Alterità e negazione
 9788885716155, 9788855290173

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M. Adinolfi, F. Croci, M. Donà, E. Forcellino, A. Giordano, G. Goria, M. M. Malimpensa, C. Meazza, M. Moschini, R. Ronchi, F. Valagussa, V. Vitiello

Alterità e negazione A cura di Massimo Donà e Francesco Valagussa

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 15 - Proposte

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Massimo Adinolfi, Federico Croci, Massimo Donà, Ernesto Forcellino, Alice Giordano, Giulio Goria, Maurizio Maria Malimpensa, Carmelo Meazza, Marco Moschini, Rocco Ronchi, Francesco Valagussa, Vincenzo Vitiello

Alterità e negazione a cura di Massimo Donà e Francesco Valagussa

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2019, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma

www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 15 - luglio 2019 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-85716-15-5 ISBN – E-book: 978-88-5529-017-3 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Ornamentale © Massimo Donà, 2018

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Prima dell’identità Movimenti della filosofia e risorse della riflessione Massimo Adinolfi

1 Sappiamo tutti che è una malattia dei filosofi quella di perdersi nei preliminari, di porre la questione del cominciamento fingendo di non aver già cominciato col solo porla, e di tirarla per le lunghe come se appunto ci fosse ogni volta da eseguire una serie di preparativi prima di entrare in argomento. Si tratta di una strategia retorica e argomentativa nota, sfruttata e, forse, persino esaurita. Quasi un parlare, prima di parlare. Peggio ancora, non c’è nulla di più pregiudicato di questo tentativo esibito di evitare frettolose compromissioni, con continue mosse prolettiche eseguite per mostrare quanta avvertenza critica accompagna la posizione del tema. Tuttavia mi vedo costretto a farvi ricorso almeno per avvisare che in quel che segue non fornirò un contributo ulteriore, una diversa disamina, un approfondimento in direzione di un autore o di una prospettiva critico-ermeneutica, ma proverò solo a suggerire una certa maniera di disporsi rispetto all’orientamento che, a proposito dell’ente, viene fornito dalla forma logica. Con queste ultime parole, in realtà, mi limito a riprendere l’inquadratura che Diogene Laerzio fornì del Sofista di Platone, attribuendogli un primo sottotitolo perì tou ontos, «su ciò che

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vi è», per poi raddoppiarlo con un secondo sottotitolo, logikòs, a definire l’orientamento con il quale l’on veniva riguardato nel dialogo platonico. Due sottotitoli, non uno soltanto: qualcosa dovrà pur significare. Per esempio questo, che l’orientamento del logikòs all’on non toglie la possibilità di insinuare, se non un diverso orientamento, perlomeno una mancanza di aderenza, di affezione, dell’uno all’altro. Come però dare a questa possibilità una compiuta pensabilità, che non appartenga ancora e nuovamente all’ambito del logikòs? Come fare a non limitarsi a soluzioni meramente verbalistiche? Detta in altri termini, e per cominciare (finalmente): abbiamo a che fare con “parolette logiche”. Anzitutto “alterità” e “negazione”, che ci accompagnano come un’ombra quando pensiamo l’on. Ora, da dove preleviamo queste parole? Chi ce le consegna? Platone, certo: il Sofista. E un’intera tradizione che al testo platonico fa corona. Ma possiamo per questo dare per già costituito lo spazio logico-semantico al quale queste parole appartengono? Possiamo accontentarci di dire che ne va del loro significato e che il nostro compito consiste al più nel perimetrarlo, questo significato, o di svolgerne le implicazioni logiche, o di comprenderne l’ambito di applicazione, o di fissarne preventivamente le “condizioni d’uso”? Oppure dobbiamo stare al fatto che ce le ritroviamo tra i piedi, e assegnarci quindi solo il compito di tentare non di stabilirne l’uso in termini di diritti e di legittimità, ma solo di rischiararlo, di portarlo non dico a una completa perspicuità, ma almeno a una maggiore chiarezza, cercando gli opportuni riempimenti intuitivi? E questa stessa batteria di interrogativi: dimostra che siamo dotati di una straordinaria perspicacia critica, o semplicemente che non sappiamo come prendere la cosa? Confesso che non so bene come rispondere nemmeno a quest’ultima domanda. Da un lato, mi pare necessario moltiplicare i dubbi, e con essi

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le precauzioni, le avvertenze; dall’altro, non riesco a liberarmi dell’idea che moltiplicando dubbi, precauzioni e avvertenze non avanzo nella critica della cosa (cosa qui è die Sache), ma sprofondo semmai, sempre di più, nella cosa della critica, cioè in una certa tradizione di pensiero e in un certo orientamento – come prima l’ho chiamato, in un certo logikòs – che non mi procura affatto la pensabilità che cerco per la disaffezione che vorrei mettere a tema, o perlomeno suggerire di coltivare in un certo atteggiamento, in una qualche disposizione. (E i corsivi indicano qui le parole per le quali non abbiamo ancora avvistato alcuna soluzione). Sono le mie «acque profondissime», per dirla con il Descartes delle Meditationes. E per spiegare anche la lentezza con la quale procedo. D’altronde Descartes si prese le sue giornate, per meditare. E, come in quel caso, così anche in questo uno potrebbe dire che la meditazione segue in realtà una strategia precisa, che serve in maniera molto mirata a metterci innanzi un unico punto: com’è possibile mettere a tema “alterità” e “negazione” senza che siano già coinvolte, l’una e l’altra, nella tematizzazione stessa? Se in effetti ricominciassi daccapo e provassi a fermarmi nei punti in cui il corso delle riflessioni fin qui seguite vede implicati i significati che vorremmo portare a tema, ho paura che non riuscirei a muovere più un solo passo. L’unica cosa che forse riuscirei a mostrare è che in filosofia si finisce troppo spesso, come nella corsa di Achille, ricacciati indietro. Con il tema, la tartaruga di questo saggio, la cosa stessa, sempre un tratto avanti, e questo tratto che manca suddiviso all’infinito, e alla fine francamente impercorribile. Del resto, non ci vuol molto: come si può anche solo prendere la parola dentro la rete dei significati linguistici, senza vedersi anticipati dalla trama logica con cui quella rete è intessuta? Non si può: «Le forme del pensiero sono anzitutto esposte e consegnate [herausgesetzt und niedergelegt] nel linguaggio

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umano»: così diceva Hegel, nella prefazione alla seconda edizione della Scienza della logica, e poi continuava, con parole giustamente famose: «in tutto ciò che l’uomo fa suo, si è insinuato il linguaggio; e quello di cui l’uomo fa linguaggio e ch’egli estrinseca nel linguaggio, contiene, in una forma più inviluppata e meno pura, oppure all’incontro elaborata, una categoria»1. Sottoposto a un trattamento critico-decostruttivo, un passo del genere rivelerebbe un sacco di cose a riguardo di quelli che, nel titolo, ho chiamato i movimenti della filosofia e le risorse della negazione: c’è un alto e un basso, c’è un interno e un esterno, ci sono l’implicazione e l’esplicazione, il misto e il puro, e naturalmente il lavoro del concetto fra questi poli opposti. Ma non è di questo lavoro che voglio propriamente occuparmi, quanto piuttosto di ciò che Hegel dice a giustificazione del suo impianto e che riesce difficilmente eludibile. Senza timore di semplificare troppo la pagina hegeliana, per esigenze di brevità provo a elencare molto semplicemente tre cose. La prima riguarda il rapporto fra il linguaggio e il pensiero, le categorie del pensiero. Le parole della lingua hanno per base il pensiero. Il luogo in cui il pensiero ritrova i suoi oggetti logici è il linguaggio. «La filosofia non abbisogna perciò in generale di alcuna terminologia filosofica»2. La seconda riguarda l’efficacia determinatrice delle determinazioni del pensiero3, perché non può credersi che le categorie 1.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1988, vol. I, p. 10. 2.  Ivi, pp. 10 s. 3.  Cfr. ivi, pp. 13 s.: Hegel vi spiega come nella vita si proceda semplicemente all’uso delle categorie, senza porvi mente, sicché «l’esattezza e verità del pensiero che vi s’immischia vien fatta interamente dipendere dal dato stesso, non attribuendosi alle determinazioni del pensiero per sé prese alcuna efficacia determinatrice del contenuto». L’idea stessa di una scienza della logica

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siano mere forme vuote, indifferenti al contenuto che vi si riversa dentro. Bisogna perciò che venga in esame il contenuto stesso della forma logica, la forma in quanto contenuto – che è l’idea stessa di una scienza della logica. La terza riguarda «lo svolgimento del pensiero nella necessità sua»4, quello che Hegel chiama anche l’«andamento immanente dello sviluppo»5, quell’andamento per cui a noi non rimane altro che saper-ci in ciò che è saputo6. Ho detto poc’anzi che questi punti mi paiono sostanzialmente ineludibili. L’ultimo è però il più imperioso di tutti. Le prime parole dell’introduzione – in cui in un certo senso si accantona subito ciò che viene fatto di attendersi, cioè un concetto generale della logica fornito in una definizione che delimiti preventivamente il campo e gli oggetti, per la buona ragione che il concetto generale appartiene e non può non appartenere al contenuto della logica in svolgimento, anzi: è svolgimento – quelle parole sono, com’è evidente, molto di più di un fortunato incipit: «A proposito di nessuna scienza si sente così forte il bisogno di cominciar subito dalla cosa stessa»7. Si sente così forte, dice Hegel: si sente addirittura irresistibilmente. Non c’è altro che la cosa stessa, si potrebbe anche dire:

è, per Hegel, il rivolgimento completo di questa attribuzione di un’efficacia nulla alle forme del pensiero. 4.  Ivi, p. 19. 5.  Ivi, p. 20 6.  Hegel indica in questo sapersi «il più alto compito logico» (ivi, p. 17). Esso consiste da ultimo nel «portare alla coscienza codesta natura logica, che anima lo spirito, che in esso spinge ed agisce» (ivi, p. 16). Vi torno in conclusione, ma è già qui da notare che la coscienza innanzi a cui è portata l’azione dello spirito è altro da questa azione, è l’in-cui di ciò che nello spirito spinge e agisce. 7.  Ivi, p. 23.

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nessuna distanza, nessun margine proprio, nessuna libertà nel senso dell’arbitrio, nessun pensiero meramente soggettivo. La situazione si è così ribaltata. Dal surplace in cui pareva finito il primo pensiero achilleo all’andamento dialettico della cosa stessa, secondo la necessità sua propria. O si sente questa necessità, la cogenza di questa necessità immanente, o si sente irresistibilmente, o, in filosofia, non si pensa. I movimenti della filosofia, le risorse della riflessione sono reperibili solo per ed entro questa necessità. Il cui andamento caratteristico consiste in ciò, che non vi è modo di darle fondamento in via preliminare, senza vedersi costantemente anticipati da essa. Non siamo allora noi a muoverci verso la cosa, ma è la cosa stessa che si muove. La scienza della logica è la semplicissima coscienza di questo assoluto automovimento. Più precisamente ancora, la coscienza è solo ciò che accompagna questo movimento, nient’altro. In quale altro modo, del resto, si potrebbe dare, in filosofia, scienza di das Logische? Nella coscienza dell’automovimento, l’autos è insomma il Sé della cosa, non il sé dell’Io che sa la cosa. In quell’altra introduzione che riguarda non il concetto generale della logica, ma il concetto in generale, sulle soglie della logica soggettiva, Hegel fornisce ogni chiarimento possibile al riguardo. Lo spirito conscio di sé, al quale appartiene il fenomeno della coscienza – le sue «figure d’intuizione, rappresentazione e simili» – «non vien preso in considerazione nella scienza logica»8. Perché vi sia il concetto, vi dev’essere un concepire, e dunque un Io che si appropria dell’oggetto, «lo penetra, e lo porta nella sua propria forma»9, ma la logica non è la scienza di questa appropriazione, né delle operazioni con le quali la

8.  Ivi, vol. II, p. 662. 9.  Ivi, p. 660.

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coscienza perviene al concetto dell’oggetto, togliendone via l’immediatezza con la quale è dato nell’intuizione sensibile. L’Io della logica non è l’Io della psicologia o della fenomenologia, e dunque non è «quella cosa semplice, che vien chiamata anche anima, cui il concetto è inerente come un possesso o una proprietà»10. Allo stesso modo, prosegue Hegel, «nemmeno il concetto si deve considerar qui come atto dell’intelletto conscio di sé»11: il fatto che il concetto sia il prodotto di un intelletto, così come il fatto ulteriore che questo intelletto deve appartenere a un vivente, non concerne minimamente la sua tessitura logica: «La forma logica del concetto è però indipendente così da quella sua configurazione non spirituale, come da questa configurazione spirituale»12. Si deve dir di più: essere un concetto significa proprio godere di una simile indipendenza, rispetto al vivere («configurazione non spirituale») e al concepire («configurazione spirituale»). Essere un concetto significa esattamente questo: non essere sul piano in cui la vita animale e quella psichica si svolgono, ma anzi costituire il luogo a partire da cui quella vita può essere compresa. Se allora avere è la relazione dell’Io al concetto, è il concetto ad avere l’esserci nell’Io, non l’Io che c’è ad avere il concetto. Il rimprovero mosso ad Hegel, di aver dato forma e figura a una filosofia della coscienza, non coglie, da questo punto di vista, il bersaglio, dal momento che la dottrina del concetto, la logica soggettiva, in cui essere ed essenza trovano base, non comporta alcun trasferimento di sede: l’unità della coscienza di sé indica solo il luogo in cui si raccoglie e manifesta la verità ontologica dell’oggetto. Nessun riflesso psicologico può fargli ombra, ed anzi il concetto sorge quando il «rimanente materiale psicolo-

10.  Ivi, p. 661. 11.  Ivi, p. 662. 12.  Ibidem.

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gico e antropologico»13 è stato posto fuori gioco, accantonato in quanto eterogeneo. Se ora riprendiamo la lettura della seconda prefazione (la prefazione alla seconda edizione; siamo cioè nel ’31, sono le ultime cose che Hegel scrive prima di morire) non abbiamo motivo per non considerare meramente retorico l’interrogativo che vi troviamo formulato: «Che cosa rimane a noi di fronte ad esse [alle forme del pensiero, alle categorie]? Come potremmo noi, come potrei io mettermi al di sopra di esse [le forme del pensiero] come più universale, al di sopra di esse, che sono appunto l’universale come tale?»14. Nulla rimane di fronte alle categorie, né vi è alcun sopra al di sopra di esse. L’essere di fronte e l’esser al di sopra, d’altronde, non possono non essere pensati come forme logiche, parolette logiche anch’esse, che non possono starsene al riparo del movimento di das Logische. Hegel chiama impazienza l’ostinata tendenza a svolgere «riflessioni e osservazioni proprie» o a voler mostrare «il pensar da sé» che si agita dietro quelle domande15, ma è chiaro che non si tratta di una mera questione psicologica (benché sul piano della didattica della filosofia, di cosa significhi far filosofia e imparare a filosofare, questo sia un punto assolutamente imprescindibile – sia detto en passant): è, piuttosto una questione strettamente logica. Se non posso mettermi al di sopra delle categorie, è perché, se mi mettessi al di sopra di esse, l’esser sopra sarebbe al di sopra di me e delle categorie: sarebbe cioè già un pensiero in cui è pensata (o è lasciata nell’impensato) la relazione logica dell’Io con la categoria. Non c’è infatti che il pensiero per un simile essere al di sopra, così che l’antico fantasma filosofico del terzo uomo farebbe qui la sua ennesima 13.  Ivi, p. 671. 14.  Ivi, vol. I, p. 14. 15.  Ivi, p. 20.

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ricomparsa, dal momento che questo pensiero conterebbe di nuovo la forma logica al di sopra della quale l’Io vorrebbe porsi, per avervi relazione, e così ad infinitum. L’espressione, che spesso si impiega o di cui ci si compiace con un certo sussiego, per raccomandare ciò che è da pensare, ciò che di volta in volta si tratterebbe di pensare, più pensosamente di quanto si sia mai fatto, questo o quello – l’alterità, la negazione, o qualunque altra categoria –, presuppone invece proprio questo, che ci si possa, per dir così, mettere al di sopra. E se non ci si mette al di sopra, se non si aspira a tanto, ci si mette di fronte o di lato, o forse si compie un passo indietro, per guadagnare un terreno dal quale le determinazioni di pensiero possano essere riguardate, fatte oggetto di riflessione, mentre invece l’unica riflessione possibile è la loro propria, la loro stessa riflessione. Hegel ci ha però detto che le forme del pensiero sono depositate nel linguaggio: dove altrimenti potrebbero stare? Si tratta naturalmente del linguaggio nel senso delle lingue storico-naturali. I nuovi alloggiamenti costruiti con linguaggi formalizzati16, con una nuova terminologia ad hoc, non fanno per la filosofia, perché suppongono vocabolari di traduzione e istanze di controllo del calcolo logico che evidentemente non possono trovarsi dentro quegli stessi linguaggi, se devono servire a istituirli. Dove potrebbero trovarsi, allora? E come potrebbero essere portati nel pensiero, raggiunti dal concetto? Che la filosofia non si faccia in quei quartieri, anche se naturalmente è ovunque che può darsi motivo di pensare filosoficamente, bi16.  Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1999, § 18, p. 17: «Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: Un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi».

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sogna dirlo con forza. Quella di prima era una preoccupazione di didattica della filosofia, questa è, invece, una preoccupazione di politica della filosofia, se è consentito di introdurla così, soltanto incidentalmente. Di politica della lingua e, quindi, di politica del pensiero. Perché, certo, la filosofia può considerare indispensabile eseguire il passo con cui riportare i nuovi linguaggi indietro, nei vecchi quartieri dove hanno avuto origine i significati che hanno ancora circolazione in traduzione, ma, in realtà, questo passo non occorre affatto che venga eseguito da alcuno, affinché quei nuovi linguaggi funzionino, proprio come la trascrizione di una traccia musicale in formato digitale non è pregiudicata per il fatto che la compressione comporta una perdita di segnale. Anche il senso della perdita può infatti andar perduto, e definitivamente, senza che tuttavia la pratica dell’ascolto, come quella del dire, ne sia impedita. Vi sono insomma impasse teorici che, per quanto possano mantenere intatto il loro profilo problematico, e la loro promessa di senso, possono tuttavia essere risolti nel fatto, deludendo la promessa ma non ostruendo la pratica. Politica è, allora, la consapevolezza, che si sporge oltre l’impasse della teoria, che fatti di quest’ordine e di questa portata possono prodursi qui e ora.

2 Ma torno al punto: le forme logiche sono depositate nel linguaggio, non potremmo allora cercare colà il nostro proprio terreno, il nostro diverso orientamento: sul piano, per esempio, di una fenomenologia della parola? Alterità e negazione, dopo tutto, sono parole, e stanno insieme alle altre parole nel linguaggio. Non è il caso allora di retrocedere, secondo la raccomandazione di Gadamer, dallo spirito assoluto indietro allo spirito oggettivo? Un simile passo non comporta soltanto un certo ridimensionamento delle ambizioni veritative della filosofia, ma un capovolgimento di rapporti. Il linguaggio non avrà

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più per base il pensiero, come scriveva Hegel nella prefazione, ma il pensiero avrà per base il linguaggio. In questa idea che l’esperienza del senso sia essenzialmente un’esperienza linguistica sta evidentemente una rinuncia, ma anche un acquisto. La rinuncia a innalzare il concetto al concetto, per dirla ancora con Hegel, consegnandolo dunque ai molti e diversi usi linguistici di cui si dà esperienza, e al contempo l’acquisto di una diversa consapevolezza del senso della parola. Perché è la parola stessa ad avere anzitutto senso: se così non fosse, spiegava Maurice Merleau-Ponty, non si capirebbe perché, nel cercare parole per i nostri pensieri, noi troviamo il pensiero espresso e il senso raggiunto solo dopo che nella parola giusta il pensiero è effettivamente espresso e, così, il senso raggiunto: «Lo stesso soggetto pensante è in una specie di ignoranza dei suoi pensieri finché non li ha formulati per sé o anche detti e scritti»17. Una volta concesso questo primo passo, potremmo poi compierne anche un altro, retrocedere ancora, e invece di accontentarci di una descrizione fenomenologica tentare una genealogia delle forme prima linguistiche e poi concettuali dell’esperienza del senso. Potremmo allora scoprire che «il sorgere della lingua non segue un procedimento logico»18, che la sua origine e il suo sviluppo non hanno nulla di logico. Nel fornirne una presentazione così abbreviata, non intendo ovviamente in nessun modo sminuire simili tragitti di ricerca. Ciascuna di queste mosse richiederebbe anzi un adeguato approfondimento. È da dire anche che l’esplorazione intorno

17.  M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 248. 18.  F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, versione di G. Colli, in F. Nietzsche, Opere, Adelphi, Milano 1973, vol. III, t. II, p. 360.

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all’origine del linguaggio, alla spinta evolutiva che permise ai primi ominidi di avvalersi di una comunicazione propriamente simbolica è, oggi, particolarmente ricca e istruttiva19. Poiché però non è dal lato dei risultati che è possibile conseguire su questi terreni che intendo proseguire il mio ragionamento, posso, senza pregiudicarne l’importanza ed il valore, domandarmi piuttosto se queste logìe non siano in debito con la logica che fornisce loro l’agio di reperire i loro oggetti. Questo debito è estinguibile? Oppure non vi è alcun debito, ed è anzi persino patetico il modo in cui l’alterigia connessa col conoscere pretenderebbe di iscrivere ipoteche su ciò che genealogie e archeologie, tracciate dalla scienza o dalla filosofia, sono in grado di portare alla luce20? Poiché però l’alterigia, la presunzione del concetto e l’orientamento del logikòs sono proprio ciò di cui vorrei mostrare la scollatura rispetto all’on, posso proseguire senza troppi timori, lungo una via che si sottrae all’ambizione prima e principale della filosofia, di tenere stretti nel medesimo, nell’identità, nell’autò, il pensiero e l’essere, il noein e l’einai, il logikòs e l’on. Per indicare allora ciò che considero comunque implicato nel debito in cui finirebbe col rimanere gravata l’esplorazione su origine e fenomeno della parola, non trovo di meglio che citare un paragrafo delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, che dunque riporto:

19.  Cfr. ad es. T.W. Deacon, La specie simbolica. Coevoluzione di linguaggio e cervello, tr. it. di S. Ferraresi, Giovanni Fioriti Editore, Roma 2001 (da p. 363 traggo la metafora della spinta). 20.  L’espressione posta in corsivo appartiene ancora a F. Nietzsche, Verità e menzogna, cit., p. 356. Nel testo voglio alludere anche alla questione dell’ancestralità sollevata da Q. Meillassoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, a cura di M. Sandri, Mimesis, Milano 2012.

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21 Naturalmente si può immaginare che in un popolo, che non conosca giuochi, due persone si siedano davanti a una scacchiera ed eseguano le mosse di una partita a scacchi; e anche con tutti i fenomeni psichici concomitanti. E se noi vedessimo una cosa simile, diremmo che quelle persone giocano a scacchi. Ma immagina ora una partita a scacchi tradotta, in base a certe regole, in una serie di azioni che noi non siamo abituati ad associare a un giuoco, – per esempio, emettere grida e battere i piedi. E supponiamo ora che quei due, invece di giocare a scacchi nella forma a noi familiare, gridino e pestino i piedi; in modo però che questi processi possano essere tradotti, secondo regole appropriate, in una partita a scacchi. In questo caso saremmo ancora propensi a dire che quei due stanno giocando un giuoco? E con quale diritto potremmo dirlo?21

Metto al posto di “gioco” la parola “linguaggio” e domando: con quale diritto posso dire che quei due, gridando e pestando i piedi, parlino? Con quale diritto un’attività traducibile in base a regole appropriate in un linguaggio è un linguaggio? L’unica risposta possibile è nella parola che, insieme alla parola “gioco”, è posta in corsivo nel testo citato. La parola è “noi”: «se noi vedessimo una cosa simile, diremmo che quelle persone giocano a scacchi». Lo diremmo giustificatamente, ma saremmo pur sempre noi a dirlo. Allo stesso modo, se altri parlano è solo perché noi diciamo parola, linguaggio, il comportamento che viene esibito e il modo in cui ci si rapporta ad esso (anzitutto traducendone i comportamenti). Ma, se è così, e temo che sia così, allora non c’è fenomenologia né genealogia che tenga: il linguaggio non può essere messo tra parentesi, né fatto oggetto di scavo genealogico, e non semplicemente perché siamo già sempre impregnati di linguaggio, perché le logìe sono fatte di linguaggio, ma più radicalmente perché dopo la messa tra parentesi fenomenologica, così come

21.  L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 200, p. 108.

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dopo la distanziazione genealogica, quel che rimane, senza di noi, non è linguaggio. Lo è, insomma, finché noi parliamo, finché si mantiene un filo che lega quel linguaggio, così come le grida e i piedi dello strano popolo immaginato da Wittgenstein, a noi che parliamo. Quel filo, che giunge fino a noi, non è fenomenologizzabile né genealogizzabile. Con una brutta parola che può consentire di essere un po’ più spicci si può aggiungere: non è neppure antropologizzabile, perché noi siamo solo, fin qui, il margine che frequentiamo parlando, senza alcuna determinatezza naturale, storica o empirica a riempirne la figura. In questo senso, credo si veda subito che il paragrafo wittgensteiniano interviene qui per una finalità diversa da quella delle Untersuchungen del filosofo austriaco. Non ho infatti intenzione di depositare il linguaggio nelle forme che si osserverebbero dentro una storia naturale dell’animale umano, l’animale che prima vive, poi parla e infine pensa. Ma non voglio qui ripetere nemmeno cose del tipo: non siamo noi a parlare, ma è il linguaggio che parla in noi. O cose del tipo: il linguaggio non è un semplice mezzo o uno strumento. Non perché non siano condivisibili, non perché al contrario il linguaggio sia davvero solo uno strumento oppure perché ci sia da qualche parte un “io”, un “noi”, che comincia a parlare ab initio, senza esser preceduto dal linguaggio, ma perché è fuori questione la modalità del nostro rapporto col linguaggio: non vi è modo di pensare quell’aver rapporto senza che il “noi” che ha in esso rapporto vi cada già da sempre dentro. Questo rapporto è evidentemente aporetico, perché dovrebbe intercorrere tra elementi che non possono esser pensati prima di quel rapporto. Ricompare l’alterigia del conoscere? Si ripresenta l’idealismo della filosofia, con tutte le sue spire riflessive? Abbiamo già dimenticato, nel breve volgere di qualche proposizione, l’angolo remoto dell’universo in cui l’uomo ha scoperto l’intelli-

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genza, nel «minuto più tracotante e menzognero della “storia del mondo”»22? Non necessariamente. Certo, se lasciassimo le cose così, al punto in cui sono, procureremmo l’impressione di voler dire qualcosa del tipo: per questo “noi” non c’è alterità né negazione. Esso è davvero l’inalterabile e l’innegabile, l’intrascendibile dentro cui già sempre siamo, che sempre ci anticipa, ci comprende e precede, e di cui non siamo altro che un’istanza transeunte. Noi parliamo, senza essere questo noi, ma senza neppure potercene distanziare. Ovviamente, questo “noi” potrebbe ricevere molti nomi, assai meno modesti di quello usato sin qui, ma temo che tutti replicherebbero la stessa relazione, riprodurrebbero lo stesso dislivello, situerebbero il “noi” indecostruibile su un piano più alto di quello che ordinariamente frequentiamo. Con il paradosso per cui proprio questo inalterabile si troverebbe ad essere altro, indefinitamente altro da ciò che è concretamente esperito nel linguaggio che parliamo, e in tutte le determinatezze che appartengono al mondo. Ciò che fa del linguaggio il linguaggio si troverebbe ad essere la sola cosa sottratta alle stesse regole del linguaggio, e, per dir così, non parlabile: l’inattingibile fondamento negativo del linguaggio, per dirla con un’enfasi sin troppo consueta. L’innegabile sarebbe insomma il negativo, in un senso ontologico prima ancora che semplicemente logico. (O forse dovrei dire: ontologico, ma grazie ai buoni uffici di una logica speculativa intrisa di negativo). È chiaro che giungere a una conclusione simile significherebbe riattivare nuovamente le potenti risorse della riflessione, e sarebbe forse il giusto contrappasso per aver scartato frettolosamente la via genealogica. La negatività che affligge il fondamento potrebbe ora essere interpretata, malinconicamente o tragicamente, come il segno di una immedicabile distanza, di 22.  F. Nietzsche, Su verità e menzogna, cit., p. 355.

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qualcosa che irreparabilmente sfugge, ma anche ripresa come la sua propria essenza, il suo stesso automovimento; il suo sfuggire sarebbe allora proprio il modo in cui il fondamento ha l’essere, non essendo in ciò che è, in-esistendo in ciò che esiste. In un caso e nell’altro però, il noi nel cui orizzonte parliamo sarebbe il centro di una tela di ragno che non saremmo in alcun modo riusciti a strappare, e che anzi avremmo tenuto al riparo da ogni possibile strappo. Se questo fosse l’esito, il détour compiuto nella regione del linguaggio non sarebbe insomma servito a gran che: nonostante la direzione intrapresa, il linguaggio continuerebbe ad avere per base, cioè per terreno di comprensione, le forme del pensiero. Non sarebbe solo superficie – quella che Wittgenstein voleva limitarsi a descrivere – ma anche profondità, anche se questa profondità non avrebbe la pesante stabilità di una struttura, non costituirebbe un autonomo arrière-plan, ma esisterebbe solo trascendentalmente o riflessivamente, cioè in quanto negato e come negato, in superficie. Come non accorgersi però che in quest’ultimo modo non avremmo fatto altro che riprodurre il modulo dialettico più fondamentale e più universale, l’Urzelle della dialettica, che a costo di apparire troppo sbrigativo provo a formulare così: ciò che è vale due volte, una volta come essere, e una seconda come essere del non-essere, non-essere che, come non-essere, può avere il suo essere solo nell’essere? Allo stesso modo diremo: siamo noi a parlare, ma in noi parlerebbe, come negata, l’essenza del linguaggio, sia che questa negatività significhi una differenza che non si ricapitola in un’identità, sia che invece significhi un’identità in sé differente.

3 Il nome, per questi movimenti del pensiero, è ancora quello di Platone: la condizione di possibilità di questa concettualizzazione dell’essere essenziale del linguaggio – parlo di concettua-

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lizzazione in senso forte, nel senso in cui il concetto è la verità dell’essere, ma in chiave polemica potrei dire anche: di questa trasfigurazione, di questa spiritualizzazione – va indicata nel movimento con cui Platone, riflettendo sui meghista ghene, sui grandi generi, stabiliva che l’identico, in quanto identico, è diverso dal diverso. Senza questa relazione, senza questo movimento, l’essere non avrebbe vita né intelligenza, diceva23. Senza vita, movimento, intelligenza, l’essere sarebbe stupido. Noi non parleremmo. Ma possiamo semplicemente sbarazzarci di questa stupidità? Gustave Flaubert ha detto una volta che i capolavori sono stupidi, «hanno un’aria tranquilla come le produzioni della natura, come i grandi animali e le montagne»24. Questa stupidità è proprio ciò che ora vorrei mettermi, da ultimo, in posizione di considerare, soltanto considerare, proprio come si con-sidera, stupefatti, una montagna. Se il logikòs può perdere aderenza all’on, non sarà perché l’on può rimanere

23.  «Ma allora, per Zeus? Ci lasceremo convincere senza colpo ferire che movimento, vita, anima e intelligenza davvero non siano presenti nella totalità dell’essere, e che l’essere né viva né pensi, ma, venerabile e santo, se ne stia, privo d’intelletto, immobile e fermo?» (Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano 2007, 248e-249a, p. 379). 24.  La frase di Flaubert si trova in una lettera a Louise Colet del 27 giugno 1852. A richiamare l’attenzione su di essa è stato J. Derrida, che l’ha citata una prima volta nel saggio Une idée de Flaubert: «La lettre de Platon», contenuto in J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. I., tr. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2008, p. 355, n. 27, e una seconda volta in J. Derrida, La Bestia e il Sovrano. Volume I (2001-2002), tr. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009, p. 205. Non è possibile riprendere, in questa sede, la trattazione che Derrida riserva al tema della bêtise, in particolare nella quinta e nella sesta lezione, se non per notare come, nonostante non sia commentato a dovere, nel cangiante gioco di linguaggio che Derrida allestisce, il cenno alla stupidità dei capolavori, esso è comunque suggerito dall’idea che la stupidità sia essenzialmente un affare del pensiero (l’affare del suo fondo indeterminato, come si può dire con Schelling), idea che il filosofo francese riprende, con qualche movenza critica, da Gilles Deleuze.

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senza parole? Di più: perché noi potremmo rimanere senza parole, perché le parole potrebbero non essere parole? Possiamo avere in considerazione questa esperienza, e rivolgerci ad essa come ad un culmine? Forse sì, anche se, per questo, non c’è bisogno di situarla a qualche vertiginosa altezza, al vertice di percorsi arditamente speculativi, in rapporto a speciali oggetti o grazie al possesso di speciali intuizioni. Vediamo (sia pur brevemente, in un semplice esercizio): appartiene necessariamente alla montagna di essere ciò che non è, di avere, nell’identità del suo essere, un riferimento al suo non essere? Le tocca, per essere parlabile, per entrare nel linguaggio, nell’articolazione dei suoi significati, nel movimento del logos, ma le tocca per questo assolutamente? Che cosa succede se l’essere perde il suo significato logico, se perde o se rinuncia alla sua determinatezza logica? Se viene sorpreso, o se si lascia sorprendere, in una tranquilla stupefazione, senza riflessione, prima della (meglio ancora: senza la) sua identità logica? È mai possibile una simile avventura (o disavventura)? Quel che succede è che alla sua determinatezza non apparterrà più di aver relazione al suo non essere. Sarà posta, per dir così, sine ulla implicatione. Alla montagna succederà di non aver più relazione con la non-montagna; ad “x”, a qualunque essente o qualunque significato, di non aver più relazione con “non-x”, con la negazione di quell’essente o di quel significato. Ma non è quel che già accade, ovunque e sempre? Poniamo pure che “x” non possa essere pensato senza “nonx”. Che questo è, per dir così, il suo linguaggio, il suo vestito logico, in cui ha base il suo significare. Che cosa dire però del complesso “x e non x”? Anch’esso dovrebbe non poter essere pensato senza movimento, vita e intelligenza, senza relazione con la sua negazione, dunque con “non(x e non x)”. Ma così si

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andrebbe all’infinito. Chi mai è andato, però, sino in fondo a questa riflessione, o chi mai potrà andarvi? Chi ha pensato tutti questi pensieri? In realtà, sono pensieri che nessuno ha pensato (né è un caso che siamo costretti a riportarci nuovamente nelle retrovie del linguaggio, tra pensieri, non tra semplici parole). Per ogni pensiero pensato ve ne sarebbero infiniti impensati che gli farebbero corona, ma che noi non abbiamo pensato. Ma perché mai dovremmo mettere i nostri pensieri dentro pensieri impensati? Perché dovremmo togliere realtà ai nostri pensieri, a vantaggio di quelle possibilità? Il solo motivo (il solo azzardo) per farlo è per dire: perché noi pensiamo. Ma ora questo noi non ha alcun prestigio speculativo, ma ha semmai il formato decisamente più prosaico di un’affermazione tentativa, di un’autoassicurazione fondata su nulla (neppure su un’autò, perché l’autò è quel che vorremmo risultasse in esito a quel che noi, in quanto si è noi, affermiamo). Più in generale: perché la realtà dovrebbe presentarsi come un’isola in mezzo a un oceano di possibilità, secondo una vecchia immagine kantiana? Questa presentazione sub specie logicae risponde a un’esigenza di determinabilità del senso che non è più fondabile di quanto lo sia il noi trascendentale al quale si era giunti. Ne è solo la proiezione, la prosecuzione, la maniera in cui la negatività del fondamento disegna con la sua ombra il profilo delle cose. Ma esiste, io credo, un’ombra più corta, un altro ductus rationis, che mi piace mettere sotto una celebre clausola spinoziana, spero con buoni motivi: sub specie aeternitatis. Sotto una simile specie, sotto un simile riguardo, sine relatione logicae25, 25.  L’espressione richiama lo scolio alla proposizione 20 della quinta, decisiva parte dell’Etica di Spinoza, nel punto in cui il filosofo olandese annuncia di voler passare «a ciò che si riferisce alla durata della Mente, senza relazione al Corpo» (B. Spinoza, Etica, tr. it. di G. Durante, Bompiani, Milano 2007,

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va però considerata non solo la montagna, ma la parola stessa. È la parola che è resa stupida, tolta dalla relazione con il suo “non” determinativo. È la nostra stessa esperienza di linguaggio che va insomma guardata (ma forse qui si dovrebbe dire vissuta, incarnata) sub specie aeternitatis. Qui sta l’ultimo punto: mostrare che quel noi è, tanto nella differenza del trascendentale quanto nell’identità dello speculativo, solamente presunto. Non merita uno statuto speciale, non è immancabilmente in anticipo sulla nostra esperienza e non va dunque pensato come inattingibile, neanche come l’inat­ tingibile nell’attingibile. Torno allora un’ultima volta al popolo immaginato da Wittgenstein, per mostrare che il culmine di cui parlo si trova, in realtà, dappertutto. Ebbene, il popolo che grida e pesta i piedi non tiene forse un comportamento stupido? Non siamo noi – sulla portata decisiva di questo “noi” non occorre più insistere – a guadagnarlo al linguaggio? Ma che per il popolo questo sia un guadagno, beh: questo è tutto da dimostrare. Anzi: è, per definizione, indimostrabile. Lo stesso, però, si dovrà dire di noi, della nostra stupidità. Che questo noi tragga un guadagno dal valere, trascendentalmente o speculativamente, senza alterità o negazione è parimenti indimostrabile. Ancora: se il popolo che grida e pesta i piedi può apparirci stupido è anche perché, al contempo, può lasciarci stupefatti: cioè farci stupidi, senza più risorse riflessive e movimenti dell’intelligenza. Come ogni cosa, come un capolavoro o una montagna.

p. 615), con una cadenza che mette a dura prova il modo in cui è quasi universalmente inteso l’idem esse di ordo rerum e ordo idearum stabilito nella celebre proposizione 7 della seconda parte. Sul modo in cui tuttavia può essere reso fruttuoso questo passaggio, mi sia consentito rinviare a M. Adinolfi, Continuare Spinoza. Un’esercitazione filosofica, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2012.

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L’uno e l’altra sarebbero affidati così alla «serena calma della conoscenza semplicemente pensante»26. Sono le ultime parole della seconda Vorrede della Wissenschaft der Logik, che mi pare possono far trapelare, indipendentemente dalle intenzioni hegeliane, una diversa affezione alle cose. Il movimento dialettico in cui si svolge il logikòs si coglie bene, infatti, in tutta la densità che è contenuta nelle parole: conoscenza pensante. La serena calma, il silenzio delle passioni, die leidenschaftslosen Stille, quella coscienza impassibile che accompagna la conoscenza pensante, quell’accostamento taciturno, Hegel non me ne voglia: mi pare che appartenga ad un altro campo, che non possa essere dedotto, o comunque conseguito logicamente, ma solo esperito. Potenzialmente esperito: esperito, avendone la potenza. Un’esperienza muta, stupida, del senso è forse qui nominata, senza che venga ad essere il senso dell’esperienza che si è compiuta nello spazio del logikòs.

26.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. I, p. 22.

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Indicibile sinestesia Damascio e la decostruzione della semantica di alterità e negazione Federico Croci*

Tὸν δὲ δὴ εὐχερῶς ἐϑέλοντα παντὸς μαϑήματος γεύεσϑαι καὶ ἁσμένως ἐπὶ τὸ μανϑάνειν ἰόντα καὶ ἀπλήστως ἔχοντα, τοῦτον δ᾽ἐν δίκῃ φήσομεν φιλόσοφον. Plato, Resp., V, 475c 5-61

1. Ἐγκύκλια μαϑήματα «Radicalismo disperato»2. Questa è la definizione, caustica e precisa, di ciò che propriamente si deve intendere per scetticismo: il rifiuto, tenacemente perseguito, di qualsiasi presupposizione; la messa in discussione delle varie forme di ragione, tutte dogmaticamente accomunate dall’esigenza di individuare nel * Universidade Federal de São Paulo, Grant 2018/14732-7, São Paulo Research Foundation (FAPESP). 1.  Traduzione nostra: «Colui che intrepidamente brama di gustare ogni conoscenza, che si precipita con gioia sull’apprendere e che vi permane senza esserne mai sazio, costui non lo chiameremo giustamente filosofo?». 2.  A. Russo, Introduzione a Sesto Empirico, Contro i matematici, i logici, i fisici, i moralisti, 3 voll., Laterza, Roma-Bari 1972-1990, vol. II, p. XXVI. L’edizione critica di riferimento è Sexti Empirici Opera, recensuit H. Mutschmann et H. Mau, 4 voll., Biblioteca Teubneriana, Lipsiae 1912-1952. È ormai acclarato dalla critica che i libri VII-XI di Adv. Math. corrispondano a un’opera a sé stante: Adv. Dogm., I-V.

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reale un qualche ordine razionale. Sin dalla sua nascita a opera di Pirrone, lo scetticismo si è votato alla sospensione del giudizio: ineluttabile parve l’affastellarsi di soluzioni contrastanti ed equipollenti, sintomi della mancanza di regolarità delle cose3. Nella storia dello scetticismo, alla sistematicità critica si accosta la precisione chirurgica4, tanto da farne una filosofia del coltello e dello stilo5. Sesto Empirico, doctor scepticus per eccellenza, filosofo e medico, persegue con tenacia la dissoluzione di ogni istanza sistematica. È assai eloquente l’apertura della sua opera maggiore, che riprende l’aporia dell’insegnamento già affrontata da Platone in numerosi dialoghi, segnatamente nel Menone: perché è impossibile insegnare? In primo luogo, spiega Sesto Empirico, perché ciò che non esiste non è insegnabile. Il falso, dunque, non è né insegnabile né apprendibile. In secondo luogo, neppure ciò che esiste è insegnabile: se ciò che esiste è immediatamente evidente a tutti, tutto dovrebbe essere insegnabile; tuttavia, ciò che è insegnabile presuppone che vi sia qualcosa che, benché si possa apprendere, non si possa insegnare, in quanto, altrimenti, si sarebbe perfettamente sapienti6. Se per Aristotele l’uomo sconvolto dell’aporia è come il condannato incatenato7, le ἀντιρρήσεις scettiche dimostrano che l’unico vero riposa nell’inesausto atto del dubitare8, costruendo

3.  Cfr. Sesto Empirico, Adv. Math., I, 600, 15-16. 4.  Cfr. A. Russo, Introduzione a Sesto Empirico, op. cit., vol. I, p. XVI. 5.  Cfr. ivi, p. XI: «nell’usare con lucidità il suo affilato rasoio, il filosofo è animato da quella viva coscienza del negativo che fa onore ad ogni serio tentativo scettico; egli, infatti, non lotta contro il positivo, ma tende a svincolare il movimento del pensiero da quella “bestimmte Bestimmtheit” entro cui esso era stato compresso ad opera del dommatismo dei filosofi e degli intellettuali». 6.  Cfr. Sesto Empirico, Adv. Math., I, 601, 5-603, 5. 7.  Cfr. Aristotele, Met., B, 1, 995a 31-32. 8.  Cfr. Sesto Empirico, Adv. Math., I, 605, 5-10.

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un sistema dell’impossibilità di ogni sistema. Se l’atto dell’insegnamento è strutturalmente inesplicabile, ne conseguono l’impossibilità della pedagogia, derivante dalla soppressione delle figure del maestro, del discepolo e dell’atto di insegnare, e l’aporeticità inemendabile del linguaggio, poiché la parola non può più essere considerata un riferimento espressivo della cosa9. Il criterio dello scetticismo si costituisce come il venir meno del ruolo significante del linguaggio e dell’intenzionalità della rappresentazione: se ogni enunciato implica un significato, si rende evidente che il significare differisce dal mero descrivere un dato conoscitivo; in che modo, allora, il significato si costituisca, rimane oscuro e ingiustificabile. Pirrone, padre nobile dello scetticismo, maturò nell’intima convinzione che non sono i sensi e la ragione a essere inadeguati, ma le cose a essere immisurabili, indifferenti e indeterminate in se stesse. Egli amava citare il verso omerico, che paragona la stirpe degli uomini a quella delle foglie10, derivandone una descrizione della natura umana come dominata da una fanciullesca follia11. Fu questa la ragione per la quale Pirrone non scrisse nulla. Lo mosse la persuasione che la scrittura fissi l’incatturabile e suadente fluidità della parola, esponendola al rischio del dogmatismo: «Purus grammaticus, purus asinus». La grammatica è una sirena, che alletta, promette e seduce12. Nessuna arte, infatti, può indagare ciò che è infinito, dato che

9.  Cfr. ivi, I, 601, 10-15. Sulla discussione di questi problemi nell’ambito della filosofia platonica, cfr. F, Croci, Seduzione e incanto della parola. Una riflessione teoretica sull’origine e lo statuto del linguaggio a partire dal Cratilo di Platone, in «Estetica. Studi e Ricerche», VIII, n. 2, 2018, pp. 343-374. 10.  Cfr. Omero, Il., VI, 146. 11.  Cfr. Diogene Laerzio, Vitae, IX, 68. 12.  Cfr. Sesto Empirico, Adv. Math., I, 607, 29.

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ha come scopo quello di definire e d’insegnare. D’essere, cioè, la prigione dell’indeterminato13.

2. Πάλιν ἐξ ἀρχῆς Stando a Hegel, l’Accademia fu un processo di morte diretto allo scetticismo14. Questo è tanto più vero qualora si noti che l’afasia predicata da Pirrone – se con tale termine s’intende una presunta possibilità di tacere, rimanendo privi di opinioni (ἀδόξαστοι), incapaci di formulare giudizi – è rielaborata radicalmente da Damascio, l’ultimo diadoco dell’Accademia neoplatonica. Per Damascio, la prigione del linguaggio è senza uscite: impossibile evadere dalla sua struttura aporetica, in quanto colui che dice, nell’atto del dire, non intende mai i propri giudizi come determinanti. La necessità di non determinare nulla (οὐδὲν ὁρίζειν) si applica alle stesse proposizioni scettiche, tanto che, quando lo scettico afferma la falsità di ogni dire, circoscrive (συμπεριγράφει) con quest’affermazione il proprio stesso detto. Le proposizioni si auto-annullano, circoscrivendosi insieme con le cose che dicono15. Se in Pirrone e in Arcesilao è possibile che lo scetticismo fosse ancora fondato su una visione dualistica dell’epistemologia, secondo cui noi conosceremmo solo i fenomeni che ci formiamo attraverso le rappresentazioni, senza poter arrivare alle cose in sé16, in Damascio, invece, lo stesso concetto di un reale al di là

13.  Cfr. ivi, I, 617, 15-20. 14.  Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, tr. it. di E. Codignola e G. Sanna, 3 voll., La Nuova Italia, Firenze 1930-1945, vol. II, p. 511. 15.  Cfr. Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp., I, 7, 14. 16.  Cfr. M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1975, vol. I, pp. 162-165.

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del fenomeno viene meno17: ci si muove solo all’interno delle rappresentazioni del pensare, senza poter mai determinare in un giudizio se qualcosa di altro, nella forma di un oggetto in sé, esista al di là di esse. La torsione protologica che Damascio dà ai tropi scettici è tutta tesa a elevare il discorso in un ambito teologico. Seguendo l’istanza che muove ciascun neoplatonico, Damascio sostiene che si deve (χρεία)18 porre il Principio, ma, aggiunge, si deve pensarlo come anche non-Principio, al fine di preservarne la trascendenza: l’uno-causa, infatti, in quanto origine, è coordinato ai suoi effetti. Damascio si avvede che non solo le nozioni di principio e trascendenza non sono compatibili, ma, pure, sottolinea come la trascendenza è sempre relativa a qualcosa di trasceso19. Se il Principio fosse vertice del tutto, continua 17.  Cfr. Sesto Empirico, Adv. Math., VIII, 368. Anche per Sesto Empirico, del fenomeno si può solo constatare l’apparire (τῶν γὰρ φαινομένων αὐτὸ μόνον παριστάντων ὅτι φαίνεται), senza che sia possibile inferire dall’apparire l’esistenza o l’inesistenza del qualcosa che appare (ὅτι ὑπόκειται). Il dato originario è l’affezione: che vi sia qualcosa di cui tale affezione sia l’apparire, rimane indeterminabile. 18.  Cfr. Damascio, De Principiis, I, p. 8.6. L’edizione di riferimento è Damascius, Traité des premiers principes, texte établi par L.G. Westerink e traduit par J. Combès, Les Belles Lettres, Paris: vol. I, De l’ineffable et de l’un, 1986; vol. II, De la triade et de l’unifié, 1989; vol. III, De la procession de l’unifié, 1991. La traduzione italiana è nostra. 19.  Cfr. A. Linguiti, L’ultimo platonismo greco. Principi e conoscenza, Olschki, Firenze 1990, p. 96: «Mentre nell’anima umana esiste una traccia dell’uno, l’uno in noi appunto, che pur essendo inferiore all’uno vero e proprio è in grado di indicare la via al nostro desiderio di conoscenza, il principio supremo si caratterizza per l’assenza di qualsivoglia punto di contatto tra noi ed esso. Da ciò discendono lo scetticismo e l’agnosticismo assoluti di Damascio riguardo alla possibilità di conoscerlo. Eppure è innegabile che su di esso formuliamo ipotesi e ci formiamo rappresentazioni. In che modo? Attraverso i ragionamenti sul principio immediatamente successivo, l’uno. Postuliamo cioè l’esistenza dell’ineffabile riconoscendo la superiorità dell’irrelato e del non coordinato su ciò che è posto in relazione e in coordinazione, oppure

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Damascio, sarebbe parte del tutto e non più il Principio; se il Principio fosse trascendente il tutto, il tutto non lo conterrebbe e non sarebbe più il tutto. Nel primo caso, non solo il tutto non potrebbe procedere dal Principio, poiché il Primo sarebbe una sua parte, ma, ancor più problematicamente, se il Principio fosse il tutto, questo non avrebbe alcuna causalità, poiché gli effetti del tutto cadrebbero fuori del tutto. Il Principio, pertanto, è al di là di ogni affermazione e negazione, elusivo ogni opposizione, compresa quella di senso e insignificanza, fondamentale per il sorgere della dimensione dell’esprimibile e del discorso. Vi è in questi passi una stretta analogia con il paradosso russelliano della classe delle classi: si pone come contenuto opinativo la proprietà di non poter essere un contenuto d’opinione. Questo aporeticismo è del tutto alieno dalla lettura che Hegel offre dello scetticismo antico, definito un puro scompiglio nella forma della contraddizione che supera se stessa20. Damascio, al contrario, coglie il cuore della logica platonica: come logica della relazione, può portare al limite a una logica apofatica dell’opposizione – l’opposizione è la forma estrema della relazione –, che dica negativamente il Principio; procedere oltre significa comprendere che non si può saltare oltre il logo, ma che la logica della relazione va decostruita permanendo in essa, che il dire deve dire dis-dicendo, che il logo deve torturarsi per aprirsi alla possibilità di qualcosa d’altro. Nella filosofia damasciana, lo scetticismo assume la forma di una dottrina del dubbio radicale, esprimendosi come Zweifel, costante ondeggiare tra le due possibilità (zwei)21: nemmeno si può più affermare riscontrando nell’uno una duplicità di aspetti contraddittori che richiede una composizione a livello superiore, o infine assumendo come prova della ragion d’essere dell’ineffabile la necessità di un concetto-limite che interrompa la catena delle supposizioni e delle congetture». 20.  Cfr. G.W.F. Hegel, op. cit., vol. II, p. 548. 21.  Cfr. ivi, vol. II, p. 506.

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la totale incomprensibilità del Principio, poiché, in tal caso, l’affermazione si costituirebbe come enunciato che pretende valore di verità assoluta. Dalla teologia apofatica si passa alla teologia aporetica. Damascio, unico tra i neoplatonici, comprende l’autentico cuore del Parmenide: il silenzio non è il tacere che si oppone alla parola, ma l’aprirsi della parola alla dimensione del non-senso, che la precede e ne rappresenta l’abisso immemorabile e sempre presente in essa22. Il discorso che dice l’Ineffabile si dis-dice dinanzi alla suprema contraddizione, quella che dice l’essereprincipio e, al contempo, il non-esser-principio del Principio. L’antinomia del chiasmo divino mostra che il Principio, inconcepibile nella sua relazione alle totalità delle cose, non è identificabile all’uno, il punto che tutto inghiotte (πάντα καταπιόν), poiché questo è stretto dalla morsa della sua relazione ai molti, di cui è causa: il Principio, infatti, è per definizione principiodi, cioè causa coordinata ai propri effetti. L’uno dissolve-risolve (συνανέλυσειν)23, unifica i molti, avvinto dal proprio legame con la totalità: è il tutto anteriore al tutto (πάντα πρὸ τῶν πάντων),

22.  Per la nostra lettura del Parmenide, cfr. F. Croci, Il gioco senza fine. Henologia ed epistemologia nel Sofista e nel Parmenide di Platone, in «Giornale di Metafisica», XXXVII, n. 2, 2015, pp. 497-512; F. Croci, Dell’Uno e dei Molti. Henologia e henofania da Platone a Schelling, pref. di V. Vitiello, Le Lettere, Firenze 2017, pp. 48-64. 23.  Cfr. M. Vlad, Discours et suppression du discours dans le De Principiis de Damascius, in «Historia Philosophica», vol. 10, 2012, p. 39, nota 2: «Le terme qui désigne la résolution ou la simplification qu’il faut opérer est ἀναλύω. Ce verbe renvoie à l’idée de l’analyse, qui est l’une des quatre méthodes de la dialectique: la division (διαίρεσις), l’analyse (ἀνάλυσις), la définition (ὁρισμός), la démonstration (ἀπόδειξις). Il y a une correspondance entre la division et l’analyse, d’une part, et les deux mouvements fondamentaux qui gouvernent la réalité néoplatonicienne, d’autre part: la procession, comme développement de toutes les choses à partir du principe, et la conversion, comme le retour de toutes choses vers le principe».

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ma non ancora il Principio. Si deve procedere oltre questa nozione: il Principio deve essere astratto (ἐξῃρημένην) anche dal­ l’uno che tutto ha divorato. “Estrarre”, “tirar fuori”: il tutto è come una fodera da cui il Principio viene sguainato, tolto, rimosso. Rimosso, in realtà, anche da se stesso, dalla propria presunta natura di Principio. Damascio si avvede che il Principio, relazionandosi ai propri effetti, non riesce mai a essere davvero la fonte del loro essere, ma solo la causa ordinatrice della loro coordinazione24: diviene la struttura della loro armonia, la trama logica del cosmo, perdendo ogni carattere di trascendenza. Inafferrabile (ἄληπτον) è questa X, che induce l’anima a procedere nel vuoto (κενεμβατεῖν)25. Il suo nome, se di nome si può ancora parlare, è quello di Ἀπόρρητον: l’Ineffabile/Inaccessibile, ciò che è segreto, occulto, proibito. Totalmente incomprensibile (ἀπερινόητον), ci induce a un unico esito: capovolgere il discorso e il ragionamento (περιτρεπόμεϑα τῷ λόγῳ)26. Si apre, su questa precisazione di Damascio, un vero e proprio abisso interpretativo, che decide dell’esegesi della totalità della sua filosofia. In particolare, non è condivisibile la tesi secondo cui Damascio non negherebbe all’Ineffabile lo statuto

24.  Cfr. C. Metry-Tresson, L’aporie ou l’expérience des limites de la pensée dans le Péri Archôn de Damaskios, Brill, Leiden-Boston 2012, p. 99. 25.  Cfr. M.-C. Galpérine, Le temps intégral selon Damascius, in «Les Études Philosophiques», n. 3, 1980, p. 341: «L’unité est le vœu de la pensée, mais la division est sa loi». È interessante rilevare che il verbo κενεμβατεῖν appartiene al registro medico e indica l’esplorazione di uno spazio vuoto per mezzo di una sonda: di nuovo, pare un rimando lessicologico a Sesto Empirico. 26.  Cfr. Damascio, De Principiis, I, p. 8.14-20, traduzione nostra: «Occorre sapere che questi sono nomi e concetti delle nostre doglie del parto, che osano intromettersi in molti modi in esso, ma si arrestano inesorabilmente sulla soglia del sacrario, senza annunciarci alcunché di ciò che gli è proprio, ma svelando soltanto le nostre affezioni al suo riguardo, con le loro aporie e i loro fallimenti [ἀτευξίας], e neppure in modo chiaro, ma per mezzo di allusioni [ἐνδείξεων] dirette a coloro che sono in grado di intenderle».

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di Principio, ma solo il nome27: ci si domanda, allora, in che cosa consisterebbe la novità di Damascio rispetto ai suoi predecessori. Un’attenta comparazione del sistema procliano a quello damasciano rileva come la peculiarità di Damascio sia proprio quella di voler giungere a una negazione “metafisica” del carattere principiale dell’Ineffabile, al fine di slegarlo dalla nozione di causa e dalla conseguente dialettica di trascendenza e immanenza, di uno e molti28. L’Ineffabile non è qualcosa che permetta di saltare oltre il linguaggio e al di là delle aporie legate alla nozione di uno-principio, la cui nozione risulta contraddittoria a causa della dipendenza dal pensiero di cui è causa, né tantomeno si costituisce come una sorta di divinazione muta e di tranquillo riposo dalla tortura aporetica. Ha ragione Narbonne nel sottolineare che Damascio persegue «l’éclatement de cette notion de principe»29: tuttavia, la denuncia di questo argomento damasciano come paradossale e insensato non ci pare condivisibile, in quanto ricalca le celebri obiezioni procliane, probabilmente dirette a Giamblico, che rifiutava l’introduzione di un Principio superiore all’uno30, ritenendolo inutile. L’obbiettivo esplicito di Damascio riposa, invece, nella dissoluzione dello statuto denotativo e performativo del linguaggio e della conoscenza. All’Ineffabile non si addice né la trascendenza né il nome o l’essenza di ineffabile: non la

27.  Cfr. M. Vlad, Discours et suppression du discours, cit., pp. 27 s. 28.  Cfr. V. Napoli, Ἐπέκεινα τοῦ ἑνός. Il principio totalmente ineffabile tra dialettica ed esegesi in Damascio, CUECM-Officina di Studi Medievali, Catania-Palermo 2008, in particolare pp. 201-309. 29.  J.-M. Narbonne, Plotin. Les deux matières [Ennéade ii, 4 (12)], Vrin, Paris 1993, p. 19. 30.  Per citare solo due esempi di un rifiuto di un Principio ulteriore rispetto all’uno, cfr. Plotino, Enn., V, 4, 1, 1-20 e Proclo, Theol. Plat., II, 2, 15-1.21. Le argomentazioni procliane sono dettagliatamente analizzate in V. Napoli, op. cit., pp. 202-228.

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trascendenza, in quanto essa è sempre relativa a qualcosa che viene trasceso e, dunque, risulta coordinata a esso ex negativo. Questo è il caso dell’uno, che è il primo principio a essere causa: l’Ineffabile, benché non sia dicibile come ineffabile, non si oppone all’esprimibile, in quanto, in questo caso, risulterebbe trascendente alla maniera dell’uno, il quale è indicibile in opposizione al dicibile. La questione va intesa alla luce della tesi damasciana secondo cui è impossibile pensare il Principio secondo le categorie di trascendenza o immanenza. Ciò conduce il discorso a un passo ulteriore: come abbiamo anticipato, Damascio sostiene l’esigenza di abbandonare non soltanto il chiasmo divino con cui si è aperto il domandare, ma, addirittura, la nozione stessa di principio. Un principio è sempre principio-di, cioè causa, qualcosa che fa da contrappeso (ἀντίσωμος)31 al principiato: l’uno, come si è detto, precede i molti come loro origine e, proprio per questo, ne è condizionato. Gli opposti, inevitabilmente, si contro-­partecipano (ἀντιμετέχει)32, a tal punto che l’uno non è più ciò che è totalmente altro dai molti, bensì è i molti stessi nella forma del tutto prima del tutto, cioè del tutto in una forma ancora implicita e indifferenziata: l’uno è il tutto come suo vertice, come suo cominciamento immanente, che non è mai escluso o negato dal tutto stesso. Dell’Ineffabile, di questa X che sconvolge il pensare, che non è l’uno e che nemmeno possiamo definire principio del tutto, abbiamo solo un presagio, vale a dire una sorta di pre-­ conoscenza – o meglio, di pre-sentimento – che non riesce mai a catturare ciò che intenziona come oggetto: ogni volta che l’anima, avvicinatasi, tenta di stringerlo nella mano, se lo vede ricomparire a una certa distanza. L’anima la divina (μαντεύεται 31.  Cfr. Damascio, De Principiis, I, p. 93.5. 32.  Cfr. ivi, I, p. 95.8.

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ἡ ψυχή): la X non può essere né pensata (ἐννοητέον), né ipotizzata (ὑπονοητέον), neppure celebrata (ὑμνητέον). Ogni predicato, in quanto predicato, non può che riferirsi al tutto: sino all’uno, estrema periferia (περιφέρεια) di tutte le cose, può spingersi lo sguardo. Non oltre. La divinazione di cui parla Damascio non va confusa con la mantica teurgica, bensì incarna una sorta di inferenza razionale, secondo cui si presagisce l’esistenza di ciò che si presuppone a oggetto d’indagine, non avendo alcun tipo di verità o certezza intorno a esso33. Il verbo μαντεύομαι è utilizzato da Damascio solo in riferimento all’Ineffabile, laddove le ipostasi inferiori sono caratterizzate da ἔννοιαι e ὑπόνοιαι. Queste ultime indicano che la differenza tra l’Ineffabile e le altre ipostasi non è quella tra l’inconoscibile e il conosciuto: non potendo avere dimostrazione di nulla, né tantomeno intuizione noetica, l’anima dispone solo di supposizioni e congetture fondate su indizi e simboli. In questo si riscontra, a nostro parere, l’elemento di profonda fedeltà di Damascio allo spirito della filosofia di Platone: uno scetticismo aporetico che non rinuncia all’indagine razionale, ma ne vede costantemente i limiti e cerca di percorrerli fino alla contraddizione, in cui il dubbio si riafferma prepotentemente. Se da una parte la divinazione è il tratto caratterizzante del neo­ platonismo damasciano34, dall’altra, quale pre-sentimento del Principio, non è la visione di qualcosa, bensì la semplice presa 33.  Cfr. F. Trabattoni, Filosofia e dialettica in Damascio, in M. Barbanti G.R. Giardina - P. Manganaro (a cura di), ΕΝΩΣΙΣ ΚΑΙ ΦΙΛΙΑ. Omaggio a Francesco Romano, CUECM, Catania 2002, pp. 477-494, in particolare pp. 485 s. e 490 s. 34.  Cfr. M. Vlad, Damascius et la divination du principe incoordonné, in «Revue philosophique de Louvain», vol. 111, n. 3, 2013, p. 469. Lo studio è rimarchevole anche perché traccia l’evoluzione del concetto di divinazione nel neoplatonismo a partire dalle sue radici platoniche.

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d’atto dell’impotenza del pensiero, vale a dire dell’impossibilità di un suo contatto con l’Ineffabile35: la divinazione si dibatte nell’aporia tra la necessità di dover lasciare indeterminato il Principio e l’incapacità di cessare la ricerca dinanzi alla constatazione dell’impossibilità di fermarsi al concetto dell’uno quale principio anteriore al tutto36. Come ha rilevato Combès37, Damascio muove dagli estremi impossibili per giungere ai fondamenti estremi del dire e del pensare.

3. Ἐμπειρία καὶ βάσανος Che cosa significa avanzare oltre la nozione di principio? Possiamo forse pensare, si domanda Damascio, qualcosa di più semplice dell’uno? Nient’affatto. Plotino e Proclo avevano perfettamente ragione su ciò: tutto dall’uno si srotola e si sfilaccia (ἐκμηρύεται). Eppure, affermare ciò non è sufficiente, poiché anche dell’uno possiamo al massimo dire che sia un precipitato (ἀνέϑορεν)38. L’haplologia – termine con cui Metry-Tresson designa la risalita ai primi principii39 – è da Damascio strutturata come un’intrascendibile aporematica. Come risalire, allora, al di là dell’uno che tutto comprende? Si deve procedere nel vuoto, oltre l’uno (ἐπέκεινα τοῦ ἑνός), brancolando verso il nulla stesso. Davvero, si domanda Damascio, c’è qualcosa al di là dell’uno? Il dubbio che pervade 35.  Cfr. ivi, pp. 484 s. 36.  Per un’analisi del tema dell’aporia in Damascio, cfr. F. Croci, L’ecolalia allusiva. Damascio e la radicalizzazione dell’impiego platonico dell’aporia, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», CXI, n. 2, 2019, pp. 331-354. 37.  Cfr. J. Combès, Damascius et les hypothèses négatives du Parménide, in Id., Études néoplatoniciennes, Millon, Grenoble 19962, pp. 131-187, in particolare p. 184. 38.  Cfr. Damascio, De Principiis, I, p. 68.8. 39.  Cfr. C. Metry-Tresson, op. cit., p. 274.

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l’anima è sconfinato. Si è alla ricerca di qualcosa di cui non vi è alcuna necessità: i molti necessitano di una causa, e questa è l’uno come causa in senso totale (ἓν πάντως αἴτιον). L’Ineffabile è loro perfettamente inutile: dinanzi all’Ineffabile viene meno la stessa corrispondenza di anteriorità e semplicità che caratterizza l’uno, a favore di quella tra anteriorità e vacuità40. La paradossalità nello sforzo estremo in cui ci si è avventurati emerge in tutta la sua forza41: a ragione quello di Damascio è stato definito «das System der Dämmerung des Differenz»42. Le aporie tormentano e rivoltano (ἀδημονούσας τε καὶ περιτρε­ πομένας), spingendo l’anima a rimuovere (ἀναιρέσει) l’uno stesso, elevandosi. Talmente indicibile è la X che nemmeno può stabilirsi che sia indicibile (μήποτε τὸ μὲν πάντῃ ἀπόρρητον [ἀπόρρητον] οὕτως ὡς μηδ’ὅτι ἀπόρρητον [οὕτως] τιϑέναι περὶ αὐτοῦ). Forse sproloquiamo, si domanda improvvisamente Damascio, come presi da un vaneggiamento (λογοποιοῦμεν ληροῦντες)? In che senso si può supporre (καϑυπονοοῦμεν)43 l’Inconoscibile per mezzo del conoscibile? Come è possibile parlare di ciò su

40.  Cfr. ivi, p. 281. 41.  Cfr. Damascio, De Principiis, I, p. 6.7-16, traduzione nostra: «Se, dunque, in queste aporie si sostenesse che basta il principio dell’uno e lo si ponesse come termine ultimo, non avendo né nozione né congettura [ὑπόνοιαν] di qualcosa di più semplice dell’uno, come si potrebbe presupporre qualcosa che stia al di là dell’ultima congettura e nozione? Se qualcuno dicesse questo, comprenderemmo l’aporia che è in lui (questa preoccupazione, del resto, pare inaccessibile e impraticabile): tuttavia, a partire da ciò che ci è più noto, dobbiamo stimolare in noi quelle ineffabili doglie del parto che portano (non so come esprimerlo) all’ineffabile sinestesia [τὴν ἄρρητον συναίσϑησιν] di questa abbagliante verità». 42.  D. Cürsgen, Was ist Erkenntnis? Die Epistemologie des Damaskios und das Begriffsfeld der γνῶσις zwischen Spekulation und Skepsis, in «Archiv für Begriffsgeschichte», vol. 50, 2008, pp. 75-98: p. 76. 43.  Cfr. Damascio, De Principiis, I, p. 83.21.

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cui è impossibile esibire giudizi determinati? Infatti, l’affermazione della sua inconoscibilità implica che o l’inconoscibilità stessa è inconoscibile e, dunque, non si dovrebbe avere alcuna allusione all’Ineffabile, oppure è conoscibile e, pertanto, non è più una inconoscibilità. Le affermazioni e le negazioni sull’Indicibile, qualora vogliano sostenere l’inconoscibilità della X indagata, si rivelano essere strutture autonegantisi, in quanto devono presuppore un contatto con ciò intorno a cui si predica. Ritorna l’aporia platonica del Menone, tanto cara agli scettici: chi conosce non può dire se ciò che conosce corrisponda o meno a ciò che non conosce44; si sarebbe come ciechi che volessero dimostrare che il calore non sussiste nel colore. L’apo­ retica individuata da Damascio si rivela l’esito inaggirabile del tentativo neoplatonico di fissare un discorso incontraddittorio sul Principio45. L’Ineffabile sorge dal seno della contraddittorietà strutturale al discorso razionale: l’impiego del verbo ἀναιρεῖν rimanda all’esigenza espressa da Socrate di rimuovere tutte le ipotesi per mezzo della dialettica, al fine di attingere il Principio. Principio, tuttavia, che è perduto nell’atto stesso della ricerca. Come, dunque, parlare della X? L’Innominabile (τὸ ἀνώνυμον), l’Insignificabile (τὸ ἀσήμαντον)46, insegna Damascio, riposa nella rimozione di ogni nozione e congettura, dove ogni occhio si serra e cessa ogni visione. Damascio mira alla destrutturazione di ogni impresa di metafisica sistematica, attraverso

44.  Cfr. Platone, Theaet., 188c 2-3. 45.  Cfr. F. Trabattoni, Le “silence de Platon”, ou le renversement du discours dialectique chez Damascius, in A. Longo - D. Del Forno (a cura di), Argument from Hypothesis in Ancient Philosophy, Bibliopolis, Napoli 2011, pp. 413-435, in particolare pp. 433-435. 46.  Cfr. Damascio, De Principiis, II, p. 23.8-9.

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lo svisceramento della forma linguistica di ogni enunciato47. L’Inef­fabile non è solo negazione linguistica, ma rimozione ontologica: termine che, in sostanza, non ha alcuna funzionalità semantica, né referente reale48. La distanza rispetto alla teologia della doppia negazione di Proclo è notevole, in quanto non conduce ad alcuna positività49: ogni affermazione e negazione sulla X, foss’anche la negazione della negazione, non fa che mostrare la struttura autonegantesi del dire, il suo essere un dire che dis-dice il detto50. Forse che

47.  Cfr. S. Rappe, Reading Neoplatonism. Non-discursive Thinking in the Texts of Plotinus, Proclus, and Damascius, Cambridge University Press, New York 2000, p. 209: «It had become already a standard topos for Plotinus that his designation for the absolute principle, “the One”, was not semantically significant, did not pick out any object, but simply indicated the refusal to designate. But for Damascius, the ineffability of the One engulfs the metaphysical enterprise, infecting it with nonsense, with in-significance». 48.  Cfr. Damascio, De Principiis, I, p. 62.4-9, traduzione nostra: «In un certo modo, l’Ineffabile è esprimibile per via negativa: quando dico “in un certo modo”, io non intendo che [quest’espressione] sia in qualche modo affermativa o tetica, ma che questo nome e questa realtà non siano né negazione né posizione, bensì una sottrazione totale [παντελὴς ἀναίρεσις], che non è un qualcosa (infatti, il non-qualcosa fa parte degli enti), non essendo assolutamente in alcun modo». 49.  Su questo punto come caratteristica fondamentale del filosofare damasciano ha insistito R. Mortley, Damascius and Hyperignorance, in Id., From Word to Silence, 2 voll., Hanstein, Bonn 1986, vol. II, pp. 119-127. 50.  Cfr. J. Trouillard, Le «Parménide» de Platon et son interprétation néoplatonicienne, in «Revue de Théologie et de Philosophie», vol. 23, n. 2, 1973, pp. 83-100, in particolare p. 95: «Seule la troisième négation découvre l’ineffable authentique. Car l’altérité et l’indétermination sont encore au niveau de l’intelligible et de la pensée. Elles ont encore un sens en tant que privations, limites ou sujets du sens. C’est Damascius, le dernier néoplatonicien de l’école d’Athènes au VIe siècle de notre ère, qui a décelé le plus rigoureusement l’illusion sans cesse renaissante du langage tendant à faire de l’un un attribut, à poser l’ineffable et le néant eux-mêmes comme des natures cachées, à faire de l’inconnaissable une région du connaissable».

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dire la X come ciò che è al di là di tutto sia migliore che predicarne qualcosa positivamente? Nient’affatto. Il dire è necessario e, al contempo, assolutamente improprio e inutile. Indegno è il predicare intorno alla X (οὐδέ τι ἀπλῶς ἀξιοῦμεν αὐτοῦ κατηγορεῖν). Anche dire che è il Nulla o il Principio non vale alcunché: la sua natura è la semplice rimozione di ciò che viene dopo (φύσις αὐτοῦ μόνον ἀνναιρέσις τῶν μετ’αὐτό). La posizione (ϑέσις) dell’Ineffabile risulta all’anima impossibile e indegna. Ciò che chiamiamo ignoranza della X è la semplice affezione che abita in noi: lo ϑαῦμα, la sovra-­ignoranza (ὑπεράγνοια)51. Il sommo stupore è il non congetturare più nulla (τῷ γὰρ μηδὲν ὑπονοεῖν αὐτῷ τούτῳ ὁμολογοῦμεν εἶναι αὐτὸ ϑαυμασιώτατον). Non ne possediamo un concetto (ἔννοια), ma neppure una congettura (ὑπόνοια). Se nella congettura si va alla ricerca dell’oggetto della congettura, la X si rivela essere non altro che l’implodere di ogni congettura intorno a essa. La X, pertanto, non è oggetto né di conoscenza, né di ignoranza, ma solo di affezione, nella forma di un incessante e reiterato tormentarsi dell’anima per mezzo delle aporie. Si può ora comprendere in che senso non sia sostenibile che in Damascio opererebbe una forma radicale di superamento del pensiero e del discorso. Non altrove riposa l’Ineffabile che nel dissolversi del dire nell’atto stesso che dice, in cui ci si arresta (στῆναι): la denuncia della struttura antinomica e contraddittoria del pensare e la presa di coscienza del dissolvimento dell’intenzionalità della semantica non implicano un superamento di questa constatazione, bensì, al contrario, la rivelazione della necessità di rimanervi. Damascio disvela la natura finita dell’anima umana e l’intrinseca trascendentalità della sua struttura aporetica. L’Ineffabile-in-noi è l’aspetto, totalmente passivo, per mezzo di cui l’anima si scopre investita 51.  Cfr. Damascio, De Principiis, I, p. 84.18.

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di un’infinità potenza di negazione e problematizzazione nei confronti di tutti gli ordini ipostatici, realizzando una negazione per trascendenza (ὑπεραπόφασις)52 e dissolvendo qualsivoglia discorsività nell’insignificanza ineffabile del dire dis-dicentesi53. La conclusione è tanto radicale quanto terribile: illusione è stata quella di poter dimostrare la X, poiché nemmeno le si addice l’essere-principio. La X e il dimostrare non sono conciliabili (οὐδὲ τὸ ἀποδεικτὸν ἐν ἐκείνῳ)54. Solo l’ignoranza e l’afasia intorno alla X sono inferibili (ἀποδείκνυμεν περὶ αὐτὸ ἄγνοιάν τε καὶ ἀφασίαν, καὶ αὕτη ἐστὶν τὸ ἀποδεικτὸν). Il discorso di nuovo si capovolge, poiché ogni opinione intorno alla X si rivela vuota (κενόν) e avanza verso il vuoto (κενεμϑατοῦν), costringendo la congettura a fuggire verso l’indeterminato (τὸ ἀδιόριστον ἀναφεύγειν)55. Alla dimostrazione è sufficiente che la X non possa essere trovata (ἀρκεῖ δὲ πρὸς τὴν ἀπόδειξιν τὸ μηδ’εὑρετὸν εἶναι αὐτό). Noto e ignoto sono termini relativi: circa la X non si può determinare né che la si conosce né che non la si conosce, né che sia né che non sia. Si ignora se sia nota o ignota. Catturata nel 52.  Cfr. J. Combès, Damascius ou la pensée de l’origine, in Id., Études néoplatoniciennes, cit., pp. 276 s. Cfr. Anche p. 280: «la philosophie se définit comme l’activité spéculative qui tient en éveil la conscience efficace de l’archè par la déconstruction raisonnée de toute évidence et de toute signification». 53.  Il punto è intuito da V. Napoli, op. cit., p. 193. Ne consegue che Damascio non vuole affermare una iper-trascendenza dell’Ineffabile, poiché si avvede dell’impossibilità di oltrepassare la ricorsività aporetica del discorso. 54.  Ci pare che il verbo δείκνυμι, che ricorre con frequenza nel lessico damasciano ed è reso con “dimostrare” o “provare” vada inteso nel senso del “mostrare”, “indicare”, “rivelare”: come nel caso del discorso aristotelico sul principio di non contraddizione, in forma addirittura più intensificata, anche qui assistiamo a un argomentare obliquo, che non può mai fissare direttamente il suo termine. La traduzione con “dimostrare” è legittima solo a patto che si tenga sempre presente la natura paradossale di tale prova. 55.  Cfr. Damascio, De Principiis, II, p. 38.4-5.

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vortice di questa teologia aporetica, l’anima è sballottata e alla deriva (περιτρεπόμεϑα πανταχῇ): non le resta che cantare e celebrare come un rapsodo (ὥστε ταῦτα ῥαψῳδοῦμεν)56.

4. Σιγὴ ἀμήχανος L’Ineffabile va celebrato per mezzo di uno sconfinato silenzio. L’aggettivo ἀμήχανος, con cui si caratterizza il silenzio per mezzo di cui si deve onorare l’Ineffabile, rivela molteplici sfumature semantiche: inesorabile, inflessibile, irrisolvibile, irrimediabile e inconcepibile sono tutte traduzioni possibili57. 56.  Cfr. ivi, I, p. 21.3-22, traduzione nostra: «In questo modo, avendo appreso tutto ciò che in qualche maniera è conoscibile e congetturabile nell’intelletto fino all’uno, riteniamo giusto (se bisogna esprimere l’Inesprimibile e concepire l’Inconcepibile) ipotizzare e presupporre l’Inconciliabile e l’In­ coordinabile con ogni cosa, così tanto Estratto che, in verità, non ha neppure la natura del trascendente. Il trascendente, infatti, trascende sempre in relazione a qualcosa: non è, quindi, assolutamente trascendente, nella misura in cui intrattiene una relazione con ciò che è trasceso e risulta, perciò, esser solo il precedente in una correlazione [con qualcosa che segue]. Se Lo si deve porre come realmente separato, Lo si pone, al contempo, come nontrascendente. Non dice la verità del Trascendente, con precisione, il nome proprio, in quanto questo è, insieme, già coordinato, cosicché è necessario negare anche il nome di Esso. Anche la negazione è un certo discorso, così come il negato è una cosa, mentre di fatto sono nulla e non dovrebbero essere negabili né dicibili né conoscibili in alcun modo, tanto che non sarebbe neanche possibile negare la negazione; questo completo capovolgimento dei discorsi e dei concetti è la dimostrazione fantasticata [ἐμφανταζομένη ἀπόδειξις] in noi di cui parliamo. Quale sarà il confine del discorso, se non un silenzio impotente e sconfinato [σιγῆς ἀμηχάνου] e l’ammissione di non saper nulla riguardo a quelle cose di cui non è concesso giungere a una conoscenza, dato che sono inaccessibili?». 57.  D. Caluori, Aporia and the Limits of Reason and of Language in Damascius, in G. Karamanolis - V. Politis (a cura di), The Aporetic Tradition in Ancient Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2018, p. 281, n. 38. Caluori rende l’espressione ἀμήχανος σιγή con “silence without means”, marcando la dizione scettica che vuole l’aggettivo ἀμήχανος sinonimo di apo-

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Per Damascio, il silenzio non è l’assenza o l’esaurimento della parola, ma l’ammissione dell’incapacità del discorso di dire l’Ineffabile, pur permanendo nel logo, senza alcun “salto”. È chiaro ormai in che senso il silenzio di cui parla Damascio sia qualcosa di inaudito in tutta la tradizione precedente58: l’afasia non è qualcosa che si opponga al dire, ma coincide con il limite del discorso (πέρας τοῦ λόγου), vale a dire con il continuo capovolgimento semantico del discorso stesso. Tale silenzio-limitecapovolgimento59 non è un prodotto della ragione sillogistica, ma dell’immaginazione (φαντασία), secondo cui si formano

retico, in quanto riferito a uno stato psicologico in cui si non si è in grado di assentire o negare alcun predicato intorno a qualcosa. 58.  C. Tresson - A. Metry, Damaskios’ New Conception of Metaphysics, in R. Berchmann - J. Finamore (a cura di), History of Platonism. Plato Redivivus, University Press of the South, New Orleans 2005, pp. 215-236. La tesi del volume è particolarmente interessante, poiché, confrontandosi con la proposta interpretativa della Galpérine, avanza l’ipotesi che Damascio non abbia invertito la tradizionale interpretazione neoplatonica delle prime due ipotesi del Parmenide. Di contro all’esegesi classica secondo cui l’unonon-molti della prima ipotesi, di cui tutto si nega, sarebbe fonte dell’unomolti della seconda, di cui tutto si predica, Damascio avrebbe affermato la precedenza dell’uno quale autentico uno-molti, cioè quale uno che non si oppone al tutto e non viene determinato né per via negativa né per via positiva, essendo fonte di ogni affermazione e negazione, senza per questo sovvertire il rapporto tra le due ipotesi: dell’uno-tutto non si può né affermare qualcosa, pena il determinarlo, né negare qualcosa, essendo il tutto ancora indeterminato. Questo implica il superamento del metodo plotiniano della ἕνωσις e di quello procliano della ϑεουργία: l’anagogia psichica si costituisce quale ἀνάπλωσις e συναίρεσις, vale a dire come movimento dal differenziato all’indifferenziato. 59.  Per una storia del termine περιτροπή, di acclarata origine scettica, cfr. M.F. Burnyeat, Protagoras and Self-Refutation in Later Greek Philosophy, in «The Philosophical Review», LXXXV, n. 1, 1976, pp. 44-69. Cfr. anche C. Metry-Tresson, op. cit., pp. 38 s., dove si individua la stretta relazione tra le tre forme di capovolgimento: capovolgimento dei discorsi (περιτροπὴ τῶν λόγων), capovolgimento del linguaggio (περιτροπὴ τοῦ λόγου) e capovolgimento dei pensieri (περιτροπὴ τῶν νοήσεων).

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schemi vuoti il cui contenuto non è riferibile a un’oggettualità di per sé sussistente. L’afa­sia non è l’incapacità di parlare, bensì l’impossibilità di dire qualcosa mentre si parla, cioè di produrre un atto significante. Il ragionamento procede dall’aporia all’aporia, rivelandosi, come nella più genuina tradizione scettica, strutturalmente inconcludente (ἀσύνακτος)60. Il senso del silenzio è paradossale, in quanto è il risultato del discorso che, al contempo, richiede e rigetta il discorso stesso: la dimostrazione discorsiva dell’impossibilità del discorso. Non un silenzio oltre il discorso, ma nel discorso61. Al tema del silenzio in Damascio sono stati dedicati alcuni studi, tutti accomunati dalla classica interpretazione secondo cui Damascio vorrebbe giungere all’esaurimento logico della forma discorsiva come preparazione al salto oltre il pensare. Hoffmann62, ad esempio, sembra concepire il silenzio damasciano secondo schemi tipici della tradizione neoplatonica pre-

60.  Cfr. C. Metry-Tresson, op. cit., pp. 33-35. La studiosa individua sette differenti tipi di aporie presentate da Damascio, raggruppate nei due gruppi delle aporie in senso largo (primo e secondo tipo) e delle aporie in senso stretto. Tali tipi sono: le questioni alternative (A o non-A); le questioni imbarazzanti (A?); le questioni disgiuntive (A non è più vero di non-A); le contraddizioni (A e non-A); le esclusioni (né A né non-A); i paradossi semantici; i regressi all’infinito. Mentre le aporie in senso largo, che riprendono l’andamento della diaporematica aristotelica, sono sempre sollevate discutendo di un preciso sistema filosofico e trovano risoluzione, evidenziandone i limiti e le deficienze interne, le aporie in senso stretto sono quelle che propriamente possono definirsi inconcludenti e che hanno come esito il capovolgimento del discorso. 61.  Cfr. M. Vlad, Stepping into the Void. Proclus and Damascius on Approaching the First Principle, in «The International Journal of the Platonic Tradition», vol. 11, n. 1, 2017, pp. 46-70, in particolare p. 60, n. 60. 62.  Cfr. Ph. Hoffmann, L’expression de l’indicible dans le néoplatonisme grec, de Plotin à Damascius, in C. Lévy - L. Pernot (a cura di), Dire l’évidence (Philosophie et rhétorique antiques), L’Harmattan, Paris 1997, pp. 335-390, in particolare p. 390.

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cedente, vale a dire come l’ultimo stadio totalmente opposto al dire, la cui iper-trascendenza si costituirebbe nella forma di un’afasia mistica che supera anche ogni discorso intorno al silenzio. Béguin63, invece, pare anticipare il tema, che andremo sviluppando, della dissoluzione del dire per mezzo del dire. Il problema è chiaro: stante quanto discusso, come si può avere notizia dell’Ineffabile? Damascio ha già offerto la risposta. Proprio in questa dissoluzione semantica del linguaggio, si mostra l’assoluta ineffabilità di ogni singularitas64, il miracolo del suo apparire e la sua irripetibile unicità. L’Ineffabile non sta 63.  Cfr. V. Béguin, Ineffable et indicible chez Damascius, in «Les Études Philosophique», n. 4, 2013, pp. 553-569, in particolare pp. 558 s., che definisce l’Ineffabile come Principio nel senso di un principe d’ineffabilité presente in tutte le cose: «C’est le véritable sens de la περιτροπὴ τῶν λόγων, qui n’est pas un simple avatar affaibli de la théologie négative, mais au contraire l’opérateur central d’une entreprise originale consistant à faire éclater le discours de l’intérieur pour faire deviner, en son cœur, la latence du tout premier principe. Il s’agit donc, par la critique du discours, d’indiquer qu’il y a de l’ineffable en toute chose pour faire signe vers l’ineffable lui-même. Le renversement des discours consiste à faire surgir l’ineffable du discours que l’on tente de tenir à son propos. […] La fonction de l’ineffable au sein de ce dispositif est de contrer la menace d’une remontée à l’infini, hantise de toute pensée du principe, et dont le spectre se dessine derrière la puissance aporétique infinie contenue en toute chose et révélée grâce à la remarquable critique damascienne du discours: il “résout” en effet l’aporie non pas en y mettant un terme, mais en “absolutisant”, si l’on peut dire, l’abîme d’ineffabilité qui en est à la source. C’est en ce sens que l’ineffable est source de l’ineffable et de l’aporie en toutes choses, et qu’il est donc moins “principe” au sens traditionnellement néoplatonicien – fonction assumée par l’un-tout – que principe d’ineffabilité». 64.  La questione è accennata brevemente in J. Dillon, Damascius on the Ineffable, in Id., The Great Tradition. Further Studies in the Development of Platonism and Early Christianity, Ashgate, Aldershot 1997, pp. 128 s. Ci permettiamo di suggerire che il rimando qui, più che alla dottrina heideggeriana dell’Ereignis, dovrebbe essere al pensiero di Cusano, con cui Damascio presenta notevoli affinità teoretiche e lessicologiche. Tuttavia, non è questa la sede per approfondire il confronto.

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semplicemente oltre o attorno al dicibile: ne è il cuore, il centro, il motore, così come il silenzio non è semplicemente accanto od opposto al dire, ma rappresenta il venir meno della sua funzione determinante65. Singularitas omnia singularizat, dirà Cusano66: la traccia dell’Ineffabile è esattamente questa necessità del dire, a cui si lega, paradossalmente, l’impossibilità di dire qualcosa. È estremamente suggestiva l’ipotesi avanzata da Béguin67, che distingue l’impiego degli aggettivi ἄρρητος e ἀπόρρητος. Lo

65.  Cfr. V. Béguin, op. cit., pp. 564 s.: «Cette manière pour les déterminations contraires (dicible, indicible) de passer les unes dans les autres et de se renverser d’elles-mêmes nous met sur la piste d’un dépassement de la tension (qui consiste en quelque sorte, comme on l’a vu, à absolutiser cette dernière)». 66.  Cfr. Cusano, De coniecturis, II, 3. 67.  Cfr. V. Béguin, op. cit., p. 564: «Ἄρρητος indique un in-dicible qui marque la défaite d’une pensée dans l’impossibilité de dire, tandis qu’ἀπόρρητος fait signe vers la part d’ineffable dans les choses, cette trace d’antériorité qui les met toujours, et l’âme avec elles, dans une position de retrait ou de fuite par rapport à elles-mêmes, et somme la pensée de s’élancer a la poursuite de ce que cette trace indique. […] L’indicible n’est que la négation du dicible, ce qui est une forme de coordination, de lien (là ou Damascius cherche précisément à rompre avec tout lien), et ne permet donc pas de quitter absolument les rives du dicible; l’indicible comme toute négation retombe toujours, en effet, dans la détermination». E oltre : «Toute la distinction conceptuelle entre les deux tient à la différence entre les préverbes ἀ- et ἀπο-: le premier définit un in-dicible, une pure impossibilité de dire, tandis que le second indique l’écart, la distance, le retrait permanents de ce qui se dérobe toujours aux tentatives de nomination mais ne se laisse entrevoir qu’à travers elles, et fait signe vers le toujours-déjà-se-retirant dont la seule “démonstration” est le renversement des discours mettant l’objet en fuite en le faisant disparaitre dans le brouillard de l’aporie, sorte de phénomène-limite seul apte à en suggérer l’infini retrait dans l’espace de la discursivité. […] Cela est illustre par la logique du οὐ, du “non”, qui caractérise l’indicible, et qui tombe sous le coup de la sévère critique de la négation menée par Damascius, par opposition à la logique de l’ἀπόρρητον qui serait plutôt celle du οὐδέ, du “pas

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studio francese nega che possano essere trattati come sinonimi: infatti, l’indicibile, designando ciò che non può mai e in nessun caso essere detto, viene ricatturato dalla dialettica di opposizione tra il dire e il tacere (indicativo il privativo ἀ-); l’ineffabile, invece, allude a ciò che si sottrae nell’atto in cui lo si dice (indicativo ἀπό-). Tuttavia, questa felice intuizione non impedisce a Béguin di ricadere nella classica opposizione tra dire e tacere, precisando che si dimostra l’Ineffabile «par la rupture totale du discours et le saut hors de l’exprimable»68. Il punto è sempre lo stesso: l’Ineffabile non trascende il discorso – se lo facesse, se cioè andasse oltre il discorso nell’atto di ritrarsene, sarebbe proprio quell’indicibile da cui vorrebbe distinguerlo Béguin, poiché ricadrebbe nel lato trascendentista del chiasmo iniziale –, bensì, lungi dall’essere una fuoriuscita (fuite dehors), permane nella logica del discorso come atto infinito di dissolvimento semantico. Corretta o meno che sia l’esegesi di Béguin, ci pare che essa supporti l’esegesi della teologia aporetica damasciana

même” servant à indiquer la fuite permanente de ce dont il est question, et constituant une sorte d’ascèse par l’excès ou le renversement perpétuel du discours: une exténuation du principe qui nous contraint à ne même plus le dire principe, pour, non pas purifier l’antérieur absolu de toute détermination, mais l’extraire radicalement de la logique même de la détermination, orchestrer sa fuite hors de l’exprimable et faire coïncider exigence du principe et absence du principe, évasion du principe hors du discours qui cherche à se tenir sur lui et saisie du terme ultime lui-même. Ἀ- pour la négation, ἀπο- pour le recul et la chute hors de l’exprimable […]. Ajoutons pour finir que même le mot ἀπόρρητον ne doit pas se voir accorder trop de crédit, car ce n’est qu’un mot: son intérêt propre est cependant, grâce au préfixe ἀπο-, d’inscrire l’échec du nom dans le nom lui-même» (pp. 568 s.). 68.  Ivi, p. 563 (corsivo nostro): «L’emploi du verbe ἀνέχομαι (supporter, endurer en ce sens) présente un intérêt certain, car il montre bien que ce qui est ineffable non seulement désactive les tentatives de nomination, mais, surtout, ne saurait les souffrir, les rejette dans sa fuite en arrière [… et] illustre bien le mécanisme de retrait permanent dans l’antériorité caractéristique de l’ἀπόρρητος».

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come filosofia della dissolvenza della semantica linguistica che abbiamo voluto sostenere. Da parte sua, Linguiti69 ha rilevato un parallelo tra l’argomentazione damasciana con il paradosso del sorite o dell’autoriferimento. Infatti, qualora si enunci l’impossibilità di dire o negare qualcosa intorno al Principio, si incappa in un’antinomia semantica. L’antinomia si sviluppa secondo due rispetti: 1) si formula una proposizione che stabilisce l’impossibilità che vi siano enunciati che abbiano per oggetto il Principio; 2) tale proposizione è un enunciato che ha per oggetto l’Ineffabile, sebbene negativamente descritto. Pertanto, conclude Linguiti, tutti gli enunciati si capovolgono e si rivelano espressioni dei mutamenti interni all’anima, solo indirettamente riferiti al Principio. La ricorsività del paradosso fa sì che, se il Principio è posto, allora non è posto, mentre, se non è posto, di conseguenza è posto70. Il silenzio, come implosione e aporetizzazione 69.  Cfr. A. Linguiti, op. cit., pp. 68-73. 70.  Cfr. M. Vlad, Damascius and Dionysius on Prayer and Silence, in J. Dillon - A. Timotin (a cura di), Platonic Theories of Prayer, Brill, Leiden-Boston 2016, pp. 192-212, in particolare pp. 195 s.: «While the One is inexpressible through its simplicity, but expressible through its relation to plurality, the ineffable is completely unutterable, as is proven by the paradoxical character of our attempt to express it, and by the aporiai into which this attempt pushes us. No knowledge – direct or indirect – can grasp it, but we can only honour it through our unknowing and through silence. Thus, Damascius breaks the traditional silence, only in order to impose a different kind of silence: an “active” one, imposed by the impossibility of expressing the principle in any way. However, he wants to prove this inexpressibility through discourse and by means of discourse: he shows that, whenever we try to indicate the absolute principle, discourse itself is overturned. Thus, to say that the principle is unknowable implies knowing something about it, or, if it really was unknowable, we wouldn’t even know this about it; likewise, to say that it is ineffable is still to speak about it. The ineffable shows itself through this very impossibility of determining it, through the constant overturning of the discourse, which Damascius pursues to the limit. He deliberately provokes this overturning of the discourse, showing that there is no way we could ever

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del dire nel dire, non si costituisce mai come mera negazione contraria al discorso71. In ciò, la filosofia del linguaggio di Damascio si rivela essere assai differente da quella dei suoi predecessori72. Plotino aveva negato che ci sia un σημαίνειν αὐτό relativo all’uno, affermando che vi è solo un σημαίνειν περὶ αὐτοῦ, trattando il σημαίνειν come sinonimo o implicazione del λέγειν73; Damascio vuole say anything about the principle. Any affirmation or negation about it proves to be inconsistent. Eventually, the principle shows itself through this very impossibility to determine it». 71.  Cfr. Damascio, De principiis, I, p. 22.7-19, traduzione nostra: «Non c’è niente di comune, infatti, con le cose di quaggiù, e non vi è nulla che lo riguardi tra ciò che si può dire, pensare e congetturare; pertanto, [non Gli è appropriato] né l’uno né i molti, né la generazione o la produzione o l’essere in qualche modo causa e nemmeno una qualunque analogia e somiglianza. Non sono come le cose di quaggiù Quello o quelle; nemmeno si deve dire “Quello” o “quelle cose” e neppure che è uno o che sono molti, piuttosto si deve mantenere il silenzio, rimanendo nel santuario indicibile dell’anima senza uscirne; se proprio è necessario indicare qualcosa, bisogna servirsi di queste negazioni, cioè dire che non è né uno né molti, né generatore né sterile, né causante né incausante, e di queste negazioni, che si capovolgono – non so come – assolutamente all’infinito, ci si deve servire». 72.  La Vlad è attenta del mostrare l’inconciliabilità della henologia damasciana con quella dionisiana, in opposizione alle tesi avanzate in C.M. Mazzucchi, Damascio, autore del Corpus Dionysiacum, e il dialogo Περι Πολιτικης Επιστημης, in «Aevum», LXXX, n. 2, 2006, pp. 299-334 e Id., Iterum de Damascio Areopagita, in «Aevum», LXXXVII, n. 1, 2013, pp. 249-265. Proprio questa inconciliabilità ci pare renda ambigua la posizione della studiosa sul tema. Cfr. M. Vlad, Damascius and Dionysius on Prayer and Silence, cit., p. 197: «Damascius breaks the human, reverent silence imposed by habit, in order to discover this other silence, which is really unbreakable, and can only be perceived through the aporiai. There are two silences facing each other in Damascius’ perspective: on the one hand, the silence that surrounds the ineffable like a harbour (τὴν περὶ αὐτοῦ σιωπήν) – which we discover through our own inability to actually utter anything about the ineffable – and the silence through which, eventually, we should honour the principle». 73.  Cfr. Plotino, Enn., V, 3, 14, 1-8.

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scardinare l’equazione, per concludere che il λέγειν non si costituisce mai come σημαίνειν per la natura intrinsecamente dissolventesi di quest’ultimo, permanendo allo stadio di mera allusione74. In questo Damascio non fa che radicalizzare la distinzione procliana tra riferirsi a qualcosa ed esprimersi intorno a qualcosa75. La funzione del pensare è solo schematica e rappresentativa: il discorso, ribadisce continuamente Damascio, procede κατὰ ἔνδειξιν76, senza che quest’allusione abbia alcuno spessore descrittivo o referenziale. Il richiamo alla platonica Lettera VII è evidente: anche l’ultimo diadoco rileva che non solo il discorso e la definizione, ma pure la nominazione av74.  Cfr. M. Vlad, De Principiis: de l’aporétique de l’Un à l’aporétique de l’Ineffable, in «χώρα», n. 2, 2004, pp. 125-148, in particolare pp. 143 s.: «Ces deux lignes du discours se soutiennent réciproquement. Elles sont les deux pôles du discours. D’une part, la pensée impose par sa propre fonctionnalité l’existence de ces principes qui lui coordonne l’avancement. Mais même si la pensée surprend la nécessité des principes, elle ne peut pas les soutenir comme tels. Les principes entrent dans la pensée, seulement pour se retirer immédiatement de toute référence directe. Ils apparaissent dans la pensée seulement pour être délivrés de l’hypostase d’objets proprement dits de la pensée, pour être délivrés de la pensée elle-même, dans son hypostase déterminative. C’est la pensée qui identifie les principes et qui s’impose ce sens de son avancement, mais c’est encore elle qui exclut les principes, en maintenant sa propre impossibilité de fixer ces principes, et même sa propre impossibilité de les avoir découverts et identifiés en tant que tels». 75.  Cfr. Proclo, In Platonis Parmenidem Commentaria, a cura di C. Steel, 3 voll., Oxford University Press, Oxford 2007-2009, vol. III, libro VII, p. 518.21: «Aliud enim est esse de uno et aliud esse circa unum [ἄλλο γὰρ ἐστι τὸ εἶναι περὶ τοῦ ἑνὸς καὶ ἄλλο τὸ εἶναι περὶ τὸ ἕν]». 76.  È utile ricordare che lo stesso termine ἔνδειξις è semanticamente ambiguo, poiché significa sia l’allusione sia la dimostrazione argomentativa. Cfr. S. Rappe, Reading Neoplatonism, cit., p. 211: «Endeixis, hinting at reality, becomes a technique that captures features of the psychology of inquiry without successfully transcending the subjective […], the language of negation is not referential; negative adjectives when applied to the Ineffable do not attribute anything to it nor determine its nature. Instead, by using negative language we succeed only in delimiting our own discursive practices».

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viene sempre su un piano d’opposizione, per poi concludere che qualsiasi dire è sempre un dire una qualità (τὸ ποιόν), cioè un attributo intorno a qualcosa, che non esprime mai la cosa stessa (τὸ τί)77. Damascio nega che vi possa essere una dimostrazione dell’Ineffabile (ἀποδεικνῦναι ἐκεῖνο), precisando che vi può essere solo una dimostrazione intorno all’Ineffabile (ἀποδεικνῦναι περὶ ἐκεὶνου), che non è nient’altro che la dimostrazione dell’impossibilità di determinarlo. L’Ineffabile è ἀνείδον nella misura in cui si sottrae a qualsiasi schema, compreso quello schema, ancora presente in Plotino e Proclo, secondo cui sarebbe un correlativo oggettivo dei nostri atti conoscitivi, sebbene di natura paradossale78. La psicagogia plotiniana si traduce nella psicosi damasciana, che destina ogni sforzo conoscitivo al fallimento (ἀτευξία): una filosofia, secondo la caustica definizione di Hoffmann, «caractérisée par la rumination des apories les plus difficiles, par un cheminement en volutes»79. Proprio nel fallimento di ogni pretesa significativa, vale a dire discoprendo la propria impossibilità, il discorso manifesta l’uni­ ca modalità secondo cui può riferirsi al Principio. In sostanza, l’allusione all’Ineffabile solleva due questioni: da una parte il problema del Principio e della sua pensabilità; dall’altra il problema del pensiero come qualcosa di relato al Principio pensato. Potremmo dire che tale allusione rimanda al problema della dialettica idealistica del pensato e del pensare, a cui si collega quello del fondamento del pensare stesso. La conclusione a cui Damascio giunge, mostrando la natura solo riflettente del pensare e del dire, è l’impossibilità di un’autofondazione genetica del pensare. Damascio mira precisamente a dissolvere 77.  Cfr. Platone, Epist. VII, 343a-e. 78.  Cfr. Ph. Hoffmann, op. cit., pp. 379 s. 79.  Ivi, p. 377.

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nell’indistinzione la differenza tra il pensare e il suo oggetto80: giungendo a questa indistinzione, cioè denunciando l’impossibilità di ogni determinazione semantica, il linguaggio riscontra il proprio limite (l’Ineffabile). Prova di ciò è la confessione dell’incapacità di esprimerlo linguisticamente (οὐκ οἶδα ὅπως εἴπω)81: incapacità che non implica che vi sia un modo differente per poterlo dire, ma che prova, piuttosto, che l’impossibilità del dire è la struttura del dire stesso. Perché accade il dire, se il dire non dice, propriamente, alcunché? Perché viene soppressa la distanza tra l’Ineffabile e la sua ripresa nel discorso: la parola non dice altro da se stessa, non dice una cosa esterna a cui dovrebbe riferirsi, bensì performa la soppressione di sé come parola affermante o negante, l’eliminazione del proprio ruolo determinante e significante. In sostanza, Damascio opera uno slittamento dal concetto plotiniano di astrazione (ἀφαίρεσις) e da quello procliano di negazione (ἀπό­φασις), che implicano sempre una referenza a qualcosa, alla categoria scettica di soppressione (ἀναίρεσις)82: non è più questione di negare un certo oggetto linguistico (ἀποφατόν), bensì di sopprimere la funzione determinante del discorso in quanto tale. Questo è l’Ineffabile come concetto limite: non una cosa impensabile, ma l’impossibilità che il dire dica qualcosa di altro dai propri schemi aporetici. Si elimina ogni distanza tra l’Ineffabile come principio indeterminato e il linguaggio come pensare determinato: quando il pensare si scopre indeterminato nel proprio atto, allora il pensare stesso è l’Ineffabile, cioè il proprio stesso costituirsi quale struttura aporetica.

80.  Cfr. M. Vlad, De Principiis, cit., pp. 145-148. 81.  Cfr. Damascio, De Principiis, I, p. 6.15. 82.  Cfr. C. Metry-Tresson, op. cit., p. 204.

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Solo drammatizzando le proprie passioni (οἰκεῖα πάϑη) si può giungere all’Ineffabile (τὰ ἡμέτερα ἐκτραγῳδοῦντες)83. L’Ineffabile si sottrae al pensiero in un senso completamente diverso da quello descritto dagli altri neoplatonici: elude ogni referenza, compresa quella referenza che afferma il proprio stesso sottrarsi alla referenza. L’incertezza diviene la cifra dominante del filosofare: siamo assai lontani dalla reinterpretazione plotiniana di Aristotele, secondo cui la presenza dell’uno e la conversione dell’anima a esso sarebbero il principio più saldo di tutti84. Ecco perché l’Ineffabile non è oltre il discorso e la sua angosciosa aporetica: proprio perché si sottrae al proprio stesso sottrarsi al discorso, esso è detto, ma mai come qualcosa e, dunque, è anche taciuto. L’Ineffabile è lo stesso pensare che decostruisce tutti gli schemi di referenza, ma lo fa sempre e solo in uno schema referenziale.

5. Θεία ἀτευξία Già Metrodoro di Chio, nella sua opera Sulla natura, aveva sostenuto l’impossibilità di sapere se si conosca qualcosa oppure nulla: essendo impossibile determinare se si sappia di sapere o di non sapere, anche l’affermazione dell’esistenza o dell’inesistenza del qualcosa conosciuto risulta assurda85. Arcesilao, 83.  Cfr. Damascio, De Principiis, II, p. 30.12. 84.  Cfr. Plotino, Enn., VI, 5, 8-9. 85.  Cfr. Metrodoro di Chio, DK 70B 1. Questo rende l’idea di come l’interpretazione hegeliana – secondo cui lo scetticismo vorrebbe affermare la nullità come risultato assoluto, mostrandosi in tal modo un’espressione dell’intelletto che oppone il positivo al negativo – sia fallace. Fallace, perché obbiettivo dello scetticismo – o, come preferiamo definirlo, dell’aporeticismo – è quello di dissolvere la struttura determinante di ogni giudizio, rivendicandone la natura esclusivamente riflettente. L’autentico scettico non afferma né nega alcunché in modo definitivo, né esclude che possa esservi una sintesi positiva. Non si oppone, cioè, ad alcuna tesi.

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riprendendo l’argomentazione, sostiene che l’affermazione socratica che dice di sapere di non sapere, proprio perché vuole affermare qualcosa, va sottoposta a dubbio: il rimedio per l’igno­ranza è il perseverare nell’ignoranza circa il fatto se si sappia o meno qualcosa. Damascio rivitalizza queste intuizioni dell’Accademia scettica, negando recisamente la definitività di ogni affermazione o negazione. La sua esegesi di Platone non si chiude nell’ingenuità dello scetticismo dogmatico, che nega la possibilità di qualsiasi conoscenza e, così facendo, assume questa affermazione a verità ultima; la filosofia dell’ultimo diadoco non coincide neppure con quello scetticismo che afferma di sapere di non sapere e che non esclude la possibilità di un sapere definitivo da acquisirsi, poiché, anche in questo caso, il socratico sapere di non sapere si costituirebbe come un’affermazione sul sapere. Dell’Ineffabile non sappiamo neppure se ne possediamo conoscenza o ignoranza: la prima forma di scetticismo afferma dogmaticamente l’impossibilità di sapere, la seconda nega decisamente che si possieda in atto un sapere. Dallo scetticismo classico Damascio riprende la concezione della vita come φιλοσοφία ζητητική, avversaria della sconsideratezza (προτέτεια) dei dogmatici. La filosofia è ridimensionata a pura indagine dell’apparire, che non può nemmeno più determinare la sua identità o differenza con l’essere – ammesso e non concesso che vi sia un essere al di là del fenomeno. Lo scetticismo non è scelta (αἵρησις) di dogmi, ma direzione (ἀγωγή) a ben vivere e rettamente pensare86. Il dramma aporetico investe non solo l’aspetto epistemologico87, ma in pieno quello henolo-

86.  Cfr. Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp., I, 8, 16. 87.  Cfr. S. Rappe, Damascius’ Skeptical Affiliations, in «The Ancient World», XXIX, n. 2, 1998, pp. 111-125. Rappe sostiene con forza che gli elementi sistematici di aporeticità presenti nella speculazione damasciana siano da

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gico: per salvare il Principio nella sua inarrivabile trascendenza, il logo deve ammettere la possibilità che non sia, vale a dire che non vi sia alcun Principio al di là dell’uno. La possibilità è l’unica categoria che permette l’allusione all’Indicibile: allusione che non può escludere la possibilità dell’inesistenza di un Principio al di là dell’uno. All’Ineffabile non si applica nemmeno il silenzio, poiché il tacere è sempre tacerequalcosa: il silenzio intorno all’Ineffabile è silenzio del silenzio, silenzio abissale e infinito, non è semplicemente opposto dal dire, ma che sorge dal dire come dissoluzione del dire nel dire, come dire che dis-dice, senza mai potersi trascendere. Dissolvimento del discorso nel discorso, alieno da ogni salto teurgico. Il rivolgersi o capovolgersi del discorso contro se stesso avviene secondo due modalità: il discorso si annulla perché presenta una contraddizione interna, per cui si riferiscono a un medesimo soggetto predicati contraddittori (ad esempio, si afferma che l’Ineffabile non è né conoscibile né inconoscibile); il discorso si annulla perché si riconosce l’impossibilità di qualsiasi enunciazione positiva o negativa. All’Ineffabile ci si può riferire o per mezzo di un’autocontraddizione (predicare dello stesso soggetto attributi opposti), oppure per mezzo del paradosso. Relativamente a questo secondo caso, Linguiti88 rileva la vicinanza al paradosso del sorite o dell’autoriferimento: enunciando l’impossibilità di dire o negare alcunché circa

riferirsi a un influsso scettico (Sesto Empirico o Enesidemo), di cui la teologia negativa neoplatonica sarebbe debitrice. Seguendo Rorty, la Rappe ribadisce che lo scetticismo epistemologico si basa sul presupposto di una distanza incolmabile tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Lo scetticismo non è relativo solo alla possibilità di conoscere l’Ineffabile per mezzo del rapporto causa-effetto, bensì, più radicalmente, riguarda la possibilità che vi sia davvero il Principio (dove il “sia” è sintomo della radicale inadeguatezza del linguaggio, che riconduce l’oggetto del discorso nel piano dell’essere). 88.  Cfr. A. Linguiti, op. cit., pp. 68-73.

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il Principio, si instaura un’antinomia semantica, poiché si formula una proposizione che afferma l’impossibilità che vi siano enunciati che abbiano a oggetto il Principio e, al contempo, essa stessa è un enunciato che ha per oggetto l’Ineffabile, sebbene negativamente descritto. Si mostra così come tutti gli enunciati si capovolgano in quanto riferiti alle nozioni e ai mutamenti interni all’anima. Ogni qual volta si pone il linguaggio, il Principio affonda. Il paradosso semantico impiegato da Damascio contiene al suo interno due implicazioni contraddittorie: si costituisce, infatti, nella forma della “contraddizione forte”, cioè la contraddizione sintattica del tipo non-A e non-non-A (né così, né non-così). Il capovolgimento del discorso è dato dal fatto che l’affermazione si capovolge in negazione e viceversa, all’infinito: propriamente, la contraddizione nemmeno si costituisce, poiché il processo ricorsivo o diagonalizzante – l’attributo riferito al soggetto si predica dell’attributo stesso – non si arresta mai a un numero finito di passi, intrappolando il discorso in una circolarità infinita. Se il Principio si manifesta solo nell’autocontraddirsi del discorso o nella forma del paradosso, appare ormai provato che il silenzio, per mezzo di cui si giunge all’Ineffabile, non è il mero tacere, ma il capovolgersi iterativo e ricorsivo del discorso su di sé89. L’allusione di cui parla Damascio è questa: se è detto, il Principio si sottrae, mentre, se è negato, esso appare, sebbene scompaia di nuovo ogni volta che si tenti di “afferrarlo”. I due tipi di capovolgimento sono aspetti di una medesima struttura, che riprende quella propria del Parmenide della reductio ad absurdum: la teologia apofatica, già approfondita da Proclo come teologia della doppia negazione, diviene in Damascio compiuta teologia aporetica, cioè de-strutturalizzazione del di-

89.  Cfr. J. Combès, Damascius ou la pensée de l’origine, cit., p. 280.

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scorso nel discorso90. All’anima dubitante non resta che l’ineffabile sinestesia (τὴν ἄρρητον συναίσϑησιν)91 di un’esperienza di affezione, la cui ragione le risulta inesplicabile. L’Ineffabile non è nulla, nemmeno il nulla: non è alcunché di positivo o di negativo; è una non-cosa (κενὸν πρᾶγμα), ma solo nel senso che non è neppure un non-non-qualcosa (οὐχὶ οὐ τὶ)92. Ciò che non è l’uno (μὴ ἕν), questo, precisa Damascio, sarà propriamente il nulla (μηδέν). Risuona, in questi passaggi, la distinzione che il greco pone tra οὐδ-έν e μηδ-έν. Nel primo caso, il prefisso ου- rimanda una negazione oggettiva, mentre, nel secondo caso, la particella μη- indica non tanto la negazione della realtà dell’ente cui si riferisce, quanto, piuttosto, l’impossibilità di formulare un discorso significante. Se l’οὐδέν è quel concetto che, pur indicando l’assoluta privazione di realtà, rimane un concetto (è il nulla che è nulla), il μηδ-έν, al contrario, richiama il tentativo proprio del pensare, invero destinalmente consegnato al fallimento, di trascendersi. Il μηδ-έν esclude da sé ogni rapporto di identità, di opposizione, financo di predicazione, poiché dissolve la struttura significante propria di qualsivoglia linguaggio denotativo. Damascio radicalizza il problema squisitamente scettico della relazione tra il fenomeno (τὸ φαινόμενον), che coincide con l’impressione, primariamente sensibile93, e la cosa in sé (τὸ ὑπο­κείμενον, τὸ ἐκτός), tra l’apparire e l’essere, declinandolo

90.  Cfr. A. Coltelluccio, La peritropé di tutti i discorsi sul Principio. Su alcuni aspetti paradossali dell’Ineffabile ἐπέκεινα τοῦ ἑνός in Damascio, in «La filosofia futura», n. 2, 2014, pp. 47-68. 91.  Cfr. Damascio, De Principiis, I, p. 6.7-16. Abbiamo optato per tale resa del greco συναίσϑησις al fine di rendere l’idea di uno stato di coscienza come percezione simultanea. 92.  Cfr. ivi, I, p. 62.4-9. 93.  Cfr. Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp., I, 22.

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secondo un’epistemologia che rende impossibile determinare se l’oggetto del pensare abbia un suo spessore ontologico. Non si tratta più, come volevano gli accademici, dell’apprensione imperfetta dell’oggetto, né, come voleva Pirrone, di sospendere il giudizio intorno alla realtà in sé per attenerci al mero fenomeno: per Damascio, l’anima ha a che fare solo con le proprie rappresentazioni, senza che possa mai determinare se siano rappresentazione di qualcosa. Di fatto, con Damascio viene meno non solo la possibilità di fondare un legame tra il soggetto e l’oggetto, ma, addirittura, deve venir abbandonata ogni istanza che voglia anche solo affermare in modo definitivo l’esistenza o l’inesistenza di tale oggetto e l’identità o la differenza dell’oggetto stesso rispetto al soggetto94. 94.  Cfr. G. Preti, Lo scetticismo e il problema della conoscenza, in «Rivista critica di storia della filosofia», XXIX, 1974: n. 1, pp. 3-31; n. 2, pp. 123-143; n. 3, pp. 243-263. La tesi di Preti, secondo cui alla base dello scetticismo riposerebbe un realismo filosofico, ci pare difficilmente condivisibile. Preti, infatti, passa dalla constatazione che nella dottrina scettica il criterio della verità non risiede nella proposizione né in alcun’altra forma di conoscenza alla conclusione che tale criterio è esterno al conoscere stesso e riposa, pertanto, nella cosa, oggetto dell’intenzione conoscitiva: lo scetticismo sarebbe il luogo filosofico dove la contraddizione interna alla tesi realistica si manifesta come impossibilità di risolvere lo hiatus tra le rappresentazioni del soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto per come è in sé. Non si avvede, il Preti, che il principale motore della critica scettica e la destituzione della funzione determinante del linguaggio – la pirroniana ἀκαταληψία, che si traduce per il greco nell’essere senza opinioni (ἀδόξαστοι) – a favore di uno statuto puramente riflettente: non si tratta di ignoranza dinanzi alla determinata natura dell’oggetto, ma di impossibilità, da parte del linguaggio, di determinare la realtà. La medesima tesi di Preti è sostenuta, oltre che da Dal Pra, in Ch.L. Stough, Greek Scepticism. A Study in Epistemology, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1969, sebbene con la precisazione che l’Accademia scettica, con Arcesilao e Carneade, si sarebbe liberata del presupposto realistico e del conseguente dualismo – evento che si verifica senza ombra di dubbio con Sesto Empirico. Condivisibile è, invece, la tesi di un progressivo accostamento dello scetticismo all’esigenza di rifarsi al senso comune e all’esperienza quotidiana, in cui si rivela una certa incoerenza

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Hegel ebbe modo di rilevare come lo scetticismo sia «l’arte di dissolvere tutto ciò che è determinato […,] la dissoluzione del vero, e quindi di ogni contenuto, quindi la completa negazione»95. Come «dialettica d’ogni determinato»96, lo scetticismo si mostra una struttura speculativamente inconfutabile, ma che getta l’individuo in una paralisi dove all’antitesi non segue nessuna sintesi positiva. La X di cui Damascio è in cerca si rivela inflessibile al discorso. Ritorna, implacabile, l’adagio scettico di Sesto Empirico: «Sopprimere (ἀναίρεσϑαι) ciò di cui si parla mediante il discorso stesso che ne viene fatto»97.

tra soggettivazione immanente dell’epistemologia ed esigenza di un criterio pragmatico per la vita. 95.  G.W.F. Hegel, op. cit., vol. II, p. 502. 96.  Ivi, p. 503. 97.  Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp., I, 14.

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Hegel tra dialettica e magia Saggio sul rapporto tra alterità e negazione* Massimo Donà

Gli antichi dicevano che i sapienti e gli ispirati scrivevano sotto dettatura; questo era appunto perché, scrivendo, si erano preparati alla dettatura, cioè alla lettura. Nei libri leggiamo per speculum in aenigmate: scrivendo ci prepariamo a comprendere ciò che nei libri è soltanto scrittura, ciò che è soltanto lo specchio e non la magia e l’enigma. E a sentire quindi la presenza della magia e dell’enigma.1

1 Quali sono le ragioni che spingono a esercitare la magia? Freud non ha dubbi: i desideri dell’uomo. Secondo lui, infatti, l’uomo primitivo avrebbe una straordinaria fiducia nel potere dei propri desideri. Come se tutto quanto si riesca a realizzare per via magica, debba accadere soltanto perché lo si vuole. Del resto, Freud è convinto che, anche nella civiltà contemporanea, continui a vivere almeno una scintilla dell’antica tra*  Questo saggio ripropone, sia pur leggermente modificato e con un titolo diverso, un articolo pubblicato nel numero 7/8 del Mensile «la Biblioteca di via Senato», nel 2017. 1.  A. Emo, La voce incomparabile del silenzio (1964), a cura di M. Donà e R. Toffolo, Gallucci Editore, Roma 2013, pp. 46 s.

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dizione animistico-magica. Insomma, per lui la fede nell’onnipotenza dei pensieri non sarebbe stata completamente sconfitta dal dominio di una forma mentis ormai eminentemente scientifica; essa continuerebbe infatti a dimostrarsi viva e operante almeno in un settore, quello dell’arte: solo nell’arte – ci dice infatti lo psicoanalista viennese – succede ancora che un uomo dilaniato da desideri realizzi qualcosa di simile al soddisfacimento, e che questo gioco – grazie all’illusione artistica – evochi reazioni affettive, come se si trattasse di una cosa reale. Diversa è a questo proposito la convinzione di Jung. Infatti, di là da quello che poteva pensarne il suo maestro, per lo psicoanalista svizzero tanto le dottrine primitive delle origini quanto il mito e la favola vanno intesi come contenuti inconsci trasformati da una vera e propria presa di coscienza collettiva. In questa prospettiva, Jung – già cultore di Paracelso – avrebbe riconosciuto nell’alchimia una vera e propria anticipazione della moderna psicologia dell’inconscio. Da ciò la sua decisione di interpretarla in chiave esplicitamente “simbolica”. Fermamente convinto dell’a-storicità dell’alchimia e del carattere inconscio della Grande Opera, Carl Gustav Jung avrebbe messo chiaramente in luce il carattere compensatorio dell’alchimia rispetto agli aspetti d’ombra della tradizione religiosa, filosofica e scientifica occidentale. L’arte della trasmutazione, cioè, doveva venire da lui messa in stretto rapporto con la tradizione gnostica, e quindi con quella dimensione “esoterica” che vede nei segni e nei fenomeni visibili la continua e imprescindibile allusione a una dimensione che, solo di recente, abbiamo deciso di definire “inconscia”, ma che in ogni caso non è mai stata né completamente definibile né completamente conoscibile. Se è vero che vi sono molte, troppe cose che oltrepassano le possibilità della comprensione umana, e che per questo ricorriamo costantemente all’uso di termini simbolici o di immagini

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di varia natura, è anche vero che tutti i fatti della cosiddetta realtà diventano eventi psichici la cui sostanziale natura rimane non conosciuta, anzitutto perché la psiche non può conoscersi. Il fatto è che ogni esperienza contiene un numero infinito di fattori sconosciuti; anzi, ogni oggetto concreto rimane sempre sconosciuto sotto certi aspetti, dal momento che non siamo in grado di conoscere la natura sostanziale della materia in sé. A queste idee, comunque, s’era già avvicinato, in pieno Rinascimento, Marsilio Ficino. Che già riconosceva, ad esempio, la necessità della “mediazione”. Non a caso, nella sua prospettiva filosofica, il cosiddetto principio di continuità doveva trasformarsi e diventare una vera e propria esigenza di mediazione. Dappertutto, nella serie delle cose, dove esistono contrasti o forti differenze, si deve riconoscere l’esistenza di elementi intermedi e mediatori, si afferma infatti nel De vita. Perciò, tra il mondo ordinato da Dio e l’agire del mago deve intervenire una “terza” figura: la volontà, o meglio la disposizione di chi sia stato fatto oggetto dell’azione magica. Sarebbe stata così scoperta una molteplicità di proporzioni e di rapporti vibranti in virtù di un movimento essenzialmente “simpatico”. Da cui la possibilità di scorgere qualità occulte nelle cose tutte. Ma insistiamo, per Ficino non ci si può affidare ad un uso semplicemente meccanico di tali qualità e tantomeno ai rapporti con i pianeti… senza coinvolgere l’immaginazione dell’attore o del soggetto coinvolto in questo rituale. Azione e passione, cioè, non sono mai nettamente distinguibili, almeno nell’impostazione magica del grande neoplatonico toscano. Perché ai suoi occhi appaiono come la stessa cosa. E questo, alla luce di un’unità originaria destinata a porre, su tutto, il sigillo del proprio indecifrabile “mistero”.

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Ma anche per Agrippa la magia è anzitutto filosofia; ché, attraverso la magia, è proprio il sapere vero a farsi “azione”, riuscendo a produrre determinati effetti. Ma chi, più di ogni altro, avrebbe tentato di realizzare una vera e propria riforma filosofica, proponendosi di “concretizzarla” con l’aiuto della magia, sarebbe stato Giordano Bruno. E lo avrebbe fatto a partire dal tema della materia infinita – una materia che si trasforma incessantemente, rideterminando senza sosta l’unità originaria di cui tutto sembra essere espressione. Tutto è infatti, per Bruno, in perenne trasformazione; anche noi umani, che possiamo diventare liberi, cioè unici e irripetibili, solo in forza di un processo di trasformazione anzitutto “interiore”. Certo, bisogna conoscere le corrispondenze e le analogie, così come bisogna sapersi muovere nel contesto di più o meno decifrabili consonanze universali, per poter operare efficacemente… e inscriversi sapientemente nel flusso di una potenza che è materia di ogni fare e di ogni azione cosmica. In questo senso, per Bruno ogni negazione escludente (e, in quanto tale, “astratta” – di quelle che dicono cioè la semplice “differenza” tra le cose) è originaria espressione di una altrettanto originaria e perfetta “in-differenza”; ossia, di una “negazione” che non esclude affatto… ma che tutto tiene insieme e include amorevolmente. Certo, comprendere con l’intelletto la natura originariamente indifferente del tutto, ossia di ogni differenza, è impossibile – e Bruno lo sa bene (ché l’intelletto distingue e de-termina… d’altronde, non potrebbe fare altrimenti!). Perciò diventano necessari, dal suo punto di vista, un vedere… ma soprattutto un agire autenticamente “magici”. Non a caso, il mago usa i linguaggi e le scritture più diversi… immagini, segni, disegni e voci, e molti altri strumenti, per

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dialogare con l’intellettualmente irraggiungibile, ossia con il divino lume di cui ogni cosa sarebbe figura; e che, in relazione ad ogni cosa, e in ogni cosa, ci fa riconoscere e soprattutto esperire sorprendenti e inedite cor-rispondenze. Perciò la forza originaria si manifesta in ogni cosa, sempre secondo Bruno, in forma “doppia” e “contraddittoria”. Il fatto è che possiamo e dobbiamo sentirci spinti a “gridare” e “tacere” nello stesso tempo, vocati alla gioia e alla tristizia, in-uno, e, sempre insieme, tanto al timore quanto all’audacia. Ecco perché, per Bruno, il vero mago è un sapiente capace di operare in base alla lucida consapevolezza che un principio indifferente o infinito può aver prodotto solo un tipo di mondo: un modo esso medesimo infinito. E dunque capace di far emergere tale infinità in ogni cosa finita (o meglio, solo apparentemente “infinita” – ma in verità costitutivamente ambivalente, ossia finita e infinita insieme). Insomma, solo un “eroico” protagonista della potenza di Bruno avrebbe potuto realizzare la tanto agognata – soprattutto in quell’epoca – renovatio mundi. Da cui la ripresa del tema tipicamente erasmiamo del “rovesciamento”. Una prospettiva e una forma mentis che – contrariamente a quanto si è soliti credere – si sarebbero coerentemente realizzate e radicalizzate solo nel pensiero hegeliano. Ma… cerchiamo di portare alla luce le ragioni di questa perentoria e apparentemente “bislacca” affermazione.

2 Una cosa è certa: per Hegel il vero ha dalla sua una forma dialettica in cui sembra destinata ad esprimersi la quintessenza stessa della razionalità. Per lui, cioè, il reale non sarebbe neppure riconoscibile come tale se non fosse in-uno anche razionale.

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Fermo restando che dire “ragione”, per il grande maestro del­ l’idealismo tedesco, significa evocare un orizzonte che comporta in primis l’eliminazione di qualsivoglia presupposizione; e dunque la costitutiva impossibilità di chiamare in causa un Assoluto che non sia quello stesso posto, in quanto tale, dal logos “umano troppo umano” che, da sempre, ci caratterizza. E che, di qualsivoglia “alterità”, sembra costretto a riconoscere il suo doversi lasciar comprendere, da ultimo, all’interno di un orizzonte che mai avrebbe potuto ospitare un divino che non coincidesse con la semplice, essa sì divina, intrascendibilità sua propria. Per Hegel, d’altro canto, l’Uno è già da sempre molteplice; e dunque le sue infinite determinazioni non vengono “da” e non ritornano “a” l’Uno, ma dicono piuttosto l’eterna e perfetta espressione di un Assoluto originariamente inscritto nella loro vita, e quindi non costretto ad attendere che esse tornino alla propria origine, dopo esserne staccate (conformemente al modo anassimandreo di intendere il rapporto tra uno e molti). In modo tale da rendere la loro esistenza perfettamente identificabile con lo svolgimento di un “testo” già da sempre scritto. E dunque destinato a rendere sostanzialmente “apparente” la contingenza solitamente attribuita ad una storia cui tutto sembra da ultimo affidato. Da questo punto di vista, dovremmo tutti riconoscere che l’Uno vive palesandosi in tormentate vicende storiche comunque destinate a non disegnare altro che la mappa di un eterno nelle cui trame, a manifestarsi, sarebbe il già da sempre realizzato. Sì che, ognuna delle molteplici emergenze prodotte dalla storia, lungi dall’attendere una finale redenzione della propria “erroneità” o (per dirla con Hegel) astrattezza, dovrebbe riconoscere di essersi generata solo per rendere “evidente” il suo stesso non essersi invero mai generata.

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Un quadro, quello appena descritto, che sembra rendere alquanto difficile fare di Hegel un pensatore ermetico; un pensatore rispetto al quale, cioè, il portato della tradizione ermetica possa costituire più che un semplice spunto, un’influenza, magari importante e inconfutabile – come vorrebbe farci credere la puntigliosa ricostruzione del pensiero hegeliano operata da Glenn Alexander Magee (professore presso l’Università di Long Island, negli Stati Uniti) –, ma evidentemente “mantenuta” solo in quanto “oltrepassata”. Ossia, inverata da una “ragione” che, proprio in forza del principio dell’Aufhebung, avrebbe reso pressoché impossibile credere che “il mantenuto” (o conservato) possa mantenersi (e dunque conservarsi) nella sua forma originaria (ché, se così fosse, non si capirebbe davvero il senso dell’inveramento operato dalla cosiddetta Aufhebung medesima). Insomma, l’Aufhebung operata dalla razionalità hegeliana non può lasciare immutato nessuno degli elementi che possono aver significativamente contribuito a determinarne la forma specifica. Ecco perché – e proprio per dare maggior forza alla tesi ermeneutica proposta da Magee nel suo Hegel e la tradizione ermetica –, riteniamo fondamentale cercare di capire se non sia piuttosto la forma stessa della “razionalità” hegeliana a custodire (per quanto mascherata dalla forma in cui la medesima sembra volersi risolvere) la quintessenza speculativa caratterizzante tutto l’ermetismo filosofico. Insomma, quel che dovremo cercare di capire è se il sistema filosofico hegeliano sia davvero rimasto (come vuole Magee), nonostante tutto, fedele espressione di una sapienza ermetica operante in esso proprio nella forma concettuale e speculativa attraverso cui il teorico della dialettica ritiene di poter realizzare una vera e propria trasfigurazione delle parole magiche (che

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di fatto “evocherebbero” già esse la forma “dialettica” tematizzata dallo Hegel). Riuscendo ad esaltarne la potenza originaria.

3 Di certo, l’ermetismo storico è stato storicamente caratterizzato da una concezione del rapporto con la trascendenza che potremmo tranquillamente definire “ambivalente”. Sì, perché, se, da un lato, il sapiente ermetico ritiene che Dio sia un principio del mondo totalmente inassimilabile al modo proprio dell’esserci mondano, da un altro lato il medesimo ritiene anche che Dio non sia affatto estraneo al mondo. Stante che sembra essere già Lui ad averne bisogno (del mondo), prima ancora che il mondo possa aver bisogno di Lui. D’altronde, il Dio dell’ermetismo è un Dio quintessenzialmente “generatore”; lo dice chiaramente il Corpus Hermeticum. Ragion per cui il volere che le cose siano esprime di fatto la sua essenza più propria. Ma, per l’ermetismo storico, non meno rilevante è il ruolo svolto dall’uomo all’interno di questo processo (un processo generativo indipendentemente dal quale Dio sembra non potersi affatto connettere a ciò che egli stesso, peraltro, deve aver fatto esistere); infatti, senza la mediazione operata dall’essere umano, diventa impossibile realizzare la seconda tappa di questo processo… ossia, quella del ritorno a Dio – la sola che, peraltro, sembra consentire a Dio di farsi davvero completo. Il Dio dell’ermetismo, insomma, è un Dio che non basta a se medesimo; perché solo nel fare umano sembra poter trovare il proprio imprescindibile completamento. Nulla a che vedere, dunque, con l’autosufficienza dell’Uno plotiniano.

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Fermo restando che, se l’agire umano è in grado portare a compimento tale dinamica, consegnandola ad una perfetta circolarità (sì da consentire all’agire divino di tornare a sé), il medesimo può esser stato reso possibile solo da un processo di purificazione-iniziazione analogo a quello descritto da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito. «La filosofia, per Hegel, ha a che fare con la vita stessa», ci dice Magee, mostrandoci come, anche per Hegel, al modo dell’ermetismo tradizionale, «conoscere tutto significa avere il controllo su tutte le cose»2. Sì che il filosofo hegeliano finisca per costituirsi come un vero e proprio magus; proprio come il sapiente bruniano, vocato a trasfigurare l’astrattezza del mondo in vista di una ben più rilevante trasformazione di sé medesimo. In questa prospettiva – va comunque rilevato –, avrebbe potuto dirsi “mago” chiunque si fosse mostrato capace di contribuire in maniera determinante ed efficace al ripristino di una perfezione universale che, senza il suo ausilio, non si sarebbe mai potuta realizzare. Ma, se questo è vero per il sapiente-mago bruniano e per il “piccolo-Dio” cusaniano, se questo è vero un po’ per tutta la grande tradizione ermetica sino all’Ottocento, con Hegel la nuova prospettiva fondata sull’assolutezza dello Spirito, per quanto intrisa di concetti che alla tradizione ermetica fanno evidentemente riferimento, e della medesima costituiscono un chiaro sviluppo (finendo per riproporre molte delle sue costitutive dinamiche strutturali), sembra davvero costituirsi in netta contrapposizione rispetto a quel passato.

2.  G.A. Magee, Hegel e la tradizione ermetica, Edizioni Mediterranee, Roma 2013, p. 11.

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E innanzitutto per un motivo; perché, dal punto di vista hegeliano, la perfezione e la compiutezza dell’Assoluto sarebbero originariamente date. Sì che, la vita dell’essente, ossia la vita degli individui nella storia, così come la vita della natura sembrano destinate a ridisegnare quel che esse devono esser già da sempre state. D’altro canto, per Hegel il “concreto” non si costituisce se non attraversando le vicende di una coscienza che “da astratta” volga a farsi concreta. È vero. Ma, da dove il bisogno di ricordar-si da parte dell’Assoluto, di ricordarsi in quelle forme “caduche” (e in qualche modo depotenziate) che altro non sono, peraltro, se non gli infiniti modi di una sempre identica sostanza? Anche questo della memoria, comunque, è un tema tipicamente ermetico, sviluppato da quasi tutti i protagonisti, nonché dai più disparati testimoni della prisca philosophia. Ma, in Hegel, ciò che va “ri-cor-dato” è appunto quello stesso che non avrebbe mai abbandonato nessuna delle sue manifestazioni specifiche. Neppure quella naturale; in relazione alla quale, solamente, sempre secondo il teorico della dialettica, il Padre avrebbe finito per farsi Figlio, rinunciando finanche alla propria autosufficienza; e obbligando così a fare i conti con un’alterità che, per quanto da esso medesimo prodotta, avrebbe comunque finito per istituire un’estraneità reale… e, in quanto tale, tutta da riconquistare. Quello che siamo da sempre, insomma, non lo ricordiamo; ossia, ci sfugge. E per un motivo ben preciso: perché lo siamo… ma lo siamo appunto da semplici individui. Perché lo siamo, cioè, solo in quanto parti che, concepite nella loro originaria determinatezza, pur potendo accontentarsi di dirsi altre le une dalle altre… in verità pretendono quasi

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sempre di abbracciare l’Assoluto che pur nessuna di esse “è”… quanto meno in forma compiuta. In Hegel, insomma, il processo di autorealizzazione dell’Assoluto (quello stesso che il pensiero ermetico riteneva quintessenziale al costituirsi della stessa assolutezza dell’Assoluto) sembra non trovare giustificazione alcuna; stante che tutto quel che accade dice, agli occhi di Hegel, il semplice mostrarsi da parte del suo non esser in verità mai accaduto. Perciò, da ultimo, sempre dal punto di vista hegeliano, si deve riconoscere che il tempo storico non solo disegna un paesaggio che è, da ultimo, lo stesso dell’eterno, ma soprattutto si mostra nel modo in cui si mostra solo per rendere evidente il suo non esser affatto quel che di esso sembra doversi dire. Il fatto è che Hegel concepisce una concretezza che non accade solo come “risultato” del movimento dialettico o della potenza negativa in esso originariamente inscritta, ma, nel risultato, rinviene appunto l’unica ragione possibile di questa stessa processualità. Ovvero, il suo “presupposto”. Che è come dire: la sua vera e propria condizione di possibilità. L’astratto, insomma, deve negarsi, e si nega… ma solo perché il concreto già lo anima, imponendogli di negarsi e dar inizio alla dinamica di uno spirituale che nulla potrà mai lasciare ancorato al proprio astratto isolamento. Hegel è molto chiaro a questo proposito; perciò il “circolo di circoli” non inizia dal cominciamento – quest’ultimo, infatti, patisce un vero e proprio “contraccolpo”, in quanto chiamato da un futuro che lo muove verso il suo stesso eterno e dunque mai posseduto passato3.

3.  Così si esprime Hegel in quel capitolo iniziale della Scienza della Logica che ha per titolo Con che si deve incominciare la scienza?: «l’andare avanti

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Perciò il Dio hegeliano è tutto nella storia e vive come storia; esso è Offenbarung, ossia aprirsi originario che “si fa” nella generazione di un mondo che “lo mostra” per quel che esso realmente è – che lo mostra, cioè, nel semplice e infinito negarsi da parte di qualsivoglia possibile determinatezza. In Hegel, insomma, il movimento e le dinamiche della storia sono costitutivamente “apparenti”, nel senso che, in verità, esse si limitano a mostrare come quel che appare (e dunque anche il movimento in quanto tale) non sia mai quel che di esso comunque appare. Stante che, nella sua (di quel che appare) concretezza, a mostrarsi è sempre e solamente un Assoluto che, lungi dal contrapporsi astrattamente al modo in cui tutto quel che si manifesta, di fatto, si manifesta, si dice nel semplice non esser quel che è da parte del manifestantesi – ossia, nel suo non esser quel che, del medesimo, sempre e solamente si manifesta. Nel suo chiamare in causa, in verità, il manifestarsi di una totalità che, pur vivendo in ogni determinatezza “parziale” e “limitata” come semplice negazione della medesima, non si lascia di certo esaurire in quel che da quest’ultima viene in ogni caso reso manifesto. Perciò il filosofo hegeliano sancisce il primato del tutto sulla parte; un “tutto” che mai, comunque, dal punto di vista sempre e comunque parziale caratterizzante lo sguardo dell’umano, potrà dirsi per quel che esso è, indipendentemente da una negazione che avrà quanto meno il compito di disincantarci rispetto al potere persuasivo e idolatrico della “parte”. Di una

è un tornare indietro al fondamento, all’originario ed al vero, dal quale quello, con cui si era cominciato, dipende, ed è, infatti, prodotto… insomma, quest’Ultimo, il fondamento, è poi allora anche quello da cui sorge il Primo, quel Primo che dapprincipio si affacciava come immediato» (cfr. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1974, vol. I, p. 56).

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parte che, non a caso, tenderà sempre e comunque a spacciarsi come totalità. E che, solo la potenza del “negativo” può aiutare a sapersi vera mente, consentendole altresì di purificarsi da una tentazione che è poi quella di ogni astratto – che, in quanto astratto, è necessariamente inconsapevole della propria “astrattezza” (altrimenti si farebbe immediata espressione di un modo concreto di intendere la sua stessa astrattezza). Per Hegel, l’Infinito ed Eterno, e quindi l’Assoluto, non solo sono conoscibili (a differenza di quanto sostenuto da tutta la teologia negativa di ascendenza neoplatonica), ma costituiscono invero il soggetto stesso del conoscere. Che, solo in quanto soggetto reale del conoscere, può “chiamarci” e motivarci ad un sovrumano impegno volto a corrispondervi; perché animato da una forza che non può certo venire identificata con la fragile volontà degli individui. Di gran lunga, infatti, la sopravanza, costringendola per ciò stesso a collocare la potenza sconfinata del “vero” in una dimensione che, in quanto “eterna”, nessun desiderio di conoscenza potrà mai produrre – ma solo impegnarsi a “ricordare”. Stante che, se dall’eterno siamo tutti necessariamente costituiti – per quanto, come gli interlocutori di Socrate, mai potremmo esserne lucidamente consapevoli –, nello stesso conoscere questo o quello, cioè, nello stesso conoscere ogni singola cosa, a venirci offerta è la possibilità di ri-conoscere in ognuna di esse la presenza perfetta, per quanto sub specie determinationis, dell’Assoluto in quanto tale. Perciò, nella voce del filosofo, a scriversi è sì il Dio originario identificato da Hegel con il presupposto di qualsivoglia cominciamento; ma tale Inizio non può precedere temporalmente il suo sviluppo logico ed esistenziale.

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4 D’altro canto, è lo stesso Hegel ad affermare – in un frammento conservato da Rosenkranz – di voler dedicare i propri sforzi filosofici proprio alla restaurazione della più antica di tutte le cose, liberandola da tutti i malintesi sotto i quali sotto i quali le epoche recenti di non-filosofia l’avrebbero sepolta. Il fatto è che, di là dalla volontà e dalle intenzioni che muovono la ricerca hegeliana – le stesse che la pongono in ogni caso al di fuori di una prospettiva che vorrebbe il sapere filosofico risolvibile in una ricerca infinita delle relazioni (esse stesse necessariamente “infinite”) che connettono il micro al macrocosmo –, la struttura della “razionalità” elaborata dal teorico della dialettica sembra non riuscire a tenersi davvero fuori dal grande solco sapienziale tracciato da ricercatori come Paracelso, Pico della Mirandola, Niccolò Cusano, Giordano Bruno, Agrippa, Böhme e molti altri… Il primo problema che ci si presenta è infatti il seguente: come rendere ragione del fatto che il già-da-sempre-compiuto (ossia l’Assoluto, che da nulla di non-assoluto potrà essere fatto risultare, quale guadagno di una ricerca caratterizzata da semplici poros e penìa… che, in quanto tali, mai possono render ragione dell’assolutezza di un prodotto che rimarrà comunque il “loro”) possa, ma soprattutto “debba”, svolgersi al fine di sapersi nel modo che gli compete, in quanto reale e attendibile espressione dello Spirito Assoluto? Hegel ritiene che una “forza” possa riconoscersi come tale solo nel suo manifestarsi; ossia, nel suo esprimersi attraverso il rapporto con un altro che si avrà per l’appunto “la forza” di ricondurre a sé. Insomma, l’Assoluto hegeliano si esprime in una struttura originariamente dinamica. Questo è chiaro.

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Ma insistiamo: perché mai il “già da sempre compiuto” (che significa: il già da sempre espresso) avrebbe bisogno di esprimersi? A meno che non si sia disposti ad ammettere che la sua supposta e originaria compiutezza sia in quanto tale mancante di qualcosa… mancante almeno di quella “rinnovata espressione” senza di cui sembra impossibilitata a farsi compiutamente e perfettamente manifesta. Il fatto è che il cominciamento viene fatto cominciare da qualcosa che non viene da lui medesimo. Da qualcosa, o meglio da una forza, da cui esso viene propriamente spinto a negarsi. Da una verità che la determinatezza può quindi solo “patire”. Per quanto non sia neppure astrattamente distinguibile, e riconoscibile come semplicemente altra dall’esistenza che la medesima rende originariamente “negantesi”. In questa prospettiva, il movimento dialettico viene concepito dallo Hegel come istituente un vero e proprio “contraccolpo”, che, nel condurre avanti il cominciante, lo risospinge in verità verso quel “fondamento” da cui il medesimo nello stesso tempo anche pro-viene. Il cominciante è dunque fatto cominciare dal fondamento. Insomma, non è il cominciamento, in senso proprio, a negarsi; essendo quest’ultimo negato da una potenza “presupposta” che gli impone di negarsi, perché dice appunto l’impossibilità, per esso, di essere quel che è. O anche, di stare semplicemente alla propria determinazione astratta. Certo, per Hegel la “determinatezza positiva” patisce la sovranità del concreto, da cui l’astratto è già da sempre reso possibile. Ma, chiediamoci: come potrebbe darsi la determinazione astratta, ossia come potrebbe la medesima riconoscersi come abstracta, se non in quanto “separata” da qualcosa da cui non si sarebbe invero mai dovuta separare?

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Per questo, è già il suo semplice apparire come separata (astratto = separato) a testimoniare il suo esser mossa da qualcosa che la eccede, e che essa non può dominare. Del suo esser fatta essere come astratta in quanto “separata” dal concreto. Da un “concreto” di fatto già operante e dunque già esistente come tale. Eppure, il concreto non sta prima; ché non può costituirsi come semplice “prima” dell’astratto. Diciamo piuttosto che esso è “immediatamente” operante sull’astratto e nell’astratto; sin da subito, cioè, si presenta come condizione originaria del mostrarsi come astratto da parte dell’astratto. Come condizione che, all’astratto, impone appunto di negarsi. Il passaggio dall’astratto alla sua negazione dice infatti, per Hegel, uno svolgimento logico, in quanto tale, sicuramente non “temporale”. Ma il tutto non appare, proprio perché non è “un qualcosa” – che, in quanto tale, possa manifestarsi in forza di un “semplice e astratto” distinguersi dal proprio altro. Il fatto è che, al di là del tutto, non può esservi nulla che possa in qualche modo de-terminarlo… appunto come tutto. Altrimenti esso si ritroverebbe ineludibilmente “parzializzato”. E si costituirebbe come falsa totalità. Eppure l’astratto si nega solo perché “il tutto” gli impone di farlo. Per questo l’astratto e il concreto si relazionano “dialetticamente” come ognuno bisognoso dell’altro. Insomma, questi due “opposti” si relazionano come altri, l’uno dall’altro, pur non potendo essere nessuno dei due semplicemente “altro” dal proprio altro, al modo delle alterità parziali e determinate di cui è pieno il mondo. Non è un caso che, per quanto non siano l’uno semplicemente altro dal proprio altro, l’uno si imponga sull’altro quale suo inviolabile nomos.

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Eccoci, dunque, alla specifica struttura di un dialettismo perfettamente identico a quello che aveva caratterizzato il rapporto Dio-Mondo lungo il percorso tracciato da tutta la grande tradizione ermetica. Nella cui prospettiva – proprio come in Hegel – Dio non era mai stato concepito come semplicemente trascendente il mondo. E per un motivo preciso: perché non risolvibile in “cosa”… o meglio, in nessuna delle cose del mondo. Infatti, anche per i filosofi riconducibili al filone di quell’ermetismo perenne che da Ermete Trismegisto si sarebbe sviluppato sino a Schelling, a connettere Dio al Mondo è un rapporto intrinsecamente paradossale, che “nega” e insieme “afferma” l’alterità tra Dio e Mondo. Anche Hegel, insomma – e proprio per aver voluto superare qualsiasi residuo di trascendenza –, è costretto a sostenere che, nel tempo storico, a manifestarsi non è mai solo quel che di fatto viene comunque a manifestarsi – vale a dire la sua astrattezza, la sua contingenza –, ma sempre anche l’eterno, il destino, la necessità. Qualcosa che non può certo venire ridotto all’astrattezza caratterizzante tutto ciò cui sembra non restare altro che riconoscere di non essere mai quel che nello stesso tempo sempre anche è – per quanto, senza poter mai rendere determinatamente presente (che sarebbe un inevitabile “parzializzare”) quel che esso è vera mente. Certo, per Hegel, qualsivoglia determinatezza è custode ed espressione di un “dinamismo dialettico” che, solo, sembra consentire il suo costituirsi come manifestazione sempre della medesima totalità; ma il “vero” e primo dinamismo (archetipo di ogni dinamismo particolare) è secondo Hegel quello che, proprio in forza della sua originaria aporeticità, rende ineludibile il negarsi che anima e svolge qualsivoglia determinatezza. Ossia, il dinamismo che connette l’inconnettibile; e in primis l’essere con il nulla.

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D’altro canto, il Dio che, pur non essendo “altro” dal mondo, neppure rinuncia a porsi come irriducibile ad una qualsiasi delle sue (del mondo) determinatezze, altro non è che “il nulla”; perché solo il nulla riesce a costituirsi come un altro (altro innanzitutto dall’essere) che non è altro; o meglio, che non è l’altro che comunque dice di essere. Perciò il Dio dell’ermetismo (un Dio che è altro dal mondo senza costituirsi come “un altro”) altro non è che il “nulla” – se è vero che solo il nulla dice qualcosa che, pur negando l’essere, non riesce a farsi altro dal medesimo. Costringendo l’essere stesso a “negarsi”, in quanto originariamente privo di un “altro” che possa in qualche modo determinarlo. Nulla è dunque lo stesso Assoluto hegeliano; ché il suo “essere” è immediatamente identico al “nulla”. E proprio per il suo non riuscire a distinguersi da quest’ultimo. Dialettico è infatti per Hegel anzitutto e da ultimo solo il rapporto tra “positivo” e “negativo” (quello che mostra l’originario “contraddirsi” del positivo), e non quello tra le positività sempre reciprocamente determinantisi ognuna come altra dalle altre. Per quanto non sia neppure un caso che il risultato di questo originario dialettizzarsi comporti, anche in relazione a qualsivoglia positività determinata, il suo immediato risolversi in quella che Hegel chiama “sintesi dialettica”: ossia non in un’altra positività (se non provvisoriamente4), bensì nel “concreto”.

4.  Infatti, per Hegel, ogni negazione è negazione determinata; mai si dà, cioè, «una negazione qualunque, ma sempre e solamente la negazione di quella cosa determinata che si risolve, ed è perciò negazione determinata… dove, quel che ne risulta, in quanto è negazione determinata, ha comunque un contenuto. Cotesta negazione è cioè un nuovo concetto, ma un concetto che è superiore e più ricco del precedente. contiene dunque il concetto precedente, ma contiene anche di più, ed è l’unità di quel concetto e del suo

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Riferibile a quella positività assoluta che caratterizza, in senso proprio, solo l’intero – quello stesso che, in ogni negarsi dialettico, viene appunto a palesarsi come verità originaria della “parte” di volta in volta chiamata in causa. Da ciò un intrascendibile “gioco” costituito dal continuo intersecarsi del macrocosmo – rappresentato dalla totalità che dice l’impossibile nulla (una totalità che mai potrà determinarsi in modo ultimativo e dunque non più svolgibile) – con il microcosmo (che si presenta invece nel palesarsi di questa o quella determinatezza quali espressioni comunque fedeli dell’aporetica dinamica costituente in primis il fondamento, ossia Dio). Insomma, così come i metalli sono alchemicamente correlati ai pianeti, allo stesso modo, a mostrarsi, in ogni cosa, è il suo intrinseco legame con il nulla-tutto di Dio. Di cui ognuno di noi può e deve farsi testimone, anche solo per il fatto che può “agire”… ritrovandosi già da sempre destinato a compiere il disegno della divina totalità, del suo eterno fulgore, e a farlo risplendere in ogni cosa – sì da consentire, ad ognuna di esse, di farsi perfetta icona dell’Assoluto. D’altronde, che questo fosse il nostro compito l’aveva già capito alla perfezione un altro grande maestro dell’alchimia: Paracelso. Un compito che dobbiamo e possiamo assolvere perché il luogo di tale realizzazione è proprio la storia. Nessuna città celeopposto» (G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 36). Senza mai riuscire, peraltro, a determinarsi come quel di più che non è un di più, perché chiama in causa addirittura la totalità. Per questo, sempre Hegel, poche righe prima, aveva anche detto che, se è vero che quello che si contraddice non si risolve mai nello zero, nel nulla astratto, è anche vero che il medesimo «si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare» (ibidem). Fermo restando che tutto questo non significa, comunque, che «il risultato sia semplicemente la nota affermazione che la ragione è incapace di conoscer l’infinito» (ivi, p. 39); questo lo si può affermare, infatti, solo là dove ci si fermi «al lato astratto-negativo della dialettica» (ibidem).

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ste, infatti, ci attende; ma, come nell’escatologia apocalittica di Gioacchino da Fiore, l’unico luogo possibile in cui la totalità può giungere a compiersi è quello della storia mondana, sia pur risolta in chiave “trinitaria”. Perché trinitaria è la stessa struttura di Dio – per lo meno, di quel Dio che, proprio in quanto “trinitario”, Böhme aveva già potuto riconoscere come espressione di una “prima Magia”. «Il momento separato che si contrappone alla Divinità dev’essere “trasfigurato” e riportato all’unità in Dio»5; ma questo fine potrà essere realizzato solo da un’umanità finalmente capace di patire sino in fondo la consumazione della morte, e di farsi così davvero purificata, ossia disponibile a portare sulle proprie spalle il peso di una “macro-vicenda” di cui il nostro microcosmo può comunque riconoscere il “senso” – ogni volta che il dispiegarsi della contingenza si lasci vivificare dalla forza custodita in un Dio che deve Esso medesimo, in primis, diventare quel che già è (Nietzsche, tutto questo, l’avrebbe capito alla perfezione – perciò poteva esortarci diventare quel che già siamo). Ecco perché, in Hegel, la filosofia doveva diventare esperienza sapienziale e magica, non potendo fare a meno di farsi lucida e inflessibile testimone di una impossibile ma insieme “necessaria” coimplicazione come quella tra razionalità e irrazionalità (analoga peraltro a quelle tra totalità e parzialità, tra Essere e Nulla, tra macro e microcosmo). Che poi significa tra eternità e storicità (o temporalità). Ossia, tra permanenza e mobilità, e, da ultimo, tra essere e divenire.

5.  G.A. Magee, Hegel e la tradizione ermetica, cit., p. 277.

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Niente-altro Aporie del senso e forme dell’indifferenza Ernesto Forcellino

1 Come iniziare? O, più specificamente, come e da “cosa” si inizia nell’ambito dell’esperienza e nel sapere di essa (del suo “senso”)? è possibile supporre un inizio assoluto? Un presupposto senza presupposti? La questione ha, fin dall’inizio, procurato non pochi imbarazzi in filosofia. Si pensa sempre all’inizio, in filosofia, e all’inizio, in filosofia, in qualche modo sempre si torna. Che qualcosa abbia inizio, e che debba darsi l’inizio di qualcosa, è – o sarebbe – il problema. E ancora: che ciò che accade occorra che sia pensato e interrogato a partire dal suo inizio, e da ciò che si dà prima dell’inizio stesso di qualcosa, d’ogni determinatezza. Si ha così l’impressione di trovarsi al cospetto della medesima condizione descritta dal personaggio di un breve racconto kafkiano, intitolato Dialogo con il devoto: Mai c’è stato un momento in cui io, da me stesso, sia stato certo della mia esistenza. Le cose intorno a me riesco infatti a percepirle in immagini così labili che mi par sempre che le cose siano esistite solo tanto tempo fa e che ora invece stiano spro-

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88 fondando. Sempre, mio caro signore, mi assilla il desiderio di veder le cose quali devon essere prima che si rivelino a me…1

Si tratta, al riguardo, dell’ingenua pretesa di chi manca della consapevolezza d’esser già da sempre preso nella doppiezza speculare dello sguardo così come nella trama riflessiva del linguaggio e del logos, in cui ogni presentarsi si profila fin dall’ini­ zio come una inevitabile ri-presentazione? Oppure davvero quelle immagini così labili, quasi icone sbiadite di un remoto passato, letteralmente “archeo-logico”, meritano, in qualche modo, d’esser guardate? Guardate, verrebbe da dire, prima d’esser viste (se non senza esser viste)? In qualche modo, ma quale? E come, nel caso? Proviamo allora a toglierci dall’imbarazzo parlando dell’inizio per interposta persona, lasciando cioè che sia un altro ad iniziare, e ad iniziare parlando, per l’appunto, dell’inizio (o di un “modo” dell’inizio, niente meno che l’inizio stesso del pensiero, ad esempio): Giudizio. Nel senso più alto e rigoroso, è l’originaria separazione dell’oggetto e del soggetto intimamente unificati nell’intuizione intellettuale, quella separazione mediante la quale soltanto diventano possibili oggetto e soggetto: la partizione originaria. Nel concetto di partizione ha già luogo il concetto di relazione reciproca dell’oggetto e del soggetto l’uno all’altro, e il necessario presupposto di un intero rispetto a cui oggetto e soggetto sono le parti.2

Si tratta di un brano tratto da un breve scritto di Hölderlin, noto con il titolo di Urtheil und Seyn, la cui brevità sembra accentuarne la profondità speculativa. Nel brano ora citato si 1.  F. Kafka, I racconti, a cura di G. Schiavoni, Rizzoli, Milano 1985, p. 301. 2.  F. Hölderlin, Urtheil und Seyn, tr. it., con testo tedesco a fronte, in appendice a E. Forcellino, Hölderlin e la filosofia. L’Uno in se stesso diviso, Guida, Napoli 2006, pp. 206 s.

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comprende anzitutto come sia dal e nel giudizio che si affaccia la necessaria presupposizione di un intero, che dunque del giudizio stesso si costituirebbe come l’inizio, come quel cominciamento che lo precede e che in esso e per esso agisce come (suo) presupposto. All’inizio è dunque il giudizio, ossia quella partizione (quella disposizione discorsiva: Logos e Verbum), quella divisione o quel raddoppiamento che, come tale, presuppone l’intero – il tutto – del suo stesso inizio, l’intero come suo presupposto e però come inizio, come il suo inizio. (Un due che suppone l’uno come suo inizio, un uno che è dunque tale a partire dal due). Come ben sappiamo, “giudizio” indica il modo stesso del pensiero, articolato secondo il rigore aristotelico della logica proposizionale, nella sua forma enunciativa: leghein ti kata tinos – di­re qualcosa intorno a qualcosa. Ossia: “qualcosa” è detto, assunto, inteso, come qualcosa. Ma si tratta qui della stessa cosa? Sono lo stesso il qualcosa che è detto-pensato e ciò intorno a cui quel che è detto è detto? La stessa cosa è detta come “qualcosa”? o non si dà piuttosto, inevitabilmente, uno slittamento fra l’una e l’altra cosa (un inevitabile ritardo, diremmo), proprio in ragione del fatto che “qualcosa” – indeterminatamente “qualcosa” – è detto, assunto, preso, inteso, affermato, interpretato come “qualcosa”, e dunque determinato, identificato come quella cosa che è? Nel concetto di partizione, rileva Hölderlin, ha già luogo la figura della “relazione reciproca” in cui si declina la determinazione dell’identità. E più avanti: Quando dico: “Io sono io”, il soggetto (io) e l’oggetto (io) non sono unificati in modo tale che non possa essere intrapresa alcuna separazione senza violare l’essenza di ciò che dovrebbe essere separato; al contrario, l’io è possibile solo attraverso questa separazione dell’io dall’io. Come posso dire: io! senza autocoscienza? Ma come è possibile l’autocoscienza? Median-

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90 te il fatto che io mi contrappongo a me stesso, separo me da me stesso, ma, nonostante questa separazione, mi riconosco nell’opposto come lo stesso.3

Inscritta nella determinazione dell’identità – del soggetto al pari dell’oggetto – è dunque l’affermazione di sé mediante la negazione di sé a se stesso: «omnis determinatio est negatio», rammenta Hegel, ripetendo, a suo modo, Spinoza. Da tale assunzione consegue che l’ambito della negatività e della negazione implichi il darsi di un orizzonte relazionale – negazione dice insomma relazione – comportando dunque la necessità – per comprendere la determinazione – di esporre l’ambito in relazione al quale la determinazione medesima emerge come tale: il necessario presupposto dell’intero, appunto. Come totalità: das Ganze, una relazione siffatta ha la specificità d’essere in­trinsecamente “disgiuntiva”. Si considerino al riguardo le pagine della Scienza della logica, ove Hegel mostra con straordinaria efficacia come la possibilità d’intendere la relazione si costituisca entro una totalità relazionale – l’intero: das Ganze, ancora una volta – che appunto si estrinseca secondo il procedere di negazioni disgiuntive, di modo che la determinazione – nella sua determinatezza specifica: “questa” determinazione – finisce col partecipare della totalità stessa non-essendo altro da ciò che essa medesima “è”, pervenendo così disgiuntivamente, ossia negativamente, alla definizione sua propria4. Intendere la totalità di tutte le determinazioni possibili: il presupposto necessario (e assoluto), ossia, conformemente adesso al lessico hegeliano, “l’idea assoluta”, significherà conseguire

3.  Ivi, pp. 208 s. 4.  Cfr. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in Id., Hauptwerke, Bde. 3-4, hrsg. v. F. Hogemann u. W. Jaeschke, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1999, Bd. 3, pp. 123-126; tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Scienza della logica, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1988, vol. II, pp. 797-800.

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quell’intero cui nessuna determinazione sarà esterna – la totalità stessa: il vero (che) è l’intero (das Wahre ist das Ganze)5 senza alcuna determinazione che sia fuori di esso, fuori dal tutto e però dalla sua intrinseca verità. Ad essergli esterno sarà unicamente il passaggio dalle determinazioni “ideali” – ossia potenziali (implicite) – alle determinazioni “idealmente” reali, ossia esistenti in questa determinazione e nella determinatezza del “questo”. Gli sarà esterna soltanto la nullità stessa di questo passaggio. E dunque, propriamente, “nulla”. Sotto questo profilo, altro non è, lo Spirito, che l’andamento del “concetto” – ossia l’oggettività di quel processo in cui sono progressivamente realizzate tutte le possibili determinazioni, le quali, per parte loro, si costituiscono unicamente secondo quel movimento di reciproca autonegazione, la cui concretezza effettiva, «conforme al vero», risiederà non altrove che nella loro totalità, intesa al modo dell’insieme dei movimenti di negazione reciprocamente determinata. Propriamente concreta sarà soltanto la totalità di questo movimento medesimo. È la verità stessa dell’intero, appunto, del tutto. O, detto altrimenti: la negazione determinata, il nulla “concreto” della totalità. Dal nulla “astratto” – come passaggio “estrinseco” delle determinazioni ideali/potenziali – al nulla determinato – e però concreto, della totalità, coincidente con il movimento del concetto (la “posizione” del pensiero, il cui presupposto non è rinvenibile altrove se non in se stesso come principio “automoventesi” del proprio stesso movimento, fondamento negantesi d’ogni pensiero che, andando a fondo in esso, così si realizza). Movimento del concetto il quale, ponendo la determinazione, insieme, al me-

5.  Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Id., Hauptwerke, Bd. 2, hrsg. v. W. Bonsiepen u. R. Heede, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1999, p. 19; tr. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello Spirito, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1988, vol. I, p. 15.

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desimo tempo, la nega e negandola la pone: «dal nulla al nulla [von Nichts zu Nichts]»6. Ne discende che l’altro negativo è ricondotto al medesimo per via di mediazione o che tutte le differenze sono, come tali, dialetticamente interne alla totalità – al necessario presupposto dell’intero, ora nuovamente con il linguaggio di Hölderlin. Differenziandosi dinamicamente entro la totalità, le differenze finiscono così, fra di loro, col coincidere. Nulla hanno di sostanziale, tali differenze, allorché le si assuma autonomamente o isolatamente per se stesse, essendovi di sostanziale unicamente il movimento del concetto. Esso “è” per le determinatezze nella stessa misura in cui queste ultime sono per esso. Il presupposto è tale come intero delle determinatezze – è insomma presupposto per la posizione: per la determinazione – così come le determinazioni acquistano concretezza esclusivamente entro il movimento totalizzante del concetto. Sicché ogni determinatezza definisce se stessa non-essendo altro da sé e quindi, conseguentemente – in quanto determinata e però identificata mediante questa medesima negazione – non essendo quel che essa stessa “è”. E ciò in ragione del fatto che ogni determinazione – quale che sia – occupa la medesima posizione e acconsente alla stessa condizione della totalità stessa di tutte le determinazioni, non avendo nulla fuori di sé, non essendole esterna – come si è appena rilevato – neanche la propria negazione determinata, che appunto è in essa. Il passaggio dal nulla al nulla si compie concretamente solo “annullando” se stesso, di modo che il movimento del concetto risulterebbe già da sempre “immobilizzato” entro la fermezza d’un risultato quieto. Immobilizzato o a dir meglio sospeso nel luogo – nel “contraccolpo” (Gegenschwung) riflessivo – del proprio stesso movimento.

6.  G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., Bd. 3, p. 250; tr. it. cit., vol. II, p. 444.

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Ora, affinché sia identificata come tale, occorre che la determinazione si rapporti alla sua negazione dialettica (A = nonnon-A). Ma questa medesima determinazione necessita, a propria volta, d’esser definita negativamente entro una “totalità” presupposta con la quale dialetticamente relazionarsi come il proprio stesso altro (l’altro di se stessa). E la totalità cui la determinazione appartiene, e nella quale ricade, abbisogna parimenti della presupposizione d’un tutto – di un “intero” – rispetto al quale, come suo altro dialettico, disgiuntivamente e negativamente qualificarsi. Sicché, per coglierne l’identità con sé, è necessario che, con la determinazione – la determinazione “determinata” –, si dia insieme la totalità delle determinazioni (e, conseguentemente, che sia data ogni determinazione). Per esser se stessa, la determinazione dovrà corrispondere al contempo a tutte le determinazioni (alla totalità, all’intero delle determinazioni). Dovrà a rigore esserle tutte, non avendo per ciò stesso niente-altro fuori di sé. Tutte ossia – determinatamente e di per sé – nessuna: nulla di nulla. Giacché o le determinazioni finiscono in tal modo per annullarsi totalmente – per fare del tutto nulla, del presupposto dell’intero un presupposto nullo – non avendo infine alcun “altro” dialettico rispetto al quale negativamente e “concretamente” determinarsi, o l’insieme stesso delle determinazioni – la totalità, il presupposto “assoluto” dell’intero – finirà per coincidere con una isolata e irrelata e insostanziale e infondata – insomma: non dialettica – accidentalità. Ossia, nulla, ancora una volta. Irresolubile accidentalità del reale: contingenza del necessario (cui potrebbe intrecciarsi la necessità stessa della contingenza) de-posta nel suo esser così, nell’esserci della sua irriducibile “autodatità”. S’è compreso che la verità dell’intero, della totalità intesa secondo l’andamento logico-speculativo, si fonda su ciò: che ogni determinazione è tale come l’insieme negativo delle sue relazioni determinate, ossia che ogni determinazione è se stessa in quanto coincidente con l’insieme delle sue specifiche negazio-

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ni. Ogni negazione non è niente-altro che la negazione d’ogni altra determinazione, essendo, di per sé, “niente” (niente-altro che niente). Ma si aggiunga: lo è – “è” niente – precisamente in ragione dell’andamento logico-speculativo, ossia del movimento del concetto, della forma costitutiva del plesso logico-significante. Ancora con la lingua di Hölderlin, lo è nella misura in cui si assume l’originarietà della partizione, della Ur-theilung, l’originarietà del giudizio: di quel linguaggio concettuale per il quale l’intero, il tutto – come suo fondamento – s’immedesima a quel determinato presupposto negativo assunto in forza dell’operare dialettico della stessa negazione-identificazione giudicante (presupposto del quale, appunto, soggetto e oggetto sono parti e nel quale soggetto e oggetto si costituiscono come un intero). Alla “verità” dell’intero come presupposta posizione del pensiero corrisponde l’incedere determinante della ragione logica, correlata all’atto del porre presupponendo e del presupporre ponendo così come, parimenti, del porre negando e del negare ponendo. Risulterebbe tuttavia non meno vano rivendicare – contro la “verità” dell’andamento dialettico – una sorta di irriducibilità del “presupposto” alla posizione del concetto, finendo ingenuamente col replicare il medesimo gioco cui ci si vorrebbe sottrarre ricorrendo al filtro scenico delle categorie logiche del dire speculativo. Col tradurre la “presupposizione” di qualcosa – qualcosa ora di indeterminato e, appunto, irriducibile al discorso – come ciò intorno a cui è detto “qualcosa”, non si potrà che ricadere o farsi precedere e condizionare dalla medesima logica su cui è istituito il dire enunciativo stesso, ossia quel “dire qualcosa intorno a qualcosa” a partire dal quale il “qualcosa” intorno al quale il dire si esercita verrebbe appunto “presupposto” come un qualcosa di non-detto – e magari di indicibile. È cioè sul fondamento di un intendere già atteggiato secondo la stessa forma logica del leghein ti kata tinos e dunque soltanto “per” esso, che potrà presentarsi qualcosa come quel

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“presupposto” intorno al quale risulterà possibile impiegare il pensiero e il giudizio. Sicché una prospettiva siffatta non farebbe altro che “assumere” – ossia porre e sup-porre – quel qualcosa come “determinatamente” ciò di cui al contempo predica l’indicibilità e l’indeterminatezza previe, il suo iniziale – o necessario – restare non-detto (secondo la forma di ciò che non è ancora detto, che attende d’esser detto o, in ultimo, dell’indicibile). Un dire (qualcosa) intorno a ciò che è presupposto al dire (qualcosa), il quale però non è altrimenti inteso che come presupposto di quel dire, di quella logica enunciativa che tematizza, assume pertanto quel “qualcosa”, ponendolo come presupposto suo proprio. Ma forse ad esser posto qui in questione non dovrà esser tanto il necessario riferirsi di “qualcosa” a “qualcosa” quanto piuttosto la relazione che il qualcosa di cui si dice intratterrebbe con il qualcosa che è detto, ossia che è significato. La relazione fra il dire che significa la cosa – che fa segno ad essa – e la cosa detta nel dire, la “cosa” in esso significata. E se la “cosa stessa” in questione non avesse alcuna consistenza d’essere se non quella di determinarsi come mera ipostasi del nome – per quanto ineffabile o indicibile la si voglia spacciare –, inscritta nel nome, e che dunque il dire necessariamente suppone a partire da sé? Riconoscerne l’assenza di rapporto con il logos comporta di fatto che se ne pensi la differenza unicamente nel linguaggio – nel logos – ossia attraverso l’idea, interamente allestita entro la scena linguistica, di un linguaggio senza rapporto con la cosa: con quel qualcosa che, come presupposto, pure ne condizionerebbe il dire. Sicché riuscirebbe massimamente problematico assumere quel “qualcosa” come l’Essere necessario – il quid o l’essenza – trasposto come ipotesi estrema oltre ogni predicazione possibile: il soggetto ultimo – e ultimo perché primo, primissimo – l’assoluto Essere per sempre chiuso nella profondità di se stesso.

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Del resto, lo si osservava già all’inizio: la questione stessa dell’inizio, e l’inizio come questione, rappresenta per certo la grande impasse con cui da sempre si è misurata la tradizione filosofica. A ciò si aggiunga il dilemma che accompagna la domanda intorno al passaggio dall’inizio a ciò che da esso discende, dal “prima” di cui l’inizio si compone al “dopo” che da esso deriverebbe. O, detto altrimenti, l’aporia che affligge il passaggio dall’Uno ai molti e il declinarsi dell’Uno nei molti, a voler inscrivere ancor più esplicitamente il problema entro la grammatica del pensiero e nel solco della sua tradizione. Ci troviamo al cospetto, insomma, del medesimo nodo speculativo che assilla i dialoganti nel Parmenide platonico, allorché ci si misura con il problema del passaggio dalla stasi assoluta dell’Uno-Uno al movimento dei molti (all’Uno-che-è) e del reciproco contro-movimento dei molti nell’Uno7. Condizione indecidibile, perché presa fra la necessità che l’Uno medesimo (essendo per ciò stesso “sia uno e molti, sia non uno e non molti”), entro la dinamica contraddittoria in cui i due poli s’identificano e distinguono, partecipi dell’Essere: essendo Uno; e al contempo non vi partecipi: non-essendo (in quanto “Uno-Uno”). Talché, come – e quando – avviene, se avviene, il passaggio dall’Uno ai molti? Avviene prima? Ma “che cosa” avverrebbe prima, se non è già una cosa (ossia: una cosa determinata e per ciò stesso, una fra i molti, una “parte” dei molti) ciò che “prima” avviene? Come evitare che la questione del passaggio dall’Uno ai molti – dall’indiviso non-posto alla posizione presupponente del giudizio – resti attardata sulla possibilità impossibile di un assoluto

7.  Cfr. Platone, Parmenide, testo greco a fronte, a cura di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 2004.

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esser-uno che contraddittoriamente si renderebbe principio della molteplicità o del movimento – il movimento stesso del pensiero – procedendo dalla immota permanenza dell’Uno? Ma allora “cosa” accadrebbe prima? Quale figura s’imporrebbe all’inizio?

2 Nel frammento hölderliniano, sembra che questo inizio, questo prima, debba prendere il nome di “Essere”, di Essere assoluto, più precisamente. O essere puro e semplice: sine-plexum o sem-plectere, senza parti, o composto d’un’unica parte. Uno, appunto. Laddove soggetto e oggetto sono unificati puramente e semplicemente, non soltanto in parte, e con ciò unificati al punto tale da non poter in assoluto essere intrapresa alcuna partizione senza che sia violata l’essenza di quel che dovrebbe esser separato, qui, e altrimenti in nessun altro luogo, si può discorrere di un essere puro e semplice, come avviene nel caso dell’intuizione intellettuale. Ma questo essere non deve essere confuso con l’identità.8

Sarà tuttavia possibile pensare, nel linguaggio, questo Essere, questo essere-uno, senza renderlo presupposto necessario alla sua necessaria partizione? Pensare l’inizio – o il principio – non presupposto al cominciamento, al principiare di qualcosa, e così il non-linguistico non presupposto al linguistico, il nome non presupposto al discorso? L’a-logico – se è concessa una tale espressione – non presupposto al logico altrimenti che come suo riflesso negativo? E ne andrebbe qui dunque ancor sempre dell’Essere? E “cosa” poi ci consentirebbe di distinguere questo “Essere” da quel 8.  F. Hölderlin, Urtheil und Seyn, cit., pp. 208 s.

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«puro essere senza determinazione ulteriore» da cui pur prende le mosse l’hegeliana Scienza della Logica? Certo, inteso nel modo dei primi passaggi della «Logica dell’essere», un tale essere non potrà che immedesimarsi al nulla – come appunto rigorosamente argomentato da Hegel – e ciò precisamente in ragione della sua presupposizione in quanto immediatezza mediata e dunque come negazione di sé in quanto altro. Essere, puro essere, – senza nessun’altra determinazione. […] Esso è la pura indeterminatezza e il puro vuoto. – Nell’essere non v’è nulla da intuire, se qui si può parlar d’intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. […] L’essere, l’indeterminato Immediato, nel fatto è nulla, né più né meno che nulla. […] Nulla, il puro nulla. […] Il nulla è così la stessa determinazione o meglio assenza di determinazione, epperò in generale lo stesso, che il puro essere.9

Sotto questo profilo, dell’essere puro, indeterminato, non potrà che esser predicato non già l’assoluto inizio, né l’indistinzione sua con il nulla nell’istante del loro reciproco trascorrere l’uno nell’altro, ma, secondo la figura dell’inizio di “qualcosa”, l’esser già da sempre passato dell’essere nel nulla, del nulla nell’essere: Il puro essere e il puro nulla son dunque lo stesso. Il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere, – non passa, – ma è passato, nel nulla, e il nulla nell’essere.10

Formalizzando: è sempre secondo la forma del “presupposto” che occorre intendere “A” (vale a dire: “A” prima di “A è A” – il puro e indeterminato “essere” prima della mediazione dialettica che lo definisce come quell’essere “che è”), e dunque sempre come determinazione finalizzata alla posizione mediata dell’identico e da questa pre-determinata, o vi è la possibili9.  G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., pp. 68 s.; tr. it. cit., vol. I, p. 70. 10.  Ivi, p. 71.

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tà d’intenderne altrimenti la natura? D’intenderne altrimenti l’essere? E c’è, si dà, parimenti, un essere che non sia già da sempre passato nel nulla e un nulla che non sia già da sempre passato nell’essere? C’è, accade una “differenza” in questo stesso passare e come questo passare medesimo? O un differire e un differimento di questo stesso passare rispetto al suo esser-passato? Volendo ancora tradurre la questione nel lessico adottato da Hölderlin in Urtheil und Seyn, questo essere – nullo nella sua immediatezza – che trova l’espressione riflessiva sua propria nell’identità (Io sono Io) non coinciderebbe con l’Essere assoluto (absolutes Seyn) ma unicamente, appunto, con quell’essere assunto quale presupposto necessario della scissione di soggetto e oggetto. È a questo “essere” che viene attribuito il profilo (di “presupposto necessario di un intero”, ossia) di un tutto – das Ganze – che è tale nella misura in cui risulta “posto” a partire dalla negatività intrinseca a tale scissione-identificazione. (Una scissione siffatta, che è il giudizio in quanto partizione originaria, contiene difatti, nel suo stesso porsi, la presupposizione di un intero – di un tutto, di cui soggetto e oggetto sarebbero appunto le parti). Di conseguenza, l’assoluto essere-uno non va scambiato con quel medesimo essere identico a sé della riflessione, il quale, in quanto forma dell’autocoscienza, implica sempre già la possibilità della scissione, della dualità, ossia della differenza in cui consiste la forma dell’identico e dell’identico come necessaria presupposizione della differenza medesima: «questo essere non deve essere confuso con l’identità». Ma, ancora una volta: di “cosa” l’Essere assoluto sarebbe il nome? e anzitutto, si tratterebbe davvero di una cosa, di qualcosa “che è”? Se si trattasse di qualcosa che “è”, allora ricadrebbe interamente in ciò che è noto, e che come tale attende solo d’esser

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conosciuto, o a dir meglio: “ri-conosciuto” – e però inverato – entro la forma enunciativa del giudizio. Ripetizione dell’essenza come ciò che già da sempre era: to ti en einai. Talché, l’investimento di senso dell’esperienza finirà per fondarsi sul presupposto – già costituitosi mediante la logica del discorso – che l’esperienza abbia senso (assumendo quello che occorrerebbe piuttosto dimostrare). “A” avrà senso solo perché già da sempre risolto – e annullato – in “A è A”, e se soltanto “dopo” sarà compreso il significato del “prima”, esso è assunto come tale solo per il “dopo”, non avendo perciò stesso alcuna presa su quella antecedenza intorno alla quale tuttavia mai non smette di esercitarsi. E che accade all’inizio. In principium – en arché. Se, per contro, dell’Essere si volesse denunciare il non-essere, allora l’impossibilità di coglierne la natura se non mediante la via che pur ne impone la sottomissione alla legge stessa dell’essere, renderebbe di fatto già vano l’impegno speculativo (ancora con Aristotele: «anche il non-essere diciamo che “è” non-essere»11). Nel punto medesimo in cui si espone, elevandosi dalla sua immediata sostanzialità a soggetto (ossia a presupposto dell’intero), l’essere non di meno tras-pone se stesso altrove, “fuori” dal concetto inteso come luogo e modo “esclusivo” della sua stessa esposizione. Fuori, nella sua assolutezza, assolto da tutto. Fuori dal Logos? Sembra che l’alterità torni sempre di nuovo, continui ad ossessionare la trasparente circolarità del vero. Torni e si ripeta come il ritorno “perturbante” di un rimosso. È come se ciò che è “tolto” e inverato – aufgehoben – pure si conservasse non soltanto elevandosi secondo la verità della sua “essenza”, ma

11.  Aristotele, Metafisica (4, 1003b-10), testo greco a fronte, a cura di G. Rea­ le, Bompiani, Milano 2004, p. 132 s. (kai to me on einai me on phamen).

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insieme come traccia che – inessenziale – permane, refrattaria al concetto. Resta nel fondo, irriducibile al fondamento. Ma in che modo, in quale misura? Fin qui si è infatti compreso che risolvendosi ad assegnare all’absolutes Seyn uno “statuto d’essere”, in ragione del quale pur sembrerebbe compromessa l’universalità definitoria del logos, si finirebbe in realtà solo col replicarne l’attitudine “identificante” sotto la forma del rovescio negativo posto in atto dalla parola, fatto “essere” dalla medesima potenza universalizzante del linguaggio e dunque ancor sempre tale in quanto presupposto “posto” con esso, da esso e ad esso destinato. Ora, se tale presupposto è da intendersi in quanto “immediato” – quel medesimo immediato di cui altrove Hölderlin rammenterà l’impossibilità «e per i mortali e per gli immortali»12 – allora la sua immediatezza non potrà declinarsi che come immediatezza del massimamente mediato. Giacché è necessario che il linguaggio abbia convocato in presenza l’idea: l’uno dei molti, l’identità della differenza, perché nel cono d’ombra della sua espressione possa profilarsi il presagio inquietante del suo altro, del non-linguistico che per principio sfuggirebbe alla presa universalizzante del concetto, alla sua traduzione logica in contenuto del discorso. Evocato nella propria inattingibile precedenza, questo “altro” dal linguaggio non potrà che manifestarsi unicamente come l’altra faccia dell’astrazione logica. E parimenti come illusione intorno all’esistenza di una purezza dell’Essere privo di contaminazione logico-linguistica. In unione con la potenza universalizzante del linguaggio stesso, esso ne rappresenterebbe soltanto il riflesso già pregiudicato in conformità alla sua ipoteca significante. Vi corrispondereb-

12.  F. Hölderlin, Das Höchste, in Id., Theoretische Schriften, Meiner, Hamburg 1998, pp. 113 s.; tr. it., La cosa più alta, in Id., Scritti di estetica, a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 155.

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be insomma una astrazione non meno astratta dell’astrattezza che vorrebbe deporre, giacché la misura del presupposto gli è appunto assegnata secondo il registro logico del discorso metafisico. E se piuttosto il luogo stesso dell’Uno ricadesse in un ambito entro il quale intenderne la differenza anche in luogo del problema dell’inizio, anche in luogo del problema del Prima? Forse andrebbe osservato che la seconda parte del frammento hölderliniano – in cui è nominata l’alterità dell’Essere assoluto – non semplicemente si contrappone alla prima. Distinguendosi da essa, tuttavia non astrattamente la nega ma, per così dire, la “ripete”. Ripete la prima, ripete la riflessione del giudizio, il presupposto dell’Intero, osservandola: guardandola nella piega “irriflessa” del suo evento. E, solo in tal senso, secondo l’autistica solitudine dell’Uno. Sotto questo profilo, la stessa posizione del presupposto verrebbe raggiunta nel suo punto cieco allorché s’intende che, sebbene nulla venga presupposto che non sia già posto “retroattivamente” come tale, tuttavia questo non implica necessariamente che dunque tutto ciò che è presupposto sia effetto di posizione, che ogni presupposizione sia “posta”. Ma occorre al contempo osservare che un siffatto presupposto “non posto” – la cui definizione insisterebbe sotto il segno di un’incognita, dell’enigma o dell’inespresso del “logico”: la sua “X” – non sarebbe nulla di determinato, risulterebbe privo di sostanza pur resistendo, o resistendo per ciò stesso, alla (sua) posizione retroflessa. In chiave logico-speculativa, esso potrebbe ad esempio costituirsi come quello scarto o quell’(assolutamente iniziale) impedimento alla piena tras-posizione del particolare entro l’universalità del concetto. Al tempo stesso, la resistenza del presupposto non si inscriverebbe semplicemente entro una logica dell’interdizione, finendo così per determinare surrettiziamente il presupposto medesimo – ponendolo – secondo

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la figura della sua stessa – non definibile – indeterminatezza. Ogni gesto impegnato in una demarcazione che separi ed escluda il “puro” presupposto dalla oscillazione interna alla riflessione ponente/presupponente è come tale un atto riflessivo che finisce in tal modo per occultare l’aporia intrinseca al presupposto medesimo. Ora, è possibile che la sua reiterata insorgenza – l’eccedenza del presupposto come inassimilabile all’impiego logico-significante – s’inscriva precisamente entro l’esercizio logico, secondo le movenze intrinseche alla riflessione, fino al fallimento – per dir così – del tentativo di assorbire ogni presupposizione entro l’atto riflessivo ponente, e unicamente “per” l’impasse di questo tentativo di assimilazione. È la ragione per cui lo statuto del presupposto si annuncia, radicalmente, secondo la negatività di un evento privo di sostanza, accadendo al contempo come l’inizio, non riducibile a posizione, dello stesso atto riflessivo ponente/presupponente e come il prodotto – l’effetto (o il resto) non-sostanziale – dei tentativi falliti di integrarlo entro la forma logica della identificazione, entro la sua stessa posizione determinante e identificante. E tuttavia per entrambi, per questo inizio e per questo resto, resta ancor sempre da osservare come essi finiscano col restare irretiti nella forma logica, come rovescio negativo del concetto. Sicché la trama concettuale si dispiega come determinazione costitutiva della realtà stessa, di cui rivela, senza resti, la struttura: non c’è altro se non come figura del logos, non c’è altro che il linguaggio. In questa luce, il concetto s’impone come “necessario”, al fine di esibire – concettualizzandola, appunto – la struttura ontologica della realtà come suo fondamento soggiacente. Necessario e però al tempo stesso “impossibile”. Giacché sarà certo sempre concesso ricondurre e ridurre “qualcosa” – e l’evento di “qualcosa” – alla totalità dei suoi presupposti, ma forse nella serie dei presupposti manca e alla serie dei presupposti sfugge – nella sua costitutiva alterità – l’atto stesso costituentesi come quella

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conversione logica che pone retroattivamente questi presupposti (pone retroattivamente le sue “ragioni” – e però le sue stesse condizioni – “fondandole” in tal modo) rendendoli così ciò che essi sono, ossia presupposti di… “qualcosa” di determinato. Come a dire che a mancare e a sfuggire – necessariamente – a questa attività ponente-presupponente è quel nulla, quell’andamento non sostanziale in cui s’inscrive il proprio stesso accadimento. Come il luogo da cui essa si stacca (si “solleva”) e in cui pure, esercitandosi, insiste e continua ad insistere, facendo corpo con esso. Si badi, non si tratta qui semplicemente di denunciare un limite dello speculativo (e, conseguentemente, anche un limite del “vero” hegeliano); giacché cosa, propriamente, insiste e insieme sfugge alla presa, entro il lavoro del concetto? cosa qui resta impossibile per il pensiero, impossibile da pensare? Niente, propriamente niente. E niente-altro che questo niente. Dell’Essere assoluto andrebbe allora colta non già semplicemente la differenza determinata rispetto al presupposto necessario dell’intero, né una sua presunta alterità congenere alla materia delle cose (di fatto essa stessa pensabile solo entro la rete assertoria del linguaggio) che il logos sfigurerebbe a motivo della astrazione implicata nel suo stesso operare. Piuttosto, ad esso potrà corrispondere l’accadere medesimo dell’articolazione logica. Il logico e niente altro che il logico: niente altro che questo niente, la cui non-alterità tuttavia finisce per “alterarne” la fermezza identificante, annunciandosi come puramente e semplicemente “essere”: sein schlechthin. Alterità assolutamente immanente all’impiego logico, alla trama significante del linguaggio. Del giudizio e del suo necessario presupporre ponente, l’Essere assoluto s’imporrà allora come limite trascendentale inoggettivabile. Come l’impossibile della sua necessità. E, delle cose, come il tratto inquietante, spaesante, un-hemilich, della loro stessa, quotidiana, familiare presenza. Come

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una in-significanza immanente alla forma del significare, di cui conseguentemente l’Essere assoluto non rappresenterebbe semplicemente la negazione logica: il non-senso “posto” al di qua o al di là della significazione, postulato come tale solo a partire dai già allestiti paradigmi linguistici, ma piuttosto il suo accadere nel luogo del senso e insieme in luogo id esso, sospendendone e sovvertendone la presa significante. In quanto “assoluto”, dell’Essere andrebbe afferrata non meno la differenza rispetto a sé e al suo differire dall’altro, l’assolversi dalla differenza stessa, il suo mantenersi in stato indifferenza rispetto alla propria stessa alterità, alla forma negativa che ne farebbe il contrario del proprio stesso altro. Intesa in questa luce, l’evocazione hölderliniana dell’Essere assoluto potrebbe mutare di segno, collocandosi, per così dire, non già semplicemente prima rispetto alla determinazione “logica” del giudizio e alla conseguente presupposizione ponente il “presupposto”; né dopo, come una sorta di detrito privato di senso che resta alla fine, perché inassimilabile all’impiego fagocitante della macchina identitaria del discorso. Così come né “fuori” né “dentro”. Tutti modi, questi, costruiti invero già entro il plesso significante del logos, già apprestati secondo la forma logica che ne assegna i ruoli e gli spazi entro la catena simbolico-significante del linguaggio. Dove allora cadrebbe e ac-cadrebbe l’assoluto Essere? Né prima né dopo, né dentro né fuori: il suo statuto letteralmente eccentrico sembra piuttosto avvertirci precisamente del fatto che si è già da sempre inscritti e implicati entro la trama significante del senso, e che dunque la sua forza pervasiva non potrà essere ingenuamente aggirata denunciando rispetto ad essa una irriducibile alterità, pretendendo di esibire il suo contrario, avvertendo della presenza di un prima, d’un insensato che sarebbe tale prima del senso, di significanti senza significato ai quali in qualche modo – ma quale? – riuscirebbe di spezzare la catena semantica del discorso. Non c’è un insensato inizio del senso, non

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c’è un “prima” insensato del senso. Con ogni evidenza, anche l’insensato è figura del senso, giacché è a partire da questo che ne definiamo la differenza. Il non-senso è il senso che il senso stesso assegna al proprio altro. Se a qualcosa che è “prima” si vuol far riferimento, a qualcosa che è “prima” del senso, allora il prima del senso non può che attestare che il senso c’è già, o c’era già, anche prima, che c’era già da prima: che il presupposto è tale in quanto necessario presupposto del giudizio.

3 Eppure, v’è dell’insensato. Esso mostra sé, verrebbe da dire, parafrasando il Wittgenstein del Tractatus logico-­philosophicus. Esso mostra sé: ed “è” l’Essere. L’assoluto Essere. Non c’è che il linguaggio – non c’è che la determinazione logica (del reale) e dunque del legame dell’uno con l’altro: del soggetto con l’oggetto, della partizione-relazione del giudizio e della presupposizione dell’intero di cui soggetto e oggetto sarebbero parti. Ogni pre-linguistica evocazione d’altro, d’un insensatamente altro, non è “altro”, in questa luce, che figura del logos, immagine “mitica” d’un’astrazione. E tuttavia, c’è dell’insensato, c’è un indiviso non-posto: Uno – che è Essere assoluto, e che è senza l’altro, senza relazione, irrelato, sciolto dalla sua relazione ad altro, dalla relazione fra soggetto e oggetto e dalla presupposizione dell’intero di cui essi sarebbero le parti. Sciolto, slegato dal suo rapporto con l’altro: assoluto, appunto. Assoluto Essere. Non foss’altro perché la priorità del giudizio ci segnala che un taglio è avvenuto, che una partizione è accaduta, e che è accaduta all’inizio. Una partizione e dunque una “identificazione” guadagnata presupponendo la differenza. Solo che, quanto a sé, questa differenza non “fa” differenza. In ragione della sua assolutezza, l’Essere – il semplicemente essere – è sciolto anche da sé, dalla sua identità con sé – per la quale varrebbe come presupposto dell’intero –, ma non meno dalla sua differenza da

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altro – che finirebbe per catturarlo “immediatamente” entro l’ipoteca logica dell’identità. Differendo dall’identità e dalla differenza, sarà piuttosto lo statuto eccentrico dell’in-differenza a tracciarne il profilo. Se “differenza” dice differenza di “A e A” in “A è A”, nell’identificazione di “A” con sé (implicando di conseguenza la determinazione logica dell’identità mediante la presupposizione in negativo di “A” come “non-non-A”), in-differenza dice, piuttosto, differenza di “A” rispetto ad “A è A”. In-differenza: perché essa accade nel luogo della differenza, e ne è l’aver luogo (di “A e A” in “A è A”), fa corpo con essa differendo. E in-differenza perché è differenza indifferente: essendo la differenza (quella differenza per cui il Primo non è, necessariamente, l’Ultimo e l’Ultimo non-è il Primo e dunque “A” è altro da “A è A”13) tale solo nella misura in cui è “intesa”, assunta come differenza, ossia già significata attraverso il filtro delle categorie logiche e dunque secondo la misura del giudizio (della proposizione d’identità) per cui vale come presupposto di un intero (das Ganze), e presupposto “necessario” – secondo la necessità stessa del logos. Sicché l’alterità di “A” s’inscrive non altrove che entro il registro dello Stesso, vale a dire della in-differenza alla differenza. Come ciò che resta “assolto” da essa – ab-solutus – e però anche dalla sua identificazione in quanto differente (in quanto altro dall’essente): absolutes Seyn14. 13.  Si veda invece Hegel: «L’essenziale per la scienza non è tanto che il cominciamento sia un puro immediato, quanto che l’intiera scienza è in se stessa una circolazione, in cui il Primo diventa anche l’Ultimo, e l’Ultimo anche il Primo» (Wissenschaft der Logik, cit, p. 57; tr. it. cit., vol. I, p. 57). 14.  In direzione di questa “in-differenza ontologica” sembra orientarsi lo stesso Heidegger, allorché rileva che «se parliamo “della differenziazione” (von “der Unterscheidung”), ci atteniamo subito a due prospettive. La prima s’indirizza verso un pensiero che differenzia e che, per così dire, trova

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Di questo “A” è immagine l’Essere assoluto. “Immagine” in se stessa, e dunque non immagine di “qualcosa”, giacché, per dir così, non è ancora “segno”, ancora non è catturata entro la deriva posta in opera dalla catena significante. Ed è per ciò stesso immagine di niente (non essendo un oggetto) e per nessuno (non essendo tale “per” un soggetto). Non è dunque presupposto dell’intero di cui soggetto e oggetto sarebbero le parti (semmai sarà fatto “esser” tale ex post, ossia come quell’effetto postumo che è il presupposto stesso – l’essere dell’ente – inteso quanto a sé “dalla” posizione del giudizio). Non è presupposto dell’intero ma nondimeno non è altro da esso: non è qualcosa d’altro, non un’altra cosa. Prima, dunque, das absolute Seyn nella sua assoluta alterità, non è niente. E così neanche “è” prima, qualcosa che “dapprima” è dato. Osserverà Heidegger: L’essere [Seyn] non è però qualcosa che stia “prima” – che sussiste per sé, in sé –, l’evento è anzi la simultaneità spaziotemporale per l’Essere e per l’ente.15

anticipatamente i differenziati (essere ed ente) come differenziabili, o che magari guadagna e lascia nascere per primo il loro uno (l’essere) “astraendo” dal differenziato, opinione che è comunque un errore fondamentale. L’altra prospettiva, che ancora può straniare, si volge all’Essere stesso [Seyn] e pensa la differenziazione a partire da esso e come esso stesso» (M. Heidegger, Über den Anfang, in Id., Gesamtausgabe, Bd. 70, hrsg. v. P.-L. Coriando, Klostermann, Frankfurt a.M. 2005, p. 68). 15.  M. Heidegger Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), in Id., Gesamtausgabe, Bd. 65, hrsg. v. F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1989, p. 13; tr. it. di F. Volpi e A. Iadicicco, Contributi alla filosofia (Dall’Evento), Adelphi, Milano 2007, p. 42 (tr. modificata). L’essere non è qui “qualcosa”, lo potrà semmai diventare e solo diventerà “qualcosa” quando sarà stato (ossia in quanto ente). È la ragione per cui, nel suo stesso “essere”, nel mentre “è”, all’essere andrebbe piuttosto restituito il modo dell’evento (das Ereignis), del differire nel puro accadere differenziante. Non dunque a partire dalla determinatezza di ciò che è dato, dai “differenziati” (essere ed ente). Piuttosto a partire da nulla: nulla però che non è mero niente, ma

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Da dove, dunque, l’Essere assoluto? Da niente – ex nihilo. O dal nulla del suo evento. Niente altro che niente e dunque anche, al contempo, niente altro che lo stesso: la cosa stessa come la stessa cosa – la CosaUno. Rispetto al suo semplice darsi, identità e differenza appaiono piuttosto come il precipitato “ontico” della partizione originaria, rispetto alla quale l’essere (“A”) varrebbe in quanto presupposto. Ma, al modo di una negatività pre-positiva e preposizionale, l’essere (“A”) in pari tempo vi si sottrae, indifferente in ultimo alla stessa negazione logica (alla logica della determinatio/negatio). Sottraendosi-negandosi in quanto indiviso non-posto, come essere puro e semplice e, in tal senso, veramente absolutus, assolto anche da sé, dalla sua identità con se stesso. Senza di sé. Essere “è” il necessario presupposto dell’intero, allorché lo si osservi dalla posizione già costituita del giudizio, dunque in quanto presupposto posto, come l’intero di cui soggetto e oggetto sono le parti. Ma al contempo non è questo presupposto, nella misura in cui lo si intenda a partire da sé: aus ihm selbst, ossia da quel luogo ove soggetto e oggetto sono piuttosto unificati “puramente e semplicemente”, e dunque non sono riguardati come “parti” di un intero. «Qui, e altrimenti in nessun altro luogo» – Da und sonst nirgends, sarà possibile pronunciare il nome di “essere puro e semplice” ossia: indiviso,

anzi l’accadere di una differenza che schiude ai diversi e ne articola l’ambito relazionale restando, quanto a sé, irrelato. Lungi dall’essere figura d’uno stato determinato, das Seyn si declina secondo il modo di una differenza che non cessa di differire. Non un “fatto” o un dato ma la pura oscillazione (die reine Erschwingung), sicché tutto ciò che di esso si possa intendere e tutto ciò che di sé possa darsi a vedere sarà già un (suo) effetto, rispetto al quale neanche potrà essergli assegnata la ragion d’essere della causa. E questo perché non è potenza che tende a realizzarsi, e dunque non ha alcuna somiglianza con l’ente che sarà (con l’ente di cui sarebbe l’essere).

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senza parti, puramente e semplicemente essere. Qui – Da; vale a dire dove, propriamente? In nessun altro luogo rispetto alla posizione presupponente del giudizio, e tuttavia differendo assolutamente da essa, giacché «questo essere non deve essere confuso con l’identità». E il giudizio è il luogo dell’identità. Nello “stesso” è implicato il differire della differenza. Come? Se l’essere non esprime altro che lo stesso «legame di soggetto e oggetto»16, però non già come parti di un intero, ma nella forma della loro pura “unitezza” (Einigkeit) e dunque come uno, come Uno-Uno, allora questa differenza inscritta nell’identico non potrà che presentarsi come “atto in atto” della posizione presupponente17. Come l’evento (del giudizio e della sua presupposizione) non riducibile al dato, al giudizio attuato (ossia al registro costituito del linguaggio, della struttura logicosignificante). E questo essere è “assoluto” – absolutus – ossia sciolto dalla posizione presupponente non essendo altrove che in essa. La sua alterità non potrà che insistere sul luogo dello stesso, non foss’altro perché se ci si provasse a determinarne l’identità “altra” rispetto al giudizio, occorrerebbe ricorrere a quella medesima logica giudicante e identificante che proprio nel giudizio rinviene il proprio campo d’esercizio. Essendo dunque, l’Essere, altro da sé – dalla sua identità di essere – e insieme non-altro da esso (dalla determinazione del giudizio e dalla sua presupposizione dell’intero) proprio in ragione della propria assoluta alterità, differendo dal presupposto, come indiviso non-posto, al modo di un costitutivo differimento. Il suo luogo, come «nessun altro luogo», è il suo stesso aver luo16.  F. Hölderlin, Urtheil und Seyn, cit., pp. 208 s. 17.  Sulla dimensione dell’Uno come “atto in atto” si veda, sebbene da una prospettiva differente (il senso dell’espressione proposto nel presente saggio s’inscrive ad esempio entro la krisis delle categorie modali, in primis della categoria di “possibilità”, attraverso un confronto critico con la nozione aristotelica di “potenza”), l’importante lavoro di R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017.

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go: il darsi stesso della identità e della differenza differendo assolutamente dalla identità e differenza date. Il darsi impersonale (Es gibt: senza soggetto) e indeterminato (senza oggetto: ossia impossibile come oggetto del discorso) e “irrelato” della relazione (del legame di soggetto e oggetto). Il darsi indiviso (della divisione), in quanto uno: indiviso non-posto. In questa “atopia” dell’Essere assoluto andrebbe dunque colta l’eco della “verissima” verità (alethéstata) pronunciata nella chiusa del Parmenide platonico: – Lo si dica, allora, e si dica anche che, a quanto sembra, sia che l’uno sia, sia che l’uno non sia, esso e gli altri, tanto in rapporto a se stessi quanto nelle loro relazioni reciproche, sono e non sono, appaiono e non appaiono, tutti i predicati in tutti i modi. – Verissimo.18

Ma per comprendere l’in-differenza di questa differenza, questo essere e non essere, apparire e non apparire, è forse necessario procedere ad un mutamento di prospettiva, ad una dislocazione dello sguardo. Così da provare a posizionarci – in qualche modo – nel luogo stesso in cui il personaggio dell’apologo kafkiano avrebbe potuto osservare le cose prima che gli si rivelassero. Lo abbiamo compreso: non c’è né un “prima” né un “fuori”, laddove questo prima e questo fuori sono sempre e solo per un altro e in forza dell’altro, dove prima e fuori sono sempre “relativi” ad uno spettatore il cui occhio resta sempre aperto sul mondo e per il quale il fuori è sempre “segno” e oggetto per un soggetto che ne interpreta la presenza. Ma, allora, cosa mai avrebbe potuto vedere il personaggio kafkiano dal quale abbiamo preso le mosse? che avrebbe potuto vedere delle cose prima che gli si rivelassero? E come avrebbero potuto mai essere, le cose, prima che si rivelassero ad un 18.  Platone, Parmenide (166 c), cit., p. 365.

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Io? E cosa avrebbe potuto vedere, quell’Io, “prima” di vedere? (prima allora di essere un Io, prima che le cose si atteggiassero ad oggetti per un soggetto?) Cosa avrebbe visto prima? Niente, niente altro che niente. Il suo sarebbe stato forse un “intu-ire” senza vedere, o un guardare senza vedere, per dir così – essendo tale, lo sguardo, già in quanto atteggiato secondo la forma intellettualistica, logicolinguistica del giudizio. Essendo lo sguardo fin dall’inizio orientato ad osservare le cose secondo la rete semantica del logos: uno sguardo preceduto dal detto, per il quale solo, appunto, ci sono le cose: la lampada, il libro… Quel personaggio si sarebbe trovato “gettato” non già nel mondo saturato dalla “significatività”, ma forse in un luogo dell’intuizione né guidata e riempita da soli concetti (come tali già da sempre allestiti secondo la partizione originaria del giudizio), né orientata sulla visione sensibile degli oggetti, questi ultimi essendo esperibili unicamente in forza della loro identificazione concettuale e linguistica. Ma si tratterebbe allora di una intuizione letteralmente “impossibile”, perché l’intuizione stessa dovrebbe supporre la disponibilità di un’esperienza del tutto estranea alla forma dell’umano. Se per intuizione si vuole intendere una facoltà che insiste nel regime del prelinguistico, allora essa dovrà passare per l’annullamento del soggetto, in conseguenza dell’annullamento del linguaggio (e del pensiero: «con la semplice intuizione, infatti, nulla assolutamente è pensato»19). Seppure ipotizzabile entro il regime dell’estetico – avvertirà lo stesso Hölderlin – teoreticamente, invece, la meta dell’intuizione finisce per essere ri19.  I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Werke, hrsg. v. W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1998, Bd. II, B 309, p. 242; tr. it., Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 2013, p. 220.

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mandata sempre oltre se stessa, come un desiderio consegnato al gesto ossessivo e continuamente ripetuto di una approssimazione infinita: cerco di sviluppare l’idea di un progresso infinito della filosofia, cerco di mostrare che l’intralasciabile istanza, che dev’esser fatta valere nei confronti di ogni sistema, l’unificazione del soggetto e dell’oggetto in un Io assoluto – o come lo si voglia chiamare – è bensì possibile esteticamente, nell’intuizione intellettuale, ma, teoreticamente, è possibile soltanto attraverso un’approssimazione infinita.20

Dell’intuizione non è possibile esibire la disponibilità al pensiero entro il registro di una conoscenza – qualora fosse data – puramente intellettuale, ma proprio misurandosi con il paradosso di una intuizione “desoggettivizzata” e però – come s’è detto – impossibile. E impossibile, diremmo altresì, perché incomprensibile, insensata, e ciò in ragione del suo accadere nel punto stesso in cui a venir meno saranno precisamente le condizioni di possibilità dell’esperienza, dell’esperienza del senso. Per converso la possibilità “estetica” dell’intuizione dovrebbe passare per una visione svuotata di concetti (i concetti essendo per parte loro allestiti mediante il plesso delle categorie e dunque secondo la forma logica del giudizio). Questa visione sarebbe allora visione di niente. E la sua immagine, come prima si rilevava, immagine di niente. Immagine immanente a se stessa: immagine pura. Al contempo, lo sguardo gettato dal personaggio kafkiano sulle cose “prima che gli si rivelino”, e assoggettato a questo “prima”, sarebbe sguardo di nessuno 20.  F. Hölderlin, Brief an Schiller (1795), in Id., Werke, Studien-Ausgabe, VI, pp. 219 s. A sottolineare la complessità – e anche l’ambiguità – della questione in Hölderlin, contribuisce un’altra lettera di poco successiva, indirizzata questa volta a Niethammer, ove il poeta sostiene che l’assoluta unificazione di soggetto e oggetto risulta per contro possibile «teoreticamente nell’intuizione intellettuale». Cfr., al riguardo, X. Tilliette, L’intuizione intellettuale da Kant a Hegel, a cura di F. Tomasoni, Morcelliana, Brescia 2001, pp. 85-102.

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e per nessuno – se anche il “soggetto”, il soggetto cosciente, consapevole di sé, è infatti effetto significante della partizione originaria, del “taglio” simbolico: della partizione dell’identitàopposizione dell’Io con se stesso, della determinazione-negazione che rende l’io identico a sé mediante la negazione del (suo) altro, che così lo costituisce. Intuizione, allora, come dimensione impossibile che s’inscrive e accade al di fuori di quella correlazione originaria che lega ogni ente a quell’ambito di presenza nel quale tutto ci-è dato. Spazio del noumenico21.

21.  «Se diamo il nome di noumeno a qualcosa in quanto non è oggetto della nostra intuizione sensibile, in quanto cioè facciamo astrazione dal nostro modo di intuirlo, si ha allora un noumeno in senso negativo. Ma se intendiamo invece designare l’oggetto di un’intuizione non sensibile, presupponiamo allora una particolare specie di intuizione, ossia l’intuizione intellettuale, che non ci appartiene e di cui non possiamo comprendere neppure la possibilità; si ha allora il noumeno in senso positivo» (I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., B 307, p. 277; tr. it. cit., p. 219). Se il noumeno – come pensiero del Ding an sich – si profila, entro i limiti concessi dall’intuizione sensibile, come un “concetto negativo”, ossia come un concetto definito per negazione, non essendo sottoposto alle condizioni dell’esperienza, occorrerebbe in tal caso estenderne la negatività anche fuori dalla negazione stessa secondo il suo impiego logico, giacché lo stesso negarsi ne precede – entro l’economia della conoscenza sensibile – la funzione di riflesso presupposto al suo stesso operare, finendo per garantire la legittimità del conoscere ed assicurando la sensatezza dell’esperienza entro i confini circoscritti dall’orizzonte fenomenico. Fuori da questi confini, peraltro, risulterebbe disattivata la stessa cogenza del plesso logico-significante – e però la stessa efficacia della proposizione d’identità e del linguaggio speculativo – sicché, non potendo esser detto se la cosa in sé sia una o molteplice, disponga di proprietà, sia causa dei fenomeni o se sia realmente esistente, neanche se ne potrà predicare la differenza. Non potendo dirne niente, alla cosa in sé – presagita ora come la “cosa stessa” del pensiero – sarà per ciò stesso sempre possibile che corrisponda la stessa cosa, tuttavia secondo un’estraneità spaesante che la sottrarrebbe alla forma intellettualizzata del nostro sguardo. Al di là della Stimmung speculativa propria del suo tempo Al di là della Stimmung speculativa propria del suo tempo,

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In questa “scena primaria”, l’Essere “è” niente, essendo parimenti niente anche l’ente. Non c’è questa lampada che pure è qui, non c’è questo libro che pure è qui. Non ci sono oggetti e determinatezze costituite, essendo questi oggetti come tali interni alla logica stessa dei significati, di per sé essa in primis “determinata”. Il nostro personaggio non avrebbe visto niente, dunque. Il suo sarebbe stato un vedere senza vedere, senza vedere nessun ente determinato (nessun oggetto per l’occhio di un soggetto) che venga offerto dalla definizione, dalla identificazione che il linguaggio presta alla memoria, al riconoscimento “logico”. Un vedere che non vede, che non vede qualcosa, ma che non vede nulla o “che” soltanto vede, raccolto nell’impersonale e inoggettuale orizzonte del visibile, spossessato di qualsivoglia contenuto rappresentativo.

4 Se è il linguaggio a definire lo spazio stesso dell’umano, se non c’è soggetto altrimenti che nel luogo della partizione originaria del giudizio, allora nei riguardi dell’Essere assoluto anche l’evocazione dell’indicibile – al pari dell’impensabile – non potrà rivelarsi che come una postura del linguaggio, una figura del dire, cui pertanto non si potrà alludere altrimenti – con le parole del Wittgenstein del Tractatus – che «rappresentando chiaro

della quale Hölderlin non poteva non partecipare, l’immagine dell’Essere assoluto che si indovinerebbe riflessa entro le pieghe dell’intuizione intellettuale, risulterebbe affatto eccentrica, dacché – in ragione del suo costitutivo differimento – essa si costituirebbe come immagine senza contenuto – e però letteralmente senza senso. Immagine di niente, appunto – insensibile e quindi vuota –, e insieme immagine che non sarebbe tale per nessuno, ossia “inesperibile”, il soggetto auto-cosciente essendo di fatto costituito solo “dopo”, per effetto della partizione dell’identità.

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il dicibile»22. L’indicibile assolutezza dell’Essere non può che cadere nel luogo del linguaggio come suo “limite” costitutivo. Allo stesso tempo, è l’identità stessa di pensiero e linguaggio ad imporre la delimitazione dell’impensabile «dal di dentro attraverso il pensabile»23. Nel luogo del linguaggio, nel luogo del pensiero, l’indicibile e l’impensabile ne circondano il darsi come questo stesso aver luogo, come il limite trascendentale o il «punto inesteso»24 che manca alla presa significante senza essere altrove che in essi – nel linguaggio, in-pensiero –, non essendo un pensiero e non avendo determinatamente alcun nome. Se non lo stesso nome, se non l’ombra anonima d’ogni nome. E d’ogni cosa. Non c’è un altro nome per la differenza dell’Essere assoluto, per la sua differenza rispetto all’Intero: questo come presupposto della partizione di soggetto e oggetto, quello come loro inviolabile legame, pura e semplice unificazione. L’uno come fondamento dell’identificazione, l’altro come quell’essere che «non deve essere confuso con l’identità». Le medesime parole ne tracciano la distanza, attraverso gli stessi nomi ne viene declinata la differenza. Come a dire che dentro il linguaggio, nello spazio del dicibile, non è data alcuna forma linguistica che possa rivendicare per sé un inatteso privilegio espressivo. Se a “qualcosa” che sfugge al linguaggio ci si potrà mai appellare – ad un indicibile, appunto –, allora occorrerà intenderne la natura affatto eccentrica avvertendo che esso non è “fuori” del linguaggio medesimo. Perché in quello spazio, là fuori – ammesso che mai si dia –, il soggetto – il soggetto fatto essere dal linguaggio – non può andare (se non “intuendone” assur-

22.  L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1990, § 4.115, p. 28. 23.  Ivi, § 4.114, p. 28. 24.  Ivi, § 5.64, p. 64.

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damente la presenza in un istante che possa essere insieme non-ancora, e non-più, umano, laddove secondo la prospettiva dell’umano – ossia, teoreticamente, del linguaggio, del logos – non ci si potrà che consegnare allo sforzo reiterato di una “approssimazione infinita”). E perché quello stesso spazio – indicibile e “inguardabile” – non c’è, se non per quel dire che ne nomina l’indicibilità. Ma anche entro il campo visivo non è offerta alcuna posizione privilegiata per l’occhio che vede. Esso si costituisce piuttosto come pura visibilità, puro spazio del possibile, non si presenta diviso in due – l’occhio del soggetto da una parte, l’oggetto dall’altra – ma piuttosto come una visibilità unitaria in cui non è visto niente così come non è visto l’occhio che vede: «l’occhio in realtà non lo vedi. E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio»25. Qui: «Il soggetto che pensa, immagina, non v’è»26. È fuori fuoco, dislocato rispetto al suo spazio d’esercizio così come rispetto alla funzione nominativa, con la quale pure coincide perfettamente al punto da non poter essere assolutamente detto (e senza che il suo occhio possa esser visto). Dunque non se ne potrà nominare altrimenti l’essere se non nella forma insostanziale del suo accadere: che accade, che si dice. Fuori dal suo intendimento, che solo ne consegnerebbe l’alterità entro l’ordine semantico del linguaggio: «Qu’on dise reste oublié derrière ce qui se dit dans ce qui s’entend», ha scritto una volta Jacques Lacan: «Che si dica resta dimenticato dietro ciò che si dice in ciò che si intende»27.

25.  Ivi, § 5.633, p. 64. 26.  Ivi, § 5.631, p. 64. 27.  J. Lacan, L’étourdit, in Id., Autres écrits, Éditions du Seuil, Paris 2001, p. 449; tr. it., Lo stordito, in Id., Altri scritti, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, p. 445.

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Allorché sarà promosso nel registro simbolico dell’essere e preso nella catena logica del significante, quel “che si dica”, inscritto nella irriflessa cadenza del dire, nel “che” del suo stesso dirsi in atto (così come nel “che” del nostro stesso vedere che vede), si smarrisce in un vuoto di memoria (ac-cadendo, si potrebbe insieme aggiungere, in un vuoto di senso, nel suo vuoto di senso). Se il senso del mondo «dev’essere fuori di esso», allora l’esperienza del senso – l’esperienza significante posta in essere dal linguaggio – non restituisce il senso dell’esperienza. Ma questo tuttavia non riposa altrove che in esso, a condizione che la sua “immagine” perturbante trascorra attraverso un mutamento di toni, uno slittamento degli accenti che modulano le stesse parole che sempre si ripetono. Lì dove, per dir così, le parole accadono smettendo di essere un “linguaggio”. E accadono – le parole, le immagini – senza dire “qualcosa” un “che cosa” – senza definire il senso del mondo così come esso è – ma semplicemente accadendo, accadendo secondo il “che” del loro stesso accadere. E le cose si mostrano allo sguardo smettendo d’esser viste, smettendo insomma di essere sempre ancora l’idea di se stesse – oggetti già da sempre idealizzati secondo quella logica identificazione che ne immobilizza e definisce la figura. Smettendo d’essere cose, quelle cose che sono. Ossia restando le stesse cose, ora sorprese nel loro semplice esserci, che c’è. «Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è»28. In ragione della sua indicibilità, il mostrarsi del Mistico avviene allorché al soggetto riesce di dislocarsi rispetto alla sua determinazione linguistica – e dunque a posizionarsi fuori rispetto a sé –, ossia dalla funzione descrittiva del mondo (come il mondo

28.  L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., § 6.44, p. 81.

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è), sfuggendo all’intreccio destinale delle significazioni e così interrompendo il rimando simbolico-segnico di cui è intessuto il mondo stesso nella sua strutturale “significatività”: non già sforzandosi vacuamente di esprimere l’inesprimibile, ma piuttosto di “sottrarre” alla paticità che innerva le parole del mondo, l’esattezza di quel linguaggio che, delle cose, pretende definire l’essenza. Interrompere la deriva delle significazioni comporterebbe, sotto questo profilo, la possibilità di intendere il dire altrimenti rispetto all’ufficio comunicativo del linguaggio, le parole diversamente dalla loro attitudine enunciativa, il logos nella sua differenza rispetto alla originaria partizione del giudizio, accordandolo piuttosto al “raccogliersi”, al leghein del mondo come un intero, come un tutto. Come indiviso: indiviso non posto. Senza identità alcuna – se identità implica partizione, giudizio. Ossia: misticamente “sentire” il mondo, nel suo mostrarsi, come un semplice “che”, e perciò stesso come un tutto, come un Intero – das Ganze, necessariamente presupposto al giudizio? – che però è insieme, al contempo, “assoluto” – quell’absolutes Seyn rispetto al quale non potrà «essere intrapresa alcuna partizione senza che sia violata l’essenza di quel che dovrebbe esser separato». Absolutes Seyn: Uno. Se non altrove che nel linguaggio stesso si tratterà di sorprendere la traccia del suo “fuori”, parimenti l’effrazione della funzione rappresentativa dell’immagine si lascerà forse iconicamente tracciare entro la severa intelaiatura d’un quadro: «sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico»29. E se l’occhio del personaggio kafkiano resterà probabilmente preso in un vedere che non vede altro, che non vede qualcosa,

29.  Ivi, § 6.45, p. 81.

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qualcosa che è, essendo piuttosto preso nell’irrappresentabile sguardo del proprio stesso vedere che vede, allora forse il suo occhio non potrà che posarsi su questo: Una tela quadrata (neutra, senza forma), larga cinque piedi, alta cinque piedi, alta quanto un uomo, larga quanto le braccia distese di un uomo (non grande, non piccola, senza dimensione), tripartita (nessuna composizione), una forma orizzontale che nega una forma verticale (senza forma, niente sopra, niente sotto, senza direzione), tre (più o meno) colori scuri (senza luce) senza contrasto (senza colore), pennellata spazzolata rimuove la pennellata, una superficie opaca, piatta, dipinta a mano libera (senza luminosità, senza trama, non lineare, senza bordo duro, senza bordo morbido) che non riflette l’ambiente circostante: un dipinto puro, astratto, non oggettivo, senza tempo, illimitato, immutabile, irrelato, disinteressato – un oggetto che è consapevole di sé [autoreferenziale] (non incosciente) ideale, trascendente, consapevole di essere nient’altro che arte (assolutamente non anti-arte).30

È quanto nel 1961 scrive Ad Reinhardt a proposito del ciclo dei suoi Black Paintings. Che tipo di “visione” è qui in gioco e cosa dà a vedere un’opera siffatta? Niente, nient’altro che niente, verrebbe da ripetere essendo, per ciò stesso, nient’altro che arte: «Art as Art». Al cospetto di quest’arte deprivata d’ogni ulteriore riserva di senso, fallisce ogni rassicurante paradigma ermeneutico. Nessun significato specifico è veicolato attraverso queste opere. Esse mostrano appunto l’impossibilità che il senso della loro esperienza possa tradursi in una esperienza del senso. Si negano al senso, talché risulterebbe inadeguato leggervi un messaggio allestito sul modello nostalgico per l’immedicabile perdita d’un origine intatta, oppure secondo la prospettiva finalistica

30.  B. Rose (a cura di), Art-as-Art. The selected writings of Ad Reinhardt, University of California Press, Berkley-Los Angeles 1991, pp. 82 s.

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orientata all’urgenza di riguadagnare una totalità – un Intero – che si annunci come compiuta ricomposizione dell’infranto. Né memoria luttuosa per ciò che è perduto – e di cui, come origine, non resta che la “partizione” – né attivismo teleologico per ciò che andrebbe recuperato nell’intero, entrambi funzioni simboliche rubricabili – secondo la specifica struttura dell’opera d’arte – entro il vocabolario della sensatezza e della sua saturazione espressiva31. Prima, allora, è il linguaggio senza di sé: linguaggio senza esser-linguaggio o l’essere del linguaggio assolto: absolutus – dal vincolo imposto secondo la sua funzione significante. Ossia, il linguaggio senza l’impianto categoriale che ne definisce la struttura e che per altro verso il linguaggio attinge da se stesso e presta a se stesso per definirsi come tale. Prima è il semplice, l’assoluto accadere delle parole: l’essere del dire che attuandosi riesce irriducibile al detto. Sotto questo profilo, attraverso la serie altrettanto ossessiva di negazioni che abita le pagine scritte da Reinhardt, sembra agire quella medesima logica “additiva” che caratterizza la composizione del quadro, allorché all’incremento progressivo degli strati cromatici attinti allo spettro dell’unico nero, non corrisponde un’aggiunta di senso, ma piuttosto un uso “intensivo” della materia pittorica in cui è anzi posta in atto precisamente la destituzione di ogni contenuto simbolico o significativo. Allo stesso modo – muovendo sul registro del linguaggio – il succedersi ripetitivo e straniante delle negazioni – spinto sino al limite della “glossolalia”32 – non che 31.  «I Black paintings non veicolano, promuovono o suggeriscono alcun significato specifico, né la loro esperienza è la decodifica di un senso riposto nelle maglie – cruciformi o concentriche – dell’immagine nera, che fa mostra di una tenace opacità e intransitività» (R. Venturi, Black paintings. Eclissi sul modernismo, Electa, Milano 2008, p. 8). Il lavoro di Venturi, in cui sono poste a confronto le sperimentazioni di Frank Stella e Ad Reinhardt, offre un’interpretazione fra le più convincenti sull’opera dei due artisti statunitensi. 32.  Cfr. ivi, p. 45.

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esibire un accrescimento di senso – potenziandone la missione significante – differisce e neutralizza la sua funzione logica e identificante sospendendone la facoltà rappresentativa. Se la specificità del linguaggio umano consiste precisamente nella facoltà d’intendere il “negativo”, per cui non soltanto esso restituisce nel giudizio l’ente percepito (“la lampada è rossa”) ma anche il non-percepito come sua negazione (“la lampada non è gialla”), con riguardo ai Black Paintings sembra assurdamente accedere al visibile proprio una siffatta assenza di percezione («What is not there is more important than what is there»33). A questa “teologia negativa” dell’immagine – dal momento che «non vi è modo di definire un assoluto se non per negazioni…»34 – non è però assegnato il compito di negare qualcosa di determinato, né vi si mostra l’effetto, il residuo negativo di un progressivo processo di auto-annullamento del pittorico: se pure attraverso le tele è posta in opera la «la facoltà intellettuale di far valere il “No” [Intellectual power of asserting “not”]»35, a mostrarvisi è però al contempo e più radicalmente la forza perturbante di un “Non” irrelato e intransitivo, un ne-

33.  B. Rose (a cura di), Art-as-Art, cit., p. 108. Il linguaggio come specificità umana, e la stessa costituzione dell’umano a partire dal linguaggio, si determina in forza di quel “fatto negativo” (è l’espressione adoperata da Wittgenstein) esperibile solo entro la dimensione linguistica, allorché, affermando il non essere di qualcosa (A non è B) finisce per ciò stesso con l’indicare “qualcosa” anche se ciò che è indicato, appunto, non-è. Di questo modo della negazione recano traccia i Black Paintings, impigliati, verrebbe da dire, fra la rigorosa geometria logica del loro linguaggio, e che di ogni linguaggio mima la negatività all’opera, e la superficie negativa perché negantesi – sorta di negativo fotografico che come tale precede il profilarsi distinto della figura –, refrattaria alla trasparente misura della rappresentazione e dunque anche alla messa in opera della negazione discorsiva intesa come vettore di senso. 34.  A. Reinhardt, Interview with Arlene Jacobowitz, citato in R. Venturi, Black paintings, cit., p. 44. 35.  B. Rose (a cura di), Art-as-Art, cit., p. 139.

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garsi all’immagine, nell’immagine, che – si potrebbe azzardare – è insieme un negativo “senza negazione”. È quell’atto in atto della negatività ove risulta disattivato l’effetto di senso che ne determina la funzione logico-dialettica, e questo perché ne antecede la ricaduta significante (con la quale è determinata la presenza stessa degli oggetti per un soggetto), denunciando in tal modo il darsi dell’immagine in se stessa, nel suo impersonale e irriducibile darsi: Es gibt. Immagine di nulla e per nessuno. O piuttosto icone senza immagini: Imageless Icons36. È dall’intreccio fra la forma pittorica e l’impiego della negazione linguistica che l’opera di Reinhardt ricava la sua efficacia sovversiva: «Black is negation […] Nothingness, negation»37. Questa duplicità e insieme “in-differenza” del negativo è in atto nella realizzazione del quadro ed è suggerita dalla specifica tecnica compositiva messa in opera da Reinhardt, in cui il lento e quasi maniacale sovrapporsi delle pennellate finisce per restituire una tela nera su cui, per quasi impercettibili variazioni tonali, si disegna una struttura cruciforme. Dal nero su nero dell’opera s’intravede una partizione (diremmo l’effetto prodotto dal determinare negando e dal negare determinando) e insieme la differenza indivisa della sua assoluta “unitezza”, e però nell’indifferenza – nel luogo della differenza – cromatica d’unico colore (che è non-colore, al contempo: «“Black”, absence of “color”, colorlessness, darkness, lightlessness»38). Sicché non è soltanto l’insistenza sul luogo della negazione – e dunque della forma significante – a restituire la specificità dei Black Paintings, quanto piuttosto l’azzardo di tradurre in immagine ciò che ne precede strutturalmente l’impiego, attraversandolo dall’interno. La negatività in atto, l’atto in atto – come

36.  Cfr. ivi, p. 108. 37.  Ivi, p. 101. 38.  Ivi, p. 97.

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s’è detto – piuttosto che la negazione avvenuta, la quale, come forma della potenza d’essere ed effetto determinato, non si compie altrimenti che negando se stessa. Non soltanto il “fatto negativo” (il non essere B di A), per usare l’espressione di Wittgenstein, ma il negarsi pre-posizionale del “Non” al suo ufficio significante e dunque al precipitato logico della determinatezza e dell’identità39. Vi accade così l’evento del negativo nel suo differire dal contenuto negato, irriducibile ad ogni logica già costituita secondo l’ordine dei significati e le leggi del processo dialettico: non vi si rinviene la funzione privativa della mancanza ma piuttosto l’“anomia” del No come possibilità (possibilitante) della negazione (sua non-negativa provenienza) e insieme come negarsi alla negazione40. Questo lavoro compiuto ai fianchi del linguaggio («Language serve as hiding one’s thought»41) si traduce quindi nei paradossi visivi e percettivi del gesto pittorico.

39.  In Was ist Metaphysik?, Heidegger ascrive al “Niente”, prima ancora che al “non”, una priorità “esistenziale” tale da rivelarne il carattere a-logico e pre-logico (che non significa semplicemente pre-linguistico), da cui il “non” deriverebbe come forma discorsivo-significante della negazione: «C’è il niente solo perché c’è il “non”, cioè la negazione? Oppure è vero il contrario, ossia che c’è la negazione e il “non” solo perché c’è il niente? […] Da parte nostra affermiamo che il niente è più originario del “non” e della negazione» (M. Heidegger, Was ist Metaphsyk?, in Id., Wegmarken, Gesamtausgabe, Bd. 9, hrsg. v. F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 19963, p. 108; tr. it., Che cos’è metafisica?, in Id., Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 64). 40.  «Reinhardt dimostra che i suoi Black Paintings consistevano precisamente in tale processo negativo, questi non negano semplicemente questo o quello […]. La negazione non è guidata da alcuna logica riduzionista (tesa all’eliminazione delle convenzioni superflue di un medium) né teleologica (tesa all’identificazione di un’essenza) […] la negazione radicale di Reinhardt è invece anomica, non ha principio né fine e non sottostà alle regole del circolo dialettico» (R. Venturi, Black paintings, cit., p. 49). 41.  B. Rose (a cura di), Art-as-Art, cit., p. 99.

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Giulio Carlo Argan osservò che la pervasività del nero che ossessivamente si ripeteva42 nelle tele di Reinhardt, e in cui ogni colore finiva per essere assorbito come in un’ultima sovversione del visibile, rappresentava di fatto «la fine della percezione, una percezione che non dà un percetto. Dunque è insieme percezione e non-percezione, percezione zero e percezione infinito. […] percezione non-percepita»43. Nel tentativo di raffigurare il non-percepito, o rendere paradossalmente percepibile l’assenza di percezione, è posta in opera la possibilità di un “non” che al contempo si traduce nel grado zero della percezione, come tale sottratto ad ogni percetto. In quelle superfici ostinatamente imageless – per comporre le quali Reinhardt ricorreva ad un lavoro maniacale e tormentoso di progressive stratificazioni monocromatiche – è assorbita ogni luminosità, di modo che ciò che esse restituiscono non è il riflesso dello spettatore, del cui sguardo esse sarebbero oggetto, ma una sorta di “autistica” chiusura in sé – ora davvero éiso en báthei, come l’Uno plotiniano44 – come una inquietante e refrattaria solitudine che, appunto, sembra costeggiare il lato irrappresentabile d’ogni rappresentazione («la forza della pittura sta nella sua capacità a scomparire»45). Uno […] nessuna caratteristica eccetto la sua unità non è una cosa né una cosa in sé né bianco né nero, né rosso né verde, di nessun colore 42.  Cfr. in proposito anche R. Venturi, Black paintings, cit., p. 52: «Reinhardt insiste non sulla varietà ma sulla ripetizione […] vi era una sola cosa da dire, una sola forma e un solo colore, uniforme e non-irregolare, ma andavano ripetuti “over and over”». 43.  G.C. Argan, Reinhardt: la percezione non percepita, in «Data», III, n. 10, 1973, pp. 28-33: risp. pp. 33, 31. 44.  Cfr. Plotino, Enneadi (VI, 8, 18), testo greco a fronte, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano 1992, pp. 1328 s. («dentro nell’abisso»). 45.  B. Rose (a cura di), Art-as-Art, cit., p. 75.

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126 senza essere, senza divenire, senza nome dove non c’è altro che l’unico, non si vede nulla.46

Né/Né – Uno che non è né l’uno né l’altro: ne-uter. Neutro, indifferente. Alla posizione presupponente implicata nel gioco dialettico di figura e sfondo – come tale regolata sul registro relazionale, e per ciò stesso complementare alla figura, in cui l’una cosa è implicata dall’altra e viceversa – queste tele replicano consegnandosi all’indivisa assolutezza del “fondo”: non lo sfondo ma il fondo, che è là, punto insituabile che denuncia un’assenza, straniante nella sua irriducibilità alla misura e al profilo definito del quadro. E tuttavia in esso. Nella “sua” immagine. Indifferente, ma insieme condizione di possibilità e impossibilità d’ogni figura, e altro dalla figura, non essendo altrove e non essendone “necessariamente” lo sfondo (ma il fondo, appunto). Come il limite trascendentale e inoggettivabile che si mostra, e si mostra nel modo d’un semplice “che” indifferente al “che cosa” dell’essere, il perimetro del quadro esibisce «una severa armatura rettangolare dai confini assoluti, senza alcuna relazione con alcunché al di fuori di questo spazio»47. Certo, nei Black Paintings di Reinhardt non c’è, letteralmente, nulla da vedere: «nothing is seen»48. Nulla se non questo “no”, questa negatività che si nega finanche all’impiego logico della negazione, e che non si rende semplicemente espressione di una privazione, ma piuttosto della compatta, assoluta refrattarietà del nulla. Un nulla positivo – «eines positive Nichts», per usare ancora una intensa espressione di Hölderlin, che vi farà ricorso allorché osserverà che “l’infinita unità” – ossia la costitutiva inseparabilità di ciò che è opposto e unito – come

46.  Ivi, p. 93. 47.  In R. Venturi, Black paintings, cit., p. 46. 48.  B. Rose (a cura di), Art-as-Art, p. 93.

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tale non può “apparire” alla riflessione (se riflessione implica il ri-flettersi e dunque lo sdoppiarsi dell’Uno). Anzi, questa assoluta e indivisa unità non potrà «apparire affatto, o lo può solo col carattere di un nulla positivo, di una stasi infinita»49. Dei Black Paintings si può forse dir questo, infine: che sono l’icona senza immagine di un «nulla positivo». O di quell’Uno che è immagine di niente (senza oggetto) – immagine per nessuno (senza soggetto). In essi si mostra “qualcosa” che non appare, che non può apparire (perché non è una cosa, e che, tuttavia, si mostra senza poter esser visto). Che accade nel mentre accade, come in un istante sospeso, come in una “stasi infinita”: semplice, assoluto, “inapparente” essere, che pure non è mai altrove se non nelle sue manifestazioni – ne è il “che c’è”, che avviene –, non essendo ad esse riducibile (non essendo “qualcosa”, un “che cosa”) e insieme non avendo altra consistenza reale, altro luogo che in esse, quel medesimo luogo in cui mai non è come tale. Se un’ultima “immagine” potrà esservi accostata50, forse apparterrà alla rosa cantata da Celan: Die Nichts-, die Niemandsrose. La rosa di nulla, la Rosa di nessuno.51

49.  F. Hölderlin, Über die Verfahrungsweise des poetischen Geistes, in Id., Theoretische Schriften, cit., p. 50 («sie kann also gar nicht erscheinen, oder nur im Karakter eines positiven Nichts, eines unendlichen Stillstands»); tr. it., Sul procedimento dello spirito poetico, in Id., Scritti di estetica, cit., p. 108. 50.  «Non faccio altro che realizzare l’ultimo dipinto che possa essere realizzato» (B. Rose [a cura di], Art-as-Art, cit., p. 13). 51.  P. Celan, Psalm, in Id., Poesie, testo tedesco a fronte, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, pp. 378 s. (tr. modificata).

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Negazione e alterità a partire dalla Genealogia della morale secondo le letture di Gilles Deleuze e Michel Henry Alice Giordano

«Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un “di fuori”, a un “altro”, a un “non io”»1. È proprio nella prefazione alla Genealogia della morale che Nietzsche invita il lettore a ruminare i suoi scritti, a percorrerli e ripercorrerli con quella lentezza che la modernità sembra aver messo da parte. L’interpretazione è un’arte, scrive poco prima il filosofo, ma è anche – aggiungiamo, coerentemente con altri luoghi nietzschiani – un esercizio, un tentativo. In questa prospettiva si proverà a “ruminare” l’affermazione di Nietzsche appena riportata, collocata nel decimo paragrafo della prima dissertazione della Genealogia, ovvero “Buono e malvagio” “buono e cattivo”. I «compagni dotti, arditi e laboriosi»2 a cui guarderemo in questo sforzo interpretativo saranno principalmente due, Gilles Deleuze e Michel Henry. Distanti l’uno dall’altro per prospettiva filosofica ed esiti teoretici, i due filosofi sono per

1.  F. Nietzsche, Genealogia della morale, nota introduttiva di M. Montinari, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1984, p. 26 (si citerà dal testo italiano, per il confronto con il testo tedesco il riferimento è all’edizione digitale eKGWB). 2.  Ivi, p. 9.

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altri versi quantomeno accostabili, nella misura in cui entrambi assegnano un ruolo centrale alla questione dell’immanenza e alla dimensione degli affetti3. Entrambi si sono occupati di Nietzsche, e hanno riflettuto a partire dalla Genealogia della morale: ci riferiamo in particolare al secondo capitolo di Nietzsche e la filosofia4 dal titolo Attivo e reattivo, per quanto riguarda Deleuze, e a Vita e affettività secondo Nietzsche, seminario tenuto da Henry in Giappone nel 1983 e contenuto in un’opera il cui titolo ha un sapore nietzschiano, la Genealogia della psicoanalisi5. Seguendo prima l’una, poi l’altra interpretazione, si vedrà come l’affermazione di Nietzsche da cui si è partiti vada incontro a una parziale e simmetrica riscrittura.

Ja/Nein La traduzione italiana del passo citato in apertura ricalca alla lettera il testo tedesco: «Während alle vornehme Moral aus einem triumphirenden Ja-sagen zu sich selber herauswächst, sagt die Sklaven-Moral von vornherein Nein zu einem “Aus-

3.  «the two broad similarities between the thinkers – deep concern with affects and commitment to philosophy of immanence – cover far-reaching distinctions» (J. Williams, Gilles Deleuze and Michel Henry: Critical Contrasts in the Deduction of Life as Transcendental, in «Sophia», vol. 47, n. 3, 2008, pp. 265-279: p. 266). Non è molta la letteratura che si è occupata di un confronto tra Gilles Deleuze e Michel Henry; oltre all’articolo di Williams appena citato, si rimanda al testo di J. Mullarkey, Post-Continental Philosophy. An Outline, Continuum, London-New York 2006. 4.  G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, PUF, Paris 1962; tr. it., Nietzsche e la filosofia e altri testi, a cura di F. Polidori, Einaudi, Torino 2002. Salvo diversa indicazione, si citerà dalla versione italiana. 5.  M. Henry, Généalogie de la psychanalyse. Le commencement perdu, PUF, Paris 1985; tr. it., Genealogia della psicoanalisi. Il cominciamento perduto, a cura di V. Zini, Ponte alle Grazie, Firenze 1990. Si citerà dal testo francese, con traduzione di chi scrive.

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serhalb”, zu einem “Anders”, zu einem “Nicht-selbst”»6. La struttura dell’affermazione nietzschiana è simmetrica e consente di estrapolare tre coppie di termini che si contrappongono: morale aristocratica/morale degli schiavi, sì/no, a se stessi/a un altro. Ciascuna coppia implica le altre, così che per approfondire il significato di una, tutte saranno necessariamente chiamate in causa. Ja/Nein. Si potrebbe dire che l’alternativa tra il Sì e il No, ovvero l’alternativa tra l’affermazione e la negazione, è il cuore concettuale della genealogia nietzschiana della morale (se non, addirittura, dell’intera filosofia di Nietzsche). Se l’obiettivo è un’indagine sul valore di tutti i valori, il mezzo principale da adottare è una formulazione corretta della domanda: il valore preso in esame è sorto da un Sì o da un No detto alla vita? L’ha fino ad oggi intralciata, oppure promossa7? Che sia la crudeltà, la pietà, la compassione, l’altruismo etc., si potrà dire qualcosa sul valore di ciascun valore solo rispondendo a questa domanda. Così posta, tuttavia, quest’ultima potrebbe nascondere un’insidia. Potrebbe, infatti, lasciar intendere che le due risposte, quella affermativa e quella negativa, appartengano a un medesimo piano. Non si tratta del fatto che, ovviamente, per Nietzsche l’“autentico valore” è il Sì, mentre il No indica degenerazione, è sintomo e causa di décadence; il piano a cui si fa riferimento è ontologico, perché riguarda più propriamente la costituzione del reale. L’errore sarebbe pensare che il “sì” e il “no” siano due possibilità equivalenti, come se un io, «arrivato al punto O, si trov[i] in presenza di due direzioni OX e OY ugualmente aperte»8, direbbe Bergson. L’affermazione e la 6.  F. Nietzsche, eKGWB/GM-I-10. 7.  Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 5. 8.  H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, tr. it. di F. Sossi, premessa di P.A. Rovatti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, p. 113. Queste pagine bergsoniane del Saggio mettono in discussione l’idea di li-

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negazione non sono due vie che si aprono allo stesso modo per Nietzsche, in questo senso non appartengono allo stesso piano, ma la prima si colloca più in profondità rispetto alla seconda. Lo si intende bene proseguendo nella lettura del decimo paragrafo della prima dissertazione, dove il filosofo specifica le modalità con cui il nobile e lo schiavo prendono rispettivamente posizione: la morale degli schiavi ha bisogno, per la sua nascita, sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire – la sua azione è fondamentalmente una reazione. Si ha il contrario nel caso di una maniera aristocratica di valutazione: questa agisce e cresce spontaneamente, cerca il suo opposto soltanto per dire sì a se stessa con ancor maggior gratitudine e gioia – il suo concetto negativo di «ignobile», «volgare», «cattivo» è soltanto una pallida postuma immagine antagonistica, in rapporto al suo positivo concetto fondamentale, tutto pervaso di vita e di passione, di «noi nobili, noi buoni, noi belli, noi felici!».9

Entrano in gioco le altre coppie di opposti. La morale degli schiavi è una morale della negazione perché, fondamentalmente, ha bisogno di un altro a cui opporsi; ha bisogno di un Ausserhalb, di un Anders, di un Nicht-selbst. Per esistere, per porsi come identica a sé, per riconoscersi, deve contrapporsi a una qualche esteriorità. La Sklaven-Moral si costituisce di riflesso, solo negando sarà in grado, paradossalmente, di affermarsi. In maniera totalmente diversa funziona una morale aristocratica:

bertà come libertà di scelta di un soggetto di fronte a opzioni ugualmente possibili e percorribili; la critica del libero arbitrio è un tema fondamentale anche per Nietzsche. 9.  F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 26. Deleuze cita e commenta parte di questo passo nietzschiano: cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 14-16.

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il suo proprium è dire sì a se stessa, la sua origine sembra esaurirsi in questa affermazione. Non c’è “altro”, non c’è esteriorità, ma il concetto fondamentale della vornehme Moral è positivo, in questo senso: si pone senza bisogno di opporsi. Basta a se stesso. Nel primo caso, è la negazione antecedente rispetto all’affermazione. Nel secondo caso, al contrario, l’affermazione precede la negazione. Iniziamo a intuire come non si tratti di prospettive esattamente simmetriche: la negazione che costituisce lo schiavo non sussiste senza il nobile, l’affermazione che rende il nobile tale può sussistere invece senza lo schiavo. L’ignobile, il volgare, il cattivo non sono per il nobile che una «pallida postuma immagine antagonistica [nur ein nachgebornes blasses Contrastbild]», scrive Nietzsche. Un’immagine, perché costruita di riflesso e artificialmente10; pallida, perché poco rilevante, lontana, sfocata; e postuma, perché non partecipa alla costituzione della nobiltà ma sorge successivamente, per un contrasto spontaneo, simile a un riflesso. Due riflessi dunque, uno nella prima e uno nella seconda morale, e in entrambi i casi a essere “riflessa” è l’immagine del debole, della natura degenerata, risentita; laddove invece portatore di realtà è il signore, il forte, l’aristocratico – come sottolinea Nietzsche citando il termine greco usato da Teognide (autore sul quale, da giovane filologo, aveva molto lavorato) per parlare dell’aristocrazia ateniese: ἐσϑλός, che «significa, secondo la radice, qualcuno che è, che ha realtà, che è reale, che è vero»11. Nietzsche insiste su questo punto, vi ritorna costantemente. L’uomo nobile «concepisce in anticipo e spontaneamente ­l’idea

10.  I felici «non avevano bisogno di costruire artificialmente la loro felicità unicamente rivolgendo lo sguardo ai loro nemici» (F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 27; corsivo mio). 11.  Ivi, p. 18.

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fondamentale di “buono”, prendendo le mosse, cioè, da se stesso, e soltanto su questa base si foggia una rappresentazione del “cattivo”!»12. Il cattivo della prima morale è una «creazione posteriore, un accessorio, un colore complementare»13, mentre il malvagio della seconda è «l’originale, il principio, l’atto vero e proprio»14. Non solo, dunque, il “buono” che si contrappone al “cattivo” e il “buono” che si contrappone al “malvagio” non è lo stesso, ma nella prima morale “buono” significa reale, mentre nella seconda il suo opposto, ovvero rappresentazione accessoria, pallida immagine. Secondo Deleuze si tratta di uno snodo centrale della filosofia nietzschiana. In Differenza e ripetizione vengono schematizzate le due concezioni del rapporto affermazione-negazione che emergono dalle pagine di Nietzsche: «Nell’un caso, la negazione è sì il motore e la potenza, e ne risulta l’affermazione – diciamo come un Ersatz, un surrogato»15. In questo primo caso, dunque, l’affermazione prodotta ha la consistenza di un fantasma: è il Sì dell’asino di Zarathustra, che afferma tutto ciò che è negativo e negatore, e che confonde l’“affermare” con il “portare”: «come se non si potesse affermare senza espiare, come se bastasse passare per le traversìe della scissione e della lacerazione per arrivare a dire sì»16. Per affermare è indispensabile attraversare la lacerazione. L’analisi deleuziana va letta

12.  Ivi, p. 29. 13.  Ibidem. 14.  Ibidem. 15.  G. Deleuze, Différence et répétition, PUF, Paris 1968; tr. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, p. 75. 16.  Ibidem. Si veda anche G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 266: «Si sarebbe potuto credere che l’asino, l’animale che dice I-A, fosse l’animale dionisiaco per eccellenza, ma in realtà non è affatto così: in apparenza è dionisiaco, ma di fatto è completamente cristiano».

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nello sforzo estremo di prendere le distanze dalla dialettica – in questo la sua operazione è autenticamente nietzschiana17 – e di pensare il concetto di differenza libero da quello di negazione. L’aufheben hegeliano implica quella che Deleuze chiama un’«antica maledizione»18, ovvero l’idea che non si possa produrre affermazione se non appunto tramite espiazione, scissione, lacerazione, contraddizione. Già nel 1954, nella recensione a Logique et existence del suo maestro Hyppolite, Deleuze si chiedeva se non fosse possibile pensare una ontologia della differenza priva di quella figura della negazione che è la contraddizione: «La contraddizione non è solamente l’aspetto fenomenale e antropologico della differenza?»19. Il sì dell’asino di Zarathustra è, allora, ancora sotto gli effetti dell’antica maledizione, perché si fa carico del negativo, ne porta sul dorso tutta la pesantezza.

17.  Cfr. ivi, pp. 234 s.; nel paragrafo intitolato Contro lo hegelismo si legge ad esempio: «per l’occhio del genealogista il lavoro del negativo non è altro che una grossolana approssimazione di quelli che sono i giochi della volontà di potenza» (ivi, p. 237). Commenta a questo proposito Godani: «Nietzscheano, Deleuze lo rimarrà sino alla fine, sia nel senso della condivisione di un atteggiamento, al contempo affermativo e gioiosamente distruttivo, nei riguardi del pensiero e della vita, sia per l’assunzione di alcune istanze filosofiche decisive che sono […] la destituzione della centralità del soggetto e la conquista di una critica non dialettica» (P. Godani, Deleuze, Carocci Editore, Roma 2009, p. 14). Sottolinea anche Ronchi che è proprio il ruolo assegnato alla negazione a rompere ogni possibile comunicazione tra Deleuze e Hegel: cfr. R. Ronchi, Gilles Deleuze. Credere nel reale, Feltrinelli, Milano 2015, p. 89. 18.  G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 75. Deleuze colloca l’ope­ razione nietzschiana agli antipodi di quella hegeliana: «Qui, superare si contrappone a conservare», G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 245; «dobbiamo prendere sul serio il carattere decisamente antidialettico della filosofia di Nietzsche», ivi, p. 13. 19.  G. Deleuze, Jean Hyppolite. Logique et existence, in Id., L’île déserte, Les Éditions de Minuit, Paris 2002, p. 23 (traduzione mia).

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Continua Deleuze, Ma secondo l’altra concezione, l’affermazione è anteriore in quanto afferma la differenza e la distanza. La differenza è leggera, incorporea, affermativa. Affermare non è portare, ma tutto il contrario: scaricare e alleggerire. Non è più il negativo che produce un fantasma di affermazione, come un Ersatz. Dall’affermazione risulta il No, da considerare a sua volta ombra, ma nel senso di conseguenza, quasi di Nachfolge. Il negativo è l’epifenomeno.20

In questa seconda prospettiva la negazione è “postuma”, scriveva Nietzsche, è “conseguenza”, gli fa eco Deleuze. L’atto originario è affermativo, il No diventa un’ombra. Ja/Nein. Tra affermazione e negazione non c’è allora un rapporto univoco: il primato ontologico è del Sì, mentre il No è manifestazione collaterale, un epifenomeno. Il suo stare “su”, ἐπί, indica non solo consequenzialità rispetto a un fondamento positivo, ma anche radicamento in esso. Detto in una formula: «La negazione si oppone all’affermazione mentre quest’ultima differisce dalla negazione»21. Ciò significa che alla natura della negazione appartiene l’opporre, mentre l’affermazione non oppone e non si oppone mai. Il punto, in sostanza, è bloccare quel meccanismo che porta a vedere il Sì come opposto al No,

20.  G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 76. 21.  G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 281. Spiega Esposito che se Deleuze negasse la negazione «egli resterebbe al suo interno e addirittura la potenzierebbe. Ma egli evita anche di rimuoverla, come accade ad alcune filosofie ispirate al suo pensiero. Piuttosto la include in un orizzonte positivo, torcendola su se stessa fino a convertirne l’attitudine escludente in direzione affermativa o compatibile con l’affermazione. […] Ciò che Deleuze effettua, in un ribaltamento della metafisica moderna, è l’inversione del primato del negativo in quello del positivo – di ciò che è “posto”. In questo modo il positivo diventa l’orizzonte del negativo piuttosto che il contrario» (R. Esposito, Politica e negazione. Per una filosofia affermativa, Einaudi, Torino 2018; consultato in edizione digitale).

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poiché pensare l’affermazione in termini di “opposizione” alla negazione significherebbe reintrodurvi, in definitiva, l’essenza del negativo22. A questo punto non sorge il rischio, si chiede Deleuze, di fare di Nietzsche – e di una filosofia della differenza in generale – una nuova figura dell’anima bella, che vede «differenze rispettabili, conciliabili, federabili, laddove la storia continua a farsi a colpi di cruente contraddizioni»23? No, risponde in maniera netta il filosofo francese, «nessuno meno di Nietzsche può passare per un’anima bella […]; nessuno ha sentito di più il senso della crudeltà, il gusto della distruzione»24. Possiamo ipotizzare che, se si ponesse la stessa domanda a Michel Henry, questi concorderebbe nella risposta: l’universo descritto da Nietzsche è un «corteo di tormenti»25, sofferenze, annientamento; eppure, anche Henry sostiene qualcosa di simile a ciò che si sta provando a mettere in luce: Ma la determinazione positiva della vita per Nietzsche ha un significato che è bene sin da ora riconoscere. In quanto opporre all’infelicità di un’esistenza, che è mancanza e che niente potrebbe colmare, il piacere incommensurabile e originario

22.  Massimo Donà ha ampiamente riflettuto sul concetto di negazione e anche nel suo percorso teoretico un momento essenziale è il confronto con Hegel, al fine di pensare un rapporto identità-differenza al di là della sua versione dialettica e una negazione non “escludente”. Si pensi ad esempio al paragrafo Il differire dell’identico nella radicale outopia hegeliana, in Aporia del fondamento, Mimesis, Milano-Udine 2008, pp. 290-317, e ai saggi di Sulla negazione, Bompiani, Milano 2004. Si veda in contrasto l’interpretazione di Esposito, che considera l’opposizione figura affermativa della negazione: cfr. R. Esposito, Politica e negazione, cit., in particolare il terzo paragrafo del terzo capitolo, Opposizione. 23.  G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 74. 24.  Ivi, p. 75. 25.  M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., p. 252.

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138 di esistere come prova di una sovrabbondanza e superpotenza [surpuissance] della vita, non fa divergere due concezioni della vita tra le quali occorrerebbe scegliere, una marcata dal pessimismo assoluto, qualificato come nichilismo, l’altra, di certo non ottimista, ma abbastanza differenziata come “pessimismo della forza”.26

Come si accennava, il Sì e il No in questione non si presentano come oggetti di una scelta possibile, come opzioni equivalenti ma opposte di una valutazione, che potrebbe propendere da una parte oppure dall’altra. Per Henry non si tratta di porsi di fronte alla sofferenza, al negativo, al dolore della vita adottando un atteggiamento “negativo” oppure “affermativo”; ciò che emerge dalla sua lettura di Nietzsche è «l’impossibilità eidetica per la vita di prendere posizione rispetto a se stessa, di separarsi da sé per, in seguito, volere o non volere essere sé»27. Questo è il significato proprio di una «determinazione positiva della vita», ovvero una determinazione che non può non essere positiva, lo è necessariamente. La volontà di potenza, per usare il termine propriamente nietz­ schiano, non è la volontà di un soggetto che vuole, appunto, che ricerca un fine o desidera un oggetto. Commenta Henry che «la volontà vuole, ma il suo atto di volere non è in alcun modo voluto da essa»28, e cioè la volontà di potenza non può non volere, ma è necessitata a volere; scriveva ancor prima Deleuze che «la potenza non è ciò che voglio, è ciò che ho […]. Fare della potenza l’oggetto di una volontà è un controsenso»29. 26.  Ivi, p. 253 (corsivo mio). Per la nozione di pessimismo della forza, cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, tr. it. di S. Giametta, nota introduttiva di G. Colli, Adelphi, Milano 1977, p. 4. 27.  M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., p. 253. 28.  Ivi, p. 216. 29.  G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, a cura di A. Pardi, Ombre Corte, Verona 2007, p. 81.

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Le forze che esprimono la volontà di potenza non sono azioni esercitate da qualcuno o qualcosa, da un sostrato che “fa”, ma c’è solo “fare”, solo forza, o meglio solo esercizio, espansione, attuazione necessaria di forze. Scriveva Nietzsche in Al di là del bene e del male che «ogni potenza in ogni momento trae la sua estrema conseguenza»30 e analogamente spiega nella Genealogia che sarebbe assurdo «pretendere dalla forza che non si estrinsechi come forza, che non sia un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler signoreggiare»31. Si arriva al cuore dell’interpretazione di Henry: Nietzsche avrebbe finalmente portato alla luce che né la vita, né le forze che la incarnano posseggono la libertà di non essere se stesse. Il legame della vita a sé è intrascendibile, e questa totale adesione di sé a sé è ciò che il fenomenologo chiama immanenza: «questa struttura dell’immanenza – il non poter essere fuori di sé di ciò che permane in sé»32. La volontà di potenza diventa allora “iperpotenza” (hyperpuissance), ovvero una potenza onnipresente e onnipotente, che per Henry ha in Nietzsche il nome di Dioniso: è l’essenza della vita che non cessa di autoimpressionar-sé, secondo le tonalità fondamentali della sofferenza e della gioia. In definitiva, Henry parafrasa a suo modo Nietzsche quando afferma: «non c’è nessuna forza, per quanto insignificante e irrisoria, che non porti con sé l’incommensurabile di questa iperpotenza»33.

30.  F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, tr. it. di F. Masini, nota introduttiva di G. Colli, Adelphi, Milano 1977, p. 28. 31.  F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 34. 32.  M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., p. 266. 33.  Ivi, p. 256. Il concetto di hyperpuissance è al centro della filosofia di Henry, non soltanto della sua lettura di Nietzsche.

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Vornehme Moral/Sklaven-Moral Con questi strumenti concettuali, si può tornare alla Genealogia della morale. Dopo aver spiegato cosa intende per hyperpuissance, Henry formula infatti quattro domande relative al significato della morale nobile e della morale degli schiavi; si chiede in che cosa consistono: 1. la forza dei forti, 2. la debolezza dei deboli, 3. la debolezza dei forti, 4. la forza dei deboli. Ciascuna delle quattro domande apre ampie prospettive d’indagine, ci concentreremo dunque sulla risposta che Henry propone alla seconda domanda, ovvero quella che si interroga sull’origine e sul senso della debolezza dei deboli. Riconosciuta l’iperpotenza di ogni potenza, la questione della debolezza dei deboli sembrerebbe sfumare: se qualsiasi forza, anche la più irrisoria, non ha la libertà di non essere se stessa, come è possibile che ci sia qualcosa come una “forza debole”? In altri termini, cosa vuol dire che una forza, la cui essenza è di non potersi separare da se stessa, di non potersi non esercitare, è “debole”? Parrebbe un controsenso: «in quanto se la volontà di potenza è l’essenza dell’essere, se tutto quello che è, non è che per questa potenza che sovrabbonda di sé, allora non si capisce più come qualcosa come la debolezza in generale sia ancora possibile»34. La debolezza in sé sembra perdere significato. Henry rifiuta infatti la spiegazione “estrinseca” e quantitativa, secondo la quale una forza si dovrebbe definire “debole” in relazione a un’altra forza. È assurdo pensare di comparare due forze, quanto lo è pensare che un “signore” si trasformerebbe improvvisamente in “schiavo” nel momento in cui incontrasse, sul suo cammino, qualcuno di più potente. Non si tratta di misure; piuttosto, forza e debolezza sono possibilità interiori. Occorre indagarle dall’interno. Qual è allora, secondo Henry, l’essenza della debolezza?

34.  Ivi, p. 268.

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141 Nietzsche non intende la debolezza come una forza minore, ma come la negazione della sua essenza e, nella misura in cui questa essenza è l’immanenza, come la rottura da quest’ultima.35

Il debole è, in prima battuta, colui che rifiuta il radicamento in sé, che pretende di inserire una distanza rispetto a se stesso, che vorrebbe “rompere” con la sua dimensione immanente. Solamente che questa distruzione interiore come autodistruzione […], questa negazione di sé urta contro un’impossibilità essenziale, contro l’essenza della vita precisamente in quanto il legame che la lega a se stessa è infrangibile e non si lascia mai spezzare.36

In seconda battuta, l’essenza della debolezza è proprio la debolezza del suo progetto. Negare se stessa, separarsi da sé, rompere con l’immanenza si rivela impossibile: secondo Henry, il progetto del debole va incontro a uno scacco necessario – anche se questo viene travestito “pomposamente”, scrive Nietzsche, «come se la debolezza stessa del debole – vale a dire la sua essenza, la sua produttività, la sua intera, unica, irredimibile realtà fosse un effetto arbitrario, qualcosa di voluto, di scelto, un’azione, un merito»37. Il debole “vende” la propria debolezza come azione giusta, come scelta da lodare, come un merito morale e, così facendo, esercita un’«arte da falsari»38, che gli consente di concepire un’azione distinta dal soggetto che la compie. Ma non è possibile, secondo Nietzsche, separare il fulmine dal suo bagliore: chi ha questa intenzione, aggiunge Henry, fallisce inevitabilmente. La conclusione di Henry, per quanto paradossale, è che una forza risulta “debole”

35.  Ivi, p. 269 (corsivo mio). 36.  Ibidem. 37.  F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 35. 38.  Ibidem.

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proprio perché “forte”, ovvero proprio perché il suo tentativo di rompere con la potenza che la costituisce non riesce. Esiste un legame più forte di qualsiasi progetto che miri a spezzarlo. Il No si scontra con un Sì più grande, non arriva mai, potremmo dire, a pronunciare il suo No sino in fondo. Il voler non essere sé della vita, il voler disfarsi di sé del Sé è la debolezza stessa in quanto questo volere si urta per principio a una forza più grande di lei, alla forza più grande, quella che edifica il Sé, la forza della forza, la forza che dà la sua forza a ogni forza e anche alla debolezza stessa. La relazione della debolezza e della forza – relazione che trova la sua figura nella relazione esteriore dei forti e dei deboli – riguarda la relazione a sé della vita.39

A suo modo, in definitiva, anche l’analisi di Henry ci mostra che la negazione non cessa nemmeno per un istante di radicarsi nell’affermazione, e in virtù di ciò è negativa, «pallida postuma immagine antagonistica». Come egli stesso evidenzia, il tratto caratteristico delle indagini nietzschiane è di non analizzare mai essenze astratte, ma sempre le loro effettuazioni concrete: possiamo allora citare la grande figura – direbbe Deleuze, “personaggio concettuale” – del prete asceta, per esemplificare l’autocontraddizione di una vita che insorge contro la vita. Per Nietzsche Il prete asceta è il desiderio, fatto carne, di un essere-in-altromodo, di un essere-in-altro-luogo e invero il grado supremo di questo desiderio, il suo caratteristico ardore e la sua passione: ma appunto la potenza del suo desiderare è il ceppo che lo 39.  M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., p. 272. In un’intervista viene chiesto a Henry: «Ma non si può riconoscere una volontà distaccata [détachée]? Non è possibile volere contro la vita?». Risposta: «Certamente, ma questo si svolge nell’immanenza. Non è un volere “contro”, in senso stretto, non può accadere mettendo a distanza, perché è della vita che si tratta» (V. Caruana - M. Henry, Entretien avec Michel Henry, in «Philosophique», n. 3, 2000, pp. 69-80: p. 74; traduzione mia).

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143 inchioda qui […] questo prete asceta, questo apparente nemico della vita, questo negatore – appartiene precisamente alle più grandi forze conservatrici e affermativamente creatrici della vita…40

C’è un “ceppo che inchioda” alla sua dimensione immanente ogni desiderio di “essere-in-altro-modo” e “essere-in-altro-luogo”. Il prete asceta vorrebbe negare il modo in cui è, il luogo in cui è, ma proprio questo desiderio è testimone della potenza affermatrice a cui appartiene. Si potrebbe allora suggerire che il disegno teorico tracciato da Henry comporti una parziale riscrittura dell’affermazione di Nietzsche da cui si è partiti, che ripetiamo: «Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un “di fuori”, a un “altro”, a un “non io”». Seguendo Henry, il No che la morale degli schiavi pronuncia sin dal principio non sarebbe riferito tanto a un “altro”, quanto piuttosto a se stesso, ovvero a quel Sì che costituisce la sua essenza.

Sich selbst/ein “Anders” Foucault ha parlato di un rifiuto da parte di Nietzsche, almeno in alcune circostanze, del termine Ursprung: troppo metafisico, con esso ci si sforzerebbe di cogliere l’essenza della cosa, la sua «identità accuratamente ripiegata su se stessa, la sua forma immobile e anteriore a tutto ciò che è esterno, accidentale e successivo»41. È qui, in riferimento all’“essenza della cosa”, che, probabilmente, le letture di Nietzsche da parte di Henry e di Deleuze divergono maggiormente. Sebbene entrambi si soffer-

40.  F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., pp. 114 s. 41.  M. Foucault, Microfisica del potere, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, p. 31.

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mino sulla definizione nietzschiana di volontà di potenza come pathos, per il primo pathos è «auto-affezione»42, per il secondo è più in generale «potere di essere affetto»43. Richiamiamo la terza coppia di opposti, Sich selbst/ein “Anders”. Henry descrive un’essenza ripiegata su se stessa e anteriore a tutto ciò che è esterno, mentre Deleuze non si stanca di ripetere che «ogni realtà è già quantità di forze “in un rapporto di tensione” le une con le altre»44. Sich selbst. È soprattutto Henry che ci aiuta a ruminare il termine “se stessi”, in quanto tutto il suo progetto filosofico è incentrato sull’idea di un’auto-affezione originaria: persino l’ego cogito di Cartesio significa, in realtà, non che io “penso” ma che io “sento” di pensare45. 42.  M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., p. 278. 43.  G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 92. 44.  Ivi, p. 60. «Henry’s search for a free-standing affect deduced as a condition for any appearance underplays the way any affect is included in many causal and transcendentally determined series such that any notion of the pure affect independent of other processes is a fiction» (J. Williams, Gilles Deleuze and Michel Henry, cit., p. 265); «no life, however pure or essential, is simply ipseity since it is always becoming because of its ongoing actual and virtual relations and the changes in intensity and significance they determine through series of counteractualizations (Deleuze 1969, 176)» (ivi, p. 277). 45.  Cfr. M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., pp. 28 s. Commenta Ronchi: «Michel Henry (1990) farà riferimento a un’auto-affezione della coscienza di natura particolare, extra-teoretica. Se l’intenzionalità suppone la trascendenza della luce – l’ekstasi della temporalizzazione originaria che Heidegger aveva posto a fondamento dell’intenzionalità della coscienza –, il rapporto che la coscienza deve necessariamente stringere con se stessa, ogniqualvolta vi sia atto intenzionale, avrà invece luogo nella “cecità” del sentire, fuori, quindi, dalla luce nella quale “si danno” le cose del mondo, ego compreso. Fuori anche dal sapere, che della luce è il portato. La certezza attinta dal cogito, spiega infatti Henry, non è la certezza di un sapere, bensì quella di un sentire differente per natura dalla rappresentazione: ego cogito significa che sento di pensare, di vedere, di udire ecc. Tutti questi contenuti del pensiero potranno e dovranno essere revocati dal dubbio, ma non l’im-

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Il «cogito radicale di Nietzsche»46 esplicita allora l’intuizione cartesiana (che la storia della filosofia avrebbe “tradito”, preferendo una lettura dell’ego cogito improntata al rappresentare, piuttosto che al sentire) nel momento in cui mette in bocca al “malato” le seguenti parole: «Potessi essere un altro qualsiasi! […] Ma non c’è speranza. Sono quello che sono: come potrei liberarmi da me stesso? Eppure – sono sazio di me!»47. Come il prete asceta, ogni “malato” vorrebbe essere altro, e invece si trova incatenato a quello che è, senza potersi in alcun modo liberare da se stesso: sono quello che sono, è costretto se non a riconoscere, quantomeno a sentire. Il “ceppo che inchioda” non è per Henry sintomo di impotenza ma al contrario, come si accennava, frutto di una iperpotenza. Per questo «il pensiero di Nietzsche è un pensiero della pienezza [plenitude]»48, perché non c’è “spazio vuoto”, non c’è possibilità di non aderire a sé. In Henry, la caratteristica principale dell’immanenza ha a che fare con il Sich selbts: Solo questa esclusione radicale di ciò che è fuori e al di là di essa [della vita], e per esempio l’esclusione dell’ideale, restituendo la vita all’immanenza del suo essere-sé, la restituisce anche a se stessa, facendola ripiombare nell’essenza da cui attinge la sua possibilità di essere, ciò che Nietzsche chiama la realtà.49

La “realtà” nietzschiana sarebbe questa restituzione della vita a se stessa, alla sua dimensione immanente, ed esclusione di tutto ciò che è “fuori” e “al di là”. «Questa maniera di essere

pressione cieca (che sento) che sempre li accompagna» (R. Ronchi, Il puro apparire, in «Philosophy Kitchen», n. 1, 2014, pp. 27-45: p. 32). 46.  Cfr. M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., p. 297. 47.  F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 116. 48.  M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., p. 298. 49.  Ivi, p. 265 (corsivo mio).

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in noi, questa modalità dell’interiorità come espulsione di ogni trascendenza»50: lo stare in sé della vita implica un’espulsione di ogni trascendenza. La dimensione affettiva è, allora, essenzialmente auto-affettiva. Henry prende le distanze dalla tradizione fenomenologica che pone il rapporto coscienza-mondo al centro. A essere originaria non è l’intenzionalità ma la corporeità, che si definisce come un pathos, una auto-impressionalité, una materia affettiva. Il pathos per Henry non implica alcun tipo di relazione: con ciò non intende escludere soltanto una relazione soggetto-oggetto (che si costituisce nel “mondo della rappresentazione”), ma nessuna forma di relazionalità è originaria nemmeno nel “mondo della volontà”. È proprio parlando di Schopenhauer che Henry afferma: «è la sua auto-affezione indipendentemente dalla differenza “del soggetto e dell’oggetto”, “del conosciuto e del conoscente”, indipendentemente dalla Differenza come tale, che costituisce l’essenza della vita»51. In

50.  Ivi, p. 31. Commenta questo passaggio Ronchi: «Un’interiorità che è difficile da concepire perché deve conciliare gli opposti della distanza da sé (senza la quale non c’è coscienza) e della immediatezza più assoluta, senza varchi da cui possa filtrare la luce della relazione e da cui possa passare il demone del regresso ad infinitum. Invischiato anche lui, come ogni fenomenologo conseguente, nel pantano dell’aporia, Henry assegna alla “vita” questa autoaffezione senza estasi che fonda l’intenzionalità della coscienza, differendo tuttavia per natura da essa» (R. Ronchi, Il puro apparire, cit., p. 32). Meriterebbe un’ampia riflessione a parte quell’“esclusione radicale” di ciò che è al di fuori della vita; ci si potrebbe chiedere, ad esempio, come sia possibile che la rappresentazione, o l’ideale, o la coscienza, o il linguaggio siano così “al di fuori” della vita. In fondo, è proprio Nietzsche a ricordare continuamente come qualsiasi prodotto (storico, culturale, artistico, religioso) da lui ferocemente criticato non sorga da una radice altra dalla volontà di potenza, benché cresca come “pianta malata”. Si veda, ad esempio, il caso della cattiva coscienza, una “pianta”, per quanto inquietante, che appartiene in ogni caso alla «vegetazione terrestre» (F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 71). 51.  M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., p. 201 (corsivo mio). Ciò non significa che Henry non si ponga la questione della relazione all’“altro”.

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definitiva, l’essenza della vita per Henry è auto-affezione indipendente da ogni Differenza. Ci limitiamo a ricordare che, invece, è proprio tramite il concetto di Differenza che Deleuze pensa una pura affermazione, per liberarsi dall’“antica maledizione” del negativo. Abbandonare il campo della rappresentazione, che scompone l’esperienza in un soggetto che vede e un oggetto che è visto, è deleuzianamente l’opposto dell’auto-affezione: «ogni cosa, ogni essere deve vedere la propria identità assorbita nella differenza, non essendo altro che una differenza tra differenze. […] Tocca a ogni differenza di passare attraverso tutte le altre e di “volersi” o di ritrovarsi anch’essa attraverso tutte le altre»52.

Il principale luogo testuale in cui Henry affronta il problema è l’articolo Pathos-avec, in Phénoménologie matérielle (1990), diviso in due parti: nella prima Henry riflette a partire dalla quinta meditazione cartesiana di Husserl; qui la critica all’intersoggettività consegue direttamente dalla critica all’intenzionalità, che per Henry non solo non riesce a spiegare il rapporto all’altro ma nemmeno il rapporto a sé. L’obiettivo è pensare la relazionalità a partire dall’auto-affezione, non dalla coscienza-di. La seconda parte, Pour une phénoménologie de la communauté, specifica che l’essenza di ogni comunità possibile, di ciò che è comune, è la vita; ma la soluzione proposta resta problematica, in quanto se anche l’auto-affezione di ogni vivente è universale, non si può dedurre automaticamente comunicabilità tra un vivente e l’altro. Henry esplora diversi esempi di comunità, la comunità degli ammiratori di Kandinsky, ad esempio, la relazione del bambino alla madre e del transfert psicanalitico, ma lo sforzo di pensare la relazionalità abbandona l’analisi propriamente filosofica per svilupparsi su un terreno teologico nelle sue ultime opere, come Incarnation. Qui la vita diviene l’Archi-figlio, Cristo, principio al contempo di individuazione e di intersoggettività. Cfr. F. Khosrokhavar, La scansion de l’intersubjectivité: Michel Henry et la problématique d’autrui, in «Rue Descartes», n. 35, 2002, pp. 63-75. 52.  G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. 79 s. La filosofia deleuziana si sforza di pensare un puro rapporto, cioè un rapporto indipendente dai suoi termini: «La difficoltà di focalizzare concettualmente un rapporto del genere non sta in una sua presunta impossibilità, in termini logici, ma nel fatto che

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Ein “Anders”. Si è già intuito che, volendo riflettere sull’“altro”, sul “fuori”, è a Deleuze che occorre rivolgersi. «Poiché ogni forza ha un rapporto di dominio o di obbedienza con altre forze, un corpo verrà a definirsi in base al rapporto tra forze dominanti e forze dominate»53. In questa prospettiva l’essenza di una forza è il rapporto tra forza e forza. Le forze dominanti sono dette “attive”, quelle dominate “reattive”; Deleuze non ha in mente un puro rapporto quantitativo (quello che, si è visto, escluderà anche Henry, in virtù del quale basterebbe al forte incontrarsi con uno “più forte” per diventare debole); la quantità di ciascuna forza non è un valore assoluto, di per sé misurabile. Proprio in quanto una forza è sempre e necessariamente in esercizio, verrà determinata di volta in volta da “incontri”. È da questa natura relazionale della forza che segue il suo attributo principale, ovvero il potere di essere affetta: Tale potere non è una possibilità astratta, ma quell’elemento che in ogni istante esprime l’affetto che una forza necessariamente subisce dall’azione che le altre forze esercitano su di essa. […] Difficilmente si potrebbe disconoscere in tutto ciò una ispirazione spinoziana […]. Anche in Nietzsche il potere di essere affetto non significa passività, ma affettività, sensibilità, sensazione.54

Questa affettività non è un puro sentire se stessa, ma è piuttosto un sentire immesso in un processo sempre in atto. «La sensibilità non è altro che un divenire delle forze […]. Lo studio concreto delle forze implica necessariamente una dinamica»55,

implica la reciproca immanenza dell’infinito e del rapporto» (G. Deleuze, Cosa può un corpo, cit., p. 134). 53.  G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 60. 54.  Ivi, pp. 92 s. 55.  Ivi, p. 96 (corsivo mio). Commenta Zourabichvili: «La forza non esiste che in relazione, cioè in esercizio. Ma non solo, è in relazione con un’altra forza, perché i suoi effetti superiori sono di dominazione, e non di semplice

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scrive Deleuze nelle pagine su Nietzsche. L’accento è, in definitiva, posto sulle dinamiche di incontri, sugli incontri di forze, che solo in quanto tali sono pathos. Seguendo questo itinerario ermeneutico anche Deleuze si po­ ne la domanda: in cosa consiste la debolezza del debole? La risposta è considerevolmente diversa da quella che, si è visto, darà Henry qualche anno più tardi: Nietzsche chiama debole o schiavo non chi è meno forte, ma chi, qualunque sia la sua forza, è separato da ciò che è in suo potere. La misura e la qualificazione delle forze non dipendono allora da una quantità assoluta ma dalla loro relativa realizzazione: chi riesce infatti, seppur dotato di forza inferiore, a portare quest’ultima al suo limite estremo, risulterà forte al pari di chi lo è già.56

Sorge qui un dubbio: ci si chiede infatti se non vi sia contraddizione tra l’idea di Nietzsche – precedentemente ricordata e accolta anche da Deleuze – secondo cui ogni potenza trae in ogni istante la sua estrema conseguenza, e la tesi di Deleuze secondo cui il debole sarebbe separato da ciò che è in suo potere. Il fulmine è inseparabile dal suo bagliore: riconosciuto ciò, ovvero riconosciuto che una forza si esercita necessariamente, non si vede più come il debole possa essere separato da ciò che è in suo potere. In che senso una forza è “separata” da ciò che può? Che differenza sussiste, se sussiste, tra una forza che “trae la sua estrema conseguenza”, come scrive Nietzsche, e una forza che si “realizza relativamente”, come afferma Deleuze? Questa è una prima questione, a cui se ne aggiunge una seconda. Per Deleuze, infatti, il modo in cui una

distruzione. Di qui la sua irriducibilità alla violenza, che consiste nel distruggere una forma, nel decomporre un rapporto» (F. Zourabichvili, Deleuze. Une philosophie de l’événement, PUF, Paris 19962, p. 40; traduzione mia). 56.  G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 91 (corsivo mio).

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forza reattiva opera è proprio separando una forza attiva da ciò che è in suo potere. Dunque, l’idea di “separazione”, o di “sottrazione”, entra in gioco parlando del debole tanto rispetto a se stesso, quanto rispetto al forte. Sebbene «la sottrazione implic[hi] sempre un qualcosa di immaginario, che consiste nell’utilizzazione negativa del numero»57, gli effetti di una tale sottrazione di potenza non sono immaginari ma decisamente reali: ne risulta l’impossibilità delle forze attive – dei nobili, dei signori, degli aristocratici – di esplicare sino in fondo la propria potenza. La morale degli schiavi ha concretamente inibito la morale nobile. Terza questione, Deleuze si chiede se non sia proprio questa capacità di sottrazione l’attività – certamente peculiare, ma comunque attività – delle forze reattive: Ma la forza reattiva, operando la separazione, non si spinge forse a suo modo fino al limite di ciò che è in suo potere? E se la forza attiva, una volta separata, diventa reattiva, la forza reattiva che separa non diventa per contro attiva? Non potrebbe consistere in questo il suo modo di essere attiva? In termini concreti: la bassezza, l’infamia, la stoltezza, ecc. non diventano forze attive nel momento in cui giungono al limite estremo della loro possibilità?58

I punti di domanda si complicano e si moltiplicano. Deleuze risponde che ci sono senza dubbio punti di vista differenti a partire dai quali guardare a una forza reattiva, e un esempio emblematico è la malattia. Quest’ultima separa il corpo da ciò che è normalmente in suo potere, limita i movimenti, le possibilità, le azioni che un corpo sano può compiere; per altro verso, rivela potenze che quel corpo forse non conosceva e che tuttavia gli appartengono, insegna «nuove maniere di essere

57.  Ivi, p. 86. 58.  Ivi, p. 98 (corsivo mio).

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affetti. Il divenire-reattivo delle forze ha un che di prodigioso e di pericoloso»59. Si può inoltre notare, come fa Brusotti, che l’espressione “forza reattiva” in effetti non appare nella Genealogia della morale. In quest’opera, sostiene, non vengono usate categorie reattive nemmeno per descrivere fenomeni nichilistici e ascetici: Deleuze fraintenderebbe l’opposizione attivo-reattivo con l’opposizione forza attiva-forza reattiva, perché la reattività per Nietzsche non è in alcun modo una qualità interiore della forza60. Senza voler marcare una distinzione troppo netta tra un piano fisico o ontologico e uno “etico” (nel senso spinoziano, e in ogni caso non “morale”61), si potrebbe provare a distinguere il modo in cui Nietzsche parla di forze, mutuando e rielaborando

59.  Ivi, p. 99. Sarebbe interessante approfondire l’influenza su Nietzsche della biologia del suo tempo, in particolare in relazione al concetto di eccitabilità. La nozione fisiologica di Reiz è centrale per i biologi Bernard, Virchow e Roux, che la pongono come essenziale per la definizione del vivente. Commenta a questo proposito la Stiegler, al cui testo Nietzsche e la biologia si rimanda: «Il segno della vita più elevata non va ricercato in questa capacità della vita di rinchiudersi su se stessa, ma nella sua capacità di aprirsi il più possibile […] di sopportare l’altro, il nuovo, l’estraneo». Di qui l’importanza delle eccitazioni più violente in assoluto, come le ferite, le lesioni organiche, le malattie, che diventano occasioni di assimilazione e di crescita. Cfr. B. Stiegler, Nietzsche e la biologia, tr. it. di F. Leoni, Negretto Editore, Mantova 2010, pp. 62-64. 60.  «Is dann nicht alles und jedes aktiv?» (M. Brusotti, Wille zum Nichts, Ressentiment, Hypnose. ‘Aktiv‘ und ‘Reaktiv’ in Nietzsches Genealogie der Moral, in «Nietzsche Studien: Internationales Jahrbuch für die Nietzsche-­ Forschung», vol. 30, n. 1, 2001, pp. 107-132: p. 111). 61.  «Spinoza non fa mai della morale, per la semplice ragione che non si chiede mai cosa si “deve” fare. Piuttosto, si interroga su cosa si è in grado di fare, sulla potenza. Un’etica ha a che fare con la potenza, mai con il dovere» (G. Deleuze, Cosa può un corpo?, cit., p. 58).

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le sue idee a partire dalla scienza del suo tempo, e il discorso che lo vede impegnato a riflettere sui concetti di misura e di limite. Con Deleuze: «Qual è il rapporto tra ontologia e etica? Questa questione è il cuore della filosofia»62. Se la filosofia di Nietzsche disegna, come sostiene Deleuze, un’ontologia immanente, ciò da un lato esclude automaticamente ogni tipo di regola o di principi esterni; e d’altro canto non scompare assieme al valore della morale anche quello dell’etica. La scena dove si distribuiscono le forze – un “fuori” che è un non-luogo, quel fuori per Henry “secondario” – deve avere un’autonormatività intrinseca, che consentirebbe alle forze, guardate non dal punto di vista di ciascuna ma dal punto di vista di Dio (ancora una volta, il Dio di Spinoza), di combinarsi in maniera affermativa. Per spiegare che “potenza” non significa “violenza”, Deleuze deve intrecciare profondamente le sue letture di Nietzsche e di Spinoza63. Non basta parlare di un’estrinsecazione di potenza, cieca e selvaggia, perché ci sia affermazione. È nell’ontologia spinoziana che Deleuze può andare a fondo della problematica: «non esiste decomposizione nella natura perché la natura è infinita. Abbracciando tutti i rapporti, non conosce che composizioni»64. In questo senso la sottrazione ha sempre qualcosa di immaginario, in quanto pertiene solo a un punto di vista particolare, laddove da un punto di vista impersonale non c’è che addizione. La sostanza spinoziana è al di là del bene e del male perché non conosce che composizione infinita di rapporti,

62.  Ivi, p. 172. 63.  Interessante l’osservazione di Mullarkey, che nota l’influenza di Spinoza tanto su Deleuze quanto su Henry, ma con esiti diversi: «They read Spinoza in very different ways. Spinoza’s double name for reality, ‘Deus sive Natura’, is split and taken in separate directions by Henry and Deleuze respectively. Where Henry forwards an immanent theism, Deleuze follows an immanent naturalism» (J. Mullarkey, Post-Continental Philosophy, cit., p. 50). 64.  G. Deleuze, Cosa può un corpo?, cit., p. 101.

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non è che un trionfante Sì; il “male” è un cattivo incontro dal punto di vista di un singolo modo, è il No per un singolo corpo. Potremmo allora dire che la morale degli schiavi è fatta per lo più di cattivi incontri, mentre una morale nobile guarda e cerca quelli buoni, che consentono a ogni forza in relazione a tutte le altre di raggiungere il massimo di ciò che può. Si tratta di sviluppare un’“arte” della composizione dei rapporti, di trovare, attraversando molteplici esperienze, i rapporti che si compongono con noi e trarne le dovute conseguenze: evitare al massimo – anche se evitarli completamente è impossibile – i rapporti di decomposizione, e viceversa cercare al massimo quelli favorevoli. […] Ma insisto, senza alcuna conoscenza preliminare, senza alcuna scienza. Perché non di scienza si tratta. È esperienza vissuta.65

L’esperienza dell’affermazione è un’esperienza gioiosa; il Sì della prima morale, si è visto, è pronunciato con «gratitudine e gioia»66. Non porta soltanto agli estremi ciò di cui un corpo è capace, ma lo fa appunto proprio senza bisogno di negare, di opporsi alla potenza dell’altro, liberandosi dal No come motore. «Il “giungere al limite”, il “portare all’estremo i propri effetti” ha infatti due sensi, a seconda che si affermi – la propria differenza – o che si neghi – ciò che differisce»67, è la risposta deleuziana. Molti interrogativi rimangono aperti, ma si potrebbe concludere con una simmetria simpatetica a quella dell’affermazione nietzschiana da cui si è partiti: non solo la lettura di Henry, ma anche quella di Deleuze ne comporta infatti una parziale riscrittura, questa volta nella sua prima parte. «Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato 65.  Ivi, p. 129. 66.  F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 26. 67.  G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 101.

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a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un “di fuori”, a un “altro”, a un “non io”». Seguendo Deleuze, ogni morale aristocratica non germoglia, almeno non soltanto, da un trionfante Sì pronunciato a se stessi, ma anche da un Sì pronunciato all’altro, al fuori, al non-io.

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Hegel e la realtà del pensare A partire da una Nota della Scienza della logica dedicata al principio del fondamento Giulio Goria

1 La Nota (Anmerkung) che, nella Scienza della logica, Hegel inserisce quasi in apertura del terzo capitolo, dedicato al “fondamento” (Grund), nella prima sezione della «Dottrina dell’essenza», ha per oggetto il principio del fondamento, o di ragione. In questo modo, il Satz des Grundes – come Hegel definisce il principio – chiude un cerchio aperto in un’altra e di poco precedente Nota, che fa da preparazione questa volta alla disamina delle determinazioni della riflessione. Quella osservazione annunciava quanto poi Hegel avrebbe fatto nelle pagine successive, attraversando identità, differenza, contraddizione e in ultimo, appunto, fondamento. E cioè, riprendere l’antico costume della filosofia di raccogliere i princìpi primi in forma di proposizioni. Proprio in apertura della Nota che a noi interesserà in queste pagine, Hegel stesso ricorda che «Il fondamento, come le altre determinazioni della riflessione, è stato espresso in un principio [in einem Satz]».1 Va osservato che la traduzione italiana 1.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, tr. it. A. Moni, riv. da C. Cesa, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1981, vol. II, p. 498.

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riporta “principio”, ma si potrebbe leggere: proposizione. Si ha infatti buon gioco a indugiare su questa fruttuosa indecisione, resa possibile dalla particolare natura della proposizione, e in particolare dal fatto che, almeno secondo Hegel, il contenuto proposizionale possiede già in sé la relazione, anzi in qualche modo esso è relazione (Beziehung), a differenza invece del semplice giudizio, dove la relazione è espressa in maniera tutto sommato generica dalla copula2. Se queste sono le premesse, allora il principio di ragione può assumere una enunciazione proposizionale di questo genere: «Ogni cosa ha la sua ragion sufficiente, cioè appunto il suo fondamento»3. Quello che esprime questo principio deve essere inteso come una proposizione, e occupando l’ultima “stazione” – dopo identità, differenza e contraddizione –, esso sarà la ragione di ogni precedente proposizione fondamentale (Grundsatz). Hegel infatti avverte che sarebbe del tutto illogico considerare queste proposizioni fondamentali l’una dopo l’altra, a mo’ di enumerazione, come se non avessero nessuna relazione tra loro. D’altra parte, di proposizioni della riflessione si tratta. E perciò, secondo Hegel, la loro verità sta in un’adeguata comprensione della loro determinatezza; in particolare, di ciascun principio va considerato l’elemento che ne «trascina nel passare»4 indipendenza e autosussistenza. Precisamente da qui, da questa sottoposizione del principio-proposizione al corso della riflessione, deriva poi il fatto che proprio quei principi divengono semplici momenti logici non separati né separabili l’uno dall’altro. Ogni principio infatti, in quanto proposizione, è la posizione di qualcosa in quanto qualcosa; e perciò ogni proposizione è anche la preposizione di una proposizione altra e precedente che ne sia la 2.  Cfr. ivi, p. 456; vale la pena ricordare che questa Anmerkung porta il titolo indicativo Le determinazioni della riflessione in forma di proposizioni. 3.  Ivi, p. 498. 4.  Ivi, p. 457.

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ragione e la giustificazione di senso5. Insomma, l’intero corso delle determinazioni della riflessione è cadenzato da questa traduzione in forma di proposizioni, e dallo sforzo di rinvenirci dentro «l’occulta necessità di aggiungere all’identità astratta anche il di più di quel movimento»6. Da questo punto di vista, il principio di ragione, o del fondamento, è l’ultima tra le proposizioni fondamentali, giacché esso è il luogo su cui insistono tutte le proposizioni che fungono da base per le dimostrazioni delle diverse sfere del conoscere. In queste pagine hegeliane non è in gioco la posizione apicale del Grund, e del principio annesso, in una struttura del sapere rigidamente architettonica e composta di semplici leggi del pensiero. A questo proposito, la stessa Critica della ragion pura offre già ampi e soddisfacenti motivi per raccogliere il senso dei Grund-sätze in maniera differente. Anche per Kant infatti le proposizioni fondamentali, più che condizioni logiche da rispettare, rappresentano ipo-thesi, in senso strettamente platonico7. Ovvero: ciò che serve alla ragione, attraverso l’intelletto, e dunque attraverso l’immaginazione, per determinare la forma entro cui ogni oggetto potrà apparirmi in modo tale che ne possa fare esperienza8. Già in quest’uso che Kant fa dei Grund-sätze emerge la loro caratteristica né semplicemente 5.  Secondo quel movimento ponente-presupponente che proprio la riflessione mette in mostra; cfr. ivi, pp. 445-447. 6.  Ivi, p. 462. 7.  Interpretando questa origine platonico-mathematica del principio come ipo-tesi, Heidegger ha scritto, nel corso di lezioni del 1955-56 tenute a Friburgo dal titolo Der Satz vom Grund: «Ὑπόϑεσις significa ciò che sta già a fondamento di qualcos’altro e che mediante l’altro è già sempre venuto in luce, anche se noi uomini non subito e non sempre ce ne accorgiamo espressamente» (M. Heidegger, Il principio di ragione, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991, p. 37). 8.  Il riferimento fondamentale è alla definizione del principio di tutti i giudizi sintetici a priori, contenuto nel secondo libro dell’Analitica trascendentale,

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logico-formale, né semplicemente di giudizi sintetici a priori della fisica, come saranno invece quelli dei Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft. Le proposizioni fondamentali sono invece i binari di transizione tra l’ambito della logica e quello della natura, e come tali anche per Kant non possono appartenere né soltanto all’uno né all’altro9. Se stiamo a questo significato metafisico del principio come Grund-satz, dobbiamo riconoscere che esso ricorre anche nel Satz des Grundes hegeliano, che infatti ha uno statuto di validità, in senso proprio, ontologico. Ma questa natura metafisica della ragione sufficiente era la vera questione anche per Leibniz. Hegel ne era convinto a tal punto da affermare, in un’Aggiunta alla Scienza della logica dell’Enciclopedia, che sarebbe il torto più grande imputare a Leibniz la considerazione meramente formalistica del suo principio10. Con i termini di Hegel: se Leibniz non si limitava a pretendere genericamente un fondamento per ogni cosa, e cioè a soddisfare un raziocinare formalistico destinato all’insuccesso, perché bulimico di ragioni (Gründe) finite da far valere come ragioni sufficienti, è perché egli aveva compreso che il principium grande è ciò che articola il passaggio tra logica e fisica, tra pensiero ed essere.

dedicato ai Grundsätze, cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1967, A 158 B 197. 9.  Potremmo aggiungere che convergono qui i problemi di Kant nel definire che cosa sia la filosofia in senso trascendentale, se essa sia una metafisica, un’ontologia o una semplice analitica. Senza poter sviluppare qui il tema si rimanda in proposito alle considerazioni che fa G. Rivero nel suo Zur Bedeutung des Begriffs Ontologie bei Kant, de Gruyter, Berlin 2014 (spec. p. 5). 10.  Cfr. G.W.F. Hegel, La scienza della logica, a cura di V. Verra, UTET, Torino 2004, pp. 323-326.

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2 Non è soltanto Hegel, naturalmente, ad insistere sul carattere ontologico del principio del fondamento. Nel saggio Vom Wesen des Grundes, Heidegger offre un articolato confronto con Leibniz e la sua formulazione del principio di ragione. Ciò che ne caratterizza l’interpretazione, secondo Heidegger, è la progressiva articolazione attraverso tre diversi quesiti: «Perché così e non diversamente? Perché questo e non quello? Perché, in generale, qualcosa e non niente?»11. Se per tutti e tre gli interrogativi, da un punto di vista metodologico, la ragion sufficiente (la ratio cur) risulta essere la risposta, diverso è invece l’ambito problematico su cui le domande sorgono. Le prime due, infatti, si rivolgono a un ente particolare e si collocano perciò all’interno della totalità dell’ente; l’ultima invece comporta uno spostamento di piano, tematizzando non tanto un ente specifico, né uno specifico ambito regionale dell’ente, quanto piuttosto la totalità di ciò che è, e dunque l’ente in quanto tale nella sua totalità12. Soppesando questo spostamento in direzione del piano ontologico più proprio, Heidegger ricorda in più occasioni che lo stesso Leibniz metteva a fuoco la questione domandando, nei Principi sulla natura e sulla grazia, “Pourquoi il y a plutôt quelque chose que rien?”13. L’intento di Heidegger è però quello di 11.  M. Heidegger, Dell’essenza del fondamento, in Id., Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2004, p. 125. 12.  Sul tema del fondamento per un confronto tra Hegel e Heidegger che va anche oltre gli espliciti riferimenti del secondo al primo si vedano: L. Lugarini, Hegel e Heidegger. Divergenze e consonanze, Guerini, Milano 2004, pp. 313 ss. e V. Vitiello, Dialettica ed ermeneutica: Hegel e Heidegger, Guida, Napoli 1979, pp. 45 ss. 13.  Heidegger lo farà innanzitutto nella Prefazione del 1949 a Was ist Metaphysik?, ma, come noto, la Einführung in die Metaphysik costituisce un lungo approfondimento della questione metafisica fondamentale.

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radicalizzare la questione del fondamento, e perciò aprire all’eventualità che il nulla stesso sia eretto a fondamento dell’ente. Questa è la strada prescelta nelle pagine dell’Introduzione alla metafisica. In questa prospettiva, più ancora, forse, della proposizione di Leibniz, è messa in gioco l’implicazione che ne trasse Wolff: «kann […] aus nichts nicht etwas werden», da nulla non può divenire qualcosa14. È infatti da questa pronuncia che risulta estromesso e vanificato l’aforisma inverso – ex nihilo omnes ens fit – e di conseguenza l’oscil­lazione possibile tra essere e nulla. Quando interpreta il principio del fondamento, fissandoci sopra la questione della metafisica, Heidegger ha in mente probabilmente questo tipo di interdetto. Da questo punto di vista, una volta individuato il piano ontologico della questione, il problema che resta in campo non è decidere su cosa si fondi l’ente in quanto ente, e con esso la sua incontrovertibilità, ma piuttosto se esso sia, e cioè quale verso possieda la prestazione fondativa messa in campo dal fondamento. Tutto ciò è contenuto nell’alternativa tra essere e nulla, che agli occhi del filosofo di Messkirch compare nella domanda leibniziana. A questo punto, però, la questione del Grund cambia senso; Heidegger la sottopone a una radicalizzazione tale da espellerla dall’ambito dell’ente, riformulandola come questione concernente l’alternativa tra essere e nulla. Questo significa fare posto alla differenza ontologica, all’irriducibilità dell’essere all’ente, ma soprattutto chiarire attraverso quale modo il nulla entri nella questione stessa dell’essere dell’ente: se cioè con il significato di negazione assoluta, come assolutamente altro dall’ente, o se invece non si riveli come il senso pieno dell’essere.

14.  Cfr. Ch. Wolff, Philosophia prima sive ontologia, Leipzig 1789 (rist. Olms, Hildesheim 1962), §§ 57-60.

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Malgrado tutto ciò, e malgrado il fatto che la co-implicazione di essere e nulla conduca Heidegger, nella famosa Prolusione del 1929, a menzionare l’identificazione hegeliana tra essere e nulla che compare nella prima triade della Scienza della logica, va detto che nel fondamento hegeliano – e, dunque, anche nella delucidazione dedicata da Hegel al principio di ragione sufficiente – a tenere banco è esattamente la questione della negatività15. Per darne una prima giustificazione è sufficiente ricordare che il Grund compare proprio all’interno della «Dottrina dell’essenza», e l’essenza, al suo comparire, si pone come la negazione dell’essere e della sua sfera. Hegel commenta in proposito che al livello dell’essenza si ha a che fare solamente con «la negazione in sé che ha un essere solo come negazione che si riferisce a sé»16 ed è perciò negazione assoluta. Possiamo ipotizzare che agli occhi di Heidegger questa dislocazione hegeliana del Grund confermerebbe che i nessi tra essere ed essente, tra concetto e realtà, siano disposti a partire da una richiesta logica – da Λόγος – di fondazione. Ne è traccia il giudizio espresso nel testo della conferenza Hegel e i Greci, contenuto in Segnavia, dove si legge che in Hegel il rapporto tra essere e pensiero pende costitutivamente verso quest’ultimo, dato che «egli non può sciogliere l’εἶναι, l’essere in senso greco, dal riferimento al soggetto, e liberarlo nella sua essenza propria»17. Anche per Heidegger non è in questione che l’essere sia riferito al pensiero, ma semmai ciò che in questa destinazione è l’elemento dominante. In altre parole, non il disvelamento dell’essere nel pensiero, ma il tratto di questo disvelamento, la possibilità, cioè, che entro di esso sia man-

15.  Per quanto riguarda la citazione, menzionata, che Heidegger fa della prima triade della Scienza della logica, si veda M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, in Id., Segnavia, cit., p. 75. 16.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 444. 17.  M. Heidegger, Hegel e i Greci, in Id., Segnavia, cit., p. 388.

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tenuto un «velamento di cui ogni svelare ha bisogno»18. Questo tratto in Hegel assume una dominante diversa e, secondo Heidegger, in linea con tutta la metafisica moderna: l’identità dell’essere, dell’esser-sé dell’essente, prende la forma del sapere, di un Sé che è sapersi. Per quanto non risulti strettamente decisivo al nostro svolgimento, resta il fatto che il modo in cui Heidegger accentua il profilo soggettivistico del logos hegeliano conserva un’indicazione utile anche per noi. Per capirlo, è sufficiente un breve sguardo alla conclusione dell’Osservazione hegeliana sul Grund. Essa si conclude in maniera forzata, o quanto meno con una sospensione e un rimando forzati. Poiché infatti – così Hegel – la figura compiuta del fondamento è la determinazione teleologica, vale a dire «una proprietà del concetto e di quella mediazione per via di esso, che è la ragione», e a cui, perciò, l’essenza ha in qualche modo creato lo spazio, non si può fare altro che rimandare l’occupazione di questo spazio al momento in cui il concetto stesso si sarà palesato, e cioè alla «Dottrina del concetto»19.

3 Prima di arrivare a questo punto, però, è bene seguire passo per passo il testo dell’Osservazione hegeliana. Essa ci avverte innanzitutto che il principio di ragione, letteralmente, non principia alcunché. Non è il principio primo di tutti e, in secondo luogo, esso è un principio determinato secondo la forma, ma indeterminato per quanto riguarda il contenuto. La sua formulazione – la generica “ogni cosa ha la sua ragione” – esprime un aspetto del fondamento su cui Hegel di lì a poche 18.  Ivi, p. 389. 19.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 499.

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pagine insisterà con forza: il fatto che il fondamento non ha un contenuto determinato in sé e per sé, e quindi non è autonomo né produttivo di nulla20. Perciò il senso del principio di ragione diventa nelle parole hegeliane: «ciò che è, non si deve considerare come un essere immediato, ma come un posto»21. Significa che l’essere, nel suo carattere immediato, è il non vero, qualcosa di posto, mentre il veramente immediato (wahrhafte Un-mittelbar) è il fondamento. Da questo consegue una conclusione di grande importanza, e cioè che né nel pensiero né nell’essere si dà qualche cosa di immediato. Non lo è infatti il principio, che non è di per sé noto al conoscere, né il principiato, ciò che in esso avrebbe principio, e cioè né la serie delle idee (ordo idearum) né la serie degli esistenti (ordo rerum). Immediata è semplicemente la loro mediazione. Qui c’è il primo punto su cui bisogna porre attenzione. Hegel sta infatti ripetendo il movimento di internamento dell’essenza nell’essere. Grazie a questo processo riflessivo, egli mostra che l’idea di un pensiero libero di aggirarsi intorno alla realtà e, insieme, di una realtà che attenda, immobile, l’arrivo del pensiero, è basata su una funzione strumentale dei concetti (e, di conseguenza, del pensiero), che sarebbero intesi come arnesi di collegamento tra una supposta mente individuale e la realtà che le starebbe di fronte. Questo problema, su cui avremo modo di tornare, nella Nota in questione fa da cornice al rifiuto da parte di Hegel di un principium che rimandi ad un primo inizio causa sui. Che esso sia la substantia di Spinoza,

20.  Su questa Osservazione ha attirato l’attenzione Felix Duque in un ampio intervento dal titolo Come dare ragione del Principio di ragione, apparso nel fascicolo Hegel. Scienza della logica, in «Teoria», XXIII, n. 1, 2013, pp. 101-128. 21.  Ivi, p. 498.

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il Dio di Leibniz o l’Io assoluto di Fichte, tutte queste figure dell’inizio rivelano, in realtà, una ragione che ha deciso la connessione (l’idem esse) dell’ordine ideale e dell’ordine reale in maniera ancora unilaterale, vale a dire non riconoscendo di doversi soffermare allo stesso tempo sull’una e sull’altra serie. Il che è proprio quanto Hegel farà, costruendo un modo altro di guardare al Grund, che consenta di porre fine al vano andare in circolo che nella moltiplicazione delle condizioni ci sbalza via dalla costituzione della cosa. Operando in questo modo, beninteso, non si elimina il circolo tra condizioni e condizionato. Ma se il fondamento non si riduce più ad uno dei due momenti del rapporto fondamentale, pareggiando invece il Grund con l’intera Grundbeziehung, allora si potrà prendere congedo anche da ciò che rendeva quello un circolo vuoto. A venire meno, cioè, nel fondamento completo è l’idea che la Cosa (Ding), costituita così come essa effettivamente esiste, sia l’effetto soltanto delle sue determinazioni essenziali (il fondamento reale) e non anche della relazione tra queste e tutte le altre condizioni com-presenti22. Se questa è la chiave di lettura offerta dalle pagine dedicate al fondamento, prima come «assoluto», poi «determinato» ed infine come «condizione», è chiaro che, trovandosi alle prese con il principium grande, Hegel abbia due estremi da cui tenersi alla larga. Da un lato, l’idea che la formulazione immediata – Nihil est sine ratione – esprima con altre parole il classico principio di causalità, nella sua duplice radice individuata da Wolff e Schopenhauer, nella quale sarebbe conte-

22.  Una disamina allo stesso tempo aderente al testo hegeliano e capace di offrire spunti che vanno anche oltre di esso è offerta da B. Longuenesse nel suo Hegel’s Critique of Metaphysics, tr. eng. di N.J. Simek, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 103 ss. Si veda anche S. Rosen, The Idea of Hegel’s Science of Logic, The University of Chicago Press, ChicagoLondon 2014, pp. 307 ss.

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nuta l’esigenza di offrire la ratio essendi o la ratio fiendi della cosa. Dall’altra parte, anche esclusa la via che conduce il principio nei pressi della causa efficiente, resta in piedi l’idea che il principio di ragione possa tradursi in un semplice principio logico. Responsabile dell’equivoco – si potrebbe credere – è lo stesso Leibniz il quale, scrivendo ad Arnauld, osservava che, al di là dell’«assioma popolare secondo cui nulla accade senza ragione», il senso essenziale del grande principio è che «ci sia un qualche fondamento della connessione dei termini di una proposizione, che deve trovarsi nelle loro nozioni»23. Sarebbe un errore però credere che, avendo a che fare con proposizioni e nozioni, il principio abbia un impiego soltanto formale. Per chiarire la sua consonanza con Leibniz su questo punto, Hegel scrive che quello contrappose «la sufficienza della ragione principalmente alla causalità nel suo senso più stretto»24, vale a dire come forma dell’agire meccanico. Insomma, il filosofo di Lipsia aveva ben chiara l’esigenza di dirigersi verso qualcosa di sufficiente per esprimere l’«unità delle determinazioni». Quella «unità essenziale», però, non può essere rinvenuta nelle «cause del meccanismo», ma – aggiunge Hegel facendosi interprete di Leibniz – è offerta esclusivamente «nel concetto, nello scopo»25. Questo commento hegeliano consente in primo luogo di prendere nel giusto verso il pensiero leibniziano sopra letto. Esso non ha nulla di formalistico, ma richiede di prendere il fondamento come ciò che si trova già implicato nelle pieghe di ogni monade (intimior intimo suo); non già in nome di un’identità o di un’essenza in cui le nozioni si risolverebbero come fossero verità necessarie, ma in virtù del migliore, vale a dire di ciò che 23.  G.W.F. Leibniz, Lettera ad Arnauld del 14 luglio 1686, in Id., Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, 3 voll., UTET, Torino 2000, vol. I, p. 327. 24.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 499. 25.  Ivi, p. 499.

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si adatta con il maggior grado essenziale alla perfezione dell’insieme di ciò che esiste di fatto, ma che potrebbe non esistere. E dato che tutto questo insieme di possibilità è contenuto in pari modo prospetticamente nella nozione di ogni monade, ne segue che ogni individuo monadico è orientato teleologicamente. In secondo luogo, nel brano letto Hegel offre una sintetica, eppure essenziale, riduzione in pillole della sua operazione. Essa prevede, da una parte, la rinuncia a collegare il fondamento ad una saggezza divina di qualche genere, e dall’altra la rinuncia a considerare la finalità come un principio semplicemente soggettivo26. Entrambe queste prese di distanza preparano, però, in maniera convergente l’acquisizione finale: trasformare il carattere semplicemente riflessivo-relazionale della ragione – quel carattere che implica un moto perpetuo di andata e ritorno tra fondamento e fondato, rispettivamente, in quanto ragion d’essere e conseguenza – in mediazione, che può essere raggiunta a partire dal carattere in sé e per sé essente del rimando. Nei termini propri della Scienza della logica, si tratta del passaggio grazie a cui la sostanza, divenuta ciò che «ha orrore della luce [das Lichtscheue]»27, da necessità assoluta, contro la quale continua ad essere contrapposto il contingente, infine si pareggia ad esso. Infatti, nei confronti delle effettive realtà libere, l’essenza «irromperà in esse e rivelerà ciò che essa è e ciò che esse sono»28. Ovvero: negazione

26.  Per quanto riguarda il primo aspetto, si può far riferimento alla Nota che nella Scienza della logica è dedicata alla filosofia spinozistica e leibniziana, ove, rispetto a quest’ultima, si legge: «Nel sistema leibniziano vi è per vero dire anche quest’altro, che cioè Dio è la fonte dell’esistenza e dell’essenza delle monadi, vale a dire che quei termini assoluti nell’essere in sé delle monadi non son termini che siano in sé e per sé, ma spariscono nell’assoluto» (ivi, p. 608). 27.  Ivi, p. 624. 28.  Ibidem (tr. modificata).

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della negazione, negazione della supposta indifferenza degli “individui” gli uni rispetto agli altri e del loro essere indifferenti rispetto all’indifferenza che realmente li costituisce ciascuno come diverso dagli altri. La necessità rappresenta un momento di massima parificazione di essere ed essenza. Essa, scrive Hegel, può essere considerata sia dal lato dell’essere sia dal lato dell’essenza: «È tanto semplice immediatezza o puro essere, quanto semplice riflessione in sé o pura essenza; è questo, che tutti e due sono un’unica e medesima cosa»29. Anche in questa occasione, come accadeva in precedenza con le determinazioni essenziali della riflessione, non manca la precisa enunciazione proposizionale di questo passaggio. L’assolutamente necessario dal punto di vista dell’essere «è soltanto perché è»30, senza nessun’altra condizione né ragion d’essere se non il semplice fatto che è. Ma il necessario è allo stesso tempo anche essenza, e perciò di esso va detto che «è perché è». Ovvero: esso è quello che è in quanto ha una condizione che lo vincola, ma come pura negatività assoluta esso è semplice riflessione in sé; vale a dire, quel perché, che ne è ragione d’essere, è soltanto se medesimo. L’una e l’altra formulazione, a ben vedere, si fondono insieme nell’equi­parazione di essere ed essenza, dove però altro non c’è che la necessità di ciò che «è dunque perché è»31. Come è noto, questa sostanza, però, che come negatività assoluta opera effettivamente senza sapere (kein Reflex) quel che mette in azione, va essa stessa a fondo (zugrunde), consentendo la derivazione da essa del Concetto. Ecco, dunque, perché la Nota hegeliana risulta un breve frammento dentro cui si riflette, all’interno della «Dottrina dell’essenza», l’intero movimento generativo-derivativo che avrà piena residenza

29.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 623. 30.  Ibidem. 31.  Ibidem.

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nella «Dottrina del concetto»32. D’altra parte è Hegel stesso a scrivere che la logica oggettiva «che considera l’essere e l’essenza, costituisce quindi propriamente l’esposizione genetica del concetto»33. Come se, dopo aver trattato del fondamento (Grund), la logica oggettiva fosse niente altro che il movimento di apparizione (Erscheinung) dello stesso fondamento fino alla liberazione della sostanza dall’ultimo suo presupposto: l’essere soltanto negatività assoluta, in quanto azione reciproca, di sé con sé nell’altro da sé, quell’altro che sono gli accidenti. Se il rapporto tra necessità e contingente rappresenta il vero nodo concettuale dentro cui sbatte il principio di ragione secondo Hegel, si capisce perché il rinvio che chiude quella Nota sia al concetto teleologico di scopo come la nozione che meglio esprime il fondamento e il relativo Grundsatz34. La ragione è detta proprio nelle pagine dedicate alla teleologia esterna nella logica del Concetto. Lo scopo contiene in sé, e si dà da sé, l’energia per la propria realizzazione, vale a dire che realizzandosi lo scopo non passa in qualche cosa d’altro da sé, ma rimane presso di sé. Lo scopo non è quindi «una forza che si estrinsechi, né una sostanza e causa che si manifesti in accidenti ed effetti»35. Quello che distingue sostanza e causa dallo scopo non è il movimento di estrinsecazione; da questo punto di vista, anche la prima, infatti, ha effettiva realtà, come riflessione

32.  Se questa ipotesi di lettura sta in piedi, forse si potrebbe considerare questo snodo come un ulteriore esempio di quella dinamica di ricorsività e retroazioni che Franco Chiereghin ha così ben individuato essere all’opera nella costruzione della Scienza della logica; si veda in particolare F. Chiereghin, Rileggere la Scienza della logica di Hegel, Carocci, Roma 2011, pp. 86 ss. 33.  Ivi, p. 652 (corsivo nostro). 34.  Per un’interpretazione articolata e non convenzionale di questo passaggio si veda sempre F. Duque, Come dare ragione del Principio di ragione, cit., pp. 119 ss. 35.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 841.

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di sé, soltanto negli accidenti, e in pari modo la forza possiede concreta esistenza nell’effetto. Quello che caratterizza lo scopo, allora, è lo stesso che distingue il concetto dall’essenza: ciò che in questa era riflessione in altro, nel concetto è assoluta immanenza dell’alterità. È indicativo l’esercizio di Hegel di comprendere il fine utilizzando le categorie che appartengono all’essenza, come forza e sostanza. L’imbarazzo, in questo caso, non deriva dal fatto che esse mancano il significato dello scopo, ma dal fatto che, una volta applicate ad esso, subiscono un contraccolpo letale. Non appena, cioè, si prova a determinare l’attività teleologica con le categorie dell’essenza, si deve riconoscere il loro sovvertimento, e cioè che nella teleologia «la fine è il cominciamento, la conseguenza è la ragion d’essere, l’effetto è la causa, ch’essa è un divenire del divenuto, che in lei giunge all’esistenza soltanto quello che già esiste»36. Ma c’è ancora un ulteriore elemento che, proprio a partire dalle pagine dedicate al principium grande, viene ora in piena evidenza. Si tratta del fatto che il movimento dell’oggettività – attraverso meccanismo e chimismo – giunge, nel concetto di scopo realizzato, a preservare una disparità di piani esplicativi tra la totalità relazionata ed il suo fondamento (Grund) come fine. Il fine, infatti, svolge la sua funzione di ragione e verità del rapporto meccanico e chimico soltanto se non è parificato e assorbito dalla totalità dei termini in relazione con cui, però, in quanto fine realizzato, pur sempre va a coincidere. Si può forse ipotizzare, dunque, che questa peculiare disparità sia una ripresa – o forse meglio, una ripetizione a più alto livello – di quell’asimmetria che nel Grund si verificava tra fondamento e fondato come sviluppo dell’asimmetria tra Wesen e Schein. In conclusione di questa breve esposizione del brano hegeliano da cui siamo partiti, possiamo affermare che il “ristabilimento”

36.  Ivi, p. 850.

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del concetto nello scopo è il luogo dove il tutto come «unità essenziale» trova la propria compiuta trasposizione nel sapere, di cui faceva menzione proprio la Nota sul principio di ragione. Scrive Hegel congedando il chimismo: «Il concetto, che ha tolto […] come esteriori tutti i momenti del suo esistere oggettivo e li ha posti nella sua semplice unità, è così completamente liberato dall’oggettiva esteriorità, alla quale si riferisce solo come ad una realtà inessenziale. Questo libero concetto oggettivo [objektive freie Begriff] è lo scopo [der Zweck]»37. In questo passo, da un lato, troviamo il problema del concetto hegeliano come giustificazione della sua relazione a sé; in altre parole, alla luce della natura del concetto, la questione non è affatto quella del suo riferimento alla realtà, ma quella dell’autodeterminazione di un concetto oggettivo dentro cui si muove il nostro pensiero umano. Dall’altro lato, questo brano evidenzia come questo pensiero, avanzando nella dimensione oggettiva del concetto, acceda a ciò che costituisce il suo proprio essere come sapere di sé; e lì si ritrovi perfettamente libero e non dominato da una potenza estranea38. Questo spazio di oggettività che caratterizza il concetto hegeliano è l’ultimo nucleo che dobbiamo affrontare.

4 La Nota hegeliana propone di considerare il fine come diretta ricollocazione del Grund all’interno del concetto, inteso questo, ora, come base (Grundlage) del fondamentum sive ratio. Questa chiave di lettura sembra raggiungere finalmente la realizzazione di quel pensiero oggettivo che è uno dei nuclei 37.  Ivi, p. 833. 38.  Su questo tema si rimanda a A. Ferrarin, Il pensare e l’io. Hegel e la critica a Kant, Carocci, Roma 2016, cap. II dal titolo Un pensare non umano?, spec. pp. 71 ss.

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principali del pensiero hegeliano. Guardando dunque a questo breve passo della «Dottrina dell’essenza», si tratta dunque di aggiungere soltanto un piccolo, eppur non insignificante, tassello al modo con cui le interpretazioni più attrezzate della logica hegeliana presentano la questione dell’oggettività del pensiero, e cioè evidenziando come il problema del rapporto tra pensiero e realtà superi le rigide partizioni tra idealismo e realismo39. A dir il vero già in precedenza, nella Scienza della logica, era venuta a cadere l’idea che la realtà possa essere il referente esterno che fa da guida rispetto al nostro pensiero. A questo scopo sono importanti due passaggi contenuti, da un lato, nell’apertura della «Dottrina dell’essenza», dall’altro nell’Introduzione alla Scienza della logica. In apertura della «Dottrina dell’essenza» la situazione descritta da Hegel prevede tre termini: essere, essenza e sapere. Giacché è diretto a conoscere «l’essere in sé e per sé [was das Sein an und für sich ist]»40, il sapere non rimane all’essere immediato, penetrando piuttosto in esso, nella supposizione che il fondo ad esso retrostante sia occupato da un altro dall’essere, e che tale altro sia la sua verità. Dovendosi procedere da un dato immediato verso la sua essenza, il primo senso di questo movimento sta in questo: la differenza tra essere ed essenza risulta estrinseca, appartenendo a quel terzo che è il sapere. E – aggiunge Hegel – fino a quando si resti a questa rappresentazione, fino a quando «questo movimento venga raffigurato come il cam39.  Per una linea di ricerca di questo genere, condotta in maniera fruttuosa, si vedano ultimamente, oltre a Ch. Halbig, (Objektives Denken. Erkenntnistheorie und Philosophy of Mind in Hegels System, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2002), i saggi raccolti in L. Illetterati (a cura di), L’oggettività del pensiero. La filosofia di Hegel tra idealismo, anti-idealismo e realismo, «Verifiche», XXXVI, n. 1-4, 2007, e A. Ferrarin (a cura di), La realtà del pensiero. Essenze, ragione, temporalità in Platone, Hegel e Husserl, Edizioni ETS, Pisa 2007. 40.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 433.

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mino del sapere, allora cotesto cominciamento dall’essere e l’avanzamento che lo toglie via e giunge all’essenza come ad un mediato appare quale un’attività del conoscere che sia estrinseca all’essere e non tocchi per nulla la sua propria natura»41. Se ne facciamo soltanto una questione relativa al conoscere, a un conoscere come abitualmente siamo soliti pensare, e cioè svincolato dal suo oggetto, non c’è alcuna possibilità di abbandonare la conformazione soggettivistica del pensiero. Così, l’essenza sarà concepita come un “prodotto”, come un artificio del conoscere, cioè come somma di tutte le determinate realtà limitate. Il primo sforzo di Hegel dunque è, già in avvio della «Dottrina dell’essenza», quello di far cadere ogni nota che restituisca un’immagine soggettivistica del pensare. Scriverà poi nell’Introduzione al Concetto che «quelle figure d’intuizione, rappresentazione e simili appartengono allo spirito conscio di sé, che come tale non vien preso in considerazione nella scienza logica. Le pure determinazioni di essere, essenza e concetto costituiscon bensì anche la base e la semplice impalcatura interna delle forme dello spirito».42 Ecco perché, dovendo specificare il senso della retrocessione all’essenza come via dell’andare fuori oltre l’essere (den Weg des Hinausgehens), o piuttosto dell’introdursi (Hineingehens) in questo, Hegel scrive che l’essenza è «essere in sé e per sé». Assoluto in sé poiché essa è indifferente ad ogni determinatezza dell’essere, ma come semplice essere in sé non sarebbe che l’astrazione della pura essenza. Perciò, l’essenza è altrettanto essere per sé: essa stessa è questa «negatività, il togliersi dell’esser altro e della

41.  Ibidem. 42.  Ivi, p. 662. È opportuno ricordare che questo intento avrà un’ulteriore ripresa nei Preliminari alla Scienza della logica dell’Enciclopedia berlinese del 1830, dove la logica viene definita la scienza dell’idea in quanto è pura. Avvertimento che vale a sottolineare che la logica è scienza del pensiero, scienza dell’idea nell’elemento puro del pensiero.

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[sua] determinatezza»43. Essenza dice qui Non-ente. Designa il puro “Non” che accompagna ogni determinatezza, ogni ente. Riflessione è il movimento per il quale l’ente determinato in quanto parvenza (Schein) – fenomeno nullo – non viene dissolto, ma conservato come presupposto dell’essenza: nullo in quanto determinatezza dell’essere; conservato e posto, invece, come determinatezza dell’essenza. Se, da un lato, la pura negatività dell’essenza esprime la differenza come separazione di essere ed ente, e cioè come negazione della determinazione che tramonta, dall’altro lato, come secondo momento, l’essenza esprime la differenza come andare oltre dell’essere nell’ente, partecipazione dell’uno nell’altro. Quel “Non” mostra, dunque, l’essere in quanto ciò che procura e mantiene ciò che esso fa essere. In questo modo, l’essenza inizia a far sorgere quel significato transitivo che avrà piena espressione nel profilo fondamentale del concetto come «esercitare potere sulla realtà»; questo tratto transitivo dell’Übergreifen hegeliano è ciò che, secondo quanto ha scritto Michael Theunissen in un famoso saggio, spaccherebbe in due la dialettica: da un lato il modello della corrispondenza di concetto e realtà, dall’altro l’estendersi comprensivo del concetto44. Rintracciare l’inizio di questa trama fin dall’essenza significa in realtà semplicemente riconoscere che il momento dell’identità (e dunque anche la corrispondenza tra pensiero e realtà che secondo Theunissen è il primo modello seguito dalla dialettica) contiene una riflessione che va già oltre l’essere, riducendolo a presupposto. Risiede qui, poi, l’esigenza di procedere fino al punto in cui quell’essere sia posto come essere in sé e per sé, vale a dire manifestato e saputo come quell’essere che è. Nelle 43.  Ivi, p. 434. 44.  Cfr. M. Theunissen, Concetto e realtà. Il superamento hegeliano del concetto metafisico della verità, in A. Nuzzo (a cura di), La logica e la metafisica di Hegel, Carocci, Roma 1993, p. 131.

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pagine iniziali della «Dottrina dell’essenza» si ritrova, peraltro, quanto Hegel aveva già indicato nell’Introduzione della Scienza della logica, soffermandosi sulla caratteristica “doppiezza” dell’intelletto e della sua riflessione separante. Scrive Hegel in pagine famose che l’intelletto riflettente consiste «nel sorpassare il concreto Immediato»45. Determinando e dividendo, esso si porta oltre il dato immediato. La riflessione, però, sorpassa insieme anche queste determinazioni differenti, ponendole in relazione tra loro; nell’intelletto, dunque, c’è una duplice origine: sorgono la riflessione sul dato e il contrasto, l’opposizione. Aggiunge Hegel: «Cotesto riferire della riflessione appartiene in sé [gehört an sich] alla ragione»46. Ecco esposta la doppiezza dell’intelletto: l’appartenenza della riflessione alla ragione indica l’operare celato, in sé, della ragione nell’intelletto. Intelletto e ragione sono momenti di un unico pensare, di cui l’opposizione tra le rigide determinatezze dell’intelletto è la prima, e non compiuta, manifestazione. Alla visione di questo contrasto si sarebbe spinta la filosofia kantiana, che però, invece di compiere l’ultimo passo, è rimasta al livello fenomenico-sensibile dell’esistenza, convinta di guadagnare lì stabilità e concordia. Proposito vano, secondo Hegel; tanto vano come sarebbe attribuire ad un uomo un conoscere esatto aggiungendo poi che egli non è in grado di sapere nulla di vero. Va detto, peraltro, che la critica hegeliana alla dialettica delle forme dell’intelletto costituisce la logica premessa del «gran passo negativo [große negative Schritt] verso il vero concetto della ragione»47 che sta nel sollevarsi oltre quelle determinazioni, giungendo fino alla visione del loro contrasto. Questo passo negativo esprime da un lato la tensione della ragione speculativa verso la propria manifestazione, dall’altro l’idea che l’intelletto sia una forza 45.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. I, p. 27. 46.  Ibidem. 47.  Ibidem.

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che, vincolata alla reciproca esteriorità delle determinatezze, non riesca a sciogliere la loro alterità nella mediazione speculativa; certamente, dunque, l’intelletto rappresenta l’astratto, il punto di vista raziocinante che resta alle indifferenti differenze del mondo, ma è necessaria una concreta comprensione dell’astratto affinché sia promossa la sintesi speculativa. Insomma, tra ragione e intelletto non c’è esclusivamente opposizione. Da questo punto di vista, ciò che compete allo statuto razionale del pensare non è semplicemente l’unità, ma piuttosto una particolare costituzione d’essere dell’unità. Un tipo di unità che non è soltanto opposta alla scissione prodotta dall’intelletto, ma che nell’operazione con cui la determinazione astratta si distingue da altro, rileva, proprio in quell’atto, l’inevitabile auto-soppressione della determinazione finita. Per questo motivo, l’operare nascosto della ragione nella riflessione non è una semplice metafora. Essa è invece pienamente giustificata dal riconoscimento che identità e differenza hanno una natura relazionale, e cioè che tanto l’una, quanto l’altra non sono affatto proprietà naturali ricevute in eredità dalle cose, ma produzioni derivanti dall’efficacia determinatrice del concetto. D’altra parte è proprio questa efficacia che Hegel mette in evidenza attraverso il rapporto tra intelletto e ragione nell’Introduzione alla Scienza della logica; come pure nell’Enciclopedia, descrivendo i tre lati dell’«elemento logico»48. In altre parole, la pretesa di tenere separati e distanti la posizione dell’identità (o l’atto del porsi da sé da parte della determinazione astratta) e la posizione della differenza (l’atto cioè del suo differire da altro) è proprio ciò che determina l’impossibilità di tenere distinti questi due atti; la differenza, cioè, in quanto distinta dall’identità, differisce e, dunque, non riesce a distinguere il proprio essere per sé dal proprio differire. Ciò che c’è di affermativo nel momento razionale e speculativo non sopraggiunge in un secondo momento, 48.  G. F.W. Hegel, La scienza della logica, cit., §§ 79-82.

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ma si costituisce come primo atto della riflessione. Questo Hegel intende quando scrive che la riflessione appartiene in sé alla ragione. La conseguenza di queste argomentazioni merita la massima attenzione, dato che il trapasso dell’essere all’essenza non esercita nessun arbitrio di alcun tipo sul contenuto; mai lo oltrepassa, costituendone, al contrario, il suo movimento presso di sé. Questa aderenza immanente è la negatività della riflessione, che non sorprende dall’esterno l’essere, risultandone invece l’interno distinguersi. Così, l’essere si rivela per quello che è sempre stato: un momento logico e niente più di questo. Nel senso di qualcosa che non potrà più starsene da solo «privo di intelletto, immobile e fermo» alla maniera dell’essere parmenideo descritto da Platone49. Come ricordava Theunissen nel saggio già ricordato, è però nel divenire del concetto che la riflessione dell’essere assume il significato proprio di una rivelazione. Lo spazio di questa manifestazione è il concetto. Tutto questo ha una duplice conseguenza. Da un lato, il pensare perde inevitabilmente il carattere soggettivistico di strumento destinato a pareggiare la ricchezza della realtà, ma è essere riflesso in sé e per sé (e sta qui la ragion per cui il principio di ragione sufficiente non è semplicemente un principio logico-formale). Dall’altro lato, poi, data la forma assunta dall’essere nel concetto, e cioè quella di sapere, non c’è alcun bisogno di supporre che, in quanto essere che si sa, la realtà perda la trama materiale che le è propria, quella indipendenza ed esteriorità, cioè, che ne restituiscono la caratteristica oggettività. La ricomparsa dell’essere nella «Dottrina del concetto», e per di più nella sua forma più compiuta, cioè nel sapere come sapere, non deve stupire. Hegel scrive infatti che «oltre all’immediato essere in primo luogo, e poi in secondo luogo all’esistenza, 49.  Platone, Sofista, 248e-249.

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ossia all’essere che sorge dall’essenza, si dà ancora un altro essere, che sorge dal concetto, cioè l’oggettività»50. È infatti nella logica soggettiva, e in particolare nell’idea, che l’essere guadagna gli arricchimenti decisivi, e raggiunge il significato suo proprio di essere sé in quanto sapere di sé. Verità che è espressa in quanto idea, unità di concetto e realtà. In pagine rilevanti, che articolano il passaggio dalla vita al conoscere, Hegel scrive che nell’idea la separazione che rappresenta il conoscere non si limita ad essere scissione di soggetto e oggetto, ma è «il confronto che mette in relazione il concetto della cosa con la realtà sua [des Begriffs der Sache und der Wirklichkeit derselben]»51. L’oggetto qui non è più semplicemente la datità immediata di fronte al conoscere, ma l’oggettività intessuta di rapporti meccanici e chimici la cui unità determinata è espressa nella relazione teleologica. Quell’unità che ha portato il fondamento a realizzarsi. In essa quei rapporti «che appartengono alla sfera della riflessione o dell’immediato essere, hanno perduto le loro differenze, e quello che vien enunciato quale un altro, […] nella relazione dello scopo non ha più la determinazione di un altro, ma è anzi posto come identico col semplice concetto»52. Questo oggetto è l’«assolutamente determinabile»53, nel senso che se in esso resta qualcosa di immediato, presupposto, un «al di là in sé essente»54 rispetto al conoscere, questo è soltanto la determinazione della determinabilità. Le possibilità che il conoscere trova nell’oggetto sono qui determinazioni, significati, vale a dire le possibilità di senso a cui l’oggetto accede. Il mondo che

50.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 539. 51.  Ivi, p. 890. 52.  Ivi, p. 850. 53.  Ivi, p. 891. 54.  Ivi, p. 892.

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sorge è costituito di significati, cose il cui senso oggettivo non può prescindere dalla relazione soggettiva che le rende scopi di altro nel loro consumarsi come mezzi per altro. Più che coseoggetti si tratta di cose in quanto prassi. Hegel parla di un atteggiamento soggettivo (subjektive Haltung) come ciò che ostacola la libera relazione tra concetto e realtà, riproducendo infinitamente indipendenza e singolarità dello scopo anche dopo la sua attuazione e trasformazione in mezzo per altro. Ciò che questo contegno soggettivo non coglie è però il punto fondamentale, e cioè che non è possibile spiegare il fenomeno in questione – la comprensione e la comunicazione effettiva di significati nella forma di scopi e mezzi – a partire dagli elementi che accadono soltanto all’interno di quel fenomeno. Che il concetto sia base (Grundlage) dei suoi termini (come Hegel non si stanca di ribadire) significa proprio che quella base non può essere pre-costituita da parte di quei termini. Ecco perché non coglie nel segno qualsivoglia descrizione soggettivistica del pensiero, tesa a descriverlo come il prodotto di un io isolato, di un soggetto e dunque, da ultimo, come uno spazio privato proveniente da un foro interno e individuale55. Accade tra conoscere e realtà lo stesso che, con termini non hegeliani ma in questo caso ugualmente pertinenti, accade tra interpretazione e interpretato. Anche in questo caso sarebbe

55.  Chi ha insistito su questa caratteristica del concetto hegeliano come monismo logico-relazionale della soggettività è stato Rolf-Peter Horstmann (cfr. Ontologie und Relationen. Hegel, Bradley, Russell und die Kontroverse über interne und externe Beziehung, Athenäum-Hain, Königstein/Ts. 1984); su questo tema, più recentemente, va ricordato il lavoro di Brady Bowman che scrive: «The unique character of the Concept lies in its being constituted wholly by relations which themselves are metaphysically prior to any relata that might appear to realize those relations» (B. Bowman, Hegel and the Metaphysics of Absolute Negativity, Cambridge University Press, Cambridge 2013, p. 37).

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difficile comprendere il fenomeno dell’interpretazione continuando a privilegiare l’uno piuttosto che l’altro elemento, senza accorgersi che entrambi convergono insieme, come interpretazione dell’oggetto e oggetto dell’interpretazione. In altre parole, non si dà mai il caso di un’intelligenza interpretante, per quanto sviluppata e potente, da poter fare a meno di esercitarsi su alcuni indizi o tratti significativi che provengono dall’oggetto. Non stupisce dunque che Peirce parlasse di un lumen naturale tra mente e natura. Niente di misterioso o assurdamente metafisico; soltanto la consapevolezza che l’eventuale privilegio del lato soggettivo o oggettivo non è il punto di origine dell’interpretazione, ma un suo tratto originato, e in fondo secondario, che resta possibile soltanto all’interno di quell’accadimento che è la comprensione e la comunicazione di segni dotati di significato. Oggettività del pensiero, agli occhi di Hegel, indica questo orizzonte dentro cui il soggetto può essere quello che è, un’intelligenza che si apre ad una realtà che non è soltanto altra da quell’intelligenza, ma, pur secondo modi diversi, essa stessa possibilità di comunicazione.

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La musica come antifilosofia in un’opera giovanile di Emanuele Severino Maurizio Maria Malimpensa

Che finora non si sia riusciti a sostituire il razionale con l’irrazionale o a dare all’irrazionale la stessa validità del razionale, dipende dal fatto che se si è sentita l’insufficienza del razionale non si è invece riusciti a contrapporre un irrazionale che fosse veramente un’antifilosofia, cioè che fosse un’attività pensante, cioè pensante irrazionalmente.1

A colmare questa lacuna si sentì chiamato – all’indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale, che ne aveva drammaticamente segnato l’esistenza – un giovane bresciano che aveva appena dato gli esami di maturità ed era intenzionato a studiare filosofia presso l’Almo Collegio Borromeo. Oggi l’autore delle pagine in cui veniva delineato quel progetto è uno dei più significativi pensatori dell’epoca attuale e forse, per usare un’espressione di quegli anni, il vero «classico del nostro tempo»; e quanto sia cambiata la sua posizione speculativa rispetto a quella qui presentata – peraltro, già a brevissima distanza di tempo – è cosa che risulta immediatamente evidente a chiunque faccia il confronto. E, tuttavia, ritenendo che non

1.  E. Severino, La coscienza. Pensieri per un’antifilosofia, Editore Giulio Vannini, Brescia 1948, p. 16. Cfr. anche ivi, pp. 92-96.

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sia affatto privo di interesse né di possibili sviluppi quanto si affacciava in quell’«acerbo» libercolo, rivolgeremo qui ad esso l’attenzione, dandogli il credito che con entusiasmo fa mostra di chiederci, contro il parere attuale – per quanto così autorevole – del suo stesso autore2. Nel far ciò, ci sentiamo esentati dal far riferimento ai cosiddetti scritti di Emanuele Severino, nei quali appare il discorso testimoniante il Destino, poiché qui si cercherà semplicemente di tracciare in modo sintetico il profilo della proposta filosofica del giovane Severino in se stessa, all’altezza del testo La coscienza3. Innanzitutto, occorre render ragione del senso in cui è intesa l’alterità che viene presentata nell’opera considerata tra filosofia e antifilosofia. L’autore si mostra da subito avvedutissimo delle insormontabili e mortali obiezioni cui andrebbe esposto il suo discorso, qualora non si facesse chiarezza su questo punto. E non è un caso che le primissime pagine siano dedicate proprio a smarcare il proprio tentativo da quello di ogni altra «filosofia dell’intuizione o antirazionalistica»4. Queste – secondo una quasi canonica critica, che va almeno da Aristotele a Gentile, fino allo stesso Severino, nel modo più radicale –, proprio nella misura in cui articolano la propria posizione in contrasto con quella «razionalistica» (che peraltro sempre presuppongono), devono per forza di cose svolgersi logicamente, confermando così il primato o addirittura l’assolutezza della ragione

2.  Cfr. E. Severino, Ripensando a quegli anni, in Id., Zirkus suite. Un peccato di gioventù, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 29-34. 3.  Sarebbe, tuttavia, assai interessante uno studio che enucleasse nello scritto giovanile motivi che, pure in tutt’altra luce e secondo coordinate differenti, appariranno nelle grandi opere già a partire dal decennio successivo. Che le medesime esigenze presenti nel primo condizionino anche la genesi e lo sviluppo delle seconde è una tesi che necessiterebbe di un’ampia documentazione, ma che un siffatto studio non dovrebbe mancare di vagliare. 4.  E. Severino, La coscienza, cit., p. 13.

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su quell’altro da essa di cui si voleva sostenere l’originarietà o la differenza. In questo senso, perciò, qualsiasi filosofia antirazionalistica è assurda e non costituisce altro che una fioritura rigogliosa sul tronco delle filosofie razionalistiche, e in questo senso queste ultime sono le uniche filosofie concepibili in quanto qualsiasi tentativo di evasione dal pensiero logico riconduce irrimediabilmente a questo nell’atto stesso di dogmatizzare l’evasione.5

Dalla chiara consapevolezza di ciò muove allora il tentativo di concepire l’assolutamente altro dalla ragione – di cui appunto è la filosofia l’attualizzazione più coerente e piena – come quella non-ragione, come quel negativo che è propriamente e assolutamente altro da essa proprio in quanto non le è estrinseco e meramente reattivo, ma costituisce il negarsi stesso di quella ragione, senza che ciò sia imputabile a qualcosa di altro da essa (esterno o interno che sia), ma appunto assolutamente sine ratio. L’assoluto, il primo, l’originario – o come altro si voglia dire – è cioè costitutivamente doppio; non a motivo di un qualcosa che gli capiti dal di fuori, ma perché la sua stessa vita è tale da muoversi in due direzioni assolutamente opposte, costituendosi così esso stesso come assoluta opposizione tra queste, come ad ogni momento altro da sé, come sempre negantesi. Ma se quanto si è detto appare giustamente vago e tale da potersi riferire anche ad altri autori pure molto diversi fra loro, è il modo in cui questa struttura è concretamente sviluppata nel testo severiniano a farne apparire la bella originalità. Insistiamo però ancora un poco sui motivi per i quali è bene non attribuire a quest’opera alcune ingenuità che si potrebbero ritenere implicite e connaturate al linguaggio sovrabbondante di immagini e di allusioni poetiche (talora persino sentimentalistiche) in cui è scritta.

5.  Ivi, p. 14.

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Severino appare ben consapevole dell’imbarazzo in cui ci si trova nel tentativo anche solo di parlare dell’irrazionale accanto al razionale, senza perciò ridurre totalmente il primo al secondo: «Soltanto la filosofia presenta un’articolazione di concetti che le permette di rimanere al di sopra di qualsiasi considerazione […]. L’impossibilità di un pensiero irrazionale non solo nella sua articolazione ma nella sua intima costituzione, assicura una perenne vittoria alla filosofia»6. Ma, egli sostiene, si è costretti a quest’esito – penoso, in relazione a ciò cui doveva invece condurre – solo perché per vera mancanza di avvedutezza si è preteso di sostituire banalmente al razionale l’irrazionale, senza accorgersi che così non si faceva altro che cambiare nome agli elementi dell’ordine che si voleva sovvertire, lasciando quest’ultimo intatto. Perciò quanto ci si prefigge è precisamente di «trovare un’antifilosofia che non tenti di imporsi o di sostituirsi alla filosofia»7. Ciò è possibile solamente nella misura in cui si accordi a ciascuna delle due un preciso ambito che non sia quello dell’altra; perché non siano però semplicemente due determinati opposti, occorre mostrarne l’unità intrinseca. A tal fine, l’autore rileva che in entrambi i casi si tratta di due atti – «eidetico» il primo, quello della filosofia, «aneidetico» l’altro, quello dell’antifilosofia – che, come tali, sono necessariamente e ugualmente attualizzazioni della vita una e indivisibile dello spirito. Nel testo, tuttavia, a questo argomento, che guarda evidentemente a consolidati modelli, se ne affianca talora un altro, che a ben vedere ha il significato di mostrare non già l’unità di filosofia e antifilosofia, bensì la loro indifferenza. Se, infatti, la filosofia è, in quanto attività, non immediato possesso del razionale assoluto, ma una tendenza ad esso, così pure la sua controparte sarà da intendere come un movimento verso l’irrazionale assoluto. Ma non essendo possi6.  Ivi, pp. 15 s. 7.  Ivi, p. 17.

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bile fornire fondamento di distinzione alcuno tra i due termini di queste tendenze – che pure non possono che pensarsi come opposti, giacché fenomenologicamente tali sono le due strade che conducono ad essi –, niente «impedisce che il razionale assoluto si identifichi all’irrazionale assoluto come la retta e la curva all’infinito»8, cosicché pure i due atti che si rivolgono a questi trovano la verità del loro rapporto reciproco nella più perfetta e impossibile in-alterità, proprio nel loro necessario apparire come reciprocamente negantisi. Se in ciò può scorgersi un originale modo di concepire la relazione tra la filosofia e ciò che la nega, dobbiamo ancora vedere cosa concretamente sia per il giovane Severino l’antifilosofia. Per prima cosa, viene escluso che arte e religione possano, come anche storicamente si è dato, venir intese come l’altro dalla filosofia. Che la religione non possa essere intesa come anti­filosofia – a fortiori, dopo la comparsa del cristianesimo, che ha per contenuto quel λόγος incarnato che è ϑεός – è quasi banale, poiché essa non si dà senza una qualche determinazione per cui essa sia insieme anche teologia, ovvero indagine razionale, articolazione di un discorso sul divino. Inoltre, in quanto è sempre anche morale, essa non può darsi che all’interno dell’orizzonte dell’autocoscienza, che è precisamente il medesimo in cui si muove la filosofia9. Per ciò che concerne l’arte, questa ha precisamente avuto quella pretesa che prima si indicava come estranea alla proposta severiniana, ovvero di volersi sostituire alla filosofia, semplicemente prendendone il posto, con le aporie e addirittura le ingenuità che questa astratta contrapposizione sempre comporta. Di più, ancora, l’arte condivide con la filosofia la forma fondamentale in cui essa si esprime, quella del giudizio. Infatti, sostiene Severino – 8.  Ibidem. 9.  Cfr. ivi, p. 19.

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ri­facendosi direttamente alla distinzione crociana –, mentre quest’ultima conosce la cosa universalmente, cioè la esprime sussumendone il carattere in un concetto mediante l’applicazione di una regola valida per ogni caso possibile, la prima si esercita conoscendo della cosa il suo essere particolare, l’individualità in cui essa consiste, quasi isolata da ogni relazione che non la rifletta immediatamente nella sua determinatezza. Stando così le cose, dovrebbe apparire che la differenza fra le due non è, in un certo senso, che una differenza di grado, laddove entrambe non sono che un diverso modo in cui è atteggiata la vis conoscitiva dello spirito: sempre e comunque il pensiero colto nella manifestazione della propria vita. Posto ciò, è altrettanto necessario che «l’impossibilità di un siffatto giudizio dovrà condurre alla non individualità e alla non universalità dell’atteggiamento o della conoscenza di quel contenuto»10; è dunque in questa impossibilità che dobbiamo annegare lo sguardo, onde sperare di imbatterci in quella non-ragione, in quell’unico atto negante radicitus l’onniveggente ragione della filosofia. (È impossibile negare che questa parte – così fondamentale per tutto lo sviluppo della tesi presentata nell’opera, tanto che potrebbe indicarsi come la deduzione dell’antifilosofia – sia in realtà la più debole di tutte. Intanto, viene accettata, senza alcuno sforzo di indicarne la plausibilità, la distinzione già in sé piuttosto grossolana del Croce, che fin troppo scopertamente mostra di presupporre ciò che vorrebbe dimostrare; per di più, per mostrare come l’arte sia conoscenza del particolare, gli esempi che vengono fatti mostrano una concezione dell’arte – pittura e poesia, nel caso specifico – esclusivamente e semplicisticamente figurativa; infine, non si capisce se questa caratterizzazione sia fatta dal punto di vista della cosa artistica, del fare artistico o ancora del fruitore dell’opera d’arte. Con tutto ciò, ribadiamo che qui ci interessa considerare alcune 10.  Ivi, p. 26.

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delle implicazioni contenute nella posizione sostenuta in quello scritto giovanile circa il rapporto della filosofia con ciò che la nega – con il suo altro, qualunque esso sia –, non le singole argomentazioni ivi contenute né la configurazione complessiva del testo stesso). Se, quindi, il campo di applicazione del giudizio e quello della razionalità sono coestensivi e sono uno e il medesimo orizzonte dell’apparire di una serie di oggetti d’esperienza e di atti dello spirito, ne verrà che, al contrario, «l’impossibilità di giudicare un oggetto dovrà condurre all’irrazionalità dell’oggetto stesso»11, e dunque a quell’autentico irrazionale di cui siamo in traccia, l’unico possibile. Ma la sola esperienza – e di un’esperienza deve appunto trattarsi, per non essere semplicemente un’estrinseca negazione di quella vita razionale svolgentesi all’insegna della filosofia – che risponde a questa condizione, che cioè non significa niente, non rimandando a nient’altro al di fuori di sé, sottraendosi così al giogo della relazione che costitui­sce il logico e il dominio del concetto, è soltanto quell’espressione del puramente e assolutamente astratto, di un dire che non dice niente che non sia il proprio stesso essere-espressione, di quel movimento che non va verso niente, ma si muove in sé e di sé contento senza bisogno d’altro; tale, appunto, è soltanto la musica12. 11.  Ivi, p. 30. 12.  Cfr. ivi, p. 31: «Infatti se ove si trovano concetti vi è razionalità, l’irrazionale potremo trovarlo solamente nella musica, che appunto è esclusione di concetti». È da notare anche, in relazione a quanto detto criticamente sopra, che in questo scritto Severino sostiene che l’unica forma d’arte – proprio in quanto, appunto, non è tale che a uno sguardo superficiale – a potersi legittimamente esprimere astrattamente sia la musica (e solo in parte, nella misura in cui derivano da questa, danza e architettura), mentre pittura e poesia, quando che abbandonino il solido terreno del concetto, sono condannate al naufragio, giusta la natura costitutivamente logica del loro dire, giungendo così alla propria stessa «depravazione». Cfr. ivi, pp. 66-69.

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Non ci si deve stupire, poiché dovrebbe essere chiaro dal modo in cui è stata caratterizzata l’arte, che questa non può avere nulla a che fare con la musica, trattandosi «piuttosto di concepire la musica al di là e al di sopra del piano artistico»13. Questo è possibile, come indica il titolo stesso dell’opera, dal momento che la musica è l’unica possibile manifestazione, e anzi le due sono una e la stessa cosa, della coscienza. Mentre, cioè, la nostra esperienza si svolge tutta all’interno del giogo dell’autocoscienza, che imbriglia nell’assoluto della relazione ogni termine, costituendosi sempre nella forma di una totalità in atto – e di ciò sono espressione tanto l’arte, che può indicare e svolgere il suo oggetto particolare soltanto perché questo le si rende disponibile a partire da quel cosmo logicamente ordinato che è prodotto dell’autocoscienza, quanto la filosofia, che tematizza proprio il lavoro dell’autocoscienza e fa di esso il proprio oggetto, realizzando così il suo essere autocoscienza –, la musica riesce a dar voce a quella forza sotterranea che ogni volta che viene intenzionata dal discorso logico cessa di essere, si toglie, mostrando di non essere mai stata, una volta spodestata dalla violenza del concetto. Nella musica avviene che la coscienza si dica, si manifesti al pensiero, senza essere per ciò stesso immediatamente ricompresa come coscienza di sé, come autocoscienza. Ciò non sarebbe possibile qualora si attribuisse alla parola “coscienza” qualsiasi altro significato che non sia quello indicato dal musicale inteso in se stesso, poiché qualsiasi attività che indichi, quale che sia il modo, un altro da sé come oggetto del proprio dire è destinata a soggiacere alla relazione tra sé e quell’altro, che è propriamente il movimento dialettico costituente la vita dell’autocoscienza. Non si tratta dunque di pensare una qualche relazione tra musica e coscienza, ma

13.  Ivi, pp. 22 s. Severino sviluppa così – e il richiamo è nel testo esplicito – un motivo già schopenhaueriano (si veda il § 52 de Il mondo come volontà e rappresentazione).

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di scorgere che non ha senso parlare di coscienza intendendo qualcos’altro che la musica stessa; o, con le parole di Severino, «noi ora non conieremo una “coscienza musicale”, ma coglieremo la coscienza come coscienza musicale»14. Bisogna ora osservare più da vicino cosa del fenomeno musicale l’autore intenda come fondamentale, al fine di comprendere il senso preciso di quanto detto finora. Quanto al suo elemento materiale – il suono –, la musica lo produce interamente a priori, al contrario di quanto farebbero le arti, che invece si trovano sempre a riprodurre o utilizzare un oggetto naturale. Ciò perché esso è un prodotto interamente matematico, che si fonda sulla scoperta e la selezione di rapporti e intervalli che niente hanno a che vedere con l’infinita gamma di suoni naturali, ma sono il risultato dell’esigenza espressiva della musica nella sua realizzazione pratica (come anche si può indicare che sia storicamente avvenuto e come testimonia la problematica dell’evoluzione dei sistemi di temperamento). Ora, se fosse possibile concepire la musica semplicemente come suono assoluto, non capiremmo affatto in che senso questa sia la stessa coscienza, né in che cosa essa possa costituire in qualche senso un’eccezione rispetto a tutto ciò che si dà nell’orizzonte dell’apparire disegnato dall’autocoscienza. E, tuttavia, è tanto poco possibile concepire un siffatto suono assoluto quanto è lontano quest’ultimo, qualora potesse darsi, dall’essere ciò che si intende come musica. Perché questa sia possibile, occorre che almeno quello stesso suono da solo sia ripetuto, che cioè si dia una successione di suoni, che dei suoni si dispongano uno dopo l’altro, che diano forma a un ritmo15. Ecco come nasce propriamente 14.  Ivi, p. 32. 15.  Cfr. ivi, p. 52: «se facciamo seguire più suoni a un primo da noi presupposto, troveremo che questa progressione fonica si reggerà non semplicemente in virtù del materiale sonoro, ma in ispecial modo del ritmo che regola l’attuarsi e il determinarsi della successione».

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Euterpe! E con essa, nasce insieme proprio il carattere fondamentale della coscienza, ovvero il tempo. «Orbene, tra ritmo e tempo non vi è sostanziale differenza in quanto il tempo se non vuol essere eternità (cessare cioè di essere tempo), deve essere ritmo, e il ritmo non può non essere se non autosuddivisione del tempo, ossia il tempo nella sua storia»16. È facile accorgersi che siamo al cospetto del punto centrale di tutto il discorso, che cioè è proprio l’elemento ritmico a costituire l’essenza del tentativo del giovane Severino di pensare un’antifilosofia. Infatti, risulta chiaro che se nel seguito si dice che la musica è propriamente costituita dalla melodia, intesa come la sintesi di suono e ritmo – sintesi che in realtà è l’unica esistenza attuale della musica, dacché suono e ritmo sono distinguibili solo mediante il concetto –, sia però quest’ultimo ad avere un valore preponderante e a costituire la genesi del musicale, secondo quanto abbiamo appena visto. Si potrebbe dire, con Schelling, che «il ritmo è la musica nella musica. La specificità della musica si fonda infatti sul suo essere in-formazione (Einbildung) dell’unità nella molteplicità. Ora, poiché […] il ritmo altro non è nella musica se non appunto quest’in-formazione stessa, esso è allora la musica nella musica, ed è quindi, coerentemente alla natura di quest’arte, l’elemento dominante in essa»17. Laddove, appunto, unità e molteplicità non sono termini già dati che il ritmo si trovi a dover riunire, ma un molteplice musicale – diversi suoni – è possibile solo in virtù dell’azione frazionante del ritmo, che proprio mentre spezza quell’unico suono assoluto – il silenzio sovrano, una pausa con la corona – tiene insieme e unifica (armonizza) i suoni determinati che vengono succedendosi. L’attività del ritmo, questo porre-in-unità contrapponendo o contrapporre unificando, è così lo stesso sentimento 16.  Ibidem. 17.  F.W.J. Schelling, Filosofia dell’arte, tr. it. di A. Klein, Prismi, Napoli 1986, p. 172.

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di sé in cui consiste la coscienza, che è esattamente l’opposto del concetto di sé operato dall’atto proprio dell’autocoscienza. Mentre questa pone stabilmente e sa il vincolo necessario che tutto lega, e quindi sa di sé propriamente solo quando affonda in questa relazione assoluta e appare a sé come il sapersi di questa, la coscienza, che pure si sviluppa come movimento tra i diversi posti in essere dal ritmo, non si risolve nella loro relazione, poiché questa è inattuabile nella sua interezza, e si mantiene pertanto in sé come puro oscillare tra il prima e il dopo, che non giunge mai a spazializzarsi nell’abbraccio onnicomprensivo dei propri elementi, ma fluisce sopra questi e la sola presenza che conosce è fatta dell’imperfetto rammemorare ciò che è già passato e dell’ardente anelito di un venturo (che può sempre anche venire spiazzato). Questo aspetto è, come si intuisce, strettamente legato alla differenza radicale della musica rispetto all’arte, ovvero rispetto al modo in cui le varie modalità di espressione artistica sono tutte vincolate nel loro rendersi esperibili all’intuizione esterna, e quindi ad una concretezza materiale che le determina immediatamente come una totalità conclusa, cioè anche spazialmente conchiusa. La poesia, che non subisce direttamente questo limite, è però sempre la posizione di un rapporto tra interno ed esterno (è esperienzialmente determinata), è giudizio, e in quanto tale evoca nel massimo grado la totalità del concreto nel suo svolgimento attuale (promettendo già in se stessa la venuta della filosofia). Onde, come si è detto, la musica è l’unica possibile espressione astratta – cioè indipendente nel suo darsi dalla concretezza spaziale che sempre anche stabilisce un limite alla nostra apprensione – e per ciò stesso costitutivamente incompiuta, potendosi svolgere ad libitum. Questo aspetto è colto assai bene da Hegel, quando dice che per l’espressione musicale è adatto soltanto l’interno interamente non oggettivo, la soggettività astratta in quanto tale. Questa è il nostro Io completamente vuoto, il Sé privo di qual-

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192 siasi contenuto. Il compito fondamentale della musica consisterà perciò nel far risuonare non l’oggettualità stessa, bensì, all’opposto, il modo e la maniera nelle quali il Sé più intimo è in sé mosso in base alla propria soggettività e alla propria anima ideale.18

La musica o coscienza è dunque l’unica attività a dirigersi solamente verso se stessa, a dire semplicemente nient’altro che se stessa, prescindendo dalla mediazione che sempre accompagna ogni altra affermazione di sé che si dia nell’ambito del giudizio. Essa è, nel senso più radicale del termine, contenta, è sempre presso di sé, ma proprio in quella paradossale forma per cui non è mai compiuta e dunque non è mai piena disvelatezza, ma sempre avveniente sopraggiungere a sé. Per questo l’opera musicale rifiuta costitutivamente di tradursi in una sussistenza (nessuno penserà che uno spartito sia più che uno strumento di rammemorazione), ma si costituisce come un’unità negativa, la cui realtà consiste appunto solo nell’attuale inattualità della coscienza nel suo libero gioco con se stessa. Proprio questo suo non «lavorare per l’intuizione», non essendo appunto in nessun modo un’attività rappresentativa, fa della musica un agire assolutamente libero. Così Severino: nella musica la libertà è completa perché la ragione è morta e, quel che più conta, non esiste più il problema della libertà perché, come problema, è razionalità. È ugualmente irrazionale il più impeccabile sviluppo tonale di una fuga di Bach, quanto una successione di settime e seconde di uno studio di Hindemith. Ossia la musica può divenire una patologia della sonorità, o meglio dell’armonia e della melodia, senza che per questo perda appunto quella dignità che non le deriva dall’applicazione più corretta delle usuali formule armoniche.19 18.  G.W.F. Hegel, Estetica. Secondo l’edizione di H.G. Hotho, con le varianti delle lezioni del 1820/1821, 1823, 1826, testo tedesco a fronte, tr. it. di F. Valagussa, Bompiani, Milano 20132, p. 2149 (corsivo nostro). 19.  E. Severino, La coscienza, cit., p. 86.

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Occorre, infatti, che quanto detto finora venga precisato in questo senso, affinché non sia oggetto di critiche facili e immotivate. Ché è banale che, essendo la musica riconducibile a prassi esecutive e compositive storicamente determinate, da un lato, e reggendosi su rapporti descrivibili matematicamente, dall’altro, l’opera musicale sia sempre anche completamente immanente all’attività razionale dell’autocoscienza. La possibilità di una tale ricaduta nell’orizzonte concreto dominato dalle leggi del giudizio è peraltro anche ciò che spiega la nascita di due arti di cui ancora niente abbiamo detto: la danza e l’architettura. Se la coscienza fosse assolutamente non ragione, essa non apparirebbe nemmeno, ma, come si è visto all’inizio, un’anti­ filosofia così intesa sarebbe un mero rovescio della filosofia e non indicherebbe niente, poiché si risolverebbe in un semplice chiacchiereccio completamente assoggettato al logo filosofico. Pertanto, come la musica stessa nel suo darsi di volta in volta determinato accoglie in certo senso qualcosa del concetto, così assumendo la forma dell’intuizione esterna – spazializzandosi – essa diviene un’arte, diviene danza. Questa «è la stessa melodia che gravata forse da un suo misterioso peccato si appesantisce e si sente disperatamente divenire materia che può avere una fisionomia e può essere giudicata»20. Tersicore è l’immediata trasfigurazione di Euterpe, quando questa sia scorta sub specie conceptus. In essa «noi vediamo la musica»21. Eppure, questo cambiamento – radicale, assolutamente qualitativo, tanto da costituire il salto che dal regno astratto del musicale ci pone in quello concreto dell’arte – non è così facilmente avvertibile, se non appunto per chi già soggiace completamente all’assottigliato potere logico della filosofia. Intanto, non è possibile danza che non si accompagni alla musica, poiché tutto in questa tende a ritornare alla sua origine, e poi la stessa danza non precipita 20.  Ivi, p. 63. 21.  Ibidem.

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in una statica se non quando semplicemente cessa ogni suo essere, ma fintanto che è nel vivo della sua attualità essa si svolge ritmicamente come la musica e di questa condivide tutte le caratteristiche, salvo appunto che «la staticità della ragione ha lasciato la sua impronta nella concretezza logica delle figure»22. Quando viene meno ogni dinamismo, cioè quando il musicale perde la sua anima e non ne rimane che lo scheletro immoto, e quindi finalmente compiuto nella sua determinatezza, abbiamo il sorgere dell’architettura. Qui tutto è statico, tutto è cristallo, tutto è materia. Pure è un cristallo che lascia intravvedere una vita e un moto che si sono con dolore puntualizzati nel cenno disperatamente fermo di Niobe e di Dafne. Ma anche nell’architettura vi è una esasperata tensione, forse ancora più intensa in quanto non può rompere le maglie che l’avvincono. […] Ma se noi seguiamo le colonne nelle loro fughe pazze o gli archi nei loro voli vertiginosi, sentiamo allora che lì freme la vita, che la musica prorompe vittoriosa dai massi gravati di sonno, a gettarsi all’assalto dei cieli.23

Il musicale nell’opera architettonica, quest’impeto che pure sopito tutta la scuote, consiste proprio in questo suo esser totalmente presente eppure incompiuta, poiché la nostra esperienza dell’edificio è possibile solo nel movimento. Varcare la soglia di un tempio o girarvi intorno per tentare di stringerlo in un impossibile amplesso del nostro sguardo – ché non per quell’occhio onniveggente è fatta l’architettura – è come afferrare la mano della coscienza che nella danza si tende a noi per invitarci a volteggiare con lei e nella musica trasporta tutto il nostro spirito nel suo fluire, accogliendoci come nella nostra vera utopica patria, dove appunto cessa di darsi ogni spazio.

22.  Ivi, p. 64. 23.  Ivi, pp. 64 s.

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Ora, da quanto si è da ultimo detto, appare che l’assoluta eccezionalità della coscienza rispetto all’autocoscienza – che costituisce il motivo fondamentale dell’impresa del testo in esame – è già da sempre posta di fronte al proprio scacco nel momento in cui si tratta di farsi esperienza attuale, poiché il suo stesso realizzarsi altrimenti che secondo le leggi logiche è per ciò stesso conforme e ubbidiente alla fondamentale di queste. Ma questo non è scoglio che si pensava di poter semplicemente evitare, poiché sin dall’inizio si è detto che non si sarebbe potuto pensare l’antifilosofia come meramente altra dalla filosofia. Si tratta di vedere se il resto di un tale urto – quel non, appunto – possa avere una qualche consistenza in sé tale da impedirne il completo naufragio. Con le parole di Severino: Sul piano empirico il razionale si innesta vigoroso e costitutivo sull’irrazionale: sul piano empirico neppure la musica è riuscita a liberare l’uomo dalla sua razionalità. […] Ma quando la musica diviene veramente tale, ossia metempirica, anche questo ultimo residuo del razionale viene sospinto lontano, verso gli ultimi orizzonti, dal vento della non-ragione. La ragione è rimasta nei gorghi dell’empéreia e nella musica vive una sua vita incosciente; anche la matematica è divenuta musica e un profumo di suoni ci finisce, noi uomini che pensiamo; e in un profumo di suoni ci sentiamo rinascere, noi, uomini che non pensiamo.24

Ma come è possibile – quando che sia possibile – questa μετά­ νοια della ragione in se stessa? Da cosa, cioè, questo gesto radicale e imprevisto può scaturire? Se si ricorda quanto si è detto all’inizio circa il rapporto tra filosofia e antifilosofia, la risposta può essere una sola: da quel punto da cui entrambe prendono il loro abbrivio, quello stesso Assoluto che non si dà che nel tendere ad esso. È dunque il medesimo a suscitare le opposte attività della coscienza e dell’autocoscienza, ma se nel 24.  Ivi, pp. 54 s.

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loro svilupparsi è la legge della seconda a risultare dominante, potrebbe darsi che, osservandole più da vicino, sia solo la prima a render conto radicalmente della possibilità della seconda. Ciò che sta così al principio di entrambe è un evento, un urto, uno ϑαῦμα, un momento di assoluta passività – comunque lo si voglia chiamare – che in questo testo è chiamato col nome di intuizione. Il giovane Severino è ben cosciente di ciò di cui sta parlando e di tutti i problemi teoretici che comporta, e non a caso dice di questa figura l’unica cosa che si possa dire, che cioè la sua validità e il suo impiego sono interamente affidati all’esperienza del lettore. Questo perché appunto una tale intuizione non è in se stessa assolutamente niente, se non un postulato25. L’incontro con tale materia stimola entrambe le potenze dello spirito umano (la filosofia e la musica), le quali però non agiscono – né potrebbero agire così, d’altronde! – separatamente, ognuna per conto proprio, ma determinano la cosa mediante una quantità della propria azione che è sempre insieme negazione dell’equivalente quantità di azione dell’altra. La “res” è senza fisionomia, materia passiva e indifferente impossibilitata ad autocostituirsi: acquista un suo peculiare rilievo nel processo razionale e in quello irrazionale. Allora la filosofia organizza il reale che ha costruito e nasce il concetto; la musica srazionalizza questo reale, lo distrugge lo fonda [sic] in un crogiuolo magico di suoni, e nasce la melodia.26

25.  Cfr. ivi, pp. 77 s.: «L’intuizione ci è immanente ma è trascendente a qualsiasi concepibilità in quanto il pensiero viene dopo di lei». È estremamente interessante notare che, nonostante ciò (o forse proprio per questo), talvolta Severino attribuisca qui volentieri un significato teologico – e marcatamente trinitario – all’intuizione (cfr. ivi, p. 78). 26.  Ivi, p. 41. Cfr. anche ivi, p. 75: «l’intuizione è così il punto matematico nel quale sono contenute implicitamente tutte le rette che virtualmente possono gettarsi in qualsiasi direzione; da una parte la direzione del razionale, dall’altra quella dell’irrazionale».

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Ciascuna delle due altera e agisce sui prodotti dell’altra – come peraltro abbiamo già visto nel caso specifico della derivazione di danza e architettura dalla musica, che può descriversi non altrimenti che come una progressiva razionalizzazione del musicale – e questo agire delle due – che è evidentemente un’azione reciproca, non potendosi pensare il loro rapporto come trascendente – è propriamente il loro esprimersi. Quando, cioè, dalla semplicità indistinta dell’intuizione passiamo ad una concreta espressione, sia questa razionale o irrazionale, abbiamo allora a che fare con un oggetto determinato, che come tale è dinamismo di contro alla staticità dell’intuizione o materia. Sicché, la stessa vita nasce per la prima volta proprio con l’espressione. Ora, l’attività del giudizio non trova mai il proprio appagamento nella sua singola espressione, poiché questa dice sempre un particolare modo della sua attualizzazione, che come tale rimanda per la sua necessità interna (che è quella appunto di una relazione assoluta che dica l’intero) ad un altro da sé e alla totalità dei rapporti che la determinano. Un ente di natura – che come tale non è appunto un’immediatezza, ma espressione di un giudizio –, così come una legge scientifica o una rappresentazione mitologica e una qualsiasi attività pratica non sono mai qualcosa di assoluto, che si esaurisca in sé, ma trovano la propria verità, in quanto movimento, nella relazione all’altro da sé. L’autocoscienza, che appunto regola e svolge questo porre-in-relazione, è essa stessa ponentesi in relazione con se medesima, e nell’assolutezza della relazione sta il suo essere assoluta. Rispetto a ciò l’espressione musicale o la coscienza sono radicalmente differenti, poiché la musica è appunto l’unico appagamento dell’espressione che pienamente si adegua nel fatto: il dinamismo musicale è immagine immediata del dinamismo dell’espressione, con le incertezze e le contraddizioni di questa, e meglio di qualsiasi altra manifestazione dello spirito rispecchia l’evoluzione interiore

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198 che lo ha generato. La musica è quindi la forma più eccellente di espressione.27

Nel fare di Euterpe, come si è detto sopra, niente è rimando ad altro che non sia assolutamente anche beatitudine di sé, astrazione da ogni altro, puro riferimento a sé, affermazione astratta da qualsiasi negazione. La stessa relazione tra i diversi suoni scandita dal ritmo è, come abbiamo visto, non quella logica del giudizio, ma il semplice disporsi in successione, in cui l’armonia si dà negando la forma del giudizio e la stessa relazione dei diversi, poiché nel suo fluire la ragione tace e «l’irrazionale può essere soltanto vissuto»28. Ma nel far ciò, lo stesso razionale è trasfigurato, poiché la sospensione operata dalla coscienza nella sua acme è tale da sottrarla semplicemente alla relazione con la ragione, cosicché l’autocoscienza può esercitare la propria assolutezza senza doversi conformare in nulla a quella dell’altra, che le è contraria e che la annullerebbe. Entrambe sono assolute proprio nel loro essere non altro che ciò che sono, e da ciò deriva la loro impossibile inalterità. Ma questa è resa possibile dalla peculiare malia della musica, che quanto a ciò risuona in sé di quella potenza infinita dell’intuizione, nella misura in cui la sua «espressione diviene così un’indefinita attualizzazione della virtualità dell’intuizione»29. Né sarebbe potuto avvenire in forza del concetto, in cui ogni perseità va a fondo, poiché «il moto puro privo di soggetto che agisce non può essere una forma superiore alla musica in quanto manca delle fascinose bellezze dei suoni»30.

27.  Ivi, p. 79. 28.  Ivi, p. 30. Cfr. ivi, p. 46: «la musica è dinamismo assoluto; e il dinamismo riconduce alla sua irrazionalità; e l’irrazionalità riconduce al suo dinamismo». 29.  Ivi, p. 83. 30.  Ivi, p. 80.

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Non è, quindi, in questo scritto giovanile, il moto della Tecnica a indicare la relazione vigente tra filosofia e antifilosofia, ma questa riecheggia e risponde al bel modello di un movimento puro che non annulla il proprio soggetto, ma lo conduce tra infinite voluttà nel cuore di quella scaturigine da cui egli stesso può far esperienza di un’indecidibile partecipazione dell’una e dell’altra, di Euterpe e di Atena.

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L’altro del dato nel nient’altro che ente* Carmelo Meazza

Incomincerò a sovrapporre due enunciati: l’ente come nient’altro che ente e il tema difficile del nostro seminario: l’alterità e il negativo. Proverò a interrogare questo nient’altro che ente come un singolare modo di dire l’altro dell’alterità, quindi non l’alterità dell’altro. Vedremo che cambiano molte cose quando si flette o si declina l’altro come alterità. Un pensiero dell’altro come nient’altro che ente deve anche emanciparsi dall’immensa tradizione di un certo negativo. Non diremmo l’altro senza alterità, se quel nient’altro che evochiamo non fosse nella condizione di abbandonare il nesso di correlazione tra la dialettica e il negativo. La negatività dialettica deve risultare estranea a questo nient’altro, se l’altro non deve consumarsi nella logica del rinvio ad altro da sé. Questa formula un po’ enigmatica e certamente iperbolica di nient’altro che ente consente di riprendere e persino coniugare *  Il saggio conserva la forma didattica della lectio con cui è stato presentato al Seminario di Studi “Alterità e negazione” tenutosi a Milano, presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, Facoltà di filosofia – Centro di metafisica e filosofia delle arti DIAPOREIN, nei giorni 11-12 dicembre 2018.

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due momenti speculativamente assai intensi della tradizione filosofica della seconda metà del Novecento. La prima è senz’altro la differenza ontologica. Nient’altro che ente chiama in causa la differenza di essere ed ente. La chiama in causa nel suo punto più estremo, all’estremità di una differenza che differisce dallo stesso differire. In questa estrema differenza, quando il differire stesso è in ritiro, in ritiro del suo stesso differire, quando la differenza cessa di fare traccia del suo differire, l’ente non rinvia più al suo essere e l’essere si espone come nient’altro che ente. Come si sa, Heidegger, dopo Essere e tempo, si ritroverà per questi passaggi a interrogare la cosità dell’ente, presagio di ciò che più avanti sarà il fascino speculativo per una certa tautologia. Non mi soffermo molto su questo poiché si tratta di cose ormai molto indagate e anche un po’ esauste. Insisterò invece per qualche minuto su un passo di Deleuze. La formula iperbolica di nient’altro che ente infatti si ritrova sulla medesima linea di svolgimento del tentativo di pensare una differenza senza alcun cedimento o compromesso con l’ana­ logia, con la simiglianza, e con tutto ciò che la tradizione del negativo condivide con tutte le possibili variazione di analogia e simiglianza. In questo caso l’altro nominerebbe la differenza di Deleuze o almeno il tentativo di Deleuze di pensare una differenza senza differenti, un differire che per utilizzare le sue parole differisce da ciò che non se ne va in differenza. Leggiamo queste parole di Deleuze: Senonché in luogo di una cosa che si distingue da un’altra, immaginiamo qualcosa che si distingua, eppure ciò da cui si distingue non si distingua da essa. Il lampo per esempio si distingue dal cielo nero, ma deve portarlo con sé, come se si

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203 distinguesse da ciò che non si distingue. Si direbbe che il fondo sale alla superficie, senza cessare di essere un fondo.1

Passaggio particolarmente visionario. Si tratterrebbe di un differire che accade come un lampo, o un fulmine; per inciso, ricordo quanto siano importanti, per Deleuze, i pensieri fulminei, il fulmine del pensiero, quindi un fulmine come una datità o una differenza che non sarebbe tale, non differirebbe come datità, se ciò da cui si distingue se ne va in differenza. Siamo invitati a pensare un fondo, un fondale, il cielo dell’ente, che non fa da sfondo, che non delimita l’ente fulmine come lo scontorno di un limite, che giocherebbe tra un primo piano e un secondo piano. Siamo invitati verso un fondo che non fa da orizzonte dell’ente, strana apertura senza orizzonte. L’orizzonte infatti convoca sempre la logica di un secondo piano, la logica di un secondo piano che pretende di custodire la sua strana inevidenza di secondo piano. Se il fulmine è il nome per la differenza e, per noi, della datità, esso non accade nella compagnia segreta di una speciale inevidenza, di un secondo piano inevidente che farebbe da supporto al primo piano evidente. Se ci pensiamo bene la sfida non è solo quella di liberare una differenza dal differire, ma, ancora di più, di affermare la differenza solo laddove un secondo piano non fa da evidenza inevidente del primo piano. Come se la nozione di datità fosse in qualche modo in perdita in questa inevidenza, trattenuta come tale, in quanto inevidente, e si affermasse invece quando il piano di veduta, il fondo, il cielo nero di cui parla Deleuze, resta come sul medesimo piano dell’ente. Non gioca cioè sull’ine­ videnza, data come tale, del secondo piano di veduta, né su un limite differenziale che come la différance di Derrida offrirebbe qualcosa nell’istante imprendibile di un battito di ciglia. 1.  J. Deleuze, Differenza e ripetizione, tr. it. di G. Gugliemi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, p. 43.

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Questa pretesa visionaria di Deleuze ci interessa. Converge con l’affermazione iperbolica di un ente come nient’altro che ente, la ritroviamo nello svolgimento di una linea di coerenza per la quale la differenza ontologica non può che essere portata all’estremo. Se ripetiamo questa pretesa con un lessico più consueto, potremmo dire: una differenza, nel senso che stiamo precisando, o una datità, si consegue quando cessa ogni alleanza con la seguente formula: A è A in quanto è differente da B, quindi è A in quanto non è B, dove il differire da B, quindi il non essere B, quindi il negativo di B, concorre all’essere di A. Laddove cioè si affermasse la coimplicazione di una identità e di una differenza, laddove affermassimo che il non B concorre nell’affermazione di A, nel momento stesso in cui viene negato, ci troveremmo in perdita della differenza nel senso di Deleuze e nella nostra ripresa, in perdita della datità come nient’altro che ente. Tutto questo vorrebbe dire una cosa importante: vorrebbe dire che un fondo, come il cielo nero del fulmine, quando diventa secondo piano, quindi, quando assume la strana inevidenza di un orizzonte, promuove un genere di evidenza inevidente o comunque un tipo speciale di evidenza sovrapponibile a quel genere di inevidenza che si determina nel momento in cui coimplichiamo la negazione del differire nell’identità. Quando diciamo che il non B concorre in A siamo impegnati in un genere di inevidenza sovrapponibile a quell’inevidenza che sopportiamo quando l’evidenza di qualcosa si supporta nell’ine­videnza di un secondo piano. Come se potessimo documentare una singolare sovrapponibilità tra sguardo e veduta in questo tipo di inevidenza. In entrambi i casi lo sguardo vive una speciale diffrazione, se ne va obliquamente tra un primo piano e un secondo piano, così come procede diffrangendosi, anche qui obliquamente, nel negativo che concorre nell’identico. Diciamo così, un po’ rapi-

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damente: a un certo tipo di inevidenza, soprattutto a una inevidenza che si imporrebbe come tale, si accompagna sempre un tipo singolare di sguardo o di occhio, meglio dire occhio dello sguardo, poiché non dovremmo mai confondere uno sguardo con un occhio. Questo tipo speciale di occhio stereoscopio o obliquo andrebbe considerato il sintomo o la compagnia interna di questa dialettica tra un primo piano evidente e un secondo piano inevidente, dato come tale, e ancora più in quel regime dialettico per il quale A è A in quanto implica il non B che esclude. Naturalmente qui occhio diventa semplicemente una metonimia del gesto stesso della filosofia, metonimia del suo gesto, della sua mano o della sua parola. Si dovrebbe dire metonimia della presenza stessa del filosofo in questa scena di manifestazione. Sempre nella coerenza di questi sviluppi, questo vorrebbe dire che l’esperienza di un ente come nient’altro che ente esibirebbe un altro genere di evidenza rispetto al regime della differenza dialettica o al regime del negativo. Come si sa, Deleuze chiama in causa il nesso tra differenza e ripetizione; nella nostra parafrasi documenta una datità che non fa rinvio ad altro, o non andrebbe in differenza dal negativo, e mobiliterebbe uno guardo il cui occhio non si collocherebbe obliquamente sul piano di veduta. Con una conseguenza: poiché all’inevidenza di un secondo piano rispetto al primo piano corrisponde sempre un secondo piano differito dell’occhio in scena nella veduta, vorrebbe dire che a un ente come nient’altro che ente corrisponde sempre uno sguardo nell’impossibilità di andarsene in un secondo piano. Ma ci torneremo. Quando Deleuze si impegna per una differenza liberata dal differire, la sfida cruciale è quella di pensare qualcosa, il qual-

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cosa, la datità, fuori dal complicato regime della simiglianza. Il nient’altro che ente non sarebbe tale, se il regime della sua datità avesse a che fare con il regime della simiglianza. Non sarebbe dato, non sarebbe nient’altro che ente, se fosse riconoscibile per qualcosa di comune. Diciamolo con una cruenta accelerazione: liberare la differenza dal differire significa liberare la differenza o la datità dalla logica della simiglianza; poiché noi sappiamo che il calcolo logico della simiglianza è l’analogia, liberare la datità dalla semplice differenzialità significherebbe liberare l’ente in quanto ente dall’analogia. Anzi bisognerebbe dire così: ogni volta che una qualche forma di analogia interviene con il suo calcolo della simiglianza, l’ente in quanto ente non trova il nome per la sua entità d’ente. L’ente come nient’altro che ente pretende un’idea o un nome o un predicato che non si innalzi nell’analogia. Pretende, meglio ancora, qualcosa di molto serio e decisivo: pretende che l’analogia, pur disseminandosi ovunque nel linguaggio, non sia il momento decisivo per la datità di qualcosa, per l’essere dell’ente. Pretende qualcosa di ancora più radicale: pretende che l’analogia sia in un certo senso derivata, almeno nel senso che quando impone il suo statuto qualcosa di serio della datità sarebbe in un certo senso in pericolo. Non ho tempo però per insistere su questo, compio quindi un piccola virata. Accanto a Deleuze, a un Heidegger che interroga dopo Essere e tempo la cosità dell’ente, c’è un altro apporto che converge su questa iperbolica affermazione di un ente come nient’altro che ente. Questo apporto è quello di Levinas. Non dimentichiamo che il volto nella sua esposizione non ha nulla a che fare con una analogia. Il volto di Levinas, come il fulmine di Deleuze, si distingue da ciò che non si distingue. Si potrebbe dire in questo modo: il volto è l’apertura dell’ente, apertura per la quale un ente è nient’altro che ente. Come se

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quel niente che qui è chiamato in causa fosse libero di ogni negatività proprio in quanto rimanda all’altro del volto. Come se dicessimo: nell’altro del volto l’ente non rinvia a nien­ t’altro. Così come il volto non rinvia a un orizzonte per la sua esposizione, così l’ente nel volto, come esposizione, non farebbe rinvio a nient’altro che alla sua stessa datità. Come se il volto fosse il cielo nero del fulmine di Deleuze, con questa non secondaria precisazione, tuttavia: quel cielo nero può non distinguersi dalla differenza che da esso si distingue solo se accade a sua volta in una esposizione in cui ogni ritrazione o ogni ritiro sono a loro volta esposti. Da Levinas ricaviamo un’eredità per la quale prima ancora di un limite che divide l’ente da un secondo piano e prima ancora di un limite che non cessa di dividersi, come l’istante di Derrida, in due bordi, abbiamo un limite che si delimita nel darsi stesso di un altro nella sua esposizione fuori orizzonte. Potremmo senza troppe forzature parafrasare in questo modo l’eredità di Levinas: l’altro è lo sfondo limite del dato. Non saremmo all’altezza della datità, se il limite in cui si delimita non coinvolgesse l’altro. Non nel senso che stiamo attenti del non altro, come quando si dice del non identico, quindi del non B di A, ma nel senso che non sarebbe dato se non nello sfondo senza ritiro di un altro. Come se svolgendo all’estremo questa coerenza dovessimo dire: non c’è dato come nient’altro che ente se non nella coimmanenza di dato e di altro. Come se la lezione di Levinas per la quale il volto è l’apertura del dato, la è del dato, potesse tramutarsi in una affermazione come la seguente: non c’è dato, non c’è differenza differita da ogni differire se l’altro non è coimmanente al dato, se l’evidenza del dato non accade sempre nella forma di un dato a. Dire che l’altro è coimmanente al dato significa riconoscere che l’evidenza della datità comporta sempre un dato a. Non vi sarebbe datità se non come data a. Non data a un soggetto, quindi,

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non un objectum, piuttosto dato come ciò che fa resistenza alla riduzione oggettuale. Dato a, come dato a chiunque, dato nella sua esteriorità pubblica, dato resistente al semplice prospettarsi. Questa coevidenza dell’altro e del dato, quest’alterità coimplicata nel dato a, non restituisce mai dal semplicemente negativo o dal secondo piano di veduta. L’altro coimmanente al dato non è lo sfondo orizzonte del dato, non appartiene al genere di inevidenza del negativo. Se c’è qualcosa di importante che possiamo ereditare da una certa radicalizzazione fenomenologica a cui Levinas non è estraneo è che niente si sottrae alla datità. Affermare infatti che l’altro è l’orizzonte del dato significa qualcosa di apparentemente sorprendente; poiché l’altro di Levinas, l’altro del volto, non è una semplice presenza così come non è una semplice assenza, meglio ancora non accade nella dialettica di una presenza-assenza, l’altro che qui si richiama è come il coefficiente stesso della datità. Se non è sfondo del dato, negativo sfondo del dato, differire di essere ed ente, l’altro del dato è sul medesimo piano del dato. Come se guardando quella sedia là davanti a me, non potessi farne esperienza se la stanza che fa da sfondo del suo stagliarsi in primo piano non fosse a sua volta marcata dalla datità. Potremmo formalizzare in questo modo: il non essere B di A non si correla ad A in quanto non B, ma solo in quanto datità di non B. Per questo lo sfondo di A non è non B, ma il non sfondo di non B, in quanto datità di non B. Per questo l’orizzonte del dato non è uno sfondo né una linea che si divide in due bordi. Lo sfondo di un dato sta né in primo piano né in secondo piano, sta sul medesimo piano della datità del dato. Come si vede per questa linea di coerenze, il cielo scuro di Deleuze incontra un certo possibile sviluppo di Levinas.

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Se ci pensiamo bene, però, a questo punto troviamo un’altra confluenza o possibile confluenza. Questa volta parliamo di due fiumi che attraversano la nostra tradizione filosofica. Chi chiamiamo in causa infatti quando diciamo che niente si sottrae alla datità? Chi chiamiamo in causa quando diciamo che il niente di questo nient’altro non può che darsi nella è? Che il raggio della è lo abbraccia necessariamente? Chiamiamo in causa Emanuele Severino. Se c’è un filosofo che combatte da decenni le evidenze oblique, la retorica di una certa dialettica, le inevidenze che si darebbero in quanto inevidenze, se c’è un filosofo che combatte lo sguardo diffratto egli ossimori in cui le aporie cercano la soluzione, questo è Severino. Ma c’è un’altra linea della nostra tradizione che ha a suo modo combattuto il negativo della dialettica, l’essere-niente di una certa dialettica, una tradizione che come si sa ha tentato una riforma della dialettica e in un certo senso un abbandono della dialetticità del negativo: questa tradizione, più interpretata che compresa, è quella gentiliana. Nel fiume di questa tradizione la cattiva metafisica scinde l’essere dall’ente, se ne va in trascendenze verticali o in fondi abissali. Per Severino l’intrascendibile è l’essere, per Gentile è il pensiero. L’intrascendibile è un nome antico per indicare una speciale esperienza dell’alterità. In questo senso, stiamo attenti: l’alterità è altra solo nella misura in cui non rinvia a nient’altro. L’alterità non è altra se rinvia a qualcos’altro. L’intrascendibile è il nome per una alterità di questo tipo. Gentile e Severino, in diverso modo, si attestano su questa intrascendibilità. Se conosciamo le parole di Severino su Gentile, ovviamente non sappiamo che cosa Gentile avrebbe risposto a Severino. Per il nostro tema può essere utile simularne e parafrasarne il contenuto.

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Gentile avrebbe forse potuto dire in questo modo: l’intrascendibile è una alterità che non rinvia ad altro, che non ha altro fuori o oltre di sé. Non rinviare ad altro fuori di sé significa che uno sguardo o un occhio, un dire o un pensare, non possono trovarsi come altro dall’altro. Così l’essere di Severino è nella misura in cui è il pienamente manifesto; potremmo anche dire, con un linguaggio che non è il suo: che esso sia il pienamente manifesto, ma il manifesto come l’altro di cui parliamo, non sarebbe tale se nel suo manifestarsi non si manifestasse anche ciò a cui si manifesta. L’intrascendibile sta nel fatto che la è si dà solo nel mostrarsi. Se vale il principio per cui tutto ciò che si dice cade nella è, vale ancora più il principio per cui l’evidenza della è non può che manifestarsi; darsi dice il manifestarsi, ma il manifestarsi non è tale se non coimplica il suo testimone. Se questa testimonianza resta altra dal manifestarsi, l’esperienza dell’intrascedibile non si consegue. L’essere si ritrova lo sguardo della scena stessa di manifestazione ad essere altro da esso. Si può allora dire in questo modo: un ente è esposto quando lo sguardo della scena di esposizione non se ne va in differenza o non differisce dalla veduta. Non andrebbe mai sottovalutata questa scena dello sguardo, coinvolge più di quanto possa sembrare il piano in cui la filosofia elabora, inventa e costruisce i suoi concetti. L’obiezione di Gentile e Severino dunque sarebbe forse la seguente: l’essere che affermiamo come l’intrascendibile non può trascendere il dirlo o il pensarlo. Pertanto l’intrascendibile deve comprendere la correlazione di manifestazione, deve coimplicare, o meglio deve esibire la scena stessa della manifestazione. Gentile chiama questa scena di manifestazione pensiero adottando un termine che ha sempre provocato più di un equivoco. Affermare contro Severino che la è accade come intrascendibile significa che la è prima di ogni origine accade

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già sempre mediata. La mediazione è per così dire l’immediato. Mediazione nel senso di immediata correlazione. Immediata correlazione la quale non sarebbe tale se fosse, per così dire, a due termini. Forse qui abbiamo la più potente reazione alla dialettica che la tradizione filosofica del Novecento conosca, la correlazione infatti è a tre termini, è una monotriade. L’uno è trino, la scena della manifestazione accade nella simultaneità di tre termini. Correlazione a tre termini la cui simultaneità è una sorta di convertibilità, riforma dell’antica convertibilità dei trascendentali, ma soprattutto idea estranea, radicalmente eretica, rispetto a due figure speculative della tarda modernità: l’idea che il terzo sia la relazione, quando si dice ad esempio che lo Spirito del Padre e del Figlio sarebbe la relazione tra i due, ed eretica rispetto all’uno e ai molti espresso nella figura speculativa: l’uno dell’uno e dei molti. L’unità dell’uno e dei molti è una figura speculativa della tradizione dialettica che non andrebbe mai confusa con la monotriade gentiliana in cui l’uno è già sempre trino. Quest’ultimo, se volete, è più prossimo alla passione di Deleuze per i pensieri fulminei di Spinoza. Almeno nel senso che l’uno-molti, per restare all’altezza di una univocità radicale, andrebbe rapportato al fulmine di un pensiero, al fulmine di un pensiero per il quale l’uno è molto, senza passare per il transito di una inevidenza che nasconde la sua datità evidente come una unità che sarebbe nella diffrazione dell’uno e dei molti. Nella lezione di Gentile, però, affermare che tra l’uno e i molti non sia data alcuna mediazione non sarebbe sufficiente a conciliare l’univocità con la manifestatività, e soprattutto sarebbe sempre sul punto di recludere l’univocità nel monoteismo. E il monoteismo non è mai in grado di abbandonare la logica dell’origine del fondamento o del principio.

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Nell’eredità di Gentile pensare non dialetticamente l’uno e i molti significa abbandonare sia l’uno che i molti per la scena del trino, quindi una è che si darebbe nella convertibilità di tre momenti. Senza questa coimmanenza, una alterità se ne va sempre in cattiva trascendenza o cade in una cattiva immanenza. La manifestazione accade nella convertibile coimplicazione di tre momenti in cui l’origine ha già sempre cessato di essere originaria. Come dire: l’unica esperienza per la quale un altro non rinvia ad una alterità, e non rinvia ad una alterità perché non avrebbe altro fuori di sé, è una scena nella quale l’altro dell’altro sono coimmanenti. Per i concetti della filosofia questo significa che il dire con cui essa mette in scena i suoi concetti, deve ogni volta restituirsi nella scena stessa del detto. Se il dire resta in secondo piano, significa che tutte le nozioni di alterità che essa dovesse esporre sarebbero limitate dall’ altro, dall’alterità stessa del suo dire. Quindi dire qualcosa che restituisce la coimmanenza del dire e del detto, dire qualcosa che nel detto impedisca al dire di velarsi in un secondo piano, come un regista anonimo della messa in opera dei concetti. È in gioco qualcosa di più dello stile della filosofia, è in gioco la potenza delle sue metafore. Occorre tuttavia chiedersi se la convertibilità di trascendenza e immanenza, a cui costringe la monotriade gentiliana, non resti ancora incerta e sospesa proprio sul terzo di questi momenti co/dati nella scena della manifestazione. C’è da chiedersi se una esitazione fatale, diciamo una ipoteca della dialettica, non resti proprio nel terzo dei tre momenti: ciò che la tradizione teologica e lo stesso Gentile chiamano lo Spirito del Padre e del Figlio. C’è da chiedersi se lo Spirito del Padre e del Figlio possa

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pensarsi come relazione del Padre e del Figlio, se qui, in questa nozione di relazionalità, di unità di sostanza e relazione, non prevalga ancora una tradizione incapace di pensare all’estremo l’univocità e la trinità. C’è da chiedersi se il pensiero estremo del trino non costringa a pensare la relazione come il terzo altro dall’uno e dall’altro. Come se fossimo in perdita dell’altro senza alterità se la co/immanenza dell’uno all’altro non fosse nella datità altra di un terzo come l’altro per cui l’uno può essere altro dall’altro. Nella nostra esperienza questo vorrebbe dire che non c’è datità che non sia in co/immanenza di un altro, lo abbiamo visto nell’eredità di Levinas, ma non sarebbe altro se non nella co/immmanenza del dato. Del terzo dato. Il terzo dell’uno e dell’altro impedisce che l’uno e l’altro siano sempre nella chiusura di un altro fuori di sé, ospitalità preoriginaria della relazione in quanto tale. Forse ho ancora qualche minuto per riprendere il momento in cui ho fatto cenno al dire metaforico della filosofia. Forse è più cruciale di quanto generalmente pensiamo non confondere le metafore con le analogie. C’è una considerazione di Davidson che trovo particolarmente importante: L’errore fondamentale […] – egli scrive – è quello di pensare che la metafora, oltre al suo senso o significato letterale, abbia anche un altro senso o significato.2

Non solo non si deve confondere la metafora con l’analogia, non solo la metafora non è una forma di comparazione abbreviata, ma ancora di più la metafora non fa allusioni ad altro da ciò che mostra. Se le metafore vanno prese alla lettera vuol dire che esse trovano l’idea per cui si afferma qualcosa come 2.  D. Davidson, Verità e interpretazione, a cura di E. Picardi, tr. it. di R. Brigati, il Mulino, Bologna 1994, p. 337.

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nient’altro che ente. Vorrebbe dire che quando diciamo qualcosa senza alludere a qualcos’altro lo diciamo metaforicamente. Lo esprimiamo nel colpo riuscito di una metafora. Si tratta di un vero e proprio rimpatrio sull’ente. Abbiamo trovato l’idea per la quale l’entità dell’ente non rinvia a nient’altro che al suo come o alla sua datità d’ente. Per questo si procede nella giusta direzione quando si osserva che le metafore sono opere d’arte in miniatura. Non sono forse le opere d’arte esemplari di enti esposti come nient’altro che enti? Per questa linea di svolgimento non si potrebbe accettare l’ipo­ tesi di Ricœur per cui la è della metafora oscillerebbe nella tensione tra è e non è. Tensione che ridurrebbe la metafora a presagio, solo il presagio, della presa o identità concettuale. Si potrebbe mostrare che tutto questo contraddice una acquisizione decisiva per lo stesso Ricœur e cioè l’iconicità dell’accadere metaforico e la sua emozione ontologica. Come descrivere fenomenologicamente la scena della metafora e la sua speciale emozione? Quando qualcosa in un’idea-immagine si espone nel suo come, (il Deleuze di Logica del senso potrebbe dire: nel suo mondeggiare), capelli d’oro biondeggiano nell’idea dell’oro. Non si deve affermare che in questa scena l’esposizione singolare di questo mondeggiare è sempre correlativa all’impossibilità per un soggetto-Io di sottrarsi? E non si deve affermare che in questa scena d’esposizione una datità come nient’altro che ente assume sempre la coevidenza del dato a, quindi la coimmanenza del dato e dell’altro? L’impossibilità di sottrarsi è dunque correlativa alla datità, mentre una certa possibilità di restare nella velatura di un secondo piano si correla naturalmente con un ente in differenza dal­ l’essere. A un ente che si svela nel rinvio a un secondo piano

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corrisponde sempre uno sguardo che può restare celato nel segreto di un secondo piano. A una differenza di essere e ente corrisponde sempre un differire in cui il testo della filosofia può velare la propria mano, il proprio dire. Si potrebbe ripetere tutto questo nel lessico apparentemente ingenuo con cui Levinas introduce la tensione tra il dire e il detto, tra il dire con cui la filosofia espone i propri concetti e il dato esposto nel detto dei suoi concetti. Se si cercasse un’obiezione radicale alla serietà dell’essere di Severino e all’evidenza impegnativa di un essere che marca di se tutto il dicibile, compreso il niente, si potrebbe richiamare l’immanenza assoluta di essere e dire, altro modo di mostrare essere e pensare, il quale a sua volta implica sempre un altro a cui la testimonianza viene resa. La è, dunque, nella sua manifestatività, accade trinitariamente. La sua evidenza è la simultaneità del trino. L’accadere della è comporta una unità di uno e trino. Non si tratta dell’unità dialettica dell’uno e del molto. Qui non si tratta di pensare dialetticamente. Anzi occorre convincersi che il pensare dialettico arriva sempre quando un certo fondamento si presenta in copertura di questa simultaneità del trino. Lo esprime la stessa nozione di molteplice, dell’uno e del molteplice. Il molteplice non è un altro modo per dire il non uno dell’uno. Il molteplice si sta già sempre restituendo ­all’uno, si sta restituendo all’uno poiché il molto implica sempre il monoteismo dell’uno. La differenza appartiene naturalmente alla dialettica dell’uno e del molto, ma il differire dell’uno non è altro che l’intervallo della sua riposizione. L’uno dell’uno e del molto non fa che ribadire questa non esteriorità del molto all’uno; sul piano speculativo questo accade imponendo la pratica di una obliquità dello sguardo in cui ogni esteriorità o ogni effetto di testimonianza vengono velati.

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Il trino dice qualcosa di assolutamente diverso del molto del­ l’uno. Dice innanzi tutto il molto come altro, quindi non il differente o il differire, ma la differenza come coimmanenza dell’un-l’altro. Solo la coimmanenza dell’altro, la cooriginarietà dell’un-l’altro, impedisce di pensare l’altro come differenza dell’uno. Niente di comune o di originario tra l’uno e l’altro, ma solo la cooriginarietà dell’esteriorità dell’un-l’altro. Quindi non il due che proviene dal dividersi dell’uno o dal suo negarsi, ma il l’un-l’altro come darsi della manifestatività stessa dell’uno. L’un-l’altro però non può esporre l’alterità come esteriorità se l’alterità non si disloca come altro dell’uno e dell’altro.

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Esperienza qualificata del senso e riacquisto del mondo Marco Moschini

Questo mondo rotondo è bello a vedersi, nove volte di mistero fasciato; e benché non sappiano i veggenti, imbarazzati, svelare il segreto del tuo cuore operoso, tu fa battere il tuo con quello di Natura, e ti sarà tutto chiaro da un capo all’altro. Lo spirito che in ogni forma si tien celato Fa cenni allo spirito che più gli è affine; della sua incandescenza risplende ogni atomo, e allude al futuro che gli appartiene. (R.W. Emerson, Natura)

Il tema che vorrei affrontare in questo mio contributo tenta di collocarsi nella scia delle molte e profonde riflessioni sulla tematica di alterità e negazione che qui sono state svolte*. In queste pagine spero possa emergere quello che è nel mio intento, cioè spostare il nostro focus su un orizzonte apparentemente decentrato: quello dell’esperienza – segnatamente in quella che indicherò come esperienza del mondo – non come *  Il riferimento è al Seminario di Studi “Alterità e negazione”, tenutosi a Milano, presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, Facoltà di filosofia – Centro di metafisica e filosofia delle arti DIAPOREIN, nei giorni 11-12 dicembre 2018, in occasione del quale è stato presentato l’intervento.

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esplicazione di una modalità di apprendere il reale, ma come il “luogo” dove viene colto, nella riflessione speculativa, il significato ulteriore del darsi dell’alterità. Insomma si vuole riflettere sopra un’indicazione: un’esperienza che ci dice molto dell’“altro” concreto, dell’alterità e nell’individualità che ci si presenta nella nostra diretta esperienza del mondo. Il termine “altro” qui è da intendersi non come un riferirsi al vago trascendente che tale termine sembra spesso evocare. Sicuramente si intende trattare dell’esperienza del mondo come di un’esperienza del tutto peculiare, di un sentire del tutto poco ordinario, se si vuole. Questo sì! Esperienza del mondo che passa dal consapevole sentire la presenza di tutto secondo una capacità che sa riqualificare il tutto stesso secondo la norma di senso di cui va in cerca il filosofare nella sua più pura essenza. Una rivalutazione dunque del “sensibile” non come livello meramente conoscitivo, meramente empirico, ma al contrario come livello di quella coscienza che agostinianamente, secondo ispirazione platonica, è appunto una totalità di senso. Ragione e intelletto non sono mere facoltà, ma vires animae che mai si disgiungono e che si arricchiscono invece in sinergica capacità di cogliere, in modo diverso eppure cooperante, l’insieme delle maniere differenti di cogliere le forme della realtà. Un sistema coscienziale che vuole indicarci una gradualità distinta, ma non disgiunta, di modi di intendere; modalità di riappropriazione del reale per giungere alla coscienza del suo fondamento. Rintracciare quel “medesimo” che altro non è che base e presupposto di tutto il reale. La porta di ingresso, chiave critica ermeneutica del tutto. Il “medesimo” che assicura una comprensione comune che fa cogliere, già nel tempo e nella storia, un qualcosa che si fa subito evidente di per sé. Un’immutata posizione fondamentale che assicura della realtà di ogni finito in ordine al suo fondamento infinito. Questa capacità della coscienza, nella quale è compresa la medesima esperienza (in unum con l’intendimento e la volontà),

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realizza una via di comprensione comune. Un comprendere che altro non è che il completo cooperare delle vires animae; queste sono potenze, forze della mens: l’esse, il nosse e il velle nel loro reciproco richiamarsi si manifestano e si esperiscono e si realizzano nella capacità di sentire, di intendere e di volere. Ognuna di esse modus e non facultas. Modi cooperanti di rendersi accorti nella verità della verità. E voi cosa pensate sia la sapienza, se non la stessa verità? […] Ma perché si dia la verità, deve derivare dal summus modus, dal quale procede e nel quale ritorna dopo essersi realizzata. E a questo summus modus nessun altro modus è superiore: se infatti il summus modus è modus tramite il summus modus, allora è modus a se stesso. Ma anche il summus modus è necessariamente vero modus. Come la verità è generata [gignitur] dal modus, così il modus è conosciuto dalla verità. E non si può dare verità senza modus, né modus senza verità.1

Tali modi ci consegnano il “mondo”. Parola che raccolgo nel suo genuino significato che, dal designare la volta celeste e la terra con i suoi abitanti, ha assunto poi quello di universo nel quale si danno tutte le cose esistenti e pensabili. Mondo come termine che raccoglie in sé il senso della terra e di tutto ciò che in essa si dà. Mondo: luogo di esperienza delle molte cose, dei molti volti, delle molte singolarità che costituiscono un reale risultante vero nel vero della coscienza, la quale sa discernere il fondamento critico che lascia riconoscersi nella coscienza stessa. Un concetto molto vivo nella scrittura di Carabellese e di Moretti-Costanzi e di tutto l’ontologismo critico2. Interrogarsi 1.  Agostino, De Beata Vita, 4, 34, in Opere di sant’Agostino, III/1, Nuova Biblioteca Agostiniana, Città Nuova, Roma 1970. 2.  La distinzione tra mondo e terra la mutuo direttamente dalla riflessione di Heidegger che compie tale differenziazione nel saggio L’origine dell’opera d’arte (in Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 3-69). Una distinzione che Moretti-Costanzi voleva invertita, offrendo un passaggio opposto dal “mondo” alla “terra”. Con ciò il filosofo umbro voleva

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sul mondo vuol dire interrogarsi sul reale; vuol dire interrogarsi – molto direttamente – sul fondamento critico dell’esperienza della coscienza. In fondo tale domanda si manifesta poi come niente altro che un aprirsi della coscienza alla stessa dimensione metafisica. Il che è segnalato dallo stesso Hegel il quale, in un passaggio significativo della sua Fenomenologia, aveva detto, con la sua peculiare capacità speculativa, che si trattava di percorre, nella filosofia, l’esperienza della coscienza per rintracciare in essa che l’assoluto è già in sé e per sé presso di noi3. Ed è proprio in questa frase incidentale, ma essenziale, della Fenomenologia dello spirito che si può rintracciare la chiave di lettura che

richiamare alla concretezza della terrenità e delle cose che vedeva perduto in Heidegger. Io accetto questo senso ma preferisco la dizione heideggeriana perché intendo nel termine “mondo” un senso di complessità e diversità dal modo troppo greve di un realismo eccessivamente radicale. 3.  «In effetto quella paura presuppone come verità qualcosa, anzi molto, e ne fa base delle sue apprensioni e delle loro conseguenze; del che, a sua volta, si deve ricercare se sia verità. Una tale paura presuppone, cioè, rappresentazioni del conoscere, inteso come strumento e mezzo; presuppone anche una diffidenza di noi stessi da questo conoscere; ma, sopra tutto, presuppone che l’Assoluto se ne stia da una parte e il conoscere dall’altra, per sé e separato dall’Assoluto, pur essendo qualcosa di reale; ovverosia presuppone che il conoscere, il quale fuori dell’Assoluto è indubbiamente anche fuori della verità, sia poi tuttavia veridico: assunzione per cui ciò che si chiama paura dell’errore si fa invece piuttosto conoscere come paura della verità. Questa conseguenza risulta dal fatto che l’Assoluto solo è vero, o il Vero solo è assoluto. […] Se mediante lo strumento l’Assoluto, come un uccello preso alla pania, dovesse solo venirci avvicinato alquanto, senza che nulla vi si mutasse, qualora in sé e per sé non fosse e non volesse essere già presso di noi, esso si farebbe beffe di questa astuzia; un’astuzia sarebbe infatti in tal caso il conoscere; perché col suo molteplice affaccendarsi si dà l’aria di fare tutt’altro che stabilire un immediato e quindi gratuito rapporto» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, Introduzione, p. 67 e, nel seguito, ciò che è detto poco prima a p. 66).

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guida questo rileggere l’esperienza del senso del mondo in una direzione metafisica piuttosto che empirista4. A questa premessa devo aggiungere un’altra chiosa che traggo da Moretti-Costanzi, il quale, parlando di Bonaventura da Bagnoregio, al riguardo invitò i pensanti a recuperare il «tono estetico della coscienza»; indicando con questa espressione la caratura dell’intelligenza che discende dalla capacità di esercitare un sentire qualificato piuttosto che farsi trascinare da un

4.  «Indagando, ora, la verità del sapere, sembra che noi indaghiamo ciò che è in sé. Solo, in tale indagine esso è nostro oggetto, è per noi; e lo in-sé di esso quale resultasse, sarebbe piuttosto il suo essere per noi; ciò che noi affermeremmo quale sua essenza, non sarebbe già sua verità, ma soltanto il nostro sapere di esso. L’essenza o la misura cadrebbero in noi, e ciò che alla misura dovrebbe venir comparato e intorno a cui in questa comparazione si dovrebbe decidere, non sarebbe tenuto a necessariamente riconoscerla. Ma la natura dell’oggetto da noi esaminato rende vana questa separazione o questa parvenza di separazione e di presupposizione. La coscienza dà in lei stessa la propria misura, e la ricerca sarà perciò una comparazione di sé con se stessa; giacché la distinzione testé fatta cade nella coscienza. Essa è in lei uno per un altro, ossia ha in lei in generale la determinatezza del momento del sapere; in pari tempo questo altro è a noi nel soltanto per lei ma è anche oltre questo rapporto o in sé [an sich]: il momento della verità. Dunque, in ciò che la coscienza, dentro di sé, designa come lo in-sé o come il vero, noi abbiamo la misura da lei stessa stabilita per commisurarvi il suo sapere. Chiamando il sapere concetto, e l’essenza o il vero l’essente o l’oggetto, l’esame consiste nel vedere se il concetto corrisponda all’oggetto. Chiamando peraltro l’essenza o lo in-sé dell’oggetto concetto, e intendendo per contro quale oggetto il concetto come oggetto, com’esso, cioè, è per un altro, l’esame consiste nel vedere se l’oggetto corrisponde al suo concetto. Ben si vede che le due cose sono lo stesso; ma l’essenziale sta nel far sì che durante l’intera ricerca entrambi i momenti, concetto e oggetto, esser-per-altro ed esser-in-se stesso, cadano essi stessi nel sapere da noi indagato, e nel far sì che, quindi, noi non abbiamo bisogno di portar con noi altre misure, né di applicare nel corso dell’indagine le nostre trovate e i nostri pensamenti; anzi, lasciandoli in disparte, noi otteniamo di considerare la cosa come essa è in e per se stessa» (ivi, pp. 74 s.).

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sentire ridotto al mero esercizio empirico5. Una nobilitazione del sentire emendato dalla sua mera funzione gnoseologica. Esplicando con questa espressione il senso di un concetto molto alto del suo pensare: quello di «terrenità edenica». A tale concetto il filosofo umbro dedicava un importante lavoro al quale poneva una considerazione preliminare: Perché possa esservi “mondanità”, vale a dire un mondo ambientale, una terra che sia di qualcuno e per qualcuno in un suo tono e in suo senso, occorre che il mondo risulti nell’atto medesimo e nella medesima orbita (la Coscienza) in cui risulta la persona comunicante che sa e parla di esso; che sia situazionale e singolare esattamente quanto lo è la persona; e che con questa costituisca un’esperienza tanto sapida e persuasiva, da tutelarci da ogni stimolo di fuoriuscirne, onde spiegarla e interpretarla.6

Il “mondo” dobbiamo prima di tutto abitarlo in proprio sullo sfondo della traccia della verità e della bontà con una volontà piena che non si vuole estraniare per niente dalla bellezza che costituisce poi l’essenza reale di ogni presenza nel mondo, che non è più oggetto ma davvero vestigio dell’essere, del vero e del buono stessi. Traccia del sommo bene e del sommo essere secondo la bella espressione che fu di tutta una tradizione che si è riversata in Dionigi, Bonaventura e Cusano. La “mondità” dunque è la capacità di leggere il mondo e questa implica una sensibilità, una sensitività qualificata. In questa qualità leggere le molteplici direzioni che sono quelle della nostra relazione intima con tutti e con il tutto. Quella relazione che vuole appunto abitare il mondo senza sentirsi estranei da 5.  Cfr. T. Moretti-Costanzi, Il tono estetico del pensiero di san Bonaventura, in Id., Opere, a cura di E. Mirri e M. Moschini, Bompiani, Milano 2009, pp. 2661-2670. 6.  T. Moretti-Costanzi, La terrenità edenica del Cristianesimo e la contaminazione spiritualistica, in Id., Opere, cit., p. 253.

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esso, non liberi e sciolti da ogni legame con lui. Tale sentirsi sciolti genera solo un senso di dominio sul mondano. Il mondo, in questa ottica, appare come non altro che la dizione fredda di un magazzino di cose da sfruttare. Il luogo estraneo dove esercitare una libertà patologicamente compromessa. Il mondo nella nostra visione non è il neutro e la neutralità delle somme di cose ma, in caso, il luogo dove tutto concorre a farsi riconoscere nell’ambientalità della coappartenenza di tutti a tutto. Relazione cosmologica si potrebbe aggettivare; prendendo questo aggettivo nel senso greco della sua etimologia: κόσμος come ciò che esprime un intrinseco ordine. Nel cosmo siamo tutti posti in un ordine che non ci lascia mai vivere nel mondo da estranei o da esiliati. In questo le riflessioni di Anders, pur molto illuminanti, nel loro sguardo impietoso sull’“antichità” costitutiva ed ontologica dell’uomo, mettono eccessivamente in guardia da uno stato che il filosofo tedesco vedeva operante in un “non appartenere” dell’uomo al mondo. Anders vedeva pessimisticamente l’uomo condannato ad una vita patologicamente libera e incapace di relazionarsi con il proprio mondo. Si vive in questo da stranieri, in una perdita della relazione con tutto ciò che nella terra aspira ad essere ambiente mondano qualificato7. Possiamo capire questa visione ma non dobbiamo seguirla quanto invece dobbiamo immergerci in una consapevolezza diversa. Non di estraneità ma di coadesione al mondo. Di fronte all’appello del mondo, che ci richiama alla sua appartenenza, si tratta proprio di compiere nel pensiero una qualificazione essenziale che ci fa fare, nel riconoscimento delle individualità, l’esperienza dell’unicità; bene espresso tutto ciò da Ralph Waldo Emerson in un memorabile passaggio di Natura:

7.  Cfr. G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, tr. it. di L.F. Clemente e F. Lolli, Orthotes, Napoli-Salerno 2015.

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224 Quella famosa spinta primordiale si è propagata attraverso tutte le sfere del sistema e attraverso ogni atomo di ciascuna sfera, attraverso tutte le specie di esseri e attraverso la storia e le manifestazioni di ogni individuo. L’esagerazione è nel corso delle cose. La natura non manda nel mondo nessun essere, nessun uomo senza aggiungere un piccolo eccesso della stessa specifica qualità. Dato il pianeta, occorre aggiungere l’impulso; cosicché la natura aggiunse per ogni essere uno scatto di violenza di direzione sul suo particolare sentiero, una spinta per metterlo sul suo cammino; in ogni esemplare un di più di generosità, una goccia di troppo. […] Dobbiamo mirare al di sopra del segno per colpire nel segno. Ogni atto ha in sé una qualche falsità d’esagerazione.8

Sentire questo eccesso, questa esagerazione che promana da una quantità infinita di individualità altro non è che una qualità che esonera dalla riduzione tout court alla dimensione – come direbbe il filosofo americano – esclusivamente “vegetativa” dell’esistenza. Saremmo così mossi ad un’esperienza “del di più”. Posti in una coscienza, ripiena di quella platonica «mania divina», che fa cogliere tutto il mondo nel suo frammento. Per afferrare l’intero a partire da quel piccolo residuo del mondo che sono gli “altri”, ogni “altro”. Questa esperienza – ha ragione Emerson – non resta ferma; ci fa attraversare, nella sua totalità, la scala dell’essere e in questo ascendere, e in questo rifluire, non possiamo non esperire la libertà della coscienza che percorre l’esperienza del mondo come esperienza di un pensiero chiamato a pensare sempre di più la profondità del mondo medesimo. Del reale non ci è consentito più, semplicemente, la sua riduzione a un dato misurabile, a un’opinione, ma dobbiamo scoprire la forza che promana dalla bellezza che si mostra nelle pieghe della sua buona

8.  R.W. Emerson, Natura, in Id., Natura ed altri saggi, a cura di T. Pisanti, BUR, Milano 1990, p. 50.

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verità. Ha pienamente ragione Emerson nel dire che «la realtà è più eccelsa di quanto se ne possa riferire». Non c’è nulla di disadorno, di irregolare, di senza qualità, non c’è discontinuità contraddittoria. Tutto nella natura concorre a essere “mondo”, unità e totalità che è «incarnazione di un pensiero e ritorna ad essere pensiero». Questa esperienza ci consente così di dimorare nel mondo pienamente e di ritrovarci in esso. Ancora ci aiuta il pensiero di Emerson: L’uomo imprigionato, l’uomo cristallizzato, l’uomo vegetativo parla infine all’uomo impersonato. Quel potere che non si cura della quantità, che fa sia del tutto che della particella il suo uguale canale, presta il suo sorriso al mattino e distilla la sua essenza in ciascuna goccia di pioggia. Ogni momento, ogni oggetto ci insegnano qualcosa: giacché la saggezza è infusa dentro ogni forma. È stata versata in noi come sangue; ci agita come pena e dolore; si insinua in noi come piacere; ci avvolge in giorni opachi e malinconici o in giorni di serena laboriosità; e noi non ne indoviniamo l’essenza se non dopo molto tempo.9

Si tratta di liberare nell’uomo la forza di cui è capace: quella di vedere il bello, di riconoscerlo, di ricercarlo e anche di crear­lo. È nella forza della creazione che l’uomo si sente creatore di bellezza così come si sente attratto dalla bellezza stessa. E la bellezza appunto è il modo con cui dobbiamo abitare il mondo secondo la norma di un’esperienza qualificata. Se si resta uomini cristallizzati, vegetativi, imprigionati, è ovvio che l’aspirazione alla bellezza si riduce progressivamente e irrimediabilmente. Restiamo nella vacuità di un’esperienza unidimensionale secondo cui la bellezza è ridotta a mera piacevolezza. Non esperienza alta di senso ma solo gusto. Voltaire – di certo poco accorto di un’esperienza qualificata dal vero – si ridusse

9.  Questo passo e i richiami nel testo sono da ivi, pp. 58 s.

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a espressioni di questo genere «bello per il rospo è la rospa»10. Una frase che dice molto della sua incapacità di elevarsi qualificatamente sul mondo. Per fortuna le espressioni molto triviali di un empirismo di bassa lega, di un realismo volgare, poco possono intaccare la dimensione esperienziale qualificata del mondo. Tali trivialità appaiono in tutta la loro limitatezza solo al pronunciarle. Esse non dicono nulla, semplicemente nulla. Vogliono solo legarci indissolubilmente a un certo senso della terra, ma, come ha insegnato Nietzsche, è bene liberarsi dallo spirito di gravità per udire il canto di una canzone di danza che ci invita a vivere pienamente la bellezza dell’eterno ritorno del medesimo. Il ritorno di quella esperienza dell’unità nell’apparire e nel ritornare del singolo e dell’individualità; il ritorno di ogni «ragno» sulla porta carraia dove è scritto «attimo»11. Questo ritornare che non è il ritornare ciclico delle cose ma la presenza delle cose stesse, pur nella loro fugacità, al modo dell’essere, nella concretezza dell’essere. Da qui la rarità che è la radice del bello del mondo. La terra e il terreno si studiano nelle diverse modalità orizzontali proprie della ragionevolezza gnoseologica. E questo è giusto e anche utile. Solo che la terra viene ridotta alla frantumazione, alla distinzione. È il rischio di una lettura quantitativa del mondo e del reale. Una lettura qualitativa invece rimanda alla pienezza di un’unità che fa dell’individuo e del singolare un segno indispensabile di una presenza che non passa. Ogni individuo è frammento e non solo frazione, spezzatura. Tessera di un mosaico, ordito di un telo. 10.  A tale “culmine” antispeculativo giunge Voltaire nella voce Bello/Bellezza nel suo Dizionario filosofico. 11.  «Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, tr. it. di M. Montinari, in F. Nietzsche, Opere, vol. VI, t. I, Adelphi, Milano 19732, La visione e l’enigma, p. 191).

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Nodo di una rete. In ordine a questa unità esso diviene e si dà al pensiero secondo l’espressione poco fa citata di Emerson. Noi siamo in grado di sentire il mondo nella sua pienezza, di restare dentro il mondo e fuori di esso. Siamo capaci di porci in ascesa con esso su di un livello di essere che ci consente di dare del mondo la giusta dimensione, il suo significato e il suo senso. In questo ci è rivelata l’armonia del tutto nel frammento; il che ci fa articolare il sacro nella dimensione di un’esistenza che è piena e ricca. Un’estetica rinnovata nel sentire la sovrabbondanza dell’esistenza che viene testimoniata da ogni singolarissima individualità. Non un caso che proprio chi scrisse di una ästhetische Vernunft come theologische Ästhetik sia anche quello che abbia fatto seguire a questa “estetica” una metafisica del frammento12. L’esperienza del mondo nel suo significato più sovrabbondante è esperienza del suo senso più vero. Questo sentire qualificato ci esonera dal limite di un esperire solo intramondano aprendoci all’oltre. È chiaro che vengono così ridimensionate, se non escluse, tutte le concezioni che vogliano ridurre il nostro “stare nel mondo” come una sorta di dispiegamento di atteggiamenti distanzianti dal mondo stesso. Ci illumina l’espressione emersoniana che ci ha detto come l’esperienza della natura/mondo sia incarnata da un pensiero “che si fa pensiero”. Da un semplice pensato il mondo viene penetrato ed esso ci restituisce al pensiero.

12.  H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, 7 voll., Jaca Book, Milano 1971 ss. È l’opera più importante di von Balthasar, prima parte della sua monumentale trilogia teologica. Comprende: La percezione della forma, Stili ecclesiastici, Stili laicali, Nello spazio della metafisica: l’antichità, Nello spazio della metafisica: l’epoca moderna, Antico patto, Nuovo patto. Cfr., sempre di H.U. von Balthasar, Il tutto nel frammento. Aspetti di teologia della storia, tr. it di P. Sequeri, Jaca Book, Milano 2017.

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Scoperto il legame profondo con il mondo, l’esperienza qualificata dell’individualità necessaria del singolo e degli altri diventa un legame che ci fa essere tutt’uno con chi pensa. Posti in una realtà ben più vasta ed avvolgente che scopre la potenza della coscienza e che ci conduce a pensare autenticamente il nostro “ambiente” nel nostro essere irriducibilmente “ambientatati”. Ci viene indicata una coappartenenza alla dimensione ove il tutto si rivela nella dimensione relazionale. Ci viene rivelato che il mondo non è più solamente terra, non più sfondo di sterminate oggettività; ma realtà fatta di presenze e presenze che pur nel loro trasparire e trapassare annunciano un legame con il ciò che consocia e garantisce. Il mondo è atto concreto che ci distanzia dai dualismi consueti di anima e corpo, spirito e materia, soggetto e oggetto. Il mondo è questo tutto che in tutti si relaziona e che si presenta in questa relazione con i tratti della “comunionalità” (detto con espressione che voglio mutuare dal più schietto personalismo). Nel mondo, qualificatamente colto, tutti si ritrovano nel loro principio consociatore. Il riduzionismo conoscitivo, che ha ridotto il mondo alla schiera dei distinzionismi e dei dualismi (anche quando essi sembrano sorgenti da istanze metafisiche) producono solamente distinzione, limite, e pur pretendendo l’unità, in vero, separano e non confluiscono, in un’esperienza viva della coscienza, fino a provare e sentire il fondamento, l’intero, che tutto sorregge necessariamente in questa modalità viva dell’esistere. Non si tratta di perdere tutte le cose nell’uno o di dissolvere il tutto nei molti secondo un modello fraintendibile in un sempre poco convincente panteismo. Ma si tratta invece di vedere e cogliere la realtà fondativa dell’uno/essere rispetto alla presenza dell’ente/esistente. Uno e molti posti in un rapporto causale diverso da quello meccanico finitistico, un rapporto ontologico dove appunto si può percorrere l’esperienza del mondo come esperienza figurale del fondamento e del suo principio. Non

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è un caso che proprio Spinoza fece culminare la prima parte della sua Ethica, De Deo, con quella magnifica Prop. XVIII. In quella proposizione Spinoza indicò con precisione che, giunti alla consapevolezza della natura più profonda delle cose del mondo nel loro essere radicate nel loro principio e sostanza (o sostanza che è principio), non si poteva che riconoscere come in questo caso non si dovesse più cercare una lineare orizzontalità di cause ed effetti; ma bisognava essere avvertiti che ci si trovava in una dimensione più vera ove – il grande filosofo precisò acutamente – appare che «Dio è causa immanente, e non transeunte, di tutte le cose»13. Un’affermazione che distanziava la metafisica spinoziana da quella della tradizione fisicalistica di stampo aristotelico-scolastico, che aveva inteso la causa come un concetto esclusivamente unidimensionale e fisico; su questo concetto “naturalistico” di causa si è poi venuta a costituire una solida metafisica che sembrava essere un’elaborata prosecuzione della speculazione fisica condotta con il solo e unico strumento razionale. Ma ancora più significativa della Prop. XVIII è la Dimostrazione alla medesima, che esonera del tutto dalle consuete letture panteistiche dello stesso Spinoza seguite alle interpretazioni inaugurate dallo Jacobi. La dimostrazione infatti ci esplica molto e aiuta a spiegarci: Tutte le cose che sono, sono in Dio e devono essere concepite per mezzo di Dio (per la Prop. 15), cioè (per il Cor. I

13.  Restituisco il testo italiano di B. Spinoza, Etica, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, UTET, Torino 1972, Parte I, Prop. XVIII, p. 105. Però merita anche ridare il testo latino della proposizione perché la diretta citazione nella lingua usata da Spinoza esplica ancora meglio il senso della sua proposta: «Deus est omnium rerum causa immanens, non vero transiens. Demon.: Omnia quae sunt in Deo sunt et per Deum concipi debent, adeoque Deus rerum, quae in ipso sunt, est causa; quod est primum. Deinde extra Deum nulla potest dari substantia, hoc est res, quae extra Deum in se sit; quod erat secundum. Deus ergo est omnium rerum causa immanens, non vero transiens. Q. E. D.».

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230 della Prop. 16) Dio è causa delle cose che sono in lui; questo in primo luogo. All’infuori di Dio, quindi, non ci può essere alcuna sostanza (per la Prop. 14), cioè alcuna cosa che sia in sé al di fuori di Dio (per la Def. 3); e questo in secondo luogo. Dunque Dio è causa immanente, e non transeunte, di tutte le cose. – C.D.D.14

Tutte le cose sono e devono essere concepite per mezzo di Dio. Ancora una volta, l’esplicazione di una identità tra pensiero ed essere, tipica della visione propria della tradizione platonica che si è mostrata sempre come una tessitura originaria e ricorrente nella storia del pensiero15. Dio come «causa immanente» non dice che egli sia soltanto il modo con cui prendono forma e poi autonomamente si sviluppano i singoli finiti. Non è nemmeno un mero “iniziare”, un inizio cronologico e basta del dispiegarsi delle cose. Ma si dice che questo, nel suo restare ed essere fondamento di tutto, è il “principio”. Si direbbe meglio, con parola augusta, è ἀρχή. Ciò che è e resta essenziale. Questo è l’elemento decisamente platonico che ritorna. Mentre in Aristotele l’ἀρχή altro non è che un mero inizio fisico, una mera “causa”, nella metafisica platonica che si riverbera continuamente nel pensiero occidentale l’ἀρχή è principio. Nello Stagirita viene esplicato il problema presocratico dell’ἀρχή nella forma della dottrina delle quattro cause; e nessuna di queste può dirsi effettivamente del tutto “immanente”. Nella dottrina platonica invece l’ἀρχή viene indicata come l’ἰδέα che è tutta la realtà; principio unico e unificante, ed esplicante, nella loro verità, le ombre che nel mito della caverna, dopo l’esperienza della fuoriuscita (direi dopo l’esperienza del mondo), appaiono nella loro essenza di “vere ombre”. Tutte le cose sono e rimandano ad

14.  Ibidem. 15.  Cfr. E. Mirri, Elementi platonici nella filosofia di Spinoza, in Id., Pensare il Medesimo. Raccolta di saggi, a cura di F. Valori e M. Moschini, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2006, pp. 461-472.

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una «causa immanente» che le esplica e che si esplica nel darsi di tutto nel mondo. Per questo Spinoza sintetizzava l’essenza della filosofia – al termine della sua E ­ thica – come un «sentimus, experimurque, nos aeternos esse»16 e questo è possibile sentirlo proprio perché «nos in continua vivimus variatione»17. Tale concezione metafisica della relazione delle cose con il loro principio è trapassata in tutto il pensiero e mi piace per questo indicarla – come ho fatto ad inizio di questo contributo – come esperienza del “medesimo”. Ogni metafisica che abbia da un lato ridotto l’esperienza mondana al mero empirico, oppure abbia in qualche modo denunciato e vietato ogni relazione con il mondo (e di tali modi di intendere ve ne sono voci significative anche nelle moderne ontologie), in qualche maniera ha perduto di vista il carattere essenziale della metafisica, la quale è esperienza del principio; esperienza cosciente del fondamento; esperienza del pensare. Una visione peculiare, questa, che si è esplicata in modo molto chiaro già nel cuore del pensiero medievale, e segnatamente nel bonaventurismo, che ha in qualche modo compiuto in maniera decisa questa dimensione speculativa del senso del mondo. In qualche modo fu proprio in quella scuola filosofica che passò la visione, già ampiamente presente in tutte le fonti del pensiero medievale, della natura come luogo dove trovare al sentire opportunità di penetrare il vero attraverso l’esperienza. La natura è il luogo dell’“occulto”, del “nascosto”, che è presente. Tutti noi siamo i relati nel mondo; siamo in una linea testimoniale di ciò che resta nascosto, o meglio, resta velato e pur presente18.

16.  B. Spinoza, Etica, Parte V, Prop. XXIII, Scolio. 17.  Ivi, Prop. XXXIX, Scolio. 18.  «Dapprima, quando lo sguardo di colui che contempla considera le cose in se stesse, vede in esse il peso, il numero e la misura; vede il peso in relazione al luogo verso il quale le fa tendere; il numero per mezzo del quale

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L’esperienza del mondo, proprio per questa qualificata elevazione al principio, assume le forme dell’esperienza del bello, del buono e del vero di cui sopra si è detto. Un’esperienza triforme che possiamo definire davvero trinitaria. È l’esperienza triforme della coscienza che – secondo la lezione agostiniana del De Trinitate – si scopre trinitariamente formata. Vera immagine di Dio che si esplica nella relazione e dentro la relazione. Il mondo si apre alla coscienza triforme e trinitariamente criteriata, in essa si dà il recupero teologico del mondano. Il mondo nella coscienza, purificata e ascesa ad un sapere esperienziale del vero, è sempre coscienza di ciò che è propriamente presente. In questo si ritraccia una linea di continuità con quella teologia che vuole compiere una reductio delle arti tipica di quella che una troppo semplicistica lettura del filosofico intenderebbe ridurre a mistica. Mistica sì, ma come super-razionale recupero di potenzialità speculative che tacitano l’inessenziale. Mistica come apertura all’inaudito che è la caratteristica prima del filosofare. Non è un caso, quindi, che ritroviamo in consonanza a un pensatore come Bonaventura un mistico come Giovanni di Ruysbroeck. Nel suo L’ornamento delle nozze spirituali, Giovanni espone, proprio a inizio delle sue pagine, un necessario e quanto mai opportuno richiamo alla visione. Non è possibile vedere senza la luce e quindi l’esperienza del vedere già di suo comporta il preliminare: la presenza della luce. Il vedere è in primo luogo si distinguono l’una dall’altra; la misura mediante la quale sono delimitate reciprocamente. In virtù di questo, vede in esse la dimensione, l’armonia e l’ordine, e altresì la sostanza, la capacità operativa e l’attività. Tutto ciò gli consente di elevarsi dalle cose, come da un vestigio, alla conoscenza dell’immensa potenza, sapienza e bontà del loro creatore» (Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario dell’anima a Dio, testo latino a fronte, tr. it. di L. Mauro, Bompiani, Milano 2002, pp. 67-69). L’elevazione come momento di passaggio e approdo di chi fa esperienza del mondo mi pare una lezione importante di Bonaventura. Per questo rimando anche allo sviluppo di tutto il Libro I dell’Itinerario, che affronta questo grado di ascesi del mondo con il mondo.

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esperienza della luce che illumina le cose e le cose sono visibili in quanto rese chiare dalla luce. Un argomento che ripete l’antico argomento, presente anche in Agostino, del rapporto del sole con le cose che era esplicitato nelle figure del mito platonico della caverna19. Tutti i sensi di certo sono implicati nell’esperienza del mondo; tutti sono impliciti nell’esplicito della loro attività a cui rimanda l’esperienza del vestigio, della traccia. Il linguaggio in primo luogo diventa espressione dell’esperienza di senso del mondo. Questo per sua natura è ermetico, simbolico, assolve il ruolo importantissimo di essere il canale della rivelazione. Indisgiungibile dall’esperienza del mondo il linguaggio della parola e della figura. Indisgiungibile, nel linguaggio, la comunicazione profonda dell’esperienza del senso. Per cui alle molte forme del dire (il dire poetico innanzitutto) è affidato il segreto della propria esperienza; il linguaggio svela e rivela. Per questo al linguaggio ordinario resta la trivialità dell’ordinario, ma al linguaggio dell’esperienza piena del mondo invece spetta l’espressione del senso, l’esperienza dell’implicito, del nascosto. Nel linguaggio del dire sensato ecco che vediamo emergere nel dicibile ciò che è celato. Tutto si svolge in quella che possiamo chiamare una sorta di struttura dialettica del linguaggio che fa 19.  «Innanzi tutto prendiamo coscienza che Cristo, Sapienza di Dio, disse e dice ancor oggi nel cuore di ogni uomo un “Ecco”, cioè: Vedi, guarda, bada. Questo vedere o guardare o badare, per l’uomo intelligente è una necessità naturale. Vi prego di starmi a sentire. Per vedere, tanto nel campo dello spirito quanto in quello sensibile, ci vogliono tre cose. Chi vuol vedere attraverso gli occhi, ha bisogno della luce del cielo o di qualche altra luce naturale o artificiale che gli illumini l’aria e gli renda percettibili gli oggetti. Deve avere anche la disponibilità della volontà, perché le cose vengono percepite, e che gli occhi, organi della vista, siano sani e senza macchie, perché possano raccogliere con esattezza le immagini delle cose. Queste tre condizioni sono tutte ugualmente necessarie, tanto che, se viene meno anche una sola, la visione scompare». (Giovanni di Ruysbroeck, L’ornamento delle nozze spirituali, Carabba, Lanciano 1916, cap. I)

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da pendant alla struttura dialettica del reale. Nell’esperienza proviamo la triformità della coscienza aperta al vero, al bello e al buono. L’autorelizzarsi che nasce dall’intendimento e dal sentimento del vero prende la forma e le figure del linguaggio (meglio dei linguaggi, comprendendo con questo plurale tutte le forme del poetico e dell’artistico). Nella tradizione medievale trovo esemplare la proposta di Ildegarda di Bingen che trasmuta questa esperienza del mondo, che abbiamo detta mistica, dentro un linguaggio del dire poetico che assume sempre la caratteristica rivelativa. Un tema propriamente teologico e filosofico, al contempo, che esprime la natura della filosofia come esercizio a cui compete il contemplare, il degno di essere visto: il ϑεωρητικός, per dirlo in greco20. Per cogliere pienamente la “mondanità” del mondo dobbiamo, ancora una volta, penetrare il teoretico, assumere su di noi la capacità di sforzarsi di elevarci e purificare la nostra mente in una sorta di cammino speculativo che ci conduca ad un altro tipo di scienza. Una scienza che non è fatta solo di raziocinio, ma soprattutto di un’esperienza “saporosa”. Di un’esperienza sapida. Abbiamo bisogno di una sapida scientia direbbe Cusano. Questa è quella sapienza che ci colloca direttamente nel livello qualitativo ed alto della coscienza ove il criterio può essere solo dato nell’uno che rivela i molti; nel principio che ci fa sperimentare che la vita non passa e lo sguardo può progressivamente purificarsi. Cusano, ponendosi in emendazione del pensiero di Aristotele (come a dire di tutto il pensiero), così dirà a proposito della ricerca della sostanza ne Il Non-Altro: alla fine è parso ad Aristotele che nessuno l’avesse nominata in modo appropriato, in quanto tutti coloro che l’avevano nomi-

20.  Rimando allo Scivias di Ildegarda come fonte primaria di esplicitazione di questo sentire.

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235 nata avevano indicato con i loro nomi qualcos’altro o qualcosa di altro e non quella semplicissima quiddità delle cose, che Aristotele aveva visto che non può essere qualcosa di altro. E su questo punto egli non si è sbagliato, ma, come gli altri, si è fermato ad esso. Egli vide, infatti, che nessun procedimento razionale della ricerca è in alcun modo sufficiente per acquisire quella scienza sapida e così tanto desiderata.21

L’esperienza sapiente ci dice che sperimentiamo l’udibilità di una notitia, direbbe ancora Cusano che riverbera Bonaventura. Un annuncio, direbbe più tardi, su linee apparentemente tanto opposte, il Nietzsche. Una sapida scientia che ci invita a cogliere l’unità nella molteplicità; ci assicura un recupero della nostra posizione nel mondo con tutto il proprio esserci e la nostra presenza. Il nostro essere presenti con una sensibilità rinnovata. Una sapienza che ci invita a superare e considerare – secondo Cusano – la relazione tra l’aliud e il non-aliud. Tra il molteplice e il fondamento. E ci invita a ritornare all’aliud per riconoscere in esso non solo una mera alterità, irrelata e disgiunta, ma la sua presenza come consustanziale diversità dal non-aliud, e quindi mostrarsi come non-non-aliud, e in questa ulteriore specificazione della relazione assumere tutto il vero dell’esistenza, e in questa gustare, “saporitivamente”, della necessità del suo fondamento. Un’efficacissima espressione per dirci che c’è un uscire, uno stare e un ritornare dal molteplice all’uno e dall’uno al molteplice. Un movimento che non rinnega il mondo, ma anzi sta nel mondo per scoprirci e scoprilo nella fonte di senso che illumina tutta la sua realtà. Una dialettica del vero e dell’inveramento che appunto non fa a meno del mondo, ma anzi necessita dell’esperienza che ciascuno fa della mondanità del mondo.

21.  N. Cusano, Il Non-Altro, in Id., Opere filosofiche, teologiche e matematiche, testo latino a fronte, a cura di E. Peroli, Bompiani, Milano 2016, p. 1541.

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Come si caratterizza tale esperienza dunque e quali sono i suoi frutti? Senza dubbio sono frutti fecondi di un pensiero che è sempre in atto nel pensare il principio non come un’astratta possibilità. Non come un ideato, un concepito, ma come il presente nella presenza del mondo. Per dirla in linguaggio ontologico, possiamo ripetere che qui si tratta di una speciale esperienza dell’essere; il quale non appare mai come un che, o un qualcosa, sempre estraneo alla coscienza. L’essere invece si manifesta come il “non-estraneo” al darsi reale del mondo. L’essere/principio è infatti sì l’opposto della alterità tutta, è il non-altro, ma nel sentirlo tale si scopre pure che questo costituisce il presupposto per la comprensione di tutte le cose e del reale. Senza questo il mondo e noi stessi appariremmo, come si dice nel Genesi, vuoti e senza forma come la stessa terra appare inanis et vacua. Nella realtà e nella sua concretezza, che il mondo esprime nella coscienza, ciascuno di noi comprende che vi è uno spazio adeguato e proprio per Adamo. E qui seguo la delucidazione esegetica di questo nome che vuole esplicata in lingua ebraica la parola che indica e significa “umanità”. Tutto l’uomo è in questo mondo; tutto l’uomo si ritrova nel suo ambiente. Non vi è però come il signore dominante, ma come colui che abita il mondo; come colui che vive nel mondo la dimensione ulteriore del mondano. È il luogo dell’incontro, del dialogo, della ricerca, dello scambio, della comunicazione, dell’inventiva e della creazione. Ci scopriamo posti nel mondo sempre nella dimensione futura e nella dimensione condizionale che è quella che ci lascia aperti spazi creativi e generativi. Il luogo dove l’uomo esercita la creatività stimolata dall’impegno a dire ciò che spesso non si può dire del mondo22.

22.  Cfr. il bellissimo e intenso saggio di G. Steiner, Grammatiche della crea­ zione, tr. it. di F. Restine, Garzanti, Milano 2003.

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Il mondo comporta tutte le cose, e tutti gli individui; ma comporta soprattutto che l’uomo non sia mai visto in forma astratta ma sempre come il realmente concreto che si realizza nella comunione delle persone. Già Agostino aveva indicato la specificità, l’inalienabilità, l’unicità dell’individuo e del singolare. Un’unicità che è fatta presente nella forma di un volto e di una storia, di una voce e di una presenza che, pur nella caducità, si mostra nella sua assoluta singolarità. È l’essere persona ciò che caratterizza il proprio dell’uomo nel mondo. La sua socievolezza è espressa nel Genesi come «non est bonum esse hominem solum». Introducendo così, nella diversità sessuale, anche la dimensione figurale dell’assoluta irriducibilità degli individui a una neutralità indistinta. Differenziazione che diventa natura che colloca tutti nel medesimo rapporto e nel medesimo segno. Il mondo per sua concretezza e per sua natura dunque non può che essere assolutamente positivo. Mai un qualcosa da superare. È il positivo che si mostra immune sempre dalla corruzione totale. Come la realtà che si ripropone sempre immutabile nelle sue forme stabilite ad aeterno. Semmai nella teologia medievale a cui si è fatto ampio riferimento, si dirà che la natura è talmente immune da fratture con il suo creatore che solo la frattura del peccato, come interruzione e caduta della volontà, non appartiene a niente e a nessuna realtà del mondo salvo che all’uomo. In lui solo si manifesta un’ipermanifestazione e un’usurpazione del volere del bene e del male. Il mondo edenico del Genesi continua a sopravvivere, malgrado la caduta dell’uomo, e sopravvive parallelo a un mondo di peccato, rovinato da un’illusione dalla quale sarebbe bene risvegliarsi al più presto, guadagnando una nuova visione della realtà, della natura, della mondanità23.

23.  Davvero molto accorta di tutto questo la teologia medievale, ma anche la teologia contemporanea che ha fatto di questo argomento, della riflessione

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Dobbiamo recuperare una terra per qualcuno e per qualcuno che sappia riconoscerla nei suoi caratteri e tratti, nelle sue singolarità, nei corpi, nei volti e nelle voci dei simili. In esso devono stagliarsi gli individui e le persone comunicanti che parlando di sé, parlano del loro ambiente. L’esperienza del mondo è data dal trapasso nel tempo; dal sentire della terra, di quella terra che accoglie i volti, i nomi, le storie concrete che chiedono di essere comunicate e riconosciute. Lontanissimi così dall’astrattezza del mondo scientificamente descritto; lontani dal mondo oggetto, estraneo, giudicabile. Lontani da un mondo povero di qualità. Secondo la lezione cusaniana e di tutta la tradizione che ho cercato di evocare, dobbiamo cogliere la terra con una sapienzialità che comporta un alto grado di riconoscimento. Sapienza e riconoscimento faranno così tutt’uno con la persona che sperimenta la profondità di questo sentito. L’esperienza di essere parte di un tutto, di una bellezza senza decadenza e di una bontà che può essere parte solo di una più grande bontà. Si tratta di trovare in questa premessa la capacità filosofica di rendere ancora accessibile il recupero edenico del mondo, nella consapevolezza che in fondo mai si è perduta questa dimensione, perché non può perdersi la necessità interrogante e comprendente dell’uomo che si esplica nel pensare autentico; cioè quello di cui è necessario pensare.

sulla caduta e sulla distanza dell’uomo da Dio, uno dei temi per ripensare anche la questione del secolarismo e dell’ateismo.

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Esorcizzare spettri Per una critica della possibilità pura Rocco Ronchi

L’apodittico Che cosa “fa” la filosofia? “Pensare” non è risposta sufficiente. Indubbiamente essa è pensiero, ma del pensiero è un modo, un senso, una declinazione. Husserl, ripetendo Cartesio, individuava la differenza specifica del filosofico in una sospensione dell’“atteggiamento naturale”. Filosofare, diceva, è la “riduzione” del mondo che è comune ad ogni uomo, in quanto essere pensante, al fenomeno mondo che è invece proprio solo del “sé filosofante”. Il mondo nuovo del filosofo è insomma lo stesso mondo “di prima” solo leggermente “diverso”. La differenza è data da quanto l’allievo di Husserl, Martin Heidegger, indicherà invece come l’errore costitutivo della metafisica “occidentale”: fare filosofia significa non saperne più nulla del nulla con cui traffica incessantemente l’uomo nell’atteggiamento naturale. Nella conversione fenomenologico-trascendentale ad essere espulsa dal mondo “di prima” è infatti la “concepibilità del nonessere”. L’“apoditticità” coestesa ad ogni evidenza, adeguata o inadeguata che sia, è per Husserl, una intuizione che prescinde dalla contingenza, «in modo da escludere già pregiudizialmente

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ogni dubbio immaginabile perché privo di contenuto»1. Come nel caso dell’ego sum, ego existo cartesiano (il quale funge da paradigma per la definizione del metodo fenomenologico) si dà insomma una “certezza” che non è però dell’ordine della necessità logica. In Cartesio, come nel suo avatar husserliano, a resistere all’onnipotenza di un Dio che può tutto, financo sospendere la verità delle leggi di natura, è un atto che si definisce per esclusione della negazione2. Quella del cogito è una energheia che non discende da una dynamis anteriore: è un atto “in atto”, il quale, se dovesse essere definito con le categorie della modalità, richiederebbe l’uso della doppia negazione. Ego sum, ego existo significa “pragmaticamente” non posso non3. “Non posso non” non è la necessità dell’essenza. Questa, infatti, non potrebbe resistere all’onnipotenza del grande ingannatore e perciò va coerentemente ridotta come ogni altra trascendenza mondana. “Non posso non” esprime piuttosto l’effettività (la Wirchlickeit) del fondamento attinto dal “Sé filosofante”: un apodittico che, essendo già “pregiudizionalmente” immune al possibile “bilaterale” (alla “potenza di non”), non è quella “necessità incondizionata” che la ratio metafisica pone a fondamento dell’esperienza.

1.  E. Husserl, Meditazioni cartesiane, ed. it. a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1989, Prima meditazione, p. 50. 2.  Il “genio maligno” della Prima Meditazione di Cartesio non è il Dio onnipotente creatore e padrone delle verità eterne. Cartesio lo nega decisamente, ma la funzione che svolge – estendere la contingenza al logicamente necessario – è quella che si dovrebbe assegnare ad un Dio creatore delle verità eterne, se non si temesse, così facendo, di infangare il buon nome del Creatore di tutte le cose. 3.  La certezza del cogito sum è pragmatica e non logica. La proposizione Ego sum, ego existo non è una “proposizione” ma un enunciato performativo la cui necessaria verità è data con il semplice fatto della sua enunciazione: essa, afferma Cartesio, è necessariamente vera ogni volta che la “pronuncio” o che la “concepisco” nel mio animo (Seconda Meditazione).

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Bergson non si è espresso diversamente quando si è interrogato sul senso del fare filosofia. Anch’egli la intendeva come una sospensione dell’atteggiamento naturale. La filosofia, diceva, consiste in una inversione del lavoro abituale dell’intelligenza. Se questa agisce nel mondo, quella specula, cioè regredisce nel fondamento apodittico del mondo. La sua peculiare «azione» è «uno sforzo penoso», denominato «intuizione» per risalire, alla source dell’esperienza4. La source è l’attualità della coscienza vivente, la sua energheia sempre presupposta e sempre fungente (la durata-memoria). Nel linguaggio di Husserl, l’intuizione bergsoniana è così “l’autoesperienza trascendentale apodittica”, la certificazione (pragmatica) di una coscienza in atto che funge al fondo di ogni contingente esperienza di qualcosa. «Noi», scrive Bergson polemizzando con la metafisica della relatività einsteiniana, «vogliamo stabilire che non si può parlare di una realtà che dura senza inserire in essa una coscienza»5. A venir meno, nell’intuizione della evidenza prima, è dunque per Bergson, proprio come per Husserl, la “concepibilità del non-essere”. Fenomenologia e bergsonismo, pur nelle loro indiscutibili differenze, mostrano così il tratto che accomuna ogni filosofia che si voglia “speculativa”, almeno per quello che riguarda la sua pars destruens. La comunanza concerne il metodo, che è integralmente cartesiano. La filosofia prende avvio dall’apodittico, ossia da una certezza (pragmatica) esente da ogni ombra di non essere. Contrariamente a quello che ci è stato insegnato sui banchi di scuola, non è allora la “meraviglia” a generarla. Invece di esserne la felice sintesi, la domanda cur aliquid potius quam nihil ne costituisce piuttosto lo sviamento 4.  H. Bergson, Matière et mémoire, in Id., L’Énergie spirituelle, in Œuvres, PUF, Paris 1959, p. 321 5.  H. Bergson, Durata e simultaneità, ed. it. a cura di F. Polidori, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p. 48.

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originario, l’ombra che l’ha sempre minacciata nel suo nascere. “Metafisica” è il nome che si assegna alla fallacia consistente nell’attribuire al fondamento apodittico il modo d’essere del fondato (contingente/necessario), quando, come Bergson non si stanca di ripetere, si rimpiazza abusivamente il percetto con il concetto, il concreto con l’astratto, l’intuito con la sua traduzione simbolica. Meta-fisica significa trascendenza dell’esperienza e conseguente produzione di “spettri” che angosciano l’esistenza umana: sarà allora solo dissolvendo i fantasmi della “metafisica”, vale a dire gli spettri concettuali generati dalla concezione (non dall’intuizione!) della contingenza dell’ente che la filosofia potrà veramente cominciare. Un inizio quanto mai faticoso perché l’uomo ama disperatamente gli spettri che lo angosciano, essendo forse lui stesso, in quanto “soggetto”, nient’altro che uno di essi, ma un inizio indispensabile per vedere correttamente il mondo e, come scrive Bergson alla fine del saggio su Il possibile e il reale, «vivere bene»6.

La mistica La mistica gioca nel sistema bergsoniano lo stesso ruolo della geometria in quello cartesiano. È la “scienza” modello. Ha il valore di un ideale normativo. Bergson identifica il “mistico” con l’elemento speculativo del pensiero. Non c’è in questo nessun irrazionalismo, piuttosto un sovra-razionalismo o un iperrazionalismo. La considerazione bergsoniana della mistica ha precedenti illustri: “mistico” è il terzo genere di conoscenza in Spinoza, “mistico” è l’intellectus cusaniano sovraordinato alla ratio, “mistica” è l’intuizione che permette di vedere correttamente il mondo purificando la mente ed emendandola dei fantasmi dell’immaginazione. Ma perché i mistici sono esemplari

6.  H. Bergson, Le possible et le réel, in Id., Œuvres, cit., p. 1345.

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per il filosofo che voglia fare il proprio mestiere di filosofo? Che cosa fanno per meritare un simile riconoscimento da parte del “sé filosofante” alla ricerca dell’evidenza apodittica prima? Abituati, come siamo, ad assegnare alla mistica il privilegio di una conoscenza d’ordine superiore, rimaniamo sconcertati dalla risposta del filosofo. Il tratto caratterizzante la mistica sarebbe infatti, secondo Bergson, una certa “noncuranza” per i gravi problemi di senso che affliggono la condizione umana. I mistici, innanzi tutto, tralasciano quelli che ai loro occhi sono solo dei “falsi problemi”. Si dirà forse che essi non si pongono alcun problema, vero o falso che sia, e si avrà ragione. È ugualmente certo che ci forniscono la risposta implicita a problemi che debbono preoccupare il filosofo, e che difficoltà a cui la filosofia ha avuto il torto di fermarsi sono implicitamente ritenute da loro inesistenti.7

Ad assicurare alla mistica il carattere di ideale normativo è la noncuranza per i problemi angoscianti della metafisica. Grazie ad essa, la mistica indica implicitamente al filosofo cosa dovrebbe fare per essere filosofo: egli dovrà dissolvere gli pseudoproblemi generati dalla meraviglia metafisica, in ultima analisi, dovrà esorcizzare spettri. Quando l’avrà fatto troverà il mistico ad attenderlo sull’altra riva del fiume. In una parola, il mistico è esemplare per il filosofo speculativo perché non si meraviglia. La meraviglia è domanda, la meraviglia è la tonalità affettiva del sapere, la meraviglia è dotta. Il sapere chiede infatti perché qualcosa invece del nulla. La domanda non potrebbe generarsi se l’ente in generale non fosse scoperto vacillante sul bordo del non essere. Bisogna infatti aver concepito la contingenza dell’ente in generale per poterlo trascendere in direzione di un fondamento metafisico che ne

7.  H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione, tr. it. di M. Vinciguerra, SE, Milano 2006, p. 192.

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garantisca la stabilità (la necessità incondizionata). Diciamo “concepire” perché la contingenza non è termine di una intuizione ma è una inferenza che ha, come vedremo, nella evidenza apodittica del nulla la sua premessa. Del nulla invece il mistico non ne sa nulla. Per questo la sua posizione nelle carte geografiche tracciate dal sapere è quella apparentemente negativa del “non sapere”. Georges Bataille, seguendo disordinatamente il suo straordinario istinto speculativo, ha stabilito una equazione perfetta tra il “non sapere” mistico e l’assunzione dell’esperienza come sola autorità8. Quando la fedeltà all’esperienza diventa assoluta, quando l’empirismo è radicale, il sapere tace, la domanda non si genera e ci si mantiene in una condizione che rasenta la “stupidità”. Anche la stupidità è stupore, anch’essa è suscitata da un colpo subito (radice indoeuropea s[tup]), ma se il trauma della meraviglia apre alla trascendenza dell’ente in totalità, il trauma mistico chiude invece in una immanenza assoluta. La stupidità è una cieca adesione all’essere, senza distanza e senza domanda. Viene prima perfino dell’eroico Sì nietzscheano alla Terra, perché questo non avrebbe il suo titanico valore se non prevedesse “pregiudizialmente” la “concepibilità del non-essere”. Se si volesse dare una forma estetica (nel senso della dottrina della sensazione) alla condizione esemplare del mistico, bisognerebbe allora fare riferimento a quella intuizione che Kant, nella prima Critica, chiama «cieca»9. Essa è ancora intuizione, ma è una intuizione non mediata a priori dal concetto, è una intuizione che non vede se vedere è vedere “qualcosa”, è una intuizione che non ha la forma della relazione di un soggetto ad un oggetto e che, tuttavia, ha luogo, accade, prende piede 8.  Cfr. G. Bataille, L’esperienza interiore, tr. it. di C. Morena, Dedalo, Bari 1978, p. 34. 9.  I. Kant, Critica della ragion pura, intr. di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 94.

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nell’essere e, anzi, l’inaugura. Senza quel colpo nulla sarebbe poi “dato”. Quando Husserl fissava alla source di ogni esperienza di qualcosa, comunque essa fosse declinata, un’auto­ esperienza trascendentale apodittica sottratta ad ogni dubbio, non aveva forse di mira proprio questa “macchia cieca” posta al fondo di ogni visione di qualcosa in quanto qualcosa? Il fondamento dell’intenzionalità della coscienza non può essere infatti ancora una coscienza intenzionale che si rapporta a sé come oggetto per lei, pena la regressione all’infinito. Deve essere una coscienza di altro genere, una coscienza pre-riflessiva o irriflessa, differente per natura da quella riflessiva-posizionale e, tuttavia, implicata da essa come sua causa10. La riduzione fenomenologico-trascendentale e l’intuizione bergsoniana mirano entrambe a quel blind spot che è la condizione naturale del mistico e che è la ragione della sua esemplarità per il filosofo speculativo. Il mistico attende effettivamente il filosofo dall’altra parte del fiume. Attraversarlo vorrà dire speculare, cioè dissolvere sistematicamente gli pseudoproblemi angoscianti della metafisica, quelli che sono generati dalla meraviglia. La loro matrice comune è la domanda che da sempre costituisce l’orgoglio della metafisica: “perché qualcosa invece del nulla?”.

La domanda Il saggio Il possibile e il reale ha una posizione di assoluto rilievo nell’opera di Bergson. Come è noto, il filosofo francese voleva mantenere un controllo totale della sua opera. Le vicende testamentarie con i loro severi interdetti alla pubblicazione di quanto non fosse stato edito da Bergson in vita e con l’invito a bruciare la corrispondenza privata ne sono una prova. Il sag10.  Cfr. R. Ronchi, Il canone minore, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 100-112.

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gio, nato come conferenza a Oxford (1920), poi pubblicato nel 1930 in una rivista svedese («Nordisk Tidskrift»), viene posto nel 1934 da Bergson in apertura di La Pensée et le Mouvant, libro che doveva illustrare il “metodo” dell’intuizione. Esso è presentato da Bergson insomma come la chiave di lettura di tutta la sua impresa speculativa. In esso si dice che i problemi angoscianti della metafisica sono due: il primo ha generato le teorie dell’essere, il secondo le teorie della conoscenza. Entrambi hanno la forma della domanda metafisica: chiedono perché l’essere piuttosto che il non essere, perché l’ordine piuttosto che il disordine. La radice di entrambi i problemi è però una sola ed è una radice modale o, più precisamente, di “altezza modale”. Per coglierla, bisogna soffermarsi sulla forma della domanda: perché… piuttosto che…?, la quale acquisisce il suo senso proprio solo se ciò che è escluso da potius quam funge da protasi di ciò che viene richiesto nella premessa (cur aliquid?). Ora, è evidente che la forma della domanda (perché l’essere, perché l’ordine?) ha il senso di una esclusione di una possibilità anteriormente data (il non-essere, il disordine). La questione implicita nella forma della domanda è dunque una questione modale: se non-essere o disordine non fossero possibili, il reale dell’essere e del disordine non sarebbe sorgente di meraviglia e non si andrebbe alla ricerca della loro ragione sufficiente. Se il possibile, stando “più in alto” del reale, non includesse il reale come una sua regione determinata e limitata, non vi sarebbe meta-fisica e ci si troverebbe nella situazione “speculativa” del mistico “noncurante” dei problemi angoscianti che affliggono la condizione umana. La dissoluzione della problematica metafisica messa in atto da una filosofia che assume la mistica a ideale normativo riapre così la gigantomachia sulla modalità. Tra reale, possibile e necessario, qual è il modo più elevato? Qual è il modo fondamentale? La domanda investe il senso dell’esperienza, perché i modi, come ancora recentemente ha ricordato Gaetano

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Chiurazzi, sono pre-positivi, non concernono il “che cosa” ma il “come” del “che cosa”, investono, cioè, il soggetto dell’enunciazione lasciando inalterato il contenuto della proposizione (quanto al concetto i famosi cento talleri kantiani sono infatti gli stessi cento talleri sia che siano possibili o reali o necessari)11. Ora, noi conosciamo la risposta che la modernità ha dato a questa domanda sul senso dell’esperienza. La troviamo enunciata in quel fulminante passo di Essere e tempo, così spesso citato: «Più in alto della realtà si trova la possibilità»12. Dai moderni la necessità è stata scalzata dal primato che aveva per gli antichi. La liquidazione dell’argomento ontologico è stato il passe-­ partout della modernità in filosofia. Essa ha segnato il divorzio della filosofia dallo speculativo e la sua sostanziale dismissione in antropologia. Ne Il possibile e il reale, Bergson contesta invece il primato del possibile mostrandone il carattere fantasmatico: nient’altro che una retrospezione dell’effettivo che ha come conseguenza la negazione della creatività della durata. Per il filosofo francese vale il principio hartmaniano della “durezza del reale”: il possibile è coesteso punto a punto al reale. Non ci sono vie di fuga13. Questa contestazione del primato del possibile non comporta affatto un’opzione pre-moderna da parte di Bergson, dal momento che nessun filosofo più di lui ha contestato il primato teologico della necessità, nessuno con più insistenza di lui ha posto l’indeterminazione (la durata cre11.  Cfr. G. Chiurazzi, Modalità ed esistenza, Aracne, Roma 2001, pp. 30-36; Id., Dynamis. Ontologia dell’incommensurabile, Guerini Scientifica, Milano 2017, pp. 82 s. 12.  M. Heidegger, Essere e tempo, ed. it. a cura di F. Volpi, tr. it di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2005, p. 54. 13.  «L’effettività reale dà per presupposto l’intero rapporto, quindi dà per presupposte in egual maniera la possibilità reale e la necessità reale. Nel rapporto d’ordine dell’altezza modale mantiene “sotto di sé” entrambe. È il “più elevato” modo reale» (N. Hartmann, Possibilità ed Effettività, ed. it. a cura di S. Pinna, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 230).

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atrice) al cuore delle cose, nessuno più di lui ha rivendicato nel Novecento l’importanza della rivoluzione scientifica moderna. Indicando nel possibile lo spettro che il filosofo deve esorcizzare, Bergson ha voluto piuttosto rispondere ad una domanda che lo impegnava come filosofo: “come fare” (ancora) filosofia nel tempo della sua generale dismissione? Egli si è reso conto che solo una rivoluzione modale, che scalzasse il possibile dal suo primato, poteva permettere alla filosofia di emanciparsi dalla metafisica che fin dall’origine la minaccia. Chiedersi che forma generale abbia il problema metafisico significa chiedersi, sul piano epistemologico, che forma abbia la meraviglia, e su quello esistenziale che forma abbia l’angoscia che i moderni hanno eletto a tonalità affettiva principe. La sua forma, lo sappiamo, è il “perché?”, ma il “perché?” non funziona senza il “piuttosto che”. Tutto ruota, insomma, intorno a quanto è pre-supposto da quel potius quam. Ora, il potius implica il “potere di non”, vale a dire una certa articolazione del “potere” (dynasthai), che non è affatto naturale, ma che consegue ad una trasformazione epocale del suo senso situabile in un preciso momento della storia umana. Del “potere di non” non ne sapeva nulla, ad esempio, l’uomo omerico, probabilmente è indifferente a intere culture ed è certamente estraneo al mistico, il quale, lo sappiamo, fornisce alla filosofia, secondo Bergson, il suo ideale normativo. Il potius quam implica qualcosa come una possibilità pura che deve essere supposta all’origine perché si possa domandare “perché?”. Come subito vedremo, questa possibilità non è soltanto la “potenza dei contrari” (potenza di A come di non A) ma è vertiginosamente la potenza della propria impotenza. Essa è un potere riflesso in se stesso, un potere che “può” il “potere di” come il “potere di non”. La diciamo “pura” proprio per questa sua riflessività: essa è infatti correlata all’ergon che “può” (è, come si dice, aliorelativa) nella stessa misura in cui è relazionata a se stessa, in quanto “potere di potere (qualcosa)”. Una volta che

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questa possibilità pura viene supposta all’origine, l’effetto che ne deriva è quello della corrosione generalizzata di ogni pretesa stabilità. Niente pare infatti in grado di resisterle, proprio come constatava il “sé filosofante” alle prese con gli inganni del genio maligno. È allora legittimo identificare tale sistematica dissoluzione di ogni determinatezza resa possibile dal potius quam con l’attività critica del pensiero. Essa è, a tutti gli effetti, il pensare: cogitare significa dubitare, le cogitationes sono congitationes di enti “possibili”, i quali, in quanto segnati ab origine dalla “possibilità di non” come da un vizio di forma, non possono aspirare all’apoditticità e devono essere sospesi. Kant chiama “ragione speculativa” questa attività che fa dileguare ogni determinatezza, dove “speculativo” significa “metafisico”. Nella Introduzione alla metafisica del 1935, Martin Heidegger chiama la domanda metafisica fondamentale (perché qualcosa piuttosto che il nulla?) la domanda di più vasta portata, la domanda più profonda e la domanda più originaria14. È quella più vasta perché niente le resiste: anche Dio, nelle dimostrazioni della sua esistenza, è sottoposto all’ipoteca della concepibilità del suo non-essere. È la più profonda perché va sempre più a fondo e, corrodendo ogni cosa, arriva fino all’abisso (l’Ungrund). È la più originaria perché volge lo sguardo del domandante all’origine di ogni domandare, all’abisso senza fondo della possibilità pura, che poi non è altro che il domandante stesso, l’uomo, vale a dire quell’ente eccezionale per il quale la possibilità pura è l’evidenza stessa e per il quale la domanda costituisce non una curiosità ma il senso stesso del suo essere. L’uomo e solo l’uomo è l’ente per il quale l’ente nella sua totalità si declina nel modo della contingenza, come attualizzazione di una dynamis tutta particolare e innaturale: la potenza della

14.  Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, tr. it. di G. Masi, Mursia, Milano 1972, pp. 14 s.

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propria impotenza, la “potenza di non”. Scalzando il possibile dal suo primato, la rivoluzione modale investe allora anche la tesi della eccezione umana, la quale di un ente particolare, del mortale, dell’essere del possibile, fa l’ente privilegiato per la comprensione del senso dell’essere.

Due passi nel delirio Che la supposizione del potius quam sia l’aporia prima e ultima della filosofia è palmare se mettiamo a confronto due passi della storia della filosofia che si corrispondono specularmente a distanza di 1600 anni l’uno dall’altro. Il primo lo traggo dalle Enneadi di Plotino e concerne il cosiddetto “discorso temerario” o “audace” (in senso però negativo)15. Plotino chiama “temerario” quel “discorso” che pone l’Uno (il Principio, il Bene) nel luogo del puro possibile. Fatta questa supposizione “audace”, ne consegue la domanda che chiede donde e come l’Uno vi sia giunto. Noi ci interroghiamo allora sulla sua presenza [parousia], cioè della sua realtà [ousia], come se si trattasse di uno straniero, come se esso fosse giunto da chissà quale abisso [bathos] o che fosse gettato là da una qualche altezza.16

Il senso del passo è chiaro: angoscia e metafisica meraviglia derivano dall’ipotesi di una possibilità possibile anche in rapporto a se stessa. L’alternativa non consiste però, per Plotino, nel rendere l’Uno necessario, perché necessità vuol dire servaggio all’essenza, e l’Uno, panton dynamis, è invece sovranamente libero. L’Uno è “al di là delle essenze”, le quali vengono dopo di lui e a sono causate da lui senza che lui abbia nessun rapporto con loro (causalità unilaterale). Bisognerà percorrere dunque un’altra strada che liberi ad un tempo il Principio dalla minac15.  Cfr. Plotino, Enneadi, 39 (VI,8). 16.  Ivi, 39 (VI, 11, 22-32).

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cia della contingenza come dalla schiavitù del necessario. Plotino si impegnerà perciò a sviluppare una nozione di potenza alternativa a quella aristotelica di “potenza dei contrari”, una potenza “perfetta”, come la chiamerà il suo continuatore Proclo, una potenza che è immediatamente atto (energheia), non avendo altra dimora che nell’atto. La natura megarica di questa potenza di tutte le cose balza subito agli occhi e ci mette sull’avviso sul senso dell’operazione bergsoniana di liquidazione del possibile. Per Bergson, come per Plotino, risolvere l’aporia del puro possibile comporta la riapertura della gigantomachia sulla potenza che ha inaugurato la metafisica occidentale. Il secondo passo lo traggo dalla dialettica trascendentale kantiana. Il luogo è la critica della prova cosmologica. Qui Kant fa un’affermazione che toglie il fiato: l’eterno, dice, non basta a fare da sostegno a tutte le cose. Anche Dio è sotto ipoteca. Per questo la necessità incondizionata, di cui, in quanto animali metafisici, abbiamo così bisogno, «è il vero baratro della ragione umana» (il bathos plotinico). La necessità incondizionata non è sufficiente perché non resiste all’illimitato potere corrosivo del potius quam: Non si può evitare – scrive Kant –, ma non si può nemmeno sostenere il pensiero che un Essere, che ci rappresentiamo come il Sommo fra tutti i possibili, dica quasi a se stesso: io sono ab eterno e in eterno; oltre a me non c’è nulla, tranne quello che è per volontà mia, ma donde son io dunque?17

La frase di Kant è quasi un calco (certamente involontario) di quella plotinica. Il pensiero a cui siamo costretti del carattere non apodittico del Principio di tutte le cose è, scrive, ad un tempo, inevitabile e insopportabile. Esso comporta infatti l’idea vertiginosa di un essere incondizionatamente necessario che si interroga sulla sua provenienza, restando senza risposta. 17.  I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 481.

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252 Qui – continua Kant – tutto si sprofonda sotto noi, e la massima o la minima percezione [s’intende di qualcosa di effettivo, nota mia] pende nel vuoto senza sostegno innanzi alla ragione speculativa, alla quale non costa nulla far disparire l’una come l’altra senza il più piccolo impedimento.18

Kant intende la ragione speculativa come la potenza critica che dissolve incessantemente ogni determinatezza, financo la necessità incondizionata. Di lì a poco, il genio maligno cartesiano, grazie alla mediazione kantiana, si ripresenterà nella forma della negazione dialettica hegeliana.

La gigantomachia sulla potenza L’emendatio della mente passa allora attraverso una sua purificazione dai fantasmi che la ossessionano. Ma esorcizzare gli spettri dall’immagine del mondo propria dell’uomo, scrive Nicolai Hartmann, è un complicato processo di rivoluzione filosofica che non può avere luogo senza resistenze di ogni genere, dal momento che l’uomo ama i suoi spettri19. Hartmann indica con precisione il luogo di questa rivoluzione: il campo di battaglia è Aristotele, Metafisica IX, 3 e, in subordine, De Interpretatione IX. Sono i celebri luoghi nei quali lo stagirita confuta quegli strani filosofi che rispondono al nome di “megarici”, i quali pensavano che si può solo quando si è in esercizio, negando così al possibile, nella sfera del reale, ogni autonoma consistenza. Hartmann commenta: «Lo spaesamento per la tesi megarica, se la si pronunzia oggi, esiste per noi ancora come per tutto l’aristotelismo occidentale. L’antico pregiudizio non è ancora caduto»20. Megarica, ma senza averne consapevolezza (anzi contestandola espressamente in altri luoghi della sua 18.  Ivi, pp. 481 s. 19.  N. Hartmann, Possibilità ed Effettività, cit., p. 237. 20.  Ivi, p. 247.

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opera21), è allora la posizione di Bergson in Il possibile e il reale22. Megarica, ma senza averne la consapevolezza, è l’evidenza apodittica dell’Io puro di Husserl, che, come il cartesiano ego sum, ego existo, esclude pregiudizialmente la concepibilità del non-essere. Bisogna però intendersi sulla natura di questo possibile. Esso non è certamente il logicamente possibile (il non contraddittorio), ma è il possibile reale, vale a dire il possibile “bilaterale”, quello nel quale pensiamo si trovi Ercole quando deve scegliere tra le vie della virtù e del vizio. La possibilità reale è stata sempre raffigurata dalla metafisica come una Y e su quella forma grafica si sono esercitate tutte le menti più “sottili” quando hanno discettato del possibile e del reale, della contingenza del mondo e della realtà del libero arbitrio. Il possibile bilaterale a forma Y è l’aristotelica potenza dei contrari. Aristotele la definisce anche «razionale» (meta logou) per distinguerla da quella «irrazionale» (alogos)23. La prima è la potenza tecnica dell’architetto che può costruire come non costruire (i filosofi analitici la chiamano una proprietà disposizionale che sussiste indipendentemente dalla sua effettiva realizzazione). La seconda è quella, per così dire, “pulsionale” del fuoco che non può non bruciare, che può, cioè, solo uno dei contrari (i filosofi analitici la chiamano una proprietà categorica che non sussiste indipendentemente dalla sua effettiva realizzazione)24. Il riferimento al logos come criterio di distinzione tra le due potenze

21.  Cfr. H. Bergson, L’évolution du problème de la liberté. Cours au Collège de France 1904-1905, PUF, Paris 2017, pp. 97-111. «C’è una sola obiezione realmente possibile contro la libertà, ed è questa» (ivi, p. 104). 22.  Del carattere megarico della posizione bergsoniana se ne rende invece conto Raymond Ruyer. Cfr. Paradoxes de la conscience, Albin Michel, Paris 1966, pp. 97 s. 23.  Metaph., IX, 2, 1045b 37-1046b 28. 24.  Cfr. A. Borghini, Che cos’è la possibilità, Carocci, Roma 2009.

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si deve al fatto che Aristotele ha ben chiaro che qualcosa come una relazione di contrarietà si dà solo nell’orizzonte del dire predicativo. Il giudizio e solo il giudizio mostra la cosa e la sua privazione (steresis). Solo per l’animale dotato di linguaggio si dà qualcosa come una negazione della cosa, solo per lui il nonessere è concepibile come tale così come solo per lui l’essere era concepibile come tale. Le due concepibilità, essere come tale e non-essere come tale, sono inscritte nella stessa apertura del dire predicativo25. Il fuoco, essendo privo di parola, non può invece che bruciare, perché questa, come nella favoletta di Esopo sulla rana e lo scorpione, è la sua “natura”. Ora, la potenza razionale ha una straordinaria caratteristica: in quanto potenza dei contrari essa deve essere nello stesso tempo e dallo stesso punto di vista impotente rispetto a quel medesimo di cui è potenza. Nel punto di divaricazione della forma a Y che descrive la possibilità bilaterale vi è insomma una patente eccezione al più saldo di tutti i principi: il principio di non contraddizione. Aristotele lo ribadisce ad ogni piè sospinto: «La potenza dei contrari, dunque, esiste ad un tempo in una medesima cosa, mentre non è possibile che i contrari stessi esistano insieme»26. Quel punto sfugge alla regola aurea della determinazione. Curiosamente, quel punto ribelle alla determinazione è anche il punto della padronanza, dell’uso, della sovranità. La dynamis arcaica, quella ad esempio dell’eroe omerico, o la virtù curativa di un’erba nella medicina ippocratica, non era una proprietà disposizionale dell’eroe o dell’erba medica. Semplicemente causava un effetto, sulla base di una equazione perfetta tra ciò che l’aristotelismo successivo chiamerà potenza ed atto. La potenza era la ratio cognoscendi di 25.  «La privazione [steresis] si dice in molti sensi [leghetai pollakos]», in Metaph., IX, 1, 1046a 31-32, è speculare al celebre «l’ente [on] si dice in molti sensi [leghetai pollakos]» di Metaph., IV, 2, 1003a 33. 26.  Metaph., IX, 9, 1051a 10-11.

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una cosa nella misura in cui ne era al contempo la ratio essendi: ciò che una cosa era era infatti l’insieme degli effetti che produceva e nient’altro. La cosa era la sua potenza e la sua potenza era il suo atto senza soluzione di continuità. I presocratici sono fedeli applicatori della massima pragmatica di Peirce: la cosa, nient’altro che l’insieme dei suoi effetti concepibili… Achille, ad esempio, era quell’eroe che era perché la mamma lo aveva immerso nello Stige tenendolo per un tallone. Il suo destino era segnato una volta per tutte; egli sarebbe stato tutto quello che poteva essere. Nessuna possibilità sarebbe rimasta inattuata. E infatti gli eroi omerici non sono soggetti ma campi di forze impersonali, più macchine che si osservano funzionare (attoniti) che uomini responsabili delle loro azioni. Essi non possono non, dove la doppia negazione mostra però che non agiscono meccanicamente, come gli ingranaggi di una macchina, ma che piuttosto si autoesperiscono come potenze “perfette”. Qualcosa di straordinario è avvenuto quando il dynasthai arcaico si è riflesso in se stesso ed è diventato potere di potere: non semplice potere di A ma potere di potere A. Allora il dynasthai da monovalente è diventato bivalente e si è articolato ad un soggetto sovrano che ne dispone ora come di una “facoltà”. Ha ragione Giorgio Agamben quando sostiene che il dispositivo aristotelico della potenza è la genealogia del soggetto: il soggetto (umano) si genera nella potenza della propria impotenza, in quel punto aporetico (Y) in cui il principio di non contraddizione si sospende27. Il soggetto (umano) esordisce come stato di eccezione rispetto alla natura, la cui logica resta quella arcaica difesa a spada tratta dagli ultimi presocratici, quei filosofi megarici con cui Aristotele si sente in dovere di polemizzare aspramente, additandoli a tutta la posterità come i nemici giurati della filosofia prima.

27.  G. Agamben, La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 284.

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Ciò di cui il mistico non si cura e ciò che il filosofo speculativo deve esorcizzare è una possibilità possibile anche in rapporto a se stessa. La Leitfrage metafisica (perché qualcosa invece del nulla?) la implica come Ungrund. Essa la suppone all’origine. Il bathos della possibilità possibile è per il metafisico l’evidenza al cospetto della quale ogni massima e minima percezione devono giustificarsi nella loro pretesa all’essere. Il non-essere non fa scandalo per la ragione speculativa (intesa nel senso kantiano come metafisica). Esso non è solo concepibile come tale, ma è forse la forma stessa della concepibilità: è l’evidenza antepredicativa da cui muove ogni comprensione di qualcosa in quanto qualcosa. Solo il nulla è apodittico per la metafisica. Ecco perché pensare la vita nell’orizzonte della morte, pensarla cioè nell’orizzonte della negazione come non-morte o survie, non è affatto un portato della modernità materialistica e cartesiana: è piuttosto la logica conseguenza della domanda metafisica fondamentale. Perché infatti c’è qualcosa, qualunque cosa, anche il Sommo fra tutti i possibili enti, anche l’ente necessario, quando, a norma di ragione, potrebbe non esserci nulla? La potenza riflessa in se stessa (la possibilità pura supposta all’origine) è una potenza imperfetta per definizione. Essendo la potenza della propria impotenza non ha in sé la causa della sua attualizzazione28. Gli alessandrini negheranno così ogni efficacia all’en dunamei aristotelico. La sua estraneità all’energheia è per loro strutturale29. A rigor di logica, dunque, se il bathos della possibilità pura è all’origine, il nulla ha infinite più ragioni del qualcosa, anzi il nulla è ciò che è a priori libero dalla contraddizione che inficia invece il qualcosa. Perché allora il vivente invece della morte, come sarebbe ovvio che fosse? La morte non fa scandalo per la metafisica perché costituisce lo stato di default dell’universo: è la vita a fare eccezione e a co28.  Proclo, Elementi di Teologia, prop. 78. 29.  Cfr. Plotino, Enneadi, 25 (II, 5).

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stituire l’insondabile mistero (la meraviglia). Se si rileggono le tesi più speculative di Freud in Al di là del principio di piacere se ne trova una mirabile conferma: se la vocazione alla morte “propria” è il tratto caratterizzante ogni vivente, è perché la morte pone fine a quella sovversione logica costituita dall’atto del vivere. La morte rimette insomma le cose a posto. Non risolve certo il mistero, ma lo cancella.

Conclusione: l’atto libero L’esorcismo dello spettro del possibile puro non resuscita la necessità come modo più alto. Come è noto, questo argomento è stato sistematicamente usato per screditare i megarici, da sempre raccontati come i fedeli esecutori del dettato eleatico. I destini del possibile e del necessario sono invece strettamente intrecciati. Bergson lo ha mostrato nel terzo capitolo del Saggio sui dati immediati della coscienza che è dedicato alla libertà: ponete la contingenza a fondamento dell’esperienza, scrive, ed ecco che arriverà infallibilmente la necessità incondizionata ad escludere ogni atto libero30. Nessun atto libero è possibile se l’atto libero è pensato nell’orizzonte del possibile, a partire cioè da quella fatidica forma Y a cui la metafisica, da Aristotele in poi, è così affezionata. La sfida lanciata da una filosofia “speculativa” è invece pensare l’atto libero come l’effettività stessa del reale, un reale “più alto” del possibile-necessario. Il reale è il modo più alto perché il reale non è nient’altro che causa, nient’altro che generazione di un effetto, anche piccolissimo e una volta sola31. Tra le immagini dell’atto libero che Bergson propone nel Saggio ce n’è una veramente sconcer-

30.  H. Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience, in Id., Œuvres, cit., pp. 93 s. 31.  Platone, Soph., 247d 8-e 4.

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tante: un frutto troppo maturo che cade dall’albero32. È senza dubbio un’immagine ben poco adatta ad esemplificare il sentimento immediato che abbiamo della nostra libertà. Eppure per Bergson, come per i suoi ignoti alleati megarici, il frutto maturo che cade è una immagine della potenza perfetta del reale, vale a dire della causa in atto, della energheia, che nell’animale parlante produce le illusioni retrospettive (gli spettri) del possibile e del necessario (ai quali non corrisponde nessun oggetto reale). Il mistico, dall’altra parte del fiume, chiama “gloria” quello che il filosofo speculativo sperimenta come certezza pragmatica. Un passo di Whitehead, tratto dalla sua opera maggiore, illustra questa perfetta autosufficienza dell’esperienza, che accomuna mistica e filosofia speculativa: Il punto che va sottolineato è l’insistente particolarità delle cose esperite e dell’atto di esperire. La dottrina di Bradley – del lupo-che-mangia-l’agnello come un universale qualificante l’assoluto è una caricatura dell’evidenza. Quel lupo mangia quell’agnello in quel posto in quel momento: lo sapeva il lupo; lo sapeva l’agnello e lo sapevano gli avvoltoi.33

32.  «In realtà non ci sono né due tendenze, né due direzioni, ma un io che vive e si sviluppa per effetto delle sue stesse esitazioni, finché l’azione libera si stacca da esso come un frutto troppo maturo» (H. Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience, cit., p. 116). 33.  A.N. Whitehead, Il processo e la realtà, testo inglese a fronte, tr. it. di M.R. Brioschi, Bompiani, Milano 2019, p. 271.

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Figure della coscienza Hegel e la scienza dell’esperienza Francesco Valagussa

«Mediante siffatto movimento i puri pensieri divengon concetti e soltanto allora sono ciò che essi veramente sono: automovimenti, circoli; sono ciò che la loro sostanza è, essenze spirituali».1

1. Il superamento della fissità La coscienza viene presentata da Hegel come «l’immediato essere determinato dello spirito»2. Nella pagina precedente Hegel ha appena chiarito come tale immediato siano le rappresentazioni, nella forma del loro esser-note. Analizzando quella “immediata proprietà del Sé” troviamo soltanto pensieri, in 1.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Id., Werke, a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1969 ss., vol. III, p. 37; tr. it., Fenomenologia dello spirito, tr. it. di E. De Negri, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 199311, vol. I, p. 27. Sulla scienza dell’esperienza della coscienza cfr. M. Heidegger, Hegels Phänomenologie des Geistes, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1980; tr. it., La fenomenologia dello spirito di Hegel, a cura di E. Mazzarella, tr. it. di S. Caianiello, Guida, Napoli 1988, pp. 48-53. 2.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 38; tr. it. cit., p. 28. Cfr. G. Venier, Ragione negatività autocoscienza. La genesi della dialettica hegeliana a Jena tra teoria della conoscenza e razionalità assoluta, Guida, Napoli 1990, in particolare pp. 223-245.

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quanto «determinazioni note, salde e ferme»3. Inutile ricordare come il noto possa risultare tale soltanto nella misura in cui non sia conosciuto4: «Scomporre una rappresentazione nei suoi elementi originari – scrive ancora Hegel – è un ritornare ai suoi elementi, i quali per lo meno non hanno la forma della rappresentazione trovata, ma costituiscono l’immediata proprietà del Sé»5. Forse per chiarire questo punto sarebbe bene accennare a un passaggio delle Lezioni di estetica, in cui si mostra come l’interno – potremmo dire il Sé – cominci a maturare verso un’autonomia propria e a divenire cosciente di sé. L’interno cessa di essere mero impulso a rappresentare: «solo in questo caso vi è la necessità di dare all’interno, sulla base della attività spirituale, un’apparenza non più solo data, ma anche inventata in base allo spirito»6. Per rendere il gioco di parole tra “data” e “inventata” – che in tedesco suona “vorgefunden” ed “erfundene” – forse si potrebbe adoperare la coppia “rinvenuta” e “inventata”, basandosi sul doppio significato del latino invenio. Al di là della pura e semplice dimensione linguistica, comunque non riducibile a questione secondaria, il termine vorgefundene era già stato adoperato proprio per indicare la “rappresentazione trovata”in quanto immediata proprietà del Sé: mostrare come la rappresentazione non possa mai essere ridotta allo stato di mero possesso coincide con l’intima essenza dell’intero movimento di pensiero hegeliano. 3.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 35; tr. it. cit., p. 25. 4.  Cfr. ibidem. 5.  Cfr. ibidem. Cfr. M. Heidegger, La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 58-60. 6.  G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik I, in Id., Werke, cit., vol. XIII, p. 453; tr. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Estetica, a cura di N. Merker, 2 voll., Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 397. Su questo punto cfr. F. Valagussa, Was findet zwischen “vorgefunden” und “erfunden” statt? Die Rolle der Kunst zwischen Hegel und Heidegger, in «Heidegger Studien», vol. 33, 2017, pp. 231-245.

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Tale rappresentazione, infatti, è l’esito di quell’attività del separare, di quel lavoro dell’intelletto che costituisce la “potenza assoluta”: «Il circolo che riposa in sé chiuso e che tiene, come sostanza, i suoi momenti, è la relazione immediata, che non suscita, quindi, meraviglia alcuna»7. Senza voler ritornare sulle troppo abusate pagine relative alla potenza del negativo, in quanto «esso è l’energia del pensare, del puro Io»8, è chiaro come l’intero programma hegeliano dipenda dalla corretta comprensione dell’azione esercitata da questa potenza. Hegel esplicita la distanza che intercorre tra antichi e moderni: mentre presso gli antichi «l’individuo, esercitandosi dettagliatamente in ciascuna parte della sua esistenza e filosofando su ogni accadimento, si educò a una universalità intimamente concretata», tutto l’opposto accade nell’epoca moderna, in cui il vero sforzo non sarà quello di “produrre” la forma astratta a partire dal particolare. Oggi l’astrazione si è ridotta a una “esteriorizzazione dell’interno”, che Hegel definisce «improvvisa e priva di mediazione, è più una monca produzione dell’universale»9: l’universale non procede più a partire dalla concreta varietà del determinato.

2. Le due “fissità” Dunque il compito, rispetto a quello dell’antichità, s’inverte letteralmente: «non consiste tanto nel purificare l’individuo dal modo dell’immediata sensibilità per renderlo una sostanza pensata e pensante, quanto piuttosto nell’opposto: nell’attuare, 7.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 36; tr. it. cit., pp. 25 s. 8.  Ivi, p. 36; tr. it. cit., p. 26. Cfr. H.-G. Gadamer, Hegels Dialektik, J.C.B. Mohr, Tübingen 1980; tr. it., La dialettica dell’autocoscienza, in Id., La dialettica di Hegel, a cura di R. Dottori, Marietti, Genova 19962, in particolare pp. 62 ss. 9.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 37; tr. it. cit., p. 27.

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cioè, l’universale e nell’infondergli spirito, togliendo i pensieri determinati e solidificati»10. La difficoltà di fronte a cui si trova l’età moderna risulta ben superiore: altro è togliere la sensazione che può aggrapparsi solo all’immediatezza impotente del “qui e ora”, altro è togliere la “fissità” della sostanza che alimenta gli astratti universali dell’età moderna, ossia l’Io, appunto, la potenza del negativo come die reine Wirklichkeit11. Il pensiero deve togliere sia la propria fissità di fronte al contenuto distinto della rappresentazione, sia la fissità di quei differenti, ossia delle astratte rappresentazioni che essendo poste nell’elemento del puro pensare partecipano dell’incondizionatezza dell’Io. Soltanto così i concetti divengono Selbstbewegungen, ossia circoli. Il moderno deve dunque superare una doppia “fissità”, una duplice “sostanzializzazione” che frena la fluidità del movimento del pensiero. Soltanto alla luce di questa duplice operazione «il cammino pel quale vien raggiunto il concetto del sapere diviene anch’esso […] un divenire necessario e perfetto»12: il superamento della doppia sostanzialità consente di passare dal filosofare accidentale che “sbanda ancora di qua e di là”13 a quella concretezza assoluta in cui consiste lo sviluppo della Fenomenologia dello spirito. Riprendiamo ora la tesi appena vista in apertura, ossia la definizione di coscienza come «l’immediato essere determinato

10.  Ibidem. Sul rapporto tra Hegel e la dialettica antica cfr. H.-G. Gadamer, La dialettica di Hegel, cit., pp. 3-35. 11.  Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 37; tr. it. cit., p. 27. 12.  Ivi, p. 38; tr. it. cit., p. 28. Cfr. H.-G. Gadamer, La dialettica di Hegel, cit., pp. 90 s. 13.  Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 38; tr. it. cit., p. 28. Cfr. L. Cortella, Autocritica del moderno. Saggi su Hegel, Il Poligrafo, Padova 2002, pp. 272-278.

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dello spirito»: tale immediatezza si compone in particolare di due momenti: (a) il momento del sapere; (b) il momento dell’oggettività negativa al sapere. Questi momenti sono esattamente le “figure della coscienza”14, che compaiono in opposizione tra di loro. Sin da subito risulta chiara la dialettica che lega i due termini: per un verso, la coscienza comprende solo ciò che si trova nella sua esperienza; per l’altro, ciò che è nell’esperienza è appunto sempre e soltanto l’oggetto del Sé. In poche parole, «lo spirito diviene oggetto, poiché è questo movimento: divenire a sé un altro, ossia oggetto del suo Sé, e togliere questo esser-altro»15. La fissità deve essere superata perché sempre e soltanto frutto di un inganno prospettico: il sapere non è altro dall’oggettività, perché l’oggettività è riflesso del sapere e il sapere altro non sa se non quella oggettività.

3. Il negativo A questo livello troviamo anche una precisazione attorno al “senso negativo”, che in Hegel è motore dell’intero processo dialettico: «L’ineguaglianza che nella coscienza ha luogo tra l’Io e la sostanza che ne è l’oggetto, è la loro differenza, il negativo in generale»16. Il negativo è presentato innanzitutto come la manchevolezza di entrambi questi lati: «la loro anima, o ciò che

14.  Sulle figure della Fenomenologia cfr. F. Chiereghin, La Fenomenologia dello spirito di Hegel. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 20043, pp. 49-51. 15.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 39; tr. it. cit., p. 29. 16.  Ibidem. Cfr. L. Lugarini, Hegel dal mondo storico alla filosofia, Guerini, Milano 2000, pp. 57-63.

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li muove entrambi»17. Tale manchevolezza illustra un’essenziale asimmetria all’interno del nesso sussistente tra il sapere e il suo oggetto: (a) «questo negativo appare come ineguaglianza dell’Io verso l’oggetto»18; (b) «esso è pure l’ineguaglianza della sostanza verso se stessa»19. Tale asimmetria dipende, a sua volta, dall’impossibilità di concepire l’intero in un unico istante: la differenza tra l’Io e l’oggetto non si rovescia perfettamente in una differenza tra l’oggetto e l’Io, poiché non si vede dove e come tale differenza possa apparire – mentre la differenza tra l’Io e il suo oggetto è proprio il contenuto fondamentale dell’Io. L’oggetto non testimonia la differenza tra sé e l’oggetto, bensì una sostanziale ineguaglianza rispetto a se stesso. Con le parole di Hegel si può già intuire come debba essere risolta la sfasatura temporale alla luce di una concreta visione dialettica: «Ciò che sembra prodursi fuori di lei, ed essere un’attività contro di lei, è il suo proprio operare, ed essa mostra di essere essenzialmente Soggetto»20. Tale movimento verrà precisato nelle fondamentali pagine della prima parte della Logica dell’essenza, ma già qui possiamo vedere all’opera il movimento del pensiero nel “doppio senso” che lo caratterizza. Da un lato, la riflessione è appunto quella negazione che manifesta la differenza tra l’Io e il suo oggetto – e conduce alla costituzione di un oggetto che risulti “in linea” con il sapere dell’Io. Dall’altro, sul piano della “sostan17.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 39; tr. it. cit., p. 29. Cfr. J.-L. Nancy, Hegel. L’inquiétude du négatif, Hachette Littératures, Paris 1997; tr. it. di A. Moscati, Hegel. L’inquietudine del negativo, Cronopio, Napoli 1998. 18.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 39; tr. it. cit., p. 29. 19.  Ibidem. 20.  Ibidem.

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za”, la riflessione coincide, a parte objecti, con l’ineguaglianza dell’oggetto rispetto a se stesso: a motivo dell’operare interno del negativo, l’oggetto si rivela come mera “parvenza” – tale instabilità viene “tolta” nella misura in cui l’oggetto ripristinerà una piena identità con se stesso. Il negativo della riflessione e quello della parvenza non sono due “negativi” distinti, bensì la stessa cosa: per adoperare un’espressione celebre della Scienza della logica, si potrebbe dire che «il divenire nell’essenza, il suo movimento riflessivo, è quindi il movimento dal nulla al nulla, e così il movimento di ritorno a se stesso. Il passare o divenire si toglie via nel suo passare»21. Non si tratta di “due nulla” bensì del medesimo: tale medesimezza si scopre soltanto quando si sia davvero riusciti a sorpassare l’astratta fissità del soggetto rispetto all’oggetto, da un lato, e dell’oggetto sostanziale rispetto a se stesso, dall’altro.

4. Un esempio di dialettica tra soggetto e oggetto Cambia il soggetto e cambia l’oggetto, e tale mutamento costituisce la vitalità e la fluidità del pensiero. Prendiamo un esempio forse anche troppo dibattuto, ossia il rapporto tra il singolo e il lavoro così come viene formulato in alcune pagine capitali della cosiddetta Filosofia dello spirito jenese. Nel primo progetto di sistema di Jena, databile tra il 1803 e il 180422, che reca il titolo generale Das System der spekulativen Philosophie, troviamo un brano decisivo – ossia il Fragment 22 – che prende nome dall’incipit del frammento stesso: Es ist absolut notwendig.

21.  G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik II, in Id., Werke, cit., vol. VI, p. 24; tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Scienza della logica, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 20048, vol. II, p. 444. 22.  Cfr. H. Kimmerle, Zur Chronologie von Hegels Jenaer Schriften, in «Hegel-­Studien», IV, 1967, pp. 125-176: pp. 125-128.

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Da un lato abbiamo il singolo, dall’altro il lavoro – la cosa può aiutare perché consente di vedere l’oggetto di contro al soggetto non come una morta e astratta fissità, ma già come qualcosa di dinamico in se stesso: in effetti è verosimile concepire il lavoro come processo che non risulta mai identico a se stesso, bensì appare in continua evoluzione. Innanzitutto, «il lavoro non è un istinto, bensì un atto razionale [Vernünftigkeit], che nel popolo si trasforma in un che di universale, e perciò è opposto alla singolarità dell’individuo, che deve superarsi, e il lavorare esiste proprio perciò non in quanto istinto, bensì nel modo dello spirito»23. In queste righe il cosiddetto “modo dello spirito” designa soltanto la differenza appunto tra la particolarità del singolo e l’universalità dell’oggetto. Qui è proprio l’Io a percepire la distanza tra sé e l’oggetto: il negativo è ciò che mette in moto il singolo come attività per togliere l’astratta separatezza e fissità di se stesso rispetto al processo lavorativo. «Il lavoro in quanto attività soggettiva del singolo – scrive Hegel – è tuttavia diventato un che di altro, una regola universale, e soltanto mediante questo processo di apprendimento diventa l’abilità del singolo; ritorna a sé mediante il divenire altro da se stesso»24. Qui l’«ineguaglianza dell’Io verso l’oggetto»25 – che è il negativo, la differenza – è l’inadeguatezza del sapere dell’Io nei confronti del proprio oggetto, che è il processo lavorativo. L’Io “manca” in quanto differente rispetto a ciò che gli sta di 23.  G.W.F. Hegel, Jenenser Realphilosophie I, a cura di J. Hoffmeister, Felix Meiner Verlag, Leipzig 1932, p. 320. Ora in Id., Jenaer Systementwürfe I. Das System der spekulativen Philosophie, a cura di K. Düsing e H. Kimmerle, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1986, p. 227; tr. it., Filosofia dello spirito jenese, a cura di G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 57. Cfr. G. Venier, Ragione negatività autocoscienza, cit., in particolare pp. 166-176. 24.  G.W.F. Hegel, Jenenser Realphilosophie I, cit., p. 320; tr. it. cit., p. 57. 25.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 39; tr. it. cit., p. 29.

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fronte, ma anche la sostanza – ossia il lavoro – è differente. Differente non rispetto ad altro, bensì verso se stessa, in quanto nel singolo si manifesta quell’incapacità che non rende letteralmente possibile la realtà, ossia l’efficacia, di quel processo di produzione. Il processo lavorativo è quell’universale che si presenta ora al singolo come altro da sé: tale negatività, la differenza tra singolo e processo, ha innescato il processo di apprendimento, in cui il singolo toglie la differenza tra sé e l’oggetto. In tal senso il singolo diviene “abile”: non tanto nel senso che ora “possieda” il processo, bensì nella misura in cui ha negato l’alterità astratta e separata dell’altro: la riflessione ha letteralmente tolto la differenza perché quel processo ora è tale in quanto saputo. Non è nemmeno corretto dire che il soggetto se ne sia appropriato, non più di quanto sia vero che il processo si è appropriato del singolo, perché nell’apprendimento il soggetto si è uniformato al meccanismo del processo produttivo e ora è la sostanza stessa ad essere uguale a se stessa: ha risolto in se stessa la particolarità dell’Io, ha integrato in sé la singolarità. «Il riconoscimento del lavoro, e [dell’] abilità [percorre] nell’universale proprio il movimento circolare che ha percorso nel singolo attraverso l’apprendimento»26. In nota a questa proposizione Hegel aggiunge: «il cammino inverso; del trarre dal­ l’universale»27. Bisogna vedere il “doppio verso” del cammino: se si osserva soltanto il singolo che apprende o l’integrazione del singolo nel lavoro, rimangono ancora delle “fissità”, perché nel primo caso il singolo rimane il polo fisso che si appropria del processo, e nel secondo permane la sostanzialità fissa che semplicemente assorbe l’Io.

26.  G.W.F. Hegel, Jenenser Realphilosophie I, cit., p. 320; tr. it. cit., p. 57. Sul concetto di lavoro cfr. D. Borso, Hegel politico dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 117-120. 27.  G.W.F. Hegel, Jenenser Realphilosophie I, cit., p. 320; tr. it. cit., p. 57.

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Il riconoscimento mediante cui l’Io apprende il processo collima con il riconoscimento dell’abilità mediante cui il processo inserisce il singolo nell’apparato. Il concetto è diventato fluido, infatti è un circolo che può essere percorso per un verso come apprendimento effettuato dall’Io che riconosce il meccanismo universale di produzione, per l’altro verso come riconoscimento dell’abilità del singolo da parte della regola universale.

5. Dialettica e innovazione Se l’anello dialettico fosse concluso in questi termini, si ridurrebbe a un “girare in tondo” tra regola universale e abilità particolare, in un assetto che non sarebbe in grado nemmeno di spiegare il sorgere di una regola universale. C’è un aspetto che non si può mantenere sotto silenzio nella dinamica: «di fronte all’abilità universale si pone il singolo come un particolare, si distingue da essa e si fa più abile degli altri, inventa strumenti più idonei»28. Come ha spiegato Chiereghin, il movimento dialettico descritto da Hegel può essere visualizzato attraverso una curva periodica, ovvero la cicloide allungata, che «necessita di operare delle continue inversioni nella direzione del movimento per potere andare avanti»29. Ciò vale per raffigurare l’idea dell’apprendimento da parte della coscienza – per cui lo spirito, per alimentare se stesso, deve ad ogni passo ripercorrere l’intero suo cammino attraverso la coscienza particolare. Ma anche ammessa la necessità di un periodico riconoscimento reciproco tra l’abilità particolare e la regola universale, non siamo ancora in grado di spiegare nel complesso la cicloide: finora sarebbe sufficiente un circolo tra universale e particola28.  Ibidem. 29.  F. Chiereghin, La Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., p. 170, n. 15.

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re. Tale movimento circolare, completamente incentrato su se stesso, oltre a non conferire alcuna prospettiva di sviluppo alla dialettica, compare come un vero assurdo logico: non spiega infatti come sarebbe sorta quella regola generale a partire dalle singole abilità. La cicloide comporta una complessiva tendenza a procedere in una certa direzione – benché con alcuni “ritardi” determinati dall’esigenza di ripercorrere il cammino tornando al fondamento. Se per un verso l’abilità del singolo costituisce un “fattore ritardante”, per l’altro verso si presenta come “fattore innovante” rispetto alla regola – e dunque come principale condizione della dinamica progressiva di formazione della regola stessa nel corso della storia: la regola universale che l’abilità del singolo si trova ad apprendere oggi non è altro che il frutto dell’accumulo delle varie abilità singolari. E ancora così non si spiega la formazione della regola, perché la somma di abilità particolari non produce comunque la regola universale. Proprio da un punto di vista hegeliano c’è un abisso tra la particolarità espressa dalle abilità dei singoli individui e l’universalità della regola: sarebbe impossibile seguire e ripercorrere la particolarità espressa da una singola abilità. Ma come si raggiunge quell’universalità che – in quanto forma generale e dunque regola – può essere fatta oggetto di apprendimento da parte delle altre abilità particolari? In quanto il singolo si distingue dal processo lavorativo e diviene più abile «inventa strumenti più idonei, ma quello che nella sua abilità particolare è qualcosa di veramente universale è l’invenzione di un universale; e gli altri lo apprendono, tolgono la sua particolarità, e l’invenzione diventa immediatamente un bene universale»30. La “vera” invenzione non è il prodotto dell’abilità singolare, bensì la capacità da parte del singolo di 30.  G.W.F. Hegel, Jenenser Realphilosophie I, cit., p. 320; tr. it. cit., p. 57.

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“tradurre” la propria abilità in regola. A sua volta questa traduzione non pertiene unicamente al singolo, capace di universalizzare la propria abilità. Anzi, sono gli altri a togliere la sua particolarità rendendo la cosa un bene ormai alla portata di tutti e dunque universale. Leggiamo quest’ultimo passaggio – il toglimento dell’abilità particolare compiuto da parte degli altri – tenendo presente l’esi­to del primo passaggio – il singolo che si uniforma alla regola universale – e noteremo una perfetta medesimezza. (a) Quando diciamo che il singolo “apprende” la regola generale, intendiamo appunto che la sua abilità viene “tolta” dal popolo, trasformandosi in un che di universale. Come dire che l’istinto del singolo, la sua abilità peculiare, si trasforma in atto razionale soltanto se riconosciuto dagli altri. (b) Dal lato dell’oggettività, al contrario, si dovrà dire che la sostanza è diversa da sé proprio a motivo dall’istinto del singolo, e la sostanza tornerà ad essere identica a se stessa proprio riconvertendo quell’istinto in un atto razionale. L’invenzione dunque è una sorta di “istinto”: inevitabilmente non razionale è il modo in cui il singolo apprende l’universale. C’è un tasso di istinto, un tasso di invenzione, in ogni modo attraverso cui la coscienza singolare apprendere le regole generali. Quando poi l’apprendimento risulta tanto perspicace da rendere il singolo più abile degli altri, parliamo di invenzione vera e propria – ed essa dovrà essere riconosciuta e dunque tolta dagli altri31.

31.  Cfr. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Éditions Gallimard, Paris 1947; tr. it., Introduzione alla lettura di Hegel, a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996, p. 580: «Secondo Hegel, l’Uomo non è nient’altro che Desiderio di riconoscimento […] e la Storia non è che il processo del progressivo soddisfacimento di questo Desiderio».

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6. La creazione dello strumento La superiore abilità del singolo si concretizza in nuovi strumenti, più idonei: sono questi oggetti a veicolare la sua abilità a livello universale; gli altri adoperano questo nuovo oggetto e così lo riconducono a qualcosa di universale. Proprio al termine della sezione dedicata alla Ragione32 – prima che cominci lo Spirito vero e proprio – Hegel approfondisce questo rapporto tra l’inventore, la cosa e gli altri che l’adoperano. Innanzitutto, a riprova del movimento del negativo già osservato: «L’operare nulla muta e contro nulla si volge; è la pura forma della traduzione dal non-venir-veduto nel venir-veduto, e il contenuto che vien messo in luce e che si presenta non è niente altro da ciò che questo operare è già in sé»33, poiché l’operare viene visto non solo come luogo in cui la coscienza porta ad apparire un contenuto, ma al contempo come momento nel quale la differenza interna alla sostanza viene tolta, appunto da quell’operare che è della sostanza, ma che dunque – essendo un operare della sostanza sulla sostanza medesima – rivela la sostanza in quanto soggetto. Nel lavoro vediamo appunto all’opera il superamento dell’astratta fissità dell’Io da un lato e del suo oggetto dall’altro – in pari tempo la soppressione di questa differenza conduce a quel superamento della differenza interna alla sostanza mediante la quale essa si rivela a se stessa come soggetto. Il passaggio dal “non venir veduto” al “venir veduto” equivale in realtà al trasferimento dalla forma dell’essere non ancora 32.  Cfr. F. Chiereghin, La Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 90-97. 33.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 293; tr. it. cit., p. 328. L’artefice «“s-copre” qualcosa al di là di ciò che ciascuno vede», così Heidegger traduce il passo di Aristotele (Metaph., 981b 13). Cfr. M. Heidegger, Platon: Sophistes, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1992, p. 93; tr. it., Il «Sofista» di Platone, a cura di N. Curcio, Adelphi, Milano 2013, p. 132.

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rappresentato in quella del rappresentato: «mentre dunque questa coscienza si determina all’azione, non si lascia indurre in errore dalla parvenza dell’effettualità data; e similmente, lungi dal vuoto impacciarsi con pensieri e fini vuoti, ha da tenersi salda al contenuto originario della sua essenza»34. Come dire che la coscienza qui è riuscita a superare la fissità della realtà sensibile, del suo oggetto dato, ma soltanto aggrappandosi alla salda fissità dell’Io: dunque ha superato una fissità, ma a prezzo di rafforzare l’altra. «Ma la differenza di qualcosa siffatto che per la coscienza è soltanto al di dentro di sé, e di un’effettualità che, fuori della coscienza, è in sé, è caduta»35. Così infatti la differenza tra l’Io e l’oggetto che ha di fronte è crollata: tale è l’agire, inteso come il divenire dello spirito. Ma dall’altro lato, allora, anche la coscienza è cambiata, non è più fissa: «L’individuo non può quindi sapere che cosa esso è, prima di essersi portato, con l’operare, a effettualità»36. Ma per operare la coscienza deve aver avuto precedentemente la possibilità di rappresentarsi il fine. Il fine in realtà comincia ad apparire nell’interesse del singolo individuo: l’interesse è il contenuto che appare e il talento riguarda la forma dell’operare37.

34.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 296; tr. it. cit., p. 331. Sullo sdoppiamento come carattere tipico dell’autocoscienza cfr. O. Pöggeler, Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes, Karl Alber Verlag, Freiburg-München 1973; tr. it., Hegel. L’idea di una Fenomenologia dello spirito, a cura di A. De Cieri, Guida, Napoli 1986, p. 243. 35.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 297; tr. it. cit., p. 331. 36.  Ibidem. Sul sapere assoluto come sapere della cosa stessa cfr. L. Lugarini, Hegel dal mondo storico alla filosofia, cit., in particolare pp. 157-162. 37.  Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 297; tr. it. cit., p. 332. Sul senso del lavoro con riferimento alla Fenomenologia cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., in particolare pp. 222 s.

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Le circostanze costituiscono, per così dire, l’oggettività della sostanza, che si trova ad essere diversa da se stessa proprio a motivo di quell’istinto che è l’interesse nutrito dall’Io, il quale determina anche la differenza tra l’Io e l’oggetto che ha contro di sé. I due lati sono compenetrati nell’operare. L’opera prodotta dall’individualità, a motivo dell’interesse che l’ha risvegliata rispetto alla quiete delle circostanze, non è altra dall’azione in generale della sostanza su se stessa, e però porta con sé il carattere della determinatezza38. Di contro a tale determinatezza, la coscienza inevitabilmente si percepisce come diversa: l’individuo sorpassa la nuova cosa inventata in quanto la coscienza è come l’universale di contro all’opera particolare. Il ruolo della coscienza qui però viene subito circoscritto in maniera precisa da Hegel: «l’individuo può solo avere la coscienza del puro tradurre se stesso dalla notte delle possibilità al giorno della presenzialità, dalla notte dell’astratto in-sé, alla prestanza significativa dell’effettuale essere»39. Si era detto in effetti che la coscienza comprende solo ciò che si trova già nella sua esperienza. Ora, in che cosa consiste quell’innovazione dell’abilità particolare tramite cui la coscienza supera la regola universale? «L’opera è la realtà che la coscienza si dà; […] la coscienza per la quale esso [l’individuo] diviene nell’opera non è la coscienza

38.  Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 298; tr. it. cit., p. 333. Cfr. O. Pöggeler, L’idea di una Fenomenologia dello spirito, cit., p. 260. 39.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 299; tr. it. cit., pp. 334 s. Sulla notte dell’astratto l’autore si era già espresso in Id., Jenenser Realphilosophie I, cit., p. 187. Ora in Id., Jenaer Systementwürfe III. Naturphilosophie und Philosophie des Geistes, a cura di R.P. Horstmann, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1987, p. 173; tr. it., Filosofia dello spirito jenese, cit., p. 71: «Ciò che qui esiste è la notte, l’interno della natura – un puro Sé; in fantasmagoriche rappresentazioni tutt’intorno è notte […]; qui ad ognuno sta sospesa di contro la notte del mondo».

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particolare, ma quella universale; essa nell’opera si è trasposta in generale nell’elemento dell’universalità, nello spazio, privo di determinatezza, dell’essere»40. Concentriamoci sulla determinatezza dell’opera come tale: «il suo essere è esso stesso perciò un operare nel quale tutte le differenze si compenetrano e si risolvono»41. Ma la determinatezza dell’opera ormai è “lanciata nel mondo” e dunque il suo sussistere si rivolge contro ad altre cose determinate. È vero che la determinatezza dell’opera è la realizzazione effettuale della coscienza che l’ha creata – con riferimento al nostro caso, lo strumento concretizza effettivamente la superiore abilità del singolo –, ma tale effettualità è anche qualcosa di estraneo. «L’opera è; ovverosia è per altre individualità; ed è per esse una effettualità estranea al cui posto esse debbon porre la propria, per darsi, mediante il loro operare, la coscienza della loro unità con l’effettualità»42. Lo strumento messo a punto dal “più abile” diviene un oggetto alla portata anche di altri. Tra la cosa e le varie individualità s’instaura un rapporto analogo a quello che sussiste tra il fenomeno del gioco delle forze e l’unità della legge nella prima parte della Fenomenologia: le varie forze s’incontrano e si scontrano tra di loro, ma sono assorbite dall’infinità della legge, che Hegel chiama «infinità

40.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 300; tr. it. cit., p. 335. Su questo punto cfr. F. Chiereghin, La Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., in particolare pp. 114-117, dove si illustra il rapporto tra la cosa e le diverse individualità particolari. 41.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 300; tr. it. cit., p. 336. Cfr. M. Heidegger, La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 87 s.: «il sapere porta, in quanto saputo nel sapere assoluto, esso stesso alla luce la misura sulla quale esso misura e trova ogni volta la sua verità». 42.  Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., vol. III p. 301; tr. it. cit., p. 336.

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semplice o il concetto assoluto, […] l’essenza semplice della vita, l’anima del mondo»43. Qui si svela il fatto che l’interesse dell’individuo è solo il cominciamento del fine e non coincide con la piena posizione di esso. Infatti, considerando gli altri che vengono ad adoperare il nuovo strumento «il loro interesse per quell’opera, posto dalla loro natura originaria, è un interesse diverso da quello peculiare di quest’opera, la quale così viene mutata in qualcosa di diverso»44. L’interesse del primo individuo, per così dire “il più abile”, ha suscitato per la prima volta il nuovo strumento: l’effettiva significatività di questo non si esaurisce in quel primo interesse, ma viene innervata dagli interessi degli altri.

7. L’inganno della cosa: come mosche sul latte «L’opera è perciò in generale qualcosa di effimero che si estingue per il controgioco di altre forze e di altri interessi, e che rappresenta la realtà dell’individualità piuttosto come dileguante che come compiuta»45. La cosa non è più legata né soltanto al primo interesse che pure l’ha generata, né soltanto ai vari altri interessi che progressivamente la costituiscono: al contrario, la vera essenza della cosa è il permanere del mezzo di fronte all’accidentalità dell’operare dei singoli individui – cosa che verrà ripresa nella Scienza della logica a proposito della superiore nobiltà dell’aratro46 rispetto alla soddisfazione dei bisogni 43.  Ivi, p. 116; tr. it. cit., p. 135. Cfr. M. Heidegger, La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 173-183. 44.  Cfr. ivi, p. 301; tr. it. cit., pp. 336 s. 45.  Ibidem. Cfr. M. Heidegger, La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 168-172. 46.  Cfr. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik II, cit., p. 453; tr. it. cit., pp. 848 s. Cfr. B. de Giovanni, Hegel e il tempo storico della società borghese, De Donato, Bari 1970, pp. 112 s.

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dei singoli contadini. La cosa in tal modo non è più Ding, mero oggetto di contro alla coscienza, bensì Sache, ossia oggetto che è tale solo perché è oggetto della coscienza. «Ecco che sorge un gioco delle individualità l’una con l’altra, nel quale esse ingannano e trovano ingannate ciascuna se stessa e le altre reciprocamente»47. Le coscienze si avviano a negare reciprocamente la cosa, adoperandola secondo il proprio specifico interesse, pensando in tal modo di oltrepassare la cosa stessa in vista del proprio fine. L’affaccendarsi attorno alla cosa pensando di adoperarla soltanto per i propri scopi escludendo gli altri è invece proprio trasportare il proprio fine nell’universale, e dunque il diventare cosa di tutti da parte di quel nuovo strumento. Ecco l’inganno intrinseco alla cosa. «Una coscienza che mette avanti una Cosa fa piuttosto esperienza che gli altri accorrono come le mosche sul latte or ora messo in tavola»48. Fuori di metafora, ciascuno comincia ad adoperare lo strumento per i propri scopi, ma così facendo universalizza lo strumento: così toglie la particolarità dell’invenzione da parte del singolo; la coscienza dell’inventore è stata essa stessa “raggirata” dallo strumento. La cosa viene percepita da ogni coscienza come propria, ma in realtà tutte le coscienze singole sono accomunate nella coscienza universale della cosa, che supera le singole coscienze. La cosa diviene «operare di tutti e di ciascuno; è l’essenza che è essenza di tutte le essenze, l’essenza spirituale»49. L’esser spi-

47.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 308; tr. it. cit., p. 345. Cfr. L. Cortella, Autocritica del moderno, cit., in particolare le pp. 267-272, dedicate al «terzo soggetto». 48.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 310; tr. it. cit., p. 346. Sull’esser-tolto del finito nel movimento assoluto cfr. M. Heidegger, La Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 115-128. 49.  G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 310; tr. it. cit., p. 347.

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rituale della cosa coincide con il momento in cui la sostanza toglie la differenza con se stessa, e diventa a se stessa soggetto: sorge una coscienza universale della cosa. «Con ciò la Cosa stessa perde il comportamento di un predicato e la determinatezza di un’inerte universalità astratta, ed è piuttosto la sostanza permeata d’individualità»50: tale era l’obiettivo del pensiero moderno, ossia superare non solo la fissità del soggetto come Io, ma anche quella dell’oggetto come mera astrazione. Ora le singole coscienze nella loro fissità sono superate e la cosa stessa come centro pulsante dell’attività di tutti e di ciascuno non ha nulla di fisso, ma descrive il suo automovimento, alimentato da quegli interessi delle singole coscienze che come sono posti, così vengono superati, e però nel venire superati costituiscono anche il superamento del significato dello strumento, che amplia la sua cerchia ed è così sostanza che si rende soggetto a se stesso.

50.  Ibidem.

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Dall’essere al dover-essere Il parricidio sempre ancora da compiere Vincenzo Vitiello

I 1. Tò òn léghetai pollachôs, allà pròs hèn kaì mían tinà physin: l’essere si dice in molti modi, ma in riferimento ad uno e ad una determinata natura. Uno ed essere dicono, dunque, il medesimo: tò òn kaì tò hèn tautòn kaì mía physis, come principio e causa, ósper archè kaì aítion. Sono parole, queste, che hanno fatto storia, la storia della filosofia. Sono infatti all’origine del primato dell’essere nel linguaggio della filosofia. All’origine della concezione archontica del sapere. All’origine della volontà di potenza del sapere. Ma nell’atto stesso di dichiarare il proprio trionfo su Nómos, Alétheia, la verità, confessava, celandola, la sua dipendenza da quello che voleva subordinare a sé. A ­ létheia, infatti, per affermarsi come verità prima, causa e principio, dev’essere, ha necessità d’essere, la verità di Uno e di Essere, ossia la verità del Tutto. Nómos, Legge, della Verità Universale è d’essere inclusiva di sé: la verità come primo kath’hautó. Rilevo che Spinoza e Hegel sono sulla medesima linea di Aristotele: l’uno identificando immediatamente certezza e verità, subito contraddicendosi1, l’altro tentando, senza peral1.  Cfr. B. Spinoza, Tractatus de intellectus emendatione, § 35, ove la certezza è definita insieme «ipsam essentiam objectivam» e «modus quo sentimus

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tro riuscirvi, la mediazione tra l’esperienza della coscienza e la coscienza dell’esperienza, ovvero: tra concetto e autoconcetto2. Il Nómos della Verità non sembra disposto a farsi catturare da Alétheia. Nella Introduzione a Formale und transzendentale Logik Husserl rileva questa subordinazione della Verità alla Legge – e che questa Legge sia il Nómos stesso della Verità, non toglie la subordinazione3. E che sia tale, subordinazione e non identità, è provato da ciò, che la Verità non riesce a realizzare, ad attuare il proprio Nómos. Ed è questo – vedremo – il segno più proprio di Nómos, non essere realizzabile, attuabile. 2. Cosa impone il Nómos della Verità dell’Essere-Uno, della Verità-Totalità, a questa Verità? D’essere Verità anche di se stessa, perché se non fosse capace di tanto, d’essere vera anche in rapporto a sé, non potrebbe imporsi come verità d’altro. Non reggendo se stessa, non essendo principio, archè kaì aítion, di sé, se cioè in relazione a sé potesse essere non-vera, nessuna verità “particolare” sarebbe più vera. Ma può la verità essere verità di sé? E a quali condizioni? Assumiamo come data la distinzione tra Tutto e parti, Uno e molti, Essere e enti. Sono sin troppe note le obiezioni che

essentiam formalem» (in Id., Tutte le Opere, testi originali a fronte, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2010, p. 126). Per una critica di questa identificazione cfr. G. Vico, De uno universi iuris principio et fine uno, in Id., Opere giuridiche, testo latino a fronte, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974, Definitiones veri et certi, p. 35. Sul tema cfr. V. Vitiello, Vico nel suo tempo, Introduzione a G. Vico, La scienza nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, a cura di M. Sanna e V. Vitiello, pp. V-CLXXII, cap. II, Spinoza e Vico, spec. § 2, pp. LXII ss. 2.  Sul tema cfr. infra, § 3. 3.  Cfr. E. Husserl, Formale und transzendentale Logik (1929), Niemeyer, Tübingen 1981, Einleitung, pp. 1-15.

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il venerabile e tremendo Parmenide mosse all’ancor giovane Socrate riguardo al rapporto tra il Tutto e le parti, per dover qui riportarle; è sufficiente ricordare che la verità del Tutto – ­dell’Uno, dell’Essere – è altra rispetto alla verità della parte – dei molti, degli essenti –, e pertanto le “due” verità – quella del Tutto e quella delle parti – per essere distinte debbono esser parti di una terza verità che le contenga entrambe. Non ripeto qui l’argomento dell’ánthropon tríton ripreso da Aristotele – e proprio contro Platone! –, mi basta evidenziare la contraddizione in cui cade la Verità dell’Essere, ossia la Verità del Tutto, quando viene distinta dalla verità dell’essente, della parte: essa, la Verità del Tutto, entra nella più ampia Verità che contiene la distinzione tra la Verità totale e la verità parziale, e cioè: la Verità del Tutto non sarebbe più tale, non sarebbe più Verità del Tutto. Vale a dire: la Verità del Tutto è indistinguibile dalla Verità della parte. La dottrina hegeliana del concetto non solo risolve questa aporia, ma fa dell’altro ancora. Distingue infatti il concetto universale dal concetto particolare – il Tutto dalle parti, l’Essere dall’essente – non in base alla loro diversa estensione, bensì in base alla loro diversa configurazione. E cioè: il concetto universale è la totalità delle parti, osservata dallo Standpunkt dell’Intero, la cui positività è la negazione di tutti i particolari (exempli gratia: il colore universale non è né giallo, né rosso, né verde, in quanto è giallo e rosso e verde, e gli altri colori tutti); diversamente, il concetto particolare è la stessa totalità, ma osservata dallo Standpunkt della parte, per cui la sua positività risulta dalla negazione non di tutte le parti, ma solo di quelle che son distinte da sé, negazione che costituisce l’esser parte della parte (exempli gratia: il colore giallo è tale perché non-rosso, non-verde, e non-altro diverso colore; se non ci fossero altri colori, il giallo non sarebbe quello che è: giallo). La parte non è meno “estesa” del tutto, ma la stessa “estensione” è osservata da prospettive diverse.

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Se Hegel si fosse fermato alla distinzione del concetto in universale e particolare, avrebbe sì provato la distinzione tra Tutto e parti – Essere e essente, Uno e molti – senza cadere nell’aporia del “terzo uomo”, perché la medesimezza dell’estensione dei due concetti, dell’universale e del particolare, non esige un “terzo” in cui i due debbano essere “confrontati”, dacché il confronto cade già in ciascuno d’essi. Avrebbe tuttavia immobilizzato la distinzione in una identità senza “movimento”, senza divenire. Avrebbe semplicemente ripetuto il tautà aei di Aristotele: sempre le “stesse cose”, eíper enérgheia próteron dynámeos, se l’atto è prima della potenza. Il divenire non è dell’universale né del particolare – non divengono né il concetto universale di “colore”, né il concetto particolare di “giallo” –, diviene l’individuale: il giallo di questo panno che col tempo e con l’uso muta, macchiandosi, stingendosi… L’individuale in certo modo sporge “fuori” dal concetto, restando in esso, in quanto nel suo “contenuto” è compreso anche il suo operare. Il concetto individuale non significa nel senso che fa-segno al suo operare, ma dice il suo operare essendolo. Conosco davvero il “singolare” giallo di questo panno, perché l’ho usato, macchiato, lavato, scolorito… Nel concetto individuale, singolare, im einzelnen Begriff, è la “storia” del panno: il suo uso pratico. Qui davvero si palesa la verità di Vico espressa nella lingua sua più propria, la lingua dell’agire, della prassi, del potere, la lingua di Roma antica: verum et factum convertuntur. Dove, e quando? Dove? Nel verum, e cioè quando il fatto è già accaduto. Il vero ne è il ri-flesso. Ma se factum non è facere, verum non potrà mai essere verare, far vero, render vero. Sarà pur esso legato al fatto, al passato. È quanto la hegeliana Fenomenologia dello spirito, contro la dichiarata intenzione dell’Autore, ampiamente dimostra.

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3. Problema della Fenomenologia – per dirla con le parole stesse del suo Autore – è portare l’esperienza della coscienza a coscienza dell’esperienza, ovvero: identificare contenuto del sapere e prassi del sapere. La descrizione dell’iter della coscienza è la di-mostrazione del processo in cui la verità del mondo, dapprima celata nell’esperienza soggettiva della coscienza, si palesa alla fine nel «concetto che si sa come concetto» – e questo, non altro che questo è ciò che Hegel chiama «spirito assoluto». In questo processo il momento che segue è la verità di quello che precede, in quanto ne “dice” l’essenza sua propria. Talché il “qui” e l’“ora”, che nella sensazione sono inafferrabili, si palesano nella loro verità solo alla fine del processo, ove il singolo evanescente “ora” ed il singolo illocalizzabile “qui” assumono la loro determinata determinatezza temporale e spaziale nel “tempo-spazio” universale. Pertanto la verità della certezza sensibile si dà solo nello spirito assoluto. Il che equivale a dire non soltanto che la verità è retro-flessa, ma che l’intero movimento dello spirito è solo “parvenza”, Schein, non “apparimento”, Erscheinung. L’intera hodós fenomenologica della coscienza, dell’autocoscienza, dello spirito in quanto «operare di tutti e di ciascuno», si svolge, infatti, all’interno dell’orizzonte del reines Zusehen, del «puro stare a vedere», il cui punto di osservazione, Standpunkt, è definito ab initio. Il cammino è compiuto già prima di cominciare4. L’aristotelico tautà aei si presenta alla fine come all’inizio della Fenomenologia dello spirito. E non vale la difesa – svolta nella Scienza della logica secondo il più rigoroso aristotelismo – che altro è l’inizio, altro il compimento, altro la potenza, altro l’atto, se la potenza, in quanto tale, è determinata dall’atto che è ad essa

4.  Sul tema rinvio a V. Vitiello, Europa. Topologia di un naufragio, Mimesis, Milano-Udine 2017, Sez. I, Cap. I, Logica e mondo in Hegel. La quarta forma del sillogismo, pp. 23-49.

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immanente. Pertanto è vano il tentativo, compiuto al termine della Scienza della logica, di presentare il divenire della idea assoluta come un circolo di circoli in continua espansione, ché questo circolo non fa che ripetere se stesso. E lo stesso va detto dei tre sillogismi finali dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, che attraverso il loro succedersi dovrebbero inglobare nel contenuto del pensiero logico il movimento di questo pensiero, perché se è vero che nella successione dei tre sillogismi l’ordine del sistema “salta”, e nel terzo sillogismo – sillogismo di sillogismi – è il movimento stesso del pensare, la prassi del pensiero, che è portata a pensiero, nel pensiero, non è men vero che questo movimento è un continuo ritorno su se stesso in se stesso. È movimento, come si disse, ut pictura in tabula. Un fuoco che né si muove, né riscalda. Di nuovo la citazione aristotelica si mostra la più adeguata a definire il “divenire” hegeliano: tautà aeí. Ma, va detto a questo punto, che nessun fallimento è stato, come questo hegeliano, così tanto istruttivo. Cosa risulta infatti da tutto quanto s’è detto riguardo al tentativo hegeliano di portare l’esperienza della coscienza a coscienza dell’esperienza – ovvero: di portare la prassi del pensiero a contenuto del pensiero, a pensato? Cosa risulta in particolare dall’ultimo tentativo, quello dei tre sillogismi finali dell’Enciclopedia? Che il movimento del pensiero, la prassi del conoscere, non può essere oggetto di un discorso descrittivo, enunciativo. Il “fallimento” di Hegel trascina con sé il cogito ergo sum, il sum cogitans di Descartes. Il cogitans dice – al più – quello che “è”, non quello che avviene, che sta avvenendo. Dice l’essere, non il possibile. Abbiamo unito, in un unico discorso, temi diversi: essere e prassi, essere e linguaggio, essere e possibile. Vediamo come stanno insieme, se stanno insieme. Cominciamo dal “possibile”.

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II 1. Com’è noto, i Postulati del pensiero empirico in generale si distinguono dalle altre Proposizioni fondamentali (Grundsätze) della ragione in quanto non determinano l’ente (Objekt) nel suo contenuto, nel suo “che cosa”, ma definiscono il rapporto dell’ente con la facoltà di conoscere (Erkenntnisvermögen). Ad evitare che la diffusa, quanto errata, interpretazione del trascendentalismo kantiano come “soggettivismo” venga rafforzata da tale definizione, è necessario chiarire che qui con “facoltà di conoscere” non altro è da intendersi che l’orizzonte dell’esperienza, ovvero: l’orizzonte di comprensione, perché di apparizione, dell’ente in quanto fenomeno, in quanto “ciò che appare”5. Come, d’altronde, è chiaramente detto nelle preliminari definizioni che Kant fornisce dei tre postulati, che qui sotto riporto: 1. Ciò che s’accorda con le condizioni formali dell’esperienza (secondo le intuizioni e i concetti) è possibile [möglich]. 2. Ciò che si connette con le condizioni materiali dell’esperienza (della sensazione) è reale [wirklich]. 3. Ciò la cui connessione col reale [Wirklichen] è determinato dalle condizioni universali dell’esperienza, è (esiste) necessariamente [notwendig].6

Va subito rilevato che i tre Grundsätze non possono essere messi sullo stesso piano. La categoria modale del “possibile” è radicalmente differente dal “reale” e dal “necessario”. E la

5.  Non è superfluo ricordare la definizione che del “soggetto della conoscenza” Kant dà nella critica dei Paralogismi della ragion pura: «Durch dieses Ich, oder Er, oder Es (das Ding), welches denkt, wird nun nichts weiter, als ein transzendentalen Subjekt der Gedanken vorgestellt = X» (I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Werke, Akademie Textausgabe, de Gruyter, Berlin 1968, A 346 [Bd. IV], B 404 [Bd. III]). 6.  I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., A 218-219, B 266.

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differenza si coglie subito stando proprio alle definizioni di Kant. Ché, se il reale e il necessario, in quanto definiscono un oggetto d’esperienza, determinano l’ente nel suo “che cosa”, nella sua costituzione d’essere, dacché l’ente in quanto fenomeno non da altro contenuto d’essere è costituito che da quello che gli deriva dall’insieme dei rapporti con gli altri enti (come Kant stesso afferma), il “possibile”, per contro, lascia del tutto indeterminato l’ente nel suo “che cosa”, dacché le condizioni formali dell’esperienza, a cui il possibile si riferisce, sono affatto vuote d’esperienza: di contenuto. L’oggetto possibile è, e resta, affatto indeterminato. E allora solo al possibile conviene la definizione “negativa” che Kant dà della “modalità”, e cioè ch’esso, in quanto predicato, non accresce minimamente la determinazione dell’oggetto (die Bestimmung des Objekts). Vero è che Kant, ponendo accanto al possibile il reale e il necessario, disconosce il senso più profondo della modalità, quello da lui stesso definito come concetto non determinante il contenuto dell’oggetto. E dunque ben a ragione Hegel gli obiettava che cento talleri reali sono ben diversi nella loro costituzione d’essere, nel loro “che cosa”, da cento talleri solo possibili: i primi hanno un potere d’acquisto che i secondi non hanno! E il potere d’acquisto non determina meno il “che cosa” dell’oggetto di quanto non facciano il colore, il peso, il numero, la causa, ecc. ecc. E, certo, non è un caso che Hegel nella Logica riduce il possibile a momento, già da sempre superato, del reale necessario. Non è un caso, perché la definizione negativa del “modale”, rigorosamente intesa, impedisce l’autocomprensione del concetto, e cioè pone un limite invalicabile al pensiero. Il pensiero, in quanto determinante l’oggetto nel suo essere – id est: il pensiero enunciante, constatativo, descrittivo – non è, per la sua stessa funzione, in grado di cogliere il pensiero nel suo “esser-possibile”, nella sua modalità d’essere. Del possibile non si dà enunciato. Si dà “esperienza”.

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2. L’indeterminazione del possibile, il suo sottrarsi alla forma dell’enunciato, si manifesta anzitutto in ciò, ch’esso respinge come affatto inadeguata la copula “è”, la kantiana paroletta di relazione (Verhältniswörtchen). Il possibile infatti non è possibile, ancorché possa esserlo. Dire che il possibile è possibile comporta costringerlo all’essere, così negandolo, col renderlo necessariamente possibile. È, questa, l’operazione che segna l’atto di nascita della filosofia, che proprio nel tradurre la dýnamis da “possibilità” in “potenza” si è separata uno actu dal mito e dalla sofistica. La conclusione fu quella già sopra più volte menzionata: Tautà aeí, eíper próteron enérgheia dynámeos7. Restituire al possibile il primato sull’essere comporta certamente l’abbandono della pretesa di assolutezza del sapere e della verità che sono alla base dell’epistéme dell’Occidente, ma al contempo consente di aprire la nostra comprensione ad aspetti fondamentali ed originari dell’esperienza umana, non inquadrabili nella logica dell’essere, ovvero: non esprimibili nel linguaggio apofantico, descrittivo dell’enunciato. Quali? Il diritto e la morale, ambiti d’esperienza ove non il verbo “essere” si impiega, né la terza persona, il Verhältniswörtchen “è”, e neppure la prima: l’ego del cogito; bensì il verbo “dovere” e la seconda persona: non “deve”, né “debbo”, ma “devi”. Chiaramente stiamo riprendendo la distinzione humiana tra scienze constatative, descrittive, e scienze normative, ma la riprendiamo per problematizzarla. Prima questione: dove stanno insieme le due scienze, sì da poter confrontarle? Nella riflessione, che ponendo la loro distinzione, le contiene entrambe. Ma come stanno insieme? Non alla pari: in quanto il linguaggio della riflessione è il linguaggio apofantico, descrittivo, dell’essere, e dunque parla del doveressere con un linguaggio non ad esso con-forme, e ciò nell’atto 7.  Cfr. Aristotele, Metafisica, XII, 1072a 8-9.

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stesso di porre la distinzione, dicendo: “il dover-essere è in quanto tale distinto dall’essere”. Che la riflessione, in quanto coscienza dell’esperienza, parli un linguaggio differente dal linguaggio dell’esperienza della coscienza giuridica e morale, non abbia nessuna conseguenza, è difficile ammettere, in particolare quando, nella stessa autocoscienza riflessiva, l’altra esperienza, quella constatativa, descrittiva, che è propria dell’essere, si trova riflessa nel suo stesso linguaggio. Stiamo qui facendo esperienza di un limite della coscienza riflessa, diciamo pure del sapere, che non riesce a portare a sé la propria esperienza giuridica e morale, in quanto non ha il linguaggio appropriato a tale esperienza. Al sapere non è dato il linguaggio del dover-essere. La forza delle concezioni antinormativistiche del diritto poggia su questa debolezza: la spiegazione della normatività delle norme – affermano – non è riconducibile al linguaggio normativo. Il “tu devi” originario è un fatto: l’originario “tu devi” è. L’eliminazione del dover-essere da parte dei due massimi filosofi moderni dell’Assoluto – Spinoza e Hegel – consegue proprio all’esigenza di eliminare questo limite dal sapere assoluto. 3. Cerchiamo, ora, di avvicinarci al linguaggio del dover-essere. Cominciamo dal diritto. Il linguaggio giuridico è performativo in un senso particolare, in quanto non produce soltanto “effetti” sul suo destinatario, fa ben di più: produce il suo destinatario. Prima della legge che gli riconosce il diritto al voto, l’elettore semplicemente non c’è (l’elettore, preciso, e non genericamente l’uomo che, in quanto ente “naturale”, non ha figura giuridica). La legge per-forma il suo destinatario. Dove, allora, la differenza della legge, categoria giuridica, dalla relazione causale, categoria della scienza naturale? In ciò, che questa per-forma “oggetti”, quella “responsabili”, vale a dire: soggetti chiamati a rispon-

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dere. Chiamati a rispondere: è implicita in questa definizione il riconoscimento della “possibilità” di non rispondere: ciò che viene anche chiamata “libertà”. Il dover-essere si distingue dall’essere appunto per questa “possibilità”: che la risposta del destinatario non cor-risponda alla richiesta della legge. In ciò – si dice – la differenza tra legge naturale e legge giuridica, tra oggetti fisici e soggetti giuridici. Ma si tratta di una differenza molto labile, in certi ambiti insussistente. Come, ad esempio, nell’ampio territorio del diritto tributario, ove la legge è tanto “generosa” con i suoi destinatari, da non chiedere ad essi nessuna azione, operando essa – la legge – al loro posto, col detrarre direttamente dai beni del destinatario il tributo richiesto, dovuto. Ma in generale la legge giuridica non solo performa i suoi destinatari, ma anche si sostituisce ad essi. Ciò accade tutte le volte che il destinatario, non avendo corrisposto al dover-essere della norma, è condannato con la forza ad eseguire ciò che gli è stato comandato. In questo caso – che è il caso universalmente previsto dal diritto – viene meno il carattere performativo della legge, ché qui non c’è più dover-essere, ma solo l’essere dell’esecuzione del comando. Con l’esecuzione forzata la legge toglie, uno actu, con l’infrazione del diritto, se stessa. Toglie il dover-essere. È che l’ordinamento giuridico ha una natura anfibia, partecipando insieme all’essere e al dover-essere. È norma, dovere, ed insieme istituzione, fatto, “essere”. Di qui la distinzione tra validità ed efficacia della norma giuridica, fonte di discussioni e polemiche tra le opposte scuole dei normativisti e degli istituzionalisti. Diversa, profondamente diversa la condizione della morale. In essa il “dover-essere”, l’imperativo, è davvero categorico: non conosce oscillazione alcuna. 4. Ancor qui mi valgo del riferimento a Kant, il più rigoroso sostenitore, nella dottrina morale, della separazione del “dover-

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essere” dall’“essere”. In questo ambito la sua opposizione alla concezione greca, specificamente aristotelica, della morale è radicale: l’uomo, l’uomo morale, non è l’euphyés, il ben-nato, che riceve dalla natura l’indicazione del fine buono, così come ha dalla natura una vista buona (hósper ópsin échonta)8; la ragione morale, per Kant, non è secondo natura (katà phýsin), ma contro natura (parà phýsin). L’esempio che adduce è illuminante, quanto inquietante: conservare la vita è per tutti un obbligo, solitamente anche un piacere, un’inclinazione naturale; ma solo allora s’eleva a dovere morale, quando contrarietà e dolore senza conforto abbiano tolto ad un uomo ogni gusto di vivere; quando l’infelice, dall’animo forte, più indignato per il suo destino che scoraggiato o abbattuto, pur desiderando la morte, conserva la vita senz’amarla.9

La radicalità della posizione kantiana sul dover-essere in campo morale non si ferma qui. L’elemento costitutivo dell’imperativo morale sta in ciò, che non solo quando non è realizzato, ma addirittura quando non può essere realizzato, anzi maggiormente allora, esso non perde in nulla il suo carattere vincolante. La sua validità non dipende affatto dalla sua efficacia operativa, perché esso è totalmente sciolto dal contenuto dell’azione, riguardando l’intenzione che la regge, la modalità dall’azione. La medesima azione può essere oggetto di opposti giudizi morali. E la modalità dell’agire morale ha un suo linguaggio proprio, il linguaggio dell’imperativo: «Handle»10. È un’antica tradizione che parla in Kant: Handle ripete: lo tir’zach – «tu non

8.  Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1139b 10-11. 9.  I. Kant, Grundlegung der Metaphysik der Sitten, in Id., Werke, cit., Bd. IV, p. 398. 10.  I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, in Id., Werke, cit., Bd. V, § 7, p. 30.

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ucciderai»11 –, che Lutero traduce: du sollst nicht töten12. Ma non solo con questa parola parla in Kant la tradizione. Il senso “morale” di Kant ha radici profonde nell’archaico, in quello che solo la Tragedia greca seppe esprimere con “parole reali”, direbbe Vico, con parole, cioè, che sono la cosa stessa: il contrasto tra Infinito e finito, esperito e detto nella lingua dell’uomo, del mortale: tà érga mou / peponthót’ estì mâllon è dedrakóta13: «le mie azioni le ho patite più che agite». Handle! Agisci! Dice la ragione morale. Ma: a chi o a che lo dice? Non all’uomo – è la risposta; non a quell’ente doppio, che è ragione e senso, legge e natura. Lo dice alla ragione dell’uomo, a quella ragione che, unica, “sente” la voce dell’imperativo. Lo dice a se stessa. E lo dice parlando a se stessa in seconda persona. L’“io”, l’“io morale”, “tu” a se stesso, tu di se stesso. E cosa comanda l’io morale a se stesso? Comanda di agire, di fare, quello che ha già fatto, già agito: comanda di liberarsi dai lacci della sensibilità, che impediscono di “ascoltare” la voce della ragione morale, l’imperativo. Comanda il già fatto. È un richiamo al Ghénoi’ oîos essì mathôn di Pindaro14, non nella versione nietzschiana – Werde was du bist!: divieni ciò che sei! –, ma nella più corretta che ci suggerisce Kant: divieni ciò che hai appreso (mathôn) d’essere, o, ancor meglio: ciò che apprendi d’essere, ciò che apprendi costantemente nell’esperienza del vivere, e cioè: che l’inclinazione sensibile non è mai vinta, ché

11.  Cfr. Es 20,13; Dt 5,17. 12.  Cfr. Die Bibel nach der Übersetzung Martin Luthers, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 1985, p. 192. 13.  Cfr. Sofocle, Edipo a Colono, v. 267. 14.  Sulla doppia interpretazione di questo “passo”, cfr. H.-G. Gadamer, Hermeneutik im Rückblick, Mohr (Siebeck), Tübingen 1995; tr. it., Ermeneutica. Uno sguardo retrospettivo, testo tedesco a fronte, a cura di G. Demarta, Bompiani, Milano 2006, pp. 866 s.

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sempre di nuovo insorge, contrastando la ragione morale. È il finito dell’“io” che lotta contro l’infinito del medesimo “io”. Il “tu” a se stessa della ragione morale, che dice: Handle, trova qui la piena spiegazione: l’imperativo è un memento. Ricordati che sei mortale. Ricordati che l’Infinito, che abita in te, non è te stesso. Ricordati che non sei morale, ma devi esserlo. Devi esserlo nell’atto stesso in cui lo sei, perché non in altro modo lo sei, che “lottando” per esserlo, ovvero: non in altro modo che dovendo esserlo. Chiaro: non è ciò che fai che costituisce l’agire morale, ma il “modo” in cui lo fai. E il modo non dipende da te. Non dipende da te esser capace d’ascolto dell’imperativo. E ciò non solo perché puoi ascoltarlo solo se sei già capace d’ascolto, ma anche perché nel contrastare l’inclinazione sensibile sei chiamato a rispondere di ciò che non dipende da te: non dipende, infatti, dalla ragione morale la potenza delle inclinazioni sensibili. L’essere contrasta in ogni punto il dover-essere. Pertanto è corretto dire non che moralmente “sei” responsabile, bensì che “devi esserlo”, e questo dover-essere non è uno stato, ma un modo di sentire. Il modo di sentire sé come altro da sé, come “tu”, si diceva, come in-finito in senso negativo, mai non essendo quello e in quello che si è. Dover-essere dice: sempre ancora da essere. Dice: futuro – la dimensione temporale propria del dover-essere. Che è la dimensione originaria del tempo. 5. Futuro che deve essere, perché l’essere possa essere. Chiara l’inversione: il “deve essere” del futuro non è in potere del presente. Il “deve essere” del futuro esprime un’esigenza: senza futuro non è il presente. Senza dover-essere non è essere. Il primato dell’essere è solo il prodotto della filosofia che, temendo la possibilità del possibile, ha mutato il possibile in potere, che all’inquietudine della domanda – l’originario thaûma, che non è solo meraviglia, sì anche angoscia – ha preferito la quieta

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certezza della risposta. L’esser-dato dell’essere, a cui alla fine la filosofia si richiama presentando l’evidenza somma: l’assoluto phanerón del “fatto” della domanda, del fatto del cogito – bene, questo “esser-dato” non è un fatto, ma una possibilità: possibilità che il futuro sia, possibilità del dover-essere. Possibilità, e solo possibilità. Perché quello stesso che dona, il futuro, è, esso stesso, totalmente rimesso al suo “aver-sempre-da-essere”. Possibilità che è possibile esprimere solo con un ossimoro: domani potrebbe non esserci domani. Non è il “fallimento” del pensiero, è il riconoscimento del limite del pensiero, che certo non si può indicare senza valicarlo (come Hegel e Wittgenstein, in ciò d’accordo, ci hanno insegnato), ma non perché il pensiero non ha limite, bensì perché è incapace di coglierlo. Perché il limite del pensiero non lo si “pensa”, se ne ha esperienza. L’esperienza della non conoscenza, dell’ágnoia. Si badi: la non conoscenza riguarda non soltanto il “dove”, sì anche il “che” del limite: se limite c’è. Non si dice: domani non ci sarà domani, ma: domani potrebbe non esserci domani. E l’assenza del domani è l’assenza del tempo. Del passato, quindi, non meno del futuro. Non risponde a verità, dunque, l’affermazione del poeta tragico Agatone – citato da Aristotele nella Nicomachea15 –, secondo cui neppure un dio può rendere non avvenuto ciò che è avvenuto. Questa affermazione appartiene alla “vocazione consolatoria” della filosofia. La replica più alta a questa vocazione è l’hos mé di Paolo del passo che qui citiamo: d’ora innanzi quelli che hanno moglie siano come non l’avessero; quelli che piangono come non piangessero, chi si rallegra come non si rallegrasse; quelli che comprano come non possedessero; quelli che usano il mondo come non l’usassero.

15.  Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1139b 10-11.

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Passo incastonato tra due proposizioni: ho kairòs sunestalménos estí («il tempo s’è contratto») e parághei gàr tò schêma toû kósmou toúto («passa la figura di questo mondo»)16. La replica più alta, s’è detto, perché indica non come vive il mondo chi è nel mondo, en tò kósmo, ma come deve vivere il mondo chi non è dal mondo, ek toû kósmou, pur essendo nel mondo17. È la verità espressa da Vico a conclusione del suo capolavoro: «se non siesi pio, non si può daddovero esser Saggio».

16.  Cfr. 1Cor 7,29-31. 17.  Cfr. Gv 15,19; 17,11,14.

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Indice

Massimo Adinolfi, Prima dell’identità. Movimenti della filosofia e risorse della riflessione

p. 9

Federico Croci, Indicibile sinestesia. Damascio e la decostruzione della semantica di alterità e negazione

p. 31

Massimo Donà, Hegel tra dialettica e magia. Saggio sul rapporto tra alterità e negazione

p. 67

Ernesto Forcellino, Niente-altro. Aporie del senso e forme dell’indifferenza

p. 87

Alice Giordano, Negazione e alterità a partire dalla Genealogia della morale secondo le letture di Gilles Deleuze e Michel Henry

p. 129

Giulio Goria, Hegel e la realtà del pensare. A partire da una Nota della Scienza della logica dedicata al principio del fondamento

p. 155

Maurizio Maria Malimpensa, La musica come antifilosofia in un’opera giovanile di Emanuele Severino

p. 181

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Carmelo Meazza, L’altro del dato nel nient’altro che ente

p. 201

Marco Moschini, Esperienza qualificata del senso e riacquisto del mondo

p. 217

Rocco Ronchi, Esorcizzare spettri. Per una critica della possibilità pura

p. 239

Francesco Valagussa, Figure della coscienza. Hegel e la scienza dell’esperienza

p. 259

Vincenzo Vitiello, Dall’essere al dover-essere. Il parricidio sempre ancora da compiere

p. 279

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Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 15 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN ebook 9788855290173

Il volume nasce da un Seminario di studi che ha proficuamente animato l’Università Vita-Salute San Raffaele nel dicembre 2018; ma soprattutto è stato reso possibile da un sentire “profondamente” comune. A più di qualche pensatore italiano è infatti parso necessario tornare a interrogarsi su due categorie che l’Occidente – almeno a partire da Platone (in particolare dalle pagine del Sofista) – ha sempre sostanzialmente confuso: quella di “alterità” e quella di “negazione”. L’interrogazione emersa nel corso del seminario ha peraltro mostrato come le linee dominanti del dibattito filosofico novecentesco – ossia quella ancorata a una astratta idolatria identitaria e quella impegnata, invece, a rivendicare la carica liberatoria della ‘differenza’ – fossero ormai confluite in una medesima fase di stagnazione. In rapporto a cui ci si doveva rendere conto del fatto che un nuovo inizio era forse diventato possibile. Di questo e altro le pagine del presente volume intendono essere vivente testimonianza.

€ 12,00

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