Il Vangelo secondo Marco 8830813915, 9788830813915

Il mondo nel quale Marco introduce il suo lettore è un mondo di conflitti e suspense, di enigmi e segreti, di domande e

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Il Vangelo secondo Marco
 8830813915, 9788830813915

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CAMILLE FOCANT

IL VANGELO SECONDO MARCO Presentazione di Roberto Vignolo

CITIADELLA EDITRICE

titolo originale L'évangile selon Mare traduzione

Cristiana Santambroglo edizione italiana a cura di

Roberto VIgnolo bozzetto copertina

Roberto Plzzlgonl

© Les Éditions du Cerf Paris 2004 www.editionsducerf.fr © per la lingua italiana Cittadella Editrice - Assisi www.cittadellaeditrice.com 1• edizione febbraio 2015 ISBN 978-88-308-1391-5

Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun vo­ lume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68. comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633, owero dall'accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA. CONFAATIGIANATO. CASA, CLAAI. CONFCOMMERCIO. CONFESEACENTI il18 dicembre 2000. Le riproduzioni per uso differente da quello personale potranno awenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dall'editore.

PREFAZIONE

n presente commentario privilegia un'interpretazione del vangelo di Marco che permette di cogliere la dinamica del testo preso nel suo insieme. Anche se non viene utilizzato il vocabolario tecnico dell'analisi narrativa, è questo approccio che guida il mio lavoro. Senza però dimenticare i principali risultati del metodo storico­ critico, in particolare quelli di critica della redazione che si posso­ no trovare nelle note. Per quanto riguarda il testo di Marco, la mia traduzione è voluta­ mente molto letterale, una traduzione di lavoro. Nella traduzione italiana, gli altri testi biblici sono citati secondo la Bibbia CEI. Le citazioni degli pseudoepigrafi e dei testi di Qumran sono rica­ vate da La Bible. Ecrits intertestamentaires (A.Dupont-Sommer e M.Philonenko). Quelle dei Padri provengono dalle edizioni della collana Sources chrétiennes e quelle di Filone dalla raccolta delle Oeuvres de Philon d'Alexandrie. Quelle di Giuseppe Flavio e della letteratura ebraica in genere, provengono da varie opere. I ritoc­ chi introdotti nelle traduzioni sono leggeri e occasionali. Per que­ ste opere, le mie citazioni in francese sono state semplicemente tradotte in italiano Le convenzioni adottate per le abbreviazioni nel citare le opere antiche sono state riprese all'inizio della lista delle abbreviazioni. Le convenzioni seguite nei rimandi a opere di autori moderni vengono precisate all'inizio della bibliografia generale. La scrittura di quest'opera è stata grandemente facilitata dall'anno sabbatico concessomi dall'Università cattolica di Lovanio in colla­ borazione con il Fonds National de la recherche scientifique (Bruxel­ les). Devo un grazie sentito al collega André Wénin che ha integral­ mente riletto il manoscritto mano a mano che veniva elaborato. Le sue reazioni e osservazioni sono state per me un aiuto prezioso. A fine percorso ho approfittato dell'attenta rilettura di Hugues Cousin e Paul Lamarche che hanno provveduto a una verifica finale della forma. Per le bibliografie e gli indici, ho potuto contare sull'aiuto di Sylvie Ska, Bernadette Escaffre, Catherine Vialle, Annie Dervaux e Christiane Georis. E per finire, Elena Di Pede mi ha assistito nella rilettura delle bozze. Siano tutti caldamente ringraziati. Ringrazio di cuore l'eccellente collega Roberto Vignolo che ha rac­ comandato all'editore di offrire al pubblico italiano la traduzione 5

Prefazione

di questo commento, e che, con la sua ampia e precisa competenza nel campo degli studi biblici, ha accompagnato da vicino il lavoro di traduzione. La mia riconoscenza va anche all'editrice Cittadella che ha accolto volentieri il progetto ormai realizzato. Sono infine molto riconoscente a Cristiana Santambrogio per la cura portata alla traduzione italiana. La ringrazio per la finezza e la precisione del suo lavoro. CAMILLE FocANT

Louvain-la-Neuve, aprile 2014

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PRESENTAZIONE

Con il garbo e la semplicità che spesso caratterizzano le personalità creative, aristocratiche - nel senso migliore della parola - e di spic­ cato profilo istituzionale, Camille Focant - classe 1 946, sacerdote della diocesi di Namur dal 1 969, docente presso il Grand Séminaire dal 1 974 al 1 986, e in seguito presso la Université catholique de Lou­ vain, per un decennio in due riprese ( 1 995/2000 e 2003/2008) Deca­ no della Facoltà di Teologia molto apprezzato per le sue iniziative accademiche e per il suo spirito di collegialità, membro attivo in diverse associazioni bibliche internazionali, e dal 2008 a tutt'oggi Direttore della prestigiosa Revue théologique de Louvain - così salu­ ta i suoi visitatori attraverso il web [http://focantcamille.com]: «Vi do il benvenuto su questa pagina. Ho insegnato Esegesi del Nuovo Testamento all'Università Cattolica di Lovanio dal 1 986 al 20 1 1 , e di questa università sono ormai professore emerito. La mia opera prin­ cipale è stata la scrittura d'un commentario sul Vangelo di Marco per la collezione «Cornrnentaire biblique: Nouveau Testament>> (CBiNT, edizioni Cerf, Paris, 2004), tradotto in inglese (Pickwick Publications, Eugene, OR, 2012) e prossimamente in italiano. Sempre per la stessa collezione del CBiNT è attualmente in preparazione un commentario alle lettere di Paolo ai Filippesi e a Filemone» .

Al momento il suo nome ancora non suona particolarmente noto a quei lettori italiani non strettamente addetti ai lavori, ma comun­ que interessati alla letteratura e all'esegesi biblica - che pure già da molti anni godono ampiamente della feconda produzione di area francofona belga, fruendo degli studi - tanto specialistici quanto divulgativi - dei gesuiti Maurice Gilbert, Jean Radermakers, Jean­ Louis Ska, Jean-Pierre Sonnet, dei benedettini Jacques Dupont e Benoit Standaert, suo discepolo, e di André Wénin, collega e con­ fratello lovaniense di Focant, autori diventati oggetto di ordinaria traduzione da parte dell'editoria italiana impegnata in questo set­ tore. Infatti solo un paio di suoi scritti minori risultano tradotti (in­ sieme a A. Wénin, La donna la vita EDB 2008, mentre per Qiqajon della comunità di Bose nel 2009 è uscito un Ritratti di Gesù Cristo a più mani, comprensivo di un suo contributo). Sempre in prima linea sul versante della pubblicistica biblica, e particolarmente affezionata proprio al vangelo di Marco, la Citta­ della Editrice non si è lasciata scappare l'occasione di tradurre que7

Presentazione

sto poderoso opus magnum di Focant - ben 662 pp. nell'edizione originale francese. E volentieri lo allinea a numerosi commentari e studi marciani precedentemente editati - pensiamo a quello classi­ co, e a tutt'oggi ancora prezioso di Vincent Taylor (l'originale è del 1952, la traduzione del 1 977), quelli, fortunatissimi in Italia, del nostro Bruno Maggioni ( 1 975 e 2008) -, di Joachim Gnilka ( 1 987, che nel 2007 ha raggiunto ben sette ristampe), di Rinaldo Fabris {2005), nonché quello in tre volumi di Juan Mateos in collaborazio­ ne con Fernando Camacho (20 1 0/20 1 2). E, last but not least, non si dimentichi il contributo di Angelo Reginato, "Che il lettore capisca!" (Mc 13,14). Il dispositivo di cornice nel vangelo di Marco (2009) un eccellente studio in chiave narratologica che la rete ci segnala ormai esaurito, per cui speriamo in una sua ristampa. Questo commento di Focant a Marco esce in Italia a dieci anni di distanza rispetto all'originale (2004), ben lungi comunque dall'aver perso qualche smalto, avendo alle proprie spalle un bel quarantennio di ricerca scientifica e di pratica pastorale - dedi­ cata quest'ultima soprattutto a promuovere la migliore qualità di preparazione di laicato e presbiterato. Fin dagli anni settanta l'Autore ha infatti coltivato incessante interesse per questo van­ gelo - lungamente negletto nella storia della chiesa, a vantaggio soprattutto di Matteo e di Giovanni, ma da un paio di secoli finalmente ritornato all'attenzione spettantegli quale geniale - e brutale - "inventore" del genere "vangelo". Risale al 1 974 il suo dottorato in teologia sotto la guida del suo maestro Moos. Albert Descamps ( 1 9 1 6- 1 980)- insieme a Frans Neyrinck ( 1 927-) tra i più illustri esponenti della scuola esegetica d'indirizzo storico-cri­ tico di Lovanio - che s'intitola: Les disciples dans le second évan­ gile: Tradition et rédaction studio originariamente apparso sulla Revue Biblique 82 ( 1 97 5) 1 6 1 - 1 8 5, bibliograficamene riaggiomato nella recente raccolta di diciotto saggi marciani intitolata Mare, un évangile étonnant (BEThL CXCIV), Uitgeverij Peeters, Leuven - Paris - Walpole, Ma 2006, 55-82. n volume che teniamo tra le mani è quindi il frutto dawero maturo della ricerca di una vita intera, che ha in sorte di iscriversi entro un tornante particolarmente cruciale dell'esegesi biblica, quello foto­ grafato dall'importante documento della Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa ( 1 993), e che si caratterizza per una speciale consapevolezza relativa all'irrinun­ ciabilità come pure - al tempo stesso - all'insufficienza del metodo storico-critico, attestata dall'insorgere di molteplici nuovi metodi e approcci alla Bibbia, che lo ridimensionano quantomeno al rango di primus inter pares, nonché dall'istanza ermeneutica e teologica del lavoro esegetico. n tempo dell'univocità monocorde e dell'esclu­ sività asettica e narcisisticamente autoreferenziale del metodo è de­ finitivamente - a ben vedere già da lunga pezza - tramontato. Più precisamente, a scanso d'equivoci: in esegesi e in teologia - come del resto in ogni disciplina - il metodo è istanza critica, un'igiene mentale perfettamente irrinunciabile. Ma tutti e ovunque -a scuola

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come nell'economia, e l'ambito biblico non fa eccezione- dall'ab­ braccio con il solo e puro metodologico rigore usciamo fatalmente mortificati. Così un pluralismo per l'appunto irrinunciabilmente critico - con buona pace non solo d'ogni rigurgito fondamentalista, ma anche d'ogni cortocircuito semplificatore -, nel segno di una rinuncia a ogni pretesa egemonica da parte di qualunque singola metodologia, e quindi una prospettiva di un'integrazione reciproca responsabile nel rinnovato interesse per l'ermeneutica e per la teo­ logia biblica paiono proprio le migliori chances nella ricerca esege­ tica attuale. S'intende che bisogna sobbarcarsi la fatica di una vera e propria integrazione, di una sana e ben articolata contaminazione, che niente ha da spartire con un pasticciato mélange de méthodes, con l'eclettica e confusa approssimazione. Costantemente animato da un genuino interesse per la forma lette­ raria e per la poiesis generativa e compositiva dei racconti evangeli­ ci - di volta in volta apprezzata diacronicamente, sincronicamente, nonché pe r i suoi effetti sul lettore -, Camille Focant si cimenta su questo delicato kairòs mediando una propria più giovanile compe­ tenza esegetica nella storia della redazione (Redaktionsgeschichte) alla scuola di Albert Descamps, con il più recente approccio di tipo narrativo. In particolare, quest'ultimo è stato da lui coltivato per riferimento ad almeno tre differenti cespiti, e cioè tenendo d'occhio rispettivamente il polo della semeiotica francofona greimasiana, quello dell'esegesi nordamericana - più disinvolta di quella europea nel cavalcare il narrative turn in ambito biblico - nonché godendo di una frequentazione triennale dei seminari di Paul Beaucharnp - quel singolarissimo, tanto discreto quanto impegnativo e ricco luminare delle Scritture, il cui contributo in sede di narrativa e teologia biblica resta una risorsa ancora in gran parte da scoprire. In questo suo processo che dalla Redaktionsgeschichte lo porta alla narratologia, la parabola di Camille Focant risulta significativamen­ te assai analoga a quella percorsa dal collega e amico svizzero m­ mando Daniel M arguerat ( 1 943-) sul versante dell'esegesi di Matteo. Lui pure inizialmente impegnato sempre con il taglio della storia della redazione (Le jugement dans l'évangile de Matthieu, Labor et Fides 1 98 1 ), è successivamente approdato a una vigorosa assunzio­ ne dell'approccio squisitamente narrativo - di cui nelle librerie del nostro bel paese danno chiara testimonianza il prezioso manuale metodologico a quattro mani, firmato da Marguerat insieme a Yves Bourquin, Per leggere i racconti biblici (Boria, 201 12), nonché la felice raccolta di saggi Sapori del racconto biblico (EDB 2013), questa vol­ ta con André Wénin. A questo passaggio dalla storia della redazione alla narrativa va riconosciuta l'apprezzabile coerenza di un'opzione di metodo in effettivo ascolto del proprio oggetto, plasticamente docile all'intrinseco statuto di opera letteraria proprio dei vangeli, nel momento in cui estende la propria attenzione dalla fase compo­ sitiva diacronica del testo al suo risultato e funzionamento sincro­ nico, e di qui alla sua rifìgurazione nell'atto di lettura. In fondo, per entrambi un'operazione di felice integrazione metodologica. 9

Preeentazlone

Presumibilmente memore della saggia moderazione di Robe rt Alter, che nel suo pionieristico e ormai classico approccio narra­ tivo alla Bibbia - L'arte del racconto biblico (Queriniana, 1 990, or. 1 98 1 ) - si compiace di rifuggire programmaticamente da qualsia­ si enfasi metodologica e terminologica troppo spinta, a propria volta anche Focant con analoga disinvoltura dichiara subito (p. 5) di lasciar cadere il più specialistico vocabolario dell'analisi narrativa. E così i suoi lettori, resi più agili da questo alleggerimento, perico­ pe per pericope - a seguito della traduzione (di cui diremo a breve), e della nutrita Bibliografia specifica (da cui non manca un'attenzio­ ne alla produzione biblica italiana) -, si ritrovano subito istradati sulla via maestra di una vera ed effettiva Interpretazione preoccu­ pata di «evidenziare la dinamica del testo preso come un insieme» (p. 6 1 ), privilegiante la ricostruzione del mondo del racconto (the story ), rispetto a quella del mondo della storia (the history) retro­ stante al testo. Il principio metodologico fondamentale è quindi quello di procedere secondo una lettura del vangelo di Marco, che - nel rispetto dello stesso mondo del racconto filologicamente e storicamente attrezzata quanto basta - si vuole in primo luogo intertestuale con l'ausilio dello stesso Marco. I.:Autore ha il merito di attenersi a questa scelta soprattutto là dove il racconto marciano ci restituisce tutta la sua forza enigmatica e perfino paradossale, meglio ancora "ossimorica" (Y. Bourquin). Al riguardo, si pensi in particolare alla sconcertante finale marciana (1 6 , 1 -8), perfettamente aperta e reticente, restituita dai migliori e più antichi manoscritti unciali che "chiudono" la storia di Gesù con lo spavento, la fuga e il silen zio delle donne al kerygma del crocifisso risuscitato, facendo cosi a meno di narrare l'apparizione di Gesù risorto ai suoi discepoli, e limitandosi a dame annuncio, a conferma della promessa di Gesù (14,28) - raccontarla sarà piut­ tosto affare della duplice addizione lunga ( 1 6 , 9-20) e corta. Non piccolo merito del metodo narrativo sta certamente nel farci capire come non sia affatto necessario né consigliabile fantasticare su di una finale andata perduta o comunque per chissà quale ragione lacunosa - magari invocando a sproposito presunti veti di ordine filologico e stilistico - per cui la lingua e letteratura greca mai e poi mai tollererebbe di chiudere un'opera letteraria con un gàr. Il presente commentario illustra davvero molto bene la virtù propria di questa finale reticente, che non solo sconcerta il lettore attraver­ so l'espediente di uno scarto narrativo in sorprendente anticlimax - silenzio e fuga delle donne, in preda a perdurante sentimento di timore a dispetto dell'annuncio dell'angelo -, ma lo costringe a ripensare per intero e in radice - dall'origine e da principio - a questo tanto denso racconto segnato da cima a fondo da un irri­ ducibile scarto kerygmatico, marcato cioè dalla maggior grandezza della rivelazione- che avanza attraverso "epifanie misteriose" (M. Dibelius) - rispetto alla sempre un po' lenta e torpida recezione della fede (9,24). lO

Presentazione

Quanto il lettore può effettivamente aspettarsi da questo volume viene efficacemente sinteti zzato in un paio di pagine iniziali, che vale la pena pregustare: «ll mondo nel quale il vangelo di Marco introduce i suoi lettori è un mondo di conflitti e suspense, di enigmi e segreti, di domande e rove­ sciamenti delle evidenze, d'ironia e sorpresa. Il suo attore principale, Gesù, è estremamente sconcertante. Lo è, naturalmente, per le auto­ rità religiose che si oppongono a lui. Ma lo è anche per i discepoli che scivolano dallo stupore alla contrapposizione e alla fuga, passando attraverso l'incomprensione. E per finire lo è anche per una folla ambi­ valente che finirà col reclamame la morte. Vi si affrontano di continuo domande sul senso, sulla vita e sulla morte, sul bene e sul male. Ma non vengono trattate come se tra vizio e virtù ci fosse una semplice contrapposizione. Il lettore le coglie attraverso la complessità di un racconto paradossale e ironico che continua a scuoterlo allo scopo di trasformarlo. Questo racconto è un sottile invito a scuotersi di dosso le evidenze immediate per entrare in un nuovo mondo, quello del regno di Dio che viene laddove i primi sono ultimi e dove chi vuole salvare la propria vita la perde» (p. 4 1 ).

«Resta il fatto che il vangelo di Marco è paradossale ed enigmati­ co. Il segno di punteggiatura che meglio lo caratterizzerebbe è il punto interrogativo più che il punto esclamativo. Marco maneggia il paradosso volentieri e in maniera perfino brutale. A livello nar­ rativo, si trova diverse volte nel suo vangelo una figura stilistica che Bourquin propone di chiamare «Ossimoro», nel senso di , in C. FocANT (ed.}, The Synoptic Gospels: Source Critici­ sm and the New Literary Criticism (BEThL 1 10), Leuven 1 993,

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La costruzione di questa citazione è complessa. La prima parte (v. 2) sembra essere composta partendo da Es 23,20 e da Mal 3, 1 . Ecco la tra­ duzione di Es 23,20 (LXX): «[Ed] ecco che [io,] mando il mio messaggero (liyyEÀov) davanti al tuo volto [affinché ti custodisca sul cammino, perché ti faccia entrare nel paese che ti ho preparato])», e quella di Mal 3,1 (LXX) : «Ecco che [io,] faccio partire il mio messaggero (liyyEÀov) e si occuperà del cammino davanti al mio volto». Risulta chiaro che il testo di Marco, letteralmente parlando, è più vicino a quello di Esodo per quanto riguar-

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Marco 1,4-8

da la parte non parentetica. L'idea di occuparsi del cammino può essere invece stata ripresa da Malachia, anche se Marco usa un verbo diverso da quello di Mal (LXX) . D'altra parte, alla parola «cammino» Marco aggiunge un pronome alla seconda persona singolare, senza altre precisazioni. La seconda parte della citazione proviene dal prologo del Deuteroisaia (Is 40,3 LXX) ripreso alla lettera, a parte una modifica nella finale dove «i suoi sentieri» sostituiscono «i sentieri del nostro Dio». Se si tiene conto del fatto che in questo contesto la parola «Signore» designa Gesù, colpisce che sia lui ad assumere il ruolo svolto da Dio nel testo di Isaia. 2 n verbo KaTacrKt:uaCw

(«COStruire») usato da Marco è diverso da Èmf3ÀÉ1TOIJ.Ql («occuparsi di») usato da Mal 3, l (LXX) . L'uso che ne fa Marco può venir­ gli dalla sua fonte, oppure risultare dalla traduzione che egli stesso ne ha fatto. La divergenza nella traduzione segnala probabilmente una diversa comprensione dell'ebraico piiniih al qal («volgersi verso», «occuparsi di») da parte dei LXX e nel senso del piel («sgomberare», «appi anare») in Mar­ co. Più tardi, Aquila lo interpreterà con ancora maggiore chiarezza nel senso del piel: ci.lTOOKt:uacrn . 3 Applicando il testo di Isaia all'inizio del vangelo, Marco si differenzia dall'uso che ne veniva fatto, ad esempio, a Qumran, dove Is 40,3 era in­ terpretato come un'esortazione ad andare nel deserto per prepararvi una \'ia al Signore, via che doveva consistere nello studio della Legge ( l QS VIII, 1 3 - 1 5). Per Mc l ,3, come per i LXX , il deserto è il luogo in cui risuona la voce di colui che proclama, mentre nel TM e a Qumran esso è il luogo degli operai che sgombrano la via al Signore.

Giovanni Battista, Il precursore

1 ,4-8 1 .4 Arrivò Giovanni il Battezzante" nel deserto e proclamante un battesimo di conversione per (il)b perdono dei peccati. 5 E se ne an­ davano verso di lui tutto il paese di Giudea e tutti quelli di Gerusa­ lemme, ed erano battezzati da lui nel fiume Giordano confessando i loro peccati. 6 E Giovanni era rivestito di peli di cammello e di una cintura di pelle attorno ai suoi fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. 7 E proclamava dicendo: «Viene il più forte di me dietro a mec, cui non sono degno, curvandomi, di slegare la cinghia dei suoi sandali. 8 Io vi ho battezzati d acqua ma lui vi battezzerà nello Spirito Santo» . '

,

a ) Marco utilizza come equivalenti i due titoli o 13a1TT((wv (1 ,4; 6, 1 4.24) e o �nT(cmis (6,25; 8,28). Mentre il secondo - un aggettivo verbale - è corrente in Matteo e Luca, ed è ben noto anche a Giuseppe Flavio (AJ XVIII , l l6), quanto al pri mo , Marco è l unico a utilizzare il participio presente, facendolo sempre precedere da un articolo quando funge da apposizione al nome di Giovanni. Questo participio funziona perciò come un vero e proprio titolo. Il parallelismo '

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Marco 1,4-8

101pooawv (senza articolo) zoppiCa.. Per risolvere il problema alcuni mss hanno omesso o l'articolo davanti a i3a.TITl(wv, oppure la congiun­ zione Kal davanti a IOlPOOowv. b) Le parentesi inserite all'interno della traduzione indicano una parola ag­ giunta per una migliore intelligibilità dell'italiano. c) L'espressione òTTlow iJ.OU può essere intesa in senso cronologico («dopo me») (Légasse, «Bapteme» , 258), oppure nel senso della condizione del discepolo («dietro me>>) (Coulot, 300-30 1 ). Entrambi i significati sono possibili, ma il secondo, corrispondente all'uso rabbinico di camminare dietro a un maestro (Bill. 1,528-529) è frequente in Marco ( 1 , 1 7; 8,34). Tradurre in tal senso sugge­ risce l'idea che il più forte provenga dal gruppo dei discepoli del Battista. tra o 13aTT"T{(wv e tcal

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Le logion de Jean-Baptiste sur les deux baptemes (Mc 1 ,7-8; Mt 3 , 1 1 ; Le 3 , 1 6; Jn l , 26-27.33 ) », in R. KuNTZMANN (ed.), Ce Dieu qui vient (Studi in onore di B. Renaud) (LeDiv 1 59 ) , Paris 1 995, 291-305. - l. DuNDEBERG, «O and the Beginning of Mark», NTS 4 1 , 1 995, 501-5 1 1 . - J. ERNST, Johannes der Tiiufer. Interpretation - Geschichte - Wirkungsgeschichte (BZNW 5 3) , Berlin 1 989. - S. LÉGASSE, «L'autre "bapteme" (Mc 1 ,8; Mt 3, 1 1 ; Le 3 , 1 6; Jn 1 ,26.3 1 -33)», in F. VAN SEGBROECK (ed.), Four Gospels, 257-273. - E. LuPIERI, Giovanni Battista fra storia e leggenda (BCR 53 ) , Brescia 1988, 26-50. - F. NEIRYNCK, «The First Synoptic Pericope: the Appearance of John the Bap­ tist in 0?», EThL 72, 1996, 4 1 -74. - S.E. PORTER, «Mark 1 .4, Baptism and Translation», in S.E. PoRTER, R.A. CRoss (ed.), Baptism, the New Testament and the Church (Studi in onore di R.E.O. White) (JSNT.S 1 7 1 ) , Sheffield 1 999, 8 1 -98. - H. STEGEMANN, «Erwagungen zur Bedeutu ng cles Taufers Johannes im Markusevangelium», in M. BECKER, W. FENSKE (ed.), Das Ende der Tage und die Gegenwart des Heils. Begegnungen mit dem Neuen Testa­ meni und seiner Umwelt (Studi in onore di H.-W. Kuhn) (AGJU 44) , Leiden 1999, 1 0 1 - 1 1 6. - C.M. TucKETT, «Mark and Q», in C. FocANT (ed.), Synoptic Gospels, 1 49- 1 75, alle pp. 1 68- 1 72 . - N. WALTER, «Mk 1 , 1 -8 und die > che rafforza ulteriormente il tratto servile del gesto di slegare i sandali, un gesto riservato allo schiavo, e considerato come l'unico compito indegno di un discepolo nei con­ fronti del maestro (TBKetub. 96a, citato da Marcus*, 1 52). Gesù è il più forte in quanto Signore al quale Giovanni prepara la strada, e in quanto è colui che battezzerà nello Spirito Santo, non nell'acqua. :\vendo letto i primi tre versetti, il lettore non fatica a capirlo, ma per gli uditori di Giovanni, la cosa resta ancora enigmatica. 77

Marco 1,4·8

Che cosa significa l'annuncio del battesimo nello Spirito Santo? Légasse, 258, parla in proposito di una metafora, ma senza esplici­ tarne il senso. È significativo il fatto che nel racconto seguente Ge­ sù non sviluppi nessuna attività battesimale in senso stretto e che nemmeno si faccia mai menzione esplicita del battesimo cristiano, dal momento che 1 6, 1 6 fa parte della finale non autentica di Mar­ co. Il lettore perciò viene sfidato a capire in che senso il narratore intende il fatto che Gesù battezzerà. In 1 0,38 gli verrà suggerito che la morte di Gesù costituisce un battesimo, e in 1 3, 1 1 che lo Spirito Santo assisterà i discepoli nella missione post pasquale. D'altra parte, se si tiene conto di Gl 3 , 1 -2 , il fatto che lo Spirito di Dio sia effuso su ogni carne è un ulteriore segno della salvezza escatologi­ ca. Tutto ciò conferma che dopo la preparazione portata a termine da Giovanni si è compiuto il tempo favorevole ( 1 , 1 4). Il senso che ha per Marco il battesimo nello Spirito Santo, po­ trebbe essere ancora più preciso, se ci riportiamo all'unica altra occorrenza dell'aggettivo ischuros («forte») in 3,22-27: Gesù espelle i demoni, mostrandosi cosl più forte di Satana. E chi interpreta male questo fatto, bestemmia contro lo Spirito Santo (3,29). D'altra parte, in 5, 1 -20 Gesù riesce a esorcizzare un uomo che «nessuno riusciva più a (oudeis ischuen)» gestire, e in 9, 1 4-29 riesce in un esorcismo richiesto dapprima ai suoi discepoli che però «non ne hanno avuto la forza» (ouk ischusan, v. 1 8). Come lo Spirito Santo sceso su Gesù al battesimo lo spinge nel deserto per esservi tenta­ to e vincere Satana ( 1 , 1 2- 1 3), così per l'evangelista sembra che la forza di Gesù si manifesti innanzi tutto negli esorcismi e nella lotta contro Satana; e che proprio lì, più che altrove, sia attivo il suo battesimo nello Spirito Santo (Marcus*, 1 57- 1 58). A livello del racconto globale, va inoltre notato il parallelismo tra Giovanni, vestito di peli, mandato ..ou6iw può avere il senso di «seguire» oppure di «accompagnare, fare la strada con». La ripetizione «dietro a me» (v. 1 7) e «dietro a lui» (v. 20) invita a tradurre con «seguire». C'è sì compagnia, ma Gesù è il capofila. e) Il termine KaTapTl(w può significare sia «riparare», sia «preparare».

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INTERPRETAZIONE

Nei w. 14-15, come conviene a un sommario, l'attività di Gesù era ambientata in maniera generale nella regione della Galilea, senza

97

Man:o 1, 16-20

altre precisioni. I w. 1 6-20 descrivono ora un'azione localizzata in maniera più precisa sulle sponde del lago di Galilea. Dal punto di vista del narratore si tratta dell'atto pubblico iniziale di Gesù, che costituisce un primo giUppo di discepoli a suo seguito. In questa pericope si mette l'accento sull'azione di Gesù e sulla sovranità della sua chiamata più che sulla risposta dei discepoli (Bultmann, Tradition, 45). Raccontare la chiamata dei discepoli come primo atto pubblico di Gesù pone qualche problema ai lettori. Già i lettori più antichi, e i Padri della chiesa ne sono testimoni, consideravano un segno di leggerezza il fatto di abbandonare tutto per seguire uno scono­ sciuto di cui non si sa nulla. Quale ragione ha potuto spingere il narratore a cominciare il suo racconto in questo modo del tutto inverosimile? Luca, ad esempio, prima della chiamata dei primi discepoli, presenta una fase dell'attività di Gesù in Galilea. La ve­ rosimiglianza storica o psicologica, però, non preoccupa Marco. Non esita a scegliere di mettere subito in luce un elemento che gli pare essenziale. Lo svolgimento del suo racconto manifesta l'importanza che dà ai compagni che Gesù si è scelto. E il seguito del vangelo mostrerà quanto sia l'evangelista che Gesù siano pre­ occupati del destino del gruppo di discepoli. Gesù non è solo ma continuamente in relazione con coloro che sono stati incaricati di portare avanti la proclamazione del felice annuncio. Nel seguito del racconto Gesù sarà solo unicamente al momento della passio­ ne, ma il motivo sarà allora la defezione dei discepoli ( 1 4,50). Ed è significativo notare che la seconda parte del vangelo inizia anch'es­ sa con una chiamata di Gesù ai discepoli. Dopo aver annunciato loro la passione imminente (8,3 1 ), Gesù ne trarrà le conseguenze, anche per chi vuole seguirlo, e cioè prendere la croce e perdere la propria vita (8,34-35). A dire la verità, all'inizio del vangelo non c'è un solo racconto di vocazione, ma addirittura due, sia pur molto brevi, due scene ide­ alizzate (w. 1 6- 1 8 e w. 1 9-20), con la semplicità e la potenza delle incisioni su legno (Kuthirakkattel, Beginning, 1 1 4). Il narratore vi esprime la potenza della chiamata di Gesù in funzione dell'ur­ genza creata dalla vicinanza del regno di Dio. Tale urgenza, nella mente del lettore, viene ulteriormente accentuata dalla risposta immediata e incondizionata dei discepoli. Nulla viene detto del percorso psicologico di questi ultimi. L'andamento del racconto non autorizza a trarre conclusioni su una psicologia della voca­ zione. Ma mette in valore il fatto che la buona notizia del regno di Dio fa brutale irruzione nel lavoro quotidiano e nella vita di famiglia, modificando radicalmente l'esistenza di coloro che la ricevono. La costruzione stilizzata e parallela dei due racconti è stata eviden­ ziata da Kuthirakkattel, Beginning, 1 05- 1 06, al cui lavoro si ispira lo schema seguente:

98

Marco 1,16-20

Mc A

1,16-18

1,19-20

E, passando sulla sponda del ma­ re di Galilea, vide Simone e An­

E, avanzando un poco, vide Gia­

gettando (il giacchio) nel mare, poiché erano pescatori.

riparando le reti.

drea, il fratello di Simone,

B

Mc

C E Gesù disse loro: Venite

como, il (figlio) di Zebedeo, e Giovanni, suo fratello, anche loro nella barca

E subito li chiamò.

dietro a me e vi farò diventare pescatori di uomini.

B'

E subito, lasciando le reti,

E lasciando il loro padre Zebedeo nella barca con i salariati,

li

Lo seguirono.

se ne andarono dietro a lui

La struttura dei due racconti si awicina molto a quella della chia­ mata di Eliseo da parte di Elia in l Re 1 9, 1 9-2 1 ; è una scena gene­

ralmente considerata il modello ispiratore del racconto di Marco. In essa troviamo: a) lo spostarsi di Elia e la scoperta di Eliseo, b) l'attività di quest'ultimo come aratore, c) la chiamata gettando il mantello, b') l'abbandono degli strumenti di lavoro, a') la partenza al seguito di Elia. Ispirandosi a un modello del genere, Marco non ha voluto presentare Gesù come il nuovo E l i a (contra Coulot, 2), dal momento che, nel secondo vangelo, la figura di Elia è riserva­ ta a Giovanni Battista (Mc 1 ,2-8; 9, 1 1 - 1 3); se mai, illustra il tema dell'autorità profetica di cui anche Gesù gode e che espliciterà nella pericope seguente ( 1 ,22.27). Fin dall'inizio di questa prima parte del vangelo Gesù appare come un itinerante in continuo movimento (Moloney, 498). Accompa­ gnarlo, seguirlo, non porta ad entrare in una scuola, ma consiste nell'adottare come lui uno stile di vita itinerante, fatto di peregri­ nazioni incessanti. Ed è condividendo con lui la strada e unendosi al suo destino che essi impareranno. I primi chiamati sono Simone e suo fratello Andrea, poi Giacomo e Giovanni, entrambi figli di Zebedeo. ll racconto non dice altro, per il momento, di questi personaggi, se non che sono pescatori. Il seguito mostrerà che Simone, il primo della lista dei Dodici (3, 1 6), verrà nominato più spesso, eserciterà un ruolo eminente, pur non essendo privo di debolezze. n fatto che sia il primo ( 1 , 1 6) e l'ultimo nominato { 1 6,7) forma un'inclusione tra l'inizio e la fine del van­ gelo, il che contribuisce a sottolineare l'importanza del suo ruolo. n nome di Andrea, menzionato come suo fratello ( 1 , 1 6.29), avrà un'importanza molto minore. Citato al quarto posto nella lista dei Dodici (3, 1 8) - dopo Simone, Giacomo e Giovanni - verrà ancora associato a questi, nel discorso apocalittico di Gesù ( 1 3,3). Giaco­ mo e Giovanni, da parte loro, insieme a Pietro appartengono a un gruppetto di intimi di Gesù, nei momenti della guarigione della

99

Marco 1,16-20

figlia di Giairo (5,37), della trasfigurazione di Gesù {9,2) e della sua agonia ( 1 4,33). Per questo il narratore ha scelto di cominciare il suo racconto con la chiamata dei quattro personaggi che, in misura diversa, saranno più vicini a Gesù nel corso di tutto il vangelo. Colpisce che in questi racconti di vocazione Gesù abbia total­ mente l'iniziativa (Moloney, 499). Ogni volta è lui a individuare i pescatori («vide» [vv. 1 6. 1 9]) e a chiamarli (vv. 1 7.20), mentre sono occupati nelle loro attività quotidiane. Lo stile di Gesù è simile a quello dell'angelo di YHWH che sceglie Mosè mentre è occupato a pascere il bestiame (Es 3, 1 -2), o Gedeone intento a battere il grano (Gdc 6, 1 1- 1 2). È inoltre simile a quello del profeta Elia che affida la propria successione a Eliseo mentre questi sta arando ( l Re 1 9 , 1 9). Gesù agisce quindi nella linea delle scelte operate dai profeti e da Dio stesso quando si tratta di personaggi che svolgeranno un ruolo importante per il bene del popolo dell'alleanza. Lo scopo della chiamata dei primi discepoli viene spiegato solo tra­ mite una metafora: «vi farò diventare pescatori di uomini» (v. 1 7). La frase giunge come complemento dell'imperativo «venite dietro a me», al quale è collegata dal kai («e»). Probabilmente qui si tratta di una congiunzione con significato consecutivo, come spesso acca­ de quando segue un imperativo (BDF § 442, 2). Sconosciuta come tale dalla letteratura rabbinica, l'espressione «pescatori di uomini» probabilmente non è altro che un «gioco di parole a partire dal mestiere dei chiamati» (Légasse*, I, 1 1 5). Il suo tono enigmatico risveglia di nuovo l'attenzione del lettore che dovrà aspettare il se­ guito (6,7- 1 3 ; 1 3 , 1 0) per conoscerne la portata esatta. Ai discepoli Gesù non ordina nient'altro che di seguirlo. I:abban­ dono del loro mestiere con i relativi strumenti di lavoro deriva dall'adesione a Gesù nella sua itineranza. Non c'è quindi insistenza particolare su una rinuncia totale (contra Moloney, 502). Del resto, sembra che Pietro e Andrea possiedano ancora una casa in cui Ge­ sù si recherà guarendo la suocera di Pietro ( 1 ,29-3 1 ) . L a chiamata dei primi discepoli giunge a prolungamento del pro­ gramma descritto in 1 , 1 4- 1 5 . Del resto, nessuna annotazione cro­ nologica la separa da quello, a differenza dell'episodio seguente che viene ambientato in un giorno di sabato ( 1 ,2 1 ). Sulla base di ciò, Marshall, Faith, 1 36, legge il racconto della chiamata come un'il­ lustrazione del testo programmatico: all'imperativo «Convertitevi» (v. 1 5) corrisponderebbe l'abbandono del mestiere precedente (vv. 1 8 .20) e a «credete al vangelo» corrisponderebbe l'atteggiamento di seguire Gesù. I:insistenza del narratore, però, non va tanto all'impegno dei discepoli e ai sacrifici che comporta, quanto all'ini­ ziativa di Gesù. Questa va intesa in funzione della sua missione di proclamare il vangelo e la conversione ( 1 , 1 5). Il lettore non conosce ancora la concretezza che tale missione assumerà. Ma sta imparan­ do che, per portarla a termine, Gesù ha scelto di associare a sé un piccolo gruppo di persone, tolte dai loro impegni quotidiani allo scopo di diventare «pescatori di uomini», missione sulla quale il lettore ha fretta di saperne di più. 1 00

Marco 1,16-20

NOTE 16-20 Il genere letterario è quello del racconto di vocazione (Guelich*, 49) e, secondo un parere generalmente condiviso, Marco deve averlo ricevuto quasi tale e quale dalla tradizione. Ha semplicemente aggiunto l'ambien­ tazione > (Cuvillier*, 56). Una volta tolti tutti gli ostacoli, il paralitico si rimette in piedi e se ne va. Non dipende più dai portatori, non è più legato alla barella, ma può portarla egli stesso. Non per questo diventa ora dipen­ dente dal suo nuovo benefattore. Il fatto che venga rimandato a casa suggerisce che il miracolo non consiste soltanto «nel poter camminare, ma nel ritornare, indipendente ("portante" e non più "portato") alla propria vita, nel poter abitare la propria casa, cioè la sua stessa vita>> (Parlier, 246). Il testo non dice una sola parola delle reazioni degli scribi ai quali Gesù aveva cercato tuttavia di far conoscere l'autorità del Figlio dell'uomo (2, 1 0), a meno che non si debbano includere anche loro in quel «tutti>> ripetuto due volte nel v. 1 2. Il seguito del racconto fa però pensare che Gesù non sia stato compreso, perché gli scribi rimarranno fermamente contrari nei suoi confronti. Il miracolo, in compenso, è riuscito a produrre un effetto di estasi e glorificazione di Dio, ma sulla folla, che dice di non aver mai visto nulla di simile. Qualunque sia il suo livello di comprensione, la folla rende gloria a Dio per una parola che ha rimesso in piedi il paralitico (2, 1 2), e continua 1 28

Man:o 2,1-43 a

esporsi all'insegnamento di colui che ha parlato in quel modo (2, 1 3). Questa prima controversia ha una portata cristologica, visto che mette in rilievo l'autorità del Figlio dell'uomo (vedi l'excursus, p. 132). Quanto alla prima apparizione di questo titolo nel vangelo, colpisce constatare che il Figlio del l'uomo non ci appare nelle vesti del giudice escatologico come in Dn 7 o nel libro di Enoch, ma con il volto di colui che perdona i peccati. Lui che condivide «l'autori­ tà» (exous(a, Dn 7 , 1 4) di Dio, la fa venire sulla terra (Mc 2 , 1 0) sotto forma di perdono dei peccati e di guarigione. E questa guarigione ha per effetto di rimettere in cammino colui che era condannato all'immobilità e alla dipendenza. Parallelamente il racconto crea delle aperture in tutti gli spazi chiusi (casa ingombra, cuori rin­ chiusi in ragionamenti vani) a vantaggio della restaurazione della comunicazione e della circolazione della parola. NOTE 1-13

Dal punto di vista della storia della tradizione la pericope è composta a partire da due racconti: una controversia attorno all'espressione «i tuoi peccati sono perdonati» e una guarigione il cui vertice è «alzati, prendi la tua barella e cammina» . Il racconto di guarigione (w. [ 1 b-2a]3-5a. 1 1 - 12) di solito viene considerato come il racconto primitivo sul quale è stata innestata un'aggiunta appartenente al genere della controversia, probabil­ mente composta ad hoc (w. 5b- I O), mentre Marco sarebbe responsabile delle suture con il resto del suo vangelo (vv. 1-2. 13) (Maisch, 2 1 -48; Gnilka, 197-20 1 ; Ltihrmann*, 56-57). All'interno di tale ipotesi, secondo Pesch* l, 1 56 e Hofius, 1 3 1 - 1 35, l'aggiunta dovrebbe limitarsi ai w. 6-10, poiché il v. 5b, nel racconto primitivo, sarebbe necessario a giustificare il fatto che a qualcuno sia venuta l'idea di aggiungere una controversia sul perdono a un semplice racconto di guarigione. ll genere letterario del racconto è visto in maniera diversa a seconda che il peso maggiore sia attribuito al dibattito con gli scribi oppure alla guari­ gione. Nel primo caso, si tratterà di una controversia; e nel secondo, di un miracolo-legittimazione (begrii ndende Nonnenwunder, secondo Theissen, Wundergeschichten, 1 l 4). In base all'acuta osservazione di Léon-Dufour. Miracles, 3 1 2, in questo miracolo-legittimazione «non ci sono due azioni, una delle quali sarebbe subordinata all'altra; c'è un'unica azione su due registri diversi: è la Parola di Gesù che rimette i peccati e nello stesso tempo dona la vita». l

La particella miÀlv si trova solo otto volte a inizio di frase, sulle ventinove ricorrenze che ha in Marco. In sei casi su otto funziona da congiunzione. Nei casi in cui, come qui, si trova davanti o dopo un verbo, ha inwce una portata awerbiale (G.D. K.ilpatrick [in Elliott, Language], 1 68). 2

La stessa espressione ÀaXÉw TÒV Myov la ritroveremo in 4,33 e in 8,32 per caratterizzare due modi di insegnamento di Gesù, in parabole oppure apertamente come nell'annuncio della passione. Questa sembra essere

1 29

Man:o 2,1-13

anche un'espressione tecnica per designare la predicazione missionaria nel cristianesimo primitivo (At 4,29.3 1 ; 8,25; 1 1 , 1 9; 1 3 ,46; 1 4,25; 1 6.6.32; Fil l , l4; Eh 1 3,7). 3

Marco non ha specificato l'identità dei quattro portatori del paralitico. Sulla base della menzione del titolo di Figlio dell'uomo al v. 1 0, Hanhart, 1 005, ritiene probabile che rappresentino i quattro imperi di Dn 7, ma tale ipotesi sembra gratuita. Klauck, 244, pensa che la comunità cristiana primitiva si riconoscesse nei quattro portatori. n loro gesto la invitava a non trattare i suoi malati come dei peccatori e ad aver cura di loro. Tale solidarietà era particolarmente importante dato il funzionamento sociale dell'antichità. 4

Gli scavi archeologici hanno permesso di constatare che a Cafarnao si trattava di un tipo di casa limitata al piano terra nella misura in cui i muri di pietra a secco e di fango non potevano sopportare il peso di un piano. D'altra parte gli scavi non hanno permesso di identificare traccia alcuna di eventuali tegole. Perciò pare probabile che «il tetto fosse fatto di un misto di fango e paglia sostenuto da traverse di legno. Era relativamente facile togliere lo strato di fango e fare un buco attraverso il telaio in legno. Per di più, la scoperta di piccole scale a piani intermedi presenti in molti cortili delle case di Cafarnao, permette di immaginare cosa intendesse il testo precisando che salirono sul tetto» (Manns, 1 1 ). 5

Anche se la frase «i tuoi peccati sono perdonati» può essere intesa come un passivo divino, una descrizione dell'azione di Dio (Jeremias, Théologie, 1 8 - 1 9; Légasse*, I. 1 69), probabilmente non è questo il caso nella presente occorrenza. Innanzi tutto un'affermazione del genere avrebbe difficilmente potuto essere intesa come una bestemmia (v. 7). Inoltre, la frase di Gesù manifesta l'autorità che ha il Figlio dell'uomo di rimettere i peccati (v. 1 0). Infine, secondo l'alternativa posta al v. 9, a far problema è appunto il fatto che sia Gesù a rimettere i peccati (Hofius, 1 26- 1 3 1 ). I testi dell'AT più frequentemente citati in favore di un legame fra peccato e malattia (Dt 28,27; Sal 1 07, 1 7- 1 8) o fra perdono e guarigione (Sal 1 03,3; Is 38, 1 6-17) mettono effettivamente in parallelo le due realtà. Anche se non esplicitato, un nesso di causalità viene spesso dedotto dai commentatori. n carattere frammentario della Preghiera di Nabonide (4QOrNab) ne rende difficile l'interpretazione. Invece secondo TBNed 4 1 a «Un malato non si rialza dalla malattia finchè non vengono perdonati i suoi peccati» . La frase di Gesù non può essere capita come se fosse l'affermazione di un nesso causa-effetto tra peccato e malattia. Se fosse cosi, bisognerebbe aspettarsi che il perdono dei peccati precedesse ogni guarigione operata da Gesù. Ora, la guarigione del paralitico è l'unico caso del genere (Hofius, 1 25) e da questo punto di vista, in Marco, essa è atipica. 7

Nella formula Ets ò 6€6s, Marcus*, 222, crede si possa trovare un richiamo «deliberato» allo Shemà (Dt 6,4). La formula rifletterebbe i dibattiti tra ebrei e cristiani, nella misura in cui le affermazioni cristologiche di questi ultimi, secondo gli ebrei, metterebbero in causa l'unicità di Dio affermata dallo Shemà. Il rapporto forse non è cosi diretto, ma in gioco c'è davvero l'attribuzione o meno a Gesù di prerogative divine. 1 30

M81'C!b 2,1...0 8 La

capacità di leggere nei cuori e di comprendere ciò che vi si nasconde è un attributo divino nell'AT ( 1 Sam 1 6,7; 1 Re 8,39; 1 Cr 28,9; Sal 7,10; Ger 1 1 ,20; Si 42, 1 8). Secondo Pesch*, l, 1 59, è una caratteristica del 9etos àvijp qui applicata a Gesù. La formula «nel suo spirito» significa probabilmente «interiormente», per cui qui non pare necessario pensare allo Spirito San­ to. L'espressione caratterizza una conoscenza spirituale che Gesù ha in comune con i profeti di Dio; nell'AT il profeta viene presentato come colui che conosce i cuori (KapùwyvWaTTlS) (Guelich*, 88). 9 La

domanda posta da Gesù «Che cosa è più facile?» deve favorire il discer­ nimento. La serietà e la gravità di questa risultano chiari se ci riferiamo a Dt 1 8,2 1 -22 che propone il compimento della parola pronunciata come criterio per distinguere veri e falsi profeti (Riggans, 1 5). Tanto più che il profeta che pronuncia una parola non comandata da Dio deve morire (Dt 1 8,20). IO

L'anacoluto provocato passando dalla seconda persona plurale alla terza singolare, forse non ci permette di riconoscere nella frase «perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha autorità (per) perdonare i peccati sulla terra» una confidenza che l'autore fa al lettore (contra Boobyer). Qui non trovia­ mo alcuna indicazione chiara in questo senso, diversamente, ad esempio, da Mc 1 3, 1 4. La frase non esce dalla cornice del racconto, ed è rivolta agli scribi. C'è semplicemente un cambiamento di livello narrativo (Tolbert, Sowing, 1 36, n. 1 8). 12

In questo versetto e nel j:n"ecedente, l'uso del verbo lydpw potrebbe essere, come in 1 ,3 1 , un annuncio discreto della resurrezione. Il fatto che possa trattarsi di un passivo divino è ancora rafforzato dalla costatazione che la folla rende gloria non a Gesù, ma a Dio (Marcus*, 223-224). Le formule di Marco, tuttavia, lasciano aleggiare una certa ambiguità. E la lode a Dio può anche ricollegarsi al riconoscimento di Gesù come suo inviato escato­ logico (Gnilka*, l, 1 02).

Excursus: il Figlio dell'uomo BI BLIOG RAFIA

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Sconosciuto nel greco profano, il titolo « Figlio dell'uomo• (in aramaico bar- 'erulS) è usato 82 volte nei vangeli (Mc 14, Mt 30, Le 25, Gv 1 3), dove viene sempre posto sulle labbra di Gesù (eccetto

131

Mareò 2,1-13

in Gv 1 2,34). Il titolo appare in tutte le correnti della tradizione evangelica: Mc 14, Q 1 0, Mt solo 7, Le solo 7, Gv 1 3 . E al di fuori della tradizione evangelica, si trova solo tre volte nel NT (At 7 ,56; Ap 1 , 1 3; 1 4, 1 4; vedi anche Eh 2,6). Nei vangeli questo titolo non viene mai spiegato, come se fosse del tutto evidente. !.:origine dell'espressione tuttavia oggi ci appare oscura. Nell'AT la formula «figlio dell'uomo» viene utilizzata in senso generico per designare l'uomo. !.:equivalenza tra le due cose è evidente nel Sal 8,5: «Cos'è l'uomo perché tu te ne ricordi, o un figlio d'uomo, che tu lo visiti?». E il profeta Ezechiele viene interpellato 94 volte con la formula «figlio d'uomo» al vocativo, il che evidenzia la sua solida­ rietà con gli uomini stessi ai quali è inviato. Ma la formula sembra acquistare un significato nuovo con il libro di Daniele che, nel II secolo a.C. la fa passare da un uso generico a un senso apocalitti­ co. In opposizione alle quattro bestie del mare che simbolizzano altrettanti regni che stanno per perdere il loro potere, sorge «con le nubi del cielo, come un figlio d'uomo», che riceve un potere eter­ no, donato però anche ai > , BN 4 1 , 1 988, 4 1 -64. - P. BENOIT, «Les épis arrachés (Mt 1 2 , 1 -8 et par.)», SBFLA 1 3 , 1 962- 1 963, 76-92 (ripreso in ID., Exégèse et théologie [CFi 30], III, Paris 1 968, 228-242). - M. CASEY, rétations évangéliques», in L. DESROUSSEAUX, J. VERMEYLEN (ed.), Figures de David à travers la Bible (LeDiv 1 77), Paris 1 999, 397-4 1 2, alle pp. 399-401 . - J.H. VAN HALSEMA, « Are n Plukken op de sabbat (Mc. 2:23-28) », Kerk en Theologie 42, 1 99 1 , 2 1 0-2 1 7 . - T. VEERKAMP, «Schabbath. Eine Auslegung von Markus 2 ,23-26 » , TeKo 18, 1 995, 53-67. I NTER P R ETAZIONE

La penultima controversia si ricollega alla precedente per il fatto che in entrambe Gesù difende i suoi discepoli. E si ricollega alla seguente attraverso il tema comune del sabato. La transizione con quanto precede rimane comunque brusca e formulata in maniera vaga («e accadde»). Il lettore ritrova Gesù e i suoi discepoli in un campo di grano senza esserne stato preparato. È vero che c'è un'in­ dicazione cronologica, che però non colloca la scena nell'ordine del tempo. Ha lo scopo semmai di qualificare il tempo in funzione di criteri socio-religiosi: la scena si svolge in giorno di sabato. Il che è importante, perché a differenza delle due controversie precedenti, il rimprovero non riguarda più la mancata osservanza di tradizioni farisaiche sulla commensalità o sulla pratica del digiuno. Stavolta, i discepoli vengono accusati di violare la legge del sabato, una legge scritta (Es 20, 1 0). I.:episodio si suddivide in tre momenti narrativi: l'azione dei disce­ poli e la domanda che suscita nei farisei (vv. 23-24), una prima ri­ sposta di Gesù in forma di giustificazione scritturistica (vv. 25-26), e una seconda risposta che evoca l'obiettivo principale del sabato e la signoria del Figlio dell'uomo (vv. 27-28). I.:azione dei discepoli a prima vista sembra del tutto banale, moti­ vata com'è probabilmente dal bisogno di mangiare, cosa che Mar­ co non precisa, a differenza di Mt 1 2 , 1 e Le 6, 1 . Strappare spighe all'epoca del raccolto, del resto, era implicitamente permesso dalla legge, a condizione di farlo a mano, senza falce (Dt 23,26), e i rac­ coglitori venivano perfino invitati a ]asciarne una parte per i poveri (Lv 1 9,9; 23,22; Rut 2, 1 5- 1 6). Ma agli occhi dei farisei tale pratica era proibita in giorno di sabato (2,24). Eppure non veniva ripresa nell'elenco rabbinico dei trentanove lavori vietati in giorno di saba­ to. La spiegazione più probabile è che questa lista, fissata in epoca posteriore alla redazione di Marco, abbia operato una cernita fra vari elenchi possibili. È probabile che strappare spighe sia stato assimilato da determinati gruppi di farisei all'atto della raccolta, la cui pratica era proibita dall'AT in giorno di sabato (Es 34,2 1 ) (Gourgues, 1 98). D'altra parte, per Filone, non soltanto tagliare rami e foglie, ma anche raccogliere frutti era un' attività vietata di sabato (Mos. 11,22; vedi inoltre TgY Chab VII,9b). Giunti stranamente in mezzo al campo proprio al momento giusto (si vedano le Note), i farisei intervengono per lanciare la contro­ versia. Alla loro obiezione danno una formulazione giuridica in termini di ciò che è permesso, e quindi di ciò che è proibito. Come 145

Muco 2,23-28

in precedenza (2, 1 9), anche qui Gesù risponde con tirià contrada­ manda che rimane essa stessa sul piano giuridico: si appoggia sulle Scritture per ricordare l'atteggiamento di Davide nel santuario di Nob (l Sam 2 1 ,2-9), un atteggiamento che non fu mai criticato, benché stesse compiendo un atto illecito. L'azione dei discepoli vie­ ne paragonata a quella di Davide. Anche se inespressa, la conclu­ sione pare evidente: perché scusate Davide mentre invece accusate i miei discepoli (Gourgues, 200)? Se Davide ha potuto trasgredire un precetto della legge a proprio vantaggio e a vantaggio dei suoi compagni, a maggior ragione Gesù può farlo per i suoi discepoli. n punto focale del paragone è sottinteso, e sta nel parallelismo tra l'autorità di Davide e quella di Gesù. n dibattito verrà ripreso anche più avanti ( 1 1 ,28; 1 2,35-37). Anche se Gesù si è preso delle libertà notevoli rispetto alla storia di Davide com'è raccontata in l Sam 2 1 (si vedano le Note), la perti­ nenza del paragone è reale. Ed è ancora più forte se si tiene conto dell'autorità profetica attribuita a Davide rispetto alla legge e alla sua interpretazione sia nella Bibbia ( l Sam 30,2 1 -25) che nelle an­ tiche tradizioni giudaiche ( l l QPsa XXVII,2-1 1 ; Tg 2 S 23, 1-7) (Rou­ re, Jesus, 33- 1 1 9). È sottinteso che «Gesù pone un gesto profetico paragonabile a quello di Davide. Non agisce come autore di una nuova legge, ma, se mai, come profeta, come interprete escatolo­ gico della legge di Mosè» (Roure, «Figure», 40 1 ) . Se Davide poteva interpretare la legge che riguardava i pani di ablazione, a maggior ragione il Figlio dell'uomo può interpretare quella del sabato, visto che ne è il «Signore» (kurios). Il v. 27 non costituisce di per sé una contestazione radicale della Legge (contra Gils, 5 1 6 e 522). L'affermazione «il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato» va collocata sullo sfon­ do delle discussioni sul senso del sabato già presenti nell'AT. Es 23, 1 2 , ad esempio (vedi anche Dt 5 , 1 4), comprende il sabato come orientato al benessere che risulta dal riposo accordato agli animali domestici, allo schiavo e allo straniero (Bartelmus, 44-48). Gesù, da parte sua, richiama allo spirito della legge, alla sua intenzione fondamentale. L'espressione «è stato fatto» potrebbe alludere alla creazione (vedi nelle Note), e al fatto che il sabato f13 la maggior parte dei minuscoli it vg syr). In aramaico, il primo corri­ sponde all'imperativo maschile che può essere usato in senso generale, senza riferimento al genere, mentre il secondo translittera l'imperativo femminile. La lettura Ta�t6a (senza KOIIf.L) poco attestata è una corruzione che proviene dall'assimilazione a At 9,40 (Metzger, Commentary, 87). Alla base della strana lettura pa��� 6a�tTa (D), Wellhausen*, 4 1 -42, suppone la trascrizione sbagliata di una formula originale pa�t6a, pa�t6a, che significa «ragazzina, ragazzina» in aramaico (ipotesi contestata da Wilcox, 47 1 -472). h) Nei mss, forte è l'attestazione sia della presenza che dell'assenza di Eùeils (Guelich*, 29 1 ). Dei copisti potrebbero averlo aggiunto sulla base della sua presenza nella frase precedente. Ma il carattere inappropriato del termine e la frequenza di esso in Marco invitano a considerarlo originale.

B I BLIOGRAFIA J. DELORME, «Iésus et l'hémoiTOJsse ou le choc de la rencontre (Mc 5,2534)•, SémBib 44, 1 986, 1 - 1 7. - J. DELORME, Au risque de la parole. Lire [es évangiles, Paris 199 1 , 57-89, 2 1 5-224. - J. DEWEY, «Jesus' Healing of Wom­ en: Conformity and Non-Conformity to Dominant Cultura! Values as Clues for Historical Reconstruction», BTB 24, 1 994, 1 22 - 1 3 1 . - C. FONROBERT, «The Woman with a Blood-Fiow (Mark 5.24-34) Revisited: Menstrual Laws and Jewish Culture in Christian Feminist Hermeneutics•, in C.A. EvANs, J.A. SANDERS (ed.), Early Christian lnterpretation ofthe Scriptures of lsrael: lnvestigations and Proposals (JSNT.S 1 48), Sheffield 1 99 7, 1 2 1 - 140. - M. GouRGUES, « Deux miracles, deux démarches de foi (Mc 5,2 1 -43 par.)», in À cause de l'évangile (Studi in onore di J. Dupont) (LeDiv 123), Paris 1 985, 229-249. - C.W. HEDRlCK, «Miracle Stories as Literary Compositions: The Case of Jairus' Daughter», PRSt 20, 1 993, 2 1 7-233 . - G. JACKSON, «> (vedi anche At 1 9, 12) al punto che bastano «a comunicare la forza naturale posseduta dal taumaturgo» (Lé­ gasse*, l, 34 1 ). Colpita nel suo corpo, alla fonte della vita, esclusa da ogni contatto per via dell'impurità contratta, in ogni modo, la donna, paradossalmente non vede altra salvezza che attraverso un contatto. Ai suoi occhi, il contatto con Gesù può ancora salvarla ed ella ne corre il rischio. n suo gesto ha successo, visto che il flusso di sangue si ferma immediatamente E se ne accorge fisicamente, col proprio corpo (v. 29). Ma la guarigione segreta non si conclude con questa constatazio­ ne. Simultaneamente («e subito»), infatti, Gesù ha coscienza della .

232

Marco 5,21-43

potenza uscita da lui. Tale intima coscienza (>, RTL 8, 1 977, 1 5 -29. - R. FELDMEIER, «Die Syrophonizierin (Mk 7,24-30) - Jesu "verlorenes" Streitgesprach? », in R. FELDMEIER, U. HECKEL (ed.), Die Heiden: Juden, Christen und das Problem des Fremden (WUNT 70), Ttibingen 1 994, 2 1 1 -227. - C. FocANT, . Introdotto in puro stile marciano (si vedano le Note), l'insegnamen­ to ai discepoli riguarda la necessità della passione e della resurre­ zione di Gesù (8,3 1 ). Si tratta perciò non tanto di un semplice an­ nuncio, come in 9,3 1 e 10,32-34, quanto di una dichiarazione che insiste sulla necessità (. Tale rigetto sarà opera del Sinedrio, di cui l'evangelista, per la prima volta, enumera le tre componenti: gli «anziani» che rappresentano al suo interno l'aristocrazia «laica», i «sommi sacerdoti», membri di quattro fa­ miglie dalle quali venivano scelti i sommi sacerdoti, gli «scribi» o dottori della legge, generalmente appartenenti alla corrente farisai­ ca (DEB, l 1 77-1 178). Anche se l'ordine varia, questi tre gruppi sono menzionati di nuovo insieme in 1 1 ,27; 14,43 .53; 1 5, 1 , il che iscrive nella durata del racconto il ruolo primordiale svolto dal sinedrio nella passione. Il termine dell'azione del sinedrio sarà la morte di Gesù, che deve «essere ucciso» , in linea con il complotto già an­ nunciato in 3,6 in conformità con la volontà del sinedrio in 1 4,55 (vedi anche 14, 1 ). Non sarà però l'ultima parola, dal momento che il Figlio dell'uomo deve «risuscitare dopo tre giorni». Probabilmen­ te ispirata a Os 6, 1-2 (si vedano le Note), questa scadenza nel NT è propria a Marco, ed è una metafora che sta a indicare un breve lasso di tempo: la morte non lo tratterrà a lungo in suo potere. Anche se non c'è mai un'identificazione esplicita tra lui medesimo e il Figlio dell'uomo pronunciata da Gesù stesso, per i discepoli la cosa va da sé fin dalla prima menzione del titolo da parte di Gesù. Dopo aver perdonato i peccati al paralitico (2,5), Gesù dice infatti: «Ora, affinché voi sappiate che il Figlio dell'uomo ha autorità (per) perdonare i peccati sulla terra, - disse al paralitico: - Io te (lo) dico, alzati, prendi la tua barella e vattene nella tua casa» (vv. l 0- 1 1 ). I.:identificazione non richiede una particolare sagacia da parte del lettore; del resto non compare unicamente nei commenti del narra­ tore (contra Aichele, 266-267), ma anche nelle parole di Gesù stesso (vedi inoltre 14,4 1 -42: «Ecco, il Figlio dell'uomo è consegnato ... ecco che si avvicina colui che mi consegna»). La dichiarazione di Gesù è seguita da un'osservazione del narrato­ re che specifica il modo in cui vengono dette queste parole (v. 32). Vorrà così semplicemente sottolineare la chiarezza del primo an­ nuncio della passione in preparazione al rifiuto istantaneo di Pietro nei confronti di una simile prospettiva? Il significato è più ampio, se ci si attiene alla traduzione letterale, evitando di introdurre un dimostrativo inesistente come invece fanno la maggior parte delle traduzioni («questo linguaggio» [TOB], «queste cose» [BJ], «questa parola» [Boismard, Synopse], «questo discorso» [CEI]); e se tien conto degli altri due passi del vangelo in cui compare la stessa espressione: «e diceva loro la parola » (2,2), «con numerose parabole di questo genere diceva loro la parola » (4,33) (si vedano le Note). Il primo (2,2) evoca una proclamazione della parola senza precisame il contenuto, come è d'uso nella prima parte del vange348

Marco 8,3 t -33

lo, mentre il secondo (4,33) ne indica anche la modalità: si tratta di un insegnamento in parabole, la proclamazione di una parola che resta enigmatica, velata per quelli di fuori (4, 10-1 3). In que­ sta prospettiva la dichiarazione di 8,3 1 costituisce una svolta nel vangelo, dato che per la prima volta propone un insegnamento il cui contenuto viene effettivamente espresso, ed è l'annuncio della passione. E il v. 32 parla di questo insegnamento come di una pro­ clamazione deJla parola, precisando che viene donata in maniera chiara, franca, «apertamente» (parresiai). Questi tre brani «Servono il progetto teologico di Marco che consiste nel rivelare Cristo nella sua missione più autentica che non è né la guarigione miracolosa, né l'esorcismo (si vedano le consegne di silenzio in 1 ,34; 1 ,44 ... ), ma è di manifestare la sua signoria nell'evento della croce» (Cuvil­ lier, 428). Ciò non significa che quanto diventa chiaro sia pure accettato. Al contrario, la parola annunciata apertamente è un luogo di scan­ dalo, come mostra la reazione immediata e violenta di Pietro che si mette a rimproverare Gesù (8,32). Per fare questo, lo prende a parte. Il narratore suggerisce cosl che Pietro interviene qui a titolo personale e non più in quanto rappresentante del gruppo, come al v. 29. Anche se ciò che dice non viene precisato, il verbo «rimpro­ verare» (epitimdo) non lascia nessuna ambiguità riguardo all'orien­ tamento generale del suo intervento dal momento che questo verbo in precedenza è stato usato soltanto per parlare dell'atteggiamento di Gesù che intima il silenzio agli spiriti impuri ( 1 ,25; 3 , 1 2) , al vento tempestoso (4,39) o anche ai discepoli (8,30). Pietro vuoi far tacere Gesù. Dello stesso tipo è la reazione di Gesù come indicato dall'uso dello stesso verbo, ma il suo rimprovero è pubblico, visto che, prima di formularlo, si volta verso i discepoli. Anche se l'espres­ sione «dietro di me» è spesso usata per esprimere la condizione di discepolo ( l , l 7; 8,34), il vocativo , ma per se stesso. Parla da soggetto persona­ le, ma diviso: «Credo; vieni in aiuto alla mia incredulità» (v. 24). Quest'uomo diviso, in un unico respiro, dice finalmente in verità la 376

Marco 9, 14-29

sua fede e la sua assenza di fede, e implora aiuto. In questa reazio­ ne si legge «Un movimento attraverso cui un soggetto, che non può in nulla appoggiarsi su se stesso, si apre in direzione di un altro. [ ... ] Tocca quel fondo d'incapacità a partire dal quale può nascere solo un credente lui stesso deficitario, che non può appoggiarsi su niente, neppure sulla propria fede» (Delorme, «Signification», 539). Non solo Dio non viene nominato, ma Gesù non è neppure presen­ tato come un suo sostituto. Tutto nel racconto «prepara una sorta di vuoto, in direzione di un terzo assente» (Ibid. , 540). Tuttavia, supplicando Gesù di venire in aiuto della sua incredulità, il padre mostra di considerarlo in grado di aiutarlo a credere. Terminato questo dialogo, vedendo la folla ammassata, Gesù si ri­ volge allo spirito (v. 25). Non che voglia evitare la folla (contra van Iersel*, 304). Il narratore, semmai, vuole far capire che la scena è pubblica, come accade di solito per gli esorcismi. Gesù rimprovera lo spirito e lo apostrofa in una maniera che ne precisa il mutismo aggiungendovi anche la sordità. Rispetto agli esorcismi precedenti, la parola di Gesù è particolarmente sviluppata. È un comando so­ lenne («io ti ordino») che gli ordina non solo di uscire dal ragazzo, ma di non ritomarvi più. Lazione deve essere irreversibile. Il suo effetto è immediato e risolutivo, ma non privo di fatica, visto che l'espulsione è accompagnata dalle grida dello spirito che scuote con violenza il ragazzo. Egli diventa poi «come morto». Questa precisazione del narratore è subito ripresa dalla folla (v. 26). La folla non esprime nessuna lode di fronte al successo dell'esorcismo, a differenza di quanto accadeva in l ,28. E sbaglia nell'interpretare ciò che vede, affermando che il ragazzo è morto. Nella differenza tra la proposta del narratore e quella della folla, si inserisce un implicito richiamo alla sagacia del lettore. Gesù prende subito per mano il ragazzo e lo risveglia (v. 27). Questo passaggio attraverso la morte apparente e l'atto di rialzarsi appare come una nuova nascita alla vita. La postura eretta è segno di un avvenire ormai aperto da­ vanti a lui. Il racconto termina su questa nota, senza che si sappia se il ragazzo parla o meno e senza reazione ammirativa da parte dei testimoni. Tutto avviene come se non fosse questo l'essenziale. E, di fatto, un nuovo e ultimo sviluppo riporta l'attenzione del lettore sui discepoli lasciati al v. 1 8. Il narratore insiste sul fatto che la scena si svolge «in una casa, in disparte» (v. 28), fuori quin­ di dalla scena pubblica. Accusati d'incapacità da parte del padre del bambino posseduto (v. 1 8), i discepoli interrogano Gesù sulle cause per cui non sono riusciti a praticare un esorcismo che Gesù ha realizzato con successo. Alla fine il racconto torna perciò sulla questione del potere o della competenza. A prima vista la risposta di Gesù pare poco coerente col resto del racconto, nella misura in cui egli stesso non ha pregato, avendo poi affermato che «tutto è possibile a colui che crede>> (v. 23), non a colui che prega. Stupisce perciò sentirlo precisare: «Questa specie non può uscire con nulla se non con la preghiera» (v. 29). Tanto più che, come prima per la fede, il destinatario della preghiera non viene esplicitato. Al padre 377

Marco 9,14-29

sconvolto veniva chiesto un atto di fede; ai discepoli sollecitati come agenti di una cura, serviva la preghiera. A rivelarsi necessari sono quindi due decentramenti verso un Altro. In questo racconto, di fronte a un ragazzo disumanizzato « l'uo­ mo ridotto alla "generazione senza fede" è del tutto sprovveduto, e cerca invano un potere esterno. Per colui che, come il padre, è vittima del male, la cura passa attraverso la parola vera che lo fa uscire da sé e lo apre attraverso il credere. Per coloro che, come i discepoli, intraprendono la lotta contro il male, non c'è altro potere che la preghiera (pros-euché). Essa è contemporaneamente espres­ sione di un voto, di un desiderio (euchomai) e espressione rivolta a qualcuno (pros-euchomai). Nella preghiera come pure nel credere, la questione del potere viene sovvertita. Il potere non risiede né fuori di sé, né in una qualche capacità di sé. Nell'impotenza e nello scontrarsi col limite e con l'impossibile, appellarsi all'Altro dal più profondo di sé diventa potenza» (Delorme, «Signification>>, 546). D racconto ha messo in scena due trasformazioni, quella del ragazzo e quella del padre. Questa storia di esorcismo è anche la storia del costituirsi di un soggetto credente che entra in una relazione di fiducia. E, per i discepoli, è il richiamo a una conversione nello stesso senso, a partire dalla loro situazione particolare di collabo­ ratori del ministero di Gesù. La loro formazione continuerà con il secondo annuncio della passione, seguito da insegnamenti su vari aspetti di questa loro collaborazione. NOTE 14-29

I numerosi doppioni o le tensioni (Achtemeier, 476) sono spesso considera­ ti l'indizio di una composizione complessa, con ritocchi operati in diverse tappe. Le ricostruzioni proposte variano notevolmente nei dettagli, ma possono essere raggruppate in due grandi ipotesi. Per alcuni si sarebbero fusi assieme due racconti inizialmente distinti: o una storia incentrata sul fallimento dei discepoli (vv 14-20), seguita da un'altra incentrata sulla fede incredula di un padre (vv 2 1 -27) (Bultmann, Tradition, 26 1 -262); oppure due racconti minimali di miracoli, uno dei quali doveva menzionare il fallimento dei discepoli (Achtemeier). Boismard, Synopse, Il, 258, crede di poter precisare che doveva trattarsi di un esorcismo e della guarigione di un epilettico. Per altri, un racconto di base sarebbe stato ampliato o da Marco, o da un redattore premarciano. La sua ricostruzione varia. Potreb­ be trattarsi, ad esempio, dei vv 20-27 (K.ertelge, Wunder 1 74-1 77), dei vv. 1 7-l9a. 1 9d-20.25-27 (Petzke), dei vv 1 7-20.25 (Sterling, 484 e 488-489) o ancora dei vv. 17-18.20b-22.25-27 (Runacher, 1 1 3). Alcuni difendono tut­ tavia l'unità della composizione. Così Schmithals*, II, 408-409 sottolinea l'arte della composizione e difende l'unità originaria di un racconto già ben costruito prima di Marco, eccetto per i vv. 28-29 già da Bultmann, Tradition, considerati 26 1 , come un'addizione redazionale aggiunta alla fine di un racconto amputato della reazione entusiasta dei testimoni. E se­ condo Lang, 322-328, l'aspetto unificato della composizione è ben visibile .

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378

Man:o 9,14-29

a condizione di osservare come essa sia incentrata non tanto sul tauniatui-­ go e sul suo potere, quanto sulla fede e sulla preghiera dei beneficiari del miracolo, e inoltre sulla capacità che ha la comunità cristiana di scacciare gli spiriti impuri di questo genere. 16

Con la sua imprecisione la moltiplicazione degli airro6s dei vv. 14-16 può provocare diverse interpretazioni. In questo versetto, secondo Légasse*, Il, 547, n. 14, il primo ai.tToils ad sensum indica la folla, e il secondo i di­ scepoli. È molto più verosimile supporre che il primo sia un sostituto per i discepoli e che il secondo si riferisca agli scribi (Evans*, SO). 18 D verbo P'llaaw non va compreso come l'equivalente di ln'rYVUJ.LL («straccia­ re», 2,22), ma come una variante di p>, Bibliotheca Sacra 1 57, 2000, 1 5-25. - A. STRus, « Mc 9,33-37. Problema dell'autenticità e dell'interpretazione», RivBib 20, 1 972, 5896 1 9. - U.C. voN WAHLDE, « Mark 9,33-50: Discipleship: The Authority That Serves», BZ 29, 1985, 49-67. .

I NTERPR ETAZIONE

Questo episodio deve essere messo in prospettiva. Giunge imme­ diatamente dopo il secondo annuncio della passione. In quel conte­ sto, la domanda che preoccupa i discepoli appare sorprendente per non dire fuori luogo. Dal punto di vista strutturale, due sentenze di Gesù (vv. 3Sb e 37) sono introdotte ognuna da una breve messa in scena (vv. 33-3Sa e 36). All'inizio della pericope, la situazione spaziale è molto dettagliata, con tre indicazioni (v. 33). Innanzi tutto Gesù e i suoi discepoli arrivano a Cafarnao, città di cui non si è più parlato dopo averla 383

Mlln:o 9,33-37

menzionata in l ,2 1 e 2, l . È un ultimo· ritorno in un luogo che è stato importante all'inizio del ministero in Galilea. Si segnala poi che i discepoli sono in casa. Il motivo dell'insegnamento ai disce­ poli in una casa è ben noto al secondo vangelo (7, 1 7; 9,28). Ma in entrambi i casi citati, a essere utilizzato per indicare la casa è il termine oikos senza l'articolo, mentre in 9,33, troviamo il termine oikia preceduto dall'articolo, che riprende l'espressione già usata in l ,29 per la casa di Simone e Andrea a Cafarnao (si vedano le Note su 1 ,2 1 .29; 2,4). È probabile quindi che si tratti della stessa casa anche in 9,33. Infine, la domanda di Gesù riguarda ciò di cui i discepoli discutevano «in cammino», una precisazione ripresa in termini espletivi al v. 34. Insistono su un motivo importante di questa sezione del vangelo: il gruppo è in cammino verso Gerusa­ lemme, per qualcosa che assomiglia a una via crucis. Siccome i discepoli non osavano interrogare Gesù dopo l'annuncio della passione (9,32), il lettore si aspetterebbe che, in cammino, discutano di ciò che allora avevano ignorato. Di qui il suo interesse per la domanda posta da Gesù, che però è seguita da un silenzio imbarazzato. Il fatto è che l'argomento della discussione era ben altro. Le loro preoccupazioni sono addirittura agli antipodi rispet­ to a quelle di Gesù, visto che si preoccupano di sapere chi sia il più grande (v. 34). Si credono evidentemente su di un cammino di preminenza. C'è una vera e propria ironia narrativa nel riferire una discussione del genere subito dopo due annunci della passione (Evans*, 6 1 ). La posizione seduta adottata da Gesù (v. 35) è quella del maestro nel suo ruolo di insegnamento. Quanto alla convocazione dei dodi­ ci, pare davvero strana, dal momento che i discepoli sono già riuni­ ti in casa con Gesù. Vuole forse isolare i dodici rispetto al più vasto gruppo dei discepoli presenti nello stesso luogo (Légasse*, Il, 567)? Oppure l'accenno serve solo a sottolineare l'autorità del maestro (Evans*, 6 1 )? Un chiarimento sulla portata di tale convocazione ci viene forse dal confronto con 1 0,4 1-44, dove viene di nuovo rivolto ai dodici un insegnamento sullo stesso tema. È come se il narratore destinasse in maniera particolare agli uomini strettamente associa­ ti alla missione di Gesù (3 , 1 4- 1 9; 6,7) gli insegnamenti sulla vera grandezza, che consiste nel servizio. D'altro canto è interessante notare che gli insegnamenti forniti da Gesù in vista di correggere l'interpretazione sbagliata dei di­ scepoli dopo ogni annuncio della passione, cominciano tutti in modo molto simile: « Se qualcuno vuole venire ... » (8,34; 9,35) e « Colui che vuole . . . » ( 1 0,43) (Neirynck, 59). I.:aspetto volontario dell'opzione proposta ai discepoli non poteva essere messo mag­ giormente in luce. Se qualcuno vuole essere il primo, si intende nell'ordine del regno di Dio e della missione a suo servizio, « sarà l'ultimo di tutti e il servo di tutti» . Questo rovesciamento parados­ sale (vedi Interpretazione, p. 360-3 6 1 ) delle comuni aspirazioni sociali per occupare il rango più alto possibile (si vedano le Note) è sempre collegato con l'annuncio della assione e con il destino 384

Marco 9,33-37

del Figlio dell'uomo il che sarà ancòra più esplicito in 1 0,42-45 . La parola «servitore» (diakonos) riguarda innanzi tutto il servizio a tavola, ma in senso più ampio ogni servizio reso ad altri o a una comunità. Gesù s'interrompe poi per compiere un gesto simbolico, tina specie di parabola in atto. Ponendo in mezzo a loro un bambino (v. 36), mette i suoi ambiziosi discepoli faccia a faccia con un soggetto concreto, manifestando tutta l'importanza che gli accorda con il prenderlo in braccio. In rapporto a lui relativizzerà così le loro ambizioni, con una frase (v. 37) per la quale sono state proposte due possibili interpretazioni. Potrebbe esser qui evidenziato il mo­ do in cui i discepoli accettano di essere ricevuti; con umiltà come dei bambini, senza cercare posti d'onore (Fleddermann, 63). Il che corrisponderebbe al proverbio ebraico secondo cui accogliere un inviato equivale ad accogliere colui che lo invia: «L'inviato di qualcuno è come lui stesso» (Mekhilta su Es 1 2,3 [4b]) (Bill . 1,590; 11,558). Ma in questo caso, si tratta probabilmente dell'accoglienza che i discepoli devono riservare ai bambini, in situazione di neces­ sità (Pesch*, Il, 1 06, che evoca TBMeg. 1 3a) e che rappresentano le persone insignificanti della comunità (Gnilka*, Il, 57; Santos, 2 1 -22). Questa interpretazione si accorda meglio con il contesto in cui Gesù sta raccomandando ai discepoli azioni di diverso tipo. In questo caso, si tratta di praticare l'accoglienza «nel mio nome», cioè in onore di Gesù (Lagrange* , 246). E la ricompensa per colui che agisce in questa maniera, è di ricevere così non solo Gesù in persona, ma anche il Padre che lo ha mandato. «Ricevendo il meno importante, il discepolo riceve il più importante» (von Wahlde, 55). Questo modo di vedere rovescia la gerarchia dei valori comuni e condivisi, seppur solo parzialmente, con la sapienza rabbinica (si vedano le Note). È il richiamo al servizio a fare l'unità di questa pericope. Per re­ alizzare la loro ambizione a essere i primi, i discepoli si trovano paradossalmente convocati all'ultimo posto nel ruolo di servi (vv. 33-35) e sono chiamati a servire anche la persona più insignificante nella società (vv. 36-37). L'istruzione successiva chiederà loro an­ che la tolleranza nei confronti di quanti non fanno parte del loro gruppo. NOTE 33-37 Abbiamo qui la prima unità di un insieme d'istruzioni ai discepoli nella casa di Cafamao (9,33-50), chiamato spesso il discorso comunitario del secondo vangelo (Strus, 589). Probabilmente sono state raggruppate artificialmente con l'aiuto di un sistema di parole gancio: «nel nome di» (9,37.38. 39.4 1 ), «scandalizzare» (9,42.43.45.47), « fuoco •• (9,43 .48.49), «sale» (9,49.50) (Fleddermann, 57; contra Gundry*, 507-508). La loro va­ rietà come pure alcuni raccordi maldestri non permettono di discernere un'unità tematica né di vedere nell'insieme una piccola catechesi comuni-

385

Marco 9,33-37

taria premarciana {Cnilka*, n: 67; contra Bultinarin, 11-aditìon , t9t), anche se la preoccupazione catechetica delle varie unità è abbastanza evidente (McDonald). In genere si ammette che i w. 33-50 provengano da tradi­ zioni diverse e che la responsabilità di Marco si limiti ad averle raccolte e sistemate fornendo loro una cornice per inserirle nella narrazione. Fled­ dermann è piuttosto isolato nel suo tentativo di maggiorare l'importanza della redazione e della composizione marciana. Le due frasi di Gesù (w. 35b e 37) non vanno insieme, anche se Black, Ara­ maic, 22 1 , propone di individuare la parola gancio aramaica alyii' dietro le parole greche 8LdKovos e traL8(ov, ipotesi filologicamente discutibile (Fied­ dermann, 64, n. 65). La prima sentenza si adatta bene al comportamento di discepoli, ma la seconda riguarda piuttosto un altro tema, la sollecitu­ dine nei confronti del debole e l'accoglienza da riservargli. Probabilmente Marco ha collegato frasi tradizionali provenienti da diversi contesti. D fat­ to che il v. 35a si inserisca a fatica nella cornice narrativa attuale potrebbe essere un indizio del suo carattere premarciano (Taylor*, 404; contra von Wahlde, 53). In senso contrario Fleddermann, 58-64, tenta di mostrare che tutto il testo è composto da Marco a partire da materiali che usa anche altrove, in particolare in 1 0,3 5-45 (per 9,33-35) e 10, 1 3- 1 6 (per 9,36-37), ma anche a partire da Q 1 0, 1 6 - il che pare molto improbabile. 34

Questioni di rango e di precedenza probabilmente sono presenti in tutte le culture. In ogni caso esistono nella cultura palestinese dell'epoca. Notevole importanza rivestono a Qumran (lQS 11,20-23; V,20-24; VI,3-5 .8- 1 0; 1 QSa 11, 1 1 -22). Le ritroviamo anche nella letteratura rabbinica, ad esempio in Lev. Rab. I,5 (su Lv 1 , 1 ) e ARN A,25 (Evans*, 6 1 ). 35 In precedenza nel vangelo il termine TTpWTOS è stato utilizzato solo in 6,2 1 ,

pe r indicare i membri dell'alta società galilaica invitati al banchetto di compleanno di Erode. In Le 1 9,47 è usato per i capi dei popoli, e in At 25,2 e 28, 1 7 per i notabili ebrei. Lo stesso uso del termine lo si trova in Giuseppe Flavio (AJ XI, 1 40- 1 4 1 ; XVIII.63-64. 1 2 1 ). Per antitesi, essere ultimo e servo significa «esser uno che non ha rango, né autorità né privilegi - una situazione generalmente non auspicabile per gli uomini• (Evans*, 6 1 ). 37

Di chi parla la formula «uno di questi bambini» (�v Twv Tmoirrwv traLBtwv)? È difficile immaginare che si tratti semplicemente di bambini di cui ver­ rebbe cosi valorizzata l'innocenza. Sono il simbolo di tutti gli indigenti che vanno accolti (Lohmeyer*, 1 93- 1 94; Grundmann*, 1 97), o dei più semplici nella comunità (Lagrange*, 246)? In base al seguito del versetto che suona come una consegna missionaria (similmente a Mt 1 0,40; Le 1 0 , 1 6; Gv 1 2,44-45; 1 3,20; 1 5,23), il termine nm8lov («bambino») potrebbe anche indicare un discepolo missionario, anche se non c'è alcun parallelo in questo senso (Légasse, Jésus et l'enfant, 1 0 1 - 1 02). Secondo Achtemeier, 1 82, l'importanza che Gesù dà ai bambini è in netta contraddizione con la sapienza rabbinica così come si esprime, ad esem­ pio, in una sentenza di Rabbi Dosa, figlio di Horkinas: «Sonno del mattino . vino di mezzogiorno, chiacchiere coi bambini, soggiorno nella sinagoga con la "gente del paese" accelerano la perdita dell'uomo» (Pirqé Avot 3 , 1 0 ). Ma conviene prudenza nell'utilizzo di un testo isolato.

386

Mareo 9,311-40

è usata ancora positivamente nella grande istruzione di Gesù ai discepoli in 9,38-39.4 1 . In ogni caso, ciò che è fatto nel nome di Gesù merita considerazione. Invece in 1 3 ,6, la stessa fonnula si applica agli impostori che vogliono farsi passare per degli inviati di Cristo, e dei quali bisogna diffidare, poiché mandano in perdizione coloro che li ascoltano.

La fonnula «nel mio nome»

Colui che non è contro di noi è per noi

·

9,38-40

9,38 Giovanni gli dichiarò: « Maestro, abbiamo visto qualcuno scacciando dei demoni nel tuo nome e (volevamo) impedirlo, per­ ché non ci seguivaa». 39 Ora Gesù disse: «Non impeditelo, poiché non c'è nessuno che farà un atto di potenza nel mio nome e che potrà subito dopo dire male di me. 40 Poiché chi non è contro di noi, è per noi>> . a) Le parole attribuite a Giovanni, nella seconda parte della frase, sono espres­ se in modi diversi nella tradizione manoscritta, ma il senso non cambia (Met­ zger. Commentary, 1 0 1 ).

BI BLIOG RAFIA Vedi p. 383. C.B. BRIDGES, desus and Paul on Tolerance: The Strange Exorcist and the Strange Concession» , Stone Campbell Journal l , 1 998, 59-66. - F. CoNTI, «Un'analisi di tipo logico-matematico su Mt 1 2,30 e Mc 9,40», RivBib 4 1 , 1 993, 73-74. - A. D E LA FuENTE, « A favor o e n contra d e Jesus. El logion de Mc 9,40 y sus paralelos », EstB 53, 1 995, 449-459. - J. DELORME, «Jésus en­ seigne ses disciples: Mc 9,38-48» , ASeign, n.s. 57, 1 97 1 , 5 1 -62. - W. NESTLE, «Wer nicht mit mir ist, ist wider mich», ZNW 13, 1 9 1 2, 84-87. - X. PIKAZA lBARRONoo, «Exorcismo, poder y Evangelio. Trasfondo hist6rico y eclesial de Mc 9,38-40», EstB 57, 1 999, 539-564. - J. ScHLOSSER, «L'exorciste étran­ ger (Mc 9,3 8-39) », RevSR 56, 1 982, 229-239.

I NTERPRETAZIONE

Non è facile delimitare la pericope, considerata la posizione discus­ sa del v. 4 1 (ccPoiché colui che vi darà da bere un bicchiere d'acqua in nome del fatto che siete di Cristo, amen, vi dico che non perderà la sua ricompensa»). La maggior parte dei commentatori adducono buoni motivi per ricollegare questo versetto ai vv. 38-40 ( Gnilka *, II, 58-59; Pesch*, II, 107). Innanzi tutto, dal punto di vista formale, le tre congiunzioni « poiché» (vv. 39.40.4 1 ) giocano a favore del raggruppamento di questi versetti, e l'espressione ccin nome di» (en !Jon6mati, v. 38.4 1 ) può rappresentare un'inclusione. Ma, a livello 387

Man:o 9,38-40

di contenuto, il v. 4 1 si ricollegherebbe ancora meglio al v. 37. D'al­ tra parte non mancano neppure gli argomenti per unirlo a quanto segue: i v. 4 1 e 42 sono introdotti allo stesso modo da «colui che» (hòs dn) e ricollegati dalla congiunzione «e» (ka{) all'inizio del v. 42; i destinatari delle due azioni sono chiaramente indicati come dei cristiani. Inoltre, il contenuto «permette di precisare che le due "parti" in realtà sono i due membri di un parallelismo antitetico: al gesto benefico del dono di un bicchiere d'acqua (v. 4 1 ) si oppone l'azione malefica dello scandalo (v. 42), alla ricompensa (v. 4 1 ) il terribile castigo che attende chi provoca scandalo (v. 42)» (Schlos­ ser, 230-23 1 ). Per tutti questi motivi, sembra preferibile limitare l'episodio dell'esorcista straniero ai vv. 38-40 (Hooker*, 229; Légas­ se*, Il, 563-564). I discepoli sono appena usciti dal loro dibattito sulla preminen­ za. Sorge un nuovo soggetto di discussione anche se, in un certo senso, resta sulla stessa linea. Come nella discussione precedente, anche qui la posta in gioco è il dominio, ma stavolta si tratta di quello del gruppo che potrebbe escludere certi individui. È Gio­ vanni a porre la domanda, caso davvero unico, visto che in Marco, il portavoce dei Dodici è sempre Pietro. Il carattere ambizioso dei figli di Zebedeo troverà ulteriore conferma in 1 0,35-45 . I due fratelli, del resto, sono stati soprannominati da Gesù «figli del tuono» (3, 1 7). Tutti questi indizi vanno nella stessa direzione, ed è forse per questo che il narratore presta a Giovanni una reazione abbastanza settaria. Nella sua mente il criterio perché uno possa praticare un esorci­ smo nel nome di Gesù è che segua il gruppo dei discepoli («noi», v. 38). Per questo i discepoli hanno voluto impedire a un esorcista estraneo al loro gruppo di utilizzare il nome di Gesù per le sue ope­ re. Ma Gesù si oppone a questo loro modo di vedere. Secondo lui il vero criterio sta nel fatto di non parlare male di lui (v. 39), cioè di non rifiutarlo (si vedano le Note). Le conseguenze di queste due concezioni sono in radicale contraddizione. La prima porta a im­ pedire all'esorcista di agire perché non segue il gruppo. La seconda è inclusiva: non bisogna impedirglielo e, in un certo qual modo, egli si trova orientato nello stesso senso del gruppo di Gesù, poiché «colui che non è contro di noi è per noi» (v. 40). C è una certa iro­ nia narrativa nel modo di presentare l'atteggiamento dei discepoli. Tutto il contesto indica quanto le loro preoccupazioni siano lonta­ ne da quelle di Gesù. Inoltre, hanno appena fallito nel praticare un esorcismo (9, 14-29). Sono l'illustrazione vivente della possibilità di essere lontani da Gesù pur facendo parte del gruppo che lo segue. Ma, contemporaneamente, si mostrano intransigenti, e sembra lo­ ro impossibile che si possa essere per Gesù o ricorrere in verità al suo nome, senza aderire al suo gruppo. I:apertura di Gesù, invece, è giustificata da ragioni di due tipi, una delle quali potrebbe essere definita cristologica e l'altra ecclesiale (Pikaza Ibarrondo, 550). Innanzitutto Gesù si oppone a una concezione sbagliata della sequela. I discepoli ragionano come se essa, ed essa sola, desse il '

388

Marco 9,3�

diritto· di condividere la pòtenza di Gesù nella lotta coritro le forze del male. Se si accettasse il loro modo di vedere, il risultato sarebbe quello di ridurre le possibilità globali di lotta contro il male. Questa breve storia riguarda quindi la formazione dei discepoli a una mag­ gior apertura in vista di un bene maggiore. Ma nello stesso tempo pone il problema dell'esistenza di persone che non sono né disce­ poli né awersari di Gesù, e che stanno in una specie di neutralità, pur servendosi del suo nome nelle loro pratiche. Nel NT l'uso del nome di Gesù per fare i miracoli è ben noto. Lo si trova nei rac­ conti che riguardano Pietro in At 3,6; 4, 1 0; 9,34. C'è anche un caso di esorcisti ebrei che cercano invano di utilizzare il nome di Gesù per scacciare degli spiriti impuri (At 1 9, 1 3). La pratica dell'esor­ cismo in nome di un'altra persona, del resto, non è sconosciuta neppure nell'ebraismo (si vedano le Note). Una pratica del genere scandalizza i discepoli quando l'autore è uno che «non ci segue». D pronome «noi» è strano, poiché nei vangeli non si parla mai di seguire i discepoli, ma soltanto di seguire Gesù. Non è impossibile che l'evangelista introduca qui un'espressione proveniente dalla pratica ecclesiale ulteriore (Schweizer*, 1 1 0; Gnilka*, II, 59-60). Tuttavia l'espressione «seguirei>> non è attestata nel vocabolario della comunità postpasquale. Potrebbe semplicemente significare «aggregarsi concretamente al gruppo formato da Gesù e dai suoi discepoli» (Schlosser, 235). Dopo questa lezione di tolleranza legata a una presa di posizione concreta dei discepoli, il seguito del capitolo 9 sviluppa altre istru­ zioni che Gesù riserva loro. NOTE 38-40 n genere letterario è quello dell'apoftegma, della sentenza inserita in una

cornice narrativa. La punta perciò consiste in una parola di Gesù. Secon­ do Bultmann, Tradition, 4 1 , si tratta della frase del v. 39, mentre il v. 40 sarebbe un'aggiunta secondaria. Effettivamente, a livello di contenuto, il v. 39 relativizza il gruppo dei discepoli, mentre il v. 40 valorizza la sua solidarietà con Gesù (Schlosser, 234). Non ci sono indizi di dipendenza di Mc 9,40 nei confronti di Q (contra Fleddermann, 65; Schlosser, 238-239). È più verosimile distinguere nella tradizione due linee distinte: quella di Mc 9,40 da cui dipende Le 9,50, e quella di Q, ripresa in Mt 1 2,30 e Le 1 1 ,23 (de la Fuente, 450). 38 n verbo ÈKWÀ.IJOilE:V deve verosimilmente essere inteso come un imperfetto

che esprime il provare, il tentativo (de conatu): «Volevamo impedire» (BDF § 326). Nel giudaismo l'esorcismo in nome di un altro non è ignoto. Secondo Giu­ seppe Flavio, ad esempio, Eleazaro, sarebbe ricorso, fra altri mezzi, anche al nome di Salomone per praticare un esorcismo (Al VIII,46-49). Salomo­ ne godeva del resto di un potere speciale sui demoni secondo la tradizione ebraica (Bill. IV, 533-535). Più tardi, secondo TosHullin, 2,2 1-23, si vedrà

389

Marco

9,41-50

addirittUra Giacobbe ai Kefar Sarria tentare di guarire, «nèl nome df "Gesù bar Pantera" (per Gesù di Nazareth), R. Eleazaro ben Dama (verso il 120 d.C. ) che era stato morso da un serpente, ma il malato rifiutò» (Légasse*, II, 574, n. 9). Il ricorso ai nomi sacri è noto anche nel mondo pagano (Lu­ ciano, Filopseudo, 1 0 e 12, citato da Bultmann, Iradition, 275). 39 Usato solo qui e in una citazione in 7, 1 0 (vedi la Nota su 7, 1 0), il verbo KaKoX.oylw, quando è usato dai LXX, ha per sostrato più frequente il ver­ bo ebraico qll, il che invita a dargli il senso di bestemmiare o maledire. « L'atteggiamento descritto implica che si squalifichi una persona, che la si rifiuti. "Parlare male" di Gesù verosimilmente significa rigettarlo, auto­ escludersi dal suo messaggio e dalla sua persona» (Schlosser, 236). In gio­ co quindi, probabilmente, non c'è solo un'offesa alla reputazione di Gesù, ma il rifiuto della sua persona e del suo messaggio. 40

Conti cerca di dimostrare, con un ragionamento matematico ( ! ) che questa frase è strettamente equivalente a quella di Mt 1 2,30: > (Légasse*, Il, 621). Ma un'incongruità simile non vale forse anche per i padri e le ma­ dri? La formula «a causa mia e a causa del vangelo» (v. 29) indica il motivo della rottura. In 8,35 si ricollegava al salvare la propria vita perdendola. In 1 3,9, ricompare in un contesto di persecuzione. Non è il caso di proiettare questo contesto in 10,29 dove la spoliazione è legata esplicitamente alla sequela (Fusco, 75). Il compenso promesso da Gesù è sovrabbondante, come espresso dall'iperbole > . L'impressione è ulteriormente con­ fermata dal fatto che la lista è tutta al plurale, comprese le > che appare come un abbelli­ mento tardivo, e forse anche una sorta di subordinazione di Dio a Gesù. In quel caso Dio potrebbe essere compreso «come il dio inferiore o malvagio del mondo materiale» (Cuvillier, 342). Tutte queste considerazioni inducono a concludere che, in questo caso, il testo di Tommaso è secondario rispetto alla forma canonica della tradizione (Fitzmyer, Lulre, Il, 1 290- 1 29 1 ). Dal punto di vista del genere letterario, questo apoftegma non costituisce un dialogo didattico (contra Légasse* , II, 723), come diventa poi in Giusti­ no, Apol. I, 1 7 ,2 o in Vg Tom , l 00. In realtà, è un dialogo di controversia in cui la parola del maestro cerca, in primo luogo, di sfuggire alla trappola tesagli dagli avversari - cosa importante per determinare la portata delle parole di Gesù. Esse non vanno lette come una regola di comportamento rivolta con serenità a persone benevole, ma come una replica in contesto polemico. Del resto le parole interagiscono con la messa in scena, al punto da perdere tutta la loro forza se trattate isolatamente (Crossan, 40 1 ). n v. 1 7 non può essere interpretato correttamente se isolato dai vv. 1 3- 1 6 (Pet­ zke, 227; Perrot, 289).

vago

13

Attribuire ai membri del sinedrio l'invio in missione di una delegazione composta anche di erodiani non sembra molto verosimile dal punto di vista storico (Légasse*, II, 724). Lo scopo dell'evangelista è quello di sug­ gerire il raggruppamento di tutti gli avversari di qualsiasi tendenza, nel momento in cui la passione è sempre più vicina. n verbo àypEUW è un hapax neotestamentario. Preso dal linguaggio della caccia e della pesca, qui viene usato in maniera impropria, tanto più che Marco gli associa il dativo Mytp (Légasse*, Il, 724-725, n. 5). 14

Nell'espressione n'tv bBòv Toi> 6Eoi>, il genitivo è oggettivo - per cui Dio è «lo scopo verso cui si tende» (Lagrange*, 3 1 3) - oppure soggettivo, «la via che Dio stesso indica» (Lohmeyer*, 25 1 , n. 5)? Entrambi i significati sono possibili. In Giudea il tributo è stato imposto da Pompeo fin dalla conquista del 63 a.C. (BI 1, 1 54; Al XIV, 74) . La storia della tassazione romana degli ebrei in Palestina, da questo momento fino all'inizio della nostra era, è stata trac­ ciata da Bruce, 25 1 -254. Dopo la destituzione di Archelao, figlio di Erode il Grande, Quirinio ha indetto un censimento in Giudea nel 6 d.C. perché Ro­ ma prendesse direttamente in mano tutto il fisco (SchOrer, History, I, 399406). !:ammontare del tributum capitis all'epoca di Gesù non ci è noto. Nel testo parallelo Le 20,22 preferisce il termine pos-, classico in greco per «imposta». Il termine Kfjvaos- è una trasposizione del latino census, di cui si trovano equivalenti nella letteratura rabbinica. Per i romani il cen­ sus «era l'azione di censire, di stabilire lo stato delle persone e dei beni» (Lagrange*, 3 1 3-3 14). Probabilmente nel linguaggio popolare il nome ha subito una trasposizione dall'operazione del catasto alla tassa vera e pro­ pria in senso generale.

483

Marco 12,13-17 u n «denaro» (denarius, BTJvdpwv) è

una moneta d'argento usata nel mondo romano dal III sec. a.C. al III sec. della nostra era. Secondo Mt 20,2 coni­ spandeva al salario di una giornata di lavoro. Al tempo di Tiberio, la faccia della testa portava l'effigie dell'imperatore con l'iscrizione: TI CAESAR DI­ VI AUG F AUGUSTUS ( «Tiberio Cesare, figlio del divino Augusto, Augusto [egli stesso]»). Sull'altra faccia si legge il titolo imperiale: PONTIF MAXIM («Pontefice massimo»). Spesso vi si trova anche la figura di Livia, madre dell'imperatore: seduta, tiene nella destra lo scettro olimpico, e nella sini­ stra un ramo di ulivo che ne fa la personificazione della pace celeste (Hart, 246-247; Finney, 632-633). Con le sue iscrizioni il denaro appare dunque come un simbolo di potenza (Gnilka*, Il, 1 53). Questo tipo di moneta era in uso per calcolare e pagare la tassa (Hart, 24 1 ).

17

Nell'espressione Tà Kalcrapos l'articolo neutro plurale sembra non riferirsi solo alla tassa, ma a tutto un insieme di doveri verso Cesare come la sotto­ missione, i servizi, e il pagamento delle tasse (Giblin, 520-52 1 ). I.:espressio­ ne Tà Toù Bmù, inoltre, è già comparsa in 8,33, quando Gesù rimproverava Pietro: où cjJpovEis Tà Toù 8Eoù. In questo caso si trattava di pensieri non conformi alla logica divina. In 1 2, 1 7, l'articolo neutro deve essere inter­ pretato paragonandolo con Tà Kalcrapos e tenendo conto del fatto che è un complemento del verbo à-rro8l&ùi.J.L (verbo tecnico per il rimborso di quan­ to dovuto). In questo quadro, non può trattarsi che di doveri verso Dio, probabilmente da precisare, partendo dalla problematica dell'immagine e dell'iscrizione presenti in 1 2 , 1 6 (vedi l'Interpretazione). n verbo ÈK6a1JI.LG(w è un hapax del NT. n prefisso forse ne fa un superlativo del verbo semplice, che si trova anche in 6,6; 1 5,5.44 (Légasse*, Il, 732, n. 46). A causa delle eventuali implicazioni politiche il loghion del v. 17 ha co­ nosciuto svariate interpretazioni (Upkong, 148-1 53). Pur rischiando di cancellare molte sfumature, si possono raggruppare in cinque grandi categorie: a) I.:interpretazione politica classica incentrata sui due regni: anche se è stato inaugurato il regno di Dio, i regni di questo mondo continuano momentaneamente la loro opera ed esercitano una legittima autorità. Frequente dall'era patristica in poi, tale interpretazione è possibile solo isolando il loghion dal suo contesto e dimenticando che si tratta della tassa da pagare all'impero degli occupanti. b) L'interpretazione antizelota: Gesù raccomanda di pagare la tassa, men­ tre gli zeloti non potevano accettarlo, dato che una tassa del genere sem­ brava loro incompatibile con il regno di Dio solo sulla terra santa. Nello stesso tempo fustiga l'atteggiamento dei suoi avversari che, ancora una volta, si concentrano su questioni di dettaglio rischiando di trascurare i loro doveri nei confronti di Dio, unica cosa davvero importante. In questa frase, Légasse*, Il, 73 1 , vede addirittura, per i cristiani un richiamo «ai loro doveri civili». Adottando questa lettura, è difficile attribuire ancora un significato allo stupore finale degli uditori. c) I.:interpretazione zelota: Gesù finge di accettare di pagare la tassa, ma le sue ultime parole annullano completamente le prime. Se, infatti, bisogna restituire a Dio quanto gli appartiene, cioè tutto, non resta più nulla per Cesare. Da ciò deriva che non è lecito pagare la tassa a Cesare (Upkong. 1 63-166). Oppure, invece di invitare a pagare la tassa, Gesù chiederebbe di liberare il paese dai denari con l'effigie blasfema, rimandandoli tutti a Cesare. Lungi dal trattarsi di parole di sottomissione, queste sarebbero

484

Marco 12,18-27

parole di resistenza, anche se dissimulata per evitare la trappola (Herzog,

350). d) L'interpretazione apologetica: il narratore vuole presentare Gesù e i suoi discepoli come cittadini leali che pagano le tasse, senza vedervi al­ cuna contraddizione con il servizio di Dio. Una legittimazione di questo tipo, normale in contesto di persecuzione, in cui occorre di ssimulare ed essere prudenti per poter esistere e portare avanti l'evangelizzazione, di­ venta perversa quando una chiesa stabilita usa lo stesso testo, isolato dal contesto originale, per concludere accomodamenti con il potere politico e salvaguardare la propria fetta di potere (Petzke, 233-235). d) L'interpretazione ironica. Nella sua versione antica, si fondava sulla prospettiva di un'immediata attesa escatologica. Con un orizzonte del genere, a che scopo preoccuparsi ancora del potere politico e delle tasse? Nell'esegesi recente si è più sensibili all'ironia narrativa, indipendentemen­ te da qualsiasi prospettiva apologetica. La maniera di raccontare di M arco favorisce innegabilmente una lettura che lascia molto spazio all'ironia (vedi l'Interpretazione).

Controversia sulla resurrezione dei morti 1 2, 1 8-27

1 2, 1 8 E vengono presso di lui dei sadducei, i quali dicono che non c'è resurrezione, e lo interrogano, dicendo: 1 9 «Maestro, Mosè ha scritto per noi: se il fratello di qualcuno muore e lasciaa una moglie e non lasciab figli, che suo fratello prenda la moglie e che susciti una discendenza a suo fratello. 20 C'erano sette fratelli. E il primo pre­ se moglie, e morendo non lasciòb discendenza. 2 1 E il secondo la prese e morì senza lasciarea discendenza. E il terzo lo stesso. 22 E i sette non lasciaronob discendenza. Ultima di tutti, anche la mo­ glie morì. 23 Alla resurrezione, [quando risorgeranno] fl.ll 33 lll q sy sa ) Potrebbe trattarsi di un'omissione accidentale causata dalla somiglianza con la parola dpxil immediatamente seguente. Tuttavia l'attestazione debole fa pensare piuttosto a un'aggiunta (Metzger, Commentary, 1 1 2), forse per un ritmo migliore della frase (Evans*, 303, citando Westcott-Hort). c) Alcuni mss esplicitano, aggiungendo n àvayLVWcrKH («ciò che legge») (D a). d) La destinazione Els n')V ol Klav («nella casa») è precisata da A D W 6 f1·13 lll lat sy"·h. e) La lettura &lcrouow corrisponde all'uso dei LXX (Dt 1 3,2) che traducono letteralmente l'ebraico niitan. Anche se potrebbe essere un'armonizzazione m"

518

.

Marco

13,5-23

con Mt 24,24, la sua larga attestazione fa sl che venga preferita a lTOLf]o"ooow («faranno») (D e fl3 28 565 a).

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INTERPRETAZIONE

Anche se si tratta delle prove e della tribolazione più grande «dal principio della creazione » (v. 1 9) , la prima parte del discorso non ha innanzitutto valore di un annuncio di eventi apocalittici. I dieci imperativi che contiene le conferiscono un carattere decisamente parenetico. Quanto agli eventi, sono evocati in maniera così generi­ ca, da poterli legittimamente definire «clichés di cui si sbaglierebbe a voler verificare l'esatta corrispondenza nella vita delle comunità» (Légasse*, Il, 787). La qualifica di parte parenetica è ulteriormente rafforzata dall'esa­ me della struttura, tenendo conto dei criteri formali (Lambrecht, 261 -294; Pesch, 77-82; Mateos, Marcos 1 3 , 1 44- 1 92). Il parallelo tra i w. 5-6 e 2 1 -23 è significativo, ed è stato spesso notato, come messo in luce dallo schema seguente (Miiller, «Zeitvorstellungen» , 2 1 4): v. 5-6

State attenti che nessuno vi svii, poiché molti verranno nel mio nome, dicendo: «Sono io! » e ne svieranno molti.

v.

21-23

non crediate ( ... ) ma state attenti poiché falsi cristi e falsi profeti si ergeranno «Vedi, il Cristo è qui, vedi, è là! » Per sviare, se possibile, gli eletti.

Questi due awertimenti contro coloro che hanno intenzione di fuorviare i discepoli incorniciano due sezioni anch'esse corrispon51 9

Marco

13,5-23

denti (vv. 7-8 e 1 4-20). Non solo, cominciano con due formule parallele (h6tan dè akousete [«ora, quando sentirete »] e h6tan dè idete [«ora, quando vedrete»]). Inoltre i soggetti sono simili, poiché si tratta di guerre o della distruzione del tempio conseguente a una guerra. Al centro della struttura concentrica, i vv. 9- 1 3 trattano delle persecuzioni in maniera parenetica, il che dà alla prima parte del discorso il suo tono particolare. La prima parte della domanda dei discepoli al v. 4 riceverà una ri­ sposta solo molto più tardi, e sarà una risposta negativa: il giorno e l'ora continueranno a sfuggire loro (v. 32). La seconda parte della domanda viene invece affrontata immediatamente, ma in maniera particolare. Gesù, in effetti, li frustra di una risposta sul segno in base al quale riconoscere la fine. La risposta prende di nuovo un tono negativo, dato che i segni di cui si parla sono falsi e si racco­ manda di diffidarne. In questo discorso di Gesù i segni non hanno mai un significato positivo: non hanno il potere di rivelare, ma soltanto di ingannare, di confondere. L'avvertimento giunge a proposito per i discepoli ai quali Gesù rivolge questo lungo discorso (v. Sa), dal momento che uno di loro si è appena estasiato davanti alla bellezza del tempio, lasciando così intravedere di cadere preda di un'illusione. Devono tutti stare attenti a possibili confusioni. «Come il tempio sembra splendido, ma sarà distrutto, così parecchi sembreranno dei cristi, ma sen­ za esserlo» (Combet-Galland, 54). Di loro i discepoli dovranno quindi diffidare (vv. Sb-6). La messa in guardia di Gesù ha innanzi tutto una forma generale, visto che non si precisa di chi occorra diffidare. Ma qualcuno potrebbe tentare di confonderli (v. Sb}. Il pericolo è tanto più grande quanto meno è chiaramente identifica­ to. Ed è molteplice, visto che « molti» verranno nel nome di Gesù per indurre in errore. Si annuncia che costoro avranno successo (v. 6). Parlando di quelli che vengono nel suo nome, Gesù sembra evocare delle persone che hanno un mandato da parte sua, dei cri­ stiani, che potrebbero essere paragonati a quei profeti dell'AT che parlavano EXWv (LXX) o I!IT_g_ Twv velf>EXWv (Teodozione). Quest'ultima forma la si ritroverà in Mc 1 4,62. La gloria è associata alla figura del Figlio dell'uomo in Dn 7,14. Lì si parla anche della sua (l€ooola), mentre Marco parla della sua «poten­ za» (8uva�tts ).

534

Matto 13,28-31

sono menzionati in un oracolo del Signore in Zc 2,10. Nel testo ebraico, è scritto: «ai quattro venti dei cieli, vi ho dispersi», mentre i LXX dicono il contrario, parlando di raduno: . BIBLIOG RAFIA Vedi anche p. 509-5 10. J. DuPONT, «La parabole du figuier qui bourgeonne (Mc, Xlll, 2 8 29 par.)», RB 75, 1 968, 526-548 (ripreso in Io., Études, l, 474-497). - B. KLAPPERT, -

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535

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Già rallentato nella sezione precedente, il ritmo del racconto diven­ ta sempre più lento a mano a mano che la croce si profila all'oriz­ zonte, e l'evangelista arriva fino a consacrare un capitolo e mezzo { 1 4 , 1 7 - 1 5 ,39) alle ventiquattr'ore che conducono alla morte di Gesù. Gli eventi riportati si estendono praticamente lungo una settimana. È vano, però, sulla base delle molte annotazioni crono­ logiche ( 1 4, 1 . 1 2. 1 7; 1 5 , 1 .25.33.34.42; 1 6, 1 -2) tentare di ricostruire lo svolgimento della cosiddetta settimana santa (Neirynck) . Si tratta incontestabilmente del racconto più omogeneo e costruito con maggior cura dell'intero vangelo di Marco. Questa è proba­ bilmente una delle ragioni per cui da tempo si afferma (Schmidt, Rahmen, 305-306; Dibelius, Fonngeschichte, 1 78- 1 8 1 ; Pesch*, II, 1 -27), - ma volte con un po' di reticenza (Bultmann, Tradition, 337-338) - che Marco, in questa occasione, avrebbe utilizzato un racconto primitivo della passione già ben strutturato. L'esistenza di 543

Marco 14,1 - 16,8

questo racconto antico non pare legata al bisogno liturgico di un testo per la commemorazione annuale della morte di Gesù (contra Collins, «Composition», 1 1 8), ma al fatto che la comunità primitiva abbia provato ben presto il bisogno di raccontare la storia della passione per affrontare il paradosso della croce, e in funzione delle necessità della predicazione primitiva. Questa ipotesi di un raccon­ to premarciano però è stata contestata (Sclrreiber, Markuspassion, 47-49; Schenke, Studien , 561 ). Resta il fatto che vari episodi non si capiscono fuori dal loro contesto attuale, e che non si riesce a im­ maginare che abbiano potuto circolare isolatamente (Légasse, Pro­ cès, l, 32, n. 1 2). Deve quindi esserci stato per lo meno un embrione di racconto primitivo al quale sono stati aggiunti altri episodi ad opera sia di Marco che di un redattore premarciano. Evidentemente è molto difficile ricostruire le fonti usate da Marco e i risultati di un lavoro del genere sono molto vari (Ernst). I se­ guenti tentativi vengono citati a titolo di esempio. Taylor*, 653-664, ha proposto di distinguere due strati: il primo sarebbe un racconto di base, rapido, sobrio, schematico e ben serrato ( 1 4, 1 -2 . 1 0- 1 1 . 1 21 6 . 1 7 -2 1 .26-3 1 .43-46 . 5 3 . 5 5-64.66-72; 1 5 , 1 . 3- 5 . 1 5 . 2 1 -24.26. 2930.33. 34-37.39.42-46; 1 6, 1 -8); mentre il secondo sarebbe costituito da episodi che hanno il loro senso proprio, e che sono redatti in un greco leggermente colorato di semitismi ( 1 4,3-9.22-25 . 3242.47-52.54.65; 1 5 ,2.6- 1 4. 1 6-20.2 5.27.3 1 -32.38.40-4 1 .47). Sempre di una teoria di due strati , Strecker, 245-246, ha recentemente offerto una presentazione un po' diversa: la fonte unificata sarebbe composta da 14, 1 0- 1 1 .43-45.(55-56.60-6 1 ); 1 5 , 1 -2 . 1 5b. 1 6-20a.2ab24a.26.34.37, e Marco avrebbe in seguito integrato diversi brevi racconti e particolari, ripresi dalla tradizione orale o scritta della comunità, in particolare 14 ,3-9. 1 2- 1 6 . 1 7-2 1 .22-25.3 2-42.47 . 5 1 52.54.57-58 .66-72; 1 5 ,6- 1 5 .40. Secondo un'altra ipotesi, bisogne­ rebbe distinguere tre tappe (Dormeyer, Passion, 57-30 1 ) : una prima composizione del racconto della passione nella tradizione primiti­ va sul modello degli «atti dei martiri» ellenistici, legati alla figura veterotestamentaria del giusto sofferente (T), alcuni ritocchi piutto­ sto leggeri soprattutto di tipo cristologico, a opera di un redattore premarciano (Rs), un'attualizzazione parenetica ad opera di Marco in vista dell'edificazione della comunità, e in cui viene sviluppata la cristologia del Figlio dell'uomo (Rmk). La ricostituzione degli interventi di Rs è particolarmente difficile da verificare. Nel racconto della passione e della resurrezione tutti i fili narrativi del racconto anteriore finiscono per intrecciarsi (Broadhead, Pro­ phet, 273-28 1 ), anche se per concludersi con una finale parados­ sale, e cioè con la fuga e il silenzio impaurito delle donne ( 1 6,8). Questo racconto costituisce innegabilmente il punto culminante e la conclusione quasi naturale del vangelo. Perciò è al vangelo di Marco che si applica al meglio la famosa affermazione di M. Kiihler ( 1 896) secondo cui «Con qualche esagerazione, i vangeli potrebbero essere definiti dei racconti della passione con un'estesa introduzione» . 544

Marco 14, 1 - 1 1

Il complotto contro Gesù e l'unzione funebre anticipata 1 4, 1 -1 1

14, 1 Ora era la pasqua e gli Azzimi tra• due giorni e i sommi sacer­ doti e gli scribi cercavano come, avendolo afferrato, ucciderlo con l'inganno. 2 Poiché dicevano: «Non durante la festa, per paurab che ci sia un tumulto del popolo». 3 E come era a Betania, nella casa di Simone il lebbroso, mentre era a tavolac, venne una donna avendo un vaso di alabastro di un profumo di nardo autentico, molto costoso. Avendo rotto il vaso di alabastro, glie(lo) versò sulla testa 4 Ma alcuni si indignavano tra lorod: «.eyov («Ora, i suoi discepoli erano infastiditi e dicevano») è poco attestata (D e 565 [it]), e pare seconda­ ria. Intende infatti precisare il testo, sostituendo «alcuni» con «i suoi disce­ poli», termine che compare anche nel testo parallelo di Mt 26,8. E il verbo 8ta1TovÉo�m ( «essere infastidito. stanco») in Marco non viene usato altrove, mentre in 10,14.4 1 , c'è dyavaKTÉw (Metzger; Commentary, 1 12). e) Traduzione preferibile rispetto a «sgridavano» ( «rudoyaient» BJ) (vedi la Nota c su 1 ,43). f) Il gioco delle assonanze lipyov ftpydaaTo sarebbe reso meglio con «un'opera (che) ha operato». g) Traduzione letterale di �!1XEV, spesso reso con «poteva» (TOB).

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545

Marco 14, 1 - t r

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"

INTERPRETAZI ONE

Se l� passione della comunità è stata evocata anticipatamente e corredata da pressanti inviti alla vigilanza ( 1 3,5-37), quella di Gesù è oggetto di un lungo racconto che comincia con la messa in atto del complotto dei sommi sacerdoti e degli scribi ( 1 4, 1 -2). Il com­ plotto è agevolato da uno dei dodici che, insieme alle autorità, cer­ ca come consegnare Gesù ( 1 4, 1 0- 1 1 ) . Le ripetizioni segnalate nello schema seguente evidenziano il parallelismo tra i due episodi: vv.

vv.

1-2

10- 1 1

Giuda Iscariota [ . . ] se ne andò dai sommi sacerdoti per consegnarglielo [ ... ] E cercava come consegnarlo nel momento favorevole. .

i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano come [ . . ] ucciderlo. .

546

Marco 14, 1 - 1 1

1\-a le due fasi di un progetto omicida il narratore racconta l'un­

zione di Betania { 1 4,3-9). Questa tecnica narrativa cara a Marco (si vedano le Note) sottolinea il contrasto tra le azioni malvagie dei sommi sacerdoti, degli scribi, e di Giuda e l'opera bella com­ piuta dalla donna di Betania. Cosi il narratore, fin dall'inizio della passione, contrappone due atteggiamenti di fronte a Gesù. I.:ironia narrativa non manca in questa scena, dove i personaggi che a prio­ ri dovrebbero essere più credibili, cioè le autorità religiose e uno dei dodici, partecipano a un complotto omicida, mentre una donna anonima offre segni di supremo rispetto a colui che sta per essere suppliziato (Barton, 2 3 1 ) . I vv. 1 -2 e 1 0- 1 1 saranno commentati prima dei vv. 3-9. Le indicazioni cronologiche (v. l) pongono da subito il racconto della passione sotto il segno della festa di pasqua. Visto il senso della pasqua ebraica, festa commemorativa della liberazione e dell'alleanza, ambientare proprio nel momento della pasqua un complotto delle autorità giudaiche occupate a preparare una con­ danna a morte, ricorrendo all'inganno, è un ulteriore elemento di ironia narrativa (Barton, 232). E lo è tanto più nettamente, quanto più inganno e omicidio fan parte dei vizi sottolineati da Gesù, di quelli che possono uscire dal cuore dell'uomo e renderlo impuro (7,2 1 -22). Così il narratore definisce in maniera indiretta il campo degli avversari di Gesù: alla vigilia di pasqua, i sommi sacerdoti e gli scribi sono pieni di «disegni malvagi» (7,2 1). La spiegazione data al v. 2 è strana. Cosa significano le parole qui riportate: «Non durante la festa» (mè en tei heortei)? Se si intende «non durante la festa di pasqua», il resto del racconto lo contraddice, poiché Gesù verrà arrestato proprio nella notte di pasqua e crocifisso il giorno della festa. Per evitare questa contraddizione, talvolta viene pro­ posto di intendere il termine heorté («festa») non nel solito senso temporale, ma nel senso locale di (Delorme, (Delorme, «Parole» , 1 20). Dovunque si predicherà il Vangelo, si farà memoria di lei. Infatti, con la perdita del profumo lei ha segnato una frattura, visto che tale perdita «è esemplare rispetto alla perdita del corpo che, una volta seppellito, non verrà mai più ritrovato» (Delorme, « Sémio­ tique» , 1 72). In effetti, quando le donne verranno al sepolcro di 550

Marco 14, 1 - 1 1

Gesù per ungerlo, il primo giorno della settimana non troverannò più il corpo, ma al suo posto ci sarà la parola del Vangelo, il mes­ saggio della resurrezione ( 1 6, 1 -7). In questo v. 9, Gesù valorizza il legame naturale che esiste tra l'unzione a Betania e il Vangelo, che è proclamazione in tutto il mondo di una parola di vita tratta dalla morte. Posto all'inizio del racconto della passione, questo episodio è una specie di «mise en abyme>> : qui è concentrata tutta la portata del­ la passione che comincia. L'effetto ottenuto è quello di dare una chiave al lettore, facendo risaltare in quanti modi diversi si possa percepire la morte di Gesù, in base agli opposti sistemi di valori. I suoi avversari giudicano utile la sua morte e sono pronti a pagare per essa. Il profumo perso indica un'altra pista, suggerita da Gesù: come il profumo, anche il corpo sarà perso. Sconvolgendo l'ordine cronologico, mettendo sottosopra la temporalità, l'unzione precede la morte. Essa apre su un tempo altro, il tempo dei segni. Quest'ul­ timo è minacciato dalla gestione del tempo utile, mentre lascia libero tutto il tempo che occorrerà per condividere con i poveri. L'unzione è avvenuta a Betania nell'ambito di un pasto (v. 3), il primo di una serie di pasti, e sarà seguita dall'ultima Cena (vv. 1 225). In entrambi i casi il lettore è testimone di un'azione rituale che ha per oggetto il corpo di Gesù (vv. 8 e 22) nel contesto della sua morte imminente. L'accostamento delle scene viene confermato anche dal fatto che Gesù conclude entrambe con una dichiarazio­ ne solenne introdotta da «amen» (vv. 9 e 25) (Barton, 232). Mentre finora nel vangelo non si è prestata alcuna attenzione al corpo di Gesù, adesso è posto inaspettatamente al centro della prospettiva: prima profumato in anticipo per la sepoltura (v. 8), verrà poi dato simbolicamente ai discepoli attraverso la condivisione del pane benedetto e spezzato (v. 22). NOTE 1-1 1

In questo testo si incontra di nuovo il procedimento del racconto cosiddetto a sandwich, caro a Marco (3,20-35; 5,2 1-43; 6,7-32; 1 1 , 1 2-26). Probabilmen­ te quindi è lui che ha messo insieme due testi originariamente indipendenti (Evans*, 364). Thttavia non è chiaro se i w. 1 -2 e 10- 1 1 siano due parti di una tradizione unificata fin dall'inizio. Sono a volte attribuiti interamente (Gnilka*, Il, 2 1 9 e 228-229; Légasse*, II, 85 1 ) o parzialmente (Vogler, 40-43) al redattore. La ricostruzione di una fonte aramaica dei w. 10-1 1 (Schwarz, 1 76- 1 82) è gratuita, e del tutto inverificabile. D racconto dell'unzione a Be­ tania (w. 3-9) in generale è considerato una tradizione ripresa così com'era da Marco (Pesch*, Il, 329), nonostante i w. 8-9 (Gnilka*, Il, 22 1 ) - o il solo v. 9 (Malzoni, 105) - siano talvolta attribuiti al redattore. Il genere letterario del racconto dell'unzione è discusso. Poiché, se è vero che comporta tratti simili alle controversie o agli apoftegmi, non si tratta né dell'una dell'altro. Potrebbe trovarsi fra le scene biografiche (Bultmann, Tradition, 55; Gnilka*, Il, 222) o fra i paradigmi (Dibelius, Formgeschichte, 40).

551

Marco 14, 1 - 1 1

l La festa degli Azzimi è probabilmente una festa cananea adottata dagli

Israeliti, che l'hanno associata alla pasqua (DEB, 1 78). Il fatto che fosse messa in relazione con la liberazione dall'Egitto è chiaramente attestato in Es 1 2 , 1 5-20. Entrambe le feste restano comunque distinte (2 Cr 35, 1 7; AJ, III,249), visto che la pasqua è celebrata dal l 4 al l 5 Nisan, e gli Azzimi dal 1 5 al 2 1 Nisan, un periodo durante il quale si mangiano pani non lievitati. Secondo la presentazione di Marco, la pasqua quell'anno capitava di ve­ nerdì ( 1 5,42). Il complotto avviene due giorni prima, cioè il mercoledl. 3

Il fatto che Gesù mangi in casa di un lebbroso è tanto sorprendente che i

commentatori hanno fatto a gara con la fantasia per tirarlo fuori da que­ sto impaccio. Una prima ipotesi immagina che Simone sia un lebbroso guarito da Gesù (Schweizer*, 1 66). Ma se fosse così, perché non si parla affatto della sua guarigione? Per risolvere la difficoltà, si è avanzata la supposizione che si trattasse di un ex lebbroso che, una volta guarito, ha dato il nome alla casa (Pesch*, Il, 3 3 1 ) . Un'altra ipotesi vede in ToO ÀE1Tpoii il risultato di una confusione, nell'originale aramaico, tra giiriibii' («negoziante di ceramiche») e garba' ( > , infatti, contraddicono ciò .

.

.

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560

Marco 14, 17-25

che si vede e conducono a un'altra pereezione. Questo pane parlato «è e non è pane, è e non è il corpo di Gesù>> (Léon-Dufour, 1 52). C'è uno shock tra ciò che si vede e ciò che si dice. Oppure, «c'è insieme frattura e congiunzione tra il visibile e ciò che si può solo sentire. Nulla di quanto detto viene dato da vedere» (Delorme, 1 1 4). Il pa· ne parlato è dato contemporaneamente da sentire e da mangiare. «La parola si mangia come il pane, il corpo parlato si sente come la parola» (Id., 1 1 5). La parola di Gesù ha un altro effetto, quello cioè di «dare» il suo corpo invece che esso sia «Consegnato» (9,3 1 ; l 0,33; 1 4 , l 0. 1 1 . 1 8 .2 1 ) Questo corpo che altri vogliono consegnare alla morte, Gesù lo dà come dà il pane, per nutrire la vita degli uo­ mini. Nutrirà quelli che lo ricevono e lo mangiano secondo la sua parola, fidandosi di lui. Questa è la regola dell'efficacia necessaria a una parola performativa, controcorrente rispetto alle evidenze. La parola «corpo» indica la persona di Gesù nell'ottica di ciò che gli accadrà come corpo consegnato alla morte Non c'è alcun motivo di ridurlo al senso di «carne» per distinguerlo dal sangue di cui si parlerà nel versetto seguente (contra Légasse*, II, 868). Questo tipo di deduzione appartiene a una razionalizzazione molto distante dalla portata simbolica dell'espressione «questo è il mio corpo» . Essa è ugualmente minimizzata dalle riflessioni sul cannibalismo inerente a tale espressione (Evans*, 39 1 ). Certo è il pane che viene dato da mangiare, ma un pane parlato che simbolizza il corpo do­ nato di Gesù. La seconda azione di Gesù riguarda il calice (v. 23), ed è parallela alla precedente sul pane. In entrambi i casi, Gesù dona il pane o il calice ai suoi discepoli dopo una benedizione o un rendimento di grazie, Ma la prima volta Gesù aggiungeva immediatamente una frase che iniziava con > , come quella che è stata pronunciata sul pane, va interpretata nel senso di una parola performativa che conduce ben oltre ciò che è visibile. A proposito del vino condiviso, dà da intendere un altro senso. «Come nel caso del pane, anche il calice è e non è il calice e la realtà che esso annuncia>> (Léon-Dufour, 1 63). D'altronde, l'evocazione dell'alleanza fa inevitabilmente pensare al sacrificio dell'alleanza mosaica (Es 24,8). Si tratta di un sacrificio di comunione (Es 24,5), in cui Mosè sparge sul popolo «il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso>> con loro (v. 8). In questa logica il sangue esprime la comunione con Dio più che la purifi­ cazione (Léon-Dufour, 1 70- 1 72). Una differenza essenziale con il .

561

Marco 14,17-25

testo dell'Esodo è che qui il vino-sangue viene bevuto, invece di essere utilizzato per un'aspersione rituale. Non si beve per essere purificati, ma per essere dissetati. Lorientamento simbolico è volto a un incremento di vita o, per essere più precisi, a una «comunio­ ne di vita» (Wénin, Non di solo pane , 2 1 6). Questa interpretazione simbolica preserva da un'interpretazione magica (Léon-Dufour, 1 69- 1 73). E confermata dalla formula finale «sparso per molti» , il cui senso è più esistenziale che non cultuale. Infatti, mentre il verbo ekchéo (, NTS 17, 1 970- 1 97 1 , 426-436.

I NTERPRETAZIONE

Questa pericope non è solo inserita in una transizione spaziale tra la sala della cena e il Monte degli Ulivi. Ma è anche collegata con quanto precede e con quanto segue a livello dei motivi sviluppati. Da una parte, come annuncio dello scandalo generale del gruppo dei dodici e del rinnegamento di Pietro, essa fa da pendant all'an­ nuncio del tradimento di uno dei dodici (vv. 1 7-2 1 ) . Dall'altra, l'annuncio dello scandalo e della dispersione di tutti troverà la sua 566

Marco 14,26-31

realizzazione nel v. 50, e quello del rinnegamento di Pietro nei vv. 66-72. La pericope consiste per l'essenziale in uno scambio di parole tra Gesù e Pietro. L'inclusione tra i vv. 27 e 3 1 che riguardano tutto il gruppo, segna l'unità dell'insieme (Gnilka*, Il, 25 1 ). È stata propo­ sta una costruzione concentrica da Bara, Passion, 52, ma essa si fonda solo sull'alternanza degli interlocutori. Di fatto, una predi­ zione generale di Gesù (vv. 27-28) è seguita da una duplice protesta: quella di Pietro si sviluppa in un dialogo in cui la predizione di Ge­ sù viene personalizzata rispetto a Pietro (vv. 29-3 1ab), ed è seguita in conclusione dalla protesta di tutti (v. 3 1 c). La cena precedente si conclude con dei canti di lode. Per coloro che conoscono gli usi della cena pasquale, non può trattarsi che del piccolo Hallel, composto dai Salmi 1 1 4 o 1 1 5- 1 1 8 (Bill. IV, 72; Jeremias, Cène, 58). Anche se la cosa non viene precisata di­ rettamente al lettore, in questo contesto è difficile pensare che si tratti semplicemente di una lode in generale (contra Liihrmann*, 242). Dopo la recita dei salmi, Gesù e i dodici se ne vanno dalla sala della cena, non però per ritirarsi a Betania, ma per recarsi al Monte degli Ulivi (v. 26), dove Gesù era già andato con alcuni di­ scepoli ( 1 3,3), e dove li aveva invitati a vegliare ( 1 3,35.37). Questo spostamento forma una transizione con la scena dell'agonia nel Getsemani, dove il motivo della vigilanza tornerà con insistenza ( 1 4,32-42). Fin dall'inizio del racconto della passione il lettore ha assistito a diverse anticipazioni. Innanzi tutto c'è stata, a Betania, l'unzione funebre anticipata, dove si faceva riferimento alla sepoltura di Gesù ( 1 4,3-9). Poi, a Gerusalemme, durante l'ultima cena, Gesù ha parlato indirettamente della propria morte, ed esplicitamente del­ la propria presenza nel regno di Dio ( 1 4,22-25). Ora, in cammino verso il Monte degli Ulivi, Gesù rivolge ai dodici una predizione du­ plice e contrastata (vv. 27-28): innanzi tutto annuncia che cadranno tutti, ma poi che, dopo la sua resurrezione, li precederà in Galilea, il che è segno di una nuova fiducia (vedi Zc 1 3,9b). Per l'annuncio della caduta viene utilizzato il verbo «essere scandalizzato». Fin dalla spiegazione della parabola del seminatore, si sa che «Una tribolazione o una persecuzione a causa della parola» (4, 1 7) pos­ sono far cadere chi manca di radici profonde. La morte futura di Gesù va proprio iscritta nell'ambito delle persecuzioni a causa della parola. E sarà un'occasione di caduta per i suoi discepoli (v. 27). Questo annuncio dell'imminente scandalo di tutti i discepoli viene confermato da una citazione della Scrittura, e più precisamente di Zc 1 3,7 (si vedano le Note), il che contribuisce a presentarlo come un evento legato al piano misterioso di Dio (Broadhead, Prophet, 78). Quando Gesù verrà colpito, i dodici saranno come pecore senza pastore (6,34), a loro volta colpiti dalla dispersione. Però non sarà l'ultima parola. Come negli annunci della passione (8,3 1 ; 9,3 1 ; 10,33-34), la cattiva sorte riservata a Gesù è seguita dall'evo­ cazione della sua resurrezione. Stavolta, tuttavia, Gesù parla non 567

Marco

14,26·3 1

tanto della sua sorte, quanto di quella dei dodici: li precederà in Galilea. Questa nozione di precedenza va d'accordo con l'immagine del pastore, ma anche con quella dei discepoli che camminano alla sequela di Gesù. In maniera più precisa, l'unica volta in cui il verbo protigo («precedere» ) è applicato a Gesù nel secondo vangelo, è per dire che Gesù precedeva i suoi discepoli sulla strada di Gerusalem­ me e della passione ( 1 0,32). L'idea che dopo la resurrezione Gesù indicherà sempre loro la strada, precedendoli in Galilea, sarà ripre­ sa alla fine del vangelo nel messaggio che gli angeli rivolgono alle donne al momento della loro visita mattutina al sepolcro ( 1 6,7). Questa anticipazione costituisce quindi una nota di speranza che apre al di là del racconto evangelico. Ma la promessa non cattura l'attenzione di Pietro, che reagisce solo sulla parte negativa della frase di Gesù, quella che annuncia lo scandalo collettivo dei dodici quando lui verrà colpito. Pietro afferma la propria differenza: anche se lo scandalo colpirà tutti gli altri, lui no (v. 29)! Rispetto all'opposizione già manifestata di fronte alla prospettiva della passione, atteggiamento che Gesù rimproverò aspramente (8,32-33), Pietro ha fatto tanta strada. Non protesta più di fronte a una prospettiva del genere. Ma afferma con sicurezza di poter resistere, anche se tutti cadono. Viene subito rimesso al suo posto da Gesù, in modo piuttosto solenne (v. 30). Del resto è l'unica volta, su tredici ricorrenze del termine «amen» in Marco, che la formula è rivolta a una sola persona (ws invece di 'TT'Vp non è insolito nel greco della koinè (Taylor*, 565). Per questo è stato tradotto con «fiammata», per permettere di mantenere la sfumatura di un chiarore alla luce del quale Pietro potrà essere riconosciuto. 58

Nei LXX l'aggettivo XE:LflOTTOI.WOS viene usato per caratterizzare gli idoli (Lv 26, 1 ; Is 2 , 1 8; 10,1 1 ; 19,1). Ma Marco gli dà davvero questa connotazione? I due aggettivi XE:l poTToll']Tos e àxELpoTTotflTos sono di probabile origine giu­ deo-ellenistica (Schlosser, 409; Paesler, 2 1 0-224). Bisogna allora dedurne che la parola sia interamente di origine giudeo-ellenistica, oppure che sia stata soltanto meglio precisata in quel contesto culturale? La questione è difficile da dirimere. La storicità di questa frase è globalmente ricono­ sciuta da Sanders, Jesus, 7 1 -76, che si basa sull'esistenza dell'attesa di un tempio escatologico nel giudaismo dell'epoca di Gesù. E in effetti, sulla base di Zc 6, 1 2 (« . . . un germoglio ... ricostruirà il tempio di YHWH»), al­ cune tradizioni ebraiche attendono tale ricostruzione da parte del messia escatologico (Tg Zc 6, 12; 40 1 74, 1,6-7). La storicità della seconda parte del loghion, invece, pare meno probabile a Schlosser, che accetta soltanto che «Gesù abbia fatto un discorso relativo al tempio, ma che tale discorso si riducesse all'annuncio della rovina del tempio» (4 1 3).

591

Marco

14,53-65

È la pnìna volta che nel vangelo di Marco compare la parola «santuario•

(va6s ). Al di fuori di 1 5,38 il termine viene sempre usato in frasi col discor­ so diretto ( 1 4,58; 15,29). Mentre Lfp6v svolge un ruolo a livello narrativo, va6s funziona più come un simbolo, che agisce «SU di un registro esclusi­ vamente ermeneutico» (Biguzzi, Tempio, 1 73). 61

�espressione «Figlio del Benedetto» equivale a cFiglio di Dio», ma in una formulazione più arcaica. Ciò potrebbe corrispondere a uno dei modi ebraici di evitare di pronunciare il nome di Dio. Ma poiché è difficile trova­ re paralleli o corrispondenze dell'epoca (de Jonge, 1 75, n. 20), alcuni pen­ sano che si tratti di un'espressione «pseudoebraica» (Juel, Messillh , 79), un punto di vista discusso e contraddetto da Evans*, 449. Nella domanda del sommo sacerdote ha probabilmente un significato equivalente a «messia», e forse più precisamente a «re-messia» (Gourgues, 1 46- 1 47). 62

�origine dell'appellativo di Dio come «la Potenza» (Tijs 8uvd!J.fWS) resta discussa. Il suo utilizzo assoluto non ha veri e propri paralleli contempo­ ranei (Brown, Death, l, 496). Nei midrashim e nei targumim, ha-ftbCmi («la Potenza») è usata per indicare Dio (Bill. 1, 1 07), ma unicamente in quanto Dio che si rivela (Goldberg, 289-29 1 ). Ma non si tratta neppure di un ap­ pellativo cristiano di Dio (Dunn, 1 5). Perché la sessione del Figlio dell'uomo alla destra di Dio è nominata prima del suo spostamento sulle nubi? La cosa parebbe contraddittoria. In ogni caso è così a partire dall'immagine di Dn 7, 13, dove il Figlio dell'uomo vie­ ne sulle nubi verso l'Antico dei giorni (CEI: il vegliardo), per occupare uno dei troni preparati (v. 9). Una maniera per risolvere la questione è quella di affermare che non si tratta di eventi successivi, ma di «una successione di testimonianze che si riferiscono alla stessa realtà (trionfo del Figlio-messia descritto a volte come sessione, a volte come ascesa verso Dio)» (Gourgues, 1 57). Ma per Marco, si tratta probabilmente più dell'esaltazione del Figlio dell'uomo alla destra di Dio, che precede il suo ritorno sulla terra, o in altri termini la parusia (Dunn , 1 6). 63

Il plurale Xl T.alnv («cominciò a piangere") (D e).

593

Marco 14,66-72

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,

INTERPRETAZION E

Prima della comparizione di Gesù davanti al sinedrio, il narratore aveva già menzionato la presenza di Pietro nel cortile del sommo sacerdote (v. 54). Il discepolo non svolge alcun ruolo nella compa­ rizione stessa, ma ritorna nei vv. 66-72 in un racconto che si svolge in contemporanea con la scena della comparizione. La pericope è orchestrata attorno a tre successivi rinnegamenti (vv. 66-68.69-70a.70b-72a), prima del pianto legato al ravvivarsi del ricordo della predizione di Gesù (v. 72bc). E. l'ultima apparizione di Pietro nel racconto, se si eccettua il mes­ saggio della resurrezione ( 1 6,7), ed è il racconto più lungo che gli viene dedicato. Risulta quindi interessante ricordare innanzitutto come sia stato presentato in precedenza questo personaggio fra le cui funzioni narrative c'è pure quella di esprimere «Una rispo­ sta umana totalmente credibile» (Boomershine, Storyteller, 1 37). Con il nome di Simone, è il primo discepolo a essere chiamato e a rispondere positivamente ( 1 , 1 6- 1 8). Quando si evoca il gruppo dei discepoli, a volte il nome di Pietro è menzionato a parte ( l ,36; 1 6,7). Nel racconto dell'istituzione dei Dodici, viene in testa alla lista e riceve il soprannome di Pietro (3 , 1 6). All'interno di questo gruppo, in determinate occasioni, fa parte di una cerchia più ri­ stretta insieme con Giacomo e Giovanni (5,37; 9,2; 1 4,33), oppure con questi due discepoli e Andrea { 1 3,3). Fatta eccezione di Gio­ vanni (9,38), è l'unico discepolo di cui vengono riportate parole. Una prima volta si tratta del riconoscimento della messianicità di 594

Mareo 14,66-72

Gesù (8,29). Si oppone poi con violenza all'annuncio della passione

(8,32), poi, alla trasfigurazione, pronuncia una frase che tradisce la sua incomprensione (9,5). In 1 0,28 ricorda a Gesù il distacco di cui hanno fatto prova lui e i suoi compagni. In 1 1 ,2 1 attira l'attenzio­ ne sul fico seccato. E infine, protesta energicamente quando Gesù preannuncia la defezione dei discepoli e il suo stesso rinnegamento ( 1 4,29.3 1 ). Le ultime parole di Pietro si collocano per l'appunto nell'episodio del rinnegamento ( 1 4,68.7 1 ). Ritrovando Pietro nel cortile del sommo sacerdote, il lettore non avvertito si può chiedere che ne sia della predizione che Gesù gli ha rivolto in 14,29-3 1 (Merenlahti, 57). La precisione che si trova «giù» nel cortile lascia intendere che nel frattempo Gesù è su, nella casa del sommo sacerdote. Nel momento stesso in cui il maestro è condannato e schernito, lui si sta tranquillamente scaldando. Ma la sua situazione si ribalta quando una delle serve del sommo sa­ cerdote lo vede, probabilmente grazie al chiarore della fiamma (v. 54) - lo guarda in faccia e gli rivolge la parola (vv. 66-67), identifi­ candolo come uno dei compagni di Gesù, uno di quelli che «erano con lui » , conformemente a quanto Gesù aveva voluto per loro sce­ gliendone dodici (3, 1 4). Nella sua formulazione la serva dapprima chiama Gesù il «Nazareno>> per poi citarne il nome. Anche se il pri­ mo significato di questo appellativo è quello di ricordare l'origine geografica di Gesù (vedi la Nota su 1 ,24), nel contesto dell'arresto di Gesù potrebbe riflettere anche il disprezzo di un cittadino nei confronti di un provinciale (Légasse*, II, 932). La reazione di Pie­ tro è una negazione (v. 68). n tennine greco arneomai («negare»), utilizzato qui e al v. 70 ricorda il verbo aparneomai («rinnegare») utilizzato nell'annuncio di Gesù ( 1 4,30.72) e nella reazione di Pie­ tro ( 1 4,3 1 ) . !:unica altra ricorrenza di questo verbo si trova nell'in­ vito senza ambiguità rivolto da Gesù in 8,34: «Se qualcuno vuoi seguire dietro a me, rinneghi se stesso e prenda la sua croce e mi segua». Invece di rinnegare se stesso, come Gesù invita il discepolo a fare, Pietro comincia a rinnegare il suo maestro. La formula che usa è complessa (si vedano le Note), ma il suo significato generale è cliiaro: professa di ignorare ciò di cui gli sta parlando la donna. È come se non volesse avere a che fare con lei, batte in ritirata e, dal cortile, esce nel vestibolo. Mentre, entrando « all'interno» (eso) del cortile (v. 54) seguiva già Gesù « da lontano», ora si separa ancora di più da lui uscendo «fuori» (e.xo) {Heil, 340-34 1 ). n canto del gallo segna la prima tappa del triplice rinnegamento in conformità con la predizione di Gesù: «prima che il gallo canti due volte, tu mi rinnegherai tre volte» { 1 4,30). Nonostante la precisione di questa predizione, Pietro non presta attenzione al primo canto del gallo che avrebbe dovuto spingerlo a cambiare atteggiamento. Ma la serva non molla la presa. Sventando la tattica di Pietro, stavolta prende a testimoni i presenti, il che aumenta il pericolo (v. 69). Non si rivolge più direttamente a Pietro, ma lo presenta a tutti come «Uno di loro». Il che porta a un nuovo diniego di Pietro, senza che ne vengano citate le parole (v. 70a). 595

Marco 14,66-72

Un po' più tardi sono proprio i presenti che tornano all'attacco (v. 70b). Riprendono la frase della serva aggiungendovi un «Veramen­ te» a rimarcare la loro convinzione: di sicuro, Pietro è «dei loro». D'altra parte è un Galileo, come attesta la sua maniera di parlare. Insomma, l'accento provinciale ne tradisce l'origine e gli agganci con Gesù. n pericolo si fa più preciso, e la reazione di Pietro è al limite del panico: stavolta il diniego è accompagnato da giuramenti e imprecazioni o anatemi (v. 7 1 ). Prende Dio a testimone del fatto che non conosce l'uomo di cui gli parlano. Messo spalle al muro dagli interlocutori, giunge così al culmine del rinnegamento, abil­ mente presentato dal narratore in continuo crescendo. E subito il secondo canto del gallo sottolinea la caduta decisiva (v. 72a) . Pietro allora si ricorda della previsione di Gesù ( 1 4,30), le cui parole vengono riprese quasi letteralmente, omettendo soltanto l'espressione «questa notte» . Ripensandoci (si vedano le Note), Pietro prende coscienza della distanza tra la propria intenzione ( 1 4,29.3 1 ) e la crudele realtà, e piange. n senso di questo pianto non viene spiegato dal narratore. Ed è l'ultima azione di Pietro nel vangelo. Il lettore è cosi preparato ad accogliere con simpatia l'annuncio che farà il giovane al sepolcro, cioè che il risorto pre­ cede in Galilea «i discepoli e Pietro» ( 1 6,7) (Merenlahti, 58). Si è avanzata l'ipotesi che, con questo racconto, Marco intendesse in­ vitare il lettore a pentirsi a immagine di Pietro (Herron, 143). Ma non è questa la cosa principale sulla quale insiste il narratore, che alla fine del racconto nomina brevemente le lacrime di Pietro, ma senza spiegame la portata (Borrell, 1 94 ). Pietro non è neppure un modello puramente negativo, che bisognerà a ogni costo evitare di imitare (contra Geddert, Watchwords, 1 6 1 ). Se mai, è un personag­ gio realistico, in cui si trovano mescolati impegno sincero e leale verso Gesù e debolezza. Il lettore può facilmente riconoscersi in questo «discepolo fallibile» (Vorster, «Characterization», 74) tro­ vando in lui le difficoltà che egli stesso sperimenta nella propria vita cristiana, senza presumere delle proprie forze e pur sapendo che l'unico modello da imitare - o più esattamente da seguire - re­ sta Gesù (Borrell, 1 96-202). Nel seguito della passione, non si parlerà più di nessuno dei dodici. Ormai tutta l'attenzione è esclusivamente concentrata sulla sorte di Gesù, dichiarato reo di morte dai membri del sinedrio riuniti in casa del sommo sacerdote ( 1 4,64). La pericope seguente li presen­ terà nell'atto di consegnarlo alle autorità romane in vista della sua condanna ufficiale e della sua esecuzione. NOTE 65-72

Secondo Bultmann, Tradition, 341 , in una fase primitiva questa storia era una tradizione indipendente, e «in origine non può aver fatto parte della storia della passione». Per altri, invece, o è stata composta per essere

596

Marco 14,66-72

inserita nel racconto primitivo della passione in uno stadio premarciano (Gnilka*, Il, 291), oppure faceva parte fin dall'inizio di questo racconto (Pesch*, Il, 452). Non è necessario supporre che a uno stadio primitivo il racconto comportasse un solo rinnegamento, quello del v. 68 (contra Dormeyer, Passion, 1 50- 1 55). n motivo narrativo popolare del triplice rin­ negamento può essere davvero originale. In tal caso i ritocchi redazionali di Marco sarebbero molto ridotti. Secondo Gnilka*, II, 290-29 1 , si tratte­ rebbe del genitivo assoluto (v. 66a), del v. 67a, e della menzione «subito per la seconda volta» (v. 72). 68

La risposta di Pietro ovTE ot&x oiiTE ÈTit> e sul «perché» di questa frase, da leggersi in funzione di tutto ciò che le sta attorno nel vangelo (contra Herron, 1 38-1 39). Questa ipotesi non aggiunge nulla di particolare al senso. n primo significato del verbo Èmj3