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Italian Pages 664 [658] Year 2008
Da sempre il progresso in filosofia è stato segnato da discepoli che imitano i maestri finché non sviluppano, col loro aiuto, una propria originalità, che li porta a criticarli e nei casi migliori a superarli. "Si ripaga male un maestro" dice Zarathustra "se si resta sempre e solo l'allievo". Nel trattare, nelle prime sei sezioni di questo libro, i singoli autori a cui esse sono dedicate, ma poi anche quelli compresi nella Miscellanea, Sossio Giametta, pensatore trasversale, non si perde in esposizioni e commenti pedissequi, ma rileva il lavoro dei suoi maestri e lo continua, proponendo soluzioni originali. Dunque, lungi dall'essere una raccolta di divagazioni, questo libro è un contributo alla soluzione di problemi secolari della filosofia.
ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI IL P E N S I E R O E LA S T O R I A 125
SOSSIO GIAMETTA
I PAZZI DI DIO
CROCE, HEIDEGGER, SCHOPENHAUER, NIETZSCHE E ALTRI Saggi e recensioni
LA CITTÀ DEL SOLE
Seconda edizione accresciuta
I edizione 2002
Copyright © 2007 by ISTITUTO ITALIANO PER G L I STUDI FILOSOFICI Napoli, Palazzo Serra di Cassano Via Monte di Dio, 14
Edizioni LA C I T T À D E L SOLE® Vico Latilla, 18 80135 Napoli
ISBN 978-88-8292-378-5
INDICE
INTRODUZIONE
p.7 PARTE PRIMA
O M A G G I O (CRITICO) A C R O C E Croce e Gentile
19
Gentile e Croce (e Pintor)
27
Il volo di Icaro
32
Il Breviario di estetica
36
Teoria e storia della storiografia
40
Vite di avventure, di fede e di passione
45
Storie e leggende napoletane
49
Croce e von Ranke
52
Nuovi saggi di estetica
58
Il Croce di Giuseppe Galasso
61
Il carattere della filosofia moderna
65
Croce e i suoi maestri {Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici)
73
Croce e l'Enea virgiliano
79
Croce e le Elegie romane
95
Sull'autonomia o dipendenza delle opere dal contesto di origine e sulla riforma crociana della storia della letteratura e dell'arte
p. 113
PAR'I'B SECONDA
SPIGOLATURE HEIDEGGERIANE Il problema dell'essere
125
Concetti fondamentali della metafisica (mondo, finitezza, solitudine) Sul Nietzsche di Heidegger
144
La Lettera suW«umanismo»
151
L'essenza della verità
155
Contributi alla
• •
136
filosofia
158
Che cosa ha detto Heidegger
163
Les liaisons heideggeriennes (Considerazioni sulla storia d'amore di Martin Heidegger e Hannah Arendt)
173
PAKIK TERZA
SOLIDO E DURO: SCHOPENHAUER Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente
197
1. Due concezioni della ragione
197
2. Dove Schopenhauer ha ragione
199
3. Dove no
200
4. Il concetto scientifico e quello filosofico
202
5. La funzione della filosofia
203
6. Due anime
204
7. Francesizzante
206
8. Il dramma della conoscenza
207
9. Esaltazione dell'intelletto
209
10. Al di là della conoscenza
212
l\. Risultati
213
I due problemi fondamentali dell'etica
217
I Colloqui
256
Storia di una traduzione
266
PARTE QUARTA
L'ETERNO NIETZSCHE Cinque causeries
273
1.LouSalomé
273
2. Louise Ott
278
3. Wagner
284
4. Gli amici
290
3. La pazzia Nietzsche e Schopenhauer
295 300
1. Il chiasma
300
2. Uautodifesa di Schopenhauer
306
3. Le critiche di Nietzsche
3 08
4. Uaforisma 99 della Gaia scienza
314
5. Conclusione
316
Nietzsche e l'illuminismo 1. Due illuminismi e due tipi di illuministi
322 322
2. Il vero illuminismo
324
3. È Nietzsche un illuminista?
325
4. Non illuminista, ma...
328
5. Neosofista con base poetica
330
6. L'azione di Nietzsche
p. 332
7. Gesta prometeica
335
8. Il rovescio della medaglia
337
Nietzsche come principale rappresentante della crisi europea
341
1. Giano bifronte
341
2. La questione della responsabilità
343
3. Il nichilismo come fenomeno storico
345
4. fascismo, comunismo e volontà di potenza
349
3. Il nichilismo come filosofema
350
6. Il moralista-poeta
354
Che cosa porteremo di Nietzsche nel terzo millennio
358
Il Nietzsche di Lou Salomé
371
Una scienza gaia ma non troppo
374
Marx, Nietzsche e Weber all'attacco degli ideali ascetici
379
Il Centenario di Nietzsche
385
PARTE QUINTA
PAREYSON: NON L'ESSERE MA LA LIBERTÀ Ontologia della libertà. La sofferenza e il male
407
La lezione di congedo
426
Ricordo di Luigi Pareyson
430
PARTE SESTA
CESARE: IL GENIO PIÙ GRANDE DIVINUMINGENIUM: a proposito di un'interpretazione di Luciano Canfora
437
PARTE SETTIMA
MISCELLANEA Montaigne nel quarto centenario della morte
p. 451
Bruno, la falena dello spirito
455
Cartesio
462
1.1 trattati scientifici 2. Le opere
462 filosofiche
467
Spinoza: Etica e politica
471
Berkeley: Opere filosofiche
475
Kant: La Critica del giudizio
478
Hamann: Ritorna il Mago del Nord
483
Schleiermacher: Sulla traduzione
489
Hegel: Le filosofie del diritto
493
Schelling
497
1. Il dramma
497
2. Gli aforismi sullafilosofiadella natura
502
J>. La filosofia della mitologia
505
"Wilhelm von Humboldt: Il linguaggio
511
Leopardi riabilitato
516
Wilamowitz: La filologia è una cosa grande
520
Spengler: La profezia misconosciuta
524
Lowith: Il nichilismo europeo
531
Jùnger
536
1. L'apertura degli archivi
536
2. Cento anni
539
Gehlen: JJuomo: la sua natura e il suo posto nel mondo La scienza
546 552
1. La fine della scienza
p. 552
2. L'essere e il divenire
533
ò. Scienza e letteratura
558
Weischedel: I pazzi di Dio
563
Nolte: La guerra civile europea
566
Colli
570
1. L'incontro
570
2. L'Enciclopedia di autori classici
31G
ò. Gli eroici furori
580
...e Montinari
584
1. Fratelli nemici
5 84
2. Il granduca di Weimar
588
ò. Interpretazioni naziste
392
Colletti: Fine della
filosofia?
605
Sini: Immagini di verità
609
Torno: Quel che resta di Dio
615
Montano: Il progresso in
filosofia
629
Sgalambro: La morte del sole
639
Berti
643
1. Le ragioni di Aristotele
643
2. Le vie della ragione
646
Abbagnano: Tutto roggettivo diventa soggettivo, anzi convenzionale Plotino: La grandiosa sintesi della filosofia greca
10
651 655
IM bellezza La bellezza è la massima creazione di senso della vita e del mondo. ANONIMO CROCIANO La verità La verità non è una meretrice che si getta al collo di chi non la desidera, ma una bella così ritrosa che neanche chi è disposto a sacrificarle tutto può essere sicuro dd suoi favori. SCHOPENHAUER La virtù E come la stella che si spegne è ogni opera della vostra virtìi: ancor sempre la sua luce viaggia e va peregrinando - e quando non viaggerà più? NIETZSCHE
NOTA AI TESTI Come già segnalato nel sottotitolo, gli scritti qui raccolti sono saggi e recensioni destinati a riviste e quotidiani, relazioni e interventi scritti per convegni o seminari. Non ha molto senso segnalare ogni volta la provenienza, anche perché molti di questi scritti sono stati ritoccati o allungati o fusi. È doveroso ringraziare la RCS B.U.R. per aver autorizzato la riproduzione del saggio introduttivo a Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, come pure, per la stessa ragione, gli editori e i direttori di riviste e quotidiani. A titolo di orientamento, indicherò comimque che molti "pezzi" sono apparsi in II Mattino di Napoli, altri in il Giornale, in II Giornale di Vicenza, in «La Rivista dei libri», in «La Rinascita della sinistra». Croce e Gentile è apparso in «Idee» 28/29, 1995; Croce e l'Enea virgiliano e Croce e le "Elegie romane" sono apparsi nella «Rivista di studi crociani», ottobre-dicembre 1979 e ottobre-dicembre 1981; Il problema dell'essere in «Micromega» 2/97; Les liaisons heideggeriennes in «Belfagor» 31/5/97; i Colloqui di Schopenhauer nella rivista «Nord e Sud»; Nietzsche e l'Illuminismo nella rivista «Poetiche», 3/2000; Pareyson: non l'essere ma la libertà nel hbro 11 pensiero di Luigi Pareyson nella filosofia contemporanea, Trauben, Torino, 2000. Si chiede venia al lettore per Fuso non infrequente, specie nelle recensioni, di un linguaggio colloquiale, alquanto diverso da quello dei saggi piti impegnativi. Esso si spiega con la destinazione giornalistica di tali scritti, i cui contenuti, nella loro fondamentale serietà, non ne sono comunque intaccati. NOTA ALLA SECONDA EDIZIONE (2007) All'edizione del 2002 sono qui aggiunti sei nuovi saggi: nella prima parte. Sull'autonomia o dipendenza delle opere dal contesto di origine e sulla riforma crociana della storia della letteratura e dell'arte-, nella terza, I due problemi fondamentali dell'etica-, nella quarta. Il centenario di Nietzsche, nella settima, 3. Interpretazioni naziste-. Torno: Quel che resta di Dio-, Montano: Il progresso in filosofia. Si ringrazia la Bibhoteca di via Senato Edizioni in Milano per aver autorizzato la pubblicazione del saggio sui due problemi fondamentali dell'etica di Schopenhauer.
INTRODUZIONE Basta amare, odiare, desiderare, sentire in genere, - e
subito sopravvengono in noi lo spirito e la forza del sogno, e noi saliamo, con gli occhi aperti e con freddezza verso ogni pericolo, per le vie più pericolose, su su fino ai tetti e alle torri della fantasia, e senza provare alcuna vertigine, c o m e fossimo nati per a r r a m p i c a r c i - n o i sonnabuli diurni! N o i artisti! N o i nasconditori della naturalità! N o i l u n a t i c i e pazzi di D i o ! NIETZSCHE
I pazzi di Dio sono, secondo Wilhelm Weischedel, i filosofi tutti, perché la loro ricerca ha sempre per oggetto Dio, che lo si affermi o lo si neghi. Conformemente a ciò, Weischedel progettò una Teologia filosofica nell'età del nichilismo-, per raccontare «la storia dell'ascesa e del tramonto della teologia filosofica e verificare se all'ombra del nichilismo sia ancora possibile una concezione di Dio unicamente fondata sulla ragione finita dell'uomo». Così recita la quarta di copertina di II Dio dei filosofi, che di tale teologia fa parte. Nell'articolo su questo libro (pag. 495 sg.) si spiega che i filosofi sono, in realtà, pazzi del mondo. Perché la loro ricerca, come la loro passione, comincia e finisce nel mondo, da cui essi originano, a cui appartengono in toto e che solo sta loro a cuore. Sono vita che vuole vita, mondo che vuole mondo. Cioè sono pazzi di se stessi, perché nel mondo proiettano se stessi e in se stessi proiettano il mondo. Se indagano il mondo, è per conoscersi e accrescersi: all'infinito e per l'eternità; giacché il titanismo nell'uomo è, in primo luogo, soltanto naturale. S'inganna allora Weischedel? Solo in via immediata. Esplorando il mondo, che cosa trovano i filosofi? «Dopo la sentenza di Nietzsche sulla morte di Dio [...], lo spettro imbarazzante del Nulla: il nichilismo» (ibidem). Ci sono voluti millenni per arrivarci, ma questo era l'approdo fatale della ricerca filosofica basata sulla natura. È vero che la natura è il portato dei sensi, lo spettacolo 13
costituito dalle forme a priori dell'intuizione coniugate con la categoria della causalità, cioè fenomeno, illusione, velo di Maja. Per questo di tempo in tempo i filosofi hanno tentato di restringerne l'imperio, di toglierle spazio. Hegel, per esempio, che cosa non ha detto e fatto per sminuire e svilire la natura («gli astri sono la lebbra del cielo», mentre costringeva l'uomo a ingurgitare il mondo sotto forma di Idea. Contro i tre volumi della logica, i tre dell'estetica, i tre della storia della filosofia ecc., ha schierato solo una striminzita Naturphilosophie. Come lui hanno fatto altri. Ma tutti costoro hanno trascurato un particolare: da questo fenomeno, da questa illusione, da questo velo di Maja, noi dipendiamo per la gioia e il dolore, lo sviluppo e la stasi, la vita e la morte. Giacché la natura è la potenza, immensa e insuperabile. Per questo sempre altri filosofi hanno cercato di far fare la giusta parte a questo fenomeno, che per noi è il noumeno dei noumeni, o cercando qualche spericolato equilibrio tra uomo e mondo, spirito e materia, o riconoscendo apertamente la nostra servitù e dipendenza da esso. Così hanno fatto da ultimo Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger. Ma seguendo costoro si può e si deve fare ancora un passo, quand'essi si fermano. Questo passo è la conclusione che bisogna trarre in due sensi opposti da tutto lo sviluppo filosofico dell'Occidente. Al termine di esso ci si trova davanti a un bivio. La via che porta dentro la natura si allontana dall'uomo e da quel che l'uomo può conoscere capire amare e desiderare. Alla fine lo nega. La natura annega l'uomo e tutto quello che è umano nella sua immensità indifferente. «La nature, voilà l'ennemi!» E soprattutto: voilà l'étranger! Ciò va riconosciuto una volta per tutte, è un principio, un a priori. Un'altra via ritorna indietro, si addentra nell'anima e segna quel cammino eracliteo nella sfera dell'interiorità
1
14
che è il mondo dell'umanità, dell'ordine e di Dio. Questo deve diventare un altro principio, un altro a priori-. Dio è il sistema dell'uomo. Non nel senso che l'uomo si identifichi con Dio o viceversa: all'uomo non va tolta nessuna debolezza o grandezza che gli viene dal suo essere umano. Ma nel senso che Dio è la proiezione geometrica necessaria della forma spirituale dell'uomo. Cioè il fatto che l'uomo sia uomo postula automaticamente il sistema Dio. Questo postulato, all'uomo non è dato negarlo. Se lo nega, o s'inganna o imbroglia. Ne discende che cercare se stesso, il se stesso massimo, per l'uomo significa automaticamente cercare Dio. Alla fine pazzi di Dio, pazzi del mondo e pazzi di se stessi vuol dire la medesima cosa.
15
PARTE I
OMAGGIO (CRITICO) A CROCE
I »
I
l
CROCE E GENTILE
Croce disse una volta, riferendosi a se stesso e a Gentile: «Noi siamo i Cesari e i Pompei della nostra epoca». Ammesso che sia legittimo equiparare i dissidi dei filosofi ai grandi dissidi storici, è vero che una specie di guerra civile fu quella che seguì, nella cultura e nella vita politica italiana, alla rottura della loro amicizia e collaborazione. Queste, a loro volta, non erano state meno di un duumvirato, stretto fra i due maggiori filosofi italiani peri conquistare la cultura del loro paese. Perché, fatta l'Italia, non restavano da fare solo gli italiani, come fu detto, bensì anche la cultura italiana. «Lo Stato nuovo», scrisse Jaja al suo allievo Gentile, «è sorto in Italia, ma lo spirito filosofico nazionale non è pari a esso. Il che vuol dire che ci è lo Stato senza l'anima dello Stato». Queste parole illuminanti del primo maestro di Giovanni Gentile avrebbero ispirato tutta la vita e l'opera del suo allievo. Ma queste non avrebbero potuto essere quelle che furono senza l'amicizia e anche l'inimicizia di Benedetto Croce. Soltanto con l'amicizia e l'inimicizia di Croce e Gentile si chiuse, infatti, il cerchio che si era aperto col Risorgimento, si concluse cioè in Italia quel lungo processo di emancipazione e di evoluzione che, dopo aver portato il paese all'unità e all'indipendenza politica, lo portò anche all'unità e all'indipendenza spirituale. Ciò spiega, d'altro canto, anche il famoso o famigerato ritardo della cultura italiana rispetto al resto della cultura occidentale, come pure l'avversione della prima, nella sua sanità fondatrice, al decadentismo europeo, 19
caratterizzato dalla perdita della stabilità morale e dalla rotazione dei valori verso l'estetismo e il vitalismo. Questa integrazione e unificazione spirituale dell'Italia dopo la sua emancipazione ed unificazione politica non era certo casuale. Essa corrispondeva a quella che da sempre è la funzione istituzionale, "fisiologica", della cultura e della filosofia in particolare come sua forma matura: accompagnare e completare i processi storici, sociali e politici. Questi non cominciano mai in esse, ossia nel solo ambito umano, bensì dalla totalità della storia; ma sono da esse accompagnati, alimentati, sostenuti e completati, a tal punto che senza di esse individui e Stati, popoli e società, vivrebbero una vita dimezzata. Si potrebbe farlo notare - detto incidentalmente - a quanti continuano a domandarsi oziosamente a che cosa serva la filosofia o la cultura in genere. Da quella grande conquista discendevano tuttavia, oltre ad effetti collaterali positivi, come quello sopra menzionato, anche effetti negativi, come quello che diremo subito. L'Italia, come Stato unitario, era giovane, mentre non lo erano le altre nazioni europee. Non lo era soprattutto la Francia. Ma non lo era, spiritualmente, neanche la Germania, sebbene fosse anch'essa giovane come Stato unitario. La grande ondata della sua cultura, che aveva accompagnato e favorito il risveglio nazionale, continuava, filtrata, nello storicismo. Ma era, nella sua spinta principale e diretta, consumata, esaurita da reazioni e controreazioni. Dava anzi essa stessa origine, insieme con la Francia, al decadentismo. In Italia, però, la cultura e la filosofia non avevano solo accompagnato e favorito il movimento unitario: si erano del tutto identificate con esso; non v'era stato in esse quello iato tra ispirazione universale e recupero nazionale che v'era stato nella cultura tedesca. Era quindi naturale che celebrassero alla fine un grande trionfo, comportante tutta20
via, nella sua compattezza, anche un elemento di chiusura, non nel senso di non voler conoscere gli autori della modernità, ma di non volere e potere avere con loro (Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger ecc.) un colloquio pregnante, sul loro stesso terreno. Se, applicando a Croce e a Gentile la loro stessa concezione dell'individuo come strumento o "istituzione" dello spirito, li si considera non separatamente nelle loro diverse individualità, ma come due strumenti od organi di questa operazione dello spirito italiano, non si può non ammirare la superiore intelligenza o "astuzia" dispiegata dal superindividuo Croce-Gentile nell'organizzare e condurre la sua lotta. Comincia Croce con un attacco a fondo del positivismo. Gentile si schiera al suo fianco. Insieme conducono una grande campagna, di chiarificazione e di debellamento del marxismo. Poi, mentre Croce, con l'aiuto di Vico e De Sanctis, "attacca" Hegel e gli altri filosofi tedeschi e no (Kant, Bergson, Dilthey, Meinecke, Herbart ecc.) su su fino a Cartesio, e nella scienza affronta Poincaré, Mach, Avenarius e lo stesso Freud, Gentile ricupera Fichte contro Hegel, all'esterno, e all'interno i filosofi italiani dell'Ottocento e quelli dei secoli precedenti: Spaventa, Labriola, Rosmini, Gioberti, Genovesi, Galluppi ecc., fino a Bruno e ai pensatori del Rinascimento e della Scolastica. Per Gentile ogni filosofia aveva e doveva avere carattere nazionale; invece per Croce il concetto di nazionalità era «da sbandire una buona volta dal campo della scienza». Ciò nonostante, entrambi agivano nello spirito di Spaventa, che aveva scritto: «L'Italia apre le porte della civiltà moderna con una falange di eroi del pensiero», che «preludono pili o meno a tutti gli indirizzi posteriori [...]. Così Bacone e Locke hanno i loro precursori in Telesio e Campanella, Cartesio nello stesso Campanella, Spinoza in Bruno, e nello stesso Bruno si trova 21
un po' del monadismo di Leibniz». Alla filosofia e alla storia delia filosofia, come armi principali, si aggiungono, in un'organizzazione spontanea quanto efficace, altre armi: le opere di filosofia che Gentile affianca a quelle di Croce; «La Critica», rivista di battaglia fondata da Croce e scritta da entrambi; «Nuovi Doveri», una rivista pedagogica fondata da Giuseppe Lombardo-Radice, un allievo di Gentile; varie collane filosofiche presso vari editori e infine, da parte di Gentile, l'insegnamento diretto. Poiché il nemico da battere era la cultura accademica, non c'è da meravigliarsi che Croce non amasse l'insegnamento, a cui rimase sempre avverso o estraneo. Ma Gentile era diverso. Anzitutto, a differenza di Croce, aveva bisogno dell'insegnamento per vivere; poi vi si sentiva vocato; terzo, aspirava a penetrare nella cittadella del potere universitario per impadronirsene ed esercitarlo a sua volta dall'interno. Tra le sue opere filosofiche ce n'è una, il Sommario di pedagogia come scienzafilosofica,che sviluppa quello che era forse il suo interesse più originale. La vocazione educativa era in lui forza e debolezza insieme. Intorno ad essa Gentile costruì la sua vita e a causa di essa il dissidio filosofico con Croce divenne, trapassando in politica, profondo e insanabile. All'inizio della sua carriera. Gentile ebbe la vita dura. Le sue aspre polemiche gli creavano molti nemici nel corpo accademico ufficiale, che poi, al momento buono, facevano di tutto perché non fosse ammesso in seno ad esso. Dice Sergio Romano; «Gentile assestava colpi durissimi e usava la penna come una falciatrice: gli premeva spianare il terreno davanti a sé perché le sue idee potessero avanzare piti spedite». Croce lo difese spesso con grande impegno e generosità, e poiché era ricambiato allo stesso modo da lui, non meno nobile e generoso anche se meno abbiente e potente, la loro alleanza potè, per molti anni, dare ottimi frutti. 22
La loro prossimità spirituale non venne mai meno, neanche quando venne meno l'amicizia. Essi avevano temperamenti diversi, come dice a Gentile Fausto Nicolini: «tu più contemplativo e mistico.... Benedetto più versatile e brillante; tu filosofo tutto d'un pezzo, Benedetto tuffato spesso anche nelle cose di questo basso mondo; tu più simile allo Spaventa, Benedetto più simile al De Sanctis». Ma avevano soprattutto affinità morali e intellettuali. A Croce, più stoico e disincantato, la vita appare «una tragedia nella quale, attraverso l'onta e il dolore, si crea faticosamente il bene e il vero»; a Gentile, più fiducioso e ottimista, la vita appare una lotta «tra il me vivo che si divincola in eterno da questo me morto, che gli è dentro, e che egli stesso quasi alimenta». E il tema dell'attualismo, alimentato dalla reazione all'eccesso di storicismo che già aveva formato oggetto di una famosa trattazione di Nietzsche {Sull'utilità e il danno della storia per la vita). Entrambi avevano radicati in cuore gli ideali risorgimentali, che in Gentile saranno soltanto mal soverchiati da quelli del fascismo. Entrambi credevano allo spirito come unico soggetto e unica realtà. Ma lo spirito aveva due facce, non una sola, e ciascuna di esse postulava necessariamente l'altra. Croce incontrava lo spirito nelle sue oggettivazioni, in particolare nella storia, donde il nome di "storicismo assoluto" dato al suo sistema; Gentile lo incontrava nel pensiero pensante, che non presuppone nulla e crea tutto, nell'atto puro, donde il nome di "attualismo" per il suo sistema. Per Croce contavano le opposizioni e distinzioni, su cui, secondo Matteucci, si fonda il pluralismo politico, per Gentile l'unità, su cui si fonderebbe invece la dittatura. Come si vede, essi erano tra loro complementari, erano fratelli-nemici, come Nietzsche aveva detto di Hegel e Schopenhauer. Le divergenze, le critiche reci23
proche, in seguito anche l'inimicizia entro certi limiti, li aiutarono. Non si capisce infatti il puntiglio dialettico con cui Croce espone nelle sue opere le sue teorie, l'ampio contorno e contrappunto di confutazioni da cui le fa quasi risultare per eliminazione, se non si sa dell'elaborazione a due di molte di esse e della nascita contrastata o avversata di altre. A sua volta Gentile deve non poco alle tetragone obiezioni di Croce. In fondo tutto si riduceva a vedere le cose a parte objecti o a parte subjecti, e ciò celava l'antica questione se sia più importante l'individuo o l'opera: questioni già dibattute da Hegel e Schelling, la prima, e da Goethe e Schopenhauer, la seconda. Ma essi non se ne accorgevano. Per due ragioni: anzitutto perché due filosofi che sono tra loro complementari per lo spirito puro contrastano come individui empirici, cioè litigano; poi perché dalle divergenze teoriche discendevano gravi conseguenze pratiche. La lite scoppiò nel 1913, quando Croce, provatissimo dalla morte della sua compagna Angelina, decise a un certo punto di prendersi in pugno e, visto che bisognava continuare a vivere, di affrontare tutti i problemi che andavano affrontati. Tra questi c'era quello del lungo e a lungo insabbiato o non apertamente dichiarato dissenso filosofico con Gentile. Decise quindi di portarlo in pubblico, poiché, disse, non si trattava di cosa privata. La loro amicizia ne uscì scossa. Ma essa fu rovinata solo dalla trasformazione del dissenso filosofico in dissidio politico quando, più tardi, Gentile aderì al fascismo e ne divenne il teorico principale. Al fascismo Gentile faceva comodo. Egli affermava lo spirito nella sua immanenza e attualità, ma negava tutte le differenze: tra passato e presente, conoscenza e volontà, pensiero e azione, tesi e antitesi e - diceva Croce - bene e male, ragione e follia ecc. Inoltre, faceva confluire tutte le cose nella filosofia, filosofizzava tutto. Il 24
fascismo ne ricavava la più grande libertà, da usare a suo piacimento. Ma anche il fascismo andava abbastanza bene a Gentile. Lo Stato di Croce era quello del Risorgimento liberale; lo Stato di Gentile era quello etico derivato da Hegel. Questo Stato era insieme filosofo, maestro e sacerdote, ed era nettamente superiore all'individuo. Ma sotto questa concezione c'era una realtà del tutto diversa, anzi, per il suo irrazionalismo e vitalismo, aberrante. Il fatto era che, mentre perfezionava un processo storico nazionale, la filosofia italiana era stata colta di sorpresa dallo scoppio, proprio in Italia, di un'epidemia, che aveva bensì carattere nazionalista, ma che era propriamente il primo focolaio di una crisi internazionale proveniente da lontano, frutto di un ben più vasto ed eterogeneo processo storico. Era appunto il fascismo, che si sarebbe diffuso a macchia d'olio in Europa e avrebbe avuto la sua intensificazione e il suo culmine nel nazionalsocialismo tedesco. Ben presto Croce capisce che il fascismo rappresenta la fine di tutto ciò per cui ha vissuto e scritto e si schiera contro. Gentile invece, che era rimasto in posizione arretrata, preso dall'urgenza di esercitare il proprio influsso (e lo eserciterà con molte ricadute positive per il paese), fa confluire la sua piccola e sana corrente epigonale nel corso vasto e limaccioso che percorre e devasta con le sue piene l'Europa, ma col quale in realtà egli non aveva niente da spartire. Fu questo, se si vuole, il suo primo vero tradimento: il tradimento degli ideali risorgimentali. Ma quella certa sete di potere che lo indusse a consumarlo, dopo avergli dato modo di creare in Italia una vera e propria "scuola" gentiliana, di riformare da ministro le istituzioni scolastiche, di legare innumerevoli e feconde amicizie, di portare a termine la grande impresa del25
l'Enciclopedia Treccani, di rinnovare la Scuola Normale di Pisa e di fare tante altre opere di bene, fu la causa principale della sua rovina. Guai agli intellettuali quando si mettono a far politica! Essi sono troppo diversi dai politici per potersela cavare nei tempi di crisi, perché la delicatezza della loro coscienza impedisce loro di stare decisamente da una parte scartando l'altra. Sono presi da scrupoli ed oscillano, sicché finiscono con l'inimicarsi amici e nemici. Fu quello che accadde a Cicerone, che ne ebbe la testa mozzata. Fu quello che accadde anche a Gentile, che fu ucciso non si sa ancora bene se dai partigiani, come sembra, o dai fascisti. Egli figura pertanto come un tragico Don Chisciotte, grondante di umanità, schiavo insieme della sua grandezza e delle sue debolezze, pieno di verità e illusioni, di misura ed esagerazione, di amicizie e inimicizie, in cui sembra rispecchiarsi il destino stesso dell'uomo.
26
GENTILE E CROCE (E PINTOR)
Nella corsa con Croce, Gentile era rimasto staccato. Anche nel revival era rimasto indietro, fino a pochi anni fa. Tanto è vero che anche Sergio Romano, che nel 1984 pubblicò uno studio su di lui {Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Bompiani), disse a un intervistatore che in Croce si sentiva la grande filosofia europea, mentre in Gentile si sentiva Jaja, cioè il provincialismo italiano. Ma, nonostante che il torrente crociano - studi, ristampe, rivalutazioni dopo le svalutazioni, edizioni di Stato (sono appena andati in libreria altri tre volumi di Bibliopolis: Cultura e vita morale e due volumi di Scritti e discorsi politici) - non faccia che ingrossarsi (è per la verità già un fiume maestoso), il vantaggio si accorcia e rischia addirittura di rovesciarsi. Non solo in senso quantitativo. Infatti, dopo Gentile filosofo europeo, che è il titolo di un libro di Salvatore Natoli ma anche il motto dei gentiliani, si comincia a sentire, e forse presto si vedrà, un libro con questo titolo: Gentile filosofo mondiale. Quasi che fosse presa da un senso di colpa, non solo per la brutta morte che a Gentile toccò subire, ma anche per il ritardo col quale reagisce, tutta l'Italia, dei professori, degli studiosi e appassionati di filosofia e anche di tanti che ignorano tutto dell'attualismo, si affanna per riportarlo nel proprio seno. Sta di fatto, però, che Gentile, come filosofo, è tutto un problema. Perché è difficile stabilire se il suo idealismo attuale sia un ramo tardo dell'hegelismo o una 27
filosofia forte e originale o una ripresa di Fichte contro Hegel, dato che lo sforzo di recuperare allo Spirito (soggetto trascendentale) l'oggettività, che distingue Hegel da Fichte e Schelling, trova riscontro in Croce ma non in lui. Stranamente, anche il fine che persegui per tutta la sua vita: formare uno spirito nazionale, «fare gli italiani» dopo che era stata fatta l'Italia, fu conseguito, secondo qualcuno, più da Croce che da lui. Per esempio secondo Girolamo Cotroneo {L'ingresso nella modernità. Movimenti della filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Morano), per Gentile ogni filosofia deve avere carattere nazionale, mentre per Croce il concetto di nazionalità è «da sbandire una buona volta dal campo della scienza» (non però dell'etica e della politica), sicché Gentile coltiva la tradizione risorgimentale (Spaventa, Rosmini, Gioberti, Galluppi), «rimasta singolarmente arretrata rispetto al resto d'Europa», mentre Croce si ricollega, nell'affrontare i grandi autori di allora (Marx, Bergson, Dilthey, Meinecke, Herbart e a monte Kant, gli idealisti tedeschi, Poincaré, Mach, Avenarius ecc.), alla grande tradizione italiana (Telesio, Campanella, Bruno, Galilei, Vico), che aveva gettato le basi per la grande cultura della modernità. Tutt'e due, ad ogni modo, ostacolarono le scienze più che non le promossero. Perché è vero che cercarono solo di delimitarne il campo, ma proprio questa operazione, che sembra legittima e ottima, consegue in genere da una mancanza di limitazione del campo dalla quale viene effettuata. Lo si vede nell'epistolario: Gentile e i matematici italiani (Bollati Boringhieri), curato da Angelo Guerraggio e Pietro Nastasi. Qui Gentile e Croce sono tutto rispetto e cortesia, ma finiscono con lo stroncare un movimento matematico che prima della loro egemonia era giunto, con una folta ed eroica schiera di studiosi, ai vertici dello sviluppo matematico europeo. 28
Il problema Gentile non è comunque affrontato neanche da altri due libri che pure forniscono sul filosofo di Castelvetrano e sul duello Gentile-Croce i piii ampi e interessanti schiarimenti: L'inquietudine del divenire (Le lettere), di Antimo Negri, che ha raccolto e commentato in un'ampia introduzione i suoi saggi già pubblicati su Gentile, e Croce e Gentile. Moralità ed eticità (Franco Angeli), di Annamaria Montecchi Camizzi, una bravissima studiosa che sviscera i problemi fondamentali e i motivi del fatale incontro-scontro del Cesare e del Pompeo della filosofia italiana del Novecento. Ma non solo la filosofia e la vita pubblica di Gentile interessa attualmente gli italiani, bensì anche quella privata. Questa viene fuori, nella sua ricchezza, dai molti epistolari che la casa editrice «Le lettere» sforna insieme ai saggi. L'ultimo è il Carteggio Gentile-Pintor, che raccoglie le lettere scambiatesi per tutta la vita da Gentile e Fortunato Pintor, da quando frequentavano insieme la Scuola Normale di Pisa. Affettuosità e convenevoli, in una sterminata sequela di fatti di scuole, colleghi e conoscenti, lavori letterari o filosofici, professori, biblioteche, malattie, nascite e morti, stancherebbero inevitabilmente il lettore se questi non vi sentisse dentro uno spirito di amicizia, una fedeltà a se stessi e al passato, una costanza di umanità in mezzo all'instabilità alla fine drammatica di tutte le altre cose, che finiscono con l'imporsi come modelli morali. Fin dall'inizio Gentile, che era un anno avanti a Pintor, fa la parte del fratello maggiore. Poi, man mano che sale in dottrina e in potere, da fratello si fa quasi padre, e come tale esercita su Pintor anche una specie di patria potestà. Certo Pintor era dolce. Ma non necessariamente debole. «Io t'ho voluto sempre bene con l'affetto di un fratello maggiore, da quando venisti, piccolo d'anni e di statura, alla Scuola di Pisa, a farci conoscere il tuo animo angelico e il tuo acutissimo inge29
gno», gli scrive Gentile. Ma poi aggiunge: «Ma dal giorno in cui cominciarono a percuoterti i più fieri colpi della sventura e io potei vederti umilmente grandeggiare nelle tue eroiche virtù, al mio affetto s'è aggiunta tanta stima ed ammirazione e così intima simpatia, da non potermi più contentare dello stesso nome di fratello per esprimere quel che io vedo in te». E parla della sua «costanza invincibile di propositi, sincerità perfetta d'animo e di vita». In effetti Pintor gli resistè quando Gentile lo incoraggiò a sposarsi (ma il matrimonio alla sorella di Pintor non andava bene) e quando non solo l'amico, diventato riformatore della scuola e ministro, ma tutti e tutto in Italia erano fascisti, così come onorò l'amico dopo la sua uccisione (15/4/1944), quando ormai tutti e tutto erano diventati antifascisti. Solo una volta ci fu tra loro uno screzio: quando Pintor venne a sapere non direttamente da Gentile che questi si era fidanzato con Erminia Nudi, che poi avrebbe sposato. Ma subito Gentile lo placa, spiegandogliene le ragioni e descrivendogli la sua Erminia, «un nome, come vedi, molto filosofico: nientemeno che il titolo di un libro di Aristotele [Perì Hermeneias], Dell'interpretazione] ! Ma il nome appartiene alla più buona ragazza, che io abbia mai conosciuta, adorna delle più amabili virtù e delle più preziose doti di indole. Colta, quanto potrei desiderare; e pur ottima massaia; - due qualità che assai raramente si trovano accoppiate. Il giudizio più fine e il sentire più delicato me ne fan sempre ricercare il consiglio, e mai pentire di averlo cercato». Pensa che l'amico possa ridere di lui e lo rassicura: lui non esagera, e quella ragazza l'ama davvero, ma la mitezza di lei, che gliela fa amare con tenerezza, «non m'ha acceso di quella passione che accieca». Con o senza passione, Gentile ebbe da lei sei figli, perché era fecondo in tutto. Scrisse infatti molte opere e compì molte 30
imprese, tra cui famose la riforma della scuola, l'Enciclopedia Treccani e la riorganizzazione della Normale di Pisa. Fondò una scuola di pensiero che come si vede è ancora attivissima, e amò e combatté molti. Ma si mise in testa di mediare, rimediare, eccepire e rispettare, e questo alla fine lo portò, povero Don Chisciotte, in una spirale di odio e ostilità che gli costò la vita non si sa bene se per mano dei partigiani, come sembra, o ad opera dei fascisti, ai quali aveva causato, per dignità e umanità, non meno fastidi che ai partigiani.
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IL VOLO DI ICARO
Nella sua profonda serietà Croce rifuggiva naturalmente dal paradosso e dalla forma brillante alla francese; ma, nonostante la sua calma e bonomia abituali, non rifuggiva affatto dalle audacie, come porta la mania che, secondo lui, fa grandi i filosofi allo stesso modo che, secondo Platone, fa grandi i poeti. Più volte, anzi, rifacendo all'inverso il cammino di Platone (sfociato nella condanna dei poeti), accomunò i filosofi ai poeti per il fuoco di verità che li consuma allo stesso modo che il fuoco di bellezza consuma i poeti. Tutto questo espresse anche nell'epigrafe apposta alla sua bella opera Etica e politica, la sola scritta nell'abito che tanto gli si attaglia di moralista: nunc ratio est impetus ante fuit, ciò che ora è ragione era prima passione. Di questa audacia diede subito prova nel suo primo libro sistematico, VEstetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, che sarebbe stato il primo dei quattro componenti la sua Filosofia dello spirito e che ora l'Adelphi ha ripubblicato a cura di Giuseppe Galasso. Già nel primo capitolo, infatti, enuncia la tesi che dominerà il libro: l'arte è intuizione e l'intuizione è espressione. Il resto viene dedotto «con perentoria consequenzialità» (scheda Adelphi). Ma già dal primo capitolo cominciano anche i dubbi per chi legge e impara e ammira, magari non per la prima volta, ma non riesce a tacitare le obiezioni che sorgono in lui. La storia dei dubbi e delle obiezioni, e in genere dell'opposizione a Croce, è ormai lunga quanto quella 32
dei suoi successi, e ancor oggi non è affatto finita. Come tale, meriterebbe uno studio a parte ancora più esteso e approfondito di quelli già eseguiti, se è vero che la storia della filosofia è la storia dei sistemi ma insieme della ricezione dei sistemi, ossia dei contrasti e dibattiti da essi suscitati. Per l'Estetica si potrebbe attingere a piene mani àoSÌ'Appendice bibliografica di Galasso. Comunque un tale lettore avrebbe potuto contare sulla comprensione di Croce. Questi, che sapeva in genere far tesoro dell'opposizione in buona fede, si giustifica in effetti così con «l'amico Renier» ostile alla sua Estetica-, «...non voglio imporre le mie idee a nessuno, ma ho il dovere di difenderle finché mi sembrano vere. E se sono erronee, pazienza: dalla leale e vivace difesa di esse sorgerà un'opposizione che sarà utile agli studi» (lett. 15/5/1903). Il primo dubbio è se si dia una conoscenza non della realtà. Dopo il categorico e magnifico inizio: «La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l'intelletto; conoscenza dell'individuale o conoscenza dell'universale; delle cose singole o delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d'immagini o produttrice di concetti». Croce s'impegna a dimostrare che la conoscenza intuitiva può essere conoscenza del reale ma altresì del possibile, e certo anche - nessun limite essendo stabilito - dell'impossibile. Ma una conoscenza che non sia almeno mediatamente, derivatamente, una conoscenza del reale, magari interiore, non si vede che conoscenza possa essere. Quindi il possibile e l'impossibile devono provenire qui, attraverso trasformazioni o deformazioni, dal reale. Avrà Croce pensato così? Non l'ha detto, e il dettato non autorizza questa interpretazione. Poi: alcuni filosofi non accettano due forme della conoscenza di pari dignità. Alcuni sostengono il primato di quella intuitiva o la sola validità di questa, rispetto 33
alla quale l'altra sarebbe strumentale, un mero «affinamento degli istinti», altri il primato di quella intellettiva, come rispettivamente Schopenhauer, Nietzsche e Hegel. Qualcun altro, come Schelling, parla di «intuizione intellettuale», che pur vorrà dire qualcosa. Dunque i dubbi non sono ingiustificati. Non si può neanche accettare che intuire non sia «porre nello spazio e nella serie temporale», almeno se si accetta che spazio e tempo (e causalità) sono forme a priori dell'intuizione e quindi non possono non inerirvi. Sulla postulata identità di intuizione ed espressione non vale neanche la pena di soffermarsi, tanto questo punto è stato tormentato e controverso. Ben si può accettare invece che homo nascitur poèta, cioè che le intuizioni dell'uomo comune sono formalmente artistiche come i canti di Leopardi allo stesso modo che nella pietra ci sono gli stessi elementi chimici che ci sono nella montagna. Ma non si può accettare affatto che il contenuto, nel fenomeno complessivo dell'arte, non abbia una grande importanza, per il critico ma certo già anche per il filosofo. Ci può essere tra gli artisti una distanza superiore a quella che c'è tra l'uomo comune e un artista "piccolo". La grandezza inerirà sempre all'arte, dice Croce, ma c'è chi è per così dire due volte grande, e questo per gli uomini ha grande valore. Anche qui dunque, dove Croce ha formalmente ragione, si annuncia quel purismo che diventerà il difetto tipico della sua filosofia e sciuperà parzialmente un ingegno filosofico di prim'ordine, il più grande che abbiamo comunque avuto in Italia dalla sua epoca in poi. Questo stesso purismo non era casuale, bensì un derivato logico di un sistema che concepiva lo spirito come tutta la realtà e negava l'esistenza stessa - salvo che come presupposto dello spirito e come limite della sua attività - della natura, dell'oggetto, del Non-io. Era 34
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dunque il rovescio della purezza che, come trionfo dell'attività e dei valori umani, è stata raramente affermata con tanta forza ed efficacia. Da questa concezione umanistica e idealistica scaturisce necessariamente l'ottimismo storico, come «traduzione del mondo nell'uomo» (Nietzsche), che Croce non abbandonò mai, neanche quando si accostò, dopo che all'economicità, alla "vitalità", per rendere conto del male. Conseguentemente, più che contro altri filosofi si accanì contro Schopenhauer, che poneva in grande risalto la "natura" e il male della natura. Ma non impunemente si spinge a margine la natura, l'irrazionale, la forza, l'istinto e tutto ciò che fa soprattutto la nostra vita - e la nostra arte. «La parola non è fatta per le intuizioni», ammonisce Nietzsche, «e l'uomo ammutolisce quando si trova dinanzi a esse, oppure parla unicamente con metafore proibite e con inauditi accozzamenti di concetti, per adeguarsi almeno creativamente - almeno con la distruzione e derisione delle vecchie barriere concettuali - all'impressione della possente intuizione attuale»'. Questa è la natura, con cui dobbiamo sempre fare i conti, e non quella che, essendo spirito, «non si può svolgere senza alcuna coscienza» e «nel suo intimo anela al bene e rifugge dal male». «Bella ma non functiona» disse Ezra Pound a chi gli parlava dell'estetica di Croce. Per l'arte moderna, essa non ha funzionato. E non sempre funziona secondo l'uso che Croce ne predica. Ma la difettosa applicabilità non pregiudica i principi, e quelli di Croce hanno per sé l'avvenire, sebbene non abbiano più un presente. Il suo volo è stato alto.
' Su verità e menzogna in senso extra-morale, in fine.
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IL BREVIARIO
DI
ESTETICA
Solo Sergio Givone, dei tanti commentatori di Croce, è andato vicino, nel recensire sul «Mercurio» del 16/ 6/90 il Breviario di estetica ripubblicato dall'Adelphi insieme con VAesthetica in nuce, a quella interpretazione non solo dell'estetica ma dell'intera filosofìa crociana che è da tempo latente in tutta l'esegesi seria di Croce e che si imporrà prima o poi come l'unica retta e giusta. Nel rilevare, infatti, la distanza che ci separa dalle teorie estetiche di Croce (arte come espressione purificata e armonica dei sentimenti, come riconciliazione dello spirito con la sensibilità e la terrestrità, come laica «redenzione della carne»), egli non butta via le teorie con l'autore stesso, come fanno altri, ma invita ad applicarvi una chiave di lettura non futile e scontata e a scorgervi, come in filigrana, il senso profondo dell'intero progetto teorico crociano. «Per Croce», scrive, «l'arte piega ai suoi scopi, armonizzandole e riscattandole, le forze oscure che montano dalle profondità della storia e della psiche. Ma non è questo l'esorcismo che lo spirito tenta in tutte le sue manifestazioni?». L'arte, dunque, come superiore esorcismo dell'irrazionale. Croce lottò tutta la vita contro quell'arte che, accogliendo in sé l'irrazionale senza combatterlo, era per lui degenerazione e corruzione. «Il problema attuale», diceva, «è la restaurazione dell'idea dell'arte contro l'antiarte che la distrugge». Ed era convinto che le porte dell'inferno non sarebbero prevalse. Ma si sbagliava: la sua impresa fallì, dice Givone. L'antiarte trionfò e trionfa 36
ancora. L'arte di quest'epoca, come già di quella di Croce, è arte di rottura, di crisi, di sfacelo (massificazione, disumanizzazione); è un'arte in cui il contenuto si è ribellato alla forma, l'ha stravolta e frantumata. Ma è arte anch'essa, anzi la sola legittima e possibile oggi, esercita sempre la stessa funzione, anche se nel grado ridotto in cui può ancora esercitarla. Come arte impedita, come «estrema coscienza delle disarmonie e delle dissonanze non ricomponibili esteticamente» (Givone), ricade pur sempre sotto il principio crociano, quantunque fuori delle varianti ammesse. Ma non solo nell'arte, anche nella vita, nella storia, l'impresa di Croce è fallita. È fallito il suo tentativo di umanizzarle, di esorcizzare la natura diabolica schopenhaueriana rivestendola delle forme dello spirito e facendone circolare la vitalità caotica e dirompente nell'ordinata dialettica di queste. Non solo l'arte, anche la vita e la storia sono esplose, la vita della società industrializzata e massificata e la storia dei cataclismi mondiali che hanno segnato la fine del primato politico dell'Europa. E hanno spazzato via la filosofia liberale e la politica liberale, che pur si erano affannate e industriate per incontrarle e regolarle nelle loro nuove esigenze. Quanto sarcasmo non si è fatto sull'ottimismo crociano! E non certo senza ragione, sebbene pochi abbiano visto il dramma vissuto dal filosofo, col tentativo sempre più insistito verso la fine di far posto, più ampio posto, sotto la categoria prima utilità e poi della vitalità, alla natura selvaggia e indomabile, già negata come realtà autonoma. Vero dramma filosofico, il suo, perchè quanto più vedeva e ammetteva l'esistenza e la forza di una natura non antropomorfizzabile, comportante l'inconoscibile, la trascendenza e il misticismo, tanto più toglieva validità alla sua filosofia, la «filosofia dello spirito». Questa filosofia è infatti una filosofia 37
dell'attività, dell'uomo: della sua fantasia, logica, utilità e moralità. E, come quella di Hegel di cui ripete il modello, una filosofia della razionalità, della luce e della vittoria, ed è storicismo in quanto contempla l'uomo «nel poema della sua storia». Respira quindi l'aria delle cime ed è a suo agio tra le grandi conquiste umane. JMa è impotente ad abbracciare il lato d'ombra e di tenebra delle cose, il sinistro mistero del male e la potenza cieca e irresistibile della natura. Un limite certamente e un'insensibilità, che si ripercuotono nel campo dell'estetica. L'arte come intuizione lirica e come simbolo è indubbiamente un'antropomorfizzazione. Felice e legittima per i grandi e le grandi epoche: Omero, Dante, Shakespeare e Goethe, l'età di Pericle, il Rinascimento. «La trascendenza medioevale si fissa nel bronzo della terzina dantesca; la malinconia e il soave fantasticare nella trasparenza dei sonetti e delle canzoni del Petrarca; la saggia esperienza della vita e la celia verso le fole del passato, nella limpida ottava dell'Ariosto; l'eroismo e il pensiero della morte, nei perfetti endecasillabi sciolti del Foscolo; l'infinita vanità del tutto, nei sobri ed austeri canti di Giacomo Leopardi», e perfino «i raffinamenti voluttuosi e la sensualità animalesca» del decadentismo, nella prosa e nei versi di D'Annunzio. Ma lì ci fermiamo, lì comincia il regno del disordine e della bruttezza, a partire, in Italia, da Pascoli e Pirandello. Un limite e un'insensibilità, abbiamo detto, donde scaturiscono non poche sordità e durezze, errori di cui Croce porta la responsabilità. Ma soprattutto una felix culpa, poiché la visione crociana non nasce da freddo ragionamento bensì da un'anima appassionata, così alta e nobile da non saper concepire la vita se non come amore attivo e creativo, e la passività e il male, la miseria, solo come resistenze superabili. 38
Non si fa che rendere giustizia a Croce se si riconosce anche a lui, come egli riconobbe agli altri filosofi, una poesia particolare, un «mondo», un'«ideologia», per cui i filosofi si distinguono tra loro prima ancora che per i loro ragionamenti, come appunto i poeti. Ossia in base ai loro sentimenti dominanti. L'estetica di Croce come tutta la sua filosofia, è frutto del suo amore dell'umanità, cioè della grandezza, e, nel trattare criticamente delle forme più grandi dell'arte, addita agli uomini un ideale da seguire (l'antica virtute e canoscenza). Ce ne rendiamo conto leggendo queste pagine del Breviario, «fra le più perfette di Croce», come si dice. Ma esse non sono piìi perfette di tantissime altre, nelle quali Croce svolge il suo discorso profondo e appassionato. Di esse tutte si può quindi vantare ciò che Saverio Vertone vanta di queste: «la lingua chiara e liquida che scorre maestosamente a valle trasportando verso la foce solo la propria limpida massa trasparente, senza scorie».
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TEORIA E STORIA DELLA
STORIOGRAFIA
Con la ristampa delle opere di Croce da parte dell'Adelphi e di Bibliopolis sono riprese anche le oscillazioni dei giudizi su Croce. A queste oscillazioni, che vanno dal riconoscimento della classicità e della grandezza all'accusa di superficialità e tautologia, cioè dal tutto al niente, bisognerebbe una buona volta porre termine. E la ripubblicazione della Teoria e storia della storiografia (1989), quarto ed ultimo volume della Filosofia dello spirito, potrebbe essere l'occasione buona. Perché questa è forse, delle opere di Croce, quella di maggiore audacia speculativa. Ma il fatto è che alle oscillazioni dei giudizi non si può porre veramente termine se non misurando Croce sugli altri filosofi: Vico, Kant, Hegel, Schopenhauer ecc., e a ciò non basta certo lo spazio di un articolo. Se comunque nella Teoria e storia della storiografia si cerca, appunto, la teoria della storiografia, quasi non la si trova. Si trovano pochissimi, sparsi enunciati che, anche messi insieme, non si può dire facciano una "teoria". La teoria, volendola, bisogna ricavarla soprattutto dalle confutazioni delle teorie altrui, a cui sono dedicati i capitoli dell'opera. È, questo, un metodo negativo che Croce ha seguito anche altre volte, per esempio nel Breviario di estetica, dove, invece di dire direttamente che cosa è l'arte, che secondo lui tutti sanno istintivamente, dice che cosa non è: non è questo, non è quello, non è quest'altro ecc. Così fa dunque anche per la storia. Dice sì che è pensiero e nient'altro che pensiero, che è storia 40
dei valori perché è storia dello spirito che è valore e anzi l'unico valore concepibile; che ricerca a quale ufficio abbia adempiuto l'individuo di cui si narra nell'opera sociale o della civiltà; che è storia dell'individuo in quanto universale e dell'universale in quanto individuo. Ma soprattutto dice e dimostra che non è poesia, non è epos, non è insegnamento o ammonimento, non è educazione, non giudizio morale, non cronaca, non filologia, non storia universale, non storia speciale, non storia prammatica, non filosofia della storia, non storia naturalistica e così via, un capitolo dopo l'altro. Alla domanda che allora a qualcuno potrebbe venire in mente di formulare: ma ha tutto questo un senso? bisogna rispondere che sì, ha un senso e anzi un gran senso. Perché l'idea che Croce ha della storia è un'idea di pienezza e autenticità umana anche temporalmente perfezionata grazie al principio della contemporaneità storiografica di ogni storia. E un'idea dunque di purezza, a cui nessuno fino allora aveva osato spingersi. Ma proprio il suo merito principale diventa anche il suo limite. Perché per la sua radicalità e consequenzialità la purezza diventa purismo. Si ripete qui qualcosa che era già avvenuto sul finire del Settecento, quando Hans Georg Hamann, il cosiddetto Mago del Nord (che Croce fu il primo a tradurre e a commentare fuori della sua patria), ebbe a criticare, nient'affatto infondatamente secondo Hegel e Croce stesso, i "purismi" della Ragion pura dell'amico e concittadino Kant. Infatti, quando gli si sente dire (a Herder): «Tutto in fondo mi sembra risolversi in pedanteria e in vuoti giochi di parole», si ha il sospetto che ciò possa applicarsi anche a Croce. Che cos'è in effetti se non purismo o utopia una storia che sale dalla cronaca a «conoscenza dell'eterno presente»? che fa tutt'uno col pensiero e con la vita stessa, sicché «la sua 41
spiegazione diventa tale veramente, perché coincide con il suo esplicamento»? Sta di fatto che la sua teoria non ha portato alla creazione di storie superiori a quelle del passato, come secondo lui sarebbe dovuto accadere dal momento che «dai greci a noi l'intelligenza storica si è fatta sempre pili profonda» e «progresso di filosofia e progresso di storiografia vanno insieme, indissolubilmente congiunti», né ha tolto valore a quelle che da sempre e anche da lui sono riconosciute valide, per esempio la Storia dei papi di Ranke, che «è un capolavoro» nonostante le critiche appuntatele contro, e quelle della guerra peloponnesiaca o delle guerre annibaliche, esaltate come genuine di contro alla storia degli organismi animali o della struttura della terra, anche se bollate in altro luogo di invalidità per l'eterogeneità dei loro fini. Insomma Croce fa valere per la storia lo stesso purismo che per la poesia, il quale si risolve, in lui nemico di tutti i dualismi, in dualismo di struttura e storia come, in quella, di struttura e poesia. E ciò perché i libri anche degli storici più grandi «non sono e non possono essere mai pura storia, storia quintessenziale». Prima però aveva detto: «ma forme medie e prodotti ibridi esistono solamente nelle finzioni classificatorie degli empirici». D'altra parte anche quelli che sembrano empirici possono diventare senza saperlo puri storici. Come ad esempio «l'ingenuo Taine», il quale afferma sì, che per fare storia occorre prima raccogliere i fatti e poi ricercarne le cause; ma poi spiega che per raccolta dei fatti intende il ravvivamento dei documenti che consente di pervenire all'uomo vivo, con le sue passioni e abitudini e con la sua voce e fisionomia, come l'uomo che si è appena lasciato in strada; e per ricerca delle cause la scoperta dell'uomo interiore, del centro, del dramma e della psicologia, col che, dice Croce, «la storia è bella e attuata». 42
Come si vede, Croce procura di sfumare al massimo il suo pensiero, per prevenire tutte le obiezioni. Ma ci riesce o perviene solo a barcamenarsi? Indubbiamente la purezza gli consente di smuovere situazioni di stallo incancrenite e di dare talvolta risposte fulminee e geniali a problemi che non si credeva ne ammettessero. Ciò accade per esempio quando, circa l'idea fìssa di Tolstoj che nessuno, nemmeno un Napoleone, possa conoscere l'andamento di una battaglia, dice che «la battaglia è conosciuta via via che si svolge, anche se poi, col tumulto di essa, si dissipa anche il tumulto di quella conoscenza, solo importando la nuova situazione di fatto»; o quando, affrontando il problema della natura, ne risolve il concetto realistico in quello idealistico di costruzione che lo spirito umano fa della realtà; o infine quando spiega l'agnosticismo storico col cronachismo, che porge una storia morta e inintelligibile. In realtà non possiamo negare in noi un'eco di consenso anche alle proposizioni più ardite, comprendendone l'itinerario logico. Ma non possiamo neanche farle nostre nei loro esiti estremi. Non l'identificazione di storia e filosofia, già solo perché la filosofia sì, è conoscenza dell'eterno presente, ma la storia è conoscenza dell'eterno passato, prossimo e remoto, a scopo (presente) di rammemorazione, per cui soltanto va capita, pensata. Non la negazione dei fatti, che sarebbero creazioni del pensiero. Non la natura come mera astrazione, invece che potentissima realtà, se non altro umana. Non il superamento, nello svolgimento, di bene e male (anche di vero e falso, bello e brutto, utile e dannoso?). Non la realtà come progresso perpetuo, eterno passaggio dal bene al meglio. Non l'irrealtà di ogni male, regresso, decadenza, donde il dovere della storia di pronunciare solo giudizi positivi, tutti i fatti e personaggi essendo laudabili e venerabili e nessuno condannabile, ecc. 43
«Bello ma non functiona» viene dunque voglia di dire a conclusione, come Ezra Pound disse delì'Esieiica a chi gliel'aveva riassunta. Si dà infatti il caso che questi purismi teoretici contrastino con le storie degli storici e con i pregi e i fini attribuiti alla storia da altri fededegni pensatori. Per esempio Goethe, per il quale il meglio della storia è l'entusiasmo che suscita, scriverla è un modo di sbarazzarsi del passato, e il compito dello storico è di distinguere il vero dal falso, il certo dall'incerto, il dubbioso dal riprovevole. Fatto ancor più notevole, detti purismi contrastano anche con lo stile dell'autore. Corposo, robusto (croccante), plastico, sfumato, aperto, sostenuto e a tratti elevato ma generalmente naturale e semplice (una volta Croce si scusò di accontentarsi, in fatto di lingua, di troppo poco), anche bonario e non privo di venature popolari, lo stile di Croce sembra l'alibi di una speculazione che, partita da un'intuizione calda e luminosa, è diventata per strada, per aver smarrito il contatto con la base (empirica) di partenza, rigida e frigida. Ma a questo punto: è lo stile l'uomo o lo è la teoria?
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VITE DI AVVENTURE DI FEDE E DI PASSIONE
In un angolo remoto e selvaggio della Basilicata viveva una volta, in un castello arroccato in cima a un ripido colle, una gentile e nobile fanciulla. Amava la vita, l'arte e la poesia, sognava l'amore e si cullava nella speranza di un aiuto che la traesse fuori da quella solitudine e le permettesse di raggiungere l'amato padre e un fratello coetaneo, come lei colto e sensibile, alla corte del re di Francia. Nessun vero conforto le veniva dalla madre e dai fratelli inselvatichiti e degenerati, con cui viveva in quel castello. La sola persona con cui poteva parlare più liberamente, anche dei versi che scriveva, era un pedagogo che era in casa e aveva il compito di impartire qualche istruzione ai fratelli. Poetando insofferente, con l'animo in rivolta, ella chiamava i luoghi in cui era costretta a passare i suoi giorni «senza saper mai pregio di beltade», cioè senza mai sentir lodare la sua bellezza, «valle inferna», «vili e orride contrade», «erme ed oscure», «selve incolte», «ruinati sassi», «dumi», cioè terreni pieni di rovi e spini, «solitarie grotte» e «caverne». Il fiume che scorreva in basso era ai suoi occhi «torbido» e la gente che abitava il misero paesello lungo le falde del colle «irrazionale, priva d'ingegno» e di «aspro costume». Ma un giorno conobbe il feudatario del castello vicino. Era un uomo già sposato e con figli, ma che scriveva versi come lei ed era forse come lei pieno di ardori insoddisfatti. Entrarono in conversazioni, confidenze, confessioni. Quale relazione legò con lui, di cui 45
conosceva anche la moglie? La corteggiò l'uomo? Ed ella, corrispose ai suoi sentimenti? Forse allora ancor più di quando aveva tentato di salvarsi dalla disperazione in un'ascetica rinuncia, le piacquero, invece di spiacerle, i luoghi nativi, le erbe «non segnate mai da altrui passi», i «boschi intricati» e i «sassi ruinati». Il fiume le sembrò «veloce», la grotta «felice» e «chiare» le fonti e i rivi. L'uomo prese a inviarle lettere e versi, per il tramite del pedagogo. Ma essi furono una volta intercettati dai fratelli. Questi trucidarono il pedagogo e poi anche la sorella, per timore che fosse portata via da loro. Tempo dopo, con l'aiuto di zii non meno efferati di loro, tesero un agguato al presunto corteggiatore o amante della sorella e uccisero anche lui barbaramente. «Li foro tirate tre arcabusate, l'una le dede all'ochio, l'altra a lo ciglio del medesmo ochio, un'altra li fo tirata dalle spalle e li dede a la mittà del collo e li scio da la banda denante». Fu questa la tragedia di Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro, così come la racconta Benedetto Croce nel suo Vite di avventure di fede e di passione (1989). In questo famoso ma non si sa quanto letto libro di biografie storiche, ora ripubblicato dall'Adelphi, la vita di Isabella è accompagnata, come si sa, da altre cinque vite, che spaziano dal 1200 al 1800; ma essa è la più nota e quella che, forse già per l'autore stesso, fa più spicco, essendo la prima scritta e pubblicata (per la prima volta nel primo fascicolo della «Critica» nel 1929) e la vicenda che, per la sua crudezza, simile a quella della storia di Abelardo ed Eloisa, più si prestava al fine perseguito dall'autore di «appagare l'immaginazione, che si diletta dello straordinario e inaspettato». Può sorprendere che un uomo di gusti e costumi così severi come Croce si sia proposto un tal fine ricrea46
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tivo, che è confermato e ribadito dalle parole con cui Croce dà ragione, alla fine della storia di Isabella, del viaggio da lui intrapreso sui luoghi ove essa si svolse: «Era un modo di coronare per me stesso, per un mio intimo gusto, con un raccoglimento dell'animo e della mente, con un volo dell'immaginazione, le modeste indagini critiche che ho esposto di sopra». Ciò nonostante, detto fine può apparire ben poco crociano. Tale apparve per esempio a Chabod, che vi vedeva uno iato, un'aporia concettuale tra un senso fortissimo dell'uomo e del particolare concreto, individuale, e un senso acuto dei processi storici generali. Ma a parte che «per la biografìa, e per la biografia storica in particolare, Croce ebbe una sorta di gusto nativo», come rileva nella Nota del curatore Giuseppe Galasso, si trattava certamente di un momento eccezionale, di «un momento di distensione e di compenso nel ritmo serrato di un'attività intellettuale così complessa e costante come la sua, un momento di concessione e di abbandono a tendenze solitamente represse o fortemente trasfigurate del proprio io». Così dice ancora Galasso, il quale indica poi la Storia d'Italia, la Storia del Regno di Napoli e la Storia dell'età barocca come le dure fatiche rispetto alle quali le Vite rappresentavano per l'autore un «sollievo e riposo». E aggiunge infine che «ogni momento dell'attività del pensatore e del letterato, dello storico e del critico si ricongiungeva agli altri - magari attraverso gli accessi più laterali e imprevedibili - nel fluire di una esperienza intellettuale ininterrottamente vigile e consapevole. Né solo di una esperienza intellettuale, poiché tutto pensiero Croce, che tale appunto si prefiggeva di riuscire, non fu mai». In effetti, pur rinunciando a esercitare attività direttamente poetiche, egli non rinunciò a esercitare quelle che gli consentivano di esplicare una sua particolare 47
ricchezza poetica e moralistica: come per esempio le traduzioni da Goethe, come queste Vite, dove non si trova magari tanto o soltanto il "Croce narratore" annunciato dalla pubblicità, essendovi molta seria e anche pesante erudizione, ma dove la poesia si annida, oltre che nelle biografie vere e proprie, nei pezzi d'appoggio, quale per esempio, nella storia di Isabella, il resoconto del viaggio. Ma poi c'è il suo famoso stile e ci sono i tanti e tanti volumi di critica letteraria, che, checché si dica dei giudizi ivi espressi sui vari autori, costituiscono la cattedra dalla quale egli esercitò un alto magistero di umanità e di poesia, da quel grande moralista che anche, se non soprattutto, era. Ma non vogliamo chiudere questo pezzo senza segnalare due cose che ci son parse particolarmente apprezzabili nella Nota del curatore'. 1) la disquisizione su immaginazione e fantasia, che si consiglia a quanti, mal seguendo il francese, vogliono ''Vimmaginazione al potere", e che fa capire che cosa sia un pensatore veramente classico; 2) le notizie circa la composizione e pubblicazione di queste Vite, le quali illustrano il metodo e il ritmo di lavoro di Croce. Questi costituivano un congegno perfetto, che consentivano a Croce di dirsi «il perfetto impiegato di me stesso», un "me stesso" che però non era l'individuo privato ma il pensatore e l'educatore.
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STORIE E LEGGENDE
NAPOLETANE
Quei napoletani che, come chi scrive, si sentono pungere nell'attaccamento alla loro città quando qualcuno (e si trattasse anche del seguace più appassionato) si fa a distinguere, di Benedetto Croce, "il filosofo napoletano" per eccellenza, l'origine non napoletana ma abruzzese - comprovata, si sostiene, proprio dalle doti di carattere: forza, ordine, laboriosità, costanza - leggano, di Croce, le Storie e leggende napoletane, appena ripubblicate dall'Adelphi (1990): ne usciranno soddisfatti e del tutto tranquillizzati. Giacché l'amore per una città non può essere testimoniato in modo più puro, pieno, bello e profondo di come Croce testimonia, in questo bellissimo libro, il suo per Napoli, per la sua conformazione e struttura attraverso i secoli, per la sua vita grande e piccola del passato prossimo e remoto, per le sue cose: case, chiese, strade, luoghi e monumenti, e per le sue persone: dai grandi personaggi che si agitarono sulla sua scena amando, soffrendo, lottando, vincendo o soccombendo - re e regine, baroni e prelati, capitani e dame - fino ai più piccoli e umili, ai poveri, agli sventurati e ai malviventi, che in nessuna età, sembra, furono a Napoli scarsi. Ma d'altra parte quest'opera è così libera da spirito campanilistico, e, pur nella massima partecipazione e concretezza, così serena e imparziale, così "neutra" e "generale", che è lontanissima da ogni opera la quale, proponendosi l'illustrazione o glorificazione per quanto legittima di una città, si indirizzi in modo naturale e quasi esclu49
sivo ai cittadini di quella città e non agli altri, che non vi hanno e non potrebbero trovarvi interesse. I destinatari di Storie e leggende napoletane non sono esclusivamente i napoletani - sebbene essi ne rimangano i destinatari privilegiati - bensì tutti coloro che hanno interesse per le vicende umane e per le discipline che se ne occupano: storia, biografia, erudizione, politica, religione, amministrazione, arte, poesia e filosofia; perché questo libro è frutto di tutte queste arti e scienze e attitudini, che si concentravano in Croce in una maniera rimasta da allora insuperata e ineguagliata. In questo vivente amalgama, in questa originaria grandezza, le Storie e leggende napoletane si dispongono naturalmente dal lato della storia, di quella storia che Croce avrebbe identificato con la filosofia, ma che molto prima, nel 1893, aveva ritenuto di dover ridurre «sotto il concetto generale dell'arte». Pur non mancando infatti in questo libro i pezzi di alta dottrina, su politica, religione, letteratura ecc., vi si raccontano soprattutto con umanissima partecipazione e alto senso di poesia le vicende e specialmente, ci sembra, gli amori, i drammi dell'amore, ma certo anche dell'orgoglio, della generosità, della paura, dell'ambizione, di personaggi storici o comunque straordinari, che più si prestano al fine di "appagare l'immaginazione, che si diletta dello straordinario e dell'inaspettato". Era questo il fine che più tardi l'autore disse di aver perseguito nello scrivere le Yite di avventure, di fede e di passione, ma che indubbiamente perseguì già nel comporre queste Storie e leggende napoletane. Ma proprio questo è un punto importante da notare a questo riguardo. Anche se i due suddetti libri figurano come opere a sé, isolate, gli scritti di cui constano, insieme con altri contenuti in altre opere, in particolare nelle Pagine sparse, costituiscono per ispirazione, mate50
ria e stile, un filone unico che Croce coltivò, sia pure a intervalli, per tutta la vita. Ma un'altra cosa che subito dopo questa va notata, è che esso non fu un filone minore rispetto alle altre opere di Croce - a quelle in particolare di filosofia, storia e critica - bensì un filone in tutto e per tutto degno degli altri per l'originalità e importanza dei risultati conseguitivi, che completano quelli raggiunti negli altri campi e ne compensano gli squilibri. Giacché questi scritti sono più vicini a quell'amalgama di base, a quella ricchezza e grandezza originaria, nel suo complesso ancora da indagare, dalla quale quelle serie di opere si spiccano come rami dal fusto di un albero. Non di rado, allontanandosi dalla vivente unità originaria, esse si arenano infatti in quello che abbiamo già avuto occasione di chiamare un esasperato purismo. Non del tutto a torto pertanto, da sempre, quelli che vogliono parlare male di Croce, dicono che questi scritti sono le sue cose migliori. Ma così vogliono ridurlo e ridurre con lui queste opere che essi sono lontani dal considerare grandi e classiche, come Croce stesso, con in più il pregio di immettere per così dire direttamente nella sua umanità e grandezza: se è vero che il «fattore essenziale che, nelle grandi creazioni, è tutto o quasi tutto», è «l'attività spirituale del creatore dell'opera», cioè non le opere ma l'individuo, secondo una citazione anticrociana di Croce.
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CROCE E VON RANKE
Cominciò Io storico Heinrich Leo col definirlo un «dipintore di vasi» e col rinfacciargli la puerilità dei suoi richiami al «dito di Dio» e la piagnucolosa filantropia, «che è al suo posto non nella storia ma negli almanacchi per le dame». Poi venne Heine, per il quale egli aveva «un bel talento per ritagliare figurine storiche e incollarle in modo pittoresco l'una accanto all'altra», era «una buona anima tenera» e di coloro che il governo prussiano faceva «di solito viaggiare tra le elegiache rovine d'Italia per formarsi i pensieri sentimentalmente calmanti della fatalità, e poi, in combutta coi predicatori che persuadono sottomissione cristiana, smorzare, per mezzo di fredde applicazioni di giornali, la tridua febbre di libertà del popolo». L'altro suo confratello, Jacob Burckhardt, ebbe per lui da giovane violenta antipatia: per la neutralità che professava, il carattere fiacco, la mancanza di sentimento artistico e l'insipidezza da uomo della buona società. Croce, infine, ne fece addirittura una malattia: in saggi, citazioni, note e noterelle bollò di «diplomatica» la sua storia, «condotta col tono di un riassunto presidenziale, attento alle voci delle opposte parti e cortese verso tutte», con annessa «predilezione dei ritratti degli uomini abili, prudenti e fini»; gli oppose storici che avrebbe dovuto prendere a modelli (Agostino, Bossuet, Voltaire, Hegel) e in genere continuò a «rosicarlo» e a redarguirlo, sebbene dovesse anche, a denti stretti, riconoscerne r«ingegno elegantissimo», «l'intelligenza. 52
l'equilibrio e la finezza», r«eminenza» come storico, la «buona ricerca di documenti», i «giudizi sennati» e, se non proprio la Lust zu fabulieren (il piacere di favoleggiare), la hust zu erzàhlen (quello di raccontare). Gli strippa però l'alloro dell'epicità attribuitagli da Dilthey (per la mancanza in lui della «sublimità del cantore di gesta») e della somiglianza con Erodoto, «ben altrimenti originale e fresco». Ma costoro non furono i soli che Leopold von Ranke - del quale qui si tratta - fece arrabbiare con la sua storia e con le sue teorie sulla storia, e inoltre con la sua serenità, imparzialità e grazia. Già ai suoi tempi egli «fomentò» potentemente, con esse, il «partito degli storici» che all'università di Berlino si opponeva al «partito dei filosofi». Il primo era capeggiato da Schleiermacher e il secondo da Hegel, ed entrambi ebbero ricca prole. Ma mentre i principali seguaci di Hegel sentirono il bisogno di mettere il maestro «a testa in giù» (per usare un'espressione di Marx), cioè di rovesciarlo, i seguaci di Schleiermacher (e A. von Humboldt) perpetuarono e svilupparono Ranke, costituendo quello che, dopo l'idealismo e l'epoca classica tedeschi, è stato il pili grande movimento culturale della Germania, lo storicismo. Con Meinecke, Dilthey, Weber, Troeltsch, Rickert, Simmel, VHistorismus spinge infatti le sue radici, attraverso la fenomenologia husserliana e l'ontologia heideggeriana, fin nel nostro tempo, dove è ripreso criticamente nell'ermeneutica di Gadamer. Dunque, oltre a nemici e detrattori, Ranke ha avuto fior di amici e seguaci, in Germania, dove è riconosciuto maestro della scienza storica, e anche fuor di Germania (per esempio ha avuto grande influsso in Inghilterra). Probabilmente non si sarebbe fatto tanti nemici se, oltre a scrivere storia, non si fosse preoccupato di difendere accuratamente la storia contro le mire 53
rapaci dei filosofi (specie di allora) e contro gli eccessi di positivisti e altri fanatici, con una misura, un equilibrio e un'intelligenza che già per la loro sicurezza e... rarità tendono (per invidia) a suscitare ostilità. Egli era veramente una incarnazione del detto di Goethe: la grazia è la forza sicura, e le critiche mossegli si spiegano, più che coi difetti suoi o dei suoi scritti, coi difetti dei suoi critici. Leo è comunemente ritenuto uno storico «privo di particolare acume critico». Heine era mosso da quella partigianeria che, pur ispirata da motivi nobili, si addice all'uomo di partito ma non allo storico (se si trasferisce il proprio convincimento personale nella scienza, diceva Ranke, la vita incide sulla scienza e non la scienza sulla vita); e Burckhardt gli rimproverava la neutralità e l'insipidezza, ossia l'imparzialità e la serenità, perché - dice Croce che lo cita - ne era egli stesso incapace. Quanto a Croce stesso, egli difendeva un interesse troppo vitale per mantenere il flegma filosofico. Dopo aver lottato contro il positivismo e lo scientismo di fine secolo a favore della logica e della speculazione, si era spinto, in un inconsapevole moto di espansionismo, fino a fagocitare nel suo sistema varie altre discipline; moralismo, critica, storia. Identificando in particolare filosofia e storia, aveva chiamato il suo sistema «storicismo assoluto». Ma... superior stabat Ranke, il quale aveva già predicato e spiegato per filo e per segno - in particolare contro il di lui maestro Hegel - che la storia segue un principio diverso dalla filosofia. A tutte le sue obiezioni Croce avrebbe trovato adeguate risposte sol che le avesse cercate dov'erano, in Rank, ma esse, appunto, avrebbero tolto fondamento alle sue obiezioni. Contro la filosofia Ranke sostiene che la storia è comprensione a posteriori dell'accaduto, che nessun concetto può prefigu54
rare (se potesse, renderebbe la storia inutile). In essa, (lice, «il real-spirituale che ti balza improvvisamente dinanzi agli occhi con impensata originalità non si lascia dedurre da nessun principio superiore. Dal particolare puoi ascendere all'universale, dall'universale nessuna via porta alla visione del particolare». Per il particolare bisognava avere, come storico, gioia, passione e partecipazione: cioè per le creature multiformi che siamo anche noi, ora buone ora cattive, ora nobili ora basse, ora raffinate ora pazze, ora miranti all'eterno ora all'attimo; per loro e per i loro sviluppi nelle più varie condizioni, per le loro istituzioni costumanze e imprese; e «tutto ciò senza scopo ulteriore, per il puro godimento di fronte alla vita individuale; così come si gode dei fiori senza pensare a quale classe di Linneo o a quale ordine o famiglia di Oken appartengono». Scavando, però, il particolare, bisognava anche arrivare all'universale che ne è al fondo, all'unità che lega avvenimenti, individui e popoli e all'essenza stessa dell'umanità, per cui la storia non è nemica ma adempimento della filosofia. Lo storico deve narrare i fatti come propriamente si sono svolti, e però non da freddo cronista, bensì da artista che trasceglie nella loro messe sterminata quelli significativi, che rivive e ricrea in sè la vita passata e che incide infine il suo disegno come lo scultore ricava dal blocco di marmo la sua statua. Lo storico è dunque scienziato per lo studio dei documenti ma artista per la sua capacità di elaborare, sintetizzare e trasfigurare la vita passata senza uscire dai fatti reali, e ciò perché la realtà più profonda è animata, per Ranke, dal soffio della divinità invisibile. Per giudicare in proprio delle (grandi) qualità del Ranke storico, il lettore non ha che da leggere il suo Le epoche della storia moderna, tradotto per la prima volta in italiano (da Gabriella Valera) per i tipi di Bibliopolis. 55
Questa edizione, curata da Franco Pugliese Carratelli per la collana dei «Testi» dell'Istituto italiano per gli studi filosofici e arricchita di un'ampia introduzione di Fulvio Tessitore, colma una lacuna nel campo degli studi storici. Non solo perché questo testo famoso è considerato il complemento necessario della Weltgeschichte rimasta incompiuta, ma anche perché contiene, all'inizio e alla fine delle conferenze tenute nel 1854 al re Massimiliano II di Baviera, i saggi metodologici di Ranke, che ne chiariscono la posizione rispetto alla filosofia. E una grande querelle, di altissimo interesse filosofico, che ha valore pregiudiziale per la fissazione del significato del Verstehen e del senso della Weltgeschichte rankiani, come avverte Fulvio Tessitore, che affronta e sviscera il problema, rimandando a sua volta alla lettura del testo per l'apprezzamento delle qualità storiche di Ranke. Si limita al riguardo ad accennare all'efficacia nervosa delle pagine delle conferenze, «documento mirabile di ciò che significa la capacità sintetica della grande storiografia». Noi aggiungeremo che Ranke dà prova in esse di possedere tutte le qualità opposte a quelle attribuitegli dai detrattori: ossia semplicità, chiarezza, rapidità, nettezza e decisione e perfino la Lust zu fahulieren negatagli da Croce. La sua storia è «pura» (come si dice) per questo, che la vita umana, da lui spogliata di ogni convenzionalismo e mostrata nella sua essenza, appare come la favola vera che è, dal momento che è un unicum senza possibilità di paragoni. Tanto per fare qualche esempio, si legga nella I X conferenza la storia meravigliosa di Carlo Magno e si veda se quest'uomo vero non appaia, con la sua grandezza e la sua opera provvidenziale, come una favola. Si legga poi in senso contrario, nella X I V , la calata dei mongoli, descritta, si direbbe, con la stessa rapidità con cui avviene una catastrofe. Si legga ancora, nella XVII, 56
il potente, incisivo ritratto di Richelieu, Mazarino e Lui^i XIV, con la narrazione in un paragrafetto di poche righe della fondazione della dinastia dei Borboni, e si legga infine, nella X I X , il breve ritratto del console Bonaparte, per vedere come il «mostro» fosse anche, e prima che mostro, genio.
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NUOVI SAGGI DI
ESTETICA
Partita, nella ripubblicazione delle opere di Croce, in ritardo rispetto all'Adelphi, la napoletana Bibliopolis accorcia il distacco. E col tempo è inevitabile che raggiunga e sorpassi l'illustre consorella milanese. Perché quando questa avrà pubblicato l'ultima delle opere in programma, essa andrà avanti e non si fermerà finché non avrà ridato fuori, in austeri e solidi volumi, l'intera produzione crociana. Mentre, infatti, l'Adelphi ripubblica una scelta limitata di tali opere, Bibliopolis è impegnata per l'edizione nazionale dell'Opera omnia. Un segno importante del diverso approccio delle due case editrici è il fatto che le riedizioni Adelphi, pur belle e ben curate, appaiono in tre collane diverse, mentre quelle di Bibliopolis mantengono una rigorosa (ed elegante) unità grafica. Non diremo, come abbiamo sentito dire a qualcuno, che quella dell'Adelphi è una svendita di Croce; ma siamo tra coloro che, quando l'Adelphi annunciò la ripubblicazione delle opere di Croce, se ne meravigliarono. Perché Croce, amante della classicità e della profunda daritas, è un autore in contrasto con la linea interessante e moderna, ma inquieta, alquanto iniziatica e misterica di detta casa editrice.
Dopo II carattere della filosofia moderna, il Carteggio Croce-Vossler e Poesia popolare e poesia d'arte, rive-
dono la luce, presso Bibliopolis, i Nuovi saggi di estetica, quinto dei «Saggi filosofici» di Croce. E un libro che l'Autore prega i lettori di preferire Estetica per la più piena determinazione dei concetti dell'arte e della storia 58
dell'arte, dell'intuizione lirica e della creazione artistica, t he sono esposti nel Breviario di estetica e negli altri saggi ivi contenuti, «forse con migliore nesso e maggiore perspicuità». La sua rilettura ci ha fatto una doppia impressione. La prima è stata positiva e sorprendente. Nel Breviario (I), con cui il libro si apre. Croce concentra la c|uintessenza della sua visione estetica, con una chiarezza e onnilateralità che fanno rilucere il trattatello come un diamante sfaccettato. Si tratta della parte più solida e originale della filosofia crociana, che ancora sostanzialmente tiene. La storia dell'estetica (II), che lo segue, è già tendenziosa ma istruttiva, chiarificatrice e ancora accettabile. Il saggio sulla totalità dell'espressione artistica (III) è un po' troppo legato alla filosofia di Hegel, ma è pur sempre accettabile, salvo per la negata gerarchia delle opere d'arte. È questo il primo segno macroscopico di quel purismo schizoide che, come un parassita, si attacca a tutto il sistema crociano. Poi viene L'arte come creazione e la creazione come fare (IV). Questo saggio funziona sia da energica ramazza per spazzar via errori secolari, come quello dell'imitazione della natura, sia per stabilire qualche verità audace, come quella che non solo l'arte ma la conoscenza, la verità stessa è creazione, è un fare e non un'«impressione, copia, imitazione del mondo o del sopramondo». Anche là dove non si è d'accordo con certe conclusioni consequenziali; che tutto quel che si conosce è fatto dall'uomo, che la «natura» non esiste affatto, che la coscienza coincide con l'autocoscienza ecc., si possono ammirare e accettare le verità avvolte nelle loro pieghe, come quella, di carattere nietzschiano, dell'inattingibilità del reale e quella del filosofare come «perpetua produzione di problemi e di soluzioni di essi». Segue La riforma della storia artistica e letteraria (V), un saggio famoso e controverso. Insieme con quello 59
successivo, La critica letteraria come filosofia (VI), e i tre riuniti sotto il titolo àdì'Appendice: Sulla teologia filosofizzante e le sue sopravvivenze, espone tesi di punta che, per quanto discutibili, sono ricche di spunti geniali. Esse, con le altre suddette, fanno di questo libro un'opera vivacissima e involontariamente paradossale, capace di impegnare a fondo la mente di chiunque abbia creduto di aver liquidato definitivamente o di poter facilmente liquidare quelle tesi estreme. Questo libro, però, per il fatto di insistere, chiosare e variare negli altri saggi non nominati le suddette tesi, finisce col trasformare la vivacità in pedanteria, la libertà in catene e l'agilità in pesantezza. Ed è questa la seconda impressione, quella negativa. Ma dopo la lettura o rilettura di quest'opera siamo indotti a pensare in modo piti autonomo e profondo. Ciò significa che il libro ci ha dato molto e che esso è uno dei pochi che veramente meritano di essere letti, riletti e meditati.
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IL CROCE DI GIUSEPPE GALASSO
Ci sono autori così articolati e ramificati, così ricchi (li sfaccettature anche contrastanti, che di loro si può, volendo, affermare tutto e il contrario di tutto. Uno di tali autori è per esempio Nietzsche, che è reclamato insieme dalla destra e daUa sinistra, dai mistici e dai laici e loici. Ma un altro, in Italia, è certamente Croce, che per alcuni è rivoluzionario e per altri reazionario, per alcuni sostanzioso e per altri vuoto, per alcuni razionalista e per altri vitalista, per alcuni idealista e per altri realista, per alcuni hegeliano e per altri antihegeliano, e così via. Egli è anzi in questo senso talmente paradigmatico, che ogni libro che esce su di lui aumenta i punti di controversia invece di eliminarli e rinfocola la discussione invece di porvi termine. A questa sorte non sfugge neanche il vasto e proteiforme studio di Giuseppe Galasso (Croce e lo spirito del suo tempo) attualmente al centro di un vivo dibattito (settembre 1990). Un dato importante è costituito proprio dalla parola spirito nel titolo stesso del libro, perché essa implica una scelta, già nell'assunto principale, a favore di Croce o fatta nello spirito crociano. Del tutto nello spirito crociano è infatti la preferenza che Galasso accorda in tutto il suo libro allo spirito dell'epoca invece che al suo semplice divenire, come si vede in particolare là dove privilegia, nello studiare la crisi della coscienza e delle scienze europee, la «specifica pregnanza filosofica e critica» della visione di Cassirer e Scheler rispetto al «fatalismo storico a base biologica» di quella di Spengler. 61
Ma privilegiare Io spirito di un'epoca invece del suo divenire storico o naturale significa privilegiare la punta emergente dell'iceberg rispetto alla base sommersa che la porta, con la conseguenza che... si resta alla superfìcie e, anche se si dimostra pienamente la genesi e giustificazione storica delle opere di Croce, come indubbiamente Galasso fa, non si risolve l'enigma delle tante critiche mosse a Croce già da vivo e del loro persistere anche dopo la sua scomparsa (tra le piìj pungenti e sostanziose, quelle di Piovani, scrupolosamente riportate nell'ultimo capitolo). Il fatto è che il valore ultimo di una filosofia va stabilito non in relazione allo spirito del suo tempo ma in relazione al suo tempo, ossia al suo significato più ampio e profondo, che certo si riflette nel suo spirito (nelle opere), ma con molte facce spesso contrastanti e di diverso valore e profondità. Nel caso del confronto tra Cassirer-Scheler e Spengler, per esempio, è vero che «la versione Scheler-Cassirer della crisi europea non può essere né allacciata né confusa con l'idea di Tramonto dell'Occidente avanzata da Spengler»; ma ciò non va a vantaggio dei primi. La visione espressa da quest'ultimo (il cui libro occupa una posizione intermedia tra UAnticristo e Mein Kampf) è bensì rozza e schematica, fumosa e appesantita dal profetismo e pangermanesimo, ma è ben piii pregnante e profonda di quella di Cassirer-Scheler e ha a che fare col problema essenziale e originario, mentre quella di Cassirer e Scheler ha a che fare con problemi derivati e secondari. E il problema principale è proprio il tramonto dell'Occidente, che ciò avvenga per cause biologiche o per cause politiche. Solo con il decline and fall della potenza europea si spiegano infatti coerentemente i fenomeni caratterizzanti della crisi in atto al tempo di Croce: l'irrazionalismo, il vitalismo e l'estetismo, che soppiantano la ragione e la 62
morale, e lo stesso fascismo, come estremo tentativo di i ccupero del vacillante primato. In ogni caso di invecciiiamento e di decadenza si produce un disgregamento c, con esso, una divaricazione e polarizzazione di forze c debolezze, con l'intensificazione e l'ispessimento di un estremo come compensanzione del rilassamento e diradamento dell'altro. Da questo stesso processo nacquero sia il decadentismo sia il fascismo. Ma mentre al primo si riconosce grande valore spirituale, non si vuol riconoscere al fascismo la serietà del portato storico. Da parte sua Galasso non manca di rilevare «il mirabile lavoro» della letteratura e dell'arte decadente che «ha messo capo a una serie di risultati di altissima qualità [ . . . ] consolidatisi [...] in una nuova serie di "classici"». Ma proprio ciò «tradisce» Croce, che questi nuovi classici criticò non secondo una dialettica interna di riuscita-fallimento, come sarebbe stato giusto, bensì dall'esterno e in blocco, insieme con i movimenti dei quali erano espressione. Lo tradisce perché lo mostra, pur radicato com'è nella storia attraverso la crisi del positivismo, estraneo all'anima profonda, turbata e turbolenta del suo tempo, per una rigidezza che si accompagnava alla sua nobilita d'animo e al suo rigore di uomo risorgimentale e che lo rendeva inaccessibile a ogni torbida mescolanza. E da questa estraneità, non da singoli errori casuali, che discende quella strepitosa serie di misconoscimenti critici (Pascoli, Pirandello, D'Annunzio, Mallarmé, Valéry, Proust, lo stesso Baudelaire più moderno ecc.) che umiliò un ingegno altrimenti senza pari, come si vide quando si misurò coi più grandi. A questa stessa mancanza di «simpatia» e partecipazione, oltre che alla struttura umanistica della sua stessa filosofia (che ne è un'altra faccia) e non a un partito preso, è da imputare ancora il famigerato ottimismo, spinto fino all'affermazione della «coimmanenza di storia e valore» 63
e dell'impossibilità che la natura si svolga «senza alcuna coscienza», essa che «nel suo intimo, anela al bene e aborre dal male, stilla tutta di lacrime e freme tutta di gioia». L'ultima occasione, al riguardo. Croce la perse quando respinse gli scrupoli che gli si presentarono sotto forma del famoso problema della vitalità. Per Croce la realtà è spirito e lo spirito, che è tutta la realtà, è libera attività creatrice. La sua filosofia è idealistica in quanto «si inserisce nel solco della tradizione di pensiero che da Kant aveva portato a Hegel; e a quest'ultimo si lega assumendone la filosofia dello spirito come tutta la filosofia e lasciando quindi cadere [...] l'Idea e la Natura, il Non-io, l'Oggetto. Ma soprattutto è umanistica perché apre la via a una concezione del mondo come storia delle opere dell'uomo e [...] come risoluzione del mondo e della storia nella storia e nel mondo dell'uomo». Ma questo non si chiama antropomorfismo? Non si ritaglia qui artificiosamente il mondo umano dal mondo ferino della natura? Non si capovolgono le grandezze e non si fa del contenuto il contenente? Bisogna allora concludere che Croce era effettivamente vuoto e tautologico, come alcuni sostengono? Noi, che gli siamo debitori di un indimenticabile insegnamento, morale prima ancora che filosofico critico e storico, diciamo fermamente di no. Perché la sua «restaurazione creatrice», ispirata ai valori classici, vale al di là della lotta contro il positivismo; e perché il suo discorso ha l'accento inconfondibile della grandezza, che domina su cose ed eventi e che non cesserà mai di educare e illuminare.
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IL CARATTERE DELLA FILOSOFIA MODERNA
Non solo contro i detrattori, che vedendo i difetti negano i pregi, ma anche contro i seguaci pedissequi, i contemplatori e curiosi indifferenti e quegli «amatori e lettori delle pagine dei filosofi che di esse si deliziano e si esaltano ma non sanno cavarne altro costrutto», Cro-
ce - in 1/ carattere della filosofia moderna, appena ri-
stampato (1991) in coppia con il Carteggio Croce-Vossler da Bibliopolis di Francesco del Franco, ad avvio dell'edizione nazionale dell'Opera omnia - predica la necessità di «investire quella particolare filosofia [di cui ci si occupa] con un proprio pensiero, legare con lei un dialogo e in parte un contrasto, perché solo a questo modo, con la conclusione a cui si giunge, è dato collocarla nel suo posto storico e, in questo stesso atto, limitarla, che è ciò che propriamente si chiama "comprendere"» (p. 43). Ciò, in effetti, egli fece con Hegel e non solo con Hegel, e ciò bisogna fare anche con lui e con tutti gli autori che si studiano. Il che mette fuori gioco sia quanti, da sempre, negano in blocco il valore di colui che è stato e rimane il filosofo italiano piià importante del Novecento, sia quanti si trincerano dietro l'affermazione della classicità di Croce («Croce è un classico!»), senza preoccuparsi di distinguere dove lo è e dove non lo è e perché. Ora, sia l'una che l'altra cosa sono chiaramente sintetizzate in questo libro. Ad esso Croce stesso assegna un posto di spicco tra altri suoi, indicando il legame dei saggi raccoltivi con i libri contenenti le ultime sue inda65
gini teoriche sui due principali argomenti da lui studiati, la poesia e la storia: delle quali indagini essi costituiscono, dice neiVCAvvertenza, non tanto un'appendice quanto «una sorta di conclusione». E in particolare pregi e difetti si vedono nel primo di tali saggi, Il concetto della filosofia come storicismo assoluto, rispetto al quale anche gli altri sei, precedenti i veri e propri Paralipomeni del libro sulla «Storia», e le Due postille finali, hanno valore integrativo e accessorio. La posizione di Croce è già tutta nel primo saggio, che per la sua densità speculativa è da paragonare ad altri famosi, come per esempio la Prefazione della ¥enomenologia dello spirito di Hegel. Detti pregi e difetti sono comunque quelli che ineriscono alla posizione di Croce perché ineriscono necessariamente alla posizione idealistica, indipendentemente dalle varianti delle singole posizioni entro tale ambito. Per spiegarci meglio diremo che l'uomo che si ritrova a pensare, in mezzo alla realtà, può scegliere in sostanza fra tre posizioni, su cui è articolata tutta la storia della filosofia: idealismo, realismo e dualismo. La posizione dualistica è certamente la più consona alla nostra condizione, perché, come dice Goethe, i nostri problemi e le nostre difficoltà provengono dal fatto che «siamo figli di due mondi»; ma in filosofia, che ha per sua legge l'unità e la coerenza, il dualismo è errore o è considerato tale (da alcuni orrore), sicché non cessano i tentativi di superarlo, a destra, nel senso dell'idealismo appunto (p.e. Hegel), o a sinistra, nel senso del realismo o naturalismo (p.e. Nietzsche). Ciascuna di queste scelte presenta dei vantaggi, cioè risolve dei problemi, ma nessuna può dirsi pienamente soddisfacente, perché ne lascia aperti troppi altri - senza che d'altra parte la fuoriuscita verso l'alto, il misticismo «che non pensa e non vuole», e quella verso il basso, lo scetticismo, inca66
pace di coerenza, possano considerarsi valide alternative. Croce, comunque, scelse il superamento a destra. Urtato dalla volgarità filosofica del positivismo, in cui si erano incanalate alla fine le varie forme della prolesta anti-hegeliana, e dall'incomprensione in cui erano dappertutto caduti i grandi acquisti fatti da Hegel, egli mosse alla riscossa, per proseguire e perfezionare quello stesso tentativo, che da Hegel appunto era stato intrapreso, di risolvere la realtà tutta in idealità o, come egli stesso dice, in spiritualismo assoluto, che era nello stesso tempo storicismo assoluto. Così la materia diventava spirito, l'esterno interno, l'oggetto soggetto, il male un momento del bene, il brutto un momento del bello, il falso un momento del vero, la morte una necessità della vita. Ma così, anche, il mondo diventava uomo, cioè la rana si gonfiava per diventare bue, correndo il rischio di crepare, non con uno sfiato ma con un boato (come diremo invertendo la citazione da Eliot). Questa almeno era ed è la non trascurabile obiezione dei realisti e dualisti, che alla fine è prevalsa e ha travolto il sistema di Croce come già quello'di Hegel. Ma poiché l'opzione idealistica, vera o falsa che sia, rimarte una delle tre londamentali, che mai, è da presumere, potranno essere scalzate, è tutt'altro che privo di senso averla perfezionata, e qui in particolare esaminare quali miglioramenti abbia apportato Croce al sistema di Hegel o, se si pre-. ferisce, quale progresso rappresenti la filosofia di Croce rispetto a quella di Hegel. Un primo progresso è già nell'enunciazione della tesi del suddetto saggio iniziale, divisa in due parti: 1) la filosofìa è e non può non essere filosofìa dello spirito (cioè, come noi la intendiamo: la mente resta sempre presso se stessa e non può mai uscire da se stessa); 2) la filosofia dello spirito è e non può non essere pensiero storico o storiografia, di cui rappresenta il momento 67
metodologico. È un miglioramento e progresso perché la prima "degnità" non fu in Hegel mai così chiara e netta, così pura e rotonda come in Croce, e la seconda fu da Hegel - secondo Croce - piii intravista che affermata, perché Hegel disse che la filosofia era tutt'uno con la sua storia, non con la storia in genere, e anche la storia della filosofia era concepita non come identificazione dell'una con l'altra, ma come realizzazione, in successione cronologica (in epoche successive) delle categorie pensate autonomamente. Altri e decisivi miglioramenti sono il debellamento (vero o presunto) dei due grandi avversari della filosofia critica e dialettica: il mito e la metafisica, in cui Hegel era rimasto ancora impigliato; il mito non in quanto poesia (che per Croce, a differenza che per Platone, non si contrappone al pensiero ma lo precede) ma in quanto «immagine che funge da verità concettuale, da esplicazione delle cose e degli eventi», e la metafisica in quanto surrogato della dialettica, ossia dell'unione di rappresentazione e giudizio, di individuale e universale, di contingente e necessario. Secondo Croce il pensiero storico e dialettico è capace di sciogliere in un flusso coerente la tripartizione empirica a cui, in sua mancanza, la mente si induce secondo il metodo delle scienze naturali. «Sempre che l'interiorità dello spirito crede di avere a fronte un che di esterno, il corpo, la materia, l'oggetto, si sente costretta ad ammettere una seconda realtà, una res extensa, obbediente a leggi che non sono le sue e che le scienze naturali ritrovano, e con ciò l'esigenza di un'unità trascendente che insieme le abbracci». Hegel aveva già dimostrato, contro Kant e la sua "cosa in sé", che il porre l'uno fuori dell'altro i termini del reale era astrazione ed arbitrio; ma poi aveva mantenuto nel suo sistema la natura come distinta dallo spirito e a questo unita dall'idea, che ha le sembianze del vecchio 68
Dio. II quale, prima della creazione, esce da sé e crea la natura come altro da sé per poi ripossederla nello spirilo, attraverso una serie di epoche necessarie e concatenate, fino all'epoca definitiva. In questa si ottiene la piena coscienza dell'Assoluto come Idea e della storia come libertà. Così, dice Croce, il pensiero e la vita si arrestano, l'arte muore nella filosofia, la filosofia nell'Assoluto, la libertà nella forma-limite dello Stato prussiano; «il cosmo si restringe nella vita della Terra che forma il suo poco copernicanico centro e la vita dei popoli della Terra s'immeschinisce nella nazionalità germanica che è la loro ultima e somma espressione». A ciò si aggiunge l'illegittimo dialettizzare delle cose invece che dei concetti, con la conseguente mania del triadismo spinta all'assurdo dagli scolari. Pili hegeliano di Hegel, Croce ristabilì il flusso, rese dinamico quello che era rimasto statico, compì l'opera di introiezione della realtà per cui la natura era risolta nello spirito come una delle sue forme (pratiche), il negativo era risolto nel positivo, il male nel bene e il diverso e l'opposto erano eliminati. Tutti i problemi erano riportati alla loro vera sede e a seconda dei casi criticati o risolti: «i problemi secolari della stessa metalisica, e l'uno e i molti, e il soggetto e l'oggetto, e l'essere e il conoscere, e l'infinito e il finito, e l'universale e l'individualità, e la libertà e la necessità, e l'immanenza e la trascendenza, e Dio e l'immortalità, e quanti altri sono, nessuno di essi escluso». Dissolse anche l'ultimo possibile dualismo, quello tra verità della filosofia (dell'universale) e verità storica (dell'individuale), mostrando la sintesi che sempre si forma tra le due, non nel senso che solo una sia guida all'altra, ma nel senso dell'interpenetrazione reciproca. Non possiamo chiudere questa esposizione senza notare che, in questo libro come e forse piii che nei 69
precedenti, si vede che se è vero, come si dice, che lo stile è l'uomo, è anche vero che l'uomo è lo stile. Ciò significa, in concreto, che la forza e la compattezza dello stile di Croce costituiscono in generale un fenomeno assolutamente straordinario, entusiasmante, che si apprezza anche in senso negativo, cioè per la facilità che consente di contrapporsi, volendo, alle argomentazioni svolte e alle tesi sostenute. Ma significa altresì che, cosi come colpisce e stupisce per la densità, pienezza e giustezza delle verità veicolate, detto stile si fa anche notare facilmente quando gira a vuoto, quando cioè - come Croce dice del verso di D'Annunzio - «suona e non crea». Anche questo capita infatti, sebbene in questo stile si avverta costantemente l'alta presenza di un grande e severo moralista, che non cessa di disseminare nei suoi scritti acute verità e perle linguistiche, già solo per le quali essi meriterebbero di essere letti e pregiati. Quel che Croce dice per esempio sul mito taglia corto alle chiacchiere e confusioni che già da anni si fanno al riguardo da noi e altrove, nonché alle incertezze e irresolutezze che persistono nello stesso campo scientifico. Colpisce quel che dice sulla tendenza degli uomini a ricadere, in filosofia, nei vecchi errori, «a soggiacere pigramente al peso di vecchie idee consuetudinarie»; sulla trascendenza, dalla quale «ogni spirito critico sempre rifugge, avvertendo vicina la caduta nel vuoto»; sulle entità pseudorazionali anche di grandi filosofi, l'estasi dionisiaca o cristiana o altra, l'intuizione intellettuale, il sentimento, che si riducono pur sempre «alla rapita e passionale immaginazione», l'arte come «rivelazione che l'Assoluto fa di se stesso, coscienza dell'esser proprio, che si accompagna al proprio fare», come «forza morale, sostegno nei vacillamenti, risparmio di erramenti»; della qualità storica del filosofare, che non è già da riferire all'astratto carattere generico di un'epoca, ma alla 70
individua sollecitazione passionale e morale che si esercii;! sempre in ciascuno che pensi»; sulla «sterile conii'inplazione e adorazione della divina - vita dell'universo»; sui sistemi che «affondano sempre le loro radici nel lerreno storico e la linfa storica sale attraverso tutti i loro filamenti»; sul «volgo immerso nei poveri godimenti e nei congiunti miserabili affanni»; sulla «morte, che incombe paurosa ai paurosi»; sull'idea del mistero, che sparsamente perdura «negli strascichi del romanticismo e delle sue decadentistiche perversioni»; sulla «storia che si fa come libertà e si pensa come necessità»; sugli «apprendimenti perfettissimi ed estrinseci» nei discepoli e scolari; sul limite del filosofo, che aggiunge «al problema ben risoluto altri problemi e soluzioni arbitrarie e fantastiche»; suir«universalità che vive solo come individualità, sebbene in nessuna individuazione si posi e si esaurisca» (col che si anticipa l'ermeneutica di Pareyson); sulla teoria scientifica che, al pari della poesia, «nasce su di un fondo buio, quasi barlume che a poco a poco cresce di forza e crea la chiarezza, o come lampo vivissimo che solca le tenebre e poi par che si perda e richiede lunga tensione e paziente attesa perché ritorni c si faccia ferma luce serena»; sulla filosofia che «ha sempre l'origine sua nel moto della vita, nel tumulto degli affetti»; sulla filosofia vivente che «rinverde il pensiero del passato nell'atto che ne crea uno nuovo»; sui grandi che servono il mondo e la sua provvidenza non «altrimenti che servendo alla propria passione»; sulla trasformazione e discesa delle verità filosofiche, ragionate, «in verità evidenti, in detti comuni, in proverbi»; sullo Stato hegeliano come «astrazione personificata con attributi e atteggiamenti da nume giudaico»; sull'autobiografia come storia e sulla storia come autobiografia; sulla morale che «resterebbe un'astrattezza se non si appoggiasse e alleasse a qualche forza vitale o interesse econo71
mico, piegato a suo mezzo»; sulla «coscienza morale ardente e scrupolosa ed evangelicamente pavida»; sulla cosiddetta filosofia dei tempi, che non è filosofia ma la vita stessa dei tempi, cioè non superata; sul carattere della forma logica, che è dato dalla sua relazione con le altre forme dello spirito e non dalla sua superiorità ad esse; sul misticismo che non pensa e non vuole; sul «crudo e indigesto dualismo di spirito e natura»; sulr«eudemonismo della neghittosità»; sui «rapimenti e le dulcedini e le altre smorfie delle mistiche anime belle»; sulla «semplice realtà del vivere umano come affanno ma anche come gioia» ecc. ecc. Tale è in Croce la convinzione della bontà delle sue tesi, tale la sua sicurezza e anche la sua dirittura e onestà, che egli non esita ad andare spontaneamente incontro ai suoi peggiori nemici, quelli dai quali poteva aspettarsi solo i più grandi mali: il mistero della vita, lo scetticismo e l'agnosticismo storiografico e gli «orrori del mondo». Anzi, si spinge fino a sostenere la «storicità della natura», con una temerarietà che a molti sarà sembrata incoscienza. Lo si capisce da quel che dice a pag. 268 circa «i desideri e le speranze e le sollecitazioni» che aveva visto sempre rispuntare intorno a lui «perché attenuassi il rigore del principio da me posto». Ma «né autorità di maggioranza [...], né furia di censure e peso di ammonimenti» risponde - «né allettamenti di graditi consensi sono valsi mai a smuovermi o a farmi tentennare nella posizione che tenni e tengo salda». Sia reso onore alla coerenza e al coraggio. E sia anche detto senza equivoci che solo uscendo dalla filosofia e in genere dalla coerenza si può sostenere che l'uomo ha bisogno di tutt'e tre le suddette posizioni, come viene voglia di affermare. Ma è un fatto che la furia unificante, il purismo di Croce inquina tutta la sua filosofia e la allontana non poco dall'uomo e dagli effettivi problemi che lo spingono a filosofare. 72
CROCE E I SUOI MAESTRI
(INDAGINI SU HEGEL E SCHIARIMENTI FILOSOFICI)
Che avrà pensato il Verrocchio quando gli dissero che l'angelo che aveva fatto dipingere da Leonardo era più bello di tutto il suo Battesimoì Si può arguirlo da ciò che Leonardo scrisse poi: «Tristo l'allievo che non supera il maestro». Fa eco Nietzsche: «Si ripaga male un maestro, se si rimane solo il suo discepolo». Bisogna dunque «spennacchiare la corona» dei maestri, e ciò fa fatalmente ogni ingegno originale. Riconoscendo, nei casi migliori, i debiti contratti verso di loro. Quante gliene disse, Nietzsche, al suo «unico e grande maestro» Schopenhauer! E quante gliene disse Schopenhauer al suo non unico, ma non meno grande maestro Kant! Dunque non fa niente di anormale Croce quando, a sua volta, spenna vivi (si fa per dire) i suoi adorati maestri. Chi furono i suoi maestri? Hegel, Vico e De Sanctis, naturalmente. Ebbene, Croce non si stancò mai di lodarli ed esaltarli, ma soprattutto di criticarli. E vero che per lui "critica" era sinonimo di filosofia, sicché chiamò «La critica» la sua famosa rivista. Che perdé per critica il suo principale collaboratore. Gentile. Ma Croce non si fermò. Continuò a criticare fino al suo ultimo libro: Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, ripubblicato (1999) a cura di A. Savorelli nell'edizione nazionale delle sue opere per i tipi di Bibliopolis. Apparso originariamente nel 1952, dieci mesi prima della morte dell'Autore, esso è giustamente considerato il suo testamento filosofico. Come tale non poteva essere 73
che una intensificazione della critica. La quale, in questo elegante e solido volume, si concentra sul principale dei suoi auttori (così Vico, alla latina - auctores - chiamava i propri maestri): Hegel, Senza risparmiare Vico e De Sanctis, trattati l'uno diffusamente in tutta l'opera, l'altro in un saggio che sembrerebbe proprio di consenso finché non si rivela soprattutto di dissenso. Hegel parla, all'inizio di un dialogo pseudoplatonico, con il suo studioso e ammiratore napoletano Sanseverino (sarebbe meglio chiamarlo San Severino, per la sua vis polemica), che gli fa visita a Berlino. Che gli dice? Ciò che, secondo Croce-Sanseverino, il quadrinominato Hegel avrebbe detto a lui incontrandolo. Per averne le risposte, ammantate di rispetto ma tutt'altro che compiacenti, che Croce-Sanseverino non avrebbe mancato di dargli. In questo dialogo immaginario Croce fa comunque a Hegel un sacrificio opimo: il sacrificio dell'altro auttore per cui in realtà anche smaniava, Kant, anzi Emmanuele Kant, come spesso Io chiama rispettosamente. Ma Kant aveva avuto il torto di volgersi alle scienze invece che alla poesia. E le scienze, si sa, a Croce non stavano simpatiche, fatte com'erano di pseudoconcetti e destinate, con le loro classificazioni, a una funzione pratica. «Il Kant - disse dunque Sanseverino a Hegel - era orientato verso le scienze fisico-matematiche, come il vero e proprio campo del conoscere umano, e di esse era stato anche diretto cultore. Ma (ahilui!) trascurò e quasi ignorò la storia dell'umanità... Fu poco sensibile alla poesia,.. delle altre arti non ebbe esperienza, se non forse della musica, che giudicò 'arte indiscreta', perché si faceva udire anche quando non si aveva voglia di ascoltarla». Ma perché allora - uno si domanda - la Critica del giudizio «è tra le opere che hanno esercitato maggiore efficacia» e «il Kant può campeggiare come colui 74
c he scoprì e risolse o portò presso alla soluzione il proM(.-ina di quella scienza (l'estetica)»? Niente, fu un miracolo. «Per un miracolo di acume ( rilieo, raccogliendo le osservazioni dei nuovi discorrilori intorno al gusto, giunse a segnare in modo negativo ma profondo alcuni caratteri della bellezza». Benissimo! Però «non identificò questa con l'arte, e l'arte concepì (ome un giuoco combinato d'intelletto e d'immaginazione, che era poi un concetto non troppo lontano da tiuello tradizionale del rivestimento immaginoso di un insegnamento». Hegel invece viene omaggiato e glorificato. Chiesto e ottenuto da lui «il permesso di dirgli... per quali ragioni sommamente amava la sua filosofia, più ricca e moderna di quella del pur rivoluzionario Kant», il Sanseverino proclama: «La filosofia di Lei è tutt'altra cosa: orientata non verso la fisica e la matematica, ma verso la poesia, di cui è il complemento, la religione, di cui è la chiarificazione, la storia, che ne è la concretezza ed attualità». Si capisce che, dopo che il Sanseverino è andato avanti ancora un bel po' a parlar male di Kant e bene di lui, «Hegel sorrise a queste citazioni». E all'assicuraxione che le sue «grandi verità,... pur disconosciute, negate e vilipese che possano essere,... nessuno potrà mai più sradicarle e sempre rispunteranno dalle radici». Beninteso non senza il fattivo contributo del napoletano. Che tuttavia, nel riassumerle, si discosta mica male dai pronunciamenti di Hegel. Hegel non manca di notarlo e dice che Sanseverino vi ha messo del suo. Sì, sì, ammette questi: ma come si fa a ripetere pedissequamente? E va avanti. Finché Hegel capisce: sotto la lode qualcosa lo rode. Ed è vero, ma solo perché «anche il genio ha, oltre del divino, dell'umano, che fa rifulgere il divino». Allora sbotta, da buona spalla: «Ebbene... mi dica tutta quella parte che 75
le riesce inaccettabile del mio sistema. Faccia pure contro di me una puntuale requisitoria». Tanto lui era stanco di critiche insipide e di troppi incensi e consensi, quasi come l'altro di indugi. È un invito a nozze, Sanseverino non se lo fa ripetere. Questo primo incontro-scontro è seguito nel libro da molte analisi e revisioni. Fra queste c'è anche una revisione della propria teoria delle categorie o "potenze del fare", insieme opposte e distinte. Le categorie erano state fino allora: l'economica, la morale, l'arte e la logica. Ora, a tempo quasi scaduto, l'economica è sostituita dalla "vitalità". La vitalità «cruda e verde, selvatica e intatta da ogni educazione ulteriore» è la categoria «in cui l'individuo soddisfa le proprie volizioni e brame di benessere individuale». È un concetto nuovo, che fa subito discutere; in primis i discepoli magni Parente e Franchini e il bastian contrario Abbagnano, oggi ancora Giuseppe Galasso. Perché la sfera della vitalità a volte pare combaciare con quella dell'economica (o dell'utile), altre volte estendersi molto al di là di quella, riducendo lo schema quaternario a schema binario: da una parte la vitalità, dall'altra i valori, tutti da essa insidiati. Sembra che Croce stesso non sia stato al riguardo in chiaro con se stesso. E pour cause. Il sistema crociano dello storicismo assoluto, come già quello idealistico hegeliano, è il sistema dello spirito, dell'attività, è il regno dell'uomo. Esso assorbe la materia, la natura, senza però toglierle la strapotenza che da dentro e da fuori ci fa tutti schiavi. Alla filosofia della natura Hegel dedicò un libro striminzito rispetto ai doppi volumi dedicati alle singole branche della filosofia dello spirito. Per lui le stelle erano la lebbra del cielo. Per Croce la natura, la specie, erano astrazioni, non cose reali; l'individuo stesso era solo un'"istituzione" dello Spirito, «ombra che par perso76
ii;i». E questa diminutio capitis dell'individuo cozza non poco con il generale impianto umanistico. Per la suddetta strapotenza, altri filosofi avevano in\ (. cc concepito la natura chi come diabolica (Aristotele), ( Ili come il nemico (la nature, voilà l'ennemil), chi come il peggiore dei mondi possibile (nel senso che se appena peggiora diventa impossibile, Schopenhauer), chi aveva dedicato una parte del sistema impotentia umana olire che una alla potentia (Spinoza). Per questo Croce subiva pressioni da sempre. Per l'ottimismo di fondo del suo sistema. E poiché al di sotto del flegma filosofico egli aveva un'anima sensibile, esperta del dolore e del male del mondo (morte dei genitori nel terremoto, morte dell'amata Angelina, due guerre mondiali e sconvolgimenti vari), difficilmente macinabili nelle categorie dello spirito, cercò evidentemente di aprire il suo sistema dal basso. Ma il tentativo era troppo debole, perché la vitalità era pur sempre un concetto positivo e perché una vera apertura al negativo, come quella dell'odiato Schopenhauer o del detestato Spengler, avrebbe significato lo sconquasso del sistema. Dunque il grande chiarificatore e distintore morì nell'incertezza e nella confusione, lasciandosene altrettanta dietro. E tuttavia... Benché avesse unificato ciò che nell'esperienza umana non è unificabile (natura e spirito, storia e filosofia, critica ed estetica, moralismo e filosofia, poesia maggiore e poesia minore ecc.) e separato il non separabile (poesia e non poesia, struttura e poesia, poesia e letteratura ecc.), sbagliato il giudizio sulla filosofia e l'arte dei suoi tempi, dai quali si era staccato dopo la critica al positivismo (il loro carattere lutulento, che però era il carattere dell'epoca, ripugnava alla sua finezza risorgimentale), Croce rimane il più grande filosofo, critico, moralista e scrittore e, dicono anche, storico del nostro Novecento. Era una persona seria. 77
cosa rara in Italia, e dotata per di più di molto senso à^Whumour, per cui gli abbiamo fatto subire questo scherzoso contrappasso. Non ha il presente, ma avrà il futuro.
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CROCE E L'ENEA VIRGILIANO (Lettera a Alfredo Parente)
( iaro Parente, la lettura del tuo saggio L'amore nella vita e nel pensiero di Benedetto Croce, apparso nel fascicolo di aprile-giugno 1979 della «Rivista di studi crociani», ha suscitato in me molti pensieri. Mi permetterò di esporteli, sicuro che vi prenderai amichevole interesse, se non altro per l'argomento che ne è l'oggetto. A te di giudicare se sia il caso di farli conoscere anche ai lettori della Rivista da te diretta. Fin dalla prima lettura del saggio Virgilio. Enea di fronte a Didone di Croce, contenuto in quel memorabile libro che è Poesia antica e moderna, mi era rimasta, insieme all'ammirazione e anzi alla meraviglia per l'inusitata potenza critica ed espressiva, un'impressione di rigidezza e di eccessiva severità nei confronti di Enea, come pure un certo dubbio sulla piena validità del giudizio su Virgilio. Questa impressione e questo dubbio, come l'ammirazione e la meraviglia stesse, nonché essere cancellati, sono stati addirittura rafforzati dalle successive riletture, ultima delle quali quella a cui mi ha indotto il tuo saggio. E qui bisogna che spieghi anzitutto in che senso ho usato il termine «inusitata». Esso può infatti facilmente apparire incongruo, in generale, per un critico come Croce, in grado di schierare, in questo campo, tanti capolavori assoluti che, come tali, niente avrebbero da invidiare a quello in parola; e può poi apparire incongruo, in particolare, nel contesto di una raccolta che 79
allinea, proprio, non pochi di tali capolavori e che nell'insieme è certamente uno dei massimi monumenti della storia della critica letteraria. Ho parlato dunque, a proposito del suddetto saggio di Croce, di inusitata potenza critica ed espressiva perché, mentre gli altri, molti altri saggi, anche dello stesso libro, anche riguardanti lo stesso argomento, meritano di essere chiamati semplicemente "crociani", per le qualità di penetrazione e di sensibilità, di altezza e di profondità, di equilibrio e di stile che fanno di Croce il supremo critico e scrittore che sappiamo; questo su Enea e Bidone potrebbe, mi sembra, essere detto più propriamente shakespeariano, per la particolare forza tli divinazione del cuore umano, per la potenza demonica ed esplosiva e per la chiusa, unilaterale e quasi fanatica concentrazione che lo animano e che sono delle più alte espressioni shakespeariane. In esso veramente Croce parla come un nume irato, scagliando su Enea, il povero Enea resosi colpevole di empietà in amore, i fulmini della collera nutritasi alla passione e al sacrificio di Bidone. Questi fulmini, diretti ad annientare e a incenerire Enea, non risparmiano del tutto neanche il suo autore e tutore Virgilio, sicché alla fine la regina martire ne risulta come distaccata e allontanata in una sfera di sacertà e di intoccabilità. E ci sembra di sentir conclamare la profetessa: «Procul o procul este, profani, totoque absistite luco!». Questi due aspclii, della violenza espressiva da un lato e della rigida severità dall'altro, io U avevo, come ho detto, notati, ma non li avevo collegati; li ho collegati invece dopo aver letto il tuo saggio. Mi pare infatti che in base a tutto quanto in esso e detto circa la grande passione amorosa di C]r()cc per Angelina Zampanelli e il suo acerbo dolore per la di lei prematura scomparsa, sia giustificato ipotizzare che in questo saggio Croce si sia fatto per una volta trascinare alla parzialità dalla 80
sua stessa passione non ancora spenta. Il che, se fosse vero, da una parte sarebbe un'ulteriore dimostrazione (in corpore nobili) della verità della sua ben nota teoria dell'origine pratica dell'errore teoretico, e dall'altra non farebbe che accrescere quella che tu stesso chiami la «seria ed alta umanità e bellezza» di tutta la vicenda. A favore del sotterraneo persistere della passione nel suo petto parlano infatti non solo il «palese tono di risentimento, di offesa, di ribellione e d'ironia verso quanti in un modo o in un altro si prefiggono e si studiano di mortificare la natura umana, eliminando o addomesticando l'invincibile forza degli affetti amorosi» (come dici) e r«occhio di speculativa comprensione e convinzione», nonché il «partecipe sentimento» con cui Croce «considera la vita dèi'eros nella sua ineluttabile necessità, nella sua potenza e incantamento», ma anche e soprattutto lo stesso suo «severissimo e controllatissimo costume», dato che la serietà e la purezza di vita, in un uomo come Croce, fondamentalmente non ascetico (come ben spieghi), non può non diventare anche serietà e purezza, ossia profondità e tenacia e integrità nell'amore, nella passione. Non tutti sanno che solo la passione è veramente creativa, che vige nelle cose umane una legge che si può dire contraria a quella famosa enunciata da Einstein sulla conversione della materia in energia, una volta che si sia accettato di sostituire la "materia" con 1"'oggettività", termine filosoficamente più appropriato. Per tale legge, solo l'energia, cioè il calore e il movimento interni creano l'oggettività, ossia la stabilità, la forma netta e determinata che, proprio per la sua distanza, sembra freddezza ai non intendenti. Una vita come quella di Croce è ispirata e sostenuta dalla pili alta passione, ossia dal piìi grande ardore e dal più intenso movimento spirituale, e solo perciò è stata anche così riccamente e profondamente creativa. 81
Ma mentre ciò è relativamente facile da osservare per la sua opera, offerta a tutti nella sua aperta oggettività, è molto pili difficile da cogliere per quanto riguarda la sua vita, per molte ovvie ragioni e certo anche per la sua virile avversione (da te ricordata) al dilagante biografismo e autobiografismo. Ma quale passione umana è più alta di quella del lavoro creativo, che è il modo più alto di amare e di celebrare la vita? Fu questa dunque la passione predominante di Croce, contro la cui forza, è da credere, poco potevano i numerosi e svariati ostacoli che sempre si ergono contro l'attività umana e in particolare contro le forme di essa che, per essere le più complesse e organizzate, sono anche necessariamente le più delicate e vulnerabili. Ora, si sa che Croce si diceva il perfetto impiegato di se stesso. Questa frase suona terribile di freddezza e pesantezza a chi ha della vita un senso leggero, solo immediato e sfarfalleggiante. Suona invece mostruosa di potenza a chi ha riflettutto sulle strutture profonde della vita umana e sa fino a che altezza l'uomo può risospingere, con la sua volontà armata, i suoi pur insuperabili limiti, quando è animato da spirito di grandezza. Solo in base a questa premessa, cioè solo considerando quale carattere possente, fortissimo perché umanissimo, Croce si fosse forgiato, si può dare il giusto valore a un episodio che, insieme con il terremoto di Casamicciol;), fu il solo a minacciarne veramente l'equilibrio, almeno da una certa epoca della vita in poi. In effetti è difficile pensare a un altro caso in cui un uomo, pervenuto tardi allo scrivere, abbia poi ardito e potuto fare, in campi così tlifficili come quello della filosofia, della critica letteraria e della storia, programmi così grandiosi e articolati e sia poi anche riuscito ad attuarli, per lustri e lustri, così fedelmente e puntualmente come fece Croce. 82
Ma se dunque si pensa che quasi nulla deve aver potuto fermare Croce nel lavoro, e poi si legge la frase che egli scrisse dopo la morte di Angelina e che tu, Alfredo, riporti: «Io sono giunto a un momento critico della mia vita [...] e l'accurato armamento di pensieri e propositi mi è valso sì a qualcosa, ma non a molto», si capisce che la morte della donna amata non dovette essere per lui semplicemente un ostacolo, per quanto grande, ma una vera, grande tragedia. Si può qui applicare a Croce ciò che Croce dice di Bidone stessa, nel suo saggio giovanile a lei intitolato: «In questi caratteri forti e severi, quando la passione prorompe, si afferma in tal modo e con tanta costanza, che può essere infranta dalla morte, ma non piegata da alcun ostacolo». A comprovare lo sconvolgimento prodotto dalla tragedia stanno sia la frase che riferisci di Enrico Ruta: «Chi non ha mai amato con tutta l'anima non comprenderà mai fino a che punto Benedetto Croce ama Angelina», sia e soprattutto la frase stessa di Croce: «La ferita che mi si è aperta nel cuore non mi si rimarginerà mai». E se non bastasse, c'è ancora l'eloquentissimo episodio riferito al Mei da Gino Boria e che tu riporti così: «Questi ricordava come una volta, trattenendosi nella sala 'vichiana' della biblioteca di Croce, udisse dei gemiti che provenivano dallo studio lì accanto. Era il filosofo che, appisolatosi, chiamava nel sonno Angelina, finita già alcuni decenni innanzi». Circa infine il silenzio di Croce sulla sua passione, che potrebbe far pensare all'esaurirsi della medesima, mi sembra illuminante ciò che, parlando della «catastrofe che, come avrebbe detto Goethe, lo aveva gettato presso a morte», dici tu stesso: «la tragedia fu per Croce tale da imporgli il divieto di rievocarla, per quanto fosse possibile, perfino a se stesso, così come la spaventosa sciagura del terremoto di Casamicciola, in cui perdette in una volta i genitori e la sorella con mai placato dolore e sgomento». 83
Niente di strano dunque che Croce abbia potuto conservare nelle profondità del suo essere, repressa ma non uccisa, la passione della sua gioventù, e che ad essa abbia infine potuto dar sfogo, per quanto involontariamente, nel suo saggio, immedesimandosi con Didone, con la sua passione e con la sua sorte, e negando ad Enea la giusta comprensione e i giusti riconoscimenti, o almeno quella umana indulgenza di cui non era altrimenti avaro. La «pulcherrima Dido», la «infelix Dido», non gli avrà richiamato un po' troppo da vicino la sorte infelice della donna amata, della romagnola che anche altri giudicava «di bellezza imperiale?». Benché infatti non si possa dire che il suo giudizio è fondamentalmente sbagliato (è anzi, mi affretto a riconoscerlo, anche per me sostanzialmente giusto), si può, secondo me, senz'altro dire che esso è caricato sia a favore della regina sia a sfavore di Enea. È caricato a favore della regina perché se si può senz'altro sostenere che Didone è «una creatura eletta, una donna di alto animo e di vita incontaminata» per il valore che dà al pudore (che celebrazione, quella di Virgilio, di questo sentimento oggi misconosciutissimo e calpestatissimo!) e alla fedeltà alla memoria del marito, lo si può sostenere già meno, resta cioè discutibile, per quanto riguarda la sua prontezza nel «mettere in non cale ogni altro legame, ogni altro dovere, obbediente solo al nuovo dovere, alla nuova legge che le si è imposta e che ha religiosamente accolta». Infatti, se è bello e lodevole accettare prontamente la legge della vita e dell'amore, è dubbio che questa prontezza e disponibilità sia altrettanto bella e lodevole quando viola ciò che si era fatto voto di conservare. Se Dante non ha potuto fare a meno di notare che Didone «ruppe fede al cener di Sicheo», c'è una ragione, dato che insieme alla forza dell'amore, grande quanto si vuole, ne possono esistere 84
altre ancora più grandi, che talvolta vincono quella. Né si deve necessariamente trattare di qualcuno che, come la «raciniana Berenice» citata da Croce, sia «innamorata ma fino ad un certo limite» soltanto. Altrimenti bisogna ammettere che l'amore sia assolutamente invincibile e che tutti coloro che nella storia sembrano averlo vinto non amassero di vero amore. E dò, francamente, ci sembrerebbe un po' troppo, perché si negherebbe semplicemente la libertà umana. D'altro lato ci sono anche coloro che, per restare veramente fedeli a un amore, rinunciano a vivere o sono disposti a rinunciarvi, come, per fare un caso della poesia, la bajadera nella ballata di Goethe 1/ dio e la bajadera. Croce cita l'espressione di Virgilio per Bidone: «caeco carpitur igni» ma non dà, secondo me, il giusto valore, il pieno valore a quel «caeco». Che qui non può significare solo, com'egli evidentemente intende, «superiore alle forze umane», «superiore comando della natura», ma deve, secondo me, significare anche l'opposto, dato che la «donna elettissima», quando si vede a mal partito, non esita a far seguire alle suppliche, «nella rivolta contro la desolazione e la morte che la minaccia», i rimproveri, i rinfacciamenti, i pentimenti dell'amore dato, le ingiurie, l'odio e la furia più selvaggia e devastatrice: Hon potui abreptum divellere corpus et undis Spargere? non socios, non ipmm ahsumere ferro Ascanium patriisque epulandum panere mensis? E anche: ,.. natumque Cum genere
patremque exstinxem.
Tutto ciò vorrebbe aver fatto, si pente di non aver fatto la regina, «furiis incensa»-, di non aver straziato e 85
sbranato il corpo di Enea e di non averne gettato in mare i brandelli, di non averne trucidato i compagni e lo stesso figlio Ascanio per imbandirglielo poi a mensa, al padre, di non aver dato fuoco alle navi e di non aver estinto padre e figlio e tutta la loro razza! Come se non bastasse, ecco poi Bidone scagliare contro Enea e tutto il suo popolo una maledizione (versi 607-620) che per la sua lunghezza e articolazione, per la sua «completezza» insomma, e per la sua empietà, barbarie, disumanità e ferocia, è tale, quale più orripilante è difficile conoscerne un'altra. E indubbiamente la passione d'amore, la furia dell'amor tradito o deserto; e grande è Virgilio nel rappresentarne gli effetti, degno e pari a ogni grande poeta greco; ma è tutto ciò degno d'un animo nobile? Tutti e sempre arrivano a questi estremi quando amano e sono abbandonati? Non che si debba o si possa, umanamente, negare comprensione e pietà alla regina in balia delle cieche forze naturali. E ben umanamente, ben da poeta la commisera, in prima persona, Virgilio, prendendo addirittura il partito di lei contro quello dell'amore: Quis tibi tum, Dido, cernenti talia sensus Quosve dabas gemitus, cum litora fervere late Prospiceres arce ex summa totumque videres Misceri ante oculos tantis clamoribus aequor! Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis! Dunque la vera lode deve andare a Virgilio, saldissimo e umanissimo ed equilibratissimo qui come altrove, non in particolare alla donna, alla quale spetta solo la pietà. Per generosa che sia stata con Enea, ella non si rivela infatti meno di lui egoista (se egoismo lo si vuol chiamare), di un «egoismo che è grande a segno da dimostrarsi ingenuo», come Croce dice di Enea, dato che ella non si cura affatto di Enea e delle sue cose, neanche 86
per un momento cerca di mettersi nei suoi panni, dal suo punto di vista. Ripeto: ciò è naturale, ma appunto non nobile. Il giudizio di Croce è poi, secondo me, caricato nei confronti di Enea perché, semplicemente, non è vero che egli sia e appaia e che Virgilio l'abbia voluto, nel IV e nel VI libro àeìVEneide, «meschino, odioso e spregevole». E vero che vi figura come «l'uomo in amore inferiore all'amore» e per questo, se si vuole, come «un pover'uomo», come «un debole che ha messo, non sa lui stesso come, il piè nell'amorosa pania»; ma non è vero che vi figuri come «meschino, odioso e spregevole». Tale evidentemente è apparso al vindice Croce. Ma tale non appare al lettore sereno, per quanto si sforzi di vederlo come Croce, nel leggere i due libri citati. Che cosa poteva fare Enea di meglio di quel che fece? A me sembra: proprio nulla. In una situazione come la sua, ci si può chiedere se forse il tacere, in luogo del parlare, non potesse costituire un'alternativa al suo comportamento. Ma che valore avrebbe avuto il partirsene alla chetichella? Nessun valore, si deve dire: sarebbe stato anzi semplicemente ignobile. Egli dunque non pensò mai di farlo, come sinceramente protesta alla regina che ingiustamente di ciò lo accusa. Certo voleva, una volta presa la decisione, ridurre gli incontri, i contatti, il parlare, ben sapendo che non potevano che dare effetti disastrosi; ma si riprometteva di parlare, nel momento e nel modo migliore. Non gli si può rimproverare né la prudenza, che era strettamente necessaria, né l'alacrità, che specie da ultimo, quando si sveglia di soprassalto turbato dal monito del dio e capisce che se non si sbriga rischia di compromettere lo scopo supremo della sua vita, la missione che gli è stata affidata dagli dèi, è una alacrità a cui si induce almeno in parte contro se stesso e le forze che in lui vivamente contrastano sempre la sua 87
decisone, cioè l'attaccamento a Bidone e alla sua vita con Bidone. Se Virgilio avesse fatto partire Enea di nascosto, allora sì che avrebbe commesso un errore, l'errore d'arte che a torto, secondo me. Croce gli rimprovera per altra cosa di cui si dirà più oltre. Solo allora ci si sarebbe potuto domandare, per Enea, come fa Croce nella sua censura a Virgilio: «Perché doveva esser condotto a fare così povera figura?». Per dir tutto in una volta, dirò che a me Enea sembra, così com'è stato raffigurato, giustificato e verace al massimo, sia dal punto di vista poetico sia da quello umano. Egli fa e dice tutto ciò che potrebbe indurre la regina a ragionare, se ella volesse o potesse (e qui, ancora, è da notare che Virgilio, lungi dal ritenere o dal dire - perché il dire può essere dettato dalla pietà - nobile la passione d'amore, come Croce, la considera una malattia e anzi una «peste», per quanto dolce, andando in ciò ben oltre Giordano Bruno); le parla affettuosamente, con commozione, e le dice tutto ciò che potrebbe lenire il suo dolore e in qualche modo, se non consolarla, diminuire la sua disperazione, contro la quale cos'altro abbiamo tutti se non la ragione? Egli si comporta dunque, io dico, come si sarebbe comportata la persona più umana, né in alcun modo il suo contegno è reprensibile. Ed è bene vederlo un po' più in particolare. Non è anzitutto da non tenere in considerazione che Enea resti, già all'annunzio di Mercurio, esterrefatto. At vero Aeneas aspcctu ohmutuit amens, Arrectaeque horrore comae et vox faucibus haesit. Ardet abire fuga dulcisque relinquere terras, Attonitm tanto monitu impcrioque deorum. Enea si è «lasciato amare, di un amore che assai riposo e comodo e diletto accompagnano, dopo tanti travagli di terra e di mare, nella città ospitale». Ora però.
all'annunzio di Mercurio, cioè - usando termini sostanziali - al ridestarsi del senso del dovere, e che dovere!, provocato forse proprio, questo ridestarsi, dal riposo, dal comodo e dal diletto, che gli hanno permesso di accumulare la necessaria energia, si scuote, guarda in faccia le cose e se stesso e decide di por fine, per poter eseguire la propria missione, a ogni indugio e a ogni legame, per quanto valore abbia per sé o per gli altri, che si opponga all'esecuzione del comando degli dèi. È questo egoismo? è così grande da dimostrarsi ingenuo? Se «una lotta passionale non solo non ha luogo, ma non s'affaccia nemmeno al suo cuore», come dice Croce, cioè se così sembra per la prontezza di Enea, non è detto che sia vero. Il grande uomo d'azione non sarebbe tale se non sapesse, al momento buono, farsi roccia incrollabile, farsi scoglio contro i pili alti marosi. Ma è questa insensibilità? Non è invece forza acquistata con strazio e fatica? Non sono soltanto questo strazio e questa fatica che fanno grande la forza e grande l'uomo? Dunque quella di Croce è solo un'ipotesi, dettatagli secondo me dal partito preso a favore della regina. Enea si dimostra in effetti tutt'altro che insensibile o ingenuo. Capisce qual è il solo ostacolo che lo minaccia e si pone il problema dei mezzi per superarlo. Questo problema, che lo rende, sono d'accordo, d'altro lato meschino e inferiore, cioè dal lato dell'amore, così ricambiato col calcolo e l'abbandono, egli però, non travolto dalla passione di Didone ma dalla sua propria, non poteva non porselo. Sceglie la segretezza, fin quando non parlerà alla regina, perché gli sembra ed è il modo migliore e meno doloroso per entrambi. Ma ecco che, mentre pensa al momento e al modo migliore per parlare a Didone, questa si accorge delle sue intenzioni e subito lo accusa di volersene andare in segreto, cioè lo calunnia. E comincia a rinfacciargli tutto quel che gli ha dato, la destra in primo luogo. Non è giusto che qui, allora. Enea 89
si difenda ricordandole di non aver voluto fuggire di nascosto e di non aver mai alzato la face nuziale? Virgilio aveva detto di lei: Coniugium vocat; hoc praetexit nomine
culpam.
Cioè ella preferiva chiamare nozze la loro libera unione, in cui sia lui che lei erano entrati per caso e senza patti, per nascondere la propria colpa. Era giusto ritenere poi Enea astretto dalle nozze? Enea è stato anche accusato (non da Croce) di durezza, oltre che di egoismo, per la sua fermezza, incroUabilità, per la mancanza di cedimenti di fronte a Bidone supplice e implorante. Ma è giusto parlare di durezza? Per rimanere fermo nel proposito, egli tiene gli occhi fissi al monito, al rimprovero di Giove, e con duro sforzo comprime in cuore il dolore: «obnixus curam sub corde premebat». Cosa invoca se non la fatalità, quella stessa che fa e farà sempre della vita umana una tragedia e contro la quale fanno blocco dappertutto la pietà di Enea e la pietà di Virgilio? Oltre alla fatalità {«Fata obstant»), Enea invoca anche l'ombra d'Anchise sconvolta, che lo atterrisce in sogno, e il diritto del piccolo Ascanio: cioè alcune delle migliori ragioni su cui fondano di solito i doveri degli uomini. Desine meque tuis incendere Italiam non sponte sequor.
teque
querellis;
E quando, dopo gli insulti, le minacce e le maledizioni di lei, che non si fanno attendere, ella se ne va, egli resta ...multa metu cunctantem Dicere.
et multa
volentem
Enea vorrebbe «lenire dolentem» e «dictis avertere curas», e molto geme, «magnoque animum labefactus amore». E alla fine fugge, spaventato dagli dèi e da se 90
stesso, come ho già detto, dal pericolo che la sua umanità può costituire, più che dal pericolo di attacchi militari. E anche nel VI libro, quando scorge Bidone, piange e la chiama con amore. Soffre di aver causato la sua morte. Cerca di consolarla protestandole l'attaccamento e l'affezione per cui non voleva lasciare la sua terra, la sua spiaggia. Le ricorda, ancora, la fatalità che regna sovrana sugli uomini. E alla fine, quand'ella fugge da lui per rifugiarsi presso Sicheo, «Vrosequitur lacrimas longe et miseratus euntem», «casu concussus iniquo». Iniqua, dura la sorte, dice Virgilio; non duro Enea, che specialmente nel VI è tutto pietà. Ma se dunque Enea, lungi dall'apparire spregevole come Croce lo presenta, in nessun punto viene meno ai dettami dell'umanità e della pietà, ferma restando la diversità della sua situazione rispetto a quella di Bidone, che conto è da fare dell'altro problema da Croce sollevato a proposito di Virgilio e della sua arte, della sua osservazione cioè che Virgilio, nel rappresentare l'eroe come lo ha rappresentato, sarebbe incappato in una contraddizione o incongruenza? Perché, se è vero che Croce respinge le censure di coloro che biasimano Virgilio poeta invece di limitarsi a biasimare l'uomo Enea e nega che questi sia stato presentato con minore virtìi poetica rispetto a Bidone: «questa viva e concreta, l'altro astratto, freddo, stilizzato, monocromo, rudimentale e arcaicizzante»; è anche vero che vi riconosce pur tuttavia «un motivo di vero». Perché, anche se «in quell'episodio tutto è perfettamente armonico», «la disarmonia, la sconcordanza è nella rappresentazione di Enea, eroe del poema, che, dopo lunghi travagli e guerre, conduce e stabilisce i suoi troiani in Italia e dà la prima origine alla grandezza di Roma. Perché mai l'eroe doveva entrare, ingannatore e devastatore, nella vita amorosa di una donna elettissima, perché partecipare a una vi91
cenda passionale ed essere colui che ripaga l'amore con l'abbandono, la dedizione con la disperazione e la morte? [...]. Bastava che si astenesse dall'intrigo d'amore e non sarebbe stato inferiore all'amore, come il placido borghese che non gusta le armi e i combattimenti e se ne tiene in disparte, non è né vile né disertore. Bastava che, per ripetere il consiglio della veneziana Zulietta a Giangiacomo, 'avesse atteso alle matematiche e lasciato stare le donne': avesse atteso alle opere eroiche e lasciato in pace Bidone. Averlo fatto entrare in questa relazione è stato indubbiamente un errore di arte». Più oltre Croce parla ancora della «contraddizione che turba e confonde la missione e la figura di Enea» e consiglia di «astenersi dal voler trasferire e far combaciare l'uno e l'altro Enea, e sottilizzare a vuoto e soffrire in questo sforzo sterile», ammonendo infine di non andare «a caccia di accordi e di unità dove non ci sono e non possono trovarsi». Dunque, anche se alla fine s'ingegna subito di dimostrare la verità del mio detto, non essere egli avaro di indulgenza dato che ne concede molta a Virgilio, l'appunto che muove al poeta è ben chiaro e netto e non di poco momento. Se io non pensassi, come penso, che l'animo di Croce sia stato, nello scrivere questo saggio, perturbato e non, come al solito, sereno, troverei certo strano, stranissimo che egli, che pur mostrò in molti modi e in particolare, ricordo, citando i primi versi del canto XXV dell'Orlando furioso; Oh gran contrasto in giovenil pensiero, Desir di laude, ed impeto d'amore! Né chi più vaglia, ancor si trova il vero; Ché resta or questo or quel superiore di ben intendere le eterne oscillazioni, l'eterna tenzone che nel cuore umano combattono le contrastanti incli92
nazioni e passioni; non abbia qui inteso, da un lato, la funzione dell'immettere nella narrazione un episodio così significativo, in omaggio alla legge dell'epica (i generi letterari!) che vuole si allarghi e varii continuamente la vicenda principale (in modo che la palla di neve iniziale sia alla fine valanga), e, dall'altro, il dramma dell'uomo d'azione - se non si vuol dire di ogni uomo - e di chiunque sia mosso da spirito religioso a compiere una missione importante, cioè il dramma della grandezza, il cui servizio impone - in modo comunque più evidente e grave che per l'uomo comune - tra i tanti sacrifici, lo stesso venir meno ai doveri e imperativi concorrenti, come appunto fa Enea. Non illustrò Croce stesso, per esempio, «il profondo dolore, l'intima tragedia, che Giosuè Carducci portò nel suo cuore», come accade anche a tanti altri intellettuali e artisti, «condannati ad essere scossi in perpetuo dalla passione politica senza conseguire la liberazione nell'effettiva attività guerresca, rivoluzionaria, riformatrice?». Che in Enea il piccolo si unisca al grande, il meschino al nobile, non dà una base ancor piìi larga e realistica al personaggio e al poema? Non si può vedere proprio in questo una caratteristica e un elemento di progresso del poema virgiliano rispetto a quelli in cui i personaggi, gli eroi son concepiti in maniera non dirò schematica ma quasi sovrumana, senza cioè quella parte di umanità che sappiamo, specie oggi sappiamo essere ineliminabile in ogni essere umano? Non si illumina, la missione di Enea, di una luce (di una gloria) ancor più austera e grave per i sacrifici, per la gran varietà dei sacrifici che è costata? Croce, che teorizzò l'economia staccata dalla moralità, avrebbe potuto e dovuto, nel caso di Enea, teorizzare la sessualità staccata dall'amore (accettò, come tu segnali, il «tenero sensualismo» nell'Ariosto). Non illegittimamente Enea, «dopo lunghi travagli e guerre», cerca ristoro, cioè riposo, comodo e diletto nelle braccia di Didone, 93
la quale cerca a sua volta, nelle braccia di lui, appagamento alla sua nuova passione. Non concede il padre Omero, il divino Omero, spesso riposo ai suoi guerrieri nelle molli braccia femminili anche al di fuori della passione? Cercar ristoro nel «mescolar le membra» con un rappresentante dell'altro sesso, non è diritto di ogni adulto libero? Enea e Bidone hanno in mente, nell'unirsi, due cose diverse, è chiaro. Ma che diritto dà questo a Didone verso Enea? L'unione avviene, come ho detto sopra, fortuitamente, in una grotta in cui i due si sono rifugiati contro il temporale, durante la partita di caccia. I due non avranno parlato molto. Patti comunque non furono fatti e nozze non furono celebrate. Secondo Croce, Enea si sarebbe dovuto astenere dall'entrare in una tale relazione con Didone. Non vedo il perché. Non si può, ogni volta che si è attratti da una donna (o la donna da un uomo) fare esami e analisi i cui risultati non è affatto garantito che sarebbero validi. Il placido borghese può astenersi dalle armi molto più facilmente che un uomo dalle donne. E in fondo sarebbe assurdo e ingiustificatissimo pretendere che non si entri in relazione con una donna o con un uomo se non spinti dal più puro amore. Allora, forse, la vita si arresterebbe! Come si fa, specie quando si è esausti, ad attendere sempre e solo alle matematiche o alle opere eroiche? Mi sembra di potere a questo punto concludere che proprio «quella più profonda volontà che fu il suo effettivo creare da poeta, ed è la sola cosa che valga a noi e importi», come dice Croce, spinse Virgilio a concepire, congegnare e rappresentare come concepì, congegnò e rappresentò l'episodio di Enea e Didone; sicché con essa non contrasta affatto, ma collima in pieno, la sua consapevolezza critica che gli faceva tenere per iscusato e giustificato il suo eroe. suo aff.to Sossio Giametta 94
CROCE E LE ELEGIE ROMANE''
Sembra che Benedetto Croce, solitamente così attento a sceverare la poesia dalla non poesia, sia stato per una volta riluttante a farlo, o almeno a farlo in modo chiaro e completo, cioè nel caso delle Elegie romane di Goethe. Può darsi che ciò sia avvenuto solo o soprattutto per il fatto che egli non dedicò a queste e alle altre elegie di Goethe, come invece ad altre opere o gruppi di opere di lui, un saggio specifico, essendosi accontentato di tradurre e commentare questa o quell'elegia (e molto bella ci sembra al riguardo l'analisi di Eufrosina) e di dare, nell'ambito di saggi dedicati ad argomenti di carattere più generale, quegli schiarimenti e giudizi sull'intera raccolta e sulla prima parte di essa costituita appunto dalle Elegie romane, che a lui dovettero evidentemente apparire sufficienti almeno quanto alla sostanza. Ma, notato di passata che non è senza significato che anche due ricchi volumi di saggi e traduzioni possano risultare scarsi, sia nell'una che nell'altra parte, per uno scrittore della ricchezza e della forza di Goethe, è da dire, per quanto riguarda le Elegie romane, che la composizione di un saggio specifico avrebbe "costretto" Croce a concentrarsi, a mettere bene a fuoco il suo pensiero, a raccogliere e ad armonizzare tutti gli elementi di giudizio e dunque ad eliminare ogni disparità arricchendo e sfumando diversamente, completando e magari modificando anche sostanzialmen* Questa è solo la prima parte del saggio progettato sulle Elegie romane di Goethe. La seconda, destinata alla disamina delle (altre) singole elegie, non fu scritta, per sopravvenute difficoltà di pubblicazione. 95
te - come è improbabile ma non può escludersi - il giudizio di fondo. Sta di fatto che, così, gli sparsi giudizi non collimano perfettamente tra loro, pur non potendo dirsi che cozzino, e ciò sembra indicare una non superata oscillazione del giudizio di Croce, la quale si segnala non solo per il suo contrasto con il suo abituale rigore, ma anche per le attinenze che può avere con la dottrina estetica in generale. Crediamo si possa senz'altro dire che il giudizio principale sulle Elegie romane è quello espresso nel dodicesimo saggio del primo libro su Goethe (intitolato Liriche), in cui si legge: La sostanza delie Elegie romane è la gioia fisica dell'amore, dell'amore fisico, che nella calma dei sensi soddisfatti guarda con letizia il mondo e con indulgenza e simpatia le umane creature, e prima tra esse la donna dell'amore, alla quale non chiede spiritualità di consensi né virtii da ammirare e riverire, ma la fresca gioventùi, la florida bellezza e la lieta sanità, e quel conversare condiscendente e giocoso che può istituirsi coi bambini. Gli accade perfino di poetare tra le braccia di lei, di lei che dorme, e che egli sente a sé presso quasi come non altro che un magnifico animale: Oftmals hab'ich auch schon in ihren Armen gedichtet Und des Hexameters Mass leise mit fingernder Hand Ihr auf dem Rùcken gezahlt. Sie atmet in lieblichem Schlummer, Und es durchglùhet ihr Hauch mir bis ins tiefste die Brusi. (Piii volte ho poetato, a lei tra le braccia giacendo, E l'esametro, piano, con mano tasteggiarne, Sul suo dorso ho contato. Respira ella amabil nel sonno; Caldo mi scende l'alito nel piìi profondo petto). Poesia che per riuscire tale deve serbare una sorta d'impudicizia inconsapevole, d'impudicizia innocente, pro96
pria di chi^ in quegli istanti, non veda e non senta altro al rnondo che la sua chiusa cerchia di felicità: nel che il Goethe riesce a maraviglia. È questa verameiitè "la sostanza" delle Elegie romane? la gioia fisica dell'amore fisico, la letizia, l'indulgenza e la simpatia che scaturiscono dai sensi soddisfatti? Questi sono certamente i face values delle Elegie romane, per così dire la loro insegna, il loro punto d'arrivo o piuttosto di coagulo ma non, secondo noi, la vera, ultima sostanza poetica loro. Intanto già questo fatto di scandire l'esametro sulla schiena del bell'animale denota un'attività "sospetta" per uno che sia pacificato e acquietato e racconsolato dei sensi, per uno cioè che non dovrebbe vedere o sentire altro al mondo che la sua chiusa cerchia di felicità, per uno insomma che si dovrebbe godere in pace l'ottenuta calma dei sensi e non pensare a poetare, ossia a comunicare in universale, quasi a tradimento, non appena è riuscito a placare quello che certo era un forte bisogno, un "obiettivo" primario, al tempo e nelle circostanze, ma che difficilmente potrebbe dirsi predominante nella personalità di Goethe. Poi c'è quell'Hawc^, quel fiato o alito di lei che, penetrando in lui da una distanza così ravvicinata, scende e lo riarde nel più profondo del petto, che è un'immagine troppo ingombrante, troppo imbarazzante di corposa e coinvolgente intimità per non reagire, con la sua forza schiettamente poetica, in senso trasfigurante anche sul resto dell'elegia. Comunque qui per lo meno viene riconosciuta, anche se, a quanto ci sembra, senza entusiasmo e in modo non diretto e aperto, la poesia, dal momento che, se «Goethe riesce a maravigha» nel serbare quella sorta d'impudicizia inconsapevole, d'impudicizia innocente che la poesia deve serbare per riuscire tale, non si può non concludere che, dunque, la poesia è riuscita tale, c'è. 97
Diversamente avrebbe portato e porta a pensare, invece, tutto il discorso che, nello stesso saggio, precede il giudizio sopra riportato. In tale discorso Croce parla dei canti d'amore o Lieder di Goethe per dire che essi sono canti, più che dell'amore-passione, del giuoco dell'amore. Egli loda molto la grazia, finezza e dolcezza di tali canti, con cui «il Goethe vince del tutto quanto era di convenzionale e di trito nella poesia erotica del tempo, e quanto d'insipido è nella imitazione dei canti popolari; perché egli prende le mosse sempre da una commozione da lui provata, da moti d'animo sorpresi nel proprio cuore, da fresche impressioni delle cose». In sostanza però ne nega la poesia autentica, quella che, a suo dire, quando è erotica è nello stesso tempo eroica, e che riconosce invece alle poche poesie dedicate a Lida, ove «l'espressione è piìi immediata e diretta, senza il compiacimento e il delicato civettare e giocare con la forma letteraria, dei quali è vestigio nei Lieder». A simile compiacimento comunque, dice Croce, Goethe tornò nelle Elegie romane, e questo «compiacimento» sembra indicare abbastanza chiaramente, qui, che anche le. Elegie romane, come i Lieder, non sono opera di poesia profonda, ossia, semplicemente, di poesia. Ma a parte che, volendo sottilizzare o cavillare, si potrebbe sempre pensare che il compiacimento non escludesse per Croce una parte di poesia profonda e semplicemente le stesse accanto in pacifica o non pacifica coesistenza; più in là si riconosce che «il metro e le movenze latine hanno nelle Elegie romane [...] un assai più intimo nesso con la materia che non nello Hermanns und Dorothea\ cioè si ammette quello che a noi sembra un elemento della vera poesia, quale non può non essere la profonda corrispondenza del metro alla materia (Goethe parla dell'incanto che il metro esercitava su di lui). Ma 98
poi si lega a questa osservazione un discorso divagante, rispetto allo sceveramento che ci interessa: «sicché le Elegie non potrebbero propriamente considerarsi poesia umanistica», cioè poesia celebrante «la lotta, le vittorie e le sconfitte dello spirito, l'acquisto e la rinuncia nel corso della battaglia» (come spiega in un altro saggio), «e tutt'al più arieggiano agli endecasillabi baiàni e ad altri carmi del Fontano, il quale non dissimilmente congiunse la sua calda voluttà, la sua anima gaudente, con la voluttà delle antiche forme, col godimento dei ritmi dei poeti romani d'amore». Dove, a parte i condizionali cui non sappiamo bene che valore attribuire, se non quello già detto di un'oscillazione e di un'incertezza, rimaniamo fondamentalmente inappagati circa la questione: se l'incontro della calda voluttà di un'anima gaudente con la voluttà delle antiche forme basti o no a creare la poesia, cioè, in sostanza, se per le Elegie romane si neghi o affermi la vera poesia. Un frammento di giudizio sulle Elegie romane si trova poi anche in quest'altro saggio che abbiamo appena menzionato e che è il primo dei Terzi saggi, nel secondo volume su Goethe, intitolato: Sullo svolgimento della lirica e poesia del Goethe. Questo frammento di giudizio non è più che un accenno e di per sé non sembrerebbe tanto importante; ma, per la scarsità con cui Croce si è espresso sulle Elegie romane e per il contesto in cui si trova inserito, esso acquista primario interesse per chi, come noi qui, delle Elegie romane si occupi specificamente. Questo saggio occupa in effetti, tra quelli da Croce dedicati a Goethe, una posizione che è centrale non solo per la centralità stessa dell'argomento che tratta - se cioè è vero, come noi crediamo, che fra i tanti e pur eminenti meriti di Goethe quelli poetici restano ancor sempre i più importanti - ma anche perché in esso Croce sottopone a una serrata disamina l'intera lirica e poesia di Goethe. 99
In questo saggio dunquie si tocca delle Elegie rom'aàe in un contesto così generale, neirambito di Un' discorso così ampio e comprensivo e, anche, -di tale portata teofica, che la posizione di Croce' a iloro riguardo risiiltà in qualche modo illuminata da quella che egli assume riguardo'alle altre opere e gruppi di opere, e in particolare dalla luce che vi si getta sulle due fornfie', aventi'entrambè valore ma diverso valore, in cui si fa rientrare, previa adeguata bipartiizione, il mare magno della lirica e poesia goethiari-a: quella poetica propriamente detta e quella lettei-aria, poi distinta in riflessiva, gnomica, esortativa, celiante, ironica, satirica ecc. Solo che, quando si tratta di far rientrare nell'una forma le Elegie romane, ci troviamo di fronte all'ostacolo di prima. Ben si nota infatti in questo saggio che in esse e nelle opere ad esse più o meno contemporanee «le intenzioni e la letteratura penetrano e si frammischiano», e che nelle Elegie romane in particolare «è'tantaletteratura e tanto stilizzamento»; ma rimaniamó pur sempre all'oscuro circa l a questione se, nonostante il frammischiarsi delle intenzioni e della letteratutà è nonostante la tanta letteratura e il tanto stilizzamentb'che contengono, le Elegie romane contengano anche abbastanza poesia, genuina poesia, per essere incluse piuttosto nella prima che nella seconda forma b viceversa. Siamo in tal modo rimandati al breve giudizio principale che abbiamo sopra riportato e per il quale sussistono i dubbi e gli interrogativi che abbiamo già indicati. Per sciogliere i quali dubbi e rispondere ai quali interrogativi, non ci resta altro mezzo, ci sembra, che tentare noi stessi una rapida esplorazione critica delle Elegie romane, che ci consenta inoltre di stabilire se esse non offrano elementi per un diverso abbordo della questione e per una diversa visione e considerazione della raccolta nel suo complesso. 100
DioTtotbcpefcfetomok^ i4:hfiaàn t^ialkMaipmftA^)Ì3tSiwsTOJalsalàa^t^jtoiidiafiè puèi'dire Àe rfefekmaii;Q(giji*di' 2Ì0i (diaSteatd^iaààl s©tf]C)irk;:n£d:)iià#0;tsen$oi& zionécolièttediigione-elfeiakseDmentiOQ WnsailipuQJdirè ghbìTMotrajatróeglite.cfeeiidiaadeisjtotcì-iMte giiidizSo dicflrtìcez iSi itr8tt^)ddHgii)»slidi .i ^ i ^ pai aSeiinfatti l'elegiai&ihaprei coniuna^^Qetìca. iateffi^gazioae dei i monumenti e d e l genio, del passato,spassa,poi giadMicrpatHra>fichcc sii Starjcò allora ;neè tonii acri (e talvólta/fxlcbeii o ;tjroviinciali) ìcome è(stataiasseinv!ata)i degli Kfi'^aràmim m
LA LETTERA
SULL'«UMANISMO»
La Lettera sulV«umanismo» (a cura di Franco Volpi, Milano 1995) fu scritta da Heidegger nel 1946 in risposta a una lettera di Jean Beaufret. Questi gli aveva sottoposto vari problemi filosofici (quale rapporto era possibile tra ontologia e etica, coscienza ed essere ecc.) e rivolto tre interrogativi: 1) E la sua filosofia un irrazionalismo che minaccia i valori della cultura? 2) Come ridare un senso alla parola "umanismo"? 3) Come salvare l'elemento di avventura della filosofia senza fare di questa un'avventuriera? Heidegger attraversava allora un periodo difficile. La sua casa era in parte occupata dai militari francesi, la sua biblioteca sotto sequestro ed egli era sospeso dall'insegnamento in attesa del giudizio della Commissione di epurazione. Tutto ciò, insieme con l'amarezza suscitatagli dall'incomprensione che incontrava e dalle critiche che venivano mosse al suo pensiero, fece sì che egli si rivolgesse pieno di speranza alla Francia di Beaufret e di Sartre, da cui gli veniva invece stima e comprensione. Con Sartre, che per il suo L'essere e il nulla si era ispirato a Essere e tempo, ci fu uno scambio di libri e ci doveva essere anche un incontro, che però poi non avvenne. Invece con Beaufret ci fu un incontro e un amichevole scambio epistolare. Gli interrogativi di Beaufret offrirono dunque a Heidegger l'occasione per spiegarsi, difendersi e contrattaccare, con toni vivaci e risentiti che gli scritti posteriori, quando la sua figura dominava ormai incontrac i
stata, non avrebbero più avuto. Partendo da quei problemi e interrogativi, egli allarga il discorso a tutti i punti fondamentali della sua meditazione, formulando quello che, per l'impegno e la forza delle argomentazioni, è da dire un vero e proprio manifesto del suo pensiero. Nella leggendaria conferenza del 1945, Uexistentialisme est un humanisme, Sartre, rispondendo alle accuse di disimpegno, relativismo e nichilismo mossegli da marxisti e cristiani, aveva sostenuto che l'esistenzialismo era il vero umanesimo. Dopo la "morte di Dio" i valori dell'umanesimo potevano essere salvati solo se l'uomo li reinventava in base a se stesso, con l'impegno, la decisione e l'azione. «L'esistenza viene prima dell'essenza», fu il suo motto, che capovolgeva quello di Aristotele ed esprimeva la sua desolata concezione dell'esistenza umana priva di radici e immersa nel nulla, dominata dalla fatticità e nuda di fronte al destino. Ma Heidegger è contrario all'umanismo. Questa parola ha perduto senso perché l'umanismo è "metafisica". Questa non pone la questione della verità dell'essere ma se la preclude persistendo nell'oblio dell'essere. Tuttavia non si può superare la metafisica andando più su di essa: così si rimane sempre nella metafisica (accadde, secondo lui, a Nietzsche). Bisogna pensare in modo pili originario l'essenza dell'uomo come "vicino dell'essere" e poi vedere come questa essenza diventi destino. Quello che conta non è dunque l'uomo ma l'essere e il rapporto che l'essere ha con l'uomo. Ma significa ciò che Heidegger è per l'inumanità? Egli nega che il suo pensiero sia un irrazionalismo, una minaccia per la cultura, un nichilismo, un ateismo, per il solo fatto di opporsi al mantenimento del termine "umanismo", alla "logica" delle regole, ai "valori" che dipendono dalla stima umana, al "mondo" non concepito come la radura dell'essere e a "Dio" come supremo 152
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soggetto. Il suo pensiero apre altre prospettive. Vuole reagire all'oblio dell'essere che dura da duemila anni e ha portato l'uomo a una vita estremamente tecnicizzata e inautentica; vuole risvegliare l'interesse per il puro pensiero che fu già dei pensatori preplatonici. Indaga il rapporto dell'essere con l'uomo, rapporto che è già l'essere e che avviene nella radura dell'e-sistenza estatica dell'uomo. L'uomo vi è gettato perché sia il pastore dell'essere, il custode della sua verità e abiti nella sua casa che è il linguaggio. Questo pensiero non ha effetti e non produce risultati; tuttavia agisce, porta a compimento l'essere, cioè lo porta al linguaggio, verso il quale l'essere è sempre in cammino. «Il linguaggio è il linguaggio dell'essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nel campo». Il carattere vincolante del dire è però superiore a quello delle scienze, perché è piti libero e lascia essere l'essere. Dunque questo pensiero non è né teoretico né pratico, né ontologia né etica: è pensiero rammemorante. Non è più filosofia perché pensa in modo piìi originario. Tuttavia non può molto: «sta scendendo nella povertà della sua essenza provvisoria». Al tempo dei pensatori preplatonici, dice Heidegger, il pensiero non era ancora diventato filosofia, téchne (tecnica) e poi episteme (scienza), per depredare e strumentalizzare la natura; non aveva partizioni e discipline come ontologia, etica, fisica. Però quei pensatori esploravano la physis con una profondità e un'ampiezza mai più raggiunte. Detto discorso fu interrotto da Platone e Aristotele e poi da tutti quelli che vennero dopo di loro, che confusero l'essere con l'ente e occupandosi dell'essere si occuparono in realtà sempre dell'ente. Tuttavia quello 153
che essi e gli altri hanno detto di volta in volta, sempre la stessa cosa con parole diverse, non si può rifiutare, perché all'essere è essenziale la dimensione storica (negata dai francesi), per la quale, comunque, «la visione marxista», basata sull'alienazione, «è superiore a ogni altra storiografia».
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L'ESSENZA DELLA VERITÀ
L'Adelphi prosegue la pubblicazione delle opere di Heidegger mandando in libreria, grazie alle fatiche del curatore Franco Volpi, L'essenza della verità. Sul mito della caverna e sul "Teeteto" di Platone. Si tratta del corso tenuto a Friburgo nel 1931/32, le cui tesi sono già abbozzate nell'omonima conferenza del 1930 e poi riprese nel saggio La teoria platonica della verità del 1942. In queste lezioni Heidegger rovescia l'idea della verità che vige da oltre due millenni: la concordanza di quel che si asserisce con le cose [veritas est adaequatio rei et intellectus sive enuntiationis). Questa idea si ritrova già nell'antichità e nel medioevo, ma Heidegger mostra che le verità di cui si cerca l'essenza: 24-1=3, la terra gira intorno al sole, all'autunno segue l'inverno ecc., presuppongono che le si conosca già. Dunque la concordanza è fondata su un'altra che è fondata su un'altra e così via. Queste verità sembrano ovvie, dice Heidegger, ma possiamo noi riferirci all'ovvio come a dati accertati? Chi siamo noi? E come facciamo a dire che una cosa è ovvia o no? Inoltre, noi diciamo che un'asserzione è vera quando concorda con l'oggetto. Ma diciamo anche che sono vere certe persone o certe cose: un vero amico, oro vero ecc. Ci sono allora altri sensi della parola? Queste perplessità, secondo Heidegger, provengono dal fatto che su quello che ci è troppo vicino noi non indaghiamo. Se indaghiamo, l'ovvio diventa la cosa meno comprensibile'. Dobbiamo quindi prendere le distanze da ' Cfr. Nietzsche, La gaia scienza, af. 355: «Il noto è l'abituale; e l'abituale è il più difficile da "conoscere" ossia da vedere come proble155
ciò che sembra ovvio, indietreggiare verso l'inizio della storia delia filosofia e domandarci: come fu intesa allora la verità? In Aristotele e poi in S. Tommaso, come omoìosis, come conformità dell'idea all'ideato appunto. Ma proprio così era concepita all'inizio la verità? Quando Aristotele dice che nel filosofare si ricerca la verità, egli «non intende dire che la filosofia debba formulare proposizioni corrette e valide, ma che [...] cerca l'ente nella sua svelatezza in quanto ente». Ecco, la svelatezza, a-létheia. Cosi si chiamava in origine la verità. Con un termine negativo {a privativa). E il vero, lo svelato, era Valethés, cioè l'ente. Perché? Perché l'uomo aveva fatto prima l'esperienza della velatezza, dell'ente come qualcosa che si nasconde. «La velatezza dell'ente circonda l'uomo e lo angustia nella sua integrità e nel suo fondamento». Quindi «è necessario e possibile che l'uomo si adoperi per strappare l'ente a questa velatezza e portarlo nella svelatezza, ponendosi egli stesso nell'ente disvelato». Questa, secondo Heidegger, è la grande esperienza che l'uomo ha fatto in origine, come è testimoniato da uno dei più grandi filosofi antichi, Eraclito, che dice: «La natura ama nascondersi». Questa è la verità originaria: l'accadere stesso dell'essere in cui l'uomo è coinvolto e messo in gioco, col rischio del fallimento. La verità, che non si oppone alla falsità ma alla non-verità, era una situazione dell'uomo prima di diventare una qualità del giudizio. E si conquistava col duro sforzo del filosofare, cioè percorrendo «quella via che corre al di fuori dei sentieri abituali degli uomini», come dice un altro grande filosofo antico, Parmenide. ma, ossia da vedere come ignoto, come lontano, come "fuori di noi"...». Ma già Aristotele diceva che noi, al pari della nottola, non abbiamo occhi per ciò che è più evidente. 156
Ma come si passò dalla concezione manifestativa, ontologica a quella predicativa della verità? E chi ne ebbe colpa? Perché all'esperienza originaria non si può aggiungere nulla: essa è perfetta e insuperabile. Ciò che vi si aggiunge può solo corromperla, come è avvenuto. Già in Aristotele c'è la tendenza a passare dall'una all'altra. Ma il fattaccio avviene propriamente con Platone. Con lui la svelatezza diventa conformità, omoìosis. Paradigmatico in tal senso il mito della caverna raccontato nella Repubblica, dove si narra dell'uomo costretto dalla nascita nell'oscurità e della sua conversione alla luce del sapere. Di questo mito, come anche dei passaggi del Teeteto sulla scienza, Heidegger dà una sottile, magistrale esegesi, affrontando il problema dell'evento dell'essere dal punto di vista della nostra radicale finitezza. In seguito tuttavia corresse la sua tesi e ammise che la svelatezza fu esperita subito soltanto come correttezza, orthòtes. Ma perché questo riconoscimento tardivo non sia interpretato come una "ritrattazione" totale, va detto che sotto il tessuto prezioso dei pensieri di Heidegger si celano i diversi sensi, che non necessariamente cozzano tra loro, della parola verità. Uno è l'autenticità: il vero amico, l'oro vero. Un altro è la corrispondenza di quel che si pensa alle cose e alle situazioni effettive, la conformità dell'idea all'ideato. Un terzo, infine, è la scoperta dopo l'indagine, lo svelamento di una verità morale o artistica o filosofica o scientifica ecc. Le scoperte scientifiche, per esempio, sono svelamenti delle strutture sempre più profonde del reale, la cui infinità non potrà mai essere esaurita.
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CONTRIBUTI
ALLA FILOSOFIA
In una recente intervista a Sergio Givone, Eduardo Cicelyn segnalava l'imminenza del sorpasso del pensiero debole da parte dei pensiero tragico. Givone accusa il pensiero debole di aver dato a problemi forti risposte fiacche e di superficie invece che radicali. Contro questo svuotamento, incita a risalire alla tematica che è all'origine del nichilismo: il problema del male, dell'essere, di Dio. Ciò può sorprendere chi sa che Givone è collega e amico di Vattimo, ma non chi sa che, con Vattimo stesso (e Umberto Eco), è discepolo di Luigi Pareyson. Cicelyn chiama Pareyson il grande vecchio, e il primo aggettivo è certo giustificato, perché Pareyson è autore di opere classiche nei campi dell'estetica, dell'esistenzialismo e dell'ermeneutica. Ma il secondo lo è meno perché, a 72 anni, Pareyson è filosoficamente pili giovane di molti giovani. E stato infatti il primo a dar notizia e conto, in un articolo e poi in un saggio apparso nel suo prestigioso «Annuario filosofico» (1989, Mursia), Heidegger: La libertà e il nulla, del libro postumo con cui in Germania è stato celebrato il centenario della nascita di Heidegger: Contributi alla filosofia (Dell'evento). Era anche il più qualificato per farlo, perché già a 20 anni, quando incontrò il filosofo di Messkirch, come racconta, viveva in simbiosi col suo pensiero, divenuto poi sangue del suo sangue. I Contributi furono composti da Heidegger nel periodo del suo silenzio forzato, dal 1935 al dopoguerra, e rappresentano il grande sforzo che egli fece per supe158
rare \impasse di Essere e tempo, rimasto come si sa incompiuto. Anche se sono serviti da materiale di costruzione per le opere successive, queste, sostiene Pareyson, vanno rilette e reinterpretate alla luce di quelli, che sono l'impennata massima della speculazione heideggeriana. Il nostro tempo è per Heidegger il «tempo dell'indigenza», contrassegnato da una duplice mancanza: gli antichi dèi non sono piìi, il nuovo Dio non è ancora venuto. «Noi veniamo troppo tardi per gli dèi e troppo presto per l'essere». Il cristianesimo ha fatto il suo tempo: «Il mondo del Dio cristiano ha perduto la sua forza nella storia». Concepito come il supremo degli enti, il Dio biblico è compromesso con la metafisica. A tal punto che il nuovo Dio sarà «il tutt'altro da quelli già stati e specie da quello cristiano». Questo «Dio estremo», detto anche «Dio divino» e «Dio dell'essere», essendo fuori da ogni tradizione, è imprevedibile e indescrivibile. Tuttavia Heidegger ne dà numerose determinazioni che, nelle loro ambiguità e oscillazioni, tendono a salvaguardarne la mobilità, il «passaggio» in cui consiste la sua essenza e a suggerirne la diversità da tutto quanto è già stato. Giacché qui non si tratta di sostituire un Dio a un altro o una religione a un'altra, ma di ricercare un rapporto con la divinità più originario ed essenziale, di «elevarsi al piano della decisione ultima su ciò che v'è di supremo, di affrontare l'estremo rischio della verità dell'essere». E un nuovo inizio, uno slancio verso l'avvenire che consiste in un ritorno al passato, al primo inizio, non per cancellare quanto c'è stato in mezzo ma per ripercorrere la storia della metafisica e recuperarne il non detto e non pensato, «riaffondando il già detto nell'oscurità e nel silenzio dell'abisso originario perché ne rinasca trasfigurato» (Pareyson). Dopo la morte della metafisica in Ger159
mania con Nietzsche, Heidegger voleva evidentemente riannodarsi alle pure origini del pensiero in Grecia, invertendo il movimento della storia della filosofia. Ma in attesa del massimo evento che è l'avvento del Dio ultimo, occorre una lunga preparazione, e per questa coraggio, audacia, risolutezza. Intanto bisogna vivere nel tramonto degli dèi. Ma nella latitanza di Dio, gli atei e gli indifferenti, i grandi dubitatori che si angosciano dell'abbandono di Dio, sono più vicini alla fede dei teologi, che vi mescolano il Dio metafisico e non si preoccupano dell'essere. Nell'epoca del nichilismo, infatti, l'assenza di Dio è la sua sola presenza possibile, e «il pensiero privo di un Dio, il pensiero che deve fare a meno del Dio della filosofia, è forse il più vicino al Dio divino», dice Heidegger manifestando anche qui, come in tanti altri punti, il suo anticristianesimo. Questo, però, secondo Pareyson, è dovuto, piìi che alla differenza ontologica tra il Dio degli enti e il Dio dell'essere, a una nostalgia della grecità intesa come continuità fra il mondo greco antico e la Germania odierna. Di esso Pareyson si rammarica perché, dice, impedì a Heidegger di proseguire nel radicalismo genialmente iniziato e di coglierne i frutti. Solo il cristianesimo, aggiunge, gli avrebbe fornito la chiave di quell'ambiguità che domina tutto il suo pensiero ma non è teorizzata nel suo principio. Questa chiave è la libertà, già teorizzata da Schelling nel dar risposta alla domanda leibniziana: perché l'essere piuttosto che il nulla? A questa domanda Heidegger aveva risposto predicando l'essere come nulla. Ma il suo nulla era pur sempre la riserva dell'essere per non essere confuso con gli enti, e l'essere è compatta positività, priva dell'alternativa insita nella libertà come scelta. Dunque non lascia posto al nulla e riduce il male a non-essere, non ne vede la potenza distruttiva. Hei160
degger si era posto il problema della libertà solo limitatamente al rapporto uomo-essere, in cui l'uomo ascolta il destino ma non è un servo, e aveva anche concepito la libertà come abisso, ma essa era pur sempre libertà umana, bloccata dall'idea del fato. Anche del bene e male si era occupato poco, pur contenendo le sue opere un elenco quasi completo delle antitesi principali. Se, invece, si coniuga il suo nulla con la libertà schellinghiana del bene e male, suggerisce Pareyson, si può collocare la libertà nell'essere stesso, anzi sostituirla ad esso come fonte e origine di tutto, al modo del Dio biblico. Ciò, dice, sarebbe stato nella logica della radicalizzazione heideggeriana e di tutto il pensiero moderno. Irrompendo nell'essere, la libertà nega contemporaneamente il nulla, è scelta e non esiste senza la negazione. Questa è però ben diversa se è il risultato della scelta o semplice non-essere iniziale. Nel primo caso diventa annullamento rovinoso, in cui l'uomo - che ripete la sua libertà da Dio - può precipitare ed è precipitato col peccato originale. Suggestionati da un accenno dello stesso Pareyson alla continuità tra Heidegger e Hòlderlin e Nietzsche, diremo per/;oncludere che ci sembra quasi che Heidegger abbia ripreso a suo conto la fondamentale rivendicazione di indipendenza tedesca dal magistero della latinità erede dell'Oriente che è propria di tali due autori, la loro nostalgia della grecità, l'anticristianesimo avvolto in reminiscenze cristiane, il paganesimo grecizzante, la religione della terra. Con Nietzsche in particolare Heidegger sembra avere in comune il senso di decadenza del cristianesimo, il nuovo inizio, il nichilismo attivo, il grande meriggio, l'avvenirismo, l'angoscia per l'assenza di Dio.
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CHE COSA HA DETTO HEIDEGGER
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«Nietzsche che dice? Boh!» canta Zucchero. E una volta Luciano De Crescenzo propose a un editore una collana di filosofi intitolata: «Che cavolo ha detto Heidegger» (o Nietzsche o Schopenhauer ecc). Solo che al posto di "cavolo" c'era una parola più espressiva. Espressiva di che? Di quel misto di desiderio, bisogno, curiosità e insieme frustrazione, rabbia, impotenza, che accompagna di solito quella domanda. È una domanda che tanti fanno a se stessi, magari dopo avere in più modi cercato di rispondervi. «Non l'hanno voluta fare», lamenta De Crescenzo, «ma hanno torto». Su questo, chi può dar torto a lui? Non solo i profani o gli uomini di cultura in genere, ma anche gli studiosi e gli specialisti di un autore, infatti, si fanno, più spesso che non si creda, quella stessa domanda, senza sapervi rispondere. E sono tra i più imbarazzati quando qualcuno la fa a loro, pensando che siano o debbano essere in grado di rispondervi. Rispondervi non è facile per nessuno e non lo sarebbe, spesso, neanche per gli autori stessi, se tale domanda fosse rivolta a loro. Ogni filosofo risponde ogni volta a problemi dell'epoca, ma vi risponde in forma filosofica, ossia sub specie aeternitatis {come se la domanda fosse la stessa in ogni epoca e la risposta valesse a sua volta per tutte le epoche). Questo contrasto, tra l'attualità del contenuto e l'eternità della forma, è il primo di quelli che ingenerano confusione. Un altro è quello tra le tendenze o sfaccettature contrastanti dell'autore, e altri ancora sono quelli tra le sue verità e i 163
suoi errori, le sue riuscite e i suoi fallimenti, la sua libertà e i suoi pregiudizi, tra il pensato e il detto ecc. ecc.. Un altro serio impedimento ad afferrare il messaggio essenziale di un filosofo è infine costituito da quella che sembra oggi una regola del tutto opposta a quella che vigeva nell'antichità: la regola della prolissità contro quella della concisione. Questa regola si applica in realtà già dai tempi di Kant, Fichte, Schelling, Hegel, tutti autori di bei mattoni filosofici, non soltanto ma anche a causa delle famose Vorlesungen, cioè dei corsi di lezioni tenuti da quasi tutti loro all'università e poi passati regolarmente a stampa, a cura di autori, allievi, eredi e fiduciari a vario titolo. Ma essa si applica soprattutto oggi, ossia in un tempo in cui i mattoni, sempre più grossi e pesanti, piovono in testa da tutte le parti a coloro che hanno la folle pretesa di tenersi informati delle novità in campo filosofico. Ormai i professori di filosofia sono tanti, e ciascuno di essi si rimpinza di libri, li rumina, li restituisce in forma digerita nelle sue lezioni e poi si fa un dovere di far stampare il tutto e imporlo ai suoi studenti. Bloch, Blumenberg, Jonas e altri, che non possono competere né coi loro suddetti predecessori né con gli eredi di questi, gli storicisti, ma sono certamente superiori ai summenzionati ruminanti, possono invece competere vittoriosamente con tutti per la mole delle loro produzioni. In filosofia vige ormai la moda del libro sesquipedale, che, se aiuta a scappar via coloro che comunque erano già pronti a farlo (non sempre per un sano istinto), minaccia e opprime sempre più coloro che non vogliono o non possono fuggire e, per una ragione o l'altra, devono invece farvi fronte. Di tutti costoro, ad ogni modo, il vero antesignano, vessillifero e simbolo è stato ed è Martin Heidegger. Appostatosi con la moglie nella Foresta Nera, egU ha creato 164
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una Foresta Bianca, cioè di libri. Nella Gesamtausgabe o Opera omnia dell'editore Klostermann di Francoforte sono finora usciti ben sessantacinque spessi e robusti volumi grigio-chiari, e non siamo affatto prossimi alla fine. Ora, la domanda che sorge irresistibilmente da questa marea di carta è: hanno veramente i filosofi tanto da dire? La risposta è no. Si scrivono dunque addosso? Si scrivono e si parlano addosso, senza neanche poter dire, come la sorella di Pascal al fratello: «Scusami se ti scrivo a lungo: non ho avuto il tempo di essere concisa». Loro il tempo ce l'hanno; l'università, si sa, gliene lascia fin troppo. Ciò nonostante, si scrivono addosso. A cominciare da Heidegger, che ha fama di essere il filosofo del Novecento, visto che di filosofi ne nasce uno ogni secolo, come riecheggiando Schopenhauer dice Franco Volpi nel suo saggio Heidegger e V'ascesi" del pensiero (in filosofia e ascesi nel pensiero di Antonio Rosmini, Morcelliana, 1991, pagine 165-194). Cose da dire egli ne ha, sebbene le critiche, spesso aspre fino all'insulto, mossegli da tanti, Carnap, Bachmann, Bernhard, Adorno ecc., non siano sorte sul nulla. Merita quindi, nonostante la tortura che ciò può rappresentare, di essere ascoltato e studiato. Accanto alle masse erratiche di prolissità, attraversate appena da un filo di significato, appaiono improvvisamente enunciazioni potenti e ispirate, fin troppo concise, che salgono alla poesia o scendono all'arbitrario, al bizzarro, all'astruso e all'iniziatico. Utilissimo, dunque, il saggio di Volpi, ottimo conoscitore e traduttore di Heidegger. Esso illumina l'eredità raccolta da Heidegger, il contesto storico nel quale si sviluppa il suo pensiero e lo spirito che Io innerva e sostiene nelle sue relazioni con la teologia, la mistica e la gnosi da un lato, e con la fenomenologia, il disincanto e il nichilismo dall'altro; e che poi formula la sua interpretazione del senso generale dell'impresa heideggeriana. 165
C'è in Heidegger, egli dice, una coincidentia oppositorum, un incontro del «dopo Hegel» col «dopo Nietzsche», egli ha risposto alla crisi del pensiero dialettico e dell'assoluto «proponendo e sviluppando una grandiosa e seducente configurazione alternativa di pensiero, [...] che ha assunto la finitudine, anziché rifiutarla, come il punto di vista autenticamente radicale e ineludibile». In lui, aggiunge, si è raccolta l'eredità della filosofia classica, ma solo per essere spinta, per la sollecitazione dell'idea greco-occidentale della filosofia, alle sue estreme conseguenze, fino a capovolgersi nel suo opposto, anzi fino a dissolversi. Nessun altro pensatore ha messo in questione ogni datità in modo tanto radicale da sancire l'impossibilità di ogni contenuto propositivo, e nessuno è giunto d'altra parte così vicino al «miraggio di cogliere il contenuto stesso dell'ineffabile e di vederlo senza il filtro metafisico della teologia e della mistica». E come se Heidegger avesse cercato il suo ubi consistam in ogni città della filosofia e non l'avesse trovato da nessuna parte, rimanendo il viandante in cammino che era fin dall'inizio, però ormai con l'esperienza dell'impossibilità di qualsiasi sistemazione stabile. Queste città si chiamano, da un lato, teologia, mistica, gnosi, e dall'altro fenomenologia, disincanto, nichilismo. Heidegger vi ha dimorato di volta in volta fino a identificarvisi, e le radici che il suo pensiero conserva con esse sono forti e tenaci, come Volpi ben mostra. La Vacca Pezzata di Heidegger, o megUo la sua caverna in montagna, suo unico rifugio in qualche modo stabile, l'uovo che cova, è la filosofia greca, quale egli la concepisce, ossia come fisiologia del pensiero e ascesi atea. In essa «gli estremi del più radicale disincanto e dell'abbandono alla visione ispirata giungono a toccarsi». Non va dimenticato, infatti, che Heidegger ha indicato una via privilegiata all'essere, che per lui è quella della poesia. E così 166
V«itinerarium mentis in nihilum assomiglia in modo impressionante a un itinerarium mentis in Deum». Tuttavia, nonostante questa somiglianza impressionante, Volpi si domanda se sia lecito, alla luce della vigilanza critica che Heidegger «invoca e mantiene nei confronti di ogni contenuto positivo di tipo metafisico», interpretare \itinerarium in nihilum come itinerarium in Deum. E si risponde negativamente: lo spirito del filosofare heideggeriano è «immanente alla modalità e allo stile del pensiero stesso che esso mette in moto». Heidegger obbedisce all'ingiunzione che gli viene da tale pensiero «alla massima coerenza e radicalità nel combattere la resistenza rocciosa del presupposto, nell'interrogare e nel mettere in questione qualsiasi orizzonte concettuale pre-dato, [...] nell'elevarsi a quel punto di vista che non è più un punto di vista: insomma a quelr"ascesi" del pensiero [...] che ne dissolve ogni contenuto: è un esercizio a guardare attraverso il vetro, cercando di vedere il vetro». Ma Volpi vede subito che «anche questo atteggiamento è un presupposto, e precisamente il presupposto della filosofia occidentale, così com'essa nasce col pensiero greco». Non lo nega, anzi riconosce che Heidegger è perfettamente in linea con questa tradizione, come del resto dice egli stesso dappertutto. Ma la liberazione della forma greca dalle commistioni successive e specialmente da quella cristiana, e la sua radicalizzazione (spingerla fino alle sue estreme conseguenze), di cui la accredita, sono cose di Heidegger e non della filosofia greca, sempreché, beninteso, questa sia quella che Heidegger dice. Ciò non è ovvio come può sembrare, perché significa che la base delle due concezioni è diversa (come già quella della grecità in Hòlderlin e Nietzsche rispetto a quella della vera grecità) e dunque diverse sono le concezioni stesse. In realtà la radicaliz167
zazione della forma greqà è tutt'altra cosa rispetto alla forma greca, come apparirà chiaro anche alla luce di quel che diremo. L'esercizio eroico dell'ascesi del pensiero porta, oltre che alla consunzione di ogni immagine, come s'è già detto, e alla «fuga di ogni Dio», a un'«accelerazione del nichilismo». «E non è un caso», scrive Volpi, «che nell'opera di Heidegger i due estremi del nichilismo e del misticismo convivano e arrivino a toccarsi». Non per niente, alla fine dei Beitrdge zur Philosophte (Contributi alla filosofia), Heidegger parla per pagine e pagine dell'ultimo Dio o Dio da venire. Ma questo avviene sempre, quando lo scetticismo è spinto fino alle sue estreme conseguenze. Giacché lo scetticismo funziona se si limita a delle puntate offensive, dirompenti; non regge invece come sistema, dove entra in contraddizione con se stesso. Con ciò abbiamo detto che l'esistenzialismo di Heidegger è una particolare forma di scetticismo; è un nichilismo ereditato da Nietzsche e rilanciato in un'altra prospettiva, eminentemente storica. Dunque è anche accelerato (cioè favorito), come Volpi riconosce. Era accaduto già a Nietzsche. Perché nella logica, come in altre sfere della vita, vale ciò che Goethe dice nella massima 420: «La natura ci ha dato la scacchiera al di fuori della quale non possiamo né vogliamo operare, ci ha intagliato i pezzi i cui valori, movimenti e possibilità vengono sempre più conosciuti». Vale anche quello che dice nella 1001: «Misticismo: [...] una filosofia immatura; [...] Filosofia: una ragione matura». Se ci si sposta dalla ragione matura, cioè positiva per quanto critica, verso lo scetticismo (o il nichilismo), ci si sposta anche, parallelamente, verso il misticismo, magari in una prima forma verso la poesia e il linguaggio (sono la stessa cosa). Solo che il misticismo non salva 168
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10 scetticismo! È inutile, alla fine, spiccare per disperazione il volo della speranza. Un'altra prospettiva all'uomo non si apre, quando è sconvolta la sola che la natura gli assegna da sempre. Al di là di essa si può solo farneticare o sperare, appunto, in un ultimo Dio. E farlo magari sperare a disperati ascoltatori, con un'espressione come «l'interrogare è la pietà del pensare», con cui Heidegger chiuse una sua conferenza scatenando un uragano di applausi e un'ovazione che sembrava non volesse più finire. Questa espressione non ha nessun senso filosofico. È solo, appunto, un'espressione di speranza religiosa, cioè l'abbandono della filosofia. Ed è per la liberazione improvvisa di questa speranza nei disperati che si levò lo «scroscio di mille applausi» e scoppiò r«ovazione che non voleva finire». Ma allora, si può domandare, che cosa bisogna pensare del pensiero di Heidegger? che cosa del suo «guardare attraverso 11 vetro, cercando di vedere il vetro»? «Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuti. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L'espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: una esplosione, la fine dell'inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile». È Montale che parla, a proposito del suo primo libro di poesie (E. Montale, Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976, p. 565). Egli enuncia quel che vale evidentemente anche per la filosofia; il limite della "purezza" è invalicabile. Il velo non si lacera, guardando attraverso il vetro non si riesce a vedere il vetro, l'occhio non guarda se stesso. Distruggendo ogni contenuto, si distrugge anche il pensiero. Il pensiero puro, senza contenuto, non esiste. «Non Cogt169
to, ergo sum, ma per converso o anche più ebraicamente Est, ergo cogito», diceva Hamann. Il pensiero è sempre pensiero di qualcosa, così cpfne per Husserl «la coscienza è sempre coscienza di qualcosa». Il filosofo non può che essere umano e positivo. Questo si ricava dalle affermazioni stesse di Heidegger. «L'afferrare concettuale filosofico», scrive in Concetti fondamentali della metafisica (Il melangolo, Genova 1992, pag. 13), «ha il suo fondamento in un venir afferrati, e questo a sua volta in uno stato d'animo fondamentale». In altri termini: l'uomo è sempre spinto a filosofare dai suoi problemi e questi derivano dal modo in cui è fatto e dal contesto in cui si trova a vivere. Questa base positiva, data, è ineliminabile. Dunque è giusto dire, come dice Heidegger: «La filosofia accade sempre in uno stato d'animo fondamentale» (corsivo suo), dato che detto stato d'animo, come spiega, è il modo in cui uno è fatto. Che lo stato d'animo fondamentale sia poi la Sehnsucht (struggimento nostalgico) indicata da Novalis o altro, non importa; esso non è in potere dell'uomo ed è anche ogni volta diverso, per cui, come si parla del "mondo" o dell'ideologia di un poeta, cioè della sua particolare concentrazione di sentimenti e valori, si può certo parlare anche del "mondo" o dell'ideologia di un filosofo, ossia della particolare costellazione di problemi e soluzioni che sorge sul suo stato d'animo fondamentale, quindi del suo pathos. Ma allora, ha il pensiero di Heidegger un valore? e se sì, in qual modo sarebbe positivo, dopo tanta decostruzione, distruzione e dissoluzione? Sì, il pensiero di Heidegger ha valore ed è positivo, e il suo valore è quello che Volpi gH attribuisce, non quando punta sull'interrogare che dissolve, bensì quando punta sulla critica del presupposto e del dato, sullo svuotamento dei concetti metafisici tradizionali, insom170
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ma quando fa sana e dura critica. Ha valore per il fatto di avere, come s'è detto, messo in luce e valorizzato la «perla di lucidità» della finitezza umana, per l'analisi esistenziale e i parametri di autenticità e inautenticità fra cui la chiude, nonostante le continuate ripulse di questo dualismo positivo, dunque per r«insegnamento di lucidità» e r«indeclinabile invito all'estrema vigilanza nei confronti di qualsiasi momento propositivo del pensiero». Ha valore per la coraggiosa esplorazione di vasti campi di esperienza filosofica, di cui si è fatto luogo di confluenza e campo di battaglia. Ha valore anche per «il compimento del nichilismo», compresa l'opposizione all'oltrepassamento prematuro della sua linea (da parte di Jùnger), cioè per l'assunzione di tutti i problemi che la crisi della filosofia comportava. Ha valore ancora per avere energicamente declinato il sacrificium intellectus e avere in ogni circostanza strenuamente difeso il vivo filosofare come sapere critico capace di autointerrogazione radicale, e, in una grandiosa maieutica, come attività essenziale, drammatica e altamente morale dell'uomo, di ogni uomo, contro le morte filosofie e ogni commistione, con l'eccezione tuttavia della poesia, abbracciata più volentieri che non comportasse l'indipendenza del pensiero e non scelta nei suoi esempi maggiori. Ha infine valore per aver considerato - in ciò ripetendo Nietzsche - l'esistenza come «l'unica dimensione in cui si misura la sua riuscita o il suo fallimento», almeno in quanto ciò si traduce in un supremo principio di responsabilità. D'altra parte, se cerchiamo di ribaltare il suo filosofare in filosofia, come a lui non piace ma come è inevitabile fare se di una ricerca si devono mostrare i risultati, ne resta una filosofia povera, scheletrica, che mentre accresce la capacità critica dell'uomo, ne smi171
nuisce lo status generale che gli spetta per l'intrinseca forza e positività della sua natura, dei suoi poteri e delle sue facoltà (del sud nucleo se non del suo alone). Essa concepisce l'individuo isolatamente, abbandonato a se stesso, senza legame organico e spirituale con gli altri membri dell'umanità. Ma così fa arretrare il pensiero, che aveva già conquistato la solidarietà originaria e la dimensione sociale. Questo legame e questa dimensione, se fossero stati da lui riconosciuti, lo avrebbero salvato dall'adesione al nazionalsocialismo e da molto fosco pensare e sterile almanaccare, anche dall'abbracciare alla fine le nuvole, col Geviert del cielo e della terra, degli dèi e dei mortali e altre escogitazioni insostenibili, e magari dalla Verkitschung della tradizione filosofica tedesca di cui lo accusa Bernhard. Questa accusa ha del vero, nonostante che Heidegger sia stato, per quanto sopra detto, il più grande e legittimo erede di tale nobile tradizione. Tutto il suo decostruire e dissolvere non va, in definitiva, al di là della lotta contro le creazioni della logica come macchina autoaffermativa e falsificante dell'uomo-animale bisognoso, che fu già di Nietzsche.
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LES LIAISONS HEIDEGGERIENNES
(CONSIDERAZIONI SULLA STORIA D'AMOR|E DI MARTIN HEIDEGGER E HANNAH ARENDT)
Conta più la vita o l'opera? A questa domanda, che si propone e ripropone nel tempo, tutti rispondono privilegiando l'una o l'altra cosa. Essa si propose in modo esemplare tra Goethe e Schopenhauer. Goethe disse la vita, Schopenhauer l'opera. Ma proviamo per una volta a non scegliere, a tener buona tanto l'una quanto l'altra soluzione già solo per il fatto che non esiste nessuna ragione per stabilire una priorità, se non è l'interesse di chi sceglie o il punto di vista adottato (privilegiato) già a monte. Solo che i punti di vista sono a loro volta autonomi e non possono ridursi l'uno all'altro. Può sembrare che pili importante sia l'opera, perché ha un'efficacia potenzialmente illimitata, per quanto indiretta, essendo un bene inconsumabile e inesauribile; mentre la vita, che agisce direttamente sulle persone, esaurisce i suoi effetti tra le poche che vengono in rapporto con essa. Ma proprio ciò non è sicuro. Non è sicuro, cioè, che la sua efficacia non rimbalzi e non si allarghi sempre di nuovo, da queste poche, alle altre che man mano vengono in rapporto con esse, in una catena a sua volta senza limiti. In realtà le due cose hanno la loro importanza su piani eterogenei e quindi non si possono paragonare. In conclusione: importante l'opera, non meno importante la vita. Il vero problema si pone quando all'opera, pur criticabile, è da riconoscere grandezza, mentre la vita è deturpata da egoismo, grettezza, slealtà, perfidia e viltà, come accade, bisogna dire, nel caso di Martin Heidegger. 173
Che di tali brutture si sia macchiata la vita di Heidegger, nessuno vorrà negare dopo aver letto Hannah Arendt e Martin Heidegger. Una storia d'amore, di Elzbieta Ettinger (trad. di^ Giovanna Bettini, Garzanti, 1996). Nella sua scarna essenzialità, questo racconto o piuttosto resoconto sembra il verbale di un processo, celebràto da un giudice, bisogna dire, di indubbia competenza, attento e sensibile quanto austero e rigoroso. Non si può negare che abbia una tesi, ma non si può neanche negare che questa tesi, a parte qualche punta di severità, si sia formata in modo giusto ed equilibrato, cioè in base ai fatti illuminati da una capacità d'introspezione che sembra senza limiti quanto a scrupolo ed esperta umanità. E una storia intimamente drammatica, perché è una storia di lotta, anche più che dei protagonisti tra loro, di questi con la vita e con se stessi, una storia d'amore e d'amicizia, ma anche di lotta contro la schiavitù dell'amore e dell'amicizia; di conquista spirituale, ma anche di sconfitte, perdite e vittime. Ciò che comunque rende il dramma paradigmatico, è il valore rappresentativo dei protagonisti: 1) Martin Heidegger, generalmente vantato come il maggior filosofo del Novecento; 2) Hannah Arendt, l'ebrea tedesca che, pur amandolo, gli si contrappose sul piano della filosofia politica; 3) Karl Jaspers, che senza poter vantare la statura di Heidegger, rimane uno dei pensatori più significativi del nostro secolo. La loro storia d'amore e d'amicizia coinvolge altri personaggi: noti studiosi, come Karl Lowith, Hans Jonas, Eugen Fink ecc., e figure interessanti, prima fra tutte Elfride Heidegger, moglie di Martin. Fin dall'inizio, quando nel 1924 Hannah Arendt, diciottenne, si iscrisse a filosofia all'università di Marburg, il trentacinquenne Heidegger, che già vi godeva ampia popolarità (per la sua eloquenza ammaliatrice era soprannominato «il piccolo mago di Messkirch»), le mise 174
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gli occhi addosso. E fin da quando, l'anno dopo, divennero amanti, portò nella relazione sfruttamento e sopraffazione, che la ragazza accettò per amore, ingenuità, inesperienza. Heidegger era sposato e padre di due bambini, e stava terminando Essere e tempo, che lo avrebbe collocato tra i maggiori filosofi dell'epoca. La liaison con Hannah durò cinque anni, ma già nel 1926 divenne scomoda per Heidegger, sicché questi, facendo finta che si trattasse di una decisione di lei, costrinse moralmente la Arendt a trasferirsi in un'altra università. In una lettera del 9 febbraio 1950 lei glielo rinfacciò: «Ho lasciato Marburg esclusivamente per causa tua». L'altra università era quella di Heidelberg, dove insegnava Karl Jaspers. Jaspers era amico di Heidegger e questi gli raccomandò la sua pupilla e amante. Ma Hannah fece all'amante il cattivo scherzo di non comunicargli il suo nuovo indirizzo, probabilmente perché sentiva di essergli diventata di peso. Molto più tardi avrebbe scritto al marito Blùcher: «Una donna ha sempre il terrore che il suo amore o l'esuberanza del suo amore vengano percepiti come un fardello». Parole savie e sublimi insieme: con Heidegger non si sbagliava. Ma per lui la suddetta omissione era un cattivo scherzo perché, anche se desiderava muoversi liberamente a Marburgo, non intendeva affatto privarsi di tutto quel che Hannah rappresentava ancora per lui. Non osando, però, scriverle presso l'università né rivolgersi a Jaspers, tenuto all'oscuro della relazione, visse male finché un suo studente, Hans Jonas, non gli procurò l'indirizzo desiderato. Da allora, comunque, gli incontri e la corrispondenza si diradarono. Ma quando Hannah tentò di recuperare la sua autonomia, «mettendosi» con lo studente Benno von Wiese, Heidegger, dopo averle dato formalmente la sua benedizione, riprese sotto sotto a corteggiarla e ad esercitare le sue lusinghe per tenerla avvinta a sé. In 175
realtà il rapporto con lei gli diventava così ancora più comodo. Giunse a dirle che lei poteva essere felice con qualcun altro e continuare ad amare lui. Vent'anni dopo Hannah avrebbe sentenziato su di lui, che ella aveva soprannominato la «volpe»: «Mente notoriamente sempre e su tutto, e tutte le volte che può». Nel 1928, ad ogni modo, Heidegger le disse che la loro relazione non poteva continuare. Era stato^iominato ordinario all'università di Freiburg - al posto di Husserl, grazie a Husserl e... un'altra donna era entrata nella sua vita, Elisabeth Blochmann, compagna di studi della moglie. Una lettera che Hannah gli scrisse alla fine di aprile testimonia l'angoscia in cui questa decisione l'aveva piombata. La lettera finiva con le parole: «Io ti amo, fin dal primo giorno - tu lo sai, e io l'ho sempre saputo. E se Dio vorrà / ti amerò anche di più dopo la morte». Nel 1929 Hannah sposò Gùnther Stern. Ma i suoi sentimenti per Heidegger non cambiarono. Lo attesta una lettera che gli scrisse nel settembre o nell'ottobre. In essa descrive una scena alla Anna Karenina. Heidegger e Gùnther avevano preso il treno per Freiburg e lei, senza dirlo, era andata alla stazione per vedere Heidegger ancora una volta. Contemplando i due uomini che, in alto, parlavano tra loro al finestrino, senza vederla e senza curarsi di lei, si era sentita sola e insignificante. Dal 1933 fino al 1950 ci fu un'interruzione dei loro rapporti, durante la quale Hannah fu animata verso Heidegger da sentimenti ostili. L'ultima volta che Heidegger le aveva scritto, nel 1933, era stato per ribattere le accuse di discriminazioni contro gli ebrei che lei gli aveva mosso. Hannah ignorava e non avrebbe mai saputo che, nell'ottobre del 1929, Heidegger aveva scritto una lettera a un alto funzionario del Ministero dell'Istruzione per lamentare la crescente giudaizzazione {Verjudun^ del corpo insegnante. Tuttavia lo spirito della 176
lettera, che tracciava comunque una separazione tra ebrei e tedeschi, l'iscrizione di Heidegger al partito nazionalsocialista (che durò fino alla dissoluzione del partito nel 1945) e il suo discorso di rettorato, un'apologia del nazionalsocialismo, la indussero a lasciare la Germania nell'agosto di quell'anno. Abbandonando la Germania, ella aveva deciso di «non amare più nessun uomo». Dopo qualche tempo, invece, si sposò con Heinrich Blùcher, un profugo tedesco come lei, che aveva incontrato a Parigi. Qui per sei anni si impegnò per favorire gli espatri in Palestina degli ebrei tedeschi in fuga. Blùcher, che aveva combattuto nelle file dell'estrema sinistra spartachista e aveva poi aderito al Partito comunista, si fece amare per il suo amore appassionato e per la sua nobiltà, la sua saggezza e il suo equilibrio. Con lui tutto funzionò perfettamente ed ella fu felice. Fu felice perché, come gli disse, egli aveva fatto di lei una donna e perché le aveva fatto sentire di poter finalmente amare senza dover barattare la sua identità e indipendenza («Mi sembra ancora incredibile che possa avere entrambi, il "grande amore" e un'identità integra. E solo adesso so di avere il primo perché ho anche la seconda. Finalmente so che cosa è davvero la felicità»). Nel 1936, tre anni dopo che con Hannah, Heidegger troncò i rapporti anche con l'amico Jaspers. Ma anche per Jaspers, come per Hannah, ciò non significò affatto la fine del loro coinvolgimento sentimentale. E quando i rapporti ripresero, dopo la guerra, ciò avvenne per iniziativa di Jaspers e, per Hannah, attraverso Jaspers, nel senso che il desiderio di far visita al maestro diventato frattanto suo grande amico, portò Hannah in Germania, nel 1949, e questa fu per lei l'occasione di rivedere anche Heidegger. Nel capitolo VI la Ettinger traccia la storia dell'amicizia di Jaspers e Heideg177
ger ed elenca tutti gli atti di debolezza che l'attaccamento a Heidegger fece compiere a Jaspers. Conclude il capitolo dicendo: «I due migliori amici di Martin Heidegger nascosero al mondo intero l'intima conoscenza che avevano di lui». Ma intanto ella aveva dimostrato che la nascosero anzitutto a se stessi. Ciò assunse una particolare gravità quando, contro la loro migliore coscienza, la Arendt e Jaspers fornirono a Heidegger mezzi decisivi per difendersi dalle accuse mossegli per il suo passato nazista e per riabilitarsi agli occhi del mondo. Lo dice Jaspers stesso rispondendo alla Arendt quando questa, dopo la famigerata intervista a Heidegger sullo Spiegel del 1966, disse che Heidegger «dovrebbe essere lasciato in pace». «Lasciare in pace Heidegger non mi sembra una cosa auspicabile», rispose Jaspers. «Quell'uomo è una potenza, e lo è di nuovo oggi per tutti coloro che giustificano le loro compromissioni col nazismo». Hannah stessa, del resto, proprio prima di ricadere nella trappola dell'attrazione per il suo vecchio idolo, lo aveva denunciato apertamente. Era arrivata a chiamarlo, per quello che aveva fatto o avallato contro Husserl e per il pericolo che gli aveva fatto correre, «un assassino potenziale». Si era opposta con forza alla pubblicazione delle sue opere e, anche sul piano culturale, non gli aveva risparmiato le critiche. i In una lettera a Jaspers del 1949 definisce «particolarmente atroci, chiacchiere e nient'altro» alcuni saggi di Heidegger su Hòlderlin e certe sue lezioni su Nietzsche. In questa lettera dice inoltre: «Questo suo vivere a Todtnauberg [nella baita di legno che la moglie Elfride aveva fatto costruire per lui] imprecando contro la civiltà e scrivendo Sein con Xay h davvero, se vogliamo parlare con franchezza, soltanto la tana del topo in cui egli si è ritirato partendo dal presupposto, per altro ragionevole, che un personaggio come lui ha bisogno di 178
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vedere solo uomini pronti a compiere un pellegrinaggio e sospinti da incondizionata ammirazione. Non è facile che uno salga fino a 1200 metri per fare una scenata a quest'uomo. Se poi qualcuno lo facesse, troverebbe un uomo esperto nel mentire; costui farebbe affidamento sull'azzurro del cielo e sul fatto che nessuno, guardandolo in faccia, vi riconoscerebbe i tratti del mentitore. Egli ha creduto bene di poter pagare il proprio debito nei confronti del mondo in questa maniera, e quanto più è possibile a buon mercato; di riuscire a svignarsela, con un imbroglio, da ogni situazione sgradevole, e di poter fare filosofia e soltanto filosofia». Ma, nel 1951, completa giravolta. Hannah cerca in tutti i modi di giustificare Heidegger, pur ammettendo con Jaspers di avere la coscienza sporca. Perché? Il 7 febbraio del 1950 lo aveva rivisto a Freiburg, e ciò le era bastato per credere a tutte le sue giustificazioni e per assumersi da allora in poi la sua difesa in ogni luogo e occasione. Ben dice la Ettinger che ella «divenne la sua agente fidata, per quanto non pagata, negli Stati Uniti: gli trovava gli editori, negoziava i contratti e selezionava i migliori traduttori». Come reagiva il marito? Blùcher, che era un grande ammiratore della filosofia heideggeriana, «considerava i suoi sforzi come un contributo alla filosofia piuttosto che il protrarsi di un coinvolgimento emotivo». Hannah riversò su Elfride ogni colpa del marito. Così lo assolse, come personificazione del Geist (spirito), da ogni responsabilità. Ma, dice la Ettinger, soltanto perché «poteva così riacquistare in buona fede il proprio ruolo di musa» e crearsi un alibi per il perdurare dell'attrazione che sentiva per lui. Un tira-e-molla parallelo ci fu anche con Jaspers. Con la differenza che questi, che aveva scritto per primo al vecchio amico nel 1949, alla fine non volle più riconciliarsi con lui, per quanto ardentemente lo desi179
derasse in cuor suo, a causa dell'ostinato rifiuto di Heidegger di «pentirsi» del suo passato nazionalsocialista (per lo stesso motivo Herbert Marcuse si allontanò da lui con altri allievi). Su questo rifiuto di pentirsi diremo in seguito. Ma è vero che, da parte sua, Heidegger non cessò mai di respingere le accuse, di negare ogni colpa e di presentarsi come una vittima del nazionalsocialismo. Tutto quello che ammise, nel periodo in cui versava in gravi difficoltà e aveva bisogno dell'aiuto della Arendt e di Jaspers per farsi riabilitare e riottenere l'insegnamento toltogli, fu che c'era stato non sapeva quale «diavolo» che lo aveva cacciato nei guai. Una giustificazione, questa del diavolo maligno, che la Arendt fece subito sua e fece valere tale e quale con Jaspers: per lei ormai Heidegger era un calunniato inerme e indifeso, da difendere e proteggere a tutti i costi. Ma Jaspers rigettò questa giustificazione. La Arendt fu sul punto di rompere con lui piii tardi quand'egli, urtato dal fatto che lei continuasse tranquillamente ad essere amica sia di lui sia di Heidegger (era la «e» tra Jaspers e Heidegger, diceva quest'ultimo), nonostante tutte le ragioni che, secondo lui, militavano per una rottura con Heidegger, le rivelò particolari spiacevoli su di lui e le ingiunse di troncare i rapporti con lui. A questa ingiunzione Hannah reagì con violenza, chiamando assurde le pretese del suo maestro e amico («Sono andata su tutte le furie e gli ho detto che non avrei accettato alcun ultimatum», scrisse allora al marito). L'attaccamento di Hannah a Heidegger sfociava talvolta nel grottesco, se non nel comico, come per esempio quando, nel 1960, uscì la traduzione tedesca del suo Vita adiva ed ella fece inviare il libro all'amico spiegandogli che non vi aveva apposto la dedica che avrebbe voluto apporvi perché i rapporti tra loro erano stati sfortunati. Altrimenti gli avrebbe chiesto di poterglielo de180
dicare, dato che - diceva - «il libro ha cominciato a prendere forma già a Marburg e ti deve, sotto ogni aspetto, quasi tutto». La dedica che aveva pensato era quella, nient'affatto anodina, che aveva scritto in versi su un foglietto a parte: «Questo libro non ha dedica. / Come potrei dedicarlo a te / mio fidato amico, / cui sono rimasta fedele / e infedele, / e sempre nell'amore». Per tutta risposta Heidegger si arrabbiò e la punì col suo silenzio, rifiutando di vederla e vietando pubblicamente, così dice Hannah, anche a Fink di vederla. Ma c'è di peggio: tutto quello che Hannah faceva di buono, e in particolare la sua celebrità, gli erano invisi. «Io so quanto sia insopportabile per lui», scrive lei, «che il mio nome appaia in pubblico, che io scriva libri ecc. Per tutta la vita io l'ho praticamente imbrogliato, comportandomi sempre come se tutto questo non esistesse, e come se, per così dire, non fossi capace nemmeno di contare fino a tre, tranne quando si trattava di interpretare le sue stesse cose: allora per lui era sempre molto gradito che si vedesse che sapevo contare fino a tre, e certe volte fino a quattro. Ma improvvisamente l'imbroglio mi è venuto a noia, ed ecco che mi son presa un pugno sul naso». Lo stesso Jaspers non era tuttavia immune da debolezze nei confronti di Heidegger. Scrivendogli nel 1933, a settantacinque anni, si emozionava ricordando le frequenti visite che Heidegger gli faceva, non dissimilmente da come la Arendt ricordava il passato in comune con Heidegger: «La vedo di fronte a me, come se fosse qui adesso», gli scrisse. E, in un momento cruciale, gli fornì la regina delle autogiustificazioni: «Mi perdonerà se Le dico ciò che qualche volta ho pensato: che Lei sembrava comportarsi verso il nazionalsocialismo come un ragazzo in preda ai sogni, che non sa cosa sta facendo [...] e che presto si ritrova inerme di fronte a un cumulo di macerie e si lascia portare sempre più in 181
basso». Non ha quindi torto la Ettinger di dire e ripetere che i due migliori amici di Heidegger nascosero al mondo elementi fondamentali per giudicarlo in relazione al nazismo. Nel 1966 Hannah compì sessant'anni. Rompendo un silenzio durato sei anni, Heidegger le scrisse una lunga lettera. Con essa le inviò una foto del paesaggio che si vedeva dalla baita e la lirica di Hòlderlin intitolata Autunno. Lui aveva settantasette anni, Elfride settantatré, Jaspers ottantatré (sarebbe morto tre anni dopo). «L'epoca dello Sturm und Drang era finita», scrive la Ettinger. Da allora iniziò un'epoca nuova nei rapporti di Heidegger con la Arendt, di apertura, affettuosità e collaborazione, di aiuto reciproco, di scambio di libri e di lettere, di visite, consultazioni e^confidenze, che durò fino alla morte di lei, avvenuta il 4 dicembre 1975. Il marito Blùcher era morto già nell'ottobre 1970. Heidegger morì cinque mesi circa dopo di lei, il 28 maggio 1976. Così, cominciata con il dramma della passione, la loro storia finì con l'idillio dell'amicizia, quando la partita (lo Sturm und Drang) era ormai giocata e non v'era più motivo di contrasto. Essa suscita alcune considerazioni, che non svelano segreti. La prima è che questa storia dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che ciò che accade nella sfera sentimentale nell'adolescenza e nella gioventìi è determinante per il resto della vita. Il corollario è: 1) che, per quanto importanti siano in amore le virtù, esse non contano come la passione, e 2) che la passione è indifferente all'immoralità della persona amata. Con ciò non si vuole affermare che gli amori e le amicizie successivi non siano importanti. Perché se si vogliono chiamare mésalliances la liaison di Hannah con Benno von Wiese prima e il matrimonio con Gùnther Stern dopo, così non si può chiamare il suo matrimonio con Blùcher. 182
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Questo, infatti, era nato dalla passione come la liaison con Heidegger, e fu felice e riuscito sotto ogni aspetto. Abbiamo visto che Hannah medesima dice di sapere finalmente, con Bliicher, che cosa sia la felicità. Ma nessuno dubiterà che la passione e la felicità-infelicità di Hannah con Heidegger siano state, rispetto a quelle vissute con Blùcher, un'altra cosa, qualcosa di selvaggio e primario rispetto a qualcosa di addomesticato e secondario. La fedeltà e la franchezza di Hannah con Blùcher non fanno dubbio. Ma non appaiono neanche così compatte che se ne possano escludere, nel tempo, sottili infiltrazioni in crescendo. Il trasporto nell'attaccamento anche solo da amica a Heidegger sembra, alla fine, maggiore dell'attaccamento amoroso a Blùcher, sentito e voluto ma di tutto riposo. La Ettinger parla di una conservazione fino all'ultimo dei vecchi sentimenti, anche da parte di Heidegger. Noi non ci sentiamo di arrivare a tanto. Ma certo la dedica di Vita adiva, a cinquantasei anni, e altri comportamenti di lei fanno pensare, come per esempio l'ostilità alla moglie di Heidegger prima della pacificazione definitiva (si chiamarono per nome e si comportarono da allora in poi da amiche). Ma la Ettinger spiega anche questa pacificazione come una necessità tattica nell'ambito di una strategia diretta a riconquistare l'affetto di Heidegger. La seconda considerazione riguarda lo sfruttamento dell'amore di Hannah da parte di Heidegger. E questa una figura classica, che si ripete spesso coi grandi. Un altro esempio di essa, ai giorni nostri, è l'amore tra Cari Gustav Jung e Sabina Spielrein. Questa figura ha un antenato illustre nell'amore di Enea e Didone. Da un Iato c'è il grande uomo, dedito alla sua missione e dunque non disponibile per l'amore, dall'altro la donna innamorata che si immola. Contro l'inferiorità all'amore di Enea ha scritto in modo vibrante, tra gli altri. Benedetto Croce 183
(come si vede nell'apposito saggio a p. 79 sgg.), mentre r«immoralità» di Jung con la Spielrein è stata all'origine di fieri contrasti tra Jung e Freud. Quella di Heidegger ha incontrato, da ultimo, una condanna esemplare in un articolo di Claudio Magris, pubblicato sul Corriere della Sera del 9 giugno 1996. Questa condanna è stilata con acutezza e precisione e va dalla prima lettera con la quale Heidegger esercita la sua «cinica» seduzione, alla tarda strumentalizzazione dell'ex amante, diventata intanto un valore e una potenza nel campo degli studi politici e quindi un passepartout ideale per Heidegger. Tutto quel che dice ^agris, in concordanza con la Ettinger, è vero e doveroso, ed è una fortuna che, nei nostri tempi caotici, ci sia ancora qualcuno come Magris, capace di distinguere nettamente il bene dal male. Ma proprio questa nettezza fa sorgere qui l'interrogativo: avrebbe potuto Heidegger comportarsi in modo diverso, cioè leale e signorile, e rimanere Heidegger, vale a dire il creatore di quella filosofia a cui si attribuisce grandezza? Pensiamo che venga spontaneo a tutti di rispondere negativamente. Una risposta positiva non è in realtà neanche concepibile, perché presupporrebbe che il mondo fosse un altro mondo e non quello che conosciamo. Allora, però, dobbiamo scegliere: se riteniamo che la grandezza sia necessaria (e la grandezza è necessaria) e non vogliamo farne a meno, neanche solo in pectore, visto che la realtà comunque non possiamo cambiarla, allora dobbiamo accettarne le condizioni, per quanto pelose. Il giudizio morale dunque non basta. C'è anche un altro giudizio, che non possiamo non dare. È un giudizio più largo, che tiene conto, sulla base della fatalità, di altri elementi, in particolare delle compensazioni del comportamento negativo dei grandi alla vita e alla persona sfruttata. La grandezza è un dono fatto all'umanità e la persona sfruttata trae dall'amore a cui si sacrifica un arric184
chimento assolutamente straordinario, che non avrebbe potuto trarre da niente e nessun altro. Il giudizio morale muove dal presupposto che si possa essere grandi e normali, come se la grandezza fosse qualcosa di semplicemente aggiunto, una dote o un ornamento in più che alcuni individui fortunati ricevono in sorte. Ma anche se i grandi possono essere normali e in molte cose più normali ancora dei normali, è sbagliato pensare della grandezza in tali termini. Essa è dramma, quando non tragedia; il suo parto, come quello naturale, avviene nella lordura. La sua struttura è diversa da quella normale, sconvolge quella normale. L'uomo grande, molto più dell'uomo normale, è all'inizio, e talvolta per tutta la vita, stretto da ogni parte e oppresso dall'interno; non trova spazio per dispiegare le sue membra spirituali. Lo spazio accordatogli dalla vita, scarso per tutti, diventa per lui insufficiente e alla lunga soffocante. «Il Dio che alberga nel mio petto / può sconvolgere fino in fondo la mia anima, / ma colui che domina su tutte le mie forze / non può all'esterno muovere alcunché», dice Faust (1566-69). Il grande è così spinto ad eccedere. D'altra parte i movimenti dell'uomo sulla scacchiera della vita sono fin dall'inizio limitati, dice sempre Goethe, e la grandezza è invece una forza selvaggia e irresistibile. I difetti, le colpe di Heidegger sono questi eccessi. Molti dei quali, se non tutti, sono per lui stesso penosi, come qualche volta viene fuori e come Magris riconosce. Ed è vero che non c'è niente di più brutto del parassita che vuole essere amato ma non vuole amare, come dice Nietzsche nello Zarathustra (alludendo probabilmente a Lou Salomé); ma Magris, che vanta giustamente, nella visione delle cose del mondo, un'«asciutta laicità» antisentimentale, che vede nella vita «un intrico di seduzione e di bruttura, di verità e di inganno», che esalta quegli scrittori come Mme Lafayette, Laclos, Flaubert e Proust, 185
che «hanno scrutato gh inferi della passione, il groviglio di perdizione amorosa e rapace crudeltà», sarà certamente disposto ad applicare questi stessi parametri a Heidegger, a sua volta vittima della passione, della passione per la conoscenza. La grandezza è una forma suprema di amore e passione, di cui l'egoismo, il vituperato «amore di sé» dei grandi («Heidegger [...] conosce solo l'amore di sé») non è altro che il rivestimento, il travestimento e insieme il limite. Essa ha bisogno di sfruttare, di sostenersi con la materia prima che, più consuma, l'amore, o almeno con l'erotismo rivitalizzante («travolto da un'emozione fino allora sconosciuta, sembrava posseduto da un demone», è detto di Heidegger nel libro). La grandezza non esiste se non incarnata in un individuo come scopo egoistico dominante. «Insaziabilmente la vostra anima aspira a tesori e gioielli, perché la vostra anima è insaziabile nella volontà di donare [...]. In verità, un predone di tutti i valori deve diventare questo amore che dona; ma io chiamo sacrosanto questo egoismo», dice Zarathustra. La filosofia è ogni volta il filosofo che la incarna, e non può prosperare se non prospera la persona del filosofo. Questi, che attraverso la vocazione subisce una potenza tirannica, ha un corpo che soffre tanto più la solitudine quanto più la sua anima vive in comunione con l'umanità. Dunque il fatto che Heidegger usasse ogni mezzo, anche l'imbroglio, per svignarsela da ogni situazione sgradevole allo scopo di fare filosofia e soltanto filosofia, come dice Hannah, è vero, ma vale in primo luogo non come motivo di rimprovero, bensì come motivo di lode. Allo stesso modo, per fare poesia e soltanto poesia, Orazio gettò lo scudo, ed Enea, per fondare Roma, abbandonò Bidone. Perciò, la richiesta di comprensione per «la spaventosa solitudine della sua vita asceticamente sacrificata allo studio e alla conoscenza» 186
rivolta da Heidegger alla Arendt nella prima lettera che le scrisse, è giustificata. Con questa sua dedizione univoca si spiega anche quella mancanza in Heidegger di un qualsiasi carattere, di cui la Arendt parla in una lettera a Jaspers del 1949 («Quella che Lei chiama impurità io la chiamerei mancanza di carattere, ma nel senso che egli non ha, letteralmente parlando, alcun carattere definito, neppure uno particolarmente cattivo»), Heidegger è «l'uomo di genio cui piace essere reso vitale da una donna, ma poi le dice di farsi da parte e di lasciarlo lavorare», dice Magris. Ma Goethe fece lo stesso con Christiane, il suo Bettschatz (tesoro di letto), anche se la trattò con tenerezza e rispetto, sfidò per lei le convenzioni e la società invece di nasconderla e finì con lo sposarla. Goethe era un signore e Heidegger uno zotico, un Hinterivàldler e Hinterweltler della Foresta Nera; ma queste differenze non cambiano la sostanza della cosa. Goethe non amava in profondità Christiane, la possedeva (fin troppo, a detrimento della poesia, come risulta da una sua elegia rivolta a Schiller che glielo rimproverava) e gliene era grato. «Cosima credeva di essere amata da Wagner, ma lo era davvero? Rappresentava qualcosa per Wagner, oltre a essere lo strumento del suo successo? E si può amare uno strumento? Teseo amava forse Arianna? Aveva avuto bisogno di lei per non smarrirsi nel labirinto, e per sopraffare il Minotauro; ma, una volta compiuta la sua missione. Arianna costituiva solo un peso, e per questo motivo l'abbandonò», scrive Marc Sautet nell'introduzione al carteggio tra Cosima Wagner e Nietzsche [Cosima Wagner-Vriedrich Nietzsche. Un'amicizia forse, Milano, 1996, p. 16). L'ultima fase dei rapporti tra Hannah e Heidegger, la loro amicizia trasfigurata, che cosa significa se non che entrambi accettarono quello che c'era stato tra loro come fatale e positivo, con quella felicità rasserenata che è, 187
proprio secondo Goethe, di chi può unire la fine al principio della sua vita: lei con il suo amore ancora una volta rinnovato e lui come ricevitore che, in quanto medium di grandezza, della grandezza aveva trasmesso a lei pili di una scintilla? Hannah era stata per lui «lo specchio nel quale egli poteva vedersi riflesso in forma quasi divina», dice la Ettinger. Scandaloso, certo. Di questo hanno bisogno tutti, ma soprattutto chi deve creare qualcosa di grande, di «divino». La Ettinger aggiunge che Heidegger «era un uomo insicuro, perèi^nemente bisognoso di venerazione e adulazione, che Hannah gli forniva in abbondanza». Ora, l'insicurezza e il dubbio debilitano, ma sono una molla potente e indispensabile per la filosofia. Hannah, come abbiamo visto, era anche quella che glielo rimproverava, nei tempi dell'ostilità. Ma il fatto che «il riconoscimento internazionale sarebbe arrivato solo qualche anno dopo», che sarebbe comunque arrivato e arrivò, sempre più grande, immenso, probabilmente esagerato - deve far pensare che in fondo il bisogno di Heidegger era legittimo e Hannah gli anticipava soltanto quello che tutto il mondo gli avrebbe poi riconosciuto. D'altra parte, non voleva la stessa Hannah che Heidegger avesse bisogno di lei, cioè che la sfruttasse? Non fa parte ciò dei noti chimismi dell'amore? Del tutto diversa è la storia della filosofia stessa di Heidegger e del suo coinvolgimento con il nazionalsocialismo, che faremo oggetto della nostra ultima considerazione. Il libro della Ettinger dimostra senza possibilità di dubbio, se ancora ce ne fosse bisogno, che l'uomo era in tutto e per tutto reazionario e che, per quanti motivi di dissenso possa aver avuto con l'apparato di partito, il suo cuore profondo batteva per la causa del nazionalsocialismo. Il nazionalsocialismo, come tutto il fascismo di cui era una specificazione e intensificazione, 188
era un fenomeno di degenerazione della civiltà cristiano-europea erede dell'antichità classica, ma come tale era un fenomeno serio e potente, grandioso e sfaccettato, di cui Heidegger non è stato solo un fiancheggiatore, bensì, con la sua filosofia, la vera incarnazione, in quanto il nazionalismo poteva essere anche una filosofia, essere cioè innalzato a ipostasi o apoteosi filosofica, e tanto più quanto meno tale filosofia parlava di politica. Con questa sua filosofia, fatta del culto dell'essere, del «gergo dell'autenticità», Heidegger intendeva «ringiovanire» la Germania, salvandola dall'assalto della tecnologia, dalla decadenza e dal comunismo. Dopo la guerra ammise la sconfitta, ma non cambiò idea. Come avrebbe potuto? La sua fede era stata la sua vita ed era ancora la sua filosofia. La sconfitta aveva ucciso la sua speranza di vittoria, ma non la sua fede e, per lui, non la sua filosofia. «Solo un dio ci può salvare», disse nell'intervista allo Spiegel del 1966, e pensava certamente a un dio germanico (non disse Dio, ma un dio), nel quale evidentemente credeva ancora. Rimase, dice la Ettinger, «impenitente, inflessibile, senza alcun rimorso. Non abiurò, non ritrattò, non condannò mai le atrocità naziste: né pubblicamente né privatamente, per esempio di fronte a Hannah Arendt o a Karl Jaspers». Invece la sconfitta aveva ucciso anche la sua filosofia, sebbene solo da allora essa sia diventata popolare tra gli epigoni. Ma questo è ciò che sempre accade. Con la sconfitta della Germania, la storia aveva fatto calare definitivamente il sipario su tutto quel sistema di valori aristocratici, legati al primato politico dell'Europa, di cui la filosofia di Heidegger era, dopo quella "profetica" di Nietzsche, una grandiosa trasfigurazione. A tale sconfitta si era infatti affiancata, fino a sovrastarla, quella ancora più sostanziale, dietro la vittoria di facciata, dell'impero britannico, ultimo vero detentore di tale primato. 189
che non per nulla Hitler aveva ardentemente desiderato avere al fianco della Germania come suo alleato. Si è poi visto che anche il comunismo è crollato, e questo potrebbe far pensare che Heidegger non avesse torto a combatterlo, per gli elementi caduchi che evidentemente lo minavano dall'interno. Ma il fatto è che quello che è crollato è il comunismo reale, cioè il comunismo come veicolo violento dei valori democratici, degno rivale - simmetrico e opposto - del fascismo, che come tale si regge^fa appunto grazie a questa contrapposizione. Non sono crollati, però, i valori stessi, che il comunismo portava nella sua bandiera e che costituiscono ormai, come compimento politico della rivoluzione cristiana, la vera creazione e la vera eredità della civiltà europea, ormai universalmente accettata. Elfride Heidegger era stata nazionalsocialista fin dall'inizio. Aveva fatto leggere al marito Mein Kampf per il quale, diceva, bisognava tralasciare ogni altra lettura. Entrambi credevano che soltanto con un mutamento radicale, una Umivàlzung, come diceva sempre Hitler, si sarebbe potuta ringiovanire la Germania (medioevale) e ristabilire la sua guida politica e spirituale nel mondo. Dopo il crollo della Germania, Heidegger «pensava che l'Europa non esistesse più. Le forze del male, il nichilismo e la tecnologia, contro cui aveva combattuto, erano prevalse e la stavano uccidendo. La Germania e il nazionalsocialismo, il solo paese e l'unica ideologia capaci di invertire il processo di decadenza dell'Europa, erano falliti». Questo tentativo e non altro significa anzitutto e soprattutto, politicamente, il nome di Hitler. Heidegger diceva: «Stalin non ha più bisogno di dichiarare guerra. Ogni giorno vince una battaglia. Ma nessuno se ne accorge. Per noi non c'è scampo». Queste dichiarazioni spaventavano e facevano indignare Jaspers. Perché secondo lui Heidegger non capiva che la 190
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Germania aveva spianato la strada alla vittoria di Stalin e che la sua filosofia, che conduceva alla «visione mostruosa» di una distruzione persino peggiore, preparava il terreno a un'altra vittoria del totalitarismo, proprio come la «filosofia [...] prima del 1933 aveva di fatto preparato il terreno per l'accettazione di Hitler». Non senza ragione esaltava su Heidegger la Arendt, che queste connessioni le aveva capite e mostrate nel suo Le origini del totalitarismo. Era vero, la visione della Arendt era superiore a quella di Heidegger, ma era soprattutto posteriore. Tra loro c'era quasi una generazione di differenza e lei aveva vissuto in America, mentre lui se n'era rimasto nella sua baita, dove era mancata a lungo la luce elettrica e dove l'acqua veniva attinta da un pozzo, per non pariare dell'abbigliamento campagnolo bavarese, con cui Heidegger, dice Magris, sembrava uno dei sette nani. La Arendt era al di sopra di Heidegger perché vedeva la connessione essenziale, la coappartenenza, nella decadenza dell'Europa, di fascismo e comunismo, come movimenti opposti e simmetrici, accomunati dalla violenza totalitaria. Lei era uscita dal tunnel in cui Heidegger era rimasto, cioè dalla dicotomia di fascismo e comunismo. In questa dicotomia si apparteneva all'uno o all'altro, non c'era una terza cosa. Heidegger apparteneva al fascismo, altri (come, secondo lui, lo stesso Lowith) appartenevano al comunismo. Di fronte ai nuovi valori democratici che l'Europa aveva creato, il suffragio universale, il sistema parlamentare, l'uguaglianza al di sopra della razza e del sesso, la partecipazione alla politica del cittadino (nel senso illustrato da Yita activa della Arendt), in genere la sana ragione e, certo, il progresso tecnico, insomma di fronte a tutto ciò che oggi chiamiamo civiltà, i due opposti totalitarismi si riunivano fuggendo verso il passato.
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Questa diversa collocazione di Heidegger rispetto alla Arendt lo condanna con la sua filosofia, ma ne costituisce anche - ormai - la giustificazione storica. La filosofia, in quanto contempla le cose sub specie aeternitatis, è formalmente indipendente dalla politica; ma si forma ogni volta intorno a un nucleo organico di sentimenti, a una costellazione che è invece sempre una concrezione storica (fatale) e che nei grandi viene da lontano. Heidegger era moS^ dallo stesso pathos tardoromantico del "buon europeo" da cui era stato mosso Nietzsche, dal suo stesso amore dei valori aristocratici e della grande cultura creati dall'Europa, specie quella antica (non "ammetteva" il Rinascimento e l'evo moderno: per lui c'erano solo l'antichità e il medioevo, soprattutto quello tedesco, naturalmente). Volle quindi, come Nietzsche, farsene paladino con la forza, unico mezzo rimasto, contro quella che gli appariva come l'invasione verticale dei barbari: la tecnologia robottizzante, l'ideologia egualitaria, distruttrice dei valori individuali (di coraggio e di avventura in tutti i campi), la corrosione dell'antico nerbo morale delle nazioni europee e il comunismo materialistico, calpestatore della tradizione, negatore dei valori del suolo e del sangue e di ogni alta spiritualità. Erano gli ideali della maggior parte della cultura tedesca, prima di precipitare in genocidio e disumana carneficina. Adesso che i giochi sono fatti, che i problemi si sono evoluti in sensi nuovi e complessi, tutt'altro che chiari e definiti, non si tratta tanto di accusare Heidegger, salvo per l'influsso che ancora esercita il suo pensiero, quanto di intenderlo e caratterizzarlo, affinché non sussistano a suo riguardo dubbi svianti e inopportuni. Per i contromovimenti scatenati dalla catastrofe della seconda guerra mondiale, oggi è diventato quasi impossibile capire la direzione in cui filosofavano Nietzsche e Hei192
degger e in cui si muoveva tutta la cultura europea, a parte quella che appunto reagiva ad essa. La tendenza allora dominante si è rovesciata e tutto quello che prima era bene ora è male e viceversa. Ma chi si fa scrupolo di oggettività verso uomini e cose, non può non sforzarsi per farsi, della storia recente, un'idea più adeguata. Il diavolo è finito nei porci, ma prima era apparso come un angelo vendicatore, un angelo risplendente. Conta aver assodato l'indirizzo del pensiero di Heidegger, perché è una chiave indispensabile per interpretare una filosofia oceanica e caotica, immersa in una tale ambiguità che si può definirla, come una volta Lowith definì Essere e tempo, «teologia mascherata» e insieme «puro ateismo» (o puro nichilismo). Heidegger commentò con scherno quest'apparente contraddizione, probabilmente perché in lui, «uomo senza qualità», «senza carattere», come dice la Arendt, proprio questa diaspora aveva senso. Heidegger ci teneva a chiarire che, nella sua critica non costruttiva della tradizione filosofica e teologica, non aveva nulla di positivo da offrire. Lowith afferma, nel senso della Arendt, che l'idiosincrasia per le mode stagionali spinse Heidegger (dunque di per sé indeciso) a salvarsi in una filosofia dell'essere e del tempo connessa a un'ontologia fondamentale, «per trovare in ciò che è semplice e originario una linea di fondo e un terreno fermo» (7/ nichilismo europeo, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 64). Poiché dell'ambiguità c'è anche un'accezione positiva, indicante la potenza fluida e proteiforme della natura, come in Ovidio in poesia e in Leonardo in pittura; per la sua ambiguità negativa Heidegger può essere detto l'antiovidio o l'antileonardo moderno. Anche il suo interrogare senza limiti, che costituirebbe «la pietà del pensiero» e che secondo Franco Volpi è la vera caratteristica del pensiero heideggeriano {Micromega, 2/ 193
2000), in ciò riagganciantesi ai greci, sembra obbedire, con l'importante eccezione dell'analisi esistenziale in Essere e tempo, a una tendenza viscerale correlata a un'attitudine da azzeccagarbugli in grande stile, piuttosto che alla linea emergente, centripeta, ripiegantesi, antropomorfizzante, della filos^ia europea, di Lqcke, Hume, Kant, Schopenhauer, Nietzsche (in questo oggettivamente rivoluzionario), cioè della convergenza copernicana dell'attenzione dall'essere all'uomo, dalla filosofia al moralismo, dallo studio della Realtà allo studio dell'uomo sull'uomo.
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PARTE III SOLIDO E DURO: SCHOPENHAUER
»!
t.
SULLA QUADRUPLICE RADICE DEL PRINCIPIO DI RAGIONE SUFFICIENTE
1. Due concezioni
della
ragione
«In questa filosofia può dirsi che si compendi veramente tutta la storia precedente del pensiero. Il concetto di Socrate ha acquistato la realtà dell'idea di Platone, la concretezza del sinolo aristotelico, l'unità-opposizione del Cusano e del Bruno, la conciliazione vichiana di filosofia e filologia, l'unità-distinzione della sintesi kantiana e la pieghevolezza estetica dell'intuizione intellettuale schellinghiana». Si tratta della filosofia di Schopenhauer? Ahinoi, no, come già, per la verità, dovrebbe essere chiaro dalla «pieghevolezza estetica dell'intuizione intellettuale schellinghiana», dato che Schelling era per Schopenhauer il secondo grande ciarlatano, dopo Fichte in ordine cronologico e dopo Hegel in ordine di importanza. Si tratta invece proprio della filosofia di Hegel, primo «ciarlatano», giudicata da Benedetto Croce*. È allora la citazione un cattivo scherzo? A che, se no, riportare un tale giudizio? Sembra in effetti un cattivo scherzo, ma non lo è veramente. La citazione è dovuta al fatto che proprio la filosofia di Schopenhauer, la gnoseologia racchiusa nel presente trattato^, ce l'ha richiamata alla mente, con il rammarico che non fosse attribuita a Schopenhauer. Detta gnoseologia ci è infatti apparsa proprio come la punta di una piramide, come la cupola maestosa di una costruzio' Logica come scienza del concetto puro, Laterza, Bari, 1958, p. 350. ^ Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, Rizzoli, Milano, 1995.
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ne durata secoli, anche se essa resta aperta verso l'alto, nel senso che tosto spiegheremo. Già, perché il discorso di presentazione di questa grande piccola opera, che ci sembra ideale per chi voglia iniziare lo studio della filosofia, deve purtroppo cominciare, per onestà, col riconoscimento di un suo limite. Soltanto dopo si potranno segnalare e debitamente illustrare i suoi grandi meriti. Il fatto è che, se si percorre di vetta in vetta la storia non della filosofia in generale, ma della logica, è normale che Schopenhauer non vi entri. Non perché non vi abbia i suoi meriti, bensì perché tra questi, per quanto notevoli, non figura una creazione primaria come quelle sopra menzionate. La sua concezione della potenza demoniaca della natura, la cosiddetta «volontà» o «volontà di vivere», è una creazione impressionante, non solo nel campo della filosofia ma anche e più in quello della poesia, che certo si può fare anche con i concetti. I valori primari che Schopenhauer difende in questo trattato, dove «viene fuori una teoria sintetica dell'intera facoltà conoscitiva» (p. 33), non sono suoi ma di Kant. Dice infatti Paul Deussen - iniziato allo studio di Schopenhauer dall'amico Nietzsche e poi divenuto grande schopenhaueriano nell'introduzione alla sua edizione critica delle opere del maestro, che questo trattato «compendia in forma sistematica gli elementi permanenti della filosofia kantiana, liberata dalle parti insostenibili». Ma dalle parti insostenibili, che Schopenhauer critica a giusto titolo, bisogna distinguerne una, che Schopenhauer anche critica, e però stavolta non a giusto titolo, a nostro parere, sicché su ciò il lettore è chiamato a giudicare autonomamente. Si tratta appunto della nuova concezione della ragione, la ragione dei concetti puri e non quella dei concetti empirici, abbozzata, anzi fatta già valere da Kant, se è vero che la sintesi a priori non è altro che il concetto puro. 198
come dice Croce' ma pienamente sviluppata poi solo dagli idealisti, sicché non senza motivo Schopenhauer accusa Kant di aver aperto la via agli «stravolgimenti successivi» dei «professori di filosofia» (p. 166 sg.). 2. Dove Schopenhauer
ha
ragione
Non che le critiche di Schopenhauer siano da rigettare in blocco. Al contrario: sono senz'altro da accogliere quando sono rivolte contro la concezione della ragione come «facoltà di conoscenze immediate, metafisiche, cioè oltrepassanti ogni possibilità di esperienza, abbraccianti il mondo delle cose in sé e le loro relazioni, la quale pertanto è prima di tutto una "coscienza di Dio", cioè conosce immediatamente Domineddio, e ricostruisce a priori anche il modo e la guisa in cui egli ha creato il mondo o, se questo dovesse essere troppo triviale, la maniera in cui egli [...] lo ha espulso e in certo senso generato da sé, o anche, ciò che è più comodo sebbene altamente comico, lo ha semplicemente "congedato" alla fine dell'udienza secondo il costume e l'usanza dei gran signori, affinché esso si mettesse poi in cammino per conto suo e se ne andasse dove gli pareva» (p. 167 sg.). Una volta, parlando con Julius Frauenstàdt, Schopenhauer disse: «Nella seconda edizione della Quadruplice radice, cui lavoro adesso, porrò fine alla millanteria della ragione da parte dei professori, i quali la considerano come una facoltà del soprasensibile»"'. ' «Ma la filosofia kantiana [...] contiene anche il concetto fondamentale della nuova logica nella sintesi a priori, che è unità di necessario e contingente, di concetto e intuizione, di pensiero e rappresentazione, ed è, dunque, nient'altro che il concetto puro, Vuniversale concreto». Logica, cit., p. 346. '' Lindner/Frauenstàdt, p. 180. Riportato in A. Schopenhauer, Colloqui, a cura di Anacleto Verrecchia, Rizzoli, Milano, 1982, p. 127.
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Ma se si concepiva la ragione come fatta di «ispirazioni dall'alto» (p. 176), come facoltà «con la quale si aveva per così dire una finestrina aperija sul mondo soprallunare, anzi soprannaturale, e quindi attraverso di essa si potevano ricevere tutte le verità belle e pronte» (p. 181), di chi era la colpa? dove era stata covata la menzogna e come la favola era entrata nel mondo? «L'occasione prossima» lamenta Schopenhauer «è stata purtroppo fornita dalla ragione pratica di Kant col suo imperativo categorico» (p. 176 sg.). Una volta che questa era a disposizione come modello, non c'era che da «aggiungerle, come suo pendant o come sua gemella, una ragione teoretica che fosse altrettanto immediata per diritto e quindi proclamasse ex tripode le verità metafisiche» (p. 176 sg.). 3. Dove no Tuttavia la validità delle critiche contro le esagerazioni e gli inopportuni tripudi e tripodi della ragione kant-hegeliana, celebrati soprattutto da seguaci e ripetitori inintelligenti, ma anche inevitabili come frange caduche di ogni grande scoperta, non rende veramente accettabile la concezione schematica, povera e poco chiara, anche se sembra chiarissima, della ragione sostenuta da Schopenhauer stesso. Qual è questa concezione? Essa è esposta nel capitolo quinto. A p. 150 si parla dei concetti come «rappresentazioni astratte, in contrasto con quelle intuitive, dalle quali però sono dedotte». Dal possesso di queste rappresentazioni ottenute per riduzione delle singole rappresentazioni e aggregazione dei residui, si fanno derivare «tutte quelle cose, molte e molto importanti, che distinguono la vita dell'uomo da quella dell'animale». Come esempi di 200
queste cose si enumerano: «l'agire di proposito, con premeditazione, secondo disegni, massime, di concerto con altri ecc.» (ivi), invece che per mero impulso. Ma come la riduzione e aggregazione, cioè due fatti meccanici, rendano possibili le operazioni che fanno dell'uomo l'uomo, cioè più che superiore all'animale pari a se stesso e alla propria costituzione spirituale, fatto per nulla meccanico, non è chiaro. Mentre è chiaro che i concetti sono rappresentazioni di secondo grado, «compendi» delle cose, benché si parli poi anche di «proprietà e relazioni» di queste (p. 151). Per Schopenhauer ciascun concetto comprende sotto di sé innumerevoli cose singole, rappresentazioni tratte da rappresentazioni. Il concetto è il genus, che contiene tutte le species «dopo dedotto tutto quanto non spetta a tutte le species» (p. 152). Risultato: «Quanto più si sale nell'astrazione, tanto più si lascia cadere, quindi tanto meno si pensa ancora. I concetti più alti, cioè i più generali, sono anche i più svuotati e poveri, alla fine nient'altro che gusci lievi, come per esempio essere, essenza, cosa, divenire e così via» (ivi). Solo gusci lievi essere, essenza, cosa, divenire? Non anche, da un'altra parte, concetti elementari? l'involucro misterioso e il mistero insondabile di tutto ciò che conosciamo e no e quindi l'ultimo confine della verità drammatica della nostra vita? I sistemi filosofici, dice Schopenhauer, fatti di tali gusci vuoti, non valgono nulla. Anche il suo? A questa domanda egli avrebbe probabilmente risposto che il suo, a differenza degli altri, è fatto di verità e di realtà, cioè che i suoi concetti sono veri, come i giudizi quando connettono rettamente la rappresentazione (il caso) e il concetto (la regola) (p. 157).
201
4. Il concetto
scientifico
e quello
filosofico
Ma appunto i concetti veri sono i veri concetti, non quelli di cui lui parla, che sono soltanto classificatori e hanno campo nelle scienze ma non in filosofia. Con ciò concorda anche il fatto che, a proposito dei concetti, egli parli sempre di generalità e non di universalità, di espressione e non di espressività, di astrattezza e non di concretezza. I concetti veri o puri non sono rappresentativi ma ultra e onnirappresentativi; non sono pratici ma conoscitivi; non rappresentano fenomeni ma relazioni e connessioni. L'uomo rozzo che nondimeno nel parlare mostra «ricchezza di forme logiche, articolazioni, locuzioni, distinzioni e finezze di ogni specie, correttamente espresse mediante le forme grammaticali e le loro flessioni e costruzioni, anche con frequente applicazione del sermo ohliquus, dei diversi modi del verbo ecc., tutto in perfetta regola» (p. 153 sg.), suscita la meraviglia di Schopenhauer, il che è giusto. Ma non dovrebbe suscitarla per la sua astrattezza o capacità di astrazione, bensì per la sua concretezza o capacità di sintesi, cioè non perché usa la «ragione» descritta da Schopenhauer, ma perché usa l'arte e la logica pura. «Un uomo affatto rozzo» potrà infatti arrivare anche ad astrarre, ma è soprattutto un organismo che crea organismi, qual è il linguaggio (di cui Schopenhauer ha una concezione nettamente logicistica, seguito in questo ancora da un Hegel attardato) e quale è anche la logica. Il linguaggio che quest'uomo parla non viene certo dalla grammatica e dalla sintassi, ma dalla forza assimilatrice e creatrice, di cui il suo parlare è una manifestazione particolare, essendo un'interpretazione personale della lingua che parla. Le lingue, così come le conosciamo, sono tutte praticizzate, e oggi più che 202
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mai a causa della civiltà tecnologica; ma esse non sono sorte per astrazione, bensì per creazione poetica involontaria. Solo in seguito sono state sottoposte all'anatomia dell'astrazione ordinatrice e classificatoria. Del resto, che grammatica e sintassi siano sistemazioni della lingua già creata è ormai risaputo. 5. La funzione
della
filosofia
È importante comunque notare che quando si dice che i concetti puri sono i concetti veri non si vuol dire che essi colgono senz'altro la verità; si vuol dire che essi sono semplicemente atti a coglierla, ma i soli atti, nella sempiterna lotta dell'uomo contro l'enigma del mondo. Cioè l'uomo non può che continuamente tentare di stringere con essi la realtà, o pili esattamente di allargarne il possesso, come del resto fa anche con le immagini dell'arte. Ma proprio perché non può che tentar ciò sempre di nuovo, si può obiettare, come usa, che, dunque, la logica è destinata a non cogliere mai la verità, a non possedere mai la realtà. Il che è vero, ma solo limitatamente alla pretesa di totalità dei sistemi, la quale però si rivela, a un attento studio, frutto di titanismo, cioè pretesa naturale e spontanea quanto si vuole, ma in sé illegittima. Altrimenti ogni filosofia coglie la realtà del suo tempo, che, anche se non sembra così, è il vero problema da risolvere. Poi, dai problemi risolti ne nascono altri, sulla scia della nuova realtà che si sviluppa dalla vecchia, e sulla base dei problemi di fondo che rimangono, certo irrisolvibili, per quanto anch'essi non del tutto impenetrabili. Non si può quindi negare la funzione della filosofia, che è, come quella dell'arte, di penetrazione, assimilazione e impossessamento della realtà che si vive e in cui si 203
vive, una realtà che comunque si sviluppa e che altrimenti sfuggirebbe all'uomo - all'umanità, alla società, allo Stato, alla nazione, al gruppo, alla categoria, a seconda del soggetto che si sceglie - e lo trascinerebbe senza che egli ne avesse coscienza e la forza d'intervento conferita dalla coscienza. \ 6. Due
anime
Ma questo problema della ragione e dei concetti si iscrive in realtà in un problema più ampio, che è quello della formazione di un autore e del pathos che lo ispira, due cose fortemente dipendenti dall'epoca in cui l'autore vive. In Schopenhauer vivono due anime, una classica e una romantica. L'anima classica è quella formatasi anzitutto sui classici greci e latini, che Schopenhauer, quasi novello Montaigne, cita in tutte le sue opere (dando, secondo una dotta tradizione, la traduzione dei passi greci in latino, non in tedesco), ma poi anche sui classici di altri paesi ed epoche. Tra questi, un posto a parte hanno i francesi, non solo per la loro intrinseca importanza, ma anche per due altre ragioni: che sono l'affinità spirituale e il predominio della loro cultura e civiltà nel Settecento, secolo in cui Schopenhauer nasce (1788) e ha le sue radici. Certo, poi c'era stata la grande cultura classica e romantica tedesca, nella e colla quale Schopenhauer era cresciuto e della quale era impregnato (aveva avuto rapporti personali con Wieland e soprattutto con Goethe, da lui sempre ammiratissimo e citatissimo, sebbene in un'occasione anche criticato). La sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, spira un pessimismo che è difficile non vedere come di ispirazione romantica, sebbene Schopenhauer detestasse, del romanticismo, la religiosità esal204
tata, la venerazione fantastica della donna e il valore cavalleresco. Quest'opera, secondo Nietzsche, attento e acuto scrutatore del suo maestro, «rimane l'immagine rispecchiante la giovinezza ardente e melanconica»'. Del primo volume di essa diceva Schopenhauer stesso da vecchio: «Una cosa del genere la si può scrivere solo in gioventù e con ispirazione»^. Ora la giovinezza ardente e melanconica è un fatto di sempre. Ma in questo caso è anche il consolidamento di una delle due tendenze in cui si divaricò il romanticismo, quella a esaltare e «genializzare» l'individuo, ma altresì ad isolarlo, interrompendone la continuità con la natura, la società e la storia. Schopenhauer «non seppe mai liberarsi dal suo temperamento e gli conferì espressione cosmica» dice Nietzsche^. E anche: «la sua filosofia non ha storia». La storia appartiene infatti all'altra tendenza, opposta e complementare, quella popolareggiante e storicizzante appunto. Essa, che ha la sua matrice nell'idea di divenire messa in auge da Hegel e divenuta dominante in tutta la cultura della sua epoca (si pensi solo all'evoluzionismo), segna un distacco dalla cultura che va da Montaigne e Cartesio a tutto il Settecento, quella del grande moralismo, della grande scienza e della filosofia delle «idee chiare e distinte», alla quale Schopenhauer per tanti versi appartiene. Allora i filosofi teorizzavano la staticità ed erano essi stessi statici.
' Nietzsches Werke, Kròner, Stuttgart, «Kroner Taschenausgabe», Band 72, S. 125. Riportato in Colloqui, cit., p. 322. Aurora, af. 497.
205
7.
francesizzante
Per la verità Schopenhauer ha molte anime, noi|i solo due, in conformità del detto di Croce che il filosofo non si ispira solo al predecessore ma a tutta la storia della filosofia. Egli «conosce il tempo come lo conobbe Eraclito»®; «è il cavaliere di Dùrer con la morte e il diavolo»"^; è colui che «celebra la resurrezione della visione cristiana medioevale»^"; «in un senso essenziale Schopenhauer è il primo a riprendere il movimento di Pascal»'^; «è un Pascal moderno, con i giudizi di valore di Pascal ma senza cristianesimo»'^, ma soprattutto «è in fondo voltairiano dalla testa alle viscere»'', per usare solo espressioni di Nietzsche. «Il secolo decimottavo, matematico, astrattista, intellettualista, raziocinatore, antistorico, illuminista, riformista e in ultimo giacobino, è il figlio legittimo di codesta filosofia cartesiana, che scambia la logica della filosofia con la logica della matematica, la ragion ragionante con la ragion raziocinante e calcolante. La Francia, che fu il paese in cui nacque e si radicò più profondamente e si sparse pili largamente, deve a essa, più forse che non alla Scolastica, l'impronta mentale che ancora serba e che il forte influsso germanico, fattosi sentire anche nella cultura francese durante il secolo decimonono, non è valso a mutare» dice Croce'"*. Di questa Francia e di questa cultura francese Schopenhauer, specie in questo trattato, reca, insieme con doti più spiccatamente tedesche e il suo pathos personale, traccia indelebile. 8 Nietzsches Werke, cit., Bd. 70, S. 284. ' Ivi, p. 164. Ivi, Band 721, S. 40. " F. Nhetzsche, frammenti postumi 18S7-188H, Adelphi, Milano, 1971, p. 96. Ivi, p. 108. " Nietzsches Werke, cit., Band 82, S. 240. " B. Croce, op. cit., p. 341.
206
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Indelebile non solo nel senso che non si può cancellare, ma anche e soprattutto nel senso che è una delle spiccate quaUtà e caratteristiche, e di Schopenhauer e di questo trattato. Perché Schopenhauer è forse l'unico filosofo che procede con la mentalità e gli strumenti rigorosi della scienza: il metodo, la gradualità, precisione e perspicuità del ragionamento, gli esempi, i paragoni, i rovesciamenti sperimentali, gli allargamenti e ritorni virtuoslstici e insomma tutto quanto fa una grande esposizione scientifica. Leggendo questo trattato, sembra perciò di assistere alla dimostrazione non di filosofemi bensì di teoremi ed esperimenti scientifici. Di qui, a parte il limite suddetto, il suo grande potere di convinzione, il senso dell'evidenza incontrovertibile, le luminose verità per le quali l'autore dice di essersi affaticato tutta la vita - per donarle all'umanità per sempre - e la bellezza stessa del trattato, in cui si respira l'aria delle altezze, si partecipa alla più nobile cultura antica e moderna e si vive nella solennità del tempio consacrato alla verità. 8. Il dramma della
conoscenza
Ma soprattutto si assiste allo spettacolo drammatico della conoscenza, che si svolge sullo sfondo tragico della vita. Sì, la conoscenza è in Schopenhauer uno spettacolo drammatico, e la capacità di rappresentarlo efficacemente fa parte delle sue grandi doti d'artista. Essa corrisponde a una sua inclinazione fondamentale, al suo pathos personale, inteso questo come un nucleo di sentimenti dominanti, che ne fanno il grande moralista, discepolo ed emulo dei francesi, che bisogna scoprire, come dice (ancora una volta) Nietzsche, sotto il manto di leopardo screziato della sua metafisica'^. A questo " Opinioni
e sentente
diverse,
cit., af. 33.
207
proposito è da dire che, anche se per gli artisti sembra vigere, diciamo così, la contiguità nello s^zio e per i filosofi la successione nel tempo (tanto per usare i termini del trattato), nel senso che per i primi sembra predominare la varietà e la libertà della fantasia e per i secondi la costrizione e l'allineamento della ragione, in realtà il pathos determina in segreto il tipo di filosofia che un filosofo fa, ed è il pathos che bisogna soprattutto cercare di individuare, al di fuori dei concetti, se si vuol capire la sostanza e il peso di una determinata filosofia. Cioè bisogna rifarsi non solo alle premesse, da cui tutto il resto è dedotto con necessità, come dice Croce mantenendosi comunque sul piano concettuale, ma anche e più alle ragioni del cuore, che spìngono verso tali premesse piuttosto che verso altre. Ne consegue che anche i filosofi, dunque, come gli artisti, seguono l'ispirazione e i sentimenti. Se ne può avere una conferma, oltre che dal giudizio di Nietzsche sopra riportato, da quel che Schopenhauer stesso dice una volta della propria opera parlando con Frauenstàdt: «La maggior parte dei libri saranno dimenticati. Impressione duratura la fanno solo quelli in cui l'autore ha messo tutto se stesso. In tutte le grandi opere si ritrova l'autore tutto intero. Nella mia opera, ci sono tutto intero io stesso»'^^. Il fatto, poi, che sia la fantasia degli artisti sia il pathos dei filosofi non siano neanch'essi così liberi come sembrano, ma seguano sotterraneamente, inavvertitamente, spinte e controspinte storiche, e proprio tanto più quanto più sono artisti e filosofi, perché i loro sentimenti sono i più rappresentativi di una certa epoca e società, è ancora un'altra cosa, degna del più attento studio, ma di cui non possiamo qui occuparci, perché esula dagli scopi del presente saggio. Colloqui,
208
cit., p. 108.
9. Esaltazione
dell'intelletto
«Della sua filosofia, inoltre, lodava la netta distinzione tra intelletto e ragione», dice Frauenstàdt. A maggior ragione avrebbe potuto lodare la distinzione tra intelletto e sensazione, che Kant stesso confonde quando identifica la sensazione con la percezione, essendo questa nient'altro che l'intuizione (p. 130 sg.). Questa distinzione è infatti uno dei pezzi di bravura di questo trattato, in cui rifulgono le grandi doti di Schopenhauer non solo come filosofo, ma anche come moralista, artista e scienziato. «Bisogna essere abbandonati da tutti gli dèi per credere...» è il risentito inizio di questa dimostrazione, che procede poi in modo incalzante (p. 95 sgg.). Ma questo trattato è soprattutto un inno all'intelletto, un canto che Schopenhauer scioglie alla sua potenza creatrice. Si può dire che egli aveva per questo meraviglioso strumento della nostra mente una passione da innamorato. Ciò può suonare incongruo, ma ha il suo senso. L'intelletto, così come egli lo configura, descrive, ricama e abbellisce, è e gli appare, a lui per primo, il demiurgo che crea il mondo per l'uomo, nelle coordinate di spazio e tempo, permettendo all'uomo di vivervi e muovervisi dentro con la guida della causalità. Ma poiché il filo della causalità è anche il filo della necessità, ben si può dire, come dice Schopenhauer, che «il mondo dipende tanto da noi nell'insieme quanto noi da esso nel particolare» (p. 60). Le forme a priori dell'intelletto, abbiamo detto, erano state scoperte da Kant. Ma in Kant esse non vanno, se concepite in termini musicali, al di là di accordi possenti e profondi. Invece in Schopenhauer si slanciano e si intrecciano negli arabeschi di una sinfonia, sia nel presente trattato sia nel primo libro del primo volume del Mondo come volontà e rappresentazione. L'intelletto non solo 209
crea il mondo, ma anche lo sostiene. A pagina 70, dopo aver distinto nel modo più bello le due /forme delle rappresentazioni empiriche, lo spazio e il tempo, condannandole, sembrerebbe, alla reciproca estraneità, ecco che Schopenhauer le riacchiappa di colpo e le fonde intimamente, in modo che dalla reciproca compenetrazione scaturisca la realtà empirica, «come una rappresentazione generale la quale forma un complesso tenuto insieme dalle forme del principio di ragione», cioè dall'intelletto. Queste forme funzionano anche in modo da creare, nel mutamento di tutte le cose, la stabilità di cui l'uomo e ogni essere ha bisogno per vivere. Questa stabilità è rappresentata dalla persistenza della materia. La materia è una, nonostante gli innumerevoli oggetti e mondi che coesistono nello spazio, e persiste sempre uguale a se stessa, nonostante il continuo mutare dei suoi stati. La stabilità della realtà empirica e nostra non va comunque senza dramma, che è tanto più impressionante quanto più è nascosto nelle pieghe delle spiegazioni filosofico-scientifiche. «Noi» dice a pagina 86 Schopenhauer dopo aver fornito un'altra delle sue belle dimostrazioni (della nostra incrollabile convinzione del persistere della materia) «non possiamo esserci formata la convinzione della persistenza della sostanza a posteriori-, in parte perché, nella maggior parte dei casi, è impossibile constatare empiricamente come stanno le cose, in parte perché ogni conoscenza empirica, acquisita con la mera induzione, dà soltanto una certezza approssimativa e per conseguenza precaria, mai una certezza assoluta». Ecco, pronunciata senza parere, la condanna al nostro destino di incertezza e precarietà, del vivere e del conoscere! Ma per la verità tutto il filosofare di Schopenhauer è drammatico. Perché un motivo drammatico, lo stupo210
re e la ribellione di fronte all'orrore del mondo, è alla sua origine. Sentite la drammaticità del tempo: «Non per la sua causalità, ma immediatamente solo per la sua stessa esistenza, il cui sopravvenire era però inevitabile, l'ora presente ha precipitato nell'abisso del passato senza fondo l'ora trascorsa, annullandola per l'eternità» (p. 65). Drammatico è senza dubbio anche che la causalità, attraverso gli stimoli ma soprattutto attraverso i motivi (p. 89 sg.), abbia, contrariamente alla sua bella apparenza di libertà, la stessa ferrea necessità della causalità materiale e meccanica; sicché è del tutto giusto dire: «la motivazione è semplicemente la causalità che attraversa la conoscenza» (p. 91). Delle doti di scienziato, oltre che del senso drammatico, sono invece esempi certe osservazioni che Schopenhauer fa sulla vista: «il suo campo è immenso, va fino alle stelle» (p. 98), che dà, col senso della vastità, anche quello del limite; idem per quest'altra osservazione: «avverte le più sottili sfumature della luce, dell'ombra, del colore, della trasparenza; fornisce così all'intelletto una quantità di dati precisamente determinati in base ai quali esso, dopo avervi acquistato esercizio, costruisce e presenta subito intuitivamente la figura, grandezza, distanza e conformazione dei corpi» (ivi); «il vedere è da considerare come un tastare imperfetto, ma che va lontano e si serve dei raggi luminosi come di lunghi tentacoli. Ma proprio perciò è esposto a molti abbagli» (ivi). Chi, dopo queste osservazioni, non si sente come un animale di cui si studiano le notevoli ma pur limitate capacità? E ciò perché tali animali noi siamo effettivamente. Poi c'è la sintesi estetica: «Poiché infatti la nostra vista giunge da tutti i lati alla stessa distanza, noi vediamo in realtà tutto come una sfera concava al cui centro sta l'occhio» (p. 111). Grazioso e drammatico insieme l'episodio del cuccioletto che se ne sta impaurito sulla tavola e si guarda 211
bene dal saltar giù, e l'altro del barboncino di Schopenhauer stesso che cerca, col musetto in su, di capire il meccanismo della tenda che si apre al centro quando si tira il cordone (p. 125 sg.). 10. Al di là della
conoscenza
Ma soprattutto drammatica è la visione complessiva, quale risulta marginalmente, ma tanto più efficacemente, dalla descrizione dell'intelletto, comportante inevitabilmente anche l'indicazione dei suoi limiti. Questi ci consentono di intravedere l'abisso delia realtà quale è indipendentemente dalla nostra conoscenza. All'universo «si deve attribuire un'esistenza assolutamente oggettiva, non condizionata dal nostro intelletto, e anche a molte altre cose» (p. 146), è la sentenza gravida di significato. L'intelletto funziona, infatti, solo per le modificazioni della materia, non per la materia stessa, che si può pensare ma non intuire, conoscere. Non funziona neanche per le forze naturali che provocano tali modificazioni. Esso ha dunque, come è detto a pagina 70, «confini problematici». Non si può pensare che al di là di ciò che in qualsiasi modo conosciamo non esista nulla. Già nel mondo che conosciamo esistono, come aperti misteri, le suddette forze. Esse, «grazie a cui tutte le cause agiscono, sono escluse da ogni mutamento, quindi in questo senso sono fuori da ogni tempo, ma proprio perciò si trovano sempre e dappertutto, sono onnipresenti e inesauribili» (p. 87 sg.). Grave errore dunque ricercarne addirittura le cause (per esempio dell'elettricità), quasi fossero effetti. «Lo stesso principio di ragione, ossia la connessione che esso esprime in una delle sue forme, non è ulteriormente spiegabile. Perché non vi è un principio per spiegare il principio di ogni spie212
gazione — è come l'occhio che vede tutto ma non se stesso» (p. 218). Un altro enigma è l'Io conoscente e la sua identità con l'Io volente, che Schopenhauer chiama il «nodo cosmico e perciò inspiegabile» (p. 204). Ma per tornare all'intelletto, esso dà, molto più della ragione, gioia e soddisfazione: producendo evidenza invece che mera convinzione (questa tende a sforzarci). Al riguardo Schopenhauer fa questa interessante osservazione: «Il fatto che nella geometria si cerchi soltanto di produrre la convictio, che [...] fa un'impressione spiacevole, e non invece l'evidenza della ragione dell'essere, che come ogni evidenza soddisfa e rallegra, ciò potrebbe, insieme ad altre cose, essere una ragione per la quale molte menti peraltro eccellenti provano avversione per la matematica» (p. 199). Soprattutto, ad ogni modo, l'intelletto rimane la base della vera conoscenza, con cui bisogna sempre controllare i risultati della ragione. «Ogni conoscenza vera e originale, come pure ogni autentico filosofema, deve avere come suo nucleo intimo o sua radice qualche idea intuitiva». Un tale nucleo «è come il biglietto di una banca che ha contanti in cassa» e non è solo garantito da altri titoli di obbligazione (p. 159). 11. Risultati Alla fine del suo trattato, Schopenhauer afferma di aver conseguito con esso due risultati principali: l'asseveramento di una quadruplice radice dell'unico principio di ragione sufficiente e la dimostrazione dell'impossibilità dell'esistenza di una ragione (Grund) in assoluto, cioè non riferita a una delle quattro classi di oggetti per il soggetto specificate nel testo. Ma a questi, altri risultati ci sembra doveroso aggiungere. Essi si possono riassumere nel modo seguente. 213
Anzitutto Schopenhauer distingue il principio di ragione dell'essere dal principio di ragione del conoscere con una coerenza e chiarezza che t^e distinzione non aveva mai avuto prima. Il principio di ragione dell'essere ci è dato prima ancora che ci mettiamo a pensare e rispecchia il mondo oggettivo; indica cioè una effettiva connessione degli stati che costituiscono la causa e l'effetto e non una mera successione come diceva Hume. Forse questa connessione non è altro che il modo in cui soltanto una immane identità può penetrare nella mente umana, cioè per stati successivi, nello spazio e nel tempo. È come se un corpo a tre dimensioni dovesse ridursi a uno a due, come per esempio accade quando della frutta su una tavola diventa, grazie a un pittore, una natura morta in un quadro. In questo caso l'irreversibilità del tempo sarebbe soltanto l'irreversibilità del nostro divenire e Einstein avrebbe avuto ragione di non credervi in assoluto, sia pur lamentando di non poterlo dimostrare. Nel principio di ragione dell'essere, infine, la causa viene necessariamente prima dell'effetto. Invece il principio di ragione del conoscere vale solo nella sfera del pensiero e la ragione, la "premessa" non viene necessariamente prima della conseguenza, talvolta anzi l'ordine si inverte rispetto al principio di ragione dell'essere. Su questa base, Schopenhauer confuta Cartesio, Spinoza e Leibniz, che confondono le due cose, e corregge lo stesso Kant, che pur avendo chiaramente distinto i due principi, cade in qualche punto a sua volta in tale confusione. Ma prima di loro Schopenhauer passa in rassegna gli antichi, mostrando che questi concetti non erano loro ignoti, ma erano maneggiati con incertezza. Sempre su tale base, smantella sulla scia di Kant le tre famose prove dell'esistenza di Dio: la prova ontologica, quella cosmologica e quella teologica. Ci sembra tuttavia che con Spinoza si accanisca più del lecito, for214
se per il fatto che era il filosofo preferito dagli idealisti suoi avversari, da lui chiamati «neospinozisti» (p. 52). Perché è vero che Spinoza identifica il principio di ragione dell'essere con il principio di ragione del conoscere, ma in Dio, nell'assoluto, ciò è giusto. Non è giusto soltanto se ci si riferisce all'uomo, perché solo nell'uomo la conoscenza non è affatto in grado di tener dietro alla realtà. Egli poi neanche tiene conto del legame importantissimo che Spinoza, pur affermando l'identità di pensiero ed estensione, stabilisce tra loro designando il corpo come l'oggetto della mente. Anche quando lo attacca sulla causa sui, non tiene conto che Spinoza non può aver usato questa (bella) espressione senza rendersi conto della contraddizione in termini che contiene. Ma gli sarà sembrata adatta ad esprimere una verità «scandalosa», assolutamente al di fuori della nostra conoscenza, cioè l'autocreazione di Dio. Oltretutto egli potrebbe aver preso da Spinoza lo spunto per la sua affermazione dell'identità di conoscenza e volontà nella teoria della motivazione: lo spunto, diciamo, perché la forza e l'originalità della dimostrazione che ne dà escludono che abbia preso la teoria stessa. Altre correzioni a Kant: la già menzionata distinzione tra percezione e sensazione e l'identificazione della percezione con l'intuizione (p. 131); la confutazione dell'esistenza e possibilità della legge di causalità solamente nella riflessione, cioè nella conoscenza concettuale astratta (ivi); la confutazione della dimostrazione kantiana dell'apriorità del concetto di causalità (p. 135 sgg,); l'affermazione del principio di ragione come unica forma e funzione dell'intelletto e la negazione delle categorie (p. 126 sgg.). Altri risultati importanti sono: la negazione di una causa prima; l'impossibilità che la materia sia sorta dal nulla; l'impossibilità di intuirla; l'affermazione di una realtà (cosa in sé) al di là del principio di 215
ragione, a cui però si accederebbe per altra via, quella della «volontà»; l'inspiegabilità del principio stesso; l'inspiegabilità delle forze naturali eterne; la negazione degli oggetti e delle forze naturali come cause; la negazione delle cosiddette verità interne (p. 162). Cose notevoli sono ancora la bella difesa dell'autonomia della filosofia (p. 187 sg.), oggi quanto mai necessaria; la deplorazione della tendenza della «specie bipede» a preferire per affinità le cose peggiori dei grandi invece delle migliori (p. 177); il diminuire della fede che fa crescere il bisogno di conoscenza, senza tuttavia sopprimere il bisogno metafisico (p. 180); le profonde considerazioni sulla memoria e sui ricordi (p. 208 s'gg.). Ma c'è un'altra qualità di Schopenhauer che merita, infine, di essere notata. È discreta, accompagna, e ad essa ci si abitua facilmente, sicché può accadere che non la si noti: è la capacità di consolare. Ufficialmente poco o niente notata, l'abbiamo vista molto apprezzata da più d'un fine e colto lettore. Un bell'elogio che ne fa un grande appassionato di Schopenhauer, Giorgio Colli, nell'ambito dell'elogio della sua esposizione in genere, può ben concludere queste nostre pagine di presentazione: «La sua esposizione filosofica non teme confronti, negli ultimi secoli. Profonda, rigorosa, limpida, spiritosa, varia, brillante. Il suo stile non solo è raffinato e ampio, equilibrato e concreto, ma riscalda, consola nella solitudine, è intimo, premuroso verso chi vuol capire. E l'intelletto è lucido, i concetti si riannodano sempre all'intuizione, la ragione è sana. Le stesse parole hanno ogni volta lo stesso significato, le definizioni sono chiare, il ragionamento persuasivo. E la coerenza è la perla dell'edificio»". " A . Schopenhauer, La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, trad. di E. Amendola Kuhn, Boringhieri, Torino, 1959, pp. 8 e 9.
216
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I DUE PROBLEMI FONDAMENTALI DELL'ETICA DI SCHOPENHAUER
Schopenhauer ha voluto raccogliere i due trattati sulla libertà del volere e sul fondamento della morale sotto il titolo: I due problemi fondamentali dell'etica. Ma mentre non v'è dubbio che il secondo rientri a pieno titolo nella sfera dell'etica, non è altrettanto certo che vi rientri il primo, almeno non allo stesso titolo. Anche se infatti appare difficile dubitare che il problema del libero arbitrio faccia parte dei problemi fondamentali dell'etica, per il problema della responsabilità che vi è strettamente connesso, l'effettivo svolgimento dato a tale trattato si dimostra un'indagine più gnoseologica che etica. La quale, fra l'altro, se si esclude il "miracolo" della libertà intelligibile, che all'ultimo momento salva capra e cavoli, cioè se non ci si discosta dal piano scientifico, si risolve in una rigorosa negazione del libero arbitrio e pertanto della responsabilità, per la quale appunto il problema del libero arbitrio rientra nell'etica. D'altra parte, però, mentre il primo dei due trattati ci appare, sempre dal punto di vista scientifico, un capolavoro, sia pure con qualche sbavatura; il secondo, che si vuole non meno scientifico, si riduce ai nostri occhi a una fenomenologia e apologia della compassione, che sicuramente ha a che fare col fondamento della morale, ma che non è, come cercheremo di mostrare, il fondamento della morale. Tuttavia, tenuto conto che anche il fondamento della morale, l'atto misterioso della compassione, «non può essere esso stesso un problema àél'etica, ma [...] un problema della metafisica» (p. 217
263), ossia a sua volta un problema gnoseologico; e che d'altra parte, però, i due problemi, come i due trattati stessi, sono tra loro così intrecciati che non si può parlare dell'uno senza parlare anche dell'altro, si può senz'altro accettare la scelta dell'autore. Nell'iniziate il discorso su questi due trattati, sembra ad ogni modo inevitabile notare che Schopenhauer aveva già affrontato i problemi che ne sono oggetto nelle opere precedenti: anzitutto, brevemente, in Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente (VII, 46), del 1813, e poi, ex professo, nel Mondo come volontà e rappresentazione (I, § 55 e § 67), del 1818-181^mentre la critica della filosofia morale di Kant era trattata, però indirettamente, nella piii generale Critica della filosofia kantiana aggiunta in appendice al Mondo. Sembra anche inevitabile notare che il primo trattato potrebbe essere fatto derivare in tutto e per tutto dall'"Analitica trascendentale" di Kant per l'appello al principio di ragione sufficiente di tutte le azioni, e dalla Critica della ragione pratica per la dottrina del carattere intelligibile, vale a dire per negare e rispettivamente affermare la libertà del volere. C'è anche chi, come Nietzsche, nota come un difetto della filosofia di Schopenhauer la sua «mancanza di sviluppo» (per lui era una filosofia giovanile e non per adulti), il che implica pure l'accusa di ripetitività, viste le aggiunte e prosecuzioni, i parerga e paralipomena, che Schopenhauer non cessò mai di apportare al nucleo originario del suo sistema. A Schopenhauer si può infine muovere, volendo, l'accusa specifica per questo trattato di averne tratto la sostanza dai tanti autori che, da Clemente Alessandrino in poi, fino a Kant, si sono occupati dello stesso problema, e che egli stesso cita, ben lealmente certo, nel capitolo IV dei Precursori. Ma a tutti questi appunti bisogna rispondere dicendo, per cominciare dall'ultimo, che ci sono sistemi che nascono 218
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in gioventù ed altri che nascono o si perfezionano in età matura o tarda, e quello di Schopenhauer appartiene indubbiamente ai primi; e però anche che esso, consistendo, a dire dell'autore stesso, in un unico pensiero, vale a dire in un'intuizione fondamentale del mondo, poi sempre più arricchitasi nel tempo, si è a sua volta venuto sempre più svolgendo, chiarendo e completando, senza mai contraddire l'intuizione di base, che si vuole appunto intuizione dell'eterno, e tuttavia non senza apportarvi qualche importante cambiamento, per esempio nei Supplementi rispetto al primo volume del Mondo e negli Aforismi rispetto all'etica del Mondo. Occorre dire infine, più generalmente, che il fatto che Schopenhauer lavori sempre su detto pensiero unico (racchiuso nel titolo stesso del suo capolavoro: il mondo è volontà e rappresentazione), come pure che costruisca, secondo una diffusa opinione, il suo sistema con le idee di Kant (molto più, certo, che con quelle di Platone, l'altro dei suoi due maestri dichiarati), ha una sua verità, ma non ha il significato distruttivo che una simile accusa sembrerebbe comportare, perché le modifiche, le variazioni, le aggiunte, i perfezionamenti e gli svolgimenti apportati da Schopenhauer aUe idee kantiane sono tali, pur nella loro a volte impercettibile gradualità, da approdare alla fine a un altro sistema bello rotondo, cioè diverso e originale, non meno di altri sviluppatisi a loro volta da sistemi precedenti e rimasti a questi debitori e contigui, ma non in essi incagliati, come per esempio è quello di Spinoza rispetto a quello di Cartesio o, nell'antichità, quello di Plotino rispetto a quello di Platone. D'altra parte: si ripete Schopenhauer? Sì, nel senso che riprende continuamente i suoi temi. Ma lo fa creando nuovi percorsi conoscitivi, arricchendo e rinnovando il già noto. Perché il suo pensiero non è un apparato statico, schematico, astratto, dato ed esaurito una volta per tutte, ma un organismo vivo e vitale, una forza dinamica, che si muove in modo imprevisto, nuovo e illuminante, per 219
cui anche questi scritti diventano, oltre tutto, pregevoli opere letterarie. Una cosa è un'enunciazione ferma, fissa e squadrata, per chiara che sia, un'altra un pensiero in continuo sviluppo per forza interna, che tocca sempre punti sensibili e allarga sempre più la base intuitiva e gli appigli di possesso delle idee portanti dell'edificio. E sia lecito usare questa immagine dell'edificio per un paragone che può essere utile. Le nuove trattazioni degli stessi temi, in Schopenhauer, fanno pensare a una guida che, dopo aver mostrato e illustrato l'architettura esterna di un edificio, penetri nell'interno e mostri poi struttura e arredamento delle stanze. In quanto dunque nel rielaborare i suoi temi aggiunge nuova conoscenza, Schopenhauer non ha torto di vantarsi - come non si sarebbe vantato se così non fosse stato - di non essersi mai ripetuto. Questi stessi argomenti possono essere fatti valere anche contro l'accusa di plagio dei predecessori. A tale proposito egli chiarisce, a p. 122 sg.: Dalle teorie di tutti questi nobili e venerabili predecessori la presente trattazione deirargcmento si distingue fin qui principalmente in due punti: primo, per il fatto che, secondo l'indicazione del tema in concorso, io ho distinto rigorosamente la percezione interna della volontà nell'autocoscienza da quella esterna, analizzando ciascuna per se stessa, onde è diventato per la prima volta possibile scoprire la fonte dell'illusione che così irresistibilmente opera nella maggior parte degli uomini; e secondo, per il fatto che io ho preso in considerazione la volontà in connessione con tutto il resto della natura, cosa che nessuno aveva fatto prima di me, sicché l'argomento ha potuto essere trattato per la prima volta con tutta la serietà, il discernimento metodico e la compiutezza che meritava. Nella Prefazione alla prima edizione della presente opera, Schopenhauer dice che la sua filosofia «è come Tebe dalle cento porte: vi si può entrare da tutte le parti e arrivare, attraverso ognuna, per via diretta fino al centro». Noi, in conseguenza di quanto precede, possiamo 220
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dire che è vero anche l'inverso: partendo dal centro si può avanzare in tutte le direzioni. E cosa più giusta e bella non crediamo si possa dire di un sistema filosofico. Ma per venire alla questione fondamentale del primo trattato: se l'uomo sia libero di volere o necessitato, se cioè esista o no il libero arbitrio, potrebbe e dovrebbe bastare distinguere la libertà di fare quello che si vuole, con la quale in genere si identifica la libertà del volere o il libero arbitrio, dalla libertà di volere o non volere quello che si vuole, che invece, secondo Schopenhauer e vari altri filosofi, non esiste. Un passo del Mondo imposta il problema con chiarezza esemplare: Tutto ciò che esiste nel mondo fenomenico è dominato dalla necessità, il liberum arbitrium indifferentiae non esiste. A noi uomini sembra di sì perché ci sentiamo liberi di fare o non fare certe cose, di comportarci in una certa situazione in un certo modo o nel modo opposto. Ma questa è un'illusione, dipendente dal fatto che noi conosciamo noi stessi solo a posteriori, cioè solo dopo gli atti da noi compiuti. E non sapremo come questi saranno finché non saranno stati compiuti. Ognuno di noi ha una sua natura specifica, una certa costituzione e conformazione, una sua identità, e questa identità si chiama carattere. In ogni situazione data, il nostro comportamento scaturirà con necessità dall'azione dei motivi in combinazione col nostro carattere, e ciò nonostante ogni possibile dichiarazione o decisione in contrario, ogni possibile dubbio o tentennamento iniziale. Il comportamento sarà quello e non uno diverso, perché per gli uomini i motivi funzionano con altrettanta necessità delle cause fisiche nel mondo inorganico e degli stimoli in quello vegetale'. È chiarissimo. Tuttavia neanche dopo lo svolgimento sempre chiaro e logicamente cogente di tutto il trattato, il lettore che non abbia preparazione e disposizione filosofi' A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 78 sg., Rizzoli, Milano, 2002, traduz. di Sossio Giametta.
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ca, e forse anche il lettore che l'abbia, ne sarà convinto: così inestirpabile è in tutti il senso della libertà. Non ne furono, spesso a lungo, convinti neppure i filosofi che poi si convertirono, come quelli che Schopenhauer cita nel capitolo IV dei Precursori-, Spinoza, Priestley e Voltaire. Ma perché accade ciò? Ciò accade perché ognuno si sente libero di fare quello che vuole e non pensa neanche lontanamente che il problema sia in realtà di stabilire se può volere quello che vuole o, invece, solo una cosa, delle tante che, prima della decisione, gli appaiono possibili e fattibili. Prima della decisione, in effetti, le diverse possibilità si presentano alla sua mente e oscillano, come «un corpo che ha perduto l'equilibrio oscilla per un po' di tempo ora dall'una ora dall'altra parte, finché non diventa chiaro da quale parte sta il suo centro di gravità, dopo di che si stabilizza da quella parte» (p. 76). In termini umani: «desideri opposti coi loro motivi salgono e scendono al suo cospetto \_sctl. della mente] , alternandosi e ripetendosi: di ciascuno di loro essa dichiara che diventerà azione se diventerà volizione.[...] Ma questa possibilità soggettiva è del tutto ipotetica; essa dice semplicemente: "Se voglio questo, posso farlo". Solo che [...] l'autocoscienza contiene semplicemente il volere, ma non le ragioni che determinano a volere [...] E invece la possibilità oggettiva che dà il tracollo. Essa però si trova al di fuori dell'autocoscienza, nel mondo degli oggetti, a cui appartengono il motivo e l'uomo come oggetto, quindi è estranea all'autocoscienza e appartiene alla coscienza delle altre cose» (p. 52 sg.). In altre parole, di fronte a una scelta da fare, nessuno pensa di essere fatto in una certa maniera, per cui si distingue da tutti gli altri, sicché è portato ad agire, in presenza dei vari motivi, in certi modi e non in certi altri, per cui vorrà e non potrà non volere, nel caso dato, in un certo modo e in nessun altro. Perché, dice Schopenhauer,
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la volontà dell'uomo è il suo Io autentico, il vero nucleo del suo essere; [...] egli stesso è come vuole, e vuole com'è. Domandargli quindi se potrebbe volere anche diversamente da come vuole, equivale a domandargli se potrebbe essere anche un altro invece che se stesso (p. 56). Illuminante il paragone, anche trasposto sul piano umano e morale (come farà poi Nietzsche), con la cera e l'argilla. Queste, per la loro diversa natura, reagiscono diversamente al calore: la prima si squaglia, l'altra si indurisce. Bello anche il paragone con il cloruro d'argento e la cera, che la luce del sole rende rispettivamente nero e bianca. Dunque «dalla sola conoscenza del motivo non si può predire l'azione: a tal fine si deve anche conoscere esattamente il carattere» (p. 85). D'altra parte Schopenhauer fa valere, sulle orme di Priestley, un controargomento che è ancora più convin cente degli argomenti a favore. Premesso che nel mon do non succede niente senza una ragione sufficiente ossia senza una causa adeguata (è il nostro modo sog gettivo, parziale e superficiale di cogliere lo svolgimento delle imperscrutabili forze naturali), se si presuppone la libertà del volere, ogni atto dell'uomo diventa un miracolo inspiegabile, un effetto senza causa. E se si osa fare il tentativo di rendersi immaginabile un tale liberum arhitrium indifferentiae, ci si rende subito conto che allora l'intelletto se ne rimane nell'inerzia più completa; esso non ha più nessuna forma per pensare. Giacché il principio di ragione, principio dell'assoluta determinazione e dipendenza reciproca dei fenomeni, è la forma più generale della nostra facoltà conoscitiva, che, a seconda della diversità dei suoi oggetti, assume a sua volta forme diverse. Qui invece noi penseremmo una cosa che determina senza essere determinata, che non dipende da niente, mentre le altre cose dipendono da essa (p. 82 sg.). Quasi superfluo, a questo punto, sottolineare ciò che Schoperihauer ben specifica, cioè che il carattere, vale a 223
dire l'identità di una persona, non cambia. Esso può cambiare solo nei modi di esplicarsi, in seguito al perfezionamento deUa conoscenza; «non si può cambiare lo scopo a cui mira la volontà, ma soltanto la via che essa imbocca per pervenirvi» (p. 315). Perciò «gli errori più ridicoli, l'ignoranza più crassa, le follie più strampalate della nostra gioventù, non ci fanno vergognare in vecchiaia; perché queste cose sono cambiate, erano cose della conoscenza, noi ne siamo venuti via, le abbiamo smesse da un pezzo, come gli abiti della nostra gioventù» (p. 88). II carattere sembra cambiare con l'età, ma anche in questo caso cambiano solo i suoi modi di manifestarsi, in corrispondenza dei mutati bisogni. L'uomo non cambia mai: come ha agito una volta, così agirà sempre. Ed è questa la ragione per cui, sperimentate una volta le persone, abbiamo poi sempre fiducia (o sfiducia) in loro. Oltre che immutabile, il carattere è individuale, cioè è diverso dall'uno all'altro, empirico, cioè lo si conosce a cose fatte e non prima, e innato, cioè non è opera di artificio o delle circostanze, ma della natura. Dice Schopenhauer: Ogni azione potrebbe essere prevista, anzi calcolata con sicurezza, se da un lato il carattere non fosse così difficile da scandagliare, e se dall'altro, anche, il motivo non fosse spesso nascosto e sempre esposto all'azione contraria di altri motivi, che rimangono confinati nella sfera mentale dell'uomo e sono inaccessibili agli altri (p. 94). E Kant: Si può dunque concedere che, se per noi fosse possibile scrutare così a fondo il modo di pensare di un uomo, quale si esprime con le azioni tanto interne quanto esterne, che ogni suo motivo, anche il più piccolo, ci divenisse cognito, e insieme con esso tutte le occasioni esterne operanti sui motivi, si potrebbe calcolare con certezza il futuro comportamento di quell'uomo così come un'eclissi di luna o di sole" (citato a p. 122). 224
Dunque per queste ragioni, che il carattere è difficile da scandagliare, che la giostra dei motivi si svolge sotto la calotta cranica dell'individuo al riparo da sguardi indiscreti, salvo caso mai quello di Dio, e che non possiamo scrutare fino in fondo il modo di pensare di un uomo, è possibile prevedere l'eclissi di luna o di sole, ma non le azioni umane, se non soccorre una conoscenza personale. Ciò non toglie che tutto sia incastrato nella trama della natura e della necessità in maniera tale che niente ne fuoriesce. E questo significa che la libertà nella sfera empirica - la sola che conosciamo - non esiste. Ora, c'è chi non se ne preoccupa affatto e c'è chi invece se ne preoccupa molto, per le conseguenze che ne discendono, e che possono essere problematiche e imbarazzanti. Per esempio se ne preoccupa molto Sant'Agostino e se ne preoccupano con lui i teologi e i professori di filosofia, «loro scudieri», come dice Schopenhauer. Se ne preoccupano e ne hanno ben donde. Perché a Dio, Sant'Agostino e i teologi ci tengono, e magari anche i professori di filosofia, e se si nega la libertà, si nega insieme la responsabilità. In tal modo però si accollano a Dio tutte le magagne e le nefandezze delle sue creature, oltre ai mali del mondo, che, quelli, comunque rimangono - Dio, ci sembra, noii può scrollarseli di dosso. Allora che fa in particolare Sant'Agostino? Accampa la tesi che l'uomo è stato libero prima del peccato originale ma poi, precipitato nella colpa, può sperare la salvezza solo dalla predestinazione e dalla redenzione. «E questo è davvero», dice Schopenhauer, «un discorso da padre della Chiesa». Sì, ma lui, che discorso fa invece? Non gli va abbastanza vicino facendo lo stesso discorso di Kant? N el mondo empirico no, di libertà neanche a parlare. Ma - ascoltate! - esiste un altro mondo, il mondo inteUigibile, sottratto alle leggi del mondo empirico, cioè quelle di spazio, tempo e causalità, e in questo mondo ogni uomo ha scelto se stesso liberamente, e la sua volontà inteUigibile è libera. E questo è davvero un niscorso da metafisico. Ma sentiamolo da Kant stesso: «Ivi, a p. 798 della prima edizione e a p. 826 della quinta, è 225
detto: "La volontà può anche essere libera, ma può riguardare soltanto la causa intelligibile del nostro volere"» (p. 122). Schopenhauer parte dal sentimento di responsabilità che secondo lui abbiamo tutti, «il sentimento assolutamente chiaro e certo della responsabilità per ciò che facciamo e della imputabilità delle nostre azioni, che riposa sull'incrollabile certezza che siamo noi (p. 135). Questo sentimento noi lo abbiamo perché sappiamo che le azioni che compiamo sarebbero diverse se noi fossimo diversi. Poiché invece siamo quel che siamo, ce ne accolliamo la responsabilità. E così fanno anche gli altri, i quali non si limitano a dire: quello lì ha fatto una mala azione, ma, collegando il suo agire al suo carattere, che in qualche modo però devono conoscere, dicono: quello lì è un malvagio. Aristotele, che pure in tante cose ci andava coi piedi di piombo, si dice disposto, o meglio dice che noi siamo disposti a lodare non solo chi ha fatto (cose buone), ma anche chi non (le) ha fatto, se lo riteniamo capace di fare (farle) (p. 135 sg.). Ora, ciò non potrebbe avvenire se non avessimo deciso noi liberamente di essere quello che siamo. In questo modo la libertà trascendentale si traduce negli atti della necessità empirica. Questa coesistenza e compatibilità della libertà con la necessità è, secondo Schopenhauer, che dichiara di aderirvi in pieno, «una delle cose pili belle e più profondamente pensate tra quelle che questo grande spirito [sdì. Kant], anzi tra quelle che gli uomini abbiano mai create» (p. 137). A p. 226 sg. dice addirittura di considerarla «la più grande di tutte le concezioni dello spirito umano». Poi però viene fuori che questa idea l'aveva già avuta Platone, il quale l'avrebbe presa dagli Egizi, e questi a loro volta dalla teoria della metempsicosi del brahmanesimo. Il passo di Porfirio riportato da Stobeo, citato a p. 230 sg., è al riguardo molto chiaro e bello. Dunque in definitiva Kant avrebbe soprattutto il merito di aver esposto questa concezione «nella sua astratta purezza», cioè nel linguaggio critico-razionale da Itii inaugurato. 226
Cominciamo col dire che le parole forti con cui Schopenhauer accentua in questo caso le sue affermazioni: «assolutamente chiaro e certo» e «incrollabile certezza», non fanno buona impressione: sembra che con esse si voglia sopperire a qualcosa che manca. Poi: questo sposalizio tra un essere etereo, celeste con un essere terreno, ci sembra decisamente una mésalliance, anzi una contraddizione vera e propria, in contrasto col criterio di necessità e continuità del legame con l'esperienza di ogni metafisica valida, fatto valere proprio da Kant e Schopenhauer («per l'uomo solo l'empirico, o almeno ciò che si presuppone possa esistere empiricamente, ha realtà» (p. 188)). In filosofia si può pure andare, ipotizzare oltre l'esperienza, visto che l'esperienza non ha le sue cause in se stessa, non si spiega da sé; ma non si può mai affermare qualcosa che contrasti con essa; la metafisica che se ne ricava deve sempre rendere conto all'esperienza ed essere in accordo o compatibile con essa; deve essere anzi nient'altro che un suo prolungamento. E questo, non c'è nessuno che l'abbia detto meglio di Schopenhauer là dove, nei Supplementi al Mondo, specifica che «Il compito della metafisica [...] è l'interpretazione dell'esperienza nel suo complesso», e soprattutto dove, ibidem, parla della sua metafisica come chiave per la decifrazione del mondo. È questo un passo che, per la sua importanza e bellezza, merita di essere citato: Quando si trova uno scritto di cui non si conosce l'alfabeto, se ne tenta l'interpretazione finché si arriva a ipotizzare un significato delle lettere per il quale esse formino parole intelligibili e periodi coerenti. Allora però non rimane alcun dubbio circa l'esattezza della decifrazione, perché non è possibile che la concordanza e la connessione, in cui questa interpretazione mette tutti i segni di quello scritto, siano meramente fortuite, e che, dando un tutt'altro valore alle lettere, si potrebbero riconoscere del pari parole e periodi in questa loro disposizione. In modo simile, la decifrazione del mondo deve dimostrarsi vera da se stessa. Deve diffondere una luce uguale su tutti i 227
fenomeni del mondo, facendo concordare fra loro anche quelli più eterogenei, sicché anche tra i più contrastanti si sciolga la contraddizione.^ Ebbene, il sistema di Schopenhauer, nonostante tutte le critiche che gli sono state e gli possono essere mosse, all'occorrenza anche da noi, come si vedrà, può vantarsi di essere la stele di Rosetta che permette di decifrare il linguaggio misterioso iscritto nella natura, come nessun sistema aveva fatto prima. Solo che, nel caso del mondo intelligibile, Schopenhauer invece oltrepassa, insieme col suo maestro Kant, il suddetto limite, e non soltanto si stacca dall'esperienza, ma addirittura la contraddice. Senza tema di smentita quindi Nietzsche sentenzia con Paul Rèe: «Il mondo intelligibile non esiste». E già prima Moses Mendelssohn aveva osservato a Kant che una libertà non conoscibile in alcun modo attraverso l'esperienza è «un sogno metafisico» e «una chimera della ragione». In cui, secondo lui, Kant cercava riparo dopo aver distrutto tutte le certezze, Kant «lo stritolatutto» {der Alleszermalmer), come lo chiamava. Del resto, se il molteplice, dunque anche la varietà degli individui, non è altro che la rifrazione, lo spezzettamento dell'Uno nelle forme della nostra conoscenza: come si fa a vedere nell'Uno come cosa a sé, come cosa libera e autonoma, quel frammento che è l'individuo, l'individuo isolato dagli altri, anche se «intelligibile»? Per Schopenhauer il mondo empirico è in sottordine rispetto a quello intelligibile, che è «il mundus noumenon, il mondo delle cose in sé» (p. 16); ma in questo modo sembra che sia il mondo intelligibile a copiare quello empirico. E così avviene in effetti inavvertitamente, secondo noi, a causa di un illegittimo traghetto e di un'inconsapevole ipostasi. Rimane in ogni caso difficile pensare che nel mondo intelligibile l'uomo (come non si esita a chiamare quel nucleo di volontà che dovrebbe corrispondere all'individuo nel mon^ Schopenhauer, Il mondo,
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cit., p. 262 sg.
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do empirico) determini se stesso, mentre in quello empirico è determinato dalla volontà; difficile pensare a una bella e a una brutta copia, secondo un platonismo che, aggiunto alla metafisica della volontà di Schopenhauer, diventa di accatto. Perché è vero che Schopenhauer basa il rapporto tra carattere empirico e carattere intelligibile, e la cesura tra questi due mondi, sulla distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé (p. 138); ma il fatto che dalla cosa in sé, che dovrebbe essere un omnimode indeterminatum, traspaia fin troppo chiaramente un modello «intelligibile», cioè ideale, luminoso e, più che irrazionale, sovrarazionale, ci riporta subito alla teoria delle idee platoniche, alla quale del resto Schopenhauer si rifa apertamente nel Mondo, in particolare nel libro terzo, mentre il mondo della volontà (di vivere) rimane il mondo della strapotenza cieca e irrefrenabile, dell'essere abissale e indecifrabile, cioè perfettamente ^intelligibile. La cesura tra questi due mondi, come in genere le cesure dei filosofi, è un errore, determinato dall'incapacità di distinguere nell'Uno cose contrastanti. Come tale è anche un costume antico e quasi inevitabile per chi, abbracciando sempre una totalità ricca di contrasti, è costretto dalla fase di progresso sempre limitato del linguaggio filosofico, a scegliere, per renderne conto, la via della divisione e contrapposizione, che è la lectio fadlior delle cose. In genere ogni vero filosofo coglie la totalità, ma si dimostra più o meno manchevole nell'articolarne la struttura, di per sé infinita. Sul fatto di dividere invece di distinguere, di vedere le cose contrarie l'una all'altra invece che diverse nell'Uno, in particolare nel campo morale, è illuminante l'aforisma 2 di Al di là del bene e del male di Nietzsche. Solo i progressi di secoli e millenni consentono infatti, gradualmente, di cogliere e sciogliere i contrasti nella continuità dell'unica realtà, nel divenire dell'unico mondo che conosciamo, per quanto imperfettamente e a modo nostro. In questo senso non giova a Schopenhauer optare per il Hnguaggio ^egorico, simbolico o mitologico di 229
Platone a preferenza di quello concettuale, critico e razionale di Kant, da cui proviene e in cui eccelle. La "cosa in sé" va intesa, a nostro modesto parere, non positivamente ma negativamente, cioè come il resto della cosa che non percepiamo quando ne percepiamo, secondo le forme della nostra conoscenza, quella parte che chiamiamo il fenomeno. Dunque esiste essa stessa nell'unico mondo che c'è, come il fenomeno, anche se noi non l'afferriamo: non l'afferriamo ora, ma potremo forse afferrarla, sempre in parte, in seguito. Per questa stessa ragione, che essa esiste nel mondo ed è in un certo grado esperibile, l'idealismo, che parte dalla sua negazione, cioè dalla negazione della realtà che non afferriamo, e afferma l'idea come sola realtà, se ne trova delegittimato. La conclusione di questa disamina o confutazione è semplice: la libertà non esiste. Tolta la libertà trascendentale, resta solo la necessità. Resta solo la necessità? Una risposta affermativa sembrerebbe qui inevitabile. La domanda stessa appare superflua. Ma proprio qui, invece, si nasconde il busillis. Perché la risposta affermativa ammette che il carattere più il motivo diano, e non possano non dare, l'azione: la volontà che la comanda e la esegue. Ma questo è semplicemente un teorema, costruito con un elemento, il carattere, che qui è indicato come una cifra fissa, come un contenitore molto pili che come un contenuto. Di esso si predicano tutte le cose necessarie dal punto di vista formale e anche altre, per la verità, da quello sostanziale. Ma secondo noi non Io si prende in esame in tutta la sua portata. Che è tale che a suo riguardo si potrebbe adattare così una celebre frase di Amleto: ci sono più cose nel carattere di quante ne contempli questo trattato. Lo si vede ogni giorno nella vita, ma quello che si vede ogni giorno nella vita fa fatica a essere visto in filosofia, come appunto in questo caso. Diciamo che qui è stato fatto un disegno, cioè è stata tracciata, su un piano a due dimensioni, una linea di contorno che racchiude un vuoto. Ma questo vuoto è nella 230
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vita un pieno a tre dimensioni, infinitamente ricco e vario, un volume che non sa che farsi di linee di contorno. Parlando della geometria, Albert Einstein dice, nella sua esposizione divulgativa della relatività: «Una proposizione risulterà dunque corretta ("vera") quando sarà stata derivata dagli assiomi nella maniera ammessa come legittima». Ma aggiunge, per spiegare la preferenza di «corretta» a «vera»: «Il concetto di "vero" non si addice alle asserzioni della geometria pura, perché con la parola "vero" noi abbiamo in definitiva l'abitudine di designare sempre la corrispondenza con un oggetto "reale" ; la geometria, invece, non si occupa della relazione fra i concetti da essa presi in esame e gH oggetti dell'esperienza, ma soltanto della connessione logica di tali concetti l'uno con l'altro».^ Poi però riconosce che «ai concetti geometrici corrispondono più o meno esattamente degli oggetti in natura, e questi ultimi costituiscono senza dubbio la causa esclusiva della genesi di quei concetti». Pur tuttavia «la "verità" delle proposizioni geometriche [...] si fonda esclusivamente su esperienze alquanto incomplete»."^ Piti oltre, pur accordando «una considerevole misura di "verità"» alla meccanica classica, dice che essa «offre una base insufficiente per la descrizione fisica di tutti i fenomeni naturali».' Ebbene, tutto questo discorso, fatto in un campo così diverso, si attaglia nel suo principio anche al nostro problema. In relazione al quale le proposizioni sostenute sono corrette, nel senso della loro connessione logica, e sono anche discretamente vere, nel senso di corrispondere più o meno a una certa realtà, che è comunque la sola ad averle ispirate; e tuttavia bisogna scendere nella realtà molto di più, se ci si vuol rendere conto di come stiano veramente le cose in un campo così delicato e grave, e se si vuole evitare di trarne conclusioni erronee. ' Albert Einstein, La relatività, Ibidem, p. 21 sg. ' Ibidem, p, 31.
Torino 1960, p. 20.
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Per sostituire il disegno vuoto con la vita piena senza disegno, il bidimensionale col tridimensionale, può essere utile un esempio. Alla nascita e per alcuni anni, noi non sappiamo di appartenere al sesso al quale apparteniamo. Tuttavia la nostra appartenenza determina già la nostra conformazione fisica e psichica, e la differenza con l'altro sesso aumenta sempre più col passare del tempo. Siamo dunque nel campo della necessità fisiologica, dove è senz'altro lecito parlare di determinismo o fatalismo. Ciò nonostante nessuno pensa che l'appartenere all'uno piuttosto che all'altro sesso, l'essere uomo invece che donna o viceversa, intacchi il suo libero arbitrio. A partire dalla sua immutabile appartenenza, ognuno si sente libero di fare e scegliere quel che vuole e come vuole; sente insomma di avere davanti un campo di libertà. Gli può accadere di sentirsi non libero quando si viene a trovare in una situazione difficile e sarebbe vantaggioso essere dall'altra parte. Ma passa presto e non ritorna presto. Però dalla pubertà in poi il sesso e i problemi del sesso diventano sempre più importanti e ingombranti, sempre più determinanti o condizionanti. E alla lunga si può arrivare a sentire il sesso e l'amore sessuale come una schiavitù. Of Human Bondage è il titolo esplicito di un noto romanzo di Somerset Maugham, che analizza appunto la schiavitù d'amore. Ma esso è solo una delle mille e mille opere che, come si sa, trattano lo stesso tema. E basterebbe aggiungere il nome di Proust per evocare un'altra profonda analisi di una vera e propria schiavitù d'amore - per non parlare di quella, probabile, dell'autore stesso. Il fatto è che il sesso e l'amore, come altre cose umane, sono vissute tra, e con, libertà e necessità, tra, e con, gioie e dolori, dove le gioie parlano della prima e i dolori della seconda (in tedesco la parola Not vuol dire insieme necessità e miseria). In questi due elementi, uno mobile e libero entro 232
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uno necessario, fisso, predeterminato, è racchiusa la grande questione del libero arbitrio. Ma qual è, se c'è, il criterio distintivo dei due? Ce lo fornisce Spinoza. Con parole essenziali egli ha risolto questo problema della libertà, come altri problemi fondamentali (la conoscenza, l'idealismo, la morale ecc.), senza che ciò sia stato forse ancora percepito in tutta la sua importanza, nonostante i tanti filosofi da lui ispirati e i tanti libri scritti su di lui. Egli è, quasi un paio di secoli prima di Schopenhauer, un risoluto negatore della libertà nel senso in cui la nega anche Schopenhauer (una pietra lanciata, dice, se avesse coscienza si sentirebbe libera di volare). Ma di lui si può dire quello che Schopenhauer dice di sé: la libertà egli non la nega, soltanto la sposta. Schopenhauer la sposta nella sfera trascendentale; Spinoza la sposta nella necessità interiore, contrapposta alla necessità esteriore. Così, senza bisogno di sprofondare subito nella metafisica, si capisce la tensione in cui vive l'uomo, in cui vivono gli esseri, stretti e premuti da necessità esterne di ogni tipo, che si oppongono a quella necessità interiore secondo la quale l'uomo tende a svilupparsi in conformità della propria legge. Prendiamo insieme, come esempio, l'uomo "idealizzato" di Fidia, vale a dire l'uomo sviluppatosi in modo libero e armonioso in assenza di ostacoli, e l'uomo naturale, che può raggiungere anche un alto grado di perfezione e quindi di bellezza, ma non arriverà mai a quella perfezione assoluta, che è peraltro di ogni arte trasfigurata. La concezione della libertà come agire conforme alla necessità interiore invece che esteriore dimostra la fallacia della conclusione di coloro che, constatando a posteriori che ogni azione corrisponde a un motivo, cioè a una necessità, ma non distinguendo tra necessità esteriore e necessità interiore, come fa anche Schopenhauer, negano in blocco la libertà. 233
Ora, non si può dire che il carattere sia concepito nel presente trattato come un dato astratto, fisso, statico, passivo; ma poiché l'accento è posto sulla sua necessità e non sulla sua libertà, questa è l'impressione che se ne ricava. Il carattere è del resto così costante, che, conoscendo un po' le persone, se ne prevedono reazioni e comportamenti in genere senza sbagliarsi. Da parte sua, talvolta il buono rimpiange di non saper essere cattivo, quando secondo lui sarebbe necessario, e magari il cattivo sogna qualche volta di essere buono: entrambi inutilmente, per la fissità del carattere appunto. Ma è questa una ragione per deprimersi? Noi viviamo sviluppando ciascuno una determinata forma («forma eterna delle tue forme», diceva della propria Carducci rivolgendosi a Dio), che è nostra e non di altri. E questa originalità, a cui teniamo tutti, deriva parimenti dal nostro carattere, pur radicato com'è sempre in quello della famiglia, della stirpe, della popolazione, della nazione e della specie. Il fatalismo della vita non è un fatalismo meccanico, di forme statiche e piatte, passive, quale normalmente lo si intende, bensì un fatalismo di forme viventi, ardenti, ribollenti, e ogni forma è in sé capace di illimitato sviluppo. Ciò vuol dire libertà sostanziale, gioia, voluttà, sebbene quello che si è indichi anche quello che non si è {omnis determinatio est negatio), e sebbene, d'altra parte, l'usura fisica ponga un termine a tutto. Certo la base: il sesso, il carattere, la mente e tutti gli altri elementi che compongono la forma vitale di una persona, rimangono sempre uguali (anche la conoscenza è fatale ed è insieme gioia e voluttà, sebbene i suoi effetti possano essere drammatici): si può fare ciò che si vuole, ma non si può volere se non ciò che si vuole, ossia ciò che si è, mai il contrario o il diverso (il pero non può produrre mele). La magnifica ottava di Goethe riportata a p. 94 sg., da Dio e mondo, dice tutto al riguardo nel modo più felice. Il carattere è dunque in primo luogo un pezzo, un conglomerato di natura naturans, con un'intima, complessa forma e 234
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potenzialità; è un magma brulicante, che scorre entro canali particolari provenendo per così dire dal centro dell'universo, e ha xan'irresistibile tendenza a riversarsi secondo le sue particolari inclinazioni; è una costellazione organica, viva e attiva, un'essenza evolutiva, un'energia creativa aperta sull'infinito. Il carattere è uno, innato e immutabile e non può essere influenzato dalla mente se non nei modi di manifestarsi, come Schopenhauer insegna; è conoscibile solo a posteriori, in base alle azioni compiute e non a quelle progettate, dunque mai del tutto. Ma non per ciò è giusto disperarsi e concludere, come fa qualche persona certo di retto sentire, ma non abbastanza avvertita, aufgeklàrt, che, «se tutto è predeterminato, la vita non merita di essere vissuta». Non tutto è predeterminato. Siamo piuttosto di fronte a una libertà condizionata. Per la verità a una tale persona non si può dare del tutto torto: una certa pesante fatalità delle cose è innegabile e fin troppo spesso opprime i cuori umani. Perché all'essere umano sono destinate vecchiaia, malattia e morte, sventure e tante altre brutte cose; ma anche gioventù, scoperta, speranza, gioia, avanzamento, compimento, conoscenza, amore, bellezza eccetera (i beni, come i mali, sono infiniti). «Tutte le cose buone e prepotenti balzano per il piacere nell'esistenza», canta Zarathustra. E l'esistenza è un banchetto oltre che un lazzaretto, è libertà oltre che necessità. Ci si può lamentare del sesso e dell'amore, se si vuole, specie se si è abitati daltitanismo,o dal pessimismo in cui quello si capovolge, oppure in momenti di perplessità o disperazione. Ma il sesso e l'amore sono in primo luogo libertà e realizzazione, come ogni libero esercizio di forze e attitudini naturali. Essi si incastrano nella vita in primo luogo come dilatazione e arricchimento, anche se tendono poi a trasformarsi in necessità. Anche il genio, si dice, è limitato. Verissimo. E tuttavia si prenda un genio, "limitato" quanto si vuole, come Goethe, col suo carattere uno, immutabile e innato, e con l'esplosione di bellezza, scienza, verità e saggezza che esso ha significato e significa per il suo popolo e per l'umanità. Si pe235
sino sui due piatti della bilancia la necessità da un lato e la libertà dall'altro, e si veda quale dei due scenderà e quale salirà. Non casualmente abbiamo parlato qui di Goethe e prima di Fidia. La libertà, ossia l'obbedienza alla necessità interiore invece che a quella esteriore, è tanto piiì accentuata quanto più l'individuo è dotato, elevato, spirituale, insomma creativo. Ma gli individui sono diversi: «Non sono medesime virtudi», scrive Giordano Bruno, «dove non sono medesimi studi, medesimi ingegni, inclinazioni e complessioni»''. Tutti gli individui, in realtà tutti gli esseri viventi, vivono in tensione, dunque anche l'individuo dotato non perviene a reaUzzarsi se non con impegno e sforzo. E solo grazie a questi che l'individuo può passare sempre più dall'obbedienza alla necessità esterna all'obbedienza a quella interiore. Di ciò ha forte consapevolezza Giordano Bruno, che punta sull'impegno e lo sforzo per sottrarsi alla necessità del puro biologismo. «Lascio che non si deve aver per universale», dice, «che l'anime sieguano la complession del corpo, perché può esser che qualche più efficace spiritual principio possa vencere e superar l'oltraggio che dalla crassezza o altra indisposizion di quello gli vegna fatto»^. Anche difetti gravi non pregiudicano questa possibilità. Socrate accetta il giudizio del fisiognomico Zopiro di essere «uomo stemprato, stupido, bardo, effeminato, namoraticcio de putti ed incostante», ma non ritiene questa sua natura definitiva e immodificabile, «stante ch'egli venia temprato dal continuo studio della filosofia, che gli avea pòrto in mano il fermo temone contra l'émpito de l'onde de naturaU indisposizioni essendo che non è cosa che per studio non si vinca»®. '' G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, in Dialoghi italiani, nuovamente ristampati con note di G. Gentile, terza ediz. a cura di G. Aquiiecchia, Firenze 1985, p. 734. ' G . Bruno, L'asino cillenico del Nolano, in op. cit., p. 919. " Ibidem.
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Commentando questa concezione di Bruno, Aniello Montano nota: Il rapporto dell'uomo con la natura, perciò, non è di assoluta coincidenza e pacificazione. Non impone all'uomo una rassegnata sottomissione alla immediatezza obbligante del dato naturale. Per Bruno l'uomo, ogni singolo uomo, possiede implicita in se stesso la capacità di farsi altro da quello che la natura e le circostanze lo hanno fatto. Ognuno, perciò, ha l'obbligo e la responsabilità morale di attivare al massimo le sue potenzialità e, con esse, la capacità di pensare e di fare. Il mondo umano, infatti, trae il suo senso e le sue finalità non da una realtà che trascenda e guidi l'uomo stesso, ma dall'impegno con cui ogni singolo si applica per realizzare compiutamente le proprie disponibilità e idealità. [...] Il destino dell'uomo [...], pur collegato alla natura fisica tutta animata e correlata, dipende daE'applicazione di ciascuno nell'impegno a conoscere e ad agire a un livello sempre piiì alto, mai da una necessità implicita nella natura stessa e meno ancora dal fato o da una presunta volontà divina. Il destino dei singoli soggetti, come le azioni e i pensieri particolari di ognuno di essi, sono perciò indeterminati e, pertanto, imprevedibili. E la storia è il frutto delle azioni e dei pensieri dei singoli uomini.' Il problema della libertà si ripercuote direttamente sul sistema della giustizia, e giustamente Schopenhauer affronta, in appendice, il problema della pena. Egli comincia con lo spiegare quelle ragioni che portano all'applicazione di sanzioni amministrative piuttosto che di una pena, e che si riassumono nella nostra attuale «incapacità di intendere e di volere». Ma poi, per quanto riguarda i casi normali, sostiene la concezione della pena come deterrente, negando quella della pena come giustizia, come «punizione dei delitti per loro stessi» e come «contraccambio del male col male», sostenuta
' Aniello Montano, Aspetti di una storia della filosofia non dialettica e non continuista, in "Rivista di storia della filosofia", noo3, 2 0 0 3 .
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invece da Kant. Questa, Schopenhauer la ritiene «assurda, inutile e assolutamente ingiustificata». Ancora qui l'accaloramento è sospetto. Alla sua domanda: «quale diritto avrebbe un individuo di ergersi a giudice assoluto di un altro sul piano morale e di castigarlo in quanto tale per i suoi peccati?" non abbiamo difficoltà a rispondere, d'accordo con lui: "nessuno». Perché si tratta del "piano morale". Ma il piano morale non è quello giuridico, checché egli sostenga in contrario, e sul piano giuridico le cose cambiano. Il diritto di giudicare - della società mediante i giudici - c'è, ed è anche un dovere, esercitato in nome della comunità in ottemperanza di quel patto di uguaglianza espresso o tacito che è o si deve presumere alla sua base. La pena va commisurata alla gravità del reato e ha carattere afflittivo. Come pena giusta è, insieme con la certezza della sanzione e l'applicazione indefettibile, il solo deterrente giusto ed efficace. Perché i cittadini hanno diritto, nei confronti della comunità, dello Stato, alla giustizia e non solo alla protezione: diritto a cui corrisponde, da parte della comunità o dello Stato, un dovere simmetrico. Se lo Stato non ottempera al dovere della giustizia, il cittadino che ne ha naturalmente bisogno si scioglie intimamente da esso, e questo è un disastro. Se lo scopo della pena fosse solo la protezione ed essa avesse dunque solo carattere deterrente, si potrebbero (o dovrebbero?) tranquillamente aumentare le pene, cioè prescindendo dalla proporzionalità, perché pili la pena è forte, piti aumenta la sua efficacia deterrente, e non si vede quale ragione potrebbe avere Io Stato, tolta quella della giustizia, per essere moderato. Ma ciò avverrebbe appunto a spese della giustizia, e l'inosservanza della graduazione e proporzione tra la gravità del reato e la sanzione si trasformerebbe immediatamente in una bieca e insopportabile ingiustizia. Naturalmente l'applicazione della pena per giustizia presuppone la responsabilità del reo e quindi la sua libertà, che Schopenhauer non ammette. Egli dice che il reo è punito non per quello che ha fatto, ma per quello che è in 238
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occasione di quello che ha fatto. Perché, aggiunge, contrariamente al giudizio tradizionale, bisogna riporre la libertà nell'esse e la necessità nell'operai. E ciò è certamente conforme alla sua concezione della necessità empirica e della libertà trascendentale. Ma non è accettato da nessun ordinamento giuridico. Sul piano giuridico si è responsabili solo per quello che si fa, non per quello che si è o per quello che si progetta intimamente (non si fa il processo alle intenzioni). E l'individuo, appunto, contrariamente a quello che secondo Porfirio (riportato da Stobeo) dice Platone, non si è fatto da sé, e spesso fa fatica ad accettarsi così come è stato fatto non si sa da chi o da che: la coscienza galleggia su una formazione individuale sconosciuta dalle radici profondissime. Poi: è vero che ognuno si sente autore di ciò che fa, ma non per questo anche necessariamente responsabile. Fin troppo spesso i rei si giustificano anzi dicendo che non volevano fare quello che hanno fatto. E Schopenhauer stesso parla della estrema clemenza con cui gli Inglesi, i più giusti tra i popoli, trattano i delitti commessi per impulsività. L'ovidiano v/deo meliora, proboque, deteriora sequor, citato anche da Spinoza, dice chiaramente che l'uomo mantiene bensì il senso del bene e del male e quello dell'appartenenza delle azioni da lui compiute, ma che egli non si sente libero e dunque responsabile per il fatto di seguire le cose deteriori nonostante i buoni propositi. Si sa d'altra parte che spesso si prova rimorso anche là dove non sarebbe necessario. Si può provarlo per eccesso di sensibilità o, diciamo, per mancanza della forza di controllare le proprie emozioni o inclinazioni, o anche per generosità. Il reo capace di intendere e di volere è però responsabile, non solo per il legislatore, ma anche, secondo noi, effettivamente, perché, sebbene il diritto segua criteri pragmatici e non s'ingolfi nello studio del problema filosofico della Ubertà, giustamente fa conto che nel normale patrimonio di libertà racchiuso nel carattere di ognuno ce ne sia normalmente tanta da consentire a chiunque, salvo impedimenti particolari, di delibe239
rare e scegliere responsabilmente se seguire o infrangere la legge. E qui libertà non vuol dire assenza di motivi, ma capacità di far prevalere su quelli trasgressivi quello dell'ottemperanza. Nella Memoria sul fondamento della morale si possono distinguere quattro parti. La prima è costituita daWlntroduzione, la seconda dalla Critica del fondamento dato all'etica da Kant, la terza dalla fondazione della morale e la quarta da un'appendice contenente l'Interpretazione metafisica del fenomeno morale originario. \J Introduzione tratta nei suoi due capitoli, piccoli parerga e paralipomena, di problemi di ambientazione non veramente importanti per lo sviluppo del tema in concorso. La seconda parte è la pars destruens del trattato. È la base di partenza da cui Schopenhauer si stacca, con radicale contrasto, per costruire la sua etica. Egli dà per scontato che si conoscano i sistemi precedenti e dice di attaccarsi a Kant, cioè di limitarsi a lui, «sia perché la grande riforma morale di Kant ha dato a questa scienza una base che presenta reali pregi rispetto alle precedenti, sia perché essa è pur sempre l'ultimo avvenimento importante in fatto di etica». La cosa più storta, insiste, sarebbe di saltare questa critica, perché, dato che «gli opposti si spiegano a vicenda», essa è «la migliore preparazione e introduzione» a quella che sarà la sua etica, la quale altrimenti si comprenderebbe solo a metà, e ciò anche perché, nel criticare Kant, egli mette a punto, dice, i concetti che poi serviranno per la pars construens. Ora, è senz'altro vero che questa critica dell'etica di Kant è un'utile premessa per l'etica di Schopenhauer, ma tutte queste affermazioni sono anche, se non soprattutto, pretesti per procurare spazio all'impresa che veramente gli sta a cuore e che, con urgenza tipica, egli si accinge a compiere. E il fas et nefas dell'allievo che supera il maestro. «Tristo l'allievo che non supera il maestro», diceva Leonardo. Necessario, dunque, il superamento. Ma anche crudele. E in questa Critica non manca né l'una né 240
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l'altra cosa. Quando avremo spiegato quello che secondo noi è il fondamento della morale, si capirà che anche per fare il bene, come per fare il male, bisogna avervi un interesse strettamente personale, "egoistico", nel senso che da quello che si fa dipende la felicità o l'infelicità, il guadagno o la perdita, la vittoria o la sconfitta di chi lo fa. Si capirà inoltre che normalmente il pensatore che ha imparato da un maestro nutre fatalmente per lui, insieme con la gratitudine, il risentimento per essere stato da lui invaso, occupato e tenuto in mancipio; cosa in sé ottima e inevitabile, in considerazione dei frutti che produce, ma che rende inevitabile anche la reazione. Scatta, a un certo momento, la rivalsa, l'allievo si libera del maestro, caccia l'invasore, scalza l'occupante, perché i vincitori armano i vinti, come bellamente dice Croce, e il maestro ha armato l'allievo. Ciò non avviene, naturalmente, senza il formarsi di una psicosi bellica, anche quando ci si fa scrupolo di riservare il giusto spazio alla gratitudine. D'altra parte non è vero che pars destruens e pars construens non si capiscano separate l'una dall'altra: si capiscono benissimo, e questa Critica è in realtà un frammento autonomo, pensato come prosecuzione dell'altra e più generale Critica della filosofia kantiana messa in appendice al Mondo come volontà e rappresentazione. E a questa che essa si riattacca, come seconda fase dell'insurrezione o emancipazione, piii che all'etica propria, sebbene tratti lo stesso argomento di quest'ultima. Ai fini della risposta al quesito dell'Accademia danese, essa è comunque una base troppo larga per la successiva costruzione schopenhaueriana. Rimane però un esempio impressionante di forza e spietatezza filosofica, in cui rifulgono le più belle doti logiche e moralistiche di Schopenhauer. Tenuto conto quindi di quella che, come si vedrà, è l'unilateralità e la debolezza dell'etica schopenhaueriana, si può dire che questa Critica costituisce la parte più bella del trattato. Niente dell'etica di 241
Kant resta in piedi. L'argomentazione schopenhaueriana avvolge e stritola a una a una le sue tesi come un boa constrictor le sue vittime, prima di divorarle o abbandonarle esanimi sul terreno. Perfino i riconoscimenti coi quali la Critica si apre: l'avere Kant purificato l'etica dall'eudemonismo e la purezza e sublimità dei suoi risultati, vengono poi annullati, Schopenhauer se li rimangia. Mentre, se avesse seguito la sua stessa massima di interpretare un autore sempre nel modo più favorevole (p. 179), li avrebbe mantenuti come indirizzi costanti del pensiero kantiano, in corrispondenza di giuste intuizioni, se non di giuste deduzioni. Avrebbe capito in particolare che, pur armeggiando e articolando male, Kant predicava l'autonomia morale allo stesso modo che egli stesso predica l'autonomia e l'immutabilità del carattere. In etica Schopenhauer accetta di Kant una sola cosa, oltre alla libertà intelligibile, che avrebbe fatto meglio a non accettare perché, come quella, è in contrasto con l'esperienza: il significato metafisico delle azioni umane. A p. 159 sg. dice che Kant «riconosce che la condotta umana ha un significato che oltrepassa ogni possibilità di esperienza e proprio perciò costituisce il vero ponte per [...] il mondo intelligibile, il mundus noumenon, il mondo delle cose in sé». E a p. 163 dichiara egli stesso «innegabile [...] il significato metafisico dell'agire umano, ossia un significato che si estende al di là della nostra esistenza apparente e tocca l'eternità». Vedremo infatti che il significato delle azioni morali si spiega esaurientemente su una base naturale senza bisogno di ricorrere alla metafisica. Frattanto, non faremo al lettore il torto di riassumere qui in qualche modo quello che, in questa critica al fondamento kantiano dell'etica, è un capolavoro di logica, di moralismo e anche di essenzialità, e passeremo a trattare la terza e la quarta parte, cioè la parte positiva, che costituisce la vera risposta al quesito dell'Accademia danese. 242
La prima mossa di Schopenhauer è, in contrasto col dover essere kantiano e con la sua legge morale a priori, di stabilire che per la ricerca del fondamento dell'etica non bisogna far altro che studiare ciò che è dato empiricamente e vedere se un tale fondamento (non imperativo, ateologico) possa ritrovarsi in esso, perché, contrariamente a quello che molti pensano, la morale non prescrive ma descrive. Il secondo passo è di vedere se nell'esperienza si trovino azioni a cui inerisca un puro valore morale. Ma poiché noi sappiamo che la volontà umana è sempre determinata da motivi, bisogna vedere se tra i motivi che muovono la volontà possano essercene anche di puramente morali. Per Schopenhauer i motivi delle azioni umane possono essere di tre specie: l'egoismo, la cattiveria e la compassione. L'egoismo vuole il proprio bene, la cattiveria il male degli altri e la compassione il bene degli altri. I motivi morali sono soltanto quelli altruistici, quelli cioè che si propongono come fine esclusivo il bene altrui. Quelli che hanno uno scopo egoistico anche solo indiretto o lontano, non hanno valore morale. Secondo Schopenhauer il vero e autentico contenuto di ogni morale è espresso dalla massima Neminem laede, imo omnes, quantum potesjuva. Di questa massima, si tratta ora di trovare il fondamento. Ogni individuo conosce se stesso dall'interno e dall'esterno e come tale si sente il centro del mondo, che egli porta in sé come sua rappresentazione. Gli altri individui, li conosce solo indirettamente, tramite appunto la facoltà conoscitiva. L'egoismo lo spinge a vedere negli altri dei possibili mezzi per i propri fini. E ciò può essere anche moralmente indifferente. Invece i motivi e le azioni della cattiveria sono sempre immorali. Ma l'esperienza mostra anche azioni puramente altruistiche. Esse sono tutte, secondo Schopenhauer, ispirate dalla compassione. Possono essere o azioni di giustizia, dirette a evitare di danneggiare gli altri, o azioni di carità, dirette a fare il bene degli altri. Per la rottura della barriera dell'Io, ma piuttosto 243
dell'egoismo, e l'identificazione temporanea con l'altro che comporta, la compassione è un mistero (come la libertà), che dà luogo a un «misticismo pratico» (p, 334). Essa prescinde da ideologie e confessioni religiose; è «un fatto quotidiano», viene praticata allo stesso modo ai quattro angoli del mondo e in tutte le epoche. La compassione è la partecipazione disinteressata alla sofferenza altrui e le azioni da essa ispirate hanno per fine la soppressione o la diminuzione di tale sofferenza. A chi dice che «la compassione nasce per un abbaglio momentaneo deUa'fantasia, nel senso che noi ci mettiamo nei panni di chi soffre e poi, in immaginazione, fantastichiamo di patire i suoi dolori nella nostra persona» (p. 265 sg.), Schopenhauer risponde che «così non è affatto. In ogni momento noi abbiamo chiaro e presente che chi soffre è lui, non siamo noi-, e proprio nella sua persona, non nella nostra, noi sentiamo la sua sofferenza, con nostra afflizione. Soffriamo con lui, cioè in lui; sentiamo il suo dolore come suo e non ci sogniamo di pensare che sia il nostro». La compassione si può sentire verso tutti gli esseri viventi, dunque anche verso gli animali, sia pure in via subordinata, per la minore capacità di soffrire che essi hanno rispetto agli uomini. A favore degli animali Schopenhauer pronuncia un'intemerata che sembra di oggi. Possono insegnarsi la giustizia e la carità? No, perché dipendono dal carattere, che, come sappiamo, non cambia mai. Velie non discitur. Qui si fa sentire una fortissima differenza tra Schopenhauer e Kant. Per quest'ultimo, come per tutti gli altri filosofi precedenti, l'essenza dell'uomo sta nella ragione; per Schopenhauer sta nella volontà, vero nucleo duro dell'individuo, rispetto al quale la ragione assume un ruolo meramente strumentale. E l'inizio dell'irrazionalismo, che in bene e in male influenzerà tutta la filosofia futura. Ciò nega in particolare il recupero del delinquente. Per lui resta possibile solo quello del sistema penitenziario americano (p. 89), che non si propone di mutarne il cuore, ma solo di correggerne le idee. 244
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Ma sia la compassione sia la libertà si presentano come misteri soprattutto per il fatto, da Schopenhauer asserito e dall'Accademia danese contestato, che dai concorrenti era richiesta una ricerca del fondamento della morale senza collegamento a una qualunque metafisica. Ciò obbligava a fare a meno di ogni presupposto e a seguire il procedimento analitico, che risale dai fatti al principio. Il collegamento alla metafisica avrebbe invece consentito di scendere dal principio ai fatti, lamenta Schopenhauer, e molta luce si sarebbe fatta su questi misteri. Questa luce si è poi veramente fatta, perché alla fine Schopenhauer non ha resistito alla tentazione (viene da dire) e quel collegamento lo ha stabilito lo stesso, come opera supererogatoria: ha dato uno schizzo della sua metafisica, che è bastato per far luce su quei misteri. Partendo dall'estetica trascendentale di Kant (teoria delle forme a priori della conoscenza, spazio, tempo e causalità, che costituiscono il principio di ragione, ossia la forma più generale della nostra conoscenza), e passando alla volontà come cosa in sé, nucleo del mondo come rappresentazione, che ci si manifesta per via interna ed è sottratto alle forme del principio di ragione, si vede che in questo mondo della volontà il principium individuationis, che separa e contrappone gli individui, non ha più senso. Esiste una sola e identica cosa e tutti gli individui sono questa sola e identica cosa, che incarnandosi in loro si condanna a una perpetua contraddizione e lacerazione. Da questo punto di vista, la vita appare nella sua vanità e nullità e nel suo sempiterno e irrimediabile strazio, sicché chi giunge alla maturità della conoscenza e all'illuminazione suprema, decide con una libertà che lacera eccezionalmente (e contraddittoriamente) la trama della necessità - la negazione della volontà di vivere. Ciò spiega dunque il mistero della libertà, in quanto secondo Kant e Schopenhauer questa proviene dal mundus noumenon, estraneo a quello della rappresentazione, dominato dalla necessità e interdipendenza assoluta 245
di tutti i fenomeni; spiega inoltre il mistero della compassione, nel senso che chi partecipa alla sofferenza altrui e si identifica con l'altro, lo fa perché intuisce nell'altro se stesso, la sua propria essenza. Tat tioam asi\ questo sei tu, dice un detto brahmanico qui molto citato. Ora, che la compassione o pietà sia e resti un dramma per l'uomo, come Schopenhauer sottolinea, è vero. «Fintanto che ci sarà al mondo un essere sofferente, fintanto che si potrà vedere un lombrico spezzato torcersi suUa via, una mosca cadere perché sorpresa dal primo freddo e un ragno che muore di fame per mancanza di visite, soffrirà anche l'uomo che abbia un cuore in petto. La pietà, che costituisce la sua grandezza, sarà il suo supplizio».'" Grandi parole, che danno, senza bisogno di ragionamenti, tutto il valore della pietà. Questo dramma, che fa sorgere un sinistro interrogativo sull'eventuale autore di una simile disposizione delle cose, non viene certo eliminato dall'insegnamento dei filosofi che, come lo stesso Schopenhauer riferisce, si sono pronunciati contro la pietà: gli stoici, Spinoza e Kant stesso, per non parlare di Nietzsche, che ha vissuto tutta la vita all'insegna della lotta contro la pietà, e magari proprio perché ne era particolarmente minacciato (alla fine essa esplose e lo travolse, se è vero l'episodio dell'abbraccio al cavallo frustato a Torino). A tutti questi filosofi, e anche ad Aristotele e agli antichi, ai quali tutti, dice Schopenhauer, manca la carità (p. 311), questi contrappone «il più grande moralista del suo tempo», J.J.Rousseau, il quale invece dichiara la pietà fonte di ogni virtù. Pur tenendo in linea di massima debitamente distinte la dottrina dalla vita («Ho insegnato che cosa sia un santo, ma io stesso non sono un santo», dice Schopenhauer" ) e pur non volendo citare il terribile detto A. Schopenhauer, Colloqui, lano 1995, p. 303. " Ibidem, p. 147.
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a cura di Anacleto Verrecchia, Mi-
di Nietzsche su Rousseau, ma semplicemente tenendo presente qualche noto episodio della sua vita, si può ipotizzare per Rousseau un legame con la pietà predicata e la non-pietà praticata inverso rispetto a quello di Nietzsche. Ma ritornando al tema: la compassione fa certamente parte dell'integrità dell'essere umano (dunque non fuoriesce dall'Io), e se in certi casi può essere una debolezza (tipicamente Schopenhauer l'attribuisce più alle donne, mentre la giustizia sarebbe più degli uomini, cfr. p. 270), per cui è condannata dai suddetti filosofi, in altri casi, come quello sopra menzionato, è chiaro segno di umanità. E giustamente chi ne manca viene per ciò stesso giudicato inumano, come Schopenhauer nota. Se gli antichi non conoscevano la carità, che è solo la bandiera di Cristo (ma la Menschenliebe tedesca, qui tradotta liberamente con "carità", è più esattamente l'amore per gli uomini, la filantropia), conoscevano tuttavia la misericordia e la clemenza, che spesso ne facevano le veci. E comunque la praticavano anche loro, visto che essa è indipendente da ideologie e fedi religiose. In conclusione, la compassione fa ben parte della moralità. Ma può essa essere addirittura il fondamento dell'etica ed esaurire la sfera etica? Il no è per noi talmente ovvio, che troveremmo strano che Schopenhauer non vi avesse pensato, se non sapessimo che in filosofia molte stranezze vanno inevitabilmente insieme con le verità, semplicemente perché i filosofi non possono arrivare in una volta dappertutto. Però questo fatto può far capire, se non giustificare, la caricatura che Nietzsche fa di Schopenhauer nell'aforisma 186 di Al di là del bene e del male a proposito del suo credere di aver finalmente trovato, dopo qualche millennio di ricerche da parte dei filosofi, la pietra filosofale, il ricercatissimo fondamento della morale (parla di falsità, cattivo gusto e sentimentalismo). Lo stesso gesto eroico di Arnold von Winkelried, che Schopenhauer giustamente decanta, solo con una 247
forzatura si può dire ispirato dalla compassione («aiutare l'altro che vede in distretta», p. 256), perché è chiaramente ispirato dall'eroismo, cosa diversa, come si ammetterà, dalla compassione. Non meno diversa è la giustizia stessa dalla compassione. Lo è anche per Schopenhauer, evidentemente, dal momento che consiglia di togliere dalla massima tipica della giustizia: quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris, il "non" e il "ne" per renderla applicabile anche ai doveri di carità, oltre che a quelli di giustizia (p. 205). Ogni punizione del colpevole dice che giustizia e carità sono due cose diverse. E se Spinoza negava la pietà, era proprio perché non voleva che prendesse il posto della giustizia. Il ricco è giusto, spiega Schopenhauer, ma per ragioni che non hanno niente a che vedere con la compassione (p. 240). Pietà e giustizia sono in realtà contrastanti e hanno tradizionalmente i loro massimi e opposti rappresentanti in Cristo e Cesare, esponenti supremi di due civiltà diverse, quella antica del diritto, appunto, e quella cristiana della carità. Che poi le virtìi tendano a comunicare tra loro sotterraneamente, è anche vero, per cui volendo se ne possono mettere varie insieme. Un errore derivante dalla limitatezza del fondamento scelto è certamente l'esclusione della Mitfreude, la gioia che si prova per la felicità degli altri; una cosa bella e umana come poche altre, simmetrica al Mitleid (compassione), col suo stesso valore. Questo errore dipende anche dall'errata concezione del piacere, del benessere e della soddisfazione come cessazione del dolore e della mancanza, e non come qualcosa di positivo. Platone escludeva come positivi i profumi. Ma si possono escludere infinite altre cose. La vista di un bel quadro, per esempio, basta a farci gioire senza che cessino dolori e mancanze. E, per la frase di Zarathustra già citata (p. 12), nella vita la gioia viene logica248
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mente prima del dolore. D'altra parte: un artista, uno scienziato, un politico, che lottano per tutta la vita per dare all'umanità o alla società il frutto del loro ingegno, non sono per questo uomini morali? E tuttavia qui giustizia e compassione non c'entrano. Ma anche un acrobata da circo, che faccia il suo lavoro con passione (è la normalità) e si alleni per anni e anni per poter fare quelle cose "impossibili" che fanno gli acrobati, rischiando la noce del collo, non sarebbe un uomo morale solo perché in nessun modo qui si tratta di carità o giustizia? Inoltre, fin troppo spesso sono altamente morali azioni che in sé sono atti di spietatezza, come gli stessi atti eroici, quando si tratta non di portarsi al petto le lance dei nemici, ma di trafiggere i nemici con la propria, o, più modernamente, di incenerirli col napalm. Per non parlare di inevitabili decimazioni e fucilazioni. Qualcosa significa infine anche il detto che il medico pietoso ammazza il malato. E certe volte si potrebbe dire «fu giustizia essere ingiusto», come Dante disse «fu cortesia l'esser scortese». Insomma gli esempi possibili di atti morali che non sono ispirati dalla compassione, sotto forma di giustizia e carità, sono innumerevoli, e nessun lettore in buona fede faticherà a trovarne quanti ne vorrà. Ma ciò significa che il fondamento della morale non è la compassione. Qual è allora? Ricavandolo in gran parte da sparsi insegnamenti di Schopenhauer stesso, diremo che è la solidarietà biologica dei membri della specie. In molti luoghi delle sue opere, ma specialmente nel capitolo «Sulla metafisica dell'amore sessuale», contenuto nei Supplementi al Mondo, Schopenhauer mostra gli individui nell'eterogenesi dei fini come strumenti della specie e portatori dei suoi interessi contro gli interessi personali, che, per servire i primi, essi tradiscono, come appunto avviene, secondo 249
lui per inganno, nel caso dell'amore sessuale. Ma la specie non è niente che esista separatamente dagli individui. Quando la si concepisce come tale si usa un'astrazione. La specie non è altro che gii individui che la compongono. Tuttavia questi individui, all'apparenza autonomi e separati, sono stretti tra loro da legami interni che ne fanno gli organi di un organismo multicefalo, e questa loro appartenenza contrasta in loro con l'appartenenza a se stessi. La mente appartiene all'individuo, il cuore alla specie, il che spiega perché la ragione non conosca le ragioni del cuore e sia impotente a comandarlo. Questa è anche la base dell'incongruenza insanabile tra pensiero ed essere. Come la luna ha una faccia rivolta verso la terra e una nascosta, così l'individuo ha una faccia rivolta verso la specie, una faccia diciamo centripeta, e una che si perde in periferia, centrifuga. Hanno natura soprattutto centripeta gli uomini a cui si elevano monumenti e si dedicano vie, piazze e città, o i cui nomi sono dati a terre, continenti, pianeti, satelliti, leggi di fisica, di chimica eccetera, da loro scoperti. Sono cioè i grandi, e tutti gli altri che li seguono a breve o a lunga distanza, operando per l'avanzamento della specie, del popolo e della società a cui appartengono. Ogni individuo rappresenta la specie, non è mai indifferente per essa; ne eredita e trasmette il patrimonio genetico, da lui impoverito o arricchito, a seconda che la sua natura sia più centrifuga che centripeta o viceversa. Hanno natura centrifuga coloro che prendono e non danno, che consumano e non creano, e coloro che distruggono, come i criminali di ogni specie. L'individuo vive in una tensione continua tra forze centripete e forze centrifughe: è la tensione morale. Ma ognuno alberga sempre, sempre in diversa miscela, le une e le altre, sicché non è possibile 250
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una divisione degli uomini in superiori e inferiori, ma sempre e solo una distinzione in base a criteri parziali e speciali. Il piccolo può rivelarsi grande, il grande cadere nelle piccinerie, e l'uno e l'altro possono essere diversi in tempi diversi. La specie ha idealmente un centro e una periferia, come le comete hanno un nucleo e un alone. Il centro è la fonte della vitalità e del valore (essenziali e definitive, prima di Nietzsche e Heidegger, le definizioni del valore a p. 209 sg. e a p. 215), che si perdono o disperdono in periferia. Ma anche coloro che perseguono i fini più alti e sono più centripeti - perché la specie, come la terra, esercita una forza di gravità verso il suo centro - non possono perseguirli se non come fini personalissimi, "egoistici", e inevitabilmente mescolati coi fini più strettamente individuali, allo stesso modo di quanti perseguono fini che non solo per la forma chiusa e individuale, ma anche per la sostanza, sono i più egoistici. La differenza tra gli uomini non è data dal perseguire i fini in modo diverso, ma dal perseguire fini diversi, di cui alcuni sono nobili, altri ignobili (per esempio in una guerra che si combatta da un lato per sete di conquista e dall'altro per difesa dell'indipendenza), così come la differenza del poeta dal non-poeta non è data dal parlare di cose universali o private, ma dal parlare in modo universale o privato. Il non artista che parla di sé, parla solo di sé; l'artista, mettiamo Dante, che parla di sé, parla di tutti, rivela leggi universali. Ciò vale naturalmente anche per il pensatore. Nietzsche diceva che gli interessava molto più la causa nella causalità che la causa col suo editore (la perse). E infatti la felicità o infelicità, la libertà o illibertà che gli veniva o no dall'una, non era paragonabile a quella che gli veniva o no dall'altra. Ma il problema della causalità era un problema universale, interessa 251
tutti; quello dell'editore un problema privato, interessava solo lui e l'editore. Corrispondentemente, egli distingueva un egoismo superiore e un egoismo inferiore. Solo che "egoismo" non ha senso senza la correlazione con l'altruismo, come tutti i giudizi di valore, che hanno senso solo nella correlazione con gli opposti. Quindi è improprio usare la parola "egoismo" per chi segue fini elevati, come per esempio San Francesco, Pascal o Madre Teresa di Calcutta. Quanto più gli individui risalgono i canali della specie, con la beatitudine che accompagna ogni autorealizzazione, tanto più divengono insieme responsabili e liberi: liberi, servendo la specie, di servire se stessi, liberi dunque nel senso già indicato di seguire la necessità interiore. Ma la necessità interiore della necessità interiore è la necessità della specie. Il numero degli individui che compongono la specie non è indifferente: influisce sulla qualità e l'organizzazione della medesima, perché la specie non è una somma ma una sintesi. Essa tende, per intima spinta, alla massima realizzazione e quindi alla massima diversificazione, come pure al massimo sviluppo nel tempo, donde tipi ed epoche sempre diversi tra loro. Questa spinta alla diversificazione contrasta con la solidarietà e dovrebbe far riflettere coloro che hanno soprattutto in mente l'identità e l'unità degli individui. La stessa unione dell'uomo con la natura ha un limite nell'isolamento in cui l'uomo è posto dal principium individuationis, limite che svaluta non poco il tat twam asi, considerato in particolare il terribile esempio fatto a p. 298 del cartesiano che, se «si trovasse tra gli artigli di una tigre, si renderebbe conto nel modo più chiaro di quale netta differenza questa fa tra il suo Io e il Nonio». È un esempio, questo, in certo senso autolesionistico, perché Schopenhauer insiste sull'identità di tutti 252
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gli individui. Ma lo fa per la tendenza già illustrata ad assolutizzare e a dividere ciò che non riesce a distinguere nella continuità. Infine non è casuale ma causale che nelle varie situazioni ed emergenze dell'umanità, dei popoli e delle società, sorgano sempre uomini che incarnano lo spirito e le esigenze del tempo, uomini rappresentativi, come quelli teorizzati da Hegel. È la specie che provvede in tal modo a se stessa. Si può dunque dire che il grado di moralità di una persona corrisponde al grado in cui essa (facendo o omettendo, potenziandosi o indebolendosi, esigendo o rinunciando) serve e incrementa la specie, e quello di immoralità al grado in cui la disserve e depaupera. Gli atti di moralità e di immoralità saranno quelli che risulteranno dal contatto delle nature così mescolate con le situazioni ed esigenze pratiche, a seconda che in essi prevalga la forza centripeta o quella centrifuga. Un esempio del primo caso: la madre che si sacrifica per il figlio. Un esempio del secondo: la madre che sacrifica il figlio a sé, ai propri piaceri e comodi. Come si vede, la moralità ha un senso prettamente intraumano, come del resto la conoscenza stessa, e dunque non è toccata dal nichilismo, che è vero solo in senso extra-umano. Ma non solo la moralità ha carattere intraumano, essa ha anche, in definitiva, un significato utilitario, sebbene l'uomo possa, coi suoi atti morali, attingere la sublimità. Qual è, per esempio, il politico di piìi alta moralità? Quello che pili fa il bene del suo paese. Ma qual è il bene del suo paese? Primeggiare tra gli Stati e sugli Stati con la potenza, cioè far trionfare il proprio egoismo. Dunque la moralità consiste nel fare per la collettività e non per sé ciò che normalmente l'individuo fa per sé. Questo è l'unico senso giusto del "disinteresse" nella moralità. Perché di tutti gli altri sen253
si fa giustizia il potente capitolo «Della conoscenza immacolata», in Così parlò Zarathustra, che identifica la moralità col massimo interesse, colla massima partecipazione. La collettività è un grande individuo in concorrenza con altri grandi individui, allo stesso modo degli individui normali. Fra loro, che non sono sottoposti come questi al diritto (il diritto internazionale è ben lungi dall'avere la forza cogente del diritto interno), si riproduce dunque Vhomo homini lupus dell'egoismo. Ma perché un "piccolo" individuo serve un grande individuo? Non c'è dubbio: per ingrandirsi a sua volta. Ossia per realizzare quella parte di sé che si può realizzare solo con l'ingrandimento della collettività di cui è espressione. Ancora e sempre utilità ed "egoismo", come si vede. La più alta moralità, che ha sempre origine nella solidarietà biologica, è chiamata grandezza, perché con essa l'uomo si ingrandisce passando dal livello individuale a quello della specie, o attraverso le formazioni intermedie - famiglia, Stato, nazione - o direttamente con l'arte, la filosofia e la santità. Ma la specie è un individuo ancora più grande dello Stato, e a sua volta in concorrenza con altre specie, cioè con altri grandi individui, tra cui vige, come nomos basileus, il mors tua vita mea. Il prosperare di una specie comporta lo sfruttamento di altre, perché la vita si nutre di se stessa, e quelli che stanno sopra si nutrono di quelli che stanno sotto, salvo eccezioni, quando non si nutrono gli uni degli altri. In conclusione, anche nella più alta moralità si tratta ancor sempre di "egoismo", di lotta per la sopravvivenza, cioè di cose naturali e di niente di trascendente, metafisico, eterno. La specie, fonte della vitalità, della forza e di ogni valore, è il confine interiore dell'uomo, quello che gli uomini chiamano e intendono normalmente per Dio. Non si accorgono 254
che "Dio" è per così dire a un palmo dal loro naso. Gli stessi ideali ascetici propugnati da Schopenhauer si sono rivelati, all'analisi acuta di Nietzsche, una forma estrema di autoconservazione e antropomorfismo, D'altra parte, dopo che Machiavelli e Nietzsche stesso hanno additato i motivi personali, fisiologici e la volontà di potenza che si annidano dietro le affermazioni e pretese spirituali, si può recuperare una notevole parte del perduto reinterpretando il cosiddetto egoismo superiore come schietta spiritualità.
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Se i Colloqui con Eckermann di Goethe sono, a detta di Nietzsche, il primo libro della letteratura tedesca, questi Colloqui di Schopenhauer, curati da Anacleto Verrecchia per la B.U.R. ma già apparsi nella prestigiosa collana del Ramo d'oro nel 1982, non sono certo l'ultimo. Perché vi si colgono spunti di dottrina e di umanità che forniscono importanti delucidazioni sul contesto storico, sulle figure collaterali e sullo sfondo della grande filosofia schopenhaueriana, come pure sul carattere e sulle circostanze personali del suo autore. Che cosa pensava, per esempio, Schopenhauer di Spinoza (un filosofo che ammirava, per così dire, a denti stretti, dato che era il modello, anzi l'idolo degli odiati idealisti)? Che U suo ottimismo fosse in parte dovuto alla sua serenità di ebreo, perché gli ebrei «sono, nonostante la grave oppressione che grava su di loro, una nazione serena e gaia». Degli stessi ebrei, però, dice altrove: «Gli ebrei! Maledetti, sono peggiori degli hegeliani!», cioè di coloro che per lui erano quasi peggiori di ogni altra cosa. A un suo discepolo, che una volta lo accomuna a Hegel perché entrambi erano panteisti, risponde: «Io non sono panteista, sono buddhista». E aggiunge: «Hegel non è che il panteista dell'intelligenza, cioè del vuoto, mentre io sono il panteista del cuore, cioè il filosofo dell'essere vero, pieno e integrale». ' Arthur Schopenhauer, Colloqui, Rizzoli, Milano, 1995.
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Che cosa pensava, invece, di Fichte? Che fosse più un uomo d'azione che un filosofo, più o meno come Leibniz. Il quale andava, secondo lui, troppo in giro ed era in troppe faccende affaccendato. Ma riconosceva che la filosofia della forza di Leibniz era l'antecedente della propria filosofia della volontà. Questa, per la verità, egli l'aveva più direttamente derivata da Schelling, per il quale ebbe una certa stima finché Schelling non «si rovinò» definitivamente con la «filosofia positiva», cioè religiosa. Schopenhauer giudicava Schelling «decisamente il più dotato dei tre», cioè dei tre «ciarlatani» idealisti, insieme con Fichte e Hegel. Con Leibniz era anche d'accordo - vale la pena di notarlo - suir«armonia prestabilita», ma solo sul piano fisico. Sul piano soggettivo e morale, invece, la sua conclusione era, come si sa, opposta: il migliore dei mondi possibili di Leibniz diventava per lui il peggiore dei mondi possibili, nel senso che, se fosse stato anche solo un pochino peggiore, non sarebbe più potuto sussistere. Nonostante l'odio per gli idealisti, sul piano formale anche Schopenhauer era idealista. Una volta ebbe su ciò un battibecco con il superrealista Goethe, che egli ammirò sempre, anche se lo giudicava «un egoista», che fra l'altro amava in privato le espressioni crude; «Cosa», mi disse [Goethe] guardandomi coi suoi occhi di Giove, «la luce ci sarebbe solo in quanto lei la vede? No, sarebbe lei a non esserci, se la luce non la vedesse». Molti sono in questi Colloqui i detti interessanti e significativi, fondati o non fondati che siano. Ne citiamo alcuni. «L'uomo era originariamente nero e un pulito animale che viveva di vegetali come la scimmia. Ma, una volta spintosi nel nord, non potè più vivere senza carne e con ciò, come pure con l'abbigliamento, ha acquisito una natura immonda e schifosa». «Musica e pa257
rola sono il matrimonio di un principe con una mendicante». «L'essere della materia consiste solo nell'effetto e le qualità proprie di un corpo non sono che il modo specifico con cui esso agisce». Ecco così stabilita, circa un secolo prima di Einstein, l'equazione materia = energia. «Il progresso è il sogno del diciannovesimo secolo, come la resurrezione dei morti era quello del decimo». «L'anima delle cose è il nulla». «L'intelletto, quando nell'uomo giunge all'apice della conoscenza e nel santo penetra l'essenza della vita, annulla la volontà». «La sola felicità è quella di non nascere». Su Copernico: «Nessuno ha arrecato tanto danno al teismo», perché «i teologi non hanno più un cielo in cui piazzare il loro Dio». Poi: «il teismo, un'idea balorda che proviene unicamente dal giudaismo, è inculcato», non innato, ed è prodotto non dalla perfezione, ma dai mali del mondo («i cattivi raccolti, la peste, le carestie e via dicendo»). E la teologia compatibile con la filosofia? «Teologia e filosofia sono come due piatti di una bilancia: quanto più si abbassa l'uno, tanto più si alza l'altro» (era la stessa opinione di Spinoza). E filosofia e nazionalismo? «Cartesio, Kant e simili spiriti appartengono al genere umano ed è del tutto indifferente che siano vissuti in Francia o in Germania. Che c'entra la filosofia con la nazionalità? Che la verità venga scoperta in questo o quel punto della terra non fa alcuna differenza». Indicando a un visitatore l'aspetto leale di Cartesio in un ritratto che ne possedeva, disse: «Bisogna essere leali per fare qualcosa di grande. Tutti i grandi spiriti erano leali». Contro la storia nella concezione hegeliana: «Il contenuto della storia sono le risse europee». Sulla conversione causata dal dolore: «Raimondo Lullo si era innamorato di una bellezza e le era corso dietro. Lei lo respinse a lungo; ma alla fine lo fece venire dinanzi a sé e gli mostrò il seno divorato dal cancro. Allora lui si ravvide». Sui geni: «Non certo per 258
sé, ma per l'umanità vengono al mondo, per liberarla dalla rozzezza e dalla barbarie. [...] Sono i crociferi dell'umanità». Tra questi portatori di croce annoverava anche se stesso: «Per tutta la vita ho portato la mia croce e ne ho sentito il peso». Non per questo, però, si riteneva un santo: «Ho insegnato che cosa sia un santo, ma io stesso non sono un santo». Anzi, «confessò lui stesso di esser corso dietro alle donne e che in Italia non aveva goduto solo il bello ma anche le belle» (Verrecchia). Inoltre, si riteneva dotato per fare l'attore. «Il romanticismo è un prodotto del cristianesimo: religiosità esaltata, venerazione fantastica della donna e valore cavalleresco, dunque Dio, la donna e la spada - questi sono i contrassegni del romanticismo». Sullo spirito: «non è che una qualità inferiore dell'anima, la bolla di sapone che si stacca dalle nostre sensazioni, sale nell'aria e poi scoppia». Sulla ragione: «è una cambiale spiccata sulle umili percezioni dei sensi». Sulla natura: «non è divina ma demoniaca» (ripreso da Aristotele). Sulle speranze umanitarie, quando non sono un alibi: «hanno il merito di dare una ragione di vita». Sul coraggio: «è soprattutto la capacità di nascondere la paura». Ma perché alcuni ce l'hanno e altri no? Su Kant: «trascorreva tre giorni all'anno in una villetta fuori città; e questa sarebbe stata la sua vita di campagna». Secondo Verrecchia, è da imbecilli credere che Schopenhauer amasse gli animali più degli uomini. Però riporta il seguente passo: «Devo confessarlo sinceramente: la vista di ogni animale mi rallegra immediatamente e mi dischiude il cuore, specialmente quella dei cani e poi quella di tutti gli animali liberi, siano essi uccelli, insetti e così via. Viceversa la vista degli uomini suscita quasi sempre la mia decisa ripugnanza. Infatti, tranne poche eccezioni, essa generalmente offre le smorfie più antipatiche, sotto tutti i punti di vista, bruttezza fisica. 259
l'espressione morale di basse passioni e di spregevoli aspirazioni, segni di balordaggine, di storture intellettuali e di stupidità di ogni specie e misura, infine anche sporcizia, quale conseguenza di abitudini schifose. Per questo me ne allontano e mi rifugio nella natura vegetale, lieto di incontrare gli animali. Dite quello che volete: la volontà, nel piìi alto gradino della sua oggettivazione, offre una vista non già bella, bensì ripugnante». Aveva un barboncino, Atma (= Anima del mondo), di cui parlò nelle sue opere e a cui dedicò una poesia. Lo sgridava dicendo: «uomo che non sei altro!» Professava: «se non ci fossero i cani io non vorrei vivere»; e ciò pur sostenendo che il cane era in origine «un animale rapace», poi addomesticato dall'uomo. Sul pessimismo di Schopenhauer Nietzsche, figlio traditore e rinnegato secondo Verrecchia, fa dell'ironia: «aveva bisogno di nemici per conservare il buonumore; amava le parole rabbiose, biliose, nero verdastre; andava in collera per andare in collera, per passione; si sarebbe ammalato, sarebbe diventato pessimista ( giacché non lo era, per quanto lo desiderasse) senza i suoi nemici, senza Hegel, la donna, la sensualità e tutta la volontà di vivere, di continuare a esistere. [...] i suoi nemici lo indussero sempre di nuovo a vivere, la sua collera era, in tutto come per i cinici antichi, il suo ristoro, la sua ricreazione, la sua ricompensa, il suo remedium contro il disgusto, la sua felicità». Ora, è vero che Schopenhauer aveva un lato bonvivant\ che, a differenza di Nietzsche, godette dell'amore (particolarmente godibile è, in questi Colloqui, la sua storia d'amore con la veneziana Teresa Fuga, che gli scriveva lettere sgrammaticate e lo chiamava Scharrenhaus, ma era evidentemente molto più preparata su un altro piano). Godette pure della buona tavola, degli agi consentitigli dalla rendita ereditata dal padre e alla 260
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fine anche della fama; è vero, insomma, che vi era una certa incoerenza tra la predicazione e la vita, in parte anche ammessa, come s'è visto. Ma della sua serietà fondamentale e del suo pessimismo e radicale ateismo non si può veramente dubitare, benché anche contro quest'ultimo sorgesse in lui qualche reazione. Non si può dubitare neanche di alcuni buoni motivi che aveva per incollerirsi, in particolare contro gli accademici che lo ignoravano. E anche nella descrizione delle brutture umane sopra riportata, come negare che c'è in essa molta verità? «Come un leone», dice, «dopo che è stato per un pezzo coricato nella gabbia, balza su e comincia a scuotere le sbarre di ferro [...], così sto io, qui, nella mia rabbia». E aggiunge: «qui non habet indignationem, non habet ingenium», latinizzazione del proverbio italiano «chi non ha sdegno non ha ingegno». Abbiamo detto che godette della gloria, ed è vero; ma lo infastidivano i rumorosi ammiratori che, come racconta Verrecchia, «andavano a suonargli la grancassa sotto la finestra». «Vengono con timpani e trombe e credono che questo significhi qualcosa», diceva. Non negava tuttavia la soddisfazione per le rose che il tempo aveva finito col portare anche a lui, dopo trent'anni di misconoscimento, sebbene, come diceva, fossero rose bianche. D'altra parte, proprio a quanti tra i suoi ammiratori chiesero e ottennero udienza, si devono questi preziosi colloqui. In particolare ad alcuni di essi, come r«arcievangelista» Julius Frauenstàdt, Wilhelm Gwinner, Cari Hebler e Georg Ròmer (quest'ultimo pranzò per anni accanto a Schopenhauer s^ì'Englischer Hof e dice che il filosofo «rideva e faceva ridere»), senza parlare di Wieland, Tieck, Goethe, Wagner, Hebbel e altre celebrità. Quanto al pessimismo: «Il genere umano è destinato dalla natura alla miseria e al fallimento», sosteneva, 261
«poiché, quand'anche l'ingiustizia e il bisogno fossero rimossi dallo Stato e dalla storia, fino a far subentrare una vita di cuccagna, gli uomini si accapiglierebbero e si aggredirebbero l'un l'altro per la noia, oppure il sovrappopolamento provocherebbe la carestia e questa li sterminerebbe». Poi: «L'esistenza dell'animale è tutta quanta in queste quattro cose: uccidere, mangiare, digerire, dormire. Dormire, cioè riacquistare le forze della vigilia per uccidere il giorno appresso». Le piante, poco osservate, erano ancora peggiori degli animali. E tuttavia: «fintanto che ci sarà al mondo un essere sofferente, fintanto che si potrà vedere un lombrico spezzato torcersi sulla via, una mosca cadere perché sorpresa dal primo freddo e un ragno che muore di fame per mancanza di visite, soffrirà anche l'uomo che abbia un cuore nel petto. La pietà, che costituisce la sua grandezza, sarà il suo supplizio». E una sconfessione avanti lettera della lotta contro la pietà, una lotta dunque contro natura, che Nietzsche avrebbe combattuto per tutta la vita, inutilmente per lui, ma non inutilmente per altri. È comunque interessante notare, riguardo al pessimismo, che il nobile scrittore Adalbert von Chamisso, di cui Schopenhauer fece la conoscenza nell'ultimo periodo del suo soggiorno berlinese, lo esortò a non dipingere troppo nero il diavolo, perché un buon grigio sarebbe stato sufficiente. Però non lo convinse. Ma un atteggiamento pessimistico non era alia fine un atteggiamento troppo facile, disfattistico? Lui ce l'aveva tanto con l'uomo? «Con l'uomo no, ma con la vita. Sono pessimista, ma non misantropo; al contrario, ho giurato tutto il mio odio all'ottimismo, perché disonora e snerva l'uomo, facendogli credere che non vi sia alcun male da combattere, che tutto sia giustifichile, legittimo: tutto, tranne lo sforzo, che è l'inizio della virtù, e il sacrificio, che ne è la consacrazione». C'è da domandar262
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si perché questa ottima massima non si applicherebbe anche in campo sociale, dove è necessaria, se non per migliorare l'essenza della vita («la cosiddetta 'trasfigurazione della volontà', cioè il miglioramento, non è possibile»), per non farla peggiorare ulteriormente, dato che gli standard acquisiti non si mantengono senza sforzo e senza un'attività sempre rinnovata. «Schopenhauer», scrive Verrecchia, «come Voltaire e Byron, è una delle pochissime figure veramente sataniche della letteratura. L'anticristo Nietzsche, al confronto, fa solo la figura di un semplice spretato che, nonostante tutte le bestemmie e le scalmane, non riesce a togliersi di dosso l'odore dell'incenso». Sentiamo alcune delle cose che Schopenhauer dice di se stesso. «Io non mi sono mai ripetuto e ho osservato le cose dai più diversi punti di vista, sforzandomi sempre, mediante la massima chiarezza possibile e spesso anche mediante paragoni, di facilitare ai miei lettori la comprensione di difficili concetti metafisici». «Quanto più nel nostro tempo cresce la miscredenza, tanto piiì grande diventa il bisogno di filosofia, di metafisica; e allora devono venire da me». «Oltre di me si potrà andare in larghezza ma non in profondità». A proposito della distinzione tra intelletto e ragione: «Nella seconda edizione della Quadruplice radice cui lavoro adesso, porrò fine alla millanteria della ragione da parte dei professori, i quali la considerano una facoltà del soprasensibile». «Dalle mie discussioni dei piii importanti e difficili problemi metafisici, le quali spesso occupano solo poche pagine, non ci si accorge minimamente di quali enormi studi le abbiano precedute». Per esempio: «già da due anni faccio degli studi sul sonnambulismo, sulla visione degli spiriti e sui fenomeni affini, per un chiarimento metafisico degli stessi»; «per le poche pagine sulla tragedia nel secondo volume del Mondo come volontà e rappresenta263
zione, mi occupai per tutto un inverno solo della tragedia greca». «Ho avuto la fortuna di essere iniziato ai Veda, di cui mi hanno aperto l'ingresso le Upanishad. Secondo me, è stata proprio una grande fortuna, perché questo secolo è destinato, a mio parere, a ricevere dalla letteratura sanscrita un'influenza pari a quella che il secolo sedicesimo ricevette dal rinascimento greco». Ma per tornare al pessimismo, questo è affermato soprattutto nel suo capolavoro. Il Mondo come volontà e rappresentazione, in base alla struttura stessa della vita. Questa, una «volontà» immane e senza scopo, forma con gli esseri una piramide destinata a nutrirsi di se stessa, sicché gli esseri si trovano precipitati in una guerra continua e inevitabile degli uni contro gli altri per la soddisfazione di bisogni spesso impossibili da soddisfare e che, una volta soddisfatti, cedono il posto alla noia, non meno tormentosa dei bisogni stessi. Il fatto, però, che questa stessa visione delle cose serva anche, certo non senza difficoltà, agli ottimisti per affermare una struttura positiva della vita, con una continua lotta sì, ma coronata da continue conquiste e soddisfazioni, che consumandosi spingono a sempre nuove conquiste e soddisfazioni; e spesso addirittura il miracolo della tramutazione dell'acqua in vino, ossia dell'ottenimento di un senso pregnante proprio dalla sciagura e dal dolore, colorisce comunque il pessimismo di Schopenhauer di una parzialità, contro la quale il figlio «rinnegato» non esita a far valere, non certo l'ottimismo leibniziano, bensì l'affermazione tragica, la visione dionisiaca. E a questo figlio «traditore», a Nietzsche, col tempo sempre più riduttivo verso il suo «grande, grandissimo maestro», nonostante i reiterati riconoscimefnti, Schopenhauer offre inconsapevolmente il destro per la critica più riduttiva proprio con il vanto che fa del primo volume del Mondo come volontà e rappresentazione: «Una cosa 264
del genere», dice, «la si può scrivere solo in gioventù e con ispirazione». Su questo vanto, rafforzato dalla confessione fatta in realtà proprio per negare il collegamento del pessimismo della dottrina con le sofferenze giovanili: «Da giovane ero sempre molto malinconico e una volta, potevo avere diciotto anni, pensai: questo mondo dovrebbe averlo fatto Dio? No, piuttosto un demonio», interviene con sicurezza Nietzsche, attribuendo tale pessimismo alla malinconia e al romanticismo dell'età appunto (aforisma 271 di Opinioni e sentenze diverse). Ma contro Nietzsche, che ritenne di aver fatto il passo oltre la posizione del maestro, che il maestro non aveva saputo e osato fare, quello del nichilismo che sopravanza il pessimismo e l'ascetismo, come racconta nell'aforisma 357 della Gaia scienza, Schopenhauer ha in serbo la sua rivincita sotto forma di un superamento anticipato del nichilismo nietzschiano allo stesso modo che del proprio idealismo formale. Nella seconda versione (scritta in vecchiaia) della sua prima opera già citata. Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, sulla cui importanza egli non cessa di insistere in questi Colloqui, Schopenhauer indica i limiti dell'intelletto e fa intravedere l'abisso della realtà quale essa è indipendentemente dalla nostra conoscenza. «All'universo», dice, «si deve attribuire un'esistenza assolutamente oggettiva, non condizionata dal nostro intelletto, e anche molte altre cose. L'intelletto funziona infatti solo per le modificazioni della materia, non per la materia stessa, che si può pensare ma non intuire, conoscere». Qui egli anticipa addirittura la volontà di potenza, affermando, come aperti misteri, le forze naturali «grazie a cui tutte le cause agiscono e che sono escluse da ogni mutamento, quindi sono fuori da ogni tempo ma proprio perciò si trovano sempre e dappertutto, sono onnipresenti e inesauribili». 265
STORIA DI UNA TRADUZIONE
Quando, nella prima metà degli anni Sessanta, Giorgio Colli mi affidò la traduzione del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, ero lontano dall'immaginare quale onore mi facesse e quale fortuna mi capitasse. Solo molto più tardi avrei capito che Colli, pur ritenendosi una reincarnazione di Nietzsche, pur insegnando Platone e traducendo Aristotele e Kant, pur eccependo fra i disprezzati moderni a favore dei soli Bruno e Spinoza e pur aggirandosi fra manipoli di agguerriti presocratici, aveva un Busenphilosoph, un filosofo del cuore, quasi un filosofo segreto, di riserva, per il quale anche guardava a Oriente. Vi ricorreva parsimoniosamente e quasi con pudore, ma nei casi critici non esitava a tirarlo fuori, a sbandierarlo e a brandirlo nel modo più deciso e con pieno abbandono emozionale. Era Schopenhauer, il filosofo che l'aveva scosso in gioventù e conquistato per la vita, come secondo lui accadde a Nietzsche, al quale, appunto come seguace di Schopenhauer, nega originalità propria (due posizioni che col tempo avrei sempre più capite e fatte mie). Questo per l'onore. Quanto alla fortuna: un'offerta simile è una rara aubaine anche per il traduttore più affermato e viziato (ci sono i viziati e i seviziati); figurarsi per me che ero sconosciuto e quasi alle prime armi! Questa fortuna è paragonabile soltanto a quella che avrei potuto avere in seguito con Così parlò Zarathustra, di cui sub specie traductionis mi innamorai subito, se il privilegio di tradurlo (per l'Adelphi) non fosse stato 266
I m
riservato da Colli (gran pregiatore di quest'opera), al suo ex-discepolo, amico e condirettore dell'edizione critica di Nietzsche (gran spregiatore della medesima). Solo molto più tardi ho potuto realizzare questo mio sogno grazie a Evaldo Violo, direttore della B.U.R. L'incarico era proprio per me una fortuna multipla. Mi dava lavoro per un bel po' (due volumi per complessive millequattrocento pagine circa; mi faceva conoscere capillarmente, al culmine del mio periodo formativo, l'opera principale di un grande filosofo, cioè mi invitava infine a un banchetto di verità e di bellezza. Perché Schopenhauer, che Nietzsche esalta come personaggio grandioso che vive la sua filosofia e non si limita a enunciarla e come profondo moralista, è inoltre un potente artista e un grande stilista. E questo significa però che non solo è chiaro ed efficace, ma anche "facile" da tradurre, se si ha il gusto della lingua classica. Perché se è vero che «ciò che si concepisce bene si enuncia chiaramente», secondo il famoso detto di Boileau, è anche vero che ciò che si enuncia chiaramente si traduce facilmente. Ma a tutte queste cose io allora non pensai. Non badai gran che neanche alle parole di allettamento, di raccomandazione e di ammonimento, con cui Colli accompagnò l'offerta. Mi aveva tirato fuori di banca offrendomi di lavorare per lui quando aveva scoperto che mi ero tradotto per mio uso personale (non per la pubblicazione) VEthica di Spinoza, uno dei suoi testi sacri. Mi aveva trattato con generosità e fiducia inaudite offrendomi di pubblicare tale traduzione e affidandomi poi la traduzione di Umano, troppo umano quando stavo per trasferirmi in Germania piuttosto per imparare che per perfezionare il tedesco. Questo gesto mi appare oggi di un'audacia quasi insana, specie considerando il rigore e la severità di Colli da un lato e le resistenze e 267
diffidenze che ho poi sperimentate da altre parti. Eppure i risukati, che sono da decenni sotto gli occhi di tutti, non sembrano dargli torto. Ho voluto rivedere dopo vent'anni la traduzione di Umano, troppo umano. Ero pronto a correggere errori (tutti i traduttori ne fanno) e a intervenire anche dal punto di vista dello stile. Con mia sorpresa, a parte pochi ma brutti refusi, non ho trovato, in due spessi volumi, quasi niente da correggere e modificare. Ne ho provato una soddisfazione particolare, perché mi son detto che chi legge la mia traduzione legge Nietzsche e non il traduttore (come fin troppo spesso capita). Spero di non essermi sbagliato. Ma per tornare a Colli: egli non aveva solo la severità e il rigore; aveva anche l'entusiasmo e la simpatia. Aveva evidentemente intuito in me la passione, che mi faceva affrontare compiti che solo risicatissimamente ero in grado di affrontare. E comunque proprio delle persone superiori saper avere fiducia in qualcuno al momento buono. E ciò è possibile solo se si possiede quello che Colli possedeva in alto grado, il genio della responsabilità: è una larghezza che è concessa da una strettezza. Con lui mi trovavo bene, vivevo una nuova vita e dissi sì per Schopenhauer come avevo detto sì per Spinoza e Nietzsche. Fu così che m'imbarcai in quella circumnavigazione del mondo, del mondo come impulso vitale {volontà) e immaginazione {rappresentazione), che fu una delle avventure più esaltanti della mia vita. Lo era già stata per molti, lo sarà ancora per moltissimi, perché chi passa attraverso quest'opera ne esce profondamente mutato, più ricco e più maturo. E un viaggio di esplorazione e anche di orrore, in cui però la gioia della scoperta e il senso di grandezza che vi domina riscattano tutto. Perché nel Mondo si adempie quello che per l'autore stesso era il compito della filosofia: die Erklarung der Welt, la 268
decifrazione del mondo. Se ne ricava una visione terribile, ma di prodigiosa unità e completezza. Senza parlare del fascino particolare che inerisce a quest'opera. Nell'aforisma 271 di Opinioni e sentenze diverse, intitolato Ogni filosofia è filosofia di un'età, Nietzsche dice: «La filosofia di Schopenhauer rimane l'immagine rispecchiante la giovinezza ardente e melanconica - non è un pensiero per persone adulte». Schopenhauer stesso aveva detto da vecchio del primo volume del Mondo, cominciato all'età di ventisei anni: «Una cosa del genere la si può scrivere soltanto in gioventù e per ispirazione». Ma il giudizio di Nietzsche illumina meglio di ogni altro sia il fascino dell'opera sia il suo limite passionale. Da allora, ad ogni modo, cominciò un'altra circumnavigazione, quella editoriale. Che solo adesso (a fine 2001) vede la conclusione, di nuovo grazie a Violo. Fatta per la Boringhieri, che aveva già dato fuori i Parerga e paralipomena, la traduzione doveva essere pubblicata nel 1979. Me lo comunicò Colli al telefono a fine 1978, esortandomi a "prepararmi". Ma all'inizio del 1979 Colli morì e tutto tornò in alto mare. La traduzione passò poi all'Adelphi. Ma l'Adelphi ebbe per molti anni vita difficile e la pubblicazione fu sempre rimandata. Intanto le altre case editrici, annusando il vento che spira, ossia il ritorno d'attualità di Schopenhauer, si sono affannate a tirar fuori le loro vecchie traduzioni del Mondo, e altre ne hanno approntate o ne approntano. L'Adelphi si è impegnata a pubblicare l'Opera omnia di Schopenhauer e per questo, oltre che per fedeltà a CoUi e alla casa editrice per la quale ho tradotto molti scritti di Nietzsche, ho aspettato per pivi di sedici anni che la mia traduzione vedesse infine la luce. Prima di uscire dall'organico dell'Adelphi nel 1997, il fondatore Luciano Foà (da me conosciuto a Firenze, quando io lavoravo in casa Colli e lui veniva a organizzare, sulla base dell'edizione 269
Nietzsche, la futura casa editrice), probabilmente per scrupolo verso l'amico defunto (Colli) e per porre fine alla mia lunga attesa, concordò con il direttore letterario la pubblicazione fra diciotto mesi. Ma dopo i diciotto mesi ancora niente si era mosso. Diedi quindi un preavviso di due anni, dopo i quali, non avendo frattanto ricevuto alcun segno dall'Adelphi, mi son visto costretto a spostare la traduzione verso un'altra casa editrice. La stessa alla quale, per fedeltà agli impegni presi, l'avevo a lungo negata, e che da anni mi offre preziose occasioni di collaborazione.
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I PARTE IV
L'ETERNO NIETZSCHE s
I
CINQUE CAUSERIES
1. Lou Salomé «Da quali stelle siamo caduti per incontrarci?» disse Nietzsche a Lou Salomé quando, nella primavera del 1882, la incontrò per la prima volta nella basilica di S. Pietro a Roma. Frase e incontro fatali, in un luogo grandioso, anche se poco adatto a tre scettici come loro due e il loro amico Paul Rèe, che correggeva appunti in un confessionale bene illuminato. Se non come una stella (fissa), come una meteora passò infatti Lou Salomé nella vita di Nietzsche, esaltandola fino alla suprema creazione e sconvolgendola fino al limite dell ' autodistruzione. Signorile, bionda, slanciata, ventunenne, tisica, con profondi occhi azzurri, Lou Salomé si trovava allora a Roma con la madre, ospite dell'amica Malwida von Meysenbug. A questa, che era amica anche di Rèe e di Nietzsche, era legata dalla lotta per l'emancipazione femminile. Colpita dalla cultura, dal carattere e dall'intelligenza di Lou (Louise), Malwida pensava che potesse diventare per Nietzsche l'interlocutrice di cui egli aveva bisogno. Lo stesso pensava Rèe. Questi aveva appena passato cinque settimane a Genova con Nietzsche e aveva capito che, nonostante il loro accordo sui "pregiudizi morali" degli uomini, Nietzsche si era incamminato per vie su cui egli non riusciva più a seguirlo. Nietzsche, in effetti, aveva appena composto un libro potente: La gaia scienza, che non era un libro né per 273
Rèe, né per Malwida e neanche per Jacob Burckhardt, che ne intuì la sconvolgente novità. Rèe aveva conosciuto Lou una sera, quand'era arrivato da Malwida e le aveva chiesto di restituire a un cameriere che lo accompagnava il denaro che si era fatto prestare per il viaggio dopo aver perduto il suo al casinò di Montecarlo. Nell'entusiasmo della "scoperta", aveva poi scritto a Nietzsche facendogli balenare la possibilità di trovare un'interlocutrice per il suo pensiero e forse una compagna per la sua vita. Anche Malwida scrisse a Nietzsche, il 27 marzo: «Una fanciulla molto singolare [...] mi sembra sia giunta nel pensiero filosofico all'incirca agli stessi risultati cui è giunto Lei, cioè all'idealismo pratico, con l'eliminazione di ogni presupposto metafisico [...] Rèe ed io desideriamo in pari misura di vederLa un giorno insieme con questa persona straordinaria». Parole, queste, importanti per l'interpretazione di Nietzsche, perché fanno capire chiaramente il messaggio laico e il carattere moralistico e non strettamente filosofico del suo pensiero: due cose la cui incomprensione ha finora inquinato e sviato le interpretazioni di Nietzsche. Per il momento Nietzsche se la prende comoda. Gode di una certa superiorità perchè Lou, sempre avida di conoscenze straordinarie, freme per incontrarlo e si arrabbia quando sa che, invece di venire a Roma, se n'è andato a Messina e vuole passare in Africa. Da Genova, il 21 marzo, Nietzsche aveva comunque risposto a Rèe: «Saluti la russa da parte mia, se ciò ha senso: ho sete di anime così. Anzi tra poco ne andrò a caccia. Mi servono per ciò che intendo fare nei prossimi 10 anni! Un capitolo del tutto diverso è il matrimonio - al massimo potrei adattarmi a un matrimonio di due anni, e anche ciò solo in vista di quel che dovrò fare nei prossimi 10 anni». È già dominato dal pensie274
ro dell'eterno ritorno e pensa di poter spadroneggiare. Ma ne avrà per poco. Lo scirocco, che non sopportava, un'altra lettera di Rèe e probabilmente altre forze naturali, lo fanno tornar su. Il 26 aprile Malwida ragguaglia la figlia Olga; «Indovina un po' con chi sono stata qualche ora ieri pomeriggio a Villa Mattei, e chi sto aspettando questa sera? Nietzsche. [...] era felice in modo commovente di essere di nuovo da me e ha dichiarato che da anni non viveva un'ora così felice. Poveretto, è davvero un santo, sopporta le sue terribili sofferenze con un coraggio da eroe, ma ciò nonostante diventa sempre piìi dolce, anzi quasi ilare, e lavora continuamente, benché sia quasi cieco [...] non ha assolutamente nessuno che lo curi, che lo aiuti, e ha pochissimo denaro». Risucchiato dalla personalità di Lou, Nietzsche incarica Rèe di comunicarle la sua proposta di matrimonio. Lou Salomé usciva da un'esperienza dolorosa fatta in Russia. Figlia di un generale di origine francese elevato dallo Zar Nicola I all'aristocrazia ereditaria e poi chiamato dallo zar Alessandro II a far parte dello stato maggiore dell'esercito, Lou Salomé, anticonformista e ribelle, morse il freno finché visse suo padre, da lei amatissimo. Ma quand'egli morì, si ribellò apertamente alla madre (tedesca, di cui portava il nome) e al suo ambiente sociale. Aveva da tempo abbandonato la fede in Dio quando conobbe Hendrik Gillot, pastore dell'ambasciata olandese a Pietroburgo. Gillot era un oratore brillante e un uomo affascinante. Le sue prediche erano divenute avvenimenti mondani. Lou gli scrisse chiedendogli un incontro. Cominciò una grande amicizia, durante la quale il pigmalione olandese trasformò la fanciulla in una donna sapientissima. Le fece studiare le religioni e le forme pure e spurie della religiosità, inoltre filosofia, logica, metafisica, gnoseologia, teatro. 275
Le fece leggere Kant e Kierkegaard, Rousseau, Voltaire, Leibniz, Fichte, Schopenhauer. Alla fine le permise di comporre per lui delle prediche, che scontentarono i credenti perché si discostavano dalla Bibbia. Insomma se ne innamorò. Vicina a tanto fuoco, Lou non rimase fredda ma neanche arse. Il pastore, di 25 anni più anziano, padre di due figlie coetanee di Lou e pronto ad abbandonare la famiglia, si ebbe un rifiuto. Riconobbe di essersi illuso. Ma da uomo nobile, non ne volle alla sua pupilla. Continuò a insegnarle e a proteggerla, procurandole anche la cresima, necessaria per espatriare. Spinta dalla tisi verso paesi più caldi, Lou abbandonò con la madre la Russia e il suo primo mentore innamorato. La cosa si sarebbe ripetuta con altri. Anche perché Lou sembra aver avuto sempre il problema della formazione e mai quello dell'amore e del matrimonio. Anche quando si sposò, nel 1887, coli'orientalista F.C. Andreas, lo fece a patto che il marito rinunciasse ai suoi diritti coniugali, e una volta che il marito cercò di forzarla, stava^per ucciderlo. Dopo quello di Gillot e prima di quello di Rilke e altri, fino a Freud, questo era il turno di Nietzsche. Sposandosi, fece dire Lou, avrebbe perduto la pensione. Il rifiuto dunque non ruppe l'amicizia né il progetto originario di Lou di vivere piacevolmente per un anno a quattro (con una signora anziana) in comunione cameratesca. Non tolse neanche le speranze d'amore a Nietzsche. Questi aveva infatti su Lou una forza, che una volta gli fruttò un bacio, certo a coronamento di una sublime consonanza. Fu sul Monte Sacro presso Orta, dove, in viaggio per la Svizzera, Nietzsche e Lou avevano fatto tappa con Rèe e la madre di Lou. Questi ultimi si arrabbiarono per l'attesa imposta loro dai due obliosi gitanti. Un altro culmine dei rapporti con Lou, Nietzsche lo toccò in agosto a Tautenburg, dove organizzò una 276
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villeggiatura per sé, per lei e la sorella Elisabeth. Con Lou faceva lunghe passeggiate nei boschi e discuteva a giornate intere, talvolta fino a tarda notte. Ebbero momenti di comunione sublime e Nietzsche si credette vicino alla realizzazione dei suoi sogni. Ma Lou era piti sensibile alle sue teorie che alle sue attenzioni. Teneva in segreto un diario per Paul Rèe, in cui notava anche ciò che la separava da Nietzsche. «Nietzsche nasconde in se stesso, come una vecchia rocca, alcune segrete oscure, sotterranei occulti, che non risultano a una conoscenza superficiale, ma che possono contenere la sua più vera essenza». Aggiunge un presagio: «E strano, ultimamente sono stata colpita con improvvisa violenza dal pensiero che forse un giorno potremmo addirittura fronteggiarci come nemici». Ma riconosce: «Faremo ancora in tempo a vederlo annunziatore di una nuova religione, che annovererà eroi tra i suoi discepoli». Quando però Nietzsche, che in passato aveva incoraggiato Rèe a sposarla, prese a parlarle dei difetti di costui, decise anche la propria sorte. Questo soggiorno segnò anche il punto più basso dei rapporti di Nietzsche con la sorella, nemica di Lou. In seguito le cose si capovolsero, Lou andò in basso e la sorella in alto, come accade. Ma ciò solo nel maggio 1883. Perchè intanto, anche se fino all'ultimo incontro con Lou e Rèe a Lipsia in ottobre l'amicizia era stata formalmente salvata, le cose peggiorarono. A dicembre ci fu una crisi nei rapporti con Lou e Rèe. Conseguenza: depressione, idee di suicidio, abuso di narcotici. A Natale Nietzsche scrive all'amico Franz Overbeck: «Quest'ultimo boccone di vita è stato il più duro che io abbia dovuto masticare finora ed è ancora possibile che ne rimanga soffocato». Nell'estate 1883, istigato dalle "rivelazioni" della sorella circa quel che si era detto o fatto dietro le sue spalle, Nietzsche rompe definitivamente i rapporti con Lou e Rèe. 277
Ci sono abbozzi di lettere violente a Rèe, a suo fratello Georg e alla madre di Lou. Al principio Lou aveva, per Nietzsche, «lo sguardo acuto dell'aquila e il coraggio del leone». Ora: «è passato un uccello, non era un'aquila». Il 1882 era stato per lui «illuminato dallo splendore e dalla grazia di questa giovane anima, veramente eroica», in cui desiderava avere una discepola ed eventualmente un'erede e continuatrice. Ora scopre che ha «i seni falsi», che «per la sua moralità effettiva il carcere e il manicomio potrebbero essere i luoghi più adatti a lei». Ma anche allora sente la sua mancanza, per le sue qualità e finanche per i suoi difetti. Perché «nessuno è così libero dai pregiudizi, così intelligente e così preparato per il mio genere di problemi». Fu un amore mancato in cui Nietzsche non diede prova di saggezza. Ma pur così, è difficile esagerarne l'importanza. Lo dice Nietzsche stesso in una lettera alla sorella del 1884: «Una cosa è certa: di tutte le conoscenze che ho fatte, la più preziosa e feconda è stata per me quella della sign^prina Salomé. Solo quando la conobbi divenni maturo per il mio Zarathustra». Ma nello Zarathustra spicca anche l'eterna condanna: «l'animale umano più repellente che ho trovato, l'ho battezzato parassita: non voleva amare e voleva tuttavia vivere d'amore». 2. Louise Ott Il 16 dicembre 1876 Nietzsche scrisse da Sorrento una lettera a Louise Ott. Louise Ott fu un amore mancato, anzi l'amore mancato di Nietzsche. Ma, per l'intensità della relazione, soprattutto dalla parte di lei, non si sa quanto mancato. E noto che Nietzsche fu, diciamo così, sfortunato in amore: non ebbe mai un 278
vero amore, non visse mai con una donna more uxorio e l'unico vero tentativo che fece di conquistarne una, Lou Salomé, fallì in modo grottesco. Si sa meno che ebbe, tuttavia, relazioni affettuose con varie donne, che lo aiutarono, gli furono vicine in più modi (una volta anche con un contributo pecuniario), e rimasero affezionate alla sua memoria anche dopo la pazzia e la morte. Con le sue premure, le sue maniere distinte e la sua profondità, forse anche con i suoi mali, egli faceva colpo sulle donne e le legava a sé con saldi legami intellettuali e affettivi. Un episodio poco conosciuto, per esempio, è quello della conoscenza che fece in treno, con il suo allievo Brenner, viaggiando da Ginevra a Genova (erano diretti a Sorrento), della baronessa Claudine von Brevern e di Isabella von Pahlen (poi Ungern-Sternberg). Nietzsche stabilì con loro una relazione cordiale, che solo le sue cattive condizioni di salute all'arrivo gli impedirono di coltivare. La von Pahlen in particolare rimase da lui impressionata. Per caso, proseguendo il viaggio con mezzi diversi, Nietzsche la incontrò nuovamente a Pisa. Visitò con lei la città tra i mugugni di Paul Rèe, diretto a sua volta a Sorrento, il quale era convinto che la compagnia di Isabella non facesse bene alla salute dell'amico. Nietzsche le aveva parlato in treno dei moralisti francesi; ora le parlò della selezione programmata delle specie [già allora!], del matrimonio e del dovere dello Stato di vietarlo alle persone inadatte. Ancora meno si sa che Nietzsche suscitò in una donna bella, sensibile e spirituale un sentimento che, da chiari indizi, non si può che chiamare amore. Louise Ott fu, con Reinhart von Seydlitz, l'ultimo acquisto che Nietzsche dovette a Wagner, nel senso che conobbe l'una e l'altro a Bayreuth, in occasione della rappresentazione Anello del Nibelungo. Il pittore e scrittore Seydlitz 279
era presidente dell'associazione wagneriana di Monaco e la Ott era una fervente wagneriana. Con Seydlitz Nietzsche avviò subito una cordiale corrispondenza, che finì col portare a Sorrento, verso la fine del soggiorno di Nietzsche, il nuovo amico con la moglie ungherese Irene; provvidenzialmente per lui, bisogna dire, perché i Seydlitz arrivarono proprio quando Paul Rèe e Albert Brenner se n'erano andati, e furono di molto aiuto a Nietzsche, afflitto com'era dai suoi mali assidui quanto misteriosi. Louise Ott, nata von Einbrod, è descritta come «eccezionalmente graziosa». Era di origine baltica, come MathiIde Trampedach, a cui Nietzsche aveva fatto quattro mesi prima, tramite l'amico Hugo von Senger (che poi la sposò), una proposta di matrimonio subito dopo averla conosciuta. Nel 1871 la Ott era passata da Strasburgo a Parigi, dove viveva con suo marito in seno alla ricca società protestante. Era colta, musicalmente dotata e lei stessa cantava. Nietzsche la conobbe probabilmente tramite il musicologo alsaziano Edouard Schui;p già nelle prove preliminari di luglio. In Ecce homo la cita come r«affascinante parigina» che cercava di consolarlo quando egli andò via da Bayreuth «per due settimane» (in realtà sette giorni, dal 6 al 12 agosto) «piantando tutto a mezzo». Si sparse la voce che Nietzsche volesse fare di Louise la compagna della sua vita. Ma Louise era sposata e aveva un bambino. Nietzsche si ritirò. Trasformò il suo slancio amoroso in amicizia, imitato da Louise. Che altro non poteva fare, ma che portò nell'amicizia il calore e la tenerezza di un vero amore. Nietzsche non volle, forse, strapparla alla sua vita solida e sicura per trascinarla nell'incertezza della propria. Ma che cosa significasse questa decisione: se un gesto di correttezza e d'altruismo o invece una paura e un rifiuto di responsabilità, cioè una fuga determinata proprio dall'atteggiamento aperto della donna, non si può dire. 280
La decisione gli costò. «Si fece buio intorno a me quando Lei lasciò Bayreuth», le scrive da Basilea il 30 agosto. E prosegue: «Lei può prendere in mano questa lettera senza timore. Noi vogliamo tener fermo alla purezza dello spirito che ci ha fatti incontrare e rimanerci fedeli nel bene. Penso a Lei con un tale affetto fraterno, che potrei voler bene a Suo marito, perché è Suo marito» ecc. «Le Sue parole, che mi suonano così nobili, pure e leali, non potevano che penetrare a fondo e con forza nel mio cuore. Sono stata così felice!» è la vibrante risposta di Louise. Che continua: «Com'è bello che ora si possa arrivare tra noi a una sana, schietta amicizia, così che possiamo pensare l'uno all'altra in tutta spontaneità, senza che la coscienza ce lo proibisca [...]. Ma», soggiunge, «non posso dimenticare i Suoi occhi; il Suo profondo sguardo affettuoso è sempre posato su di me, come allora [...]. Sì, certo! Mi mandi le Sue opere debbo imparare a conoscere meglio il mio caro amico [...] Ma non faccia menzione della Sua e della mia lettera Tutto quanto è accaduto finora rimarrà fra noi - è il nostro sacrario, per noi due soli». Firma: La Sua nuova sorella Louise. Gli scrive ancora l'S settembre. «Mio caro amico, come troverò le parole per esprimere la gioia che ho provato nel ricevere il Suo bel libro? [...] Ho sentito tanto calore in cuore che non ho potuto fare a meno di piangere, eppure non era altro che felicità! [...] Vorrei leggere la Sua opera con Lei e ad ogni passo che non mi è chiaro fermarmi e chiederle spiegazione». Però intoppa, poverina, nel terribile anticristianesimo di Nietzsche. Dolcemente, innocentemente gli si oppone, quasi chiedendo femminilmente venia: «Sa Lei che sono cristiana? Trovo la mia Bibbia un libro bello, puro, grande [...]. Lei pensa che l'influsso del cristianesimo sia e rimanga negativo? Fin dall'infanzia non ho sentito dire che bene della mia religione - [...] Perché non crede in 281
quel che Cristo ha promesso e predicato? Caro signor Nietzsche, Lei ha un animo troppo nobile per ridere di me - anche se mi trova puerile - perciò io voglio essere sempre franca e aperta con Lei. Il Suo scritto su Wagner mi ha già allargato lo sguardo e rifletto molto su tutto quanto vi ho trovato, tuttavia credo che solo a grandi studiosi e a singoli spiriti particolarmente dotati sia concesso di sentirsi felici e appagati della sola filosofia, senza la religione. Crede Lei a una vita eterna dell'anima? Accolga tutta la mia sincera amicizia. Louise». «La tua anima morirà prima ancora del tuo corpo», dice Zarathustra al funambolo caduto. Il biografo di Nietzsche Janz dice che Louise fa pensare alla Margherita di Goethe, che chiede a Faust come la pensa in fatto di religione. Nietzsche risponde con imbarazzo. «Questa nuova amicizia», dice, «è come il vino nuovo, molto piacevole, ma un po' pericoloso forse. Almeno per me. - Ma anche per Lei, se penso in quale libero pensatore Lei si è imbattuta! In un uorno che non desidera altro che perdere ogni giorno una credenza rassicurante, che cerca e trova la sua felicità in questa liberazione dello spirito ogni giorno più spinta! Forse io voglio essere libero pensatore più di quanto non possa». Poi chiede se «non c'è un buon ritratto di una certa bella donnina bionda». Con questa lettera, ad ogni modo, Nietzsche mantiene le distanze. Louise è portata a superarle e in ottobre o novembre fa \xnavance-. gli scrive che vorrebbe essere una fata benefica per potergli donare la salute con la sua bacchetta magica; vorrebbe venire a trovarlo e consolarlo nella sua solitudine. Vorrebbe mandargli nella stanza un raggio di sole che lo rendesse allegro e felice. Non è sempre «d'accori» (gli scrive in francese, per sentirsi più libera) con le sue idee, ma è sicura che lui e lei si accorderebbero al di là di tutte le divergenze nella 282
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gioia di rivedersi. Omnia vincit. Se lui non verrà a Parigi, lei gli farà visita a Basilea «dans la saison des fleurs». Si augura un «arrivederci» perché non dovranno più perdersi e si firma «Votre petite soeur Louise Ott». Non è difficile immaginare lo struggimento e le altalene interiori di Nietzsche, che aveva deciso di no, ma aveva un disperato bisogno dell'amore e della dedizione di una donna. Queste altalene si capiscono bene dalla lettera con cui, il 16 dicembre, si decide a rispondere. «Spero, mia riverita amica, che Lei mi voglia ancora bene, benché io Le sia debitore da tanto tempo di notizie sul mio soggiorno e la mia salute». A tutti gli amici è andata come a lei, dice, perché i suoi mali non gli consentono di curare la corrispondenza. «Anche oggi faccio solo uno strappo alla regola e temo di dover pagare il fio anche per questo. Ma è tale il desiderio di sentire qualcosa da Lei... magari notizie dettagliate mi dia questa gioia natalizia!» Vuole «strapparLe qualche riga - anzi tante righe». Le chiede di scrivere un breve romanzo da fargli leggere. «Forse è un suggerimento folle: e allora mi dica che ha riso di me: mi fa piacere sentirlo». Louise scrive ancora il 21 gennaio 1887. Dice che è stata malata e che ora può capire quali sono le sue sofferenze. Ha riso della proposta di scrivere un romanzo. Non è capace di avere una sola idea. «No, no, amico mio - voi non conoscete la vera Louise... quella che voi amate è una creazione della vostra bella e calda immaginazione». Ma nonostante questo cedimento, resistette. Per non dovere forse, come Enea, abbandonare una Didone in lacrime, Zarathustra dice: «Verace - così io chiamo colui che va nei deserti senza dèi e ha spezzato il suo cuore venerante. Nella sabbia gialla e riarso dal sole, egli lancia sì sguardi furtivi e assetati verso le oasi ricche di 283
sorgenti, dove la vita riposa sotto alberi scuri. Ma la sua sete non lo persuade a diventare come questi amanti del comodo: giacché dove sono oasi, là sono anche idoli. Famelica, violenta, solitaria, senzadio: così vuole se stessa la volontà leonina. Libera dalla felicità dei servi, redenta da dèi e adorazioni, impavida e terribile, grande e solitaria: tale è la volontà del verace». Gli intervalli nella corrispondenza si allungarono. Dopo cinque anni di interruzione, ancora un fremito: un nuovo, piccolo contatto. Formalità da parte di Nietzsche, piena cordialità da parte di Louise. Poi più nulla. Louise Ott sarebbe potuta diventare per Nietzsche la Diotima che Susette Gontard fu per Hòlderlin. Ma Nietzsche non volle. Per buoni o cattivi motivi. Fu per lui l'unica occasione d'amore, che non colse. 3. Wagner Nietzsche non ebbe solo un amore mancato, con Lou Salomé o, piuttosto, con Louise Ott: ne ebbe anche uno riuscito. Con chi? Con Richard Wagner. «Un amore con Wagner!» protesterà il lettore. «Sarà stata un'amicizia!» Certo, fu un'amicizia. Ma non come le altre, per quanto forti ed elevate. Fu un'amicizia che differisce dall'amore per la mancanza di rapporti sessuali, ma non per la passione e il destino che è di ogni passione. Il lettore potrebbe ancora brontolare: «Un amore riuscito, poi. Non litigarono di brutto e non rimasero nemici per il resto della vita?» Sì, litigarono di brutto e rimasero nemici per il resto della vita: fu anche un odio riuscito. Ma soprattutto litigò Nietzsche, perché ben presto Wagner si chiuse nel silenzio e nel rifiuto. Non volle far altro, anche se del "tradimento" continuò a soffrire, e continuò anche a sognare Nietzsche, 284
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sotto forma di incubo naturalmente, come ci dicono. Nietzsche, invece, in più di un momento, sarebbe stato tutt'altro che alieno dal rappacificarsi. Ma un amore è riuscito non quando dura, bensì quando genera. A questa stregua, quello di Nietzsche per Wagner fu riuscitissimo. Non solo per le opere, non poche né trascurabili, che Nietzsche scrisse su, per e poi contro Wagner, ma anche e soprattutto per il potente impulso alla crescita che tale amore fu per lui. È questo l'effetto di ogni vero amore, come ben comprese colui che disse: «L'amour c'est beaucoup plus que l'amour». Mentre non lo comprese il suo connazionale che cantò «Que reste-t-il de nos amours?». Certo, tutto quel che comincia finisce e dei nostri amori non resta niente. Ma si può dire che siano stati vani? Sarebbe barare con la vita. In particolare perché ogni amore genera figli, di una natura o dell'altra. E Nietzsche, grazie al suo amore per Wagner, ne generò molti, in sé e perciò anche fuori di sé. Fece come Hegel dice che fa chi si innamora: costui avrebbe già deciso in cuor suo di accasarsi. E ciò perché è ormai maturo per generare. Così anche Nietzsche: al tempo dell'incontro con Wagner era maturo per crescere e generare, cioè per incendiarsi e ardere. Lo disse più tardi a Venezia: «Insaziato come fiamma / Qui ardo e mi consumo./ Luce diventa tutto ciò che tengo,/ E ciò che lascio, carbone e fumo:/ Fiamma son io sicuramente». Il fuoco andò a cercarselo a Tribschen. Qui, in una villa solitaria sul Lago di Lucerna, viveva, con Cosima von Bùlow, Richard Wagner. Nietzsche lo aveva conosciuto poco tempo prima a Lipsia in casa della di lui sorella. Questa era amica della signora Ritschl, moglie del famoso filologo che aveva procurato a Nietzsche il posto di professore a Basilea (senza esame). Wagner volle suonare il suo Meisterlied per la signora Ritschl, che era presente. 285
Questa disse che conosceva già quella musica. Stupore di Wagner. Chi gliel'aveva fatta conoscere? L'allora venticinquenne Friedrich Nietzsche. Wagner, allora cinquantaseienne, volle conoscerlo. Esplose l'amicizia. Wagner invitò Nietzsche a Tribschen. E fu così che una bella mattina di primavera (1869), Nietzsche si fermò indeciso davanti al cancello della villa di Wagner. Sentì un accordo doloroso, che si ripeteva. Era: «Mi ha ferito colui che mi ha svegliato» (terzo atto del Sigfrido). Dal lunedì seguente, quando Nietzsche tornò a pranzo, fu la passione scatenata. Le sue tappe principali furono, da parte di Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, Giri d'orizzonte di Bayreuth, Inno all'amicizia, Appello ai tedeschi, Richard Wagner a Bayreuth-, dopo la rottura: l'aforisma 279 della Gaia scienza (Amicizia stellare), Il caso Wagner e Nietzsche cantra Wagner. Wagner fece in pieno la sua parte, visse l'amicizia con Nietzsche con sincero trasporto, anche se sempre entro il limite della superiorità sua e subalternità del discepolo. L'aforisma 74 di Opinioni e sentenze diverse dà un chiaro aper^u della strumentalizzazione e delle sbavature di questa amicizia: «E cosa che offende irreconciliabilmente lo scoprire che, là dove si era convinti di essere amati, si era considerati solo come suppellettili e ornamenti di camera, con cui il padrone di casa poteva sfogare con gli ospiti la sua vanità». Tuttavia, il protagonista di questa amicizia fu Nietzsche. Perché Io scopo che questi inconsapevolmente perseguiva in essa, crescere e moltiplicarsi, era più forte e più ampio di quello che scientemente vi perseguiva Wagner: alleanza a scopo difensivo e offensivo. Fu il bisogno di Nietzsche che fece da detonatore, poi da guida e infine, quando fu saziato, da affossatore del sodalizio settennale. Le ultime volte Nietzsche e i Wagner si incontrarono a Sorrento a fine 1876, dove Nietzsche si trovava con 286
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Malwida von Meysebug e amici e i Wagner alloggiavano non lontano da loro. Ma già allora erano accadute varie cose tra loro, che avevano mostrato chiaramente a Wagner l'intenzione di Nietzsche di ritirarsi dall'amicizia. Finché, nel 1878, Wagner spedì il Parsifal a Nietzsche e Nietzsche Umano, troppo umano a Wagner, entrambe le opere con dediche elaborate. «Nell'incrociarsi dei due libri mi parve di sentire una nota ominosa. Non era come se si udisse il risonare di due spade incrociate?» dice Nietzsche. Da parte sua Wagner capì che Umano, troppo umano era scritto soprattutto contro di lui e da allora, di Nietzsche, non volle più sapere. Quando, nel luglio 1882, Lou Salomé e la sorella di Nietzsche andarono a Bayreuth per il Parsifal e cercarono di far rappacificare i due ex amici, Wagner, al sentire il nome di Nietzsche, uscì dalla stanza, ingiungendo di non nominarlo più in sua presenza. Nella sua coerenza, l'atteggiamento di Wagner nei riguardi di Nietzsche assurge a una certa grandezza. Deluso, "ingannato", egli non volle mai prendere in considerazione un riawicinamento. Dopo la sua morte, le lettere scritte da Nietzsche a lui e a Cosima furono bruciate, non senza danno per i posteri, perché qualcuna almeno, che fu letta da altri, era, si dice, bellissima. Quanto a lui, Nietzsche soffrì moltissimo della perduta amicizia e certo anche di un acuto senso di colpa. Nel 1882, con Lou Salomé, volle tornare a Tribschen. I Wagner non c'erano più. Nietzsche rimase a lungo pensieroso, col capo chino, a tracciar segni nella sabbia. Quando sollevò il capo, Lou vide che piangeva. Anche qualche altra volta Nietzsche sperò di rappacificarsi e vi si preparò spiritualmente. Ma Wagner fu irremovibile. Abbiamo detto che in quest'amicizia Wagner era interessato. Ma il suo interesse non era illegittimo, era quello di ogni valido artista che cerca alleati perché la 287
sua arte stenta a farsi accettare (bellissima la lettera che scrisse al suo difensore parigino Baudelaire). Wagner, in un certo senso, non faceva che applicare il detto di Zarathustra: «Al mio amore offro me stesso e il prossimo mio come me stesso». Ma, a suo modo, anche l'atteggiamento di Nietzsche è esemplare. Egli appare meno leale e oggettivamente non lo fu, donde le critiche che gli si fecero e gli si fanno. Ma soggettivamente fu adamantino: la sua dedizione fu sincera, totale e disinteressata. Proprio per questo, e a parte la prepotenza di Wagner, servita di tutto punto da Cosima, dovette infine scoprire che non era veramente libero di disporre di sé: doveva obbedire a sua volta alla chiamata della grandezza. Quando, nella compattezza del suo atteggiamento, cominciò ad apparire qualche crepa, egli scrisse, a se stesso prima che ad altri (1873): «Non riesco a immaginare come si potrebbe avere verso Wagner, in tutte le cose essenziali, una fedeltà più grande... Ma in piccoli punti accessori... devo conservare a me stesso una certa libertà; .. .solo per poter conservare quella libertà in senso superiore». Ma poi, quando la moneta cadde (come dicono i tedeschi), rivelò: «il nostro compito: questo tiranno dentro di noi si prende una terribile rivincita per ogni tentativo che facciamo di evitarlo... di metterci alla pari di coloro cui non apparteniamo». Nietzsche era per natura dolce e mite, amante della pace e dell'amicizia, sensibilissimo al soave vangelo cristiano; era però anche amante dell'«aspra verità» e vocato all'onestà intellettuale, e la sua vita fu tutta una lotta contro la sua natura e quasi contro natura, cioè contro la pietà, la fedeltà, la bontà, l'amicizia in quanto venerazione e il cristianesimo. Dovette combattere Wagner per non esserne soffocato, ma non mancò di gratitudine: «Non avrei potuto sopportare la mia gioventii senza la musica di Wagner», disse. E anche: «Penso di conoscere meglio di ogni al288
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tro le inaudite capacità di Wagner, i cinquanta cosmi di straordinari incanti... chiamo Wagner il grande benefattore della mia vita». L'affinità e la comune sofferenza, disse ancora, «riuniranno per l'eternità i nostri nomi». E infine: «Per alcuni anni, che appartengono ai più cari della mia vita, sono stato legato da rapporti di profonda confidenza e di intima intesa con Richard Wagner e la signora Cosima Wagner. Se oggi sono tra gli avversari del movimento wagneriano, è chiaro che dietro a ciò non si nascondono motivi meschini...». Come si vede, Nietzsche tentò, anche nel periodo negativo, quando la rottura era diventata irreparabile e fomentava, da parte di Wagner e Cosima, una guerra con tutti i mezzi, quelli meschini non esclusi, di tenere sempre alto il ricordo e il significato della precedente amicizia e passione, sebbene non rinunciasse a sua volta a rispondere alle provocazioni in maniera risentita e anche sistematica. Sempre difese però, con ogni sorta di ragioni, la validità del suo gesto di affrancamento. Ma la più grande difesa non fu diretta bensì indiretta, trasversale. Essa assurge però a una vera apoteosi di quella che Nietzsche considerava evidentemente una gesta di altissimo valore spirituale. Questa difesa è nascosta, con sottigliezza stupefacente, sotto la lode che nell'aforisma 98 della Gaia scienza è fatta a Shakespeare, per la fede che ebbe in Bruto, quale lo raffigurò «nella sua tragedia migliore, che viene ancor oggi chiamata con un falso nome» {Giulio Cesare), e per l'esaltazione nella figura di Bruto deir«amore della libertà delle grandi anime». Thomas Mann, nel suo saggio su Nietzsche, attribuisce al gesto di separazione di Nietzsche da Wagner un grande valore per lo sviluppo della cultura europea. Ma ciò è vero solo in quanto si consideri che un tale valore spetti allo sviluppo autonomo di Nietzsche, che comincia appunto da quel gesto. Perché di per sé le baruffe di 289
Nietzsche e Wagner ricoprono, sotto una superficie agitata, una calma di fondo, o meglio una durevole e non intaccabile fratellanza. Nietzsche, infatti, volle combattere in Wagner il mito teutonico e soprattutto la décadence. Ma non si accorse che a sua volta, con la viscerale avversione al cristianesimo, concepito come la più grande «sventura» per il popolo tedesco, con il nichilismo, la trasvalutazione dei valori e la volontà di potenza, che erano l'altra faccia, l'accelerazione della décadence, era anche lui dentro questa stessa décadence, come, se non piiì di Wagner. Il loro dramma, di marionette della storia, era appunto questo. Wagner rappresentava la prima faccia della décadence e Nietzsche, di più di trent'anni più giovane, era destinato a rappresentarne la seconda, che reagiva con la violenza al morboso intorpidimento ed estetismo della prima. 4. Gli amici «Nietzsche mette continuamente a nudo se stesso». «Nei suoi rapporti personali, nelle sue amicizie con uomini e donne, Nietzsche fu sempre, in primo luogo, un ingenuo, e in secondo luogo un maldestro sopraffattore. Con Rohde, con Wagner, con Lou von Salomé fu la stessa cosa. Anzitutto egli puntava tutta la sua vita su quell'amicizia, svuotava se stesso di fronte all'altro, i suoi pensieri e le sue azioni erano offerti in olocausto. Ma subito dopo voleva, dall'altro, tutto in cambio». Così dice di Nietzsche uno dei suoi più grandi esaltatori, Giorgio Colli. E già Charles Andler, autore di una monumentale biografia di Nietzsche in tre volumi, aveva detto: «E stato sempre un pericolo avvicinarsi a Nietzsche. Né la sorella né la madre né Richard Wagner né i suoi migliori amici, Erwin Rohde e Franz Overbeck, si sono avvicinati impunemente alla zona in cui Nietzsche si avvolgeva nei suoi 290
sogni e nelle sue esigenti illusioni. Egli li amava, ma li voleva pari all'idea che se ne faceva; e quando si rivelavano diversi, li ripudiava con brutalità». Aggiunge: «Non c'è un essere umano verso il quale sia stato giusto». Sicché «A torto si piccava di liberalismo». Colli e Andler non sono i soli a pensare così. Anzi, esiste al riguardo una specie di consensus gentium. Tuttavia, se si dice solo questo, si fa non poco torto a Nietzsche. Bisogna tener conto di alcune altre cose, che si ricavano da queste altre frasi. «In fondo, Lou Salomé doveva mancare di generosità, nonostante fosse devota a Dio. Al primo disaccordo veniva fuori un egoismo di bambina ritardata, una natura felina crudelmente perseguitata dalla vita, che si difende e morde». Questo è solo un pensiero che Andler attribuisce a Nietzsche. Ma già il pensare che Nietzsche potesse averlo deve far sospettare quella che era una verità importante: il torto non era tutto e solo di Nietzsche. Poi, se «la stima ammirativa di Lou Salomé era cresciuta [per Nietzsche dopo Tautenburg], segno che ella stessa era 'cresciuta di alcuni pollici', come scriveva Paul Rèe» (Andler), è perché evidentemente Nietzsche non toglieva soltanto, ma anche e soprattutto dava. E infine, se Nietzsche stesso scrive a Overbeck: «Con tutta la mia ragione, resto un essere appassionato e impulsivo. La mia solitudine, più dura e piìi diventa un pericolo», è perché l'uomo di genio non è libero come l'uomo «normale»: è vissuto dal suo genio, e quel che gli resta è «compensazione», ossia scompenso disordine e dolore - non il regno del pacifico privato possesso di sé. Perché sarebbero irritabili i poeti, come si dice {genus irritabile vatum), se non fossero strapazzati e soggiogati dal genio della poesia? In amicizia, come in ogni altro genere di rapporti anche intimi, è necessaria la mediazione, la "diplomazia", la "politica". Perché solo la mediazione, la diplomazia e la politica traducono i propri sentimenti nel linguaggio del291
l'altro. Ma l'uomo di genio, se si tratta del genio della verità e della poesia, è per definizione votato alla spontaneità e alla passione, ha per così dire troppo contenuto per porgerlo ogni volta in forma adeguata, cioè mediata. Anche nei rapporti personali egli è la marionetta del suo genio, che dà e però anche chiede, al suo portatore ma anche agli altri, che certo non ci pensano. Il dramma di Nietzsche è in definitiva il dramma della grandezza, aggravato dalla solitudine in cui 10 caccia la diversità e contro la quale egli vanamente si ribella e spasima. Ma è questo anche il dramma dell'amore, che del resto fa parte della grandezza, e dell'amicizia, che fa parte dell'amore. «II destino lo riservava a una missione dove nessuna amicizia poteva seguirlo», dice lo stesso Andler. Con Lou Salomé Nietzsche voUe forzare il destino, rompere l'accerchiamento della solitudine, «ridivenire uomo», come le scrisse. Ma non ci riuscì. E quanto più si accanì tanto piti mancò il bersaglio; anche nei riguardi di Rèe, fedele alleato di Lou e già suo servizievolissimo amico. Fece torto alla libertà di lei e alla generosità di lui facendo anche torto, finché predominò Lou, alla sorella Elisabeth - per poi far torto, quando predominò quest'ultima, in modo ancora peggiore a Lou e a Rèe. Gli mancò la misura, la libera disponibilità di sè. Riuscì solo a servire la grandezza, per la quale soltanto ebbe la giusta misura. In Ecce homo condannò gli amici: «Lo dico in faccia a tutti i miei amici, che non hanno mai pensato che valesse la pena di studiare un qualunque mio scritto: dai minimi segni indovino che non sanno neppure cosa contengono. Per quanto riguarda, poi, il mio Zarathustra, chi fra i miei amici vi avrebbe potuto vedere qualcosa di piii d'una illecita presunzione, per fortuna del tutto indifferente?...». Non è né bello né giusto, per chi è un sole, essere considerato una candela. Quanto a lui, Nietzsche faceva piuttosto 11 contrario. Peter Gast diventava per lui un nuovo Mozart e Rèe un grande moralista. La stessa Lou Salomé fu da lui sopravvalutata, anche dopo che egli si fu staccato da lei. E pure 292
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questa, appunto, è una servitù della grandezza: la sproporzione. Il grande tende a far grande anche quel che non lo è. L'aforisma 279 della Gaia scienza. Amicizia stellare, per esempio, è esagerato se è dedicato a Rèe, come dice Lou Salomé (mentre è giusto se è dedicato a Wagner, come invece è, per una questione di date, sebbene Lou dicesse che Nietzsche le aveva confermato che era dedicato a Rèe). L'ipersensibilità, l'eccessività delle reazioni, che Lou rimprovera a Nietzsche come un fatto patologico, è una caratteristica generale di artisti e filosofi, è la base stessa della grandezza. Da ciò deriva anche che Nietzsche desse troppa importanza ad autori contemporanei che non la meritavano, come nota Colli, il quale sentenzia; «tutte le amicizie di Nietzsche furono fallimenti». Perfino con quella seconda madre che fu per lui l'amica Malwida von Meysenbug, Nietzsche finì col litigare: su Wagner. Anche se prima aveva per lei litigato con il suo caro amico Cari von Gersdorff, che aveva espresso su di lei giudizi irrispettosi. Bisogna tuttavia vedere se, nonostante contrasti, animosità e litigi, la forza e l'amore di Nietzsche non abbiano lasciato negli amici, per così dire al di sotto delle loro incomprensioni, segni così profondi e duraturi, e una tale risposta e gratitudine, da valere in realtà come un monumento elevato al suo culto e genio dell'amicizia. Non è affatto indifferente che «nessun uomo sia stato amato piìi fedelmente, più costantemente, più intelligentemente di Nietzsche», come dice Andler. Qui occorre naturalmente prescindere da Wagner, col quale un recupero, pur desiderato e sperato, era escluso già dalla grande differenza d'età (31 anni) e di prestigio. Il migliore amico di Nietzsche fu Franz Overbeck. Si può dire che questi, da quando conobbe Nietzsche, visse due vite, una per sé e un'altra, con la moglie, per Nietzsche; al quale pensò e provvide continuamente, senza mai desistere, deflettere, esitare. Con la sua fedeltà memoria 293
accortezza previdenza saggezza e abnegazione, fu un eroe e un martire dell'amicizia, e già per questo una garanzia della grandezza di Nietzsche, perché solo la grandezza poteva suscitarne una simile. Il suo nome rimane, nell'albo d'oro delle grandi amicizie storiche, affratellato a quello di Nietzsche. Un altro grande amico e anche discepolo di Nietzsche fu Peter Gast, alias Heinrich Koselitz. Questi visse in estrema povertà con incredibile generosità. Anche quando non aveva il poco denaro necessario per un viaggio desiderato o addirittura non aveva niente da mangiare per vari giorni di fila (gli capitò), rifiutava i prestiti che Nietzsche gli offriva. Fa da solo eccezione all'incomprensione degli amici di Nietzsche, perché (anche se si usa prenderlo sottogamba) fu il primo a capire, sebbene non il solo a servire, la grandezza di Nietzsche. Fu anche lui un eroe e un martire dell'amicizia. Quando Nietzsche morì, rischiò seriamente di suicidarsi. Del resto, intorno alla malattia e poi alla morte di Nietzsche ci fu un tale fiorire di amicizia e generosità che egli, se avesse potuto saperlo, si sarebbe accomiatato da questo mondo con animo racconsolato. Si smosse perfino l'arcigna Cosima Wagner, che Nietzsche aveva venerato ma che contro Nietzsche era stata, dopo la rottura, anche più accanita del marito (come capita). Erwin Rohde soffrì a sua volta moltissimo per non aver posto rimedio alla rottura con Nietzsche finché era stato in tempo. Ma molte altre figure, maschili e femminili, si aggirarono, quasi aleggiarono, in vita, intorno a Nietzsche, apprezzandolo e aiutandolo: Paul Lanzky, Josef Paneth, Resa von Schirnhofer, Heinrich von Stein, Meta von Salis, Louise Ott ecc. Ma Nietzsche stesso conservava nel tempio della sua venerazione, al di sotto dei contrasti e litigi, tutti i suoi amici, con cui nella sua interiorità continuava a colloquiare e a vivere. Anche 294
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oltre la loro morte, come si vide in particolare con Wagner. Pur criticandolo in profondità, infatti, egli continuò ad esaltarlo in maniera unica e inarrivabile. Ponendolo una volta addirittura al di sopra di Leonardo. 5. La pazzia Alcuni interpreti di Nietzsche, specie francesi, danno grande valore alla pazzia di Nietzsche. Per essi Nietzsche impazzì quando il suo spirito si aprì a dismisura e non potè più essere contenuto nella forma umana. Nella pazzia Nietzsche si sarebbe ritirato, in disdegno ai limiti umani, per vivere infine la vita libera dell'infinito per la quale era maturato. È un'interpretazione suggestiva, "poetica", che piaceva anche a Giorgio Colli, sebbene non l'accettasse. Che la forma umana sia limitata, come quella di qualsiasi altro essere vivente, benché l'uomo sia al vertice della scala, e che la realtà sopravanzi l'uomo da ogni parte, è indiscutibile. Ma è anche probabile che i suddetti interpreti si lascino affascinare dall'apparente originalità di questa idea e applichino a Nietzsche il modello àéì'Empedocle di Hòlderlin, il filosofo agrigentino che, cresciuto al di là dei limiti umani, cerca una morte di liberazione nel cratere dell'Etna. Veramente Hòlderlin, nuovo eroe pigliatutto della cultura e in particolare della filosofia attuale, fu in tutto, salvo nel tipo di ingegno, fratello e modello di Nietzsche. Ma questa verità, a cui sempre più studiosi ora si avvicinano, è rimasta nascosta, nella sua importanza, anche a coloro che si sono adoperati per scovare affinità fra i due poeti impazziti, a cominciare da Dilthey e a finire con gli interpreti odierni. Wagner la vide, ma solo nel lato negativo. Il 24/12/1874 Cosima annota nel dia295
rio: «Richard ed io riconosciamo con inquietudine il grande influsso che questo scrittore [HòlderHn] ha esercitato sul professor Nietzsche: ampollosità retorica, immagini improprie affastellate, pur con sentimenti alti e nobili; Richard dice però che questi novelli greci non lo convincono». Ma sebbene Hòlderlin e Nietzsche morissero entrambi pazzi, in nessuno dei due la morte, o la pazzia come morte dello spirito, fu quella del personaggio della suddetta tragedia hòlderliniana. Non che nella loro pazzia mancassero sprazzi di lucidità e di nobile creatività. Nel 1993 sono state pubblicate le "poesie della torre" di Hòlderlin, cioè quelle scritte durante la sua trentennale pazzia nella casa-torre sul Neckar a Tubinga, e anche di Nietzsche si sanno cose, dette o fatte durante i dieci anni di pazzia, che dimostrano il perdurare affievolito della precedente nobiltà intellettuale e morale. Già il suo famoso abbraccio del cavallo frustato dal vetturino a Torino, come anche alcuni dei suoi "biglietti della follia", inviati ad amici e personaggi dell'epoca subito dopo lo scoppio della pazzia ai primi di gennaio del 1889, sono sublimi. Ne trascriviamo uno, sia come esempio sia perché aiuta a capire come possa nascere la suddetta interpretazione. E quello inviato a Frau Cosima Wagner, Bayreuth: «Alla principessa Arianna, mia amata. Che io sia un uomo, è un pregiudizio. Ma io ho già vissuto spesso fra gli uomini e conosco tutto ciò che gli uomini possono provare, dalle cose più basse fino a quelle più alte. Sono stato Buddha tra gli indiani e Dioniso in Grecia, - Alessandro e Cesare sono mie incarnazioni, come pure Lord Bacon, il poeta di Shakespeare. Da ultimo, ancora, sono stato Voltaire e Napoleone, forse anche Richard Wagner... Ma questa volta vengo come Dioniso Ìl vittorioso, che farà della terra una giornata di festa... Non avrei molto tempo... I cieli si rallegrano che io sia qui... Sono stato anche appeso alla croce.,.». 296
Ma è un fatto, tenuto semicelato dal mito che si è creato su di lui, che la sua fu una pazzia furiosa. Se proprio se ne volesse fare un soggetto di letteratura, bisognerebbe pensare, più che a una tragedia filosofica come l'Empedocle, a un poema come l'Orlando furioso. Ma ci vorrebbe molta fantasia e trasfigurazione, perché i particolari della sua vita da pazzo sono miserevoli e orripilanti. Il suo amico Overbeck, che era andato a prenderlo a Torino per riportarlo in Germania, racconta in una lettera a Peter Gast che trovò Nietzsche «accoccolato in un angolo del sofà», intento a leggere le correzioni dei suo pamphlet Nietzsche cantra Wagner. Scorgendo Overbeck, gli si getta al collo e «scoppia in un fiume di lacrime, poi ricade in sussulti sul sofà». Gli si fa bere del bromuro e allora subito l'umore cambia: Nietzsche ride e parla del grande ricevimento preparato per la sera. Poi, «dando smisuratamente in alti canti e furori al pianoforte brandelli del mondo di idee in cui era vissuto alla fine, prorompeva fuori, e qui anche in brevi frasi, pronunciate in tono smorzato, lasciava percepire di sé, come successore del Dio morto, cose sublimi, meravigliosamente acute e orribili, interpungendo il tutto al pianoforte, cosa a cui seguivano di nuovo convulsioni e scoppi di indicibile sofferenza». L'incomparabile stilista, dice Overbeck, era ormai in grado di comunicare le estasi della sua allegria solo con le «espressioni pili triviali, danze e salti scurrili». Confidandosi con l'amico Bernoulli, Overbeck precisò poi che «a Torino gli si offrì uno spettacolo che incarnava in maniera orribile l'idea orgiastica del furore, quale era alla base della tragedia antica»: Nietzsche ballava nudo col fallo eretto. Di solito Nietzsche era calmo, ma*ilvylta emetteva di notte urli animaleschi e una volta fu sul punto di strozzare la madre. Dalla cartella clinica del manicomio di Jena, in cui Nietzsche fu rinchiu297
so dal gennaio 1889 al marzo 1890, si apprendono fra gli altri i seguenti particolari: «Fame da lupo», «Imbrattato di escrementi», «Tira calci a un altro malato», «Fa molto chiasso. Necessario l'isolamento», «Nonostante 3,0 di cloralio, strepita continuamente. Necessario isolarlo», «Accessi di collera senza motivo», «Urina nello stivale e beve l'urina», «Di notte dev'essere sempre isolato», «Rotta improvvisamente una finestra», «Si cosparge di escrementi», «Mangia escrementi», «Rompe un bicchiere per proteggere l'accesso a lui con schegge di vetro», «Prende l'infermiere capo per Bismarck». Quest'ultimo particolare conferma ancora una volta la sua megalomania. Il suo trasporto da Torino prima a Basilea e poi in Germania fu difficile. Quand'era fuori, ne faceva di tutti i colori: urlava cantava chiamava inseguiva o voleva abbracciare la gente. Si riuscì a fargli fare il viaggio con relativa calma mediante dei trucchi. Funzionavano soprattutto quelli che facevano leva sulla megalomania. Quando Nietzsche rifiutava di alzarsi dal letto per partire, gli fu detto .che si erano preparati per lui ricevimenti e festeggiamenti, ed egli si alzò, si vestì e seguì gli altri alla stazione. Qui, per evitargli di abbracciare le persone, gli si disse che ciò non si addiceva a un principe come lui. Quando il treno partì, Nietzsche cantava una canzone napoletana di pescatori {Pùcatore 'e 'stu mare 'e Pusillecoì) che sconvolse Overbeck. Durante il viaggio, il dottor Bettmann si applicò una dentiera posticcia che rendeva il suo aspetto spaventoso, per evitare che altri entrassero nello scompartimento. E nessuno entrò. Per l'arrivo a Basilea fu detto a Nietzsche che lui era un principe; che alla stazione l'aspettava una folla festosa, ma che lui doveva passarle davanti senza salutare e andare verso la carrozza che lo aspettava. Anche questo trucco funzionò. Nietzsche durò in questo stato quasi undici anni, spegnendosi lentamente. La morte sopravvenne a Wei298
mar nel 1900. Frattanto però era caduto nelle mani della sorella, la quale «prese in appalto la fama del fratello», come dice Anacleto Verrecchia. Elisabetta si fa dare dalla madre i diritti sulle opere del fratello, quindi si dedica a quelle attività che, diffondendo anche con la falsificazione di fatti e documenti la fama del fratello, accrescono la sua stessa. Ciò avviene specialmente col nazismo, che sceglie Nietzsche come suo ideologo. D'Annunzio la descrive quale «triste ombra della greca Antigone». Ma Peter Gast dice di lei: «Non fa un passo in città, viaggia solo in carrozza signorile, con vetturino e servo in livrea a cassetta. E diventata una vera dama di corte, bramosa di viaggi aristocratici e di codazzi». Per tutte queste ragioni, non si può fare l'elogio della pazzia di Nietzsche, che non ha affatto il valore di quella elogiata da Erasmo. Per conoscere ed esaltare il grande valore di Nietzsche occorre vedere Nietzsche, storicamente, qual era e voleva essere: allievo dei classici ed erede della grande cultura del suo paese, da moralistapoeta fedele alla sua vocazione, che lo aveva già portato, nell'aurora della sua vita, a santificare tutte le giornate e a considerare tutti gli uomini sacri. Era, sotto ogni altra cosa, un uomo dotato di un indomabile slancio cosmico, un innamorato della virtù e della verità e un odiatore della falsità e dell'ipocrisia.
299
NIETZSCHE E SCHOPENHAUER
1. Il chiasma Il luogo comune è che Nietzsche viene da Schopenhauer e che Nietzsche ha rovesciato il pessimismo di Schopenhauer in ottimismo tragico. Questo luogo comune, come in genere i luoghi comuni, non manca affatto di fondamento, ma è uno spezzone vagante, neanche lo scheletro di quel ricco organismo che è costituito dai rapporti tra la filosofia di Schopenhauer e il pensiero di Nietzsche; e noi non possiamo certo accontentarci di uno scheletro. In questo rovesciamento, inoltre, si contrappone con un chiasma la parte affiorante della filosofia di Schopenhauer, che sia pure impropriamente si può chiamare epidermica o caudale o sentimentale o dispositiva e che è anche la più prona all'influsso dell'epoca (il romanticismo) e la pili discutibile e discussa, alla parte fondamentale della dottrina di Nietzsche, che è la visione dionisiaca. Il pessimismo di Schopenhauer, pur essendo radicato nel suo impianto concettuale, non è in tutto e per tutto necessitato; potrebbe in realtà addirittura coesistere col suo opposto: perché nel mondo non c'è limite neanche all'ottimismo, oltre che al pessimismo, e perché soprattutto entrambi sono mezzi di cui la vita si serve per guidare dall'interno gli uomini, sicché non si prestano affatto a fondare un giudizio sulla vita. Dall'altro lato Nietzsche oppone alla filosofia di Schopenhauer, cioè alla sua costruzione concettuale. 300
Wt
soprattutto una visione poetica. La visione dionisiaca è l'affermazione tragica che vuole i beni della vita: bellezza, felicità, amore, integrità, crescita, realizzazione, potenza, ma sa che essi sono inglobati nel caos invincibile dell'esistenza, dunque accetta anche il disordine, la precarietà, la lotta, il dolore, la vecchiaia, la morte e tutti i mali che sono contorno e corteggio di tali beni. La scepsi, che in quanto pensatore Nietzsche ha soprattutto sviluppato, è "solo" il rovescio di tale visione, ne è la parte necessitata, derivata, in realtà una sua arma di difesa e offesa. Essa combatte la filosofia sistematica, che con la macchina autoaffermativa della logica si rende pensabile il mondo che non è pensabile e ribalta nell'universo i propri principi interni di ordine e razionalità, cioè principi antropomorfici finalizzati all'autoconservazione. Ma, sul piano strettamente filosofico, il rovesciamento del pessimismo nell'affermazione dionisiaca resta una parte secondaria del rapporto Schopenhauer-Nietzsche, quella primaria essendo costituita dalla differenza tra la dottrina metafisica dell'uno e il pensiero neo-sofistico dell'altro. La base della dottrina di Schopenhauer è appunto la novità metafisica che egli si vanta di aver apportato al sistema kantiano, dal quale aveva preso le mosse. Per Kant l'uomo non può, con la sua mente, andare oltre il fenomeno; e la metafisica, che per definizione va oltre il fenomeno, non può servirsi di strumenti empirici. Su tutta quanta la conoscenza umana scende così una pesante cappa di antropomorfismo, fenomeno, apparenza, che non consente nessun varco verso il nucleo sconosciuto del fenomeno, la cosa in sé, il noumeno, ossia la realtà qual è in sé e per sé e non qual è per noi, quale appare a noi. Schopenhauer si vanta invece di aver aperto questo varco, per quanto risicato. In che modo? Notando che la conoscenza è fatta non solo dal fenomeno, ossia dal301
l'assunzione nella mente, o piuttosto rappresentazione, del mondo esterno secondo le forme a priori dell'intuizione, spazio, tempo e causalità, ma anche dalla percezione della "volontà" per via interna da parte di ogni essere vivente e qui in particolare di ogni essere umano, dunque notando ciò e considerando, inoltre, che l'esperienza, nel suo complesso, ammette un'interpretazione. E questo il pensiero fondamentale che regge tutto il grande edificio del Mondo come volontà e rappresentazione, l'opera in due volumi di complessive millecinquecento pagine, in cui Schopenhauer tenta, a suo stesso dire, di esporre questo "pensiero unico". Nel dialogo su Schopenhauer e Leopardi, lodatissimo da Schopenhauer, nonostante le frecciate e le battute ironiche a suo riguardo, come un compendio preciso e completo della sua filosofia, il nostro Francesco De Sanctis riassume così, scherzosamente, la questione: D. Kant, mio caro, una volta caduto nel fenomeno, non ne potea più uscire. E la mia meraviglia è piuttosto, come non abbia conchiuso a rigor di logica, che tutto è fenomeno. Poiché se è vero che il fenomeno suppone il "noumeno" o la cosa in sé, è vero anche che secondo il suo sistema questa necessità è tutta subbiettiva, fondata sulla legge di causalità, anch'essa forma dell'intelletto. E credo non gli mancasse la logica, ma il coraggio. Perché, cominciato a filosofare per fondare la scienza, e trovatosi da ultimo nel vuoto, come si afferrò per la morale al categorico imperativo, così per la metafisica salì alla cosa in sé. Ma era un infliggere agli uomini il castigo di Tantalo; un dir loro: - la cosa in sé c'è, ma non la conoscerete mai, perché trascende l'esperienza. - Ora Schopenhauer ha fatto un miracolone, ha detto all'esperienza: - Dammi la cosa in sé - e l'esperienza glie l'ha data'. ' Francesco De Sanctis, Saggi critici, II, CES, Milano, 1941, p. 139.
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Ma come gliel'ha data? Ancora come fenomeno, non come noumeno. La cosa in sé è infatti il Wille, la Volontà, che crea e muove tutto e tutti, è sopra, sotto, dentro e dietro ogni fenomeno, "fodera" ogni fenomeno, ma ad essa noi abbiamo accesso diretto solo in quel fenomeno che è il nostro corpo. Il nostro corpo noi lo conosciamo in due modi: una volta come fenomeno, nella rappresentazione, e una volta appunto come noumeno, perché è esso stesso volontà, nella percezione interna. Noi però non conosciamo la volontà staccata da noi, qual è in sé e per sé, bensì la volontà qual è in noi, qual è per noi. Ma la volontà relativa a noi, sottoposta alle forme dell'intuizione, non è a sua volta fenomeno? «un fenomeno come tutti gli altri»?, chiede A. nel suddetto dialogo. E D. risponde: è «il primo fenomeno che ci può dar ragione degli altri». A. insiste; «... questo Wille potrebbe essere non il primo, ma un prodotto egli medesimo di qualcos'altro che non sappiamo e che sarebbe la vera cosa in sé». «Potrebbe», replica D., «Ma che importa a noi? Quello che ci importa è che il Wille si trova al di sotto di tutti i fenomeni, ed è la cosa in sé per noi: così è spiegato il mondo»^. Con questo è indicato il punto fondamentale che viene in questione nei rapporti filosofici tra Schopenhauer e Nietzsche. Nietzsche non crede al varco aperto da Schopenhauer verso la cosa in sé, e fin qui si può, volendo, essere d'accordo con lui, come con A. Nietzsche, però, non dà importanza al fatto che quel primo fenomeno consente di dare risposta a molte delle domande che si rivolgono alla filosofia e a cui di solito essa non sa dare risposta; cioè Nietzsche non dà importanza alla concezione schopenhaueriana della metafisica come ermeneutica dell'esperienza, e qui non possiamo più ^ Ibidem, p. 141 sg.
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essere d'accordo con lui. Così anche ci stacchiamo da A. per andare da D. Questa concezione si dimostra infatti straordinariamente feconda per la conoscenza ed è quindi, come tale, un fatto importantissimo. Anzi è uno di quei fatti che in filosofia sono i più importanti, se si sta al detto di vari filosofi e di Croce in particolare, che l'importanza di un filosofo è data, più che dai principi e dalle impostazioni generali, dai suoi apporti concreti al patrimonio delle conoscenze. Ora, tra i filosofi, Schopenhauer è quello che, grazie appunto alla teoria della volontà come strumento di connessione dell'esperienza, ha certamente fornito all'effettiva conoscenza delle cose, della nostra vita e del mondo, gli apporti più numerosi e cospicui; è quello che veramente si può dire abbia «spiegato il mondo», secondo quello che è per lui il compito della filosofia. E si può ammettere che il mondo, l'universo, la realtà non siano invece spiegati; che rimangano la "x" verso la quale, da Copernico in poi, l'uomo scivola secondo Nietzsche; ma con Schopenhauer la conoscenza dell'uomo, della vita e del mondo, di contro a questa "x", si allarga in tal modo, i punti di contatto con l'ignoto si accrescono in tal misura, e spesso in maniere talmente determinanti, che alla fine il mistero della "x" arretra di non poco, per far posto, in mezzo, a tanta chiarezza. L'atteggiamento di Nietzsche comunque non è giusto anche per un'altra ragione. Egli si è servito abbondantemente delle intuizioni e scoperte di Schopenhauer, rese possibili dalla suddetta impostazione metafisica, senza citarne l'autore, per esempio tutte le volte che parla della volontà non libera, della natura strumentale dell'intelletto, dell'inesistenza della materia, degli errori che si commettono nel risalire dagli effetti alle cause, della formazione dei pensieri simile all'assimilazione dei cibi, del 304
capire la natura in base a noi stessi e non viceversa ecc., quasi fosse lui l'autore di queste intuizioni e scoperte. Ciò avviene in particolare perché la stessa scepsi rivolta contro il suo "maestro" e "educatore" risale in realtà, salvo per la conoscenza della volontà, a Schopenhauer, che ha perfezionato o "drammatizzato" quella di Kant, sebbene Nietzsche abbia vissuto a sua volta tale scepsi in modo altamente originale e l'abbia espressa con la ricchezza di toni e di colori tipica del grande moralista-poeta che era. C'è in particolare, in questa scepsi nietzschiana, una tale furia negatrice, un tale violento sbarramento e totalitarismo, che essa costituisce un cortocircuito per ogni futuro tentativo di filosofia affermativa. Insomma è un nichilismo ante litteram^. Però Nietzsche non si rende conto che, facendo il vuoto sul piano teoretico e, per le stesse ragioni, sul ' Con una sola incrinatura, che ha riscontro in una pari incrinatura in Schopenhauer. Quella di Nietzsche è veramente, più che un'incrinatura, una sospensione, una perplessità, forse solo un piccolo labirinto di concetti in cui si è per un momento smarrito. Quella di Schopenhauer sembra una cosa molto più seria: sembra una rottura dell'ateismo, della scepsi e del pessimismo. Il passo di Nietzsche si trova nell'aforisma 344 della Gaia scienza. Qui, dopo essersi domandato «a che in genere la morale, se vita, natura e storia sono 'immorali'?», Nietzsche aggiunge: «Non c'è alcun dubbio, l'uomo verace [...] afferma con ciò un mondo diverso da quello della vita, della natura e della storia». Con ciò vuol dire che «anche noi uomini della conoscenza di oggi, noi senzadio e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall'incendio acceso da una fede millenaria, quella fede dei cristiani che fu anche la fede di Platone, per cui Dio è la verità e la verità è divina...». A ciò però osta, secondo lui, il fatto che solo l'errore, la cecità e la menzogna si dimostrano divini, e Dio invece come «la nostra più lunga menzogna». Il passo di Schopenhauer si trova nel cap. 41 del quarto libro dei Supplementi, cit. alla nota 5, p. 551. Dopo aver passato in rassegna gli orrori e le assurdità del mondo e della vita, Schopenhauer dice che deve per forza esistere un mondo diverso, che l'ordine o piuttosto disordine che conosciamo «non potrà mai essere il vero ordine delle cose». Ma questo noi non possiamo conoscerlo per i limiti del nostro intelletto. Come si vede, un bel salto nella trascendenza, diciamo un salto nella luce magari, ma filosoficamente un salto nel buio.
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piano morale, apre la porta all'irruzione della natura, della natura strapotente quanto indifferente, all'irruzione di forze estranee all'uomo, che poi nessuno potrà più fermare. Cioè, in verità, se ne rende conto, a suo modo, e anzi lo vuole e lo favorisce; ma non si rende conto della piega maligna che prende tutto questo processo e dei disastri ai quali esso fatalmente condurrà. 2. L'autodifesa
di
Schopenhauer
Ma vediamo come si esprime Schopenhauer stesso circa la nostra percezione interna della volontà e che cosa possa significare veramente questa conoscenza metafisica, questo «primo fenomeno», come lo chiama D., o «il più perfetto dei fenomeni», il «fenomeno dei fenomeni», come lo chiama Schopenhauer stesso, perché esso, dice, senza essere assolutamente immediato, rimane il fenomeno di gran lunga piii immediato della cosa in sé e «per questa immediatezza si distingue toto genere da tutti gli altri»''. «Il compito della metafisica», egli afferma contrapponendosi a Kant, «non è già l'osservazione di singole esperienze, ma ben l'interpretazione dell'esperienza nel suo complesso. Quindi il suo fondamento dev'essere comunque di natura empirica»'. Ora, qual è il ponte che collega la fisica alla metafisica? È, dice Schopenhauer, la «scomposizione dell'esperienza in fenomeno e cosa in sé», che costituisce il massimo merito di Kant. Essa dimostra infatti che c'è un nucleo dell'esperienza diverso dall'esperienza stessa. Questo nucleo però " A. Schopenhauer, T)ie Welt ah Wille und Vorstellung, mans Zurich 1988, cap. 18, p. 229. ' Ibidem, cap. 17, p. 210.
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II, Haff-
non può essere mai considerato da solo, ma viene conosciuto sempre e solo nei suoi rapporti con il fenomeno e dunque rivestendone le forme. L'interpretazione di questo fenomeno in relazione a quel suo nucleo intimo ci fornisce però su di esso schiarimenti che non potremmo mai avere altrimenti. In tal modo la metafisica va al di là del fenomeno, ossia della natura, per mostrare ciò che vi si cela dentro o dietro, senza però mai staccarsi dal fenomeno''. La percezione che noi abbiamo della stessa nostra volontà non fornisce una conoscenza adeguata ed esauriente della cosa in sé, perché non è immediata, ma è mediata dall'intelletto, anzi non fornisce nessuna conoscenza della cosa in sé in quanto tale. Ma l'intelletto riconosce la cosa in sé nell'autocoscienza, cioè come la cosa in noi. Qui la percezione si scinde (è strutturata) in soggetto e oggetto e ciò dà luogo a un conoscente e a un conosciuto. Ma tutto ciò che è conosciuto, automaticamente non è più ciò che è in sé bensì ciò che è per un intelletto. Dunque noi non conosciamo mai la cosa in sé e questa conoscenza è impossibile già nell'assunto. La conoscenza interna della volontà è però libera da due delle forme che ineriscono alla conoscenza esterna: lo spazio e la causalità. Quindi resta solo la forma del tempo. Schopenhauer può così dire che qui «la cosa in sé ha lasciato cadere gran parte dei suoi veli, anche se non è ancora completamente nuda»^. Una conseguenza importante di ciò è che ognuno conosce la sua volontà (se stesso) non in blocco, nella sua totalità, ma solo nei suoi singoli atti successivi. Quindi nessuno conosce a priori il proprio carattere; lo conoscerà solo gradualmente, in base all'esperienza, e mai compiutamente. '' Ibidem, p. 212 sg. ' Ibidem, cap. 18, p. 228.
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È questo uno dei tanti sorprendenti riscontri e conferme che rendono credibile, anzi convincente la teoria della volontà. Ma la sua migliore difesa l'appresta Schopenhauer stesso quando dice: «Se si trova uno scritto di cui non si conosce l'alfabeto, se ne tenta l'interpretazione finché si giunge a ipotizzare un significato delle lettere, grazie al quale esse formano parole intelligibili e periodi coerenti. Allora però non resta alcun dubbio sull'esattezza della decifrazione, perché non è possibile che la concordanza e la coerenza in cui questa interpretazione pone tutti i segni di quello scritto siano meramente fortuite e che, qualora si attribuisse un tutt'altro valore alle lettere, si potrebbero riconoscere allo stesso modo parole e periodi in questa loro disposizione. In modo simile, la decifrazione del mondo deve poter comprovarsi perfettamente da sé. Deve diffondere una luce uniforme su tutti i fenomeni del mondo e mettere d'accordo anche i più eterogenei, in modo da sciogliere le contraddizioni anche fra quelli più contrastanti»®. 3. Le critiche
di
Nietzsche
Per tutta la vita, Nietzsche non ha mai smesso di pensare a Schopenhauer e ha continuato a scrivere su di lui brevi e pregnanti osservazioni o interi aforismi. Ma il suo atteggiamento, da rispettoso e fanaticamente ammirativo che era all'inizio, come tale conservatoci in particolare nella terza inattuale [Schopenhauer come educatore), si è evoluto o involuto sempre più in senso critico, con punte di insolenza e di arroganza mal compensate da ritornanti resipiscenze e dichiarazioni di fedeltà. In Al di là del bene e del male, per esempio, egli si fa » Ibidem, cap. 17, p. 214,
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beffe del maestro che pretende di aver scoperto il fondamento della morale e che, dopo pranzo, «suona il flauto alla morale»^. Così anche lo pone, insieme a Wagner, tra quei personaggi che in gioventù vedeva immensamente al di sopra di sé, come stelle, ma che ora sono sotto di lui^°. Le sue critiche principali sono comunque quelle contenute nei suoi appunti giovanili raccolti sotto il titolo Su Schopenhauer e nell'aforisma 99 della Gaia scienza {I seguaci di Schopenhauer). Ci limiteremo quindi a esaminare queste critiche. Ma diciamo, prima, che non sappiamo fino a che punto sia da prestar fede all'affermazione di Nietzsche di essere stato subito in disaccordo con Schopenhauer pur ammirando l'uomo, cioè non appena lesse, a vent'anni. Il Mondo come volontà e rappresentazione, scoperto per caso in una libreria di Lipsia. Per un certo periodo Nietzsche visse infatti nell'ammirazione non solo dell'uomo, ma certo anche della sua dottrina, di cui si fece fervente propagatore tra i suoi amici. C'era tra questi anche quel Paul von Deussen a cui toccò poi opporsi al di lui crescente antischopenhauerismo e che fu infine il primo curatore delle opere di Schopenhauer. Anche prima della terza inattuale, apparsa nel 1874, c'era stata, nel 1872, La nascita della tragedia, che secondo Rohde è «una brillante conferma» della filosofia di Schopenhauer. «A quest'opera, per quanto attiene alla spiegazione e giustificazione del fenomeno», egli riconosce «addirittura la stessa importanza dell'opera principale di Schopenhauer per quanto attiene alla penetrazione dell'essenza delle cose che si agita sotto tutti i ' Aforisma 186 di Al di là del bene e del male. F. Nietzsche, frammenti postumi 1884, Adelphi, Milano, 1976, p. 141.
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fenomeni»^^ Dunque fedeltà nel tradimento, continuazione nel cambiamento (come si promette in politica): il fenomeno invece del noumeno, ma il fenomeno nel senso del noumeno, come complemento del noumeno. Del resto, che La nascita della tragedia sia un'opera schopenhaueriana, è risaputo ed è significato dallo stesso Nietzsche. Volendo ad ogni modo credere alla sua affermazione, che non riteniamo mentita, si può pensare o a una caratteristica di incertezza e irrisolutezza del Nietzsche giovane, sfociante certo nell'ambiguità e nella doppiezza, che lo portava a propagandare Schopenhauer e Wagner, in due lunghe "apologie", quando ormai non credeva più in loro, o a una prematura vocazione alla scepsi, radicata nel suo carattere di poeta. Se si applica, infatti, a lui stesso ciò che egli dice della cultura, la quale non avrebbe sostanza autonoma ma sarebbe solo un raffinamento degli istinti, si può concluderne che egli, sentendosi poeta e non filosofo, giullare (Narr) e non pretendente della verità {Freier der Wahrheit), quale si proclama nel ditirambo Solo giullare, solo poeta! {Nur Narr! Nur Dichter!), semplicemente amava la poesia o, diciamo, il pensiero poetico, e detestava la filosofia, credeva nel primo e non credeva nella seconda. Ma passiamo alle critiche contenute negli Appunti filosofici. Nietzsche comincia col criticare la parola "volontà". La volontà, dice, «è una parola dal conio grossolano e molto comprensiva». Critica la parola - e pure il concetto - della "volontà" anche altrove. Non ha torto. Anche per noi, come per lui, Schopenhauer aveva battezzato con questa parola sempHce e spirituale l'oscu" C.P. Janz, Vita di Nietzsche, I, Laterza, Bari, 1980, p. 432. Nella traduzione abbiamo sostituito «che è desta» (sich regenden) con «che si agita». La volontà non dorme mai e quindi non è mai neanche «desta».
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ro flusso delle forze del mondo. Schopenhauer spiega le ragioni anti-riduttive per cui non ha voluto usare la parola "forza" o "istinto" o un'altra ancora, che forse ci avrebbe scandalizzato meno; ma non si può dire che riesca convincente. Per lui la volontà «è il fenomeno della cosa in sé piìi evidente, il più sviluppato, e immediatamente rischiarato dall'intelligenza» (p. 99); ma è proprio questo che ce la rende poco credibile. Alla fine, anche per noi la volontà non è che una parola che cela chissà cosa, come dice Nietzsche. E che si può prendere tutt'al pili come segno convenzionale unificante di tale oscuro flusso. Perché se invece la si prende in senso proprio, il sistema di Schopenhauer diventa effettivamente quella teologia capovolta, quella «teologia camuffata, ma di un essere malvagio e cieco», quale l'ha poi visto Nietzsche^^. Essa ben corrisponde, magari, al senso di oppressione che ce ne viene, ma anche nel male diventa qualcosa di un po' troppo antropomorfico per essere vero. Allora davvero bisognerebbe credere nel diavolo senza credere in Dio. A parte la parola volontà, le critiche che Nietzsche muove a Schopenhauer sono qui quattro. La prima è che la cosa in sé è solo una categoria nascosta, come aveva già detto il critico di Schopenhauer Ueberweg. La seconda è che la volontà è frutto di un'intuizione poetica. La terza è che alla cosa in sé, inconoscibile e impensabile, sono attribuiti predicati presi dal mondo fenomenico, come unità, atemporalità e libertà, in antitesi coi predicati del fenomeno, «mentre tra la cosa in sé e il fenomeno neppure il concetto di antitesi ha senso». La quarta è che «la trama essenziale di Schopenhauer gli si impiglia tra le dita [...] soprattutto perché il mondo non Frammento 4[310] in Aurora e frammenti Adelphi, Milano, 1964, p. 409.
postumi
(1879-1881),
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si lascia inserire così comodamente in un sistema». A queste quattro critiche Nietzsche ne aggiunge ahre, che sono però specificazioni della terza. A noi sembra che, a parte la seconda, queste critiche non siano valide. Alla prima rispondiamo che la possibilità di vedere la cosa in sé come una ulteriore categoria non cambia nulla. Categoria o non categoria, bisogna vedere se il suo concetto regge o non regge nel senso attribuitogli da Schopenhauer. Ora, esso regge per illuminare la nostra vita. Allora: se la illumini come cosa in sé o come nuova categoria, è, se non indifferente, secondario. Alla seconda rispondiamo che la concezione della cosa in sé come volontà non regge neanche per noi, per le ragioni suddette. Non importa che non regga perché è un'intuizione poetica o altro. Ma come nozione convenzionale che copre il flusso oscuro è utile, perché unifica questo groviglio impenetrabile e inestricabile e ne indica in modo fededegno gli effetti per noi. Come causa dunque non è vera, come effetto sì. L'attribuzione alla cosa in sé dei predicati tratti dal mondo fenomenico in antitesi con quelli attribuibili al fenomeno, pluralità, temporalità e causalità, è legittima a parte subjecti, anche se non a parte ohjecti. «Schopenhauer pretende insomma che qualcosa che non può essere mai oggetto sia nondimeno pensato in maniera oggettiva: ma per questa via possiamo arrivare solo a un'apparente oggettività». Ma questo Schopenhauer lo ammette, anzi lo postula, perché la cosa in sé è conosciuta solo in relazione al fenomeno. Qui si usa una lingua umana, con valenza intraumana, «il linguaggio del nostro intelletto intuitivo» (p. 103), solo per l'arrivo all'uomo di qualcosa che non parte dall'uomo, che ha origine extraumana e che è dunque enigmatico. Schopenhauer si basa fondamentalmente sull'efficacia della decifrazione. 312
La quarta critica è basata su un'affermazione di Schopenhauer. In vecchiaia avrebbe detto che non era riuscito a risolvere «il più grave problema filosofico [...] la questione dei limiti dell'individuazione» (p. 97). Confessiamo però di non capire ciò, perché secondo noi il passo riportato àaìMondo a pag. 105 d e g l i r i s o l v e perfettamente il problema dell'individuazione, anche se non quello dei suoi limiti. Dopo aver detto, infatti, che «il bisogno della conoscenza in generale scaturisce dalla molteplicità e dall'esistenza separata degli esseri», così Schopenhauer spiega la pluralità: «Immaginiamo infatti che esista soltanto un unico essere: un simile essere non avrebbe bisogno di conoscenza in quanto non esisterebbe niente che ne differisse e di cui esso dovesse quindi apprendere indirettamente l'esistenza per mezzo della conoscenza, ossia di immagini e di concetti. Quell'essere sarebbe già di per sé tutto in tutto e non gli resterebbe quindi niente da conoscere, vale a dire niente di estraneo che potesse essere appreso come oggetto. Invece la molteplicità degli esseri fa sì che ogni individuo si trovi in uno stato di isolamento da tutti gli altri: deriva da qui la necessità della conoscenza. Il sistema nervoso, in virtii del quale l'individuo animale diviene in primo luogo consapevole di sé, è limitato dalla pelle; esso tuttavia, sviluppandosi nel cervello fino a divenire intelletto, travalica quel confine, grazie alla forma conoscitiva della causalità; si produce così l'intuizione come conoscenza delle altre cose, come immagine di esseri, situati nel tempo e nello spazio, che mutano seguendo la causalità». In base a questo passo la realtà è (si presume) una e la molteplicità non esiste in sé, ma solo nel nostro modo di conoscere l'uno, cioè una sua parte infinitesimale, che però è affollatissima di esseri e cose. L'interrogativo di Schopenhauer: fino a che punto il principium individuationis penetri nella cosa in sé, non ci sembra, a questa stregua, che abbia senso, perché esso non penetra affatto. 313
4. L'aforisma 99 della Gaia scienza E veniamo ora all'aforisma 99 della Gaia scienza, che tra gli altri "pezzi" di Nietzsche su Schopenhauer è certamente il piii importante. E infatti una lista di pregi e difetti, anche se non proprio esauriente. In esso, tanto per cominciare, Nietzsche riconosce per una volta che la scoperta del carattere strumentale dell'intelletto appartiene a Schopenhauer. Poi si domanda: che cosa copiano dal maestro i suoi seguaci? Copiano forse «il suo duro senso dei fatti, la sua buona volontà di chiarezza e ragione, che lo fa spesso apparire così inglese" e così poco tedesco? O la forza della sua coscienza intellettuale [...]? O la sua pulizia nelle cose della Chiesa e del Dio cristiano - giacché in ciò fu pulito come nessun filosofo tedesco è stato finora, sicché visse e morì 'da voltairiano'? O le sue teorie immortali dell'intellettualità dell'intuizione, dell'apriorità della legge di causalità, della natura strumentale dell'intelletto e dell'illibertà della volontà? No, tutto ciò non affascina e non viene sentito come affascinante; sì invece gli imbarazzi e sotterfugi mistici di Schopenhauer, [...] la teoria indimostrabile di una volontà ('tutte le cause sono soltanto cause occasionali della manifestazione della volontà in questo tempo e in questo luogo'; 'la volontà di vivere è presente in ogni essere, anche il più striminzito, intera e indivisa, così completa come in tutti quelli che siano mai stati, sono e saranno presi insieme'), la negazione dell'individuo ('tutti i leoni sono in fondo un leone solo'; 'la plu" Perché inglese? Noi avremmo detto piuttosto francese, visto che visse e morì da "voltairiano", cioè perché questo lato solido e raziocinante gli veniva dall'illuminismo francese.
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ralità degli individui è un'apparenza'; così come anche l'evoluzione è un'apparenza: - chiama l'idea di Lamarck 'un errore geniale e assurdo'), l'esaltazione del genio ('nell'intuizione estetica l'individuo non è più individuo, bensì puro soggetto della conoscenza senza volontà, senza dolore e senza tempo'; 'il soggetto, in quanto si scioglie completamente nell'oggetto intuito, è divenuto questo oggetto stesso'), l'assurdità della compassione e della rottura resa in essa possibile del principium individuationis come fonte di ogni moralità, comprese affermazioni come: 'il morire è propriamente lo scopo dell'esistenza'; 'a priori non si può senz'altro negare la possibilità che un influsso magico promani anche da una persona già morta'. Questa ed altre simili aberrazioni e vizi del filosofo vengono sempre presi per primi e fatti oggetto di fede: - vizi ed aberrazioni sono cioè sempre i più facili da imitare e non richiedono un lungo esercizio». Dopo di ciò Nietzsche comincia una terribile e lunga tiritera su e contro Wagner, che avrebbe dovuto appoggiarsi, secondo lui, a tutt'altra filosofia da quella di Schopenhauer. Questa tiritera è soprattutto interessante per ciò che qui ci occupa in quanto finisce col ribadire il proprio credo antischopenhaueriano riportando un passo conclusivo della quarta inattuale {Kichard Wagner a Bayreuth)-. «che la passione è migliore dello stoicismo e dell'ipocrisia, che l'essere sinceri, anche nel male, è meglio che perdere se stessi per l'eticità della tradizione, che l'uomo libero può essere tanto buono che cattivo, ma che l'uomo schiavo è un'ignominia della natura e non partecipa a nessuna consolazione celeste o terrena; infine che chiunque voglia diventare libero, lo deve diventare attraverso se stesso, e che a nessuno la libertà cade in grembo come un dono miracoloso». 315
5.
Conclusione
Lasciamo perdere questa levata di scudi contro Wagner e occupiamoci brevemente delle critiche formulate a Schopenhauer. Non dei riconoscimenti, perché, a nostro avviso, sono piuttosto un minimo che un massimo. Sugli imbarazzi e sotterfugi mistici, non si può che essere d'accordo, anche considerando la vita tutt'altro che mistica dell'uomo Schopenhauer: è questo il lato stanco, umorale di Schopenhauer, che si riconnette al pessimismo romantico. Sulla teoria della volontà abbiamo già detto quel che c'era da dire. Ma se si ammette la volontà unica come ipotesi, che concorda in modo stupefacente con l'esperienza, i due corollari citati sono legittimi. D'accordo, invece, sulla negazione dell'individuo. Uno degli errori per noi più patenti di Schopenhauer è l'idealizzazione di realtà strettamente naturali, come specie, individui, evoluzione; sono cioè le idee platoniche, come in genere tutto ciò che in lui viene da Platone. Schopenhauer si è voluto richiamare a Platone e a Kant come ai suoi due principali ascendenti e maestri. Ma Platone e Kant sono filosofi eterogenei, da leggersi e interpretarsi in chiavi diverse. Platone è la stella dell'idealizzazione come Schopenhauer stesso è la stella della concretezza; Platone richiede una chiave simbolica che non va bene per il criticismo realistico di Kant. Concepire le specie come idee eterne sembrerebbe impossibile, se non fosse avvenuto. Così, anche, non esiste un leone solo. Il leone solo è un'astrazione, non un'idea platonica. Esistono soltanto tutti i leoni che esistono, sebbene certamente ci sia tra loro un legame di una tale forza e importanza, che Schopenhauer si è sentito costretto a tenerne conto in un qualsiasi modo. Anche se poi ha preso una sbandata, il suo tentativo indica una verità nascosta che chiede di essere indagata (egli vi si è accanito soprattutto trat316
tando dell'immortalità, nel quarto libro dei Supplementi, e però riuscendo - volendola affermare - solo a negarla). Passando all'evoluzione, certo essa è apparenza come tutto il resto dal punto di vista metafisico; ma non nel mondo dei fenomeni, dove è e rimane una scoperta geniale, non un errore geniale e assurdo. Siamo con Nietzsche anche contro il puro soggetto della conoscenza senza volontà, dolore e tempo, e contro il soggetto che si scioglie completamente nell'oggetto intuito, diventando quell'oggetto stesso. Così come sono formulate, queste proposizioni sono inaccettabili. Ma è indubitabile che anche qui Schopenhauer lavora nel pieno. Ha intuito grandi verità, come in tutta la teoria del genio, ma non è riuscito ad afferrarle e a renderle nella forma giusta. D'accordo con Nietzsche, infine, contro la rottura del principium individuationis nella compassione e contro il morire come scopo dell'esistenza, mentre non lasciamo perdere in questa sede l'influsso magico che può promanare da una persona già morta. Una critica implicita ma importante alla concezione dell'individuo in Schopenhauer è contenuta inoltre nella concezione dell'individuo di Nietzsche. Per il primo l'individuo non conta niente: conta solo la specie. Per il secondo conta solo l'individuo: la specie è l'alleanza dei mediocri a scopo di offesa e difesa, specialmente contro i grandi. Nello Zarathustra, veramente, Nietzsche parla del Selbst (ora diremmo Inconscio) come imperatore che comanda dall'interno agli individui, imponendo loro di fare o non fare questo e quello per non sentire dolore o per sentire piacere, e non si accorge che questo Selbst non è altro che la specie di Schopenhauer. Ma in generale entrambe le concezioni sono sbagliate ed entrambe però contengono importanti elementi di verità. A Schopenhauer si può opporre che la specie non esiste se non negli individui, anche se non si identifica 317
con nessuno di essi in particolare, ma sempre e solo con l'insieme degli individui nel loro esatto numero attuale; perché dal loro numero dipende l'articolazione della specie, e dall'articolazione l'emergere, al suo vertice, del "genio", di quei rappresentanti dei suoi bisogni che tali bisogni vivono come bisogni strettamente personali. Essi vivono cioè bisogni oggettivamente altruistici in forma egoistica. Ciò avviene, per conseguenza, soprattutto nei periodi di affermazione collettiva, in genere nei primi tempi di una civiltà, di un movimento, di una corrente ecc. Da ciò si capisce già in che senso la concezione di Nietzsche è giusta. Essa dà massimo risalto all'individuo, perché solo nella forma dell'individuo la specie trova, non già la sua realizzazione, che è virtualmente infinita, com'è infinito il suo divenire, ma i suoi adempimenti pili alti, le sue realizzazioni più piene. E certo per conseguire i suoi fini l'individuo (da Nietzsche concepito in genere come grande individuo, e al suo massimo come superuomo), deve vincere le resistenze che, nella lotta di tutti contro tutti, gli oppongono gli altri individui. Ma tale concezione è poi sbagliata in quanto interpreta questa divisione a scopo di lotta e di autorealizzazione come una divisione istituzionale, permanente e immutabile, e pertanto reseca l'individuo dalla sua matrice naturale. Per conseguenza Nietzsche vede il trionfo del suo individuo soprattutto nelle epoche di corruzione, di disgregamento del tessuto collettivo. Ma se si mettono insieme gli elementi validi delle due concezioni, si arriva a quello che è il vero fondamento della morale: l'incarnazione individuale dei bisogni della specie sulla base della solidarietà biologica, cioè, in termini comuni, la creatività sulla base della responsabilità. Aggiungiamo, per concludere, un riconoscimento e una critica, da parte di Nietzsche, che non si trovano in questo aforisma, ma che sono particolarmente impor318
tanti. Il riconoscimento si trova nell'aforisma 23 di Opinioni e sentenze diverse e riguarda la «grande conoscenza dell'umano e del troppo umano» e r«originario senso dei fatti», che fanno di Schopenhauer «un vero genio moralista». La critica invece si trova nel frammento 25 [11] della primavera 1884 e anche altrove: la filosofia di Schopenhauer rispecchia il pessimismo romantico del ventiseienne che la concepì. A questo riguardo è illuminante un paragone di Jean Paul. Egli disse che la filosofia di Schopenhauer è come un malinconico lago norvegese circondato da alte rocce, in cui non si specchia mai il sole, ma soltanto il cielo stellato. Questa immagine rispecchia certamente l'ispirazione di fondo della filosofia di Schopenhauer, e l'ispirazione è la prima e fondamentale caratteristica di un filosofo come di un artista. Anche se non sembra lecito paragonare la filosofia all'arte, trattandosi in quella di razionalità, in qualche modo costrittiva, e in questa di fantasia, che è sinonimo di libertà, è indubitabile che ogni filosofia, come ogni creazione artistica, nasce sulla base di un determinato pathos, di una determinata costellazione di sentimenti, anche se questa viene per lo pili ignorata sia dall'autore sia dai suoi critici e commentatori. Ma questa costellazione di sentimenti costituisce l'orizzonte storico entro cui è racchiuso il "mondo" di un filosofo come quello di un artista, tutti sempre diversi tra loro, ed è quello che lo contraddistingue e fa la sua originalità. Sembra che Schopenhauer si sia sempre compiaciuto del suddetto paragone, ma esso mette in luce quello che, in base a quanto abbiamo appena detto, potrebbe essere considerato il difetto di fondo della sua filosofia, difetto di ispirazione appunto. Perché, si può domandare, in essa non si specchia mai il sole? Manca forse il sole nel mondo? No. Il sole c'è, e brilla, anche se non sem319
pre, caldo e luminoso sulla terra e sugli uomini. Non è giusto "eliminarlo", fare come se non ci fosse affatto. Insomma l'affresco di Schopenhauer è a tinte scure, tenebrose, quale divenne la pittura dal Seicento in poi, fino alla Ronda di notte di Rembrandt, che è una ronda di giorno ottenebrata. Dall'altro lato, però, bisogna considerare che i sistemi filosofici che sono di alta ispirazione, come sono quasi tutti quelli che si conoscono, finiscono spesso col cadere nella retorica, nella falsità e in un ottimismo bolso, irrispettoso dei drammi e delle tragedie della vita. Quasi sempre l'ottimismo che essi proclamano è solo un bene agognato, un miraggio prodotto dalla disperazione e dall'angoscia; ma se serve Fautore, sia pure in malo modo, esso non serve il lettore, perché l'ottimismo snerva e disarma nelle lotte della vita. A paragone di questi sistemi, allora quello di Schopenhauer si presenta come una importantissima eccezione di maturità e di concretezza, quale veramente è nella sua sostanza, e l'amante della filosofia può emettere infine un sospiro di sollievo, perché sa che, anche se non sarà allietato, vellicato ed entusiasmato, sarà però trattato da adulto e non sarà ingannato né strumentalizzato. Quale pregio possano avere questa maturità e questa per quanto amara concretezza, fatticità, si può ricavare dal seguente passo di Schopenhauer: «...se c'è al mondo qualcosa di desiderabile, tanto desiderabile che perfino la massa rozza e opaca, nei suoi momenti di maggior riflessione, lo apprezzerebbe più dell'oro e dell'argento; questa cosa è che un raggio di luce penetri nell'oscurità del nostro vivere e ci dia qualche schiarimento su questa esistenza enigmatica, in cui niente è chiaro tranne la sua miseria e la sua nullità^^». Allora " Schopenhauer, Die Welt, cit., cap. 17, p. 189.
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capiamo che Schopenhauer del paragone di Jean Paul poteva anche legittimamente compiacersi. Per aver apportato tanta luce nelle tenebre della vita umana, egli poteva dunque ben dire, come scrisse nella lettera a Frauenstàdt del 30 luglio 1856: «La mia filosofia produrrà nel mondo un effetto che nessun'altra ha avuto, né in epoca antica né moderna. Questo fa la forza della verità e l'importanza del soggetto». Passato il grande successo che la filosofia di Schopenhauer conobbe quando l'autore era ancora in vita (erano state, egli disse, rose bianche), questo effetto non è stato ancora prodotto. Ma noi non dubitiamo che lo sarà, come non ne dubitava Nietzsche stesso quando scriveva, a conclusione della considerazione inattuale su Schopenhauer, che questi dimostrò, «e dimostrerà ogni giorno di più», che «l'amore della verità è qualcosa di terribile e di possente»: ciò richiede un lento lungo sceveramento storico, al di là delle mode e dei tramonti delle mode, perché anche per Schopenhauer, come per Nietzsche stesso, vale il detto di Zarathustra: la giustizia ti seguirà tardi e zoppicando.
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NIETZSCHE E L'ILLUMINISMO
L Due illuminismi
e due tipi di
illuministi
È Nietzsche un illuminista? Sembra facile affermarlo e difficile negarlo, sia perché tantissimi ne sono convinti e lo affermano senza remore a ogni piè sospinto, sia perché una non piccola parte del pensiero di Nietzsche svolge innegabilmente quella funzione di rischiaramento che è la piti tipica tra le funzioni dell'illuminismo. Ma essa appunto non è la sola, e bisogna vedere se anche le altre che caratterizzano l'illuminismo si possano, allo stesso modo, predicare di Nietzsche. Ma prima di occuparci di questo problema, non possiamo non notare che quelli che disinteressatamente, innocentemente sono portati a definire Nietzsche un illuminista, sono soltanto una parte di coloro che insistono perché egli sia considerato tale; gli altri sono interessati e tendono a strumentalizzarlo a fini ideologici e politici, vuoi portando l'acqua al proprio mulino, vuoi sottraendolo a chi pili legittimamente ne può rivendicare l'eredità; oppure sono innocentisti che non ritengono che un così puro e grande autore possa essersi macchiato di colpe e portare responsabilità come quelle che da più parti gli vengono addossate. Degno di nota è che in entrambi questi casi si sceglie, per così dire, la lectio facilior. Per quanto riguarda il primo caso, infatti, si potrebbe, volendo, riscontrare in Nietzsche un effettivo atteggiamento rivoluzionario, proprio in senso politico, nel suo rilancio dell'antropo322
morfismo o umanismo emergente dalla linea copernicana della filosofia moderna, cioè nel ritiro dell'attenzione dalle verità metafisiche, prime o ultime, per farla convergere sull'uomo e sulle «cose prossime», sulla terra e sul corpo; in sostanza nell'elevate a livello di dignità fattori elementari che erano considerati bassezze inaccettabili: il che si può far rientrare in quella campagna unica da lui condotta contro il causare vergogna agli uomini, che è uno dei tratti più nobih e singolari, certamente rivoluzionario, della sua dottrina. Quanto al secondo caso, si potrebbe, sempre mirando alla valorizzazione massima, accettare il negativo con qualche giustificazione o con una fatalità storica, alla maniera di Thomas Mann {Faustus), ossia con un atteggiamento che è ben riassunto dal biografo nietzschiano Richard Blunck a proposito della incessante battaglia di Nietzsche «contro un'epoca che sempre più si abbandona a una menzogna senza speranza, contro la propria felicità, contro la gloria e perfino la passione del cuore», col che si allude certo, in particolare, alla Germania invasa dal pessimismo, per le circostanze storiche ed economiche da un lato e per il proliferare, dall'altro, del pessimismo schopenhaueriano attraverso una coorte di seguaci (Frauenstàdt, Bahnsen, Taubert, von Hartmann, Mainlànder) che giunse fino a predicare il suicidio universale. Quella di Nietzsche, dice Blunck, «è un'azione la cui purezza e necessità non può venir turbata né annullata da alcun suo effetto, per quanto equivoco o addirittura terrificante»'. Ma torniamo al problema principale e diciamo che, per rispondere alla questione se Nietzsche sia o no un illuminista, occorre anzitutto distinguere, del termine illuminismo, due accezioni: una ampia e una ristretta. La ' Janz, Vita di Nietzsche, I 11 profeta della tragedia, cura di Mario Carpitella, Bari, 1980, p. 7.
1844-1879, a
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prima, in quanto è caratterizzata dalla suddetta funzione chiarificatrice, esercitata in particolare contro superstizioni e credenze, costumi e istituzioni di ogni tipo, può essere senz'altro predicata di Nietzsche, così come è predicata già dei sofisti, negatori di tradizioni, leggi e verità assolute, e per certi aspetti pure degli scettici, degli stoici e degli epicurei. Proprio Epicuro, anzi, per la lotta da lui condotta contro gli dèi, la paura degli dèi e la paura della morte, nonché per la critica alla religione in nome della ragione, è reputato il grande illuminista dell'antichità, al quale Nietzsche si ispira non poco. Tuttavia non è cosa indifferente che tutti questi pensatori abbiano già i loro nomi, e che quello di "illuministi" sia loro aggiunto ex post, da una grandissima distanza di tempo e di tempi. 2. // l'ero
illuminismo
Nella seconda accezione l'illuminismo è caratterizzato non solo dalla suddetta funzione di illuminazione, ma anche da tutte quelle altre che sono tipiche soltanto di quel movimento cominciato in Inghilterra nell'ultima parte del secolo XVII e diffusosi poi in tutta Europa, ma continuato e sviluppato soprattutto in Francia, in tutto il secolo XVIII. Solo questo movimento storico sei-settecentesco, coincidente con l'ascesa della borghesia commerciale e industriale in contrasto con i residui della società e delle istituzioni medioevali, merita in senso proprio il nome di illuminismo, perché, in base alla spinta ricevuta dalla grande scienza del Seicento, esso impresse alla storia europea uno slancio di rinnovamento e di progresso, in nome della ragione, e portò a conquiste individuali e collettive, che restano senza pari nella storia della nostra civiltà. 324
Tra queste conquiste spiccano l'abbattimento del principio di autorità e l'estensione a tutti i campi dello scibile del principio critico, che hanno, come atteggiamenti, un valore ancora superiore ai risultati grazie ad essi conseguiti; la critica dell'antropomorfismo in religione, la critica del fanatismo, con la correlativa affermazione della tolleranza, l'affermazione della potenza dell'educazione, dell'idea di natura e dell'uguaglianza, un rivolgimento nella concezione della storia, che da storia di guerre, trattati e successioni dinastiche, diventa storia "universale" di costumi, leggi, istituzioni, economia ecc. dei vari popoli; e infine delle stesse concezioni estetiche, che, provenendo dal classicismo di Boileau, aprono al romanticismo. 3. È 'Nietzsche un
illuminista?
Dunque è soprattutto in relazione a questa seconda accezione, cioè all'illuminismo in senso stretto, che si pone la domanda se Nietzsche sia da considerare illuminista o no. Anche così, la risposta non è facile. Perché per un certo periodo almeno Nietzsche volle essere illuminista e ne ebbe il relativo atteggiamento; poi perché dedicò Umano, troppo umano alla memoria di Voltaire e si adoperò con l'editore perché il libro uscisse in tempo per la «celebrazione dell'anniversario della sua morte, il 30 maggio 1878», come suonava la fine del primo titolo; infine perché Nietzsche aveva effettivamente ricevuto in sé l'illuminismo, attraverso gli autori che aveva letti e attraverso le correnti che l'avevano incorporato, e lo ridava a modo suo^. ^ Una forte testimonianza in questo senso è costituita dal capitolo "Degli apostati", in Così parlò Zarathustra, III, rivolto contro coloro che tradiscono la ragione per una comoda fede, con chiara allusione al tardo Wagner. Ne riportiamo un versetto: «Ma con ciò tu appartieni
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Nietzsche era, contrariamente a quello che ne pensava Wagner', originale fino alla singolarità e al paradosso. Ma questo non impediva, anzi presupponeva che, come tutti gli ingegni originali appunto, i quali innovano sul passato, ricevesse in sé l'eredità del passato, prossimo e remoto, e insieme avvertisse o addirittura anticipasse, indizi e segni del futuro. Quando, per esempio, passò dalle Considerazioni inattuali e dalla Nascita della tragedia a Umano, troppo umano, abbandonò la metafisica e il pessimismo schopenhaueriani per la psicologia e il moralismo, con un passaggio che in lui era logico e naturale, come superamento delle passate esperienze"*, come ampliamento tematico e come inaugurazione di mezzi filosofici e artistici più suoi. Dunque fu una svolta. Ma fu anche una continuazione di quel dialogo critico appassionato con persone e cose, non nominate ma non impossibili da individuare (Schopenhauer, Wagner, le donne conosciute, la dogmatica cristiana, i socialisti, i borghesi, l'estetica romantica ecc.), che attraversa come un filo rosso tutte le sue opere. Nello stesso tempo egli riceveva in sé e aderiva, per la parte che gli serviva, al positivismo, relativamente ottimistico. Una conferma indiretta di ciò è nella lettera entusiastica che l'amico e ammiratore Paul Rèe gli scrive il 10 maggio. «In questo momento», dice, «ero così ben preparato a Lei perché ultimamente ho letto molto Comte». Anche Burckhardt rilevò in Umano, troppo alla schiera di coloro che temono la luce e a cui la luce non dà mai pace; ora dovrai ogni giorno ficcare il capo sempre più addentro nella notte e nella nebbia!». Cfr. anche af. 285 della Gaia scienza. ' Per Wagner Nietzsche era incapace di pensiero originale; era solo dotato della capacità di vibrare all'unisono con gii ingegni originali. «Nietzsche non ha mai avuto pensieri propri, mai sangue proprio: è tutto sangue altrui che è stato travasato in lui», disse a Cosima (Dmrii, 4..8.1883). '' Cfr. Prefazione a limano, troppo umano, II.
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I
il [l
umano una tendenza all'ottimismo filosofico, al positivismo. Erano i tempi in cui «L'uomo voleva finalmente essere considerato in tutta la sua vulnerabilità e miseria esistenziale e venirne liberato su questa terra, non continuare in eterno a pascersi della manna della metafisica. La letteratura nordica mostrava questi impulsi in Ibsen [...] La filosofia si avvicinò sempre di più alla psicologia e alla sociologia e si appoggiò alle scienze.[...] La musica seguì nuove strade. In quella tedesca Brahms capeggiò la corrente antiwagneriana [...] E lo stesso Wagner dovette riconoscere il valore del sinfonista Anton Bruckner [...] Dalla Francia si irradiò un vigoroso movimento antiromantico. Già nel 1874 aveva avuto luogo a Parigi la prima esposizione degli 'Impressionisti' [...] il 3 giugno 1875 era morto Georges Bizet [...] In letteratura si fece luce il naturalismo col romanzo L'Assommoir di Émile Zola. Come veicolo del discorso filosofico il saggio venne portato a nuove vette. E Nietzsche prestava l'orecchio a tutti questi fermenti». Così dice, nella sua Wita ài Nietzsche (I, p. 780), C. P. Janz. Il quale aveva già detto (ivi, p. 779) che Nietzsche «non era destinato, come Cosima (e forse anche Hans von Biilow), ad essere il guardiano di questa tradizione [sc.= quella che termina con Wagner], bensì l'annunciatore di un'epoca nuova, che andava già poderosamente destandosi». Janz indica tuttavia anche le ragioni per cui, a proposito di Umano, troppo umano e delle altre due opere aforistiche successive, in particolare {Aurora e La gaia scienza), Nietzsche viene, non senza fondamento, definito illuminista: «Ciò che sorprende in quest'opera è in primo luogo l'estensione dell'orizzonte a problematiche nuove, finora non considerate o appena considerate, non sono più "giri d'orizzonte di Bayreuth", ma è sempre lo stesso Nietzsche scettico che verifica l'origine di tutti i giudizi e opinioni e articoli di fede tradizionali e ne 327
esamina la portata, che vuole dimostrare che ogni statuto umano altro non è che per l'appunto una cosa 'statuita' dall'uomo e non donata dalla trascendenza» (Ivi, p. 763). Ciò nonostante, sussistono serie ragioni che impediscono di catalogare Nietzsche tra gli illuministi. 4. Non illuminista,
ma...
Intanto il tono stesso e in realtà la portata, oltre allo sfondo, come vedremo, di quelle battaglie combattute da Nietzsche negli stessi campi degli illuministi, sono ben diversi da quelli di questi ultimi, come anche da quelli degli illuministi antichi. Per esempio Nietzsche combatté l'antropomorfismo in religione al pari degli illuministi inglesi e francesi e dei sofisti antichi, ai quali ultimi, del resto, egli attesta una stima suprema in ben due luoghi delle sue opere'. Ma appunto la sua lotta ebbe un valore diverso dalla loro. Essa si sviluppò soprattutto come reazione alla metafisica di Schopenhauer - il quale, peraltro, aveva condotto la medesima lotta in maniera magistrale se non addirittura definitiva - e come ritorno potenziato e poetizzato alla scepsi di Kant. Cioè Nietzsche si era ben presto ribellato al varco che il suo «unico maestro e educatore», come chiamò Schopenhauer, riteneva di avere aperto nella cappa dell'antropomorfismo, appunto, che Kant aveva fatto scendere su tutta la conoscenza umana; ma aveva poi sviluppato la teoria dell'antropomorfismo in modo sistematico e virulento, estendendola a tutte le manifestazioni umane, fino ad arrivare al nichilismo, cioè alla proclamazione, su base filosofica, della negazione della conoscenza e della morale, come nessuno aveva fatto prima di lui. ' Aurora, aforisma 168, e Crepuscolo agli antichi", 2.
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degli idoli, "Quel che devo
Ma che cosa c'è di più contrario airilluminismo del nichilismo? L'illuminismo esalta la ragione; Nietzsche la nega; nega la logica come macchina autoaffermativa utilitaria, cioè antropomorfica, che rende pensabile ciò che non lo è; nega la morale come ribaltamento nell'universo caotico dell'ordine e dell'unità delle nostre estetiche umanità, in sostanza come barriera artificiale eretta contro il caos dell'esistenza a scopo autoconservativo. E ciò anche negli ideali ascetici. Questi consentono infatti, nell'impossibilità di volere altro, almeno di volere il nulla, ossia di volere comunque qualcosa, come è necessario per vivere^. Nietzsche nega addirittura la realtà, come il sussistere di una qualunque stabile costituzione delle cose; quindi nega altresì la verità, come corrispondenza delle idee alla realtà. In sostituzione del criterio della verità, quale criterio fa valere allora per distinguere una filosofia valida da una non valida? Quello della sua capacità di aiutare i forti. Qui bisogna notare che per Nietzsche i forti non sono destinati a vincere ma a essere sconfitti dalla massa dei mediocri. Questi si oppongono alla grandezza, benché ne abbiano strettamente bisogno, e ostacolano e tormentano i grandi, se possono, fino alla morte. Dunque la filosofìa ha un compito pietoso oltre che vitale, data l'oggettiva necessità dei forti. Essa comunque non può essere, per Nietzsche, che una filosofia della volontà di potenza, e questa è anche automaticamente una filosofia della trasvalutazione di tutti i valori, in particolare della traduzione dei valori spirituali in valori naturali. Il «superuomo», che consuma tale traduzione, diventa per questo un «tipo di valore superiore, più degno di vivere, più sicuro del suo avvenire», mentre «i deboli e malriusciti devono perire»^. ' Cfr. Genealogia della morale, ascetici?", § 28. ^ L'Anticristo, §§ 3 e 2.
"Che cosa significano gli ideali
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5. Neosofista
con base
poetica
E appena il caso di notare che questo ideale di lotta per le élites è ben diverso dall'ideale democratico dell'illuminismo di lotta per il rischiaramento e l'avanzamento dei popoli. Ma quello che è più grave è che in questo modo, senza rendersene conto e in realtà per un automatismo che però non è un caso, essendo provocato e sostenuto da una irresistibile quanto inconsapevole spinta storica, Nietzsche è passato da una fonte di verità morali a una fonte di errori e aberrazioni filosofiche. Nell'esaltate il valore della terra, del corpo, delle cose prossime, contro quello del cielo, dell'anima e delle cose remote (delle prime e ultime cose), egli reagiva, da quel grande e ispirato moralista che era, alle infinite menzogne e ipocrisie di cui si pascevano la cultura e la civiltà marcia, ormai solo pseudocristiana, del suo tempo; faceva valere, in modo coraggioso e impetuoso, secondo il suo temperamento insofferente di ogni infingimento, primarie verità, per le quali ancora e sempre merita e meriterà di essere esaltato come un novello Machiavelli. Ma nell'oltrepassare i limiti del moralismo mantenendone' i mezzi, con un salto necessitato dall'abbattimento del principio stesso della filosofia (il principio logico), egli porta nella filosofia strumenti inadatti. E questo il vizio generale che invalida e corrompe i ragionamenti filosofici di Nietzsche, che sono appunto applicazioni falsate di verità moralistiche. Ma così egli cade sotto il patere legem quam ipse tulisti. Compie cioè operazioni che aveva egli stesso stigmatizzate nell'aforisma 5 di Opinioni e sentenze diverse, dove rimprovera ai filosofi di assolutizzare i detti dei moralisti, concepiti soltanto per un tempo e un luogo particolari. Gli effetti della sua «furia di generalizzazione» {Wuth von Verallgemeinerung) sono stati disastrosi e veramente il contra330
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rio di tutti quelli che l'illuminismo ha prodotto e voluto produrre. Per questo egli può essere detto un neosofista con base poetica, ma non un illuminista®. Del resto anche la caduta nel naturalismo selvaggio è in parte almeno dovuta all'intersecarsi della sua natura e tendenza poetica con la sua natura e tendenza filosofica, dato che da sempre l'opera del poeta è lo scavo della natura. Ma questo scavo della natura diventa qui fonte di una commistione catastrofica, specchio e profezia di una grave crisi storica. Ad ogni modo, se ancora si avessero dubbi riguardo a questa conclusione, ecco che cosa dice, in maniera inequivocabile, Nietzsche stesso del suo «nuovo illuminismo»: «Il nuovo illuminismo: il vecchio era nel senso del gregge democratico. Eguagliamento di tutti. Il nuovo illuminismo vuole indicare la strada alle nature dominatrici in che misura ad esse è permesso tutto ciò che non è lecito per gli esseri del gregge»'. E del resto risaputa la convinzione di Nietzsche che solo nell'esistenza del grande uomo può trovare giustificazione l'esistenza del «mediocre». Questo l'effetto equivoco e terrificante. Esso è confermato anche da Thomas Mann, che parla a proposito di Nietzsche di una «grandezza mitico-terrificante». E afferma, contro i tanti innocentisti già di allora, che «Tutto quello che» Nietzsche «ha detto contro la morale, l'umanità, il cristianesimo, in favore della bella em® Con ciò non intendiamo che la dottrina di Niet2sche collimi in tutto e per tutto con quella dei sofisti. "Neo-sofista" qui significa soprattutto negatore della conoscenza e della morale, di norme e tradizioni ricevute, "oggettive". I^er il resto basta l'aggiunta "con base poetica", che non si può certo predicare dei sofisti. Pertanto non trova qui applicazione la critica che Georg Simmel muove a coloro che identificano la dottrina di Nietzsche con quella dei sofisti antichi (Schopenhauer e Nietzsche, Firenze 1995, p. 231 sg.). Importante è invece d ò che egli dice della «distanza fondamentale e incolmabile di Nietzsche da Max Stirner», a cui alcuni accostano Nietzsche, mentre Stirner, egli sì, è da accostare ai sofisti greci (ivi). ' Frammento 27[80] del 1884,
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pietà, della guerra, della malvagità, si prestava purtroppo a trovare il suo posto nella sciagurata ideologia fascista e aberrazioni come la sua 'morale per medici', con i suoi precetti di uccisione dei malati e di evirazione dei deficienti, il suo ribattere sulla necessità della schiavitù e inoltre molte delle sue norme d'igiene razziale sulla selezione, l'allevamento, il matrimonio, sono passate effettivamente [...] nella teoria e nella prassi del nazionalsocialismo»^®. 6. L'azione di
Nietzsche
Ma, per quanto riguarda invece l'azione la cui purezza e necessità non può essere turbata da alcun effetto, Mann vede, d'altro lato, la nobile e tormentata umanità e spiritualità di Nietzsche, «che il destino trascinò come per i capelli in una selvaggia ed ebbra demenza profetica, nemica di ogni pietas, contraria alla propria natura, esaltante la forza barbaramente turgida, l'indurita coscienza, il male, infine»". Quest'ultima pietosa giustificazione di Nietzsche, questo recupero della sua buona fede da parte di Thomas Mann, somiglia alla giustificazione che Karl Jaspers fece di Heidegger, la scusa che gli passò, certo in un momento di debolezza - perché del resto non sopportò che il suo già grande amico non si pentisse mai del suo passato - a proposito delle sue responsabilità verso il nazismo: «Mi perdonerà se Le dico ciò che qualche volta ho pensato: che Lei sembrava comportarsi verso il nazionalsocialismo come un ragazzo in preda ai sogni, che non sa che cosa sta facendo [...] e che presto si ritrova Thomas Mann, Saggi. Schopenhauer ri, Milano 1980, p. 95. " Ivi, p. 70.
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Nietzsche Freud, Mondado-
inerme di fronte a un cumulo di macerie e si lascia portare sempre più in basso»^^. A favore di Heidegger, dopo un lungo periodo di ostilità fitto di critiche all'uomo e al filosofo, Hannah Arendt avrebbe aggiunto più tardi, da parte sua, parlando con Jaspers, che «allora un diavolo lo aveva cacciato nei guai»; e che, come e perché questo fosse successo, «lui non è in grado di scoprirlo»". Ma queste giustificazioni di Heidegger da parte di Jaspers e Arendt riescono molto meno convincenti di quella di Nietzsche da parte di Mann, perché Heidegger era contorto e non aveva la nobiltà d'animo e lo spirito eroico di Nietzsche. Il destino che trascinò Nietzsche per i capelli non era altro che la storia, la necessità storica, che Nietzsche incarnava, come sempre fanno pensatori e artisti. E questa necessità reclamava, come agente di autodistruzione di una civiltà al tramonto, il superuomo. Chi era il superuomo? Il superuomo, dice Nietzsche, «è l'uomo in cui le qualità specifiche della vita, ingiustizia, menzogna, sfruttamento, sono le più grandi»". E tuttavia Nietzsche era, proprio per Thomas Mann, un «umanista fin nelle più stridenti e sofferte eccentricità», il quale pose «al centro della propria filosofia l'innalzamento dell'uomo, il suo avvenire, liberato da umiliazioni morali», come egli lo definisce ancora nella sua conferenza 11 mio tempo, del maggio 1950". Umanista qui vuol dire dunque illuminista, e tale Nietzsche potrebbe essere detto, considerato che l'autonomia umana era oggettivamente l'ideale dei suoi ideali. Elzbieta Ettinger, Hannah Arendt e Martin Heidegger. Una storia d'amore. Traduz. di Giovanna Bettini, Milano 1996, p. 51. " Ivi, p. 67. Ved. anche p. 47. Th. Mann, Saggi, cit., p. 94. " Citato da Mazzino Montinari in "Lo scolaro di Goethe", in Su Nietzsche, Editori Riuniti, Roma, 1981, p. 67.
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Una grande conferma indiretta in questo senso è la terribile delusione che Nietzsche provò quando Wagner, che egli aveva sempre considerato uno degli uomini pili forti della sua epoca, «cadde», come disse, «ai piedi della croce». Fu un dolore così crudo e personale, che non c'è da meravigliarsi che al riguardo si equivocasse. Poiché Nietzsche parlò di «un'offesa mortale», si pensò che egli si fosse offeso apprendendo che Wagner aveva espresso ai medici che lo curavano la sua convinzione che il mutato modo di pensare dell'amico fosse conseguenza di eccessi contro natura. Per questi eccessi si era intesa la pederastia. In realtà Wagner aveva parlato di onania e non di pederastia, e la confusione sarebbe avvenuta per colpa della sorella di Nietzsche Elisabeth. Ma Montinari ha pubblicato una lettera di Nietzsche a Malwida von Meysenbug, scritta in occasione della morte di Wagner, in cui Nietzsche chiarisce: «Wagner mi ha offeso e in modo mortale - voglio che Lei lo sappia! - il suo lento ritorno strisciante al cristianesimo e alla Chiesa io l'ho sentito come un insulto personale nei miei riguardi: tutta la mia giovinezza e le mie aspirazioni mi sono sembrate come contaminate dal fatto stesso che io abbia potuto venerare uno spirito capace di compiere un passo di questo genere»^^. Di questa «offesa mortale» c'è probabilmente un'eco nel «Canto dei sepolcri» e in altri punti dello Zarathustra-, ma la reazione principale, piena di forza, è espressa certamente nel capitolo «Degli apostati», 2. Che potrebbe entrare benissimo in un manifesto dell'illuminismo.
Cfr. M. Montinari, Su Nietzsche,
334
cit., p. 28.
7. Gesta
prometeica
Ma per tornare a Mann, l'azione di Nietzsche era molto più di un fatto illuministico: era un gesto, anzi una gesta prometeica, che sfiora il titanismo senza tuttavia - a quel punto - cadervi dentro. È quell'affrancamento e quell'insubordinazione morale, di cui Nietzsche parla nella lettera all'amico Heinrich Romundt del 15 aprile 1876^^. Questo ideale di innalzamento e di liberazione dell'uomo da tutte le sue catene, di rivendicazione della sua indipendenza da tutte le illusioni, tradizioni, costumanze, istituzioni, religioni, morali, credenze, convinzioni, fedi e fedeltà, lealtà e venerazioni, che sotto nomi nobili servono a tenerlo inchiodato ad appigli, grucce e condizionamenti esterni e interni e ne compromettono l'autonomia; questo ideale e questa gesta coraggiosa fino all'autolesionismo, noi li troviamo espressi soprattutto in tre passi della sua opera. Anzitutto nell'aforisma 285 della Gaia scienza. Di esso citiamo prima l'ultima parte, che corrisponde al titolo Excelsior!: C'era un lago che un giorno si proibì di defluire e innalzò una diga là dove era fino allora defluito: da allora questo lago cresce sempre più in altezza. Forse proprio quella rinuncia ci darà anche la forza con cui la rinuncia stessa potrà essere sopportata; forse l'uomo crescerà da ora in poi sempre più in altezza, dove non defluirà più in un Dio. Non è la forma più felice, come possiamo dire considerando che, dal confronto con il quaderno N V 7, 187-188, su cui l'aforisma è evidentemente basato, risulta chiara l'intenzione di Nietzsche di poetizzare que" «Da quando sono stato restituito a me stesso venero una sola cosa ogni giorno e ogni ora: l'affrancamento e l'insubordinazione morale, e odio ogni infiacchimento e scetticismo».
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sto suo pensiero. E ciò non fa bene neanche al senso, che riesce a una superfetazione. Piii interessante è invece la prima parte dell'aforisma, che indica il terribile prezzo da pagare per una simile audacia: Non pregherai più, non adorerai più, non riposerai più in una fiducia sconfinata - tu ti proibisci di fermarti davanti a una saggezza ultima, a una bontà ultima, a una potenza ultima, e di togliere i finimenti ai tuoi pensieri - non hai alcun assiduo custode e amico per le tue sette solitudini - tu vivi senza la vista sulle montagne, che portano la neve sul capo e gli ardori nel cuore non esiste più per te nessun retributore, nessun correttore di ultima mano - non c'è più nessuna ragione in ciò che accade, nessun amore in ciò che accadrà a te al tuo cuore non è più aperto alcun asilo di pace in cui esso possa solo trovare e non debba più cercare, tu ti ribelli contro una qualunque pace ultima, tu vuoi l'eterno ritorno di guerra e pace. Uomo della rinuncia, a tutto ciò vuoi tu rinunciare? Chi te ne darà la forza? Nessuno ha avuto ancora questa forza! Il secondo passo si trova nel capitolo dello Zarathustra intitolato "Di coloro che abitano un mondo dietro il mondo": Un nuovo orgoglio mi insegnò il mio Io, ed io lo insegno agli uomini: di non ficcare più il capo nella sabbia delle cose celesti, ma di portarlo libero, un capo terreno che dà senso alla terra! Il terzo passo, impressionante, si trova nel capitolo dello Zarathustra intitolato "Dei sapienti famosi": Verace - così io chiamo colui che va nei deserti senza dèi e ha spezzato il suo cuore venerante. Nella sabbia gialla e riarso dal sole, egli lancia sì sguardi furtivi e assetati verso le oasi ricche di sorgenti, ove la vita riposa sotto alberi scuri. 336
I
Ma la sua sete non lo persuade a diventare come questi amanti del comodo: giacché dove sono oasi, là sono anche idoli. Famelica, violenta, solitaria, senzadio: così vuole se stessa la volontà leonina. Libera dalla felicità dei servi, redenta da dèi e adorazioni, impavida e terribile, grande e solitaria: tale è la volontà del verace. Sono, queste, le parole più grandi che si possano pronunciare a difesa della libertà e della dignità umana. E questo, se non è proprio illuminismo, è certo la trasfigurazione dell'illuminismo.
it
8. Il rovescio
della
medaglia
Purtroppo, però, questa medaglia ha un rovescio. Un rovescio che è dovuto, se si bada alla sostanza ultima, al carattere tedesco. Non esitiamo a parlare, propositivamente, del "carattere tedesco", che nessuno ha fissato e nessuno è in grado di fissare, e però ancor meno di negare, perché in questo caso concreto la cosa ci sembra evidente. Cioè come, in positivo, lo slancio di Nietzsche nell'affermare la libertà umana non ha remore e riserve, in particolare per quanto riguarda il proprio vantaggio e svantaggio (di fatto non reggerà al peso), e dunque è da dire insieme eroico e tedesco, perché un pari slancio, impetuoso e disinteressato, caratterizza altri campioni della sua razza (è lo stesso che risuona, per fare un esempio fra tutti, nella musica di Beethoven); così anche, in negativo, esso manca di quei freni e limiti che sarebbero stati necessari per impedirne la degenerazione. E anche ciò accade ai tedeschi, in particolare quando si staccano dall'eredità latina per ritornare al loro paganesimo originario. 337
Ma quali potevano essere questi freni e limiti, da chi o da che cosa potevano derivare o essere imposti, dal momento che nulla di tutto ciò che aveva autorità l'aveva più, grazie a questa gesta, e tutto ciò che era considerato sacro non lo era più? E dal momento, soprattutto, che l'essere più sacro tra gli esseri sacri. Dio stesso, era «morto»? Ebbene, questi freni e limiti sono quelli che derivano dalla maestà del genere umano, come diremo usando un'espressione di Benedetto Croce. Questa maestà del genere umano, superiore a ogni individuo, foss'anche il genio più grande, è fatta da tutta la storia dell'umanità e dalla ricchezza di vita e di valori che gli uomini, pur tra innumerevoli cadute, arretramenti e sconfitte, sono riusciti a creare e ad accumulare come patrimonio comune e come legato per i popoli. Ma per poter recepire tali freni e limiti, Nietzsche avrebbe dovuto avere una diversa concezione della specie. Per lui la specie era l'alleanza dei deboli contro i forti, mentre i forti erano gli individui, che vivevano per se stessi, ma grazie ai quali soltanto la specie realizzava le sue potenzialità più alte. Questo grave errore di Nietzsche, di fare a meno della mediazione della specie tra l'individuo e l'assoluto, inficia la sua dottrina e in particolare la negazione della conoscenza e della morale, che hanno appunto fondamento nella specie e non nell'assoluto. Come sfida moralistica, negativa, ai tanti e terribili ostacoli che da sempre minacciano e in genere sopprimono la libertà dell'uomo, dunque come bandiera dell'indipendenza innalzata contro tutto quanto le si oppone, l'azione di Nietzsche è quale l'abbiamo mostrata. Ma come teoria filosofica, positiva, essa non tarda, come ogni altra sua, a degenerare. Non contemplando, infatti, la mediazione dell'umanità come specie, meta insorpassabile dei moti del cuore umano se non della mente (le ragioni che la ragione non conosce), essa fa sì che Nietzsche sia costretto a 338
proiettare l'individuo sullo sfondo dell'assoluto, cioè a metterlo al posto di Dio, una volta che questo sia eliminato. Già suona sinistro, nello Zarathustra, il versetto: Per me - come potrebbe esserci un fuori-di-me? Non c'è nessun fuori! Ma ciò noi lo dimentichiamo ogni volta che emettiamo suoni; come è bello che ce ne dimentichiamo! Ma poi viene fuori dalla disperazione dell'Uomo folle, nell'aforisma 125 della Gaia scienza-. «Non è la grandezza di questo gesto troppo grande per noi? Non dobbiamo farci dèi noi stessi, anche solo per apparirne degni?». Farci dèi noi stessi: è un'idea che frulla non poco in mente a Nietzsche e gli diventa alla fine una necessità. Alla quale egli si conforma, con una «libertà», cioè mancanza di scrupoli, che equivale a un cinismo e suscita orrore. Con orrore anche la ritroviamo, in italiano, in uno dei biglietti della follia: «siamo contenti? son dio, ho fatto questa caricatura...». Si tratta in realtà di un sacrilegio, al quale Nietzsche non era affatto obbligato ad arrivare. Questo è uno dei punti in cui si vede la differenza tra il paganesimo germanico e quello antico. Anche senza tener conto del fatto che Io stesso cristianesimo, come esigenza storica poi incarnatasi in Gesù e in tutti i suoi rappresentanti giù giù fino a noi, è maturato indirettamente come frutto dell'evoluzione-involuzione del mondo classico e la presuppone, ai pagani antichi non era sconosciuto quello che poi è stato chiamato il timor domini. Almeno se è lecito interpretare in tal senso l'immagine che Emilio Cecchi oppone alla baldanzosa e assertiva filosofia di Croce: quell'immagine che gli antichi esprimevano nell'attitudine delle statue dei loro grandi defunti. Finché la durata di queste statue sia, finché resti un tronco rudi339
mentale, un torso bruto, sopravvivrà di esse, cadute, acefale, monche, quasi sepolte, il gesto supremo, il gesto eterno, accennante anche dopo che le tracce delle fisionomie, del sesso, della bellezza sono scomparse. E questo gesto è di ritegno, è un gesto di diffidenza di gente infinitamente profonda verso la propria profondità; diffidenza dell'infinitamente forte verso la propria forza: il gesto dello stringersi la toga sul petto, dell'avvilupparsi in una stretta ordinanza di pieghe: il gesto del riserbo, del tutto chiuso, dello scetticismo operoso: gesto che esprime in un popolo di pietra eterna, la infinitamente consapevole e perciò silenziosa e schiva interiorità'®. Nietzsche commise sacrilegio contro la maestà del genere umano. E fu colpito dalla folgore, come il suo predecessore e fratello Hòlderlin. Anche Hòlderlin, infatti, aveva commesso sacrilegio e aveva subito la hybris. Aveva voluto amare, ma anche superare Gesìi, aveva voluto conciliare la religione cristiana con la religione dell'etere, monismo e panteismo, trascendenza e immanenza; aveva assimilato Cristo a Eracle e Dioniso, ed era stato colpito da Apollo. «Il poderoso elemento, il fuoco del cielo e il silenzio degli uomini, la loro vita nella natura e la loro limitatezza e contentabilità mi hanno profondamente scosso e posso dire di me ciò che si afferma degli eroi, cioè che sono stato colpito da Apollo», scrisse quando cominciò ad avvertire i segni della follia incombente. In cui precipitò, come sarebbe poi precipitato anche il suo unico e grande seguace Nietzsche.
Emilio Cecchi, Ricordi crociani, R. Ricciardi, Milano-Napoli 1965, p. 40.
340
I
NIETZSCHE COME PRINCIPALE RAPPRESENTANTE DELLA CRISI EUROPEA
L Giano
bifronte
Per Goethe «gli uomini sono da considerare come organi del loro secolo, che si muovono per lo piìi inconsapevolmente»^ Si può aggiungere: «E lo sono tanto più, quanto più sono significativi». Il che equivale a dire, come anche è stato detto, che la filosofia è sempre espressione del suo tempo, cioè è sempre storica. Ma che questa espressione sia nello stesso tempo filosofica significa che essa è concepita sub specie aeternitatis. Ciò significa a sua volta che per il filosofo la sua epoca non è che una delle sempre diverse facce dell'eternità. Egli inquadra cioè i contenuti particolari dell'epoca, che la sua antenna capta, in una visione globale di perennità. Ora, di questi due punti di vista contrastanti, quello storicizzante e quello eternizzante, qual è il vero e quale il falso? E facile pensare che il vero sia il primo e il falso il secondo. Perché si ritiene in genere che la storia domini l'individuo e che l'individuo, facendosi centro delle cose - del mondo e dell'epoca - adotti una visione tolemaica invece che copernicana: sia quindi vittima di un'illusione. Ma anche se ciò è tutt'altro che infondato, per la forte e incancellabile tendenza dell'uomo in tal senso, la visione individuale non si può ridurre semplicemente a quella dell'epoca e non si può risolvere in pura storicità. La storicità è un modo di essere ' Massime
e riflessioni,
957, Rizzoli, Milano 1992, p. 175.
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di qualcosa, non il qualcosa di cui è quel modo di essere. Quindi la visione individuale ha e mantiene una sua insuperabile autonomia e originalità, come la forma stessa dell'individuo, dell'uomo. L'epoca la condiziona e la modifica nei suoi contenuti, ma non la crea, non la spiega e non l'assorbe. La visione dell'individuo si forma in primo luogo in base alla pura natura umana, arricchita dall'intera esperienza biologica e storica. Ciò è dimostrato fra l'altro dal fatto che, accanto a pensatori che si limitano ad esprimere e a secondare il loro tempo, altri non solo esprimono ma anche criticano il loro tempo, in quel che ha di criticabile, in base a principi "eterni". Per questo non mancano coloro che attribuiscono alla visione individuale quella superiorità che altri attribuiscono all'epoca storica. In realtà la vita umana si svolge nella tensione e nell'interscambio tra questi due poli, dei quali ciascuno è riconducibile, ma non riducibile all'altro, essendo entrambi aperti sull'infinito. Si può quindi capire la posizione degli "innocentisti", che sono oggi la stragrande maggioranza, per quanto riguarda la questione delle responsabilità politiche di Nietzsche, sebbene Nietzsche appartenga come filosofo, nel senso che diremo, alla prima e solo come moralista-poeta alla seconda delle due categorie considerate. Come ogni filosofo, cioè, Nietzsche si può leggere da un punto di vista esclusivamente filosofico, sub specie aeternitatis appunto, senza far riferimento all'attualità, al contesto storico. È soprattutto questa la lettura che se ne fa oggi. Il che avviene probabilmente per due ragioni: 1) non si ha interesse a ritirar fuori l'attualità di Nietzsche, ormai dietro le nostre spalle, e in realtà sprofondata nel baratro del passato; 2) proprio per la libertà che ciò consente, solo oggi, in seguito ai grandi studi eseguiti lungo tutto il Novecento, sembra risaltare nella sua purezza l'importanza filosofica, il fascino del 342
suo pensiero dominato da un pathos poetico e la selvaggia bellezza della sua dottrina. D'altra parte si sa che Nietzsche stesso era un innamorato dell'eternità; che era, come dice Karl Lowith, «un vero amante della sapienza, che cercava l'imperituro e l'eterno e per questo voleva vincere il suo tempo e il tempo in genere»^. Infine il filosofo, come lo scienziato, non è direttamente responsabile dell'uso che gli altri fanno delle sue teorie, specie a distanza di un mezzo secolo. È responsabile, come teoreta, solo di fronte alla verità. 2. La questione
della
responsabilità
Si tratta, certo, di una responsabilità diversa. Ma è una responsabilità minore? Essa comunque non vieta, e anzi impone, la lettura anche dall'altro punto di vista, quello dell'attualità storica. Impone perfino la lettura in questo senso di ciò che in Nietzsche sembra meno dipendente dall'epoca e va più verso la grandezza e l'eterno. Neanche toglie a Nietzsche la responsabilità (o il merito) per ciò che la sua dottrina favorisce e autorizza, ostacola e impedisce. Nietzsche non si può leggere esclusivamente philosophice. Quelli che così fanno, lo fanno per una forzatura, in omaggio alla corrente prevalente attuale, contraria a quella prevalente per quasi tutta la prima metà del Novecento, e in dispregio della ragione e dell'evidenza. Perché Nietzsche stesso, di tali riferimenti storici, ne fece molti, essenziali ed univoci, tali da rendere disperata l'impresa di negarne la responsabilità. «Nietzsche coniò, con una durezza e brutalità inaudita di cui nei suoi rapporti con gli altri non fu mai capace. ' Friedrich Nietzsche, nach sechzig Jahren, ;