente professionale. “Quasi tutti gli aspetti legati alla vita dei giapponesi sono nati dalla premessa di sedersi sul pavimento”, scrive in “Nihonjin no suwarikata” (Stili di seduta dei giapponesi, 2011). “Dalle posture quotidiane per mangiare e bere o dai modi per salutare gli altri, fino alle posizioni fondamentali nelle arti tradizionali, è impossibile capire fino in fondo la cultura giapponese se non si considera l’abitudine di sedersi sul pavimento”. Nel suo atelier, mostra un kimono, con una forma e un taglio basati su criteri di bellezza che nascondono le linee del corpo, invece di sottolinearle. Le pose ampie e le ginocchia profondamente piegate, stando in piedi o seduti, erano variamente associate alla bellezza e alla forza, spiega. Gli uomini di alto rango, come imperatori e samurai, erano raffigurati seduti in una posizione detta rakuza, con le piante dei piedi che si toccavano e le ginocchia divaricate (quella che alcuni lettori potrebbero conoscere come “posizione della farfalla”), ed era una dimostrazione di forza e di bellezza. Yatabe contrappone questa tradizione ai ritratti dei re dell’Europa occidentale, che posavano in piedi con una gamba protesa in avanti. Ovviamente non è possibile pensare alle linee di un kimono senza considerare anche il seiza. I valori estetici influenzano la cultura. E anche i governi. Durante la restaurazio-

Il più celebre regista inconfondibilmente giapponese, Yasujirō Ozu, era noto per l’uso di una cinepresa statica messa molto in basso, vicino al suolo

ne Meiji del 1868, il periodo di rapida modernizzazione e occidentalizzazione del Giappone, uno dei tanti aspetti della vita sociale e culturale che furono esaminati con cura fu il modo in cui la popolazione si sedeva. Nei primi anni ottanta dell’ottocento, scrive Yatabe, quando i bambini per la prima volta cominciarono in massa a frequentare la scuola pubblica obbligatoria, si avvertì il bisogno d’insegnare non solo a leggere e a scrivere, ma anche l’etichetta, che includeva come salutare correttamente gli altri, come mangiare educatamente il bentō, come inchinarsi e – avete indovinato – come sedersi. Il manuale “Nuova edizione del galateo per la scuola elementare” descriveva molto dettagliatamente il modo “corretto” di sedersi, una variante elaborata di quello che oggi chiameremmo seiza, un termine formato dai caratteri di “giusto” e “seduta”. “Mettetevi in posizione eretta con i piedi uniti, fermatevi e, partendo dal sinistro, spostate indietro un piede alla volta. Mentre sollevate le dita dei piedi, inginocchiatevi piegando entrambe le gambe, poi sistemate gli alluci e sedetevi. Quando siete seduti, poggiate le mani direttamente sulle ginocchia e riposate le braccia, stando concentrati come se non doveste far cadere un uovo di gallina da ciascuna ascella”. Quando accenno al seiza a colleghi e amici cresciuti in Giappone, c’è una sorta di sussulto universale. Lo raccontano come se fosse una specie di punizione: “Mettiti in seiza e pensa a cos’hai fatto!”. Il seiza può migliorare la flessibilità delle anche e mandare sostanze nutritive alle ginocchia, ma restare seduti a lungo in questa posizione viene anche associato a gambe storte e a problemi di circolazione sanguigna ed edemi. “Mi piace molto il seiza”, mi scrive un amico taiwanese che pratica il sadō e l’ikebana. “Mi piace non stare troppo comodo”. Nella cerimonia del tè il seiza è visto come un modo elegante di rendere compatto il corpo in sale sempre più piccole. Per di più, originariamente indicava l’atteggiamento umile del padrone di casa nei confronti dell’ospite, spiega l’ufficio della Mushakōji senke kankyuan, una delle tre maggiori scuole di tè giapponesi. Ma Sen no Rikyū, il padre della moderna cerimonia del tè giapponese, da cui discendono direttamente tutte e tre le scuole, sedeva nell’agura, cioè a gambe incrociate. Eppure per gli standard di oggi questo stile è considerato rozzo o trasan-

© WERNER BISCHOF ESTATE/MAGNUM/CONTRASTO

Cerimonia del tè, Kyoto, 1951

dato, e sicuramente inadatto alle donne. È sorprendente che un modo di sedersi sia circondato da tante controversie. Ma è significativo che un’altra delle tre scuole non mi abbia concesso un’intervista per timore che il suo nome apparisse in un articolo che poteva denigrare il seiza. Un libro di sadō per principianti racconta in dettaglio una riforma cruciale della tradizione: “I praticanti immaginarono un nuovo approccio alla cerimonia del tè, adattandola ai tempi”. Era il 1872, e la novità erano le sedie. Il cambiamento stava lentamente arrivando in Giappone. Negli anni sessanta e settanta del novecento, durante la rapi-

da crescita economica postbellica, l’uso delle sedie era ormai entrato nelle case giapponesi. In effetti, il Giappone è arrivato da poco sulla scena globale delle sedie. E per questo gli abitanti delle sue città mostrano una fascinazione assoluta per questo oggetto. Nella primavera del 2022, diversi spazi Muji nel quartiere di Ginza, a Tokyo, ospitavano mostre di sedie. Nell’estate del 2022, due esposizioni di sedie sono state allestite contemporaneamente al Tokyo metropolitan art museum e al museo di arte contemporanea di Tokyo, una con progetto del designer danese Finn Juhl e l’altra con modelli del francese Jean Prouvé.

Stando a quanto scrive Makoto Shimazaki nell’introduzione a Sedie giapponesi, a partire dai primi anni sessanta il Giappone è diventato uno dei più grandi mercati al mondo per mobili europei come la sedia Y di Hans Wegner. I pionieri giapponesi delle sedie moderne, come ci mostra il libro, hanno inglobato nei loro progetti alcuni elementi della casa giapponese. Gli sgabelli impilabili di Isamu Kenmochi, sistemati fianco a fianco o uno di fronte all’altro, non sprecavano spazio, una risorsa che in Giappone scarseggia. La sedia a raggio di Kappei Toyoguchi s’ispirava alla sedia Windsor, ma era più larga e profonda. L’ampio cuscino permetteva di incroInternazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Giappone ciare o piegare le gambe sulla sedia e, con un’altezza di soli 34 centimetri, il sedile era abbastanza basso perché la persona seduta si trovasse più o meno alla stessa altezza di chi era inginocchiato sul pavimento. Un’altra sedia di Toyoguchi aveva gambe arrotondate per non rovinare la superficie del tatami. Come hanno dimostrato questi designer, le sedie costruite in occidente semplicemente non si adattavano allo stile di vita predominante in Giappone.

Nuovi punti dolenti Oggi in Giappone chi sta seduto si trova in una posizione molto bizzarra: a soli sessant’anni dal passaggio dal tatami alla sedia, la società sta scoprendo nuovi punti dolenti. Secondo Yatabe, sono il risultato del tentativo di adattarsi troppo in fretta a una cultura del corpo straniera, quella europea. Lo paragona alle donne che cercano di passare in massa ai tacchi alti: i piedi, abituati ai geta (sandali di legno) e agli zōri (sandali bassi), potrebbero non avere l’arco plantare in grado di sopportare quelle calzature. I valori estetici che hanno influito su posture e fisico non potevano essere superati con la stessa rapidità del decollo economico giapponese postbellico. Allo stesso modo, sedersi per terra ha rappresentato una parte così importante della vita per così tanto tempo che la società non poteva semplicemente adattarsi alle sedie dalla sera alla mattina. Yatabe ricorda sua nonna e altri anziani che conosceva, nati nell’era Meiji (18681912). Quando camminavano erano curvi in avanti o avevano bisogno di un bastone, ma quando stavano seduti sul pavimento sembravano incredibilmente comodi ed eleganti. Questa era l’intensità dell’allenamento fisico a cui si erano sottoposti, dice. Le posture “corrette” e la tradizione di sedersi sul pavimento forse stanno svanendo, ma il loro effetto sulla cultura rimane. “All’università in California ho scoperto che mi siedo in modo strano”, mi racconta una collega giapponese mostrandomi una posizione simile al virasana dello yoga, in cui le ginocchia si toccano e i glutei sono a terra, con le gambe a forma di V. “E quando sono tornata in Giappone ho dovuto disimparare a stare seduta a gambe incrociate, perché era considerato volgare”, continua. Sayaka Murata, autrice di La ragazza del convenience store, una volta mi ha detto che ai convegni e alle fiere del libro in Europa gli altri scrittori facevano commenti sul suo

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modo di stare seduta dritta e aggraziata. “Ho provato (a ingobbirmi), ma era davvero molto difficile”. Per tutta la sua lunga carriera Kageyu Noro, professore dell’università Waseda e uno dei massimi esperti giapponesi di ergonomia, ha risposto alle domande delle persone sul mal di schiena. Nel suo ambulatorio sulla seduta, in cinque anni ha visitato circa trecento persone, mostrando come correggere sedie e posture, per esempio aggiustando dei cuscini che sprofondavano troppo o costruendo schienali. Gli mostro una cosa che mi hanno regalato, una comunissima sedia pieghevole blu. Proprio dove ci si aspetterebbe un supporto lombare c’è uno spazio vuoto. Io la uso sempre ma, come gli spiego, mi scatena il mal di schiena. Lui mi suggerisce di arrotolare un asciugamano e incastrarlo tra sedile e schienale per avere un sostegno. Noro sta lavorando a una tecnologia che consente “una sorta di dialogo tra la sedia e la persona che la usa”. In realtà, spiega, non esiste una sedia che vada bene per tutti. Per Noro la risposta non va cercata nell’ergonomia moderna ma molto indietro nella storia del Giappone. Il monaco buddista Dōgen, vissuto dal 1200 al 1253, portò in Giappone il buddismo zen e diffuse la pratica dello zazen, o meditazione seduta zen. Il monaco e i suoi discepoli si sedevano sugli zafu, cuscini rotondi di tifa intrecciata. “Il modo di sedersi di Dōgen era estremamente logico”, dice Noro. “Chiedeva ai monaci di farsi da soli lo zafu più adatto al loro corpo”. La chiave era personalizzare: stare comodi su una sedia dipende, anche, dal vostro peso. Nelle sue ricerche Noro ha approfondito il rapporto tra peso corporeo e “livello di sprofondamento”, cioè la variazione di altezza del cuscino. Il suo laboratorio ha progettato una sedia per la microchirurgia che consente al paziente di rimanere seduto comodo per molte ore du-

Da sempre l’Homo sapiens cammina in posizione eretta, eppure la nostra colonna vertebrale si piega continuamente verso il basso

rante interventi di estrema precisione, e per questo ha usato il modello di cuscino di Dōgen del duecento. Yatabe fa eco alle conclusioni di Noro. Dopo anni di studio ha cominciato a fare sedie su misura concepite per adattarsi al corpo dei suoi clienti. Insiste che è inutile guardare all’ergonomia occidentale quando il rapporto del Giappone con la posizione seduta a terra risale a migliaia di anni fa, ed è influenzato dalle tradizioni dello zen, dello yoga e del tai chi. Sedersi non è solo una questione di arte, salute, etichetta e tradizione. È anche una questione dell’anima. “Il seiza è una postura che consente di concentrare la forza sul punto vitale del corpo, il dan-tian”, mi dicono alla scuola di tè Mushakouji senke kankyuan. “Alcuni credono che adottando questa posizione si possa calmare e soddisfare la mente”. Mentre le sedie causano tanta tensione agli impiegati, certi modi di sedersi sono davvero un mezzo per sopportare le fatiche quotidiane. La meditazione laica è diventata molto popolare, perfino una pratica estrema chiamata meditazione vipassana, che si è trasformata in un rifugio alla moda per chi è stanco del mondo: dieci giorni di meditazione seduta, silenziosa, completamente disconnessi dalla società. Mentre lavoravo a questo articolo, ho partecipato a due lezioni di pratiche meditative molto diverse. Ma i risultati sono stati gli stessi: dopo appena un’ora di posizione seduta, le mie gambe sono diventate completamente insensibili. Sentendomi dire che dovevo pensare solo al mio respiro e all’energia del mio corpo, non riuscivo a non chiedermi: che diavolo sto facendo? Perché sto qui seduto? Questo potrebbe essere il nocciolo della questione per chi è costretto alla scrivania, afflitto da dolori al collo, alle spalle e alla schiena: stare seduti tutto il giorno fissando uno schermo spesso sembra il contrario esatto della vita. Da sempre l’Homo sapiens cammina in posizione eretta, eppure la nostra colonna vertebrale si piega continuamente verso il basso, i nostri occhi seguono icone e testi, il nostro sedere cerca superfici dove appoggiarsi. Ci facciamo in quattro per riappropriarci della capacità di stare seduti – un problema che ci siamo creati da soli – nel nome della salute, della cultura, della bellezza, della realizzazione di sé e perfino di quell’ideale indefinibile chiamato felicità: c’è qualcosa di più umano? u gc

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TATIANA FERNANDEZ GEARA (BLOOMBERG/GETTY)

Repubblica Dominicana

L’isola caraibica divisa da un muro Jean-Michel Hauteville, Le Monde, Francia

Il governo di Santo Domingo sta costruendo una barriera lungo il confine con la vicina Haiti. E decine di famiglie hanno dovuto lasciare la casa e la loro terra 52

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Sul ponte che collega Ouanaminthe, Haiti, e Dajabón, Repubblica Dominicana, 14 agosto 2022

ome quasi ogni mattina Bienvenida Acosta si è sistemata proprio davanti alla casa del figlio, sotto il tamarindo che fa ombra sul marciapiede di Pueblo Nuevo, un quartiere residenziale di Pepillo Salcedo, nella Repubblica Dominicana. Acosta, 68 anni, è un’ infermiera in pensione e vive da sempre in questa cittadina alla foce del rio Dajabón, che sul versante haitiano è chiamato il “fiume del massacro”. In questa regione dell’estremo nordovest del paese i meandri del piccolo fiume delineano la frontiera con Haiti.

C

Seduta su una sedia di plastica, la donna osserva con affetto il nipotino che gioca nel letto pieghevole. Da questo lato dell’Última calle, l’ultima strada, non ci sono case. Al loro posto c’è una larga striscia di detriti delimitata da un muro di cemento alto un metro e mezzo. È la base della “chiusura periferica intelligente” che il governo dominicano ha cominciato a costruire nel febbraio 2022 lungo la frontiera con Haiti. La casa in cui Acosta aveva vissuto per trent’anni è stata rasa al suolo a luglio. “Quando ho visto le ruspe che cominciavano a buttare giù i muri, sono svenuta”, dice la donna. Pochi metri più lontano, l’edificio in cui era nata e dove vivevano i suoi nipoti ha fatto la stessa fine. “Quelli dietro il muro sono i miei alberi”, dice Acosta indicando con sguardo malinconico un mango, un’anona, un avocado e altri alberi da frutta, tutti ormai inaccessibili. Per la sua casa di cinque stanze lo stato le ha dato un indennizzo di 1,4 milioni di pesos (22.700 euro) e un terreno di quattrocento metri quadrati dall’altro lato della città. Non è un risarcimento “equo”, afferma in tono alterato, ma bisogna accettarlo “per il bene della nazione”, aggiunge rassegnata. Come quella di Bienvenida Acosta, altre 48 famiglie di Pepillo Salcedo sono state espropriate per permettere la costruzione del muro voluto dal presidente dominicano Luis Abinader. L’obiettivo del governo è bloccare gli haitiani che cercano di entrare irregolarmente nel paese e i traffici che prosperano lungo il confine. Sono 380 chilometri che dividono l’isola di Hispaniola da nord a sud. “Vogliamo più sicurezza e un controllo migliore della frontiera. È una decisione irreversibile”, ha detto Abinader il 19 ottobre 2023, in occasione della cerimonia d’inaugurazione di un tratto di tre chilometri e mezzo di muro a Comendador, una cittadina di confine situata al centro dell’isola. L’ondata di violenze e di instabilità che ha travolto il paese confinante, il più povero del continente americano, “non dovrà diffondersi nella Repubblica Dominicana”, ha sottolineato il capo dello stato. Quando sarà completato, il muro dovrebbe estendersi per 170 chilometri ed essere diviso in vari segmenti. “La co-

50 km

Pepillo Salcedo Dajabón Ouanaminthe

HAITI

REPUBBLICA DOMINICANA

Comendador Port-au-Prince

Santo Domingo

Mar dei Caraibi

struzione avverrà in tre fasi”, spiega il portavoce della presidenza Homero Figueroa. “Nella prima, che è già cominciata, saranno costruiti 54 chilometri di barriera nelle zone più vicine alla capitale Santo Domingo, per un costo di 1,75 miliardi di pesos, cioè 28 milioni di euro”. Questa fase sarà realizzata “durante il primo semestre del 2024”, continua il portavoce. Poi partirà la fase successiva, in cui saranno costruiti altri 112 chilometri “nelle zone di frontiera di più difficile accesso”. In seguito il governo doterà questa struttura “intelligente” di materiale elettronico di sorveglianza: “Il muro di confine è un mezzo per affermare la sovranità nazionale della Repubblica Dominicana”, sottolinea Figueroa.

Dalla parte del governo A mezz’ora di strada da Pepillo Salcedo, risalendo il fiume Dajabón, il segmento di barriera che si estende per circa venti chilometri vicino alla città di Dajabón, capoluogo dell’omonima provincia, sarà terminato molto presto. Sulla base in cemento, una recinzione sovrastata dal filo spinato arriverà a tre metri d’altezza. Una torretta di osservazione alta una decina di metri – una delle 74 previste lungo il muro – ha trasformato le strade di La Mara e La Bomba in una sorta di prigione. In questi due quartieri popolari di Dajabón decine di famiglie sono state costrette a lasciare la loro casa. Gumercindo Geovani Ureña, 61 anni, ha avuto fortuna: ha potuto conservare la sua piccola abitazione, circondata da fiori e piante grasse. Ma quasi due terzi del terreno che lui e i suoi fratelli hanno ereditato, cioè 4,4 ettari di terre agricole, sono stati espropriati dallo stato in cambio di un risarcimento di 15 pesos al metro quadrato. Il prezzo minimo imposto alle famiglie povere, che non hanno un titolo di proprietà. “Non abbiamo accettato l’indennizzo, ma nel frattempo il muro è già stato eretto sul nostro terreno”, dice sconsolato Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Repubblica Dominicana Ureña. Il fratello più giovane alleva le pecore, ma la recinzione impedisce al bestiame di abbeverarsi nel fiume Dajabón, come succedeva in passato. Ora bisogna portare il gregge in un ruscello lontano dai pascoli. Nonostante i problemi, Ureña è favorevole a questi lavori faraonici. “Ci sono molti furti lungo la frontiera, di bestiame, di prodotti agricoli e di altro materiale”, spiega l’agricoltore, che come molti abitanti della zona accusa apertamente gli haitiani. Ureña ha avviato un processo di mediazione con lo stato per cercare di ottenere un risarcimento più favorevole. Come ultima possibilità, ma senza molta convinzione, si riserva la possibilità di presentare ricorso. “Continuiamo a sperare di ricevere un’offerta degna di questo nome”, dice. “Qualcuno è rimasto insoddisfatto, ma la maggior parte delle famiglie espropriate ha accettato l’indennizzo offerto dal governo di Luis Abinader”, assicura Santiago Riverón, il sindaco di Dajabón. Questo deputato del Partito rivoluzionario moderno (la formazione centrista del presidente Abinader) giudica molto positivamente il progetto del governo e afferma che nel capoluogo il problema della criminalità di frontiera “si sta riducendo”. Prima di salutarci Riverón, che indossa abiti da cowboy, si aggiusta il cappello: ha appuntamento con il suo collega della città di Ouanaminthe, sulla riva haitiana del Dajabón. I due sindaci stanno cercando di trovare una soluzione locale alla crisi che dal settembre del 2023 complica i rapporti tra i due comuni, molto legati soprattutto economicamente. A settembre infatti il governo dominicano ha ordinato la chiusura unilaterale della frontiera terrestre e marittima con Haiti per protestare contro la costruzione di un canale d’irrigazione sul lato haitiano del fiume Dajabón. Poi, quattro settimane dopo, ha detto di voler tornare alla normalità. Ma le autorità haitiane rifiutano di riaprire i punti di passaggio terrestri, compreso il ponte che segna la frontiera tra i due paesi. Solo i collegamenti aerei sono stati ripristinati. La situazione tra Haiti e la Repubblica Dominicana è in una fase di stallo. Da due mesi il mercato comune di Dajabón – finanziato dall’Unione europea – e la zona franca di frontiera, che dà lavoro a tantissime persone, sono in difficoltà. “Oggi il mio fatturato è il 2 per cento del precedente”, si rammarica Félixmé Rosembert, responsabile di un’azienda di prodotti

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Pretendere di chiudere una frontiera fatta di fiumi, laghi e montagne è un’illusione. Si troverà sempre il modo per aggirarla

alimentari. Oggi questo grossista fa lavorare solo quattro dipendenti, rispetto ai trenta che impiegava appena tre mesi fa. Del resto alcuni non possono neanche più raggiungere il posto di lavoro, dal momento che non hanno il permesso di attraversare il fiume. Rosembert, che vive a Dajabón, guarda con indifferenza la recinzione che s’intravede alla fine della strada. “Ogni paese sceglie di controllare il suo territorio come preferisce. Per poter passare basta avere un visto regolare”, dice alzando le spalle. Ma “bisogna riaprire la frontiera”, afferma nel suo negozio deserto. Al vicino valico di confine i militari dominicani lasciano passare solo qualche commerciante, sono tutti haitiani. Nel frattempo una folla variopinta di decine di persone, cariche di ogni genere di merce, aspetta con rassegnazione un’ipotetica apertura dei cancelli che sbarrano il ponte. Purtroppo l’incontro tra i due sindaci non ha dato risultati. I responsabili locali possono intervenire poco sulle questioni di politica nazionale. La situazione per ora è calma, ma in questo importantissimo punto di passaggio comincia a crescere la tensione. A novembre c’è stato un incidente a Dajabón, dal lato haitiano del muro, costruito in territorio dominicano a pochi metri dalla frontiera. Dopo aver incendiato degli pneumatici lungo il muro, alcuni contadini haitiani hanno agitato il machete di fronte ai soldati dominicani. La situazione non è degenerata grazie all’intervento di alcune guardie forestali haitiane, ma il clima rimane teso. Inizialmente prevista per una durata di nove mesi, la prima fase di costruzione del muro ha subìto un grande ritardo, soprattutto a causa dei numerosi vincoli di

carattere ambientale. Ma i lavori continuano e il sacerdote Osvaldo Concepción non nasconde la sua inquietudine: “Il muro è la conseguenza del fallimento degli sforzi di collaborazione tra i nostri due paesi”, si rammarica mentre lo incontriamo nei locali del centro Montalvo, un’organizzazione di beneficenza gesuita che dirige a Dajabón. “Il nostro è un paese accogliente”, dice il giovane prete, che poi accusa il governo di cedere alla vecchia tradizione del sentimento antihaitiano ereditato da due secoli di tumultuose relazioni bilaterali, e di “copiare più o meno bene alcune politiche populiste”, come il muro fatto costruire dagli Stati Uniti al confine con il Messico. Con la differenza, però, che la versione dominicana “non è stata pensata in modo intelligente”.

Darsi la mano In effetti la reale efficacia di questo muro come strumento di lotta contro l’immigrazione irregolare non è dimostrata. “Ogni giorno sulle montagne passano centinaia di migranti, a piedi o in moto”, racconta una guida turistica di trent’anni che vuole rimanere anonima e vive a Villa Los Almacigos, un villaggio rurale vicino a Dajabón. La recinzione di frontiera “fa solo aumentare il costo del passaggio e la corruzione dei militari”, aggiunge, spiegando che lui percorre quotidianamente la cordigliera del Cibao, la regione settentrionale dell’isola. E negli ultimi mesi, a causa del peggioramento delle relazioni bilaterali, ha notato che il numero di migranti è diminuito sensibilmente. Questo ha delle conseguenze: “Per esempio durante la raccolta del caffè non ci sono abbastanza lavoratori haitiani”, dice. “Il muro non ha senso. Pretendere di chiudere una frontiera fatta di fiumi, laghi e montagne è un’illusione. Si troverà sempre il modo per aggirarla”, afferma la regista haitiana Rachèle Magloire, che denuncia un “progetto elettorale di estrema destra”, un atto “unilaterale” con cui il governo dominicano “minaccia l’integrità dell’isola”. Il giudizio di Magloire, fondatrice del Mouvement Azueï, un collettivo artistico haitiano-dominicano creato nel 2015 e composto da una trentina di persone, è molto amaro: “Gli haitiani e i dominicani si devono dare la mano per affrontare insieme gli effetti della crisi climatica”, dice la regista, che si batte per “costruire dei ponti e non dei muri”. u adr

La magia di

ARIELLA GLASER

ORLANDO SCHWERDT

torna al cinema

GILLIAN ANDERSON

CON

E

HELEN MIRREN

DALL’ACCLAMATO REGISTA DI

IL CACCIATORE DI AQUILONI E NEVERLAND

LIONSGATE PRESENTA IN ASSOCIAZIONE CON PARTICIPANT UNA PRODUZIONE LIONSGATE/MANDEVILLE FILMS IN ASSOCIAZIONE CON 2DUX2 PRODUCTIONS UN FILM DI MARC FORSTER “WHITE BIRD”ARIELLA GLASER ORLANDO SCHWERDT BRYCE GHEISAR CON GILLIAN ANDERSON E HELEN MIRREN CASTINDIG KATE DOWD, CDG MUSICDIA THOMAS NEWMAN COSTUMI JENNY BEAVAN MONTAGGIDIO MATT CHESSÉ, ACE SCENOGRAFIE JENNIFER WILLIAMS DIRETTOREFOTOGRAFIADELLA MATTHIAS KÖNIGSWIESER PRODUTTORI PRODOTTO SCENEGGIATURA BASATO SUL DA TODD LIEBERMAN, p.g.a. DAVID HOBERMAN, p.g.a. R.J. PALACIO LIBRO DI R.J. PALACIO ESECUTIVI JEFF SKOLL ROBERT KESSEL KEVAN VAN THOMPSON ALEXANDER YOUNG RENÉE WOLFE MARK BOMBACK DI MARK BOMBACK DIRETTO DA MARC FORSTER #IoScelgoLaGentilezza

Scienza

Noi siamo moltitudini Rowan Hooper, New Scientist, Regno Unito

otreste ragionevolmente credere di essere individui della specie Homo sapiens. In realtà siete molto di più. Miliardi di altri organismi vivono sulla superficie e all’interno del vostro corpo. Fino a poco tempo fa, gli scienziati credevano che ci fossero tre parti distinte della nostra natura che riflettevano aspetti incontrovertibili di un sé individuale: il sistema immunitario, il genoma e il cervello. “Nessuno di questi pilastri della definizione tradizionale del sé – immunità, integrità del genoma, sistema nervoso centrale – è esente dall’influsso del microbioma”, afferma Thomas Bosch dell’università di Kiel, in Germania. I microbi che ci colonizzano, noti complessivamente come microbiota, mettono in discussione il concetto di un sé distinto. Si tratta di batteri, virus e funghi, anche se i più studiati sono i batteri. Messi tutti insieme, questi microbi coordinano il sistema immunitario, influenzano il funzionamento e la crescita del cervello e condizionano la nostra personalità e i nostri sentimenti. Più di un terzo

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Da sapere Microbioma e microbiota? u Il microbiota è l’insieme dei microrganismi, come batteri, virus e funghi, che popolano il nostro corpo. Quello dell’apparato digerente è spesso chiamato “flora intestinale”. A volte al posto di microbiota si usa il termine microbioma, soprattutto in inglese, ma quest’ultimo in realtà indica l’insieme dei geni dei microrganismi che compongono il microbiota.

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dei geni umani sono di origine batterica, e l’attività di migliaia di miliardi di geni microbici nell’intestino ha conseguenze dirette sulla nostra nutrizione e sul metabolismo. Queste scoperte portano alla sorprendente conclusione che un corpo umano non è un individuo ma un “metaorganismo”. Bosch, che dirige un centro di ricerca sui metaorganismi, è uno dei molti scienziati secondo cui gli elementi chiave che crediamo ci rendano individui sono in realtà il prodotto di interazioni con i microrganismi. Se è così, dobbiamo ripensare cosa significa essere umani. “Senza dubbio, la linea di demarcazione tra dove finiamo noi e dove comincia il mondo esterno è oggetto di dibattito”, afferma Geraint Rogers del South Australian health and medical research institute di Adelaide. Il fatto che questo confine sia sfumato ha un senso, dato che ci siamo evoluti su un pianeta abitato da microbi e che i microbi erano qui molto prima di noi. “Fondamentalmente, siamo sempre stati in parte microbici”, afferma Alan Walker dell’università di Aberdeen, nel Regno Unito. Questo punto di vista ha importanti implicazioni per quanto riguarda il nostro posto nella natura, ma implica anche che dovremo cambiare il modo in cui ci curiamo quando siamo ammalati. “Dobbiamo adattarci a una visione olistica che tenga conto della complessa interconnessione tra il nostro intestino, la nostra mente e i miliardi di microbi che vivono nel nostro apparato digerente”, afferma Harriët Schellekens, dell’Univeristy college di Cork, in Irlanda. Al momen-

ELEONORA GALLI (GETTY)

Il corpo umano è abitato da un numero enorme di microbi che svolgono funzioni essenziali. Questo dovrebbe cambiare la nostra idea di ciò che siamo e il modo in cui ci curiamo

to, tuttavia, non sappiamo sempre come fare: il sistema è semplicemente troppo complicato, con molte incognite. Il miglior trattamento a base microbica che abbiamo si basa sull’uso di trapianti fecali per trattare le infezioni ricorrenti del batterio Clostridioides difficile.

Connessione profonda A parte questo, le prove cliniche affidabili per una medicina basata sul microbioma si accumulano lentamente. Un esempio promettente è uno studio condotto nel Regno Unito che ha esaminato i neonati prematuri a rischio di sviluppare una malattia intestinale pericolosa chiamata enterocolite necrotizzante. La diffusione di questa malattia si è più che dimezzata nei

bambini a cui è stata somministrata una dose giornaliera di batteri protettivi. Ma i trattamenti che sfruttano la comunità microbica nel nostro organismo devono essere ulteriormente sviluppati. Prendiamo il legame tra il microbioma e la salute mentale. I nostri microbi intestinali sintetizzano molti degli stessi neurotrasmettitori prodotti dal cervello, e li usano per comunicare con esso. Tutti ci rendiamo conto dell’intima connessione tra il cervello e l’intestino quando siamo nervosi o abbiamo le farfalle nello stomaco, ma in realtà questo rapporto è ancora più profondo. Diversi studi hanno dimostrato una correlazione tra la mancanza di alcuni batteri intestinali e disturbi come la depressione e l’ansia, ma non sappiamo se

questo legame è causale. I trapianti fecali da persone depresse sembrano indurre depressione nei ratti. E in alcuni studi preliminari, quando le persone depresse sono state curate con trapianti fecali i loro sintomi sono migliorati. La maggior parte dei trapianti riusciti è avvenuta in concomitanza con una terapia tradizionale, e il miglioramento dei sintomi non è stato permanente. Neanche le conseguenze a lungo termine dei trapianti fecali sono chiare. Le terapie affidabili, quindi, sono ancora lontane. “Per me questa è solo un’indicazione, non tratterei la depressione curando il microbioma”, afferma Walker. Ma Rogers afferma che il microbioma può spiegare le differenze nei risultati cli-

nici tra un individuo e l’altro. Quando curiamo qualcuno, prendiamo in considerazione le predisposizioni genetiche e le condizioni esistenti, dice, ma è sempre più chiaro che dovremmo aggiungere il microbioma alla lista. Tutto questo ha profonde implicazioni su ciò che significa essere umani. Per secoli ci siamo considerati distinti dalla natura, il che ha portato a uno sfruttamento eccessivo dell’ambiente. “Abbiamo sempre pensato di essere diversi, superiori alla natura, vedendola come qualcosa di estraneo”, dice Bosch. “Dobbiamo tornare a pensare che facciamo tutti parte di un sistema vivente integrato. Se guardiamo nel nostro corpo, vedremo che siamo pieni di natura”. u bt Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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HIROSHI WATANABE (GETTY)

Scienza

Come prendersi cura dei microbi Alison George, New Scientist, Regno Unito Con il tempo l’equilibrio del microbioma tende ad alterarsi, ma ci sono modi per mantenerlo sano anche in età avanzata l microbioma intestinale è un sistema di supporto vitale per la salute mentale e fisica, perché fornisce al corpo i nutrienti fondamentali e contribuisce a coordinare il sistema immunitario. E ora ci stiamo rendendo conto di quanto questo sia vitale anche per un invecchiamento sano. Con l’avanzare dell’età, l’equilibrio dei microbi del nostro intestino cambia. Diminuiscono quelli benefici, come l’an-

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tinfiammatorio Faecalibacterium, e aumentano quelli che aggravano l’infiammazione provocata da varie patologie legate all’età, come le malattie cardiache, il cancro e il declino cognitivo. Molti studi, condotti su soggetti che vanno da una popolazione isolata dell’India rurale a una ricca comunità urbana in Italia, mostrano sorprendenti somiglianze nell’effetto dell’età sul microbioma. Una scoperta chiave è che le persone anziane in buona salute hanno molti tipi di microbi benefici, che in genere si perdono con il declino fisiologico. Non è chiaro se i microbiomi degli anziani sani determinino la loro vitalità o siano il risultato dello stile di vita, ma uno

studio condotto sui topi da John Cryan e dai suoi colleghi dell’University college di Cork, in Irlanda, ha scoperto che il trapianto del microbiota intestinale dagli esemplari giovani a quelli anziani arresta il declino delle funzioni cerebrali associato all’età. Tutto questo sottolinea quanto sia fondamentale prenderci cura del nostro microbioma intestinale perché garantisca tutti i benefici possibili. Ma cosa dovremmo fare esattamente? Per cominciare, dobbiamo stabilire com’è fatto un microbioma sano. E non è per niente facile. “Non ci sono segnali fisici evidenti che possono essere usati in modo affidabile per stabilire se il nostro microbioma è in buone condizioni”, afferma Paul O’Toole, dell’University college di Cork. Anche quando i ricercatori analizzano la miriade di microbi che vivono nel nostro intestino, è difficile capire esattamente quali stiano facendo cosa. “Anche se aumentano i risultati scientifici che collegano il microbioma intestinale e le

sostanze che produce alla salute, non è ancora chiaro cosa sia un microbioma intestinale ottimale o ‘sano’”, afferma Tim Spector del King’s college di Londra, uno dei fondatori dell’azienda di nutrizione personalizzata Zoe.

Mangiare l’arcobaleno Uno dei criteri più comuni per valutare lo stato di salute dell’intestino è la diversità microbica: più ce n’è e meglio è. Ma questo criterio non è infallibile, perché anche avere molti batteri nocivi può contribuire alla diversità, dice Spector, quindi diversificato non significa sempre migliore. Le persone che seguono una dieta ricca di vegetali hanno molti batteri buoni, ma hanno anche una minore diversità, dice Spector. Un approccio più recente è analizzare le migliaia di composti prodotti dalla fermentazione microbica nell’intestino, dice, “ma attualmente non capiamo la maggior parte delle loro funzioni e molti cambiamenti possono essere a breve termine”. Per affrontare questi problemi, il team della Zoe ha collaborato con i ricercatori dell’università di Trento per individuare una nuova misura della salute del microbioma. Il loro metodo si basa sul sequenziamento genomico di oltre centomila campioni di feci inviati dagli utenti della Zoe, e ha permesso di scoprire centinaia di specie intestinali finora sconosciute. Questi dati sono stati poi collegati a modelli dietetici per offrire un nuovo modo di confrontare il rapporto tra batteri buoni e cattivi. “Ha funzionato molto meglio del tradizionale criterio della diversità per riconoscere un intestino sano e tracciare i miglioramenti dovuti alla dieta”, afferma Spector. Questo tipo di ricerca sta contribuendo a costruire un quadro più accurato del microbioma associato a una buona salute e dei fattori che lo influenzano. Ovviamente, la dieta è fondamentale. “Aumentare la diversità degli alimenti che mangiamo aumenta la diversità del microbioma”, afferma Cryan. Per ottenere questa diversità, Spector consiglia di consumare molti vegetali diversi, idealmente trenta tipi a settimana, e di “mangiare l’arcobaleno”, cioè un mix di verdure colorate con un alto contenuto di sostanze denominate polifenoli, che sono legate a un’alta varietà del microbioma. È stato anche dimostrato che gli alimenti fermentati, come lo yogurt, il kefir, il kombucha e il kimchi, possono

aumentare questa diversità e ridurre l’infiammazione, quindi se vi piacciono aggiungeteli alla vostra dieta. Anche consumare più fibre è utile, sempre che il vostro apparato digerente sia in grado di tollerarle. “La fibra viene scomposta da molti microbi e fornisce parecchie molecole importanti”, spiega Cryan. Ci sono anche alimenti da evitare. “Quantità eccessive di additivi, in particolare dolcificanti artificiali, emulsionanti e cibi ultraprocessati hanno effetti negativi sul microbioma”, dice Cryan. Non si tratta solo di cosa si mangia, ma anche di quando. Numerosi studi recenti dimostrano che il digiuno intermittente può avere un influsso positivo sulla composizione del microbioma, con conseguenti vantaggi per la salute. Per esempio, da uno studio è emerso che un digiuno attentamente monitorato di diversi giorni favorisce le specie di microbi intestinali che producono composti benefici e acidi grassi a catena corta. In combinazione con una dieta di tipo mediterraneo, basata su oli vegetali, alimenti integrali, frutta e verdura, ha portato a una maggiore riduzione della pressione sanguigna e del peso nelle persone con sindrome metabolica (cioè affette da diabete, ipertensione arteriosa e obesità) ri-

Da sapere

I probiotici servono? u I probiotici sono microbi che possono aiutare a ristabilire un microbioma sano. Possono essere assunti consumando yogurt e altri alimenti fermentati, che contengono batteri come il Lactobacillus e il Bifidobacterium. Questi probiotici stimolano le cellule immunitarie per ridurre l’infiammazione, aumentano la produzione di muco e combattono i patogeni producendo acido lattico. Ma negli adulti è improbabile che riescano a colonizzare l’intestino e vengono espulsi rapidamente, per cui devono costantemente essere rimpiazzati. Gli integratori a base di probiotici sono usati da anni per aiutare chi ha malattie come il morbo di Crohn o soffre di colite, e recentemente anche per altri disturbi, come le infezioni urinarie. Alcuni studi suggeriscono che possono essere utili anche alla salute mentale, aumentando la resistenza allo stress, riducendo l’ansia e migliorando l’umore. Ma in realtà i benefici per la salute e gli effetti collaterali di questi integratori non sono ancora stati accertati. L’Autorità europea per la sicurezza alimentare non riconosce la loro efficacia. New Scientist

spetto al solo intervento sulla dieta. “Date al vostro intestino un digiuno notturno di 12-14 ore per aiutarlo a funzionare”, raccomanda Spector. Anche altri fattori influiscono. I nostri microbi intestinali sono sensibili allo stress, che può alterare la composizione del microbioma, dice Cryan. Ma si tratta di un processo complesso, a doppio senso. “Lo stress può influenzare l’intestino e a sua volta l’intestino può influenzare il modo in cui affrontiamo lo stress”, dice. Lo stress può anche aumentare la permeabilità del rivestimento intestinale, consentendo ai batteri di entrare nel flusso sanguigno e provocare infiammazione. Anche la mancanza di sonno può influire sull’intestino, perché il microbioma ha un ciclo giornaliero, afferma Amita Sehgal dell’università della Pennsylvania: “La perdita di sonno interrompe il ciclo del microbioma”. Anche le più piccole interruzioni possono incidere. Spector e il team di Zoe, per esempio, hanno scoperto che il jet lag sociale (quando nel fine settimana il ritmo del sonno cambia rispetto ai giorni feriali) è associato a una maggiore prevalenza di batteri intestinali nocivi.

Il migliore amico dell’intestino Anche la vita sociale, o la sua assenza, può contribuire a plasmare gli abitanti del nostro intestino. Raccogliamo alcuni dei nostri microbi dal contatto con altre persone e con l’ambiente circostante, quindi l’isolamento può rendere il nostro microbioma meno diversificato. In effetti, si pensa che sia una delle cause della mancanza di diversità microbica associata ai problemi di salute in età avanzata. “Il microbioma sociale è acquisito dai familiari, dagli amici, dall’ambiente”, afferma O’Toole. “Non dobbiamo aver paura di uscire, di incontrare persone, di lavorare in giardino”. Per questo Cryan ha un ultimo consiglio da dare: se le circostanze ve lo permettono, prendete un cane. “L’altra cosa che fa bene al microbioma è avere un animale domestico”, dice. Da uno studio del 2022 è emerso che i cani influivano in modo positivo sul microbioma dei loro padroni. Più impariamo a conoscere i microbi del nostro intestino, più modi troviamo per renderli sani. “Dalla nostra ricerca e da altre risulta chiaro che prendersi cura del microbioma intestinale dovrebbe essere una priorità per la salute pubblica”, afferma Spector. u bt Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Portfolio

Rari momenti di tenerezza Gli scatti del fotografo bulgaro Valery Poshtarov sfidano gli stereotipi della mascolinità catturando un gesto semplice e apparentemente spontaneo tra padri e figli al 2021 il fotografo Valery Poshtarov lavora al progetto Father and son, in cui ritrae padri e figli chiedendogli di tenersi per mano. Attraverso un gesto semplice e apparentemente spontaneo Poshtarov esplora i legami familiari sfidando i confini dell’immaginario sulla mascolinità. “Non tutte le persone che ho fotografato erano abituate a scambiarsi gesti di affetto. Per alcuni è stato un momento molto forte, a volte pieno di esitazioni o resistenze. Ci sono stati casi in cui non si prendevano per mano da anni”, racconta il fotografo. Viaggiando dalla Bulgaria alla Georgia, dalla Turchia all’Armenia e ancora in Serbia e in Grecia, con questo progetto Poshtarov vuole raccontare anche eredità culturali diverse: “Il lavoro non vuole mostrare solo questi rari momenti di tenerezza, ma riflettere su temi universali come i rapporti e la vulnerabilità nella nostra esperienza umana. Lascio a chi guarda le foto la possibilità d’interpretarle e coglierne i vari livelli di significato”. u

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Valery Poshtarov è un fotografo bulgaro. Nel 2023 la serie Father and son ha vinto il premio Cortona on the move e sarà esposta nell’edizione 2024 del festival toscano. Nella foto: Madan, Bulgaria, 2022

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Batak, Bulgaria, 2022 Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Dzimiti, Georgia, 2023

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Blagoevgrad, Bulgaria, 2023 Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Haskovo, Bulgaria, 2022

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Sopra, a sinistra: Pazardžik, Bulgaria, 2023; a destra: Khvanchkara, Georgia, 2023; In basso, a sinistra: Teteven, Bulgaria, 2023; a destra: Gori, Georgia, 2023. Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Viaggi

Appunti sott’acqua Günter Kast, Der Spiegel, Germania

nterpretare lo sguardo di Leaundre Dawes-Vaeth dietro le lenti di plexiglas un po’ rigate della sua maschera da sub è piuttosto difficile. Potrebbe voler dire: “È un classico, gli uomini sono incapaci di fare più cose insieme!”. Ma nuotare controcorrente sott’acqua per identificare le specie ittiche prendendo nota di ciascun esemplare con un pennarello in una mano e una lavagna nell’altra non è facile. Dawes-Vaeth fa parte delle Master reef guides, un gruppo di circa cento guide che lavora nella Grande barriera corallina australiana, l’organismo vivente più grande del mondo, talmente vasto da essere visibile dallo spazio. È costituita da quasi tremila barriere coralline e da quasi mille isole. Dawes-Vaeth viene dalla Florida e organizza escursioni in catamarano per i turisti. Non sono solo gite di piacere: chi parte da Cairns, una città dell’Australia nordorientale, per fare l’escursione “Biologi marini per un giorno” impara tantissime cose e aiuta la ricerca. Accompagnati da sub e snorkeler, i turisti si dirigono verso il punto di ancoraggio di Hastings-Riff, dove Dawes-Vaeth

I

Palm Cove Cairns

Fitzroy Island

AU S T R A L I A Brisbane Perth Adelaide 750 km

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Sydney Canberra

Melbourne

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gli spiega come misurare correttamente posizione, profondità di avvistamento e temperatura dell’acqua. Poi si passa al conteggio dei pesci: dieci minuti in cui bisogna annotare tutto quello che si vede. Dawes-Vaeth punta il dito e indica un anemone di mare al cui interno vede un pesce pagliaccio, come quello del cartone animato Alla ricerca di Nemo. Alza il pollice come a dire: ottimo per la barriera corallina. Quando vede una stella marina corona di spine (Acanthaster planci), invece, piega il pollice all’ingiù, perché questi animali si nutrono dei coralli dell’ordine delle madrepore e possono piombare sulla barriera come uno sciame di locuste.

Un grado fa la differenza Uno degli obiettivi è stabilire la percentuale di coralli morti e intatti, e di sabbia, rocce e alghe, in un raggio di cinque metri. Alla fine fotografiamo queste aree del fondale. Grazie alle immagini si possono studiare le condizioni della barriera corallina. Tornata a bordo del catamarano, la guida accende il portatile e carica i dati sulla piattaforma Eye on the reef. Oltre ai turisti, raccolgono dati anche i pescatori, i guardiani del parco marino e i ricercatori. Le condizioni della barriera corallina non interessano solo a esperte ed esperti. Anche chi viene in vacanza a Palm Cove, venti chilometri a nord di Cairns, può farsi un’idea della situazione, anche se in questa idilliaca ed elegante località balneare ci si dimentica facilmente della minaccia del cambiamento climatico. I proprietari del boutique hotel The reef house lo sanno bene e una volta alla settimana organizzano incontri con Glen Burns, un biologo marino, per far sì che il loro albergo non debba chiamarsi The Dead Reef House. Burns racconta di aver recentemente mostrato la barriera corallina al premier australiano Anthony Albanese, che per l’occasione ha sostituito completo e cra-

PASSIONS OF PARADISE/TOURISM TROPICAL NORTH QUEENSLAND

In Australia durante le immersioni i turisti aiutano i biologi a registrare le specie marine del posto per contribuire a preservare i coralli

vatta con costume da bagno e pinne. Con tutta probabilità Burns gli avrà detto quello che dice anche agli ospiti dell’albergo: lo sbiancamento dei coralli, che si è verificato nel 2016 e nel 2017, quando le temperature dell’acqua arrivavano a toccare i 40 gradi, ha avuto effetti catastrofici. “Abbiamo perso il 30 per cento dei coralli”, spiega Burns . Ma il biologo è convinto che la barriera corallina sia stata data per morta troppo presto. Infatti dal 2017 a oggi si è ripresa in modo sorprendente. Comunque sappiamo che lo sbiancamento si ripeterà, probabilmente all’inizio del 2024, quando in Australia setten-

Queensland, Australia, 2017

trionale è prevista un’ondata di caldo. Pur non essendo l’unica causa, il riscaldamento globale è il fattore principale: “I depositi sedimentari delle rocce, la pesca, il turismo e i nutrienti immessi in acqua dall’agricoltura danno il loro contributo, ma non sono decisivi”, spiega Burns. Anche in passato le barriere coralline subivano delle trasformazioni. “Ma oggi il cambiamento è più veloce e la responsabilità è degli esseri umani”. Da turista tedesco che venendo in Australia in aereo ha scaricato molta anidride carbonica nell’atmosfera, ci metto poco a farmi venire i sensi di colpa. “Dob-

biamo fermare l’aumento della temperatura o almeno rallentarlo”, afferma Burns. “Anche un grado fa un’enorme differenza”. Se non ci riusciamo, le altre iniziative per salvare la barriera corallina serviranno a poco. Ma almeno dal 2017 questi sforzi sono cresciuti considerevolmente. E alcuni progetti sono aperti alla collaborazione dei turisti.

Materiale genetico L’acquario di Cairns è una delle sedi della biobanca dei coralli, inaugurata nel giugno 2023. Con il progetto Forever Reef, l’organizzazione non profit Great barrier

reef legacy sta cercando di raccogliere e conservare esemplari di tutte le specie di coralli. “Si tratta della più grande iniziativa mai realizzata finora per preservare la biodiversità genetica dei coralli duri viventi”, racconta Dean Miller, responsabile di progetto. “Vogliamo conservare frammenti, campioni di tessuti e materiale genetico in una sorta di deposito vivente prima che sia troppo tardi”, spiega in una delle visite che si svolgono in un’area appena aperta dell’acquario per mostrare ai visitatori cosa succede dietro le quinte. Le scienziate e gli scienziati identificano, catalogano e salvano su microInternazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Viaggi Turisti e ricercatori prendono nota delle specie ittiche. Queensland, Australia, 2022

PASSIONS OF PARADISE/TOURISM TROPICAL NORTH QUEENSLAND

acqua un’impalcatura artificiale su cui fa crescere i coralli. “Fino a qualche tempo fa, interventi del genere erano vietati dalla legge”, spiega Donnelly. Ma dopo lo sbiancamento del 2017, la Marine park authority ha autorizzato un progetto pilota. “C’è da dire che abbiamo cominciato da zero”.

Vivai artificiali

chip i dati di ciascun esemplare. “Offriamo ai visitatori la possibilità di fare esperienza diretta delle attività a tutela dei coralli”, dice il fondatore dell’acquario, Daniel Leipnik. Le luci al led sul soffitto imitano quella solare, mentre sistemi di filtraggio garantiscono condizioni stabili nelle vasche con l’acqua di mare. “Siamo in grado di far crescere i coralli e di mantenerli in salute per millenni”, spiega Leipnik. “Gli esemplari conservati ci forniscono materiale genetico vivente. Se con il cambiamento climatico dovessero verificarsi nuove ondate di calore marino potremmo trapiantare questo materiale nella barriera corallina”. La biobanca può ospitare fino a dodicimila frammenti viventi di tutte e quattrocento le specie locali di madrepore presenti nella Grande barriera corallina. Finora ne è stata già raccolta circa la metà e il progetto dovrebbe concludersi entro il 2026.

Il tempo è contro di noi La coltivazione dei coralli funziona bene in laboratorio, ma ultimamente si tentano esperimenti anche sulla barriera corallina. Ryan Donnelly è l’ amministratore delegato della Reef restoration foundation, una ong finanziata esclusivamente con donazioni. Nel suo ufficio di Cairns, vicino al porto dal quale partono ogni giorno i catamarani per le escursioni, ha un computer con una quantità enorme di dati in cui sono costantemente caricate le immagini riprese dalle telecamere sottomarine. Accanto ci sono le

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mappe della grande barriera corallina. Qualche anno fa, racconta Donnelly, la tv tedesca Zdf lo ha incontrato durante le riprese del film ispirato a Il quinto giorno, il romanzo di Frank Schätzing in cui i protagonisti sono delle nuove specie marine. “Gli oceani si stanno ribellando”, osserva Donnelly. “Grazie alle immagini satellitari sappiamo che ci sarà un altro importante sbiancamento dei coralli. Quello che non sappiamo è dove”. Anche nel 2020 e 2022 ci sono stati degli sbiancamenti sulla barriera corallina meridionale, ma i mezzi d’informazione hanno dato poco spazio alla notizia. Donnelly non è ottimista. “Siamo tutti dei sopravvissuti dell’evoluzione, noi esseri umani e anche i coralli. Siamo in grado di rigenerarci e di riprenderci, ma il tempo è contro di noi”. Secondo il ricercatore, difficilmente la barriera corallina potrà essere mantenuta così com’è adesso. “Subiremo altre perdite”. E allora bisogna rinunciare, arrendersi? Neanche per sogno. Con una piccola squadra e aiutato da tanti sub volontari, ha messo in

“Grazie alle immagini satellitari sappiamo che ci sarà un altro importante sbiancamento dei coralli. Ma non sappiamo dove”

In altre aree del mondo i ricercatori sono più avanti. Per esempio in Florida, negli Stati Uniti, sono anni che si battono per la salvaguardia della barriera corallina. E infatti è da lì che arrivano molte delle informazioni necessarie al progetto australiano. Alla fine il governo di Camberra ha riconosciuto l’urgenza del problema e ha stanziato grosse somme di denaro per la salvezza della barriera corallina. È un compito enorme, visto che la barriera corallina è lunga 2.300 chilometri. Solo per l’area di 250 chilometri quadrati in cui la sua squadra coltiva i coralli, ci vorrebbero almeno cento milioni di dollari, sostiene Donnelly. Ma la buona notizia è che questo sistema funziona: “I coralli crescono perfino più rapidamente che in natura”. Di solito prima che la barriera corallina si rigeneri ci vogliono da quattro a dieci anni, ma con i vivai artificiali si può velocizzare il processo. Nelle acque intorno alla Fitzroy Island, la fondazione di Donnelly coltiva frammenti particolarmente resistenti di coralli attaccati ad “alberi” artificiali. I frammenti sono prelevati da organismi sani e poi fissati a delle funi. Sulle strutture artificiali fisse, nel corso di pochissimo tempo, crescono dando luogo a formazioni di dimensioni imponenti. Un altro effetto positivo di questo lavoro è che i ricercatori capiscono così quali sono le specie che resistono meglio al calore. Nel novembre 2022 si è registrato un altro successo: per la prima volta dei coralli del genere Acropora, coltivati dall’essere umano, hanno generato dei gameti, riproducendosi per via naturale. Si sono riprodotti anche l’anno successivo, rilasciando in acqua contemporaneamente migliaia di minuscole uova e fasci di sperma di colore rosa. “Siamo molto orgogliosi”, dice Donnelly. Ma tutto questo non basterà a salvare l’intera barriera corallina. Ci vorrebbero diversi miliardi di dollari. ◆ sk

Ritratti

Fabrice Arfi Perle rare Oliver Meiler, Süddeutsche Zeitung, Germania. Foto di Guido Gazzilli È il più famoso giornalista investigativo francese. Una delle sue ultime inchieste ha rivelato un enorme scandalo che lega Parigi a una sua ex colonia: il Gabon abrice Arfi arriva in bicicletta. Ha il casco in testa e il naso arrossato. È una fredda mattina dell’autunno parigino, ai bordi delle strade ci sono cumuli di foglie gialle. “È qui”, dice il giornalista osservando la facciata decorata del civico numero 8. “Non è folle questa storia? Sembra un fumetto”. Ma quello di cui parla, in realtà, non è affatto divertente. Rue Edmond Valentin è una tranquilla strada laterale del settimo arrondissement di Parigi. Nessun negozio, solo un piccolo ristorante. Da qui c’è un’ottima vista sulla torre Eiffel. Come un punto esclamativo rovesciato, la torre svetta dai tetti. Arfi, 42 anni, per un po’ è stato lontano da Parigi, ma qui c’è una storia che continua a ossessionarlo. L’immobile al civico 8 appartiene alla famiglia Bongo del Gabon, in Africa occidentale, dall’altra parte del mondo. Per loro la torre Eiffel era uno status symbol. Come se gli appartenesse, insieme alla città. I Bongo, prima Omar e poi il figlio Ali, hanno governato il Gabon per più di 56 anni, dal 1967 fino all’estate 2023, quando sono stati cacciati con un colpo di stato. Sono durati così a lungo anche perché la Francia, l’ex potenza coloniale del paese, li ha sostenuti. I francesi hanno corteggiato i Bongo, forse li hanno perfino aiutati a truccare le elezioni. E quando l’opposizione scendeva in strada nella capitale Libreville, a volte era l’esercito francese a repri-

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mere le proteste. I legami sono stati tramandati da una generazione politica all’altra, con inquilini dell’Eliseo di destra e di sinistra. Insieme ai Bongo hanno saccheggiato il paese africano: uranio, legno, ma soprattutto petrolio. Anche se le ricchezze personali e le proprietà di lusso della famiglia Bongo tra Parigi e Nizza continuavano ad aumentare, questo non interessava a nessuno. Era solo un piccolo inconveniente su cui chiudere un occhio davanti agli interessi ben più grandi della repubblica francese. Per esempio i Bongo avevano quel palazzetto in rue Edmond Valentin: tre piani, uno stemma in rilievo sopra il portone d’ingresso, un gioiello. E un simbolo. Le carte di questa proprietà parigina e di altri venti immobili fanno ora parte del dossier di un caso giudiziario destinato a fare storia. La procura francese sta indagando per scoprire se la famiglia Bongo ha acquistato case e appartamenti con i soldi di tangenti provenienti da Parigi. In ballo non c’è solo la reputazione dei Bongo, ma anche quella della Francia. Forse è una coincidenza che l’indagine si apra proprio ora che Ali Bongo è stato rovesciato e che una serie di colpi di stato ha interessato le ex colonie francesi: il Mali, il Ciad e la Guinea nel 2021, il Burkina Faso nel 2022, il Niger nel 2023. Ora che il vecchio sistema

Biografia ◆ 1981 Nasce a Lione, in Francia. ◆ 1999 Dopo il diploma entra nella redazione locale di Le Figaro. Prima si occupa di musica, poi di cronaca giudiziaria. ◆ 2008 Comincia a lavorare per il quotidiano online Mediapart. ◆ 2018 Una sua inchiesta svela che nel 2007 l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy ha ricevuto finanziamenti illegali dalla Libia per la sua campagna elettorale.

di favori reciproci sta crollando e che in Africa monta il rancore antifrancese. Ma è davvero una coincidenza? Una classe scolastica passa davanti al civico 8, una donna bionda suona alla porta, ma nessuno risponde. Arfi appoggia il casco al muretto della casa e si lascia mettere in posa dai fotografi. Nello scatto per i giornali devono apparire i tre protagonisti della storia: la torre Eiffel, la casa dei Bongo e l’uomo che ha rivelato tutto. Arfi sembra a suo agio. Con un rapido gesto della mano si aggiusta una ciocca di capelli davanti alla fronte. È disinvolto davanti all’obiettivo: “Ancora una?”.

Vera passione Figlio di un poliziotto e di un’insegnante di Lione, Arfi è il più famoso giornalista d’inchiesta francese. In realtà avrebbe voluto fare il musicista e suona la chitarra. “Quella è la mia vera passione”, dice. Con il suo gruppo si esibisce nei bar: “Piccoli concerti, con la musica non potrei mai viverci”. Dopo la maturità ha frequentato una scuola di giornalismo a Lione, è diventato cronista giudiziario e ha cominciato a scrivere per diversi quotidiani. Spesso, in famiglia, il padre gli raccontava dei casi con cui aveva a che fare per lavoro. Arfi è cresciuto con queste storie. Ora è corresponsabile della sezione inchieste di Mediapart, un quotidiano online indipendente per il quale lavora dal 2008, quando è stato fondato. Il sito si sostiene senza pubblicità, senza aiuti statali, senza i milioni dei complessi industriali su cui possono contare i grandi gruppi editoriali del paese. Mediapart si finanzia con gli abbonamenti e al momento le cose vanno bene: ogni anno i guadagni crescono. Così sono liberi, e la libertà è quello di cui Mediapart ha bisogno per poter indagare sui potenti di ogni colore politico. Lo scandalo dei finanziamenti elettorali verInternazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Ritratti sati dalla Libia all’ex presidente francese di destra Nicolas Sarkozy? L’hanno scoperto Arfi e la sua squadra. L’evasione fiscale commessa dall’ex ministro delle finanze socialista Jérôme Cahuzac? Ancora Arfi. Le intercettazioni di Liliane Bettencourt, la donna più ricca di Francia e proprietaria dell’Oréal? Sempre Arfi. E le sue imprese non finiscono qui. Su Canal + c’è una serie intitolata D’argent e de sang (Di soldi e di sangue) che si basa sul libro omonimo in cui il giornalista racconta una truffa sulla tassa per le emissioni di carbonio. Su X, un tempo Twitter, Arfi è seguito da circa trecentomila persone. Il giornalista ordina un tè. Davanti a lui sul tavolino del bistrò c’è il portatile che di tanto in tanto apre per controllare un numero o un indirizzo. C’è anche una cartellina rossa sulla quale ha scritto a mano Foccart. Questo nome, Jacques Foccart, gioca un ruolo chiave nella storia dei Bongo. Di recente Arfi è stato nell’archivio di stato, dove ha trovato documenti firmati da Foccart che non erano mai stati resi noti. “Amo gli archivi”, dice sorridendo. Bisogna solo avere pazienza e sopportare le scartoffie, ma prima o poi ci s’imbatte in qualche “perla”, come le chiama lui. Ama anche i catasti, i registri commerciali, gli organigrammi. Quando parla, Arfi dice spesso “c’est passionant”, è appassionante, e si sporge in avanti sopra il tavolo, in modo che non si perda nemmeno una parola nel brusio che proviene dal bancone. I rapporti tra il Gabon e la Francia, per esempio, sono appassionanti. Il Gabon è un grande paese scarsamente popolato sulla linea dell’Equatore con appena 2,3 milioni di abitanti. È ricco di risorse naturali, è uno stato petrolifero. Nel 1960 il Gabon è diventato indipendente. Ma Charles de Gaulle, il presidente francese dell’epoca, voleva mantenere il controllo delle ex colonie francesi. Dovevano rimanere un cortile di casa francese. Quando altri volevano fare affari lì, era preferibile che prima chiedessero il permesso a Parigi. Ed è stato così per molti anni. La Francia si è assicurata monopoli e privilegi. E affinché le cose non cambiassero, i paesi indipendenti dovevano essere governati da leader manovrabili. Ancora meglio se non democratici: la Francia preferiva i dittatori, almeno sapeva con chi aveva a che fare. Di questo si occupava Jacques Foccart, “Monsieur Afrique”, il “signor Africa” di De Gaulle, una figura che sembra uscita da un romanzo di spionaggio. Il primo presidente del Gabon libero si chiamava

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Léon M’ba ed era stato proposto da Foccart. Ma M’ba era gravemente malato e presto servì un sostituto adatto. Nell’archivio Arfi ha trovato lo scambio di lettere “strettamente confidenziale” dell’autunno del 1966 nel quale Foccart si accordava con l’ambasciatore francese in Gabon sulla figura di Omar Bongo come successore di M’ba. Bongo, giovane capo di gabinetto di M’ba, non era “significativo sul piano politico”, si legge nella lettera. Ma era l’unico di cui ci si poteva fidare: avrebbe sempre “mantenuto stret-

“Per tanti francesi la corruzione è un male qualunque. Per me è un cancro” ta la collaborazione e l’amicizia con la Francia”. “Guardi qui”, dice Arfi aprendo di nuovo la cartellina rossa, “il movente, nero su bianco”. Ha cerchiato la frase con un evidenziatore. Una vera perla. Nel 1967, a 31 anni, Omar Bongo diventò presidente. Lo stesso anno fu fondata la Elf, la più grande compagnia petrolifera francese, che oggi si chiama Total. È da lì che dev’essere passata la maggior parte dei soldi per le tangenti destinate ai Bongo. Omar Bongo era la persona ideale, anche perché amava la Francia, la moda, le auto, i ristoranti, perché era corruttibile e a sua volta pronto a corrompere. Sapeva muoversi nella politica. Dev’essere atterrato a Parigi più volte con una valigia piena di contanti. Prendeva una stanza all’hotel Le Meurice, un cinque stelle proprio accanto al giardino delle Tuileries, e distribuiva soldi ai politici di tutti i partiti, anche ai giovani. Li ha ricoperti di soldi. Si è comprato l’appoggio di un’intera classe politica, l’ha resa dipendente da sé.

La lista dei ministri A quanto pare, a volte Omar Bongo ha avuto voce in capitolo anche sulla formazione del governo francese. Nel documentario Françafrique di Patrick Benquet si sostiene che Jacques Chirac abbia presentato almeno una volta una lista di potenziali ministri a Bongo. Lui avrebbe cancellato due nomi. A un certo punto, con il suo petrolio era diventato così potente che sembrava quasi che i rapporti di potere si fossero invertiti. Poteva sempre minac-

ciare di favorire altri paesi. Allo stesso tempo voleva restare al centro delle trattative politiche a Parigi. Per anni è andata avanti così. Nell’ambiente della politica, tutti sapevano come stavano le cose. “Non dimentichiamoci”, dice Arfi, “che le vere vittime di questo scandalo sono i popoli sfruttati, cioè i gabonesi”. Il Gabon avrebbe abbastanza risorse per far vivere l’intera popolazione nella ricchezza. Ma nel paese i ricchi sono pochi e la maggioranza delle persone vive in povertà. Il Gabon dei Bongo era l’esempio più lampante della cosiddetta Françafrique: un intreccio malato e sistematico tra gli interessi francesi e quelli dei leader corrotti che Parigi aveva insediato in Africa. Un prolungamento del colonialismo. Arfi paragona il sistema al patto tra Faust e Mefistofele. La Francia ha messo da parte i suoi princìpi morali. Omar Bongo ha avuto 54 figli, sia suoi sia adottati. Alcuni hanno studiato a Parigi, come Ali Bongo, che gli è succeduto come presidente del Gabon dopo la sua morte nel 2009. Era uno studente poco preparato e, come ha rivelato il quotidiano Les Echos, probabilmente non si sarebbe mai diplomato se suo padre non avesse minacciato il governo francese. Valéry Giscard d’Estaing, allora presidente, incaricò i servizi segreti di trovare una soluzione. E così gli insegnanti fecero sparire le prove di maturità di tutta la classe di Ali. In questi casi la regola è che gli studenti passino con buoni voti perché è colpa della scuola. Così Ali Bongo si è diplomato. A volte i numerosi figli di Omar Bongo volavano a Parigi per il fine settimana, giravano in città per acquisti, si coprivano di vestiti firmati e gioielli, soggiornavano nelle loro residenze e poi se ne tornavano a casa nella modesta Libreville. Il numero 8 di rue Edmond Valentin dev’essere stata una delle seconde case più amate dai Bongo. Oggi è considerato un “bien mal acquis”. È così che i francesi chiamano i beni acquistati con fondi illeciti. Si dice che i Bongo siano proprietari di 21 immobili di questo tipo a Parigi, e solo in indirizzi vicini alla torre Eiffel. Probabilmente li hanno pagati tutti in contanti. È loro anche il numero 7 in rue François Ier, nell’ottavo arrondissement. L’edificio è proprio dietro l’ambasciata tedesca, il Grand Palais è vicino: cinque piani, una cupola di vetro sul tetto. Le imposte sono chiuse, le tende tirate. E ancora i numeri 33 e 66 di avenue Victor Hugo, se-

CONTRASTO

Fabrice Arfi a Parigi, novembre 2023

dicesimo arrondissement, simbolo di eleganza, o i numeri 52 e 56 di avenue Foch, sempre nel sedicesimo. In questi complessi residenziali i Bongo possiedono diversi appartamenti. Le carte di questi e altri immobili, preventivamente sequestrati, ora sono all’esame dei giudici. Diverse persone della famiglia Bongo sono incriminate per corruzione, riciclaggio e appropriazione indebita. Oltre a loro sono coinvolti anche un notaio parigino che li avrebbe aiutati con le transazioni nei paradisi fiscali, la proprietaria di un’agenzia immobiliare e alcuni dirigenti della banca Bnp Paribas, che avrebbero sempre accettato i soldi dei Bongo senza fare domande. I giudici si basano sulle inchieste di Arfi e di altri cercatori di “perle”, per esempio Patrick Benquet, che per il documentario Françafrique ha intervistato molti protagonisti della vicenda. O della ong Transparency international, sempre dalla parte delle vittime di queste azioni. Finora le istituzioni francesi si sono impegnate poco a fare chiarezza su queste vicende. “In questo paese non c’è una riflessione pubblica sulle questioni morali”, afferma Arfi. “Per la maggior parte dei francesi la corruzione è un male qualun-

que della democrazia. Per me è un cancro”. Per questo a volte lo chiamano il “giustiziere”, un angelo vendicatore. “Come fossi una specie di Robespierre”, dice. La maggior parte delle case dei Bongo è vuota. Naturalmente ora spetta al tribunale decidere. In caso di condanna, la città potrebbe chiedere l’esproprio e acquistare le proprietà a prezzi di mercato in modo che rimangano abbastanza soldi per i gabonesi. Prima, però, il denaro entrerebbe nelle casse dello stato francese dove resterebbe depositato. In fondo, chi dovrebbe riceverlo? I nuovi governanti del Gabon, i golpisti? Ci si può fidare? La situazione è complicata. Ma a quel punto l’amministrazione parigina potrebbe riconvertire le case, ormai ha già esperienza con le soluzioni creative. Recentemente ha espropriato un terreno in centro appartenuto a uno zio del siriano Bashar al Assad e l’ha usato per costruire un asilo nido per i bambini delle famiglie più povere. La proprietà più lussuosa dei Bongo si presterebbe a una buona causa, per una maggiore integrazione sociale nel centro di questa città dove i prezzi sono folli. Ali Bongo aveva comprato l’immobile appena eletto, per cento milioni di euro, come riporta Le Parisien.

Civico 51 di rue de l’Université, nel settimo arrondissement. Il palazzo si chiama Hôtel Pozzo di Borgo: 5.487 metri quadrati di superficie abitabile, stile neoclassico, giardini dove cinguettano gli uccelli. Per trent’anni lo stilista Karl Lagerfeld ha vissuto in affitto in un’ala di quest’immobile, nel quale organizzava le sue feste. Si dice che fosse depresso quando, nel 2010, i proprietari corsi vendettero la casa ad Ali Bongo e lui se ne dovette andare. A Parigi tutti conoscono il 51 di rue de l’Université, se non altro per il portone blu, dietro il quale si nasconde un cortile lastricato. Pomposo come un ministero. Ma non tutti sanno che appartiene ai Bongo. Ali Bongo ha speso 25 milioni di euro per la ristrutturazione, dice Arfi. Per evitare problemi, ha chiesto al ministero degli esteri francese di registrare la proprietà come sede diplomatica. Non lo era, ma sotto la bandiera del Gabon la casa sarebbe stata sottratta alla legge francese: questo era il piano. Il governo ha accolto la richiesta. Perfino questo è stato concesso dai francesi ad Alì Bongo. Oltre al diploma. E alla sua elezione a presidente. “Il voto è stato truccato, un risultato incredibile”, dice Arfi. “È grottesco”. Come un fumetto. u nv Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Cultura

Animazione

WALT DISNEY/RGR COLLECTION/ALAMY

Steamboat Willie, 1928

Topolino libero Richard Luscombe, The Guardian, Regno Unito La scadenza del copyright sulla prima versione di Mickey Mouse è una pietra miliare ma nella sostanza cambia poco anno del centenario è stato piuttosto impegnativo per la Disney. E alla fine la più grande e famosa azienda d’intrattenimento del mondo è stata costretta a chiudere il 2023 con un commovente “addio” al suo amico più caro, Topolino. Chiariamo subito la faccenda: a lasciare il luogo più felice del pianeta quando il primo gennaio 2024 è scaduto il copyright non è stato il Topolino conosciuto da tutti, icona presente su un’infinità di cartelle scolastiche, magliette e cappellini da baseball. Ma la versione

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originale presente in Steamboat Willie, un personaggio più simile a un ratto con gambe allampanate creato da Walt Disney per il suo innovativo film del 1928. Dopo 95 anni trascorsi al riparo nel nido della Disney, quel Topolino varcherà la soglia del pubblico dominio, e lo stesso accadrà alla sua compagna di navigazione in quel breve cartone animato, e cioè la prima versione di Minnie.

Lotta continua La perdita dei diritti esclusivi sul primo, storico disegno di un personaggio che avrebbe conquistato i cuori di milioni di persone avrà un effetto profondo, come dimostrano decenni di manovre legali messe in atto dalla Disney per cercare di rinviarne la scadenza. La vicenda coincide con un momento in cui l’azienda naviga in acque molto agi-

tate. È alle prese con una guerra culturale sui diritti lgbt con il governatore repubblicano della Florida Ron DeSantis, con le difficoltà finanziarie provocate dalle perdite della piattaforma di streaming Disney+, e con una serie di preoccupanti flop al botteghino. “Dico sempre che chiunque superi i cento anni avrà qualche problema, ma questa storia del Topolino originale deve farci riflettere, mentre la Disney entra nel suo secondo secolo di vita appesantita da una lunga serie di problemi”, spiega Robert Thompson, studioso di tv, radio e cinema e fondatore del centro Bleier per la tv e la cultura popolare presso l’università di Syracuse, negli Stati Uniti. “Oggi la Disney ha molto di cui preoccuparsi. La scadenza dei diritti del Topolino di Steamboat Willie probabilmente non dovrebbe essere in cima alla lista, anche perché quel Topolino non è lo stesso a cui pensiamo tutti e che figura sulle nostre magliette e sui cuscini abbandonati da qualche parte in soffitta. Eppure”, prosegue Thompson, “dal punto di vista simbolico il copyright è importante per la Disney. Negli anni l’azienda è stata molto attiva in questo campo, riuscendo perfino a far modificare alcune leggi. Un liceale che vive in una cittadina sperduta può guardare una versione pirata del Re Leone e ritrovarsi immediatamente alle calcagna i custodi del copyright”.

JEFF GRITCHEN (SCNG/GETTY)

Anaheim, California, gennaio 2023

L’azienda ha cercato in tutti i modi di mantenere i diritti sul primo Topolino, nel solco di una lunga tradizione di manovre protettive, inaugurata dallo stesso Walt Disney. Nel 1989 arrivò addirittura a minacciare legalmente tre asili della Florida che avevano osato rallegrare le pareti delle aule con i suoi personaggi. Insieme ad altre società che cercavano di difendere i diritti di proprietà intellettuale, nel 1998 la Disney esercitò notevoli pressioni per far approvare il Copyright extension act, che prolungò fino a 95 anni (da 75) i diritti sulle opere pubblicate. All’epoca l’influenza della Disney sul congresso degli Stati Uniti era tale che la legge passò alla storia come il Mickey Mouse protection act. Ma la politica non ha mostrato nessun interesse a rimandare di nuovo la scadenza dei diritti, e così lo scudo di Steamboat Willie è svanito. Disney continuerà a sfruttare il film e i suoi personaggi, ma chiunque altro sarà libero di farlo. La società di videogiochi Fumi ha già diffuso un cruento trailer di uno sparatutto che uscirà nel 2025 e in cui c’è, nel ruolo di un gangster assetato di sangue, un roditore dagli arti sottili con caratteristiche simili a quel primo Topolino. Lo sfondo in bianco e nero, la musica d’epoca e l’atmosfera del gioco rimandano chiaramente al classico del 1928 firmato da Ub Iwerks.

Un precedente allarmante è arrivato nei mesi scorsi con la scadenza, a gennaio del 2022, dei diritti esclusivi su Winnie the Pooh, in possesso della Disney dal 1961. L’orsetto amico delle famiglie è stato trasformato in un serial killer nel discutibile e ampiamente ridicolizzato film slasher Sangue e miele. Insieme al primo Topolino, anche il fedele compagno di Pooh, Tigger, ha perso la protezione del copyright. E tra non molto toccherà a Pluto e Paperino.

Un problema relativo In un comunicato, la Disney ha promesso che resterà vigile: “La scadenza dei diritti di Steamboat Willie non riguarda le versioni più moderne di Topolino, che continuerà ad avere un ruolo di primo piano come ambasciatore globale della Walt Disney Company nelle nostre storie, nei parchi a tema e nei prodotti commerciali. Naturalmente continueremo a proteggere i diritti sulle versioni più recenti di Topolino e su altri lavori che restano soggetti a copyright”. Secondo Thompson nei prossimi mesi non saremo sommersi da una valanga di nuovo materiale su Topolino: “La gente potrà usare indiscriminatamente una particolare immagine, ma solo quella. E comunque imitazioni o pseudo-imitazioni di Topolino se ne trovano già da tutte le parti”. Lo studioso sottolinea che Steam-

boat Willie è una pietra miliare della storia della Disney ma è anche vecchio di quasi un secolo e dunque lontanissimo dai prodotti più riconoscibili e diffusi dell’azienda. Per questo motivo è meno esposto alla manipolazione. “Disney ha un archivio sconfinato. Oltre a un elenco infinito di contenuti propri, l’azienda controlla la Pixar, il mondo di Star wars e della Marvel, possiede la Abc e la Espn e ha appena completato l’acquisto di Hulu. È più simile a una macchina che stampa soldi”, dice Thompson. “Per buona parte del novecento la Disney è stata l’elemento portante dell’infanzia negli Stati Uniti. Ha preso un intero canone di favole vecchie di secoli plasmandole fino a creare la narrazione definitiva. Se leggi una vecchia versione di Cenerentola hai l’impressione che sia completamente sbagliata, perché tutti conosciamo quella riscritta dalla Disney. Tutto ciò che la gente sa di Pocahontas lo ha imparato dal cartone animato”. “La Disney esiste da molto tempo, come il baseball e le torte di mele”, conclude Thompson. “Non è solo un’azienda, ma un’idea tipicamente statunitense. E Steamboat Willie è il principe di quel dominio culturale. Ma anche se le regole sul copyright cambiassero domani e restassero valide per cento anni, i problemi della Disney non sparirebbero”. u as Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Cultura

Schermi Documentari

In rete Il costo della fama

As I want ZalabView Al Cairo nel gennaio 2013, durante le celebrazioni per il secondo anniversario della rivoluzione, avvengono alcune aggressioni sessuali. Samaher Alqadi si unisce alla folla di donne che protestano per denunciare il sessismo dell’intera società. Bye Bye Tiberias Arte.tv In uno dei più acclamati (e attuali) documentari del 2023, la regista Lina Soualem raccoglie la storia dell’esilio dalla Palestina della madre attrice e, tornando nei suoi luoghi di origine, ricostruisce la vicenda di quattro generazioni di donne. Cholitas Inquota.tv Cinque indigene boliviane decidono di scalare l’Aconcagua, la cima più alta d’America. Senza avere esperienza alpinistica, vestite con i loro abiti tradizionali, trovano nella montagna uno spazio di libertà ed emancipazione. Faccia a faccia con l’Eta Netflix Un’intervista esclusiva con Josu Urrutikoetxea, figura chiave dell’organizzazione terroristica basca, ci guida nella sua storia, dalle origini allo smantellamento nel 2018, cercando risposte da dare alle vittime. Un ritratto in movimento ZalabView Mario Martone dedica un documentario al grande fotografo e suo concittadino Mimmo Jodice, attraverso i suoi scatti e racconti, con le testimonianze di altri artisti e intellettuali affascinati e influenzati dal suo lavoro.

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Serie tv Ufos MyMoviesOne In Francia, alla fine degli anni settanta, il promettente ingegnere aerospaziale Didier (Melvil Poupaud) vede il suo prototipo di razzo esplodergli davanti agli occhi. Finisce a dirigere una squadra che indaga sugli oggetti volanti non identificati, composta da persone che sembrano vivere su un al-

tro pianeta. Una tortura per un cartesiano come lui. Finché un evento straordinario sconvolge le sue certezze. Questa originale commedia retro-fantastica, incontro tra Spielberg e Tati, fatica a carburare. Ma con il complicarsi della trama prende il sopravvento un senso di nostalgia, poetico e comico. Télérama

Twitch abbandona la Corea del Sud. A partire dal 27 febbraio, la piattaforma di streaming di Amazon non funzionerà più nel paese asiatico. Motivo: i costi. Dal 2016 infatti la Corea del Sud ha una “tassa sul traffico internet” che obbliga i siti a pagare una commissione alle aziende di telecomunicazioni. Netflix è stata in causa per tre anni per contestare la legge e anche YouTube e Meta si sono espresse contro. Twitch ha detto basta, definendo “proibitivamente costose” le operazioni nel paese, addirittura “dieci volte di più della media degli altri paesi”. Tutti gli streamer della piattaforma, obbligati a spostarsi su YouTube, saranno aiutati dall’azienda ad avvisare i loro fan. Gaia Berruto

Televisione Giorgio Cappozzo

Cento La televisione italiana compie settant’anni. Era la mattina del 3 gennaio 1954 quando la voce di Fulvia Colombo presentò il primo palinsesto. Tanti auguri. Ma un compleanno forse più rilevante risale al 1924, un secolo fa, quando una convenzione tra l’appena nato ministero delle telecomunicazioni e l’Unione radiofonica italiana, costituita dalla Radiofono di Guglielmo Marconi e l’italoamericana Sirac, diede vita al servizio pubblico, fin da subito con tratti profondamente “ita-

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liani”. Per meglio comprenderli, occorre risalire all’anno prima, al 1923, quando Benito Mussolini approvò un decreto voluto dall’allora ministro della cultura Giuseppe Bottai che sanciva il controllo dell’esecutivo sui mezzi di comunicazione di massa, perfezionando una precedente legge del 1910, detta “codice postale”, che aveva già attribuito al governo pieni poteri su programmi, impianti, informazione ed eventuali concessioni ai privati. E così fu fino al 1954 quando To-

gliatti e Scelba ottennero le dimissioni di Ridomi, presidente della neonata Rai radiotelevisione italiana, considerato troppo indipendente (e troppo ex fascista). Comunisti e democristiani nominarono insieme i vertici, in una gestione collaborativa durata parecchi anni, fino a quando l’euforia maggioritaria non ha invertito la rotta, riportando il servizio pubblico sotto un sostanziale controllo dell’esecutivo, come se fosse un 1924, un 1923 o ancora meglio, un 1910. u

I consigli della redazione

Adagio Stefano Sollima, in sala

che Foglie al vento racconta una storia di proletari sfruttati in ogni modo, imprigionati dalle logiche capitalistiche in gironi infernali da cui escono sempre perdenti. L’operaio Holappa beve perché è depresso ed è depresso perché beve. L’impiegata Ansa non riesce a tirare avanti con il lavoro, allora ruba e così perde anche il lavoro. S’incontrano e tra loro nasce un amore che non salverà il mondo, ma forse salverà due anime sole. Non c’è nessun inconscio da analizzare o interpretazione da dispiegare. Si può solo entrare nei dettagli per capire dove sta l’emozione. E lì vediamo che tutto è una forma di resistenza: una frase che colpisce nel segno, l’eleganza di un gesto, la probità di una postura si oppongono alla stupidità, alla volgarità e all’ingiustizia. Marcos Uzal, Cahiers du Cinéma

DR

Il ragazzo e l’airone

Il ragazzo e l’airone Di Hayao Miyazaki. Giappone 2023, 124’. In sala ●●●●● Il nuovo film di Hayao Miyazaki ha tutte le caratteristiche delle opere tardive dei grandi maestri: non ha niente da dimostrare e punta all’essenza. A Tokyo, nel 1944, Mahito, undici anni, perde la madre durante un bombardamento. Si trasferisce con il padre nella tenuta di proprietà della famiglia materna. Il ragazzo fatica ad ambientarsi e si isola. Finché un misterioso airone lo attira verso una torre abbandonata che conduce a un mondo capovolto, da cui si diramano i corridoi dello spazio tempo e dove Mahito spera di ritrovare la madre. Un’odissea simile a un ritorno alla matrice, quasi intrauterina. Potremmo avere a che fare con il significato più alto dell’animazione (e per estensione dell’animismo): cogliere in ogni cosa l’impulso primigenio. Mathieu Macheret, Le Monde Saltburn Di Emerald Fennell. Con Barry Keoghan. Stati Uniti/Regno Unito 2023, 131’. PrimeVideo ●●●●● Nel secondo film della regista e sceneggiatrice (premio

Oscar) Emerald Fennell, Barry Keoghan (troppo vecchio per il ruolo) interpreta Oliver, una matricola di Oxford, attratto dalla cerchia del bellissimo e privilegiato Felix (Jacob Elordi), erede di Saltburn, un castello favoloso che comprende un labirinto e una ricca collezione di familiari elegantemente inquieti e di tirapiedi disturbati. Oliver, di origini più modeste, è affascinato in modo malsano dal mondo di Felix, ancora di più quando vanno a Saltburn dove devono essere perseguiti ogni capriccio e ogni impulso. Purtroppo Fennell adotta lo stesso approccio, libero e indulgente, verso regia e sceneggiatura, senza preoccuparsi di ostacoli come coerenza dei personaggi, logica o ritmo. Gli occasionali piaceri perversi (una Rosamund Pike gloriosamente sgarbata) non compensano la delusione durante il disordinato e sfrenato climax del film. Wendy Ide, The Observer Foglie al vento Di Aki Kaurismäki. Con Alma Pöysti, Jussi Vatanen. Finlandia 2023, 81’. In sala ●●●●● Chi ama Aki Kaurismäki sarà felice di ritrovarlo, a sei anni dal suo ultimo film, perfettamente fedele a sé stesso. An-

Il maestro giardiniere Di Paul Schrader. Con Joel Edgerton, Sigourney Weaver, Quintessa Swindell. Stati Uniti 2022, 107’. In sala ●●●●● Il maestro giardiniere segna la conclusione della trilogia di Paul Schrader su uomini in cerca di redenzione nell’America moderna. Do-

A murder at the end of the world 7 episodi, Disney +

po il pastore di First reformed e il torturatore di Il collezionista di carte, stavolta abbiamo a che fare con Narvel (Joel Edgerton), un orticoltore solitario e rigoroso che si prende cura dei giardini di una splendida tenuta di New Orleans di proprietà di Norma Haverhill (Sigourney Weaver), che con l’uomo ha un rapporto stretto e costante. La squadra di giardinieri guidata da Narvel si sta preparando per un evento di beneficenza quando Norma gli affida anche le cure della nipote problematica Maya (Quintessa Swindell). La relazione tra i due sboccia, ma crescono anche i problemi. Attraverso dei flashback vengono alla luce i violenti segreti di Narvel e anche Maya dovrà fare i conti con il suo passato. In mani meno esperte l’intreccio tra tossicodipendenza, violenza, ricchezza, povertà e complessi rapporti interpersonali finirebbero per scadere nel melodrammatico. Ma bisogna aver fede in Schrader: come sanno tutti i giardinieri, la pazienza porterà a una ricompensa. Lou Thomas, Empire NEWSLETTER Schermi è la newsletter settimanale di Piero Zardo su cosa vedere al cinema, in tv e sulle piattaforme di streaming. Per riceverla: internazionale.it/newsletter

DR

Film

One life James Hawes, in sala

Il maestro giardiniere Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Cultura

Libri Stati Uniti

I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana la freelance norvegese Eva-Kristin Urestad Pedersen.

Jordan contro James

Paolo Di Paolo Romanzo senza umani Feltrinelli, 224 pagine, 17 euro ●●●●● I tuoi ricordi non sono solo tuoi. Li devi “contendere” a persone con cui hai condiviso vita, amori e amici, ma anche a persone con cui hai condiviso solo brevi istanti. Che succede infatti quando i ricordi dello stesso episodio sono diversi? È l’argomento principale di Romanzo senza umani di Paolo Di Paolo, un libro che è tutto tranne che privo di umani. Attraverso il viaggio di Mauro Barbi, un professore di storia, intorno a un lago in Germania che fu completamente congelato nella piccola era glaciale (epoca di cui Barbi è esperto), Di Paolo parla di come i ricordi siano la base sulla quale cerchiamo di costruire la nostra identità. Siccome questi ricordi sono infinitamente fragili, siamo fragili anche noi. Dopo aver finito di leggere il libro mi viene da pensare che forse siamo veramente forti solo quando i nostri ricordi sono identici a quelli della persona con cui li condividiamo. Di Paolo è nato nel 1983 ed è impressionante come uno scrittore relativamente giovane possa scrivere con una tale lucidità ed eleganza su un argomento del genere. Romanzo senza umani è un bellissimo romanzo. u

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I diversi atteggiamenti politici di due star della pallacanestro illustrano molto bene i cambiamenti nella società statunitense Un metodo divertente per capire un paese è guardare allo sport. Durante le feste natalizie milioni di statunitensi hanno guardato in tv le partite dell’Nba, la lega professionistica di pallacanestro. Una vetrina perfetta anche per un argomento molto serio come i rapporti tra bianchi e neri. Nel tempo l’Nba ha contribuito a plasmare l’identità della comunità afroamericana. Due grandissime star della pallacanestro, Michael Jordan e LeBron James, forse le più grandi, sono protagonisti di due libri che mostrano quale possa essere l’impatto delle loro per-

FOCUS ON SPORT/GETTY

Italieni

Michael Jordan, 1991

sonalità fuori dal campo di gioco, soprattutto per quello che riguarda la questione razziale. In Jumpman, Johnny Smith sostiene che Michael Jordan, arrivato al successo nell’America daltonica di Ronald Reagan, abbia cercato di “trascendere il colore della

pelle”. Non si è mai considerato un paladino dei diritti degli afroamericani. Valerie Babb, nel suo Book of James, mostra come invece sia stato attivo politicamente LeBron. Del resto tutti e due gli sportivi sono stati “figli del loro tempo”. The Economist

Il libro Nadeesha Uyangoda

Frammenti di ossessione Maggie Nelson Bluets Nottetempo, 108 pagine, 14 euro Duecentoquaranta frammenti che inseguono un’ossessione. Questo libro di Maggie Nelson, in Italia nella traduzione di Alessandra Castellazzi, comincia con una domanda: “E se vi dicessi che mi sono innamorata di un colore?”. Il colore è più precisamente il blu, che s’incunea in ogni aspetto della vita, dalla fine di una relazione, al lutto di un’amica paralizzata, all’accumulo

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compulsivo di oggetti di colore blu. È il famous blue raincoat di Leonard Cohen, il Blue della canzone di Joni Mitchell: “One thing they don’t tell you ’bout the blues when you got ’em, you keep on fallin” canta invece Emmylou Harris. Il blu del sesso, della depressione, del lutto, della sacralità. Le storie dei blu di Nelson coprono un ventaglio che va dalla natura, alla letteratura, alla scienza – tutte collegate nella disposizione che l’autrice sceglie per le sue proposizioni che però non realizzano una

morale, un finale. Bluets è un racconto intimo e personale, eppure allo stesso tempo capace di accendere gli stessi sentimenti complessi in chi legge. Del resto, è un altro tentativo dell’autrice di negoziare i confini del genere memoir, sfumando l’esperienza personale nella critica, muovendosi tra poesia in prosa e saggistica. Bluets è un libro esile, strano, indefinibile e proprio per questo capace di esercitare un fascino irrazionale, ossessivo in chiunque lo legga. u

I consigli della redazione

Nana Kwame Adjei-Brenyah Catene di gloria Sur

Il romanzo

Amarsi nel disastro Aleksandar Hemon

GARY DOCK (ALAMY)

Aleksandar Hemon Il mondo e tutto ciò che contiene Crocetti, 368 pagine, 20 euro ●●●●● Il nuovo romanzo di Aleksandar Hemon è immenso. Non perché sia inusitatamente lungo – non lo è – ma perché contiene praticamente tutto quello che il titolo promette: viaggi che durano anni e vite che toccano diversi continenti; imperi che crollano e città piene di storia; amori incancellabili, perdite strazianti; sogni e canzoni e patologiche manie di grandezza; allusioni furbe e battute sporche. Il mondo e tutto ciò che contiene è, a seconda dei momenti, lirico e cinico. È emotivamente coinvolgente quanto è intelligente. Tutto comincia a Sarajevo. Hemon, un bosniaco che vive negli Stati Uniti, ha scritto dell’assedio degli anni novanta usando registri molto diversi. Questo libro invece ci porta nel 1914, quando Sarajevo fu teatro dell’attentato che fece scoppiare la prima guerra mondiale. Il protagonista è Rafael Pinto, ebreo sefardita, studente a Vienna, farmacista, omosessuale e oppiomane. Mentre l’automobile dell’arciduca Ferdinando e della moglie entra in città, Pinto è nella sua bottega che pianta un bacio sulle labbra baffute di un Rittmeister austriaco. È un gesto audace, ma siamo a Sarajevo, una città poliglotta e multireligiosa in cui è possibile osare congiungimenti non ortodossi. Finché l’Onnipotente – colui che ripetutamente crea mondi e li distrugge – pone fi-

ne al mondo in cui Pinto è cresciuto e gli fa trovare l’amore del musulmano Osman e attraversare il continente eurasiatico a piedi, portandolo 35 anni dopo fino a Shanghai, verso la sua patetica Liebestod. Nella frase precedente ho usato due parole in tedesco. E non me ne scuso: i lettori di Hemon devono essere pronti ad accettare un vocabolario inusuale. Questo è anche un libro sulla lingua e quella usata da lui è una ricca miscellanea di idiomi. Alla fine compare un narratore in prima persona. È uno scrittore. Forse lo stesso Hemon. È a Gerusalemme per un festival letterario e incontra un’anziana che canta per lui in bosniaco e gli racconta la storia dei suoi due padri. Così, mentre noi leggiamo la fine di questo romanzo, all’autore viene l’idea di scriverlo. E a noi non resta che la sofferenza di essere strappati da questa illusione romanzesca così abbondante e generosa. Lucy Hughes-Hallett, The Guardian

Matteo Bordone L’invenzione del boomer Utet

Deborah Davis Truman Capote e il party del secolo Accento

Margo Jefferson Sistema nervoso in costruzione 66th and 2nd, 176 pagine, 17 euro ●●●●● Il nuovo memoir di Margo Jefferson è una buona occasione per ricordarci che non abbiamo già visto tutto. Jefferson svela le sue sorprese in meno di duecento, potenti pagine. Con Sistema nervoso in costruzione l’importante critica letteraria, che nel 1995 vinse il premio Pulitzer per il suo lavoro al New York Times, fa piazza pulita della vecchia idea del memoir come pura biografia. La sua è un’esposizione quasi poetica delle esperienze scaturite dagli incontri con artisti che per qualche motivo riteneva significativi. Ed è uno dei primi libri che mi è venuto voglia di rileggere arrivata all’ultima pagina. In che modo, mi chiedevo, Jefferson riesce a far funzionare questa storia? Con qualche richiamo alla sua biografia – è la più giovane di due sorelle nate da un padre pediatra e da una madre perfezionista – ci attira in un sognante e peripatetico viaggio nella sua mente e nel suo cuore. Usa una lingua elegante e un po’ di gergo teatrale per convincerci a mettere a fuoco le sue idee su identità etnica, di classe e di famiglia. Stilisticamente Sistema nervoso in costruzione è un diario che si ferma spesso ad apostrofare direttamente il lettore. È una performance teatrale e forse anche una sessione di psicoterapia. Soprattutto, Margo Jefferson ci invita a ripensare le nostre esperienze con l’arte trovando risonanze in alcuni dettagli intimi della sua vita. Non so come faccia ma ci riesce, ed è un risultato splendido. Karen Sandstorm, The Washington Post

Lawrence Osborne Java road Adelphi, 209 pagine, 19 euro ●●●●● Il narratore di Java road è Adrian Gyle, un giornalista inglese che ha vissuto per vent’anni a Hong Kong. “Sono una persona triste anche per le persone tristi”, dice di se stesso. Ma la sua città di elezione, che fino a poco tempo prima gli sembrava “ferma agli anni settanta”, improvvisamente diventa più vitale e più pericolosa, con le violente proteste contro il governo cinese. L’unica costante nella vita di Adrian è l’amicizia con Jimmy Tang, rampollo di una delle famiglie più ricche della città e vecchio compagno di università a Cambridge. Jimmy è sposato con una donna la cui famiglia ha interessi economici in comune con la sua e ha una relazione con Rebecca, una giovane leader delle proteste. Jimmy è affascinato dall’anarchia, “è come assistere alla nascita di una nuova religione”, dice. Se la sua relazione venisse scoperta le conseguenze sociali ed economiche per lui sarebbero terribili. A un certo punto Jimmy rompe con Rebecca, molto pubblicamente e rumorosamente, in un ristorante molto noto. E presto Rebecca scompare. Adrian cerca di capire con Jimmy cosa può esserle successo ma poi lui smette di rispondergli al telefono. E se Rebecca fosse uno dei tanti corpi riportati a galla dall’acqua in quei giorni? Sono tutti giovani e molte sono donne, casi archiviati come suicidi. Adrian comincia una discreta investigazione solitaria che vedrà sovvertite tutte le aspettative letterarie di autori classici come Raymond Chandler e Graham Greene. Tom Nolan, The Wall Street Journal

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Cultura

Libri ungherese fu prosciugata e distrutta in modo simile nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Il libro evoca figure, luoghi e oggetti. Cataloga tutto ciò che può e costruisce un monumento. Sarebbe complicato descrivere qui di cosa si tratta: parenti e conoscenti morti da tempo, storie di paesani che tentano la fortuna in America e il paesaggio, le colline, le foreste, le acque selvagge che circondano il villaggio. La parola “importante” è usata spesso nelle recensioni dei libri. Forse più del necessario, perché di sicuro i libri importanti non sono poi così numerosi. L’uomo che pesca è un libro davvero importante, oltre a essere un’opera letteraria e poetica di impareggiabile bellezza. È quindi una delle più grandi conquiste della letteratura ungherese contemporanea, un degno ricordo di un mondo ormai sommerso. Ákos Győrffy, Mandiner

Leonard Michaels Potendo, li avrei salvati Racconti, 590 pagine, 26 euro ●●●●● Divertenti, a tratti brillanti, tanto volgari quanto aforistici, i racconti di Leonard Michaels si avvicinano a quelli dei suoi migliori contemporanei ebrei come lui: Grace Paley e Philip Roth. Come le loro, la lingua vernacolare di Michaels raggiunge i toni di una canzone. Eppure, sebbene molto noto in vita – Michaels morì a settant’anni nel 2003 – la sua letteratura così sessualmente esagitata è poco letta oggi. In questi racconti asciutti la riga rimane l’unità di misura principale. Le frasi di Michaels, così musicali e attente al ritmo, erano il suo grande segreto e la sua grande forza. “Non le piacevo”, così comincia una storia, “ quindi la chiamavo tutti i giorni”. Piccole bellezze irregolari da leggere e rileggere. Mona Simpson, The New York Times

Non fiction Giuliano Milani

Menti aliene Nello Cristianini La scorciatoia Il Mulino, 216 pagine, 16 euro Dal lancio di ChatGpt nel novembre del 2022, alle notizie sul licenziamento e la riammissione di Sam Altman alla testa dell’azienda che ha prodotto il software, l’anno appena trascorso è stato il primo in cui la maggior parte delle persone ha cominciato a porsi seriamente il problema dell’intelligenza artificiale, a capirne le potenzialità e a riflettere sui rischi che comporta. Per orientarsi in questo

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mondo, al di là delle semplificazioni e della propaganda, è molto utile questo libro scritto da un ricercatore informatico autorevole che insegna nel Regno Unito. Dopo aver proposto una definizione larga d’intelligenza, Cristianini spiega come nel corso del secondo novecento si siano affrontati due approcci diversi alla ricerca sull’intelligenza artificiale, quello volto a insegnare alle macchine come ragionare sulla base di regole teoriche e quello che mira a ottenere risultati solo fon-

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dandosi sul calcolo statistico dei dati. La prevalenza del secondo metodo è la “scorciatoia” di cui parla il titolo, a partire dalla quale la ricerca è raccontata con chiarezza, profondità e ricchezza di esempi fino ai suoi ultimi sviluppi. Al tempo stesso storia, saggio scientifico e riflessione etico-politica, spiegando come questo campo si è evoluto, il libro invita a riflettere su come debba essere regolato, al fine di evitare che menti aliene prendano decisioni avventate sulle nostre vite. u

Pane e vino

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Imre Oravecz L’uomo che pesca Anfora, 192 pagine, 18 euro ●●●●● L’uomo che pesca occupa un posto centrale nell’opera del poeta e scrittore ungherese Imre Oravecz. Il sottotitolo del libro è Szajla. Frammenti per un romanzo, perché L’uomo che pesca può davvero essere letto come un romanzo, ma ha una struttura più sciolta rispetto a un classico lavoro in prosa. Il tema centrale è Szajla, il villaggio natale dell’autore. Grazie a Oravecz, il piccolo luogo nascosto ai piedi della Mátra settentrionale è diventato uno dei paesaggi mitici della letteratura ungherese contemporanea. Questo è anzitutto un libro di memoria e distruzione. Oravecz pesca nella sua memoria, come fa il protagonista della poesia che dà il titolo, il pescatore di Szajla, dopo che il lago dove lavorava fu prosciugato. Anche la cultura contadina

Daniel Jordà Panes Larousse Jordà, mastro panettiere di Barcellona, parla dei processi e delle tecniche della panificazione e dell’importanza della lievitazione naturale. Andreas Viestad Dinner in Rome Reaktion Books “C’è più storia in un piatto di pasta che nel Colosseo”, scrive lo chef e giornalista gastronomico norvegese Andreas Viestad: il cibo è la forza segreta della storia. Attraverso il pane l’autore ripercorre la storia di Roma. Ray Isle The world in a wineglass Scribner Panoramica di produttori di vini di tutto il mondo, con un focus su chi usa metodi sostenibili e biologici. Ray Isle è un giornalista statunitense che si occupa di enologia. Julia Harding, Jancis Robinson, Tara Q. Thomas The Oxford companion to wine Oxford University Press Dizionario enciclopedico del vino alla sua quinta edizione: migliaia di voci su storia e geografia del vino, la scienza del suolo, viticoltura, enologia, la produzione, la degustazione e la lingua degli enologi. Maria Sepa usalibri.blogspot.com

Ragazzi L’arcobaleno in classe Marilena Umuhoza Delli Lettera d una madre afrodiscendente alla scuola italiana People, 176 pagine, 15 euro Il libro della scrittrice Marilena Umuhoza Delli aiuta con garbo, ironia e saggezza a nuotare tra le contraddizioni della scuola di oggi. È una lettera, ma non una qualsiasi. La scrive un’afrodiscendente, Marilena stessa, figlia di un italiano e di una ruandese, che tanti anni prima di essere madre, è stata alunna in una scuola che a volte la faceva sentire straniera. Ma è passato molto tempo. L’Italia di oggi è ormai plurale, e dentro questa pluralità la scuola è fatta di tanti arcobaleni che s’intersecano in mille modi diversi. Per questo serve che la scuola adotti un approccio più ricco, creativo, inclusivo, per rendere ogni persona che vive lo spazio scolastico parte del tutto. Marilena Umuhoza Delli con i suoi tre precedenti libri ci ha aiutato a decentrare il punto di vista, e lo fa a maggior ragione da madre afrodiscendente qui. Invita chi legge a riconoscere il razzismo, educare alla storia di un’Italia multietnica, spiegare l’universalità delle storie della migrazione, utilizzare un linguaggio inclusivo e soprattutto non fare tokenismo. Un libro completo di dati che è un grande invito ad ascoltare e a valorizzare tutte le voci attraverso un’educazione intersezionale e attraverso l’ascolto, anche quando non si è d’accordo. Igiaba Scego

Ricevuti A cura di Maria Emanuela Piemontese Il dovere costituzionale di farsi capire Carocci, 308 pagine, 32 euro Giuristi e linguisti riflettono sulla mancanza di chiarezza dei testi legislativi e amministrativi italiani. L’obiettivo è incoraggiare a farsi carico di quello che è un “dovere costituzionale” delle istituzioni: farsi capire.

Fumetti

Donna in un grande vuoto Daniel Clowes Monica Coconino Press, 108 pagine, 25 euro Miglior graphic novel del 2023, Monica è l’annuncio, forse definitivo, dell’apocalisse della mediocrità. Fin dal precedente Patience (riedito da Coconino), Clowes ha ormai dimostrato di eccellere anche nei ritratti al femminile immessi però in una sorta di fantascienza di paccottiglia, stile anni cinquanta e sessanta, con il fine di trasfigurare il determinismo sociale che provoca alienazione in tutti e oppressione nelle donne. L’estrema frantumazione temporale delle due narrazioni, esprime la perdita di senso profondo della realtà. Ma anche della nozione di futuro. Ancor più vero in Monica, fine ritratto sia psicologico sia comportamentale di una don-

na, dall’infanzia alla vecchiaia, partendo dall’epoca hippy fino a oggi, ma anche ritratto dell’America di provincia. La narrazione è intervallata con racconti che potrebbero uscire dritti dagli albi fantastici o horror della Ec Comics degli anni cinquanta, veicolo di uno straniamento soltanto più accentuato rispetto a quello presente nella “realtà”. Il primo racconto, dagli echi lovecraftiani e centrato su una setta che si è impadronita di una città, si (con)fonde con il penultimo capitolo della vita di Monica, che sprofonda nelle teorie del complotto. Ma in verità forse ogni cosa è apparenza, tutto si è fatto ambiguo, poroso, in questa, o in queste, realtà in disfacimento. È invece granitica una narrazione magistrale su un’umanità perdutasi in un grande vuoto. Francesco Boille

Federico Fellini, Sergio Leone, Mario Monicelli La vita è una pellicola al contrario Il Saggiatore, 88 pagine, 10 euro Tre maestri del cinema italiano riflettono sul loro lavoro dando vita a una conversazione impossibile su come realizzare e, soprattutto, vivere un film. Anna Bonalume Un mese con un populista Tab edition, 272 pagine, 20 euro Tra inchiesta giornalistica e riflessione filosofico-politica, questo libro racconta un mese trascorso a stretto contatto con Matteo Salvini, dal suo ufficio di senatore alle trattorie di paese. Zacharias Topelius Castelli d’aria Iperborea, 160 pagine, 17 euro Raccolta di fiabe d’autore che mescolano tradizione europea e folclore finnico. Mark Kurlansky Sale Nutrimenti, 506 pagine, 22 euro Stupefacente storia del mondo ricostruita attraverso il ruolo (enorme) del sale.

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Cultura

Suoni Podcast Indagini senza regole

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ANTOINE MONEGIER DU SORBIER

Adrian Walker Murder in Boston Boston Globe e Hbo La sera del 23 ottobre del 1989 Charles Stuart telefona alla polizia e con parole confuse racconta di essersi perso con la sua auto nel quartiere Mission Hill, dove un nero ha cercato di rubargli la macchina e ha sparato a lui e alla moglie incinta. Stuart è sopravvissuto all’aggressione, mentre la moglie e il bimbo moriranno pochi giorni dopo in ospedale. L’indagine viene affidata al detective Peter O’Malley che, con l’appoggio del sindaco e dei magistrati, decide di dare carta bianca ai suoi agenti che indagano nei quartieri di periferia: nessuna regola, purché saltino fuori dei nomi. Ne seguono settimane d’inferno per gli abitanti di quei quartieri, soprattutto giovani afroamericani, che oltre a diventare sospetti soltanto per una vaga somiglianza con la descrizione dell’assassino fornita da Stuart, diventano anche il capro espiatorio della frustrazione della polizia bianca di Boston, alle prese con le tensioni derivate dalla fine della segregazione razziale nella città. Otto mesi dopo, il suicidio di Charles Stuart rivelerà che era stato lui a uccidere la moglie e a incolpare una generica persona nera per depistare le indagini. Adrian Walker, giovane cronista del Boston Globe ai tempi dell’omicidio, tenta una tessitura tra cronaca nera, storia e politica che riesce solo a metà: il risultato è avvincente sul piano del ritmo, ma l’analisi risulta un po’ superficiale. Jonathan Zenti

Il festival Les Francofolies de la Rochelle, luglio 2023

Dalla Francia

Una tassa sullo streaming Il governo francese vuole introdurre un’imposta sui compensi di Spotify e di altre aziende del settore Spotify ha già preso i primi provvedimenti dopo che il governo francese ha annunciato di voler imporre una tassa ai servizi di streaming musicale. La divisione francese dell’azienda svedese ha fatto sapere che smetterà di offrire un sostegno economico ai festival Francofolies de La Rochelle e le Printemps de Bourges (due eventi che ospitano soprattutto artisti francesi) a partire dal 2024, proprio quando dovrebbe entrare in vigore la nuova misura. Spotify ha confermato la sua decisione in un comunicato stampa, dichiarandosi “dispiaciuta” per la decisione presa dall’Eliseo. La tassa ai servizi di streaming, annunciata a metà dicembre dalla

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ministra della cultura Rima Abdul Malak, prevede che alle aziende del settore (nel quale operano anche società come YouTube, Deezer, Apple Music e Qobuz), venga applicato un addebito pari all’1,2 per cento sul totale del fatturato annuo registrato in Francia. La riforma, però, non riguarderà le società che guadagnano meno di venti milioni di euro all’anno. Il ricavato dell’imposta servirebbe a finanziare il Centre national de la musique, un istituto fondato nel 2020 per sostenere i lavoratori dell’industria musicale. Spotify si è detta contraria a una tassa nazionale, e preferirebbe versare un “contributo volontario”. L’amministratore delegato di Deezer, Jeronimo Folgueira, ha descritto la tassa come “il peggior risultato possibile”. L’istituzione nel 2024 di un’imposta sul fattu-

rato delle piattaforme di streaming, voluta proprio dal presidente Emmanuel Macron, ha diviso le opinioni di chi lavora nell’industria musicale e secondo il governo di Parigi dovrebbe fruttare 15 milioni di euro all’anno. Secondo alcune fonti, Spotify starebbe addirittura pensando di aumentare il prezzo degli abbonamenti per gli utenti francesi. L’azienda non dovrebbe arrivare alla misura estrema di ritirarsi completamente dal paese, come ha fatto recentemente in Uruguay dopo che a ottobre il parlamento del paese latinoamericano aveva approvato un disegno di legge sull’equo compenso dei musicisti. Il mercato francese è troppo grande perché Spotify possa abbandonarlo, quindi per il momento l’azienda spera che le sue minacce servano. Capital

Pop Scelti da Giovanni Ansaldo

MJ Lenderman And the wind (live and Loose!) Anti-

Animal Collective & Moor Mother Isn’t it now? (Moor Mother collage) Domino

Niecy Blues

sulta immediato e coinvolgente. È un invito a viaggiare in spazi che non sapevi esistessero, e a lasciare che ti cambino. Dash Lewis, Resident Advisor H31R HeadSpace Big Dada ●●●●● Se molti ricercano un genere predefinito in cui rifugiarsi, le H31R (che si pronuncia heir) fanno l’opposto; proprio come nel loro singolo Backwards, sembrano muoversi a ritroso. Il secondo disco di questo duo newyorchese non teme affatto le rapide mutazioni della cultura popolare, anzi le usano come veicolo per mettere in discussione alcune delle idee convenzionali sul mondo in cui viviamo. Ogni canzone non dura più di due minuti e mezzo ed è contrassegnata da motivi elettronici e orecchiabili, perfetti per TikTok, ma non hanno la volatilità tipica dei pezzi pensati per fare successo sui social network. Anzi, qui di roba da digerire ce n’è tanta. La producer JWords e la cantante e rapper maassai vogliono costruire una sintesi tra hip hop e club music. Con HeadSpace aprono una nuova

fase del loro percorso, in cui riescono a comporre un ritratto sconcertante e brillante del nostro cervello nell’era digitale. Leo Lawton, Loud and Quiet Ton Koopman J.S. Bach: opera per organo Ton Koopman, organo; Amsterdam baroque Choir Teldec ●●●●● Se avevate perso queste registrazioni, effettuate negli anni novanta, ora le trovate tutte in un cofanetto di 16 cd. Ton Koopman non è l’interprete di Johann Sebastian Bach preferito da tutti, ma ha sicuramente un punto di vista forte (che

spiega in modo molto succinto e chiaro nelle note). Le sue scelte di tempo a volte possono sembrare strane – molti dei preludi corali sono di una velocità che può essere un po’ inquietante –ma sono anche più emozionanti di quelle di altri interpreti più tradizionali. Ed è molto bello avere i preludi affiancati dalle corali cantate (dall’ottimo Amsterdam baroque choir). Uno dei punti di forza di questo set, in cui Koopman afferma di eseguire “tutte le opere attribuite a Bach, compresi i pezzi dubbi”, è l’uso di vari organi scelti con cura: il Silbermann di Freiberg, lo Schnitger della St. Jacobikirche di Amburgo e altri strumenti d’epoca nei Paesi Bassi e in Germania. Non importa quali problemi possiate avere con alcune delle scelte stilistiche, il suono di questi meravigliosi strumenti è indiscutibile. E già con la traccia d’apertura del primo disco, la monumentale Fantasia e fuga in sol minore bwv 542 , ci si rende conto che stiamo partendo per un viaggio esaltante. David Vernier, ClassicsToday NEWSLETTER Musicale è la newsletter settimanale di Giovanni Ansaldo su cosa succede nel mondo della musica. Esce ogni lunedì. Per riceverla: internazionale.it/newsletter

KENYATTA MEADOWS

Niecy Blues Exit simulation Kranky ●●●●● Il disco d’esordio di Niecy Blues comincia come una ninna nanna. Un basso maestoso apre il brano 1111 e lascia il posto alla cantante, che sembra arrivare da lontano. La sua voce si armonizza e poi si frantuma, precipitando prima di fondersi attorno a un bordone sfocato del sintetizzatore. È come accendere una candela dentro una stanza buia. L’artista di Charleston, nel South Carolina, è cresciuta in una famiglia religiosa nelle zone rurali dell’Oklahoma e s’identifica come persona non binaria. Come racconta, la sua prima esperienza con la musica ambient è stata in chiesa. Ha lasciato l’Oklahoma per la South Carolina e ha studiato teatro alla Anderson university, un piccolo college cristiano. Exit simulation crea tensione per trasformare gli elementi minimalisti in un insieme estasiante. Le canzoni sono più facilmente classificabili come rnb, ma la musica si estende in territori molto più remoti. La batteria pesante e le sensuali linee di basso di U care e Violently rooted fanno pensare al trip-hop. Mary Lattimore presta la sua arpa celestiale alla fluttuante Exits e Soma recluta un’intera band per realizzare un arrangiamento jazz psichedelico. La splendida voce di Niecy Blues è il fulcro di queste composizioni e la vera fonte della potenza del disco. Analysis paralysis, la canzone più pop e anche la migliore dell’album, ondeggia languidamente come una leggera brezza. Nonostante la natura sperimentale e i continui cambi di genere, Exit simulation ri-

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Album

Teho Teardo & Blixa Bargeld Live in Berlin Specula Records

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Pop Chi ha il diritto di parlare Mohammed el Kurd ggi vi parlerò delle vittime perfette e israeliani hanno ucciso una giornalista statunitense”. della politica per renderle attraenti. Io, naturalmente, non l’ho fatto. E quando ho scritto Il popolo palestinese, sugli schermi dell’uccisione di Shireen Abu Akleh, ho cercato di detelevisivi o più in generale nella sfera scriverla non come una giornalista statunitense, ma pubblica, esiste in una falsa dicotocome una persona con un passaporto statunitense. mia. O siamo vittime o terroristi. Ma non è servito. La notizia che Abu Akleh era statuQuelli che tra noi sono terroristi – o rappresentati nitense si è diffusa nelle ore seguenti, e la sua presuncome tali – non hanno mai l’opportunità di essere ta americanità improvvisamente l’ha resa umana. commentatori su quegli schemi. Sono creature quasi Questo aneddoto ci dà l’opportunità di farci tre mitiche, da racconto dell’orrore: grandi lupi cattivi domande: nella mente occidentale convenzionale, con le sopracciglia aggrottate, le zanne aguzze e una chi è considerato degno di essere compianto? Chi è terrificante scorrettezza politica. Girano per le strade umanizzato? E chi riceve il microfono? borbottando aggressivamente in araShireen Abu Akleh era una persona bo, a volte leggendo il Corano, pronti a Sono in una perché era una persona. Per l’americasaccheggiare e a sparare a tutto quello posizione unica. Da no medio, però, era una persona perché che li circonda. Stanno venendo a pren- un lato sono una era una donna, una cristiana, una statudervi. Nascondete le vostre mogli, i vo- vittima che ha perso nitense, una giornalista con il giubbotto stri aerei, i vostri scudi umani. Molti, la casa o che se l’è da reporter ben visibile. Aveva perfino tra il pubblico, potranno figurarsi quel- vista rubare dai un cane. Quando moriamo, se voglialo che sto descrivendo. mo andare sui giornali o vogliamo che coloni a Sheikh Dall’altra parte quelli che tra noi sola nostra morte conti, dobbiamo aver Jarrah. Dall’altro no vittime, che sono descritti sui gioravuto una vita spettacolare o fare una sono un giornalista, morte spettacolarmente violenta. nali e nei documentari come feriti, gementi e deboli, a volte ricevono il mi- sono uno scrittore Quando dico “spettacolarmente viocrofono. Ma a caro prezzo. Ci sono dellenta”, penso a uno come Mohammed le condizioni che le vittime devono rispettare. Spesso Abu Khdeir, un ragazzo di sedici anni che viveva di sono donne, bambini, anziani. Hanno passaporti fronte alla mia scuola superiore a Shufat, nella Gerustatunitensi o europei, svolgono professioni umanisalemme occupata, ed è stato rapito davanti a casa tarie o hanno delle disabilità. Chiunque dirà: “Non sua e bruciato vivo dai coloni israeliani. farebbero del male a una mosca”. E anche se un temCosa significa praticare una politica che renda atpo erano lupi, ora sono docili e addomesticati, e ulutraenti le vittime? Per decenni giornalisti e operatori lano alla luna solo in agonia. Non caricano, non atculturali animati da buone intenzioni hanno usato taccano e non cacciano mai in branco. La loro è una una cornice umanizzante nel rappresentare gli opcampagna individualistica, incentrata unicamente pressi, sperando di contrastare il ritratto tradizionale sulle loro tragedie personali, incentivata dal bisogno del palestinese come terrorista. Non solo questo ha umanitario più che dall’ideologia politica. prodotto una dicotomia falsa e banalizzante tra terroVoglio raccontarvi una storia. L’11 maggio 2022, risti e vittime, ma il vittimismo che emerge all’intercome molte persone in tutto il mondo, mi sono sveno di questa cornice è un vittimismo perfetto, un regliato con la notizia che l’amata giornalista televisiva quisito etnocentrico per la compassione e la solidapalestinese Shireen Abu Akleh era stata colpita e ucrietà. cisa dalle forze di occupazione israeliane durante un Spesso sottolineiamo la non violenza, la nobiltà raid nel campo profughi di Jenin, nella Cisgiordania della professione e le disabilità di una persona opoccupata. Pochi minuti dopo aver saputo la notizia, pressa; la ricopriamo di elogi. Lo facciamo non solo ho trovato un’email anonima nella mia casella di ponel contesto palestinese, ma anche quando parliamo sta, con un’indicazione. C’era scritto: “Estremamendelle vittime afroamericane della brutalità della polite urgente e necessario, si prega di annunciare su zia. “Erano artisti” o “erano malati di mente” o “eraTwitter e Facebook che Shireen Abu Akleh è una citno disarmati”. Quasi che condannare lo stato per la tadina statunitense. È un fatto, non una voce. Gli morte di un nero possa essere ammissibile solo quan-

O MOHAMMED EL KURD

è uno scrittore e poeta nato a Gerusalemme. È il primo corrispondente dalla Palestina della rivista statunitense The Nation. Ha pubblicato la raccolta di poesie Rifqa (Fandango Libri 2022). Questo articolo è un adattamento del discorso tenuto a un evento in memoria dell’intellettuale palestinese statunitense Edward Said all’università di Princeton, negli Stati Uniti, nel febbraio 2023 e che diventerà un libro.

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Pop

Storie vere Secondo la legge del Colorado, negli Stati Uniti, un furto di valore superiore a 2.000 dollari è un reato grave, mentre uno di valore inferiore è un reato minore. Michael Green, 50 anni, e Byron Bolden, 37 anni, sono stati processati perché avevano rubato merce per un valore di 2.094,98 dollari da un negozio della città di Parker, in Colorado. Il loro avvocato ha sostenuto che il valore del furto era minore di quello dichiarato dal negoziante perché i due avevano dei buoni sconto e parte della merce rubata era in saldo. La giuria gli ha dato ragione: Green è stato condannato a 15 mesi di carcere e Green a 90 giorni di carcere e 18 mesi di libertà vigilata.

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do la persona uccisa corrisponde a uno sterile modello di cittadinanza statunitense. Lo stesso vale per chi subisce un’aggressione sessuale: dobbiamo ricordare all’ascoltatore che la vittima era sobria e vestita in modo appropriato. Ovviamente non sto dicendo che chi cerca di rendere attraenti le vittime debba essere mandato al rogo. Molte persone lo fanno in buona fede. Il più delle volte dicono che è una strategia. Quando diciamo che Shireen Abu Akleh era statunitense o che Alaa Abdel Fattah, il prigioniero politico egiziano, è britannico, diciamo che dietro c’è una strategia. Così è più facile che l’opinione pubblica statunitense s’identifichi e si contribuisce a fare giustizia. Ma in realtà in questo modo non si fa che restringere lo spazio dell’umanità agli occhi degli altri, consolidando una gerarchia della sofferenza. Si rende il requisito di diventare “umani” molto più stretto e difficile da raggiungere. E tali pratiche di quello che io definisco “addomesticamento” riproducono l’ordine culturale convenzionale in cui i palestinesi sono derubati della loro capacità di azione, del loro diritto all’autodeterminazione, e in definitiva del permesso di narrare, come ha detto una volta l’intellettuale palestinese Edward Said. Ecco un’altra situazione legata alla vittima perfetta: c’erano due ragazzi, due fratelli di Beit Rima, un villaggio vicino a Ramallah, nella Cisgiordania occupata. Uno di loro aveva un lavoro ben retribuito all’Arab islamic bank, l’altro studiava ingegneria informatica all’università di Bir Zeit. Venivano da una famiglia agiata. Quando l’esercito israeliano ha fatto un raid nel loro villaggio, occupato illegalmente dai militari, i fratelli hanno difeso la loro comunità tirando sassi e tutto quello che trovavano. Gli hanno sparato. Sono stati uccisi entrambi nel giro di pochi minuti. Si chiamavano Jawad e Thafer Rimawi. Da allora la sorella, Ru’a Rimawi, che studiava medicina per diventare pediatra, si è messa a lavorare in un campo in cui praticamente non aveva esperienza: organizzare campagne d’informazione. Ha condiviso gli elogi funebri dei fratelli e altri aneddoti con i suoi follower sui social network. “Dopo ogni post sono a pezzi”, mi ha detto. Vuole tenere vivo il ricordo dei fratelli in un contesto in cui i palestinesi che sono uccisi ogni giorno ricevono poca o nessuna attenzione dai mezzi d’informazione. “Ma è difficile”, mi ha detto, “convincere il mondo che le vite dei tuoi fratelli contavano”. Non basta che siano stati uccisi: deve ricordare a tutti che avevano una carriera e che non erano ansiosi di gettarsi tra le braccia della morte. “Avevano ambizioni e sogni, come tutte le persone del mondo”. Ho cercato di aiutare Ru’a Rimawi a pubblicare un articolo sui suoi fratelli. L’abbiamo proposto al Guardian, al Washington Post e al Los Angeles Times. Con il New York Times non ci abbiamo provato. Tutti hanno rifiutato o ignorato l’articolo. Ne abbiamo parlato con un esperto di mezzi d’informazione e ci ha detto che l’articolo è stato rifiutato perché i suoi fratelli avevano lanciato sassi contro l’esercito. Erano vittime, ma non le vittime perfette, perciò non potevano tro-

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vare spazio sul Los Angeles Times. Di solito preferisco concentrarmi sul raccontare la brutalità sionista piuttosto che occuparmi delle sfide della rappresentazione, perché queste inevitabilmente impallidiscono di fronte alla repressione e alla violenza che i palestinesi subiscono sul terreno. Ma quella violenza è esattamente il motivo per cui, a volte, dovremmo occuparci dei problemi della rappresentazione che intrappolano i sostenitori della liberazione palestinese nel mondo occidentale. Nel 1984, in reazione alla guerra israelo-libanese, Edward Said pubblicò il suo saggio Permission to narrate (Il permesso di narrare), in cui criticava la rappresentazione faziosa della guerra fatta dai mezzi d’informazione occidentali, che favorivano la narrazione israeliana e sopprimevano il punto di vista palestinese. Oggi ci troviamo in una situazione molto simile. Politici e analisti israeliani vanno in tv a dare la loro lettura del cosiddetto conflitto, mentre solo le vittime palestinesi hanno questa opportunità, e non sono intervistate ma interrogate. Io mi trovo in una posizione unica. Da un lato sono una vittima che ha perso la casa o che se l’è vista rubare dai coloni a Sheikh Jarrah. Dall’altro sono un giornalista, sono uno scrittore. Di tanto in tanto mi invita la Cnn, una volta sola a dire il vero. A quanto pare non sono mai invitato due volte dalla stessa rete. Vorrei capire perché a volte mi danno il microfono. Forse perché mi presento bene? Perché parlo inglese con l’accento americano? Forse. Difendo cause pubbliche da anni, e a volte ho paura che non sia per il mio cervello ma per riempire una casella. Quando avevo undici anni ho partecipato a un documentario e sono stato invitato al parlamento europeo e al congresso degli Stati Uniti. Mi ricordo che andai in un negozio a Gerusalemme a comprare degli occhiali finti per avere l’aria intelligente. Sedevo sul podio al parlamento europeo e al congresso e non sapevo di cosa diavolo stessi parlando. Pensavo: “Wow, credono che sono tanto maturo e saggio”. Anni dopo, mi sono reso conto che non era vero. All’apice dell’intifada dell’unità del 2021 sono stato contattato dagli uffici di vari senatori e deputati statunitensi, tra cui Chuck Schumer, che mi chiedevano – cito testualmente – se potevo “procurargli un bambino palestinese che racconti il suo sogno di cosa significa la pace”. Per tradurre la richiesta: l’unico palestinese abbastanza innocuo per sedere al loro tavolo era un bambino. Il pubblico occidentale, come i suoi politici, non vuole avere a che fare con i palestinesi adulti, che con le loro critiche affilate potrebbero offenderli. E così carichiamo sui nostri bambini la responsabilità di dare occhi umani all’umanità. Inviamo delegazioni di bambini palestinesi al congresso degli Stati Uniti. Gli facciamo imparare a memoria presentazioni in PowerPoint sulla pace e la coesistenza, gli diciamo di mostrare immagini del loro sangue e dei loro arti amputati nella speranza che questo faccia cambiare idea agli statunitensi, che subiscono una forte propagan-

ALE&ALE

da quando non sono loro stessi grandi propagandisti. Ancora una volta, lo so per esperienza diretta, per­ ché l’ho fatto anch’io quando ero piccolo. Ma nem­ meno io, evidentemente, sono una persona facile da digerire. Guardatevi intorno, ci saranno settemila poliziotti nei paraggi. Ci sono stati molti articoli, di­ chiarazioni e volantini di protesta contro questo di­ scorso prima ancora che cominciasse. Sono pericolo­ so, a quanto pare. Quindi, se a me non sempre danno il microfono, a chi lo danno? Sicuramente alla persona che stiamo omaggiando oggi, Edward Said, uno dei più illustri intellettuali pubblici del nostro tempo. Ebbene, per­ fino a Edward Said – a una persona della sua statura e della sua fama – a un certo punto il microfono è stato negato. Nel 2000 Said andò in Libano. Tirò, per usare le sue parole, “un ciottolo” in direzione di un posto di guardia israeliano alla frontiera. Scoppiò il finimon­ do. Edward Said non era più umano. Non parlava più la loro lingua. Il titolo di un articolo sul Columbia Daily Spectator diceva: “Edward Said accusato di lanciare pietre nel sud del Libano”. La Società freu­ diana di Vienna cancellò un suo intervento. Il Wash­ ington Post pubblicò un articolo che si apriva dicendo che Said era “un po’ troppo corpulento, un po’ troppo distinto per tirare sassi ai soldati israeliani… È possi­ bile che Edward Said… si sia unito alle file dei lancia­ tori di pietre palestinesi?”. Era già un articolo di forte condanna, ma per qualcuno non lo era abbastanza. Due autori risposero sul Daily Spectator: “Quell’inci­ pit ci disturba, perché sembra sottintendere che l’atto di lanciare pietre a una frontiera internazionale verso civili e militari sconosciuti di un paese confinante sa­

rebbe accettabile o almeno comprensibile se com­ messo da una persona qualunque più giovane, meno corpulenta o distinta”. Definivano il gesto “un atto gratuito di ordinaria violenza”. Quindi, se perfino uno come Edward Said non sempre può ricevere il microfono, quali palestinesi hanno il diritto di parlare? Gli israeliani! Ogni tanto un politico israeliano se ne esce dicendo: “Vi daremo un’altra nakba, vi daremo un genocidio. Vi mandere­ mo armi e bagagli in Giordania”. Oppure un soldato israeliano, che di notte non riesce a dormire perché si ricorda dei bambini che ha ucciso, fa un giro di confe­ renze negli Stati Uniti. O qualcuno cita Theodor Herzl, uno dei pionieri del sionismo, che nel 1895 scrisse: “Dobbiamo espropriare con gentilezza la proprietà privata sulle terre a noi assegnate. Provere­ mo a sospingere la squattrinata popolazione palesti­ nese oltre le frontiere. Sia il processo di espropriazio­ ne sia il trasferimento dei poveri andranno messi in atto discretamente e con circospezione”. Scrisse an­ che: “Gli antisemiti diventeranno i nostri amici più fidati, i paesi antisemiti i nostri alleati”. Il mio esempio preferito è quello di Ze’ev Jabotin­ sky, uno dei fondatori dell’Irgun, il gruppo paramili­ tare sionista responsabile dell’attentato all’hotel King David di Gerusalemme nel 1946 e del massa­ cro di Deir Yassin nell’aprile del 1948. Jabotinsky ha scritto che non c’è “un solo esempio di colonizzazio­ ne che sia stato portato avanti con il consenso della popolazione nativa. Le popolazioni native hanno sempre resistito testardamente ai coloni, che fosse­ ro civilizzate o selvagge”. Noi – palestinesi, attivisti e giornalisti animati da Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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Pop NORA BOSSONG

è una poeta e scrittrice tedesca nata nel 1982. Ha conseguito un dottorato all’università Sapienza di Roma con una tesi su David Lynch. Nel 2020 ha ricevuto il premio Thomas Mann per la sua opera narrativa. Questa poesia è tratta dalla raccolta Kreuzzug mit Hund (“Crociata con cane”, Suhrkamp 2019). Traduzione dal tedesco di Dario Borso.

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buone intenzioni – siamo ossessionati da tutto ciò. Non vediamo l’ora di citare queste persone. I miei nonni hanno raccontato in modo viscerale i massacri atroci su cui è stato costruito lo stato sionista, ma le loro testimonianze non bastano. Servono le confessioni di un ex soldato o la tardiva, miracolosa epifania delle organizzazioni per i diritti umani perché il mondo ascolti. Per decenni i palestinesi hanno parlato di apartheid – ora neanche lo facciamo più – ma ci sono voluti decenni perché Human rights watch, Amnesty international e B’Tselem finalmente lo confermassero. Quando ero piccolo, operatori e ricercatori dei diritti umani erano sempre ospiti in casa nostra. Gli mostravo le foto di mia nonna picchiata dai coloni per perorare la causa mentre loro, ogni venerdì, mangiavano maqluba al nostro tavolo. Io proponevo la mia analisi – “Secondo me sta succedendo questo” – ma loro non se ne facevano niente, quasi a dire: “Voglio le foto dei tuoi lividi, un campione del tuo sangue e annuncerò più tardi cosa sta succedendo”. Di tanto in tanto i politici israeliani si fanno prendere la mano, vantandosi di uccidere gli arabi o promettendo ai palestinesi un’altra nakba. A volte un giornale sionista titola che “Israele è una colonia” e noi citiamo le loro parole all’infinito. Ma perché le loro parole hanno tanto peso? Perché concediamo l’autorità della narrazione a quelli che ci hanno ucciso e cacciato, quando la loro mancanza totale di senso di colpa fa sì che l’onestà non sarà mai garantita? Perché aspettiamo che a parlare siano quelli con i manganelli quando i nostri corpi pieni di lividi raccontano tutta la verità? Io so che sono un nativo di Gerusalemme, non perché l’ha detto Jabotinsky, ma perché lo sono. So che i sionisti hanno colonizzato la Palestina, senza bisogno di citare Herzl. Lo so perché lo vivo, perché le rovine di innumerevoli villaggi spopolati forniscono la prova materiale di una pulizia etnica calcolata. Quando noi palestinesi parliamo di questa pulizia etnica continua e ignorata – che è insita nell’ideologia sionista – nel migliore dei casi ci appassioniamo, nel peggiore ci arrabbiamo e siamo pieni d’odio. Ma, in realtà, siamo solo narratori affidabili. Dico che siamo narratori affidabili non perché siamo palestinesi. Non è su una base identitaria che ci deve essere data, o dobbiamo prenderci, l’autorità di parlare. La storia ci dice che quelli che hanno oppresso, che hanno monopolizzato e istituzionalizzato la violenza, non diranno la verità, e tanto meno riterranno di dover rispondere delle loro azioni. Gli ultimi anni sono stati interessanti per i palestinesi. Ci siamo seduti al tavolo, e a volte siamo perfino riusciti a guidare in qualche modo la conversazione. Abbiamo l’opportunità di cambiare la retorica, di cambiare il dibattito, di imprimere una svolta radicale al modo in cui l’opinione pubblica guarda alla Palestina e ai palestinesi. Sta a noi operatori culturali, produttori di conoscenza, accademici, giornalisti, attivisti, commentatori sui social network essere coraggiosi. Non è il momento di nasconderci

Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

Poesia

Politica vecchia zia Residenza sontuosa, ma nella sala attigua: Galleria Nazionale, secondo piano a sinistra. Là è bloccata in un’immagine di se stessa, non esce, non si fa avanti, non torna indietro, un ritratto che cerca di muoversi, olio senza fuoco. Il suo cibo tè e biscotti intinti a lungo, la luce dei custodi i quali vigilano che nessuno la rubi. Il suo tempo si estende enormemente, questo animale grigio dalla groppa elastica, e un graffiare in cortile la tiene sveglia, è vecchia, è infinitamente stanca, sogna il ritiro, vorrebbe inabissarsi nei colori. Ma resta appesa lì: sala dodici, seconda da destra. Questa è la sua ribellione da regolamento. Nora Bossong

dietro un dito o alle qualifiche. E per quelli che, come me, fanno i giornalisti, non si tratta nemmeno di essere coraggiosi. Si tratta di fare il nostro lavoro. Se il nostro lavoro è riportare la verità, dobbiamo riportare la verità. Voglio dire un’altra cosa. Quando salgo sul palco, di solito scherzo molto. Scherzo di proposito, prima di tutto perché voglio credere di essere divertente. Ma c’è un altro motivo: da ogni palestinese che agisce in pubblico, specialmente da chi ha subìto la violenza israeliana, ci si aspetta che si comporti in un certo modo. Deve essere triste, con la testa china, piagnucoloso, debole e chiedere pietà. Deve esprimere con educazione la sua sofferenza. E questa è una cosa che io rifiuto totalmente. Io rifiuto la politica della vittima attraente. Non voglio compiacere nessuno. Posso sperimentare sulla mia pelle la farsa e la tragedia, subire una perdita profonda e comunque scherzarci sopra. Questo è lo spettro completo dell’umanità palestinese o dell’umanità in generale. Siamo umani non solo perché piangiamo quando perdiamo le nostre madri o quando perdiamo le nostre case o perché abbiamo animali domestici e hobby. Siamo umani perché proviamo rabbia e proviamo sdegno: perché resistiamo. E io sono sinceramente grato del mio sdegno, perché mi ricorda che sono umano. Sono grato per la mia rabbia, perché mi ricorda la mia capacità di reagire naturalmente all’ingiustizia. Sono grato per l’opportunità di essere irriverente, di dileggiare e di mettere in ridicolo il mio impenetrabile, indelebile occupante. Perciò, mentre lasciate la sala, vi invito tutti a interrogarvi sui vostri pregiudizi, a chiedervi cosa vi spinge a voler qualificare l’umanità di un palestinese. E vi invito, ancora una volta, a essere coraggiosi. Grazie. u fas

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Scienza Cosa si nasconde negli assorbenti

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ANGELO MONNE

Scienza

RICERCA

Cosa scopriremo nel 2024 Miryam Naddaf, Nature, Stati Uniti Dalle missioni lunari alla massa dei neutrini, ecco gli appuntamenti e i progetti scientifici più importanti dell’anno che è appena cominciato Progressi dell’intelligenza artificiale Nel 2023 il chatbot ChatGpt ha avuto un forte impatto sulla scienza. E quest’anno OpenAI, l’azienda che lo ha sviluppato, dovrebbe lanciare Gpt-5, la nuova versione del suo modello di intelligenza artificiale, che avrà potenzialità più avanzate rispetto al suo predecessore Gpt-4. Gli scienziati stanno anche monitorando l’uscita di Gemini, il concorrente sviluppato

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Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

da Google DeepMind. Questo modello linguistico di grandi dimensioni (Llm) è capace di elaborare vari tipi di input fra cui testi, codici informatici, immagini, audio e video. Nel 2024 uscirà anche la nuova versione di AlphaFold, lo strumento di Google DeepMind che i ricercatori hanno usato per prevedere con grande accuratezza la struttura tridimensionale delle proteine. L’intelligenza artificiale sarà in grado di creare modelli delle interazioni tra proteine, acidi nucleici e altre molecole con precisione atomica, offrendo nuove opportunità nel campo dello sviluppo dei farmaci. Sul fronte normativo dovranno essere affrontate questioni importanti. A metà del 2024 l’organo consultivo sull’intelli-

genza artificiale istituito dalle Nazioni Unite pubblicherà il suo rapporto finale, che detterà le linee guida per regolamentare l’ia a livello internazionale. Occhi al cielo L’Osservatorio cileno Vera C. Rubin dovrebbe mettere in funzione alcuni dei suoi strumenti verso la fine del 2024, prima di cominciare uno studio di dieci anni del cielo dell’intero emisfero australe. Con il telescopio di 8,4 metri di diametro e la gigantesca fotocamera da 3200 megapixel gli scienziati sperano di scoprire nuovi fenomeni e asteroidi vicini alla Terra. Sempre in Cile, a metà del 2024 sarà completato l’osservatorio Simons, nel deserto di Atacama. Questo strumento di nuova generazione cercherà le tracce

delle onde gravitazionali primordiali – il riverbero del big bang – nella radiazione cosmica di fondo. I suoi telescopi avranno ben 50mila rilevatori di luce, dieci volte di più di altri progetti simili in corso. Gli astronomi, però, temono che i dati raccolti dal nuovo osservatorio rischino di essere inutilizzabili a causa dell’aumento delle costellazioni satellitari, che con la loro luce inquinano il cielo notturno. Zanzare antivirus Nel 2024, in una fabbrica brasiliana, il World mosquito program comincerà a produrre zanzare in grado di contrastare le malattie. Gli insetti sono infettati con un ceppo batterico che gli impedirà di trasmettere virus patogeni, e potrebbero proteggere fino a settanta milioni di persone da malattie come la dengue e la febbre zika. Nei prossimi dieci anni l’organizzazione non profit conta di rilasciarne fino a cinque miliardi all’anno. Oltre la pandemia Mentre il mondo esce dalla fase d’emergenza della pandemia di covid-19, il governo statunitense sta finanziando la sperimentazione di tre vaccini di nuova generazione. Due di essi si somministrano per via nasale e dovrebbero prevenire il contagio generando immunità nei tessuti delle vie aeree. Il terzo, un vaccino a mRna, potenzia gli anticorpi e la reazione dei linfociti T, promettendo un’immunità duratura contro un ampio spettro di varianti del virus sars-cov-2. A maggio, nel corso della sua 77a assemblea, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dovrebbe pubblicare la bozza finale del trattato sulle pandemie, che punta a dotare i governi di strumenti migliori per prevedere e gestire emergenze future. I 194 stati dell’Oms ne decideranno i termini, tra cui la possibilità che tutte o alcune clausole siano legalmente vincolanti. Al centro dei negoziati c’è la garanzia di un accesso equo agli strumenti necessari per prevenire le pandemie, compresi vaccini, dati e competenze. Missioni sulla Luna Per la prima volta dagli anni settanta la Nasa lancerà una missione lunare con equipaggio umano. Artemis II, che potrebbe partire a novembre, porterà nella navicella Orion quattro astronauti – tre uomini e una donna – per un sorvolo di dieci giorni intorno alla Luna. La missione servirà a preparare Arte-

mis III, che porterà ad allunare la prima donna e un uomo. Anche la Cina si sta preparando a lanciare la sua missione Chang’e-6 nel 2024. In caso di esito positivo, la missione sarà la prima a raccogliere campioni dalla faccia nascosta della Luna. Tra le missioni per esplorare le lune del Sistema solare esterno c’è anche Clipper della Nasa, che a ottobre partirà alla volta di Europa, la luna di Giove, con l’obiettivo di stabilire se il suo oceano ospiti la vita. La missione giapponese Martian moons eXploration, sempre prevista per il 2024, si occuperà invece delle lune di Marte, Fobos e Deimos, e atterrerà sulla prima per raccogliere campioni di superficie da riportare sulla Terra nel 2029. Illuminare la materia oscura Nel 2024 arriveranno i risultati dell’esperimento per individuare le minuscole particelle di materia oscura note come assioni, ipoteticamente emessi dal Sole e convertiti in luce, ma finora mai osservati empiricamente perché richiedono rilevatori sensi-

A maggio l’Oms dovrebbe pubblicare la bozza del trattato sulle pandemie bili e un fortissimo campo magnetico. L’esperimento BabyIaxo dell’elettrosincrotrone di Amburgo, in Germania, sta usando un telescopio solare realizzato con un magnete di dieci metri e rilevatori di raggi X ultrasensibili, e privi di rumore, per monitorare il centro del Sole dodici ore al giorno e intercettare la conversione degli assioni in fotoni. E il 2024 potrebbe essere l’anno in cui gli scienziati stabiliranno la massa del neutrino, la particella più misteriosa del modello standard della fisica. Nel 2022 i risultati dell’esperimento Karlsruhe tritium neutrino hanno dimostrato che i neutrini hanno una massa massima di 0,8 elettronvolt. Nei prossimi mesi i ricercatori concluderanno la raccolta dei dati ed effettueranno la misurazione definitiva delle minuscole particelle. Dibattito sulla coscienza, secondo round Il 2024 potrebbe fornire anche nuove intuizioni sulle basi neurali della

coscienza. Un grosso progetto che sta testando due teorie tramite una serie di esperimenti opposti dovrebbe pubblicare i risultati del secondo esperimento entro la fine del 2024. Nel primo round nessuna delle due teorie si è allineata del tutto ai dati osservati empiricamente, facendo vincere alla filosofia una scommessa di 25 anni fa. Il secondo round potrebbe invece aiutare le neuroscienze a decifrare i misteri dell’esperienza soggettiva. Salvare il pianeta Nella seconda metà del 2024 la Corte internazionale di giustizia dell’Aja potrebbe pronunciarsi sugli obblighi giuridici degli stati a combattere il cambiamento climatico e sulle conseguenze legali per quelli che danneggiano il clima. La sentenza non sarà legalmente vincolante, ma l’influenza della corte può incoraggiare gli stati a rafforzare i rispettivi obiettivi climatici e il suo giudizio potrà essere citato nei processi locali. Anche i negoziati per il trattato sulla plastica delle Nazioni Unite, che puntano a concludere un accordo vincolante per eliminare l’inquinamento da materie plastiche, si concluderanno quest’anno. Dagli anni cinquanta il mondo ha prodotto dieci miliardi di tonnellate di plastica, di cui oltre sette sono diventate rifiuti che inquinano gli oceani e danneggiano la fauna e la flora. Alcuni scienziati, però, ritengono che i negoziati avviati nel 2022 procedano troppo lentamente e che non riusciranno a raggiungere gli obiettivi desiderati. Supercomputer superveloci All’inizio del 2024 i ricercatori metteranno in funzione Jupiter, il primo supercomputer a esascala (cioè capace di eseguire più di un miliardo di miliardi di operazioni al secondo) in Europa. La gigantesca macchina sarà usata per creare modelli digitali del cuore e del cervello umani a scopi medici, e per eseguire simulazioni ad alta risoluzione del clima terrestre. Nel 2024 i ricercatori degli Stati Uniti installeranno due macchine a esascala: Aurora all’Argonne national laboratory di Lemont, nell’Illinois, ed El Capitan al Lawrence Livermore national laboratory in California. La prima servirà a creare mappe delle reti neurali del cervello, la seconda a simulare gli effetti delle esplosioni nucleari. u sdf Internazionale 1544 | 5 gennaio 2024

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SCOPRI IL MONDO CON I GIORNALISTI DEL CORRIERE

DAL 23 AL 28 MARZO

NORVEGIA E LOFOTEN LA NORVEGIA DELLE FIABE NORDICHE ALLA RICERCA DELL’AURORA BOREALE Un tour di sei giorni per immergersi nel paesaggio incantato delle isole Lofoten a caccia delle incredibili luci dell’aurora boreale. Le Lofoten sono anche un viaggio dentro l’avventura che le ha viste crocevia di storia, commerci, fiabe e vite sorprendenti. Tra le tappe anche un incontro con una famiglia SAMI, i villaggi di Å, Rein e Henningsvær, oltre alla magnifica Oslo. Con Edoardo Vigna, al Corriere della Sera da 27 anni, è caporedattore responsabile di Pianeta 2030, l’area del giornale dedicata a sostenibilità e ambiente. Su 7 è titolare della rubrica di politica internazionale Leadership. I suoi libri più recenti sono «Europa. La meglio gioventù» (Neri Pozza) e «Vendetta pubblica. Il carcere in Italia» (Laterza) scritto con il magistrato Marcello Bortolato. Appassionato anche di storia, musica e arte, ama occuparsi di molti argomenti diversi.

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Scienza AMBIENTE

Un’alternativa ai test animali

I fiumi arrugginiti

All’università di Edimburgo, in Scozia, è stato sviluppato un dispositivo che permette di studiare la distribuzione e l’assorbimento del farmaco nei diversi “organi”, spiega il Guardian. È formato da cinque celle collegate da canali: le celle simulano il cuore, i polmoni, i reni, il fegato e il cervello, e i canali riproducono il sistema circolatorio. Iniettando piccole dosi di farmaco, la tomografia a scansione di positroni (Pet) rivela le reazioni negli organi e consente di valutare l’assorbimento e la distribuzione del farmaco. Questo strumento potrebbe sostituire i test sugli animali, riducendo i costi e i problemi etici e accelerando i tempi della sperimentazione preclinica. Attualmente solo il 2 per cento dei farmaci testati su animali raggiunge la fase di sperimentazione umana. Il dispositivo potrebbe essere usato anche per studiare le malattie con modelli più rappresentativi della biologia umana rispetto a quelli animali.

Scientific American, Stati Uniti I fiumi dell’Alaska sono diventati arancioni. Il giornalista Alec Luhn ha accompagnato una spedizione scientifica che ha indagato sul fenomeno in una delle zone più remote degli Stati Uniti, i monti Brooks, nel nordovest dell’Alaska. I corsi d’acqua della regione sembrano essersi “arrugginiti”, scrive Luhn, e somigliano più a scarichi industriali che a torrenti di montagna. Le analisi chimiche hanno riscontrato grandi quantità di ferro. L’acqua ha un livello di acidità paragonabile a quello dell’aceto, tanto che la vegetazione sulle sponde sembra bruciata. Queste condizioni sono insostenibili per molti organismi acquatici, e le conseguenze si propagano nell’ecosistema fino a raggiungere gli orsi grizzly. Si pensa che il fenomeno sia dovuto allo scioglimento del permafrost (il terreno permanentemente gelato) dovuto al cambiamento climatico. Secondo alcuni ricercatori le rocce esposte all’acqua per la prima volta dopo millenni potrebbero rilasciare ferro. Oppure l’effetto potrebbe essere dovuto all’azione dei batteri nel suolo. Intanto la popolazione locale teme di rimanere senz’acqua potabile e di non poter più pescare. ◆

IN BREVE

MOLLY DARLINGTON (REUTERS/CONTRASTO)

BIOLOGIA

Il canto delle cellule Le cellule vibrano come un diapason, emettendo onde sonore. Una ricerca spagnola che sarà pubblicata su Prx Life ha misurato quelle generate da una cellula mammaria umana usando una piccola asta di oro e silicio che vibrava in risposta al movimento della cellula. Con equazioni matematiche sono state stimate frequenze comprese tra 150 e 180 chilohertz, non percepibili dall’orecchio umano, e tra 10 e 30 chilohertz, dove il suono udibile si trasforma in ultrasuoni. Le frequenze di risonanza potrebbero essere usate per la diagnosi di malattie e per la distruzione selettiva di cellule.

PAUL YEUNG (REUTERS/CONTRASTO)

MEDICINA

BIOLOGIA

Occhi da cucciolo Gli occhi dei cani (nella foto un husky con occhi di colore diverso) tendono a essere più scuri di quelli dei lupi. Secondo uno studio pubblicato su Royal Society Open Science è un effetto del processo di domesticazione. Gli occhi scuri sono infatti percepiti dagli umani come meno minacciosi e più amichevoli. Inoltre sono associati ai cuccioli e potrebbero sollecitare un atteggiamento di cura. Sarebbe stata quindi la selezione degli allevatori a favorire la colorazione scura.

Biologia È stata studiata la biochimica della produzione del formaggio cheddar stagionato (nella foto). Il suo sapore dipende dall’interazione tra i microorganismi che contiene e dalle molecole prodotte dai batteri. Secondo Nature Communications la selezione dei ceppi di batteri e il loro bilanciamento durante le fasi di produzione e maturazione sono determinanti per ottenere le caratteristiche tipiche del cheddar. Salute Sono stati individuati quindici fattori che influenzano lo sviluppo della demenza prima dei 65 anni di età. Alcuni sono legati allo stile di vita, come l’abuso di bevande alcoliche, altri sono genetici, sociodemografici o ambientali. Lo studio, pubblicato su Jama Neurology, si è basato sui dati di più di 350mila persone. I risultati potrebbero essere usati per migliorare le misure di prevenzione.

ASTRONOMIA

Nuovi indizi per la vita È stato proposto un nuovo metodo per trovare tracce di vita sui pianeti simili alla Terra. Invece dei segni della presenza di oceani e ossigeno, gli astronomi potrebbero cercare bassi livelli di anidride carbonica nell’atmosfera. Secondo Nature Astronomy queste condizioni presuppongono la presenza di acqua liquida, tettonica a placche o biomasse. Questa ricerca sarebbe più facile da eseguire con gli strumenti attualmente disponibili, come il telescopio spaziale James Webb

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GERHARD HELLE (GFZ)

Il diario della Terra Il nostro clima

Vicini al picco

Umidità Negli ultimi decenni in Europa l’aria è diventata sempre più secca. Un evento simile non era mai stato registrato negli ultimi quattro secoli. Una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Geoscience mostra che il calo dell’umidità è stato maggiore in alcune aree, come la parte occidentale e centrale del continente, le Alpi e i Pirenei, e minore in altre. Secondo gli autori il fenomeno è attribuibile alle attività umane con una probabilità del 98 per cento. L’aria secca può incidere negativamente sull’agricoltura, sul rischio di incendio, sulla salute umana, sulla vegetazione e su molti altri aspetti. Lo studio si è basato principalmente sull’analisi degli anelli degli alberi, dalle querce (nella foto) alle betulle e agli abeti.

Radar

Ancora tempeste in Australia

Vulcani Più di duemila persone sono state costrette a lasciare le loro abitazioni sull’isola di Flores, in Indonesia, a causa dell’eruzione del vulca-

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Alluvioni Un fiume in piena a causa delle piogge torrenziali ha travolto diverse abitazioni a Kananga, nel centro della Repubblica Democratica del Congo, uccidendo 22 persone. ◆ Almeno sei persone sono morte a causa delle alluvioni nel sud della Thailandia. Tempeste Una violenta tempesta ha colpito la costa orientale dell’Australia, uccidendo almeno nove persone. ◆ La tempesta Gerrit ha investito il Regno Unito e l’Irlanda con venti fino a 170 chi-

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lometri orari, provocando la morte di tre persone. Animali Almeno 110 elefanti (nella foto) sono morti tra settembre e dicembre a causa della siccità nel parco nazionale Hwange, nello Zimbabwe.

Valanghe Due persone sono state uccise da una valanga sul versante francese del Monte Bianco. NEWSLETTER Pianeta è la newsletter settimanale di Gabriele Crescente con le ultime notizie sulla crisi climatica e sull’ambiente. Per riceverla: internazionale.it/newsletter

NYASHA CHINGONO (REUTERS/CONTRASTO)

Terremoti Un sisma di magnitudo 7,6 ha colpito la penisola di Noto, sulla costa occidentale del Giappone, uccidendo almeno 73 persone. È il terremoto più forte ad aver colpito il paese dal 2011. Altre scosse sono state registrate nella provincia indonesiana di Papua e nel Gansu, in Cina.

no Lewotobi Laki-Laki. ◆ Le autorità islandesi hanno avvertito del rischio di una nuova eruzione del vulcano Sundhnúkur, a sudovest di Reykjavik, dopo quella che si è conclusa il 21 dicembre.

◆ Nel 2023 le emissioni di gas serra nell’atmosfera sono aumentate di più dell’1 per cento rispetto all’anno precedente, scrive New Scientist. Non è una novità: è quello che succede dall’inizio della rivoluzione industriale. Le emissioni dovute all’uso dei combustibili fossili sono responsabili del riscaldamento del pianeta. Ma nel 2024 potrebbero cominciare a diminuire, scrive la rivista britannica. La svolta è favorita dall’espansione delle energie rinnovabili e dal passaggio alle auto elettriche. Secondo un’analisi dell’istituto di ricerca Climate Analytics, c’è il 70 per cento di possibilità che le emissioni comincino a calare nel 2024. Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, per raggiungere l’obiettivo di limitare il riscaldamento a meno di 1,5 gradi rispetto al periodo preindustriale il picco delle emissioni dev’essere raggiunto entro il 2025. La crescita esponenziale dell’eolico e del solare, in particolare, può accelerare l’abbandono dei combustibili fossili, portando al picco del carbone nel 2023 e a quello del gas nel 2024, scrive Climate Analytics. La diffusione dei veicoli elettrici potrebbe portare al picco del petrolio nel 2025. Altri fattori che potrebbero fermare l’aumento delle emissioni sono l’attuazione degli impegni globali sul metano, la diffusione delle pompe di calore e i miglioramenti nel risparmio energetico. Ma raggiungere il picco non è sufficiente per centrare l’obiettivo degli 1,5 gradi: negli anni successivi le emissioni dovranno calare rapidamente.

Il pianeta visto dallo spazio 18.08.2023

L’isola della Palma, nelle Canarie

Nord

Caldera de Taburiente

Cumbre Vieja

Frattura dell’eruzione

Colata lavica

Los Llanos de Aridane

EARTHOBSERVATORY/NASA

Strada

Oceano Atlantico

◆ La Palma è l’isola geologicamente più attiva delle Canarie, un arcipelago creato milioni di anni fa da un affioramento magmatico nell’oceano Atlantico a poca distanza dalla costa africana. È formata da due vulcani a scudo, la Caldera de Taburiente, parzialmente crollata, e il più recente Cumbre Vieja. Dal 19 settembre al 13 dicembre 2021 un’eruzione che si è sprigionata da una frattura sul fianco sudoccidentale del Cumbre Vieja ha prodotto diverse colate di lava che han-

no raggiunto la costa, distante cinque chilometri, coprendo dodici chilometri quadrati di territorio e creando due delta lavici. La lava ha distrutto tremila edifici e più di trecento ettari di piantagioni di banane, cancellando l’intero centro abitato di Todoque e causando danni per un miliardo di euro. Un uomo è morto intossicato dai gas vulcanici e settemila persone hanno dovuto lasciare le loro case. Da allora alcune delle strade distrutte sono state rico-

Puerto Naos

Nella zona colpita dall’eruzione del vulcano Cumbre Vieja la ricostruzione è cominciata, ma migliaia di persone vivono ancora in abitazioni provvisorie



struite nel malpaís, lo strato di lava solidificata lasciato dall’eruzione, ristabilendo i collegamenti tra le località di Los Llanos de Aridane e Puerto Naos. Una parte degli sfollati è stata autorizzata a tornare a casa, ma migliaia di persone vivono ancora in abitazioni provvisorie. Recentemente alcuni residenti della zona di esclusione decretata dalle autorità hanno deciso di rientrare nelle loro abitazioni, nonostante la minaccia dei gas tossici.–Nasa

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Economia e lavoro

DAN KITWOOD (GETTY)

Londra, Regno Unito, 22 settembre 2023

ti senza fine è facile pubblicare articoli apparentemente plausibili che riescono a farsi strada tra gli utenti dei social network interessati all’argomento e pronti a condividere con entusiasmo le loro scoperte. “Non abbiamo osservato direttamente questa tendenza, ma vediamo come l’uso della disinformazione sia sfruttato per imporre resoconti ostili e ottenere un vantaggio sui mercati”, ha spiegato Simon Bergman, amministratore delegato della società di marketing Saatchi World Service. “Questo è vero in particolare per le organizzazioni finanziate da uno stato o che agiscono al di fuori del normale sistema di regole”.

Vantaggio iniziale AZIENDE

Quando le notizie false fanno crollare le azioni Elisabeth Braw, Foreign Policy, Stati Uniti Nel 2023 sono aumentate le campagne di disinformazione contro le grandi aziende. Organizzate non solo da concorrenti sleali, ma anche da paesi ostili iamo abituati a pensare che la disinformazione russa possa prendere di mira, per esempio, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj o le elezioni negli Stati Uniti. Sempre più spesso però campagne diffamatorie di dubbia provenienza colpiscono anche le grandi aziende occidentali. Non c’è da stupirsene, visto che si tratta di obiettivi potenzialmente più redditizi. La società di comunicazione Kekst ha rivelato che, nella prima metà del 2023, tra le cento principali aziende quotate alla borsa di Londra (quelle seguite dall’indice Ftse-100) 95 sono state spesso citate da mezzi d’informazione inaffidabili. Si tratta di un aumento del 35 per cento rispetto al 2022. Gli articoli pubblicati da questi mezzi d’informazione sono stati

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condivisi 348mila volte sui social network, generando dieci milioni di visualizzazioni. Alcuni potrebbero essere stati suggeriti da concorrenti sleali, altri sono frutto di un giornalismo di scarsa qualità, mentre non è ancora chiaro se ci sia anche la mano di paesi ostili. Oggi la disinformazione si estende ben oltre i semplici bot sul social network X. Secondo la Kekst più di cento mezzi d’informazione inaffidabili (tra cui una rivista spiritualista, alcune testate note per la diffusione di propaganda russa e riviste di estrema destra statunitensi e indiane) parlano regolarmente delle aziende dell’Ftse-100. Cosa s’intende con “inaffidabile”? La Kekst definisce così i mezzi d’informazione che pubblicano regolarmente contenuti falsi, non raccolgono né presentano le informazioni in modo responsabile, non correggono né chiariscono gli errori, mescolano notizie e opinioni, usano titoli ingannevoli, non rendono note informazioni sulla proprietà e i finanziamenti, non indicano i contenuti pubblicitari e non rivelano il nome dei loro giornalisti. In un’epoca di credulità e di quantità di contenu-

Il lasso di tempo tra la pubblicazione di inesattezze e il momento in cui l’azienda interessata se ne accorge è cruciale. E visto che le fonti più sospette non sono rilevate dal monitoraggio dei mezzi d’informazione tradizionali è difficile che un’azienda sia in grado di individuare subito le notizie false. Questo offre a chi diffonde disinformazione un importante vantaggio iniziale: quando un’azienda scopre il problema, è probabile che lo facciano anche i mercati; e poiché gli operatori di borsa reagiscono rapidamente, la società presa di mira può veder crollare le sue azioni. “Molte capiscono di essere state colpite solo quando è troppo tardi”, dice Bergman. “Un atteggiamento intelligente nella comunicazione aziendale può servire fino a un certo punto. Molto dipende da cosa si sta cercando di proteggere: il prezzo delle azioni, la reputazione, la percezione in una fetta importante di opinione pubblica”. Certo, la disinformazione commerciale non è un fenomeno nuovo. Qualche anno fa un falso appunto del dipartimento della difesa statunitense sembrava indicare che il piano di un’importante azienda produttrice di semiconduttori di acquisire una concorrente facesse temere per la sicurezza nazionale. Le azioni di entrambe le aziende crollarono. Manovre simili erano di solito opera di un concorrente. In un rapporto del 2021 la società di consulenza Pwc aveva spiegato quanto fosse facile ed economico realizzare una campagna di questo tipo: tra i 15 e i 45 dollari per creare un articolo da mille battute; 65 dollari per contattare diret-

ANGOLA

Fuori dall’Opec

Il governo turco ha aumentato il salario minimo del 49 per cento, scrive Bloomberg. L’obiettivo è rendere più sopportabile il costo della vita prima delle elezioni, “in un paese dove l’inflazione è intorno al 70 per cento”. Il ministro del lavoro Vedat Işıkhan ha fatto sapere che il salario minimo mensile, a cui è legato più di un terzo della forza lavoro turca, è stato portato a 17.002 lire (518 euro). Gli esperti, però, sostengono che l’aumento potrebbe rallentare l’azione della banca centrale contro l’inflazione.

Ankara, Turchia

RODGER BOSCH (AFP/GETTY)

TURCHIA

Più soldi in busta paga

BILAL SECKIN (GETTY)

tamente una fonte che diffondesse il materiale; cento dollari per avere dieci commenti da postare su un determinato articolo; tra i 350 e i 550 dollari al mese per attività di social media marketing; 1.500 dollari per servizi di ottimizzazione sui motori di ricerca in modo da promuovere i post sui social network e gli articoli per un periodo di dieci o quindici giorni. Considerando la straordinaria facilità di queste operazioni, era solo una questione di tempo prima che testate legate a qualche governo scoprissero che prendere di mira le aziende è un modo facile per danneggiare i paesi occidentali. “Per la Russia può essere un obiettivo comodo”, ha detto Janis Sarts, direttore dello Strategic communications centre of excellence della Nato a Riga, in Lettonia. “Naturalmente ne soffrono le aziende, ma non è quello l’obiettivo principale”. Non esistono ancora prove del fatto che dietro l’aumento delle campagne di disinformazione contro le aziende ci sia la Russia o un altro paese (anche se si sa che un governo ostile ha alimentato le false scoperte che collegano il 5g al covid-19, provocando timori tra gli abitanti dei paesi occidentali e rallentando la diffusione della tecnologia). Tuttavia la loro diffusione suggerisce che non si tratta più di un’attività legata solo a concorrenti invidiosi. Un crollo azionario dovuto alla disinformazione non dura molto, perché l’azienda colpita sarà in grado di avvertire rapidamente i mercati. Ma anche un crollo temporaneo è dannoso. E pensiamo alle conseguenze per la posizione finanziaria di un paese se dovessero essere colpite simultaneamente diverse grandi aziende. La borsa vacillerebbe e i mercati globali comincerebbero a mettere in dubbio la stabilità finanziaria del paese. Non è un suggerimento ai paesi ostili su come danneggiare le economie occidentali senza spendere troppi soldi: conoscono già la ricetta segreta. Le aziende occidentali dovrebbero capire che si trovano sulla linea del fronte. I loro uffici di comunicazione dovrebbero cominciare a leggere tutte le testate sconosciute in cui non sono riportati i nomi dei giornalisti e i dettagli sulla proprietà. O, come dice Bergman, dovrebbero “monitorare in modo intelligente il mondo dell’informazione, con buoni strumenti tecnologici e persone che sanno cosa e dove cercare”. u gim

L’Angola ha deciso di uscire dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), di cui faceva parte dal 2007. La notizia, scrive il Wall Street Journal, è stata comunicata dal ministro delle risorse naturali Diamantino Azevedo, e arriva dopo che al vertice del novembre 2023 il paese africano, insieme alla Nigeria, si era opposto fermamente ai nuovi tagli alla produzione di greggio voluti soprattutto dall’Arabia Saudita. Dal 1 gennaio al 31 marzo 2024 l’Opec produrrà complessivamente 2,2 milioni di barili al giorno in meno. All’Angola l’organizzazione chiedeva un taglio di ventimila barili al giorno. u

Micro Stefano Feltri

Ottimismo All’inizio dell’anno, oltre che iscriversi in palestra per smaltire gli eccessi, si fanno buoni propositi, per i quali serve fiducia nel futuro. Chi lamenta il declino dell’Europa nota che nel 2010 la dimensione dell’economia europea era comparabile a quella degli Stati Uniti, che invece oggi è più grande del 50 per cento. Un inarrestabile declino europeo? No, spiega il Centre for european reform. Nel 2010 i prezzi

sulle due sponde dell’Atlantico erano simili, mentre nel 2022 risultavano più alti del 47 per cento negli Stati Uniti. Quindi, se consideriamo il pil in parità di potere d’acquisto, cioè la quantità di beni e servizi prodotta invece del loro prezzo, l’economia europea è passata dal 97,1 per cento di quella statunitense nel 2010 al 95,6 per cento nel 2022. Una differenza minima. Ma negli Stati Uniti la popolazione è aumentata

più che in Europa. Quindi, se consideriamo il pil pro capite – cioè il pil diviso per il numero di abitanti – dal 2010 l’economia degli Stati Uniti è cresciuta del 18,7 per cento e quella dell’Unione europea del 16,3 per cento. Il dato europeo però è una media, tra paesi come la Polonia (+56,8 per cento) e l’Italia (+4,8). Come per i buoni propositi e l’iscrizione in palestra, quello che conta è sapere che non tutto è perduto. u

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Peanuts, 1960 Charles M. Schulz, Stati Uniti

Buni Ryan Pagelow, Stati Uniti

War and Peas E. Pich e J. Kunz, Germania

Strisce

Mafalda, 1964 Quino, Argentina

PEANUTS ©PEANUTS WORLDWIDE LLC. DIST. DA ANDREWS MCMEEL SYNDICATION. RIPRODUZIONE AUTORIZZATA. TUTTI I DIRITTI RISERVATI

© 2023, SUCESORES DE JOAQUÍN S. LAVADO (QUINO)

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L’oroscopo

Rob Brezsny “Sono contro l’educazione sessuale nelle scuole perché il sesso è più divertente quando è sconcio e peccaminoso”, ha scritto l’autrice del Capricorno Florence King. Non mi piace questa affermazione perversa e nel 2024 t’incoraggio a rinnegarla. A mio parere di astrologo, i prossimi mesi saranno favorevoli per imparare tutto quello che non conosci sul sesso e sull’eros. Spero che ti tufferai in profondità per raccogliere una ricca gamma di insegnamenti su come goderti l’arte di fare l’amore (prendi in considerazione la possibilità di consultare manuali tantrici come The art of sexual magic di Margo Anand).

ARIETE

Il piano che ti propongo in questo oroscopo è temporaneo. Non ti sto consigliando di seguirlo per tutto il 2024, ma solo per i prossimi 15-18 giorni. Se lo farai, otterrai meravigliosi successi nei prossimi mesi. Ecco la mia idea: sentiti libero di giocare e divertirti più che puoi. Solo per ora, metti da parte la tua ambizione. Non preoccuparti di migliorare te stesso o di ottenere risultati. Goditi semplicemente una fase di sospensione delle inibizioni in cui pasticciare in modo creativo senza dover dimostrare qualcosa e in cui essere motivato solo dalla ricerca della gioia.

ILLUSTRAZIONI DI FRANCESCA GHERMANDI

TORO

Il cambiamento climatico influirà anche sugli arcobaleni. Con l’aumento delle temperature e la siccità alcune parti del mondo, per esempio il Mediterraneo, avranno meno arcobaleni di altre, come il Canada e la Siberia. Ma prevedo che, indipendentemente da dove vivete, nel 2024 per voi Toro l’arcobaleno sarà un simbolo potente e regolare. Avrete più motivi per nutrire speranza e maggiore capacità di trovare la bellezza. A volte potrebbe esserci un colpo di fortuna alla fine dell’arcobaleno. Se sei un Toro lgbt+ sarai più capace che mai di ricevere l’apprezzamento che meriti. GEMELLI

Come ispirazione per il 2024 ti propongo questa storia raccontata dal cantautore Tom Waits: “C’erano una volta un albero storto e un albero dritto. Erano cresciuti uno accanto all’altro. Ogni giorno, l’albero dritto

guardava l’altro e diceva: ‘Sei storto. Sei sempre stato storto e continuerai a esserlo. Invece guarda me! Sono alto e dritto’. Poi, un giorno, arrivarono i boscaioli e si guardarono intorno. Il loro capo disse: ‘Tagliate tutti gli alberi dritti’. E quell’albero storto oggi è ancora lì, cresce sempre più forte e diventa sempre più singolare”. P.s. Lo scrittore dei Gemelli Ralph Waldo Emerson disse: “Non pentirti di quello che fai e congratulati con te stesso se hai fatto qualcosa di bizzarro e stravagante”. CANCRO

L’artista giapponese Hokusai (1760-1849) era affascinato dall’iconico monte Fuji. A settant’anni produsse una serie di xilografie intitolate “Trentasei vedute del monte Fuji”. In seguito pubblicò tre libri di stampe chiamati “Cento vedute del monte Fuji”. Secondo alcuni storici dell’arte la sua ossessione derivava dalla leggenda che la montagna ospitasse il segreto dell’immortalità. Il prossimo anno sarà un buon momento per concentrarvi sulla vostra ossessione. Cercate di capire qual è e cominciate a progettare come comunicare intensamente con l’oggetto della vostra passione.

turalmente, preferirei che la tua fama e la tua influenza si diffondessero a causa delle tue buone azioni e non di strani comportamenti. Perciò nei prossimi mesi ti esorto a essere più corretto e generoso che mai. Cerca di essere un modello edificante.

SAGITTARIO VERGINE

Mi aspetto che il tuo 2024 sia caratterizzato dalla libertà di spirito e da grandi prospettive, cara Vergine. Proverai un forte impulso a viaggiare, vagare ed esplorare. Sarai più entusiasta che ansiosa all’idea di lasciare la tua zona di sicurezza e avrai una particolare inclinazione a espandere la tua mente. Questo non significa che non proverai mai imbarazzo o confusione. Però vivrai avventure che si riveleranno istruttive. Un’altra buona notizia è che vagare nella natura ti concederà ancora più ispirazione. Ricorda questa citazione della biologa Rachel Carson: “Chi contempla la bellezza della Terra trova riserve di forza che dureranno nel tempo: la migrazione degli uccelli, il flusso e il riflusso delle maree, il bocciolo chiuso pronto per la primavera”. BILANCIA

Sono lieto di informarti che nel 2024 per te non è prevista una visita all’inferno. Potresti essere invitata a fare qualche escursione nel regno che gli psicologi chiamano sotterraneo, ma non sarà un male. Sarai in grado di andare a caccia di tesori nascosti e di scoprire segreti che illumineranno la tua epica ricerca di integrità, ormai in corso da mesi. A volte potrà essere buio laggiù, ma quell’oscurità ti condurrà quasi sempre alla guarigione (ribadisco che il mondo sotterraneo non è l’inferno).

LEONE

Se mai nella tua vita diventerai virale, cioè farai qualcosa che improvvisamente sarà molto conosciuto e influente, scommetto che succederà nel 2024. Anche se non produrrai video che saranno visti da dieci milioni di persone, è probabile che diventerai più importante nella tua comunità o nel tuo lavoro. Na-

partner fantastico? Sei pronto ad avvicinarti all’arte della collaborazione come se migliorare le tue capacità in questo campo fosse la cosa più importante che devi fare? Nel 2024 cerca di essere un brillante compagno di squadra.

SCORPIONE

Spero che nei prossimi mesi coltivare l’intimità sarà un progetto divertente. Per farlo bene, devi superare il modo in cui di solito stringi amicizia e ti comporti nell’intimità. Dovrai essere fantasioso e ingegnoso. Sei disposto a credere di non sapere ancora tutto su come essere un alleato e un

Ognuno di noi è un’opera d’arte complessa e caleidoscopica, indipendentemente dal fatto che ci avviciniamo consapevolmente al nostro destino con questo spirito. Ogni giorno usiamo la nostra immaginazione per creare nuovi elementi di quel capolavoro che è la nostra vita. I Leoni abbracciano naturalmente questo divertente progetto, ma anche voi Sagittari avete buone potenzialità di affrontarlo con gioia e stile. Confido che nel 2024 avrai particolarmente voglia di godere di quest’opera sacra. Le prossime settimane saranno il momento migliore per aggiungere elementi a questo scintillante capolavoro. ACQUARIO

La cantautrice Tori Amos afferma di essere sicura che in una vita precedente è stata bruciata perché era una strega. Sospetto che la maggior parte di noi in altre incarnazioni passate sia stata punita per essere stata se stessa. Il 2024 sarà favorevole per guarire da qualsiasi ferita antica di questo genere. Vivrai esperienze che potrebbero liberarti dalla convinzione sbagliata che essere fedele a te stesso sia in qualche modo un errore. La vita cospirerà per darti il coraggio necessario di essere il tuo splendido e vero te. PESCI

Il 2024 sarà uno degli anni migliori di sempre per la tua istruzione. La tua disponibilità e il tuo desiderio di imparare saranno al culmine. La tua capacità di attirare insegnanti stimolanti sarà straordinaria. Sarai curioso e aperto alle buone influenze. Il mio consiglio è di non lasciarti sfuggire le lezioni che arriveranno non solo da ovvie fonti di saggezza, ma anche da fonti inaspettate. Non si sa mai da dove potrebbero venire le rivelazioni e l’illuminazione.

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CAPRICORNO

COMPITI A CASA

Fai tre previsioni sulla tua vita nel 2024.

KOUNTOURIS, GRECIA

L’ultima

LYNCH, AUSTRALIA CHAZ

CHAPPATTE, SVIZZERA

BANX, REGNO UNITO

“Non dimenticatevi di lasciare una recensione su Stallabnb”.

“È un piccolo ebreo palestinese!”.

L’anno a colpo d’occhio.

Le regole Incontrare i nuovi suoceri 1 Se non hai un lavoro, trovatelo. 2 Sistemati i capelli e le unghie. 3 Niente discussioni politiche fino al terzo incontro. 4 Ricordati di respirare ogni tanto. 5 Nel dubbio, chiediti cosa farebbe al tuo posto Kate Middleton.

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