Arte e negazione: Sull'estetica di Schopenhauer 9788898694488, 9788885716094


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Arte e negazione: Sull'estetica di Schopenhauer
 9788898694488, 9788885716094

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Luca Viglialoro

Arte e negazione Sull’estetica di Schopenhauer

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Umweg

Collana diretta da:

Federica Buongiorno, Roberto Esposito, Libera Pisano, Christoph Wulf

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Umweg| 4

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Luca Viglialoro Arte e negazione.

Sull’estetica di Schopenhauer

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© 2017, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Umweg ISSN: 2499-6041 n. 4 - luglio 2017 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694488 ISBN – E-book: 9788885716094 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Quadrato nero, Kasimir Malevič, 1915.

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A mio padre

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Posizione del problema. La negazione come «potenza di non»

Che nell’arte risieda, incancellabile, l’ombra di una negazione, lo testimonia l’esperienza, quand’anche poco caratteristica, che ne facciamo. Un senso di inafferrabile pienezza, di effettivo – eppur intimamente sfrangiato – coinvolgimento o di profondissimo svuotamento possono impadronirsi di noi, trasformando il contatto con l’opera in una forma di «assoluta negazione»1. Si oscilla tra dimensioni di senso, si intreccia (più o meno volontariamente, più o meno legittimamente) il proprio vissuto con l’oggetto-opera, si copre con uno strato di indifferenza ogni esperienza dell’arte: a questi scenari sono abituati tanto i fruitori, quanto gli au1. G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Macerata 2005 [1970], p. 72.

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tori o produttori di opere d’arte. Nemmeno la creazione e l’esecuzione, alle quali si può ascrivere acriticamente un aumento di intensità ontologica, possono esimersi da tale potenza negativa: la superficie di un mosaico, la tela carica di colore, la pagina fittamente ricoperta di segni interpretabili sono e rimarranno la traccia di un senso che nessuno potrà mai del tutto cogliere e far suo. La frammentazione e l’indeterminatezza, soprattutto se avvolte nell’involucro della compiutezza, restano il vero e proprio cuore pulsante delle più impeccabili sintesi formali. La negatività, detto altrimenti, è l’indice di una scena interminabile. È ad essa che Schopenhauer ha dedicato, con l’accanimento e la disciplina di un franco tiratore, le sue energie speculative. In un continuo sforzo di revisione e ricalibratura, le riflessioni schopenhaueriane nelle quali viene braccata la reciprocità (in parte: sinonimia e indistinzione) di arte e negazione si segnalano per la loro penetrazione del fenomeno che, a livello storicoartistico e con una venatura di ironia, potrebbe esser definito l’epoca della compiuta negatività dell’arte. Mai come ora, dove il problema della

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fine dell’arte2 sembra aver segnato il passaggio estetico nel nuovo millennio (così come in quello che lo ha preceduto) ed esser già entrato, seppur non senza residui, nella storia, si impone una revisione delle condizioni filosofiche che presiedono alla frattura interna del concetto di arte e al primo tentativo di ricongiungere arte e tecnica – ossia: l’attività produttiva dell’uomo – in un tutto unitario capace di articolarsi come negazione. Dove va individua2. Danto, parallelamente a e indipendentemente da Belting, intende la fine dell’arte come un cambiamento delle narrazioni sull’arte (A.C. Danto, After the End of Art, Princeton University Press, Princeton 2014 [1997], p. 4 e ss.). Nella fine dell’arte Vattimo vede una prospettiva utopica, cfr. G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985, pp. 64-65. Geulen si è opposta alla circolazione incontrollata di letture attualizzanti della questione della fine dell’arte (e, ovviamente, di Hegel), partendo da un approccio pragmatico e più prudente: «Eben weil über das Ende der Kunst nur Gerüchte kursieren können, ist nicht auszuschließen, dass es tatsächlich so etwas wie ein Ende der Kunst gibt, gegeben hat oder geben könnte». E. Geulen, Das Ende der Kunst. Lesarten eines Gerüchts nach Hegel, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2002, p. 19. Tutte le opere di seguito analizzate, comprese quelle di Schopenhauer, verranno citate in originale per portarne alla luce il ductus stilistico e le strategie argomentative.

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to, per dirla con Agamben, lo «statuto unitario della poíesis umana»3, vale a dire quell’unità regolativa delle funzioni produttive del soggetto che riporta l’arte al suo incancellabile «aspetto energetico»4, ossia ciò che le fa compiere il passaggio dal non-essere alla messa-in-presenza di un senso, privo di un precedente ontologico, perché non proveniente dalla somma o dal mero aggregato di singole operazioni tecniche slegate da prestazioni formalizzate a priori. Riflettere su tale unità non significa riportare in auge un’estetica del genio o una teoria della creazione artistica come l’agglomerato di attività irrazionali. Al contrario, esplorare lo statuto unitario delle forze (auto-)produttive del soggetto significa tentare di dare forma logica alla interna contingenza e negatività della finalizzazione tecnica dell’arte, che la libera dalle strettoie di una finalità determinata – dimensione liberatoria, quest’ultima, cui nessuna Genieästhetik, di fatto, dà fondo. Da questo punto di vista, la ricerca che intraprenderò con Schopenhauer – la quale si con3. G. Agamben, L’uomo senza contenuto, cit., p. 93. 4. Ivi, p. 99.

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cepisce come un tassello di una ricognizione a più ampio raggio sul rapporto tra arte e negazione – mira a gettare luce sul momento negativo che l’arte opera su sé stessa, al fine di comprenderne la necessità, proprio sullo sfondo di un (apparente) ritorno alla dimensione dell’ars. Occorre, dunque, porsi la questione del perché sia necessario presuppore un agire altro – nel senso di finalisticamente eterogeneo – e intrinsecamente negativo per la nascita e la comprensione del fatto artistico. Che tipo di volontà produttiva si va a negare e, negativamente, ad affermare, nel momento in cui si cercano le fondamenta del rapporto ars-arte in un’attività in ultima analisi non sancita da un sistema conoscitivo di riferimento? Bisogna arrivare a postulare che l’arte sia il risultato e l’incarnazione di un agente vitale che, attraverso una torsione emancipativa, cerca di mostrare una possibilità di senso che oltrepassa il potenziale esperienziale consentito da qualsiasi mezzo tecnico. Detto altrimenti, l’arte deve esprimere un uso che, a partire dalle condizioni tecnico-culturali di un’epoca e dai suoi percorsi di senso, sia in grado di mostrare delle possibilità altre del senso.

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Se è vero tuttavia, come afferma Agamben, che «il punto di arrivo dell’estetica occidentale è una metafisica della volontà, cioè della vita intesa come energia e impulso creatore»5, allora diviene altrettanto indispensabile arrivare a chiedersi se lo statuto poetico del senso e dell’arte, che stiamo cercando, non appartengano già ad una cultura giunta al suo culmine e della quale non si possono che scandagliare le sopravvivenze. Qualora, al contrario, non si abbia a che fare con una cultura giunta al tramonto, può essere utile indagarne le condizioni di possibilità, come proveremo di seguito a fare analizzando le riflessioni di Schopenhauer, per comprendere se il punto di massima tensione tra arte e vita non coincida con un’estensione dei confini dell’estetica e dell’arte, così come della costituzione intimamente volontaristica della tecnica. La «metafisica della volontà», di cui parla Agamben e di cui Schopenhauer è l’indiscusso protagonista, non sarebbe altro che la soglia, oltre la quale l’estetica e l’arte si incamminano (a ritroso) verso la dimensione tecnica del possibile, della negatività.

5. Ivi, p. 108.

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Il nostro discorso vuole dunque indagare se e dove nell’arte, nelle radici tecniche dell’esperienza estetica, alberghi una «potenza di non»6, e cioè una condizione di senso ed un uso non legati a scopi determinati, perché frutto di un differimento riflessivo in-volontario. Attraverso la negazione di ogni finalizzazione propriamente tecnica (quindi: di un non-operare per uno scopo immediato) la «potenza di non» agisce come una forma di uso «metaoperativo»7. Un’indeterminatezza, insomma, che non proviene solo dalla natura espressiva del medium e dal ventaglio di prestazioni estetiche che è in grado di produrre, ma da una flessione autoriflessiva, strutturalmente intrinseca al momento artistico, capace di dar vita ad una forma in sé processuale, che sollecita un corpo a corpo senza requie con un non-dato. 6. G. Agamben, Homo sacer: il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 52. La negazione «non» viene quindi da me intesa come la condizione della negazione distintiva, che apre lo spazio a un’identità per noncoincidenza. Cfr. G. Bottiroli, La ragione flessibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 236-238. 7. E. Garroni, Ricognizione della semiotica, Officina, Roma 1977, pp. 70-76.

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Come è evidente, se si parla di senso e di uso8 in prospettiva metaoperativa anche il ricorso a Kant è obbligato – e ancor più necessario, se si vuole chiarificare il nostro approccio a Schopenhauer. È, infatti, nella terza Critica che viene per la prima volta pensato l’esercizio, tramite il movimento riflettente della «Zweckmäßigkeit ohne Zweck»9 (conformità a scopi senza scopo), di sospensione dell’agire volto a scopi determinati e definiti, per approdare ad un’apertura a scopi semplicemente possibili. A tale indugiare10 riflessivo frutto di una presa di distanza e di un uso – in senso agambeniano – poietici degli scopi, si perviene, conoscitivamente, solo pre-

8. Cfr. E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992, pp. 188-190. 9. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, in Id., Werkausgabe, Bd. X, hg. v. W. Weischedel, Frankfurt a. M. 1974 [1790], § 15, p. 142 (da ora in poi abbreviato KdU seguito dai numeri di paragrafo e di pagina). 10. Il «weilen», cfr. ivi, § 12, p. 138. Anche per Gadamer (e non solo), com’è noto, l’indugiare è un elemento portante della temporalità dell’estetico, alla quale lo spettatore è chiamato a partecipare. Cfr. H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Mohr u. Siebeck, Tübingen 1986, p. 130.

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supponendo una finalità e simulando una derivazione dalla volontà: Die Zweckmäßigkeit kann also ohne Zweck sein, sofern wir die Ursachen dieser Form nicht in einem Willen setzen, aber doch die Erklärung ihrer Möglichkeit, nur indem wir sie von einem Willen ableiten, uns begreiflich machen können. Nun haben wir das, was wir beobachten, nicht immer nötig durch Vernunft (seiner Möglichkeit nach) einzusehen. Also können wir eine Zweckmäßigkeit der Form nach, auch ohne daß wir ihr einen Zweck (als die Materie des nexus finalis) zum Grunde legen, wenigstens beobachten, und an Gegenständen, wiewohl nicht anders als durch Reflexion, bemerken11.

Lo spazio di questa prassi fondata su una conformità a scopi senza scopo, pur non rispondendo a una razionalità immediata, non è un ‘girare a vuoto’: al contrario, serve ad anticipare esperienze determinate (più esattamente: determinate quanto ai loro scopi) e a scaricare dalla pressione della razionalità reale, cui l’‘economia degli organismi’ (per usare una espressione schopenhaueriana) viene continuamente

11. KdU, § 10, p. 135.

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sottoposta. Esperienza alla seconda potenza, dunque, quella della conformità a scopi senza scopo: prepara e, nel preparare, produce. Nel caso, poi, delle opere d’arte l’allentamento dalla morsa della finalità assume addirittura le fattezze di una vera e propria indagine del possibile concretata in una materia. Ora, in Schopenhauer l’istanza metaoperativa della potenza ha un nome ben preciso e piuttosto noto: la volontà, il Wille. Non è stata ancora tentata una lettura (senz’altro eretica, va detto) dell’estetica schopenhaueriana del Wille centrata sulla «Zweckmäßigkeit ohne Zweck» kantiana in vista di una riflessione sull’arte intesa (kantianamente) come l’esempio12 di un 12. Il concetto di esempio, in senso kantiano, verrà a breve illustrato. Bisogna notare anticipatamente che gli studi che citeremo di seguito sul rapporto tra la terza Critica e l’estetica schopenhaueriana partono, per lo più, dalla questione dell’interesse (della quale anche noi ci occuperemo), sovrapponendo, talvolta pedissequamente, la rilettura heideggeriana della critica nietzscheana a Schopenhauer – che a breve verrà discussa – sulla riflessione estetica schopenhaueriana. Il nostro studio vuole, invece, toccare la radice del problema: la tensione tra la Zweckmäßigkeit ohne Zweck kantiana ed il Wille schopenhaueriano.

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uso e di un senso metaoperativi. Il Wille, pur presentando a tutti gli effetti gli addentellati di un agente (auto-)tecnico di costruzione del reale, è rimasto, per molti interpreti, una sorta di misterioso nesso tra soggettività e oggettività13. Una delle ragioni di tale mancanza è palese, se si legge l’Anhang sulla terza Critica presente in Die Welt, dove Schopenhauer, con molta chiarezza, non solo imputa a Kant la famigerata estraneità all’esperienza dell’arte (Kant sarebbe

13. È il caso, questo, della lettura di Barbara Neymeyr, sulla quale torneremo, che, pur nella sua profondità interpretativa, non riesce a portare in superficie il discorso epistemologico che l’influsso dell’estetica di Kant, in Schopenhauer, produce. Cfr. B. Neymeyr, Ästhetische Autonomie als Abnormität. Kritische Analysen zu Schopenhauers Ästhetik im Horizont seiner Willensmetaphysik, de Gruyter, Berlin-New York 1996, pp. 20-29 e pp. 221231. Lo stesso discorso vale per M. Dobrileit-Helmich, Ästhetik bei Kant und Schopenhauer, in «Schopenhauer Jahrbuch», n. 64, 1983, pp. 125-137. Sulla gnoseologia kantiana della terza Critica nell’estetica di Schopenhauer mi sono confrontato a più riprese con B. Dörflinger, Zur Erkenntnisbedeutung des Ästhetischen. Schopenhauers Beziehung zu Kant, in «Schopenhauer Jahrbuch», n. 71, 1990, pp. 68-77.

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«der Kunst wohl sehr fremd geblieben»14) e lo schiacciamento soggettivistico-edonistico della sua determinazione del bello, ma anche, proprio in riferimento al problema della conformità a scopi (senza scopo) come principio di determinazione del bello, un certo barocchismo, derivante dalla negazione della conoscibilità del bello: In Hinsicht auf die Form seines ganzen Buches [la terza Critica] ist zu bemerken, daß sie aus dem Einfall entsprungen ist, im Begriff der Zweckmäßigkeit den Schlüssel zum Problem des Schönen zu finden. Der Einfall wird deducirt, was überall nicht schwer ist, wie wir aus den Nachfolgern Kants gelernt haben. So entsteht nun die barocke Vereinigung der Erkenntniß des Schönen mit der des Zweckmäßigen der natürlichen Körper15.

Il fine di Schopenhaeur è chiaro: ricollegare il bello a un universo finalistico conoscibile, sep-

14. A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, in Id., Sämtliche Werke, Bd. I, hg. v. W. Frh. von Löhneysen, Cotta Verlag und Insel Verlag, Stuttgart-Frankfurt a. M. 19873 [1816], p. 708 [Da ora abbreviato: WWV I]. 15. Ivi, p. 711.

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pur sempre solo attraverso il filtro scenico delle categorie, così da non dover postulare un je ne sais quoi. Tale deduzione non deve, però, sopprimere il bello e l’arte, trasfigurandoli, quasi fossero spettri di una cognizione mancata. Al di là di queste prese di posizione schopenhaueriane, resta però il fatto che tanto Die Welt e le Ergänzungen, quanto e soprattutto i Parerga und Paralipomena offrono non pochi spunti per considerare, se non equivalenti, isomorfe le dinamiche della volontà schopenhaueriana e quelle della conformità a scopi kantiana. Il primo indizio di tale accostamento di Schopenhauer a Kant – accostamento sul quale torneremo a più riprese nel corso dei capitoli successivi sulla base dell’impianto concettuale esposto in questo paragrafo – è rappresentato da un espediente o, meglio, da un’aggiunta concettuale e redazionale. Nel parlare di soggettività estetica e del suo uso non-determinato della volontà, Schopenhauer aggiunge talvolta un «(das Interesse)»16, per indicare l’assenza o 16. Cfr., ad esempio, A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, in Id., Sämtliche Werke, Bd. II, hg. v. W. Frh. von Löhneysen, Cotta Verlag und Insel Verlag,

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la presenza di un principio di determinazione17, di un asse orientante della volontà. In ciò, certamente Schopenhauer trae ispirazione dalla determinazione qualitativa kantiana del giudizio estetico18, che, come tale, deve essere senza interesse, «ohne alles Interesse»19, dunque non condizionato a priori, ma libero di stabilire la propria relazione estetico-cognitiva con l’oggetto. Da qui, l’innesto o meno dell’interesse risponde – in Kant, ma anche in Schopenhauer – alla pensabilità di uno spazio del volere, del giudicare, dell’agire nella sua forma pura, non soggetti a condizioni restrittive e bloccanti. Non l’eteronomia positiva, bensì la sua autonoma negazione e, quindi, lo scioglimento da relazioni normative determina l’innalzamento della prassi a pura negatività, ad uso produttivo senza scopo – ciò che in definitiva Heidegger, nella sua lettura della ricezione schopenhaueriana di Kant (via Nietzsche), ha posto in seconStuttgart-Frankfurt a. M. 19873 [1859], p. 491 [da ora abbreviato: WWV II]. Su questo punto rimando anche a B. Neymeyr, Ästhetische Autonomie, cit., p. 21. 17. Cfr. KdU, §15, p. 144. 18. Ivi, § 24, p. 168. 19. Ivi, § 2, p. 116.

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do piano, imputando al Wille e al disinteresse kantiano la «Teilnahmslosigkeit» ed il «Nichtsmehr-wollen»20. Un altro elemento, a livello generale, permette di riavvicinare Schopenhauer alla terza Critica: mi riferisco al ruolo dell’intelletto nella produzione dell’opera d’arte. Solo quando il soggetto 20. M. Heidegger, Nietzsche, Bd. 1, in Id., Gesamtausgabe, Bd. 6.1, hg. v. B. Schillbach, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M. 1996, pp. 106-114, p. 108. Correttamente commenta Neymeyr: «Viel zu undifferenziert verfährt Heidegger bei seinem Versuch, Kant auf Kosten Schopenhauers zu rehabilitieren. […] Heidegger lässt bei seinem pauschalen Verdikt über Schopenhauers Ästhetik zugunsten einer Rehabilitierung der Kantischen Konzeption die Textstellen, die eine autonome Aktivität des ästhetischen Subjekts bei Schopenhauer belegen, unberücksichtigt und kann aufgrund dieser Einseitigkeit auch zu einer kritischen Analyse der komplexen Problematik nicht vorstoßen. Indem Heidegger Schopenhauer voreilig ganz auf eine Konzeption ästhetischer Interesselosigkeit als umfassender Gleichgültigkeit glaubt festlegen zu können, in deren Rahmen das Subjekt in passiver Rezeptivität aufgeht und zum Wesen der Dinge gerade nicht vordringt, verschließt er sich der Einsicht in die grundlegenden analysebedürftigen Ambivalenzen, durch die Schopenhauers Ästhetik geprägt ist». B. Neymeyr, Ästhetische Autonomie, cit., pp. 222 e 226.

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di conoscenza privo di volontà (ossia: di un fine, in senso kantiano, esistente) mette in moto la «reine Intelligenz ohne Absichten»21 e si libera dalle maglie di una razionalità determinante, può dar vita all’arte. Ma l’arte non è altro che «das rein Objektive», la forma esemplarmente oggettivata di un conoscere che attraversa arti e scienze, e che presuppone un «freie[s], d.h. nicht das persönliche Interesse irgend betreffende[s] Nachdenken über irgendeinen Gegenstand»22. Cosa significa che l’arte è esempio puramente incarnato in oggetto di una produzione riflessiva in libertà, la quale è il fondamento stesso – per Schopenhauer e, evidentemente, anche per Kant – di ogni attività umana? Cosa significa concretamente che l’arte è «das rein Objektive»? Una breve digressione sul ruolo del Beispiel (dell’esempio) nella terza Critica permetterà di avvicinarci a delle risposte. 21. A. Schopenhauer, Parerga und Paralipomena [I], in Id., Sämtliche Werke, Bd. V, hg. v. W. Frh. von Löhneysen, Cotta Verlag und Insel Verlag, Stuttgart-Frankfurt a. M. 19873 [1851], p. 491 [da ora abbreviato: PP I]. 22. A. Schopenhauer, Parerga und Paralipomena [II], in ivi, p. 85 [da ora abbreviato: PP II].

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Per il Kant del § 59 della terza Critica gli esempi sono tutti quegli oggetti e idee, che esemplarmente («exemplarisch»23) mostrano una regola dotata di validità universale (la «Allgemeingültigkeit»24), ma non esplicitabile – «eine[r] allgemeine[n] Regel, die man nicht angeben kann»25. L’universalità di tale regola non è data dal fatto che essa si estende sulla comunità dei giudicanti, ma che essa deve poter essere pensata, affinché una conoscenza sia possibile. È, in altre parole, la necessità di pensare che quel qualcosa oggetto della riflessione ab23. KdU, § 59, p. 149. Gli esempi sono occupati da e sollecitano le kantiane «idee estetiche», se è vero quanto Kant (KdU, § 49, 249 e s.) afferma: «Unter einer ästhetischen Idee aber verstehe ich diejenige Vorstellung der Einbildungskraft, die viel zu denken veranlaßt, ohne daß ihr doch irgend ein bestimmter Gedanke, d. i. Begriff, adäquat sein kann, die folglich keine Sprache völlig erreicht und verständlich machen kann». 24. Ivi, § 8, p. 127. 25. Ivi, § 18, p. 156. Per questo segmento della mia interpretazione mi sto riagganciando a E. Garroni, Une faculté à acquérir: sens et non-sens dans la Troisième Critique, in H. Parret (a cura di), Kants Ästhetik – Kant’s Aesthetics – L’esthétique de Kant, de Gruyter, Berlin-New York 1998, p. 316.

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bia uno scopo, pur, in realtà, non contenendone propriamente nessuno. L’esempio kantiano (va ribadito: quello del paragrafo 59 della terza Kritik) non ha valore illustrativo, non deve essere effettivamente condiviso, ma mette in scena la necessità ed il diritto della conoscenza di creare modelli condivisibili di accesso ad esperienze non (altrimenti) formalizzabili. Anche l’arte schopenhaueriana, nel suo singolare riferimento ad una pura oggettività, mostra esemplarmente un uso della volontà altro da quello consueto. Questa funzione dell’arte possiamo anche chiamarla paradigmatica, seguendo Agamben: Il paradigma è un caso singolo che viene isolato dal contesto di cui fa parte, soltanto nella misura in cui esso, esibendo la propria singolarità, rende intellegibile un nuovo insieme, la cui omogeneità è esso stesso a costituire. Fare un esempio è, cioè, un atto complesso, che suppone che il termine che funge da paradigma sia disattivato dal suo uso normale, non per essere spostato in un altro ambito, ma, al contrario, per mostrare il

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canone di quell’uso, che non è possibile esibire in altro modo26.

L’arte in Schopenhauer è esemplare, «das rein Objektive», perché rende a livello sensibile qualcosa, per il quale non è disponibile alcuna adeguata formulazione e che, pure, rientra nella gamma degli usi semplicemente possibili27. La sua oggettività deriva dall’essere stata creata ‘nello spirito’ («im Geiste»28, secondo la riflessione 214 dei Parerga di Schopenhauer) della natura: deve, cioè, mostrare un’evidente conformità a scopi («augenfällige Zweckmäßigkeit»29), pur non seguendone proprio alcuno. La capacità paradigmatica dell’arte in senso schopenhaueriano di mostrare una conformità interrotta, di palesarsi come se fosse il prodotto di una natura riguardata finalisticamente, non può non

26. G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 20. 27. Sull’arte come paradigma di un rapporto che va dal particolare al particolare, cfr. la riflessione 208 di PP II, p. 497. 28. PP II, p. 503. 29. Ibid.

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richiamare alla memoria questo passo centralissimo della terza Critica: An einem Produkte der schönen Kunst muß man sich bewußt werden, daß es Kunst sei, und nicht Natur; aber doch muß die Zweckmäßigkeit in der Form desselben von allem Zwange willkürlicher Regeln so frei scheinen, als ob es ein Produkt der bloßen Natur sei. Auf diesem Gefühle der Freiheit im Spiele unserer Erkenntnisvermögen, welches doch zugleich zweckmäßig sein muß, beruht diejenige Lust, welche allein allgemein mitteilbar ist, ohne sich doch auf Begriffe zu gründen30.

Quel che Kant afferma sull’arte bella vale senza dubbio anche per l’arte schopenhaueriana: essa può sprigionare la sua negatività solo se viene pensata per analogia31 col mondo finalistico, che viene necessariamente sovrapposto al mondo naturale. Di più: essa mostra, ‘rappresenta’ (pur senza intenzionarla) la produzione

30. KdU, § 45, p. 240. 31. Sto rielaborando G. Agamben, L’uomo senza contenuto, cit., p. 20; cfr. E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Il Mulino, Bologna 1968, pp. 417-418 e 433-441.

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in assenza di scopi (interni ed esterni32), che abbiamo chiamato metaoperatività. È questa l’«esperienza della potenza»33, in forza della quale l’arte schopenhaueriana rende inoperosi i saperi e li riapre a nuove forme di uso. Essa è come se fosse conforme a scopi, quindi, come se fosse un’opera; eppure, non è affatto un’opera. Semmai, in-opera34, in quanto mostra la possibilità stessa dell’operare, senza che esso possa essere conoscitivamente trasparente a sé stesso. Ora, partendo da tale concezione agambeniana e kantiana del rapporto tra arte e negazione, nelle prossime pagine verranno analizzate Die Welt als Wille und Vorstellung e le Ergänzungen schopenhaueriane, cercando, di volta in volta, di metterne soprattutto in evidenza gli snodi argomentativi esposti in questa introduzione e provando a mostrare come quello che per Kant è un procedimento analogico di de32. Penso, qui, ai concetti kantiani di «innere» e «äußere Zweckmäßigkeit», soprattutto nei seguenti paragrafi della KdU: § 15, p. 143; § 58, p. 332; § 63, p. 315; § 82, p. 382. 33. G. Agamben, Bartleby o della contingenza, in G. Deleuze – G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993, p. 59. 34. G. Agamben, Nudità, nottetempo, Roma 2009, p. 146.

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duzione dell’arte assuma, in Schopenhauer, i connotati (sempre kantiani?) di una necessità gnoseologica e, ancor prima, ontologica, che si palesa, per scorci, nel dispiegamento della potenza negativa di un Wille confitto tra senso e non-senso. Volendo riassumere, per grandi linee, le direttrici portanti del concetto di negazione, si dirà allora che essa si presenta come un’interruzione (1), una sospensione (2) ed una deviazione (3) della volontà e, dunque, del senso, così come essi vanno plasmandosi nel e attraverso il soggetto.

1. Una “premessa gnoseologica” Come è noto35, nell’assetto complessivo della teoria della conoscenza elaborata da Schopen35. Una densa ricognizione sul tema della corporeità nella gnoseologia schopenhaueriana viene offerta da A. Carrera, Il corpo tra volontà e rappresentazione. Schopenhauer, Nietzsche, Bloch, Greco&Greco, Milano 2015, pp. 47-76. Sulle diverse interpretazioni del corpo nella filosofia schopenhaueriana rimando all’analisi puntuale di S. Atzert, Leib und Willensbegründung bei Schopenhauer, in M. Koßler – M. Jeske (Hg.), Philosophie des Leibes. Die An-

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hauer al corpo viene assegnato il ruolo fondamentale di essere il primo – e senza dubbio il più accessibile – medium, attraverso il quale la volontà viene a manifestarsi. Anziché presentarsi come una serie di sensazioni irrelate, la cui somma lo rende una superficie opaca per ogni conoscere, il corpo, per Schopenhauer, concentra e raccorda nella sua materialità e nelle sue azioni i principali modi (di apprensione) del reale. Certamente, come a breve vedremo, il corpo non rappresenta affatto la sola e unica istanza del reale, vale a dire, esso non può fornire lo strumentario per leggere la totalità delle relazioni. Il limite del conoscere non viene fornito dal corpo, e nemmeno dal conoscere stesso, in quanto entrambi sono per Schopenhauer il rispecchiamento di una scena originaria che li attraversa e li supera: la volontà. Nel collocare il corpo all’interno di un più vasto spazio, il mondo, nel quale gli enti sono tali solo in funzione della loro conoscibilità e della loro adeguatezza a – dunque, della loro posizione in – un ordine superiore, soggiacente e omoge-

fänge bei Schopenhauer und Feuerbach, Königshausen & Neumann, Würzburg 2012, pp. 59-68.

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neizzante, Schopenhauer non può certamente che fare eco ad una tradizione essenzialmente sostanzialistica che lo ha preceduto. Tuttavia, tanto i modelli del corpo razionalistico-meccanicistici (Descartes e La Mettrie) quanto quelli empiristi (Hume e Locke) vengono da Schopenhauer letti fondamentalmente a partire dalla filosofia di Kant, la quale è indiscutibilmente la cifra portante di gran parte delle opere schopenhaueriane. Nonostante il confronto che lui conduce con la filosofia del suo tempo (mi riferisco in particolare ai più o meno ironicamente descritti, anzi, agli spesso derisi Hegel e Fichte), con i Veda e le Upanishad e con l’altro grande pilastro del suo pensiero, Platone, Schopenhauer sviluppa anche il tema della corporeità a partire da quel nucleo incandescente costituito dalla volontà, che gli fornisce spesso i contenuti, le strutture e soprattutto i limiti gnoseologici, oltre i quali collocare le forme dell’inconoscibile. Per quanto tutto ciò che è stato detto sin qui sul corpo sia in parte già noto nella Schopenhauer-Forschung, resta tuttavia necessario tenerlo ben presente, se non si vuole affibbiare a Schopenhauer e al suo pensiero estetico le classiche etichette del platonico, dell’antesignano

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di Nietzsche, del sedicente radicale anti-idealista che finirebbe per misconoscere il proprio idealismo, del filosofo dell’arte di vivere, e via di seguito. Ciascuna di queste letture contiene indubbiamente un contenuto di verità, ma quello che interessa in questa sede, al fine di rendere chiara la nostra tematica circa la negazione dell’arte, è di portare alla luce la struttura del pensiero schopenhaueriano a partire dalla sua unità minima: il corpo. Dopo l’Introduzione, questa voleva essere – appropriandomi di un’espressione benjaminiana – una premessa gnoseologica per il riconoscimento di quello che chiamerei deleuzianamente36 il dispositivoSchopenhauer, ovvero l’intreccio multilineare di problemi che la sua estetica pone al lettore.

2. Corpo a corpo? Centro dal quale si dipartono, per lo Schopenhauer di Die Welt, le attività conoscitive è certa36. G. Deleuze, Qu’est-ce qu’un dispositif?, in Aa. Vv., Michel Foucault philosophe. Rencontre internationale Paris 9, 10, 11 janvier 1988, Seuil, Paris 1989, p. 185.

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mente il «soggetto» («Subjekt»37). Esso costituisce la presupposizione della realtà sensibile, la condizione di possibilità di ogni forma sensibile, detta da Schopenhauer «rappresentazione» («Vorstellung»38). Le rappresentazioni sono, dunque, rappresentazioni-per-il-soggetto39, «oggetti» («Objekte»40) che non presentano alcuno statuto esistentivo che non sia per sua stessa natura prodotto di un atto conoscitivo. Questa distinzione viene adoperata da Schopenhauer probabilmente sulla base della sua lettura del primo dei Three Dialogues between Hylas and Philonous (1713) di Berkeley, dove si legge: 37. WWV I, p. 33. 38. Ibid. 39. Cfr. §16 di Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde [1813]: «Unser erkennendes Bewußtsein, als äußere und innere Sinnlichkeit (Receptivität), Verstand und Vernunft auftretend, zerfällt in Subjekt und Objekt, und enthält nichts außerdem. Objekt für das Subjekt sein und unsere Vorstellung sein ist dasselbe. Alle unsere Vorstellungen sind Objekte des Subjekts, und alle Objekte des Subjekts sind unsere Vorstellungen». A. Schopenhauer, Kleinere Schriften, in Id., Sämtliche Werke, Bd. III, hg. v. W. Frh. von Löhneysen, Cotta Verlag und Insel Verlag, Stuttgart-Frankfurt a. M. 19873, p. 41. 40. WWV I, p. 33.

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Phil: How then came you to say that you conceived a house or tree existing independently and out of all minds, whatsoever? Hyl: That was an oversight; but stay, let me consider what led me into it. It is a pleasant mistake enough. As I was thinking of a tree in a solitary place, where no one was present to see it, methought that was to conceive a tree as existing unperceived or unthought of, not considering that I myself conceived it all the while. But now I plainly see, that all I can do is to frame ideas in my own mind. I may indeed conceive in my own thoughts the idea of a tree, or a house, or a mountain, but that is all. And this is far from proving, that I can conceive them existing out of the minds of all spirits. Phil: You acknowledge then that you cannot possibly conceive, how any one corporeal sensible thing should exist otherwise than in a mind. Hyl: I do41.

41. G. Berkeley, Three Dialogues between Hylas and Philonous, in Id., Philosophical Works including the works on vision, intr. and notes by M.R. Ayers, Dent, London 1975, p. 158 [129-207]. Per la mia lettura cfr. M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 20083, p. 26; V. Spierling, Arthur Schopenhauer zur Einführung, Junius, Hamburg 2002, pp. 48-49.

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Il primo oggetto che si offre e si genera come materia conoscitiva costante, la cui permanenza viene prodotta e automaticamente interrogata dal soggetto stesso, è il «Leib», il «corpo»42. La lettura formalistico-razionalista della relazione soggetto-oggetto, così come il suo riflesso esemplare nella coppia concettuale materiaforma, sono destinate a creare aporie insolubili circa la preminenza dell’uno o dell’altro membro della coppia nell’economia del processo conoscitivo. Volendo ragionare con una categoria ex post fenomenologica: anche una «costituzione del corpo» («Konstitution des Leibes»)43 tesa ad appiattire il mondo degli oggetti a entità dotate di una propria vita, interagenti con altri soggetti e pronte a ridursi vicendevolmente in vista del riconoscimento di un tessuto di senso comune, non può che postulare una realtà a metà, composta da enti omnimodo manifesti. Per Schopenhauer è, invece, fuori di dubbio che gli «Objekte» siano fatti della stessa grana delle Vorstellungen e dei sogni, ossia che abbia42. WWV I, p. 33. 43. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Bd. II, hg. von M. Biemel, M. Nijhoff, Haag 1952, pp. 144-147.

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no una natura illusoria e immaginifica, dotata, sì, di «effettualità» («Wirklichkeit»44), ma che siano, in questo senso, solo parzialmente interpretabili attraverso la griglia delle leggi di causa ed effetto. Quindi, il corpo non può che essere anch’esso effettuale o, detto altrimenti, rappresentazione soggettiva che è esposta al cambiamento prodotto dalla concatenazione necessaria di causa ed effetto45. È rappresentazione, ma nient’affatto una rappresentazione fuori dal circolo degli eventi, non inserita in uno spazio di relazioni – sulla differenza, che il nostro discorso ha tenuto finora implicitamente ferma, tra le rappresentazioni come prodotti immaginativi e come forme effettuali, torneremo più avanti.

44. WWV I, p. 38. 45. Il principio di causa-effetto inerente al divenire, nel §20 di Über die vierfache Wurzel, viene detto «Satz vom zureichenden Grunde des Werdens», cit., p. 48. Su quest’ultimo come condizione di possibilità dell’esperienza, cfr. le note alla terza critica scritte tra il 1811 ed il 1813, A. Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlaß, Bd. II (Kritische Auseinandersetzungen 1809-1818), hg. v. A. Hübscher, Waldemar Kramer, Frankfurt a. M. 1967, p. 296.

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La conoscenza del corpo (intesa come ciò che il soggetto percepisce di esso), pur essendo regolata da leggi di causa-effetto, non è una conoscenza integralmente intellettuale. Essa cioè non viene raccolta in unità. Il corpo, detto in altri termini, si dà come un insieme di impressioni sensibili, ciascuna ovviamente rispondente ai principi generali di causa-effetto, ma non componibili in un insieme di concetti collegati fra loro senza residui. Scrive Schopenhauer: Also sage ich, daß der Leib unmittelbar erkannt wird, unmittelbares Objekt ist; jedoch ist hier der Begriff Objekt nicht einmal im eigentlichsten Sinn zu nehmen: denn durch diese unmittelbare Erkenntnis des Leibes, welche der Anwendung des Verstandes vorhergeht und bloße sinnliche Empfindung ist, steht der Leib selbst nicht eigentlich als Objekt da, sondern erst die auf ihn einwirkenden Körper; weil jede Erkenntnis eines eigentlichen Objekts, d.h. einer im Raum anschaulichen Vorstellung, nur durch und für den Verstand ist, also nicht vor, sondern erst nach dessen Anwendung46.

46. WWV I, p. 52.

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L’argomentazione di Schopenhauer è, qui, molto chiara. Il corpo è localizzabile, a suo avviso, in un prima, in uno spazio (non topologico) e in un tempo (non cronologico) precedenti all’ordine delle rappresentazioni del Verstand. Esso è, sì, una rappresentazione, ma non, come detto in precedenza, una rappresentazione totalmente organizzata, priva di sovrapposizioni, sfocature e intrecci causate dall’Empfindung. Con l’espressione «unmittelbares Objekt» («oggetto immediato»), Schopenhauer fa scivolare il corpo nell’ambito delle sensazioni e, così facendo, sembra declassarlo (razionalisticamente) a una conoscenza inferiore. Esso è il primo tassello di ogni organizzazione intellettuale, la materia grezza delle riflessioni: non può che essere, allora, kantianamente il supporto primo dell’Anschauung e del suo valore conoscitivoesperienziale47. 47. Se l’esperienza consiste nel presuppore che gli oggetti si orientino verso i concetti, e viceversa, il corpo sembra incarnare esattamente questo chiasma: «Wenn die Anschauung sich nach der Beschaffenheit der Gegenstände richten müßte, so sehe ich nicht ein, wie man a priori von ihr etwas wissen könne; richtet sich aber der Gegenstand (als Objekt der Sinne) nach der Beschaffenheit unseres Anschauungsvermögens, so kann ich mir diese Möglich-

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Nell’assetto della filosofia della sensibilità schopenhaueriana il corpo sembrerebbe non essere, da qui, soggetto. Rispondendo alle leggi di causa-effetto esso non si esperisce e non esperisce gli altri oggetti immediati al di fuori del perimetro della sua sensibilità, da una posizione esterna al prodursi (al divenire) dei fenomeni. La

keit ganz wohl vorstellen. Weil ich aber bei diesen Anschauungen, wenn sie Erkenntnisse werden sollen, nicht stehen bleiben kann, sondern sie als Vorstellungen auf irgend etwas als Gegenstand beziehen und diesen durch jene bestimmen muß, so kann ich entweder annehmen, die Begriffe, wodurch ich diese Bestimmung zu Stande bringe, richten sich auch nach dem Gegenstande, und dann bin ich wiederum in derselben Verlegenheit, wegen der Art, wie ich a priori hievon etwas wissen könne; oder ich nehme an, die Gegenstände, oder, welches einerlei ist, die Erfahrung, in welcher sie allein (als gegebene Gegenstände) erkannt werden, richte sich nach diesen Begriffen, so sehe ich sofort eine leichtere Auskunft, weil Erfahrung selbst eine Erkenntnisart ist, die Verstand erfordert, dessen Regel ich in mir, noch ehe mir Gegenstände gegeben werden, mithin a priori voraussetzen muß, welche in Begriffen a priori ausgedrückt wird, nach denen sich also alle Gegenstände der Erfahrung notwendig richten und mit ihnen übereinstimmen müssen». I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, hg. v. W. Weischedel, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1974 [1787], pp. 14-15.

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griglia sensibile-conoscitiva che fornisce all’intelletto lo oggettifica retroattivamente: il corpo, nel sentire sé stesso e la realtà che lo circonda, automaticamente si oggettifica. Ma, se è vero che le sensazioni verranno successivamente rielaborate in concetti e in un sistema di concetti, è necessario allora stabilire un punto di contatto tra il pensare ed il sentire, tra la mente ed il corpo. Tale punto di contatto, come appena accennato, non è incorporato, non è situato nel o presso il corpo, non subisce o aziona la concatenazione meccanica dell’effettualità. Piuttosto, è l’unità finzionale dell’io48 che è necessario pensare in connessione con i suoi oggetti (oggetti e rappresentazioni sono sempre tali per qualcuno o per qualcosa) e che ad essi non si riduce. Da qui, si dà però un duplice problema: se il corpo è un oggetto immediato, tale quindi da rientrare anche nel perimetro della conoscen-

48. Nel Gespräch über Teleologie, i cui attori sono un io ed uno scettico, scritto a Weimar nel 1814, l’io afferma: «Der Leib ist zwar nur eine Vorstellung, aber kein Phantasma, sondern eine zum Ganzen der Erfahrung gehörige Vorstellung». A. Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlaß, Bd. I (Frühe Manuskripte 1804-1818), hg. v. A. Hübscher, Waldemar Kramer, Frankfurt a. M. 1966, p. 80.

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za, dove va situata la differenza, sempre che sia necessario presupporne una, tra corpo e attività intellettiva? E se il soggetto schopenhaueriano è un’unità che va pensata come una rappresentazione non effettuale, pertanto come una rappresentazione senza corrispondenza reale con gli oggetti empirici, deve quest’unità essere pensata come una semplice funzione, risultante sempre da un’applicazione delle operazioni conoscitive, che aiuta ad elaborare la differenza tra pensiero e reale? Come è evidente, a tali questioni risponde la teoria conoscitiva schopenhaueriana attraverso suddivisioni mai nette degli scomparti della conoscenza e del non-sapere: da una parte gli oggetti, il corpo e l’effettualità; dall’altra la ragione, i concetti e le formazioni intellettuali; nel mezzo, le loro interazioni nel segno di una ricognizione del sensibile coscientemente aperta alla variazione e alla mescolanza di sensibile e intelligibile. Questo assetto, che Schopenhauer tra contraddizioni e aporie tenta di tener fermo, fa parte di un pensiero del limite, esercitato e prospettato come il compito più alto del filosofare.

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3. Esperienze limite: ignoranza e corpo Alla domanda sul punto di scissione tra corpo e intelletto, Schopenhauer potrebbe rispondere che l’intelletto può ingrandirsi fino all’abnormità geniale49, così da penetrare sempre più profondamente gli oggetti – e, con loro, gli usi – che il corpo gli offre immediatamente e, da qui, ampliare lo spazio del suo esperire, aggirando i limiti del sentire. Il focus, a questo punto, si dirige inevitabilmente sull’intelletto. Così, però, si abbandona l’ambito di indagine di una Vermögenslehre, di una dottrina delle facoltà, e si è già nello spazio della filosofica critica. Per Schopenhauer l’intelletto ha primariamente due limiti. Essi corrispondono ai limiti dell’estensione del principio di causalità, i quali riposano (1) sul principio di causalità stesso e (2) sul «Ding an sich»50 (la «cosa in sé»). Vale a dire: i limiti del comprendere si palesano, per Schopenhauer, dinnanzi alle seguenti due realtà complementari e incontestabili. (1) Il principio di causa può “spiegare” tutti i fenomeni, così come la coappartenenza di concetti 49. Cfr. cap. 7. del mio studio. 50. WWV I, p. 133.

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e finalità, nella misura in cui li sussume sotto il suo modello; tuttavia non può sussumere sé stesso, altrimenti sarebbe costretto a postulare sempre una causa ulteriore per la sua origine, arenandosi pertanto in uno sterile circolo vizioso51. (2) Nel far risalire i fenomeni ad una causa, 51. Cfr. nuovamente § 20 di Die vierfache Wurzel, cit., p. 52: «Denn (sie wissen es, die Würdigen, wenn sie es auch nicht sagen) causa prima ist, ebensogut wie causa sui eine contradictio in adiecto; obschon der erstere Ausdruck viel häufiger gebraucht wird als der letztere und auch mit ganz ernsthafter, sogar feierlicher Miene ausgesprochen zu werden pflegt, ja manche, insonderheit englische Reverends, recht erbaulich die Augen verdrehn, wenn sie, mit Emphase und Rührung the first cause [die erste Ursache] — diese contradictio in adiecto — aussprechen. Sie wissen es: eine erste Ursache ist gerade und genau so undenkbar wie die Stelle, wo der Raum ein Ende hat, oder der Augenblick, da die Zeit einen Anfang nahm. Denn jede Ursache ist eine Veränderung, bei der man nach der ihr vorhergegangenen Veränderung, durch die sie herbeigeführt worden, nothwendig fragen muß, und so in infinitum, in infinitum!». Su questo punto, cfr. anche l’inizio del § 50 della stessa opera. Sulla necessità dell’assenza di un primo nel risalimento di causa in causa, cfr. M. Kurbel, Jenseits des Satzes vom Grund. Schopenhauers Lehre von der Wesenserkenntnis im Kontext seiner Oupnek’hatRezeption, Königshausen & Neumann, Würzburg 2015, pp. 25-26.

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la concatenazione si ferma nel momento in cui, per ignoranza, diventa necessario postulare una cosa in sé, la quale, non è una costante degli oggetti, bensì una condizione indeterminata dell’applicazione stessa del principio di causa e di ogni altra forma di finalità. Alla filosofia, per Schopenhauer, è delegato, tra gli altri, il compito di puntare la propria attenzione esattamente al duplice limite appena descritto52. La questione del limite, in Schopenhauer, non si riduce tuttavia meramente ad una constatazione dell’insufficienza dei mezzi per la misurazione del raggio d’azione dell’intelletto e di ogni teleologia. In Die Welt si riaffaccia, infatti, il problema del rapporto tra corpo e soggettività, quindi tra conoscenza e ricognizione empirica della sensibilità, proprio nel momento in cui Schopenhauer sembrava voler dissociare definitivamente la conoscenza grezza della sensibilità dall’intelletto. In alcune pagine centralissime dell’opera, Schopenhauer non può fare a meno di ammettere che il corpo non è solo il gradino più basso del conoscere, ma anche il medium per mezzo del quale la comprensione 52. Cfr. WWV I, p. 133.

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non è più un mero susseguirsi di cause ed effetti. Indagare la differenza tra la conoscenza veicolata dal corpo e quella costruita nell’intelletto, operando sulla corporeità, risponde all’esigenza, per Schopenhauer, di riconoscere due ambiti gnoseologici, la cui normatività va necessariamente separata a livello teorico. Da una parte, l’intelletto produce, attraverso i suoi sistemi di concetti, delle leggi sempre valide ed estendibili, fino a prova contraria: in tale contesto, quindi, il principio di causa non è uno strumento di conoscenza, ma è la forma del darsi dei fenomeni, ciò che permane nonostante la, o meglio, nella transitorietà del mondo sensibile. Dall’altra, abbiamo un corpo che è affetto del principio di causa ed effetto, ma che è, al contempo, in grado di essere esso stesso formatore, di imporre una propria effettualità al mondo sensibile, adoperando, sì, principalmente il principio di causa-effetto nelle sue diverse manifestazioni empirico-teoriche e pratiche, ma rivelando al contempo un uso non delegabile, non anonimo, del principio di causa-effetto, che non può essere comparato con quello dell’intelletto puro (puro nel senso di non riferito immediatamente agli oggetti dell’esperienza) in quanto espres-

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sione di un’“individualità” («Individuum»53). Al di là del principio di causa, il corpo, in quanto sensibile-sentito e ricettacolo di intensità affettive, diviene il latore anonimo di una potenza destituita della conoscenza, insomma, di un fare dispensato dal sapere. Ora, nell’idea di individuo-corpo è come se si compisse una torsione inaspettata e quasi paradossale del sistema conoscitivo schopenhaueriano, perché il lettore sembra assistere alla teorizzazione di un soggetto che è in pari tempo oggetto, dunque di una figura non-conoscitivamente autoriflessiva. Il corpo fornisce, in altre parole, al soggetto la tecnica, l’uso precategoriale del nesso finalistico per conoscere e conoscersi. Il “conoscersi” del corpo non è, così, certo solo una astratta comprensione di rapporti esteriori illimitatamente ripetuti, ma è una tecnica individualizzata. A essa, Schopenhauer dà il nome – per lasciare intatta la differenza tra conoscenza e ricognizione empirica, nel frattempo tramutatasi in una differenza tra prassi teorica e prassi empirica – di oggettità della

53. Ivi, p. 157.

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volontà («Objektität des Willens»54). La volontà – che per Schopenhauer abbraccia ogni totalità semplicemente possibile, essendone l’apriori55 – trova nel corpo il suo correlato sensibile in forma ridotta. Di più: non essendo possibile conoscere la volontà nella sua interezza56 e aggirarne la condizione (non emendabile) di apriori indeterminabile, si è in grado di conoscerne solo le manifestazioni fornite, tra gli altri, proprio dal corpo, le cui ombre in nuce tradiscono l’intrigo complessivo del Wille. In altre parole, non solo tra l’intelletto ed il corpo, ma anche tra la volontà e il corpo si dà, pur non senza residui, una continuità57. Riprova di ciò è senz’altro il fatto che i moti della volontà si esplicitano in primis attraverso reazioni del corpo più o meno intense, visibili o latenti. Questo tipo di relazione tra una rappresentazione, il corpo, e ciò che rappresentazione non è, la volontà, rivela una propria «philosophische Wahrheit»58, che è tale

54. Ivi, p. 158. 55. Ibid. 56. Ibid. 57. Ibid. 58. Ivi, p. 161.

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in quanto si fonda, per così dire, sulla possibilità di incarnare, di dare forma plastica a qualcosa, cui nessuna rappresentazione e nessun fenomeno possono di per sé essere adeguati. La verità filosofica si radica, quindi, nella dissimmetria tra la potenza e i suoi riflessi. Ora, pur riconoscendo nella positività della relazione volontà-corpo un valore di verità filosoficamente peculiare, dato da una possibile continuità tra i fenomeni (corpo) e le loro indeterminabili condizioni di pensabilità (volontà) e, quindi, da un appiattimento dell’indeterminatezza sulla determinazione, del meta-empirico sull’empirico, del meta-effettuale sull’effettuale, per Schopenhauer non è possibile in nessun modo universalizzare la conoscenza grezza, primitiva del corpo e ricomporre la feconda sfasatura tra sensibile e intelligibile. Quest’ultimo è il caso dell’«egoismo teoretico» («theoretischer Egoismus»59), che considera tutti i fenomeni, tranne la propria individualità, come «fantasmi» («Phantome»60). L’errore di questo tipo di egoismo gnoseologico è non solo quello di 59. Ivi, p. 163. 60. Ibid.

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estendere una conoscenza parziale o idealmente sottratta alla totalità dei fenomeni, ma anche, da questa prospettiva, di capovolgere e radicalizzare il rapporto che sta alla base delle verità filosofica della relazione volontà-corpo. Nell’egoismo, tutti i fenomeni vengono in questo modo non pensati in analogia con le dinamiche che governano la corporeità dell’individuo, ma come effettivamente rispondenti a una volontà deprivata della sua incommensurabile eterogeneità dei fini e ridotta a una serie di processi di causa-effetto calcolati a priori, trasparenti, noti, perché centrati su un esperire minimo – e, a ben vedere, del tutto impensabile. In Die Welt vediamo, dunque, venire alla luce due esigenze apparentemente contrastanti della volontà: da una parte, una individualizzante, espressa dalla sua azione attraverso il corpo; dall’altra, una disindividualizzante, espressa dalla ricomprensione di quest’ultimo nella dimensione dell’incalcolabile. Sarà necessario, nelle prossime pagine, approfondire entrambe, perché, come vedremo, l’arte in Schopenhauer presiede a questa divaricazione, dandole a sua volta forma, tramite la negazione. Sotto la maschera della dissoluzione dell’individualità, l’arte riflette il doppiofondo della corporeità ed il

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suo non potersi conoscere se non nell’esteriorità61, come un Sé da sempre spossessato della sua immagine.

4. La volontà come «tensione infinita» Nella varietà dei suoi fini, il mondo naturale mostra interamente il persistere dietro, dentro e oltre ogni fenomeno di un’unità dei fini. Questa unità – per Schopenhauer non “esponibile”, ma di certo filosoficamente interrogabile – è la volontà, la quale das Sein an sich jedes Dinges in der Welt und der alleinige Kern jeder Erscheinung ist62.

Le forze naturali, seppur deducibili in principi, mostrano proprio nella loro ricorsiva formulabilità l’esistenza e la pensabilità di una regola a monte non traducibile in sistemi, di una qualità occulta63. Essa è il limite64 del principio di 61. Cfr. J.-L. Nancy, Corpus, Métailié, Paris 20062, p. 18. 62. WWV I, p. 181. 63. Ivi, p. 185. 64. Ivi, pp. 208-209.

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causa-effetto, ne è la condizione indeterminata, che deve poter essere pensata, affinché conoscenza in generale sia possibile. Ciò significa che ogni fenomeno conosciuto può essere a sua volta penetrato conoscitivamente sempre più a fondo, che in esso non può che riposare un cono d’ombra, il quale è il non-conosciuto, ovverosia la costitutiva indeterminabilità del fenomeno nella sua intera fenomenologia. Non sono però solo il non-conosciuto e la sua ricorsività a essere indeterminabili: indeterminabile lo è anche la costanza dei caratteri dei fenomeni. Nei fenomeni sono iscritti, per Schopenhauer, delle costanti caratteristiche (ad esempio: il fatto che l’uomo abbia determinati organi, arti, e così via). Si tratta di forme che, nonostante il perire o il non-esser-più dei singoli fenomeni, rimangono costanti, in quanto ricorrono, sì da tracciare una morfologia del reale che si mantiene salda al di là del declino dei singoli enti. Schopenhauer riconduce le forme appena menzionate alle idee platoniche65, le quali per lui sono anzitutto immagini dei diversi modi di oggettivazione della volontà. Anche se oggettivate, le idee restano per Schopenhauer epékei65. WWV I, p. 196.

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na tēs ousías, al di là dell’essenza, perché esse sono anzitutto gli indizi di una «tensione infinita» («endloses Streben»66) della volontà verso la propria (auto)produzione e (auto)riproduzione. Il perdurare delle forme è una traccia incancellabile di una volontà, che muove senza requie le rappresentazioni, dislocandole e ricombinandole nel segno di un’infinita analogia con sé stessa. Ciascuna forma non tende, quindi, semplicemente alla rappresentazione di una porzione di volontà. Ogni forma ideale autorappresentativa cerca, per Schopenhauer, di essere immagine di idee più semplici. Più esattamente: ogni forma pretende di inglobare forme più primitive di oggettità della volontà, sicché la costanza delle forme del reale non si basa affatto su una struttura stabile che separa un piano ontologico (delle rappresentazioni) da un piano metaontologico (della volontà). Il mondo delle idee platonico, che Schopenhauer in questo modo personalizza, è costituito da una lotta67 delle forme ideali, vòlta alla loro autorappresentazione. Non solo un rapporto di

66. Ivi, p. 240. 67. Ivi, pp. 216-218.

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adeguazione alimenta la tensione infinita della volontà ad autorappresentarsi: la volontà preme attraverso le idee, facendole collidere, sì da aumentare il proprio livello rappresentativo. L’oggettità in grado di rappresentarsi è quella che riesce ad esprimere rapporti ideali semplici e che è, al contempo, in grado di dare forma ad idee organizzate a livello superiore. La volontà è, sì, presente anche nei gradi più bassi del reale, ma in quelle oggettità che testimoniano la loro lotta per la sopravvivenza. Solo in esse la volontà offre un’immagine nitida di sé e della sua insondabile tortuosità68. Attenzione, però: quella della lotta fra idee è, in Schopenhauer, una metafora che si genera dal pensare necessariamente (e analogicamente, stando al carattere immaginifico che per lui ha il reale) gli enti come potenze perennemente trasformate e sfrangiate dalla negatività. Riuscire, per Schopenhauer, a gettare uno sguardo all’interno dell’idea è possibile solo 68. Sto rielaborando alcuni spunti di G. Carchia, Schopenhauer: l’immaginazione come autotrasparire dell’apparenza rappresentativa, in Id., Immagine e verità. Studi sulla tradizione classica, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003, pp. 75-77.

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quando l’individuo sospende la conoscenza degli oggetti singoli e, immergendosi nella pura contemplazione di una potenzialità crescente di usi, si tramuta in «soggetto puro della conoscenza» («reines […] Subjekt der Erkenntnis»69). Cosa significa tutto questo? Significa che la penetrazione contemplativa nella complessione più profonda della volontà implica tanto un abbandono della conoscenza degli oggetti quanto della volontà, l’uno e l’altro finalizzati a scopi determinati. La teleologia, nella sua forma pragmatica, viene abbandonata dal soggetto puro della conoscenza, che in ciò nega sospendendo tutto ciò che (lo) individua – per prima: la coscienza della corporeità – e amplia lo spazio delle relazioni conoscitive, alle quali è legata la (inaggirabile) limitatezza dell’applicazione del principio di causa-effetto. Il soggetto puro si rispecchia in una totalità non più di oggetti utili, ma di forme infinite della volontà e della loro rete infinita di relazioni. Il modo attraverso il quale si può raggiungere la contemplazione delle idee, in Schopenhauer, ha un via eminente, che è quella dell’arte. At69. WWV I, p. 257.

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traverso l’arte il soggetto puro della conoscenza, come si vedrà, nega la forma determinata del volere, accedendo ad un nuovo uso, nel libero gioco delle proprie facoltà esperienziali, del conoscere nel senso più ampio del termine.

5. Al di là della volontà: l’arte ed il suo (auto) annullamento All’arte, in Die Welt, viene ascritto un ruolo fondamentale, in quanto essa inaugura una forma di conoscenza non puntuale, non utilitaristica, e proprio in ciò totalizzante. L’arte comunica la conoscenza delle idee, e lo fa elevando l’oggetto singolo della sua rappresentazione all’immagine di una nuova totalità delle relazioni che intersecano le manifestazioni empiriche della volontà. Ogni rappresentazione artistica implica, dunque, un superamento delle rappresentazioni reali. Grazie alla sua funzione totalizzante – la quale, come a breve si vedrà, non mira alla costruzione di una realtà altra o alla messa in forma di una volontà parallela – l’arte in Die Welt si sottrae al principio di causa o, meglio, è da

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esso indipendente, semplicemente poiché isola gli oggetti dalle loro reti di relazioni ordinarie (ad esempio: i significati e le regole del loro darsi), dalla normatività alla quale le facoltà conoscitive devono sottometterli. Le rappresentazioni, nell’arte, perdono l’operatività e l’incisività tecniche, che possiedono nel mondo della materia, ed entrano, per così dire, in un regno rappresentativo superiore, nel quale i rapporti ontologici che li legano vengono messi in mostra, interrotti e ricombinati70. La libertà con la quale le forme teleologiche vengono spezzate-ricomposte è, anzitutto, l’espressione di una nuova poiesis, alla cui base si trovano moti della volontà che rompono e riannodano le direttrici finalistiche delle applicazioni del principio di causa, mettendone in immagine la condizione intrinseca. In questa maniera l’arte schopenhaueriana nega il mondo sic et simpliciter, ovvero quel mondo costruito a partire dalle flebili oggettità della volontà che il corpo incarna, potenziandone la rappresentatività con 70. Seguo, qui, alcune riflessioni di Georg Simmel dal suo Schopenhauer und Nietzsche, in Id., Gesamtausgabe, Bd. X, hg. v. M. Behr, V. Krech, G. Schmidt, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1995 [1907], p. 273.

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un aumento dello spazio di relazione tra le idee. Nel negare, l’arte scioglie i legami funzionali tra gli (e degli) oggetti, così da far sorgere dall’interno del mondo delle rappresentazioni causali un altro mondo rappresentativo, nel quale tali relazioni vengono inibite, diventando pure forme senza effettualità, paradigmi71 concreti di un operari che amplia l’esercizio conoscitivo. È così che l’arte, per Schopenhauer, fa da schermo ai Gehirnphänomene, nei quali la volontà si dà solo come pura forma potenziale, non ancora tradotta e singolarizzata in materia o atti materiali. Il «Genie»72 non è, pertanto, (solo) colui che si fa artefice di una materia, ancor meno se scevra di prestazioni funzionali intensive (è il caso, questo, della non-arte), ma che resta e fa permanere il fruitore (sia esso lettore, uditore o spettatore) in uno stato contemplativo, nel quale le facoltà conoscitive sono aperte all’esperire. Il genio non è, insomma, chi esternalizza contenuti della mente giudicabili come opere d’ar-

71. Cfr. la mia introduzione. 72. WWV I, p. 266. Sulla dialettica tra «Genie» e «Genius», cfr. cap. 7.

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te, bensì chi trasmette il suo «Wohlgefallen»73, l’apertura alla negatività nella contemplazione delle idee a chi può, a sua volta, avere il piacere di contemplarle e di negarle. È come se nell’opera e con la sua forma, ad essere prodotta e salvaguardata dal genio sia la possibilità di indugiare74 nella contemplazione e nella negazione di ogni scivolamento delle nostre facoltà conoscitive (quindi: del principio di causa) in usi determinati. Con il proprio formare e, soprattutto, con il proprio contemplare, il genio è la figura che incarna inoltre la negazione di quella pigrizia intellettuale con la quale all’arte si sostituisce la deduzione di essa, all’opera la sua comprensione sotto le vesti dimesse della lectio facilior. È l’uomo comune che, con la maschera del filisteo (nietzscheano), si vieta l’Umweg, e cerca la scorciatoia emotiva-conoscitiva nell’opera attraverso formule e definizioni: So weilt der gewöhnliche Mensch nicht lange bei der bloßen Anschauung, heftet daher sei73. WWV I, p. 279. 74. Cfr. Introduzione, nota 11. Sull’esitare e l’indugiare estetici è stata importante la lettura di J. Vogl, Über das Zaudern, diaphanes, Zürich-Berlin 20142, in particolare pp. 7 e 11.

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nen Blick nicht lange auf einen Gegenstand; sondern sucht bei allem, was sich ihm darbietet, nur schnell den Begriff, unter den es zu bringen ist, wie der Träger den Stuhl sucht, und dann interessiert es ihn nicht weiter. Daher wird er so schnell mit allem fertig, mit Kunstwerken, schönen Naturgegenständen und dem eigentlich überall bedeutsamen Anblick des Lebens in allen seinen Szenen75.

Nei Parerga Schopenhauer si esprime in termini analoghi sull’uomo comune, il cui intelletto ricade in Untätigkeit, sobald der Wille ihn nicht antreibt. Sie nehmen an gar nichts ein objektives Interesse. Ihre Aufmerksamkeit, geschweige [ihr] Nachdenken, schenken sie keiner Sache, die nicht eine, wenigstens mögliche, Beziehung zu ihrer Person hat: außerdem gewinnt keine ihnen ein Interesse ab […] alles nur, weil sie bloß eines subjektiven Interesses fähig sind76.

Dunque, l’uomo comune riconduce le sue oscillazioni del volere ad un presunto interesse soggettivo, che altro non tradisce se non l’inca75. WWV I, pp. 268-269. 76. PP II, p. 86.

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pacità di raggiungere l’incondizionata oggettità di un uso senza scopo. Niente lo muove, l’Antreiben resta l’effetto indesiderato che mina la sopravvivenza. Nell’opera di genio si viene trattenuti invece, in quanto fruitori, in uno stato contemplativo, durante il quale l’esperienza viene intensificata, proprio perché lasciata libera di attraversare e riattraversare, nel sfera del possibile, gli interessi. Aumentare l’esperienza significa portarla ad un livello di complessità superiore, tramite l’instaurazione di relazioni ideali estese77. Il soggetto puro di conoscenza si stacca dalla propria individualità («wir sind nicht mehr das 77. In questo senso, mi sembra sia ravvisabile una posizione antirealistica nella idea di genio schopenhaueriana, come suggerisce la lettura di J. Schmidt, Die Geschichte des Genie-Gedankens in der deutschen Literatur, Philosophie und Politik 1750-1945, Bd. I, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1985, p. 468. L’aumento intensivo del volere corrisponde alla capacità produttiva del genio di mostrare – seppur solo temporaneamente – le possibilità della forma nella negazione. Per una panoramica sulle concezioni di genio che hanno influenzato Schopenhauer, cfr. M. Hübscher, Denker gegen den Strom. Schopenhauer: Gestern – Heute – Morgen, Bouvier, Bonn 1973, pp. 85-94.

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Individuum»78), non allargando i propri confini esperienziali materiali, bensì intrattenendosi nelle possibilità della conoscenza, alle quali corrispondono nuove forme e modi del reale, sospesi dalla loro connessione, in senso kantiano, d’esistenza – del reale quale materia plasmata a piacimento dalla negatività del Wille. Il genio [schaut] in die Welt hinein […] als in ein Fremdes, ein Schauspiel, daher mit rein objektivem Interesse79.

Nell’istante in cui il theoreín, l’intuire conoscitivamente, opera, la volontà – che individua – viene soppiantata dalla rappresentazione: Die Welt als Vorstellung ist dann allein noch übrig, und die Welt als Wille ist verschwunden80.

L’individuo può elevarsi a soggetto del conoscere puro, nel momento in cui nega il suo corpo e tutte le forme singolari della volontà. Detto in altre parole: tramite l’arte, viene negata, cioè sospesa a tempo indeterminato, la teleologia 78. WWV I, p. 282. 79. WWV II, p. 510. 80. WWV I, p. 283.

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del mondo naturale. Nell’arte di genio non è più necessario che il mondo si accordi alle mie facoltà conoscitive secondo le proporzioni per l’uso del principio di causa e in vista del mio orientamento in esso. L’armonia gnoseologica viene palesemente dichiarata un espediente scenico. Tutto ciò che individua diventa, nel puro conoscere, il mero supporto per la visione di relazioni nuove e semplicemente possibili. L’abbandono non intenzionale della volontà, che per Schopenhauer è il cuore della vera comunicazione artistica, non inaugura solo l’artisticità della rappresentazione considerata, ma anche la sua bellezza. L’arte di genio è bella perché mostra la possibilità di una forma del fare, ossia di un fare che porta ad espressione il proprio processo generativo (la forma), per mezzo di una insopprimibile vitalità delle rappresentazioni, collegata a quella, in sé insondabile, «Lebenskraft»81 che muove la natura e le sue maschere tutte. 81. Si legge in un appunto schopenhaueriano del 1826: «Es giebt nur eine Lebenskraft welche unermüdlich und der Ruhe nicht bedürftig ist, weil sie metaphysisch, Ding an sich, Wille zum Leben ist». A. Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlaß, Bd. III (Berliner Manuskrip-

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La possibilità di pensare rappresentazioni interagenti ed effettuali, ma senza uno scopo ultimo, porta alla manifestazione, nell’essere della forma, del motore dell’arte, che è l’«uomo» («der Mensch»82). È lui ad essere il primo creatore di possibilità, l’indeterminabile per eccellenza nella sua più completa relatività, l’unico a poter oltrepassare la superficie teleologica della volontà e a potersi profondere in un conoscere senza conoscere. Laddove l’individuo, quale soggetto del puro conoscere, approda alla possibilità di pensare non l’altro dal mondo, bensì l’altro del mondo83, ossia il mondo completamente riaperto ad un conoscere che precede il legame dell’immediatezza pratica, nel quale la volontà si è autoannientata e superata (la «Selbstaufhebung»84). La volontà, nell’arte, giunge in altre parole a saturazione. Si traduce, cioè, in una rete di relazioni così densa, da dar

te 1818-1830), hg. v. A. Hübscher, Waldemar Kramer, Frankfurt a. M. 1970, p. 311 [da ora abbreviato HN]. 82. Ivi, p. 298. 83. Cfr. J.-L. Nancy, Être singulier pluriel, Galilée, Paris 1996, p. 80. 84. WWV I, p. 328.

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vita a sovrapposizioni multiple e inattese, a ripiegamenti caratteristici e intrecci intensivi. La negazione della vita che, nell’arte, si consuma è anche, tuttavia, legata alla sua forza di sottrarsi alle forme di eteronomia ed al suo decretare una frammentazione senza precedenti. Solo nel non-finito, nell’insensatezza si acquieta l’esigenza di forma, perché in esse si (ri)producono le distanze incolmabili che attraversano il reale e, allo stesso tempo, quegli intervalli nei quali il calcolo progettante-realizzante non più asservito alla sopravvivenza rivela la sua intima instabilità, la contingenza ed esposizione più radicali. La funzione quietiva dell’evento artistico in Schopenhauer non ha, dunque, nulla a che vedere con un momento anestetizzante o consolatorio del fatto artistico, ma col momento in cui il soggetto puro di conoscenza accede ad uno spazio del possibile: è nella «Mitte aller Beziehungen»85, nella posizione costantemente decentrata del soggetto che nega la volontà a diventare raggiungibile la «höchste unendliche 85. W. Benjamin, Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I.I, hg. v. R. Tiedemann u. H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1991 [1914/15], p. 124.

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Gestalt und Gestaltlosigkeit»86, la quiete attesa e sorvolata dalla potenza.

6. Arte e sistema: di alcuni motivi hegeliani Nella sua lotta con la materia alla quale è incatenato, così come nel suo progressivo liberarsi da se stesso, annullandosi, il Wille schopenhaueriano mostra un intreccio notevole – sul quale ancora non ci sono indagini rilevanti – con il Geist hegeliano87. La torsione della volontà su se stessa fino alla negazione, attraverso l’arte, del principio di individuazione e, da qui, la fondazione di una soggettività assoluta nel puro conoscere, nella sovranità assoluta delle relazioni conoscitive, può essere messo in connessione con il movimento dialettico dello 86. Ibid. 87. Per Croce Schopenhauer occupa una posizione intermedia tra Hegel e Schelling. Il filosofo napoletano non giustifica, però, le sue ragioni a partire (almeno) da un confronto delle posizioni estetiche di Schopenhauer e Schelling, cfr. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Adelphi, Milano 1990 [1902], pp. 388-392.

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spirito quale sapere assoluto88 hegeliano che si esteriorizza («Entäußerung»89) in una oggettità («Gegenständlichkeit»90) sensibile, negativizzandosi. Il movimento dialettico dello spirito ha la meglio su ogni datità, soprattutto quella inaggirabile del fatto artistico. Infatti, se è vero che Hegel ha provato a vedere nell’arte una – nel novero delle forme naturali: superiore – incarnazione sensibile estraniata («Entfremdung»91) ed esteriorizzata («Entäußerung»92) dello spirito assoluto, dell’universale nell’individuale, ebbene, il primato dello spirito sulla materia, e la conseguente svalorizzazione della singolarità artistica (fin persino nella sua materialità), non sarebbero altro che la conferma di un risultato

88. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Id., Werke, Bd. III, hg. v. E. Moldenauer u. K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1989 [1807], p. 590. 89. Ibid. 90. Ibid. 91. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik. Erster und zweiter Teil [1835], hg. v. R. Bubner, Reclam, Stuttgart 19892, p. 53. 92. Ibid.

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estetico tanto coraggiosamente cercato, quanto inesorabilmente mancato. L’individuale, ossia l’opera, resta compresa, nell’assetto teorico hegeliano, solo in qualità di traccia effimera dello spirito e non in qualità di manifestazione singolare di un senso altro rispetto al dominio del lógos. Lo stesso sembrerebbe accadere nel momento in cui Schopenhauer concepisce l’arte come l’ombra di un Wille, seppur negativo. L’arte schopenhaueriana sembra affermarsi non in quanto radicalmente opposta ad ogni sfera finalistica, bensì in quanto prolungamento e culmine della negatività del volere finalistico. Inoltre è lampante un’altra analogia tra Schopenhauer ed Hegel, per quel che concerne la relazione che vige tra le arti e quel “sistema”, che esse indirettamente costituiscono93. Schopenhauer tratteggia, infatti, sulla base del rapporto di gradi della materializzazione della volontà una ripartizione delle arti posta sulla linea speculativa che parte dalle retoriche antiche, attraversa i systèms des beaux-arts e confluisce 93. Seguo Th. Ribot, La philosophie de Schopenhauer, encre marine, Paris 2010 [1874], pp. 116-125.

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nella classificazione delle arti attestata nelle riflessioni hegeliane sulla filosofia dell’arte. A ben vedere, però, le differenze tra i due non si consumano tanto negli assestamenti classificatori scelti (penso, tra gli altri, al differente statuto della musica in entrambi i pensatori, che a breve verrà discusso), quanto piuttosto nel rapporto di gradi che Schopenhauer vede intercorrere tra le arti – rapporto che può arrivare addirittura ad apparire, ad un’analisi più attenta, il rovescio di quello hegeliano. In Hegel, infatti, il momento artistico conduce ad una perdita di realtà e costringe lo spirito a riattraversare la «Trägheit»94 e l’animalità, in una parola: il sensibile. Detto in altre parole: il sensibile, pur nella sua più profonda contiguità con il lógos, rimane un ostacolo al dispiegamento dell’ideale, che è il più importante traguardo per la costituzione di un sapere comprensivo. In Die Welt l’arte contiene, invece, il momento nel quale la volontà, negando sé stessa, perde la sua referenzialità e si afferma come libero impulso vitale e aumento intensivo dello spazio di esperienza non altrove che nel sensibile. È nelle 94. G.W.F. Hegel, Vorlesungen, cit., p. 74.

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forme e nelle modalità del senso che l’arte (ma anche, come si vedrà, la pratica ascetica) realizza l’uscita dall’ingranaggio (della ricerca) di usi e, in un gioco di opacità e trasparenza, rivela la sua profonda identità con l’uomo sotto il segno della «potenza di non». In Schopenhauer, perciò, l’arte – certamente non da sola, ma in maniera caratteristica – proprio per il tramite del sensibile riesce a mostrare quel di più, quell’uso libero della finalità che scioglie il Wille dalla catena scenica del principio di ragione e lo pone su un piano reale-ideale più esteso. Ma continuiamo il nostro discorso sul sistema delle arti di Die Welt. Sotto le lenti di Schopenhauer cadono principalmente cinque forme artistiche: l’architettura, la scultura, la pittura, la poesia e la musica95 – benché la musica non rientri propriamente nel sistema, in quanto essa non si può sottoporre a gradualismi, ma è la volontà stessa. L’architettura occupa il gradino più basso del sistema schopenhaueriano delle arti, perché rappresenta i livelli più bassi di oggettità della volontà («die niedrigsten Stu-

95. Cfr. WWV I, pp. 302-372.

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fen der Objektität»96). L’architettura si costituisce su rapporti materiali, le cui idee di base sono semplici, in quanto corrispondono quasi interamente ad un’esemplificazione delle leggi naturali. In ciascuna delle parti costitutive di un edificio si rendono visibili, secondo Schopenhauer, le permutazioni delle leggi di causaeffetto. Quasi completamente ignorati, in questo discorso, non sono solo l’impatto estetico delle opere architettoniche, ma anche le forme decorative. La decorazione, che di per sé circoscrive un fare artistico ben più trasversale rispetto ad altre modalità regolamentate del produrre artistico, nella lettura schopenhaueriana dell’architettura resta secondaria, in quanto, come vedremo, l’architettura e l’arte in generale non vengono interpretate da Schopenhauer come problemi singolari, dotati di un proprio codice, o addirittura di una propria logica, ma come immagini delle volontà. Bisogna ricordare, però, che le arti vengono, sì, ricomprese nel fenomeno della volontà, ma non come meri rispecchiamenti di essa. Schopenhauer coglie infatti nel fenomeno la traccia spuria di un mondo ideale in lotta e in compimento, nel quale 96. Ivi, p. 303.

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la relazionalità (e le possibilità a essa connesse) crea formazioni vieppiù estese e dinamiche di volontà. L’architettura, da questa angolatura, incarna le idee in divenire, conferisce loro volume, abolendo ogni distanza tra empirico ed extra-empirico97. Nella spazialità traluce, per Schopenhauer, un’elementare spinta liberatoria degli usi da sé stessi. Nell’architettura non si dà, tuttavia, una liberazione definitiva dell’uso dalla sua sfera pratica. Allo stesso tempo, la materia non si auto-organizza, nella fruizione, in nuove costellazioni: le forme delle idee restano come congelate nei pesi e nelle spinte della costruzione. Giudicando, Schopenhauer, le arti in base al grado in cui traspare nell’intuizione il concetto, non appare casuale che in Die Welt si dia maggior rilevanza alla poesia piuttosto che alle arti figurative98. Più precisamente, viene qui condotta non solo una distinzione delle forme artistiche, ma anche dei generi letterari. Su questa scia né la poesia lirica, né quella drammatica – in quanto ancor troppo legate alla tra97. Ivi, pp. 307-308. 98. Ivi, pp. 336-339.

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duzione di stati d’animo – attingono alla sfera delle idee. È la poesia allegorica99 che, senza seguire le vie espressive della convenzione linguistica100, trasmette associazioni di idee ed un sentire commisto ad una superiore semantica. All’interno di questo tracciato di pensiero non sorprende, dunque, che Schopenhauer non voglia liquidare la tragedia come semplice arte del sentimento. Al contrario, la tragedia occupa il «vertice»101 delle arti poetiche, in quanto rappresenta il conflitto della volontà con sé stessa102, ossia il darsi battaglia e il dover-coesistere di etica ed estetica, di individuo e comunità, di destino e carattere103. La volontà dei singoli, nella tragedia, tenta di imporre al mondo sensibile la propria teleologia, che tuttavia si scontra inevitabilmente con il caso e l’errore104, i quali 99. Ivi, p. 335. 100. Ibid. 101. Cfr. ivi, p. 353. 102. Ibid. 103. Sul rapporto tra carattere e Wille in Schopenhauer non posso che rimandare ad uno degli studi fondamentali di G. Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione, Quodlibet, Macerata 2012, pp. 133-155. 104. WWV I, p. 353.

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sono l’immagine dell’Unzweckmäßiges, della negatività che precede e attraversa ogni opera d’arte. Inevitabile, però, lo scontro, il pólemos tra sistemi, nel momento in cui la direzione non c’è e l’intreccio si raddensa. Ricercata non è solo la compossibilità, nell’esercizio della volontà. La matrice primordiale del corpo a corpo, che esemplarmente si consuma nella tragedia, risiede nella volontà, che pone il fine e lo nega come inadeguato, cuce e disfa le maglie del destino, e, così facendo, non può altro che togliersi terreno sotto i piedi. La ricerca dell’autoannullamento vuol dire, per il Wille, cercare un “non”, che è la sua più propria libertà nell’azione, nel momento di costruzione del reale. Ma autoannullarsi comporta anche sollevare il velo di Maya che copre la superficie mitica dell’agire e smascherare l’indeterminatezza liminare, su cui il Wille si muove e alla quale cerca di riattingere, per tornare alla sua pura produttività. Formatività liberata dall’individuazione. Scopi che si sovrappongono, si attraversano e si combattono dentro e oltre le loro superfici di contatto, facendo emergere i diversi fronti dell’esperienza:

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Ein und derselbe Wille ist es, der in ihnen allen lebt und erscheint, dessen Erscheinungen aber sich selbst bekämpfen und sich selbst zerfleischen. In diesem Individuo tritt er gewaltig, in jenem schwächer hervor […] bis endlich in Einzelnen diese Erkenntnis, geläutert und gesteigert durch das Leiden selbst, den Punkt erreicht, wo die Erscheinung, der Schleier der Maja, sie nicht mehr täuscht, die Form der Erscheinung, das principium individuationis, von ihr durchschaut wird105.

Nell’emergere del dolore e del caso, la tragedia non diventa solo vicaria di passioni, ma della forma del darsi dei fenomeni. L’arte che però, ad avviso di Schopenhauer, riesce in maniera più evidente a manifestare, anzi, a incarnare la volontà nella sua spinta a superarsi, è la musica106, che in Hegel viene subordinata alla poesia a casusa del suo minor grado 105. WWV I, pp. 353-354. 106. Per una ricognizione sul ruolo sistematico (“architettonico”) della filosofia della musica in Schopenhauer, cfr. G. Zöller, Die Musik als Wille und Vorstellung, in M. Koßler (Hg.), Musik als Wille und Welt. Schopenhauers Philosophie der Musik, Königshausen & Neumann, Würzburg 2011, pp. 15-30.

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di immaterialità – e, da qui, di idealità. Come è stato anticipato, essa non rientra nel rapporto di gradi inaugurato dall’architettura, non si presta cioè ad essere collocata nel sistema delle arti, in quanto essa è un «Abbild des Willens selbst»107. Nella musica si concentrano, in altre parole, tutte le possibili espressioni della volontà ed il suo autonomo cammino verso l’autonegazione. La negazione cercata è tuttavia già raggiunta nella musica, in quanto la totalità dei moti della volontà in essa presenti ha sciolto i suoi legami con ogni realtà fenomenica coordinata dal Satz vom zureichenden Grunde e, nella coordinazione matematica attraverso la quale si genera, offre all’ascoltatore una materia sonora la cui essenza, pur servendosi di rapporti finalistici, non si determina né attraverso concetti (come nel caso della semantica poetica e della tragedia) né attraverso leggi fisiche (come nel caso dell’architettura e della scultura). La musica, in altre parole disattiva la tecnica dal suo uso, mostrando con la sua immaterialità una realtà sottrattasi ad ogni operatività. Il mondo della rappresentazione – il riferimento dell’opera a qualsiasi Vorstellung data – è scomparso e la 107. WWV I, p. 359.

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musica, proprio grazie al suo disattivare il proprio dispositivo rappresentativo, si fa immagine di un libero Wille – inoperoso, proprio perché operante di là da partizioni logiche: [Die Musik ist] unmittelbar Abbild des Willens selbst und [stellt] also zu allem Physischen der Welt das Metaphysische, zu aller Erscheinung das Ding an sich [dar]108.

Il superamento di ogni vincolo fisico e l’apertura al possibile fa della musica l’arte con la quale abbracciare con un solo sguardo, mettendoli in scena, i fini e dichiararli possibili proprio nel loro negarsi alla realtà.

7. Il genio e il suo “altro” In Die Welt e nelle Ergänzungen – quest’ultime, si sa, sono un’opera a sé stante – il potere negativo dell’arte di dar corpo alla scena rappresentativa della volontà passa attraverso una figura: quella del «Genie», del genio109. 108. Ivi, p. 366. 109. WWV II, pp. 484-513.

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L’attributo principale del genio consiste nell’«abnormità»110 del suo intelletto, in virtù della quale possiede un di più (uno «Überschuß»111) di conoscenza intuitiva che gli permette di sospendere, negandoli, i fini della sua cultura e di rendere esteticamente libero l’intelletto. Il genio compie un’attività, un’opera «abusiva» («abusive Tätigkeit»112), nel creare una sproporzione, una frattura tra gli scopi che l’organismo gli mette a disposizione (in quanto essere umano) e quelli di cui ha bisogno per compiere la sua opera. In questa Spaltung, cui il genio dà vita sopravanzandosi fisicamente e tecnicamente, si crea quell’«anormità»113, cioè quel negare, violare intenzionalmente e aggirare con leggerezza (e indifferenza) forme di normatività. Il genio, detto altrimenti, mostra un’estensione dell’intelletto fuori dall’ordinario ed un’“infedeltà” all’esperienza media racchiusa nelle coordinate di una minima sopravvivenza (borghese): una

110. Ivi, p. 486. 111. Ivi, p. 487. 112. PP II, p. 495. 113. Ibid.

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sorta di «dépense»114 energetica, di «création au moyen de la perte»115. Questo creare attraverso lo spreco psico-fisico e lo smarrimento di ogni senso dell’adeguato dispendio energetico mira a un uso della volontà che «n’est pas entièrement réductible à des processus de production et de conservation»116. L’arte del genio schopenhaueriano (in ciò senz’altro complice di quella batailliana fondata sia sul dispendio reale sia su quello simbolico) si converte in un uso spropositato e sregolato di tecniche, a cui segue, in pari tempo, una sovrapproduzione di senso non riducibile ad alcuna organizzazione normativa. È attraverso questo organizzare le proprie prestazioni estetiche in vista di un sovrabbondare dei mezzi e degli effetti tecnici che si crea quel «Mehr»117, quel di più che il genio non riesce e non vuole gestire, e che lo libera dalla schiavitù della volontà:

114. G. Bataille, La notion de dépense, in Id., Œuvres complètes, vol. I, Gallimard, Paris 1970 [1933], p. 305. 115. Ivi, p. 307. 116. Ivi, p. 305. 117. Th. W. Adorno, Ästhetische Theorie, hg. v. G. Adorno u. R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1970, p. 122.

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Der Intellekt ist ein sauer beschäftigter Manufakturarbeiter, den sein vielfordernder Herr (der Wille) vom Morgen bis in die Nacht beschäftigt. Kommt aber dennoch dieser getriebene Frohnknecht dazu in einer Feierstunde ein Stück einer Arbeit freiwillig, aus eigenem Antrieb und bloß zu eigener Ergötzung zu verfertigen: – dann ist dieses das ächte Kunstwerk, das Werk des Genies118.

Attraverso il momento di “esonero” che il lavoro dell’intelletto procura a sé stesso il genio viene visitato da un’alterità che eccede il reale e che è irriducibile persino alla sua pensabilità: si tratta di «ein von außen hinzukommender Genius»119. Facciamo attenzione a questa notevole ambiguità, alla quale molti interpreti non hanno prestato la dovuta attenzione: nel distinguere tra «Genie» e «Genius», Schopenhauer pare intendere il secondo come un operatore che non rientra nell’ordine delle facoltà che costituiscono il soggetto e che rende tale il «Genie». Il «Genius» non è, però, al contempo nemmeno un agente metafisico indipendente

118. HN, p. 237. 119. WWV II, p. 486.

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dal «Genie»: al contrario, si tratta di una rimanenza che si riversa completamente nel mondo vitale delle Vorstellungen con il quale il genio traffica. Il «Genius», seguendo Agamben, è «un elemento impersonale e preindividuale […], che risulta dalla complicata dialettica fra una parte non (ancora) individuata e vissuta e una parte già segnata dalla sorte e dall’esperienza individuale»120. «Genius», dunque, «è la nostra vita, in quanto non ci appartiene»121. Il genio, per essere tale, deve sempre essere immerso nella dialettica con il suo altro, con il suo “doppio”, che è la vita, di cui non dispone e non può disporre. La vita che sfugge al calcolo anima l’a(b)normità dei prodotti di genio e si dà come quel di più, che l’intelletto impiega per innalzarsi sul mondo dei fini del Wille e che estende la sua esperienza (estetica). Tra gli artisti che, negli ultimi anni, sembra siano riusciti ad avere un faccia a faccia con il loro «Genius», va annoverato senza dubbio Carmelo Bene che, oltre ad essere un appassionato co-

120. G. Agamben, Profanazioni, nottetempo, Roma 20123, pp. 9-10. 121. Ivi, p. 11.

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noscitore delle tesi schopenhaueriane (rilette perlopiù sulla base del pensiero poststrutturalista francese), le ha ritradotte in una pratica artistica: quella della «macchina attoriale»122. La macchina attoriale, infatti, si basa su una «ricerca impossibile intesa […] come preclusione alla possibilità del trovare»123, quindi su uno straordinario meccanismo senza scopi determinati, sottratto al trovare. La macchina attoriale produce fenomeni estetici124 attraverso una debordante, abnorme produzione scenica, che fa della dépense il “principio” sregolato degli eventi artistici beniani. Persino l’impiego, da parte di Bene, dell’«amplificazione elettronica […]», «uno schiaffo impensabile ai millenni dell’espressione-logos-concetto»125, rientra in tale meccanismo destituente, che destruttura 122. C. Bene, Autografia d’un ritratto, in Id., Opere, Bompiani, Milano 2008 [1995], p. XIV. Gli scritti di Bene citati sono solo tracce delle sue messe in scena. 123. Ivi, p. 116. 124. In senso, ovviamente, nietzscheano, cfr. F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, in Id., Kritische Gesamtausgabe, hg. v. G. Colli u. M. Montinari, Bd. III.I, de Gruyter, Berlin-New York 1972 [1872], p. 43. 125. C. Bene, Autografia d’un ritratto, cit., p. XIV.

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ed espande intensivamente la sensibilità dell’attore, dello spettatore e di chiunque sia pronto ad abbandonare ogni volontà (come abbiamo visto con Schopenhauer: borghese e filistea) di sussumere sotto uno scopo lo spettacolo, per lasciarlo aleggiare come un Unzweckmäßiges e una potenzialità libera. Allo spettatore è richiesta, dunque, da Bene la stessa “genialità” («bisogna essere dei capolavori», amava ripetere), la stessa incondizionata apertura all’universo estetico che genera l’opera. Del resto, come ricorda Agamben tra «genio» e «generare» si dà una «prossimità»126, che precede l’esistenza materiale dell’opera e che testimonia dell’ostinatezza del «Genius»: E ciò può intendere solo chi sia stato chissà dove visitato da questo altrove del dover-non-essere estetico che recide il (non più suo) fluire del prodursi-articolarsi in opera. E non si dà capolavoro d’arte. Fuori dell’opera, si è capolavoro127.

126. G. Agamben, Profanazioni, cit., p. 7. 127. C. Bene, Autografia d’un ritratto, cit., p. XXVII.

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8. Non dividere il sì dal no: Ausblicke sul genio e la sua affermazione Il genio è, dunque, autotelico. Impone cioè una propria finalità al reale e, nell’ampliare il parco dei fini disponibili, rimodella il mondo delle rappresentazioni nel superare il proprio intelletto. È in questo modo che il genio concretizza e porta a rappresentazione, col suo operare, la «Besinnung»128 dell’affermazione della vita. Negando le formule teleologiche volte alla mera conservazione e alla necessità immediata (il «Nothdurft»129), e producendo nuovi intrecci causali (interrotti) volti a intessere nuove tecniche, il genio dà figura alla volontà di vivere, che in un ritmo di vita e morte riproduce sé stessa nella natura, senza trovare altro ostacolo che il suo creare. Nella produzione del genio, la dualità presente in ogni individuo tra «Velle» e «Nolle»130 – per lo più contraddistinta dal governo del primo e 128. WWV II, p. 731. 129. Ibid. 130. PP II, p. 369.

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l’oscuramento del secondo – si risolve nel volere il negativo, nell’immergersi nella corrente di vita, incanalandone di volta in volta il flusso in nuove direzioni. Il corpo del genio è un corpo esteso fino all’enormità131, dall’intelletto smisuratamente espanso in forza e funzioni: la cellula minima delle leggi della volontà ha preso le redini di quest’ultima, piegandola ai suoi modi. L’abnormità del genio non comporta però la sostituzione di una volontà superiore trascendente con una privata (come nel caso dell’egoismo teoretico), il cui diametro crede di oltrepassare ogni trascendenza. Abnormità è, anche qui, negazione del volere puntuale, raggiungimento di una volontà allargata alla totalità e oltrepassante sé stessa. Wollte man etwan einwenden, daß dann auch die Möglichkeit der Freude aufgehoben wäre; so ist man zu erinnern, daß, wie ich öfter dargetan habe, das Glück, die Befriedigung, negativer Natur […] ist. Daher bleibt beim Verschwinden alles Wollens aus dem Bewußtsein doch der Zustand der Freude […], indem das Individuum, in ein rein erkennendes und nicht mehr wollendes Subjekt verwandelt, sich seiner und seiner 131. WWV II, p. 731.

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Tätigkeit eben als eines solchen doch bewusst bleibt132.

La felicità del genio è negativa, nel senso che, coscientemente, ha abbandonato il volere e, in continua lotta col suo altro (la vita, il «Genius»), diventa il portatore del senso del possibile, passando proprio per il mondo della Vorstellung e dell’affetto. Ora, al genio così compreso Schopenhauer sembra contrapporre una figura, anch’essa capace di deviare le direzioni della volontà, fino a negarle. Si tratta, tuttavia, come si vedrà, di una negazione ben diversa, la quale non lascia intravedere e tralucere in nessun modo il possibile mediante un rapporto di reciprocità col mondo. Ma lo fa emergere solo con le psicotecniche di retroazione tramite le quali il Sé si esercita, nonché si preserva da un’invasione abusiva e pericolosa del «Genius».

132. PP II, p. 491.

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9. La negazione dell’asceta Vergleichen wir das Leben [mit] einer Kreisbahn aus glühenden Kohlen mit einigen kühlen Stellen, welche Bahn wir unablässig zu durchlaufen hätten; so tröstet den im Wahn Befangenen die kühle Stelle, auf der er jetzt eben steht oder die er nahe vor sich sieht, und er fährt fort, die Bahn zu durchlaufen. Jener aber, der, das principium individuationis durchschauend, das Wesen der Dinge an sich und dadurch das Ganze erkennt, ist solchen Trostes nicht mehr empfänglich: er sieht sich an allen Stellen zugleich und tritt heraus. – Sein Wille wendet sich, bejaht nicht mehr sein eigenes sich in der Erscheinung spiegelndes Wesen, sondern verneint es. Das Phänomen, wodurch dieses sich kundgibt, ist der Übergang von der Tugend zur Askesis. Nämlich es genügt ihm nicht mehr, andere sich selbst gleich zu lieben und für sie viel zu tun wie für sich; sondern es entsteht in ihm sein Abscheu vor dem Wesen, dessen Ausdruck seine eigene Erscheinung ist, dem Willen zum Leben, dem Kern und Wesen jener als jammervoll erkannten Welt133.

133. WWV I, p. 516.

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L’asceta (sia quello greco-romano, sia quello cristiano134) è, pertanto, l’immagine speculare rovesciata del genio. E lo è proprio perché, pur abbracciando la totalità delle relazioni (il mondo), finisce per negarne ogni segmento, quando, nel Sé, trova il principio materiale non solo per il raggiungimento dell’altro, ma anche per la sua amministrazione. Mentre le possibilità di estensione dell’intelletto, nel genio schopenaueriano, sono necessarie per far proprie nuove fette di realtà, pur sapendo che tale realtà sfugge e sfuggirà a una presa finalistica, nel caso dell’asceta l’allargamento delle possibilità esperienziali avviene attraverso un’apertura indiretta: solo nel mantenimento-governo della 134. Cfr. l’articolo di Richard Hauser, Askese, in J. Ritter – K. Gründer – G. Gabriel (Hg.), Historisches Wörterbuch der Philosophie, Schwabe Verlag, Basel 1971, pp. 537543. Nelle seguenti pagine dedicate all’ascesi mi metto in dialogo con le riflessioni di G. Gurisatti, Schopenhauer maestro di saggezza, Angelo Colla, Costabissara (VI) 2007, in particolare pp. 13 e s., 29-56, 59-80, 127-137; Id., Scacco alla realtà. Estetica e dialettica della derealizzazione mediatica, Quodlibet, Macerata 2012, pp. 316-328; A. Borsari, Schopenhauer educatore? Storia e crisi di un’idea tra filosofia morale, estetica e antropologia, Firenze University Press, Firenze 2012, pp. 45-50.

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propria integrità si dà lo spazio per accogliere l’altro del mondo – e proprio questa apertura lo allontana definitivamente dall’egoista teoretico. Tanto l’ágape, la pietas e la caritas, quanto il vedico tat twam asi, e non per ultimo la pratica eudamonologica vòlta all’enkráteia, benché conducano a posture eticamente tra loro diverse nei confronti della corporeità e della (sua) alterità, mirerebbero, secondo Schopenhauer, al raggiungimento di un innalzamento dei fini a una ricomprensione delle strutture teleologiche, conclusione alla quale perverrà anche Foucault, anche se da una prospettiva culturologica senz’altro più ampia135. La separatezza (anacoresi), così come il sacrificio o l’osservanza di una condotta piegata a un governo del Sé attraverso l’esercizio di un’autodisciplina significa, nell’asceta, impedire ogni forma casuale di accrescimento, così come ogni guadagno di valori vitali: la retroazione e l’autocorrezione, e non il principio della casualità e dell’aumento intensivo per strappi e salti, decide dell’asceta. In questo tentativo di au-

135. M. Foucault, L’usage des plaisirs (Histoire de la sexualité II), Gallimard, Paris 1984, pp. 40-41.

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torevisione, che non conduce alla produzione del nuovo, come nel caso del genio-Genius, ma alla ripetizione di comportamenti utili, si cela l’istanza estetizzante dell’asceta – in ciò, come del resto Foucault stesso era cosciente, consustanziale al dandy136: Jenes intellektuelle Leben […] erhält, durch den fortwährenden Zuwachs an Einsicht und Erkenntnis, einen Zusammenhang, eine beständige Steigerung, eine sich mehr und mehr abrundende Ganzheit und Vollendung, wie ein werdendes Kunstwerk137.

L’adozione e lo sviluppo di pratiche che sospendono in maniera prolungata le forze di accrescimento della volontà presiedono ad una negazione chiara e decisa di ciò che è senza scopo e fuori controllo. Anche il principio dell’agápe, dell’aiuto del prossimo tramite l’annichilamento del Sé non può essere, da solo, la soluzione, per Schopenhauer, per rompere i meccanismi della volontà vòlta a scopi determinati: esso 136. M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières?, in Id., Dits et écrits (1954-1988), vol. IV (1980-1988), éd. D. Defert et F. Ewald, Gallimard, Paris 1994 [1984], p. 1399. 137. PP I, p. 495.

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presuppone, sì, un avvicinamento all’altro, ma pur sempre in vista di un’accettazione controllata del mondo, di una sovrapposizione di quel Sé, apparentemente estromessosi, sul fuoricontrollo, del calcolo sulla «potenza di non» – dunque, al prezzo di una ricaduta nel principio di individuazione e nell’asservimento alla volontà. I fini della volontà, per l’asceta, possono essere parzialmente recisi solo quando produrre e operare finalistici vengono sospesi attraverso la ripetizione di pratiche mortificanti (ad esempio: i digiuni) o senza scopo pratico immediato (tra le altre: le preghiere). Hieraus können wir abnehmen, wie selig das Leben eines Menschen sein muß, dessen Wille nicht auf Augenblicke wie beim Genuß des Schönen, sondern auf immer beschwichtigt ist, ja gänzlich erloschen bis auf jenen letzten glimmenden Funken, der den Leib erhält und mit diesem erlöschen wird. […] Ihn kann nichts mehr ängstigen, nichts mehr bewegen: denn alle die tausend Fäden des Wollens, welche uns an die Welt gebunden halten […], hat er abgeschnitten. Das Leben und seine Gestalten schweben nur noch vor ihm wie eine flüchtige Erscheinung, wie dem Halberwachten ein leichter Morgentraum,

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durch den schon die Wirklichkeit durchschimmert und der nicht mehr täuschen kann: und eben auch wie dieser verschwinden sie zuletzt ohne gewaltsamen Übergang138.

L’asceta, sottraendosi alla perentorietà del reale, cerca, anche nella mortificazione, la sua conservazione e compie così il percorso inverso di ogni uomo e del genio: il corpo è la prima, minima unità di misura da colpire per spogliare la volontà dai suoi echi, e per tentare di costituirsi come soggetto puro di conoscenza. Le forze dissolutive e negative della volontà vengono da lui trattenute, per mezzo delle pratiche autoperformative, in un Sé da preservare come il primo e ultimo baluardo contro la ricaduta nel mondo e nella volontà. Qui, però, si impone la domanda: nel suo tentativo estetizzante di sospensione totale e ricerca inesausta del Sé, l’ascesi può accettare l’arte e la potenza del negativo, implicita in ogni prassi disindividualizzante? Meglio: può arrivare a trasfondere in essa il nucleo incandescente del rifiuto da esso operato nei confronti del mondo? 138. WWV I, pp. 530-531.

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Partendo dalla figura stoica, coniata da Epitteto, del «grande Altro»139 la storia eterogenea e complessa delle tecniche ascetiche può essere riletta, seguendo Thomas Macho140, come la genealogia di forme di soggettivazione per mezzo della creazione di un doppio («Doppelgänger»141). Anche la «cittadella interiore» di Marco Aurelio risponde, da qui, ad una tale esigenza di soggettivazione, che si può tradurre tanto in rapporti e supporti mediali (la scrittura, sempre secondo Macho), quanto in psicotecniche (la meditazione) o forme di autodisciplina del corpo (il digiuno). Attraverso tali meccanismi, il Sé esercita su Sé stesso un controllo non diretto a creare un altro da sé, quanto piuttosto un altro del sé (Nancy), agendo in

139. Epitteto, Diatribe, I, 30, 1 (P. Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai “Pensieri” di Marco Aurelio, Vita e Pensiero, Milano 2010 [1992], p. 117). Cfr. anche Th. Macho, Tecniche di solitudine, trad. di A. Lucci, in «autaut», n. 35, 2012, pp. 57-78. 140. Th. Macho, Askese als kreative Strategie, in B. Gronau – A. Lagaay (Hg.), Ökonomien der Zurückhaltung. Kulturelles Handeln zwischen Askese und Restriktion, transcript, Bielefeld 2010, pp. 115–127. 141. Ivi, p. 120.

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maniera simulatoria nella gestione delle attività riflessive. Il soggetto va a generarsi esattamente in questo intervallo proiettivo generato dalla simulazione, che procede per sottrazione e spostamento, attraverso la continua rielaborazione, la ricalibratura e la “riscrittura” (in senso derridiano) di Sé in opera. L’esercizio creativo si tramuta, da qui, in una forma di esaurimento progressivo del Sé, in favore dell’incremento delle forme autoteliche di produzione. Nel ripiegamento dell’asceta su Sé stesso, ogni raddoppiamento riflessivo appare, tuttavia, potenzialmente minacciato dall’irruzione del «Genius», che lo sforzo ascetico cerca, in qualche maniera, di controllare o addirittura di deplorare come (auto)distruttivo. È, forse, proprio per questa ragione che, Schopenhauer, fa dell’ascesi una pratica estetizzante di proliferazione di simulacri. Le opere di genio, nell’ascesi, non trovano posto, perché ogni gesto non è che la ripetizione, la riscrittura, la proiezione di qualcosa che lo ha preceduto e un continuo dialogo del dispositivo ascetico con sé stesso. Nell’ascesi, in altre parole, non si arriva mai all’esposizione più radicale dell’agire e ad un’alterità, ma solo a diverse forme di simulacri ciascuno impotente, inadeguato a un’autentica «potenza

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di non», che non conosce steccati morali entro ed oltre i quali manifestarsi. Concludendo, per Schopenhauer è nell’essere visitato dall’altro, nel «vom Anderen Angerührtsein»142, inservibile allo sviluppo tecnico-razionalizzato e alla messa-in-forma che non smette di originarsi l’arte. Esso è quello spazio nel quale il soggetto, temporaneamente esonerato dalla perentorietà dei fini, può liberare la strada ad un volere libero, ad un agire consapevolmente sottrattosi alla morsa del mondo.

142. Th. W. Adorno, Ästhetische Theorie, cit., p. 490.

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Indice

Posizione del problema. La negazione come «potenza di non»

p. 11

1. Una “premessa gnoseologica”

p. 32

2. Corpo a corpo?

p. 35

3. Esperienze limite: ignoranza e corpo

p. 45

4. La volontà come «tensione infinita»

p. 53

5. Al di là della volontà: l’arte ed il suo (auto)annullamento

p. 58

6. Arte e sistema: di alcuni motivi hegeliani

p. 68

7. Il genio e il suo “altro”

p. 79

8. Non dividere il sì dal no: Ausblicke sul genio e la sua affermazione 9. La negazione dell’asceta

p. 86 p. 89

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Luca Viglialoro è ricercatore presso la HeinrichHeine-Universität Düsseldorf e insegna Estetica all’Accademia di Belle Arti di Ravenna. Ha conseguito il dottorato all’università di Potsdam ed è stato borsista della Studienstiftung des deutschen Volkes e della Sapienza Università di Roma. Ha curato con Marco Gatto il volume: L’esperienza dell’arte. Un percorso estetico tra moderno e postmoderno (Galaad, Giulianova (TE), 2011). Dello stesso anno è la monografia: Erfahrung. Un percorso benjaminiano (Lithos, Roma). Del 2013 è, invece, Prima dell’arte. Studi su Croce (deComporre, Gaeta). Nel 2016 sono apparsi Ästhetische Erfahrung und Textästhetik in Microfilm von Andrea Zanzotto (Frank&Timme, Berlin) e, con Antonio Lucci, Giorgio Agamben. La vita delle forme (il melangolo, Genova).

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Umweg

Il volume, partendo metodologicamente dal concetto agambeniano di «potenza di non», propone una ricognizione del tema della negatività nell’estetica di Schopenhauer, in particolare in Die Welt als Wille und Vorstellung. La tesi che accompagna il presente studio è che la tensione tra la kantiana «conformità a scopi senza scopo» e la negatività del Wille schopenhaueriano costituisca la radice di una modalità riflessiva, che vede nell’arte il paradigma negativo di un uso e di una tecnica liberati dalla presa finalistica della conformità a scopi e capaci di far emergere la dimensione del possibile, il fondamento ineludibile di ogni operari.

ISBN E-book 9788885716094

€ 7,00

Collana diretta da Federica Buongiorno Roberto Esposito Libera Pisano Christoph Wulf ISSN: 2499-6041

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