Da Nietzsche a Heidegger. Mondo classico e civiltà europea

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© 2012 Scuola Normale Superiore Piva isbn

978-88-7642-420-5

Sommario

Introduzione

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Parte prima - Esercizi di realismo I.

Nietzsche, l’etnologia e il mondo classico 1. Filologi e sciamani 2. Il ‘pensiero impuro’ dei selvaggi e degli Elleni 3. Contaminazioni e scambi tra tradizioni diverse 4. Il metodo comparativo e le illusioni degli antichisti 5. Il ‘fondamento naturale’ dell’evoluzione storica 6. La ‘scala graduata’ della civiltà

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IL

La stirpe dei ‘gioiosi dilettanti’, la loro duttilità nell’apprendere 1. Culti arcaici in Grecia 2. Un’apparente ‘semplicità’, uno spietato tirocinio 3. Andare a scuola dagli stranieri 4. La preoccupante miopia degli europei

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III.

Imporsi agli dèi, dominare la natura 1. La tirannia del costume agli albori della civiltà 2. Magia e causalità naturale 3. Simboli religiosi, pegni vincolanti 4. La magica forza del ritmo 5. Numi tutelari 6. Inorridire di fronte al ‘sacro’

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IV. Dilthey tra Corate e Stuart Mill: scienza, tecnica c rapporti sociali nel mondo antico 1. Contemplazione del cosmo e filosofia della natura 2. Progresso scientifico e ‘scomposizioni’ 3. Lavori manuali c forme di sapere 4. Esperimenti, innovazioni tecniche e rapporti sociali

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Cicerone, ‘Roma eterna’ e le sfide della modernità 1. Storiografìa filosofica e storia dei concetti 2. 11 diritto naturale degli antichi 3. La filosofia ciceroniana e la Patristica 4. Modernità del pensiero romano 5. Affetti, saggezza pratica e virtù sociali

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V.

6. Volontà di dominio e responsabilità individuale 7. Naturate ratio

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no

Parte seconda - Retaggi orientali nel mondo classico VI. Gerarchie di civiltà: il problema della continuità storica europea 1. Tradizionali distinzioni tra epoche diverse 2. Oltre l’ordine cronologico: il problema delle ‘ricomposizioni’ storiche 3. Atmosfere crepuscolari

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VII. La scoperta della magia e della religiosità ellenistica 1. Ritmo e magia 2. Critici dell’evoluzionismo ottocentesco 3. Forme aurorali del mito: il primato dell’agire 4. Mistica ellenistica 5. Magia e intraprendenza pratica

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Vili. Civiltà babilonese, parsismo e gnosi nella tradizione ebraica e nel cristianesimo 1. Il caos originario e le mostruose divinità degli abissi 1 Eredità orientali nei testi biblici 3. Gnosticismo e culti astrali 4. Le controversie intorno agli scritti ermetici 5. Platone interprete dell'oriente IX, Gli ‘dèi sconosciuti’, la mistica ellenistica e ‘Cristo Signore’: Eduard Norden e Wilhelm Bousset 1. Polemiche tra storici negli anni del nazismo 2. Il ‘Dio sconosciuto’ di Paolo 3. Quasi una filosofia della storia 4. Wilhelm Bousset ritrovarsi nel ‘Signore’, rafforzare la comunità 5. Elementi gnostici in Paolo 6. Giovanni e il ‘culto della luce’ 7. Marcione ‘espressionista’ 8. Tra la ‘scuola di Gottinga’ e Karl Barth 9. Ascensioni in cielo, discese agli inferi 10. Un nuovo ‘vangelo* della grecità

X.

Spazi angusti e soffocanti, sguardi privi d'espressione: Spengler critico della classicità 1. Giudizi affrettati 2. Alois Riegl e il ‘volere artistico’: i tratti più originali di un’epoca di decadenza 3. Scolpire lo sguardo, scrutare l’infinito 4. Josef Strzygowski e gli spazi ‘magici’ della tarda antichità 5. Cripte, archi e cupole tra 1 Armenia ed Antiochia: la ‘grammatica’ delle forme artistiche 6. Prospettive annullate, figure stilizzate e deformi, edifici irregolari 7. Oltre linee e superfici: il problema della corporeità

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8. Mancanza di rilievi nell’arte del Quinto secolo: Poiignoto, Zeusi e Apollodoro 9. Mirone, Policleto, Lisippo e l’abbandono del canone pittorico 10. Trucchi da illusionista: relazioni spaziali nell’ellenismo 11. Sguardi impersonali, portamenti maestosi 12. L’individualità dei caratteri, la concreta fisionomia dei volti: la svolta del Quarto secolo 13. Verso una ‘metafisica’ delle tonalità cromatiche 14. Angoscia e civiltà 15. Unità corporea, ‘persona’ e identità spirituale 16. Sulla religione romana

XI. Spengler, il ‘mondo magico’ e le civiltà ellenistiche 1. Pseudomorfosi: commistioni tra culture diverse 2. Casi di ‘cristallizzazione impropria’ nella Roma imperiale 3. La ‘Babele’ dei linguaggi religiosi 4. Complessi fenomeni osmotici: la teologia di Marcione, il culto di Maria ‘madre di Dio’, l’ideale della ‘milizia di Cristo’ 5. La tenace ‘resistenza’ dei culti pagani 6. Un sincretismo ‘selvaggio’, temerarie ‘contaminazioni’ tra religioni diverse 7. Segni di un nuovo dinamismo: infinite storie edificanti 8. Religioni magiche: ‘spirito’ e ‘anima’ nell’ebraismo 9. Escatologie orientali e cristianesimo 10. L’inarrestabile scorrere del tempo, la scoperta dell’individualità 11. Crisi di civiltà

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Parte terza - Orizzonti sempre più ristretti

XII. Ebraismo, mondo classico e cristianesimo: interessi storiografici in Heidegger negli anni *20 e '30 1. Le ‘passeggiate erudite’ della cultura ottocentesca 2. Storia delle religioni e metodo comparativo 3. Riscoprire l’escatologia cristiana: un serrato confronto con i teologi 4. La civiltà latina, il ‘Creatore increato’ 5. L’ispirazione religiosa della teoresi: un contributo di semantica storica 6. Metamorfosi della ‘verità’ in civiltà diverse 7. Ancora una parola-chiave: il concetto di ‘mondo’ nella varietà dei suoi significati 8. Filosofie del mito 9. Termini saturi di storia: il concetto di ‘persona’

XIII. Oltre i ‘traviamenti’ dell’interiorità: Stefan George, Walter F. Otto e Martin Heidegger 1. Li vicinanza del dio 2. Aderire al ‘mondo’, rinunciare agli incantesimi 3. La natura ‘femminea’ della fede cristiana 4. Stefan George, la ‘roccia dell’essere’ e il culto della ‘forma’: nuovi misteri pagani

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5. Esercitarsi nel ‘vedere’, rinunciare al soliloquio interiore 6. Adoratori del caos 7. Eccessi e travestimenti, alla maniera di Peer Gynt 8. Monaco, 1903: Prometeo e Teseo contro i Titani 9. W.F. Otto e la cerchia di George 10. Dare ascolto al dio, decifrare l’essere 11. Religiosità come ‘sapere’, non come slancio affettivo 12. Vecchie e nuove divinità 13. Psicologia e ‘scienza delle religioni’: come accostarsi al mito 14. Il giuoco delle apparenze 15. Antigone e Creonte 16. Interpretazioni razionali del mito: Nestle e Bultmann 17. L’originaria percezione del tempo 18. Veritas 19. Le più antiche inflessioni della lingua tedesca

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XIV. Il ‘terzo umanismo’, Werner Jaeger e Martin Heidegger: il mito della grecità negli anni del nazismo 1. Greci e stirpi ariane 1 Filologi classici e nuovi valori spirituali 3. Trasformare il passato, intervenire nel presente 4. Educazione politica 5. Una ricostruzione tendenziosa 6. L'umanesimo degli antichi, un’illusione per epigoni

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XV. Controversie intorno al termine humanitas nella prima metà del Novecento 1. La riscoperta di Cicerone nei primi anni del Novecento 2. Humanitas e valore dell’individualità 3. Un termine difficile da definire 4. Accortezza politica e magnanimità 5. Nuovi percorsi di ricerca: dal mondo antico alla civiltà rinascimentale 6. Hans Baron e l’umanesimo ovile del primo Quattrocento 7. Heidegger e la moderna renascentia rornanitatis 8. Dopo il 1945: nuove reminiscenze ciceroniane

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Abbreviazioni

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Bibliografia

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Registro delle fonti

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Indice dei nomi

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Introduzione

1. Nel 1805 vengono date alle stampe in Germania, con una coin­ cidenza tutt’altro che casuale, due distinte versioni delle orazioni di Demostene. A cospetto della minaccia napoleonica, entrambi i tradut­ tori, lo storico Barthold Georg Niehbur e il filologo Friedrich Jacobs, si propongono di ammonire e spronare i loro compatrioti, richiamando alla memoria l’esempio di Atene, costretta a fronteggiare l’arroganza macedone. Più di un secolo dopo, i Greci rappresentano ancora, nella cultura tedesca, il ‘passaggio obbligato’, il ‘valico’ attraverso cui occorre tran­ sitare per fare seriamente i conti col presente. Nell’ottobre 1919, in un momento di grande disorientamento, lo storico Eduard Meyer aveva intitolato Prussia e Atene la prolusione letta a Berlino nell’accettare l’incarico di rettore. Il suo discorso si soffermava sulla disfatta ateniese presso Egospotami (405), per far vedere come proprio all’umiliazione e alla sconfitta si legasse la grandezza di Tucidide, la sua «piena im­ parzialità» nel narrare «in maniera impietosa gli orrori e i crimini di Atene». Le vicende della storia greca si mischiano così agli eventi del primo Novecento: Tucidide, con la sua inflessibilità, può insegnare, ancora una volta, a reagire alla disfatta - dichiara Meyer - e a tenersi lontani da reazioni scomposte e continue recriminazioni1. Anche per altri studiosi, negli stessi anni drammatici, la grecità di­ venta un indispensabile metro di paragone per fare i conti con le più recenti vicende. Julius Juthner, nella premessa al suo studio Elleni e barbari (1923), confessa ad esempio di aver ricavato la prima idea della sua ricerca dal confronto con quella «realtà avvilente» che si era mani­ festata al momento in cui «lo scoppio delle ostilità aveva soppresso nei popoli, con un colpo solo, ogni sentimento di comunione tra gli uo­ mini e aveva suscitato, in taluni casi, un odio rovente che non poteva

‘ O. Immisch, Das Nachleben der Antike, Leipzig, Dieterich 1919, p. 3; E. Meybr. Preujien und Athen, Berlin, Curtius 1919, pp. 16 e 21.

x Mondo classico e civiltà europea

esimersi dall’umiliare il nemico». Nel periodo bellico, ricorda ancora Juthner, risultò «spontaneo, a cospetto di [...] fenomeni che si credeva non potessero verificarsi al nostro livello di civiltà, l’andare alla ricerca di analogie nel passato»2. All’inizio del Novecento, le culture e le religioni deH’ellenismo e dei primi secoli della cristianità vengono a trovarsi, a seguito della pressio­ ne di esigenze e interessi legati all’attualità, al centro delle discussioni e delle ricerche. La tarda antichità, scrive lo storico Matthias Gelzer nel 1927, «gode al presente (...) del più grande interesse», anche al di fuori della cerchia degli studiosi. Da più parti si rivendica la sua ‘moderni­ tà’, dato che si tratta di un periodo storico «carico di passato e insie­ me orientato al futuro», e quindi si presenta segnato da una singolare mescolanza dei tempi, simile in questo all’età più recente: «Anche noi viviamo in un’epoca della transizione e della metamorfosi, del volger lo sguardo a nuovi modi di valutare»3. 2. Nei Greci, di conseguenza, continua a racchiudersi una sfida con­ tinuamente riproposta - «un problema [...], non più semplicemente storico, ma sempre attuale, e forse addirittura il più serio di tutti»4. I filosofi, tra Nietzsche e Heidegger, sono d’accordo nel riconoscere la singolare ‘attualità’ degli antichi, che diventano il punto focale, in tempi diversi, attraverso cui si rifrangono e si precisano nuove questio­ ni. L’Ellade, a fine Ottocento e nei successivi decenni, si presenta come vero e proprio experimentum crucis, che permette la ‘costruzione’ di ‘modelli ideali’ indispensabili per ‘calarsi’ di nuovo nel presente e per decifrare, da una prospettiva distanziata, il complesso delle trasforma­ zioni in atto. A Nietzsche risulta chiaro che gli studi sul mondo classico costitui­ scono, in realtà, un grande ‘esercizio retorico’, al cui interno si agitano le esigenze e le aspettative più diverse: «Non diventa di anno in anno più chiaro che tutto quanto costituisce l’essenza dei Greci e dell’anti­ chità, per quanto essa sembri presentarsi a noi semplice ed universal­ mente nota, sia molto difficilmente comprensibile, anzi a stento acces-

2 J. Juthner, Hellenen u nd Barbaren, Leipzig, Dieterich 1923, p. vii. 3 M. Gelzer, Altertumswissenschaft und Spàtantike, «Historische Zeitschrift», 135, 1927, pp. 187 e 186. Sull’argomento cfr. G. Cambiano, Il ritorno degli antichi, RomaBari, Laterza 1988. 4 W.F. Otto, Der europàische Geist und die Weisheit des Orients, Frankfurt a.M., Klostermann 1931, p. 8.

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Introduzione

sibile, e che la consueta disinvoltura con cui si parla degli antichi, o è una leggerezza, oppure una vecchia ereditaria presunzione delle teste vuote?»5. Nietzsche vuol dunque insegnare a guardare con diffidenza al lavoro dei filologi classici («Che cosa sono mai le nostre chiacchiere sui Greci!»), che non coltivano il senso delle distanze e subiscono il mito di una civiltà ‘armonica’ e serena («e noi impariamo che il nostro sentirci estranei è ancor più istruttivo del nostro senso di familiarità»)6. Spengler, a sua volta, denuncia rinfittita catena degli equivoci, delle ‘rimozioni’ e degli stravolgimenti che hanno accompagnato le prese di posizione sulla classicità. Quasi sempre - si legge nell’introduzio­ ne al Tramonto dell’occidente - «nelle immagini che ci siamo fatti dei Greci e dei romani abbiamo ogni volta immesso e sentito ciò che [...] ci mancava o che nutriva le nostre speranze»: sarà un giorno necessa­ rio ricostruire la serie dei fraintendimenti («Pochi studi sarebbero più istruttivi di questo») e narrare «la storia di questa fatale illusione, la storia di ciò che, a partire dal periodo gotico, abbiamo venerato come classico». Esemplare per Spengler, da questo punto di vista, la vicenda del viaggio italiano di Goethe - un grande entusiasmo per il «freddo stile accademico» delle costruzioni del Palladio, in cui si vuol ritrova­ re l’equilibrio degli antichi, e poi sconcerto e delusione, che affiorano anche negli appunti, a cospetto dei templi di Pompei. E quindi, anche in questo caso, l’ammirazione si manifesta solo nell’andare incontro a «un fantasma, [a] un idolo», come avviene del resto per generazioni di studiosi che rivendicano «la loro ‘antichità’» e ne fanno «lo sfondo di un ideale di vita [...], un ricettacolo per il loro sentimento del mondo»7. Anche per Heidegger, i Greci rientrano nell’orizzonte del presente, rappresentando l’alternativa, la ‘sfida’ che può scuotere alle fondamen­ ta un mondo che ormai conosce la ‘creazione’ (e l’umiliazione dell’asservimento a un ‘Creatore’) e non ignora il bisogno di «sicurezza nel senso della certezza incondizionata» 8. In conseguenza di ciò, per Hei­ degger, il confronto con l’Ellade (non solo con il ‘pensiero degli inizi’, ma anche con la civiltà greca nel suo insieme) deve servire, una volta scansati gli equivoci e la fitta «foschia di ciò che si chiama ‘filosofia

’ N-M 195.

6 N-M 170; N-NF 24 ( 11, inverno 1883-84 (i frammenti di Nietzsche vengono indi­ cati in base alla loro numerazione progressiva e alla data di composizione, tralasciando il numero della pagina). 7 S-UA, p. 41 ; tr. it. pp. 54-5. • H-PARM.P. 190; tr. it. p. 231.

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Mondo classico e civiltà europea

della vita’», a riaprire il discorso sul «destino dell’Europa», sulla «storia dell’occidente»9. La grecità, insomma, «non è nulla di trascorso o di antiquato, e neppure una ‘antichità’, ma qualcosa che ci viene incontro in una forma ancora imprecisa»10. Occorre comunque saper vedere, da questo punto di vista, come il nostro ‘presente’ abbia ‘inondato’ e travolto l’insieme di quell’esperienza, deformandone irrimediabil­ mente i tratti più peculiari: «Il fatto che ancor oggi [...] l’Occidente pensi il mondo greco in termini romani, e quindi latini, cristiani [...], costituisce un evento che riguarda il cuore stesso della nostra esistenza storica»11.

3. Nell’impostare il tema della ricerca, può sembrare, in un primo momento, che il lavoro debba risolversi in un inventario delle ‘fonti’, quasi sempre non dichiarate, attraverso cui i filosofi svolgono e ‘so­ stengono’ le loro considerazioni sulla civiltà greco-romana. Tuttavia il ‘registro’ dei ‘prestiti’, man mano che viene realizzato, si trasforma in qualcosa di completamente diverso. I contributi specialistici rifu­ si nelle pagine dei filosofi - nelle opere a stampa, nei manoscritti e nelle lezioni - sono talmente numerosi e rilevanti da costituire, se at­ tentamente indagati, una documentazione imponente, da cui si può agevolmente ricavare un quadro d’insieme, pressoché privo di lacune, dei mutamenti che investono, tra la seconda metà dell’ottocento e i primi decenni del secolo successivo, l’investigazione storico-critica del mondo antico. Nella cultura tedesca, il «dilettantismo geniale di Nietzsche»12, ispi­ rato dal ‘demone storico’ e attento a non trascurare ogni possibile convergenza tra filosofia ed erudizione, trova degno proseguimento in ambito novecentesco: sia Spengler che Heidegger non solo torna­ no a occuparsi del problema della grecità, e della più antica identità dell’occidente, ma mostrano anch’essi notevole acume neU’inserirsi

9 M. Heidegger, Einleitung in die Philosophie (semestre invernale 1928-29) in H-GA 27,1996, p. 320; H-EM, p. 45; Id., Grundfragen der Philosophie (semestre inver­ nale 1937-38), in H-GA 45,1984, p. 146. 10 M. Heidegger, Heraklit (semestre estivo 1943), in H-GA 52,1979, p. 204; tr. it. Eraclito, Milano, Mursia 1993, p. 135. “ H-PARM, pp. 66-7; tr. it p. 101. 12 H.G. Gadamer, Erinnerung an Heideggers Anfànge, in G. Moretti (ed.), Hei­ deggeriana (numero speciale di «Itinerari*, 25, 1986), lanciano, Editrice Itinerari 1986, p. 16.

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Introduzione

nelle discussioni specialistiche e nel confrontarsi con filologia, ‘scienza delle religioni’ e storia dell’arte. In molte indagini filosofiche, composte e pubblicate tra il 1870 e il 1945, è possibile mettere in rilievo, per quanto riguarda la civiltà clas­ sica, una solida trama di interessi interdisciplinari, un sorprenden­ te complesso di nozioni e di apporti eruditi, spesso ricavati da fonti accortamente dissimulate. Raccogliendo i contributi di cui si servo­ no i filosofi intenti a discutere della grecità, in decenni drammatici e decisivi per la civiltà europea nel suo insieme, si finisce per scrivere, quasi inavvertitamente, una storia complessiva dei risultati conseguiti dagli antichisti tedeschi, in tale periodo, nella varietà dei loro interes­ si. Nei testi di Nietzsche, di Spengler e di Heidegger lasciano infatti tracce profonde, più o meno visibili, tutte le più notevoli ‘cronache’ dell’antichistica tedesca contemporanea: l’incontro tra filologia classi­ ca ed etnologia (Edward Burnett Tylor, John Lubbock) dopo il 1870; i contributi di Hermann Usener e dei suoi allievi (da Albrecht Dieterich a Franz Cumont); le indagini della ‘scuola di Gottinga’ e le nuove frontiere dell’orientalistica tra Hermann Gunkel e Wilhelm Bousset; i contributi sull’ermetismo e sul ‘cristianesimo pagano’ di Richard Reitzenstein e di Eduard Norden; l’interpretazione del ‘volere artisti­ co’ della tarda antichità proposta da Alois Riegl; la restaurazione del primato dei ‘classici’ da parte di Werner Jaeger; la rilettura del ‘mito greco’ avanzata da Walter Friedrich Otto; le dispute tra filologi negli anni ’30 intorno all’idea di humanitas. E se gli apporti degli specialisti finiscono, quasi sempre, per ‘segna­ re’ le discussioni filosofiche, sono d’altro canto proprio i ‘filosofi’, col loro modo di rielaborare e di ‘semplificare’, in certa misura, i saperi intorno agli antichi, a farci più agevolmente comprendere le ottiche più generali e le ‘speculazioni’, spesso ardite, che sorreggono molti ri­ gorosi contributi degli specialisti. L’opera di Spengler, da questo punto di vista, può ad esempio risultare utile per ‘riscoprire’ l’ampiezza delle prospettive e l’approfondimento concettuale racchiusi nell’erudizione di Riegl o di Reitzenstein.

4. La discussione sui ‘caratteri originari’ della civiltà europea, che attraversa campi disciplinari diversi, e tuttavia torna sempre sulle me­ desime questioni, può esser ricostruita solo a patto di mettere da parte le ‘suddivisioni di competenze’, le partizioni settoriali nell’ambito del­ le ‘scienze dello spirito’. Studiosi e uomini di lettere, profondamente diversi sia per formazione che per interessi scientifici, scoprono ben presto l’orgoglio, al momento di esprimersi sulla grecità, di far parte

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Mondo classico e civiltà europea

della stessa comunità ideale: storici e filosofi, teologi, giuristi e storici dell’arte sono ben consapevoli di condividere la stessa responsabilità, aprendo un dialogo con la cultura greco-romana, e di doversi pronun­ ciare sui ‘destini’ del mondo civile. Soprattutto in Germania - ricordava a suo tempo Calogero - già a partire dall’ultimo Ottocento circolava una «diffusa consapevolezza che interpretare l’antico fosse insieme svelare un’eterna e suprema ve­ rità»: sopra i filologi e i filosofi che parlavano dell’Ellade, di conseguen­ za, «incombeva un’aureola profetica e nello studente riviveva il miste e il catecumeno»13. Gli studiosi che appuntano lo sguardo sul mondo antico diventano, al di là delle distinte competenze accademiche, quasi i ‘confratelli’ di un medesimo ordine religioso. E dalle vesti sobrie e modeste dell’e­ rudito viene d’un tratto fuori - non solo nel caso di Wilamowitz o di Jaeger - il vate e l’indovino che cerca di decifrare, nei segni del passato, il ‘futuro’ di un’intera civiltà. La cultura greco-romana si presenta così come un singolare terreno d’indagine, che costringe gli studiosi a un continuo ‘scambio delle parti’. Filologi, storici e teologi sfiorano talvol­ ta, con le tematiche più generali che propongono, anche il piano delle ‘filosofie della storia’ e non restano estranei al ‘politeismo dei valori’; i filosofi, d’altro canto, sono costretti a battere i ‘sentieri tortuosi’ dell’e­ rudizione e ad acquistar confidenza (Nietzsche come Dilthey, Spengler come Heidegger) con le competenze specialistiche degli antichisti. Per chiarire il tema dei rapporti tra filosofia e antichistica, nell’arco di tempo preso in considerazione, è necessario, in definitiva, proce­ dere simultaneamente su piani diversi, tra loro collegati ma tuttavia distinti: leggere gli scritti dei filosofi, ricercando fonti e ‘prestiti’ che documentino le loro effettive conoscenze in merito al mondo classico; ricostruire il più ampio quadro dei mutamenti e delle svolte, a propo­ sito dei metodi di lavoro, dei ‘linguaggi’ e degli ‘argomenti’ prediletti, che caratterizzano i contributi specialistici di storici e antichisti; pre­ stare infine attenzione ai ‘valori’ attraverso cui si sottopone sempre di nuovo a discussione, associando filologia e speculazione, il problema delle origini, e dell’identità, della civiltà europea nel suo complesso.

15 G. Calogero, Storia dell’ethos e storia dell’etica nel mondo antico (recensione del primo volume del’opera di W. Jaeger, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, de Gruyter, Berlin u. Leipzig 1934, pubblicata in «Giornale critico della filosofia italiana», 15, 1934), in Id.» Scritti minori di filosofia antica, Napoli, Bibliopolis 1984, p. 526.

xv Introduzione

5. Dal 1870 in poi, mutano velocemente, di decennio in decennio, il pathos, gli accenti e le ‘figure retoriche’ impiegati per annunciare «l’e­ terno e supremo valore del vangelo umano della grecità»14. In questo periodo, e con crescente intensità nel primo Novecento, si manifesta anche un vivo interesse per la storia delle religioni, e in particolare per il sincretismo e per i culti misterici della tarda antichità (tra il Terzo secolo a.C. e il Quarto secolo d.C.) - un ambito di ricerche che si intreccia con un più ampio dibattito sul problema dell’identità dell’Europa, e quindi dei rapporti tra Oriente e Occidente, tra culture del bacino mediterraneo e civiltà dell’Asia Minore. Un numero sempre più ampio di studiosi, nei primi decenni del Novecento, indaga con passione e tenacia i primi tre secoli dell’era cristiana, l’età in cui «l’oriente ellenizzato s’impone dappertutto con i suoi uomini e con le sue opere». Ne risultano ricerche che affrontano «questioni delicate e complesse di provenienza e di filiazione»15, sugge­ rendo di volger le spalle al ‘dogma’ di un’evoluzione lineare dal mondo classico alla cristianità. Solo in questi anni si riesce di nuovo a vedere, «per dirla con Giovenale, [che] l’Oronte ed anche il Nilo e l’Halys si riversano nel Tevere». E al tempo stesso si intraprendono analisi ap­ profondite, talvolta condotte in maniera quasi febbrile, per chiarire quei complicati processi attraverso cui, sul finire del Secondo secolo, si compie «uno straripamento di credenze e di concezioni egizie, semi­ tiche, iraniche, che sommerse tutto quel che avevano laboriosamente edificato il genio greco e romano»16. Grazie ai nuovi studi, stimolati da una «generosa cooperazione» tra discipline diverse, viene infranto l’«incantesimo umanistico», che co­ stringeva a fissare lo sguardo soltanto sul suolo greco: diventa sempre più fitto il dialogo che coinvolge filologi classici (gli allievi di Usener, Reitzenstein), teologi protestanti (Gunkel e i ‘gottinghesi’) e storici del sincretismo ellenistico (Cumont), e assieme a loro semitisti (Mark Lidzbarski) e studiosi di iranistica17. L’ampio confronto finisce per trasformare profondamente anche i

H Ibfd., p. 524. 15 F. Cumont, Die orientalischen Religionen ini romischen Heidentum, 2. Aufl., Leipzig u. Berlin, Teubner 1914, pp. 11 e xm; tr. it. Le religioni orientali nel paganesimo romano, Bari, Laterza 1967, pp. 35 e 24. 16 Ibid., p. 27; tr. it. p. 48. 17 H. Jonas, Gnosis und spdtantiker Geist, Erster Teil: Die mythologische Gnosis, Gòttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1964 (I ed. 1934), p. 4.

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‘giudizi di valore’ che sorreggono il confronto con l’antichità, promuo­ vendo nuove e aspre discussioni su origini e tratti distintivi della civiltà europea. Il rinnovato interesse rivolto al ‘mito degli inizi’, riproposto nelle più diverse versioni, coinvolge anche i filosofi. Nietzsche presenta i ‘suoi’ Greci come ‘gioiosi dilettanti’, spregiudicati e intraprendenti, pronti a selezionare in termini quasi ‘sperimentali’ la loro cultura. Dil­ they mette in primo piano, volendo sfidare scienze naturali e positi­ vismo sul loro stesso terreno, il tema dei rapporti tra speculazione e rapporti lavorativi nel mondo classico; e affronta anche, mosso dalle stesse esigenze, l’influenza dello ‘spirito positivo’ della romanitas nel­ la prima età moderna. Spengler, denunciando una ‘bancarotta’ ormai avvenuta, mette l’indice sull’asfissia e sull’assenza di dinamismo della civiltà greco-romana. Heidegger, infine, descrive nell’Ellade la ‘patria’ dell’Essere, la terra estranea al ‘calcolo’, alla ‘volontà di dominio’ della Roma imperiale e della tradizione ebraico-cristiana. In tutti questi casi, gli ‘antichi’ che vengono messi in scena manten­ gono un’insopprimibile, feconda ambiguità: saranno pure le ‘compar­ se’ e i modelli da utilizzare per affrescare grandi ‘manifesti ideologici’, ma restano anche l’esito, che si modifica nel corso del tempo, di pa­ zienti e rigorose ricerche sul piano della ‘scienza’ dell’antichità. Dietro Nietzsche, a leggere con attenzione i testi, si scorge la grande filologia classica tedesca del tempo, ma anche l’opera di Wilhelm Mannhardt e l’etnologia di Edward B. Tylor e di John Lubbock Nelle pagine di Dilthey si ritrovano gli studi logici di John Stuart Mill e le prese di po­ sizione di scienziati come Emil du Bois-Reymond e Justus von Liebig, e al tempo stesso anche le ricerche dello storico Theodor Mommsen e le indagini di giuristi come Otto von Gierke e Rudolf von Jhering. Attraverso Spengler - e questo è forse il risultato più sorprendente - è possibile tornare a fare i conti con alcuni protagonisti indiscus­ si dell’antichistica del primo Novecento: storici dell’arte come Alois Riegl e Wilhelm Worringer, filologi classici come Eduard Norden e Richard Reitzenstein, storici delle religioni come Adolf von Harnack e Franz Cumont. E dai contributi di Heidegger viene fuori, in maniera simile, un dialogo che coinvolge le ‘scienze dello spirito’ del tempo, e in primo luogo autori come Rudolf Bultmann, Werner Jaeger e Walter F. Otto.

6. A fine Ottocento, l’idea che il cristianesimo più antico, e la sua indiscussa ‘matrice’ occidentale, non costituiscano un particolare pro­ blema, risulta largamente condivisa: «Sul terreno dello stato universa­ le romano e della civiltà greca [...], si è sviluppata la chiesa cristiana

xvn Introduzione

assieme alla sua dottrina»18. Atene, Roma e Gerusalemme rientrano in una vicenda unitaria e ben delineata, quasi presentandosi nel loro insieme come un compatto ‘blocco marmoreo’, per così dire, impossi­ bile da scalfire. Alessandria, Antiochia e l’Armenia restano, per il mo­ mento, ancora sullo sfondo. Gli indirizzi di ricerca, nel giro di pochi anni, subiscono comunque una drastica svolta, e gli studiosi, dopo Usener, cominciano a demolire sistematicamente le barriere, all’apparenza così solide, poste tra gli ini­ zi del cristianesimo e la ‘magia’ e le ‘superstizioni’ ellenistiche. Cresce così la convinzione che si possa giungere a intendere la cristianità an­ che attraverso le variegate credenze in «una divinità che soffre, muore e torna a vivere vittoriosa», assai «diffuse in Egitto, Palestina e nella Fenicia»19. Fare i conti col sincretismo religioso della tarda antichità, con le sin­ golari commistioni tra cristianesimo e misteri orientali, tra le dottrine dei Padri della Chiesa e teorie gnostiche ed ermetiche, costringe gli studiosi a ‘schierarsi’, a pronunciarsi sul piano dei ‘valori’, per soste­ nere oppure per avversare determinati ‘punti di vista generali’ che ri­ guardano lo svolgimento della civiltà europea nel suo complesso. Al momento in cui diventano evidenti le radici ‘pagane’ e ‘magiche’ della prima fede cristiana, storici, teologi e filologi non possono esimersi dal ‘prender partito’, chiarendo le più ampie implicazioni dei loro contri­ buti specialistici. Gli scritti degli gnostici rappresentano una sfida, un problema qua­ si insormontabile, per lo «spiccato pathos umanistico» di generazioni di filologi classici20 e trasformano, al tempo stesso, la comprensione di aspetti cruciali del cristianesimo originario. Ecco allora, in questo contesto, il farsi avanti di Paolo, come enigmatica figura fortemente influenzata da speculazioni ‘orientali’, attento cultore dei ‘misteri’: «ritroviamo la specifica antropologia paolina, con la sua rigida oppo­ sizione tra un superiore fattore divino (il pneuma) e l’intera cerchia dell’essere naturale dell’uomo (psyche e nous incluso) quasi soltanto [...] sul terreno della Gnosi»21.

18 A. von Harnack, Lchrbiich der Dogniengschichte, I: Die Entstehung des christlicheti Dogrnas, Friburg i.B., Mohr 1886, p. 40. 19 W. Boussht, Kyrios Christos. Geschichte des Christusglaubens voti den Anfiingen des Christentums bis Irenaeus, Góttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1913, pp. 28-9. 20 Jonas, Gnosis und spatantiker Geist cil„ p. 51. 21 Bousset, Kyrios Christos cit.» p. 237.

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Nel primo Novecento, dalla tarda antichità provengono stimoli e suggestioni notevoli; da questo nuovo fervore di studi derivano conse­ guenze che finiscono per aver risonanza nelle più diverse sfere culturafi. In tale direzione, non è un caso che la ‘riscoperta’ di Hòlderin, dopo il 1910, sia favorita, tra l’altro, dalle discussioni del tempo, estremamente vivaci, intorno alle dottrine gnostiche. Norbert von Hellingrath - l’editore degli inediti hòlderliniani (1913-16) - si accinge a studiare i manoscritti conservati a Stoccarda, nell’estate del 1909, dopo esser rimasto impressionato dal Settimo anello di Stefan George, ma soprat­ tutto dai testi gnostici letti e commentati nei mesi immediatamente precedenti. Restano dei suoi appunti ricavati, nel 1908, da Valentino, da Teodoto e da altri. E nel 1914 il filologo intrattiene gli amici decla­ mando in greco un importante testo gnostico, il Salmo dei Naasseni, e riuscendo a stupirli con «una sconvolgente rivelazione della nuova dimensione spirituale [...] conquistata dalla lingua greca dell’età più tarda»22. Lo gnosticismo e l’incanto del ‘caos’ ellenistico, se lasciano traccia nella repentina ‘scoperta’ di Hòlderlin, acquistano parimenti influen­ za, in questi anni, sul piano dell’interpretazione dei testi filosofici. Esse­ re e tempo, ad esempio, sarà considerato l’ultima, grandiosa riflessione iscritta nella tradizione degli gnostici, anch’essa portata a termine per documentare quanto incidano nell’«esistenza terrena [...] angoscia, erramenti, fuga e nostalgia». E la ‘modernità’ della gnosi verrà indivi­ duata nel suo modo di descrivere un ‘mondo’ in cui si leva «l’infinito lamento [...] della creatura asservita», unito a «odio e disprezzo verso il mondo, angoscia per la sua oscura costrizione (il ‘destino’ cosmico), isolamento nella sua estraneità»23. L’idea che l’Ellade, nel suo ‘splendido isolamento’, sia l’unica, irripe­ tibile ‘matrice’ dell’identità europea, non scompare affatto nella prima metà del nuovo secolo. Il richiamo alla classicità viene comunque pro-

22 E. Saljn, Hòlderlin im George-Kreis, Berlin, Kiipper (vormals Bondi) 1950, pp. 10-1; N. von Hellingrath, Hòlderlin-Vermàchtnis, eingel. von L. Pigenot, Miinchen, Bruckmann 1944, pp. 198-9 e 212-6. Proprio lo gnosticismo, secondo Pigenot (ibid., p. 198), col «suo incerto oscillare tra mondo pagano e cristianesimo», e con l’attesa di una palingenesi, apre a Hellingrath le vie per avvicinarsi a Hòlderlin. 23 Jonas, Gnosis und spàtantiker Geist cit., pp. 113 e 38. L’opera di Jonas insiste più volte sulla «singolare analogia?» tra l’analitica esistenziale heideggeriana e le specula­ zioni degli gnostici, dominate dall’idea che «la vita sia ‘gettata’ nel mondo e nei corpi» (ibid., pp. 106-7).

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Introduzione

fondamente modificato. Cresce a dismisura, negli anni ’20, «il diso­ rientamento a cospetto della scienza e della sua funzione nell’insieme della ‘civiltà’», in un quadro - rileva Heidegger - in cui risultano ormai disseccate «entrambe le forze storiche» che nel Diciannovesimo seco­ lo, «determinavano in larga misura l’esistenza, anche se spesso ancora soltanto come rispettabile convenzione - l’ideale formativo classico, [...] contrassegnato dai nomi di Goethe e Schiller, e la religiosità cri­ stiana». Così, nei primi decenni del Novecento, all’«irrigidimento» e alla crescente «smania di specializzazione» delle singole scienze cor­ risponde la loro crescente incapacità di stabilire reciproci contatti e di promuovere «un ideale formativo vitale ed attivo»24. Nello ‘smarri­ mento’ intellettuale dell’epoca, in un contesto di logoramento dei va­ lori tradizionali e di acuta «incertezza nella posizione esistenziale della scienza», si cerca comunque di ‘riguadagnare’ la grecità e di ‘aprire’ nuovi varchi per giungere al mondo classico senza dover passare per le vie da qualche tempo ‘insabbiate’, e quindi impraticabili, del classici­ smo ottocentesco. Jaeger, W.F. Otto e lo stesso Heidegger, in molte sue pagine, propongono gli ‘esercizi spirituali’ di una nuova ‘devozione’, ben consapevoli del fatto che, nell’età in cui l’Oronte e il Nilo tornano a confluire nel Tevere, il ‘mito greco’ dovrà esser ridefinito in termini completamente nuovi.

*** Raccolgo in questo volume ricerche condotte, sulla scorta di un disegno unitario, nell’arco di molti anni. Le sezioni più ampie del testo sono inedite (pp. ix-xix, 69-70, 76-85, 110-115, 181-464). Nelle altre parti dell’indagine, riprendo, modifico e rielaboro i risultati di contributi già pubblicati in sedi diverse e qui citati all’interno della sezione dedicata alla letteratura secondaria. I singoli capitoli, nel testo, sono stati concepiti come unità autonome, da leggersi anche isolatamente. Ciò ha comportato, in rari casi, qualche lieve sovrapposizione tematica o un nuovo rinvio a citazioni già in precedenza richiamate. Nel comporre le diverse parti del libro, si è inoltre tenuto conto di quell’«apprezzata massima universale della morale degli eruditi» secondo cui, come ricorda Franz Overbeck in una lettera scritta a Adolf von Harnack del marzo 1877, non è concesso «caricare la propria imbarcazione al di là dello stretto necessario»: nella stesura delle note, di conseguenza, è

24 Heidegger, Einleitung in die Philosophie cit., pp. 31 e 28.

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Mondo classico e civiltà europea

parso opportuno, per non appesantire eccessivamente il testo, limitare drasticamente i riferimenti alla letteratura secondaria. Desidero ringraziare Fabio Cozzi (Lucca) e Pierpaolo Ciccarelli (Cagliari) per aver letto, con grande attenzione, parti del manoscritto. Sono riconoscente alla signora Anna Coletto (Biblioteca di Lingue e letterature moderne 2, Università di Pisa) per la prontezza e la competenza con cui ha agevolato, a partire dalle sue conoscenze bibliografiche, lo svolgimento del lavoro. È stato inoltre assai profìcuo, per diversi argomenti affrontati in queste pagine, l’assiduo confronto, che si è protratto per molti anni, con Hubert Treiber (Hannover). Mi preme infine ricordare quanto debba la mia ricerca, non solo nei suoi risultati, ma anche nel suo progetto originario, al convinto sostegno e all’amicizia di Francesca Cresta (Cagliari), e a una lunga consuetudine di scambi e di conversazioni negli studi e nelle aule del nostro Dipartimento.

Parte prima

ESERCIZI DI REALISMO

1 :

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I. Nietzsche, l'etnologia e il mondo classico

1. Filologi e sciamani

Con Umano, troppo umano (1878-80), Nietzsche scende in cam­ po contro «i filosofi nebulosi e gli oscuratori del mondo, [...] tutti i metafisici di nobile o bassa lega», prendendo le difese del «filosofare storico». Il suo discorso, nel fare i conti col «difetto ereditario dei filo­ sofi», con la loro «mancanza di senso storico», si collega a quanto aveva scritto Friedrich Albert Lange nella sua Storia del materialismo. Nel loro impetuoso sviluppo, le scienze naturali si erano incontrate con le filosofie di Comte e di Feuerbach, provocando, a giudizio di Lange, una caparbia «sopravvalutazione filistea» del presente: ciò impediva di scorgere quanto fossero intricati i sentieri dell’evoluzione storica e come restassero sottili, quasi impercettibili, le linee di demarcazione tra errori e verità, superstizioni e scoperte scientifiche. Nella storia, in realtà, assai spesso - si legge nella Storia del materialismo - le «nuove idee [...] si fondono addirittura con l’errore che devono eliminare» e l’abbandono del «pregiudizio» avviene, il più delle volte, come «la con­ clusione ultima dell’intero processo», quasi come la «lucidatura» finale di un macchinario appena montato e, in termini altrettanto figurati, «storicamente l’errore si manifesta, di frequente, come il calco, al cui interno viene fusa la campana della verità, che viene infranto al termi­ ne della fusione. 11 rapporto della chimica e dell’alchimia, dell’astro­ nomia e dell’astrologia, contribuisce a spiegare questo dato di fatto»1. L’immagine prescelta colpisce senza dubbio Nietzsche, che se ne ser­ ve in un importante aforisma («Fusione di campana della civiltà») di Umano, troppo umano: «la civiltà è nata come una campana, dentro una camicia di materiale più grezzo e comune: falsità, violenza, illimi­ tata estensione di tutti i singoli io, di tutti i singoli popoli, furono que-

1 N-VM 10; N-MA 2; F.A. Lange, Geschìchte des Materialisnius und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, Iserlohn, Baedeker 1866, pp. 333 e 335-7.

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sta camicia. È ora tempo di toglierla?»2. La medesima metafora, rivolta ad illustrare l’impronta negativa e ‘impura’ attraverso cui si consolida la verità sul piano della storia, viene riproposta, in un senso solo par­ zialmente diverso, in un altro testo degli stessi mesi. L’età contempo­ ranea, scrive Nietzsche, è un’epoca «felice», dal momento che «ci si apre davanti, per la prima volta nella storia, l’immensa vista di mete umano-ecumeniche, abbraccianti tutto il mondo abitato»; al contra­ rio, civiltà e mondi storici precedenti, irrigiditi in ambiti ristretti, «po­ tevano godere solo se stessi e non potevano vedere al di là di sé, anzi erano come rinchiusi sotto una campana dalla volta più o meno ampia, da cui la luce si riversava sì su di essi, ma attraverso la quale nessuno sguardo poteva penetrare di fuori»3. L’imminente ‘felicità’ dei tempi nuovi, già pronta a dispiegarsi e sempre più visibile nel prossimo futuro, risulta dalla rottura di bar­ riere e di vincoli nazionali, dalla possibilità di potenziare ‘scambi’ e di progettare «fini ecumenici» in precedenza addirittura inconcepibi­ li. In questo quadro, gli europei tornano a confrontarsi di nuovo con gli stessi problemi a cui guardavano gli antichi Greci. Nietzsche, in questo periodo, è convinto che esista una sostanziale corrisponden­ za, con cui è importante fare i conti, tra la grecità e il mondo in cui si muoverà l’«uomo universale» dell’immediato futuro. Nelle pagine di Umano, troppo umano e negli scritti preparatori - molti appunti del 1875, come pure le lezioni sul Servizio divino dei Greci del medesimo anno - circola infatti l’idea che gli Elleni non avevano affatto bisogno di una «campana» soffocante, secondo l’immagine più tardi proposta, per plasmare, in pieno isolamento, la loro civiltà. Essi sapevano ‘im­ parare’ dagli stranieri, non ponevano il loro orgoglio nel respingere credenze e costumi incontrati in terre lontane. I Greci sono «coloro

2 N-MA 245. Nietzsche cosi prosegue: «Si è il liquido solidificato, sono i buoni, utili impulsi (...) diventati cosi sicuri e generali, che non ci sia più bisogno di appoggiarsi alla metafisica, o degli errori delle religioni, di durezza e violenza, come dei mezzi più potenti onde unire gli individui e i popoli tra loro?». Il brano N-NF 23( 167 J dell’edizione de Gruyter, scritto tra la fine del 1876 e i mesi successivi, mostra un medesimo ap­ proccio al problema della ‘storia della civiltà’: «Se gli uomini non avessero creato edifici per gli dèi, l’architettura sarebbe ancora in fasce. I compiti che l’uomo si è posto sulla base di ipotesi errate (per esempio distaccare l’anima dal corpo) sono stati l’occasione delle più alte forme di cultura. Le ‘verità’ non sono in grado di fornire simili motivi» (nell’edizione Adelphi, N-NF 24(83)). > N-VM 179.

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I. Nietzsche, l'etnologia e il mondo classico

che portano a compimento, non inventori» (Vollender, nicht Erfinder). Proprio per questo «sono geniali anche nell’imparare, sanno appren­ dere nel modo migliore», senza boria o fastidio per quanto risulta, in un primo momento, estraneo: «Per lungo tempo si sono rivolti in giro a imparare, come gioiosi dilettanti»4. Sui moderni, d’altro canto, grava il peso di rigide ‘intolleranze’, tra nazioni ed etnie, mentre sul suolo greco qualsiasi «gretta autoctonia» (bornirte Autochthonie) non è mai riuscita a prosperare5. Un simile modo di vedere viene acquisito da Nietzsche, come ve­ dremo, nell’arco di pochi mesi, al momento in cui, tra la primavera e la fine del 1875, si occupa di filologia classica, per preparare il corso sul Servizio divino dei Greci, letto nel semestre invernale 1875-76, e si dedica al contempo alla più recente letteratura etnologica. Antichità classica e «pensiero impuro» dei primitivi, mitologia greca e magia, filologi e sciamani: questi singolari collegamenti si ritrovano sia nel manoscritto delle lezioni che in numerosi aforismi di Utnano, troppo umano. Si può leggere, in un primo momento, una serie di annotazioni, in cui si ritrova questo intreccio di interessi diversi. Nel frammento 5(164] si introduce il concetto di «residuo» (Uberbleibsel'), ricavato dal linguaggio degli etnologi, e si parla addirittura dei «nostri residui metafisici». Nel successivo appunto 5(165], direttamente legato ai temi affrontati nelle lezioni, Nietzsche inizia a ritrovare nelle cre­ denze religiose complesse stratificazioni di elementi disomogenei, per provenienza e per tempi di formazione: «Nel sistema e nel culto degli dèi greci si trovano tutti i segni di un’antichissima condizione rozza e oscura, permanendo nella quale i Greci sarebbero diventati qualcosa di assai diverso». Nel frammento 5(162] si ricorre allo stesso punto di vista nell’occuparsi di arte e, ancora una volta, di religione: «I poeti sono esseri retrogradi e un ponte verso epoche remote (...]. A loro è da rimproverare la stessa cosa che alla religione: che cioè pacifica­ no solo temporaneamente e sono come dei palliativi». E il discorso di Nietzsche, subito oltre, prova ad applicare alle più alte manifestazioni dello ‘spirito’ le categorie interpretative degli etnologi: «I mezzi che gli uomini adoperano contro il dolore sono sotto molti punti di vista mez­ zi narcotici. La religione e l’arte appartengono ai narcotici della rappre-

4 N-NF 5(155] e 5(65), primavera-estate 1875. 5 N-NF 5(114), primavera-estate 1875.

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sentazione. Esse hanno un effetto accomodante e calmante: si tratta di un gradino della medicina inferiore per le sofferenze psichiche»6. Nell’associare etnologia e antichistica, saggiando la ‘resistenza’ e la plasticità del concetto di «residuo», Nietzsche si distacca da Wagner e da Schopenhauer e si sforza, in questi mesi, di guadagnare nuovi punti di vista, estranei alle ‘pastoie’ dei filologi classici, per tornare ai greci. Intento a rafforzare il «bisogno di redenzione», il cristianesimo ope­ ra con energia spietata - così l’aforisma 141 di Umano, troppo uma­ no - per «denigrare, [..] flagellare, [...] crocifiggere ogni cosa umana». Finalità ben diverse erano invece all’opera nel «mondo antico», in cui si faceva ricorso ad «un’immensa forza di spirito e di inventività» per riuscire ad «accrescere con culti festosi la gioia di vivere». Dei «greci che celebrano feste» (festfeiernd) già si parlava nelle lezioni del 187576, proprio all’inizio del corso, seguendo tacitamente una pagina del filologo Georg Friedrich Schoemann, autore di un manuale utilizzato in quest’occasione: «Essi si sono serviti di una forza smisurata, calco­ lando anche tempo e denaro, proprio per far evolvere le usanze del servizio divino; se presso gli ateniesi la sesta parte dell’anno consisteva di giorni di festa [...], tutto ciò non era un segno di abbondanza e di pi­ grizia, non era tempo perso»; in effetti, lo storico non può dimenticare che «l’inventività del pensiero, l’unificare, interpretare e trasformare, in questo campo, è il fondamento della loro polis, della loro arte, della loro intera potenza in grado di affascinare e dominare il mondo»7. Venendo a descrivere l’accorta e ‘gioiosa’ intraprendenza dei Greci,

6 N-NF 5(163], primavera-estate 1875. 7 N-GDG, p. 363. Identica la fonte utilizzata: cfr. G.F. Schoemann, Griechische Alterthùmer, II: Die intemationalen Verhàltnisse und das Religionswesen, Berlin, Weidmann 1859, p. 392 (la seconda edizione di questo testo è presente nella biblioteca

privata di Nietzsche). G.F. Schoemann (1793-1879), filologo classico, studioso della re­ ligione greca e del diritto antico, è docente di retorica e di filologia presso l’università di Greifswald dal 1827. Sui Greci come coloro che «celebrano feste- (festfeiernd) si discor­ re anche in N-NF 5[ 150]: «Ciò che per noi è oggetto di ricerca e di lavoro, è per i Greci motivo di festività*. Tutti i testi da cui risultano le fonti utilizzate nel ciclo di lezioni sul ‘servizio divino dei greci’, sono presenti nella biblioteca privata di Nietzsche (G. Campioni, P. D’Iorio, M.C. Fornari, R. Fronterotta, A. Orsucci eds., Nietzsches

persònliche Bibliothek, Berlin u. New York, de Gruyter 2003) oppure vengono presi in prestito dal filosofo nel periodo in cui raccoglie materiali per questo corso universita­ rio (L. Crescenza Verzeichnis der von Nietzsche aus der Universitatsbibliothek in Basel entliehenen Bùcher: 1869-79, in Nietzsche-Studien 23, 1994, pp. 388-442).

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I. Nietzsche, l'etnologia e il mondo classico

sempre pronti a ostentare «bellezza, sfarzo e molteplicità [...] in cortei, templi e oggetti del culto», Nietzsche non tralascia di inserire nel suo discorso una nota polemica riferita ai tempi più recenti: «È da doman­ darsi se un’età come la nostra, che mostra il suo vigore sul piano delle macchine e nello sviluppo della guerra, impieghi la sua forza in manie­ ra [...] più utile»8. Il docente universitario che si esprime in tal modo davanti ai suoi studenti, nella prima delle sue lezioni, ricorre a toni simili anche negli appunti privati: «la nostra sviluppatissima filologia rende schiavi, servendo l’idolo dello Stato»9. Con accenti analoghi, l’antichità viene definita nel 1876-77 «l’epoca del talento per ìa gioia delle feste», a partire da un confronto puntuale, già presente nelle lezioni sulla religiosità greca, con le tendenze più ca­ ratteristiche del presente: «una buona parte dell’attività cerebrale che oggi è destinata all’invenzione di macchine, alla soluzione di problemi scientifici, era dedicata allora ad aumentare le fonti di gioia»10. Quando pone l’accento sull’incolmabile distanza tra l’antica ‘gioia’ per le festività e il ‘calcolo’, la tecnica e il ‘militarismo’ dei moderni, Nietzsche intende gettare le prime ‘fondamenta’ della nuova filologia ‘critica’ da costruire: «Il mio scopo è di provocare una completa ini­ micizia tra la nostra attuale ‘cultura’ e l’antichità. Chi vuole servire la prima, deve odiare la seconda»11. La sua apologia dell’Ellade, un luogo in cui era possibile ‘ritrovare’ l’identità collettiva nei ‘giuochi’ e nelle feste, poteva appoggiarsi ad al­ cuni contributi che avevano segnato, anche con profonde discussioni, la filologia del tempo. Cari Boetticher, un antichista, sosteneva l’idea che in Grecia i templi fossero edifici riservati non solo al culto, ma an­ che a celebrazioni «profane»; la sua monografia del 1852, La tettonica dei Greci, mostrava, in particolare, come specialmente il Partenone e il tempio di Zeus a Olimpia fossero, «in realtà, soltanto sacrari per feste, che servivano alla celebrazione di festività ricorrenti, e che venivano inoltre impiegati esclusivamente per accogliere i preziosi annientata, e

8 N-GDG, pp. 363-4. Sul «nostro militarismo moderno, quale esiste in mezzo alla nostra eterogenea (...) società, come un anacronismo vivente», si veda anche N-WS 279. A proposito delle posizioni politiche di Nietzsche nell’estate del 1875, cfr. il ricor­ do di Louis Kelterborn, in S.L. Gii.man, Begegnungen mit Nietzsche, Bonn, Bouvier 1981, pp. 237-8. 9 N-NP 5(177], primavera-estate 1875. 10 N-NF 23( 148) inverno 1876-estate 1877; nell’edizione Adelphi 24(67). " N-NF 3(68], marzo 1875.

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certo anche il tesoro cittadino da portare in corteo»12. Simili conside­ razioni sono riprese nelle lezioni di Nietzsche, al momento in cui si di­ scute di templi destinati a «festività prive di culto»; e anche l’ipotesi di Boetticher, secondo cui il Partenone non mostrerebbe «la benché mi­ nima traccia di [...] una consacrazione e di una sacralità legate al cul­ to», viene fatta propria dal filosofo: «il Partenone, essendo edificato in forme artistiche doriche, non può essere il tempio destinato al culto di una divinità nazionale attico-ionica [...]. Una modalità architettonica come quella dorica è estranea alla coscienza religiosa degli ateniesi»13. Evidenziando la funzione del tempio greco come luogo di raccolta di doni e tesori che servivano «all’apparato delle grandi feste statali, all’allestimento di pompe, agoni e processioni», Boetticher intende documentare l’importanza, in Grecia, di una ‘simbologia’ legata a cele­ brazioni «profane», destinate a conferire solennità alla «semplice am­ ministrazione degli affari privati e politici». Il suo intento è quello di contribuire «alla conoscenza del modo grandioso con cui tra gli antichi tutte le forze dell’attività artistica figurata [...] venivano impiegate an-

n C. Boetticher, Die Tektonik der Hellenen, II: Der hellenische Tempel in seiner RaumanlagefurZwecke des Kultus, Buch 4, Potsdam, Riegei 1852, p. 3. Cari Boetticher

(1806-89), archeologo e storico dell’arte, allievo di K.F. Schinkel, insegna a Berlino dal 1844. Che Nietzsche sia interessato alle teorie di Boetticher, risulta anche dal fatto che

tra l’ottobre e il dicembre del 1875 prende a prestito dalla biblioteca universitaria di Basilea alcuni numeri della rivista Philologus, in cui era contenuto un lungo contributo dell’antichista: Uber agonale festtempel und thesauren, deren bilder und ausstattung («Philologus» 17, 1861, pp. 385-408 e 577-605; 18, 1862, pp. 1-54, 385-417, 577-603;

19,1863, pp. 1-74). Nello stesso tempo, il filosofo prende visione anche di uno scritto di B. Stark (cfr. N-GDG, p. 419) in cui erano criticate le vedute di Boetticher (Cari Boetticher’s ansichten uber die Agonaltempel, den Parthenon zu Athen und den Zeus-

Tempel zu Olympia, «Philologus», 16, 1860, pp. 85-117). Conosce inoltre, su questi temi, altri due studi di Boetticher: Uber den Parthenon zu Athen und den Zeus-Tempel

zu Olympia, je nach Zweck und Benutzung, «Zeitschrift fur Bauwesen», 2, 1852, pp. 198-210,498-520; 3,1853, pp. 35-44,127-42,270-92; DerZophorus am Parthenon hinsichtlich der Streitfrage uber seinen Inhalt und dessen Beziehung auf dieses Gebaude, Berlin, Ernst u. Kom 1875. Quest’ultimo volume venne preso in prestito da Nietzsche dalla biblioteca universitaria di Basilea in data 20 ottobre 1875 (cfr. L. Crescenzi, Verzeichnis der von Nietzsche aus der Universitàlsbibliothek in Basel entliehenen Biicher 1869-1879, ciL, pp. 388-442). 13 N-GDG, pp. 417 sgg.; stesse argomentazioni in Boetticher, Uber agonale fest­

tempel und thesauren cit. (1861), pp. 402-3.

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I. Nietzsche, l'etnologia e il mondo classico

che per soddisfare bisogni che si trovano al di là degli stretti limiti della sfera ieratica, per provvedere agli scopi del bisogno statale profano»14. Ricerche del genere, non a caso ricordate da Nietzsche ai suoi studen­ ti, offrono validi argomenti per far valere, in opposizione agli ‘oscuri’ rapporti politici del presente, l’esempio di una civiltà che edificava la sua ‘grandezza’ procedendo per vie sconosciute ai moderni.

2. Il ‘pensiero impuro’ dei selvaggi e degli Elleni

Fin dalla prima lezione, Nietzsche cerca di convincere i suoi studen­ ti a non riguardare i Greci come l’espressione di un’esperienza sto­ rica irripetibile, incomparabile con altre culture e civiltà. Certo, può sorprendere la loro «incessante energia nel riflettere», la loro tenace «buona volontà di non accontentarsi di niente di mediocre», e questo, nonostante nella «logica del pensare» che segna le loro usanze religiose non vi sia alcunché di straordinario: i loro rituali, sostiene Nietzsche, non sono «originali [...] nel senso di un culto del tutto autoctono [...]; al contrario, gli elementi del loro culto li ritroviamo ovunque», potreb­ bero appartenere ai Fenici o ai Frigi, ai Germani o ai Romani15. I Greci, anche sul piano religioso, ben conoscono quel « pensiero impuro» (un concetto ripreso anche in Umano, troppo umano') assai diffuso in ogni civiltà, che mostra marcati segni di contatto «con la lo­ gica della superstizione, ma anche con quella della poesia». Sono pur­ troppo i filologi, ammonisce Nietzsche, a non avere alcuna confidenza con tali modalità di pensiero, restando incapaci di comprendere lati importanti della grecità. «Ovunque, ancor oggi, si trovino popolazio­ ni [...] su più bassi livelli di civiltà (Culturstufen), e ovunque, nelle

M Boetticher, Uber agonalefesttempel und thesauren cit. (1862), p. 54. Sulle con­ troversie suscitate dalle tesi di Boetticher, cfr. C. Bursian, Geschichte der classischen Philologie in Deutschland, II, Munchen u. Leipzig, Oldenbourg 1883, pp. 110-1. Sulle tradizioni della filologia ottocentesca in Germania, si veda adesso G. Leghissa, Incor­ porare l’antico. Filologia classica e invenzione della modernità, Milano, Mimesis 2007. 15 N-GDG, p. 364. Osservazioni simili si trovano anche nel corso di lezioni, tenuto negli stessi mesi, sulla Storia della letteratura greca (Geschichte der griechischen Litteratur III, semestre invernale 1874-75, in Nietzsches Werke, Kritische Gesamtausgabe, 11/5» Berlin u. New York, de Gruyter 1995, p. 302): «Per quanto riguarda l’originalità, i Greci non erano troppo scrupolosi |...J, prendevano il buono dove si trovava e soprat­ tutto apprezzavano di più, rispetto alio scoprire, il portare a compimento».

io Mondo classico e civiltà europea

nazioni civilizzate, tra le classi popolari inferiori, scarsamente istruite, si rinviene la medesima maniera di pensare. È su questo terreno del pensiero impuro che sorse il culto greco»16.

16 N-GDG, pp. 364-5. Per il concetto di «pensiero impuro» in Umano, troppo uma­

no, cfr. MA 32, 33 e 292. Tale espressione compare anche in numerosi appunti com­ posti tra il 1875 e il 1877; assai significativo, per questo modo di guardare alla ‘storia

della civiltà’, è il frammento 23(4], scritto tra la fine del 1876 e l’estate del 1877: «La stessa maniera di pensare che ancor oggi determina le grandi masse [... ] è servita come fondamento a tutti quanti i fenomeni della civiltà. Questa partie honteuse si è tirata

dietro le conseguenze più strabilianti e magnifiche; anche la civiltà possiede un suo pudendum come ventre materno, al pari dell’uomo». Nelle lezioni sul ‘culto divino’

dei Greci, l’affermazione sopra riportata (N-GDG, p. 365) è inserita in un quadro più

ampio: «È su questo terreno del pensiero impuro che sorse il culto greco; allo stesso

nodo in cui sul terreno del sentimento di vendetta è sorto il sentimento del diritto». E Ubito dopo Nietzsche prosegue: «Come è stato detto: ‘Le cose migliori [...] hanno vi­ scere ripugnanti’». Quest’ultima affermazione è, in realtà, un aforisma dell’amico Paul Rèe, inserito in un breve testo pubblicato in quei mesi (Psychologische Beobachtun-

gen, Berlin, Duncker 1875, p. 64). La prima riflessione, sul passaggio dalla ‘vendetta’ al ‘diritto’, risale invece a E. Duhring, al suo volume Der Werth des Lebens (1865), che Nietzsche andava chiosando in questo periodo: «La concezione del diritto, e con essa tutti i particolari concetti giuridici, trova il suo fondamento ultimo nell’impulso alla ritorsione, che si chiama, al suo più alto livello, vendetta. Il sentimento del diritto è (...) un risentimento, una sensazione reattiva e rientra nello stesso genere affettivo della vendetta» (Der Werth des Lebens, Breslau, Trewendt 1865, pp. 219-21). Tale libro, non a caso dedicato a Feuerbach, «filosofo ardente», vuol mostrare, contro Schopenhauer, che «sul piano dei giudizi e delle valutazioni pratiche non può esservi una conoscenza pura, meramente teoretica» (ibid., p. 5). Il limite della filosofia del diritto, secondo Duhring, è quello di trasferire «il concetto di equità nello spazio vuoto di una poesia

trascendente», ignorando «impulsi», «sentimenti» e «bisogni», che sono pur sempre il solido basamento di ogni ‘astratta’ norma giuridica: «Si è dimenticato di indagare a qual punto le radici del sentire sensibile incidano nelle funzioni superiori

ciò

che nel linguaggio corrente si definisce ‘spirituale’ (...], è solo la forma astratta del ‘sensibile’» (ibid., pp. 100-2). Al problema del «pensiero impuro», delle «conoscenze impure», Nietzsche giunge quindi attraverso Duhring: e infatti queste espressioni sono presenti anche nelle note dell’estate 1875 ricavate dal Werth des Lebens (N-NF 9(1],

in N-KSA 8, pp. 135 e 147). Su Nietzsche e Duhring si veda almeno V. Gerhardt, Das ‘Prinzip des Gleichgewichts’. Zum Verhdltnis von Recht und Macht bei Nietzsche,

«Nietzsche-Studien», 12, 1983, pp. 111-33; A. Venturelli, Asketismus und Wille zur Macht. Nietzsches Auseinandersetzung mit Eugen Dùhring, «Nietzsche-Studien», 15,

ii

I. Nietzsche, l'etnologia e il mondo classico

Lo stupore del pubblico, nell’ascoltare il ‘credo’ anticlassicista di Nietzsche, dovette esser notevole. L’umanesimo dei filologi, responsa­ bile di un atteggiamento «evirato e bugiardo» nei confronti del mondo greco, è ciò che il filosofo si propone di respingere: «L’elemento umano (das Menschliche), rivelatoci dall’antichità, non deve essere scambiato con l’elemento umanistico (mit dem Humanen). Questa contrapposi­ zione deve essere accentuata [...]. L’elemento umano dei Greci consi­ ste in una certa ingenuità, con cui presso di loro si rivelano l’uomo, lo Stato, l’arte, il vincolo sociale [...]: si tratta precisamente dell’elemento umano, che si mostra [...] presso tutti i popoli, ma che presso di loro si rivela senza maschera e con assenza di umanesimo»17. Nessuna ‘superiorità’ degli Elleni, quindi, ma piuttosto, nell’ottica di Nietzsche, una parentela con mentalità e modi di reagire che si ritrova­ no sia tra i «selvaggi» che tra gli strati sociali più miseri e illetterati delle società moderne. Una notevole «imprecisione» nell’osservare, un’in­ clinazione a interpretare «somiglianze» casuali o momentanee come segni di un’identità ‘sostanziale’, un’«esclusività della memoria per casi sorprendenti», inaspettati («L’irregolare, lo straordinario [...] tiene occupata la fantasia dell’uomo incolto») - per comprendere i Greci, occorre riuscire a calarsi nella sfera dell’«umano, troppo umano», che proprio in questi mesi comincia ad acquistare, per Nietzsche, contorni più precisi. Per illustrare un aspetto rilevante del loro pensiero («Falso concetto di causalità, scambio tra il ‘ciò che viene dopo’ e il concetto di effetto») viene introdotto, in queste lezioni, un riferimento singolare: qualsiasi oggetto può subire una sostanziale metamorfosi, in base alla logica del «pensiero impuro», ricevendo il ‘rispetto’ dovuto a un essere divino, e un’àncora abbandonata sulla spiaggia, che era stata sfiorata come era successo presso un gruppo di Cafri - dal sovrano poco prima di morire, diventa il ricettacolo di poteri straordinari18.

1986, pp. 107-39; M. Brusotti, 'Die Selbstverkleinerung des Menschen’ in der Moder­ ne, «Nietzsche-Studien», 21, 1992, pp. 98 sgg. 17 N-NF 3(18] e 3(12], marzo 1875. 18 N-GDG, p. 365. Già F.A. Wolf, a suo tempo, era dell’avviso che «il povero nativo della Camciatca» e la «mentalità delle popolazioni selvagge» fossero un ottimo terreno di confronto per la filologia classica. Nel 1785, il filologo notava come fosse «un’occu­ pazione piacevole e interessante ricercare nell’originario modo di pensare di nazioni ancora illetterate il fondamento di costumi e consuetudini che in seguito si diffonde­ ranno ampiamente (...]. 1 primi concetti che un popolo si procura a proposito di un essere superiore o divino, non debbono in alcun modo venir valutati sulla scorta del

12 Mondo classico e civiltà europea

L’osservazione viene ricavata dalla monografia di John Lubbock, non menzionata agli studenti, sui costumi dei primitivi19. Ripor­ tando una tale esemplificazione, Nietzsche, sia pur indirettamente, afferma l’importanza, per il ‘tirocinio’ di un giovane filologo, di ‘sa­ peri’ fino a quel momento estranei all’università. Una disciplina che solo allora, dopo la pubblicazione delle grandi monografie di Tylor (1871) e di Lubbock (1870), tradotte rispettivamente in lingua tede­ sca nel 1873 e nel 1875, cominciava a mostrare i segni di un’impe­ tuosa evoluzione, viene immediatamente tenuta presente in queste lezioni accademiche20. E il discorso di Nietzsche, associando i Cafri e i Greci, non solo ricorre a un’inaspettata ‘nota discordante’ per sti­ molare il senso critico dei suoi studenti, ma individua anche un ter­ reno di confronto in cui la trasfigurazione ‘classicistica’ del mondo greco non può che risultare sconfitta: «la venerazione dell’antichità classica, quale si rivela negli Italiani, cioè l’unica venerazione seria [...] che sino ad oggi sia toccata in sorte all’antichità, è un grandioso esempio di donchisciottismo: e qualcosa di simile vale, nel migliore dei casi, per la filologia»21.

criterio che ci fornisce la nostra illuminata ragione» ( Ueber den Ursprung der Opfer, in Id„ Kleine Schriften, II, Halle, Buchhandlung des Weisenhauses 1869, pp. 644-8).

Nietzsche prende in prestito questo libro in data 18 febbraio 1875.

19 J. Lubbock, Die Entstehung der Civilisation und der Urzustand des Menschengeschlechtes, Jena, Costenoble 1875, p. 236. Per prime indicazioni sul confronto di

Nietzsche con Lubbock, espressamente citato nell’aforisma 111 di Umano, troppo umano, cfr. D.S. Thatcher, Nietzsches’ Debt to Lubbock, «Journal of thè History of Ideas», 44, 1983, pp. 293-309. Per un giudizio ben diverso in merito alla stessa que­ stione, si veda M. Heidegger: «Sarebbe del tutto sbagliato, mettere sullo stesso piano

l’epoca eroica dei Greci e l’esistenza degli odierni Cafri» (Einleitung in die Philosophie dt,p. 123). 20 Del tutto diversa l’opinione di J. Burckhardt, per il quale «anche la conoscenza

degli odierni popoli allo stato di natura (...) e del loro mondo divino non ci insegna

molto intorno al divenire di questo popolo greco, assolutamente unico nelle sue doti» (Griechische Kulturgeschichte, in Id., Gesammelte Werke, V, Basel u. Stuttgart, Schwa-

be 1978, p. 31). Sul modo in cui Nietzsche legge quest’opera, cfr. H. Pfotenhauer, Die Kunst als Physiologie. Nietzsches àsthetische Theorie und literarische Produktion, Stuttgart, Metzler 1985, pp. 127-33.

21 N-NF 7(1], 1875. In merito al rapporto di Nietzsche con la filologia classica del tempo, si veda adesso C. Benne, Nietzsche und die historisch-kritische Philologie, Berlin

New York, de Gruyter 2005.

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I. Nietzsche, l'etnologia e il mondo classico

3. Contaminazioni e scambi tra tradizioni diverse

La denuncia delle insufficienze del ‘classicismo’ si inserisce in una più ampia riflessione sul presente come età di transizione, che travol­ ge antiche e solide ‘certezze’ («Tutte le fondamenta della civiltà sono diventate fragili: dunque la civiltà deve necessariamente perire»)22 e si compie attraverso «la scomparsa della nazione» e la «creazione dell’uo­ mo europeo»23. In tale contesto, Nietzsche si occupa della religiosità e dei culti dei Greci, nelle lezioni del 1875-76, ma propone al contempo un discorso più generale, raccogliendo materiali per far vedere come nella storia si verifichino continue ‘commistioni’ e ardui ‘compromessi’ tra culture e tradizioni diverse. Ogni civiltà, di conseguenza, non sarà mai - questo il ‘discorso sul metodo’ svolto adesso - il ‘coerente’ dispiegamento di un principio ‘univoco’, omogeneo nelle sue premesse e nei suoi esiti. Per comprendere simili tesi sul ‘divenire storico’, strettamente legate alla percezione di drammatici e profondi sconvolgimenti già presenti all’orizzonte, occorre procedere con cautela, chiarendo le esplicite in­ dicazioni nietzscheane attraverso un continuo riferimento alle fonti, accortamente utilizzate, senza peraltro alcuna diretta menzione, nel­ la stesura del corso universitario. In quest’occasione, Nietzsche sfiora diversi argomenti, non legati, a quanto sembra, ai suoi più immediati interessi filologici, e compone con pazienza un complesso ‘florilegio’, attingendo ai libri e agli articoli che viene al momento leggendo. Tut­ tavia il risultato definitivo, nella sua compiuta articolazione, sarà una delle pagine forse più rilevanti di tutta la sua opera filosofica. L’analisi, all’apparenza, riguarda questioni storiografiche circoscrit­ te, ma riesce a sollevare argomenti di portata generale, che coinvolgo­ no il problema dell’interpretazione storica nel suo insieme. Il discorso svolto adesso prende le mosse da una valutazione comparativa («Gli Elleni, al pari degli Italici, degli Indiani e dei Tedeschi, hanno conqui­ stato il loro paese con le armi in mano, sottomettendo un razza più antica»)24. Questo passo è la trascrizione fedele delle osservazioni con cui un antichista, Heinrich Nissen, entra in polemica, nel suo libro II tempio, con Theodor Mommsen. Per quest’ultimo, la piena eguaglian­ za giuridica dei cittadini, cioè l’assenza di caste, era stata la conseguen-

12 N-NF 19(76], ottobre-dicembre 1876. 23 N-NF 19(75], ottobre-dicembre 1876. 24 N-GDG,p. 395.

14 Mondo classico e civiltà europea

za, a Roma, di una situazione in cui l’invasione dei conquistatori era avvenuta senza resistenze significative da parte di stirpi autoctone, e quindi in un contesto ben diverso da quello che si doveva supporre dietro «l’ordinamento castale indiano, la nobiltà spartana, tessalica e in genere greca, e probabilmente anche la divisione germanica in ceti»25. Nissen, e con lui Nietzsche, respinge un simile modello interpretativo, ritenendo che anche nella formazione della civiltà romana gli attriti etnici, gli scontri tra popolazioni diverse e residenti negli stessi luo­ ghi, abbiano svolto un ruolo tutt’altro che trascurabile. Subito dopo, in questa lezione, viene introdotta una considerazione più ampia: «Il costume più antico si rovescia di nuovo sugli invasori, soprattutto at­ traverso il timore che provano popoli più evoluti di fronte alle forze magiche delle popolazioni inferiori vicino a cui vivono»26. Con una simile osservazione, Nietzsche si appoggia all’autorità di Edward B. Tylor, sintetizzando quanto scritto in uno dei primi para­ grafi («Razze più evolute attribuiscono a quelle inferiori forze magi­ che») del quarto capitolo della sua monografia. In quel luogo, in realtà, si faceva vedere come le stirpi dominanti, in Oriente, finiscano di rego­ la per soggiacere, invadendo nuovi territori, ai culti più primitivi delle etnie che hanno assoggettato. In Malesia, nota Tylor, gruppi di religio­ ne musulmana temono gli stregoni di popolazioni meno progredite, che vivono nelle medesime contrade, e ricorrono immancabilmente a loro «quando si tratta della guarigione da malattie, del provocare la malasorte e dell’uccidere nemici». E in India, in maniera analoga, «gli Ariani dominanti descrivevano i rozzi indigeni del paese con l’epiteto ‘pieni di forze magiche’»27. Dopo questi rilievi, in certa misura introduttivi, Nietzsche affron­ ta l’argomento centrale del suo discorso, raccogliendo esempi, dai più diversi contesti storici, per ribadire che una civiltà dominante, in re­ gioni sature di più antiche tradizioni, non sarà mai tanto compatta da impedire il riaffiorare, attraverso crepe e fratture d’ogni sorta, di co­ stumi e credenze all’apparenza scomparsi. Nell’esporre una simile tesi, Nietzsche attinge di nuovo all’opera di Nissen e menziona, tra l’altro,

25 H. Nissen, Dos Templum. Antiquarische Untersuchungen, Berlin, Weidmann 1869, p. 103. H. Nissen (1839-1912), storico e archeologo, insegna dal 1870 storia anti­ ca e filologia a Marburgo, passando in seguito a Gottinga, Strasburgo e Bonn. 26 N-GDG, p. 395. 27 E.B. Tylor, Die Anfànge der Cultur. Untersuchungen iiber die Entwicklung der Mythologie, Philosophie, Religion, Kunst und Sitte, Leipzig, Winter 1873,1, pp. 112-3.

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I. Nietzsche, l'etnologia e il mondo classico

«il sacrificio dei Feriali a Roma, che ammazzavano l’animale con la sa­ cra pietra appartenente a Diespiter, e il giuramento davanti alla pietra, che per i Romani era il più sacro; il significato di questo rito [...], il suo presentarsi in nazionalità diverse per stirpe, rinviano ad una sua origi­ ne avvenuta nei tempi più lontani: segni dell’epoca priva di metalli»28. Era stato Nissen, in realtà, a respingere l’ipotesi, avanzata da Mommsen, circa il fatto che sul suolo italico non vi fossero stati in­ sediamenti umani ancora privi di manufatti in metallo; nel suo libro, Il tempio, si soffermava proprio sul sacrificio dei Feriali, consideran­ dolo un’importante «reminiscenza» storica29. Dopo aver fatto cenno all’antico rito romano, Nietzsche torna a sfogliare il lavoro di Tylor, ricavandone nuove indicazioni: «Fino al giorno d’oggi vi sono distretti, nell’Asia meridionale, in cui domina il culto degli alberi, nonostan­ te siano regioni di tradizione buddhistica. Evidentemente non risultò possibile estirpare simili culti: si crearono così leggende legate al tem­ po della transizione e si ritenne ad esempio che lo stesso Buddha si fosse trasformato trentatré volte in un genio degli alberi. Le sculture dello stupa di Sanchi [...] indicano (secondo Fergusson, Il culto degli alberi e dei serpenti) che intorno al primo secolo della nostra era albe­ ri sacri avevano un significato assai rilevante nel sistema religioso del buddhismo. Si vedono così i Nagas, i rappresentanti della razza e della religione autoctone, venerare l’albero sacro, nel mezzo di un ambiente buddhistico, con serpenti a guisa di protezione intorno alle spalle e alla testa, e altre stirpi che vengono chiamate ‘uomini-scimmia’»30. In questo passaggio, Nietzsche si attiene a quanto rileva Tylor a pro­ posito della «posizione del culto degli alberi nell’Asia meridionale in rapporto al buddhismo». È opportuno distinguere, a giudizio dell’et­ nologo, tra un buddhismo «filosofico», elaborato nei testi teologici, e l’insieme dei rituali e delle leggende, in cui riescono ancora a trovar posto ‘alberi sacri’, residui di credenze ben più antiche. Occorre quin­ di concludere che «la venerazione degli alberi, [...] ancor oggi chia­ ramente caratterizzata presso le stirpi indiane autoctone, non venne estirpata dopo la conversione al buddhismo. Al contrario, sembra che sia la nuova religione filosofica ad essersi amalgamata, come sempre fanno le nuove religioni, con più antiche credenze e usanze indigene»31.

2» 2

30 31

N-GDG, p. 395. Nissen, Das Tenipluni cit., pp. 101-3. N-GDG, p. 395. Tylor, Die Anfange der Cultur cit., Il, pp. 218-20.

16 Mondo classico e civiltà europea

Dopo aver riassunto queste pagine di Tylor, in cui sono ricordate anche l’indagine di James Fergusson, le consuetudini degli «uominiscimmia» e la simbologia religiosa del serpente, Nietzsche tratta an­ cora di ‘culti arborei’, riferendosi però ad altri contesti storici: «Anche la leggenda fenicia possiede la credenza, secondo cui i primi uomini consideravano sacre le piante della terra e ne facevano divinità. Il culto degli alberi è stato rintracciato ovunque, e si ritrova come una compo­ nente delle religioni superiori, vittoriose. È la fede naturale delle popo­ lazioni di cacciatori; è tanto vigorosa da sopravvivere a tutta quanta la religione dell’antichità, e da dover essere stata infine combattuta come il suo elemento più tenace»32. Quanto ricordato da Nietzsche («la leggenda fenicia»), contiene un’allusione, in realtà, a un testo di Eusebio di Cesarea, citato da Tylor nel quadro di un’analisi di riti e credenze, diffusi nelle più diverse aree geografiche, legati alla vegetazione: «l’illimitato e diretto culto degli al­ beri [...] è in realtà profondamente radicato [...] nella più antica storia della religione [...]. Questa teologia arborea, in quanto si addice a un popolo di cacciatori, è ancor oggi predominante [...] tra le stirpi turaniche della Siberia, come lo era da sempre in Lapponia»33. Il repertorio ‘enciclopedico’ messo assieme da Nietzsche, un vero e proprio sunto della ‘scienza delle religioni’ su base comparativa del tempo, prosegue poi proponendo altri esempi: «I concili esigono dall’imperatore distru­ zione di boschi e alberi sacri; e colui, nel cui presbiterio [...] si venera­ no alberi, sorgenti e pietre, diviene corresponsabile di un simile sacri­ legio, qualora rinunci al biasimo. Nel quarto secolo, Teodosio punisce con pene notevoli la venerazione di alberi sacri con nastri consacrati, altari d’erba e incenso [...]. La legge del longobardo Liutprando ripor­ tata da Paolo Diacono: ‘Chi voglia adorare un albero, chiamato sacro dalla gente del posto, o celebrarlo con canti solenni, dovrà pagare al nostro fisco sacro la metà del valore dei suoi beni’. La contrapposizione è netta: il diritto divino e umano dei Greci riteneva che fosse sacrilegio, se qualcuno profanava [...] un albero sacro»34. Emerge in questo passaggio un nuovo ‘prestito’ inserito nella lezio­ ne: le affermazioni di Nietzsche sono infatti ricavate da un libro di Cari Boetticher, Il culto degli alberi tra gli Elleni, che nel 1856 era stato dato alle stampe35.

» N-GDG, p. 395-6. ” Tylor, Die Anfànge der Cultur cit., Il, pp. 222-5. « N-GDG, pp-396. » C. Boetticher, Der Baumkultus der Hellenen. Nach den gottesdienstlichen Ge-

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I. Nietzsche, l'etnologia e il mondo classico

La cerimonia dei Feciali nell’antica Roma, rituali arcaici ripresi in Malesia da culture ben più progredite, culti ‘arborei’ che ricompaiono in regioni in cui il buddhismo prevale, alberi sacri ancora venerati in età cristiana - l’epitome proposta raccoglie fenomeni religiosi alquan­ to singolari, accomunati da una dinamica simile. All’awicendarsi delle fedi e dei rituali segue infatti il riaffiorare di dogmi e di ‘superstizioni’ che sembravano definitivamente scomparsi. Simili processi di ‘ritorno del rimosso’, ben noti agli etnologi («Talvolta, antiche idee e consue­ tudini irrompono di nuovo alla luce, per lo stupore di un mondo che li credeva estinti o in via di estinzione»)36, colpiscono Nietzsche, intorno al 1875, con forza straordinaria37.

4. Il metodo comparativo e le illusioni degli antichisti

Il «filologo del futuro», si legge in molti appunti nietzscheani di que­ sto periodo, dovrà percorrere la sua strada come «scettico riguardo a

brauchen und den iìberlieferten Bildwerken dargestellt, Berlin, Weidmann 1856, pp. 531-4. 36 Tylor, Die Anjange der Cultur cit., I, p. 17. 37 In Umano, troppo umano il concetto di ‘residuo’ trova spazio in importanti consi­ derazioni: si veda ad esempio N-MA 223 e 614. Notevole, in questo contesto, è anche il frammento 23[ 18|, scritto tra la fine del 1876 e il 1877: «Anche nei pensatori di mente più libera si insinua la mitologia quando parlano della natura. La natura dovrebbe aver previsto, desiderato, essersi rallegrata [...]. Volontà, natura sono residui (Uberbleibsel) dell’antica credenza negli dèi». Da vedere, a proposito della nozione di ‘residuo’, sono infine i frammenti N-NF 5(155] e 51164], della primavera-estate 1875. Nel primo di questi due testi, Nietzsche scrive: «Nel culto religioso si conserva un grado anteriore di civiltà: si tratta di ‘residui’ (Uberlebsel). I tempi che lo solennizzano non sono quelli che lo inventano. 11 contrasto è spesso assai vivace. Il culto greco ci riporta indietro a un modo di sentire e a una civiltà che sono preomerici; si tratta forse, rispetto a quanto noi conosciamo sui Greci, dell’elemento più antico, più antico della mitologia, la quale è stata sostanzialmente trasformata dai poeti, così come noi la conosciamo». Nel parlare di ‘residui’, Nietzsche si serve solitamente dell’espressione, ancor oggi usuale, Oberbleibscl-, invece in questo frammento N-NF 5] 155] viene seguita la variante Oberlebsel. Si tratta di una scelta non del tutto irrilevante: il termine, che non sarà ripreso dagli etnologi di fine Ottocento, era stato proposto e utilizzato da Tylor, che conosceva la lingua tedesca e aveva rivisto la traduzione del suo libro, come equivalente della parola inglese survival.

18 Mondo classico e civiltà europea

tutta quanta la nostra civiltà»38. E potrà farlo solo a patto di assumere uno sguardo critico, sacrificando le proprie esigenze di ‘coerenza’ e di armonia. Anche la religione dei Greci, in quest’ottica, è da prendere in considerazione consapevoli di trovarsi davanti un ‘mosaico’ variopin­ to e discordante nelle sue diverse parti costitutive. Scrive Nietzsche in proposito, ricavando da Schoemann i suoi argomenti: «Viene conqui­ stata una città, un paese, e il vincitore allora si porta dietro dei culti, quelli locali vengono oscurati. Spesso non si trattava di nuove divinità, ma di nuove concezioni, nuovi miti: si resero così necessarie fusioni (Verschtnelzungen), invenzioni mitologiche». Lo storico del mondo classico, nell’occuparsi della religione greca, non può ignorare attriti e ‘sovrapposizioni’ che risultano dallo scontro tra diverse etnie e tra­ dizioni: «Erodoto (2, 171) dice che un tempo era assai diffuso nel Pe­ loponneso il culto di Demetra Thesmophoros; grazie all’invasione dei Doni sarebbe stato soffocato. Solo gli Arcadi e probabilmente i Messeni lo conservarono [...]. Coloro che emigrano trasportano con sé i culti della loro terra; ma essendo spesso gente assai diversa, ad esempio nelle colonie eolie ed ioniche, vi furono moltiplicazioni o mescolanze dei culti. A ciò vennero spesso aggiunti i culti originari del luogo»39. 11 filologo «scettico», di cui discorre Nietzsche verso il 1875, non po­ trà che operare come critico intransigente della ‘volontà pubblica’, ir­ rigidita nelle sue pretese di ‘selezionare’ conoscenze e valori da inserire nel ‘mito’ di una omogenea tradizione nazionale. Infatti, al presente, nota il filosofo, si scorge distintamente una «straordinaria incertezza dell’intero sistema di istruzione», dovuta al fatto che «lo Stato nazio­ nale vuole addirittura una cultura ‘nazionale’», finendo col «portare la confusione al culmine: ‘nazionale’ e ‘cultura’ sono, infatti, termini in contraddizione». Il futuro ‘filologo critico’ dovrà impegnarsi a far vedere come nell’impegno a favore di una «cultura nazionale» non si racchiudano altro che ambiguità e pericoli: «Il carattere nazionale è il ripercuotersi di una civiltà passata in una civiltà del tutto mutata, che poggia su altre fondamenta. Dunque è la contraddizione logica nella vita di un popolo»40.

“ N-NF 5(55], primavera-estate 1875. ” N-GDG, p. 414. Tutto quanto ricordato da Nietzsche - Erodoto, le colonie eolie e ioniche, il confondersi dei culti - si ritrova, con le stesse parole, in Schof.mann, (ìriechicche Alterthùmer cit., II. pp. 151 -4. * N-NF 23(43] (nell’edizione Adelphi, 24(30] e 30(70]), inverno 1876-estate 1877.

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I. Nietzsche, l'etnologia e il mondo classico

Le monografie e i contributi utilizzati da Nietzsche al momento di scrivere queste lezioni propongono svariati motivi di riflessione che suggeriscono, più o meno esplicitamente, di considerare il mondo gre­ co, non più come un’esperienza ‘eccezionale’ e irripetibile, ma come una via d’accesso per riscoprire tutto ciò che riguarda «l’umano, trop­ po umano»41. Tylor, tra l’altro, vuol convincere i filologi a partire dai resoconti degli etnologi per riconsiderare, in più ampi contesti, la loro nozione di classicità - e la quercia sacra di Dodona, la ‘dimora’ del dio descritta da Omero, trova adesso numerosi equivalenti, dalle palme consacrate della penisola arabica agli alberi in cui dimorano spiriti e dèmoni nelle antiche tradizioni slave42. Da parte sua, Wilhelm Mannhardt, di cui Nietzsche legge le ricerche tra l’estate e l’autunno 1875, riesce a individuare, studiando consuetu­ dini popolari nelle campagne della Prussia orientale e dei paesi slavi, la persistenza nel mondo contadino di riti e simbologie che già erano familiari agli Elleni. L’usanza tradizionale di addobbare e conservare, per la nuova estate, l’ultimo covone della mietitura «corrisponde così precisamente all’eiresione greca testimoniata da Aristofane, [...] nel modo di ornarlo con nastri, frutta, dolci [...], nel piantarlo davanti alla casa, [...] nel bruciarlo dopo un anno, che non sarà lecito nutrir dubbi sulla sua origine precristiana»43.

Si veda anche l’appunto N-NF 30(164], estate 1878: «Dopo la guerra mi disgustarono il lusso, il disprezzo per i francesi, il nazionalismo». 41 Dopo aver letto gli etnologi, Nietzsche non può più condividere il richiamo del giovane Wagner all’«originaria essenza ellenica», al «costume primigenio» di una «co­ munità nazionale per natura e per stirpe» (R. Wagner, Das Kunstwerk der Zukunft, in Id., Gesammelte Schriften und Dichtungen, Berlin, Leipzig, Stuttgart u. Wien, s. d., Ili, pp. 105 e 133). A differenza della ‘filosofia della storia’ di Opera e dramma («Attraverso il cristianesimo, tutti i popoli che aderirono ad esso vennero strappati dal loro modo naturale di vedere»), le lezioni nietzscheane del 1875 respingono con decisione il mito di un’«essenza originaria», di un «modo naturale di vedere» dei Greci (cfr. Id., Oper und Drarna, ibid., IV, p. 41). 42 Tylor, Die Anfiinge der Cullar cit., li, p. 220. 4’ W. Mannhardt, Der Baumkultus der Germanen und ihrer Nachbarstiimme. Mythologische Untersuchungcn, Berlin, Borntraeger 1875, p. 295. W. Mannhardt (1831-80), studioso di ‘superstizioni’ e credenze del mondo contadino ed editore della Zeitschrift fiir deulsche Mythologie und Sittenkunde, è in stretto contatto con Jakob e Wilhelm Grimm. Mannhardt sarà tenuto in grande considerazione, da parte ad esempio di Usencr, di Frazer e di Cassirer, per le sue ricerche intorno alla ‘mitologia

20 Mondo classico e civiltà europea

Gli ‘idiomi’ di civiltà e mondi storici diversi sono, in definitiva, più simili di quanto solitamente si ritenga. Mutano i ‘simboli’ e le ‘formule rituali’, ma forme di devozione e consuetudini religiose sopravvivono con sorprendente tenacia. Anche Cari Boetticher, un antichista ap­ prezzato da Nietzsche, fornisce a questo proposito, nella Tettonica de­ gli Elleni, una documentazione convincente: il bagno della Era Argiva nella sorgente del Kanathos presso Argo, segno di eterna giovinezza, toma a riproporsi, a Roma, nella celebrazione del bagno di Cibele nelle acque dell’Almo, e si perpetua nella consuetudine, ancora viva in pie­ no Settecento, di immergere una Madonna lignea alle sorgenti dello stesso fiume44. Le linee di confine e le ‘barriere doganali’, anche se sembrano diffi­ cili da valicare, non sono altro, sul piano della storia della civiltà, che ima messa in scena del tutto inefficace. Paganesimo e mondo cristia­ no, cominciano adesso a rilevare gli stessi filologi, sono iscritti per più versi nella medesima tradizione. Schoemann, nel manuale letto da Nietzsche, sottolinea talvolta questa convergenza: «Infine, se cor­ risponde al vero che a Napoli San Gennaro, se non fa quello che il po­ polo si aspetta, è ingiuriato come ‘vecchio ladrone, birbone, scellerato’, e viene anche bastonato, e se in Spagna si getta in acqua l’immagine della Vergine e si inveisce contro di lei, non ci dovremo allora stupire nel ritrovare anche tra i pagani qualcosa di simile»45. In Umano, trop­ po umano, Nietzsche, dopo aver illustrato, con Lubbock, esplosioni di violenza in Cina contro le immagini divine, riprende anche quanto scritto da Schoemann: «Pratiche coercitive simili si sono riscontrate ancora in questo secolo in paesi cattolici contro effigi di santi e della Madonna, quando essi per esempio, in occasione di violenza o di sicci­ tà, non volevano pagare il loro debito»46.

inferiore* e al folklore del mondo contadino. Ma già prima Schoemann (Griechische Alterthùmer cit., II, p. 201) aveva menzionato l’eiresione, l’usanza di addobbare un

ramoscello, di appendervi «frutti di ogni genere, dolci, ampolle con miele, olio e vino» e di portarlo in processione, come un rituale che si svolge «all’incirca allo stesso modo

in cui dalle nostre parti, al tempo di Pentecoste, i bambini sono soliti nei villaggi im­ personare i contadini». Cfr. anche N-GDG, p. 517. ** Boetticher, Die Tektonik der Hellenen cit., II, S. 187. 45 Schoemann, Griechische Alterthùmer cit., Il, pp. 167-8.

46 N-MA 111. Anche in Tylor (Die Anfange der Cultur cit., Il, p. 172) Nietzsche poteva trovar menzione del «contadino dell’Europa meridionale, che alternativamente

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I. Nietzsche, l'etnologia e il mondo classico

5. Il ‘fondamento naturale' dell’evoluzione storica Per Nietzsche, dopo il 1875, è importante non dimenticare che, «per capire la storia, si devono visitare i residui ( Ueberreste) viventi delle epoche storiche»47. Gli «spiriti errabondi» (freiziìgige) del futuro, i qua­ li, in opposizione agli «intelletti legati e radicati», tendono a un «no­ madismo intellettuale», ben sanno che «si deve viaggiare [...] tra le popolazioni cosiddette selvagge o semiselvagge, specie là dove l’uomo ha smesso, o non ha ancora vestito, l’abito dell’Europa», e dove pertan­ to si conservano «gradi di civiltà (Culturstufen) più antichi»48. Soltanto il contatto con culture, tradizioni religiose e consuetudini lontane dai parametri del moderno europeo, può promuovere l’emancipazione da un ‘senso comune’ seguito acriticamente: «Il nostro compito è di in­ ventariare e rivedere tutto quanto è ereditato, tradizionale, divenuto inconscio, esaminarne le origini e gli scopi, gettar via molte cose, la­ sciarne vivere molte altre»49. Nell’arduo «cammino verso la libertà dello spirito», da compiersi at­ traverso diversi «gradi di educazione», alcune discipline («Storia dei popoli [...]. Geografia. Viaggi») rappresentano tappe particolarmente importanti. Sono esse, infatti, a rendere accessibile la ‘via regia’ per conseguire un’effettiva ‘liberazione’, per svincolarsi dai ristretti oriz­ zonti del proprio ‘naturale’ modo di vedere: «Il privilegio della nostra civiltà è il confronto. Noi possiamo raccogliere i più diversi prodotti delle civiltà antiche e confrontarne il valore; far bene tutto ciò è il no­ stro compito»50. In tali affermazioni, come pure nell’intenzione di Nietzsche di

accarezza o maltratta il suo santo-feticcio, e immerge sott’acqua la Vergine o San Pie­ tro per ottenere la pioggia». 47 N-VM 223. /\ proposito di questo aforisma, si veda G. Campioni, 'Wohin man reisen muss’. Obcr Nictzschcs Aphorismus 223 aus 'Vermischte Meinungen and Spriiche\ «Nietzsche-Studien», 16, 1987, pp. 209-26. 48 N-VM 211 e N-VM 223. 49 N-NF 41(651, luglio 1879. so N-NF 23(85] (nell’edizione Adelphi, 24[46J), inverno 1876-estate 1877. Molto importante, da questo punto di vista, è anche N-NF 23(48] (nell’edizione Adelphi, 24|35|), inverno 1876-estate 1877: «Oggi non basta più Vintrospezione morale per im­ parare a conoscere i complicati moventi delle nostre azioni - sono necessarie anche la storia e la conoscenza delle popolazioni arretrate. In esse si rispecchia tutta quanta la storia dell’umanità, in esse si trovano intrecciati tutti i grandi errori [... ] dell’umanità».

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22 Mondo classico e civiltà europea

«raccogliere un immenso materiale empirico di conoscenza degli uomini»'1, risuonano le aspettative che venivano riposte, proprio in questo periodo, negli studi di antropologia e di etnologia. Verso la metà del secolo, erano state le lezioni universitarie di Theodor Waitz, filosofo herbartiano, a rivendicare, per questo campo di indagini, una nuova dignità accademica: «Nell’estate 1855 e 1856 lesse [...] antropo­ logia - certamente il primo professore tedesco, dopo Blumenbach, che lesse questa scienza come un tutto autonomo e da un punto di vista et­ nologico e comparativo»52. Seguirono ben presto, negli anni successivi, le monografie dello stesso Waitz e di Adolf Bastian, i contributi di Her­ mann Steinthal e di Moritz Lazarus intorno alla ‘psicologia dei popoli’, la creazione di riviste e di associazioni scientifiche, e ancora, tra il 1873 e il 1875, le traduzioni in lingua tedesca, che ebbero grande risonanza, dei lavori di Tylor e di Lubbock. Quando comparve infine, nel 1877, la versione tedesca del primo volume dei Principi di sociologia di Herbert pencer, un libro pieno di riferimenti a questioni etnologiche, i tempi .■rano ormai maturi per la richiesta, avanzata da più parti, di un pieno «riconoscimento pubblico e di un inserimento dell’antropologia nella cerchia delle autonome scienze universitarie»53. In questo contesto, esige ascolto e riconoscimento anche il «vian­ dante» di Nietzsche, che scorge ovunque ‘atavismi’ e ‘residui’ e ri­ vendica la legittimità di uno sguardo ‘distanziato’ e attento alle ‘comparazioni’, chiedendo rispetto per «quel libero, impavido spa­ ziare al di sopra degli uomini, dei costumi, delle leggi e delle origi­ narie valutazioni delle cose»54. La sfera delT«umano, troppo uma­ no», che Nietzsche tra il 1875 e il 1878 cerca di decifrare, corrispon­ de infatti in larga misura a quel «fondamento naturale della storia», secondo una definizione coniata da Waitz nel 1859, che gli etnologi nella seconda metà dell’ottocento cominciano a indagare sistema­ ticamente55. Il loro modo di valutare, secondo cui «ciò che precede ogni storia» non si perde affatto nel successivo corso del «progresso

51 N-NF 8|4j, estate 1875. 52 G. Gerland, Die neue Ausgabe der Waitz’schen Anthropologie, «Archiv fur An­ thropologie», 10, 1878, p. 329; cfr. E. Zeller, Theodor Waitz, in Id.» Vortràge und Abhandlungen, Zweite Sammlung, Leipzig, Fues 1877, pp. 366-7 in particolare. 53 G. Gerland, Anthropologische Beitrdge, Leipzig, Lippert 1875.

M N-MA34. 55 T. Waitz, Anthropologie der Naturvòlker, I: Ueber die Einheit des Menschengeschlechtes und den Naturzustand des Menschen, Leipzig, Fleischer 1859, p. 8.

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I. Nietzsche, l'etnologia e il mondo classico

storico»56, viene riproposto anche in Umano, troppo umano: «Ora, tutto ^essenziale dell’evoluzione umana è avvenuto al tempo dei pri­ mordi, assai prima di quei quattromila anni che al’incirca conoscia­ mo e durante i quali l’uomo non può essere gran che cambiato»57.

6. La ‘scala graduata ’ della civiltà

«Ogni cosa si ripete, con mirabile uniformità, nelle vetrine del mu­ seo che deve offrirci un quadro della vita dei popoli allo stato di natura, dalla Camciatca alla Terra del fuoco, da Dahomey alle Hawaii»58. Nelle aree geografiche più lontane, gli etnologi ritrovano manufatti, ma an­ che usanze e rituali, tra loro assai simili. La somiglianza degli amuleti o degli strumenti da lavoro costituisce, per lo «storico della civiltà», un punto di riferimento basilare per definire la prospettiva più generale in cui inserire i risultati della ricerca. Bastian, Tylor e Lubbock, i più au­ torevoli rappresentanti dell’etnologia del tempo, condividono l’idea, in realtà, che le diverse civiltà, le più arretrate come le più evolute, vadano considerate come singoli «stadi della civilizzazione», come determi­ nate stazioni di una medesima «scala graduata» (Stufenleiter), al cui interno si compie il perfezionamento della specie. L’etnologia degli anni ’60 e ’70 si presenta, in termini programmatici, come una disciplina che riesce a scoprire «la singolare uniformità tra popolazioni diverse», fornendo quindi le prove di un dato di fatto in­ contestabile: «lo spirito umano, nell’accrescersi dell’evoluzione, attra­ versa ovunque fasi in tutto identiche o quantomeno assai simili»59. Da un attento esame comparativo del «contadino europeo», rileva lo stes­ so Tylor, non possiamo che ricavare «un quadro che mostra differenze assai lievi tra un agricoltore inglese e un negro dell*Africa centrale»60.

56 57 58 59 60

Ibid. MA 2. Tylor, Die Anfiinge der Cullar cit., I, p. 6. Lubbock, Die Entstehung der Civilisation cit., pp. 9 e 240. F..B. Tylor, Die Anfiinge der Cultur, Leipzig, Winter 1873,1, p. 7. Cfr. C. Dar­ win, Die Abstannnung des Menschen und die geschlechtliche Zuchtwahl, I, Stuttgart, Schweizerbart 1871, p. 401 : «Chi legga con attenzione le interessanti opere di Tylor e di Lubbock, non potrà fare a meno di ricavarne una profonda impressione circa la grande somiglianza tra gli uomini di ogni razza per quanto riguarda i gusti, le disposizioni e le abitudini».

24 Mondo classico e civiltà europea

I contributi degli etnologi rientrano quindi in una più ampia «scienza della civiltà», per la quale diventano irrilevanti le differenze biologi­ che e razziali, dato che una medesima «scala graduata dell’evoluzione umana» segna ovunque, sebbene in tempi diversi, il processo d’inci­ vilimento. Nei testi affrontati in questo periodo, Nietzsche può così trovare l’invito a «escludere considerazioni sull’ereditarietà di razze e varietà umane e [a] considerare l’umanità come omogenea per natura, anche se collocata a gradi diversi della civilizzazione»61. In tali ricer­ che, lo stesso linguaggio impiegato, selezionato nell’ambito del positi­ vismo inglese (l’evoluzione dei «gradi di civiltà», la «serie ininterrotta» di fasi successive), suggerisce esplicitamente di ridurre le distinzioni biologiche a ‘stazioni’ transitorie, a ‘protesi’ temporanee che saranno comunque messe da parte. Una simile prospettiva viene fatta propria da Nietzsche, il quale si affretta a ricavarne un ‘punto cardinale’ per l’a­ gire e il giudicare dello «spirito libero» del prossimo futuro. Nell’afori­ sma 323 di Opinioni e sentenze diverse («Essere buon tedesco significa stedeschizzarsi») il filosofo trae notevoli conseguenze, in riferimento all’oggi, dal principio euristico basilare dell’etnologia dell’epoca: «Ciò in cui si trovano le differenze nazionali è, molto più di quanto non si sia finora compreso, solo la differenza di diversi gradi di civiltà (Culturstuferi) e in minima parte qualcosa di duraturo». Lo «spirito libero» saprà riconoscere quanto sia artificioso e non vincolante «ogni argo­ mentare in base al carattere nazionale»; riuscirà parimenti a scorgere nella boria nazionalistica un indubbio segno di senescenza: «Quando [... ] un popolo va avanti [...], esso fa saltare ogni volta la cintura di cui finora l’ha circondato la sua considerazione nazionale [...]. Se dunque un popolo ha molto di rigido, ciò è una prova che esso si pietrificherà e che potrà divenire un monumento [...]: come, a partire da un dato mo­ mento, il mondo egizio». Ancor più incisivo, nella stessa direzione di ricerca, è un appunto preparatorio composto da Nietzsche per questo aforisma: «Tesi capitale: quelle che si chiamano differenze nazionali sono solitamente gradi diversi di civiltà, sui quali un popolo si trova prima, un altro dopo»62.

61 Tylor, Die Anfànge der Cultur cit.» I, p. 7. Si veda un’altra ricerca, facente parte di quest’indirizzo, anch’essa studiata da Nietzsche. W. Draper, nella sua monografia tradotta nel 1871 in lingua tedesca, afferma: «Le nazioni sono soltanto forme transito­ rie dell’umanità. Dovranno estinguersi, alla medesima maniera delle forme transitorie nel regno animale» (Geschichte der geistigen Entwicklung Europas, Leipzig, Wigand 1871, p. 14). 62 Appunto preparatorio per N-VM 323, in N-KSA 14, p. 180.

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I. Nietzsche, l'etnologia e il mondo classico

Nel lessico nietzscheano di questi anni, il concetto di «gradi di civil­ tà» diventa il ‘perno’ che assicura lo svolgimento di riflessioni diverse. In un’annotazione si legge: «Persino nelle nazioni più evolute, vivono nello stesso periodo persone che si trovano ai più diversi gradi della civiltà»63. In un’altra pagina viene ribadito che l’«uomo universale» del futuro, nel corso della sua formazione, dovrà attraversare l’intera «sca­ la graduata» dell’incivilimento. La ‘legge biogenetica fondamentale’ di Ernst H. Haeckel, secondo cui l’ontogenesi ‘riassume’ l’evoluzione fi­ logenetica, sembra così trovare un’inaspettata conferma sul piano del­ la storia umana: «L’individuo con buone qualità sperimenta più volte la maturità, in quanto passa attraverso varie civiltà, rivivendole [...]; infatti il cammino che egli compie attraverso le varie civiltà è lo stesso che, una dopo l’altra, compiono più generazioni»64. Lo «spirito libe­ ro», lo «spirito non vincolato», per il quale sono ormai maturi i tem­ pi, comprenderà senza sforzo che «le diverse civiltà sono diversi cli­ mi spirituali», e di conseguenza «una somma di stazioni sanitarie» in cui si può soggiornare per qualche tempo, quasi impegnandosi in un ‘esperimento’, senza tuttavia introiettarne i valori e le norme di con­ dotta65. Il «cosmopolitismo dello spirito» di Nietzsche, da promuovere in un’età in cui comincia a sgretolarsi «una sanzione della tradizione [...] diventata troppo potente»66, e la «scala graduata della civiltà» di cui discorrono gli etnologi sono quindi concetti tra loro strettamente legati. Nel quadro segnato da queste nuove categorie interpretative, la nostra immagine della classicità non può restare immutata.

63 N-NF 23(1001 (edizione Adelphi 24(55])» fine 1876-estate 1877. Si vedano, in questo contesto, anche N-NF 23(169] (edizione Adelphi 24 [85]), fine 1876-estate 1877 CN-MA43, 195, 614 e 632. 64 N-NF 23[ 145], fine 1876-estate 1877. Tutta quanta la «scala della civiltà» può co­ munque venir percorsa anche in direzione opposta: «Il delinquente ci costringe, per legittima difesa, a ritornare indietro a gradi anteriori della civiltà, il ladro fa di noi dei carcerieri, l’assassino degli omicidi, e così via. La legge penale è la successione dei gradi di civiltà all'ingiù» (prima stesura di N-WS 186, in N-KSA 14, p. 194). 65 N-WS 188. E.H. Lecky, un altro autore letto da Nietzsche, parla più volte di «cli­ ma delle opinioni», di «temperatura spirituale» e di «atmosfera etica» (Geschichte des Ursprungs und Einjlusses dcr Aujklarung in Europa, Leipzig u. Heidelberg, Winter 1873, pp. 87, 105, 116 e 265). 66 N-VM 204; N-NF 23(79], (edizione Adelphi 24(41 ])» fine 1876-estate 1877.

II. La stirpe dei 'gioiosi dilettanti', la loro duttilità nell'apprendere

1. Culti arcaici in Grecia Nel 1875 Nietzsche sembra occuparsi della religione greca proprio per ‘demolire’ l’immagine di un mondo antico ‘sereno’ e compiuto. La più coerente delle civiltà diventa, nelle lezioni sul ‘servizio divino’ come pure in molti aforismi di Umano, troppo umano, il luogo, per più versi paradigmatico, in cui si raccolgono fermenti e impulsi tanto più vitali quanto più refrattari ad una sintesi comune. Chi vuol liberarsi del ‘sogno’ classicista, sempre riproposto dagli epigoni, dell’Ellade come ‘realtà spirituale’ armonica, deve andare a scuola dai Greci, suggerisce Nietzsche, guardandosi dal trasfigurarne il carattere - per fare i conti con un grandioso ‘esperimento’ storico, in cui le tradizioni e i culti più diversi sono accettati col medesimo senso d’ospitalità. Muovendosi in tale prospettiva, le lezioni del 1875-76 raccolgono numerosi spunti provenienti dall’opera di Cari Boetticher del 1856, Il culto degli alberi presso gli Elleni. Si tratta di un libro in cui è raccolta una sorta di «botanica sacra», un’esposizione sistematica dei culti e dei simboli, legati alle piante, che i Greci spesso condividevano con altri popoli e culture*. Al termine della sua indagine, Boetticher riesce a do­ cumentare come un culto pagano degli alberi continui a prosperare nei primi secoli della cristianità: «piante sacre oggetto di venerazione esistevano ancora, mentre immagini degli dèi e templi erano da lungo tempo scomparsi»2. Per comprendere la sacralità della vegetazione sul

1 Mentre in Grecia la quercia era consacrata «a Giove, l’olivo a Minerva, il mirto a Venere, l’alloro ad Apollo, il pioppo a Ercole», si mostra anche «in Oriente [...] un analogo rapporto. Ovunque Zoroastro, o un suo ministro, accenda il sacro fuoco di Ormazd, a ciò si accompagna la piantagione di un cipresso sacro» (Boetticher, Der Baunikultus der Hellencn cit., p. 251). 2 Ibid., p. 534.

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suolo greco, che risulta da un sentire religioso assai diffuso anche al­ trove, è tuttavia necessario, nota Boetticher, paragonare quella cultura a uno straordinario «punto focale», in cui raggi diversi, provenienti da più direzioni, «si presentano concentrati e uniti nell’agire». Spesso invece gli antichisti finiscono per ignorare, aggiunge Boetticher, che «anche nella loro coscienza teologica, come pure nel loro complessivo sviluppo spirituale, i Greci non restano semplicemente isolati [...], ma devono venir compresi come un anello nella grande catena dei popo­ li che sorressero e portarono lentamente a compimento la civiltà del mondo antico»3. Dal lavoro di Boetticher, Nietzsche ricava nuovi argomenti per con­ testare la radiosa ‘solitudine’ dei Greci. L’origine della loro religiosità, in effetti, rientra in un orizzonte largamente comune: «Per l’Elleno, il Latino, il Medo, l’Armeno, il Caldeo, il Cananeo, l’indiano e il Genna­ ro, gli alberi sono stati i primi templi in cui trovava dimora lo spiri) della divinità»4. Assieme a questo motivo, che permette facilmente i dar rilievo all’impostazione complessiva delle lezioni («Ma come i Greci sapevano assorbire di più ed erano il popolo meno scostante, così si sono dati anche da fare col culto degli alberi nella maniera più approfondita»)5, Nietzsche ricava da Boetticher anche una serie di ap­ porti che concernono il culto dei serpenti - spesso allevati nel recinto del tempio, alla stregua di un genius loci che doveva salvaguardarne l'inviolabilità, e venerati al contempo come divinità invocate per tener lontani i mali6. L'accento, come si vede, batte di nuovo sugli aspetti più arcaici e ‘re­ moti', e forse meno ‘rassicuranti’, del culto dei Greci. E la loro «inu-

» JHi.p.498. * N-GDG. p. 397. Identico tl testo di Boetticher: Der Baumkultus der Hellenen cit.,

p. 8. Anche quanto scrive Nietzsche, sullo stesso argomento, in un altro passaggio del corso Dilthey, Weltanschauung und Analyse cit., p. 266; tr. it. Il, p. 26; Cicerone, De finibus honorum et malorum 5,12,35. La lettura dello stoicismo romano offerta da Dil­ they presenta comunque, in rapporto alle fonti di cui si serve, indiscutibili elementi di originalità: al motivo ciceroniano del ‘lume interiore’, così importante nella sua ottica, Zeller, Hirzel e Schmekel dedicano ben scarsa attenzione.

io8 Mondo classico e civiltà europea

permette di ‘ritornare’ al presente con sguardo distanziato - e quindi di ritrovare nel Rinascimento solidi punti d’appoggio per contrastare le ‘astrazioni’ dei positivisti e dei neokantiani, recuperando «lo sforzo di restaurare l’unità dell’esistenza umana, contro le divisioni che ave­ vano disgiunto corpo e anima, percezione sensibile e intelletto, affetti e volizione»50. Rileggendo la ‘fortuna’ dell’eclettismo antico, si può ‘costruire’ una ‘tradizione’ da cui trarre orientamenti e criteri per l’agire ‘pubblico’ che, anche nelle condizioni del presente, continuano ad avere una notevole vitalità. In Dilthey, la ricerca storiografica resta sempre sal­ damente ancorata alle esigenze e alle questioni aperte del suo tempo. Non è affatto casuale, nei contributi esaminati, che l’accento cada sul modo in cui l’uscita dalla ‘minorità’ avvenga, a fine Trecento come nel Seicento, per i singoli come per i grandi corpi politici, attraverso il ripetuto impiego di un medesimo conio, per mezzo del quale si può riprodurre «il nesso di autoconservazione, vigore, onore, gioia per la vita, virtù»51. In età moderna, «il ‘lume naturale’, che la filosofia ro­ mana venerava», continua ancora a tener aperte le strade verso «un nuovo calarsi (Vertiefung) dell’uomo in se stesso, nell’interiorità ulti­ ma del suo essere»52. In questo modo la ‘riscoperta’ dell’individualità non concede tuttavia alcunché a forme di ‘titanismo’ o a un’inquieta esaltazione ‘romantica’ - ben nota alla cultura tedesca - dell’impeto

50 Dilthey, Weltanschauung und Analyse cit., pp. 288 e 422; tr. it. II, pp. 55 e 218. Nel modo in cui Dilthey presenta Cicerone, si avverte anche l’eco delle pagine di Zeller. In effetti, l’eclettismo ciceroniano - si ribadisce in Lanalisi dell’uomo e l’intuizione della natura, nelle considerazioni iniziali - «cerca un fondamento che sia più saldo possibile per i concetti romani sulla vita, e lo trova nella coscienza immediata [...]. Questo sapere immediato è la base incrollabile di tutte le determinazioni attraverso

cui mettiamo l’universo in rapporto con noi stessi» (Dilthey, Weltanschauung und Analyse cit., pp. 13-4; tr. it. I, p. 17). Con tale richiamo al «sapere immediato» (ibid.,p. 175; tr. it. I, p. 223), Dilthey ripropone il lessico di cui si era servito Zeller nel rileggere Cicerone: nelle opere ciceroniane, osservava lo storico della filosofia, «si presenta a noi un doppio elemento: la testimonianza dei sensi e quella della coscienza [...]. Ogni

nostra convinzione, secondo Cicerone, si appoggia in definitiva all’immediata certezza interiore, al senso naturale della verità

immediatamente dati, assieme alla ragio­ ne, sono anche gli impulsi che spingono l’uomo verso la comunità etica con gli altri e verso la ricerca della verità» (Zeller, Die Philosophie der Griechen cit., pp. 658-60). s* Dilthey, Weltanschauung und Analyse cit., p. 289; tr. it. II, p. 57. 52 Ibid., pp. 449-50; tr. it. II, p. 252.

109 V. Cicerone, 'Roma eterna' e le sfide della modernità

soggettivo: «l’aspetto grandioso di quest’etica stoico-romana, che dalla descrizione delle passioni procede all’autonomia morale», si manifesta tra Telesio e Spinoza, secondo Dilthey, nel «riconoscimento dei rap­ porti naturali esistenti tra il nostro spirito e il complesso delle cose»53. Occorre, in definitiva, prender commiato dal ‘classicismo’ elleniz­ zante degli epigoni, levigato ed esausto («È consuetudine sottovalutare l’originalità del significato del pensiero romano»), per prestar vicever­ sa attenzione a una tradizione avviatasi con «le opere di Cicerone, che assicuravano ai cittadini istruiti delle provincie romane i risultati del mondo degli antichi»54. Grazie alla decisiva «influenza della Stoa romana», ancora nel Sei­ cento può costituirsi una «teoria della condotta di vita» che disciplini e determini in termini razionali l’agire dei singoli, a partire dal rico­ noscimento di «immodificabili leggi naturali» tanto negli individui che sul piano delle articolazioni sociali («un nucleo essenziale di re­ gole universalmente valide e immutabili, a cui risulta collegato ogni ordinamento della società, sul piano del diritto, dello stato e della fede religiosa»)55. L’effettiva ‘rivincita’ di Cicerone e dello ‘spirito’ della romanitas avviene in questo nuovo contesto storico, nell’età di Bacone, di Hobbes e di Cartesio, e innanzitutto nei paesi nordici che conoscono «una borghesia resa potente dal commercio e dall’industria, e sospinta dall’attività religiosa della Riforma». La ‘Roma eterna’ torna a trionfare agli albori della modernità, quando la richiesta di «princìpi per la for­ mazione razionale di diritto, stato e religione» diventa più pressante: «Proprio questo, era ciò che quell’età richiedeva, e cioè l’istituzione di nuovi ordinamenti indipendenti dalle autorità fin allora accettate; autonomia dello spirito nel regolare le attività pratiche nella vita civile; massime inattaccabili per ordinare la società secondo i nuovi bisogni». Cicerone rappresenta, per Dilthey, la più coerente espressione della ratio romana, nell’insieme dei suoi «concetti intorno alla vita» e della sua «comprensione del mondo», nel modo di declinare «l’atteggiarsi

” Ibid., p. 477; tr. it. II, p. 285. L’autonomia individuale venne rivendicata, tra i

moderni, facendo leva sulle «dottrine della Stoa che riguardano l’unità teleologica della

natura, l’autoconservazione, le predisposizioni del nostro essere in cui essa opera, il farsi prendere dell’uomo nella spinta degli affetti e nel restar loro prigioniero», giun­ gendo infine alla «conoscenza dei valori vitali» che si racchiudono proprio nelle pas­

sioni e nei linguaggi del l’af lei t ività (ibid., p. 450; tr. it. II, p. 252). M Ibid., pp. 495 e 499 (si tratta di aggiunte non inserite nella traduzione italiana). * Ibid, pp. 443 e 44 ! ; tr. it. II, pp. 244 e 242.

no Mondo classico e civiltà europea

della volontà nei rapporti di dominio, libertà, legge e diritto». In effetti, «tutta la forza del pensiero romano si concentra nell’arte e nelle regole attraverso cui si domina la vita»56. Una simile «volontà di dominio» è comunque tutt’altro che «vuoto e formale arbitrio» o cieco desiderio di rivalsa, dato che si mostra capace di distinguere e ammettere una pluralità di poteri, egualmente legittimi nelle loro ambizioni e nelle loro richieste.

7. Naturalis ratio

L’architrave dell’intero, grandioso edificio storico in cui culmina la storia antica è, nell’ottica di Dilthey, la nozione di ‘legge di natura’, ritrovata dapprima sul piano delle relazioni giuridiche e quindi in altre sfere vitali: «I Romani sono stati i primi a riconoscere che i rapporti di proprietà, di famiglia, di commercio, creati dalla volontà, recano in sé un’interna naturalis ratio, un’indistruttibile finalità e conformità a legge [...]. E così passa dal diritto a tutto quanto il pensiero il concet­ to della naturalis ratio e la convinzione dell’infrangibilità dell’ordina­ mento vitale ad essa corrispondente»57. Venendo alla ‘legge di natura’ in età romana, Dilthey cita brevemente l’opera di Rudolph von Jhering58. Tuttavia, il suo principale riferimen­ to, nei passaggi decisivi del suo discorso, sarà un altro testo: la Storia romana di Theodor Mommsen, tacitamente richiamata in più luoghi. La civiltà dei Romani, a detta di Dilthey, riesce a mantenere un dura­ turo e solido equilibrio tra contrastanti interessi sociali e politici, tro­ vando il modo di garantire, al di là di ogni arbitrio e prevaricazione, un sostanziale rispetto reciproco - come sosteneva anche Mommsen - nei rapporti tra sfere vitali diverse: «Un’unica legislazione abbraccia tutte le creature viventi, in particolare gli uomini. Proprio a loro essa si ri-

% Ibid.. pp. 443, 441,8 e 9; tr. it. II, pp. 244, 242, 11 e 12. r ibid„ pp. 10 e 10-1; tr. it I, pp. 13 e 13-4. 56 Dilthey, Weltanschauung und Analyse cit., p. 10; Ir. it. p. 13. In questa pagina viene inserito la seguente riflessione di Jhering: *11 pensiero del dominio era il prisma attraverso cui il diritto più antico osservava tutti i rapporti entro cui si svolge la vita individuale. Se anche questi, per il loro effettivo carattere e finalità, potevano ben poco 1/1 ir ricondotti a tale punto di visto, come nel caso del matrimonio o dei rapporti adre e figlio, il diritto applicava unicamente tale pensiero» (Gefcf des rdmischtn Tech" nst anast. Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1955, II. p. |37)

in V. Cicerone, 'Roma eterna' e le sfide della modernità

ferisce, in quanto entità responsabili e punibili, che debbono quindi essere libere. In tal modo, l’impero di Dio, la sfera di dominio e l’or­ dine giuridico dello Stato, e la sfera di dominio della libera volontà individuale, vengono a delimitarsi reciprocamente»59. La solidità dei fondamenti della civitas, veri e propri ‘bastioni’ in gra­ do di ‘arginare’ le pretese provenienti dalla sfera statuale, è messa in luce da Dilthey, ancora al seguito di Mommsen, attraverso un esempio specifico, illustrando cioè il senso e i caratteri specifici dei cortei fu­ nebri romani: «Nessun popolo è mai riuscito a esprimere così energi­ camente l’immortalità della volontà di dominio di eccelsi antenati, la continuità della loro azione nella famiglia, come i romani con le rozze e tetre cerimonie delle loro solennità funerarie aristocratiche, allorché la casa del defunto si apriva, e gli antenati sfilavano in processione davanti alla bara, con maschere di cera dipinte e con gli abiti curuli; quindi sul Foro prendevano posto intorno al defunto [...], e delle loro gesta, come pure di quelle del morto, si tessevano le lodi. In ciò si espri-

59 Ibid., p. 15; tr. it. I, p. 20. Mommsen insisteva, nel suo lavoro, sull’accorto bilan­ ciamento che distingueva, a Roma, il rapporto tra Stato e civitas: «secondo il concetto romano, lo Stato era egualmente lontano sia dall’instabilità di una mera associazione difensiva sia dalle moderne idee di una incondizionata onnipotenza statale. La comu­ nità disponeva bensì della persona del cittadino, [...] ma ogni legge speciale che impo­ nesse carichi o minacciasse pene 1...] per azioni non generalmente vietate, era sempre considerata dai Romani, anche quando fossero osservate le forme costituzionali, come un atto di tirannide. Ancor più sottoposta a limiti era la comunità rispetto ai diritti di proprietà e ai diritti di famiglia (...]. Uno dei princìpi più incontestabili e più singolari della primitiva costituzione romana era quello che autorizzava bensì lo Stato a impri­ gionare e condannare a morte un cittadino, ma non gli concedeva di toglierli il figlio o le sostanze [...). Nessuna comunità era dentro la sua sfera giuridica più onnipo­ tente della romana; ma nel tempo stesso in nessun’altra comunità il cittadino integro viveva con sicurezza più assoluta, sia accanto ai suoi concittadini, sia a fronte dello Stato». 11 rispetto dell’individualità, e quindi lo sforzo di prevenire qualsiasi sopraf­ fazione, si manifesta anche nell’attento mantenimento di una «compiuta eguaglianza legale dei cittadini tra di loro (...]. Questa perfetta eguaglianza dei cittadini è senza dubbio originaria nella costituzione fondamentale indoeuropea; ma in questo rigore, sia nel concetto che nell’esecuzione, essa è pur sempre una delle più caratteristiche ed importanti singolarità della nazione latina» (T. Mommsen, Ròmische Geschichte, Ber­ lin, Wcidinann 1888, 8. Auflage, I, pp. 80 e 67-9; tr. it. Storia di Roma antica, Firenze, Sansoni I960,1, pp. 97-8 e 85-7).

112

Mondo classico e civiltà europea

me, in termini religiosi, il perdurare e il costante agire del volere, allo stesso modo in cui, in termini giuridici, si esprime nel testamento»60. Tra le espressioni più evidenti degli sforzi intrapresi, nel mondo romano, per chiarire e rendere più stabile e razionale l’«orientamento verso la vita» (Lebensstellung), Dilthey ricorda poi l’atteggiamento religioso, in cui il «patrimonio più antico era costituito dal culto dei defunti e degli antenati, da un intimo commercio con geni domestici, con divinità dei campi e dei boschi». In tutto ciò, «nei rapporti di fami­ liarità intima coi Lari, con gli spiriti dei campi e dei boschi, si esprime l’intangibilità della casa e della proprietà, anteriore ad ogni formula­ zione giuridica. Al di sopra [...], divinità assai semplici, espresse solo astrattamente, esercitano come magistrati il loro potere su ciò che si sottrae alla volontà dell’uomo, al pari degli spiriti del cominciamento (Geister der Eròffnug) di ogni agire, della guerra e della concordia, della buona fortuna e della probità, della semina e della fioritura»61. Dunque, non dèi dispotici o gelosi, premurosi o indifferenti, distinti in ogni caso da umori momentanei e modi d’agire imprevedibili, ma ‘astrazioni’ che rappresentano l’intraprendenza umana, cristallizzata in simboli elementari ed ‘essenziali’. Anche questo aspetto della reli­ giosità romana era stato descritto, negli stessi termini, da Mommsen: «Forse la figura divina più caratteristica e propria dei Romani [...] è il bifronte Giano; e nondimeno altro non vi è in quest’immagine che l’idea, caratteristica della scrupolosa religiosità romana, secondo cui nel cominciare (Eròffnung) qualsiasi azione si dovesse dapprima in­ vocare ‘Io spirito del cominciamento ’ (Geist der Eròffnug) [...]. La cir­ costanza che il portone, la porta e il mattino sono sacri a Giano, che

*° Dilthey, Weltanschauung und Analyse cil., pp. 11-2; tr. it. I, p. 15. Si veda, in proposito, l’opera di Mommsen, dove si discorre della «parte più grandiosa c più sin­

golare della cerimonia (funebre], la processione degli antenati», che contiene la stessa descrizione, identica anche nel linguaggio: Ròntische Geschichte cit., p. 862; ir. it. p.

1058. Si tenga presente che Dilthey, in questo brano, accosta le usanze funerarie al te­ stamento romano, altra manifestazione della ‘volontà di durata’. Anche in questo caso,

l’argomentazione svolta rinvia a Mommsen: «Secondo il corso giuridico ordinario, ciascuno poteva dare, senza riserva di sorta, la sua proprietà a chi voleva, ma in tal caso doveva rinunciare alla proprietà stessa, essendo a rigor di legge impossibile conserva­ re provvisoriamente la proprietà e trasmetterla ad un altro soltanto dopo la morte, a

meno che la comunità non glielo concedesse» (Mommsen, Ròmische Geschichte cil., p. 73; tr. it. p. 90). 61 Dilthey, Weltanschauung und Analyse cit., pp. 11 -2; tr. it. I, p. 15.

113 V. Cicerone, 'Roma eterna' e le sfide della modernità

questo nume è sempre invocato prima di ogni altro dio [...], fa sì che esso si debba ritenere designato come l’astrazione dell’apertura e del cominciamento. Ed anche la sua testa doppia che guarda da due parti, è immagine della porta che si apre da due lati»62. Il processo di ‘razionalizzazione’ della sfera dell’agire richiede che la relazione col ‘divino’, per ‘aprirsi’ al ‘calcolo’ e alla previsione, sia profondamente ripensata in base ad una logica contrattualistica: «Nel fare un voto, l’uomo entra con la divinità in un rapporto contrattuale, e il timore nei suoi confronti è simile al sentimento con cui il debitore si ricorda del suo creditore oltremodo preciso»63.

“ Mommsen, Ròmische Geschichte cit., pp. 164 e 172; tr. it. pp. 207 e 226. Lo svol­ gimento ulteriore del discorso di Mommsen propone gli altri elementi messi in rilievo da Dilthey: «Forse il più intimo e il più devoto culto della religione romana è quello che si consacrava ai geni protettori che vigilano dentro e sopra la casa e cioè nel culto pubblico quello di Vesta e dei Penati, nel culto delle case gentilizie quello degli dèi dei boschi e dei campi e innanzitutto quello delle specifiche divinità domestiche, [... ] i Lari, a cui regolarmente veniva offerta una porzione di cibo [...]. Lo spirito di devo­ zione trovava il suo più vivo nutrimento non già nell’astrazione più vasta e generale, ma in quella di forma più semplice e più individuale» (ibid.> pp. 164-5; tr. it. p. 207). w Dilthey, WeltanschauungundAnalyse cit., p. 12; tr.it. I,p. 15. Si veda Mommsen, sul medesimo argomento: «Il dio degli Italici è (...) innanzitutto uno strumento per raggiungere scopi molto concreti e terreni; (...) questa direzione dello spirito italico verso il comprensibile e il reale si manifesta altrettanto chiaramente anche nel culto dei santi dei moderni Italiani. Le divinità stanno di fronte all’uomo, come il creditore di fronte al debitore; ciascuno di essi ha un ben acquisito diritto a certe funzioni e a certe prestazioni [...): il voto è, di nome e di fatto, un contratto formale tra l’uomo e il dio, per mezzo del quale l’uomo assicura al dio, per una certa prestazione, una contro-prestazione. Anzi, la norma del diritto romano, che nessun contratto possa venir concluso per mezzo di un procuratore, non è l’ultimo motivo per cui nel Lazio era esclusa ogni mediazione di sacerdoti negli affari religiosi degli uomini [...]. Così il timore di Dio pesa con grande forza sugli animi della moltitudine, ma non è già quel sacro terrore, che riempie lo spirito dinanzi alla natura che abbraccia ogni cosa, 0 alla onnipotenza divina che ogni cosa governa; non è quel profondo sentimento che ispirano le intuizioni panteistiche e monoteistiche, ma è una paura di genere affatto mondano, e appena si distingue dal turbamento col quale il debitore romano si ap­ prossima al suo giusto, ma rigoroso e potentissimo creditore» (Ròntische Geschichte cit., pp. 171-2; tr. it. pp. 214-6). Ancora una corrispondenza, in merito allo stesso argomento. I Romani, per Dilthey, costituiscono «un popolo senza racconti intorno agli dèi e senza epica, ed egualmente senza un’effettiva filosofia» ( Weltanschauung

114

Mondo classico e civiltà europea

In tutti questi ambiti - sul piano del diritto e della religione, del rap­ porto con la tradizione e delle relazioni tra volere statale e insieme del­ la civitas - si dispiega una civiltà che si accresce e si evolve con grande coerenza a partire dal discernimento della ‘legge di natura’, riuscendo a definire concetti e prospettive che torneranno ad acquistar valore in tutt’altro contesto, a cospetto delle sfide e delle pressanti richieste della modernità. In definitiva, Dilthey si occupa dell’opera di Cicerone, e della sua straordinaria ‘risonanza’ agli inizi del mondo moderno, per richiamare all’attenzione un processo storico in cui la travolgente af­ fermazione di una civiltà si accompagna non a un crescente irrigidi­ mento, ma piuttosto alla messa in discussione di ciò che possedeva significato e valore in ambiti più ristretti. Cicerone è così interpretato come l’espressione di un’età di profon­ di rivolgimenti, in cui la determinatezza dello ius civile viene sempre più contrastata dall’universalità dello ius gentium. Scrive Dilthey, rica­ vando da Mommsen un’ampia cornice per le sue analisi: « Accanto al diritto civile romano (ius civile), si era formato, a partire dai bisogni legati ai traffici nel Mediterraneo, un diritto dei forestieri, le cui for­ me più libere penetrarono anche all’interno del diritto civile. A questo diritto internazionale appartenevano, ad esempio, le regole giuridiche in stato di guerra sulla protezione e sul libero transito degli ambasciatori, come pure quelle che riguardavano l’appropriazione della pre­ da, l’istituto della schiavitù, la conclusione dei trattati per mezzo di domande e risposte, senza il ricorso alle solenni formule romane, e così via». Nell’insieme di queste trasformazioni della civiltà giuridica, «acquistarono sempre maggior influenza la naturalis ratio, la acquitas e la considerazione dell’utile. Proprio questo diritto divenne, nella giurisprudenza, il sostegno dell’idea, secondo cui nei concetti sulla vita si racchiude un intimo nucleo di regole giuridiche comune a tutte le nazioni». Si spiega in questi termini, prosegue Dilthey, «come nel lin­ guaggio di Cicerone e dei giuristi, l’espressione ius gentium indichi in­ nanzitutto l’effettivo diritto dei pellegrini, e quindi anche, nel medesi­ mo tempo, queste regole di diritto vigenti presso tutti i popoli, e possa infine identificarsi con l’espressione di ius naturae. Si sviluppava così una corrente profonda di diritto naturale, che non dominava il diritto positivo dall’alto, in nome di concetti generali di equità, ma prendeva le mosse appunto dal diritto esistente, e comparando, generalizzan-

und Analyse ciL, p. 9; tr. it. I, p. 12). Analogo il giudizio di Mommsen: cfr. Rdmischi Geschichte cit.» p. 170; tr. it. p. 213.

115 V. Cicerone, 'Roma eterna' e le sfide della modernità

do, riferendo tutto all’utile, all’economia e alla convenienza, tendeva a progredire verso un diritto sganciato dalle convenzioni nazionali»64. In ciò consiste, essenzialmente, il valore esemplare dello ‘spirito ro­ mano’, che per Dilthey può ancora costituire un importante punto di riferimento, con la sua ispirazione più generale, nella cultura di fine Ottocento. A una tale tradizione può infatti venir collegato il paradig­ ma di un’entità nazionale che a una dato momento, per muoversi en­ tro scenari sempre più vasti, sia capace di aderire a una «razionalità» non esclusivamente vincolata ai ristretti parametri di etnie, confessioni e retaggi storici determinati, e quindi incline a riconoscere la dignità del ‘genere umano’ nel suo complesso e «l’idea di disposizioni naturali, di nozioni morali e religiose innate»65.

M Dilthey, Weltanschauung und Analyse cit., pp. 14-5; tr. it. I, pp. 18-9. In questo passo, Dilthey trascrive semplicemente quanto trova nella monografia di Mommsen sul diritto romano: «Nell’evoluzione giuridica, si fa poi avanti, in opposizione al diritto civile (ius civile) basato sulla tradizione nazionale e latina un insieme di leggi po­ sitive che si appoggia all’astrazione di un diritto privato (iusgentium) comune a tutti i popoli [...]. Come appartenenti a questo diritto universale, sono ad esempio da men­ zionare le regole giuridiche in stato di guerra sulla protezione e sul libero transito degli ambasciatori, come pure quelle che riguardavano la liceità dell’appropriazione della preda, la legittima difesa, l’estensione agli uomini del concetto di proprietà, la schia­ vitù [...], la conclusione dei trattati per mezzo di domande e risposte, senza il ricorso alle parole spondes? spondeo riservate al diritto civile» (Ròmisches Staatsrecht, III/l, Leipzig, Hirzel 1887, pp. 603-4). All’interno di questa argomentazione, Mommsen ri­ chiama anche Cicerone, per la corrispondenza tra ius naturae e ius gentiurn, e cita sia De ojfiicis 3, 5, 23 («non soltanto è stabilito dalla natura e dal diritto delle genti, ma anche dalla legislazione positiva dei varii popoli [...), non essere lecito nuocere altrui per vantaggio proprio»), sia Tuscolanae disputationes 1, 13, 30 («in ogni questione il consenso universale dei popoli deve ritenersi legge di natura»). •' Dilthey, Weltanschauung und Analyse cit., p. 107; tr. it. I, p. 139. Dilthey ripren­ de da Jhering (Geist des rómischen Rechts cit., 1, pp. 312 e 335) anche il verso virgiliano (-tu regere imperio populos Romane memento», Aen. 6, 852) e il passo di Cicerone («quod nostra republica non unius esset ingenio, sed multorum, nec unius hominis vita, sed aliquot constituta saeculorum», De re publica 2, 1,2) riportati all’inizio della sua indagine ( Weltanschauung und Analyse cit., p. 11; tr. it. I, p. 14).

Parte seconda

RETAGGI ORIENTALI NEL MONDO CLASSICO

L

VI. Gerarchie di civiltà: il problema della continuità storica europea

1. Tradizionali distinzioni tra epoche diverse Nel desolato scenario del dopoguerra - rileva Heidegger in diver­ se occasioni a partire dagli ultimi anni ’20 - i sintomi di un inarre­ stabile «sradicamento del pensare» diventano sempre più evidenti. Allo scomposto agitarsi dell’«uomo delle città» e delle «scimmie della civilizzazione»1 si accompagna un sempre più acuto disorientamento generale, a cui si cerca di reagire aggrappandosi al mito di una sfrenata e ‘benefica’ istintualità primigenia: «Si cerca il vivente nella ‘vita’ e cosa sia il vivente’ non si riesce a sapere»2. L’incertezza del presente, pro­ segue Heidegger nel 1929, favorisce inoltre l’entrata in scena di «una nuova disciplina», l’antropologia filosofica o «filosofia dell’uomo», a cui si guarda col più vivo interesse, nella convinzione che possa agevol­ mente «riuscire a raccogliere, come in un catino, tutti gli altri problemi filosofici»3. In una simile temperie, anche molte specifiche indagini storiche, condotte innanzitutto sul piano dell’antichistica, dell’estetica e della ‘scienza delle religioni’, iniziano a confrontarsi, senza alcun timore, con questioni sempre più ampie, e quindi cariche di implicazioni spe-

1 M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt-Endlichkeit-Einsamkeit, (semestre invernale 1929-30), in H-GA 29-30, 2004, pp. 7-9 e 316.

2 M. Heidegger, Die Oberwindung der Metaphysik (1938-39), in Id., Metaphysik und Nihilismus, H-GA 67, 1999, pp. 117 e 121-2.

' M. Heidegger, Der deutsche Idealisntus (Fichte, Schelling, Hegel) und die philosophische Problemlage der Gcgenwart (semestre estivo 1929), in H-GA 28, 1997, p. 18.

Si veda anche un testo heideggeriano scritto alcuni anni dopo: «La ‘vita’ confusamente

intesa come universale miscuglio di ‘natura’ e 'storia’; [...] il predominio della ‘biolo­ gia’e della ‘psicologia’ e il loro rimescolamento nella poltiglia delTantropologia’, a cui

viene fatta corrispondere la ‘vita cosmica’» (Id., Die Oberwindung der Metaphysik cit.»

p. 117).

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Mondo classico e civiltà europea

culative, che sfiorano sia il campo dell’antropologia filosofica che quel­ lo delle ‘filosofie della storia’. Cresce ben presto l’esigenza di ‘modelli idealtipici’ e di quadri sin­ tetici delle ‘essenze’ delle varie epoche. Diventa sempre più vivo l’in­ teresse per il problema degli ‘scambi’ e degli intrecci tra aree culturali diverse, tra storia europea, ad esempio, e civiltà orientali. Si rafforza inoltre la tendenza a mettere in discussione le ‘gerarchie dei valori’ da cui risultano i tradizionali criteri di periodizzazione storica. In questo modo sono proprio gli orientalisti e i filologi classici, gli studiosi di estetica e gli storici delle religioni a rendere espliciti, dopo il 1890, i ‘presupposti filosofici’ delle loro stesse indagini. Discussioni e polemiche più generali, su questi diversi piani, rag­ giungono il loro culmine al termine del conflitto mondiale. Nel 1922, quasi a chiusura di un’epoca, saranno due opere, l’indagine di Spengler ulla «morfologia della storia» e lo scritto di Troeltsch sullo storicismo, proporre un bilancio di una stagione di accesi confronti. Entrambi testi, pur così diversi, mostrano un’indubbia «parentela spirituale», come rileva Otto Hintze nel 1927, in quanto «prodotti di un tempo in cui si è risvegliato, dopo un lungo sopore, l’interesse per la filosofia della storia»4. Tra la fine del secolo e il conflitto mondiale, sono proprio le nume­ rose scoperte di nuovi e sorprendenti collegamenti tra civiltà diverse, e insieme l’aprirsi di nuovi campi di ricerca, del tutto estranei alia sto­ riografia europea fino al 1880, a generare rapidamente, come registre­ rà Troeltsch, una crisi «nei fondamenti più generali [...] del pensiero storico, nella comprensione dei valori storici attraverso cui dobbiamo costruire e pensare l’unità della storia»5. In questo contesto assume grande rilievo il dibattito sul modo di segnare i confini tra le varie epo­ che, che diventa subito, anche per storici e filologi dediti a circoscritte indagini specialistiche, parte integrante di una più ampia discussione intorno ai «valori storici della civiltà europea»6. Al momento in cui viene comunemente ammessa la ‘bancarotta’ defi­ nitiva del ‘mito’ ottocentesco di una lineare evoluzione storica, acquista

* O. Hjntze, Troeltsch und die Probleme des Historismus, «Historische Zeilschrift», 135, 1927, p. 188. Cfr. E. Troeltsch, Der Historismus und scine Probleme, Tiibingcn. Mohr 1922, pp. 650-1 e 704 sgg.; Id., Moderne Geschichtsphilosophie (1904), in 1d., Gesammelte Schriften, II, Tiibingen, Mohr 1922, p. 718. 5 Troeltsch, Der Historismus cit.» p. 4. 6 Ibid., p. 5.

ni VI. Gerarchie di civiltà: il problema della continuità storica europea

un’improvvisa notorietà, in termini polemici, il termine ‘storicismo’, pressoché sconosciuto nei decenni precedenti7, utilizzato per contras­ segnare un modo di intendere il passato che conduce «a scetticismo e relativismo, o anche a mera contemplazione estetica», associando­ si a «indebolimento del volere e [...] paralisi dell’impulso ad agire»8. In corrispondenza a tutto ciò, compaiono «numerosi studi [...] sul problema della periodizzazione», che sottopongono a nuove indagini il tema, avvertito «in modo molto più acuto» rispetto all’epoca preceden­ te, dei ‘punti nevralgici’ e delle ‘fratture’ che segnano il divenire della ci­ viltà europea. D’un tratto, acquista piena legittimità la diffusa preoccu­ pazione di rileggere la storia del mondo occidentale, nei suoi momenti di grande fioritura e nelle epoche di transizione, sbarazzandosi di una «tradizionale, ormai mummificata ripartizione in periodi»9. Per quanto riguarda la storia antica, ad esempio, l’opera di Eduard Meyer riapre una discussione sui criteri di periodizzazione e sul pro­ blema delle corrispondenze e dei reciproci influssi tra mondi culturali diversi: «Il consueto smembramento (Zerreissung) della storia antica in storia greca e romana - l’Oriente e l’epoca ellenistica scelgano a loro piacimento dove rimanere - e il più pieno disinteresse per una tratta­ zione sincronica, divenuto manifesto solo nel nostro secolo, sono in realtà tanto ingiustificati quanto nocivi»10. Anche gli storici dell’età moderna, particolarmente interessati, al pari di Karl Lamprecht, a nuove indagini di storia economica e sociale, avanzano rilievi analoghi. Kurt Breysig, importante interprete di questa corrente, sottolinea nel 1901 la necessità di una «emancipazione della storia [...] da un tradizionale criterio di ripartizione, estrinseco e ordi­ nato cronologicamente», incapace di dar conto di analogie e paralleli-

7 Karl Heussi nota come la parola sia assente neW Inattuale sulla storia (1874) di Nietzsche, il testo da cui la critica allo ‘storicismo’ ricava, in seguito, le sue armi più affilate (Die Krisis des Historismus, Tùbingen, Mohr 1932, p. 2). L’espressione è co­ munque presente, in quell’arco di tempo, nell’opera di Eugen Duhring, Cursus der Philosophie als streng wissenschaftlicher Weltanschauung und Lebensgestaltung, Leip­ zig, Koschny 1875, pp. 223 e 306-7. 1 Hintze, Troeltsch und die Probleme cit., p. 190. * K. Burdach, Wissenschaftsgeschichtliche Eindriìcke eines alten Gerrnanisten, Ber­ lin, Weidmann 1930, p. 45. 10 E. Meyer, Geschichte des Altertums, II: Geschichte des Abendlandes bis auf die Perserknege,'Stuttgart, Cotta 1893, p. vi. Cfr. W.M. Calder III-A. Demandt (eds.), Eduard Meyer. Leben und Leistung eines Universalhistorikers, Leiden, Brill 1990.

122

Mondo classico e civiltà europea

smi che emergono nell’evoluzione di civiltà diverse. È giunto il momen­ to, a suo avviso, di respingere la consuetudine, diffusa tra storici e teolo­ gi a partire dal Seicento, di fare «a pezzi la storia universale, quasi fosse un unico panno, in tre parti: antichità, Medioevo ed età moderna»11. Qualche anno dopo, nel 1925, Walter Otto, autorevole docente di storia antica presso l’università di Monaco, rileva come non sia possi­ bile eludere «l’arduo problema della suddivisione in periodi della storia universale [...], discusso assai spesso negli ultimi tempi»12. L’opera di

11 K. Breysig, Alterthum und Mittelalter als Vorstufen der Neuzeit (= Kulturgeschichte der Neuzeit, II), Berlin, Bondi 1901, pp. 22-3. Il disagio degli storici, in rappor­ to a questo specifico problema, viene registrato, sia pur di sfuggita, anche da Croce. È vero che sul tradizionale «periodizzamento si è assai sottilizzato da parte dei critici»: tuttavia, nota il filosofo negli anni ’IO, i diversi tentativi intrapresi per scoprire nuovi ‘punti di svolta’ nella storia europea non risultano convincenti (B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza 1976, p. 103). Sul tema si sofferma più a lungo, nel

1921, Karl Heussi, passando in rassegna alcuni motivi in grado di spiegare la crescente propensione degli storici, ben visibile a partire almeno dal 1890, a rimettere in discus­ sione, da svariati punti di vista, il quadro più generale delle differenze tra antichità,

Medioevo ed età moderna. A suo giudizio, la crisi dell’idea di ‘tripartizione’ è da impu­ tare in primo luogo a nuovi indirizzi di ricerca, e cioè alla «forte impressione suscitata dalla significativa estensione delle nostre conoscenze dell’antico Oriente» (K. Heussi, Altertum, Mittelalter und Neuzeit in der Kirchengeschichte. Ein Beitrag zum Probletn

der historischen Periodisierung, Tiibingen, Mohr 1921, p. 29; cfr. Croce, Teoria e storia cit., pp. 333-4). La diffidenza verso i consueti schemi di suddivisione storica viene d’al­

tra parte accresciuta, prosegue Heussi, anche grazie ad altri elementi. Nell’orizzonte

ideale degli storici si ripercuotono infatti determinate esigenze politiche, legate agli interessi mondiali delle grandi potenze, che sembrano rendere insufficiente un mo­ dello di ‘periodizzazione’ troppo vincolato alle vicende storiche del bacino mediterra­ neo. E non bisogna d’altro canto dimenticare, almeno in Germania, il peso dell’eredità di Leopold Ranke, il quale aveva affrontato la storia universale, al pari di Voltaire e di Gibbon, senza ricorrere né alla ‘tripartizione’ né ad analoghi modelli classificatori

(Heussi, Altertum, Mittelalter und Neuzeit cit., pp. 29-31). Era stato del resto proprio un allievo di Ranke, Ottokar Lorenz, ad aprire la discussione, nel 1886, sulle insuffi­

cienze e sui rischi della consueta ‘tripartizione’ storica (O. Lorenz, Die Geschichtswissenschaft in Hauptrichtungen und Aufgaben, Tiibingen, Mohr, 1886,1, pp. 228 sgg.; li,

pp. 143 sgg.). Gli argomenti di Lorenz vengono criticati da E. Bernhf.im, l.ehrbuch der

historischen Methode, 5. Aufl.» Leipzig, Duncker u. Humblot 1908, pp. 79 sgg.

« W. Otto, Kulturgeschichte des Altertums. Ein Uberblick iiber neue Erschcinun-

gen, Miinchen, Beck 1925, p. 1.

123 VI. Gerarchie di civiltà: il problema della continuità storica europea

Spengler, prosegue l’antichista, ha avuto un notevole successo nel met­ tere in discussione, riprendendo opinioni da tempo accreditate tra gli storici, l’idea di una continuità tra cultura greco-romana e mondo mo­ derno. Tuttavia, anche coloro che preferiscono, al seguito di Troeltsch, operare «un taglio profondo tra Oriente e Occidente», non possono più accettare le considerazioni sul mondo classico e sulle partizioni della storia universale che Theodor Mommsen, poneva all’inizio della sua Storia romana, in anni in cui assai più scarse erano le conoscenze intorno alla civiltà babilonese e al parsismo13. Pure gli storici dell’arte, in questi anni, proclamano a gran voce la necessità di «una fuoriuscita dai confini della civiltà europea»14, di un «rovesciamento dei valori»15 che permetta di contrastare la tirannia del classicismo, sul piano sia dell’estetica che delle filosofie della storia. Alois Riegl, Wilhelm Worringer e Josef Strzygowski prendono posses­ so di nuovi campi di ricerca - analizzando il presunto ‘primitivismo’ della tarda antichità o il bisogno di ‘astrazione’ racchiuso nello stile go­ tico - che richiedono allo storico, per essere affrontati adeguatamente, un abbandono del «ristretto angolo visuale» imposto dai parametri dell’arte greco-romana e rinascimentale16. Già nel 1901 Riegl, opponendosi al ‘formalismo’ estetico di Wòlftlin, mette in discussione le ‘gerarchie di valore’ riscontrabili nei tradizio­ nali schemi storiografici e denuncia il persistente ostracismo nei con­ fronti del mondo tardo-antico: nell’epoca di Costantino, a suo parere, si viene affermando, sul piano sia dell’architettura che della scultura, una nuova idea dello spazio tridimensionale, ma gli storici dell’arte continuano a parlare, per questo periodo, di ‘decadenza’ e di ‘imbar­ barimento’, riproponendo così «il dominio di quel tenace pregiudizio secondo cui sarebbe del tutto vano andare alla ricerca di leggi evolutive positive nella tarda antichità»17. A partire da questa monografia di Riegl del 1901, gli storici dell’arte assumono, almeno in Germania, un ruolo predominante, come ben

” IbuL.pp. 1-2. " J. Strzygowski, Dos kunsthistorisches Institut der Wiener Universitdt, «Die Geisteswissenschaftcn», 1,1913, p. 14. 11 W. Worringer, Formprobleme der Gotik, Mùnchen, Piper 1911, p. 7. * Ibid., pp. 146-7. Cfr. W. Worringer, Abstraktion und Einfiìhlung, 3. Aulì., Miìnchen, Piper 19l!,pp. 138-9. 17 A. Riegl,Spiitrómische Kunstindustrie (1901), Wien, Osterreichische Staatsdrukkerei 1927, p. 2; tr. it. Arte tardo-romana, 'l'orino, Einaudi 1959, p. 4.

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saprà vedere Troeltsch, sul piano delle discussioni intorno alle scansio­ ni della ‘storia universale’ e alle relazioni tra le civiltà che maggiormen­ te incidono nel ‘destino’ dell’occidente. Oswald Spengler, un autore che conosce bene sia l’opera di Meyer che gli scritti di Riegl, Worringer e Strzygowski, riprende orientamenti in quegli anni ampiamente condivisi al momento in cui definisce traill918eil 1922 - l’usuale ‘tripartizione della storia’ una sorta di «sistema tolemaico» della storiografia, uno «schema inverosimilmente misero e privo di senso», creato da storici e filologi che restano «in­ chiodati con lo sguardo ai paesi del Mediterraneo»18. La ‘tripartizione’ della storia corrisponde al «campo di interessi della filologia classica», a un discutibile ordine gerarchico: «la prospettiva definita dallo schema antichità-Medioevo-età moderna [...] è circo­ scritta dall’uso della lingua greca e latina. Agli studiosi delle lingue antiche, che si tenevano ai ‘testi’, Axum, Saba e lo stesso Impero sassanide restarono inaccessibili». Un’invisibile «frontiera dei filologi», e degli studiosi delle culture classiche, impediva di fare seriamente i sonti, ancora alla fine dell’ottocento, con i continui contatti tra mon­ do europeo e civiltà del Medio Oriente19. Con una formula lapidaria, Spengler riassume così i risultati di un lungo dibattito: «la parola Eu­ ropa dovrebbe venir cancellata dalla storia [...]. ‘Europa’ è un suono del tutto vuoto»20.

2. Oltre l’ordine cronologico: il problema delle 'ricomposizioni’ storiche Nei primi anni del Novecento, storici e filologi guardano con cre­ scente interesse, sul piano della Kulturgeschichte, ai processi di ‘conta­ minazione’, agli innumerevoli casi in cui ‘residui’ e ‘sopravvivenze’ del passato riaffiorano con inaspettata vitalità in contesti del tutto nuovi. AU’improwiso, nel passaggio da un secolo all’altro, «si viene continuamente scoprendo una gran massa di nuovi scambi e subordinazioni» tra civiltà diverse, lontane nello spazio o nel tempo21. Storici del mondo antico e studiosi del Rinascimento scoprono di dover mettere in discussione le ‘evidenze’ dell’ordine cronologico, tro-

18

>9

20 21

S-UA, pp. 21,24 e 877; tr. it. pp. 54, 57 e 1051. Ibid., pp. 30 e 786-7; tr. it. pp. 1424 e 948-9. Ibid., p. 22; tr. it. pp. 1423-4. W. Otto, Kulturgeschichte des Altertums cit., p. 3.

115 VI. Gerarchie di civiltà: il problema della continuità storica europea

vandosi d’un tratto a fare i conti con filiazioni e parentele del tutto inaspettate e scoprendo, nelle più diverse età, processi di ‘condensa­ zione che risultano dal sovrapporsi o dall’amalgamarsi di elementi eterogenei. A seguito delle nuove ricerche di orientalistica - i contributi di Mor­ ris Jastrow e Hermann Gunkel in particolare22 - si inizia proprio in questi anni a collegare ad antiche concezioni ‘astrali’ sorte a Babilonia il mito esiodeo delle età del mondo, antiche riflessioni persiane sulla suddivisione in quattro periodi della storia universale ed elementi pro­ fetici presenti nei testi biblici (la successione dei regni nel sogno di Na­ bucodònosor, la visione delle ‘quattro bestie’ nel Libro di Daniele). «La contemporanea comparsa della medesima speculazione presso Ebrei, Persiani e Greci, indica che si tratta di una comune antica dottrina orientale, certo di origine babilonese, [...] giunta ai tre popoli situati alla periferia del mondo delle civiltà del Medio Oriente, assumendo presso ognuno di loro una configurazione caratteristica»: aspetti di una medesima tradizione religiosa che sorge tra il Tigri e l’Eufrate - il culto degli astri, l’idea di una corrispondenza tra divinità planetarie, metalli ed età del mondo - vengono adesso ritrovati, pròfondamente modificati ma riconoscibili, in culture assai diverse tra di loro23. A partire da simili ‘contaminazioni’ tra tradizioni e credenze assai lontane, le distanze temporali sembrano perdere importanza. Era ad esempio ben conosciuta, a fine Ottocento, la straordinaria circolazione del modello biblico delle ‘quattro monarchie’, ampiamente diffuso in età medioevale e ancora presente nella storiografia tra Cinquecento e Seicento24; a distanza di qualche anno, le nuove indagini degli orien­ talisti fanno comunque ben presto vedere come lo schema riproposto

a H. Gunkel, Schòpfung und Chaos in Urzeit und Endzeit, Gòttingen, Vandenhoecku. Ruprecht 1895; M. Jastrow, Die Religion Babyloniens und Assyriens, 1, Gies-

«n, Mohr 1905. Si veda anche W. Bousset, Das Wesen dcr Religion, 3. Aulì., Halle,

Gebauer 1906.1 contributi di Gunkel, in particolare, insegnano che «una serie di idee cosmologiche della più tarda tradizione giudaica sono da riconoscere come di origine babilonese* (Schòpfung und Chaos cit., p. 309).

u H. Gunkel, Handkommentar zutn Alien Testament, 1/1: Genesis, Gòttingen, Vandenhoeck u. Ruprecht 1902, pp. 233 sgg.; Id., Schòpfung und Chaos cit., pp. 272

•'* Cfr. F. Dùsterwald, Die Weltreiche und das Gottesreich nach den Weissagungen dn Propheten Daniel, Tubingen, Mohr 1890; E. Bernheim, l.ehrbuch der historischen Methode cit., pp. 73 sgg.

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da Johannes Sleidanus nel suo fortunato De quatuor summis imperiis (1566), stampato in oltre sessanta edizioni, abbia in realtà un’origine ancor più antica, risalente alla mitologia babilonese25. Un’ininterotta ‘diffidenza’ verso cesure temporali che spesso si rive­ lano illusorie viene raccomandata e promossa, nel campo della filolo­ gia classica e della ‘scienza delle religioni’, anche da Hermann Usener. Particolarmente importante, sul piano del metodo, è quel contributo del 1889 in cui il filologo mostra come solo verso la metà del Quarto secolo la Chiesa di Roma inizi a far coincidere la natività di Cristo col solstizio d’inverno, impossessandosi così di una ricorrenza fatidica per il mondo pagano26. Eduard Norden, docente a Berlino dal 1906, si collega a Usener e riprende la questione, in un saggio famoso comparso nel 1924, ritro­ vando nella quarta ecloga di Virgilio, nell’annuncio della nascita di un bambino prodigioso, precisi riferimenti a festività egizie che costitui­ ranno, in seguito, un’eredità ‘orientale’ destinata a travasarsi nel cri­ stianesimo. Restano in Virgilio, indica l’antichista, tracce di un cerimonia, lega­ ta a culti astrali di derivazione irano-babilonese, che si svolgeva ogni anno ad Alessandria, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, per celebrare la nascita portentosa, dal grembo di una vergine, dell’infante Aion, il bambino divino. A questa ricorrenza era strettamente collegata, sem­ pre ad Alessandria, una seconda festività, anch’essa indirettamente ri­ cordata nell’ecloga virgiliana: l’usanza, attestata anche da Macrobio, di celebrare il solstizio invernale - il giorno in cui nasce di nuovo da una vergine il dio Helios - portando in processione, nella notte del 24 dicembre, «la statuetta di un infante come simbolo del dio Sole che rinasce»27. Si tratta di una credenza egizia che avrà larga circolazione, come documenta Norden, nel mondo antico. La celebrazione del solstizio invernale, assunta anche nel calendario delle festività ebraiche e os-

2i Gunkel, Schòpfung und Chaos cit.» pp. 323 sgg.; Heussj, Altertuni, Mittelalter und Neuzeit in der Kirchengeschichte cit., pp. 2-12. “ Cfr. H. Usener, Das Weihnachtsfest (1888), Bonn, Bouvier 1969 (ristampa ana­ statica dell’edizione del 1910).

27 E. Norden, Die Geburt des Kindes. Geschichte einer religióse»! Idee (Studien der Bibliothek Warburg, III), Leipzig u. Berlin, Teubner 1924, pp. 28 sgg. e 45 sgg. Cfr. anche Id., Die Geburt des Kindes. Etne geschichtliche Weihnachlsbelrachtung, in ln„

Kleine Schriften zum klassischen Altertum, Berlin, de Gruyter 1966, p. 452.

127 VI. Gerarchie di civiltà: il problema della continuità storica europea

servata in Siria e in Arabia, compare infine nella stessa Roma, dove l’imperatore Aureliano nell’anno 274 dedicò al Sol invictus un nuovo tempio. Epifania e Natale, quindi, vengono a saldarsi a numerosi cul­ ti pagani, legati all’incontro e alla mescolanza, in epoca ellenistica, di credenze egizie e speculazioni iraniane e babilonesi: «attraverso la data di una festività, la Chiesa è direttamente collegata [...] all’Egitto del secondo millennio»28. Le ricerche di Norden, dando rilievo al retroterra orientale del cri­ stianesimo, richiamano all’attenzione anche un’antico racconto egizio: Horus rinasce in un bambino - figlio del dio Sole, Amòn-Ra, e di una mortale - al cui nome sarà legato l’avvento di una nuova epoca di pro­ sperità29. Dal mito originario, ancora una volta, si diparte una catena di aspettative e credenze che sembra condurre, attraverso complesse mediazioni, per un verso all’ecloga virgiliana e per un altro verso alla narrazione evangelica della natività di Maria: «Il sacerdote egiziano e il profeta israelita, il poeta romano e l’evangelista cristiano: tutti costoro, separati da veri e propri abissi per quanto riguarda i tempi e e i mondi delle idee ( Welten des Denkens), sono stati comunque banditori, ognu­ no alla sua maniera, dell’idea di un salvatore, associata alla nascita di un bambino divino, [...] destinato a dar inizio a una nuova epoca del mondo e a redimere un’umanità [...] sprofondata nel peccato ed espo­ sta alla morte»30. Norden intende mostrare, rivolgendosi in particolare agli storici del cristianesimo, come già in epoca precedente, a partire dall’incontro tra speculazioni iraniane sul tempo e miti egizi di concepimenti porten­ tosi, sia «stato collegato l’inizio di una nuova età del mondo alla nasci­ ta di un bambino divino, non gravato da alcuna colpa per precedenti peccati»31. Le sue ricerche assumono in tal modo un valore program­ matico. Si tratta di far vedere come un medesimo mito, «spostandosi di popolo in popolo e infrangendo gli steccati delle aree culturali e dei sistemi religiosi», si venga svolgendo «ovunque in maniera creativa»,

u E. Norden, Die Geburt des Kindes. Geschichte einer religiosen Idee cit., p. 168. Su Norden si veda B. Kytzler, K. Rudolph, J. Rùpke (eds.), Eduard Norden (18681941), Stuttgart, Steiner 1994. n Norden, Die Geburt des Kindes. Geschichte einer religiosen Idee cit., pp. 73 sgg. 30 Norden, Die Geburt des Kindes. Etne geschichtliche Weihnachtsbetrachtung cit., p. 456. ” Norden, Die Geburt des Kindes. Geschichte einer religiosen Idee cit., pp. 57 e 167 in particolare.

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dando luogo non a «decomposizioni» ma piuttosto, nel corso di secoli e millenni, a singolari «ricomposizioni» (Rekompositionen, il termine viene suggerito a Norden da Fritz Saxl) tra elementi eterogenei32. L’at­ tenzione alla cronologia storica non deve farci dimenticare la presenza, a un livello più profondo, di una temporalità diversa: «Gli imperi pos­ sono crollare, i popoli, e con loro i loro dèi, disperdersi; [...] il singolo evento scompare, l’idea resta: e la forza di resistenza (Beharrungskraft) di quanto a suo tempo comparso - subisca anche un tracollo nel mon­ do fenomenico - non viene meno, e addirittura questa rovina costitui­ sce il più delle volte la condizione per una propagazione senza ostacoli delle forze ideali in esso contenute»33. Qualche anno addietro, nel primo decennio del nuovo secolo, pure Wilhelm Bousset, il grande storico delle religioni, si era mosso nella medesima direzione. Nello studiare i sistemi gnostici, ricondotti da Hamack all’incontro tra cristianesimo e mondo greco, la sua opera principale, stampata nel 1907, suggeriva di tener presenti scenari ben più ampi e di volgere «decisamente lo sguardo verso Oriente»34. Erano stati infatti culti astrali, sorti in ambito babilonese e legati a specula­ zioni iraniche, a incidere profondamente, a suo avviso, non solo nella tradizione ebraica e negli strati meno antichi della religione persiana, ma anche, secoli dopo, nello gnosticismo e negli scritti dei Mandei. In Mesopotamia, già prima di Alessandro Magno, la religione babilone­ se, «ormai in uno stadio di irrigidimento» e sempre più «concentrata nell’adorazione delle sette divinità planetarie», si incontra col pani­ smo: «Al momento in cui la religione persiana si scontrò con quella ba­ bilonese, degradò queste massime divinità babilonesi a dèmoni, i quali nell’oscurità, ben al di sotto del regno della luce [...], dispiegarono la loro natura - in maniera analoga, e tuttavia anche diversa, al modo in cui la religione giudaica trasformò le figure delle divinità babilonesi nei sette arcangeli e li collocò intorno a Jahvé»35. Ancora in Marcione

32 Ibid., pp. 89-90. 53 Ibid., p. 164. 34 W. Bousset, Hauptprobleme der Gnosis, Vandenhocck u. Ruprecht, Gòttingen 1907, pp. 4-5. 35 Ibid., pp. 54-8. Cassirer conosce quest’opera di Bousset, esplicitamente richiamata nel secondo volume della Filosofia delle forme simboliche, e ne riprende indirettamente le tesi principali, svolgendole sul piano del metodo, nel testo del 1927 sulla filosofia rinascimentale: nel corso del tempo «tanto più deboli si fanno le difese che il Medioevo aveva elevato contro il sistema dell’astrologia. Anche il Medioevo cristiano non sera

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e negli scritti ermetici si avverte l’eredità del pensiero religioso irania­ no, il dualismo tra luce e tenebre, in base a cui «la creazione del mon­ do e dell’uomo [risulta da] un miscuglio illegittimo di forze opposte e inconciliabili»36. E il mito, di origine babilonese, di una divinità astrale che nel compiere la sua opera di redenzione si cala nel regno dell’o­ scurità, riaffiora più volte nel Nuovo Testamento, ad esempio nell’idea, ricordata tra l’altro nella prima lettera di Pietro (3,19 sgg. e 4,6) della discesa di Gesù agli Inferi37. Anche questa monografia di Bousset, che rappresenta una ‘svolta’ radicale negli studi sul cristianesimo antico38, riporta alla luce un or­ dito di straordinarie «contaminazioni» (il termine Kontaminationen compare proprio nell’opera del 1907)39 attraverso cui, a dispetto di ogni distanza cronologica, tempi e culture differenti si sovrappongono e si mischiano nei più diversi modi. In uno scenario segnato da simili prospettive di ricerca matura ra­ pidamente una diffusa opposizione contro un’idea di evoluzionismo storico di matrice ottocentesca: la «guerra d’accerchiamento» (das Kesseltreiben)40 contro lo storicismo è strettamente legata, nel primo Novecento, non solo a mutamenti intervenuti nel più generale oriz­ zonte filosofico, spesso attentamente indagati, ma anche all’emergere di nuovi indirizzi storiografici. Il problema della continuità della sto­ ria europea viene adesso visto, in effetti, in una luce diversa. Gli stessi storici si allontanano dalla «fede in un ininterrotto progredire della civiltà umana»41, ma soprattutto scoprono che non è lecito assegnare

mai liberato completamente da esso [...]. Lo accolse anzi, come generalmente aveva fatto per le principali raffigurazioni pagane [...]. Le antiche divinità continuano a vive­ re; ma vengono degradate a demoni, a spiriti di un grado inferiore» (Individuimi und Kosrnos in der Philosophie der Renaissance, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1977, pp. 104-5; tr. it. Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia 1974, p. 159). 56 Bousset, Hauptprobleme der Gnosis cit., pp. 109-14. ” Ibid., pp. 242, 248-9 e 255-6. “ A. Pincherle, Introduzione al Cristianesimo antico, Bari, Laterza 1995, p. 78. Cfr. A.F. Verheule, Wilhelm Bousset, Amsterdam, Bolland 1973; G. Ludemann, M. Schòder (eds.), Die religionsgeschichtliche Schule in Gòttingen, Góttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1987. w Bousset, Hauptprobleme der Gnosis cit., p. 261. * K. Burdach, Wissenschaftsgeschichtliche Eindriìcke cit., p. 1. E. Meyer, Geschichte des Altertums, 3. Aufl., 1/1: Einleitung. Elemente der An-

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eccessiva importanza alla successione cronologica o all’awicendarsi delle culture, spesso separate, contro ogni apparenza, da una «linea di confine sottile come la lama di un coltello»42. Credenze da lungo tempo tramontate continuano a operare, in forma lievemente modificata, in contesti e tradizioni del tutto diversi. Antichi miti, appartenenti a civil­ tà scomparse da millenni, non cessano di diffondersi e di trasformarsi, dando prova di una sotterranea, inaspettata vitalità. Facendo sempre più spesso i conti con questi dati di fatto, proprio gli storici insegnano ai filosofi, come riconoscerà Hintze nel 1927 parlando di Troeltsch, che «il problema del modo del trasmettersi ( Ubertragbarkeif) della ci­ viltà (e non solo della civilizzazione) resta per lo storicismo un proble­ ma fondamentale»43.

3. Atmosfere crepuscolari La ‘nuova’ filologia classica, attenta alla lezione di Usener e decisa a spingersi «nella nebbia ellenistica del crepuscolo degli dèi»44, porta alla luce, nel volgere di pochi anni, ‘ibridazioni’ e genealogie del tutto inaspettate. Nell’immagine dell’Apocalisse (12,7) di Michele in lotta col drago, Albrecht Dieterich scopre nel 1891 reminiscenze antiche («la battaglia del dio della luce contro il drago delle tenebre»), che rinviano tanto alla figura di Apollo quanto alla mitologia egizia45. Nel 1893 lo stesso autore mostra non solo come raffigurazioni di Orfeo compaia­ no nelle catacombe cristiane, ma anche come descrizioni degli inferi presenti nei testi orfici vengano infiltrandosi nel corpo dottrinale del cristianesimo46. Sempre Dieterich, nel 1905, individua un altro singo­ lare parallelismo: il culto pagano della ‘madre Terra’, di cui restano tracce sia in certi passi dei tragici greci sia nella consuetudine romana

thropologie, Stuttgart u. Berlin, Cotta 1910, p. 182. 42 H. Usener, Gótternamen. Versuch einer Lehre von der religiòsen Begriffsbildung (1896), 2. A ufi., Bonn, Cohen 1927, p. 324. 43 Hintze, Troeltsch und die Probleme des Historismus cit., p. 224. Cfr. D. Conte, Storicismo e storia universale, Liguori, Napoli 2000, pp. 69-70. 44 A. Dieterich, Abraxas. Studien zur Religionsgeschichte des spàtern Altertums, Teubner, Leipzig 1891, p. 154. 4i Ibid., pp. 111-5 e 117-20. 46 Dieterich, Nekya. Beitrdge zur Erklarung der neuentdeckten Petrusapokalypu, Leipzig, Teubner 1893, pp. 147-9,212-3 e 229 in particolare.

i3i VI. Gerarchie di civiltà: il problema della continuità storica europea

di consacrare un bambino appena nato deponendolo al suolo, torna a presentarsi in epoca cristiana nel culto di Maria e nell’immagine della ‘Madre Chiesa’47. Franz Cumont, l’anno successivo, presenta in forma sistematica i risultati dei suoi studi sulla penetrazione delle religioni orientali nel paganesimo romano48. E Richard Reitzenstein, nel 1910, affronta i culti misterici deH’ellenismo e ne mette in rilievo gli aspetti - l’universali­ smo, l’idea di divinità che muoiono con sembianze umane e risorgono trasfigurate, la ricerca di unioni mistiche tra fedeli e Dio - che riaffio­ rano anche nel cristianesimo49. Questi autori, come pure, nello stesso periodo, Franz Boll e Cari Bezold, Aby Warburg e Fritz Saxl, avvertono come necessità improroga­ bile l’impegno a fare i conti col ‘sincretismo’ antico e quasi a smarrirsi «nei crocicchi e nelle traverse di un labirinto pressoché sterminato di miti e di divinità»50. Sono questi, d’altra parte, gli anni ‘eroici’ della ‘scienza delle religioni’, in cui innumerevoli scoperte e continue pub­ blicazioni di testi inediti restituiscono i tratti di un «Oriente [...] pres­ soché inviolato», che torna a farsi conoscere «in tutte le Apocalissi, gli inni, le liturgie, gli scritti soteriologici dei Persiani, dei Mandei, dei Manichei e di innumerevoli sètte»51. Le nuove indagini sui culti orientali e sugli accostamenti tra ‘mi­ steri’ pagani e cristianesimo primitivo finiscono per ripercuotersi, in merito al problema delle ‘gerarchie di civiltà’, anche sul piano delle ricerche intorno al Rinascimento. A partire dai primi anni ’90 Konrad Burdach inizia a mostrare come già nel XIII e nel XIV secolo fosse dif­ fusa un’idea di ‘rinascita’ spirituale («Non in opposizione alla religione cristiana, ma partendo dal pieno vigore di uno slancio religioso») da cui scaturirà in seguito il nuovo umanesimo civile. Ora, nel mostrare come il mito del ‘Rinascimento pagano’ sia solo un «anacronismo mo­ derno», un’affascinante utopia formatasi in ambito ottocentesco, i suoi contributi ripercorrono la storia del concetto di renovatio tra Dante e Petrarca, tra Bonifacio Vili e Cola di Rienzo. Per ricostruire questo

47 Dieterich, Mutter Erde. Ein Versuch iiber Volksreligion, 2. Aulì., Leipzig u. Ber­ lin, Teubner 1913 (prima edizione 1905), pp. 6 sgg., 40 sgg., 82 sgg. e 116-8. *• F. Cumont, Les religions orientales dans le paganisnie ronuiin, Paris, Leroux 1906. 4* R. Reitzrnsthin, Die hellenistischen Mysterienreligionen, Leipzig u. Berlin, Teu­ bner 1910. 40 Dieterich, Abraxascit., p. 136. 41 S-UA, p. 816; tr. it. p. 1468.

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variegato percorso, per riuscire a cogliere la forza evocativa e la «po­ tente risonanza» delle parole e delle metafore in cui si esprime l’ansia di un radicale rinnovamento sia religioso che politico, occorre tener presente, a suo giudizio, «la tradizione dalla quale esse sono sorte, e alla quale sono congiunte da saldissimi vincoli». E questo può diven­ tare possibile, ammette esplicitamente Burdach nel 1910, solo dopo che «le più recenti ricerche di storia delle religioni hanno illuminato il significato sacramentale della ‘rinascita’ nei misteri del culto di Attis e di Cibele, diffusi in tutto l’impero romano, nelle Taurobolie, nei riti affini dell’adorazione di Isis e di Mitra. È l’atto magico-liturgico della consacrazione [... ] nell’unione con Dio [...], nel rinascere attraverso il Dio che si sacrifica e risorge, donatore di immortalità»52. Più oltre Burdach, sempre intento a precisare il retroterra dell’idea­ le di renovatio che riaffiora nella prima metà del Trecento, affronta il richiamo in Dante, nel canto XXXIII del Purgatorio, ai due fiumi del Paradiso Terrestre, il Letè e l’Eunoè, che sgorgano da una medesima fonte. Nel poema dantesco, a questo punto, Burdach scorge un preci­ so richiamo, che non può provenire da Virgilio, «alla dottrina orfica delle due fonti dell’Ade: quella dell’oblio (Lete) [...] e quella della me­ moria (Mnemosine)», e svolge la sua interpretazione servendosi di re­ centi contributi suU’orfìsmo di Erwin Rohde e di Albrecht Dieterich’3: un’ulteriore conferma del modo in cui in questi anni le discussioni in­ torno alle ‘gerarchie di civiltà’ - antichisti che affrontano la ‘magia’ e i ‘misteri’, germanisti che riprendono il tema dei rapporti tra Medioevo e Rinascimento - siano profondamente intrecciate. Qualche anno dopo, Burdach sottolinea di nuovo questa trama di convergenze e di reciproche influenze tra settori diversi della storio­ grafìa del tempo. Nell’importante monografìa su Cola di Rienzo, lo storico, intento a precisare l’idea di regeneratio e il senso della metafora dell’araba fenice nel linguaggio letterario e politico del Trecento, nota con soddisfazione come anche gli studiosi che si occupano dell’età el­ lenistica concentrino sempre più il loro interesse sul significato della

52 K. Burdach, Sinn und Ursprung der Worle Renaissance and Rcfornialion, «Sii-

zungsberichte der Kòniglich Preussischen Akademie der Wisscnschaften», 32,1910, p. 610; tr. it. in Riforma-Rinascimento-Umanesimo, Sansoni, Firenze 1935, p. 23. » Ibid. ciL, p. 634; tr. it. p. 55. In questa pagina vengono citati sia E. Rohde (Psydic. Freiburg u. Leipzig, Mohr 1894), p. 678, sia Dieterich (Nekya cit., pp. 90 sgg )- Nel testo preparato per la pubblicazione in volume (tr. it. p. 46), ma non nella memoria del 1910, Burdach riconosce anche la vicinanza tra le sue indagini e quelle di Rcilzcnslein.

133 VI. Gerarchie di civiltà: il problema della continuità storica europea

‘rinascita’ nei misteri tardo-antichi54. Tra epoche e tempi assai lontani sembrano emergere adesso singolari analogie: «lo stile e il linguaggio dell’arte, della poesia e della pubblicistica mostrano nel Trecento un sincretismo che trova un suo equivalente solo nel sincretismo dell’epo­ ca del cristianesimo antico. Sia a quel tempo che nel ‘presente’ (Jetzt) del quattordicesimo secolo, il vino nuovo viene travasato in botti vec­ chie. Nell’uno e nell’altro momento, vecchi tipi, motivi e immagini della fantasia religiosa sono diversamente coniati per dar espressione a un nuovo bisogno religioso. La direzione dell’evoluzione, nell’uno e nell’altro momento, era comunque opposta. Nell’epoca di Cipriano e di Agostino procedette dal momento umano-religioso verso quello dogmatico-confessionale; nell’epoca di Dante, di Petrarca e di Rienzo dal momento dogmatico-confessionale a quello umano-religioso»55. Tra i cartografi’ intenti a ridisegnare le ‘tavole storiche’ della civiltà europea si distinguono anche gli studiosi di estetica e di storia dell’arte. La crisi dello storicismo - e del correlato ‘pregiudizio umanistico’ che costringe a ritrovare nell’antichità e nel Rinascimento le espressioni più alte della storia occidentale - si manifesta anche nelle fantasio­ se speculazioni storiche di Strzygowski, un autore che pure all’epoca gode di un certo prestigio56: l’architettura ‘ariana’ che giunge a dispie­ gamento a Edessa, in Armenia, tra il Quarto e il Sesto secolo d.C. (il principio della ‘cupola’, lo sforzo per circoscrivere e rappresentare lo ‘spazio infinito’) sarebbe l’archetipo, sempre ignorato, destinato a riaf­ fiorare nella civiltà rinascimentale57. È indubbio che si tratti di ‘forzature’ e ricostruzioni del tutto arbitra­ rie, che restano tuttavia utili per comprendere la tempèrie dell’epoca. Walter Otto accosta ad esempio nel 1925 i lavori di Strzygowski alle ricerche di E. Meyer e di Reitzenstein, facendo così vedere come gli storici dell’arte, inziando a dar rilievo agli apporti orientali confluiti

M K. Burdach, Rienzo und die geistige Wandlung seiner Zeit, prima parte di K. Burdach, P. Piur (eds.), Briefwechsel des Cola di Rienzo (=Vom Mittelalter zur Reformation, 11/1). Berlin, Weidmann 1913-28, p. 83. In questa pagina Burdach cita il volume di R. Reitzenstein, Die hellenistischen Mysterienreligionen cit. w Ibid., p. 96. * Cfr. Cumont, Les religioni orientales dans le paganisme rotnain cit., cit., pp. 10 e 256. w J. Strzygowski, Die Buukunst der Annenier und Europa, Wien, Schroll 1918, pp. 712-4 e 862-74.

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Mondo classico e civiltà europea

nella storia europea, raccolgano comunque suggestioni provenienti da indagini condotte con ben maggiore sobrietà58. Meyer, in effetti, riprende nel 1921 il tema delle convergenze tra re­ ligione ebraica e parsismo, collegando a influenze iraniane la crescente presenza di figure demoniache nei testi biblici: «Nella più antica reli­ gione d’Israele, anche nei Salmi e nei libri sapienziali, demoni, spiriti malvagi e figure spettrali erano privi di significato e la religione di Jahvé aveva combattuto con solerzia la magia. Nel più tardo giudaismo, al contrario, questo lato d’ombra si manifesta [...] potentemente»59. Dall’Iran proviene inoltre, ricorda ancora Meyer, l’idea di una risur­ rezione individuale e di una ricompensa ultraterrena, un motivo esca­ tologico che solo nel corso del Secondo secolo, come mostrano il ca­ pitolo conclusivo di Daniele (12,1-13) e il secondo Libro dei Maccabei (7,9) si introduce e si sedimenta nel corpo della tradizione ebraica60. Pure Reitzenstein, filologo a Gottinga, si domanda, in uno studio anch’esso stampato nel 1921, se «le idee intorno all’al di là siano o non siano, nell’ebraismo successivo all’esilio, influenzate dall’Iran». E giun­ ge alla conclusione, riprendendo tra l’altro precedenti indicazioni di Bousset, che aspetti legati al parsismo e alla mistica «popolare» ad esso connessa sono ancora rintracciabili nella figura e nell’opera di Giovan­ ni Battista e nel suo cenacolo61. Appartiene a questa tempèrie intellettuale, come faceva osservare Norden62, anche l’interesse con cui Werner Jaeger, sempre nei primi anni ’20, parlava di Eudosso e di Un’Accademia che «costituiva [...] il centro di una tendenza orientalizzante [...] di importanza grande,

M Otto, Kulturgeschichte des Altertums cit., p. 52. w E. Meyer, Ursprung und Anfdnge des Christentums, II: Die Entwicklungdes Judentums und Jesus von Nazaret, Stuttgart u. Berlin, Cotta 1921, pp. 118-9.

60 Ibid., pp. 178-83. Si veda ancora: «Solo attraverso il Cristianesimo, la concezio­ ne del mondo dei profeti iraniani ottenne la sua maggiore influenza sul piano della storia universale» (ibid., pp. 440-1). Nel terzo volume dell’opera, Meyer polemizzerà

con quanti tendono ad accentuare l’importanza dello spirito ellenistico nel primo cri­

stianesimo. 61 R. Reitzenstein, Das iranische Erlòsungsmysterium, Bonn, Marcus u. Weber 1921, pp. 116 e 124 sgg. Osserva comunque W. Otto, facendo riferimento a questi libri di Meyer e di Reitzenstein: «non si dovrebbe tuttavia [... j spingersi cosi lontano come

hanno fatto, negli ultimi tempi, insigni studiosi» (Kulturgeschichte des Altertums cit.,

p. 52). 62 Norden, Die Geburt des Kindes. Geschichte einer religiòsen Idee cit., p. 31.

i35 VI. Gerarchie di civiltà: il problema della continuità storica europea

sebbene per lungo tempo non abbastanza valutata»: il suo Aristotele (1923) raccoglieva infatti documenti e testimonianze per mostrare a qual punto «Zarathustra e le dottrine dei Magi [fossero] nell’Accademia oggetto di vivo interesse», e come «all’ammirazione per l’astrono­ mia caldea e ‘siria’ e per la sua antichissima conoscenza dei moti cele­ sti* si saldasse una «predilezione per il dualismo religioso dei Parsi», considerato un luminoso presagio della filosofia platonica63. Tutte queste discussioni, sorte in ambiti diversi e tuttavia varia­ mente collegate fra loro, sembrano riassumersi nell’idea, farà notare Troeltsch nel 1922, che il tratto distintivo della tradizione occidentale, del tutto assente in altre culture e in altre aree geografiche, vada ri­ cercato nella sua singolare «complessità», nella natura disomogenea e stratificata dei suoi caratteri costitutivi. Solo in Europa, anche in epoca moderna, l’orizzonte storico resta segnato dal riaffiorare di una sorprendente «abbondanza di epoche di civiltà del tutto diverse [...], compresse assieme come in nessun altro luogo», da lungo tempo «ra­ mificatesi l’una nell’altra e [...] concresciute assieme». Gli studiosi, per riuscire a render giustizia a questo variegato mosaico, devono pertanto liberarsi dall’illusione di potersi accostare alla storia europea partendo da «schemi generali storico-universali [...]. Formule precostituite, in questo caso, non sono d’aiuto»64. La tradizione europea, a differenza di altre culture, si presenta come un conglomerato «composto da contenuti appartenenti ai più diversi e singolari mondi storici», da apporti eterogenei che «si oppongono e di continuo si rifondono assieme in maniera diversa [...], entrano in collisione e sempre di nuovo si mescolano con nuove forze e nuove idee [...] che il mondo europeo produce». Alla cultura greco-romana segue il cristianesimo, che riesce, sebbene sia «il risultato dell’autodissolvimento del mondo antico», a infondere nuovo vigore in credenze e tradizioni precedenti, consegnandole alla storia futura e mischiandole con elementi di tutt’altro genere, come il «profetismo ebraico», sulla cui importanza aveva insistito Max Weber, e la cultura ellenistica. In seguito il quadro si complica ulteriormente - nel segno di una con­ tinuità che, a detta di Troeltsch, sfugge a Spengler - al momento in cui questa variegata eredità entra in contatto col mondo germanico. Nello ‘storicismo’, giunto a dispiegamento solo in Occidente, è per-

u W. Jaeger. Aristoteles, Berlin, Weidmann 1923, pp. 133 sgg.; tr. it. Aristotele, Firenze, La Nuova Italia 1935, pp. 172 sgg.

** Troeltsch, Der Historismus cit., pp. 716-9.

VII. La scoperta della magia e della religiosità ellenistica

1. Ritmo e magia Nel 1904 Albrecht Dieterich, l’allievo di Usener, esprime l’augurio, assumendo la direzione del prestigioso Archivio per la scienza della re­ ligione, che presto scompaia quella situazione in cui discipline filologi­ che ed etnologia, «respingendosi o disprezzandosi reciprocamente, si incamminano per false strade»1. Nel 1909 Ernst Troeltsch, testimone certo non sospetto, ricorda quanto sia stato importante, per rinnovare e potenziare gli studi di storia delle religioni, «lo sterminato materiale empirico, che il positivismo, in particolare, ha raccolto e interpreta­ to, per quanto riguarda le forme specifiche del pensiero primitivo, in maniera assolutamente corretta»2. Alcuni anni dopo Max Weber, nel licenziare la Sociologia delle religioni, riconosce l’importanza del con­ fronto con gli etnologi, ripromettendosi di occuparsi della questione, in maniera molto più attenta, negli studi successivi3.

1 «Vorwort zum siebenten Bande», «Archiv fur Religionswissenschaft», 7, 1904, p. 2. In quanto filologi, nota altrove Dieterich, dobbiamo sapere che, «in (...) tutti i più importanti campi della nostra disciplina, non possiamo giungere ad una reale cono­

scenza scientifica, se non mettiamo a frutto le analogie offerte dall’etnologia» (A. Dieterìch, Ober Wesen und Ziele der Volkskunde, Sonderabdruck aus den «Hellischen Blàttern fur Volkskunde», I, Leipzig 1902, p. 21). Dieterich, con simili indicazioni, riprende motivi svolti da Usener. Questi, nei suoi scritti, non si stanca di ricordare

quanto siano importanti, per il filologo classico, sia «l’indagine del retroterra legato al

costume, del mondi) ideativo proprio degli strati popolari più bassi», sia «il continuo riferimento all’antropologia e all’etnologia» (H. Usener, Mythologie, «Archiv fur Religionswisscnschaft», 7, 1904, p. 23).

1 E. Troeltsch, Wesen der Religion und der Religionswissenschaft, in Id., Gesatnnielte Schriften, 11, Mohr, Tiibingen 1922, p. 459.

’ M. Weber, Gesammelte Aufsdtzezur Religionssoziologie, 4. Aulì., Tiibingen, Mohr 1947, p.14.

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Mondo classico e civiltà europea

Tra etnologia, filosofia e storia delle religioni si stabiliscono quindi, nei primi anni del nuovo secolo, contatti stretti e proficui. Ne risulta un dibattito molto vivace, impegnato ad illustrare, dai più diversi punti di vista, i rapporti tra magia, forme religiose e pensiero razionale4. Per comprendere varietà e ricchezza di un simile confronto, può ri­ sultare agevole, in via preliminare, seguire una traccia che si dipana a partire dall’aforisma 84 de La gaia scienza. Nel suo testo, di cui si è già parlato5, Nietzsche appunta lo sguar­ do su aspetti arcaici della religione greca, avanzando l’ipotesi che la poesia sia scaturita da antichissime cerimonie magiche. La forma me­ trica, come aveva suggerito Hartung, da un lato resta più facilmente impressa nella memoria, dall’altro scuote e costringe a muoversi rit­ micamente. Per tali motivi, veniva impiegata nell’antichità per piegare e sottomettere la volontà degli dèi. Nel mondo greco, in definitiva, si riteneva comunemente che «l’elemento ritmico eserciti una forza ma­ gica, per esempio nell'attingere acqua o nel remare». La religione, in definitiva, non rende testimonianza, nei suoi strati più sotterranei, del­ la deferenza o dello stupore a cospetto di un ordine naturale grandioso e distante, ma piuttosto àéWarroganza degli uomini, del loro energico spirito d’intraprendenza. La tesi di Nietzsche, ricavata da Hartung, non passa inosservata. Sull’argomento interviene, nel 1896, lo studioso di questioni econo­ miche Karl Bucher col suo studio sui rapporti fra ritmo e attività la­ vorativa. «Si può dire - osserva questi - che il timbro ritmico favorisca e renda più agevole il lavoro», stimolando la regolarità dei movimenti ed assicurando, tra persone diverse, coordinazione e sincronismo. Peir questo motivo, molte popolazioni primitive sono avvezze, nel com­ piere un’attività in comune, ad accompagnarsi con canti fortemente scanditi. D’altronde gli stessi Greci, come attestano sia Pausania eh Plutarco, «prediligevano remare a tempo di flauto, e si servivano del medesimo strumento anche in altri lavori»6. In questo cont Bucher affronta poi la «considerazione assai interessante» sulla già a suo tempo proposta da Nietzsche, la quale può diventare l’etnologo, una valida ipotesi di ricerca. L’incantamento della «f coattiva» descritta ne La gaia scienza si manifesta, in effetti, «anche

I

l° da V I

4 Sulla Religionswissenschaft dell’epoca si tenga presente il volume cura(

Krech, H. Tyrell, Religionssoziologie uni 1900, Wiirzburg, Ergon 1995. 5 Si veda il par. 4 del cap. 3.

• K. Bucher, Arbeit und Rhytmus, Leipzig, Hirzel 1896, pp. 22 e 30- j.

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VII. La scoperta della magia e della religiosità ellenistica

semplice ritmo del movimento corporeo, allorché, presso un qualche popolo primitivo, gli spiriti si eccitano nella danza fino alla follia, e non si percepisce altro suono all’infuori del risuonare del piedi e del battere delle mani»7. L’opera di Biicher, a sua volta, sarà ripresa da attenti lettori. Il fi­ lologo A. Dieterich, avvezzo a confrontarsi, sulla scia di Usener, con questo genere di studi, ne parlerà in termini molto positivi8. Un altro estimatore sarà l’etnologo Konrad Theodor Preufi, i cui scritti stimo­ lano, dopo il 1904, l’ampio dibattito sul ‘preanimismo’. Convinto che la religione sia sempre, inizialmente, rituale magico, Preufi riconosce l’importanza della genealogia descritta da Biicher. Dalla riproduzione delle grida, dei suoni cadenzati che accompagnano qualsiasi attività la­ vorativa, scaturisce, in molte culture primitive, la fede in una singolare «magia del ritmo», codificata in ‘tecniche’ e procedure assai complesse. Non a caso, gli dèi entrano in scena danzando, nelle rappresentazioni religiose, e i canti propiziatori sono sempre fortemente ritmati9. Attraverso questo complesso di mediazioni e di ‘riprese’, le tesi pro­ poste da Nietzsche (e da Hartung) giungono, dopo il 1920, a Cassirer. Nei primi due volumi della Filosofia delleforme simboliche, un testo in cui non compare alcun riferimento all’opera nietzscheana, le indica­ zioni di Biicher e, soprattutto, di PreuB lasciano tracce non del tutto marginali10. Nietzsche e Cassirer risultano dunque iscritti, come già risulta da queste annotazioni preliminari, in un campo di interessi comuni. Mol­ te loro pagine sono veri e propri ‘passaggi obbligati’ di quel dibattito sulla magia che assume in Germania, tra il 1875 e il 1924, un notevole rilievo.

7 Ibid., p. 99. * Dieterich, Ober Wesen und Ziele der Volkskunde cit., p. 20. ’ K.T. Preuss, Der Ursprung der Religion und Kunst, «Globus», 87, 1905, pp. 3334,347 e 384 (una prima parte del testo era stata pubblicata nel voi. 86,1904, della stessa rivista). Di Cassirer si veda anche il contributo del 1925 (Sprache und Mythos. Ein Reitrag zum Problcin der Gótternamen, in Id., Wesen und Wirkung des Sytnbolbegriffs, Oxford, Cassirer 1956, pp. 108-9), in cui viene ripreso quanto osservato da PreuB sul significato magico dell'elemento ritmico nella danza, in grado di orientare il corso futuro degli eventi.

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Mondo classico e civiltà europea

2. Critici dell’evoluzionismo ottocentesco

Nell’estate del 1855, Theodor Waitz, filosofo herbartiano, annuncia, a Marburgo, lezioni di antropologia fisica e di etnologia, proponen­ do così argomenti che non erano più stati trattati, dopo Blumenbach, in un’aula universitaria tedesca11. Negli anni seguenti l’interesse per il ‘fondamento naturale della storia’ cresce a dismisura. Escono ben presto i primi trattati sull’argomento12. Nel 1861 viene organizzata, a Gottinga, un’assemblea generale degli antropologi tedeschi13. Non tar­ dano a comparire importanti riviste scientifiche14. Nel 1870 si costitui­ sce infine la Società tedesca per l’antropologia, l’etnologia e la preistoria, il cui primo presidente sarà Rudolf Virchow15. In questo periodo tende a prevalere, tra gli etnologi, un rigido sche­ ma evoluzionistico, secondo cui le più diverse culture vanno ordinate, ome gradi successivi di una ‘ininterrotta catena’, entro la medesima ;cala di civiltà’ (Stufenleiter). Per Bastian, ad esempio, la nuova scienuna sorta di ‘chimica etnica’ che in civiltà assai lontane ritrova com­ binazioni diverse delle stesse ‘idee elementari’, deve far proprio il detto di Pascal: c est de la pensée, non de l’espace et du temps, qu’il faut nous relever16. Anche Tylor svolge idee simili e ritiene opportuno «metter da parte riflessioni su razze umane e varietà ereditarie», accettando il presupposto dell’unità del genere umano. Un medesimo «processo di civilizzazione», in questa prospettiva, si svolge attraverso una catena di

11 G. Gerland, Die neue Ausgabe der Waitz’schen Anthropologie cit., pp. 328 sgg. 12 T. Waitz, Anthropologie der Naturvòlker, I, Leipzig, Fleischer 1859; A. Bastian. Der Mensch in der Geschichte, Leipzig, Wiegand 1860. ” Promotore dell’iniziativa sarà l’embriologo K.E. von Baer. Su tutto ciò cfr. A. Ba­ Die Vorgeschichte der Ethnologie, Berlin, Dummler 1881.

stian,

M Dal 1866 viene pubblicato VArchivfiìr Anthropologie, redatto da W. His I Rùtimeyer, K. Vogt e K.E. von Baer. Nel 1869 sarà fondata la Zeitschrift fùr Ethnologit. diretta da Adolf Bastian e da Robert Hartmann.

15 Sull’argomento cfr. C. Andree, Geschichte der Berliner Gesellschafi filr Anthro­ pologie, Etimologie und Urgeschichte, in AA.VV., Festschrifi zunt hundertjàhrigen Btstehen der Berliner Gesellschafi fùr Anthropologie, Ethnologie und Urgeschirhi iW-

1969, L Berlin, Hessling 1969, pp. 9-142. “ A. Bastian, Allgemeine Grundzuge der Ethnologie, Berlin, Reinn ' 'dèi sconosciuti', la mistica ellenistica e 'Cristo Signore'

Il dualismo platonico di ‘spirito’ e ‘materia si trasforma radicalmen­ te, nelle speculazioni religiose dell’epoca, e «viene ulteriormente svol­ to - per mezzo di influenze orientali (persiane) - fino alla congettura di un’assoluta opposizione». Culti tra loro assai diversi, egualmente permeati dal dualismo iranico, si spingono, dopo Alessandro, verso Occidente: «In questo mondo visibile si compie lo scontro tra il dio buono (Ahura-Mazda) e il dio malvagio (Angra-Mainyu). A fianco del dio buono vi sono la luce, il giorno, le forze naturali che arrecano pro­ sperità, gli animali utili e le piante salutari, a fianco del dio malvagio vi sono l’oscurità e la notte, le forze naturali dannose, gli uomini cattivi, gli animali nocivi e piante velenose»33. Nelle speculazioni degli gnostici, la volta celeste e gli astri - i sette pianeti - rientrano nella sfera degli avversari più minacciosi. In que­ sta credenza («la preoccupazione più forte dell’iniziato - come fare in modo che l’anima possa sfuggire ai nemici malvagi, i pianeti, dopo la morte»), Bousset scorge la più evidente radice ‘orientale’ della Gnosi. Nella grecità più tarda, infatti, acquista sempre più vigore proprio «la venerazione delle potenze astrali e di tutte le forze che operano in cie­ lo», mentre nella fede degli gnostici al timore per la perfidia dei corpi celesti si accompagna «una profonda nostalgia per il ‘Dio sconosciu­ to’». Il dissidio profondo, a questo proposito, tra Oriente e Occiden­ te, viene riassunto da Bousset per mezzo di una pagina di Plotino: gli gnostici «non disdegnano di chiamare fratelli gli uomini più vili», e tuttavia «non degnano del nome di fratelli, il sole, gli astri del cielo e l’anima del mondo»34.

® ibid., p. 223. In merito ai problemi di datazione, Bousset segue Reitzenstein: entrambi collocano nel Primo secolo dell’era cristiana la stesura dei più antichi testi ermetici (ibid., p. 139). Comune a tutti questi autori è peraltro la convinzione del ca­ rattere precristiano delle concezioni gnostiche (Wendland, Die hellenistisch-ròniische Kultur cit., pp. 163 sgg.). H Bousset, Kyrios Christos cit., pp. 224-6; Plotino, Enneadi, Milano, Rusconi 1992, 11, 9,18. Le conclusioni di Bousset vengono poi riprese da Cassirer: nelle tarde rielaborazioni sincretistiche legate alla religione iranica, la «demonizzazione dei pia­ neti si riprcsenta particolarmente nella Gnosi: le potenze demoniache dei pianeti sono i veri e propri nemici dello gnostico, in essi s’impersona la potenza del fato [...], dalla quale ci si vuol liberare» (C-PsF2, p. 168; tr. it. p. 196). Nell’opera del 1927 sulla filoso­ fia rinascimentale, Cassirer non richiama più esplicitamente Bousset, ma tiene ancora presente la sua analisi dei processi di «degradazione demoniaca» che avvengono di frequente, nella storia delle religioni, a seguito di incontri e scontri tra civiltà diverse.

I 196 Mondo classico e civiltà europea

L’incontro col ‘divino’ viene ad assumere - come Bousset aveva già mostrato nella monografia del 1907 sullo gnosticismo - un carattere inconfondibile: «Qui redenzione non è l’ascesa dal basso verso l’alto, ma [...] la liberazione dall’assolutamente ostile, dall’assolutamente diverso. All’inizio dell’evoluzione cosmica si è verificata un’indebita mescolanza di elementi non omogenei La redenzione bramata avverrà quindi col districare e sciogliere i mondi mischiati in maniera indebita e innaturale. Lo gnostico, di conseguenza, si sente come un profugo, come un espatriato in un mondo straniero». Merita notare, in questo passo, il linguaggio spiccatamente moderno, non a caso pre­ scelto da Bousset, quasi a voler rivendicare persistente valore ad una religiosità che finisce per accrescere, e non cerca affatto di mitigare, un sotterraneo senso di inquietudine. E subito oltre il teologo, ricordando l’«eccellente» lavoro di Norden comparso pochi mesi prima, prosegue il suo commento col medesimo registro: «Al sentimento fondamentale dello gnostico, il suo ‘esser straniero’, corrisponde l’annuncio del Dio estraneo, sconosciuto»35. Per Bousset, lo gnosticismo rappresenta il ‘tipo originario’ dell’ansia di ‘redenzione’ che attraversa, con le più diverse sembianze, l’elleni­ smo e i primi secoli dell’età cristiana. La ‘gnosi’ insegna a coltivare il ‘sospetto’ e l’avversione nei confronti del creato, il ‘distacco’ dalla na­ tura. La «demonizzazione del mondo visibile» rafforza nell’iniziato il senso di isolamento e di abbandono; la fede degli gnostici contrappone alla creazione (la ‘caduta’) il momento dell’attesa redenzione e «si vol­ ge, nel suo anelare, all’assolutamente ‘diverso’, al totalmente estraneo [...], al nuovo e all’inaudito». Anche in Marcione, secondo Bousset, l’aspetto decisivo non è tanto «la polemica contro il Dio ingiusto, cru­ dele e malvagio della creazione», quanto «la nostalgia del totalmente nuovo, dell’inaudito (...]. Si attende la salvezza da un inizio assolutamente nuovo»36. Il libro di Bousset documenta anche, tra l’altro, come Marcione e gli gnostici si riconoscano in Paolo, accettando l’autorità delle sue episto­ le, proprio in un momento in cui la Chiesa ne passa sotto silenzio gli insegnamenti37. D’altra parte, a giudizio di Bousset, l’incidenza non si manifesta, in questo caso, in un’unica direzione. Gli gnostici infatti,

w Bousset, Kyrios Christos cit.» pp. 226-8.

56 Ibid., pp. 233, 262 e 229. n Ibid., p. 233. Paolo diventa il nume tutelare degli gnostici grazie al «suo radicale

pessimismo e dualismo antropologico» (ibid., p. 262).

197 IX. Gli 'dèi sconosciuti', la mistica ellenistica e 'Cristo Signore'

nel loro richiamarsi a Paolo, ritrovano nelle sue lettere motivi a loro ben familiari. Il teologo rintraccia un’importante corrispondenza nella denuncia della malvagità degli ‘elementi’ naturali {Gal. 4,3: «Così an­ che noi, quando eravamo fanciulli, eravamo schiavi sotto gli elementi del mondo») e scorge tracce della «demonizzazione delle forze astrali» - un aspetto centrale nello gnosticismo - nell’idea dell’iniquità degli angeli: «Sono sicuro, del resto, che né la morte, né la vita, né gli Angeli, né i Principati, né il presente, né l’avvenire [...], né qualsiasi altra crea­ tura ci potrà separare dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» {Rom. 8,38)38. Sono passaggi simili ad acquistare d’un tratto un particolare rilievo, intorno al 1910, e ad affascinare teologi e filologi, ora impegnati a mol­ tiplicare gli sforzi per far vedere, in un’età di ansie e tensioni profonde, «come il mondo delle idee di Paolo e della gnosi siano strettamente congiunti»39.

6. Giovanni e il 'culto della luce’ Paolo si rivolge al Kyrios Christos, senza mai affermare esplicitamente la sua divinità, ed egualmente «si tiene lontano dall’idea di una divinizza­ zione dei fedeli». 11 Vangelo di Giovani, secondo Bousset scritto in un pe-

M Ibid., pp. 236-7 e 235. Per le corrispondenze tra Paolo e la religiosità misterica, cfr. Wendland, Die hellenistisch-romische Kultur cit., p. 172, in cui si rinvia al famoso scritto di Reitzenstein sui ‘misteri’ (Die hellenistischen Mysterienreligionen cit., pp. 48, 106,154,159). ” Ibid., p. 237. Come noto, i sistemi gnostici, nel loro complesso, rappresentano per Harnack, già nel 1886, un’«acuta ellenizzazione del cristianesimo»; si racchiude in essi una «teosofia, in cui (...) risuonava il sublime canto greco della potenza dello spirito sulla materia e sulla sensibilità» (Harnack, Lehrbuch der Dogniengeschìchte, I: DteF.nlslehungdes kirchlichen Dogmas cit., pp. 160 e 162-3). Osserva ancora Harnack: •in base ai resoconti dei più tardi avversari [...], sembra che negli gnostici il motivo principale fosse la riproduzione di mitologemi orientali d’ogni genere, al punto da dover scorgere nello gnosticismo un collegamento tra il cristianesimo e i più remoti culti orientali e la loro sapienza. In rapporto ai più significativi sistemi gnostici, vale tuttavia il detto: ‘Le mani sono quelle di Esaù, ma la voce è quella di Giacobbe’. Non può esservi alcun dubbio che lo gnosticismo [...], diventato un aspetto importante nel movimento della storia del dogma, presenta nell’essenziale un’impronta greca» (ibid., pp. 164-5).

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Mondo classico e civiltà europea

nodo successivo, evita il titolo di ‘Signore’ (parlando piuttosto del ‘Figlio di Dio’ o tornando al più antico ‘Figlio dell’Uomo’), definisce i credenti «amici» e non «servi», e non mostra imbarazzo - distinguendosi in que­ sto dal rigido monoteismo ebraico - nel proclamare la divinità di Cristo w. La «mistica di Cristo» svolta da Giovanni lascia cadere, assieme al nome Dominus, anche «tutta quanta la speculazione TtvEÙpa-aàp^, decisiva in Paolo», e trova altrove il suo centro ispiratore. All’uomo è concesso ‘farsi Dio’, a differenza di quanto pensava Paolo, e la sostan­ ziale metamorfosi si compie attraverso una particolare modalità del ‘vedere’: «Difatti, questa è la volontà del Padre che mi ha mandato, che chiunque conosce il Figlio e crede in lui, abbia vita eterna» (Gv. 6,40). Questa esperienza cruciale, riassunta da Bousset in una formula generale («divinizzazione per mezzo della visione di Dio»), compare anche nella prima Lettera di Giovanni: «O miei cari, ora noi siamo figli di Dio, e ancora non è stato mostrato quello che saremo, ma sap­ piamo che quando ciò sarà manifestato, saremo simili a Lui, perché lo vedremo quale egli è» (3,2). Ancora una volta, il testo canonico, che ignora la proibizione veterotestamentaria di guardare la figura di Dio (£s. 33,20-3), aderisce strettamente a forme di religiosità giunte a compimento nel ‘cratere’ del sincretismo tardo-antico. Lo studio dei ‘misteri’ scuote così di nuovo alle fondamenta l’esegesi biblica, co­ stringendo a guardare a Oriente anche per comprendere Giovanni. La sua mistica del ‘vedere’ appare infatti assai vicina ai rituali misterici in cui - dal culto di Iside al trattato ermetico Asklepios (Logos teleios) - «la visione del Dio vale al tempo stesso come divinizzazione dell’a­ depto». Anche il ‘vedere’ mistico di Filone di Alessandria rientra in questo quadro, come pure altri testi astrologici o ermetici: «Tutto ciò è divinizzazione per mezzo della visione del Dio, e proprio questo è l’ambiente in cui diventa comprensibile quella grande massima misti­ ca (...) della lettera di Giovanni»41. La fisionomia complessiva del cristianesimo, e la sua più profonda

40 Bousset, Kyrios Christos cit., pp. 185-6,186-8. 41 Ibid., pp. 196, 197, 198-200 e 203. In un’altra parte significativa del libro, Bousset

insiste sulla continuità tra Giovanni ed Ireneo, il quale torna, senza alcuna esitazione, a proporre l’idea che «noi uomini dovremo diventare dèi». Anche con Ireneo, d'altra

parte, «peccato e colpa, remissione del peccato e della colpa, finicono sullo sfondo [...], come negli scritti di Giovanni». Bousset giunge poi, sull’argomento, a conclusioni più generali: «Dal punto di vista della storia delle religioni, è (...) significativo che Ireneo, con la chiara definizione dell’ideale della divinizzazione, abbia agevolato il trionfo defi-

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identità, muta così radicalmente man mano che si accumulano gli stu­ di sul sincretismo e sulla magia ellenistici. Si scopre allora quanto siano diffusi, entro ambienti che saranno poi ‘bonificati’ dalla fede cristiana, elaborati culti che considerano come «mèta della redenzione» l’estre­ mo momento in cui «Dio è diventato uomo e l’uomo è diventato Dio [...]. Quale vera e suprema mèta viene considerata già nella gnosi la diretta divinizzazione, l’apoteosi [...] (Poimandres, I, 26)»42. La mistica del quarto Vangelo, messo da parte il rilievo attribuito da Paolo alla resurrezione, si riassume per un verso in questo ‘vedere’ trasfigurante e, per un altro verso, nell’affermata identità della ‘luce’ e della ‘sostanza divina’. La conflittualità ricordata nel Prologo (1,5: «E la luce risplende nelle tenebre; ma le tenebre non l’hanno avvinta») viene ripresa più avanti, in forma solenne, nelle parole pronunciate da Gesù: «Fin da quando sono nel mondo, sono la luce del mondo»43. Il ‘culto della luce’, che nei diversi sistemi gnostici assume partico­ lare importanza, si collega a un antico retaggio iranico: «Sempre, dalle epoche dei primordi, in cui si è verificata l’innaturale mescolanza di luce e tenebre, l’anima gnostica, sottraendosi agli abissi dell’oscurità, tende alla patria eterna della luce». E il Corpus Hermeticum ripropo­ ne «la concezione della natura luminosa dei mondi celesti e dei loro abitanti». Le analogie, procedendo in questa direzione, sembrano numerose e assai convincenti, mentre ['Antico Testamento non offre solidi punti di riferimento - conclude Bousset - per giungere all’iden­ tità della ‘luce’ e di Dio ribadita all’inizio della prima Lettera (1, 5-7) di Giovanni: «‘Dio è luce e tenebra alcuna non è in Lui’ [...]. Ma se camminiamo nella luce, come Egli stesso è nella luce, noi siamo in comunione scambievole»44.

nitivo nel Cristianesimo di un aspetto essenziale della religiosità ellenistica» (ibid., pp. 415.419 e 423-4). C-Psl'2, pp. 299-300; tr. it. p. 349. In questo passo, Cassirer tiene presenti, non a caso, Agnostos Iheos di Norden e il libro di Reitzenstein sulle religioni misteriche in epoca ellenistica. “ Gv. 9,5; Bousset, Kyrios Christos cit., pp. 208-9, dove vengono richiamati, in que­ sta prospettiva, anche i passi di Gv. 12, 35-6 e 46. 44 Bousset, Kyrios Christos cit., pp. 247, 210 e 215. Scrive ancora Bousset: «Le con­ cordanze tra gli Hermetica da un lato, Paolo e Giovanni dall’altro, rinviano al terreno comune della religiosità in cui sono radicati» (ibid., p. 139).

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7. Marciane ‘espressionista’

Molti argomenti discussi da Norden e da Bousset vengono affron­ tati, qualche anno dopo, anche da Harnack. La sua monografìa su Marcione sottolinea la vicinanza a Paolo (l’accento cade per entrambi sulla redenzione e sulla grazia riconoscibile nel ‘Cristo crocifìsso’), ma anche le profonde discordanze - nel respingere YAntico Testamento, considerato opera del ‘Dio creatore’, nel negare l’umanità di Gesù e nell’esaltare il Vangelo, composto dal ‘Dio straniero’. Marcione, che insiste sulla peccaminosità della ‘materia’ e rende acuto «al massimo grado il contrasto tra Dio Salvatore e il mondo, tra il miracolo della redenzione e l’umano», resta anche per Harnack del tutto estraneo alla cultura greca. Nelle sue dottrine, infatti, non vi è alcuna concessione alla bellezza del cosmo, né alle prerogative dell’uomo, e mancano parimenti richiami all’idea della ‘legge’, di derivazione giudaica-15. All’inizio del Novecento, l’inattesa ‘riscoperta’ di Marcione si spiega col fatto, secondo Harnack, che «le circostanze della sua epoca erano affini a quelle attuali». Anche al giorno d’oggi, nota il teologo, sem­ bra che «solo l’annuncio dell’amore, che non giudica ma aiuta, ab­ bia ancora speranza di venir ascoltato». Lo ‘spirito dei tempi’ fornisce nuove, inequivocabili e drammatiche conferme alla condanna marcioniana del ‘mondo visibile’ («La creazione dell’uomo è una trage­ dia straziante, di cui il Creatore è l’unico colpevole»). Una condanna senza appello, contenuta nella teologia marcioniana - una ripulsa che Harnack cerca di ‘restituire’, come faceva anche Bousset, per mezzo di un linguaggio volutamente ‘improprio’, modellato sull’attualità: «vi è qualcosa di espressionistico nel modo di orientarsi di Marcione a cospetto di Dio e del mondo, e anche, si può dire, quasi un darsi alla fuga di fronte al pensiero». A Marcione si avvicinano, in certa misu­ ra, tanto Tolstoj quanto la «filosofia della religione» più recente, che «definisce l’oggetto della religione (il ‘sacro’) [...] come il ‘compietamente diverso’, come F'estraneo’ e simili». Harnack prende di mira, con queste parole, Rudolf Otto e Karl Barth; e anche altrove, in questo testo, il teologo parte dal presente per giungere alla Chiesa degli inizi: «Nel Vangelo Marcione ha avvertito tutta quanta la forza e la potenza

45 A. von Harnack, Marcion: Das Evangelium vom fremden Goti, Leipzig, Hinrich 1924 (2. A ufi.), pp. 199-200 e 225.

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del numinoso’, per parlare con Rudolf Otto [...]: Marcione ha sentito il Vangelo 1...] come grande mysterium tremendum etfascinosum»*

8. Tra la 'scuola di Gottinga e Karl Barth Le pagine conclusive della seconda edizione deìYEpistola ai Romani presentano Dio come «lo Sconosciuto», che si tiene lontano dagli al­ tari dell’idolatria antropocentrica («tutti abbiamo dimenticato il Dio sconosciuto»). Di fronte aH’imperscrutabile volere divino, la fede re­ sta il «rischio supremo dell’uomo» e nient’altro: «tutte le nostre ovvie concezioni, religiose e morali, [...] cadono le une sulle altre come coni posti sul loro vertice, come le case e gli alberi di un quadro futurista»47. Anche nelle pagine iniziali del testo di Barth si discorre del «Dio sco­ nosciuto che abita in una luce inaccessibile». Della sua realtà, non pos­ siamo esperire altro che un «Eppure» o un «Nonostante tutto», dato che rappresenta comunque «la crisi assoluta [...] per il mondo degli uomini, del tempo e delle cose»48. Ora, non sorprende che la fede rivendicata da Barth, del tutto sepa­ rata dall’etica e possibile solo come ‘mistero’ divino che riscatta e ‘redi-

* Ibid., pp. 232, 105, 234, 226, 228, 232 e 95. Tuttavia Hamack, se menziona R. Otto, non cita né Reitzenstein né Meyer. r K. Barth, Der Ròtnerbrief(2. Aufl., 1922), Zollikon u. Zurich, Evangelischer Ver-

lag 1954, pp. 513 e 333-4; tr. it. L'epistola ai Romani, Milano, Feltrinelli 1974, pp. 510

e 331 (il termine Wagnis è da tradurre con ‘rischio’ e non, come propone l’edizione italiana, avventura'). Per Barth, studiosi come Hamack e i teologi liberali non sanno vedere che «neppure dalla condotta del Gesù dei Sinottici o dalle parole del Sermone della montagna, si possono dedurre regole di condotta applicabili direttamente alla vita pratica del cristiano» (ibid., p. 491 ; tr. it. p. 488). I teologi liberali, ostinati nella loro ricerca di un accordo tra il ‘credo’ e il ‘mondo’, tra valori religiosi e norme etiche per l'agire, non possono ammettere che «la fede, in quanto voglia essere in qualsiasi senso qualche cosa di più che spazio vuoto, è miscredenza». Barth, nella sua critica, riprende li Genealogia della morale di Nietzsche, ma anche le considerazioni sul ‘pathos della distanza’ contenute in Al hi del bene e del male: i teologi ‘modernisti’, coi loro sforzi, compiono l'ennesima «insubordinazione degli schiavi» e non conoscono altro che «la hybris, l'arroganza che disconosce la distanza tra Dio e 1 uomo» (ibid., p. 32; tr. it. p. 32). « lbid.,pp. 11,14 c 51; tr. it. pp. 11.14 e 51. L’essere divino resta il‘totalmente altro’, inaccessibile agli sforzi degli uomini: «Nulla di umano che pretenda di essere altro che spazio vuoto, indigenza, (...) polvere e cenere dinanzi a Dio» (ibid., p. 84, tr. it. p. 84).

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me’, si svolga in anni e in ambienti intellettuali in cui il sincretismo re­ ligioso ‘orientale’ della tarda antichità costituiva un campo di indagini coltivato con rigore e grande passione. Barth, in molte pagine del suo commento a Paolo, sembra interpretare il cristianesimo nell’ottica dei culti misterici ellenistici, con la loro ansia di ‘rinascita’ e il loro radica­ le dualismo: «Il significato di ogni religione è la redenzione, la svolta dei tempi, la resurrezione, l’invisibilità di Dio [...]. Molti camminano nella luce della salvezza, della remissione, della resurrezione; ma se li vediamo camminare, se abbiamo occhi per questo, ne siamo debitori all’Unico. Nella sua luce noi vediamo la luce [...]. La fedeltà di Dio è il suo penetrare e permanere nella più profonda problematicità e nelle tenebre dell’uomo». Ciò che rende possibile la ‘salvezza’ di Cristo è proprio la sua peccaminosità: «Egli si unisce come peccatore ai pecca­ tori [...]. Egli assume forma di servo [...], alla meta della sua via egli è una grandezza puramente negativa [...]. Per questo Dio lo ha elevato, in questo egli viene riconosciuto come il Cristo, in questo egli diventa la luce delle ultime cose [...]. In lui vediamo veramente la fedeltà di Dio nella profondità dell’inferno»49. Barth offre qui una trasparente parafrasi di una nota pagina della Lettera ai Filippesi (2, 6-9: «annientò se stesso, prendendo forma di schiavo, [...] umiliò se stesso»). Occorre notare, a questo proposito, che proprio questo passo, così carico di significato per la teologia di Barth, era stato comunque uno dei cardini su cui si reggeva l’interpre­ tazione del ‘Paolo gnostico’ proposta da Bousset nel 1913. L’aposto­ lo, veniva suggerito in Kyrios Christos attraverso un rinvio a questo brano (Phil. 2, 6-9), considera in realtà l’esistenza terrena di Cristo «soltanto dal punto di vista dell’umiliazione e dello svuotamento». Si tratta di un modo di vedere, per Bousset, in cui riaffiora Danti­ co mito di un eroe che discende nel mondo sotterraneo, per lottare con i demoni degli abissi», ancora visibile nei trattati protocristiani dell’andata di Cristo agli Inferi. In Paolo lo stesso tema mitologico viene ‘mondanizzato’ e subisce una profonda trasformazione: «Al posto del discendere nell’Ade, compare il soggiorno di Cristo sulla terra, al posto della sua lotta negli abissi con i demoni la sua morte in

49 Ibid.. pp. 71 e 72; tr. it. pp. 71 e 71-2 (nel primo brano citato, l’edizione italiana propone per Erlòsung 'salvezza', e non 'redenzione'). Ix> smarrimento, l’abbandono e la caduta’ («Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?») sono la necessaria pre­ messa al compiersi della «rivelazione dell’impossibile possibilità della nostra salvezza» (ibid., pp. 72 e 80; tr. it. pp. 72 e 80).

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croce»50. In un’altra pagina, il commento di Barth discorre dell’oppo­ sizione di Adamo, attraverso cui Dio volge le spalle agli uomini, e di Cristo, il simbolo della benevolenza divina. Con simili affermazioni, Barth richiama indirettamente la Prima lettera ai Corinti (15,22: «E come tutti muoiono in Adamo, così tutti rivivranno in Cristo»), che per Bousset costituiva un’importante conferma delle convergenze tra il rigido ‘dualismo’ paolino e i culti ellenistici estranei tanto all’ebrai­ smo quanto alla cultura classica51. Questi accostamenti sembrano sufficienti per chiarire come il di­ scorso di Barth svolga gli stessi motivi che colpiscono anche gli stu­ diosi più attenti a indagare ciò che Bousset definiva la «fede paolinognostica nella redenzione». Le riflessioni di Barth rivendicano nuova attualità a quella mistica ellenistica che acquista consistenza se - an­ cora una volta nel linguaggio di Bousset - «la religione si concen­ tra nell’esclusivo pensiero della redenzione per mezzo di una forza estranea all’uomo, proveniente dall’alto», e se trionfa la convinzione secondo cui «la parte migliore e più elevata in possesso dell’uomo sia in contrasto col suo essere naturale». Erano stati Norden e Bousset, prima di Barth e di R. Otto, a scorgere in Paolo e in Giovanni «la cer­ tezza che col Vangelo abbia fatto ingresso nel mondo l’assolutamente estraneo, l’inaudito»52.

9. Ascensioni in cielo, discese agli inferi La parola di Dio, attraverso Paolo, rende d’un tratto inconsistente la «fiera delle religioni, delle visioni del mondo e delle morali» e impone di scoprire il ‘sacro’ come «l’ostacolo, la distruzione, la negazione della nostra vita, come l’enigma tremendo della nostra esistenza concreta, come la maledizione che grava sulla nostra creaturalità»53. In fondo, scrive Barth nel 1916-18, una crisi drammatica, che rimette in discus-

M Bousset, Kyrios Christos cit., pp. 163 e 161. $I Barth, Der Ròmerbriefcit., p. 158; tr. it. p. 158. Per Bousset, si veda almeno un passo, in cui si ricorda che, nell'ottica paolina, «Cristo è in tutto l'esatto opposto del primo uomo |...|; con Adamo si è rovesciata sul mondo l’intera corrente della morte e del peccato, col ‘secondo Uomo’ Cristo la corrente della vita e della giustizia» (Kyrios Christos cit., pp. 159-60). Si tenga presente, in merito a ciò, anche la precedente nota 32. u Bousset, Kyrios Christos cit., pp. 407 e 413. M Barth, Der Ròmerbriefcit., pp. 212 e 132-3; tr. it. pp. 211 e 132-3.

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sione «le più profonde questioni vitali» e crea «insicurezza e turba­ mento in rapporto ai fondamenti e ai presupposti ultimi della civil­ tà», rende sempre più sterile «il giuoco ozioso con teorie e concezioni del mondo». Nel ‘tempo dell’incertezza’, diventa allora un passaggio pressoché obbligato riscoprire la religiosità come ‘mistero’, per evitare il suo decadimento a vuota sequenza di «comitati, azioni, congressi, giornali, cicli di conferenze»54. Nei primi anni del Novecento, nell’epoca in cui - con un ritmo con­ citato e inarrestabile - si compie un radicale sovvertimento degli equi­ libri precedenti, le indagini specialistiche tornano a ‘scoprire’ i sinto­ mi e le tensioni attraverso cui si era annunciato il collasso della civiltà greco-romana. In un’età di crisi, diventa acuta l’esigenza di mettere a fuoco, attraverso lo studio sistematico del sincretismo ellenistico, le ansie e le aspettative di un periodo di violenti e imprevedibili processi di transizione. Scrive Paul Wendland, nel riassumere l’argomento del­ la sua monografia sull’ellenismo: «Un mondo civile antico e fiorente, nel suo morire e nella sua agonia, nell’anelare ad una ‘nuova creazione’ e a una rinascita, neU’inquietudine di una ricerca di Dio che non rag­ giunge i suoi scopi - in questi termini si presenta a noi la civiltà pagana al momento del suo declino»55. Sotto questo punto di vista, assume importanza seguire la circolazione, in ambiti diversi, di questo scritto di Wendland, proprio per mettere in evidenza le convergenze, in me­ rito agli interessi scientifici, in cui si riconosce un’intera generazione di filologi, teologi e filosofi. La seconda edizione, alquanto rielaborata, della sua importante mo­ nografia, La civiltà ellenistico-romana (1912), suscita al suo apparire un notevole interesse e viene giudicata da più parti una ricostruzione sistematica di grande originalità. Nel 1913, nella prefazione ad Agnostos Theos, Norden definisce quest’opera «un libro fondamentale», ri­ trovandovi un approccio al mondo greco-romano simile al suo. Nello stesso anno, Bousset schiera Wendland tra gli autori - assieme a Usener e Dieterich, Cumont, Reitzenstein e Norden - che con più forza si sono battuti per non escludere la storia del cristianesimo dal più ampio scenario del declino del mondo antico. Oltre a ciò, Bousset approva in Wendland la scelta, compiuta con la seconda edizione, di rovesciare il

M K. Barth, Der Ròmerbrief (Erste Fassung, 1919), Zurich, Theologischer Vcrlag 1985, pp. 57 e 60. Questa prima edizione dell’opera, radicalmente diversa dalla secon­ da, era stata composta tra il 1916 e il 1918.

M Wendland, Die hellenistisch-ròmische Kultur cit.,p. 186.

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precedente ordine dei capitoli e di discorrere dello gnosticismo prima di passare al cristianesimo. Un intervento, questo, assai opportuno, commenta Bousset, dato che le più recenti indagini hanno rintracciato - nei trattati ermetici, negli Oracoli caldaici, in Numenio di Apamea - una letteratura gnostica «puramente ellenistica», che non conosce ancora commistioni e compromessi con dottrine cristiane56. Anche Barth qualche anno dopo, nel 1919, affronta quest’opera, comunicando le sue impressioni all’amico Eduard Thurneysen: «Ho letto in questa settimana il libro di Wendland sulla civiltà ellenistica, restando stupefatto per la compiutezza con cui la Chiesa cristiana [...] era già presente e in piena attività prima e senza Cristo». Un giudizio interessante, contenuto in una lettera che chiarisce come il rapporto tra Barth e gli autori vicini alla ‘scuola di Gottinga’ si articoli su due piani distinti. I teologi e i filologi che discutevano del ‘Dio sconosciuto’ e della redenzione in epoca ellenistica, della ‘caduta’ e della malvagità della ‘materia’, trattavano argomenti di grande rilievo, come abbiamo visto, anche per la ‘teologia negativa’ di Barth. Ma i loro risultati, nel rintracciare le radici pagane delle dottrine cristiane («la Chiesa prima e senza Cristo» di questo commento), potevano risultare utili anche a sostegno dell’idea che le istituzioni ecclesiastiche non siano altro che ‘compromessi’ e ‘ibridazioni’ avvilenti - un modo di vedere particolar­ mente suggestivo per quanti si battevano per affrancare la fede da ogni legame con la ‘religione’ e col culto, con la Chiesa e con la ‘storia’. Tra Barth e il ‘partito degli orientalisti’ si stabiliva così, come risulta dalla sua lettera del 1919, una ulteriore saldatura57. Infine, anche nel processo di ‘costruzione’ del Tramonto dell'Occidente (1918-22), il libro di Wendland assume un rilievo notevole, tra i

* Norden, Agnostos Theos cit., p. 1; tr. it. p. 128; Bousset, Kyrios Christos cit, pp. vh-viii e x. Anche quanto scrive Wendland sulla gnosi (Die hellenistisch-ròmische Kultur cit., pp. 163-87) riscuote il plauso di Bousset (Kyrios Christos cit., pp. 42, 222 e 290). Per il giudizio di Hamack su Wendland, egualmente molto positivo, si veda il seguente cap. 11, nota 13. ' K. Barth, E. Thurneysen, Briefwechsel, 1(1913-21), Zurich, Iheologischer Verlag 1973, p. 338 (lettera scritta in data 8.7.1919). Da segnalare, a proposito del libro dj Wendland, anche un’acuta presa di posizione di E. Thurneysen (lettera a Barth del 27.12.1919): «Ho ricevuto in regalo il Tramonto delTOccidente di Spengler, due volumi di Nietzsche e la Civiltà ellenistico-romana di Wendland, e cioè tre libri, in sostanza, che abbracciano il ‘Cristianesimo’ da prospettive singolarmente ampie e con sguardo critico» (ibid., p. 363).

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diversi materiali rifusi e assemblati nell’opera. Spengler, nella seconda parte dell’indagine, si sofferma ampiamente sul diffondersi di culti e credenze orientali nei territori della civiltà greco-romana («Quasi [...] nessuna religione particolare, bensì una comune religiosità magica»), i quali ‘riscattavano’ l’inerzia e l’opacità dell’esistente («Un rovescio di rivelazioni, di prodigi, di supreme intuizioni circa il fondo ultimo delle cose travolse ogni spirito») e proponevano storie sacre, simboli e miti caratterizzati da un profondo dinamismo, da una marcata inquietudi­ ne («Ognuno sapeva di questi angeli e demoni, di questi viaggi di esseri divini nei cieli e negli inferni»)58. Spengler, ricorrendo a simili argomenti, difende la tesi secondo cui la ‘religiosità magica’ del sincretismo ellenistico avrebbe spinto l’Occidente ad acquistar confidenza, per la prima volta, con un’esperienza del tempo come ininterrotto mutamento, come ‘catena’ di continue e imprevedibili trasformazioni. Mentre nel mondo classico «l’uomo eu­ clideo» distoglieva lo sguardo dal futuro e dalle sue incertezze, aggrap­ pandosi a un presente «puntiforme» e rassicurante, i culti orientali esal­ tavano il fronteggiarsi di forze opposte e inconciliabili - questa la con­ clusione di Spengler - e quindi narravano, sul piano dell’antagonismo cosmico, incessanti peregrinazioni e irrequieti, rischiosi spostamenti nello spazio e nel tempo. Nella pagina appena citata («questi viaggi nei cieli e negli inferni»), Spengler riassume, proprio appoggiandosi al li­ bro di Wendland, un tema tra i più vivacemente dibattuti nelle discus­ sioni promosse dalla ‘scienza delle religioni’ del primo Novecento. Nel sincretismo della tarda antichità - sostiene per l’appunto Wendland - la «dottrina dell’ascesa dell’anima al cielo» viene ripro­ posta, in infinite versioni, «neUe più diverse mescolanze delle credenze popolari e delle tradizioni religiose e filosofiche», a partire dalla riela­ borazione di filosofemi babilonesi ed iranici: «L’anima, nella sua disce­ sa dal cielo, assume i caratteri delle sfere planetarie attraverso cui pas­ sa, giungendo infine alla sua esistenza corporea. Dopo la morte, essa deve ripercorrere il viaggio in cielo, in direzione inversa, per spogliarsi nelle diverse stazioni dei caratteri della vita terrena e far ritorno purifi­ cata nella sua patria originaria, il regno della luce»59. Pure il mito della ‘discesa agli inferi’ di Cristo, sfiorato nel passo

*• S-UA, pp. 816-7; tr. it. pp. 963-4. w Wendland, Die hellenistisch-ròmische Kultur cit., pp. 170 e 135 (in questa pagina Wendland si appoggia, tra l’altro, a Dieterich, Etne Mithrasliturgie cit., pp. 78 sgg.).

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spengleriano sopra riportato, era stato menzionato da Wendland60. E si tratta, di nuovo, di una ‘frontiera simbolica’ di alto valore per la scienza del tempo. Bousset è dell’avviso che tale racconto, di cui resta testimonianza nei Vangeli apocrifi, in Giustino e in Ireneo, ma anche nelle Odi di Salomone di origine gnostica, debba risultare dalla rielabo­ razione di un più antico motivo precristiano61. Anche negli scritti neo­ testamentari, per Bousset, si trovano del resto abbozzi e «frammenti» delle «vigorose concezioni popolari e mitologiche della lotta di Cristo con le forze del mondo degli inferi». Nell’Apocalisse di Giovanni e nel Vangelo di Matteo, ad esempio, compaiono indicazioni inequivocabili (Ape. 1,18: «fui morto, ma ecco che son vivo per i secoli dei secoli e ho le chiavi della Morte e dell’Ade»)62. Riesce così a far breccia nel cristia­ nesimo «l’antico mito di un eroe che si cala nel mondo degli inferi per lottare con i demoni degli abissi»63. La più generale ispirazione dell’indagine spengleriana, l’idea cioè che un’antichità inquieta e ormai ‘corrotta’ dall’oriente sia, in confronto all’Atene del Quinto secolo, ben più ‘moderna’ e gravida di ‘futuro’, si può egualmente riportare, senza forzatura alcuna, a nette prese di posi­ zione di Wendland: «Il raffinamento della psiche, l’individualizzazione

“ Wendland, Die hellenistisch-ròmische Kultur cit.» pp. 178 e 300. “ Bousset, Kyrios Christos cit., pp. 32-6. Altrove Bousset (Das Wesen der Religion,

4. Aufl., Tiibingen, Mohr 1920, pp. 69-70) discute della presenza di questo mito nella civiltà babilonese (discesa agli inferi di Isthar). Anche per Reitzenstein le suggestioni

di un ‘viaggio all’inferno’ di Cristo nascono da schemi interpretativi largamente diffusi in età ellenistica, in un ambiente in cui «le credenze, legate al culto, circa la peregrina­ zione di una ‘divinità seconda’ (Osiride o Horus, Attis o Adone) nel mondo dei mor­ ti aveva acquistato (...) un significato decisivo» (Hellenistische Wundererzdhlungen, Leipzig, Teubner 1906, pp. 106 e 124-5). In un studio successivo, Reitzenstein parte da un passo del Nuovo Testamento (1 Petr. 3,19) per sostenere la parentela tra la di­

scesa agli inferi di Cristo e analoghi racconti tramandati dai Mandei (Das mandiiische

Buch des Herrn der Grafie und die Evangelieniiberlieferung, «Silzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-hist. Klasse», 1919, 12. Abh., Heidelberg, Winter 1919, pp. 24-6). E. Meyer si distingue invece da Reitzenstein e da Bousset e non ritiene che nel viaggio di Gesù agli inferi si racchiuda un mito pagano

(Ursprung und Anfdnge des Christentums, III, Stuttgart u. Berlin, Cotta 1923, p. 622). u Bousset, Kyrios Christos cit., pp. 38 e 37.

*’ Ibid., p. 161. Nota ancora Bousset: «la concezione della redenzione del genere umano per mezzo di Gesù e della sua croce era stata condizionata, fin dall’inizio, (...)

dal mito della lotta di un eroe-redentore con i demoni degli abissi» (ibid., p. 402).

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della più intima vita dell’anima - ciò che il cristianesimo ha trasmesso, come possesso stabile, all’umanità moderna - si è compiuto dapprima attraverso l’approfondirsi e il rafforzarsi della vita religiosa, in cui, as­ sieme al Vangelo, ha inciso il sincretismo orientale, sia direttamente sia attraverso mediazioni giudaiche e cristiane»64. Le inquietudini e le lacerazioni del primo Novecento, connesse alla crisi della società ottocentesca, all’industrialismo e ai nuovi processi di massificazione, provocano - sul piano degli orientamenti intellettua­ li — la ‘scoperta’ delle ansie e delle tensioni, in primo luogo religiose, che si sono sprigionate nei secoli della crisi e della decomposizione del mondo classico. In questo quadro, cresce l’interesse per i ‘misteri’, per gli attestati di devozione verso il ‘Dio sconosciuto’. Il ‘tramonto dell’occidente’, prima di diventare il titolo dell’opera di Spengler, era stato un tema affrontato con grande attenzione in molte sobrie ricer­ che specialistiche.

10. Un nuovo ‘vangelo’della grecità Con un breve scritto del 1926, W.F. Otto imposta una dura requisito­ ria contro i teologi e i filologi del suo tempo. La ‘scienza delle religioni’ del primo Novecento, resa miope da un tenace pregiudizio, privilegia forme di religiosità - è questo l’atto d’accusa - dominate dal «senti­ mento dell’illimitato, dello straordinario, dell’indescrivibile». Storici e teologi intendono per ‘esperienza religiosa’ solo il subitaneo rivelarsi del superiore «mondo del misterioso e dello sconvolgente», l’attimo

w Wendland, Die hellenistisch-romische Kultur cit., p. 186. Spengler, assai attento a dar rilievo agli incontri tra culture diverse, può approfondire il tema delle ’pseu-

domorfosi’ (di cui dobbiamo ancora parlare) ricavando suggerimenti importanti an­

che da Wendland. Quest'ultimo infatti mette in evidenza che la vita del Cristo viene narrata, come avveniva anche nei culti di Osiride, di Attis e di Mithra, «come una

delle immagini del Dio che soffre, muore e torna a nuova vita». La stessa liturgia della

Chiesa, a suo avviso, riprende le tradizionali forme di aggregazione dei ‘misteri’, che all’epoca «racchiudono i loro fedeli in una stretta comunità, per mezzo di sacramenti, rivelazioni e speranze». E pure i culti astrali trovano accesso, e «con forza crescente»,

nella nuova fede, dal momento che «le divinità planetarie vengono trasformate nei

sette Arcangeli giudaico-cristiani» - chiari segni, tutti questi, della sorprendente «ca­ pacità del sincretismo religioso» di selezionare e «attirare a sé materiali sempre nuovi, per metterli al servizio delle sue idee» (ibid., pp. 167 e 176-7).

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drammatico in cui traluce «il ‘totalmente altro’» della divinità. L’ar­ cano che allora si manifesta, «inaccessibile all’intuizione e al pensiero e definibile solo per mezzo di negazioni», diffonde all’intorno «il bri­ vido e il terrore, il fulgore e la fascinazione trascinante del sacro». Un simile modo di procedere, prosegue W.F. Otto, ponendo come rigido e vincolante metro di paragone «un concetto ricavato dalle religioni orientali», non rende giustizia alla religiosità dei Greci, ne mortifica la specificità e la riduce a occasione di diletto estetico. In Eliade infatti «la divinità non è il ‘totalmente altro’, bensì il ‘proprio questo’» che non si ritrae dinanzi all’«occhio spalancato», estraneo alle seduzioni della mi­ stica e capace di soffermarsi sulla variegata ‘semplicità del mondo’; il nume, in questo contesto, non può che disprezzare l’oscurità e quindi risulta invisibile allo «sguardo rivolto all’interno, alla profondità dell’a­ nima», ormai «reso cieco dalla luce interiore carica di mistero». W.F. Otto, con questa considerazione, allude in maniera trasparente al testo di Rudolf Otto, Il sacro (1917), considerato l’autorevole testi­ monianza di una ‘scienza delle religioni’ avvezza a guardare a Oriente, a disprezzare il mondo classico e ad accettare soltanto l’entusiasmo re­ ligioso che «scaglia l’uomo [...] nella polvere». Infatti R. Otto, col suo libro del 1917, parlava del Dio che si annuncia come «il ‘totalmente altro’», come interruzione dell’ordine naturale degli eventi, e invita­ va a riscoprire il ‘sacro’ attraverso «i sentimenti dell’irrazionale e del numinoso», particolarmente diffusi nelle escatologie delle religioni se­ mitiche65. Nella sua opera più ampia e significativa, Gli dèi della Grecia (1929),

*' W.F. Otto, Die Altgriechische Gottesidce (1926), in Id., Die Gestalt und das Sciti, Dusseldorf u. Kòln, Diederichs 1955, pp. 121 e 120; R. Otto, Das Heilige. Uber das Irratiottale iti der Idee des Gòttlichen und scin Verhaltnis zunt Rationalen cit., p. 74.

Le analisi di Rudolf Otto, osserva Troeltsch nel 1919, sono l’esito di una ‘scienza del­

le religioni’ che privilegia il momento delT«autorivelarsi del divino attraverso segni, miracoli ed avvenimenti abnormi» (E. Troeltsch, Zur Religionsphilosophie, «KantStudien», 23, 1919, p. 69). A suo tempo, anche Bachofen dichiarava che «l’elemento misterico costituisce la vera essenza di ogni religione [...]. È confutata l’asserzione dei

moderni, secondo la quale l’elemento misterico apparterrebbe a tempi di decadenza e a una tardiva degenerazione dell’ellenismo» (J.J. Bachofen, Das Mutterrecht. Eine Utitersuchung tìber die Gynaikokratie der alten Welt nach ihrer religiòsen und rechtlichen

Natur, in Id., Gesammelte Werke, Basel u. Stuttgart, Schwabe 1943 sgg„ IV, p. 29-30;

tr. it. Il matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia del mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, a cura di G. Schiavoni, Torino, Einaudi 1988, pp. 22-3).

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W.F. Otto prosegue la lotta contro la «filosofia della religione del nostro tempo», corrotta daU’«esempio delle religioni orientali» e a suo agio tra «turbamenti dell’animo e rapimenti estatici», ma incapace di cogliere il significato di divinità in cui si racchiudono «forme originarie dell’es­ sere». Solo gli dèi greci, in quest’ottica, esprimono direttamente, nella loro ‘semplicità’, aspetti decisivi della ‘natura’ e del ‘mondo’. Invece la filosofia della religione che mette l’accento sull’«irrazionalismo del numinoso», presta unicamente attenzione ai ‘travagli’ dell’interiorità, all’esaltazione individuale. Nella sua critica allo schieramento degli ‘orientalisti’, W.F. Otto si impossessa tuttavia di rilevanti argomenti degli avversari. Apollo e Atena, viene ricordato nel suo scritto, non si presentano agli uomi­ ni mettendo l’accento sulla propria ‘persona’, facendo sfoggio di virtù e poteri straordinari. In Grecia «il dio è sempre lontano da quell’ac­ centuazione della propria personalità che non ammette nessun altro accanto a sé»66. Ciò conferma come nella sua ‘essenza’ si raccolgano determinati lati dell'«essere», che non costituiscono «nulla di irripe­ tibile e di unico». L’esperienza greca, da questo punto di vista, batte vie del tutto particolari, che non si incrociano mai con gli sviluppi del profetismo ebraico o della mistica iranica: «Qui la più passionale ma­ nifestazione del Dio e del suo santissimo nome, lì il più nobile ritrarsi della persona divina». Nel sollevare un simile problema - la presenza o assenza dell’autoglorificazione divina in ‘linguaggi religiosi’ diversi - W.F. Otto segue con grande puntiglio Norden (anche se non lo ammette); riprende le tesi di Agnostos Theos e le trasforma profondamente, enfatizzando la contrapposizione tra Occidente e civiltà orientali sul piano dei ‘valori’ e della filosofia della storia. Il suo testo illustra così come un dio greco disprezzi adepti e mistagoghi, «non [faccia] dipendere i suoi favori dal fervore o dall’esclusività con cui ci si dedica a servirlo». E afferma più volte che le divinità olimpiche, interpreti dell’«essere» e custodi degli

66 W.F. Otto, Die Gòtter Griechenlands. Das liild des Gòttlichen im Spiegcl desgriechischen Geistes, Bonn, Cohen 1929, pp. 212 e 304; tr. it. Gli dèi della Grecia. L’im­ magine del divino nello specchio dello spirito greco, Milano, Adelphi 2004, pp. 170 e 235. Nessun dio superbo e altezzoso, dunque, e nessuna richiesta di incondizionata sottomissione. Apollo, ad esempio, «non accentua mai la propria personalità, e (...) non chiede mai di venir esaltato e onorato al di sopra di tutti» (ibid., p. 99; tr. it. p. 84).

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«ordinamenti della natura» erano «ben lungi dal voler iniziare l’uomo ai misteri ultraterreni e svelargli la loro arcana essenza divina»67. Il sotterraneo dialogo con Norden sorregge le analisi di Otto non solo laddove si tratta di descrivere il ‘manifestarsi’ del dio, ma anche a pro­ posito di altre questioni. I Greci avevano una fede - era stato fatto osser­ vare in Agnostos Theos - che non permetteva l’insinuante «invocazione ‘tu sei’» e rifuggiva dall’appello diretto. Lo stesso motivo - il fastidio di fronte a suppliche eccessivamente coinvolgenti - viene messo in rilievo anche negli Dèi della Grecia: «Per quanto diversi [...] i singoli caratteri divini, incontriamo sempre uno sguardo di grandiosa quiete [...]. Ogni specie di violenza e di prepotenza gli è estranea [...]. Non potrebbe mai venirci in mente di dare del tu ad un essere di questa specie»68. Con rilievi di tal genere, W.F. Otto propone una brillante ‘apologia’ che sembra, in definitiva, rovesciare l’ordine temporale: i ‘suoi’ Greci appartengono ad un’epoca successiva rispetto al tempo dell’eclettismo e del ‘pandemonio’ ellenistico; spetta a loro il compito di ‘restaurare’ ciò che è stato travolto dalla superstizione dei ‘papiri magici’ e degli inni soteriologici orientali. La loro ‘missione’ consiste proprio nel pre­ servare «l’idea religiosa dello spirito europeo», invitando a non dimen­ ticare come sia «assai differente dalle idee religiose di altre civiltà, in­ nanzitutto di quelle che sogliono fornire alla nostra scienza e filosofia della religione il modello della formazione religiosa»69.

47 Ibid., pp. 304,305,306 e 309; tr. it. pp. 234,235,236 e 309. Prevale tra gli interpreti la tendenza a enfatizzare la marcata ‘inattualità’ dell’opera di Otto, la sua estraneità alle temperie della sua epoca: «Walter F. Otto si è richiamato alla grande tradizione dei poeti e dei pensatori tedeschi e non all’atmosfera eccitata di Monaco alla fine del secolo, quindi non a Klages, Schuler e George, ma piuttosto a Schelling e Creuzer, Goethe e Hólderlin» (H. Cancik, Die Gòtter Griechenlands 1929, (1984), in Id., AntikModeme. Beitràge zur rotnischen und deutschen Kulturgeschichte, hrsg. von R. Faber, B. v. Reibnitz u. J. Riipke, Stuttgart u. Weimar, Metzler 1998, p. 150). In realtà, W.F. Otto non si preoccupa solo di «dover portare l’ellenismo tedesco al di là di Goethe e di Hólderlin» (ibid., p. 155), ma anche di costruire un argine che sbarri la strada ai seguaci della ‘scuola di Gottinga’, al dilagare dei ‘parametri orientali’ imposti come vincolante metro di paragone alla ‘storia delle religioni’. “ W.F. Otto, Die Gbtter Griechenlands cit., pp. 302-3; tr. it. pp. 232-3. Per le corri­ spondenti pagine in Norden si veda la precedente nota 16 di questo capitolo. *» Ibid., p. 13; tr. it. p. 23. Tanto in Palestina quanto in Iran «la divinità si è decisa­ mente staccata dalla natura ed innalzata in una sfera ideale» (ibid., pp. 172-3; tr. it. p. 140).

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Il ‘colloquio silenzioso’ di W.F. Otto con la nuova ‘scienza delle reli­ gioni’ coinvolge anche Bousset, l’altro grande protagonista, assieme a Norden, delle discussioni di questi anni. Era stato infatti proprio Bous­ set a far vedere, attraverso un’imponente documentazione, quanto l’u­ sanza di appellare ‘signore’ il dio fosse estranea ai Greci. W.F. Otto già nel 1920, quindi ben prima di scrivere Gli dèi della Grecia (1929), ri­ prendeva le conclusioni di Kyrios Christos, senza tuttavia citare la fon­ te, e le esibiva come prova definitiva della «voluttà di umiliarsi» delle stirpi semitiche e del loro «sentire da schiavi, che mediante il loro farsi colpevoli, la loro umiltà e ubbidienza, riesce a rendere gradevole la [...] mancanza di valore». Gli strumenti della più recente filologia offrono così a W.F. Otto l’opportunità di aggiungere una nuova sezione alla Genealogia della morale di Nietzsche: «i semiti e i cristiani chiamano ‘signore’ la divinità, in opposizione ai pagani classici [...]. Amore e odio - entrambi nel senso della penuria e del bisogno - sono le loro uniche passioni»70. Un prolungato ‘contatto’, dissimulato ma tenace, con la sfera dei culti misterici (vale a dire, con la relativa letteratura novecentesca) si manifesta infine, neU’aflresco della classicità greca tratteggiato da W.F. Otto, proprio nel punto focale attorno a cui ruota l’intero discorso e cioè nell’idea di una religione incentrata sul ‘vedere’ (schauen), alla stessa maniera dei culti ellenistici. Norden e Bousset insistevano lun­ gamente sullo «sguardo visionario (das visionare Schauen) delle reli­ gioni misteriche», sul «vedere illuminato» promosso dalla soteriologia della tarda antichità71. Anche altri protagonisti di questa stagione di ri­ cerche si esprimevano in termini analoghi: «Gnosticismo non è cono­ scenza intellettuale, bensì un vedere (Schauen) Dio, un sapere occulto ottenuto per mezzo sia della comunione personale con la divinità che della rivelazione»72.

79 W.F. Otto, Das Weltgefùhl des klassischen Heidentums, «Monatsschrift fiìr die Zukunft deutscher Kultur», 12,1920-21, p. 132. Nel suo saggio dedicato agli Dèi della

Grecia, Cancik approfondisce l’opera di Otto, in pagine peraltro di grande interesse, senza mai fare i nomi di autori come Norden o Bousset. Eppure Otto mette conti­ nuamente l’accento, nel libro del 1929 e nei saggi che lo precedono, sulla necessità di

contrastare l’acritico orientalismo’ della Keligionswissenschaft del tempo, responsabile dell’idea che la redenzione’ sia l’architrave di ogni forma di esperienza religiosa. 71 Norden, Agnostos Theos cit., pp. 98 e 110; tr. it. pp. 219 c 230; Bousset, Kyrios Christos cit., pp. 197-203 in particolare.

72 Wendland, Die hellenistisch-ròmische Kultur cit., p. 166.

I !

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E la stessa «genialità» greca celebrata da W.F. Otto si rende evidente, d’altro canto, nella «capacità di vedere il mondo alla luce del divino». Per accostarsi al ‘sacro’, nella terra dei poemi omerici, non servono complesse conoscenze soteriologiche che insegnino il disprezzo della ‘materia’ e del ‘mondo sensibile’, bensì risulta sufficiente il «piacere del vedere», che riesce a scorgere come la varietà degli eventi naturali e anche «ogni capacità, ogni stato affettivo, ogni pensiero, ogni agi­ re ed esperire si riflett[a] nella divinità»73. Nel sottolineare l’«assoluta superiorità» del «vedere» (Schauerì) in grado di distinguere la ‘divina pienezza’ del ‘mondo’ nella sua datità, i Greci di W.F. Otto si collocano allora sullo stesso piano dei culti ellenistici, nei quali proprio la con­ quista del «vedere», sempre più ‘immateriale’ ed elevato, garantiva la salvezza. Anche in Eliade, in ultima istanza, prosperano gli ‘iniziati’, sebbene in questo caso le schiere degli ‘eletti’ e le loro «visioni» appar­ tengano (quasi in termini weberiani) a un particolare ‘culto misterico intramondano’. Nel mare magnani dell’antico sincretismo ‘orientale’, in definitiva, le acque tornano a farsi agitate, all’inizio del Novecento, e i violenti marosi che ne risultano si frangono - come abbiamo visto - nelle più diverse direzioni. Le ricerche storico-erudite di Norden e di Bousset e la teologia di Barth, la filosofia della storia di Spengler e la ‘scienza del mito’ di W.F. Otto si misurano con gli stessi problemi. Si incrinano così le barriere tra competenze accademiche diverse, si aprono var­ chi per inaspettati dialoghi. E negli anni ’20 sorgono addirittura nuove ‘religioni’ intellettuali - il ritorno alle divinità olimpiche in W.F. Otto, il culto della ‘forma’ (come vedremo) in George - a cui è affidato il compito di contrastare una crescente diffusione del ‘morbo asiatico’ tra studiosi del mito e storici delle religioni. Le discussioni su tali argomenti, del resto, non restano confinate all’interno del mondo universitario e coinvolgono, ben presto, un più ampio pubblico; addirittura, dopo il 1933, esse vengono tenute presen­ ti, attraverso grottesche deformazioni, sul piano dell’indottrinamento ideologico, dell’esplicita apologia della razza ariana. Dei temi d’indagi­ ne affrontati, a suo tempo, dalla ‘scuola di Gottinga’ si impossessa a un certo momento, stravolgendoli del tutto, la propaganda nazionalsocia­ lista. Alfred Rosenberg denuncia Paolo come «rabbino materialista», come agitatore carico di fanatismo «orientale», e descrive i primi secoli della cristianità come la torbida età del «caos razziale dalle molte teste,

” W.F. Otto, Die Gotter Griechenlands cit., pp. 13, 20 e 218; tr it. pp. 12, 16 e 212.

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al cui interno il modo di pensare siriaco e medio-orientale, con la sua superstizione, i suoi deliri magici e i suoi ‘misteri’ sensuali, unificò tutto ciò che di caotico, di diviso e di decomposto aveva alle sue spalle e impo­ se così al cristianesimo quel carattere lacerato di cui soffre ancor oggi». Oltre a ciò, il suo testo si sofferma brevemente sul più tardo ebraismo e sul modo in cui il lascito ‘ariano’ dell’Iran venne ‘umiliato’ e corrotto attraverso infamanti trasfigurazioni: «Il giudaismo si creò il suo Sata­ na partendo da Angromayniu [...]; la chiesa cristiana si impossessò dell’idea persiana del Salvatore, del principe della pace cosmica £aoshian^, anche se deformata per mezzo dell’idea giudaica del Messia»74.

74 A. Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts, Miinchen, HoheneichenVerlag 1937, pp. 76 e 33. Rosenberg 'salva’ Marcione: nella sua condanna del 'Dio malvagio’ dell’Antico Testamento scorge infatti un ‘principio razziale’ che sconfigge «la concezione semitica di un’arbitraria potenza divina e del suo illimitato dominio tirannico» (ibid., pp. 75-6).

X. Spazi angusti e soffocanti, sguardi privi d'espressione: Spengler critico della classicità

1. Giudizi affrettati Il tramonto dell’occidente di Spengler, di cui comparve nel 1918 il primo volume e nel 1922 la versione definitiva, raddoppiata nel nu­ mero delle pagine, divenne ben presto, nell’atmosfera cupa e smarrita del tempo, uno straordinario successo editoriale e rappresentò - come registra Karl Heussi nel 1932 - una vera e propria «sensazione», che d’un tratto «balzò fuori aH’improwiso come una meteora e di nuovo scomparve». Al libro si rimproverò da più parti, non senza insofferen­ ze e preclusioni, la mancanza di rigore e lo stile oracolare, destinato a nascondere improvvisazione e ‘dilettantismo’. In ambito accademico, la condanna venne affidata alle pagine prestigiose della rivista Logos, mentre anche al di fuori dell’università le ‘improvvisazioni’ del «pro­ feta delle gazzette» non riscossero, tra gli studiosi, un grande favore*. Lo stesso Spengler, d’altro canto, guarda alla propria ricerca, nel pre­ sentarla, come al risultato di una ‘folgorazione’ («11 mio grande libro, Il tramonto dell’occidente, già concepito d’istinto a vent’anni [...]. Infine a Monaco mi ha afferrato [... 1. Ne avevo paura»), sostenuta da fastidio e intransigente desiderio di rivalsa nei confronti della paziente acribia dell’erudito («La ripugnanza per il lavoro prosaico di dover rendere comprensibile ad altri [...] qualcosa che per me era già stabilito»). An­ che negli scambi epistolari con i suoi interlocutori, Spengler si sforza di dar legittimità al ‘mito’ di un’impresa portata a termine senza doversi

1 Hf.ussi, Die Krisis cit.» p. 30. Per una disamina critica delle ‘insufficienze’ spengleriane.cfr. i contributi raccolti in «Logos», 9, Tiihingen 1920-21. Spengler come «der journalistische Prophet»: la definizione risale a E. Bloch (Spengler als Optiniist, «Der neuc Merkur-, Juli 1921) e compare di nuovo in M. Schroeter, DerStreit uni Speng­ ler, Mùnchen, Beck 1922, p. 9. Sulla ‘fascinazione’ che si sprigiona, al suo apparire, dall'opera di Spengler, si veda T. Heuss, Erinnerungen 1905-1933, Frankfurt a.M., Fi­ scher 1963, p. 237.

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preoccupare del confronto con la letteratura specialistica: il Tramonto dell'occidente, scrive ad esempio Otto Theodor Schulz nel 1922, è stato composto «esclusivamente a memoria [...], come mi ha comunicato Spengler per lettera, e non con l’ausilio della cassetta delle schede»2. Le opinioni che non accettano una simile ‘leggenda’ restano larga­ mente minoritarie, già nelle prime controversie intorno all’opera. Talu­ ni riconoscono tuttavia a Spengler la capacità di giungere rapidamente a «una grande, spesso geniale visione d’insieme», associata ad un note­ vole «virtuosismo» nell accostare i più diversi autori e nel ‘maneggiare’ le fonti di cui si serve, riuscendo a rendere pressoché irriconoscibili un’ardua sfida per unafutura generazione di studiosi - i ‘debiti’ contratti3. Nelle discussioni novecentesche, l’immagine più accreditata di Spengler (il geniale ‘improvvisatore’, il ‘ribelle’ che disprezza l’antichistica del tempo) non verrà messa in discussione. Eppure alcuni tra i più prestigiosi autori della ‘scienza dell’antichità’ (Eduard Norden nel 1924, Eduard Meyer nel 1925, Hans Jonas nel 1934) erano giunti a giudizi di segno ben diverso, e proprio a partire dalle loro indagini specialistiche - un dato di fatto, questo, che avrebbe dovuto suggerire di tornare sull’argomento con maggior cautela, senza accontentarsi del giudizio corrente. L’antichista Eduard Norden, autorevole docente a Berlino, definisce in un primo momento la ricerca spengleriana, nel 1921, come «un li­ bro ricco di problemi, e tuttavia problematico». Ben presto tuttavia la sua opinione diventa più articolata. Nella monografia del 1924, La na­ scita del bambino, Norden riconosce piena validità alla principale tesi svolta nel secondo volume del Tramonto dell'occidente, e cioè all’idea che il sincretismo religioso dell’oriente - legato a motivi escatologici largamente comuni alla mitologia babilonese, al parsismo e al tardo giudaismo - abbia favorito la ‘scoperta’ della temporalità. Una simile acquisizione, destinata a disgregare le tradizionali religioni dei mondo greco-romano, era giunta in Europa solo attraverso la mediazione dei culti misterici: «Giustamente - questo l’apprezzamento di Norden -

1 O. Spengler, A me stesso, Milano, Adelphi 1993, pp. 81 e 30; O.T. Schui.z, Dcr

Sinn derAntike undSpenglers neue Lehre, Stuttgart u. Gotha, Pcrthes 1922,2. Aufl.» p. 9. 3 T.L Haering, Die Strukturder Weltgeschichte, Tubingen, Mohr 1921, pp. 6-7. In proposito, resta ancor oggi valido, in larga misura, quanto scriveva J. von Kempski in

un articolo del 1952: «A dispetto di tutto quanto è stato scritto a favore o contro Spen­

gler, le fonti da cui è scaturito il suo concetto di civiltà’ restano ancora nell’ombra» (Brechungen, Hamburg, Rowohlt 1964, p. 51).

217 X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

Spengler scorge nella fatidica idea del tempo, nel postulato di una sto­ ria che si possa abbracciare con lo sguardo, con un inizio e una fine del mondo, una differenza essenziale del pensare e del sentire orientale a cospetto deH’Occidente»4. In effetti, Spengler tratta ripetutamente dei culti sincretistici orien­ tali, i quali, se annunciano innumerevoli varianti dello stesso concetto di «una lotta storico-universale tra il bene e il male, [...] con il trionfo definitivo del bene alla fine dei tempi», riescono però a suscitare anche una nuova esperienza del tempo, dominata dal ‘senso delle prospetti­ ve, dalla consapevolezza di trasformazioni inarrestabili che si stanno avvicinando: «Nel lontano futuro qualcosa viene intravisto, in maniera ancora indistinta e oscura, ma con l’intima certezza che dovrà venire. Con lo sguardo rivolto a quel momento, e col sentimento di una mis­ sione, si vivrà da qui in avanti»5. Grazie ai miti e ai culti delle ‘civiltà magiche’ comincia ad acquistare consistenza, per la prima volta nella storia universale, il senso di una temporalità che procede attraverso un giuoco di continui scontri e attriti: «Lo spettacolo dei terrori della fine del mondo, del giorno del giudizio, della resurrezione [...], e insieme la grande idea di una storia sacra in cui il destino del mondo e dell’u­ manità sono la stessa cosa, irrompono dappertutto, senza che se ne possa attribuire la creazione a un territorio dato [...], e si rivestono di scene, figure e nomi prodigiosi [...]. Il tempo magico, Torà’, conferi­ sce alla vita un ritmo nuovo»6. Invece tra Atene e Roma, secondo Spengler, «l’immagine della storia (...) si concentra nel puro presente» e finisce per contenere «un essere, non un divenire in senso proprio». Il greco disconosce, in larga misura,

♦ E. Norden, A. Giesecke, Geleitwort a Verni Allertimi zur Gegenwart. Die Kidturzusammenhange in den Hauptepochen und auf den Hauptgebiete, 2. Aulì., Leipzig u. Berlin, Teubner 1921, p. vii; Norden, Die Geburt cit., p. 32. Nel redigere questa consi­ derazione, Norden tiene senz'altro presente una pagina dell’opera di cui sta parlando. Nell'ambito delle civiltà classiche - così Spengler - viene meno, a seguito dall'irrigidirsi del -puro presente», il senso delle inquietudini e degli sconvolgimenti del tempo che scorre; i miti delle grandi civiltà orientali rinviano invece ad «una storia che si possa abbracciare con lo sguardo, con un inizio e una fine del mondo che, ad un tempo, sono il principio e la fine dell’umanità» e delimitano lo scenario su cui avviene «la lotta della luce contro le tenebre», degli spiriti divini contro le forze malvagie, «lotta nella quale l'uomo è coinvolto come spirito e come anima» (S-UA, p. 849; tr. it. p. 1000). ' S-UA, pp. 807 e 862; tr. it. pp. 954 e 1014. * Ibid., p. 863; tr. it. p. 1015.

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lo scorrere del tempo, mentre l’orientale scruta il mondo come l’insta­ bile scenario in cui avviene «la lotta della luce contro le tenebre, degli angeli [...] contro Ahriman, Satana, Iblis»7. Al sincretismo religioso orientale, ma non alla civiltà greco-romana, appartiene la convinzione che «tutto abbia ‘un tempo’, dall’avvento del redentore [...] fino alle più piccole incombenze quotidiane [...]. Si fonda su ciò anche la prima astrologia magica, in particolare quella caldaica». Simili punti di vista, che riscuotono il plauso di Norden, vengono svolti da Spengler attraverso stretti legami con la più rilevante ‘scien­ za storica’ dell’epoca. Il brano appena trascritto («che tutto abbia ‘un tempo’»), ad esempio, riprende fedelmente, senza che venga però in­ dicata la fonte, una pagina dello storico Eduard Meyer: «Le rappre­ sentazioni si spostano e si mescolano, racconti babilonesi ed egizi [...] possono aderire a divinità semitiche, persiane e dell’Asia minore [...]. La concezione caldaica di forze del destino che si manifestano nei pia­ neti, cioè la fede che tutto abbia un ‘tempo’ determinato e calcolabile, diventa patrimonio comune a tutti i popoli»8. Meyer, utilizzato con accortezza nel passo riportato, condivideva a sua volta molte tesi contenute nel Tramonto dell’occidente', aveva dife­ so, in più occasioni, il libro dagli attacchi, o dai silenzi ostili, del mondo universitario. Nel 1925, in particolare, lo storico aveva sottolineato il valore euristico dell’idea di ‘pseudomorfosi’ - un’«espressione felice», a suo giudizio, e un concetto assai utile per dar rilievo ai tortuosi pro­ cessi, assai frequenti, attraverso cui «una nuova evoluzione autoctona che tende a farsi avanti» assume forme spurie e riesce a esprimersi solo calandosi nel linguaggio di «una vigorosa civiltà straniera che grava sopra di essa». Egualmente convincenti gli apparivano le analisi spengleriane della «cultura magica», diffusa a partire dal Secondo secolo precristiano e racchiusa nel simbolo dello «spazio cosmico come in­ cavo vuoto», che riescono a offrire l’affresco articolato di «un’epoca specifica nell’evoluzione delle civiltà, diversa da tutte le altre»9.

7 Ibid., p. 849; tr. it. p. 1000. 8 Ibid., p. 847; tr. it. p. 998; E. Meyer, Geschichte des Altertums, III: Das Perscrreich und die Griechen. Erste Hàlfte: Bis zu den Friedenssdiliissen von 448 linci 446 v. Chr., Stuttgart, Cotta 1901, p. 172. Analoga formulazione, nella stessa opera, anche a p. 131. Cfr comunque Ecd. 3. ’ E. Meyer, Spenglers Untergang des Abendlandes, Berlin, Curtius 1925, pp. 15 e 16-7. Sui rapporti tra Spengler e Meyer, si veda A.M. Koktanek, Oswald Spengler in seiner Zeit, Miinchen, Beck 1968, pp. 348-50.

219 X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

Qualche anno più tardi, Hans Jonas apprezzerà Spengler come il «grande irregolare (Aufienseiter) della scienza», il «dilettante genia­ le» che interpreta con indubbio acume le speculazioni degli gnostici, offrendo nel secondo volume del Tramonto dell’occidente «quanto di meglio e di più convincente sia stato scritto sull’argomento». Per Jonas, gli apporti di Spengler riescono a cogliere - andando oltre Bousset - gli aspetti più originali, irriducibili a esperienze storiche precedenti, dei fermenti e dei nuovi ‘slanci’, che acquistano vigore nel mondo della tarda antichità: «Dove la ricerca più tradizionale vedeva solo storia passata, l’estinguersi di vecchie tradizioni, decadenza ed epilogo, egli notava - in mezzo a tutto ciò - inizio, creazione, divenire e futuro; dove quella scorgeva un caos di elementi senza connessione, già for­ matisi in precedenza [...], egli vedeva un principio nuovo, autonomo». La gnosi e le ‘commistioni’ ellenistiche - nella prospettiva di Spengler rivendicata da Jonas - più che la conclusione di una vicenda millena­ ria, costituiscono ['incipit di un nuovo ciclo storico. Solo dopo il Tra­ monto dell'occidente, in sostanza, si può tornare al tardo sincretismo religioso ‘orientale’ senza dover accettare, per ossequio all’accademia, una «incomprensibile diffidenza verso ogni originale spontaneità di quell’epoca». Da qui, nella monografia del 1934, un impegnativo rico­ noscimento di Jonas, studioso vicino a Bultmann e a Heidegger («Per quanto riguarda la comprensione dello gnosticismo [...], il nostro de­ bito è soprattutto nei confronti di Spengler»)10. Si deve poi ricordare, nel chiudere questa breve rassegna, la valuta­ zione dello stesso Heidegger. Il trattato spengleriano, nella sua ottica, manifesta «una rara superficialità di pensiero e una totale fragilità dei fondamenti»; eppure resta pur sempre un ‘monumento’ mirabile, por­ tato a termine grazie alla profusione «di uno splendido acume, di un’e­ norme erudizione, di un forte talento per la tipizzazione»11.

2. Alois Riegl e il ‘volere artistico’: i tratti più originali di un'epoca di decadenza Nel 1901 lo storico dell’arte Alois Riegl propone una ricostruzione complessiva dell’arte della tarda romanità, cercando al contempo di chiarire il primato del «volere artistico» (Kunstwollen) sull’evoluzione

M Jonas, Gnosis und spiitantiker Geist cit.» pp. 73-4 e 48. " H-PARM, p. 82; ir. it. pp. 117-8.

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degli strumenti e delle tecniche. Il suo lavoro si propone di richiamare all’attenzione un periodo storico che restava ancora «un territorio del tutto inesplorato», un «continente misterioso sulla carta delle ricerche storico-artistiche», privo di dignità scientifica e ancora incerto, per gli studiosi, nel «suo nome e [nei] suoi confini». L’intento era anche quel­ lo di mostrare quanto fosse inadeguata l’idea di ‘storia dell’arte’ difesa da Gottfried Semper («un dogma della metafisica materialistica») che stabiliva strette connessioni tra il progredire del ‘gusto’ e degli orienta­ menti estetici e il perfezionamento o la decadenza degli attrezzi da la­ voro e dei materiali a disposizione dell’artista. In realtà, il ‘positivismo’ di Semper ‘spiega’ in termini «meccanici» il risultato artistico, secondo Riegl, trascurando il Kunstwollen di un’epoca, mutevole ed aperto ad esigenze diverse di secolo in secolo, il quale determina la formazione dell’opera d’arte e «si impone in una lotta con l’uso a cui è destinata, il materiale utilizzato e la tecnica». Le innovazioni nel lavoro artigianale e l’abbondanza o penuria di materie prime costituiscono, in quest’otti­ ca, soltanto un fattore «frenante, negativo: essi sono i coefficienti d’at­ trito nel prodotto complessivo»12. L’arte del periodo successivo all’età di Augusto e di Traiano, che presenta forme ormai estranee ai parametri della classicità, distinte da fattezze rozze, disarmoniche e ‘primitive’, non deve venir valutata, per Riegl, come processo di «imbarbarimento», come «opera di decadenza (concetto che non esiste in realtà nella storia)». Ciò che sembra regres­ so o impoverimento, è piuttosto da intendere, in secoli di transizione, come individuazione di nuove esigenze, ricerca rivolta a ‘rappresenta­ re’ ciò che in precedenza non veniva nemmeno intravisto. Nell’età di Costantino, l’arte comincia ad affrancarsi dalla ‘spazialità corporea’ e circoscritta del mondo classico, sperimentando nuovi modi espressivi, più vicini al «pensiero dell’infinità e dell’incommensurabilità del libero spazio». In precedenza, in Grecia e nella Roma augustea, «l’arte antica doveva [...] negare e sopprimere deliberatamente l’esistenza dello spa­ zio», riconoscendo solo la corporeità, la pienezza di solidi che offrono resistenza al tatto. Nell’apparente ‘imbarbarimento’ estetico del Ter­ zo e del Quarto secolo, procede speditamente «l’emancipazione dello

12 Riegl, Spàtròmische Kunstindustrie cit., pp. 2-3 e 9; tr. il. pp. 4-5 e 10. W. Wor-

ringer, che deve molto al Kunstwollen di Riegl, ne riprende il concetto nei seguenti termini: in epoche che sembrano segnate da ‘arresto’ e decadenza artistica, «non si

riusciva a fare niente di diverso, per il fatto che non si voleva niente di diverso» (Abstraklion und Einfiihlung cit., p. 138).

ni

X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

spazio». Nell’architettura come nella scultura e nei motivi decorativi, l’arte tardo-romana mostra un crescente «isolamento delle singole for­ me rispetto alla superficie di fondo»: acquista rilievo una spazialità che travalica i corpi e le figure, e quindi artisti e artigiani accentuano le linee di contorno, le separazioni, il giuoco delle ombre13. All’inizio del Quarto secolo, le figure nei rilievi dell’arco di Costan­ tino, «per un verso deformi, per un altro goffe e immobili», risultano non da scarsa abilità nello scolpire la pietra, quanto piuttosto dall’in­ tento di potenziare la «vitalità» - non dei singoli corpi, bensì dello spa­ zio nel suo insieme - attraverso un indistinto e «movimentato scambio di chiaro e scuro, il cui effetto si manifesta solamente a chi guarda da lontano». Adesso non interessano più bassorilievi che abbiano, secon­ do l’indiscusso canone estetico degli antichi, «una evidente coesione tattile tra figura e piano di fondo», ottenuta «immediatamente o attra­ verso l’interposizione di figure intermedie». Gli sforzi si concentrano piuttosto sulla possibilità di raffigurare, per mezzo dei tratti irrigiditi e delle cesure accentuate, «uno spazio che separa rigidamente le forme tra di loro, invece di unirle»: questo modo di contrastare la «soppres­ sione della spazialità» tridimensionale, usuale nell’arte greco-romana, non è certo l’opera di maestranze incompetenti14.

3. Scolpire lo sguardo, scrutare rinfittito Un passaggio cruciale, nello svolgimento delle tesi di Riegl, è rap­ presentato dallo studio dei busti imperiali tra Marco Aurelio e Setti­ mio Severo. Il pieno sovvertimento dello ‘spazio antico’ si coglie, nelle raccolte dei musei vaticani, nei volti e negli sguardi. La volontà di ‘dar conto’ delle prospettive impone drastiche innovazioni nelle tecniche di lavorazione: adesso, per la prima volta, si ricorre al trapano per in­ cidere la pupilla (trascurata nella statuaria greca o colorata in un se­ condo momento), e in questo modo si riesce a ‘restituire’ un modo di guardare che abbia profondità, risultando orientato verso un punto preciso. Con la nuova tecnica a traforo, l’attenzione rivolta a relazioni

” Riegl, Spdtròniische Kunstindustrie di., pp. 20,11,26,27,48 e 71; tr. it. pp. 19,12,

27,28,44 c 61. L'arte greca, conclude Riegl, si era sempre sforzata di «eliminare ogni

raffigurazione della profondità spaziale posta dietro la superficie visibile della singola forma» (ibid. p. 100; tr. it. p. 86). “ Ibid., pp. 90-1,88,92 e 99; tr. it. pp. 78, 76, 80 e 85.

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spaziali fino a quel momento trascurate si manifesta anche sul piano dell’interazione tra opera e spettatore: «Le pupille incise hanno un loro pieno significato soltanto se considerate da lontano, quando produ­ cono un effetto cromatico». Inoltre, statue e ritratti dell’epoca, se non ostentano più «uno sguardo indifferente, puramente materiale, privo di direzione», esprimono il nuovo valore deH’interiorità: «La pupilla incisa rinvia a un determinato linguaggio oculare, cioè a una comuni­ cazione diretta tra interno ed esterno». Questi volti imperiali, nel loro rigido modo di scrutare in avanti, sono ben consapevoli di prospettive che travalicano la datità dei corpi, e quindi insegnano che «allo sguar­ do deve venir impressa una direzione determinata, cioè un movimen­ to spaziale». La messa in discussione dello ‘spazio corporeo’, evidente nell’architettura e nei bassorilievi dell’epoca, si ripresenta così anche nella serie dei ritratti imperiali15. Queste pagine del lavoro di Riegl, dedicate a un mutamento cruciale dell’antico ‘senso dello spazio’, incidono profondamente nella filosofia spengleriana della storia. Le vicende legate alla ‘scoperta’ dello ‘sguar­ do’ diventano, nel Tramonto dell’occidente, un paradigma ripreso in più occasioni. A una nuova prontezza nel mettere a fuoco le distanze si associa, anche secondo Spengler, la ‘rivelazione’ dell’interiorità: nelle statue ro-

15 Ibid., pp. 133-4; tr. it p. 112. Il libro di Riegl sarà definito da Walter Benjamin nel

1929 “un’opera di importanza storica», scritta «con profetica sicurezza», che interpreta magistralmente le arti plastiche e figurative della Roma imperiale, riuscendo comun­ que anche ad anticipare «la sensibilità stilistica e le intuizioni di quell’espressionismo

che sarebbe sorto di li a ventanni» (W. Benjamin, Libri che sono rimasti attuali, in

Ombre corte. Scritti 1928-29, Torino, Einaudi 1993, pp. 335-6). In una pagina dell’anno precedente, Benjamin aveva ammesso che il Dramma barocco tedesco era collegato sia a Cari Schmitt sia alle «idee metodologiche sviluppate da Alois Riegl nella sua teoria

del ‘volere artistico’» (Curriculum 2,1928 in Id., Ombre corte cit., p. 9). Anche Scheler, nel corso degli anni ’IO, riprende il tema del Kunstwollen proposto da Riegl. La storia dell’arte, nota il filosofo, ammette ormai che «le forme stilistiche non sono determi­ nate - come riteneva Semper - solamente dai mutamenti nella tecnica e [...] da un diverso ‘poter fare’, ma che lo stesso ‘volere artistico’ si è trasformato in molti modi»;

la riflessione sull’etica dovrà imboccare lo stesso sentiero, a suo avviso, cominciando a comprendere, ad esempio, che «i Greci non erano privi di una civilizzazione tecnica

perché non potevano ‘ancora’ produrne alcuna, ma perché non volevano realizzarla»

(Das Ressentiment im Aufbau der Moralen, 1912, in Id., Vom Umsturz der Werte, in Id., Gesammelte Werke, III, Bern, Francke 1955, p. 69).

223 X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

mane, infatti, «grazie alle pupille forate degli occhi che fissano lontano, tutta l’espressione è sottratta al corpo e riposta in quel principio ‘pneu­ matico’ magico» comune al neoplatonismo, al cristianesimo, ai culti misterici16. L’età di Costantino, nel libro del 1918-22, diventa la grande ‘fucina’ in cui si prende commiato dagli antichi. In quest’epoca infatti è già stata compiuta la scelta tra ‘corporeità’ e prospettiva, suggerisce anche Spengler, e si è già deciso se concentrare prevalentemente l’«espressione nella disposizione delle parti corporee o nello ‘sguardo’». Si impongono, d’altro canto, rilevanti innovazioni tecniche - e tutta­ via non sono queste a costituire l’impulso decisivo da cui proviene il nuovo stile imperiale, dato che dipendono, a loro volta, dalla volontà di negare «il sentimento euclideo di fronte alla pietra», l’attaccamento antico’ alla pienezza di corpi e sostanze. Trova spazio, anche in que­ sto libro, l’analisi dei rivolgimenti tecnologici - dapprima indagati da Riegl - legati all’affermarsi di una nuova mentalità: «L’aspetto cor­ poreo, la materialità del blocco di marmo, viene esaltato dal lavoro a scalpello, che dà risalto alle superfici liminari, mentre viene negato dal trapano, che rompe tali superfici creando effetti di chiaro e scuro»17.

16 S-UA, pp. 280-1 ; tr. it. p. 330. A questo passo si deve accostare, assieme a rifles­ sioni già citate (nella precedente nota 15), la seguente pagina di Riegl (Spàtròmische Kunstindustrie cit., p. 212; tr. it. p. 162): «l’arte tardo-romana non solo non volle sop­ primere il significato dell’occhio come mezzo per risvegliare nell’osservatore il ricor­ do dell’intima vita spirituale dell’uomo, ma anzi al contrario intese accentuarla con maggior forza ed evidenza di quanto non si fosse mai pensato prima»; lo sguardo nei busti del Quarto secolo («questi occhi fortemente incavati») assume un rilievo in pre­ cedenza sconosciuto, «così come nell’uomo vivente l’anima, della quale l’occhio funge da specchio, è più importante, secondo la concezione lardo-pagana e cristiana, della corporeità materiale». 17 S-UA, p. 280; tr. it. p. 329. In una successiva considerazione, Spengler riprende il tema, ricavato da Riegl, del passaggio dallo ‘scalpello’ al ‘trapano’ come conferma dell’awenuta ‘rottura’ delle prospettive classiche: «Nella tarda antichità abbiamo un miscuglio di ellenismo e di magia [...). Lo studioso deve esaminare linea per linea, or­ namento per ornamento, |...| per poter distinguere i due strati [...]. L’interpenetrarsi del sentimento di forma del tardo ellenismo con quello della prima civiltà araba crea ovunque un senso di confusione, come [...] nelle foglie di acanto spesso di uno stesso fregio dove il lavoro dello scalpello e quello del trapano stanno l’uno vicino all’altro» (S UA, p. 275; tr. il. p. 323). Anche a proposito di un diverso trattamento dei drappeggi (•Le vesti acquistano un senso del tutto nuovo»: S-UA, p. 280; tr. it. p. 329), Spen­ gler segue Riegl: «nel drappeggio classico, l’occhio è attirato per lo più dai meandri

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Mondo classico e civiltà europea

In una parte successiva del testo, Spengler offre un’altra parafra­ si dell’indagine di Riegl, prendendo in considerazione i «ritratti del tempo di Costantino, con gli occhi sbarrati che fissano nell’infinito»18. Più avanti, nella pagina del Tramonto dell’occidente forse più notevo­ le tra quelle che si appoggiano all’Arte tardo-romana, la descrizione della staticità dell’antico «sentimento apollineo della vita» ripropone il tema dello ‘sguardo’ e del modo di ‘farsi incontro’ alla spazialità. Una «statua attica», viene fatto notare, vale come simbolo di un «perfetto corpo euclideo, atemporale, irrelato, assolutamente chiuso in sé». Essa non «cerca un rapporto con lo spettatore», resta «muta» e nemmeno presenta «uno sguardo». Tra il Terzo e il Quarto secolo, a Roma l’«arte magica» inizia a fare i conti con lo ‘spazio aperto’ e ‘vuoto’ che sfugge alle ristrettezze dei corpi solidi: «Gli occhi delle statue e dei ritratti di stile costantiniano, grandi e fissi, ora si dirigono sullo spettatore [...]. Il mondo antico aveva formato cieco l’occhio; adesso la pupilla viene traforata e l’occhio, innaturalmente grande, si volge verso lo spazio, [...] inesistente nell’arte attica». Nella stessa pagina, il fastidio per gli ‘spazi chiusi’ e angusti della tradizione greco-romana, per atmosfere soffocanti che avvolgono il singolo come una ‘cappa’ densa e quasi ‘corporea’ da cui non ci si può liberare, trova un secondo simbolo di notevole suggestione. Negli affreschi degli antichi, scrive Spengler, «le teste erano rivolte luna verso l’altra», mentre «nei mosaici di Raven­ na e già nei bassorilievi dei sarcofaghi cristiani primitivi e della tarda romanità, esse sono rivolte tutte verso l’osservatore, che fissano col loro sguardo spiritualizzato». L’antico horror vacui è definitivamente scomparso: questi volti non mostrano alcun segno di agorafobia, non si rinchiudono in un giuoco opprimente di sguardi incrociati, ma rie­ scono a fissare lontane linee d’orizzonte e si esercitano in «una pene­ trante e misteriosa azione a distanza, del tutto estranea all’antichità»19. Nel discutere simili argomenti (mosaici ravennati, urne funerarie e

illuminati delle pieghe» e coglie la pienezza del tutto, «in diretto contrasto coi rilievi costantiniani, dove nelle figure ammantate l’occhio percepisce anzitutto le scure strisce divisorie tra le pieghe» (Spàtròmische Kunstindustrie cit„ p. 103; tr. it. p. 89). Il 'debito’ di Spengler in rapporto allo storico dell’arte risulta infine chiaro a proposito del modo di scolpire i capelli («spesso soltanto il modo di trattare la capigliatura appartiene alla

nuova maniera di esprimersi»: S-UA, p. 275; tr. it. p. 323), altro particolare trattato con competenza da Riegl (cfr. ad esempio p. 89).

“ S-UA, pp. 390-1; tr.it. p. 459.

'♦ S-UA, pp. 423-4; tr. it p. 496.

225 x- Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

sarcofaghi) la «morfologia storica» spengleriana torna a riproporre, senza darne conto, i risultati dell’indagine pubblicata da Riegi del 1901. Quel testo discorreva infatti anche dei mosaici e dei fregi sui sepol­ cri in cui si impone, a un dato momento, un’inedita «spazializzazione (Verràumlichung) della figura [...] attraverso il repentino volgersi ver­ so lo spettatore e attraverso il balzar fuori dalla profondità». L’intera analisi, così impostata, trovava poi l’illustrazione più efficace proprio nei mosaici ravennati del Sesto secolo: «le figure, tutte di fronte, escono dallo spazio verso lo spettatore e lo fissano con sguardi diritti». D’altro canto - prosegue il testo - già nei due secoli precedenti, su bassorilievi e lastre funerarie gli uomini erano venuti a «trovarsi in innumerevoli relazioni col mondo esterno»: in omaggio al nuovo canone estetico, «la maggior parte delle figure si presenta [... ] in posizione frontale rispetto allo spettatore: esse sporgono di tre quarti o totalmente dallo spazio»20. La ‘nuova’ spazialità che si emancipa dai ‘vincoli’ del mondo classico viene ‘esibita’ anche grazie a un particolare effetto cromatico. Scrive Spengler, richiamando tra l’altro i mosaici bizantini di Ravenna: «L’ar­ te araba espresse il sentimento magico del mondo mediante lo sfondo dorato dei suoi mosaici e delle sue tavole dipinte». Le dorature nelle miniature e nei mosaici, «questo sfondo ieratico e misterioso», riesco­ no ad attenuare, a ‘mortificare’ - secondo la tesi spengleriana - la cor­ poreità degli oggetti. Gli scenari creati «per mezzo di un fondo dorato, cioè [...] qualcosa che sta di là da ogni colorazione naturale», sgreto­ lano la datità, la concretezza delle figure raffigurate: «L’oro rilucente toglie alla scena, alla vita, ai corpi, il loro essere tangibile»21. Quanto notato da Spengler era stato anticipato da Riegi, che nel libro del 1901 aveva inserito quasi una sorta di ‘simbolica’ delle impressioni cromatiche. La «nuova sensibilità ‘non classica’ del mondo tardo-ro­ mano» si annuncia, tra l’altro, nella doratura dei fondali, che impedi­ sce di ricadere nella finzione dello ‘spazio pieno’: «11 fondo d’oro dei mosaici bizantini (...) esclude in generale lo sfondo», e apre le vie che condurranno alla «profondità» dei moderni, dato che «ha liberato la singola figura dal piano, e con ciò ha superato la finzione di una super­ ficie originaria che in sé genera ogni cosa»22.

» Riegi.,Spàlrontische Kunstindustrie cit., pp. 249,251,248,246; tr. it. pp. 190,1912,190,189. Sui sarcofaghi, cfr. ibid., pp. 139-52; tr. it. pp. 115-26. 21 S-UA.pp. 320-1; tr. it. pp. 375-6. 22 Riegi., Spiitròniische Kunstindustrie cit., pp. 15 e 14; tr. it. pp. 15 e 14. Le tesi di Riegi circa l’incondizionata aderenza al «piano» dell’arte antica lasciano tracce assai vi-

226 Mondo classico e civiltà europea

A1 termine dell’indagine, Riegl accenna al «volgersi alla magia nella tarda antichità» e sfiora il problema deU’«intimo nesso» tra il Kunstwollen e i corrispondenti «voleri» che prendono possesso, nella stessa epoca, della religione o della sfera politica. Quando si esaurisce il ciclo dell’«uomo antico (che) scorgeva nel mondo soltanto forme conchiu­ se», estetica e religione sono poste di fronte alle medesime questioni. Le nuove tendenze artistiche («isolamento della forma singola», sua emancipazione dalla ‘superficie’) vanno di pari passi con l’inclinazione ad esaltare, sul piano religioso, l’unicità dell’individuo, inserito adesso in «una specie diversa di relazioni - la magia - che ha trovato la sua espressione in tutto il mondo tardo pagano e protocristiano, nel neo­ platonismo e nei culti sincretistìci»23.

4. JosefStrzygowski egli spazi ‘magici’ della tarda antichità

Spengler, se riesce a legarsi alle conclusioni di Riegl con indubbia pe­ rizia, tenendosi lontano dalle imprecisioni e dagli eccessi del dilettante, impara al contempo dagli storici dell’arte a fare i conti col «linguaggio delle forme» (Formensprache') per interpretare i grandi rivolgimenti storici del passato. Anche nel Tramonto dell’occidente si parla di «volere artistico», in un luogo in cui Riegl non è nominato, e si riprende quanto veniva no­ tato nell’Arte tardo-romana a proposito di Semper e delle sue ‘angu­ stie’ di derivazione positivistica: «Lo stile non è il risultato di materiale, tecnica e scopo, come pensava uno spirito superficiale come Semper, degno compagno di Darwin e del materialismo. Esso è invece (...) una misteriosa necessità, un destino»24. Al nome di Riegl si affianca, in un’altra pagina della ricerca spen-

sibili in Spengler. Le analisi deU’Arte tardo-romana indicate in precedenza (nota 20) ri­ affiorano nella seguente osservazione: «Il bassorilievo antico, in termini rigorosamente stereometrici, è affidato alla superficie. Vi è un ‘tra’ le figure, ma nessuna profondità» (SUA, p. 236; tr. it. p. 279). 23 Riegl, Spàtròmische Kunstindustrie cit., pp. 404, 401 e 402-3; tr. it. pp. 274,272, 273-4. 14 S-UA, p. 284; tr. it. p. 333. Si confronti, per Riegl, la precedente nota 12. Scrive

ancora Spengler: «Se un’arte ha dei confini (...], tali confini sono di ordine storico e non tecnico o fisiologico» (ibid., p. 285; tr. it. p. 334). Per il termine Kunstwollen in Spengler, cfr. inoltre S-UA, pp. 306 e 345; tr. it. pp. 359 e 404.

227 X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

gleriana» quello di Josef Strzygowski, altro studioso viennese di storia dell’arte, dai cui libri vengono ripresi motivi di notevole interesse. En­ trambi gli storici, estranei al formalismo estetico di Wòlflin, preoccu­ pati di inserire l’interpretazione dell’opera artistica in una più ampia cornice di ‘storia delle idee’, forniscono indispensabili punti d’appog­ gio per indagare le metamorfosi che investono i «simboli originari» al momento del declino dell’antichità classica. Nella filosofia della storia ricostruita da Spengler, i passaggi di ci­ viltà si presentano in primo luogo nel diverso modo di ‘vivere’ e di esprimere’ la spazialità. Greci e Romani - si ribadisce con insistenza nel Tramonto dell’occidente - non sapevano circoscrivere lo spazio. Nei primi secoli della cristianità, invece, archi e cupole, sempre più frequenti, rivelano l’insorgere di un ‘sentire’ che infrange le rigidità e i limiti della cultura greco-romana: «Tutta l’architettura antica comin­ cia dall’esterno, quella occidentale dall’interno». Mitrei, catacombe e basiliche cristiane esprimono modi di ‘organizzare’ lo spazio - e anche di ‘ripensare’ le forme di convivenza tra gli uomini - in precedenza del tutto sconosciuti: si annuncia un nuovo «linguaggio delle forme, nel crepuscolo simile a una cripta, [che] esiste soltanto per la comunità». La scoperta di nuove relazioni spaziali e il diffondersi di un nuovo sen­ so religioso (la «religiosità magica») sono per Spengler processi stret­ tamente legati. Il superamento dell’antico vincolo ‘corporeo’ equivale alla conquista di un nuovo, sorprendente dinamismo: «Il corpo possie­ de parti, nello spazio si svolgono processi». La spazialità «magica» che ne risulta si definisce come un insieme prospettico, modellato da un principio unitario, sottomesso a un ‘significato’ che si irradia a partire da un punto determinato. Spengler illustra quest’idea, in un brano che sarà soppresso nell’edizione definitiva, servendosi di un caso partico­ larmente eloquente: «La prospettiva magica ‘rovesciata’ si mostra in tutta la sua chiarezza, tra gli esempi rimasti, nell’obelisco di Teodosio a Costantinopoli: la figura di maggiori dimensioni è quella più distante dall’osservatore, quella di proporzioni minori è la più vicina - in con­ siderazione del fatto che la figura dell’imperatore domina lo spazio e a partire da lui viene avvertilo l’ordine»25. Quando la spazialità, come nel monumento appena ricordato, non coincide più con la ‘pienezza corporea’, si impone un diverso «sim­ bolismo spaziale» e acquista preminenza il «sentimento della cavità»

3 S-UA, pp. 270,288 c 389; tr. it. pp. 318, 338 e 457; S-UA 1, p. 472. Sul concetto di Unymbol in Spengler cfr. S-UA, p. 233; tr. it. p 276.

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Mondo classico e civiltà europea

(Hòhlengefiìhl), che risulta dall’esperienza «magica» della «profondità» racchiusa all’interno di uno spazio circoscritto e tridimensionale. Nel parlare di cripte, di spazi chiusi da soffitti a sezione semicircolare e di altre strutture architettoniche sconosciute agli antichi («Le convessità magiche, siano cupole o volte»)26, Spengler segue fedelmente quanto veniva proponendo Strzygowski nei suoi scritti. Le tesi dello storico dell’arte, che godevano all’epoca di un certo prestigio, riproponevano un marcato ‘anticlassicismo’ e insistevano sull’importanza per la storia europea di forme architettoniche (cupole, volte, archi, soffitti a botte e costruzioni a croce greca) sorte al di fuori del bacino mediterraneo. A partire dalla Siria, ma anche dall’Armenia del Terzo e del Quarto secolo, permeata in profondità dalla fede in Cristo, penetra in Occi­ dente una «sensibilità assolutamente nuova nel costruire». Nell’età di Costantino, l’architettura cristiana mostra in Occidente i segni di una profonda decadenza, mentre in terra armena, dove il cristianesimo di­ venne ‘culto statale’ - ricorda Strzygowski - ancor prima che a Roma, le chiese sormontate da cupole rendono testimonianza di una straor­ dinaria fioritura artistica. In conseguenza di un pregiudizio difficile da scalzare, «gli studiosi (...) erano fermamente convinti, senza alcuna eccezione, che l’arte ar­ mena sia da comprendere soltanto come propaggine di quella bizan­ tina». L’effettivo percorso storico, per Strzygowski, è invece l’inverso: dalla regione delle sorgenti del Tigri e dell’Eufrate a Costantinopoli, e quindi all’architettura europea medioevale, e infine a Brunelleschi e a Leonardo, al Bramante e al Vignola27. Non nell’impero romano, ma nella lontana Armenia - si legge nel Tramonto dell’occidente - si sviluppa l’«architettura della cupola cen-

* S-UA, pp. 270, 236; tr. it. pp. 318, 280.

27 J. Strzygowski, Die bildende Kunst des Ostens, Leipzig, Klinkhardt 1916, pp. 31 e 34; Id., Die Baukunst derArmenier und Europa, Wien, Schroll 1918, pp. 745,713 sgg.

e 863 sgg. Il tempio greco, ricorda Io storico dell’arte in diverse occasioni, consena traccia evidente della sua iniziale struttura lignea, mentre volte e cupole rappresentano

la soluzione ideale in regioni in cui scarseggia il legname e si deve edificare ricorrendo all argilla essiccata. Era stato assai importante per Strzygowski il viaggio, compiuto nell’autunno del 1913, nelle contrade armene che facevano parte dell'impero russo. Si veda anche, per il metodo di ricerca proposto, J. Strzygowski, Das Kunsthistorische

Institut der Wiener Universitàt, *Die Geisteswissenschaften», 1, 1913, pp. 12-5. Strzy­ gowski è autore apprezzato da Cumont (Die orientalischen Religione» ini ròmischen Heidentum, 2. Aulì., Leipzig u. Berlin, Teubner 1914, p. 245).

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trale, con la quale il sentimento magico del mondo raggiunse la sua più pura espressione»28. Per Strzygowski, che pochi anni prima ave­ va pubblicato suH’argomento un contributo decisivo, «l’architettura a cupola di ogni genere viene dall’oriente» e di conseguenza «non si poteva finora chiarire la costruzione cristiana a cupola, dato che non si conosceva il suo luogo d’origine in Iran e in Armenia»29. La ‘nuova’ storia dell’arte, in definitiva, dovrà distaccarsi dagli usuali parametri umanistici («Nell’arte figurativa dobbiamo smettere di ragionare in termini [...] greco-romani»), per allargare il campo visivo e tornare così alle vie migratorie e alle antiche patrie della civiltà indoeuropea («India, Iran, Armenia e Ucraina»)30.

a S-UA, p. 272; tr. it. p. 321. Così prosegue la citazione: «Fu l’unica forma che i nestoriani diffusero dall’Armenia fino alla Cina, e che essi ebbero in comune con i manichei e con i mazdei» (ibid.). a Strzygowski, Die Baukunst cit., p. 745 (ma si veda anche Id., Die bildende Kunst cil.pp. 28 sgg). Sui nestoriani e sui mazdei (cfr. la precedente nota 28) si tenga presen­ te Id., Die Baukunst cit., pp. 629 sgg. e 648 sgg. Anche un altro passaggio in Spengler (-Nella Francia meridionale, ove ancora fino al tempo delle crociate esistettero sette manichee, la forma orientale divenne di casa»: S-UA, p. 273; tr. it. pp. 321-2) trova un preciso corrispondente nella monografia dello storico dell’arte (Die Baukunst cit., p. 742). E un richiamo alla chiesa di Germigny des Près si trova sia in Spengler (S-UA, p. 259; tr. iL p. 305) che in Strzygowski (Die Baukunst cit., pp. 766 sgg. e 867). w J. Strzygowski, Altai-Iran und Vòlkerwanderung, Leipzig, Hinrichs 1917, p. 238; Id., Die bildende Kunst cit., p. 77. Sull’argomento cfr. anche Id., Kleinasien. Ein Neuland der Kunstgeschichte, Leipzig, Hinrichs 1903. L’autore, in quest’ultimo libro, insiste sulla «parentela tra le costruzioni protocristiane della Siria e quelle romaniche dell'occidente» e si propone di «aiutare l’Oriente a far riconoscere il suo ruolo deci­ sivo nell’evoluzione dell’arte tardo-antica e cristiana». Inoltre, tenendo presente Harnack,chc intendeva la gnosi come «acuta cllenizzazione» del cristianesimo, lo storico dellarte discorre di «un’acuta orientalizzazione dell’arte (...) tardo-antica» (ibid., pp. 206,234 e 183). Quando Spengler parla di «spazio magico», nel secondo volume del Tramonto dell’occidente, rinvia a un’opera di L. Frobenius, Paideuma. Unirisse einer Kultur- und Seelenlehre, Munchen, Beck 1921 (S-UA, p. 840; tr it. pp. 990 e 1451). Gli interpreti sottolineano spesso, a partire da questa citazione, l’importanza di Fro­ benius nell’opera spengleriana. In realtà, il richiamo è meno significativo di quanto sembri. Per il tema dello «spazio magico» e del «mondo come cavità», Strzygowski offre a Spengler suggerimenti molto più suggestivi. Del resto, è lo stesso Frobenius, nel suo libro, ad appoggiarsi al primo volume del Tramonto dell’occidente, riconoscendo

230 Mondo classico e civiltà europea

5. Cripte, archi e cupole tra l’Armenia ed Antiochia: la grammatica delle forme artistiche Per Spengler, la cupola ‘armena’, diffusa in terra europea tra Me­ dioevo e Rinascimento, riesce ad affermare il pieno «superamento del principio antico del peso naturale, quale si esprime nel rapporto fra colonne e architrave»31. Al suo interno racchiude lo «spazio magico», che trova un altro pregnante simbolo architettonico nel «collegamen­ to dell’arco circolare e della colonna, [...] una creazione siriaca [...] del terzo secolo». I Greci si servivano della «colonna monolitica» - la «più potente» espressione dell’«esistenza euclidea nel suo essere tutto corpo, tutta unità e quiete» - e facendone il sostegno dell’architrave suggerivano l’idea di un solido «equilibrio fra verticale e orizzontale, fra forza e carico». Invece il nuovo «simbolismo» spaziale, rinunciando all’architrave, vuole ottenere una «negazione del principio corporeo del carico e dell’inerzia», della pesantezza e dell’impenetrabilità dei so­ lidi32. Questo giuoco di complessioni ‘smaterializzate’ che ignorano la gravità - l’unità dell’arco e della colonna - sovverte il «linguaggio delle forme» del mondo greco-romano, anche se a partire dal Rinascimen­ to, conclude Spengler, viene sempre paradossalmente riproposto come paradigma della classicità33. La ripartizione proposta da Spengler (colonna e architrave come «principio apollineo», colonna e arco come «principio magico») risa-

esplicitamente il suo debito (Paideuma cit., pp. 11,92 e 121 in particolare). Sul concet­ to di Welthòhle in Frobenius, cfr. ibid., pp. 90-102.

” S-UA. p. 258; tr. it p. 303. Il tema si traduce, in Spengler, in una ulteriore denun­ cia delle ristrettezze della grecità: «L’architettura greca co) suo equilibrio tra carico e

sostegno {...] dà l’impressione di una continua fuga da difficili problemi architettonici» (S-UA, p. 264; tr. it p. 310). }2 S-UA, pp. 839 e 278; tr. it. pp. 990-1 e 327.

” «Risulta decisivo il fatto che il motivo che doniina addirittura il Rinascimento (...], cioè la connessione fra arco a tutto sesto e colonna [...], è inesistente nello stile antico e rappresenta piuttosto il motivo guida dell’architettura magica, sorto in Si­

ria* (S-UA, p. 304; tr. it p. 356). Questo tenace fraintendimento, per cui un elemen­

to estraneo, ‘orientale’ nella sua origine, diventa la quintessenza delle radici classiche dell’Europa, affascina Spengler e viene riproposto nel Tramonto dell’occidente in più

occasioni: cfr. tra l’altro S-UA, p. 274; tr. it. p. 322. Nell’ottica spengleriana, «credere alla rinascita di una qualche arte antica nell'occidente del quindicesimo secolo», non è altro che una rassicurante illusione (S-UA, p. 288; tr. it. p. 337).

23i

X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

le chiaramente a Strzygowski. Infatti, lo storico dell’arte aveva richia­ mato l’attenzione, in chiave ‘anticlassica’, sulla «storia della colonna e della trave, del pilastro e dell’arco». In terra greca - queste le sue conclusioni - si ricorreva all’architrave sostenuto da colonne, in Iran l’arcata del soffitto poggiava direttamente sulle pareti laterali, e solo nelle contrade orientali della Siria avvenne l’incontro - in seguito rin­ tracciabile ovunque - tra pilastri o colonne e archi, come già risulta, tra il terzo e il quarto secolo, nel palazzo di Diocleziano, «con la sua chiara impronta siriana»34. La provenienza ‘siriana’ delle strutture architettoniche basate sull’u­ nione di arco e colonna, era stata messa in luce anche da Oskar Wulff, un autore noto a Spengler e impegnato in ricerche non distanti, come impostazione, da quelle di Strzygowski: nel dispiegarsi della più antica arte cristiana, le influenze più rilevanti provengono, secondo le con­ clusioni di quest’ultimo studioso, da «Antiochia, che nel quarto secolo era addirittura la seconda metropoli della metà orientale dell’Impero romano [...]. Verso la fine del terzo secolo si era già imposto [...] lo schema architettonico basilicale, forse a partire da queste zone o in Asia minore, nell’edificazione, allora in pieno sviluppo, delle chiese». A Wulff pare assai verosimile che «anche la basilica [...] si sia imposta in Siria nel corso del quarto secolo come nuovo e autonomo tipo archi­ tettonico. Il collegamento tra colonna e arco, all’inizio senza capitello, domina già la costruzione». L’esempio delle basiliche e degli archi, che si diffondono dapprima in terra siriana, per trionfare poi nell’architettura religiosa in Occidente, può confermare un assunto decisivo della spengleriana filosofia della storia: il passaggio dal mondo antico al cristianesimo non si svolge af­ fatto come svolgimento graduale, in un quadro di sostanziale continu­ ità’5. Agli albori della nuova èra, il «linguaggio delle forme» si impegna

M S-UA, p. 279; tr. it. p. 328; J. Strzygowski, Ursprung der christlichen Kirchenkunst, Leipzig, Hinrich 1920, pp. 9 e 123-4; Id., Die Baukunst cit., p. 867. Nelle riflessio­ ni di Spengler (cfr. le precedenti note 31 e 32) è probabilmente tenuta presente anche un'annotazione di Riegl: «nell’architrave diritto, poggiante su due sostegni, il rapporto tra forza e peso viene ricondotto alla sua espressione più [...] semplice, di un effetto chiame immediato. Invece il gioco delle forze nell’arco è nascosto, e si può compren­ dere [...1 soltanto per mezzo della riflessione spirituale e dell’esperienza» (Spdtrdmitche Kunstindustrie cit., p. 46; tr. it. p. 43). » 0. Wulff, Altchristliche und byzantinische Kunst, I: Die altchristliche Kunst von ihren Anfiingen bis zur Mitte des ersten Jahrtausends (erste Auflage 1913), Berlin, Athe-

232 Mondo classico e civiltà europea

in una serie impressionante di ‘esperimenti’, per infrangere il «senti­ mento euclideo» degli antichi e la loro idea di spazialità, e per saggiare «le varie possibilità delle volte, delle cupole, delle volte tonde e [...] a crociera»36. L’Oriente mette a punto schemi architettonici, tra «il tem­ pio pagano di Mamion a Gaza» e il «Duomo di roccia a Gerusalem­ me», che in seguito si impongono ovunque in Europa37. Si tratta solo di

naion 1918, pp. 11 e 210-1. Per Spengler, d’altro canto, la stessa «pittura a mosaico-, nella prima arte cristiana, è di origine siriana (S-UA, p. 278; tr it. p. 326). Sarà il testo di Wulff, anche in rapporto a questo problema, a render plausibile la congettura spengleriana. È altamente probabile, si legge nel suo scritto, che l’evoluzione della «pittura a mosaico*, destinata con i suoi «sfondi dorati traslucidi [...] e pieni di luce» a sostituire raffresco, «prenda le mosse da Antiochia» (Wulff, Altchristliche und byzantinische Kunst cit., pp. 351-2). Wulff intende soprattutto illustrare, in questa monografia, la possente «forza artistica dell’oriente ellenistico, sul cui terreno germogliò l’arte cri­ stiana». Lo storico, quindi, discorre anche di artigiani siriani, di cui resta il segno nelle costruzioni trionfali, soprattutto nella parte orientale dell’impero ma anche nella co­ lonna di Traiano (ibid., pp. 160 e 163). E ritrova nell’arco di Costantino sia scultu­ re riconducibili alla tradizione siriana, sia rilievi presi da monumenti più antichi; a quest’ultima osservazione si collega Spengler nel parlare dell’«impotenza artistica che spinse Costantino ad adomare il suo arco di trionfo a Roma con sculture portate via da altri edifici» (ibid., p. 164; S-UA, p. 379; tr. it. p. 445). 36 S-UA, p. 272; tr.it. p. 321. ” S-UA, pp. 273 e 258; tr. it. pp. 321 e 304. Nel primo riferimento (Marniontempel in Gaza) è tenuto presente Wulff, Altchristliche und byzantinische Kunst cit., pp. 44 e 247; nel secondo (Felsendom in Jerusalem), viene seguito E. Diez (Die Kunst der islamischen Vòlker, Berlin, Athenaion 1917, p. 13), dove si descrive «il Duomo di pietra-, un edificio islamico di culto che «con la sua cupola dorata mandava i suoi riflessi su tutta Gerusalemme». Talvolta Spengler, spinto dal desiderio di accentuare le ombre dell’oriente che si proiettano sull’Europa, collega arbitrariamente i materiali ricavati dai testi di cui dispone. Un esempio di tale procedimento, peraltro abbastanza infre­ quente, cade proprio nell’ambito delle questioni affrontate adesso. Wulff, nel discorre­ re delle chiese paleocristiane, descriveva anche un tipo di basilica, nella regione siriana di Auran (Hawran), in cui lo spazio interno si articola attorno a una serie di pareti, attraversate da archi, poste trasversalmente rispetto alla direzione della navata centra­ le; in un altro capitolo, discuteva invece della pianta di S. Paolo fuori le Mura a Roma, con l’ampia navata trasversale in cui trova posto l’altare (Altchristliche und byzantini­ sche Kunst cit., pp. 215 e 237). Spengler riprende queste indicazioni, inserendole in un medesimo processo evolutivo - di cui non si trova traccia in Wulff - e affermando così il conio ‘orientale’ della basilica romana: «Da un modello di tempio proprio dell'Ara-

233 X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

decifrare i segni scolpiti, come ribadisce Spengler, nel «linguaggio della pietra», disposti in modo da comporre «una metafisica nella pietra, al cui fianco quella scritta [...] sembra un balbettio impotente»38. Nel «mondo magico», in cui l’Oriente si sovrappone all’eredità clas­ sica, lo spazio racchiuso nella «cripta» - descritto da Spengler anche grazie a Strzygowski - acquista valore come lo scenario della comples­ sa ‘vicenda cosmica’ e degli antagonismi che ne segnano il corso. Ar­ chi e volte racchiudono uno spazio prospettico, e tuttavia delimitato. Suggeriscono al credente l’idea di «una storia che si possa abbracciare con lo sguardo», con un «inizio del mondo» e una fine dei tempi. Gli spazi vuoti, all’interno dell’edificio sacro, rinviano così allo ‘scorrere’ del tempo, alla sequenza degli «atti di una magica potenza divina», al ripetersi della «lotta della luce contro le tenebre», di Dio contro le forze del male. Tra spazio e temporalità si stabilisce così, in questa civiltà protei­ forme e tuttavia omogenea, una corrispondenza profonda («il senti­ mento di questo tempo e lo spettacolo di questo spazio»)39. Si impara a non farsi rinchiudere entro la ‘corporeità’, e nemmeno entro le ras­ sicuranti certezze’ del presente. Le diverse religioni che condividono un’«analoga religiosità» (cristianesimo e manicheismo, parsismo, tar­ do ebraismo e culti misterici) si riconoscono pertanto «in un’analoga esperienza vissuta della profondità e in un corrispondente simbolismo dello spazio»40. E il «senso della cavità» (Hòhlengefuhl) da cui traggono ispirazione nasce anche da un’irrequietezza non più ‘antica’ di fronte all’inarrestabile avanzare e trasformarsi dei tempi. Le ‘speculazioni’ storiche di Spengler sono possibili, come risulta da un’attenta disamina delle sue fonti, grazie a ricerche che, dopo Riegl, non isolano più l’analisi delle creazioni artistiche, ma ne fanno il punto di partenza per comprendere trasformazioni epocali ben più ampie. L’estetica, che si prefigge ormai di illustrare il divenire della «volontà di forma», è destinata sempre più a entrare in contatto, a giudizio degli

bia meridionale deriva verosimilmente anche la basilica come edificio trasversale [...], quale si può vedere nell'Auran e che appare ben sviluppato nello spazio dell’altare sud­ diviso trasversalmente di S. Paolo a Roma» (S-UA, p. 273; tr. it. p. 1418). Anche l’altro

richiamo alla basilica di S. Paolo (S-UA, p. 272; tr. it. p. 320) trova in Wulffla sua fonte

(Allchriilliche unii byzantinische Kunst cit.» p. 237).

M S UA 1, p. 269; S-UA, p. 244; tr. it. p. 288. M S UA, pp. 849-50; tr. it. pp. 1000-1.

« S UA, p. 270; tr. it. p. 318.

234 Mondo classico e civiltà europea

storici del primo Novecento, con «quei mutamenti che si riflettono [...] nella storia evolutiva dei miti, delle religioni, dei sistemi filosofici, delle concezioni del mondo»41. La storia dell’arte, ammesso che sappia narrare le metamorfosi del «volere artistico», trova così degna collocazione tra l’antropologia e le altre discipline che riguardano la storia della civiltà. Nota Wilhelm Worringer, altro autore legato a Riegl: «Una psicologia del bisogno artistico [...] ancora non è scritta. Sarebbe una storia del sentimento del mondo e troverebbe posto, con identico valore, accanto alla storia delle religioni». Lo stesso enunciato, cioè il progetto di ricavare dal­ la storia dell’arte una ‘psicologia’ che ‘resta ancora da scrivere’, viene inserito da Spengler nel suo libro, con riferimenti lievemente diversi: «Non si sa pressoché nulla di una psicologia delle forme metafisiche fondamentali immanenti in ogni grande architettura [...]. La storia delle colonne ancora non è stata scritta»42. Negli stili e negli ornamenti, diversi di epoca in epoca, gli storici de­ vono riuscire a isolare, per Worringer, gli «elementi linguistici» (Sprachelemente) di una determinata «volontà di forma», che costituiscono «l’apriori della creazione artistica»: il loro compito è quello di chiarire «la grammatica del linguaggio artistico». La formulazione di Worrin­ ger incontra nuovamente il favore di Spengler e riaffiora in una pagina del Tramonto dell’occidente: «Esistono una grammatica e una sintassi del linguaggio delle forme di tutte le arti rigorose, con regole e leggi, con una logica interna e una tradizione»43.

6. Prospettive annullate, figure stilizzate e deformi, edifici irregolari Convinto che ogni civiltà si distingua per il modo di «riflettere sulla morte», Spengler nel Tramonto dell’occidente afferma: «lo stile [...] antico comincia con l’ornamento geometrico delle urne funerarie»44. Il

41 Worringer, Abstraktion und Einfuhlung cit., p. 11. 42 S-UA, p. 277; tr. it. p. 326; Worringer, Abstraktion und Einfuhlung cit., p. 14. Nel parlare di una «storia delle colonne», Spengler tiene innanzitutto presente quanto scrive Riegl sull’evoluzione del capitello (Stilfragen. Grundlegungen zu einer Geschichte der Ornamentik, Berlin, Siemens 1893, rist. anast. Hildesheim u. New York, Olms 1975, pp. 126 sgg. e 209 sgg. in particolare).

4i Worringer, Abstraktion undEinfuhlungcit., p. 42; S-UA, pp. 248-9; tr. it. p. 293. 44 S-UA, p. 215; tr. it. p. 256 (il passo, che dovrebbe trovarsi in questa pagina, risulta

235 X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

mondo greco, fin dalle sue origini, si porta dietro una tenace predile­ zione per ciò che può venir circoscritto, semplificato e quasi mortifi­ cato’: «La civiltà antica cominciò con una grandiosa rinuncia a un’arte che già esisteva, arte ricca, pittoresca, quasi troppo matura (iiberreifì (...]. All’arte minoica si contrappone fin dall’undicesimo secolo quella del primo periodo dorico col suo stile geometrico, arte immatura e limitata, [...] misera»45. Nella Grecia arcaica, secondo Spengler, si compie un’ampia corri­ spondenza tra tecniche espressive diverse, negli ornamenti e negli af­ freschi, nella plastica e nell’architettura, accomunate dagli sforzi per evitare il riconoscimento della profondità e delle distanze. Nei vasi di­ pinti, le figure mostrano «isolamento euclideo e autocompiacimento estetico». Nel tempio, lo spazio interno della cella è insignificante e privo di luce («un guscio dell’attimo in opposizione alle cupole ma­ giche»), mentre le colonne sottolineano la continuità ‘materiale’ col suolo («La colonna dorica sembra confitta nella terra»)46.

inspiegabilmente soppresso nell’edizione italiana). Nel testo del 1918, il brano era in realtà lievemente diverso: «ornamentistica dei vasi funerari» (S-UA 1, p. 215). 45 S-UA, p. 236; tr. it. p. 280. In S-UA 1 il testo è molto simile, e tuttavia non com­ pare il termine uberreif, bensì «estremamente complicata» (hòchst kompliziert). Ora, dopo aver dato alle stampe la prima edizione del libro, Spengler legge la monografia di Arnold von Salis e vi trova discusse le tesi di storici per i quali l’arte della civiltà minoica c micenea sarebbe da considerare «un anacronismo [...), un parto prematu­ ro», da cui emergono forme e stili che avrebbero dovuto presentarsi «a uno stadio di maturità (Reife) ben più tardo» (Die Kunst der Griechen, 2. Aulì., Leipzig, Hirzel 1922, p. 3. Del testo di Salis cito la seconda edizione, non avendo a disposizione la prima, uscita nel 1919 e utilizzata da Spengler per i suoi ‘indiretti’ richiami: ma le due edizioni sono pressoché identiche, ad eccezione di rari c quasi impercettibili ritocchi stilistici). Anche questo è un esempio notevole della meticolosità con cui Spengler» anche nel modificare un aggettivo, passa dalle letture intraprese alla composizione o alla revisio­ ne del suo testo. Nel secondo libro del Tramonto delTOccidente, alcune pagine sono inoltre dedicate alla civiltà minoico-micenea in rapporto alla successiva arte dorica (S UA, pp. 656-8; tr. it. pp. 771-4): tutti i motivi rielaborati in questo luogo vengono ripresi da K. Woermann, Geschichtc der Kunst aller Zeiten und Vòlker, I: Die Kunst der Urzeit. Die alle Kunst Agyptens, Westasiens und der Mittelmeerldnder, Leipzig u. Wien, Bibliographisches Institut 1915, pp. 192-200. * S-UA, pp. 192 e 235; tr. it. pp. 230 e 279. Le ‘cupole’ e gli archi ‘magici’ saranno quindi destinati a sgretolare «il simbolo del peripteros dorico, tutto corporeo e tale da poter essere abbracciato con un solo sguardo» (S-UA, p. 236; tr. it. p. 280). Per defi-

236 Mondo classico e civiltà europea

Le stesse figure umane, nella scultura, aderiscono con forza al ter­ reno, e la loro «saldezza» scaturisce dall’esser tutt’uno con l’elemento tellurico: «nelle sculture arcaiche le articolazioni (Gelenke) sono accen­ tuate in maniera esagerata, il piede è fatto poggiare con tutta quanta la pianta, e un lembo dell’orlo delle lunghe vesti drappeggiate viene tolto, appunto per evidenziare lo ‘star fermo’ del piede». Con quest’ultima osservazione, Spengler riprende due importanti passaggi del lavoro di Salis. Nel mondo arcaico - si può leggere nella sua monografia sull’arte greca - era consuetudine dello scultore dar rilievo al punto d’appoggio («nelle figure con lunghe vesti, il bordo anteriore vien tagliato, per po­ ter far vedere (...) almeno le dita o le punte dei calzari»). Quest’ideale di corporeità ‘tellurica’ si definisce - prosegue Salis - per mezzo di un simbolismo non difficile da decifrare: «Con un’intensità quasi esagera­ ta, vengono messi in rilievo quei punti, nel modellare [...] come nelle arti grafiche, in cui le parti si connettono tra di loro; l’articolazione del polso (Handgelenk) e il gomito, la rotula e il malleolo vengono ripro­ dotti con estrema coscienziosità»47. Questo particolare ‘espressioni-

nire l’estraneità al tempo della civiltà ellenica, viene ribadito, nel Tramonto dell’occi­

dente, che i Greci dell’età arcaica, nonostante l’esempio dell’architettura micenea, si servivano volentieri del legno nelle loro costruzioni. Uno spiccato «stile ligneo» è il tratto distintivo, per Spengler, delle colonne doriche. Del resto, prosegue il filosofo ri­ cavando assai probabilmente l’esempio da Woermann, «ancora al tempo di Pausania, si vedeva neìi’Heraion di Olimpia l’ultima colonna di legno non sostituita» (S-UA, p.

173; tr. it p. 208; Woermann, Geschichte der Kunst cit., p. 215). Spengler, in un altro passaggio, nota inoltre che «la colonna dorica può essere stata anche ripresa dai templi

del ‘Nuovo Regno’ egizio» (S-UA, p. 252; tr. it. p. 297). Woermann aveva presentato l’ipotesi come «non improbabile» (Geschichte der Kunst cit., p. 81 e 215), pur facendo riferimento a un’epoca diversa della storia egizia. Scrive ancora Woermann: «Nello

stile dorico si possono seguire più agevolmente i passaggi dall’edificio in legno a quello in pietra, e dalla colonna cretese e micenea a quella greca». L’idea che i greci abbiano ‘rinunciato’ alla ‘pietra’, affidando i loro templi, nell’età più antica, a un materiale de­ peribile come il legno, colpisce profondamente Spengler, che ne ricava l’emblema di

un aspetto decisivo del mondo ellenico: «la civiltà antica non ebbe una memoria [...). Questo puro presente, il cui massimo simbolo è la colonna dorica, rappresenta in effet­

ti una negazione del tempo (della direzione)» (Woermann, Geschichte der Kunst cit., p. 215; S- UA, p. 11 ; tr. it. p. 22).

47 S-UA, p. 236; tr. it. p. 279; Salis, Die Kunst der Griechen cit., p. 30. Il brano spengleriano adesso richiamato manca nella versione del 1918; anche tutte le altre pagine del Tramonto dell’occidente in cui resta traccia, a mio avviso, della lettura del libro di

zyj X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

sino’ arcaico, che trascura lo ‘spirito’ ed enfatizza il giuoco delle giun­ ture con cui l’organismo riesce a muoversi e ad afferrare oggetti, espri­ me pienamente ciò che intende Spengler quando inserisce il mondo greco nell’orizzonte del «sentimento euclideo» e della corporeità. Lo spazio ‘corporeo’ e impenetrabile dei Greci trova adeguata effigie nelle statue arcaiche dalle articolazioni eccessivamente rilevate, ma celebra il suo trionfo, a detta di Spengler, anche nella «stupenda corporeità» della scultura successiva («tutta [...] superficie piena d’espressione, senza alcun retropensiero immateriale»). La spazialità antica («L’elemento materiale, il delimitato in termi­ ni visibili, il tangibile, l’immediatamente presente») orienta anche la struttura del tempio greco, capace di imporsi come vero e proprio ‘or­ ganismo’, a dispetto dell’apparente rigore geometrico delle sue strut­ ture. Spengler, nello svolgere tale tema, descrive il continuo ‘oscillare’ e ‘rigonfiarsi’ di una costruzione che non presenta «all’esterno una sola linea retta» e finisce per smentire, se attentamente osservata, l’impressione complessiva di grande regolarità: «tutti i gradini delle scale hanno una lieve oscillazione (Schwingung) all’esterno, di grado diverso in ognuno di essi. I frontoni, il tetto, i fianchi sono incurva­ ti (geschwungeri). Ogni colonna presenta un leggero rigonfiamento (Schwellung) [...]. Così tutto il corpo del fabbricato ottiene qualcosa di misterioso, che gravita intorno a un centro. Le curvature sono tanto lievi che l’occhio, in certa misura, non può vederle, ma solo avvertirle. In questo modo l’orientamento in profondità viene soppresso. Lo stile gotico si tende (strebt), quello dorico oscilla (schwingt)». La descrizione di Spengler, così accurata nel dar rilievo a una delle tecniche più importanti per ‘negare’ le prospettive, segue fedelmente quanto aveva scritto Salis a proposito del Partenone, l’espressione forse più alta dell’«impressionante rivoluzione che avviene nel campo della visibilità [...] intorno alla metà del quinto secolo». La sua struttura, osserva lo storico dell’arte, racchiude «un’appassionata protesta con­ tro la severa rigidità delle leggi artistiche universalmente valide fino a quel momento». In quest’edificio infatti, progettato come un insieme di linee verticali e orizzontali che si incrociano a perpendicolo, «non vi sono più linee rette», ma continue impercettibili curvature: «Il rigon­ fiamento (Schwellung) del fusto delle colonne era da sempre presente, ma adesso la linea di contorno incurvata si estende anche ad altre parti

Salis, compaiono solo nella versione definitiva del 1922. Su A. von Salis cfr. la biografia in R. Lullies u. W. Schierino (eds.), Archaologenbildnisse, Mainz a. R., Zabern 1988.

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Mondo classico e civiltà europea

della costruzione. Il profilo del frontone non è [...] un vero triangolo [...]. Le colonne non sono precisamente a piombo, sono piuttosto in­ clinate verso l’interno [...]. Le linee perpendicolari vengono ovunque evitate E assai particolare è la curvatura di tutte le linee orizzon­ tali, in maniera da contrastare una rigidità priva di vita. La struttura a gradini del tempio si rigonfia (anschwillt) verso il centro, e anche le possenti linee orizzontali che si tendono sopra le colonne prendono parte all’oscillazione (Schwingung)»48. Da Salis, in sostanza, Spengler può imparare che l’arte dorica, fino al Partenone, ancora non aspirava a questa sottile «gioia per l’armo­ nia della piena rotondità»: il tempio di Zeus a Olimpia, ad esempio, non conosce ancora quel sistema di lievi curvature che «immettono nel corpo dell’edificio il calore della vita». La storia del «senso dello spazio» (Raumgefuhl) raccontata da Spen­ gler nella pagine del suo libro, trova quindi con Salis la possibilità di segnare, intorno al 450 a.C., un importante punto di svolta: «Verso la metà dei quinto secolo, notiamo linee che si ammorbidiscono ed acquistano fluidità, contorni che mostrano uno slancio sempre più au­ dace, e l’evoluzione spinge sempre più nella direzione di un completo annullamento della linearità matematica» ’9. Le pagine dedicate al Partenone assumono, del resto, un rilievo par­ ticolare nel libro di Salis, costruito nelle sue parti centrali attorno all’i­ dea che proprio la crescente attenzione all’elasticità di profili e superfici - non solo in opere architettoniche, ma anche nella scultura e nella pittura - sia riuscita a spianare la via che doveva condurre alla scoperta delio spazio tridimensionale. Spengler, in realtà, legge Salis dopo che, con l’edizione del 1918, le sue tesi intorno allo ‘spazio impenetrabile’ dei Greci sono già ben definite; e tuttavia ricava dalle pagine dello storico dell’arte, allievo di Wòlfflin e non estraneo alla lezione di Riegl, motivi di notevole inte­ resse per articolare ulteriormente il suo discorso. E lo studio del libro di Salis agisce tanto più profondamente, quanto più Spengler può ri­ trovarvi idee e prospettive che da tempo assorbono il suo interesse: il concetto di «volere artistico», ancora una volta, e poi l’interesse per una storia della civiltà da ricostruire attraverso il «linguaggio delle for-

48 S-UA, pp. 229-30; tr. it. pp. 271-2; Salis, Die Kunst der Griechen cit., p. 114. ** Salis, Die Kunst der Griechen cit., p. 115.

239 X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

me» e delle opere d’arte, e infine l’analisi della «lotta per la corporeità» che si svolge in terra greca50.

7. Oltre linee e superfici: il problema della corporeità Spengler intende mostrare, in una importante sezione del primo li­ bro, che il retaggio della spazialità ‘grafica’ e ‘pittorica’ peserà a lungo sulla cultura ellenica, trasformandosi in canone vincolante anche per gli scultori. Una medesima «tendenza apollinea» esercita un dominio pressoché assoluto sull’arte greca, coinvolgendo «i bassorilievi arcaici, la pittura su ceramica corinzia e l’affresco attico» e riproponendosi an­ cora in Policleto e in Fidia («Lo sviluppo di quell’arte inesorabilmen­ te priva di spazio occupa i tre secoli che vanno dal 650 al 350» )51. In quest’arco di tempo, continua a esercitare un’influenza notevole, nella disposizione delle figure, la «prospettiva frontale egizia»52, e la scultura continua a riproporre un «ideale della forma» (Formideal) strettamen-

50 Salis, Die Kunst der Griechen cit., pp. 5, 80, 87 e 211 per il Kunstwolleir, pp. 19, 48,70 e 246-7 per la Formensprache; p. 121 per la parafrasi del concetto darwiniano. 51 S-UA, pp. 289-90; tr. it. p. 340. u S-UA, p. 290; tr. it. p. 340. Sull'arcaica «rigida posizione ‘frontale’» di derivazione egizia cfr. Woermann, Geschichte der Kunst cit., p. 237, in cui vengono presentate statue in marmo del Sesto secolo, in Grecia, le quali, «al pari di quelle egizie, pon­ gono la gamba sinistra lievemente in avanti». Sugli scambi tra l’Egitto e l’arte greca, scrive ancora Spengler: «qua e là furono imitate opere egiziane (immagini sedute del Didyntaion di Mileto)» (S-UA, p. 290-1; tr. it. p. 341). In Woermann si trova la descri­ zione delle grandi statue del Didyntaion di Mileto, assise immobili sui loro troni «nella rigida posizione delle figure sedute egizie e antico-caldee [...]. Le loro braccia sono strettamente accostate al corpo; le mani poggiano sui ginocchi. Le loro teste guardano in avanti» (Geschichte der Kunst cit., pp. 237 e 239). In questa pagina spengleriana (S-UA, p. 290) viene citato Woermann (Geschichte der Kunst cit., p. 236), a proposito tuttavia di un altra questione, e cioè in relazione al problema del passaggio dalla pittu­ ra alla scultura. Ancora una corrispondenza, infine, in merito allo stesso argomento. Nella prima versione del suo libro (S-UA 1, p. 324), Spengler parla delT«inizio di una tendenza a liberare la figura dal vincolo egizio della frontalità [...] (Apollo di Tenea, subito dopo il 650)». Woermann, nell'esaminare la scultura greca del Sesto secolo, di­ scorreva anche del «famoso ‘Apollo di Tenea’», in cui l'attaccamento al «tipo egizio» era meno stretto, nel modo di separare le braccia dal tronco e di accrescere la vivacità del volto (Geschichte der Kunst cit., p. 257).

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Mondo classico e civiltà europea

te figurativo, ripreso dalla «pittura arcaica su ceramica» e dai grandi affreschi murali: «entrambi aderiscono alla corporeità della parete. L’arte plastica [...] fino a Mirone potrebbe essere considerata come un bassorilievo che si è distaccato da una superficie»53. Talvolta, nell’età di transizione in cui l’arte arcaica viene eclissando­ si, il passaggio ad una diversa maniera di ‘sentire’ e di ‘raffigurare’ gli spazi resta inciso, secondo Spengler, nelle diverse parti di una mede­ sima opera: «Nel tempio di Egina, l’evoluzione dal frontone occiden­ tale a quello orientale è da vedersi come un movimento dall’elemento dell’affresco a quello della corporeità». Il brano, presente solo nella versione definitiva del Tramonto dell’occidente, si appoggia ad alcune pagine del libro di Salis, nelle quali veniva a concludersi la rassegna dell’«arcaismo» e delle sue ultime metamorfosi. Rispetto al frontone occidentale, nel tempio di Aphaia a Egina, il frontone orientale - que­ sta la tesi avanzata dallo storico dell’arte - mette in scena «un atteg­ giarsi delle figure nello spazio radicalmente diverso». Nell’un caso, le linee restano ancora «grafiche» e «tutto quanto il movimento si svolge entro la superficie»; nell’altro, «si incide risolutamente nella profondi­ tà, tutti gli elementi sono inclinati al di fuori del piano [...]. È la prima volta che un corpo si tende realmente verso lo spettatore [...]. L’autore del frontone orientale si distacca energicamente da una tradizione [...] si riconosce in un nuovo modo di vedere, che inizia ad esaminare il aondo per i suoi contenuti plastici»54. In tutti questi casi, nel rielaborare filosoficamente quanto Riegl e Strzygowski, Worringer e Salis avevano mostrato, Il tramonto dell’Occidente procede con equilibrio e con indubbia competenza. Individua­ re e discutere le fonti a cui ricorre Spengler nel descrivere l’evolversi dell’orientamento spaziale nell’antichità, permette di verificare la coe­ renza di una ‘narrazione’ che si racchiude talvolta in stringate allusio-

M S-UA, p. 291; tr. it p. 341. Questo brano manca in S-UA 1. La discendenza della scultura da tecniche pittoriche si ricava, per Spengler, anche «dal trattamento policro­ mo del marmo J...], come pure dalle statue in oro e in avorio e dalla decorazione in marmo di bronzi naturalmente rilucenti di tonalità auree» (S-UA, pp. 291-2; tr. it. p. 342). Sulle statue dipinte con diversi colori, cfr. Woerm ann, Geschichte der Kunst cit., pp. 238-9,250 e 407; sulle figure in oro e avorio, cfr. ibid., pp. 238, 322 e 327. M S-UA, p. 291; tr. it. p. 341; Salis, Die Kunst der Griechen cit., pp. 48-9. Ai frontoni di Egina, Spengler accenna anche in altra occasione (S-UA, p. 315; tr. it. p. 369), c in questa circostanza, visto che il brano compare già in S-UA 1 (p. 348), tiene presente quanto può leggere in Woermann, Geschichte der Kunst cit., p. 261.

241 X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

ni o nelle suggestioni di una singola parola. La filosofia spengleriana della storia acquista spessore, a rileggerla oggi, proprio attraverso un continuo, paziente confronto tra il testo e i ‘materiali’ impiegati per comporlo.

8. Mancanza di rilievi nell’arte del Quinto secolo: Poiignoto, Zeusi e Apollodoro Per calarsi nello ‘spazio corporeo’ degli antichi, bisogna imparare a riconoscere che civiltà diverse non condividono affatto «il modo per noi naturale di riassumere le prospettive». Nell’approfondire un tale argomento, la ‘storia dello spazio’ tratteggiata nel Tramonto dell’Occidente si sofferma a discutere, in un passo assai denso del terzo ca­ pitolo, alcune questioni di dettaglio che rinviano a problemi più ge­ nerali. Scrive Spengler: «L’arte apollinea dispose sul piano del dipinto figure e gruppi isolati, evitando di proposito rapporti di spazio e di tempo». Negli affreschi del Quinto secolo di Poiignoto, ad esempio, manca «uno sfondo che collegasse le singole scene. Esso avrebbe mes­ so in discussione il significato delle cose intese come ciò che soltanto esiste, in opposizione allo spazio come non-essere». Spengler, senza dichiararlo, ‘costruisce’ accortamente la sua argomentazione, attin­ gendo al manuale di Woermann, a quella parte in cui si parlava de­ gli affreschi a muro di Poiignoto e della sua scuola, che «certamente ancora non raffiguravano, e tutt’al più lasciavano solo presagire, uno sfondo spazialmente conchiuso». A questo proposito, in polemica con altri storici dell’arte, il giudizio di Woermann era assai netto: i dipinti murali di Poiignoto «erano ben lungi dall’esser forniti delle sembian­ ze di un’effettiva sezione prospettica ripresa dal mondo dei fenomeni [...]. Di una distribuzione delle luci e delle ombre [...], in rapporto alla rappresentazione complessiva, ancora non si poteva certo parlare [...]; e nemmeno si deve pensare a un rimpicciolimento delle figure sullo sfondo»55. Nello stesso libro, in un altro capitolo, si faceva notare come lo‘sfondo’ nei rilievi dell’epoca ellenistica risultasse composto, in con-

“ S UA, p. 315; tr. it. p. 369; Woermann, Geschichte der Kunst cit., p. 290. Su Poii­ gnoto, che a differenza di Policlcto, non inserisce ancora i corpi nello spazio, si richia­ ma l'attenzione anche in S-UA, p. 363; tr. it. p. 425. Agli affreschi di Poiignoto, strettamente legati a un modo di vedere estraneo alla profondità e al tempo («Si esperivano soltanto superaci»), già si fa cenno in S-UA, p. 192; tr. it. p. 230.

242 Mondo classico e civiltà europea

fronto all’arte del Quinto secolo, in maniera molto più articolata. In merito al fregio dell’altare di Pergamo dedicato al mito di Telefo, scrive Woermann: «Sono in esso riconoscibili sfondi paesaggistici, profon­ dità di vario genere, parti che balzano fuori, audaci rimpicciolimenti. I più diversi avvenimenti della vita di Telefo vengono messi in serie (eingereiht) in uno sfondo ininterrotto (fortlaufend), con una conti­ nua ripetizione delle stesse figure». Anche questo tassello - importante per segnalare una nuova ‘padronanza’ dello spazio - entra a far parte dell’argomentazione spengleriana: «Solo nell’ellenismo (il fregio di Te­ lefo dell’altare di Pergamo è il più antico esempio conservato) appare il motivo anticlassico della serie (Reihe) unitaria»56. In epoca classica le tecniche pittoriche si aprono a ‘esperimenti’ e innovazioni anche rilevanti, senza tuttavia riuscire a sottrarsi al tra­ dizionale disagio nel dar espressione alle profondità. Nota Spengler: «Nella pittura antica, luce ed ombra sono stati per la prima volta usati in maniera uniforme da Zeusi, ma solo come ombreggiatura dell’og­ getto», senza riferimento allo spazio tridimensionale. Anche a questo proposito, Spengler è debitore di Salis, il quale si era soffermato sul pri­ mo tentativo di «trattamento uniforme della luce e dell’ombra, che la tradizione degli antichi attribuisce a Zeusi», da cui tuttavia non risulta ancora la conquista definitiva della prospettiva. Si tratta pur sempre di un episodio significativo, nella lunga «lotta intorno alla corporeità», attraverso cui «viene scossa la forza del modo di raffigurare in termini rigidamente grafici» e si riesce entro certi limiti ad «arrotondare le [... | forme». L’esito resta comunque incerto: «quest’arte non riesce affatto a dischiudere ampie prospettive, e sembra quasi che abbia timore della grande profondità»57.

56 Woermann, Geschichte der Kunst cit., p. 407; S-UA, p. 315; tr. it. p. 369. La pa­ gina di Woermann (*einem fortlaufenden Hintergrunde eingereiht») è ancora rico­

noscibile in S-UA, come abbiamo visto, per la spiccata affinità lessicale («das unantike Motiv der einheitlichen Reihe»); in S-UA 1 (p. 348) compariva una trascrizione ancor

più simile all’originale («das unantike Motiv der fortlaufenden Reihe»). Nella stessa pagina (S-UA, p. 315; tr. it p. 369) Spengler discorre anche degli «affreschi di Poiigno­ to nella lesche di Delfi*: cfr. Woermann, Geschichte der Kunst cit., p. 289. s7 S-UA, p. 313; tr. it. p. 1421; Salis, Die Kunst der Griechen cit., p. 121. Col passag­ gio, nel Quinto secolo, dagli affreschi del Poiignoto alle sculture di Policleto, si impone una «libera plasticità rotonda* (freie Hundplastik), ormai emancipata dalla tirannia

delle superfici (S-UA, p. 363; tr. it. p. 425: anche in S-UA 1 ). Inoltre, «con la genera­ zione di Policleto, alla pittura murale monumentale subentra la tecnica dei colori a

243 X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

L’argomento affrontato da Salis, e cioè l’analisi degli sforzi per ar­ rotondare i corpi senza ammettere la loro effettiva spazialità, viene proposto anche da Spengler, non solo nel brano prima discusso, ma anche in un secondo passaggio (stavolta utilizzando un’altra fonte): «La ‘pittura a ombre’ ellenistica di Zeusi e di Apollodoro - si legge nel Tramonto dell’occidente - modella i singoli corpi, in modo che inci­ dano sulla vista con un’impressione plastica», e tuttavia l’effetto creato non si estende allo spazio circostante («Il corpo veniva ‘ombreggiato’, ma non proiettava un’ombra»)53.

9. Mirone, Policleto, Lisippo e l’abbandono del canone pittorico Sempre nel Quinto secolo, prosegue Spengler in un’altra sezione del libro, un ideale ‘pittorico’ che mortifica la pienezza dei corpi resta pre­ dominante anche nelle sculture: il «linguaggio delle forme di una pura arte del piano» continua a essere l’ideale vincolante, trasferito sul terre­ no della plastica, «in Mirone e nei maestri del frontone di Olimpia». Il punto di riferimento, per tale considerazione, è di nuovo Salis. Nel suo libro si ricordava che Mirone, forse «il più grande genio plastico del [suo] secolo», restava legato a un modo di concepire i rapporti spaziali che ben presto sarebbe scomparso: le sue figure si mostrano ancora «innaturali e impacciate», avendo uno «spiccato carattere di bassori­ lievo; sono sempre legate entro il piano e studiate per uno sguardo che provenga da un’unica direzione». Per Mirone, in sostanza, «resta indiscusso che tutto quanto occorra dire, si debba dichiarare, in termi-

encausto e a tempera», da cui risulta un’arte che non conosce più il «grande stile [...). La pittura ombreggiata di Apollodoro ambisce a emulare la scultura per mezzo del mo­ dellare in tondo le figure - e non si tratta adatto di ombre atmosferiche - e Aristotele spiega espressamente, parlando di Zeusi, che le sue opere mancavano di ethos» (S-UA, p. 364; tr. it. p. 426). Questi cenni ad Apollodoro, il «pittore delle ombre» (mai men­ zionato da Salis nel suo libro), e al giudizio di Aristotele su Zeusi provengono da Woirmann, Geschichte der Kunst cit., pp. 293 e 295): anche lo storico dell’arte riconosce che col nuovo «incanto pittorico di una fresca, ma pur sempre idealizzata naturalezza» si perde «l’ethos dell’arte di Poiignoto». u S UA, p. 417; tr. it. p. 1428 (il brano manca in S-UA 1). Anche in questo caso, come nella nota precedente, la fonte è Woermann, Geschichte der Kunst cit., pp. 293 e 295.

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Mondo classico e civiltà europea

ni netti e inequivocabili, già nel profilo»59. Come esempio di statuaria ‘compressa’ e sottomessa alle leggi della pittura e del bassorilievo, Salis richiama anche (e Spengler lo seguirà) «la scena dei centauri nel fron­ tone di Olimpia rivolto a occidente, che si distingue per la ricchezza di motivi ‘pittorici’» e risulta assai verosimilmente da un precedente affresco60. Nel Quinto secolo, si annuncia comunque una nuova sensibilità per gli spazi e per i rilievi, e i suoi effetti diventano visibili non solo nella scultura, ma anche in altre arti. Spengler è assai preciso nel registrare un decisivo rovesciamento: «Con Policleto, intorno al 460, si compie la svolta, e a partire da questo momento, in maniera capovolta, sono i gruppi plastici a costituire l’esempio per la pittura rigorosa». In effetti, come documentava Salis nel suo libro, nell’età di Policleto scompare la ‘piatta nettezza’ delle figure e acquista importanza il giuoco degli ef­ fetti cromatici. Un ideale ‘scultoreo’ comincia così a prender possesso della stessa pittura: si diffondono vasi policromi, nei quali «il disegno del contorno non costituisce più l’elemento primario». Nella nuova tendenza che si profila, ribadisce Salis, «perfino il disegno perde quella sobria e dura determinatezza che tende l’oggetto entro un profilo rigi­ damente tracciato»61. Per giungere al pieno riconoscimento della tridimensionalità dei corpi, occorre comunque aspettare il periodo compreso tra la fine del

59 S-UA, pp. 363-4; tr. it. pp. 425-6; Salis, Die Kunst der Griechen cit., pp. 98-9. In queste pagine Salis discorre anche della «frontalità» arcaica delle statue (altro tema

sfiorato da Spengler nel passo richiamato) che verrà meno solo all’epoca delle guerre persiane; e accenna a sculture di Mirone che, proprio perché simili a rilievi, verranno riprodotte su vasi e monete (Spengler riprende quest’indicazione non solo in S-UA, pp. 363-4, ma anche altrove, in questo caso citando la fonte: cfr. S-UA, p. 291; tr. it. p. 341). 40 Salis, Die Kunst der Griechen cit., p. 101. In S-UA l’indicazione di Salis viene proposta in termini più generali («il timpano di un tempio è un quadro che vuol esser guardato a un certa distanza»: p. 364; tr. it. p. 426). In una pagina precedente Spengler

aveva già sfiorato io stesso tema: «il gruppo dei centauri del frontone occidentale di

Olimpia fu concepito in base a una pittura» (S-UA, p. 291; tr. it. p. 341). Ma anche

attraverso Woermann giunge a Spengler la stessa descrizione: nel timpano del tempio di Zeus a Olimpia, «una ricca colorazione contribuiva [...], assieme agli ornamenti in bronzo, a realizzare gli scopi della plastica, in senso sia realistico che decorativo» (Woermann, Geschichte der Kunst cit., p. 310). 61 S-UA, p. 291; tr. it. p. 341; Salis, Die Kunst der Griechen cit., p. 120.

245 X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

quarto e l’inizio del Terzo secolo: «Il dar forma (Durchbildung) al cor­ po da ogni lato doveva però essere portato a termine solo da Lisippo, in termini assolutamente veristici, come un ‘dato di fatto’. Fino a quel momento, addirittura ancora con Prassitele, si trova un dischiudersi solo laterale, con un profilo assai netto, a cui si può render giustizia unicamente da uno o da due punti d’osservazione»62. Con Lisippo quindi, a giudizio di Spengler (e di Woermann, suo ‘mentore’ in questo caso), i corpi affermano finalmente la loro piena ‘rotondità’ e la precedente tirannia dello ‘spazio lineare’ viene definiti­ vamente abbattuta.

10. Trucchi da illusionista: relazioni spaziali nelTellenistno

Gli antichi, ribadisce Spengler assai spesso, non conoscevano «la trasfigurazione faustiana delle distanze», quel ritmo delle prospettive che esprime, ad esempio nella pittura del Seicento, «un grande stile, un significato, una necessità profonda»63. La tarda grecità si sforza di guadagnare un simile ‘modo di vedere’, senza tuttavia riuscirvi, e ricade di continuo in un ‘giuoco delle illusioni’ privo di dinamismo; la «pit­ tura illusionistica (Illusionsnialerei) dell’ellenismo» non si distacca da «un’imitazione senz’anima, da un goffo rifare il verso all’apparenza». Nel proseguire il discorso, Spengler arricchisce l’analisi con riferimenti precisi: «Perfino le pitture murali di Pompei e i paesaggi dell’odissea a Roma contengono un simbolo: essi raffigurano un gruppo di corpi,

« S-UA, p. 291; tr. it. pp. 341-2. Lisippo per primo - sostiene Woermann (GesMite der Kunst cit., p. 375) - «colloca le sue figure nello spazio libero e conferisce loro forma da tutti i lati», a differenza di Mirane e di Prassitele, e conquista così «la piena rotondità della corporeità plastica». Talvolta Spengler affronta tali argomenti da una prospettiva più generale: «Dal solenne canone-di Policleto fino a quello elegante di Liuppo, si compie lo stesso alleggerimento della costruzione che avviene nel progredi­ re dalfordine dorico delle colonne a quello corinzio. Il sentimento euclideo comincia a dissolversi» (SUA, p. 333; tr. it. p. 1423: manca in S-UA 1). Quest ultima riflessione di Spengler si ispira a quanto notava Woermann sul passaggio dal canone «squadratodi Policleto alle forine più leggiadre e slanciate di Lisippo (Geschichte der Kunst cit.» pp. 322-3 e 375). *' Ai Greci manca la «predilezione per il paesaggio» (S-UA, p. 369; tr. it. p. 433). Sulla completa mancanza di «pittura paesaggistica» in Grecia fin dopo il 300 a.C. cfr. Woermann, Geschichte der Kunst cit., p. 351.

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Mondo classico e civiltà europea

tra cui rocce, alberi e addirittura, come corpo tra corpi, ‘il mare’. Non ne risulta alcuna profondità, ma soltanto un allineamento». In questo • passaggio, il filosofo toma a seguire Salis, nelle pagine in cui viene fatto vedere come in epoca ellenistica si raggiunga un’embrionale «illusione spaziale» (Raumillusiorì) attraverso «trucchi d’abilità illusionistici» (il­ lusionistiche Kunststiicke). Dopo Alessandro - si legge nella sua mono­ grafia - «il rapporto tra figura e spazialità si è fatto diverso», dato che sempre più «la figura umana non domina il campo visivo in maniera tanto assoluta come in precedenza» e finisce per comparire « come un elemento inserito in un più grande insieme, come un oggetto nello spa­ zio L’uomo resta presente, ma non è più la ‘misura di tutte le cose’ [...]. E anche dove il più vivace degli avvenimenti viene narrato, come nelle ‘Avventure di Odisseo’, esso resta solo un episodio momentaneo, che sfiora per un attimo la superficie del mare circondato da scogli». Nella pittura di quest’età, una serie di accorgimenti - oggetti rimpic­ cioliti, sfondi più articolati, linee dell’orizzonte più nitide - hanno il compito di «far scivolare l’occhio nella profondità. Sui quadri di genere architettonico della pittura murale pompeiana, troviamo il restringi­ mento prospettico sviluppato in maniera sorprendente; qui compaiono inoltre spesso - attraverso i colonnati dei cortili o le fronde all’aperto vedute oblique [...] che trascinano con forza lo sguardo all’indietro»w. Lo ‘spazio antico’ subisce così una profonda metamorfosi: la pro­ fondità e le prospettive, anche se non trovano ancora espressione ade­ guata, vengono quanto meno ‘simulate’ e reinventate con gli artifici dell’illusionista65. Sull’arte ellenistica Spengler ritorna nel parlare dell’altare di Perga-

w S-UA, pp. 369-70; tr. it. p. 433; Salis, Die Kunst der Griechen cit., pp. 242-3. Il detto di Lisippo, riportato qui da Spengler (S-UA, p. 369; tr. it. p. 433), è ripreso egual­ mente da Salis (Die Kunst der Griechen cit., p. 245). Allo storico dell’arte, in termini più generali, preme una rivalutazione dell’arte ellenistica, non più da considerare come opera di ‘senescenza’, come «la tarda conclusione di un’evoluzione che sta ormai in­ fiacchendosi- (Die Kunst der Griechen cit., pp. 204-5).

65 A proposito della difficoltà di distinguere le prospettive, che in Grecia non sarà superata del tutto nemmeno nel Secondo secolo, Spengler accenna in un passo, già

contenuto nella prima edizione (S-UA 1, p. 348), al «frontone del tempio di Egina», e ricorda nel testo del 1922 anche «il corteo degli dèi del vaso Francois c il fregio dei Giganti di Pergamo- (S-UA, pp. 315; tr. it. p. 369). Gli ultimi due riferimenti proven­ gono da von Salis (Die Kunst der Griechen cit., pp. 160,162 e 214): ad esempio, intorno

allo scontro tra dèi e giganti illustrata nel fregio del basamento dell’altare di Pergamo,

247 X. Spazi angusti e soffocanti: Spengler critico della classicità

mo, considerato, al seguito delle critiche di Nietzsche a Wagner e a Bayereuth, un esempio di «decadenza» e di «funambolismo», prodot­ to da una grottesca ansia di «teatralità» che nasconde «mancanza di forza interna». Quest’analisi già trovava posto nell’edizione del 1918 del Tramonto dell’occidente. Nella versione del 1922 viene inserita una breve aggiunta: «il Toro della galleria Farnese». Il nuovo suggerimento viene ricavato dal libro di Salis, dove si discorre di un’arte ellenistica che associa «senso della monumentalità» e «fantasmagoria barocca» e predilige movimenti repentini e bruschi mutamenti di prospettiva. In questo quadro, l’accento cade anche sul «Toro della galleria Farnese», in cui compare più di una figura che «con movimento violento corre incontro allo spettatore», come avviene del resto frequentemente in sculture e rilievi distinti da uno stile che «respinge in linea di prin­ cipio l’allineamento armonico e richiede piuttosto una dissonanza potente»66. Ormai tramontata l’arte classica del Quinto secolo, conclude Salis, si moltiplicano gli stratagemmi per rompere il ‘cerchio’ della spazialità unidimensionale («l’energico spingere il piede in avanti, lo sporgersi della parte superiore del corpo, [...] il farsi spazio di una spalla»), che contribuiscono a suscitare disorientamento, a creare un effetto di irre­ quietezza, di movimenti convulsi e vigorosi («si cerca con ogni mezzo di scansare ciò che risulta stabile e duraturo»)67.

11. Sguardi impersonali, portamenti maestosi Acquista significato, come prova ulteriore del rigido dominio dei la corporeità’, la difficoltà dei Greci a trattare adeguatamente, nelle

lo storico dell’arte scrive che si tratta di «una catena apparentemente interminabile d* gruppi in lotta», che rischia di affaticare lo sguardo. 46 S-UA, p. 374; tr. it. p. 439; Salis, Die Kunst der Griechen cit., pp. 210,217 e 21547 Salis, Die Kunst der Griechen cit., pp. 217-8. Si accresce in quest’età anche «da cedevolezza dei corpi e il conflitto tra molteplici direzioni contrastanti nel tronco, collo e nelle membra» (ibid., p. 218). Tutto ciò rientra nella ricerca di nuovi effe1** ottici: come nella «disordinata mescolanza di forme» del ‘Toro della Galleria Fame$e (ibid., p. 219), di cui si è già parlato. Per illustrare la «volontà di potenza» e la smania grandezza dell’ellenismo, Salis tratta anche della «gigantesca figura in ferro del Dio de* sole, creata da Chares, l’allievo di Lisippo, per il porto di Rodi» (ibid., p. 210). An e 390; tr. it. pp. 375 e 458. S*UA, pp. 174 e 176; tr. it. pp. 209 e 212. Meyer, Ursprung und Anfànge des Cristentums cit.» p. 352.

Parte terza

ORIZZONTI SEMPRE PIÙ RISTRETTI

XII. Ebraismo, mondo classico e cristianesimo: interessi storiografici in Heidegger negli anni '20 e '30

1. Le ‘passeggiate erudite’ della cultura ottocentesca Per Heidegger, lo studio della ‘metafisica della soggettività’ si precisa dapprima, nel 1933-34 e poi nei corsi universitari su Nietzsche, an­ che come analisi di alcuni passaggi cruciali del linguaggio filosofico tra l’antichità, la Scolastica medioevale e le speculazioni del Seicento. Hei­ degger, in una lezione del 1940, ricorda che la terminologia filosofica, a partire da Cartesio, non pare «così univoca come l’impiego corrente dei concetti di ‘soggetto’, ‘soggettività’, ‘soggettivo’ [...] vorrebbe farci credere». La prospettiva antropologica, irrigidita in logore consuetudi­ ni linguistiche, finisce per occultare e deformare l’autentico significa­ to del termine.