I classici nostri contemporanei. Nuovo esame di Stato. Per le Scuole superiori. Con e-book. Con espansione online (Vol. 3) [Vol.3] 8839536329, 9788839536327

Un manuale che, al rigore e all’affidabilità della linea “Baldi”, unisce una particolare attenzione a mostrare come i ca

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Table of contents :
L’ETÀ DEL BAROCCO E DELLA NUOVA SCIENZA
I luoghi della cultura
Il contesto. Società e cultura
1. Le strutture politiche, economiche e sociali
La voce dei documenti - G. Galilei, L’abiura di Galileo
2. Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura
3. La cultura scientifica e l’immaginario barocco
La voce dei testi - E. Tesauro, La metafora
L’arte incontra la letteratura. Luci e ombre: il Barocco tra illusione e realtà
Il contesto. Storia della lingua e fenomeni letterari
1. La questione della lingua (filo rosso)
2. Forme e generi della letteratura del Seicento
L’opera lirica. L’Orfeo di Claudio Monteverdi
Ripasso visivo
In sintesi
Capitolo 1 - La lirica barocca
1. La lirica in Italia
Giovan Battista Marino
T1 - G. B. Marino, Donna che si pettina
Claudio Achillini
T2 - C. Achillini, Sudate, o fochi, a preparar metalli
Marcello Giovanetti
T3 - M. Giovanetti, Bella donna presente a spettacolo atrocissimo di giustizia
Anton Maria Narducci
T4 - A. M. Narducci, Sembran fere d’avorio in bosco d’oro
Ciro di Pers
T5 - Ciro di Pers, Orologio da rote
Giacomo Lubrano
T6 - G. Lubrano, Per l’està secchissima del 1680
Gabriello Chiabrera
T7 - G. Chiabrera, Belle rose porporine
Tommaso Campanella
T8 - T. Campanella, Al carcere
2. La lirica in Spagna e in Inghilterra
Luis de Góngora
T9a - L. de Góngora, A una Dama, conosciuta bella da bambina…
T9b - L. de Góngora, Finché dei tuoi capelli emulo vano
William Shakespeare
T10 - W. Shakespeare, O famelico Tempo
In sintesi
Capitolo 2 - Dal poema al romanzo
1. Le trasformazioni del poema epico e cavalleresco in Italia
Giovan Battista Marino
T1 - G. B. Marino, Elogio della rosa
T2 - G. B. Marino, Canto e morte dell’usignolo
Alessandro Tassoni
T3 - A. Tassoni, Il rapimento della secchia
2. Cervantes e la nascita del romanzo moderno
Miguel de Cervantes
T4 - M. de Cervantes, Il «famoso gentiluomo Don Chisciotte della Mancia»
Interpretazioni critiche. E. Auerbach, Il Don Chisciotte come «girotondo allegro…
T5 - M. de Cervantes, La «spaventosa avventura dei mulini a vento»
La voce del Novecento. Pirandello e Cervantes: l’umorismo di Don Chisciotte
T6 - M. de Cervantes, L’elmo di Mambrino è un «catinelmo»
Letteratura e cinema. Don Chisciotte di Orson Welles
Che cosa ci dicono ancora oggi i classici. Cervantes
In sintesi
Capitolo 3 - La trattatistica e la prosa storico-politica
Torquato Accetto
T1 - T. Accetto, Simulare e dissimulare
Paolo Sarpi
T2 - P. Sarpi, L’«Iliade del secol nostro»
Traiano Boccalini
T3 - T. Boccalini, La condanna di Machiavelli
Daniello Bartoli
T4 - D. Bartoli, La civiltà della Cina
In sintesi
Capitolo 4 - La letteratura drammatica europea
1. Il secolo del teatro
2. Il teatro in Italia
Federico Della Valle
T1 - F. Della Valle, Il «volubil giro de le cose mortali»
3. Il teatro in Spagna
Pedro Calderón de la Barca
T2 - P. Calderón de la Barca, La realtà e il sogno
4. Il teatro in Francia
Jean Racine
T3 - J. Racine, Il peccato inconfessabile
Molière
T4 - Molière, «Senza dote»
T5 - Molière, L’inganno delle parole
L’opera lirica. Il Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart
5. Il teatro in Inghilterra
William ShakeSpeare
Microsaggio. Il teatro elisabettiano
T6 - W. Shakespeare, L’omicidio e l’orrore degli incubi
Interpretazioni critiche. G. Melchiori, Shakespeare e il teatro moderno
T7 - W. Shakespeare, Amore e morte
T8 - W. Shakespeare, «Essere o non essere»
La voce del Novecento. Una parodia straziata: Petrolini rilegge Shakespeare
Letteratura e cinema. Amleto nel cinema…
T9 - W. Shakespeare, Lo spettro di Banquo
Letteratura e Economia. T10 - W. Shakespeare, I rischi del commercio per mare
Che cosa ci dicono ancora oggi i classici. Shakespeare
In sintesi
Capitolo 5 - Galileo Galilei
1. La vita
2. L’elaborazione del pensiero scientifico e il metodo galileiano
3. Il Sidereus nuncius
T1 - La superficie della Luna
L’arte incontra la letteratura. Galileo Galilei e Ludovico Cigoli…
4. L’epistolario e le lettere “copernicane”
Letteratura e Tecnica. T2 - Il cannocchiale e il microscopio
Interpretazioni critiche. A. Battistini, Il cannocchiale e il nuovo immaginario
T3 - Lettera a Benedetto Castelli
Microsaggio. L’antica cosmologia aristotelico-tolemaica e il sistema copernicano
5. Il Saggiatore
T4 - La favola dei suoni
6. Incontro con l’Opera: Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo…
T5 - L’idea di perfezione e la paura della morte
T6 - L’elogio dell’intelletto umano (analisi attiva)
Letteratura e cinema. Il Galileo di Joseph Losey e di Liliana Cavani
T7 - La confutazione dell’ipse dixit e il coraggio della ricerca
La voce del Novecento. Galileo e la rivoluzione scientifica moderna secondo Brecht
Che cosa ci dicono ancora oggi i classici. Galileo
Dialoghi immaginari. Galileo e Marino
Bibliografia
Ripasso visivo
In sintesi
Per il nuovo esame di Stato. Tipologia B - Ambito scientifico
Per il nuovo esame di Stato. Tipologia C - Ambito scientifico e tecnologico
L’ETÀ DELLA “RAGIONE” E DELL’ILLUMINISMO
I luoghi della cultura
Il contesto. Società e cultura
1. La storia politica, l’economia e il diritto
2. La cultura del primo Settecento
3. L’Illuminismo e lo spirito enciclopedico
La voce dei documenti - La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
4. Gli intellettuali e le istituzioni culturali in Italia
Il contesto. Storia della lingua e fenomeni letterari
1. La questione della lingua nel Settecento (filo rosso)
2. Forme e generi della letteratura nel Settecento
Ripasso visivo
In sintesi
Capitolo 1 - La lirica e il melodramma
Paolo Rolli
T1 - P. Rolli, «Solitario bosco ombroso»
Giambattista Felice Zappi
T2 - G. F. Zappi, «Un cestellin di paglie un dì tessea»
Pietro Metastasio
T3 - P. Metastasio, Enea abbandona Didone
In sintesi
Capitolo 2 - La trattatistica italiana del primo Settecento
Ludovico Antonio Muratori
T1 - L. A. Muratori, Per una «repubblica dei letterati»
Giambattista Vico
T2 - G. Vico, Le «degnità»
La voce del Novecento. La presenza di Vico nell’opera di Cesare Pavese
Pietro Giannone
T3 - P. Giannone, Il «regno celeste»
In sintesi
Capitolo 3 - L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo
Microsaggio. Razionalismo, empirismo, materialismo
Denis Diderot
T1 - D. Diderot, L’eclettismo filosofico
Microsaggio. Dall’Encyclopédie francese a Wikipedia
T2 - D. Diderot, «Per caso»
Voltaire
Microsaggio. Teismo e deismo
T3 - Voltaire, Contro il fanatismo dogmatico
T4 - Voltaire, «Bisogna coltivare il proprio giardino»
Charles-Louis de Montesquieu
Letteratura e Diritto. T5 - Ch.-L. de Montesquieu, Le leggi, le forme del diritto…
T6 - Ch.-L. de Montesquieu, Le dispute sulla religione
Jean-Jacques Rousseau
T7 - J.-J. Rousseau, Dal “buon selvaggio” alla proprietà privata
In sintesi
Capitolo 4 - La trattatistica dell’Illuminismo italiano
Cesare Beccaria
Letteratura e Diritto. T1 - C. Beccaria, L’utilità delle pene…
Pietro Verri
T2 - P. Verri, «Come sia nato il processo»
T3 - P. Verri, L’esecuzione e la “colonna infame”
La voce del Novecento. Il rogo di una strega nella Chimera di Vassalli
In sintesi
Capitolo 5 - Il giornalismo
Joseph Addison
T1 - J. Addison, Una nuova figura: il giornalista
T2 - P. Verri, «Cos’è questo “Caffè?”»
Alessandro Verri
T3 - A. Verri, Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca
Giuseppe Baretti
T4 - G. Baretti, Uno stile «semplice, chiaro, veloce e animatissimo»
In sintesi
Capitolo 6 - Il romanzo inglese
Jonathan Swift
T1 - J. Swift, Relatività delle esperienze umane
Daniel Defoe
T2 - D. Defoe, Il significato della casa
T3 - D. Defoe, Amore e matrimonio
Samuel Richardson
T4 - S. Richardson, La fine edificante dell’eroina
Laurence Sterne
T5 - L. Sterne, La tecnica delle digressioni
In sintesi
Prova di competenza. Simulazione di esperienza reale
Capitolo 7 - Carlo Goldoni
1. La vita
2. La visione del mondo: Goldoni e l’Illuminismo
3. La riforma della commedia
T1 - «Mondo» e «Teatro» nella poetica di Goldoni
4. L’itinerario della commedia goldoniana
5. La lingua
Interpretazioni critiche. F. Fido, I titoli delle commedie goldoniane
L’arte incontra la letteratura. Venezia tra teatro e realtà: Goldoni e Longhi
6. Incontro con l’Opera: La locandiera
T2 - La locandiera
La voce del Novecento. La donna incantatrice d’uomini in Goldoni e Pirandello
Letteratura e cinema. La locandiera di Franco Enriquez e Valeria Moriconi
7. Le baruffe chiozzotte
Letteratura e Società. T3 - Lo sfruttamento dei pescatori
Interpretazioni critiche. M. Baratto, Goldoni e la crisi della borghesia veneziana
Che cosa ci dicono ancora oggi i classici. Goldoni
Ripasso visivo
In sintesi
Bibliografia
Per il nuovo esame di Stato. Tipologia A
Per il nuovo esame di Stato. Tipologia C - Ambito artistico e letterario
Capitolo 8 - Giuseppe Parini
1. La vita
2. Parini e gli illuministi
3. Le prime odi e la battaglia illuministica
Letteratura e Ambiente. T1 - La salubrità dell’aria
Microsaggio. I fisiocratici
La voce del Novecento. L’insalubrità dell’aria nella Milano raccontata da Andrea De Carlo
4. Incontro con l'Opera: Il Giorno
T2 - Il «giovin signore» inizia la sua giornata
T3 - La colazione del «giovin signore» (analisi attiva)
T4 - La favola del Piacere
T5 - La «vergine cuccia»
T6 - Il «giovin signore» legge gli illuministi
La voce del Novecento. Un «giovin signore» del XX secolo nel racconto di Arbasino
5. Le ultime odi
T7 - Alla Musa
Interpretazioni critiche. W. Binni, Il Neoclassicismo dell’ultimo Parini
Interpretazioni critiche. G. Petronio, La delusione storica di Parini
Che cosa ci dicono ancora oggi i classici. Parini
Ripasso visivo
In sintesi
Bibliografia
Capitolo 9 - Vittorio Alfieri
1. La vita
2. I rapporti con l’Illuminismo
3. Le idee politiche
4. Le opere politiche
T1 - Vivere e morire sotto la tirannide
Microsaggio. Il titanismo
Letteratura e Società. T2 - Libertà dell’intellettuale e condizionamento economico
Interpretazioni critiche. N. Sapegno, Alfieri politico
5. Le Satire e le Commedie
6. La poetica tragica
7. L’evoluzione del sistema tragico
8. Incontro con l'Opera: Saul
T3 - I conflitti interiori di Saul
9. Mirra
T4 - Il segreto di Mirra
Interpretazioni critiche. V. Masiello, Il teatro alfieriano, esperienza anomala…
Dialoghi immaginari. Alfieri e Goldoni
10. La scrittura autobiografica: la Vita scritta da esso
T5 - Odio antitirannico e fascino del paesaggio nordico
La voce del Novecento. Gli «astratti furori» in Conversazione in Sicilia di Vittorini
T6 - «Bollore» fantastico e disciplina formale
La voce del Novecento. L’incanto sconosciuto della musica nelle pagine di Proust
11. Le Rime
T7 - Tacito orror di solitaria selva
T8 - Bieca, o Morte, minacci? e in atto orrenda (analisi attiva)
Che cosa ci dicono ancora oggi i classici. Alfieri
Ripasso visivo
In sintesi
Bibliografia
Il teatro per immagini
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I classici nostri contemporanei. Nuovo esame di Stato. Per le Scuole superiori. Con e-book. Con espansione online (Vol. 3) [Vol.3]
 8839536329, 9788839536327

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Guido Baldi Silvia Giusso Mario Razetti Giuseppe Zaccaria

I CLASSICI NOSTRI

CONTEMPORANEI 3

Dal Barocco all’Illuminismo Il teatro per immagini a cura di Gigi Livio

Editor: Gigi Livio Coordinamento editoriale: Franca Crosetto Coordinamento redazionale: Pierandrea De Lorenzo Redazione: Chiara Pastore, Caterina Rosso, Gaia Collaro (Prove per il nuovo esame di Stato) Progetto grafico e copertina: Sunrise Advertising, Torino Consulenza grafica: Elena Marengo Ricerca iconografica: Elena Aleci, Paola Fino Cartografia: Andrea Mensio Impaginazione elettronica: Essegi, Torino Controllo qualità: Andrea Mensio Segreteria di redazione: Enza Menel L’opera è stata unitariamente concepita e discussa in ogni suo particolare da tutti gli autori con il coordinamento di Gigi Livio. La sezione 1 è di Giuseppe Zaccaria, con apporti di Mario Razetti, di Gigi Livio, che ha curato le rubriche Interpretazioni critiche e La voce del Novecento dei capitoli 2 e 4, e di Guido Baldi, che ha curato le rubriche Filo rosso – Storia della lingua e La voce del Novecento del capitolo 5. Il Contesto e i capitoli di genere della sezione 2 sono di Giuseppe Zaccaria, con apporti di Mario Razetti, di Guido Baldi, che ha curato la rubrica Filo rosso – Storia della lingua e il Microsaggio Teismo e deismo, e di Maria Letizia Gatti, che ha curato il Microsaggio Dall’Encyclopédie francese a Wikipedia. I capitoli su Goldoni, Parini e Alfieri sono di Guido Baldi. Le rubriche Che cosa ci dicono ancora oggi i classici relative a Goldoni, Parini e Alfieri sono di Guido Baldi, quelle relative a Cervantes e Shakespeare sono di Gigi Livio, quella relativa a Galileo è di Giuseppe Zaccaria. Le rubriche Pesare le parole sono di Guido Baldi. Le rubriche Dialoghi immaginari sono di Giuseppe Zaccaria. Gli apparati Esercitare le competenze sono di Daniela Marro e di Francesca Maura. La Simulazione di esperienza reale è di Daniela Marro. Le Analisi attive sono di Alessandra Terrile, ad eccezione di quella del capitolo 5 (T6) che è di Giuseppe Zaccaria. La prova di tipologia A in preparazione alla prima prova del nuovo esame di Stato è di Daniela Paganelli; la prova di tipologia B è di Giovanni Di Maggio, che ha curato anche la prova C su Galileo; la prova C su Goldoni è di Elena Caraglio. Gli schemi (Visualizzare i concetti) sono di Lorenza Pasquariello e di Roberto Favatà, che ha curato anche i Ripassi visivi dei Contesti. Le schede In sintesi relative a Goldoni, Parini e Alfieri sono di Lorenza Pasquariello. I Luoghi della cultura sono stati realizzati con il contributo di Donatella Castaldo. Le schede Facciamo il punto sono di Silvia Giusso. Le rubriche L’arte incontra la letteratura sono di Alessandra Ruffino. Le didascalie delle immagini commentate sono di Elena Aleci. Le schede Letteratura e cinema sono di Enrico Antonio Pili. Le schede L’Opera lirica sono di Lucia Marino. Il teatro per immagini è stato ideato da Gigi Livio e scritto in collaborazione con Armando Petrini. La realizzazione grafica delle rubriche Che cosa ci dicono ancora oggi i classici è a cura di Elena Marengo. Si ringraziano per i preziosi suggerimenti: Ilaria Archilletti, Annarita Bisceglia, Mariacristina Colonna, Piera Comba, Laura Costa, Ilaria Domenici, Mimmo Genga, Aldo Intagliata, Manuela Lori, Daniela Marro, Francesca Maura, Isabella Molinari, Immacolata Sirianni. In copertina: Anicet Charles Gabriel Lemonnier, Lettura della tragedia di Voltaire “L’orfano della Cina” nel salotto di Madame Geoffrin a Parigi nel 1755, 1812, olio su tela, part., Reueil-Malmaison (Francia), Musée National des Châteaux de Malmaison et Bois-Préau. Per le opere di Arapov, Pery, Shonibare e Sutton © by SIAE 2016 © Calder Foundation, New York, by SIAE 2016

Tutti i diritti riservati © 2019, Pearson Italia, Milano - Torino

978 88 395 36327 A Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org

Stampato per conto della casa editrice presso L.E.G.O. S.p.A., Lavis (TN), Italia Ristampa 0 1 2 3 4 5 6 7 8

Anno 19 20 21 22 23 24 25

Indice generale

T

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

2

I LUOGHI DELLA CULTURA

3

Il contesto Società e cultura 1. Le strutture politiche, economiche e sociali

4

La voce dei documenti L’abiura di Galileo

Visione d’insieme Verifica interattiva

P

4

Galileo Galilei | da Atti del processo a Galileo

9

2. Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura 3. La cultura scientifica e l’immaginario barocco

9

La voce dei testi La metafora

DIGITALE INTEGRATIVO PLUS Testi Basile La Gatta Cennerentola da Lo cunto de li cunti

7

Facciamo il punto

DIGITALE INTEGRATIVO TUTOR

Immagine interattiva Bernini e l’Estasi di Santa Teresa

11 13

Emanuele Tesauro | da Il cannocchiale aristotelico

Facciamo il punto

15

L’ARTE INCONTRA LA LETTERATURA Luci e ombre: il Barocco

tra illusione e realtà

16

Il contesto Storia della lingua e fenomeni letterari 1. La questione della lingua Filo rosso 2. Forme e generi della letteratura del Seicento

20

Facciamo il punto

25

L’OPERA LIRICA L’Orfeo di Claudio Monteverdi

Ripasso visivo In sintesi CAPITOLO 1

18 18

26 28 29

La lirica barocca

1. La lirica in Italia Giovan Battista Marino

T1 Donna che si pettina

31 31 32 34

dalla Lira AUDIOLETTURA

Donna che si pettina

Claudio Achillini

T2 Sudate, o fochi, a preparar metalli dalle Rime e prose

35 35

VERIFICA INTERATTIVA

Audio Marino Donna che si pettina dalla Lira

T

Verifica interattiva Testi Marino Frutti di mano di una Donna dalla Galeria Sonetto dedicato ai biondi capelli della sua donna; Amori di

P



III

INDICE GENERALE

Marcello Giovanetti

37



pesci dalla Lira Achillini Bellissima spiritata dalle Poesie Paesaggio di donna dalle Rime e prose Lubrano Cedri fantastici da Scintille poetiche Campanella Sonetto fatto sopra uno che morse nel Santo Uffizio in Roma; Anima immortale dalle Poesie Quevedo Amore costante al di là della morte dai Sonetti amorosi e morali Donne Congedo, a vietarle il lamento dalle Poesie Góngora Al tumulo che eresse Cordova per le esequie della Regina Margherita dai Sonetti funebri Shakespeare Immortalità; L’amore “malato” dai Sonetti

T3 Bella donna presente a spettacolo

atrocissimo di giustizia



37

dalle Poesie

Anton Maria Narducci

T4 Sembran fere d’avorio in bosco d’oro



39 39

dalla Raccolta di sonetti di autori diversi ed eccellenti dell’età nostra

Ciro di Pers

T5 Orologio da rote



40 41



dalle Poesie

Giacomo Lubrano

T6 Per l’està secchissima del 1680

42 42

T7 Belle rose porporine





da Scintille poetiche

Gabriello Chiabrera



44 45

da Canzonette

Tommaso Campanella

T8 Al carcere

47 48

dalle Poesie

2. La lirica in Spagna e in Inghilterra Luis de Góngora

49 50

T9a A una Dama, conosciuta bella da bambina,

che poi rivide bellissima donna

50

dai Sonetti

T9b Finché dei tuoi capelli emulo vano

51

dai Sonetti

William Shakespeare

T10 O famelico Tempo

53 54

dai Sonetti

In sintesi

56

Facciamo il punto

CAPITOLO 2

Dal poema al romanzo

1. Le trasformazioni del poema epico e cavalleresco in Italia

56

57 57

Giovan Battista Marino

T1 Elogio della rosa

59

dall’Adone, III, 155-159 AUDIOLETTURA

Elogio della rosa

T2 Canto e morte dell’usignolo

T3 Il rapimento della secchia dalla Secchia rapita, I, 1-3; 5; 10-13; 25-30; 41-51

IV

62

Audio Marino Elogio della rosa dall’Adone

68 69

T

Verifica interattiva Testi Marino P Il giardino del tatto dall’Adone Tassoni Come finì una famosa impresa del Conte di Culagna dalla Secchia rapita Cervantes Il signor Chisciada diventa Don Chisciotte della Mancia, cavaliere “errante” da Don Chisciotte della Mancia





dall’Adone, 32-34, 37-44, 47-49, 51-55

Alessandro Tassoni

VERIFICA INTERATTIVA

2. Cervantes e la nascita del romanzo moderno Miguel de Cervantes

77

Video da Merope di Giacomelli da Don Chisciotte di Welles



77

T4 Il «famoso gentiluomo Don Chisciotte

della Mancia»

Audio da Volume I di De André da Stagioni di Guccini



83

dal Don Chisciotte della Mancia, libro I, cap. 1

Microsaggio Il carnevale e la letteratura carnevalizzata

Interpretazioni critiche

Erich Auerbach | Il Don Chisciotte come «girotondo allegro, confuso e divertente»

T5 La «spaventosa avventura dei mulini a vento»

Testo critico C. Segre

88 89

dal Don Chisciotte della Mancia, libro I, cap. 8

La voce del Novecento Pirandello e Cervantes: l’umorismo di Don Chisciotte 92 T6 L’elmo di Mambrino è un «catinelmo»

95

dal Don Chisciotte della Mancia, libro I, capp. 21 e 44-45 LETTERATURA E CINEMA Don Chisciotte di Orson Welles CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI

Cervantes

In sintesi

102 104 107

Facciamo il punto

La trattatistica e la prosa storico-politica

VERIFICA INTERATTIVA

107

CAPITOLO 3

Torquato Accetto

T1 Simulare e dissimulare

T2 L’«Iliade del secol nostro»

T

Testi Accetto Serpente e colomba da Della dissimulazione onesta

P

Audio da Teatro di Petrolini

T

108 109 109

da Della dissimulazione onesta, cap. IX

Paolo Sarpi

Verifica interattiva

111 113

dall’Istoria del Concilio Tridentino, libro I, cap. I

Traiano Boccalini

T3 La condanna di Machiavelli

115 116

dai Ragguagli di Parnaso, Centuria prima, 89

Daniello Bartoli

T4 La civiltà della Cina

119 119

dalla Cina, libro I, cap. I

In sintesi

122

Facciamo il punto

CAPITOLO 4

europea

122

La letteratura drammatica

1. Il secolo del teatro 2. Il teatro in Italia

VERIFICA INTERATTIVA

123 123

Verifica interattiva

123

V

INDICE GENERALE

Federico Della Valle

T1 Il «volubil giro de le cose mortali»

123 124

Testi Tirso de Molina P La spavalderia di Don Juan sbeffeggia le convenzioni sociali e morali; La seduzione di Aminta da Il seduttore di Siviglia e convitato di pietra Calderón de la Barca L’illusorietà del reale e la realtà del sogno da La vita è sogno Molière Chi è Tartufo? dal Tartufo La “recita” dell’innamoramento; Le “acrobazie” retoriche di Don Giovanni da Don Giovanni Shakespeare Il Re e il Buffone da Re Lear Riccardo conquista lady Anna con il potere persuasivo delle parole dal Riccardo III L’ingresso in scena di Amleto; L’“ombra” tra Amleto e Gertrude; La morte di Amleto dall’Amleto

da La reina di Scotia, atto I, scena I

3. Il teatro in Spagna

128

Pedro Calderón de la Barca

128 129

T2 La realtà e il sogno



da La vita è sogno, atto II, scena XIX, e atto III, scena III

4. Il teatro in Francia



131

Jean Racine

132 133

T3 Il peccato inconfessabile



da Fedra, atto I, scena III

Molière



137 139

T4 «Senza dote»



da L’avaro, atto I, scena V

T5 L’inganno delle parole

141

da Don Giovanni, atto II, scena I

Video da Hamlet di Branagh da Amleto di Bene da Don Giovanni di Mozart

L’OPERA LIRICA Il Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart 145

5. Il teatro in Inghilterra



147

William Shakespeare

T6 L’omicidio e l’orrore degli incubi

150

dal Riccardo III, atto I, scene III e IV

Interpretazioni critiche

Giorgio Melchiori | Shakespeare e il teatro moderno T7 Amore e morte

155 157

da Romeo e Giulietta, atto V, scena III

T8 «Essere o non essere»

160

da Amleto, atto III, scena I

La voce del Novecento Una parodia straziata: Petrolini rilegge Shakespeare 163 LETTERATURA E CINEMA Amleto nel cinema secondo Laurence Olivier e Kenneth Branagh

166

T9 Lo spettro di Banquo

167

da Macbeth, atto III, scena IV

> Letteratura e Economia

T10 I rischi del commercio per mare

172

da Il mercante di Venezia, atto I, scena I CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI

In sintesi Facciamo il punto

VI

Shakespeare

175 178 179



Testo critico E. Auerbach

148

MICROSAGGIO Il teatro elisabettiano



VERIFICA INTERATTIVA

CAPITOLO 5

Galileo Galilei

180

1. La vita 2. L’elaborazione del pensiero scientifico e il metodo galileiano 3. Il Sidereus nuncius T1 La superficie della Luna

Carta interattiva

182

Mappe interattive

dal Sidereus nuncius

VIDEOLEZIONE

La biografia e le opere

Laboratori interattivi La favola dei suoni dal Saggiatore La confutazione dell’ipse dixit e il coraggio della ricerca dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo

L’ARTE INCONTRA LA LETTERATURA Galileo Galilei

e Ludovico Cigoli: la pittura incontra la scienza

192

4. L’epistolario e le lettere “copernicane” > Letteratura e Tecnica T2 Il cannocchiale e il microscopio

193



Ripasso interattivo

193

dalle Lettere

Analisi interattive La favola dei suoni dal Saggiatore La confutazione dell’ipse dixit e il coraggio della ricerca dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo



185 186 186

T

Videolezioni

Verifica interattiva VIDEOLEZIONE

Interpretazioni critiche

Andrea Battistini | Il cannocchiale e il nuovo immaginario T3 Lettera a Benedetto Castelli

196 198

L’elaborazione del pensiero scientifico

dalle Lettere

203

5. Il Saggiatore T4 La favola dei suoni

Testi Il grande libro dell’universo dal Saggiatore

Testo interattivo Verbale del processo

MICROSAGGIO L’antica cosmologia aristotelico-tolemaica

e il sistema copernicano

P

Linea del tempo

Video da Galileo di Cavani da Galileo di Losey

204 204



Arte Arte e scienza nel XVII secolo

da Il Saggiatore

Echi nel tempo Galileo secondo Bertolt Brecht

Incontro con l’Opera

La critica

6. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano T5 L’idea di perfezione e la paura della morte

Testo critico L. Geymonat

VIDEOLEZIONE

dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Prima giornata

T6 L’elogio dell’intelletto umano

Analisi attiva dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Prima giornata

Per la ricerca nel web

208 210

215

Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo

LETTERATURA E CINEMA Il Galileo di Joseph Losey

219

e di Liliana Cavani

T7 La confutazione dell’ipse dixit

e il coraggio della ricerca

221

dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Seconda giornata

La voce del Novecento Galileo e la rivoluzione scientifica moderna secondo Brecht CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI DIALOGHI IMMAGINARI

Galileo e Marino

Galileo

227 232 234

Facciamo il punto

237

Bibliografia

237

VII

INDICE GENERALE

Ripasso visivo In sintesi Per il nuovo esame di Stato

238 239 VERIFICA INTERATTIVA

PRIMA PROVA

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Ambito scientifico Marco Ciardi «Io sono come Galileo»

241

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito scientifico e tecnologico Come scienza e tecnologia modificano l’uomo e l’ambiente 243

Visione d’insieme

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

244

I LUOGHI DELLA CULTURA

245

Il contesto Società e cultura 1. La storia politica, l’economia e il diritto 2. La cultura del primo Settecento 3. L’Illuminismo e lo spirito enciclopedico

246

Verifica interattiva

Testi Fielding Tom P neonato: «creaturina sciagurata» o «cara, bella, magnifica creatura»? da Tom Jones Arte La residenza di Würzburg, apoteosi del Rococò

246 249 251

La voce dei documenti La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino

254

da La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino

VIII

4. Gli intellettuali e le istituzioni culturali in Italia

256

Facciamo il punto

258

Il contesto Storia della lingua e fenomeni letterari 1. La questione della lingua nel Settecento Filo rosso 2. Forme e generi della letteratura nel Settecento

259

Facciamo il punto

266

Ripasso visivo In sintesi

267 268

T

259 261

VERIFICA INTERATTIVA

T

Verifica interattiva

CAPITOLO 1

La lirica e il melodramma

Paolo Rolli

T1 «Solitario bosco ombroso»

270 272 273

Testi Meli Sti silenzi, P sta virdura da La buccolica Zappi Sognai sul far dell’alba dai Sonetti Metastasio La libertà dalle Rime Dichiarazione d’amore; Amore e dolore: l’addio di Mégacle ad Aristea dall’Olimpiade L’eroe dell’ideale s’incarna nella storia dall’Attilio Regolo



dai Poetici componimenti

Giambattista Felice Zappi

T2 «Un cestellin di paglie un dì tessea»



275 275



dalle Rime

Pietro Metastasio

T3 Enea abbandona Didone



276 278

Arte L’Arcadia e il paesaggio settecentesco

da Didone abbandonata, atto I, scene XVII e XVIII

Facciamo il punto

In sintesi

La trattatistica italiana del primo Settecento

283 283

VERIFICA INTERATTIVA

CAPITOLO 2

Ludovico Antonio Muratori

T1 Per una «repubblica dei letterati»

285 286

Testi Muratori P L’intelletto e la fantasia da Della perfetta poesia italiana Gli untori: quali prove della loro esistenza? da Del governo della peste e delle maniere di guardarsene Vico Elogio della scienza dal De nostri temporis studiorum ratione All’origine dell’umanità dalla Scienza nuova Giannone «Non erano ladri, ma sbirri» dalla Vita scritta da lui medesimo

dai Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia

Giambattista Vico

T2 Le «degnità»



289 290

dalla Scienza nuova

La voce del Novecento La presenza di Vico nell’opera di Cesare Pavese Pietro Giannone

T3 Il «regno celeste»

T

Verifica interattiva

284





293



295 296

dal Triregno

Facciamo il punto

In sintesi

L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

298 299

CAPITOLO 3

MICROSAGGIO Razionalismo, empirismo, materialismo

Denis Diderot

T1 L’eclettismo filosofico

Verifica interattiva

300 301 303 304

T2 «Per caso»

T

Testi Voltaire Gli P sviluppi della scienza come «filosofia sperimentale» dalle Lettere filosofiche Montesquieu Amore, libertà e violenza dalle Lettere persiane



dall’Enciclopedia MICROSAGGIO Dall’Encyclopédie francese a Wikipedia

VERIFICA INTERATTIVA

306 308

da Jacques il fatalista

IX

INDICE GENERALE

Voltaire MICROSAGGIO Teismo e deismo

312 313

T3 Contro il fanatismo dogmatico

314

dal Dizionario filosofico

T4 «Bisogna coltivare il proprio giardino»

317

da Candido, cap. XXX

Charles-Louis de Montesquieu

> Letteratura e Diritto

321

T5 Le leggi, le forme del diritto, la divisione

dei poteri

322

dal Saggio che si occupa delle leggi naturali e della distinzione fra il giusto e l’ingiusto (brano A) da Lo spirito delle leggi (brani B e C)

T6 Le dispute sulla religione

325

da Lettere persiane

Jean-Jacques Rousseau

T7 Dal “buon selvaggio” alla proprietà privata

327 329

dal Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini

Facciamo il punto

In sintesi

La trattatistica dell’Illuminismo italiano

332 333

VERIFICA INTERATTIVA

CAPITOLO 4

Cesare Beccaria

> Letteratura e Diritto T1 L’utilità delle pene è la negazione della loro crudeltà

335 Testi Filangieri P Educazione privata, educazione pubblica dalla Scienza della legislazione Beccaria La necessità di riformare il sistema legislativo; Contro la tortura e la pena di morte, verso un governo “illuminato” dello Stato da Dei delitti e delle pene P. Verri L’uomo che osserva le nubi dal Discorso sull’indole del piacere e del dolore Untori, peste e ignoranza dalle Osservazioni sulla tortura

336



da Dei delitti e delle pene, capp. I, XVI e XXVIII

Pietro Verri

T2 «Come sia nato il processo»

339 340

dalle Osservazioni sulla tortura, cap. III

T3 L’esecuzione e la “colonna infame”



344

dalle Osservazioni sulla tortura, cap. VII

La voce del Novecento Il rogo di una strega nella Chimera di Vassalli Facciamo il punto

In sintesi

X

T

Verifica interattiva

334



347 351 351

VERIFICA INTERATTIVA

CAPITOLO 5

Il giornalismo

Joseph Addison

T1 Una nuova figura: il giornalista

352 352 353

da “Lo spettatore”

Pietro Verri

T2 «Cos’è questo “Caffè”?»

Verifica interattiva

T

Testi Baretti Aristarco Scannabue e i suoi scimmiotti da “La frusta letteraria”

P

Verifica interattiva

T

355

da “Il Caffé”

Alessandro Verri

359

T3 Rinunzia avanti notaio al Vocabolario

della Crusca

359

da “Il Caffè”

Giuseppe Baretti

363

T4 Uno stile «semplice, chiaro, veloce

e animatissimo»

364

da “La frusta letteraria”

Facciamo il punto

In sintesi

CAPITOLO 6

366 367

Il romanzo inglese

Jonathan Swift

T1 Relatività delle esperienze umane

VERIFICA INTERATTIVA

368 369 370

Testi Swift Gulliver P tra i Lillipuziani; Gulliver tra i saggi Cavalli e i bestiali «yahoo» da I viaggi di Gulliver Defoe Come salvai la pelle da Robinson Crusoe I miei due (o tre) mariti da Moll Flanders Sterne Una domanda imbarazzante da Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo

da I viaggi di Gulliver, parte II

Daniel Defoe

T2 Il significato della casa

373 374



da Robinson Crusoe

T3 Amore e matrimonio



378



da Moll Flanders

Samuel Richardson

T4 La fine edificante dell’eroina

380 381

da Clarissa, lettera 481

Laurence Sterne

T5 La tecnica delle digressioni

385 386

da Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, libro I, capp. XIV e XXII; libro VI, cap. XL

Facciamo il punto

In sintesi

389 390

VERIFICA INTERATTIVA

PROVA DI COMPETENZA Simulazione di esperienza reale “Diversamente” figlia, moglie, madre: modelli educativi e pregiudizi nell’età dell’Illuminismo

391

XI

INDICE GENERALE

CAPITOLO 7

Carlo Goldoni

396

1. La vita 2. La visione del mondo: Goldoni e l’Illuminismo 3. La riforma della commedia T1 «Mondo» e «Teatro» nella poetica di Goldoni VIDEOLEZIONE D’AUTORE

398

4. L’itinerario della commedia goldoniana 5. La lingua

Videolezioni

401

Carta interattiva Mappe interattive

404 410

VIDEOLEZIONI

416

La biografia, le opere e la riforma della commedia

dalla Prefazione dell’autore alla prima raccolta delle commedie

421 423 425

Incontro con l’Opera



6. La locandiera T2 La locandiera

AUDIOLETTURA

La locandiera

426 426

La voce del Novecento La donna incantatrice d’uomini in Goldoni e Pirandello

463

Immagine interattiva Longhi e la società veneziana del Settecento VIDEOLEZIONE

Ripasso interattivo

La locandiera

Verifica interattiva Linea del tempo

LETTERATURA E CINEMA La locandiera di Franco Enriquez

7. Le baruffe chiozzotte > Letteratura e Società T3 Lo sfruttamento dei pescatori

469 470

da Le baruffe chiozzotte, Atto Primo, Scene V e VI

Video da La Locandiera di Cobelli da La Locandiera di Enriquez



Interpretazioni critiche

Mario Baratto | Goldoni e la crisi della borghesia veneziana 474 CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI

Goldoni

478

Ripasso visivo In sintesi

479 480

Bibliografia

481

VERIFICA INTERATTIVA

Audio da Certi momenti di Bertoli La critica Testi critici R. Alonge F. Fido Per la ricerca nel web

Tipologia A

Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano 482

da Le smanie per la villeggiatura, Atto Secondo, Scena I

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito artistico e letterario

XII

Echi nel tempo Goldoni, il “teatro nel teatro” e Pirandello



PRIMA PROVA

T4 Le smanie per la villeggiatura

Arte La Venezia di Goldoni

476

Facciamo il punto

L’attualità del teatro

P

Testi Atto I, scene VIVIII; Atto I, scene XIIXIV; Atto I, scene XVII-XX; Atto II, scene I-III; Atto II, scena V; Atto II, scene VII-VIII; Atto II, scene X-XV; Atto III, scene I-V; Atto III, scene VIII-XII; Atto III, scena XVII da La locandiera

468

e Valeria Moriconi

Per il nuovo esame di Stato

Analisi interattive «Mondo» e «Teatro» nella poetica di Goldoni dalla Prefazione dell’autore alla prima raccolta delle commedie Atto III, scene XVIII-XX da La locandiera Laboratori interattivi «Mondo» e «Teatro» nella poetica di Goldoni dalla Prefazione dell’autore alla prima raccolta delle commedie Atto III, scene XVIII-XX da La locandiera

L’ARTE INCONTRA LA LETTERATURA Venezia tra teatro e realtà:

Goldoni e Longhi

Audio La locandiera, atto I, scena I



Interpretazioni critiche

Franco Fido | I titoli delle commedie goldoniane

T

Videolezione d’autore

485

CAPITOLO 8

Giuseppe Parini

486

1. La vita 2. Parini e gli illuministi 3. Le prime odi e la battaglia illuministica > Letteratura e Ambiente T1 La salubrità dell’aria

488 491

Audio La «vergine cuccia» dal Mezzogiorno

495

Verifica interattiva Testi L’educazione P dalle Odi Commedia mondana e malinconia esistenziale; La sfilata degli imbecilli dalla Notte La caduta dalle Odi

499



dalle Odi

507

MICROSAGGIO I fisiocratici

La voce del Novecento L’insalubrità dell’aria nella Milano raccontata da Andrea De Carlo

T

Analisi interattiva La salubrità dell’aria dalle Odi



Video da Le quattro volte di Frammartino da Le nozze di Figaro di Mozart



508

Echi nel tempo Il motivo della città inquinata nella letteratura moderna

Incontro con l’Opera 4. Il Giorno T2 Il «giovin signore» inizia la sua giornata

La critica

511 520

Testo critico G. Savoca Per la ricerca nel web

dal Mattino, vv. 1-124

T3 La colazione del «giovin signore»

Analisi attiva

527

dal Mattino, vv. 125-157

T4 La favola del Piacere

529

dal Mezzogiorno, vv. 250-338

T5 La «vergine cuccia»

533

dal Mezzogiorno, vv. 497-556

T6 Il «giovin signore» legge gli illuministi AUDIOLETTURA

La «vergine cuccia»

537

dal Mezzogiorno, vv. 940-1020

La voce del Novecento Un «giovin signore» del XX secolo nel racconto di Arbasino

5. Le ultime odi T7 Alla Musa

542 545 546

dalle Odi

Interpretazioni critiche

Walter Binni | Il Neoclassicismo dell’ultimo Parini Giuseppe Petronio | La delusione storica di Parini Facciamo il punto CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI

Ripasso visivo In sintesi Bibliografia

552 553 555

Parini

556 559 560

VERIFICA INTERATTIVA

561

XIII

INDICE GENERALE

CAPITOLO 9

1. 2. 3. 4. VIDEOLEZIONE D’AUTORE

Vittorio Alfieri

La vita I rapporti con l’Illuminismo Le idee politiche Le opere politiche T1 Vivere e morire sotto la tirannide

562 564

> Letteratura e Società T2 Libertà dell’intellettuale e condizionamento economico

Carta interattiva Mappe interattive

569

da Della tirannide, libro III, capp. III e IV MICROSAGGIO Il titanismo

Videolezioni

568 572 575

VIDEOLEZIONI

La biografia e le opere politiche

Laboratori interattivi Atto V, scena III dal Saul Tacito orror di solitaria selva dalle Rime



581

Ripasso interattivo

Natalino Sapegno | Alfieri politico

585

5. Le Satire e le Commedie 6. La poetica tragica 7. L’evoluzione del sistema tragico

586 587 591

Verifica interattiva VIDEOLEZIONE

Le tragedie di Alfieri sulla scena italiana

Incontro con l’Opera

618 619

Video Le tragedie di Alfieri sulla scena italiana La morte di Saul Rostropovich suona davanti al muro di Berlino

10. La scrittura autobiografica: la Vita scritta da esso T5 Odio antitirannico e fascino del paesaggio nordico

Immagine interattiva Il gesto tragico alfieriano in un dipinto neoclassico Testi critici E. Raimondi

• G. Getto

Per la ricerca nel web

633 635

La voce del Novecento Gli «astratti furori» in Conversazione in Sicilia di Vittorini

644

T6 «Bollore» fantastico e disciplina formale

646

dalla Vita scritta da esso, epoca seconda, cap. V

XIV



La critica

628 630

dalla Vita scritta da esso, epoca terza, capp. VIII e IX

La voce del Novecento L’incanto sconosciuto della musica nelle pagine di Proust

• VIDEOLEZIONE

Il Saul

Interpretazioni critiche

Alfieri e Goldoni

Testi Atto I; Atto II, scena II; Atto III, scene I-III; Atto III, scene IV-V; Atto IV; Atto V, scene I-II dal Saul Testo interattivo La poetica tragica di Alfieri: «ideare», «stendere», «verseggiare» dalla Vita scritta da esso

da Mirra

DIALOGHI IMMAGINARI

P

Linea del tempo

594 597

dal Saul

Vitilio Masiello | Il teatro alfieriano, esperienza anomala nella cultura del Settecento

Audio Tacito orror di solitaria selva dalle Rime



Interpretazioni critiche

9. Mirra T4 Il segreto di Mirra

Mappa attiva Alfieri e gli illuministi francesi

Analisi interattive Atto V, scena III dal Saul Tacito orror di solitaria selva dalle Rime

579

da Del principe e delle lettere, libro II, cap. I

8. Saul T3 I conflitti interiori di Saul

T

Videolezione d’autore

648

11. Le Rime T7 Tacito orror di solitaria selva

650 651

dalle Rime

T8 Bieca, o Morte, minacci? e in atto AUDIOLETTURA

Tacito orror di solitaria selva

orrenda

653

Analisi attiva

dalle Rime CHE COSA CI DICONO ANCORA OGGI I CLASSICI

Alfieri

655

Ripasso visivo In sintesi

658 659

Facciamo il punto

660

Bibliografia

660

Il teatro per immagini

661

Glossario Indice dei nomi Indice delle rubriche e delle schede Indice delle illustrazioni

677 684 688 691

VERIFICA INTERATTIVA

XV

L’età del Barocco e della Nuova Scienza 1600-1699

MADRID • La monarchia spagnola dopo la guerra dei Trent’anni si avvia al declino. In Spagna si afferma il concettismo con Góngora e Quevedo. Nasce e si diffonde il romanzo moderno con il Don Chisciotte di Cervantes; grande lo sviluppo del teatro con de Vega, Tirso de Molina e Calderón de la Barca.

MADRID

I luoghI della cultura LONDRA AMSTERDAM ANVERSA

PARIGI

AMSTERDAM • Con la nascita della Repubblica delle province unite, l’Olanda vive il suo secolo d’oro. Si rileva un nuovo impulso, soprattutto in ambito artistico: qui la pittura di origine fiamminga raggiunge il suo apice grazie alle opere di Rubens e Vermeer.

LONDRA • L’Inghilterra si impone come potenza marittima e coloniale; nasce la monarchia costituzionale. Viene fondata la Royal Society for the Advancement of Learning. Si affermano Donne e i “poeti metafisici”; il teatro viene rivoluzionato da Shakespeare.

PARIGI • La Francia, Stato assoluto e centralizzato, diventa potenza egemone in Europa. Scoppia il conflitto tra cattolici e ugonotti. Sorge l’Académie des Sciences. Enorme diffusione del teatro con Corneille, Racine e Molière. A Parigi opera Marino.

TORINO • Esempio di efficiente Stato assoluto. Tesauro teorizza la funzione della metafora. Tra Roma e Torino vive Tassoni, autore del poema eroicomico La Secchia rapita e, tra Torino, Milano e la Spagna, il drammaturgo Della Valle.

VENEZIA • Nel clima controriformistico mantiene una certa tolleranza ideologica e resta un importante centro editoriale. Nascono l’Accademia degli Incogniti, il primo teatro pubblico a pagamento e a Padova la prima compagnia teatrale (Commedia dell’Arte).

FIRENZE • Il Granducato perde il suo primato economico e culturale, soppiantato da Roma. Sorgono l’Accademia della Crusca, che pubblica il primo Vocabolario (ne deriverà una polemica tra cruscanti e anticruscanti) e quella scientifica del Cimento. Tra Pisa, Firenze, Padova e Roma opera Galileo.

MILANO TORINO

VENEZIA

GENOVA

MODENA BOLOGNA PISA FIRENZE

ROMA

ROMA • Centro della Controriforma (a Roma viene arso vivo Giordano Bruno), lo Stato della Chiesa perde il ruolo determinante nella politica europea, ma Roma vive un eccezionale splendore artistico: spiccano Bernini, Borromini, Caravaggio e i pittori dell’illusionismo barocco, tra cui Pozzo.

NAPOLI • Napoli è il principale centro del gusto barocco dell’Italia meridionale. La città diviene meta ambita da tutti gli scrittori, artisti e filosofi dell’area meridionale (tra cui Campanella).

NAPOLI

Il contesto

Società e cultura

1

Le strutture politiche, economiche e sociali

Visione d’insieme

La storia politica L’egemonia francese

Paesi Bassi e Inghilterra

Letteratura

Cultura

Divisioni religiose

La pace di Westfalia, che conclude la sanguinosa guerra dei Trent’anni (1618-48), sancisce la supremazia europea della Francia, il cui sovrano, Luigi XIV, il famoso Re Sole (1643-1715), grazie anche al lavoro diplomatico in precedenza compiuto da due importanti ministri, i cardinali Richelieu e Mazzarino, diventa arbitro della politica europea, organizzando lo Stato in senso assolutistico e fortemente centralizzato. Al progressivo declino della potenza spagnola si accompagna la crescita di Paesi emergenti, come i Paesi Bassi (l’attuale Olanda) e, soprattutto, l’Inghilterra, nella quale, dopo le rivoluzioni del 1640 e del 1688 (entro le quali si colloca il governo puritano di Oliver Cromwell) si pongono le premesse per una trasformazione in senso parlamentare delle istituzioni politiche, a bilanciare il potere della monarchia. A rendere particolarmente complesso il quadro della politica europea si aggiungevano le divisioni religiose: la Riforma aveva di fatto spaccato l’Europa, tra un Nord in preva-

Caravaggio dipinge la Crocifissione di San Pietro e la Vocazione di San Matteo (1600 ca.)

Campanella compone La città del sole (1602)

Bernini erige Rembrandt il Baldacchino dipinge la Lezione e la Cattedra di anatomia (1632) di San Pietro (1624-66)

Borromini costruisce la chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane a Roma (1638-41) Cartesio scrive il Discorso sul metodo (1637)

Calderón de la Barca scrive Galileo pubblica il Sidereus La vita è sogno (1635) nuncius (1610) Marino pubblica Esce postumo Lo cuntu de li l’Adone (1623) cunti di Basile (1634-36)

Cervantes pubblica il Don Chisciotte (1605-15)

Sarpi pubblica l’Istoria del concilio Tridentino (1619)

Corneille compone Accetto scrive Della dissimulazione la tragedia Il Cid onesta (1641) (1636)

Galileo pubblica il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1630)

Scienza e Tecnica

Storia e Società

1600-1649

4

Giordano Bruno, condannato per eresia, è bruciato vivo a Roma (1600) Galileo dimostra l’esistenza dei satelliti di Giove e scopre i rilievi lunari (1609)

Ha inizio la guerra dei Trent’anni tra Unione evangelica e Lega cattolica (1618)

Elezione al soglio pontificio di Urbano VIII (1623)

Galileo inventa il microscopio (1624)

Il cardinale Richelieu è nominato primo ministro da Luigi XIII (1624)

Galileo è costretto dal Sant’Uffizio ad abiurare la dottrina eliocentrica (1633)

Torricelli inventa il barometro (1634)

La pace di Westfalia pone fine alla guerra dei Trent’anni (1648)

Il contesto · Società e cultura

Milano

Napoli

Genova e Venezia

Il Papato

lenza protestante e un Sud cattolico, anche se poi, all’interno dei vari stati, non erano mancati scontri e conflitti molto cruenti, tra cattolici e protestanti, ma anche fra le stesse confessioni protestanti (in Francia gli ugonotti erano stati massacrati dai cattolici nella notte di san Bartolomeo, il 23-24 agosto 1572, mentre in Inghilterra i puritani abbandoneranno a causa delle persecuzioni il loro paese per rifugiarsi nel Nord America, dando origine ai futuri Stati Uniti). In questo quadro la situazione degli stati italiani, preoccupati soprattutto della conservazione della loro integrità, non è tale da consentire alcun ruolo propulsivo. Milano resta affidata a un governatore spagnolo, chiamato “viceré” (dal 1585 al 1706), dopo aver superato la crisi della guerra del Monferrato, che vide il duca Carlo Emanuele I di Savoia (il solo in grado di svolgere un più attivo ruolo politico) prima allearsi con la Spagna e poi passare dalla parte francese (è la guerra che fa da sfondo al capolavoro di Alessandro Manzoni, I promessi sposi). Anche il viceregno di Napoli, città particolarmente florida e vivace, è governato per tutto il secolo XVII dagli Spagnoli, che verranno cacciati nel 1647 dalla rivolta popolare capeggiata da Masaniello (ma torneranno l’anno dopo). L’indebolimento delle vecchie repubbliche marinare colpisce sia Genova sia Venezia, la quale, per conservare l’autonomia delle sue istituzioni repubblicane, si impegna a contrastare i poteri di una Curia Papale arroccatasi su posizioni di sempre più intransigente chiusura. Il Papato cerca soprattutto di rafforzare le sue posizioni sul piano politico, proponendosi come unico legittimo difensore della fede cattolica contro la diffusione del protestantesimo, mentre la sua posizione resta ininfluente nel gioco delle grandi potenze europee (si ricordino anche, verso Oriente, l’Impero Asburgico e la Russia, impegnati a contenere l’avanzata dei Turchi).

La situazione economica L’inizio del colonialismo

Bernini scolpisce la Fontana dei fiumi in piazza Navona a Roma (1651)

Le scoperte geografiche, compiute nel secolo precedente, avevano portato all’occupazione e allo sfruttamento dei territori di quei lontani paesi, dando inizio a quel fenomeno del colonialismo destinato ad accrescere la potenza delle grandi nazioni europee.

Bernini inizia la costruzione del colonnato di piazza San Pietro (1657)

Guarini termina la cappella della Sacra Sindone a Torino (1690)

Velázquez dipinge Le damigelle d’onore (Las Meninas) (1656)

Milton compone il Paradiso perduto (1667) Molière scrive il Don Giovanni (1665)

In Francia Racine scrive la Fedra (1677)

1650-1699 La pace dei Pirenei segna la fine del predominio spagnolo in Europa e l’ascesa della Francia (1659)

Viene restaurata la monarchia in Inghilterra (1660)

Con la pace di Aquisgrana termina la guerra franco-spagnola per il possesso delle Fiandre (1668)

Luigi XIV, alla morte di Mazarino, assume il potere (1661) Newton costruisce un telescopio a riflessione (1671)

Revoca dell’editto di Nantes (1685)

Vienna è assediata dai Turchi (1683)

Russia, Austria, Polonia e Venezia firmano la pace di Carlowitz con i turchi (1699)

Leibniz inventa una calcolatrice in grado di eseguire moltiplicazioni (1673) L’astronomo danese Römer calcola la velocità della luce (1675)

5

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Il rafforzarsi della borghesia Il “liberismo” economico

La decadenza dell’economia italiana

Grandi calamità in Italia

Lo scopo evidente era quello dello sfruttamento economico, che consentiva di importare a basso prezzo, e poi di rivendere sui mercati europei, metalli e pietre preziose, oltre ai prodotti che crescevano nei climi caldi o tropicali. Il grosso del traffico internazionale veniva così a spostarsi sempre più decisamente sulle rotte dell’Atlantico, favorendo, a tutto svantaggio dei porti italiani, quelli dell’Inghilterra e dei Paesi Bassi. Qui si veniva consolidando la supremazia di una borghesia dinamica e intraprendente, capace di dare vita a un’iniziativa privata che affiancasse e sostituisse le direttive economiche imposte dallo stato centrale. Sono i prodromi di quella libertà commerciale che, opponendosi al “protezionismo”, prende il nome di “liberismo” e che, sviluppatasi più compiutamente nel secolo successivo, avrà il suo teorico nel filosofo Adam Smith (1723-90). Ma sin dal Seicento si promuove il costituirsi di associazioni private, come le famose Compagnie delle Indie (quella inglese fu fondata nel 1600, quella olandese nel 1602), per gestire a livello imprenditoriale il traffico delle merci sulle rotte oceaniche. Da queste prospettive di crescita, già proiettate verso il futuro, la penisola italiana resta di fatto esclusa. Le fonti del commercio, spostato ormai in prevalenza sulle rotte dell’Atlantico, si stanno esaurendo e con queste il reddito finanziario, che aveva fatto la fortuna, in passato, delle grandi casate dei banchieri fiorentini e genovesi. La decadenza delle città, come centri dell’attività economica, coincide con un processo di rifeudalizzazione dei rapporti economico-sociali, che rappresenta, sotto molti aspetti, un ritorno alle forme dell’economia medievale; un’economia di tipo parassitario, in cui il consumo (concentrato nelle spese improduttive delle corti centrali e dei signori locali) non era più sostenuto da una produzione capace di creare sviluppo. Se questi processi erano già in atto nei secoli precedenti, almeno dal Quattrocento, non c’è dubbio che nel Seicento la situazione si aggrava pesantemente, anche per l’abbattersi di altre calamità: le guerre, le carestie, che affliggono territori già devastati dal passaggio (e dai saccheggi) delle milizie straniere, le epidemie, tra cui la peste che decimò la popolazione lombarda nel 1630 (è il quadro fornito dai già ricordati Promessi sposi).

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L’ I t a l i a n e l S e i c e n t o Egemonia della Spagna

Esplorazioni geografiche

Controriforma

Rivoluzione scientifica

Ritardo nell’evoluzione economica e civile

Crisi del commercio marittimo mediterraneo

Controllo di ogni aspetto della vita sociale e culturale

Teoria eliocentrica

Crisi dell’intero sistema conoscitivo

DeCLino eConomiCo

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oSTaCoLo aLLa Libera riCerCa SCienTifiCa e fiLoSofiCa

rifiuTo DeLLa TraDizione

Il contesto · Società e cultura

La questione religiosa

Il Concilio di Trento e la chiusura della Chiesa

La dura opposizione a ogni rinnovamento

Sugli assetti politici e sulle condizioni socio-economiche incide profondamente, nel corso del secolo, il problema religioso, dopo che la Riforma aveva dato origine alle diverse confessioni delle religioni protestanti. Al centro del cattolicesimo rimaneva il Papato, sempre più intenzionato a difendere le sue prerogative (di guida non solo spirituale, ma anche ideologica e politica, della cristianità) e di conseguenza a combattere con tutti i mezzi lo scisma. Allo scopo era stato indetto il Concilio di Trento (1545-63) che, nato con l’idea di trovare una mediazione, si era concluso con la rigida chiusura della Chiesa, volta a ribadire e a rafforzare l’intransigenza delle sue posizioni, come unica depositaria dell’eredità del Cristianesimo e come interprete, in senso dogmatico, delle sue leggi (era la Chiesa, in altri termini, a indicare il modo in cui bisognava leggere le Sacre Scritture, mentre le varie confessioni protestanti ne lasciavano ai fedeli l’interpretazione). La Chiesa, come organismo di potere, si assumeva così il compito di dirigere le coscienze, anche per quanto riguardava l’obbedienza ai princìpi e alle tradizioni in cui il suo insegnamento si era sempre identificato. Di qui l’opposizione, per fare subito l’esempio più noto e clamoroso, alla teoria del sistema copernicano (che, a differenza della concezione tolemaico-aristotelica, vedeva il Sole al centro dell’universo e la Terra come un semplice pianeta che ruotava attorno al Sole), che porterà nel 1633 alla condanna di Galileo Galilei ( cap. 5, p. 180), costretto a ritrattare le tesi di fondo delle sue scoperte ( La voce dei documenti). L’aperta persecuzione del dissenso, aveva anche condotto sul rogo Giordano Bruno (1600) e inflitto lunghi anni di carcere (dal 1599 al 1626) a Tommaso Campanella, che riuscirà a sfuggire alla morte solo fingendosi pazzo. Il problema, come è facile capire, non era solo religioso ma aveva profonde ripercussioni sul piano politico e culturale, orientando la cultura anche verso forme di propaganda e di organizzazione del consenso. Entro questi termini va inquadrata l’ideologia controriformistica, chiusa nella difesa delle prerogative ufficiali della Chiesa e sorda a ogni ipotesi esterna di un rinnovamento.

La voce dei documenti | AUTORE: Galileo Galilei | OPERA: Atti del processo a Galileo

L’abiura di Galileo accusato di sostenere delle posizioni eretiche, galileo dovette comparire, nel febbraio del 1633, di fronte al tribunale dell’Inquisizione. Il processo si concluse il 22 giugno, giorno in cui gli furono confermati i capi d’imputazione e gli venne imposto, per non finire sul rogo, di pronunciare una solenne abiura, ossia di ritrattare quelle tesi di cui aveva fornito l’indubitabile dimostrazione.

Io Galileo, fig.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza1, dell’età mia d’anni 70, constituto2 personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi3 Cardinali, in tutta la Repubblica Cristiana4 contro l’eretica pravità5 generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali6 tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiu5 to di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene7, predica e insegna la S.a8 Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.o9, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto10 dall’istesso11 giuridicamente intimato che omninamente12 dovessi lasciar la13 falsa opinione che il 1. fig.lo … Fiorenza: figliolo, figlio del fu (latino quondam, abbreviato in q.) Vincenzo Galilei di Firenze. 2. constituto: costituito, chiamato, convocato. 3. Emin.mi e Rev.mi: Eminentissimi e Reverendissimi. 4. Repubblica Cristiana: i territori a cui si estendeva la giurisdizione della Chiesa cattolica. 5. pravità: malvagità. Si riferisce all’Inquisizione, riorganizzata nel 1542 da Paolo III e rafforzata nel 1588 da Sisto V, che, attraverso il tribunale del Sant’Uffizio, era incaricata di

combattere le eresie. 6. quali: che, i quali. 7. tiene: ritiene, crede. 8. S.a: Santa. 9. S. Off.o: il tribunale del Sant’Uffizio. 10. precetto: obbligo di obbedienza. 11. istesso: lo stesso, il medesimo tribunale. 12. omninamente: completamente, del tutto (latinismo). 13. lasciar la: rinunciare alla.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia14 modo, né in15 voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato16 che detta dottrina17 è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro18 nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata19 e apporto20 ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar21 alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente22 sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova. Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re23 e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa24, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta25 contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò26 a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò. Giuro anco27 e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo28 ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni29 e altre constituzioni30 generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani. Io Galileo Galilei sodetto31 ho abiurato32, giurato, promesso e mi sono obligato33 come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola34 di mia abiurazione e recitatala di parola in parola35, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì36 22 giugno 1633. 14. qualsivoglia: qualsiasi. 15. in: a. 16. d’essermi notificato: che mi era stato comunicato. 17. dottrina: credenza. 18. un libro: si riferisce al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano. 19. dannata: condannata (dalla Chiesa). 20. apporto: apportato, portato (a sostegno della mia tesi). 21. apportar: portare, giungere a. 22. veementemente: fortemente. 23. V.re: Vostre. 24. veemente … conceputa: forte sospetto, giustamente concepito contro di me.

25. setta: associazione. 26. denonziarò: denuncerò. 27. anco: anche, inoltre. 28. contravenendo: se dovessi contravvenire. 29. canoni: leggi. 30. constituzioni: costituzioni, regole, norme. 31. sodetto: suddetto, sopra nominato. 32. abiurato: sconfessato, ritrattato le mie posizioni. 33. obligato: obbligato, impegnato. 34. cedola: scrittura, documento. 35. recitatala … parola: letta parola per parola. 36. questo dì: oggi.

Guida alla lettura

una dura umiliazione Quello dell’abiura è il momento conclusivo del processo a cui venne

sottoposto Galileo, costretto a rinunciare alle proprie convinzioni e a smentire ciò che più gli stava a cuore, e che aveva rappresentato il lavoro di tutta la sua vita. Era l’estrema umiliazione inflitta a chi, dopo aver cercato di lottare contro il dogmatismo, doveva negare la propria libertà e indipendenza di giudizio, usando le parole non per illustrare nuove scoperte, ma per ripetere ciò che altri lo costringevano a dire, contro ogni logica e verità. La battaglia per una ricerca autonoma Non fu però, quella di Galileo, ormai vecchio e stanco di lottare, una scelta opportunistica; salvare la propria vita significava anche portare avanti la sua battaglia per l’autonomia della ricerca, sia continuando gli studi sia cercando di tenere i contatti con quei discepoli che, dopo avere fondato l’Accademia del Cimento, avrebbero dato senso e continuità alla lezione galileiana, tenendola in vita e garantendo la continuità di quel metodo della ricerca a cui Galileo aveva aperto la strada. Non è un caso che, nella sua Vita di Galileo, il grande drammaturgo tedesco Bertolt Brecht (1898-1956) gli abbia messo in bocca queste parole: «Non credo che la scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana», insistendo sulla necessità, per gli «uomini di scienza», di reagire all’«intimidazione dei potenti egoisti». Galileo veniva così a rappresentare la vittima delle persecuzioni ideologiche e cul8

Il contesto · Società e cultura

turali (ma anche di tutte le persecuzioni) messe in atto dai poteri intolleranti e repressivi; al tempo stesso indicava la via di un progresso scientifico e culturale che, solo fondandosi sulla tolleranza e sull’accettazione del “diverso”, avrebbe potuto portare benefici all’umanità.

facciamo il punto 1. Quali sono le principali conseguenze della pace di Westfalia? 2. Quali nuove potenze nazionali si affermano in Europa nel corso del Seicento? 3. Per quale motivo l’Italia si viene a trovare in una situazione di arretratezza economica e politica nel XVII

secolo?

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Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura i luoghi della cultura

La corte

Torino Missioni e attività sociali dei gesuiti

Attività teatrali dei gesuiti

La corte del Seicento finisce sempre più per identificarsi con l’apparato burocratico statale, e il “cortigiano” si trasforma gradualmente nel “segretario” del principe, esecutore della sua volontà più che consigliere capace di interpretare la realtà grazie al ricco bagaglio culturale di cui dispone. Il letterato sviluppa, perciò, competenze da giurista, diplomatico, militare e amministratore; il compito di creare e diffondere un’immagine positiva del principe viene sempre più spesso affidato al pittore o all’architetto, i quali danno dimostrazione del potere e del prestigio della corte attraverso ampi e spettacolari interventi nel tessuto delle città. Solo un’esigua minoranza di letterati può ambire, dunque, a una sistemazione stabile e prestigiosa nell’ambito delle corti. Conseguenza di questa situazione è l’aspirazione degli uomini di lettere a svincolarsi dalla protezione di un principe particolare, ma questa via risulta praticabile soltanto da pochissimi, come nel caso di Giovan Battista Marino ( cap. 1, A1, p. 32), sorretti da una solida rinomanza internazionale. In concreto, acquista sempre maggior peso la produzione encomiastica, attraverso la quale il poeta spera di accaparrarsi la benevolenza del signore e una sistemazione stabile a corte, in cambio di una sostanziale rinuncia all’indipendenza di pensiero. Particolarmente attiva, fu a Torino la corte di Carlo Emanuele I di Savoia, che ospitò tra gli altri Giovan Battista Marino e Alessandro Tassoni ( cap. 2, A1, p. 69). Su di un piano più propriamente organizzativo, un ruolo importante viene svolto dai gesuiti (il clero appartenente alla Compagnia di Gesù, fondata nel 1534 a Parigi dallo spagnolo sant’Ignazio di Loyola), nelle cui mani era venuta sempre più ad accentrarsi una vasta struttura di potere, che si esercitava attraverso compiti diversi: l’attività missionaria, che prevedeva la difesa e la diffusione delle fede (grazie alla Congregazione De propaganda fide, 1622) sia nei paesi europei sia in quelli oltreoceano di recente scoperti; sul piano del sociale, l’organizzazione dell’insegnamento, con la creazione di scuole, dove si formavano i quadri delle future classi dirigenti, grazie a una severa disciplina regolata nel 1599 dalla Ratio studiorum (“Regola degli studi”). Tra le attività praticate ci fu anche l’allestimento di spettacoli teatrali aperti al pubblico, il cosiddetto “teatro dei gesuiti”, destinato a svolgere una funzione educativa, sul piano religioso e morale, grazie al forte impatto delle soluzioni sceniche. La fortuna dei gesuiti fu anche favorita dal fatto che, se incontravano il favore dei ceti meno abbienti grazie alla promozione delle opere di carità, erano poi fautori di una morale non eccessivamente intransigente, che non urtava troppo le convinzioni e gli interessi delle personalità più influenti (a differenza dei giansenisti, che, ispirandosi all’insegnamento di sant’Agostino, sostenevano invece la necessità di una morale più rigorosa e inflessibile). 9

L’età del Barocco e della Nuova Scienza Roma

Venezia

L’editoria

In quanto sede del Papato e centro più autorevole del potere politico-religioso, Roma assolve in Italia a un ruolo decisivo, anche per quanto riguarda le influenze sui diversi aspetti della vita sociale e la promozione delle iniziative artistico-culturali, con il trionfo dell’arte barocca ( p. 11) nell’architettura, nella pittura e nella scultura. Le direttive emanate dalla sede pontificia trovano deboli ostacoli negli stati della Penisola, con l’eccezione, non va dimenticato, della Repubblica di Venezia, che si presenta come centro culturale differenziato, in un certo senso antagonistico rispetto alle scelte della curia romana: si pensi all’Istoria del Concilio Tridentino scritta con chiare intenzioni critiche e polemiche da Paolo Sarpi ( cap. 3, A2, p. 111). Il problema non era solo culturale ma politico. I difficili rapporti erano culminati con la vicenda dell’“interdetto”, ossia della scomunica lanciata da papa Paolo V contro Venezia, che aveva rifiutato di consegnare all’autorità religiosa due sacerdoti accusati di reati comuni. L’artefice della resistenza fu Sarpi, la cui azione diplomatica venne alla fine sconfessata da quei gruppi che miravano all’accomodamento, per evitare le gravi conseguenze di una rottura. Questa situazione si riflette anche per quanto riguarda l’editoria, che si sta affermando con le caratteristiche di una produzione, se non di massa, certo in forte crescita. Naturalmente il primato spetta alle opere devozionali, che si allineano ai princìpi della Controriforma, ma notevole è anche la fortuna delle opere d’evasione; un grande successo di pubblico (ci riferiamo sempre, naturalmente, alle classi più elevate) ottenne la grande quantità dei romanzi cosiddetti “barocchi”, complicate macchine narrative dalla struttura labirintica, ricche di peripezie, intrighi, colpi di scena. Al centro di questa attività è ancora Venezia, che, con il suo spirito di indipendenza, cercò anche di sfuggire alle rigide maglie della censura, stampando ad esempio libri “proibiti” che, sul frontespizio, recavano indicazioni diverse da quelle della città in cui erano stati pubblicati.

Le accademie L’Accademia dell’Arcadia e l’Accademia della Crusca

L’Accademia degli Incogniti

L’Accademia dei Lincei e l’Accademia del Cimento

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Prosegue nel Seicento l’attività, spesso ridotta a un vuoto esercizio retorico, delle numerose accademie, destinate per lo più a una vita effimera, ad eccezione dell’Accademia della Crusca, costituitasi a Firenze nel 1585 con l’intento di difendere la tradizione letteraria della lingua italiana ( p. 18), e dell’Accademia dell’Arcadia, che, fondata a Roma nel 1690 da Gian Vincenzo Gravina e Giovanni Mario Crescimbeni, eserciterà il suo influsso sulla poesia di tutto il Settecento. Un cenno a parte merita l’Accademia degli Incogniti di Venezia (1623-52), fondata da Giovan Francesco Loredano (1607-61), poligrafo autore di numerosi romanzi, attorno alla quale gravitarono alcune delle personalità più inquiete e interessanti, e dove si compirono scelte, se non alternative, certamente spregiudicate e anticonformistiche, dovute alla maggiore apertura e circolazione delle idee. Non solo si diffuse, in tale ambito, un tipo di letteratura erotica e irriverente, soprattutto romanzesca (ma si ricordi anche il volume collettivo Le cento novelle degli Accademici Incogniti), ma all’Accademia degli Incogniti fecero riferimento intellettuali come Ferrante Pallavicino (1615-44), decapitato per i suoi scritti contro il pontefice, e Girolamo Brusoni (1614-86), che subì la condanna al carcere; si tratta dei cosiddetti “libertini”, attratti in qualche caso da più o meno scoperte simpatie per la Riforma protestante. Oltre alle accademie letterarie avranno grande impulso quelle scientifiche, a partire dall’Accademia dei Lincei, fondata nel 1603 da Federico Cesi (1585-1630). Dalla ricerca scientifica condotta da Galileo Galilei ( cap. 5, p. 180), già socio dei Lincei, nascerà un’accademia completamente nuova, l’Accademia del Cimento (1657-67), che, fondata a Firenze da alcuni allievi di Galileo, proseguì e consolidò il ricco insegnamento del maestro. Il suo motto, «provando e riprovando», ricavato da Dante (Paradiso, III, v. 3), si riferiva alla necessità di confutare gli errori («riprovando») per giungere alla dimostrazione («provando») della verità. Ne fecero parte, fra gli altri, il medico Francesco Redi (162697), autore di uno studio sul veleno delle vipere ma anche di un poemetto come Bacco in Toscana, e il segretario Lorenzo Magalotti (1637-1712), che pubblicò nel 1666 i Saggi di naturali esperienze, contenenti le relazioni annuali degli studiosi dell’Accademia.

Il contesto · Società e cultura

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La cultura scientifica e l’immaginario barocco La rivoluzione filosofico-scientifica

La rivoluzione scientifica

Il nuovo pensiero filosofico

Anzitutto il Seicento è ricordato dalla storia come il secolo della “rivoluzione scientifica”. È possibile usare questa definizione in primo luogo perché la conoscenza scientifica (che si esprime sempre più attraverso il rigore di discipline quali la matematica, la fisica, la chimica, le scienze naturali, la medicina, l’astronomia) si arricchisce in misura straordinaria e offre dei metodi di indagine nuovi, che rivoluzionano il modo di osservare e studiare i fenomeni della natura. Questi metodi richiedono una strumentazione tecnica sempre più sofisticata: vengono perfezionati ad esempio grazie al contributo di Galileo, il microscopio, il cannocchiale, presto utilizzato con enorme profitto per osservare i corpi celesti, più altri strumenti indispensabili allo studio dei fenomeni fisici quali, ad esempio, il termometro e il barometro. È soprattutto l’astronomia a raggiungere risultati di incomparabile valore scientifico, grazie ai contributi di Isaac Newton (1542-1627), Giovanni Keplero (1571-1630) e Galileo Galilei. Ad essere rivoluzionato, tuttavia, non è solo l’ambito del sapere scientifico ma anche, e per certi versi in maniera ancora più decisiva, quello del pensiero filosofico. Questo procede parallelamente allo sviluppo delle scienze maturando di volta in volta nuove riflessioni epistemologiche (proprie cioè della filosofia della scienza). Più in generale, le acquisizioni scientifiche da un lato e il proliferare di nuove scoperte geografiche, che implicano la conoscenza di popoli e culture non europei, dall’altro, impongono ai filosofi, prima ancora che agli scienziati, un nuovo modo di intendere il sapere. Il filosofo inglese Francis Bacon (1561-1626) è tra i primi a mettere in discussione il sapere filosofico classico, ritenuto non più in grado di dare delle risposte agli interrogativi di una realtà storico-culturale ormai profondamente mutata, insufficiente a garantire il progresso della conoscenza. Il suo impianto filosofico è rinnovato totalmente in senso empirico-razionalista: alla base della conoscenza scientifica sono collocate le informazioni colte dai sensi e filtrate dalla ragione, indispensabile a ricavare le leggi che regolano i fenomeni e spiegano i fatti osservati. A contribuire in misura decisiva al nuovo orientamento razionalista vi furono René Descartes, noto in Italia con il nome di Cartesio (1596-1650) e lo stesso Galileo.

il barocco nelle arti L’origine del termine Barocco

Con il termine Barocco si indica una tendenza della ricerca espressiva, artistica in senso lato e letteraria in particolare, che ha caratterizzato il gusto dominante del secolo. L’origine del nome è incerta: secondo l’opinione più accreditata, deriverebbe dal portoghese barroco, che indica un particolare tipo di Francesco Borromini, Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, 1664-67, Roma.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

La ricerca di movimento

L’architettura

Immagine interattiva Bernini e l’Estasi di Santa Teresa

Una nuova visione della realtà

La finzione

perla, dalla forma ondulata e irregolare (il termine è ancora in uso), passato in Francia (baroque) con il significato di “stravagante”, “bizzarro” (si è pensato anche a un sillogismo, tipo di ragionamento particolarmente contorto). Proseguendo su una linea già avviata dal Manierismo, il Barocco si segnala per la perdita dell’equilibrio e della misura ritenute le caratteristiche distintive dell’arte rinascimentale. Prevalgono, nelle arti figurative, le linee curve e sinuose, con la ricerca di un movimento affidato alle volute dei panneggiamenti o alla torsione dei corpi, con effetti che tendono ad abbandonare la simmetria delle proporzioni; si afferma al contrario l’elemento dinamico che, anche attraverso i violenti contrasti chiaroscurali, anima i primi piani, ampliando le prospettive e suggerendo una visione in profondità. Sono caratteristiche che si trovano, esaltate, soprattutto nell’architettura, dove il rifiuto della linea e degli angoli retti, che definivano quasi geometricamente gli spazi, altera le proporzioni regolari realizzate dall’arte ispirata al classicismo; alla linearità della prospettiva, che determinava una visione univoca della realtà, si sostituisce un gioco prospettico, che, dilatando scenograficamente gli spazi, suggerisce visioni molteplici e cangianti, moltiplicando i punti di vista e offrendo allo sguardo le immagini (e l’idea) di una realtà sempre mutevole, in un gioco di pieni e vuoti che sembra suggerire continui passaggi fra il finito e l’infinito; il movimento fluttuante dell’atmosfera appare animato dagli effetti coloristici, accentuati dagli elementi intensamente decorativi, e dagli effetti illusionistici (si pensi alla famosa galleria di Borromini di Palazzo Spada a Roma, che, grazie alle ardite soluzioni prospettiche, sembra lunghissima e invece è lunga pochi metri). Il carattere monumentale degli edifici (le chiese costruite soprattutto nell’Europa cattolica, ma anche nei paesi d’oltreoceano) si impone per la sua solennità, che, suggestionando l’osservatore grazie alla grandiosità e allo sfarzo delle forme e della decorazione sovrabbondante, sembra voler affermare i segni di una gloria e di una potenza rinnovate, richiamando fortemente al tempo stesso all’osservanza dei doveri religiosi. Da elemento proprio dell’arte il Barocco, fondato essenzialmente sul senso della vista, diventa il segno distintivo di una visione delle cose che, grazie alle sue suggestioni illusionistiche, permea l’intera realtà, sottolineando al tempo stesso, anche nell’arte religiosa, un vitalismo a cui non sono estranei elementi di edonismo e di sensualismo. Ne deriva l’ambiguità di una visione del mondo in cui le stesse certezze appaiono accompagnate da profonde inquietudini, dalla precarietà dei segni di una crisi che, dietro le immagini sfarzose, lascia talora trapelare un senso incombente della morte. Questo immaginario si estende a tutti gli aspetti della realtà, concepita come il «gran teatro del mondo» (Calderón de la Barca, cap. 4, A2, p. 128). Assume così importanza, nell’arte, l’elemento della finzione, su cui si basa un’esperienza fondamentale come quella della festa, in quanto manifestazione artistica in cui le corti ostentano la loro magnificenza e lo splendore, anche attraverso l’interagire dei diversi linguaggi espressivi: dall’immagine alla parola e alla musica. Dalle mutevoli combinazioni coreografiche all’uso di complesse macchine sceniche, tutti questi accorgimenti riguardano anche gli spettacoli teatrali che, delle feste, rappresentavano spesso il centro dell’attenzione. In tutti questi casi si tratta di stupire lo spettatore, mettendolo di fronte a situazioni nuove e impreviste, tali da colpire fortemente l’immaginazione, imprimendo così con maggior forza, nella mente, gli insegnamenti della morale controriformistica.

il barocco in letteratura La ricerca di “meraviglia”

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Gli effetti ricercati dall’arte barocca si osservano anche, trasferiti nella specificità degli strumenti propri della scrittura, in alcune delle esperienze letterarie secentesche, a partire dalla ricerca dello stupore e dell’effetto sorpresa. Come scrive il più importante poeta italiano dell’età barocca, Giovan Battista Marino: «È del poeta il fin la maraviglia; / parlo dell’eccellente e non del goffo; / chi non sa far stupir vada a la striglia» (“chi non sa provocare stupore, vada a farsi strigliare, come un animale”). La ricerca di questi effetti, come fine principale a cui tende la letteratura, è condotta a partire dalle possibilità combinatorie del linguag-

Il contesto · Società e cultura Le figure retoriche

Marino

Il Barocco come risposta a nuove esigenze

La polemica tra imitatori del passato e innovatori

gio, chiamato a sperimentare soluzioni sempre nuove e, in certo senso, sconvolgenti. Di qui, ad esempio, l’uso frequente della metafora, che, avvicinando fra loro concetti e immagini di origine lontana (senza la mediazione logica del complemento di paragone), mira a produrre risultati sorprendenti, rivelando accostamenti inusitati. Ad aumentare l’efficacia concorrono altre figure retoriche, quali i procedimenti cumulativi e amplificativi, le antitesi, le iperboli, il concetto difficile e inusitato, collocato spesso nella chiusa dei sonetti (si è parlato anche, in questo senso, di Concettismo, che nasce soprattutto dal contrasto fra il piano letterale e quello metaforico, come nel celebre incipit del sonetto di Achillini Sudate, o fochi, a preparar metalli, cap. 1, T2, p. 35). Il caposcuola di questa esperienza è stato Giovan Battista Marino ( cap. 1, A1, p. 32), noto soprattutto come autore di un lungo poema, l’Adone, ma anche di rime e di altri componimenti, tutti caratterizzati da una ricerca di artifici verbali spinta sino al virtuosismo; attorno a lui gravitò un folto stuolo di seguaci e imitatori, i cosiddetti “marinisti”, che hanno rappresentato il fulcro del dominante gusto “barocco”. Ma non si trattava solo, come a lungo si è pensato, di freddo intellettualismo: da un lato il Barocco reagiva a quelli che erano divenuti ormai gli stereotipi della letteratura rinascimentale (si pensi alla pedissequa imitazione di Petrarca portata avanti per tutto il Cinquecento dai tanti canzonieri dei “petrarchisti”); dall’altro la mutevole variazione dei punti di vista offriva della realtà un’immagine più articolata e complessa, corrispondente a nuove forme e bisogni di conoscenza, a cui non erano estranee certe suggestioni di quella ricerca scientifica portata avanti, sia pure in forme e modi completamente diversi, da Galileo. Il Barocco, in questo senso, corrispondeva a una nuova visione delle cose, legata a una crisi delle certezze tradizionali e a una perdita di stabili punti di riferimento. La metafora diventava così lo strumento privilegiato per rappresentare una visione delle cose mutevole, aperta verso nuove forme di conoscenza ma al tempo stesso perplessa e stupita di fronte agli aspetti meno prevedibili della realtà ( La voce dei testi). Più in generale si avvertiva il desiderio di rompere i ponti con la tradizione, rifiutando quel principio dell’imitazione che era stato alla base delle poetiche del classicismo rinascimentale. Non è un caso, allora, che nel Seicento nasca la cosiddetta “questione degli antichi e dei moderni”, acuendo la frattura fra chi continuava a guardare ai modelli del passato e chi era convinto di interpretare le esigenze di un presente fortemente innovatore. Se la polemica avrà la sue punte più significative nella Francia della fine del Seicento (la querelle des anciens et des modernes), è in Italia che viene impostata sin dai primi anni del secolo, con quell’esigenza di modernità rivendicata da Marino e seguaci, ma anche formulata da Alessandro Tassoni ( cap. 2, A1, p. 68) nel Paragone degl’ingegni antichi e moderni (1620).

La voce dei testi | AUTORE: Emanuele Tesauro | OPERA: Il cannocchiale aristotelico

La metafora Nato a torino, emanuele tesauro (1592-1675) visse alla corte dei Savoia. È autore di panegirici, tragedie, opere storiche e morali. la sua opera più famosa è Il cannocchiale aristotelico (1654), trattato sulle figure retoriche – fra cui assume particolare importanza la metafora –, che contiene i fondamenti della poetica barocca.

Ed eccoci alla fin pervenuti grado per grado al più alto colmo1 delle figure ingegnose2, a paragon delle quali tutte le altre figure fin qui recitate3 perdono il pregio, essendo la metafora il più ingegnoso e acuto, il più pellegrino4 e mirabile, il più gioviale e giovevole5, il più 1. grado… colmo: gradatamente, di gradino in gradino, al culmine, al punto più alto. 2. ingegnose: le figure retoriche sono così definite in quanto sollecitano l’intelligenza di chi le usa, mettendo alla prova il suo “ingegno”.

3. recitate: prese in considerazione, esaminate. 4. pellegrino: peregrino; inconsueto e imprevisto. 5. gioviale e giovevole: piacevole e utile, con evidente rimando alla concezione classica del miscere utile dulci (“mescolare l’utile al dilettevole”).

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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facondo e fecondo parto6 dell’umano intelletto. Ingegnosissimo veramente, però che7, se l’ingegno consiste (come dicemmo) nel ligare insieme le remote e separate nozioni degli propositi obietti8, questo apunto è l’officio9 della metafora, e non di alcun’altra figura: perciò che, traendo la mente, non men che la parola, da un genere all’altro10, esprime un concetto per mezzo di un altro molto diverso, trovando in cose dissimiglianti la simiglianza11. Onde conchiude il nostro autore12 che il fabricar metafore sia fatica di un perspicace e agilissimo ingegno. E per consequente13 ell’è fra le figure la più acuta14: però che l’altre quasi grammaticalmente15 si formano e si fermano nella superficie del vocabulo, ma questa riflessivamente penetra e investiga le più astruse nozioni per accoppiarle16; e dove quelle vestono i concetti di parole, questa veste le parole medesime di concetti. Quinci ell’è di tutte l’altre la più pellegrina per la novità dell’ingegnoso accoppiamento. Senza la qual novità l’ingegno perde la sua gloria e la metafora la sua forza. Onde ci avisa il nostro autore che la sola metafora vuol essere da noi partorita, e non altronde, quasi supposto parto, cercata in prestito17. E di qui nasce la maraviglia, mentre che l’animo dell’uditore, dalla novità soprafatto, considera l’acutezza dell’ingegno rappresentante e la inaspettata imagine dell’obietto rappresentato. Che s’ella è tanto ammirabile, altretanto giovale e dilettevole convien che sia: però che dalla maraviglia nasce il diletto, come da’ repentini cambiamenti delle scene e da’ mai più veduti spettacoli tu sperimenti. 6. parto: frutto, prodotto. 7. però che: poiché. 8. ligare … obietti: collegare fra di loro gli elementi più lontani e diversi dei concetti che ci si propone di definire. 9. l’officio: il compito. 10. perciò che … all’altro: perché, trasportando la mente, insieme con la parola, da una qualità a un’altra. 11. trovando … simiglianza: scoprendo le analogie, le somiglianze in cose che sono tra loro molto dissimili, diverse. 12. il nostro autore: si riferisce ad Aristotele, e in particolare alla trattazione della metafora nella Retorica. 13. per consequente: di conseguenza.

14. acuta: penetrante, sottile (è sinonimo di “ingegnoso”; prima sono usati i termini ingegnoso e acuto). 15. grammaticalmente: limitandosi ai rapporti grammaticali fra le parole e alle loro combinazioni, riguardando quindi solo la superficie del discorso, la forma e il suono delle parole. 16. riflessivamente … accoppiarle: attraverso la riflessione penetra nella profondità dei significati della parola e ne indaga le più inusuali risonanze per metterle a confronto, per trovarne le analogie. 17. vuol essere … prestito: deve nascere da noi, e non presa (cercata) in prestito da altri (altronde), come se fosse generata da noi (quasi supposto parto).

Guida alla lettura La metafora come strumento per nuove conoscenze Questo passo del Cannocchiale ari-

stotelico è davvero la summa concentrata di tutta la poetica, o meglio della visione del mondo tipica del Barocco. Per Tesauro la metafora non è semplicemente la figura retorica più importante di tutte, ma – oltre a garantire il piacere di scoperte impreviste – diventa lo strumento essenziale per una nuova forma di conoscenza; un modo di conoscere che, collegando fra di loro «le remote e separate nozioni» delle cose, può rivelare aspetti del reale prima sconosciuti. In questo senso la metafora diventa fonte di «maraviglia», nella misura in cui è il prodotto di un’intelligenza particolarmente acuta, capace di scoprire ciò che unisce realtà anche molto diverse fra di loro («trovando in cose dissomiglianti la somiglianza»), rivelando corrispondenze e analogie impensate. Se le altre figure retoriche ci forniscono solo gli elementi di una conoscenza superficiale e formale («vestono i concetti di parole»), la metafora scende nella profondità dei concetti e delle cose («veste le parole medesime di concetti»), rivelandone anche i significati nascosti.

un esempio di prosa barocca Ma il brano in questione non ha solo un valore concettuale (in quanto si propone di darci la definizione del concetto di metafora); esso ci offre un esempio particolarmente rilevante dello stile della prosa barocca, intriso com’è di accorgimenti retorici, tra cui si possono segnalare l’iperbole e la ridondanza («al più alto colmo», r. 1), la paronomasia («facondo e fecondo», r. 4, «si formano e si fermano», r. 11), l’enumerazione e la variazione («il più…», r. 3), l’antitesi («trovando in cose dissimiglianti la somiglianza», r. 8) e l’inversione («e dove quelle vestono i concetti di parole, questa veste le parole medesime di concetti», rr. 12-13).

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Il contesto · Società e cultura

Sfortuna e fortuna del barocco Il giudizio negativo sulla letteratura secentesca

La rivalutazione del Barocco

Una più attenta analisi della letteratura barocca

Al termine Barocco è stato attribuito inizialmente un significato negativo. A partire dalla reazione dell’Illuminismo, e prima ancora dell’Arcadia, la letteratura del Seicento è stata a lungo considerata come un fenomeno di aberrazione, in cui sembrava che si fosse perduto, con il senso dell’equilibrio e della misura, il controllo della ragione. La scelta dell’artificio e il carattere intellettualistico erano considerati come il sintomo di un esaurimento, o imbarbarimento, della tradizione letteraria e come mancanza di gusto. Il più grande critico letterario dell’Ottocento, Francesco De Sanctis, vi ha visto completamente tradito il suo ideale romantico di una letteratura attenta anche ai valori civili e morali, in cui la “forma” doveva nascere intrinsecamente dalla nobiltà del “contenuto”: sicché i poeti barocchi, come scrive nella sua celebre Storia della letteratura italiana, «non potendo essere nuovi, furono strani». Benedetto Croce, pur avendo dedicato al Seicento vaste e importanti ricerche (sua, del 1911, è la prima antologia dei poeti marinisti), ha ribadito il giudizio completamente negativo, dovuto all’assenza di un sentimento autenticamente sofferto capace di farsi motivo ispiratore. Tra Otto e Novecento, tuttavia, si porranno anche le premesse per una rivalutazione del Barocco, a partire dai saggi dello storico dell’arte svizzero Heinrich Wölfflin (Rinascimento e Barocco, 1888) e, in Italia, del critico letterario Enrico Nencioni (Barocchismo, 1894). A giustificare un simile mutamento di prospettive era la crisi stessa della coscienza, che, venute meno le certezze del Positivismo e le fiducie nel progresso scientifico, sembrava riconoscere, nell’inquieta esperienza del Barocco, quasi un’anticipazione delle moderne ricerche tecnico-espressive (irrazionalismo, avanguardia, sperimentalismo, ecc.), ugualmente sottratte ai vecchi canoni estetici e tesi, in molti casi, alla ricerca del limite. Pur essendo più emozionale che criticamente motivata, questa disposizione era tuttavia fondamentale per preludere a una nuova valutazione del Barocco. Allo scopo concorre anche la caduta di molti pregiudizi critici, che chiedevano all’opera d’arte una naturalezza, sul piano psicologico o del verisimile, commisurabile a una presunta “realtà”. Si è così giunti a una maggiore comprensione della letteratura del Seicento e ad importanti tentativi di storicizzazione, a opera di numerosi studiosi. Tra questi si ricordi soprattutto Giovanni Getto, sia per l’importanza intrinseca dei suoi contributi (in gran parte raccolti nel volume del 1969 Barocco in prosa e in poesia), sia per il ruolo prioritario che hanno assunto nel promuovere molte delle più recenti ricerche. Per quanto riguarda infine il rapporto con l’arte novecentesca, basti ricordare le simpatie per il Barocco manifestate, intorno agli anni Trenta, da un poeta come Giuseppe Ungaretti o da un pittore come Giorgio De Chirico (si veda, di Luciano Anceschi, il volume del 1960 Barocco e Novecento).

facciamo il punto 1. Come cambia il ruolo degli intellettuali all’interno delle corti e negli altri ambienti di elaborazione culturale? 2. Quali centri di produzione e diffusione della cultura acquistano maggior importanza nel corso del XVII secolo? 3. Quale nuova concezione della scienza e della letteratura si afferma nel Seicento? 4. Quali sono i caratteri distintivi del gusto barocco nell’arte e nella letteratura? 5. Come è cambiato nei secoli il giudizio sulla letteratura secentesca?

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L’arTe inConTra La LeTTeraTura

Luci e ombre: il barocco tra illusione e realtà È consuetudine riferire all’arte barocca gli attributi della teatralità, della ridondanza, del dinamismo (contrapposto alla staticità dell’arte classica e rinascimentale), nonché i caratteri della sovrabbondanza e di un eccesso che sconfina sovente nel cattivo gusto. Eppure, lo stile barocco – il primo dopo quello gotico del XIII-XIV secolo a diffondersi su scala continentale – non si esprime in modo uniforme, anzi è ricco come pochi altri di antitesi e sfumature. Nella

Andrea Pozzo, Apoteosi di san Francesco Saverio, 1676-79, affresco, Mondovì, chiesa della Missione.

Nato a Trento, Andrea Pozzo (1642-1709) fu un maestro dell’illusionismo in pittura. Entrato nell’ordine gesuita nel 1665, fu attivo in Piemonte e, dal 1703, a Vienna. Ottenne fama europea con la decorazione della chiesa romana di Sant’Ignazio, chiesa madre dell’Ordine. Nell’Apoteosi di san Francesco Saverio, dipinta nella chiesa gesuita di Mondovì (Cuneo), si può apprezzare come il pittore eccella nella creazione di trompe l’œil e false prospettive. La gloria del santo è trasfigurata in un tripudio di luce e colori; nell’insieme pittorico, massima importanza è data alle architetture immaginarie. Nella scena, dove gli “effetti speciali” sono – per così dire – di rigore, non vi è nulla di statico: perfino le finte architetture sembrano fluttuare, non si capisce se perché sul punto di implodere e crollare o se, viceversa, perché sul punto di esplodere e ascendere al cielo insieme al santo. La spettacolarità di decorazioni di questo tipo ha lo scopo di infondere nello spettatore una sorta di ebbrezza capace di renderlo partecipe dello stesso miracolo di cui è protagonista il santo.

Esercitare le competenze STabiLire neSSi Tra LeTTeraTura e arTi ViSiVe

> 1. Spiega come è trattato il tema del “sacro” in riferimento alla prima immagine. > 2. Fornisci una descrizione dettagliata degli oggetti raffigurati nel dipinto di Velázquez, spiegandone l’importanza nell’ambito della cultura del Barocco.

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Il contesto · Società e cultura

stessa epoca vi era chi eseguiva opere raccolte e meditative e chi dipingeva o creava sculture e architetture improntate allo sfarzo; negli stessi luoghi operavano a un tempo pittori di chiaroscuri tenebrosi e altri che realizzavano grandiosi dipinti scenografici, imperniati su prospettive illusoriamente aperte sull’infinito; allo stesso modo, la pittura celebrativa popolata di dèi, santi ed eroi aveva il suo rovescio e complemento in quella che rappresentava, con stile realistico, scene di taverna, popolani, gente di malaffare e piccoli episodi di quotidiana miseria. Proprio per dare conto dei dualismi che contraddistinguono l’arte barocca proviamo dunque a mettere a confronto due maestri dell’epoca: Andrea Pozzo e Diego Velázquez.

Diego Velázquez, Pranzo, 1620, olio su tela, Budapest, Museo di Belle Arti.

Nel Seicento la pittura realistica fa da contrappunto alla pittura-spettacolo dei virtuosi della decorazione illusionistica. La coesistenza di soggetti solenni e plebei non dipende dalle richieste provenienti da diversi tipi di committenza, bensì traduce la ricchezza di sfumature propria del gusto dell’epoca. Un genio del realismo quale fu Diego Velázquez (1599-1660), ad esempio, pittore del re di Spagna dal 1622, pur svolgendo a corte tutta la sua carriera, cercò (riuscendoci quasi sempre) di non dipingere quadri religiosi o mitologici, allora i più richiesti e quotati. Per Velázquez il vero tema di ogni quadro è l’istantaneità di una scena. Così in questa tela osserviamo un giovane e un anziano che parlano seduti a un tavolo mentre una donna è nell’atto di versare il vino. Le figure sembrano uscire dall’ombra, i loro gesti sono fermati, appunto, in un’istantanea e i volti denotano un accurato studio fisiognomico da parte del pittore. Questa scena di genere dà conto di un altro aspetto del Barocco: quello che ignora le “luci della ribalta” e che non va cercato nell’illusorietà di un finto infinito, ma nella finitezza dell’istante quotidiano. Il magnifico inserto di natura morta in primo piano permette di ricordare come quel soggetto abbia conquistato l’autonomia pittorica a inizio Seicento, in parallelo con quelle scoperte scientifiche (dal microscopio al cannocchiale) che aiutarono a guardare le cose con attenzione e comprensione del tutto nuove.

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Il contesto

Storia della lingua e fenomeni letterari

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La questione della lingua il dibattito sulla lingua nel secondo Cinquecento

Nel secondo Cinquecento il dibattito sulla lingua prosegue sulle linee fondamentali Filo rosso già tracciate nella prima parte del secolo: esse sono rappresentate dalla tesi di Bembo Storia della lingua sulla necessità di seguire il modello dei grandi scrittori fiorentini trecenteschi, da Tre soluzioni per quella sul primato del fiorentino attuale e vivo e da quella “cortigiana”, che accetta la lingua letteraria gli apporti di altre parlate regionali e fa riferimento all’uso delle corti, dove convergono letterati provenienti da diverse regioni. È una discussione che continua a mantenersi nell’ambito della lingua letteraria e a non considerare il problema di un’unità linguistica che si estenda alla lingua parlata comunemente. D’altronde la divisione politica della penisola in tanti Stati non consente di affrontare una simile esigenza, che si afferma solo quando si crea uno stato unitario nazionale. Leonardo Salviati Una figura di rilievo in queste discussioni tardo-cinquecentesche è quella di Leonardo Salviati (1540-89), uno dei fondatori dell’Accademia della Crusca ( Le accademie, p. 10). Egli riprende le posizioni di Bembo accentuandole, perché ritiene che a costituire un modello di lingua perfetta siano tutti gli scrittori del Trecento, non solo i grandi ma anche i minori e i minimi. È convinto infatti che in quel secolo tutti i fiorentini usassero una lingua pura, anche i non letterati, anzi che i letterati traessero i materiali linguistici per i loro scritti proprio dalla parlata del popolo. Ne deriva che lo scrittore potrà ricavare spunti anche dalla parlata fiorentina contemporanea, nella misura in cui essa conserva nell’uso orale tracce della perfezione originaria.

il dibattito nel Seicento Il fiorentino lingua pura L’Accademia della Crusca e il Vocabolario

La polemica cruscantianticruscanti

Alessandro Tassoni

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Nel Seicento si afferma, su questa linea, una corrente puristica, che cioè vuole stabilire un canone di lingua “pura” sulla base della tradizione fiorentina trecentesca. Tale corrente fa capo all’Accademia della Crusca ( Le accademie, p. 10), nata a Firenze nel 1585. La sua funzione principale era la pubblicazione del grande Vocabolario degli Accademici della Crusca, che apparve per la prima volta nel 1612 ed ebbe poi numerose edizioni successive, sino al Novecento. Nel vocabolario erano registrati tutti i termini dell’uso fiorentino trecentesco, dei grandi scrittori come dei minimi; venivano poi accolti esempi di scrittori cinquecenteschi che si fossero attenuti ai precetti di Bembo e ai modelli del Trecento, come Ariosto, che in tale direzione aveva modificato la redazione definitiva dell’Orlando furioso. Il dibattito secentesco sulla lingua ribadisce le posizioni delineatesi nel secolo precedente, ma si concentra soprattutto sulla polemica tra cruscanti e anticruscanti, a causa della risonanza assunta dall’attività dell’Accademia e dal vocabolario da essa pubblicato. Agli accademici rigorosamente puristici si contrappongono sia i sostenitori di una lingua italiana più aperta a vari apporti sia i propugnatori del modello fiorentino vivo. Tra gli anticruscanti va ricordato soprattutto Alessandro Tassoni, l’autore del poema eroicomico

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari

L’influenza dello spagnolo

La lingua e il gusto barocco

La secchia rapita ( cap. 2, A1, p. 68), che polemizza contro la pedanteria del Vocabolario in nome di un uso più moderno e più largamente italiano. Bisogna inoltre tener conto del fatto che l’uso rigorosamente puristico del toscano, propugnato dall’Accademia della Crusca, viene compromesso dall’immissione di altri materiali linguistici provenienti dalle lingue straniere. Poiché gli Stati della penisola avevano perso da tempo la loro autonomia ed erano sottoposti al dominio della Spagna, era inevitabile che si diffondessero forme lessicali ispirate allo spagnolo (di cui restano tracce oggi soprattutto al Sud). A contrastare la scelta del purismo cruscante agisce poi ancora il trionfante gusto barocco, con le sue posizioni anticlassicistiche, che ricercano l’irregolarità e la bizzarria, e che non mancano di riflettersi anche sugli usi linguistici, specie nel campo della letteratura.

il contesto storico L’uso del toscano e i dialetti

Il divieto di traduzione della Bibbia

Sarà opportuno rievocare a grandi linee il quadro in cui il dibattito si colloca. Non esiste ancora nell’Italia del Seicento una lingua nazionale usata effettivamente da tutti gli strati sociali in ogni momento della vita comune e su tutto il territorio della penisola. È ormai consolidato l’uso del toscano fra i ceti colti, ma è un uso prevalentemente scritto: anche i letterati e le persone colte, nella vita quotidiana, parlano i loro dialetti regionali, e solo in certe occasioni ufficiali o nel caso che si incontrino con persone provenienti da altre regioni sono costretti a usare l’“italiano” anche nella comunicazione orale. La Chiesa della Controriforma non agevolò certo la formazione di una lingua italiana unitaria e favorì la discriminazione tra i ceti in grado di leggere in latino e di scrivere nella lingua letteraria e il resto della popolazione, confinata nell’uso puramente orale della parlata locale. In Germania, al contrario, un poderoso impulso all’unificazione linguistica fu dato dalla traduzione in volgare, da parte di Lutero, della Bibbia,

Visualizzare i concetti

La questione della lingua Frammentazione politica italiana

Declino di Firenze

Gusto barocco per l’irregolarità

Controriforma

Frammentazione linguistica

Indebolimento del prestigio culturale del fiorentino

Introduzione di forestierismi

Rinnovata autorevolezza del latino

CriSi DeL moDeLLo bembiano (LinGua Di PeTrarCa e boCCaCCio)

“Purismo”

Letteratura dialettale

Recupero del fiorentino letterario trecentesco

Esigenza di esprimersi in una lingua “viva” e duttile

Vocabolario della Crusca (1612)

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

La ripresa della letteratura dialettale

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che, secondo gli orientamenti protestanti, doveva esser letta da tutti, in nome del principio del “libero esame”, cioè della libertà da parte di ogni fedele di interpretare i testi sacri. La Chiesa post-tridentina invece ne proibiva la lettura individuale, senza la guida superiore del clero, e quindi ne vietava ogni traduzione (e persino i letterati in grado di leggere il testo latino potevano farlo solo in seguito a un regolare permesso). Si voleva evitare, in nome di una concezione autoritaria e dogmatica, che il singolo credente potesse formarsi liberamente le proprie convinzioni accostandosi direttamente al testo sacro. Tutto questo ebbe incalcolabili ripercussioni sulla formazione del carattere nazionale nei paesi protestanti e in quelli cattolici, ma rilevanti furono anche le conseguenze sul piano linguistico: col divieto di traduzione della Bibbia veniva meno in Italia un formidabile strumento di promozione culturale di massa, oltre che di unificazione linguistica. La crisi politica, sociale, economica che caratterizza il secolo, favorisce inoltre il rafforzarsi di tradizioni locali e la ripresa dell’uso letterario dei dialetti. Finché il toscano non si era imposto come lingua unitaria della letteratura, ogni testo scritto faceva naturalmente riferimento alla parlata della regione, senza intenzioni polemiche verso gli altri dialetti. In seguito all’affermazione di una norma linguistica basata sul modello fiorentino, invece, scrivere in dialetto diviene una scelta anticonformista, spesso dettata da un’intenzione di distinzione polemica, o di affermazione di originalità, contro una lingua toscana sentita come artificiosa e affettata.

Forme e generi della letteratura del Seicento La lirica in italia

Marino

Chiabrera

Campanella

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Il napoletano Giovan Battista Marino ( cap. 1, A1, p. 32) soddisfa per primo sul piano letterario le diffuse esigenze di rinnovamento che segnano il passaggio all’età barocca. Fin dall’esordio, con la raccolta La lira, la sua poesia fortemente innovatrice supera l’equilibrio del canone petrarchesco attraverso uno stile che sperimenta modi più artificiosi (già introdotti in parte dal Tasso) e s’impone all’attenzione dei lettori sfruttando abilmente quel concetto della “meraviglia” che è alla base della sua poetica («È del poeta il fin la meraviglia»). L’uso sistematico di metafore e “concetti”, il controllo magistrale dell’apparato retorico e della musicalità del verso sono in sintesi le peculiarità stilistiche del verseggiare di Marino. Profonda è stata la sua influenza sulla produzione poetica del secolo, e non solo in Italia, dove fiorì una vera e propria schiera di imitatori, i cosiddetti “marinisti”, che portarono all’esasperazione le modalità tecniche e retoriche di Marino. Diversamente da lui, il savonese Gabriello Chiabrera ( cap. 1, A7, p. 44) si rivela meno sensibile alle potenzialità espressive del gioco metaforico e si concentra maggiormente sugli aspetti metrici, cercando di imitare le soluzioni adottate dai classici e in particolare dai poeti della tradizione erotica e bucolica. I contemporanei videro in lui un difensore della classicità, sottolineando la differenza rispetto a Marino, ma per la sua sperimentazione stilistica anche Chiabrera è un innovatore, che afferma l’esigenza di «trovar nuovo mondo o affogare». A sé va considerata l’esperienza potente e oscura del frate calabrese Tommaso Campanella ( cap. 1, A8, p. 47). La poesia diventa per lui uno strumento di conoscenza spirituale e conduce alla scoperta delle analogie che collegano la dimensione materiale della realtà terrena con l’elemento trascendente e metafisico che la anima. Per esprimere questa sua concezione profonda Campanella ha elaborato un linguaggio originale e denso, dal tono biblico e profetico, che ha i suoi precedenti nella Commedia dantesca.

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari

La lirica in Spagna e in inghilterra Il concettismo barocco raggiunse in Spagna risultati di singolare altezza e originalità con Luis de Góngora ( cap. 1, A9, p. 50) e Francisco de Quevedo (1580-1645), le cui opere esercitarono una grande influenza non solo sui contemporanei, ma sulla poesia simbolista del tardo Ottocento. Anche l’Inghilterra conobbe e sviluppò il linguaggio metaforico e immaginifico con William Shakespeare, John Donne (1572-1631) e i cosiddetti “poeti metafisici”. I loro componimenti, densi di concetti e di accostamenti ingegnosi, affrontano i grandi temi dell’esistenza umana, come l’amore, la morte, il tempo e il rapporto con il divino. Al loro stile si rifarà molta poesia anglosassone del Novecento, volta a cercare corrispondenze tra gli oggetti della realtà concreta e l’esperienza interiore.

Dal poema al romanzo

Le novità dell’Adone

La secchia rapita

La nascita di un nuovo genere: il Don Chisciotte

L’esaurirsi dell’ispirazione legata al poema epico e al poema cavalleresco, che nel Cinquecento avevano trovato nelle corti l’ambiente adatto alla loro fioritura (al tempo stesso registrando un’ampia diffusione presso il pubblico), conduce a una serie di decisive trasformazioni. Di questi precedenti generi l’Adone di Giovan Battista Marino ( cap. 2, T1, p. 59 e T2, p. 62) conserva l’impianto formale (l’uso dell’ottava narrativa e la lunghezza della narrazione, che supera i quarantamila versi), nel quale tuttavia immette contenuti nuovi. Il motivo della guerra è sostituito interamente da quello dell’amore che, a differenza di quanto era accaduto nell’Orlando innamorato di Boiardo e nell’Orlando furioso di Ariosto, non funziona come ricerca della donna amata, ma come assaporamento del piacere dei sensi, creando attorno a sé un’atmosfera di voluttuosa sensualità, su cui indugia con compiaciuta attenzione una narrazione più attenta al descrittivismo dei singoli episodi che alla continuità dell’azione. Formalmente rispettoso delle regole metriche abituali è anche il poema di Alessandro Tassoni, La secchia rapita ( cap. 2, T3, p. 69), che sottopone i contenuti eroici di un tempo a un processo di degradazione e di irrisione. Il “rapimento” di una volgare secchia, usata per attingere l’acqua da un pozzo, è il risultato della guerra, combattuta nell’età dei Comuni, fra i Modenesi e i Bolognesi, che, insieme con gli aspetti ridicoli del potere pubblico, sottolinea le stolte presunzioni degli ideali di gloria e di grandezza, rivelandone il carattere ridicolo, sgangherato e grottesco. Ne risulta un’operazione parodica, che, adattando le forme dell’epica alla rappresentazione di una realtà meschina, rientra nell’ambito di un genere preciso, il poema eroicomico. Ma i risultati più significativi del rapporto con le idealità che il presente aveva brutalmente cancellato (nelle guerre le armi da fuoco rendevano irrilevanti il coraggio e la forza dei singoli) andranno cercati in Spagna, dove in momenti distinti, entro il 1616, vengono pubblicate le due parti del Don Chisciotte di MiNicolas Poussin, L’ispirazione del poeta, 1630 ca., olio su tela, guel de Cervantes ( cap. 2, T4, Parigi, Musée du Louvre. p. 83; T5, p. 89; T6 p. 95), uno dei 21

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

capolavori assoluti della narrativa di ogni tempo e paese. Nato dalla polemica nei confronti dei poemi cavallereschi, che anche in Spagna avevano ottenuto nel Cinquecento una straordinaria fortuna, anche il Don Chisciotte è concepito come una loro parodia, ma l’invenzione va oltre la ripresa di un modello e abbandona decisamente la forma del poema per dare origine a un nuovo genere, quello del romanzo moderno, ossia di quel tipo di romanzo che, affermatosi in Inghilterra nel secolo successivo, verrà definito “borghese”, in quanto portatore di contenuti e di valori non più identificabili con quelli aristocratici di un passato eroico e galante.

il romanzo barocco e la novella La struttura del romanzo barocco

Il successo del romanzo

La poca fortuna della novella

Testi Basile • La Gatta Cennerentola da Lo cunto de li cunti

Assai diverso è il romanzo cosiddetto “barocco”, che, riprendendo la tradizione del romanzo d’avventura cavalleresco, si basa su un intreccio complicato, denso di vicende che vengono interrotte e riprese, per convergere verso l’esito risolutore. Entro una struttura labirintica, largo spazio è dedicato alle peripezie, agli incontri improvvisi, agli equivoci, alle agnizioni (ossia ai riconoscimenti imprevisti della vera identità dei personaggi). In questa ricerca dell’avventuroso e del romanzesco, prevalgono decisamente gli elementi meravigliosi e fantastici, una geografia favolosa e una storia fittizia, sia che l’ambientazione si collochi in un passato remoto sia che riguardi l’attualità. Se, nel Medioevo, il romanzo cortese era nato all’interno del mondo feudale, aristocratici sono anche gli ambienti in cui si sviluppa il romanzo secentesco. Frutto delle convenzioni dell’alta società, che ne costituisce anche il pubblico, queste opere ebbero uno straordinario successo, come nel caso del Calloandro fedele (1640-41) di Giovanni Ambrogio Marini (1614 ca.-1662), con cui il romanzo barocco tocca il culmine dei suoi riconoscimenti, e della Stratonica (1635) di Luca Assarino (1602-72), che ebbe almeno trentun edizioni nel corso del secolo. Minore fortuna incontra nel Seicento la novella, di cui si fa promotore lo stesso ambiente veneziano con la raccolta di Cento novelle amorose dei Signori Accademici Incogniti, pubblicata nel 1651. Tra i collaboratori c’è anche Maiolino Bisaccioni (15821663), autore a sua volta di una sequenza di sessantadue novelle raggruppate in quattro parti, che uscirono fra il 1637 e il 1664. Ma soprattutto è da ricordare Lu cunto de li cunti (1634-38; “Il racconto dei racconti”), raccolta di cinquanta novelle scritte da Giambattista Basile (1566-1632) in dialetto napoletano, in cui i riferimenti alla realtà sono ricondotti a soluzioni tipicamente fiabesche.

La trattatistica e la prosa storico-politica

Tesauro

Accetto

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Come nel Cinquecento la trattatistica di Castiglione, Della Casa e Bembo aveva illustrato aspetti fondamentali della vita e della letteratura del secolo, così nel Seicento emergono, in particolare, due testi, di cui sono autori Emanuele Tesauro e Torquato Accetto. Su un piano più propriamente letterario, una preminente attenzione merita Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro ( La voce dei testi, p. 13), che fornisce la più ricca strumentazione per indagare, attraverso la tecnica dell’utilizzo delle figure retoriche, la visione della realtà tipica del Barocco. Ma non solo dell’immaginario si tratta; soprattutto la metafora, posta al culmine della scala dei valori, assume una particolare funzione conoscitiva, in quanto consente di scrutare gli elementi del reale arricchendoli di inedite risonanze e cogliendone più in profondità i significati. Altrettanto importante, anche per comprendere gli aspetti meno vistosi della mentalità secentesca, è il trattato Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto ( cap. 3, A1, p. 109), che introduce una distinzione fra la volgare menzogna, ossia l’aperta proclamazione della falsità, e l’occultamento della verità, quando questa possa risultare sgradevole e offensiva. Al di là della giustificazione di carattere generale (in natura la rosa sbocciata «dissimula» la sua caducità), la dissimulazione ha le sue ripercussioni al livello della realtà e della coscienza: da un lato giustifica la finzione, che

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari

Sarpi

Bartoli

dell’arte barocca è una delle caratteristiche essenziali; dall’altro può difendere l’individuo dall’oppressione dei potenti ma anche favorirne l’opportunismo e l’inganno. Il frutto più importante della storiografia secentesca è rappresentato dall’Istoria del Concilio Tridentino di Paolo Sarpi ( cap. 3, A2, p. 111), una delle poche voci autonome che si levano nel pesante clima della cultura controriformistica, per cui l’uso della stessa documentazione storica si accompagna alla battaglia di un impegno militante. Contenuti polemici nei confronti delle istituzioni politiche e religiose hanno anche i Ragguagli di Parnaso scritti da Traiano Boccalini ( cap. 3, A3, p. 115), che, nell’ironia della finzione narrativa (si tratta di una serie di resoconti di fatti immaginari) attacca la falsità e l’arroganza del potere. Mentre continuano le relazioni geografiche e le testimonianze dei viaggiatori, una loro ampia sistemazione è contenuta nei volumi dell’Istoria della Compagnia di Gesù, in cui Daniello Bartoli ( cap. 3, A4, p. 119) ha illustrato usi e costumi di paesi lontani e poco noti, come la Cina e il Giappone. Al di là dell’intento celebrativo, Bartoli ha rivelato la non comune capacità – sulla base non di un’esperienza diretta, ma utilizzando fonti diverse – di comprendere la ricchezza di altre culture.

Galileo e la prosa scientifica L’abilità di Galileo scrittore

Procedimenti logici e gusto per il racconto

Una nuova pagina della letteratura si apre con Galileo ( cap. 5, p. 180), non solo uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, ma scrittore di raro valore ed efficacia. Con lui Francesco De Sanctis vedeva inaugurarsi l’epoca della «nuova scienza», il discorso va oltre i contenuti scientifici per riguardare l’eleganza e la proprietà di uno stile che indica con precisione i propri oggetti e sa condurre le proprie dimostrazioni facendo un uso brillante della tecnica argomentativa. Se anche i poeti barocchi mostravano un qualche interesse per le nuove invenzioni tecniche, i suggerimenti che ne ricavavano divenivano lo spunto per arditi accostamenti metaforici; la ricerca era quella dell’effetto-sorpresa, che invece, per Galileo, non è nelle parole ma nelle cose, nei sorprendenti risultati delle scoperte, nei procedimenti rigorosamente logici delle dimostrazioni. Questi coesistono, tuttavia, con un gusto del racconto e dell’aneddoto che si richiama a una ben riconoscibile tradizione toscana, fatta anche di cordialità e di ironia, ad esempio nella garbata e tuttavia stringente polemica nei confronti degli avversari. La lezione di Galileo, a difesa dell’indagine scientifica e della necessità di comunicarla attraverso una scrittura attenta e precisa nell’assecondare la descrizione dei fenomeni, verrà continuata a Firenze, come si è visto, dall’Accademia del Cimento ( Le accademie, p. 10).

La letteratura drammatica Shakespeare

In Inghilterra tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, sotto i regni di Elisabetta I (1558-1603) e Giacomo I (1603-26) si assiste all’intensa fioritura del cosiddetto “teatro elisabettiano”, di cui furono espressione autori particolarmente significativi come Christopher Marlowe (1564-93) e Ben Jonson (1572-1637), John Webster (1580-1625) e John Ford (1586-1640 ca.). Su tutti spicca però la straordinaria personalità di William Shakespeare ( cap. 1, A10, p. 53), che ne ha esaltato al massimo le caratteristiche, conferendo alla sua opera una sorprendente modernità di soluzioni. Shakespeare ha saputo giocare le sue carte sul piano della commedia, della tragedia e del dramma storico, con situazioni attinte dal passato e dalla contemporaneità, dal reale e dal fantastico puro, dalla storia e dal patrimonio superstizioso delle leggende. Dalla leggerezza dei toni delle commedie sa passare alla cupa rappresentazione del delitto e del male, con i suoi orrori e lo scatenarsi degli incubi, dei fantasmi interiori. Se riesce a far muovere sulla scena un grande numero di personaggi, al tempo stesso eccelle nella potente rappresentazione delle individualità dei protagonisti, sia nel feroce egoismo dei loro delittuosi disegni (si pensi a Riccardo III) sia nel tormentato dibattersi del dubbio, come in Amleto. 23

L’età del Barocco e della Nuova Scienza Racine

Molière

Calderón de la Barca

Della Valle

Se la scrittura di Shakespeare si espande liberamente, senza vincoli e costrizioni, le tragedie di Jean Racine ( cap. 4, A3, p. 132), che sostituirà il rivale Pierre Corneille (1606-1684) nei favori del pubblico parigino, seguono il rigore di un ordine preciso, sia sul piano dello stile elevato, sia su quello della struttura, rispettosa delle unità aristoteliche del teatro classico. Classica è anche la materia, che, desunta dalla mitologia, si propone di mettere in scena la fatalità di un destino – nella Fedra – portatore di pulsioni oscure e proibite. Anche il teatro comico di Molière ( cap. 4, A4, p. 137), che si avvale sia dei versi sia della prosa, si ispira alla tradizione classica (e alla commedia di Plauto in particolare), ma si addentra nel vivo della società del tempo, denunciandone le ipocrisie e la corruzione dei costumi. Particolarmente diffusa è anche la letteratura drammatica in Spagna, con le opere di Lope de Vega (1552-1635), autore di un grande numero di commedie dalle caratteristiche più diverse, e Tirso de Molina (1579-1648), famoso soprattutto per aver dato vita a una figura come quella di Don Giovanni, ripresa poi da Molière. Ma su tutte spicca la commedia La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca ( cap. 4, A2, p. 128), che mette in discussione la consistenza della realtà, incentrando la trama sull’inganno dei sensi e rivelando la precarietà di un’esistenza che solo il sogno sembra rendere accettabile, nella mancanza di punti stabili di riferimento e di legami affettivi autentici. Rispetto all’Inghilterra, alla Francia e alla Spagna, e ai capolavori scritti in quei paesi, il panorama della drammaturgia italiana appare più povero di opere valide e significative. Si possono ricordare, in proposito, l’Aristodemo, di Carlo de’ Dottori (1618-86), e soprattutto le tragedie di Federico Della Valle ( cap. 4, A1, p. 123). Due, Iudith ed Esther, sono di argomento biblico, mentre la terza, La reina di Scotia, deriva l’argomento dalla storia inglese recente, e in particolare dalla prigionia della protagonista, Maria Stuarda, fatta poi uccidere dalla regina Elisabetta. Riscoperte solo nel secolo scorso, presentano una particolare originalità e sincerità di accenti, che le isola nel panorama più generale della drammaturgia italiana del Seicento.

La festa di corte e altre esperienze teatrali Si è già accennato al cosiddetto “teatro dei gesuiti” ( I luoghi della cultura, p. 9), che – recitato nelle scuole ma anche nelle piazze – presenta evidenti scopi propagandistici e devozionali, oltre a proporsi di suggestionare lo spettatore con gli artifici della rappresen-

Giacomo Torelli, Cortile con villa, palagio delizioso, apparato scenico per l’opera La Venere gelosa, dramma di Niccolò Enea Bartolini su musiche di Francesco Paolo Sacrati, 1634, Fano (PU), Pinacoteca Civica.

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Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari Lo spettacolo della festa di corte

La favola pastorale

La “commedia dell’arte”

tazione. Ma soprattutto il gusto barocco per la parata, lo spettacolo, il gioco scenico e prospettico si esprime nello sfarzo della festa di corte, per la possibilità di dare vita a uno scambio continuo fra illusione e realtà. Non solo, ma nel suo allestimento e nella sua esecuzione concorrono le diverse arti (letteratura, musica, danza, pittura, apparati scenici), esaltando la finzione di una realtà insieme mutevole e sontuosa. In tale ambito, sulla scia di Tasso e di Guarini, si consolida ulteriormente il genere della favola pastorale, che oscilla fra evasione mitologica e riferimenti allegorici alla realtà del tempo. La commedia cinquecentesca, di impianto classico, viene abbandonata; al suo posto si va consolidando la “commedia dell’arte”, che, portata sulle scene da attori itineranti, riuniti in vere e proprie compagnie, avrà enorme fortuna anche all’estero. Due sono le novità sostanziali: l’uso delle maschere, attinte da specifiche tradizioni locali (Arlecchino, Pantalone, Pulcinella), che danno luogo a dei “tipi” fissi, e l’abbandono del testo scritto. Alle battute del dialogo viene sostituita una semplice trama, o canovaccio (i cosiddetti “scenari”), che consente una più libera interpretazione all’estro e al mestiere degli attori, trasformatisi ormai in autentici professionisti, capaci di improvvisare episodi e situazioni sulla base di schemi prefissati.

La nascita del melodramma Le origini del melodramma

Musica e recitazione

Il primo melodramma

In Italia, nel Seicento, nasce e si sviluppa il melodramma, inizialmente noto come “opera in musica” e oggi comunemente definito “opera lirica”. Si tratta di un genere del tutto nuovo, che congiunge tragedia e commedia (per lo sviluppo dell’intreccio drammatico), pittura (per le scenografie), danza, musica e poesia (per le parti liriche). La sua storia ha origini nel tardo Cinquecento, quando alcuni letterati e musicisti, riunitisi a Firenze attorno alla Camerata de’ Bardi (dal nome del mecenate, il conte Giovanni Bardi), si confrontano su questioni estetiche che interessano il rapporto tra musica e poesia. Questi intellettuali, tra cui Vincenzo Galilei (padre di Galileo), concordano sul fatto che la parola debba essere valorizzata il più possibile dal canto e non confusa da un coro di voci che rendeva incomprensibile il testo poetico. Teorizzano così la pratica della recitazione ritmica e intonata del “recitar cantando”, in cui la musica, che si deve esprimere attraverso melodie chiare e lineari, ha il solo compito di accrescere la potenzialità espressiva del verso poetico. È la ricerca di un linguaggio capace di esprimere gli affetti, ovvero le più profonde passioni dell’animo. I testi drammatici, di conseguenza, devono essere di forte pathos e presentare quella limpidezza espressiva necessaria alla nuova estetica musicale. Si ricorre al soggetto mitologico e lo si ingentilisce con elementi di acceso sentimentalismo; per raggiungere la massima chiarezza espressiva si recupera la lezione stilistica di Petrarca e il suo linguaggio dolce e piano. Dopo diverse prove di drammatizzazione musicale, più o meno riuscite, si giunge alla rappresentazione del primo melodramma della storia, l’Euridice, messo in scena a Firenze il 6 ottobre del 1600. Questo genere teatrale sarà perfezionato dal maggiore compositore del primo Seicento italiano, Claudio Monteverdi, autore dell’Orfeo (1607), tra le poche opere del secolo ancora oggi messe in scena con successo ( L’Opera lirica, p. 26).

facciamo il punto 1. Quale modello di lingua propone il Vocabolario della Crusca? 2. Perché in Italia nel Seicento stenta ad affermarsi una lingua nazionale? 3. Quali sono le caratteristiche formali e tematiche della lirica barocca? 4. Quale evoluzione subisce il poema epico nell’età barocca? 5. Quali generi in prosa sono più frequentati dagli autori nel corso del Seicento? 6. Quali innovazioni introduce Galileo nell’ambito del trattato di argomento scientifico? 7. Quali autori di teatro si sono distinti in Europa nel XVII secolo?

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L’OPERA LIRICA

L’Orfeo di Claudio Monteverdi

L’atto di nascita del melodramma Fino alla fine del Rinascimento, il melodramma non costituiva un genere né pienamente formato né, tanto meno, affermato nel panorama musicale: l’unione di un “libretto” e di una composizione in musica che lo accompagnasse stava attraversando quelle sperimentazioni fondamentali che porteranno all’elaborazione del melodramma. Se i primi tentativi proponevano una declamazione cantata, Claudio Monteverdi (1567-1643), maestro di cappella dei Gonzaga di Mantova, cercò da un lato di creare una linea melodica più snella e flessibile e contemporaneamente di considerare l’orchestra essenziale e parte integrante dell’opera: con Orfeo (1607) si pongono le basi compositive del nuovo genere. Con la fine del Cinquecento si assiste poi a un grande fermento musicale: intorno al 1580 nasce la Camerata fiorentina che riunisce poeti e compositori alla ricerca di un nuovo linguaggio musicale. I loro studi, che si rifanno al modello dell’antica Grecia, tendono a riscoprire la forza del testo nei confronti della musica e a ricercare un fraseggio musicale che non violi la parola ma, anzi, che a questa sia subordinato: è il “recitar cantando” dove la parola, per essere pienamente compresa dal pubblico, deve essere chiara e ritmata come nel discorso parlato e per questo l’accompagnamento si risolve in pochi accordi. Il primo risultato importante di queste ricerche è costituito dall’Euridice – il mito di Orfeo era già stato ripreso in età umanistica da Angelo Poliziano –, rappresentata a Firenze nel 1600, di Jacopo Peri (1561-1633) su testo di Ottavio Rinuccini (1562-1621), celebrato poeta dell’epoca che, nelle composizioni drammatiche destinate a essere musicate, puntò sull’espressività della voce umana.

Subito dopo aver assistito alla prima rappresentazione di quest’opera, considerata la prima nella storia del melodramma, il duca di Mantova incaricò Monteverdi di scriverne una che potesse destare uguale meraviglia: il soggetto prescelto fu ancora l’antico mito greco di Orfeo che esalta proprio il potere della musica. L’opera, andata in scena per la prima volta durante il carnevale mantovano del 1607 presso l’Accademia degli Invaghiti, ebbe subito grande successo e venne replicata quasi sicuramente a Milano, Cremona, Torino e Firenze come esempio alto di musica di corte. La figura di Orfeo appartiene alla mitologia greca: è il cantore per eccellenza, colui che con la dolcezza delle sue melodie animava le pietre e ammansiva gli animali feroci. Egli è anche l’inventore della cetra e dunque incarna l’ideale della poesia congiunta con la musica. La vicenda che più attrasse poeti, tra cui Virgilio e Ovidio, e pittori fu quella che vede Orfeo sposo felice di Euridice straziato per la morte di lei, morsicata da una serpe mentre veniva inseguita dal pastore Aristeo. Orfeo discende agli

La genesi e la struttura dell’Orfeo

Camillo Pacetti, Orfeo trae Euridice dall’Averno, XIX secolo, terracotta, Milano, Galleria d’Arte Moderna.

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Inferi per riavere Euridice e gli dèi infernali sono commossi e rapiti dal suo canto: gli permettono pertanto di riportare la sposa nel mondo dei vivi purché non si volti a guardarla finché non abbiano lasciato il regno infernale. Orfeo però non resiste al desiderio di vederla e così la perde per sempre. Da quel momento in poi ripudierà l’amore e le donne e, per questo, morirà dilaniato dalle Baccanti, seguaci del dio Bacco. La favola di Orfeo viene organizzata da Alessandro Striggio (1573-1630) – librettista che comprende meglio di Rinuccini le necessità teatrali di un’opera lirica – in un prologo e cinque atti. Il prologo è affidato alla Musica che, diventata personaggio vero e proprio, prima si presenta e poi annuncia il soggetto con voce da soprano: «Io la Musica son, ch’a i dolci accenti / so far tranquillo ogni turbato L’Orfeo di Claudio Monteverdi con la regia di core, / et or di nobil ira et or d’amore / posso infiamMichael Boyd e la conduzione di Christopher mar le più gelate menti». Moulds, Londra, The Roundhouse, Diversamente dal tradizionale finale tragico, però, 12 gennaio 2015. l’opera monteverdiana termina, come già quella di Peri, con Orfeo che ottiene da Apollo l’immortalità e la possibilità di ascendere al cielo: «Nel sole e ne le stelle / vagheggerai le sue [di Euridice] sembianze belle» canta Apollo prima del festoso coro che conclude l’opera. un nuovo modello di recitativo La vicenda, nell’Orfeo e in ogni opera, si organizza attraverso momenti musicali contemplativi (le “arie”) in cui il personaggio descrive se stesso o la sua condizione (come l’aria del primo atto in cui Orfeo esprime la sua gioia e il suo amore per Euridice), interventi del coro (che qui spesso, come nella tragedia greca, commenta la vicenda) e sinfonie, come quella iniziale, in cui l’orchestra è protagonista. I recitativi sono invece quelle parti che si trovano tra le arie e i cori (detti anche pezzi chiusi) in cui si svolge l’azione: i personaggi interagiscono tra loro e la declamazione si modella sul testo senza la struttura musicale rigida che invece sta alla base di tutte le altre composizioni. Monteverdi introduce però un nuovo modello di recitativo che cerca di superare la rigidità per raggiungere una declamazione più drammatica, melodica e naturale: questa nuova concezione viene denominata dal compositore “parlar cantando”. La musica scaturisce dalla parola e prende vita dal testo poetico pur non essendone succube: recitazione e canto non sono più nettamente divisi ma si compenetrano in un rapporto equilibrato e perfetto, come il recitativo in cui la Messaggera racconta la morte di Euridice. Monteverdi, insomma, «non s’appaga come Peri di conseguire nella declamazione tragica la notazione esatta del discorso parlato, ma vuol tradurre l’emozione espressa dalle parole, fare della modulata vocalità un’espressione dell’anima» (Capri). L’intensità drammatica è sottolineata da Monteverdi anche con la scelta degli strumenti e dei loro timbri: l’orchestra nell’Orfeo consta di un organico molto vasto – in questo melodramma sono impiegati quasi quaranta strumenti: viole, violini, trombe, tromboni, organi e strumenti più particolari come i cornetti e l’arpa – utilizzato in varie combinazioni che incorniciano la vicenda e ne accrescono il pathos.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Ripasso visivo

L’eTÀ DeL baroCCo e DeLLa nuoVa SCienza (1600-99)

PoLiTiCa, eConomia e SoCieTÀ

• nella guerra dei Trent’anni (1618-48) si scontrano vecchie e nuove potenze:

- Impero asburgico e regno di Spagna - Francia, olanda, Inghilterra • la pace di Westfalia (1648) stabilisce: - la fine del dominio asburgico sull’europa - il principio della tolleranza religiosa • Francia, Inghilterra e Olanda guidano la trasformazione politica ed economica dell’europa • nei Paesi del Nord nasce una borghesia attiva e intraprendente • l’Italia vive un periodo di forte crisi economica a causa dello spostamento delle rotte commerciali • la Repubblica di Venezia mantiene il suo ruolo di centro di elaborazione culturale

CuLTura e menTaLiTÀ

• si scontrano i princìpi della Riforma

e della Controriforma • l’intellettuale è ancora attivo nelle corti • gran parte dell’organizzazione della cultura passa attraverso l’opera dei gesuiti • le nuove Accademie forniscono occasioni di confronto agli intellettuali • in ambito letterario il Barocco si caratterizza per • le attività editoriali sono ostacolate dalla censura e dalle restrizioni • si affermano la teoria eliocentrica e il metodo scientifico di Galilei

- accademia della crusca - accademia degli Incogniti - accademia dei lincei - accademia del cimento - l’allontanamento dai princìpi della letteratura rinascimentale - la contaminazione di modelli espressivi - la curiosità per gli aspetti insoliti della realtà - la ricerca della «meraviglia» - l’uso sistematico e arguto di analogia, metafora, concetto

LinGua e LeTTeraTura

• viene pubblicato il primo Vocabolario dell’accademia della crusca: - modello: gli autori fiorentini del trecento - rifiuto di ogni innovazione o influenza straniera (“purismo”) • i generi di maggior successo in Italia sono: PoeSia • lirica (concettista e marinista) • poema eroicomico e mitologico

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ProSa • storiografia • trattatistica di argomento politico • prediche e orazioni religiose • dialogo platonico di argomento scientifico • romanzo • novelle e fiabe TeaTro • tragedia • melodramma • commedia dell’arte

In sintesi

L’eTÀ DeL baroCCo e DeLLa nuoVa SCienza (1600-99) Verifica interattiva

La SToria PoLiTiCa e La SiTuazione eConomiCa al declino della Spagna e all’ascesa della Francia di luigi XIV, il re Sole, si accompagna l’affermarsi di nuovi stati, come i Paesi Bassi e soprattutto l’Inghilterra, che avvia la trasformazione in senso parlamentare delle sue istituzioni politiche. In Italia Milano e Napoli restano sotto il governo spagnolo. conservano la loro indipendenza il Piemonte (che prende parte alla guerra del Monferrato), la repubblica di Venezia (che vede indebolirsi la propria potenza) e lo Stato Pontificio. la crescita dei Paesi Bassi e dell’Inghilterra è dovuta in particolare alle attività commerciali, che, dopo le grandi scoperte geografiche, si sviluppano ormai prevalentemente lungo le rotte oceaniche. Perdono quindi importanza i porti italiani, segnando il declino delle vecchie repubbliche marinare di genova e Venezia. Nei paesi del Nord la libertà dei commerci dà vita a una borghesia particolarmente attiva e intraprendente, mentre in Italia, con la decadenza delle città, si assiste a un processo di rifeudalizzazione dei rapporti sociali.

Le aCCaDemie Se l’accademia della crusca si preoccupava di dare una disciplina normativa allo statuto della lingua letteraria, l’accademia dell’arcadia, fondata nel 1690, eserciterà la sua influenza soprattutto sulla letteratura settecentesca. Spiriti anticonformistici e ribelli sono quelli che si respirano nell’accademia degli Incogniti a Venezia, nata intorno al 1630, i cui membri si esercitano soprattutto nel romanzo e nella novella. grande importanza avranno anche le accademie scientifiche, tra cui l’accademia dei lincei, fondata nel 1603 da Federico cesi. lo straordinario e decisivo impulso dato da galileo a quella che verrà chiamata la “nuova scienza” offrirà le motivazioni per la costituzione dell’accademia del cimento, nata nel 1657, che porterà avanti la lezione della ricerca basata sul metodo sperimentale.

La riVoLuzione fiLoSofiCo-SCienTifiCa Si è potuto definire il Seicento come il secolo della “rivoluzione scientifica” grazie ai progressi compiuti dalle varie scienze (matematica, fisica, chimica, scienze naturali, medicina). È soprattutto l’astronomia a ottenere i risultati più significativi, per i fondamentali contributi portati da Newton, Keplero e galileo. Quest’ultimo, in particolare, ha messo a punto il metodo della ricerca sperimentale che, fondata sull’esperienza, trova la sua verifica nella dimostrazione matematica. ad essere rivoluzionato è anche il sapere filosofico, che per galileo è inscindibile dalla conoscenza matematica, e che già ave-

va avuto la formulazione più autorevole nel pensiero razionalista di cartesio. Bacone è stato il primo a mettere in discussione il sapere filosofico classico, ritenuto non più in grado di spiegare la realtà ormai mutata e a garantire il progresso della conoscenza.

iL baroCCo neLLe arTi e neLLa LeTTeraTura Il Barocco è la tendenza che ha caratterizzato le esperienze artistico-letterarie del XVII secolo, prendendo le distanze dall’esperienza del rinascimento. rifiutandone il senso dell’equilibrio e della misura, le arti figurative privilegiano la linea curva e sinuosa, i violenti contrasti chiaroscurali, gli effetti prospettici e la visione in profondità. anche nell’architettura le linee flessuose e le variazioni delle prospettive moltiplicano i punti di vista e suggeriscono visioni molteplici e cangianti, che, negli edifici religiosi, accentuano gli effetti di maestosità e imponenza, volti a celebrare la grandezza e il prestigio della chiesa. anche la letteratura si allinea a questa ricerca espressiva, ponendo al vertice dei valori la ricerca della “meraviglia”, con gli effetti di stupore e sorpresa che ne derivano. a teorizzarla è stato giovan Battista Marino, capostipite di un’intera generazione di poeti, dal suo nome detti “marinisti”. I poeti barocchi giocano sulle possibilità combinatorie del linguaggio, privilegiando la figura retorica della metafora, che, avvicinando fra di loro concetti e immagini di origine diversa, mira a produrre effetti sorprendenti. a essere rifiutato è il principio rinascimentale dell’imitazione; all’imitazione di Petrarca, in particolare, si sostituiscono l’emulazione e la variazione, che portano alla ricerca di inedite dimensioni figurative ed espressive.

SforTuna e forTuna DeL baroCCo Ben presto, a partire dall’accademia dell’arcadia, si è determinata una decisa reazione nei confronti della poesia barocca, con cui sembrava essersi perduto, con il senso dell’equilibrio e della misura, il controllo della ragione. la scelta dell’artificio e il carattere intellettualistico erano considerati come un imbarbarimento del gusto letterario. la situazione muta tra otto e Novecento quando, venute meno le certezze del Positivismo e la fiducia nel progresso scientifico, si vide nel Barocco quasi un’anticipazione delle moderne soluzioni espressive, segno anche di una crisi della coscienza nata dalla sfiducia nella ragione.

forme e Generi giovan Battista Marino è il capofila della lirica barocca, che si propone di suscitare un effetto di “meraviglia”; la

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

novità consiste nell’impiego di un linguaggio metaforico, ricco di concetti e di immagini inusitate, che diventerà la caratteristica principale della poesia dei suoi seguaci, i cosiddetti “marinisti”. Nell’ambito del Barocco europeo occorre segnalare in Inghilterra la poesia di William Shakespeare e, per la Spagna le liriche di luis de góngora. al di fuori propriamente della poesia barocca sono da collocare la musicalità dei versi di gabriello chiabrera e l’arduo dettato filosofico delle poesie di tommaso campanella. Il risultato più significativo del gusto barocco in Italia è l’Adone di Marino, poema mitologico che sostituisce al tema della guerra quello dell’amore fra il protagonista e Venere. l’esaurirsi dell’ispirazione epica porta all’irrisione dei valori eroici, oramai usurati e stereotipati, dando luogo a un poema eroicomico come La secchia rapita di alessandro tassoni. Ma l’opera più innovatrice è senza dubbio il Don Chisciotte di Miguel de cervantes, che, partendo anch’esso da una parodia della letteratura cavalleresca, introduce alle future prospettive del romanzo moderno. assai diverso è il romanzo barocco, che, riprendendo la tradizione del romanzo cavalleresco, si basa su intrecci complicati, densi di intrighi e di colpi di scena. Meno praticata fu la novella, di cui si ricorda la raccolta in dialetto napoletano Lu cunto de li cunti di giambattista Basile (1566-1632). la più importante opera della storiografia secentesca è l’Istoria del Concilio Tridentino, concepita con un intento polemico nei confronti della chiesa da Paolo Sarpi. Fondamentali per comprendere i gusti e le concezioni del secolo sono i trattati Della dissimulazione onesta di torquato accetto, che si sofferma sul rapporto fra verità e menzogna, e Il cannocchiale aristotelico di emanuele tesauro (1592-1675), che fa della metafora uno strumento privilegiato di conoscenza. galileo, con cui si inaugura il metodo moderno della ricerca sperimentale, non è stato solo uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi; notevoli sono anche le sue

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capacità di scrittore, che si rivelano soprattutto nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano. I più significativi risultati della letteratura drammatica vanno cercati al di là delle alpi. In Inghilterra, domina incontrastata la personalità di William Shakespeare, autore di commedie (notevoli per la pittura dei sentimenti) e di tragedie in cui il problema del male e la crudeltà del potere sono oggetto di grandiose rappresentazioni. In Spagna va segnalata l’esperienza di Pedro calderón de la Barca, il cui capolavoro, La vita è sogno, introduce il motivo dello scambio fra illusione e realtà. grande importanza ha il teatro in Francia, sia per quanto riguarda la modernità delle commedie di Molière sia per il recupero della tragedia classica da parte di Jean racine. Più marginale appare la situazione del teatro italiano, anche se non va dimenticata la figura di Federico della Valle. tra le altre forme di spettacolo segnaliamo il teatro dei gesuiti, la festa di corte, la commedia dell’arte e il melodramma.

La queSTione DeLLa LinGua Il dibattito cinquecentesco sulla lingua letteraria aveva decretato il successo della soluzione bembiana, che imponeva il modello del fiorentino trecentesco. la diffusione di questa proposta viene ostacolata dalla frammentazione politica della penisola e dalla diminuzione degli scambi culturali tra le varie corti, oltre che dalla scelta controriformistica di usare il latino come lingua ufficiale della liturgia e dell’insegnamento. Nel 1612 viene pubblicato il primo Vocabolario dell’Accademia della Crusca, che offre per la prima volta un repertorio completo dei termini del fiorentino letterario, basato sugli autori del trecento. Nasce uno scontro tra coloro che si oppongono a un modello ideale di lingua bloccato nel tempo e coloro che difendono la tradizione linguistica trecentesca contro ogni tipo di innovazione e influenza straniera (atteggiamento del “purismo”).

Capitolo 1

La lirica barocca

1 Marino

I poeti “marinisti”

La rappresentazione della figura femminile

Il rifiuto del petrarchismo

La lirica in Italia L’indiscusso capofila della lirica barocca è Giovan Battista Marino ( A1, p. 32), autore non solo del poema più significativo del secolo XVII, l’Adone, ma di una raccolta poetica, La lira (edizione definitiva 1614), che inaugura una nuova stagione di poesia, prendendo decisamente le distanze dalla tradizione petrarchesca precedente. Il carattere innovativo e sperimentale della raccolta consiste nell’impiego di un linguaggio metaforico, ricco di concetti e di immagini iperboliche, o comunque eccentriche, che diventeranno la caratteristica principale della poesia secentesca, nella maggior parte dei suoi numerosi esponenti, i cosiddetti “marinisti”. La raccolta successiva, La galeria è dedicata alla descrizione di opere d’arte, accompagnando l’elemento visivo alla ricerca di quella musicalità che risulta una costante nell’opera di Marino. Con lui comincia a intravedersi quel rapporto fra i linguaggi estetici (della poesia, delle arti figurative, della musica) che sarà una delle caratteristiche della poesia moderna. I “marinisti” riprendono e intensificano l’uso di un linguaggio poetico particolarmente ricco di effetti verbali, portando talora all’esasperazione il repertorio delle immagini poetiche e il gioco di parole sul quale si fonda l’espressione, che cerca di indagare gli aspetti inediti del reale. A unire tutti questi testi è la ricerca della “meraviglia”, teorizzata da Marino e ottenuta attraverso l’uso di un linguaggio metaforico volto a produrre, grazie alla combinazione dei molteplici artifici, effetti variamente coniugati di stupore e di sorpresa. Insieme con la metafora compare un ricco uso di altre figure retoriche, come le antitesi, gli ossimori, le iperboli, alla ricerca difficile e non di rado astrusa del concetto raro e prezioso, dell’esasperato e imprevisto gioco di parole. A essere rifiutato era il petrarchismo cinquecentesco, fondato sul modello omogeneo e monolonguistico di Petrarca; al contrario, il poeta barocco tende alla variazione, a una varietà capace di esercitarsi su tutte le situazioni e le componenti delle cose, anche quelle più inconsuete e sino ad allora non praticate. Così, rispetto alla stereotipata immagine proposta dal petrarchismo, i poeti barocchi celebrano ad esempio la figura femminile in una gamma d’aspetti incomparabilmente più ampia e complessa. Non solo la donna bionda è oggetto di attenzione, ma la donna bruna (Loda una chioma nera di Marcello Giovanetti), la donna rossa (Chioma rossa di bella donna di Giovan Leone Sempronio), la donna brutta (Brutta donna adorna di gran gioie di Ludovico Tingoli), e via via la donna vista nelle più disparate condizioni (Bella natatrice [nuotatrice] e Bella balbuziente di Scipione Errico). Dal motivo ampiamente sfruttato delle finzioni femminili (Per le cappelliere postizze di Giacomo Lubrano, Bella donna si fa nèi posticci nel volto di Andrea Petrucci) si passa alla donna soggetta al trascorrere del tempo e allo sfiorire delle bellezza (Non lascia d’amare la sua donna bench’ella invecchi di Paolo Zazzaroni, Lidia invecchiata vuol parer giovane di Ciro di Pers). Si giunge così 31

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Autori e tematiche

Chiabrera

L’esperienza isolata di Campanella

A1 Le prime poesie Il soggiorno a Torino

Parigi

Testi Marino • Frutti di mano di una Donna dalla Galeria

Gli ultimi anni

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a una ricerca sempre più decisa dello stravagante e del repellente (Bella giovinetta morta di vaiuoli del Sempronio), fino al compiacimento sadico (La bella frustata di Gian Francesco Maia Materdona). I sonetti che qui proponiamo toccano alcuni aspetti tipici di questo genere, dalla poesia galante del “maestro” Giovan Battista Marino ( A1) a quella encomiastica del testo di Claudio Achillini (Sudate, o fochi, a preparar metalli, T2, p. 35). L’interesse per il meccanismo dei congegni tecnici si avverte in Orologio da rote di Ciro di Pers ( T5, p. 41), mentre il motivo della crudeltà compare in Bella donna presente a spettacolo atrocissimo di giustizia di Marcello Giovanetti ( T3, p. 37); bizzarra esercitazione sul motivo delle attrattive femminili è nella soluzione certo inconsueta, in un senso nettamente antipetrarchesco, di Sembran fere d’avorio in bosco d’oro di Anton Maria Narducci ( T4, p. 39); chiude la breve rassegna, come esempio del marinismo meridionale, Per l’està secchissima del 1680 di Giacomo Lubrano ( T6, p. 42), sonetto incentrato sulla calura soffocante che nella stagione estiva sembra incendiare la natura. Solo in parte la ricerca barocca tocca la produzione poetica di Gabriello Chiabrera ( A7, p. 44), che tuttavia sottolinea un forte bisogno di novità, cercata non nelle arditezze tematiche e retoriche ma in una tradizione che comporta anche un certo recupero del linguaggio petrarchesco. Il suo è soprattutto uno sperimentalismo metrico che, ispirandosi al classicismo dell’antica poesia erotica, raggiunge nelle agili strofe delle canzonette risultati di suggestiva cantabilità. Appartata si configura l’esperienza lirica di Tommaso Campanella ( A8, p. 47), che va collocata tra gli esiti più alti e persuasivi della poesia italiana del secolo. Una profonda ispirazione filosofica dà vigore alla sofferta componente autobiografica, che, nata da una drammatica esperienza di vita, si esprime nelle forme di un dettato duro e spigoloso, a cui non è estraneo il grande esempio della poesia dantesca.

Giovan Battista Marino La vita Nato a Napoli nel 1569, fu al servizio di vari signori ma dovette abbandonare la città natale per evitare una condanna dovuta alla falsificazione di documenti. Soggiornò poi a Roma (1600-06) e a Ravenna (1606-08) presso il cardinale Pietro Aldobrandini. Nel 1602-03 aveva intanto pubblicato le prime due parti delle Rime, raccolte insieme a una terza parte, nel 1614 con il titolo La lira ( T1, p. 34). Si trasferì poi a Torino alla corte di Carlo Emanuele I di Savoia, dove ebbe una violenta contesa con il poeta genovese Gaspare Murtola, autore del poema La creazione del mondo. Le invettive che si scambiarono i due poeti furono raccolte nelle “fischiate” della Murtoleide e nelle “risate” della Marineide. Ma la contesa trascese, dal piano letterario, a quello personale; esasperato, il Murtola attentò alla vita dell’avversario, ferendo gravemente un giovane che si trovava al suo fianco. Nel 1611 Marino trascorse alcuni mesi in carcere, per motivi rimasti oscuri. Abbandonata Torino nel 1615, si recò a Parigi, dove ottenne un clamoroso successo, consacrando definitivamente la sua fama. Il soggiorno francese coincise con la revisione e la pubblicazione della maggior parte delle opere: le Dicerie sacre (1618), raccolta di prose dedicate rispettivamente alla Pittura, alla Musica e al Cielo; La galeria (1619), descrizione in versi di opere d’arte; La sampogna (1620), comprendente otto idilli favolosi e quattro pastorali; il poema mitologico Adone (1623, cap. 2, p. 58). Raggiunto, soprattutto per merito di quest’ultimo, il culmine della celebrità, Marino rientrò in Italia, ottenendo trionfali accoglienze a Torino, Roma e Napoli, dove morì poco dopo, nel 1625.

Capitolo 1· La lirica barocca La poetica della “meraviglia”

Uno stile vario che punta a stupire

Testi Marino • Sonetto dedicato ai biondi capelli della sua donna • Amori di pesci dalla Lira

La galeria

Le prose

La poetica e le opere minori Giovan Battista Marino è il principale artefice della diffusione, nella letteratura italiana, del gusto barocco, fondato su una nuova poetica: la poetica della “meraviglia”, secondo la formulazione che ne ha fornito lo stesso autore nella Murtoleide («È del poeta il fin la maraviglia; / parlo dell’eccellente, e non del goffo; / chi non sa far stupir vada a la striglia»). Lo stretto legame fra “eccellenza” e “stupore” guida lo sperimentalismo dell’autore, che si dichiara a favore di una poesia capace di catalogare ed esprimere, innanzitutto, i molteplici aspetti del reale. Di qui un superamento del petrarchismo, sostanzialmente omogeneo e riferito a una realtà ben definita e selezionata, che non significa tanto rifiuto o negazione, ma arricchimento di possibili capacità espressive, ottenute attraverso le tecniche della variazione e della contaminazione. Con assoluta disinvoltura, Marino passa dal sublime al comico, dallo stile encomiastico a quello satirico, dalla devozione all’invettiva. La sua esperienza appare direttamente finalizzata a un successo capace di scuotere la cosiddetta “svogliatura” del secolo, l’interesse di un pubblico ormai prevalentemente rivolto alla ricerca di sensazioni inedite. Su questi princìpi si basa anche il rifiuto delle regole, come scrive Marino stesso in una lettera del 1624: «Intanto i miei libri, che sono fatti contro le regole, si vendono dieci scudi il pezzo a chi ne può avere; e quelli che son regolati, se ne stanno a scopar la polvere delle librerie». Su questo difficile equilibrio si basa la sua opera letteraria; non tanto importa, a ben vedere, la qualità del contenuto, quanto la possibilità di ricavare dal linguaggio stupefacenti effetti di impreviste sorprese. Se La lira appartiene solo parzialmente alla poetica barocca, al nuovo gusto meglio risponde La galeria, che, sin dal titolo, allude all’esigenza di una catalogazione enciclopedica del reale, nei modi di una sontuosa raccolta di arte figurativa (le sezioni della raccolta sono in parte dedicate a quadri o statue celebri, di cui Marino era in proprio collezionista). Anche le prose si prestano a registrare gli esiti verbali sorprendenti, in cui la parola prevale nettamente sui contenuti, disponendosi secondo il gusto delle analogie, delle assonanze, delle simmetrie, delle catene verbali sorprendenti.

Il virtuosismo di Bernini Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1623, marmo, part., Roma, Galleria Borghese.

Il gruppo marmoreo realizzato da Gian Lorenzo Bernini nei primi anni della sua lunga carriera artistica rappresenta il momento più drammatico della favola ovidiana di Apollo e Dafne. La fanciulla, al tocco del dio innamorato, perde le sembianze umane e si trasforma in una pianta di lauro. L’abilità tecnica del Bernini, enfant prodige, cresciuto nella bottega del padre Pietro, noto scultore manierista, tocca punte di altissimo virtuosismo nei passaggi in cui con maggior forza si esplicita la metamorfosi: la pelle che diviene corteccia, mani e capelli che si mutano in foglie. La tensione che percorre il gruppo, gli effetti drammatici, la varietà dei dettagli e le diverse sfumature che animano la superficie del marmo, fecero da subito gridare al capolavoro e l’opera del Bernini divenne una delle più note raffigurazioni della triste favola d’amore. Nei medesimi anni lo stesso soggetto affascinava in gara virtuosa i pittori e i letterati, tra cui Giovan Battista Marino, che nel sonetto La Trasformazione di Dafne in Lauro descrive con analogo gusto per la meraviglia proprio quei passaggi tradotti in marmo dal Bernini: «Vede il bel piè radice, e vede (ahi fato!) / che rozza scorza i vaghi membri asconde, / e l’ombra verdeggiar del crine aurato».

33

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

T1

Giovan Battista Marino

Temi chiave

Donna che si pettina

• la rivitalizzazione di una metafora

dalla Lira

• la bellezza femminile e la presenza

petrarchista di Amore

La figura femminile è colta qui nel momento della toeletta.

> Metro: sonetto; schema delle rime ABBA, ABBA, CDC, DCD.

4

Onde dorate, e l’onde eran capelli, navicella d’avorio1 un dì fendea; una man pur2 d’avorio la reggea3 per questi errori4 preziosi e quelli;

8

e mentre i flutti tremolanti e belli con drittissimo solco dividea, l’or de le rotte fila5 Amor cogliea, per formare catene a’ suoi ribelli6.

Audio

11

Per l’aureo mar, che rincrespando apria il procelloso7 suo biondo tesoro, agitato il mio core a morte gia8.

14

Ricco9 naufragio, in cui sommerso io moro, poich’almen fur ne la tempesta mia10 di diamante lo scoglio11 e ’l golfo d’oro.

1. navicella d’avorio: il pettine, fatto di una materia preziosa come l’avorio. 2. pur: anch’essa. 3. reggea: governava, ne guidava il corso. 4. errori: movimenti, nel senso etimologico

di “errare”, “andare vagando”. 5. l’or … fila: i fili d’oro dei capelli spezzati. 6. formare … ribelli: incatenare coloro che si ribellano alla tirannia di Amore. 7. procelloso: tempestoso.

8. gia: andava. 9. Ricco: prezioso. 10. fur … mia: furono nella tempesta della mia passione amorosa (riprende il precedente procelloso). 11. scoglio: metafora dell’elemento che ha provocato il naufragio, di non facile identificazione; potrebbe riferirsi al pettine o alla mano d’avorio o genericamente a un’imprecisata indicazione della bellezza della donna, insensibile all’amore; più chiaro il successivo golfo, sineddoche del mare, a indicare, in una prospettiva più circoscritta e raccolta, i capelli d’oro. Resta il fatto che sul senso logico prevale la componente rappresentata dalle qualità dei riferimenti a una realtà rara e preziosa.

Analisi del testo La metafora marina

Il tema amoroso

Amore e morte

34

L’immagine dei «capelli» della donna amata, codificata da una secolare tradizione letteraria approdata al petrarchismo cinquecentesco, subisce qui una variazione profonda, coinvolgendo il sonetto in un gioco metaforico ricco di risonanze: i capelli, appunto, paragonati alle «onde» del mare, «dorate» nel gioco della trasposizione delle luci e dei colori; il pettine, che diventa una «navicella d’avorio», sapientemente pilotata dalla mano femminile (anch’essa, per corrispondenza parallela, «d’avorio»); ancora il vagare (gli «errori») nei «flutti», solcati e divisi dalla scriminatura del pettine. Proseguendo, a metà della seconda quartina, la metafora marina chiama in causa la tematica amorosa, quasi innestandosi in essa: Amore che trasforma i capelli in catene, nelle quali l’amante resta imprigionato, travolto quasi da quel mare «procelloso» che lo conduce alla «morte». È la declinazione, qui in un senso fortemente metaforico, del consueto tema amore e morte, che tuttavia perde ogni drammaticità, risolvendosi in un «naufragio» che placa la «tempesta» nei preziosi elementi, in chiasmo, dell’ultimo verso: «di diamante lo scoglio e ’l golfo d’oro». L’univoca continuità dell’abile sequenza metaforica esalta così la fittissima concatenazione delle immagini, che gioca sugli effetti di realtà rare e preziose.

Capitolo 1· La lirica barocca

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Illustra, in modo schematico ma consequenziale, la concatenazione delle immagini presenti nel sonetto. AnALizzAre

> 2. In quali punti del sonetto e in che modo viene rappresentato l’io lirico? > 3. Stile Quale tipo di rima determina il sostantivo «oro» (v. 14)? > 4. Lessico Quale richiamo lessicale conferisce al sonetto una struttura ad anello? ApprofonDire e inTerpreTAre

> 5.

esporre oralmente Con quale atteggiamento Marino riutilizza il materiale poetico tradizionale? Nel rispondere oralmente (max 3 minuti), soffermati ad esempio sulla metafora petrarchista dei capelli biondi come «onde dorate», oppure sulla personificazione di Amore, sulle «catene» per coloro che si ribellano alla sua tirannia, sull’andare «a morte» del cuore in tumulto, sull’immagine del naufragio e della tempesta.

per iL reCupero

> 6. Individua nella poesia tutti i termini che evocano una sensazione di movimento; si tratta di una presenza rilevante?

Testi Achillini • Bellissima spiritata dalle Poesie • Paesaggio di donna dalle Rime e prose

A2

Claudio Achillini La vita e le opere Nato a Bologna nel 1574, fu professore di diritto in diverse città

italiane. La prima edizione delle Rime e prose uscì a Bologna nel 1632 e venne più volte ristampata. Amico e grande ammiratore di Marino, la sua fama è soprattutto affidata al sonetto ricordato da Alessandro Manzoni nel capitolo XXVIII dei Promessi sposi.

T2

Claudio Achillini

Temi chiave

Sudate, o fochi, a preparar metalli

• la ricerca di suscitare stupore e meraviglia per fatti antichi

• la superiorità dei moderni sugli antichi

dalle Rime e prose Il sonetto era preceduto dalla seguente indicazione: «Loda il gran Luigi re di Francia1 che dopo la famosa conquista della Roccella venne a Susa e liberò Casale».

> Metro: sonetto; schema delle rime ABBA, ABBA, CDC, DCD.

4

Sudate2, o fochi, a preparar metalli, e voi, ferri vitali3, itene pronti4, ite di Paro a sviscerare i monti per inalzar colossi5 al re dei Galli6.

1. Luigi re di Francia: Luigi XIII, re di Francia dal 1610 al 1643. Nella lotta fra cattolici e protestanti, espugnò La Rochelle, roccaforte sull’Atlantico degli ugonotti (1628); l’anno dopo, attraversando le Alpi e passando per Susa, invase il Ducato di Savoia e con-

quistò Casale Monferrato, costringendo Carlo Emanuele ad allearsi con lui contro gli spagnoli. 2. Sudate: affaticatevi. 3. vitali: a cui il fuoco ha dato vita, trasformando i ferri in strumenti capaci di entrare

nelle viscere delle montagne (sviscerare i monti) dell’isola greca di Paro, famosa per il marmo bianco (oltre che per essere stata la patria del poeta Archiloco). 4. itene pronti: andatevene rapidi. 5. inalzar colossi: innalzare monumenti, statue colossali. 6. Galli: i francesi, dal nome delle antiche popolazioni che Giulio Cesare assoggettò a Roma.

35

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

8

Vinse l’invitta rocca7 e de’ vassalli8 spezzò gli orgogli a le rubelle fronti9, e machinando inusitati ponti diè fuga ai mari e gli converse in valli10.

11

Volò quindi su l’Alpi e il ferro strinse11, e con mano d’Astrea12 gli alti litigi, temuto solo e non veduto, estinse13.

14

Ceda le palme pur Roma a Parigi14: ché se Cesare venne e vide e vinse15, venne, vinse e non vide il gran Luigi.

7. l’invitta rocca: La Rochelle, ritenuta inespugnabile. 8. vassalli: la nobiltà che parteggiava per gli ugonotti. 9. spezzò … fronti: piegò le fronti orgogliose

e ribelli. 10. machinando … valli: allude alla costruzione di uno sbarramento in mare che impediva i rifornimenti portati dalla flotta inglese agli ugonotti assediati. Il riferimento è a Mosè,

che, secondo il racconto dell’Esodo, nella Bibbia, divise le acque del Mar Rosso per permettere al popolo di Israele di fuggire dall’Egitto. 11. il ferro strinse: impugnò la spada. 12. Astrea: la dea della giustizia. 13. gli alti … estinse: fece tacere, solo per il timore che suscitava e senza nemmeno che lo si vedesse, le divisioni politiche e i profondi contrasti che dividevano gli stati italiani. 14. Ceda … Parigi: Roma riconosca la superiorità di Parigi (presso i Greci e i Romani la “palma” era il segno della vittoria). 15. venne … vinse: rimanda alla celebre frase veni, vidi, vici (“venni, vidi, vinsi”) attribuita a Giulio Cesare dopo che ebbe sconfitto nel 47 a.C. l’esercito di Farnace, re del Ponto (regno ellenistico situato nell’Anatolia nord-orientale).

Analisi del testo Il giudizio di Manzoni La ricerca di stupore

L’opposizione Roma-Parigi

Ricordando ironicamente questo sonetto nei Promessi sposi, Alessandro Manzoni lo addita di fatto come esempio del cattivo gusto della letteratura secentesca. A differenza di Manzoni, che si proporrà di ricostruire le vicende storiche nella maniera più seria e scrupolosa possibile, Achillini fa della storia un semplice pretesto, subordinando l’intento encomiastico alla ricerca di effetti verbali, affidati alla metafora, all’iperbole e ai calembours, o giochi di parole. Si pensi agli imperativi della prima quartina, giocati sul “sudore” del fuoco e sugli attrezzi che sventrano le montagne. Anche i riferimenti più propriamente storici della quartina successiva puntano sulla “meraviglia” delle sorprendenti costruzioni di ingegneria, che sembrano piegare e sottomettere le stesse leggi della natura, quasi un ripetersi del miracolo biblico di Dio che, per favorire la fuga degli Ebrei dall’Egitto, divise le acque del Mar Rosso. Ma è questo un rimando appena percepibile, dal momento che tutto l’interesse è orientato verso la modernità, rappresentata da Parigi rispetto a Roma, simbolo del passato. Il modo iperbolico con cui viene resa la traversata delle Alpi («Volò»), oltre a richiamare implicitamente il volteggiare dell’aquila sulle più alte cime dei monti, gioca sull’idea di una superiorità dei moderni rispetto agli antichi, contrapponendo al “veni, vidi, vici” di classica memoria il «venne, vinse e non vide».

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Sintetizza il contenuto del componimento. AnALizzAre

> 2.

Stile Individua le figure retoriche nelle seguenti espressioni: a) «Vinse l’invitta rocca» (v. 5); b) «il ferro strinse» (v. 9); c) «Ceda le palme» (v. 12). > 3. Lessico Individua nel testo i vocaboli e/o le espressioni che indicano “forza” e “rapidità”, spiegandone l’efficacia in relazione al contenuto. > 4. Lingua Come si configura la sintassi del componimento? Rispondi attraverso l’analisi di esempi significativi ricavati dal testo.

36

Capitolo 1· La lirica barocca ApprofonDire e inTerpreTAre

> 5.

Scrivere Spiega perché, come evidenzia l’Analisi del testo, la sequenza «venne, vinse e non vide» (v. 14) rende l’idea di una superiorità dei moderni nei confronti degli antichi rispetto al veni, vidi, vici (v. 13) di classica memoria. Nel rispondere in circa 5 righe (250 caratteri), rifletti sulla natura delle azioni espresse dai verbi e sul loro succedersi nei due esempi. > 6. Testi a confronto: esporre oralmente Leggiamo nel capitolo XXVIII dei Promessi sposi:

Fu in questa occasione che l’Achillini scrisse al re Luigi quel suo famoso sonetto: Sudate, o fochi, a preparar metalli; e un altro, con cui l’esortava a portarsi subito alla liberazione di Terra santa. Ma è un destino che i pareri de’ poeti non siano ascoltati: e se nella storia trovate de’ fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch’eran cose risolute prima. Il cardinal di Richelieu aveva in vece stabilito di ritornare in Francia, per affari che a lui parevano più urgenti. Girolamo Soranzo, inviato de’ Veneziani, poté bene addurre ragioni per combattere quella risoluzione; che il re e il cardinale, dando retta alla sua prosa come ai versi dell’Achillini, se ne ritornarono col grosso dell’esercito, lasciando soltanto sei mila uomini in Susa, per mantenere il passo, e per caparra del trattato.

In un’esposizione orale (max 3 minuti) indica qual è il tono con cui Manzoni introduce e cita l’incipit del sonetto, motivando la tua risposta.

A3

T3

Marcello Giovanetti La vita e le opere Nato ad Ascoli Piceno nel 1598, visse a Roma esercitando con successo la professione di avvocato. Pur essendo morto in giovane età, nel 1631, ebbe modo di comporre alcuni trattati giuridici, oltre a una favola pastorale, Cilla (1626), e a due raccolte di versi, Rime (1620) e Sonetti, canzoni, madrigali (1622), poi riunite nel volume delle Poesie (1626).

Marcello Giovanetti

Temi chiave

Bella donna presente a spettacolo atrocissimo di giustizia

• amore e morte • la donna come portatrice di sofferenza

dalle Poesie Il poeta assiste in compagnia della donna amata all’esecuzione di alcuni condannati.

> Metro: sonetto; schema delle rime ABBA per le quartine, CDC e DCD per le terzine.

4

Là ’ve la morte in fera pompa1 ergea spietata scena di funesto orrore, vidi colei, che nel tuo regno, Amore, di mille colpe e mille morti è rea2. Fra que’ nocenti3 uccisi, ella uccidea più d’un’alma4 innocente e più d’un core;

1. in fera pompa: con crudele apparato, quasi una messa in scena.

2. rea: colpevole. 3. nocenti: colpevoli, in quanto hanno fatto

del male. 4. alma: anima.

37

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

8

e pure, intenta al tragico rigore5, spettatrice impunita anco sedea6.

11

Quale scampo il mio cor fia che ritrove7? Là fra rigide morti a morte ei8 langue, qua di dolci ferite un nembo9 piove.

14

Resta per doppia strage il petto esangue, fan bellezza e spavento eguali prove, e nuotano gli amori in mezzo al sangue.

5. intenta…rigore: guardando con attenzione la tragica inflessibilità nell’esecuzione delle leggi.

6. anco sedea: ancora continuava a sedere. 7. fia che ritrove: potrà ritrovare.

8. ei: esso, il cuore. 9. nembo: nuvola

Analisi del testo Associazioni insolite

La personificazione della morte

L’aspetto fonico

Antitesi e corrispondenze

Artifici tipici della lirica barocca

Il verso finale

> Temi e struttura del testo

Particolarmente indicativo della disposizione e del gusto sperimentale della ricerca marinista è questo sonetto di Giovanetti, notevole per l’inedita associazione di possibilità combinatorie e per il sondaggio di non comuni territori figurativi. È un sonetto in cui in maniera estrema e del tutto originale viene affrontato il tema di “amore e morte”, che fin dall’inizio (vv. 1 e 3) indicano i termini estremi su cui si basa la struttura compositiva. La morte, personificata, costituisce una macabra scenografia (quella del palco dei condannati), secondo il gusto tipicamente barocco dello spettacolo e della festa (da intendersi qui in chiave rovesciata, come festa crudele). In questo quadro la presenza della donna si inserisce per contrasto e per analogia, in quanto è anch’essa responsabile di molte colpe e delitti (in senso amoroso, beninteso). Ma il rapporto che unisce i primi versi è anche di natura fonica, ed è dovuto alla preminenza delle consonanti liquide (/l/ e /r/), al comune nesso “mor” compreso in «Amore» e «morte», alla rima – concettualmente contrastante – «orrore»-«Amore». Il gioco delle antitesi e delle corrispondenze prosegue nella quartina successiva: l’opposizione si sviluppa qui fra «nocenti» e «innocenti», tra gli «uccisi», in senso passivo, e la donna che «uccidea», in senso attivo, «impunita», con il consueto slittamento del linguaggio dal piano letterale a quello metaforico.

> L’abbondanza di figure retoriche

Mentre le quartine illustrano, per così dire, una situazione di fatto, le terzine ne colgono le ripercussioni sul «cuore» del poeta, sottoposto a sollecitudini diverse e conflittuali. Il movimento è introdotto dall’interrogativa che occupa per esteso il verso 9 e viene quasi visualizzato, in una prospettiva spaziale, dagli avverbi di luogo («Là… qua…»), in un contesto rafforzato dall’iperbato, dalla figura etimologica («morti a morte»), dall’iperbole («un nembo», riferito alle metaforiche «ferite» e retto dall’improprio «piove»). Analogo è l’effetto che producono, sul «petto esangue» (la rima, solidale con «langue», è in forte antitesi con il conclusivo «sangue»), la «bellezza» e lo «spavento», operando una sorta di sdoppiamento, con un artificio caro alla sensibilità barocca. L’ultimo verso costituisce la chiusa di stampo concettistico, basata su un accostamento di termini antitetici e su un ardito incastro di metafore.

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. In quale luogo il poeta vede la donna? > 2. Quale effetto ha sul poeta la presenza della donna? Da quali altri sentimenti è occupato il suo cuore?

38

Capitolo 1· La lirica barocca AnALizzAre

> 3.

Stile Individua e specifica i termini del parallelismo attorno a cui è costruito il sonetto. Rilevi anche la presenza di un significato metaforico? > 4. Stile Quali figure retoriche individui ai versi 10-11? > 5. Lessico Analizza il lessico del sonetto: quale campo semantico prevale?

ApprofonDire e inTerpreTAre

> 6.

Scrivere

A4

Elabora un testo di circa10 righe (500 caratteri) sul binomio amore-morte che emerge da questo sonetto.

Anton Maria narducci La vita e le opere Nato a Perugia, non si hanno notizie sulla sua vita. Il primo verso

del sonetto che segue divenne famoso perché riportato, come esempio negativo da non imitare, nella satira La poesia del pittore e poeta Salvator Rosa (1615-73). Le sue poesie si trovano nella Raccolta di sonetti di autori diversi ed eccellenti dell’età nostra (1623).

T4

Anton Maria narducci

Sembran fere d’avorio in bosco d’oro

Temi chiave

• la bellezza della donna amata • l’amore inteso come “caccia”

dalla Raccolta di sonetti di autori diversi ed eccellenti dell’età nostra La poesia trae spunto dai pidocchi che si annidano fra i capelli di una bella donna.

> Metro: sonetto; schema delle rime ABBA, ABBA, CDC, CDC.

4

Sembran fere1 d’avorio in bosco d’oro le fere erranti onde sì ricca siete; anzi, gemme son pur che voi scotete da l’aureo del bel crin natio tesoro2;

8

o pure, intenti a nobile lavoro, così cangiati gli Amoretti3 avete, perché tessano al cor4 la bella rete con l’auree fila ond’io beato moro5.

11

O fra bei rami d’or6 volanti Amori, gemme nate d’un crin fra l’onde aurate7, fere pasciute di nettarei umori8;

14

deh, s’avete desio9 d’eterni onori, esser preda talor non isdegnate di quella preda onde son preda i cori10!

1. fere: fiere, animali selvatici. 2. da l’aureo … tesoro: dal tesoro d’oro (aureo) dei bei capelli (crin) che avete sin dalla nascita (natio).

3. Amoretti: o Amorini, personificazioni mitologiche del dio Amore, rappresentato sotto l’aspetto di un fanciullo alato. 4. al cor: intorno al cuore.

5. l’auree … moro: i fili d’oro (dei capelli) per i quali io muoio beato. 6. bei rami d’or: i capelli dorati. 7. aurate: dorate. 8. pasciute … umori: nutrite di sciroppi di nettare, la bevanda degli dèi che si diceva rendesse immortali. 9. desio: desiderio. 10. esser… cori: lasciatevi (non isdegnate) qualche volta prendere (esser preda) da colei che è vostra preda (di quella preda) e per la quale sono preda i cuori (onde son preda i cori) di coloro che fa innamorare.

39

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Analisi del testo Il richiamo a Marino Il contrasto tra i contenuti e il linguaggio

Preziose metafore e giochi di parole

Il sonetto sembra riprendere il discorso avviato da Marino con Donna che si pettina ( T1, p. 34), approfondendone la tematica sul piano dell’eccentricità e della bizzarria. Il motivo è quello – tradizionale – dei capelli della bella donna, la cui pettinatura è qui funzionale alla ricerca dei pidocchi che si annidano nella folta capigliatura. La materia è quanto mai bassa e vile, e tuttavia, per effetto di esasperato contrasto, viene rivestita delle qualità più preziose, come il «bosco d’oro» dei capelli (che si prolunga fonicamente nelle rime in -ori delle terzine), le «gemme», «l’aureo … tesoro» (allo stesso livello di ostentata ricercatezza appartengono anche le riprese con variazione: «aureo», «auree», «aurate»; «bel», «bella», «bei»). Come nel sonetto di Marino (con il quale non mancano le convergenze verbali, ad esempio ai versi 12 e 14: «sommerso io moro» e «golfo d’oro»), il gioco metaforico è funzionale alla declinazione del motivo amoroso, risolto qui in un puro e convenzionale accenno galante («ond’io beato moro»), all’interno di un susseguirsi di preziosità metaforiche che vive in relazione con il gioco degli incastri dei due versi finali, condotto sulla funzione diversa del termine «preda»: la donna «preda» dei pidocchi, a loro volta «preda» della donna, di cui sono «preda» gli uomini che di lei s’innamorano.

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Formula un nuovo titolo e un sommario che rendano efficacemente il contenuto del componimento. AnALizzAre

> 2. > 3. > 4.

Individua le metafore presenti nel sonetto. Quale ripetizione figura nei versi 1-2? Quale effetto produce? Stile La dimensione bizzarra ed eccentrica del componimento produce, a tuo parere, ironia? Se sì, in quale punto del sonetto? > 5. Stile È presente nel testo un esempio di concettismo? Se sì, quale? > 6. Lessico Individua nel testo tutti i vocaboli e/o le espressioni che fanno riferimento a materiali preziosi, e spiegane la funzione sul piano espressivo. Stile

Stile

ApprofonDire e inTerpreTAre

> 7. esporre oralmente Effettua un confronto oralmente (max 3 minuti) con Donna che si pettina di Marino ( T1, p. 34) in base alle modalità con cui viene rappresentata, sul piano metaforico, la capigliatura femminile: quali aspetti accomunano i due sonetti?

A5

Ciro di pers La vita e le opere Nato nel Castello di Pers, in Friuli, nel 1599, studiò filosofia a

Bologna, trascorrendo poi gran parte della sua vita nel castello dei suoi antenati; morì a San Daniele del Friuli nel 1663. Per la sua fama di letterato fu invitato alla corte di Vienna dagli imperatori Ferdinando III e Leopoldo I, mentre il duca di Modena Francesco II gli offrì l’incarico di precettore del figlio, ma Ciro di Pers declinò tutti questi inviti. Le sue Poesie, raccolte postume nel 1666, si distinguono in due fasi: la prima, tipicamente marinista; la seconda caratterizzata nella maturità da un impegno morale e civile, come dimostrano le odi Della vanità del vivere e Le calamità d’Italia, che contiene un’appassionata invettiva contro le potenze straniere che occupavano l’Italia.

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Capitolo 1· La lirica barocca

T5

Ciro di pers

Temi chiave

orologio da rote

• il trascorrere inesorabile del tempo • l’incombere della morte

dalle Poesie Il poeta paragona il passare del tempo scandito dalle lancette dell’orologio a quello della vita umana.

> MeTro: sonetto; schema delle rime ABAB per le quartine, CDC e DCD per le terzine.

4

Mobile ordigno di dentate rote1 lacera il giorno e lo divide in ore, ed ha scritto di fuor con fosche note a chi legger le sa: sempre2 si more.

8

Mentre il metallo concavo percuote3, voce funesta mi risuona al core; né del fato4 spiegar meglio si puote che con voce di bronzo5 il rio tenore6.

11

Perch’io non speri mai riposo o pace, questo che sembra in un7 timpano e tromba, mi sfida ognor contro l’età vorace8.

14

E con que’ colpi onde ’l metal rimbomba, affretta il corso al secolo fugace9, e perché s’apra ognor picchia10 a la tomba.

1. dentate rote: le rotelle che nella cassa dell’orologio trasmettono il movimento alle ore segnate sul quadrante. 2. sempre: inevitabilmente (nel senso che non si può sfuggire alla morte). 3. il metallo … percuote: (l’ordigno) percuote il concavo metallo (della campana, bat-

tendo l’ora). 4. fato: destino. 5. di bronzo: l’espressione si riferisce a fato per indicare un destino inesorabile, duro, che non si può piegare. 6. il rio tenore: il corso, il cammino crudele. 7. in un: insieme, contemporaneamente (il

timpano è uno strumento musicale a percussione). 8. l’età vorace: il tempo, che divora ogni cosa. 9. fugace: che fugge, scorre rapidamente. 10. picchia: bussa.

Analisi del testo Il tema dello scorrere del tempo nella tradizione letteraria Il gusto per la tecnica e per gli oggetti

L’avvicinarsi della morte

> i contenuti

Al centro di questi versi è il grande tema dello scorrere del tempo, che fugge rapidamente e divora ogni cosa. Il suo più grande interprete era stato Francesco Petrarca (si ricordi il celebre incipit del sonetto La vita fugge, e non s’arresta un’ora), che ne aveva dato un’interpretazione di tipo esistenziale, volta a sottolineare la caducità dei beni terreni. La novità del sonetto di Ciro di Pers consiste nell’avere materializzato il motivo in un oggetto meccanico, a conferma di quel gusto per la tecnica che pure caratterizza la mentalità e la sensibilità del Barocco; di qui il passaggio successivo a una rappresentazione metaforica che fa dell’orologio il simbolo di una visione del tempo, e per estensione della vita, dominata da un senso cupo e incombente di distruzione e di morte.

> il lessico e l’aspetto fonico del testo

Evidenti sono le spie lessicali, a partire dalla prima quartina con il giorno “lacerato” dagli ingranaggi di un «ordigno» che lascia intravedere le «fosche note» (riprese dalla «voce funesta») di quello che veniva chiamato memento mori (“ricordati che devi morire”), anche 41

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Le ripetizioni

nel senso che ogni momento che passa avvicina alla morte (di qui l’accelerazione distruttiva del tempo nel verso 13, dove «fugace» rima con il «vorace» del verso 11). Ma l’effetto di questi versi resta soprattutto affidato a quelle che potremmo definire le risonanze acustiche, con i suoni di una «voce» (il termine è ripetuto ai versi 6 e 8) che diventa un cupo rimbombo, grazie alle allitterazioni onomatopeiche sottolineate dalle rime dei versi 10 e 12, «tromba» e «rimbomba», in rima non a caso con «tomba», a suggellare il significato del testo.

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Effettua la parafrasi del componimento rispettando la suddivisione in strofe e formulando un titolo per ciascuna di esse.

AnALizzAre

> 2. Come si configura nel componimento l’io lirico? > 3. Stile Individua nel testo la ripetizione del fonema /or/ e spiegane la funzione. > 4. Lessico Individua e analizza l’aggettivazione riferita nel componimento all’orologio: che cosa osservi? > 5. Lessico Ai versi 5 e 12 compaiono rispettivamente i vocaboli «metallo» e «metal»: quali le ragioni di tale ricorrenza? A quali altri termini presenti nel testo possono ricollegarsi in base al significato? Lingua «Perch’io non speri mai riposo o pace» (v. 9): di quale proposizione si tratta?

> 6.

ApprofonDire e inTerpreTAre

> 7. esporre oralmente Quali aspetti culturali del contesto di riferimento giustificano la scelta da parte del poeta del tema del memento mori? Rispondi oralmente (max 3 minuti). > 8. Competenze digitali Realizza un montaggio in PowerPoint di immagini, corredandole di didascalie, di oggetti di uso comune (specchi, orologi ecc.) o professionale (lenti, cannocchiali ecc.) del Seicento – reperibili anche in rete – che rimandino a temi prediletti dalla lirica barocca.

Testi Lubrano • Cedri fantastici da Scintille poetiche

A6

T6

Giacomo Lubrano Nato a Napoli nel 1619, entrò nel 1635 nell’Ordine dei gesuiti, divenendo famoso soprattutto come predicatore. Oltre a opere di carattere religioso (panegirici sacri, quaresimali, prediche), pubblicò due raccolte di versi, una in latino e l’altra – le Scintille poetiche, uscita nel 1674 – in italiano. Per il carattere immaginifico con cui seppe rappresentare anche i fenomeni naturali è tra i più significativi rappresentanti dell’ultima stagione della lirica marinista.

La vita e le opere

Giacomo Lubrano

per l’està secchissima del 1680

Temi chiave

• una calura soffocante • la condanna del lusso e del tempo presente

da Scintille poetiche Il componimento, esempio non frequente di poesia della natura, ha come soggetto il calore torrido dell’estate.

> MeTro: sonetto; schema delle rime ABAB (due volte), CDC, DCD.

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Capitolo 1· La lirica barocca

4

Non regnan Soli in ciel, regnan Fetonti1 latran da Sirii2 ancor gli artici lumi, de l’aria incendiata arsi orizzonti sbuffano3 in faccia a l’albe aridi fumi.

8

Bollono l’ombre stesse in valli, in monti; ogni campo par eremo di dumi4; urne5 di polve son l’urne de’ fonti; senza che ’l sappia il mar, seccano i fiumi6.

11

E più superbo, e più lascivo7 ogn’ora ostenta il fasto ambizion d’eterno8; incenerisce il mondo, e pur peggiora9.

14

Le vendette del ciel si prende a scherno10; né piogge di perdon col pianto implora11, mentre spira visibile l’inferno12.

1. Fetonti: guidando il carro del Sole, Fetonte lo avvicinò tanto alla Terra che questa rischiò di prendere fuoco. 2. da Sirii: come se fossero altrettante stelle Sirio, la stella della costellazione del Cane Maggiore (di qui l’uso del verbo “latrare”) che, sorgendo alla fine di luglio, porta i grandi calori; il soggetto sono gli artici lumi, ossia le stelle dell’Orsa Maggiore, identificate

con il freddo che proviene dal Nord. 3. sbuffano: soffiano. 4. eremo di dumi: luogo deserto ricoperto di rovi secchi, di sterpaglie. 5. urne: recipienti, bacini. 6. senza … fiumi: i fiumi non raggiungono il mare. 7. lascivo: corrotto, peccaminoso. 8. ostenta … eterno: il lusso mostra con

ostentazione la sua (fallace) ambizione di essere eterno. 9. incenerisce … peggiora: il mondo si riduce in cenere e tuttavia continua a peggiorare. 10. si prende a scherno: schernisce. 11. né piogge … implora: e non implora con lacrime di pentimento (col pianto) il perdono (le piogge nascono metaforicamente dal pianto, a indicare la funzione simbolica che ha l’acqua di “lavare” e togliere i peccati). 12. spira … l’inferno: l’inferno, ossia il calore infernale, soffia il suo alito infuocato, come se questo si materializzasse, e quindi potesse essere visto (visibile).

Analisi del testo

> La rappresentazione del caldo estivo

Contrapposizioni, metafore e personificazioni

Iperboli e ripetizioni

La decadenza del mondo

I riferimenti astronomici iniziali, con l’indicazione mitologica del Carro del Sole guidato da Fetonte, non hanno un semplice valore esornativo, ma entrano nel vivo delle quartine, a rendere l’atmosfera di soffocante calura prodotta dalla torrida estate. Se anche le stelle fredde sembrano emanare calore, con un evidente gioco di contrapposizioni, l’intera natura ne viene investita, con immagini metaforiche di grande efficacia, a partire dalla personificazione degli orizzonti che si incendiano e surriscaldano, con i loro «soffi» d’aria infuocati, le stesse albe, per definizione limpide e fresche. Anche le ombre, che nelle tradizionali rappresentazioni del locus amoenus recavano conforto e sollievo dal caldo, qui «bollono», mentre i campi si trasformano in altrettanti deserti polverosi, privi di presenze umane e solo ricoperti di rovi secchi; secche sono le fonti e secchi sono i fiumi, che non possono più raggiungere il mare. Le quartine ci offrono un quadro di aridità e di desolazione che accompagna le metafore, anche iperboliche («Bollono»), con riprese e ripetizioni rafforzative («regnan … regnan», «incendiata arsi», «urne di polve … urne de’ fonti»), rendendo, grazie al lessico usato, l’atmosfera totalmente assorbente con un’evidenza quasi tangibile, capace di rendere «visibile» (v. 14) il caldo infernale.

> il tema morale e religioso

Ma «l’inferno» ha anche il significato proprio, tenendo conto che le terzine attuano il passaggio dal piano descrittivo a quello morale e religioso, che muove dalla polemica nei confronti del lusso (tema particolarmente significativo, in un secolo caratterizzato dai co43

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Una visione apocalittica

stumi sfarzosi come il Seicento) per giungere alla condanna del mondo che, avviato a una irreversibile decadenza («e pur peggiora», v. 11), disprezza e irride gli insegnamenti divini. Ecco allora che il processo metaforico viene orientato in questa direzione, e il caldo infernale diventa direttamente, con un’immagine apocalittica di gusto quasi medievale, «l’inferno» che «incenerisce» questa terra, senza la speranza che il lavacro della pioggia, simbolo di purificazione e di perdono, possa togliere i peccati dell’umanità.

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Svolgi la parafrasi delle due quartine. > 2. Descrivi il comportamento del «fasto», così come è descritto dal poeta nelle terzine. AnALizzAre

> 3. > 4. > 5.

Individua e spiega le metafore presenti nel testo. L’inferno nominato nell’ultimo verso è reale o metaforico? Stile Quale figura di suono rilevi nel verso 13? Stile Stile

ApprofonDire e inTerpreTAre

> 6. esporre oralmente Confronta in un’esposizione orale (max 3 minuti) la tematica di questo sonetto con i modi ed i temi tipici della lirica barocca, evidenziando somiglianze e differenze.

A7

Gabriello Chiabrera La vita Nato nel 1552 a Savona (dove morirà nel 1638), ebbe presso i gesuiti una

accurata formazione retorica e letteraria. Formatosi a Roma alla corte del cardinale Cornaro, fu costretto ad abbandonare la città per contrasti con un gentiluomo romano. Risiedette per lo più nella sua città natale, dalla quale dovette temporaneamente allontanarsi, nel 1581, per una rissa. Pur senza legarsi agli obblighi della vita di corte, fu in contatto con diversi signori, a cui dedicò le sue opere. Dal 1600 i Medici gli passarono un cospicuo stipendio.

Le opere Il prestigio sociale ottenuto è in diretto rapporto con la fortuna della produzio-

ne letteraria, che si esercitò nei più diversi generi: poemi epici (la Gotiade, il Firenze, l’Achemenide); tragedie (Angelica in Ebuda, Erminia, Ippodamia); favole boscherecce (Il rapimento di Cefalo); poemetti sacri e profani. Si ricordino ancora l’Autobiografia, gli Elogi di uomini illustri, le Lettere, i trenta Sermoni, epistole in versi sul modello oraziano, i cinque Dialoghi dell’arte poetica, dove espone i fondamenti tecnici e metrici a cui obbedì la sua attività di poeta lirico, ispirata ad autori greci e latini come Pindaro Anacreonte, Catullo. Il suo prendere le distanze dalla poesia marinista consiste infatti nel richiamarsi alla più composta misura dell’arte classica, interpretata, soprattutto nei versi amorosi, nel senso di un’armonica cantabilità; il che non esclude che anche Chiabrera ricerchi lo stupore delle novità, come risulta da una sua celebre espressione, secondo cui, compito del poeta, è quello di «trovar nuovo mondo o affogare». Alla lirica è soprattutto affidata la fama del Chiabrera, dalle Canzoni (divise in “eroiche”, “lugubri” e “sacre”) alle Canzonette, a cui si aggiunsero poi Le maniere de’ versi toscani e Scherzi e canzonette morali. Particolarmente vivaci le Vendemmie di Parnaso, componimenti di argomenti bacchico e conviviale. 44

Capitolo 1· La lirica barocca

T7

Gabriello Chiabrera

Temi chiave

Belle rose porporine

• una natura idilliaca che riflette

da Canzonette

• le sofferenze d’amore • la ricerca di musicalità

la bellezza della donna

È il componimento poetico più noto di Chiabrera; il titolo originario era Riso di bella donna.

> Metro: canzonetta composta da strofe di sei versi, il secondo e il quinto quaternari, ottonari i rimanenti; schema delle rime AaBCcB.

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Belle rose porporine1 che tra spine su l’aurora non aprite2; ma, ministre degli Amori3, bei tesori di bei denti custodite; dite, rose prezïose, amorose, dite, ond’è che, s’io m’affiso nel bel guardo vivo ardente, voi repente disciogliete un bel sorriso? 4 È ciò forse per aïta di mia vita, che non regge alle vostr’ire, o pur è perché voi siete tutte liete, me mirando in sul morire? 5 Belle rose, o feritate o pietate del sì far la cagion sia6, io vo’ dire in modi nuovi vostre lodi; ma ridete tuttavia7. Se bel rio8, se bell’auretta9 tra l’erbetta sul mattin mormorando erra10; se di fiori un praticello si fa bello, noi diciam: ride la terra. Quando avvien che un zefiretto11 per diletto bagni il piè nell’onde chiare12,

1. porporine: dal colore rosso vivo della porpora (le rose porporine sono metafora delle labbra femminili). 2. su … aprite: non sbocciate (aprite) al sor-

gere dell’aurora. 3. ministre degli Amori: ancelle, messe al servizio dell’amore (gli Amori sono le minori divinità mitologiche legate al culto di Venere).

4. ond’è … sorriso?: per quale motivo, se io fisso lo sguardo (m’affiso) sul vostro sguardo, sui vostri occhi vividi e appassionati (guardo vivo ardente), voi, all’improvviso (repente) dispiegate (disciogliete) un bel sorriso? 5. È ciò … morire?: e questo succede forse per un aiuto (aïta) alla mia vita, che non resiste (regge) alle vostre collere, oppure è perché voi siete felici guardandomi mentre muoio (in sul morire)? 6. o feritate … sia: siano la crudeltà (feritate) o la pietà la causa (la cagion sia) di questo comportamento (del sì far). 7. ridete tuttavia: continuate a sorridere. 8. rio: ruscello. 9. auretta: venticello. 10. erra: vaga, va errando qua e là. 11. zefiretto: lo zefiro è un vento primaverile che spira da ponente. 12. per diletto … chiare: per un puro e semplice piacere smuova (immerga il suo piede, metaforicamente, bagni il piè) l’acqua limpida.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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sicché l’acqua in su l’arena13 scherzi14 appena, noi diciam che ride il mare. Se giammai tra fior vermigli, se tra gigli veste l’alba un aureo velo, e su rote di zaffiro move in giro15, noi diciam che ride il cielo. Ben è ver; quando è giocondo, ride il mondo; ride il ciel quando è gioioso; ben è ver; ma non san poi come voi fare un viso grazïoso.

13. in su l’arena: sulla sabbia. 14. scherzi: si muova, increspandosi, quasi

facendo dei giochi. 15. veste … giro: un velo dorato (un aureo

velo, soggetto), provocato dai raggi del Sole nascente, avvolge (veste, riveste) l’alba, e si muove tutt’intorno (move in giro) come se avesse delle ruote di zaffiro (pietra preziosa di colore azzurro, riferito qui al cielo).

Analisi del testo Un’atmosfera di giocondità

L’idillio primaverile

Le rime e le riprese

L’antitesi

La musicalità del testo

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> Le bellezze della natura riflesse nelle bellezze della donna

La metafora che apre il componimento – le rose rosse come paragone delle labbra della donna amata – non è tanto funzionale, secondo i moduli tipici della poesia barocca, a una ricerca di effetti sorprendenti, sul piano insistito delle acutezze o dei giochi di parole, ma serve a introdurre un’atmosfera di giocondità che tende a rispecchiarsi sulle bellezze della natura. La sua rappresentazione stilizzata si riflette nelle grazie della figura femminile, nei suoi preziosi ornamenti (i «bei tesori / di bei denti»), creando una situazione di idillio primaverile delicato e ridente. Allo scopo concorrono gli elementi lessicali, disseminati come in un raffinato mosaico: dai diminutivi («auretta», in rima con «erbetta», «praticello», «zefiretto») agli aggettivi e ai sostantivi indicanti qualità raffinate e gioiose, con l’insistenza dell’aggettivo “bello”, declinato in varie forme (vv. 1, 5-6, 12, 19, 25, 29). Gli effetti di continuità e di coesione che ne derivano sono esaltati dal sistema delle rime, baciate – per ogni strofa – ai versi 1-2 e 4-5, incastonate, queste ultime, nelle rime dei versi 3 e 6. A rafforzare i legami di coesione sul piano strutturale concorrono poi le riprese di parole semanticamente rilevanti (come le forme del sostantivo «sorriso» e del verbo «ridere», ai versi 12, 24, 30, 36, 42, 44-45), con particolare riguardo al parallelismo dell’espressione che conclude le strofe dalla quartultima alla penultima. Qui le variazioni «terra»-«mare»-«cielo» trasferiscono all’intero creato l’atmosfera di luminosa e “gioiosa” serenità che il «viso grazïoso» della donna amata irradia sulla realtà circostante, superandone le attrattive (si noti anche, nella corrispondenza a distanza, ai versi 7 e 48, degli aggettivi «prezïose» e «grazïoso», l’estensione dell’immagine operata dalla dieresi); in questa atmosfera si contempera anche l’antitesi rappresentata dalla sofferenza del poeta per l’amore che non viene ricambiato (le «ire» e la «feritate»).

> La musicalità del testo

Il tutto viene reso dalla leggerezza della scrittura, dove molte parole indicano qualità eteree ed impalpabili, e da un ritmo che, grazie all’agile combinarsi di ottonari e quaternari, vive in una sua cantabile musicalità. Sono questi i «modi nuovi» con cui il poeta celebra il «sorriso» della donna amata e ne tesse le lodi, prendendo le distanze dalla lirica marinista, di cui rifiuta gli ardui giochi metaforici e verbali.

Capitolo 1· La lirica barocca

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. A chi sono rivolte le domande nella lirica? > 2. Qual è l’intento del poeta (vv. 19-24) ? Che cosa intende lodare? > 3. Riassumi il contenuto delle ultime quattro strofe. AnALizzAre

> 4.

Stile Individua le figure retoriche presenti nelle seguenti espressioni: a) «bei tesori / di bei denti» (vv. 5-6); b) «sicchè l’acqua in su l’arena / scherzi appena» (vv. 34-35); c) «rote di Zaffiro» (v. 40); > 5. Stile Individua le allitterazioni e le ripetizioni presenti nelle prime tre strofe del componimento. Quale funzione svolgono? > 6. Lessico Sottolinea nel testo diminutivi e vezzeggiativi, spiegandone la funzione.

ApprofonDire e inTerpreTAre

> 7.

Scrivere Rifletti in un testo di circa 20 righe (1000 caratteri) sulle modalità con cui i poeti barocchi, sia “marinisti” sia classicisti, affrontano il tema amoroso, facendo opportuni riferimenti a questo componimento e agli altri presenti nel capitolo.

A8

Tommaso Campanella La vita Nato a Stilo, in Calabria, nel 1568, da una famiglia di umili origini e poveris-

sima, Tommaso Campanella entrò quattordicenne nell’Ordine dei domenicani. Ben presto l’educazione ricevuta fu abbandonata per seguire il pensiero del conterraneo Bernardino Telesio, esponente di una concezione filosofica basata sulla conoscenza della natura e sull’esperienza dei sensi. Nasce di qui la Philosophia sensibus demonstrata (“La filosofia proposta dai sensi”), pubblicata nel 1588, a cui seguì il Senso delle cose e della magia. Arrestato a Napoli con l’accusa di aver difeso la filosofia telesiana, fu poi a Padova (1593-94), dove entrò in relazione con Galileo, a cui dedicherà più tardi l’Apologia pro Galilaeo (“Difesa di Galileo”). Nuovamente arrestato, fu condotto a Roma nelle carceri del Sant’Uffizio; dopo un altro periodo di carcerazione, in cui venne sottoposto a tortura, fu rilasciato alla fine del 1597 e costretto a rientrare in Calabria. Qui si trovò poi coinvolto in una vasta congiura contro lo sfruttamento a cui le plebi contadine erano sottoposte da parte del potere politico, rappresentato dalla Spagna, e di quello religioso. Scoperto e imprigionato, nel 1599, rimase per ben ventisette anni in carcere a Napoli, in condizioni di sopravvivenza disumane. Quando la prigionia ebbe termine, nel 1626, Campanella fu a Roma, dove – dopo un nuovo arresto – riuscì a ottenere i favori del pontefice Urbano VIII. Per sfuggire alla persecuzione degli spagnoli, fu poi costretto a riparare in Francia, a Parigi, dove morì nel 1639.

Le opere Fondamentali per la comprensione del suo pensiero filosofico sono, in lati-

no, la Philosophia naturalis, la Philosophia realis e la Metaphysica. Delle opere politiche si ricordino la Monarchia di Spagna e la Monarchia delle nazioni, mentre legate a problemi letterari sono la Poetica e, in latino, la Rhetorica e l’Historiographia. Ma l’opera più importante è La città del Sole, in cui Campanella ha delineato la proiezione utopica di una città ideale, in cui il comunismo dell’organizzazione garantisce la giustizia e l’uguaglianza. 47

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Testi Campanella • Sonetto fatto sopra uno che morse nel Santo Uffizio in Roma • Anima immortale dalle Poesie

T8

Delle poesie, scritte in gran parte durante il periodo di detenzione, si è salvata una scelta di alcune poesie filosofiche pubblicata nel 1622 da un estimatore, Luigi Adami, che attribuì all’autore lo pseudonimo di Settimontano Squilla. Apparse in un periodo in cui dominavano i giochi verbali della lirica barocca, rivelano un’indubbia originalità, fondata sulla sostanza di un pensiero filosofico-religioso che diventa ardua ricerca di una verità più profonda, assumendo anche oscuri toni profetici, in cui si può ricoscere l’influenza della Bibbia e della Commedia dantesca. Tommaso Campanella

Al carcere

Temi chiave

• i pericoli insiti nella ricerca della verità • i riferimenti mitologici • un potere assoluto crudele e misterioso

dalle Poesie

Il testo presenta il carcere come un luogo infernale, dove viene rinchiuso, con evidente riferimento all’esperienza personale del poeta, chi ricerca la verità.

> Metro: sonetto; schema delle rime ABBA, ABBA, CDC, DCD.

4

Come va al centro ogni cosa pesante dalla circonferenza1, e come ancora in bocca al mostro che poi la devora, donnola incorre2 temente e scherzante;

8

così di gran scïenza ognuno amante3, che audace passa dalla morta gora al mar del vero4, di cui s’innamora, nel nostro ospizio5 alfin ferma le piante6.

11

Ch’altri l’appella7 antro di Polifemo8, palazzo altri d’Atlante9, chi di Creta il labirinto10, e chi l’Inferno estremo11

14

(ché qui non val favor, saper, né piéta), io ti so dir; del resto, tutto tremo, ch’è ròcca sacra a tirannia segreta12.

1. Come… circonferenza: come la forza di gravità attrae verso il centro i pesi. 2. in bocca … incorre: la donnola corre verso la bocca dell’animale feroce che poi la divora. 3. di gran … amante: ogni persona innamo-

rata delle vera scienza. 4. dalla morta … vero: dall’acqua stagnante, paludosa, al mare aperto della verità (morta gora è sintagma dantesco, Inferno, VIII, 31). 5. ospizio: il carcere.

6. ferma le piante: si arresta, ferma i piedi. 7. l’appella: lo chiama. 8. Polifemo: il gigante con un solo occhio che, nell’Odissea (canto IX), viene accecato da Ulisse. 9. Atlante: il mago, vinto e reso innocuo poi da Bradamante, che teneva prigionieri i paladini nel suo palazzo incantato (Orlando furioso, canto IV). 10. il labirinto: il leggendario palazzo fatto costruire da Minosse per rinchiudervi il Minotauro, nato dall’unione della moglie Pasifae con un toro. 11. estremo: più profondo. 12. ch’è … segreta: perché è una rocca consacrata a una misteriosa tirannia (è forse un’allusione al castello napoletano di Sant’Elmo, dove Campanella venne rinchiuso in una fossa tra il 1604 e il 1608).

Analisi del testo

> il paragone presente nelle quartine

Osservazioni scientifiche L’esperienza umana

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A differenza delle liriche barocche, giocate in prevalenza su bizzarre e impreviste relazioni di tipo allusivo e analogico, qui le quartine si snodano su un paragone, nettamente ripartito, dal sapore concettuale: la prima si basa su due osservazioni a carattere scientifico, una relativa alla fisica (la forza di gravità), l’altra alle scienze naturali (il comportamento della donnola, che peraltro sembra collegarsi ancora alle abitudini irrazionali dei bestiari medievali); i quattro versi successivi riconducono il discorso all’esperienza umana, secondo la quale i cultori della scienza, che si preoccupano della ricerca della verità (ma per

Capitolo 1· La lirica barocca

«gran scïenza» si intenda più in generale la filosofia), finiscono inevitabilmente per essere rinchiusi in un «ospizio» orrido e tenebroso.

Angoscia e squallore

Uno stile aspro e oscuro

> Le terzine e i richiami danteschi

L’uso del termine «ospizio» sembra dettato da un’amara ironia, nella misura in cui il suo reale significato si precisa subito dopo, nelle terzine, attraverso una serie di riferimenti con situazioni di angoscia e di squallore, esemplificati da precise indicazioni letterarie e mitologiche. È evidente la concezione dantesca del sonetto, sia per quanto riguarda il ricordo dell’«Inferno estremo» sia per più precisi rimandi e citazioni (la «morta gora» e la «piéta», Inferno VIII, 31 e I, 21); ma dantesco è, più in generale, lo stile dell’intero componimento, basato su parole «aspre» e dure, che corrispondono a una realtà orribile e tormentosa. Una realtà oscura, com’è oscuro il dettato che la raffigura; ma la forte tensione intellettuale è resa drammatica dal ricordo di un’angosciosa esperienza personale, nei due versi finali, dal «tutto tremo» al terribile quanto misterioso incombere di una «rocca» consacrata a un potere assoluto misterioso e crudele (la «tirannia segreta» che, senza alcun motivo, può rinchiudere una persona ancora viva nella tomba di un carcere buio e pauroso).

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Svolgi la parafrasi del componimento. AnALizzAre

> 2. A quale esperienza culturale dell’autore e del contesto in cui opera è possibile ricondurre le osservazioni di carattere scientifico presenti nel testo?

> 3. Come si configura nel componimento l’io lirico? Dove compare in modo esplicito? > 4. Stile Perché, a differenza delle altre liriche barocche, il componimento non si avvale di espedienti stilistico-reto-

rici particolarmente suggestivi? Nel rispondere, considera con attenzione il profilo biografico e culturale dell’autore. > 5. Lingua Spiega la funzione della proposizione posta fra parentesi al verso 12. ApprofonDire e inTerpreTAre

> 6.

esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) analizza, avvalendoti anche dell’Analisi del testo, i rimandi letterari presenti nel sonetto: quali elementi e/o aspetti sembrano accomunarli nella loro diversità?

2 La lirica barocca in Spagna

Testi Quevedo • Amore costante al di là della morte dai Sonetti amorosi e morali

Testi Donne • Congedo, a vietarle il lamento dalle Poesie

La lirica in Spagna e in Inghilterra Se la poesia dei “marinisti”, in Italia, non presenta figure di spiccato rilievo, ma tende a una sorta di uniforme livellamento, ben diversa è la situazione in Spagna, dove si impongono le personalità di Francisco de Quevedo (1580-1645) e di Luis de Góngora ( A9, p. 50). Capostipite di un particolare gusto barocco (il cosiddetto “gongorismo”), in lui l’uso di un linguaggio complesso e intensamente metaforico conduce a una concentrazione di immagini che, nell’esaltare i beni della vita, ne coglie al tempo stesso il carattere effimero e ingannevole. Risultati di grande rilievo ottiene la lirica anche in Inghilterra, dove spiccano figure come quelle di John Donne (1572-1631), autore di una poesia metafisica e intensamente visionaria, e di William Shakespeare ( A10, p. 53), che anche nei sonetti, come nelle opere teatrali, ricorre a un potente e suggestivo repertorio di immagini, affidando alla poesia il compito di esaltare la bellezza e di vincere i danni e le devastazioni provocate dal trascorrere inesorabile del tempo, che tutto divora e cancella. 49

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

A9

Luis de Góngora Luis de Góngora y Argote nacque nel 1561 a Córdoba, in Andalusia, dove morì nel 1627. Nella città natale e poi a Salamanca, famosa sede universitaria, studiò diverse discipline, senza tuttavia laurearsi. Avviatosi alla carriera ecclesiastica, divenne infine cappellano d’onore dell’imperatore Filippo III. La diffusione delle sue poesie gli procurò ben presto una grande fama, ma non mancò di creargli difficoltà presso i superiori, che lo accusarono tra l’altro di comportamenti mondani poco consoni alla sua condizione di religioso.

La vita

Le opere e lo stile Autore di testi teatrali poco riusciti (La costanza di Isabella, 1610, Testi Góngora • Al tumulo che eresse Cordova per le esequie della Regina Margherita dai Sonetti funebri

T 9a

e Il dottor Carlino, 1613), la sua grandezza resta interamente affidata alla produzione lirica, all’interno della quale si possono distinguere, non sempre cronologicamente, due maniere. La prima è caratterizzata da toni semplici e popolareggianti, sia particolarmente aggraziati sia mordacemente ironici e satirici. Ma è soprattutto dopo il 1609 che inizia il profondo rinnovamento introdotto da Góngora nella poesia spagnola, orientata in una direzione barocca che da lui prenderà il nome di “gongorismo”. L’immaginazione poetica si esprime nelle forme lussureggianti di un intenso linguaggio metaforico, che riguarda sia la natura sia i sentimenti, giovandosi di tutti gli accorgimenti di uno stile ingegnoso e intensamente coloristico, ricco di corrispondenze e di analogie (in questo senso eserciterà la sua influenza sui poeti simbolisti, e su Mallarmé in particolare). Questi effetti, ottenuti con l’impiego delle più svariate figure retoriche, si trovano concentrati ed esaltati nelle poesie e nei poemetti di più ampia estensione: la Canzone per la presa di Larache (1610), la Favola di Polifemo e Galatea (1612), le Solitudini (1613) e il Panegirico del duca di Lerna (1616).

Luis de Góngora

A una Dama, conosciuta bella da bambina, che poi rivide bellissima donna

Temi chiave

• il maturare della bellezza • l’amore come piacere della vita

dai Sonetti Il fiorire e lo sfiorire della bellezza sono l’argomento di questo e del sonetto che segue. Entrambi sono proposti nella traduzione italiana di Giuseppe Ungaretti.

4

Se Amore fra le piume del suo nido mi tolse libertà, che farà ora che negli occhi, o dolcissima Signora, ti aleggia in armi1, ed è senza vestito? Da lui fra mammole2 già fui ferito, aspide3 che oggi fra gigli ha dimora4;

1. aleggia in armi: agita le ali armato (delle frecce con cui, secondo la sua raffigurazione convenzionale, colpiva al cuore le persone per farle innamorare).

50

2. mammole: viole mammole, specie di viole dal profumo delicato. 3. aspide: serpente. 4. ha dimora: ha la sua sede, si trova.

A una dama que, habiéndola conocido hermosa niña, la conoció después bellísima mujer Si Amor entre las plumas de su nido / prendió mi libertad, ¿qué hará ahora, / que en tus ojos, dulcísima señora, / armado vuela, ya que no vestido? // Entre las vïoletas fui herido / del áspid que hoy entre los lilios mora; /

Capitolo 1· La lirica barocca

8

quel potere già avevi essendo Aurora che oggi detieni come Sole ardito5.

11

O luce salve, ti dirò dolente come Usignuolo tenero nel carcere6 che dolcemente lancia i suoi lamenti;

14

della tua fronte che radiosa vidi dirò7, e della grazia tua che fa cantare uccelli e piangere la gente8. G. Ungaretti, Da Góngora e da Mallarmé, Mondadori, Milano 1961

5. quel potere … ardito: il potere della bellezza, che già possedevi quando eri bambina

T 9b

(essendo Aurora) e possiedi adesso che sei una splendida giovane (come Sole ardito).

Luis de Góngora

igual fuerza tenías, siendo aurora, / que ya como sol tienes, bien nacido. // Saludaré tu luz con voz doliente, / cual tierno ruiseñor en prisión dura / despide quejas, pero dulcemente. // Diré cómo de rayos vi tu frente / coronada, y que hace, tu hermosura, / cantar las aves y llorar la gente.

6. nel carcere: chiuso in gabbia. 7. dirò: parlerò, facendone argomento di poesia. 8. piangere la gente: piangere gli innamorati, perché non ricambia il loro amore.

Temi chiave

finché dei tuoi capelli emulo vano

• la bellezza femminile • la vanità di ogni cosa

dai Sonetti

4

Finché dei tuoi capelli emulo vano1, vada splendendo oro brunito2 al Sole, finché negletto3 la tua fronte bianca in mezzo al piano ammiri il giglio bello,

8

finché per coglierlo gli sguardi inseguano più il labbro tuo che il primulo4 garofano, finché con la sdegnosa5 sua allegria vinca l’avorio, il tuo gentile collo6,

11

bocca ora7, e chioma, collo, fronte godi8, prima che ciò che fu in età dorata9, oro, garofano e cristallo lucido,

14

non solo in una viola tronca10 o argento, ma si volga, con essi tu confusa11, in terra, fumo, polvere, niente.

Mientras por competir con tu cabello Mientras por competir con tu cabello / oro bruñido al sol relumbra en vano; / mientras con menosprecio en medio el llano / mira tu blanca frente el lilio bello; // mientras a cada labio, por cogello, / siguen más ojos que al clavel temprano, / y mientras triunfa con desdén lozano / del luciente cristal tu gentil cuello; // goza cuello, cabello, labio, y frente, / antes que lo que fue en tu edad dorada / oro, lilio, clavel, cristal luciente, // no solo en plata o víola troncada / se vuelva, mas tú y ello juntamente / en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.

G. Ungaretti, op. cit.

1. emulo vano: inutilmente rivale. 2. oro brunito: l’oro reso lucido e levigato, come attraverso il processo chimico della “brunitura” (è il soggetto della frase). 3. negletto: dimenticato, trascurato nel confronto con la fronte bianca della donna; il soggetto è il giglio bello.

4. primulo: fiorito precocemente, primaticcio. 5. sdegnosa: altera, imperiosa. 6. il tuo … collo: è soggetto della frase. 7. ora: adesso, finché sei in tempo. 8. godi: rallegrati, prova piacere (per i pregi delle parti del corpo elencate, che riprendo-

no quelle delle quartine). 9. età dorata: quella in cui si manifesta compiutamente la bellezza della donna. 10. tronca: troncata, recisa. 11. si volga … confusa: si trasformi, e tu insieme con loro.

51

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Analisi del testo Una doppia climax La bellezza femminile e l’amore

Il ricorso a metafore naturali Un’improvvisa e inaspettata conclusione

> il primo sonetto

Sebbene indipendenti, i due sonetti si possono considerare come complementari. C’è fra di loro una corrispondenza giocata specularmente quasi sotto la forma di una doppia climax, prima ascendente poi discendente. Nel primo c’è il maturare della bellezza, che nel trascorrere dall’infanzia alla giovinezza (scandito dal passaggio dal qualificativo al superlativo: «bella» / «bellissima»), collega la grazia femminile all’amore, simbolo della pienezza del piacere e della vita, grazie alla metafora naturale del «Sole» che, in tutto il suo calore e splendore, è subentrato alla più riposante e serena «Aurora».

> il secondo sonetto

Nel secondo sonetto si intensifica la ripresa delle metafore naturali, a partire da quella precedente del «Sole», che rappresenta ancora il culmine della bellezza femminile, a cui sembrano corrispondere gli elementi della natura più fiorenti e preziosi (il «giglio», il «primulo garofano» e la «viola», l’«oro», l’«avorio» e il «cristallo»). A partire di qui, il paragone con gli aspetti della figura femminile innesta un vibrare di immagini di vita che la conclusione del sonetto (vv. 13-14) tronca con un improvviso e brusco movimento (introdotto dall’avversativa «ma»). Ecco allora che tutto precipita e finisce, mentre lo splendore di un tempo si trasforma nel «nulla» della morte, con un’evidente ripresa del motivo, già petrarchesco, della vanità di ogni cosa. Così, a «oro, garofano e cristallo lucido», simboli dell’«età dorata» (vv. 10-11), si contrappongono, cancellando ogni cosa, «terra, fumo, polvere, niente» (v. 14).

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Svolgi la parafrasi delle due quartine del testo A. > 2. Quali sono gli effetti della bellezza della donna nel testo A? > 3. A chi rivolge il poeta l’invito a godere nel testo B? > 4. Con quale immagine si conclude il secondo sonetto? AnALizzAre

> 5. Stile Registra le metafore riferite alla donna presenti nei due sonetti. > 6. Stile Quale figure rilevi nell’espressione «fra le piume del suo nido» (v. 1, testo A)? > 7. Lessico Quale campo semantico prevale nella descrizione dell’azione e degli effetti di Amore nei due sonetti? > 8. Lingua Procedi all’analisi del periodo che occupa tutto il secondo sonetto, sottolineandone la simmetria a livello della costruzione sintattica.

ApprofonDire e inTerpreTAre

> 9.

52

Scrivere

Delinea in un testo di circa 10 righe (500 caratteri) le caratteristiche peculiari della poesia di Gongora.

Capitolo 1· La lirica barocca

A10

La prima rappresentazione

William Shakespeare La vita Non sono molte le notizie che ci sono giunte sulla vita del più grande drammaturgo di tutti i tempi, al punto che non è mancato chi ha addirittura messo in dubbio la sua reale esistenza. William Shakespeare ( cap. 4, p. 147) nasce a Stratford-upon-Avon, nel 1564, da un agiato commerciante di pellami, e di lui non si sa più nulla fino al 1582, quando sposa Anne (o Agnes) Hathaway, da cui avrà tre figli. Si può dire che la sua storia, insieme con quella degli autori “elisabettiani”, sia legata ai teatri che vennero costruiti a Londra negli ultimi decenni del XVI secolo ( Il teatro elisabettiano, p. 148): prima il Theatre (1576) e il Curtain (1577), poi il Rose (1587) e lo Swan (1596). Risulta che nel 1592 Shakespeare si sia oramai affermato come attore e come drammaturgo; in particolare il 3 marzo viene rappresentata la prima parte dell’Enrico VI. Nel 1593, quando i teatri vengono chiusi per la peste, pubblica il poemetto mitologico Venere e Adone e, l’anno successivo, un altro poemetto, Lucrezia violata, iniziando al tempo stesso la stesura dei sonetti. Nel 1594 viene pubblicato anonimo il suo Tito Andronico. Alla riapertura dei teatri, in quel medesimo anno, Shakespeare entra a far parte della compagnia dei “servi del Lord Ciambellano”, una cooperativa che prevedeva la partecipazione alle spese e agli utili. Quella teatrale diventa così una vera e propria attività professionale, che gli consente nel 1597 di acquistare una casa a Stratford. Nel 1599 esce, con il nome di Shakespeare, una raccolta di poesie, Il pellegrino appassionato, che solo in parte gli appartengono. Nel 1603, dopo la morte della regina Elisabetta, il successore Giacomo I prende alla sue dipendenze la Compagnia del Lord Ciambellano, che assume il nome di King’s Men (“Uomini del re”) o di “Attori di Sua maestà”.

Del 1609 è la pubblicazione, probabilmente non autorizzata da Shakespeare, del volumetto dei Sonetti, che da soli sarebbero sufficienti ad assicurargli un posto di rilievo nella letteratura del XVII secolo. A partire da questi anni sembra che Shakespeare, pur senza interrompere i rapporti con la sua compagnia e continuando a fornirle i suoi testi, si trasferisca a Stratford, per acquistare poi un’abitazione a Londra nel 1613. Nel medesimo anno un incendio distrugge il teatro Globe, dove recitava la sua compagnia, durante una rappresentazione del dramma storico Enrico VIII. Muore a Stratford il 23 aprile 1616. i Sonetti

Testi Shakespeare • Immortalità • L’amore “malato” dai Sonetti

Ritratto di William Shakespeare, 1610 circa, olio su tavola, Collezione privata.

53

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

T10

William Shakespeare

Temi chiave

o famelico Tempo

• la personificazione del Tempo • il trascorrere inesorabile e vorace

dai Sonetti

• l’eternità della poesia

del tempo

È il XIX dei 154 sonetti shakespeariani. Il tempo, che distrugge ogni cosa, non può nulla contro la poesia, che conserva le immagini dell’amore e della bellezza.

4

O famelico1 Tempo, la zampa del leone corrodi e fa che la terra divori la propria genitura2; i denti aguzzi strappa dalle mascelle delle tigri e ardi la fenice3 longeva e consumale il sangue;

8

fa’, mentre ti dilegui, la stagioni tristi o giulive e tutto quello che vuoi, fa’, Tempo dal piè leggero, al vasto universo e alle cose sue dolci che appassiscono; ma un crimine molto più nero ti vieto: del mio amore

11

la bella fronte non incidere4 con le tue ore, o fugace5, né vi resti traccia di linee della tua penna antica6; lascialo illeso nel tuo correre implacabile, serba7

14

il modello della bellezza agli uomini venturi8. Fa’ pure il peggio9, vecchio Tempo: del tuo danno a dispetto10, giovane per sempre vivrà nei miei versi il mio amore. W. Shakespeare, Quaranta sonetti, a cura di C. Ossola, trad. it. di G. Ungaretti, Einaudi, Torino 1999

1. famelico: affamato, vorace. 2. genitura: figli; il riferimento è al mito di Crono (il Tempo), figlio di Urano (il Cielo) e di Gea (la Terra), che divorava le proprie creature. 3. fenice: l’uccello mitologico che rinasceva dalle proprie ceneri dopo la morte.

4. incidere: coprire di rughe, con il tuo trascorrere, con il passare delle tue ore. 5. fugace: fuggitivo (il tempo “fugge”, scorre rapidamente). 6. penna antica: la penna metaforica con cui sin dall’antichità il tempo “incide” le rughe o, più in generale, “scrive” il destino de-

gli uomini. 7. serba: conserva. 8. venturi: che verranno. 9. Fa’… peggio: comportati pure nella maniera peggiore. 10. del tuo … dispetto: a dispetto dei danni che arrechi.

Devouring Time, blunt thou the lion’s paws, / And make the earth devour her own sweet brood; / Pluck the keen teeth from the fierce tiger’s jaws, / And burn the longlived phoenix in her blood; // Make glad and sorry seasons as thou fleet’st, / And do whate’er thou wilt, swift-footed Time, / To the wide world and all her fading sweets; / But I forbid thee one most heinous crime: // O, carve not with thy hours my love’s fair brow, / Nor draw no lines there with thine antique pen; / Him in thy course untainted do allow // For beauty’s pattern to succeeding men. / Yet, do thy worst, old Time: despite thy wrong, / My love shall in my verse ever live young.

54

Capitolo 1· La lirica barocca

Analisi del testo Immagini cruente e macabre

L’inesorabilità del Tempo Le preghiere del poeta Il miracolo della poesia

Anche Shakespeare riprende, da Petrarca, il motivo dello scorrere veloce e inesorabile del tempo, ma ne accentua la drammaticità, mettendo in scena un’immaginazione cruenta e macabra, con la corrosione della zampa del leone, i denti delle tigri strappati, la Fenice che il Tempo «famelico», distruttore di tutte le cose, brucia e dissangua. Anche ciò che si crede immortale è cancellato dal tempo, come la mitica Fenice che passava indenne attraverso le fiamme e che invece viene bruciata («ardi la fenice longeva», v. 4). Il Tempo diventa così il padrone di tutto ciò che esiste in natura e può governare il mondo a suo piacere («fa’, mentre ti dilegui, la stagioni tristi o giulive / e tutto quello che vuoi, fa’», vv. 5-6), ignorando la volontà degli uomini, che nulla possono fare per opporsi e contrastarne i volubili disegni. Il poeta sa di non potergli chiedere nulla e tuttavia non rinuncia a perorarlo, se addirittura gli ordina di risparmiare il suo amore, facendo sì che il volto non si copra di rughe e che resti intatta la sua giovanile bellezza. Un’impresa, questa, che nella realtà risulta impossibile e che solo un miracolo può compiere; il miracolo è quello della poesia, che riesce a rendere eterna la bellezza e a trionfare sulle devastazioni del Tempo.

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Che cosa chiede il poeta al tempo? > 2. Che cosa rappresenta la donna? > 3. Quale potere ha la poesia, rispetto allo scorrere del tempo? AnALizzAre

> 4. > 5. > 6.

Quali figure retoriche rilevi ai versi 2 e 4? Individua le metafore riferite al tempo. Lessico Sottolinea e spiega gli aggettivi con cui è descritto il tempo. Stile Stile

ApprofonDire eD inTerpreTAre

> 7.

Testi a confronto Istituisci un confronto, a livello tematico, tra questo sonetto di Shakespeare e il sonetto di Luis de Góngora, Finché dei tuoi capelli emulo vano ( T9b, p. 51), sottolineando somiglianze e differenze.

Pieter Claesz, Vanitas, 1656, olio su tavola, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemaeldegalerie.

55

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

In sintesi

LA LiriCA BAroCCA Verifica interattiva

LA LiriCA in iTALiA: MArino e i “MAriniSTi” La lirica del Seicento si sviluppa in gran parte alla luce di quella ricerca della “meraviglia” che, dal capostipite Giovan Battista Marino, a partire dalla sua prima raccolta (La lira, del 1614), si dirama nel folto gruppo dei suoi seguaci, i cosiddetti “marinisti”. Ad accomunare queste esperienze è soprattutto l’impiego di un linguaggio metaforico, ossia fondato sulla possibilità di inconsueti accostamenti consentiti dalla metafora, che, combinata con altre figure retoriche (antitesti, ossimori, iperboli ecc.), favorisce la ricerca dell’imprevisto gioco di parole, del concetto raro, acuto e prezioso, posto spesso in chiusa del sonetto per potenziare l’effetto-sorpresa. La poesia barocca era nata come reazione nei confronti del petrarchismo cinquecentesco, che, con il suo esclusivo rifarsi al lessico usato da Petrarca, aveva finito per ridurre l’immagine femminile a un figurino uniforme, stereotipato. Al contrario, come si è visto, i poeti barocchi cantano la donna nella più grande varietà dei suoi aspetti e comportamenti. È questo un atteggiamento che riguarda, più in generale, il rapporto del poeta con la realtà di cui indaga, sul piano delle scelte retoriche e verbali, gli aspetti molteplici e multiformi.

CHiABrerA e CAMpAneLLA Assai diverse sono le due più importanti esperienze rappresentate dalla lirica che fuoriesce dai confini del Barocco: Gabriello Chiabrera cerca una misura e dei ritmi tradizionalmente più composti, intrisi di sentimentalismo e di musicale scorrevolezza; ben più incisive e profonde nelle poesie di Tommaso Campanella sono le durezze e le dissonanze del dettato, a esprimere le sofferte esperienze che agitano un pensiero filosofico tormentato e complesso.

LA LiriCA in SpAGnA e inGHiLTerrA Tornando rapidamente alle influenze esercitate sulla lirica dalle poetiche ispirate al Barocco, non c’è dubbio che i risultati più felici e persuasivi vadano cercati al di fuori dell’Italia, nella Spagna di Luis de Góngora e Francisco de Quevedo, nell’Inghilterra di John Donne e soprattutto di William Shakespeare, autori unificati, oltre che da un linguaggio suggestivamente metaforico e immaginifico, da un sentimento dello scorrere del tempo e da una percezione del carattere effimero delle gioie umane che imprime ai loro versi l’andamento di una sofferta problematicità.

facciamo il punto 1. Quali sono le principali caratteristiche della lirica italiana ed europea di età barocca sotto il punto di vista

stilistico e tematico? 2. Quale concezione della poesia, dell’amore, della donna e della bellezza è possibile riconoscere nei componimenti antologizzati? 3. Quali sono gli artifici retorici più usati da Marino, Ciro di Pers, Lubrano e Achillini nelle poesie presenti in questo capitolo? 4. Quali elementi di tradizione e di innovazione si possono individuare nella produzione di Chiabrera? 5. Per quale motivo l’esperienza poetica di Campanella rappresenta un unicum nel panorama letterario barocco? 6. Quali caratteristiche formali e contenutistiche della poesia di Góngora antologizzata ci consentono di considerarla come un modello del gusto barocco? 7. Quale tema della tradizione è ripreso nel sonetto di Shakespeare antologizzato? Come viene affrontato?

56

Capitolo 2

Dal poema al romanzo

1 La ripresa dei modelli

La novità dell’Adone

Tassoni e la parodia nella Secchia rapita

Le trasformazioni del poema epico e cavalleresco in italia La fortuna dell’Orlando furioso e della Gerusalemme liberata prosegue nel Seicento, dando luogo a una disputa su quale delle due opere debba avere la supremazia (Galileo non esiterà a preferire Ariosto). Attivi sono anche i continuatori del poema tassiano, con opere come La Croce racquistata (1605) o La Roccella espugnata (1630) di Francesco Bracciolini, la Babilonia distrutta (1624) di Scipione Errico, il Tancredi (1636) di Ascanio Grandi o Il conquisto di Granada (1650) di Girolamo Graziani. Ma in tutte queste opere appare evidente l’esaurirsi della materia epica, per la difficoltà di trovare ancora delle motivazioni ideali nei valori della religione e della storia. A tagliare decisamente i ponti con queste componenti, essenziali per una realizzazione dell’epos, è l’Adone di Giovan Battista Marino ( T1, p. 59 e T2, p. 62), che della Gerusalemme riprende piuttosto un aspetto marginale, quello che, contrastando con l’intenzione della profonda univocità del poema, dava spazio alle forze inconsce dell’eros, invano censurate dall’autore. Ci riferiamo al giardino incantato della maga Armida, che ha soggiogato la volontà di Rinaldo, assoggettandolo ai suoi piaceri e distogliendolo dall’obiettivo dell’impresa, la conquista del Santo Sepolcro. Ora non sarà un caso che proprio un giardino pieno di delizie sia l’ambiente – deputato ad accogliere l’amore di Venere e Adone – in cui si celebrano i piaceri che si possono ricavare dall’uso dei cinque sensi; qui si svolge l’opera in un’atmosfera di voluttuoso abbandono e di sensuale edonismo, esaltata dalle varie modulazioni di una scrittura raffinata e ricercata. L’esiguità della trama faceva sì che la classica unità dell’azione venisse abbandonata, a favore della conduzione di un racconto fatto in prevalenza di digressioni, di indugi e di eleganti descrizioni. Ma fondamentale, per segnare la nuova direzione rappresentata dall’opera, era la sostituzione dell’amore alla guerra, come filo conduttore e tematica dominante, tanto da indurre lo scrittore marinista Scipione Errico a coniare la definizione tutta nuova di «poema amatorio»; al tempo stesso veniva rifiutata ogni idea di una narrazione capace di farsi portatrice di alti valori morali e religiosi. Del poema epico, quindi, l’Adone rifiutava completamente le regole, con piena consapevolezza da parte di Marino, che, in una lettera del 1624 a Girolamo Preti, orgogliosamente scriveva: «Io pretendo di saper le regole più che non sanno tutti i pedanti insieme; ma la vera regola, cor mio bello, è saper rompere le regole a tempo e luogo, accomodandosi al costume corrente ed al gusto del secolo» (dove il riferimento «al gusto del secolo» sottolinea l’abilità dello scrittore nel soddisfare le attese del suo pubblico). Se Marino ripudia le caratteristiche fondamentali dell’epos, Alessandro Tassoni ( A1, p. 68), nella Secchia rapita, le sottopone a un processo di deformazione che nega ogni possibilità di credere ancora ai valori della tradizione eroica e cavalleresca. Mentre Ariosto era intervenuto su questa materia con gli strumenti di un superiore distacco ironico, Tassoni la sottopone invece a un più marcato procedimento parodico, colpendo con l’arma del ridicolo le ambizioni di gloria e le presunzioni di grandezza, dal momento che la storia viene a essere rappresentata sotto le spoglie di un travestimento farsesco. 57

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Giovan Battista Marino

Capitolo 1, a1, p. 32

L’ADONE Al principio rinascimentale dell’imitazione Marino sostituisce il principio La “gara” con i modelli

Testi Marino • Il giardino del tatto dall’Adone

I riconoscimenti Il tema principale

Le digressioni

Un «poema di pace»

dell’emulazione, entrando in gara con i poeti da cui ricava stimoli e suggerimenti: fra gli antichi Ovidio, in primo luogo, che gli offriva lo spunto per una fertilità di invenzioni incomparabilmente ricca e mutevole, ponendo al centro quel motivo delle “metamorfosi” (così si intitola la principale opera ovidiana), tipico della visione del mondo barocca. A questi intenti obbedisce soprattutto l’opera più impegnativa, l’Adone, vastissimo poema pubblicato negli ultimi anni di vita dello scrittore (1623), che lo aveva arricchito via via di episodi e digressioni. Ne risultò alla fine una «fabrica» prodigiosamente estesa, con la quale Marino si propose di gareggiare con l’autore della Gerusalemme liberata, rinnovandone e allargandone il successo. L’operazione gli riuscì perfettamente, e i riconoscimenti non furono soltanto nazionali: l’opera venne stampata a Parigi con il sussidio del re di Francia, Luigi XIII, e con la prefazione di uno dei più noti letterati francesi, Jean Chapelain (1595-1674). Per ottenere lo scopo, Marino rinunciò definitivamente a ogni progetto di poema epico, sostituendo alla guerra l’amore, come motivo dominante. Né maggiore attenzione attribuì al principio dell’unità d’azione; non solo, ma l’azione è pressoché inesistente, rimanendo limitata all’amore di Venere per il bellissimo Adone e alla morte del giovane, ucciso da un cinghiale aizzatogli contro dal geloso Marte. Su questo spunto mitologico si innesta una serie di altri racconti e digressioni, che costituiscono una narrazione di altre vicende mitologiche (la favola di Amore e Psiche, ad esempio, tratta da Apuleio), oppure si soffermano su una descrizione di realtà raffinate e sensuose. In questo senso Chapelain poté definire l’Adone come un «poema di pace», destinato a una società ormai stanca delle guerre che da anni insanguinavano l’Europa; ma era pur sempre una società aristocratica che rispondeva a questi problemi con una complice volontà di fuga e di evasione. A questa società Marino aveva offerto i suoi servizi, conciliando le preoccupazioni moralistiche dell’ideologia controriformistica con la ricerca di un piacere che appare spesso al vertice delle aspirazioni della civiltà barocca, ma che risulta problematicamente contraddetto da un senso acuto dello scorrere del tempo e della presenza cupa della morte.

L’opera

Adone di Giovan Battista Marino Per vendicarsi della madre Venere, Amore fa sì che la dea si innamori del bellissimo Adone, nato dalla passione incestuosa di Mirra per il padre. Approdato avventurosa­ mente nell’isola di Cipro, Adone viene ospitato dal pastore Clizio e condotto al palazzo della dea. Durante il tragitto, Clizio gli narra l’episodio del giudizio di Paride. Venere scopre il giovane addormentato e lo conduce con sé; Amore gli racconta la favola di Psiche e più tardi Mer­ curio espone i casi di amanti famosi dell’antichità. Con Venere Adone entra nel «Giardino del piacere», le cui porte stanno a simboleggiare i cinque sensi e, di con­ seguenza, la poetica della voluttà e del godimento che tanta parte ha nel poema. Qui assiste a feste e danze, poi, dopo aver banchettato con la dea, «Perviene Adone ale delizie estreme / e, prendendo tra lor dolce trastullo, / l’innamorata diva e ‘l bel fanciullo / ala meta d’amor giun­ gono insieme» (sono i versi con cui si introduce l’argo­ mento del canto VIII). Il giovane e la dea si recano quindi alla fontana d’Apollo e assistono a una gara di cigni, in cui sono adombrati i più famosi poeti italiani; nella figura di Fileno, all’inizio del canto IX, Marino raffigura se stesso.

58

Sotto la guida di Venere e Mercurio, Adone sale in cielo, dove Mercurio gli mostra, riunite, le meraviglie dell’univer­ so: le arti, le scienze, i libri, le invenzioni e il mappamon­ do. È un episodio eminentemente fantastico (l’esempio è offerto dal viaggio di Astolfo sulla luna, nell’Orlando furioso), ma Marino vi introduce, di suo, un nuovo gusto per la tecnica e le scoperte geografiche. Termina a questo punto (canto XI) la parte idillica del poe­ ma e inizia quella più romanzesca. La Gelosia raggiunge il cuore di Marte e Adone è costretto ad allontanarsi con un anello fatato in cui può contemplare l’immagine della dea. La maga Falsirena cerca di sedurre il giovane, che le resiste e viene imprigionato. Dopo aver sopportato tormenti e tentazioni, con l’aiuto di Mercurio riesce a fug­ gire, trasformandosi in pappagallo; poi, immergendosi in una fontana, recupera la forma umana. Seguono altri accidenti e peripezie, finché Adone ritorna da Venere e viene eletto re di Cipro. Durante un’assenza della dea, però, un cinghiale, aizzatogli contro da Marte, lo uccide. L’opera si conclude con le solenni esequie di Adone e i giochi funebri in suo onore.

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

T1

Giovan Battista Marino

Temi chiave

Elogio della rosa

• il ricorso agli artifici per creare meraviglia • l’elogio della rosa, il fiore dell’amore

dall’Adone, III, 155-159

• la rappresentazione della bellezza

che tutto vivifica

È l’incontro di Venere e Adone, l’inizio della loro storia d’a­ more: punta al piede dalla spina di una rosa, Venere cerca una fontana per disinfettarsi e lì incontra il giovane addormentato. Quello che segue è un inno alla rosa, di cui Venere celebra la bellezza.

> Metro: ottave di endecasillabi; schema delle rime ABABABCC. 155

Poi le luci girando al vicin colle, dov’era il cespo che ’l bel piè trafisse1, fermossi alquanto a rimirarlo, e volle il suo2 fior salutar pria che partisse; e vedutolo ancor stillante e molle3 quivi porporeggiar così gli disse: – Salviti il Ciel da tutti oltraggi e danni, fatal cagion de’ miei felici affanni.

156

Rosa riso d’Amor, del Ciel fattura, Rosa del sangue mio fatta vermiglia, pregio del mondo, e fregio di Natura, de la Terra e del Sol vergine figlia4, d’ogni Ninfa e Pastor delizia e cura, onor de l’odorifera5 famiglia, tu tien d’ogni beltà le palme6 prime, sovra il vulgo de’ fior Donna sublime.

Audio

157

Quasi in bel trono Imperadrice altera siedi7 colà su la nativa sponda8. Turba d’aure vezzosa e lusinghiera ti corteggia dintorno, e ti seconda9; e di guardie pungenti10 armata schiera ti difende per tutto, e ti circonda. E tu fastosa del tuo regio vanto porti d’or la corona, e d’ostro il manto11.

ottava 155 Poi (Venere) volgendo gli occhi (luci) verso il vicino colle, dove c’era il cespuglio di rose (cespo) che aveva punto il (suo) bel piede, si fermò per un po’ (alquanto) a guardarlo nuovamente (rimirarlo), e volle salutare il suo fiore prima di allontanarsi; e vedendolo ancora lì intriso (molle) e gocciolante (di sangue e per questo) del colore della porpora, gli disse: – Che il cielo ti salvi da tutte le offese (oltraggi) e i danni, tu che sei stato per volontà del fato, la causa dei dolci (felici) affanni (d’amore) che io provo. 1. il cespo ... trafisse: la piccola ferita aveva indotto Venere a interrompere il cammino e a

medicarsi alla fonte vicina. È qui che sorprende il bellissimo Adone, innamorandosene perdutamente. 2. suo: indica il legame sentimentale che si è stabilito tra la rosa e la dea, perché grazie al fiore Venere ha potuto incontrare Adone. 3. molle: per il sangue che ha assorbito. ottava 156 Rosa, che sei il sorriso di Amore, creatura (fattura) del cielo, rosa che (a causa) del mio sangue sei divenuta (fatta) color rosso vermiglio, sei virtù (pregio) dell’universo e ornamento (fregio) della natura, (sei) candida (vergine) figlia della terra e del sole, (sei) oggetto di gioia (delizia) e di cura di

ogni ninfa e pastore, (sei) l’orgoglio della famiglia profumata (odorifera), tu detieni il primato (le palme prime), (sei) signora (Donna) sublime al di sopra della massa dei fiori. 4. di Natura … vergine figlia: figlia perché si nutre delle sostanze offerte dalla Natura e perché cresce grazie alla luce del Sol. 5. odorifera: cioè della specie dei fiori. 6. palme: nell’antica Grecia e a Roma la ghirlanda o il ramo di palma erano dati come premio al vincitore di una gara sportiva o poetica. ottava 157 Come un’imperatrice superba (altera) siedi in un bel trono sulla sponda su cui sei nata. La moltitudine (Turba) delle brezze (aure) leggiadra (vezzosa) e seducente (lusinghiera) ti corteggia (soffiandoti) intorno e asseconda (i tuoi movimenti); e una fila (schiera) armata di guardie pungenti ti difende completamente (per tutto) e ti circonda. E tu orgogliosa (fastosa) della tua dignità (vanto) regale indossi una corona d’oro e un mantello color porpora (ostro). 7. siedi: il fiore è personificato. 8. sponda: «la rosa selvatica sorge per lo più presso i ruscelli, dove la terra è irrigata» (Mannucci). 9. seconda: sottinteso: così da favorire l’esprimersi della tua bellezza. Gli elementi di natura sono qui tutti personificati. 10. guardie pungenti: traslato e perifrasi per spine. 11. fastosa ... manto: si noti come l’orgoglio della nobiltà della rosa venga espresso attraverso l’indicazione della ricchezza dell’apparenza esteriore: la corona d’oro corrisponde agli stami, il mantello di porpora ai petali; entrambi sono paramenti (insieme allo scettro) simbolo della regalità.

59

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

158

Porpora de’ giardin, pompa de’ prati, gemma di Primavera, occhio d’Aprile12, di te le Grazie e gli Amoretti alati fan ghirlanda a la chioma, al sen monile. Tu qualor torna agli alimenti usati Ape leggiadra o Zefiro gentile, dài lor da bere in tazza di rubini rugiadosi licori e cristallini.

159

Non superbisca ambizïoso il Sole di trïonfar fra le minori stelle, ch’ancor tu fra i ligustri e le vïole scopri le pompe tue superbe e belle13. Tu sei con tue bellezze uniche e sole splendor di queste piagge14, egli di quelle15. Egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo, tu Sole in terra, ed egli Rosa in Cielo.

ottava 158 Rosso dei giardini, fasto (pompa) dei prati, germoglio di primavera, occhio di aprile, le Grazie e gli Amoretti alati fanno di te ghirlande per i capelli, collane per il petto (al sen monile). Tu, ogni volta che un’ape leggiadra o una dolce (gentile) brezza ritornano (a suggere) il consueto (usati) cibo (alimenti) offri loro da bere nel tuo calice (tazza) color del rubino nettari (licori) pieni di rugiada e puri (cristallini). 12. gemma ... d’Aprile: il germogliare della

rosa è indice dell’arrivo di primavera. Grazie alla ricchezza della trama delle personificazioni, la rosa diventa un’entità luminosa e preziosa, un emblema, ricco di richiami sensoriali, dello schiudersi della natura primaverile. ottava 159 Il sole, superbo e ambizioso, non ha ancora trionfato sulle stelle minori, che tu già (ancor) mostri le tue ricchezze (pompe) belle e superbe tra i fiori di ligustro e le viole. Tu sei, grazie alle tue bellezze in-

comparabili (uniche e sole), la meraviglia di questi luoghi (piagge), il sole (egli) del firmamento (quelle). Egli nella sua orbita (cerchio) è una rosa in cielo, come tu sei, sul tuo stelo, un sole in terra. 13. Non superbisca ... belle: si noti il riferimento alle recenti scoperte della cosmologia (il Sole come stella “maggiore” della costellazione). Il bianco dei fiori del ligustro e il colore delle viole erano spesso usati come attributi della bellezza femminile. 14. piagge: dal medievale plagia, ora plaga, indica genericamente una regione, una distesa, sia di terra sia di mare. 15. quelle: riferito alle minori stelle del secondo verso dell’ottava.

Peter Paul Rubens, Venere e Adone, 1614 ca., oli su tela, San Pietroburgo, Hermitage.

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Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

Analisi del testo

La musicalità del testo

Il paragone con elementi preziosi e regali

L’immagine della rosa

Nel testo, tra i più celebri del poema, sono evidenti i procedimenti compositivi di Marino che, a partire da una situazione, costruisce un gioco ricercato di immagini metaforiche e paragoni arditi, reso con raffinata sensibilità. Dopo l’espressione ossimorica («felici affanni») su cui si chiude l’ottava 155, l’ottava successiva si apre con una paronomasia («Rosa/riso») e un uso rovesciato delle stesse vocali («Rosa/amor»), a introdurre quella musicalità che, oltre all’evidenza della coppia «pregio/fregio», si ripercuote, a partire dall’ottava 156, negli echi fonici della liquida /r/ (ad esempio: «vermiglia/vergine», «natura/cura» in rima, «onor de l’odorifera famiglia»). A queste corrispondenze foniche si accompagna il fitto tessuto dei traslati metaforici, in cui la rosa, simbolo dell’amore e fonte di vita («de la Terra e del Sol vergine figlia»), viene paragonata a realtà diverse, rare e preziose. In primo luogo la sua personificazione («siedi») si riferisce con insistenza alle immagini di una sovrana regalità, dall’epiteto di «Donna» (“signora”, alla latina) agli attributi che ne contrassegnano il superiore dominio, in particolare nell’ottava 157: «in bel trono Imperadrice altera», «e di guardie pungenti armata schiera» (propriamente le spine), il «regio vanto», «porti d’or la corona, e d’ostro il manto». Non manca il riferimento alla preziosità delle perle e dei gioielli («porpora», «pompa», «gemma», «ghirlanda», «monile», «tazza di rubini», «cristallini», ottava 158), così come sono presenti gli elementi tipici della stilizzazione del locus amoenus primaverile («Turba d’aure vezzosa», «gemma di Primavera», «Zefiro gentile», «fra i ligustri e le vïole»), in un quadro idilliaco che si richiama anche agli elementi della poesia bucolica («d’ogni Ninfa e Pastor delizia e cura»). Tutti questi elementi convergono nell’illustrazione dell’immagine della rosa, che li assorbe interamente, dilatando il gioco metaforico ad abbracciare l’intero universo, il «mondo», la «Natura» e soprattutto «il Sole», che consente, ultimo tocco cercato per produrre la “meraviglia”, l’ardita e concettosa corrispondenza rovesciata dell’ultimo verso dell’ottava 159: «tu Sole in terra, ed egli Rosa in Cielo».

Esercitare le competenze CoMprEndErE

> 1. Proponi la parafrasi della forma «Salviti» (ottava 155, v. 7): chi sta parlando? A chi si rivolge? Perché? > 2. Spiega il significato dei versi «Non superbisca … fra le minori stelle» (ottava 159, vv. 1­2). AnALizzArE

> 3. Individua le caratteristiche salienti del luogo che fa da sfondo alla celebrazione delle qualità della rosa. > 4. Stile Analizza, dal punto di vista fonico, l’ottava 156: che cosa osservi? > 5. Lessico Individua i vocaboli e/o le espressioni che possono essere ricondotti alle percezioni sensoriali: quale campo semantico viene privilegiato?

ApprofondirE E inTErprETArE

> 6.

Esporre oralmente La narrazione della favola mitologica dell’amore tra Venere e Adone rappresenta il filo conduttore attraverso cui il poeta intende presentare al lettore tutto lo scibile umano. In un’esposizione orale (max 3 minuti) individua questa tendenza enciclopedica nel brano proposto e spiega quali aspetti della realtà vengono descritti.

pEr iL rECupEro

> 7. Ricerca nei versi tutti gli aggettivi qualificativi e spiega a quale registro appartengono. Si tratta prevalentemen­ te di termini comuni o ricercati?

61

L’età del Barocco e della Nuova Scienza pASSATo E prESEnTE il “Barocco” dei nostri tempi

> 8. Dopo aver letto il passo seguente, commentalo in classe con l’insegnante e i compagni facendo riferi­

mento anche alle diverse espressioni della creatività contemporanea (nel mondo della moda, nella civiltà delle immagini, ecc.) che sembrerebbero ispirarsi alla cultura del Barocco. Il Barocco è tornato. Quanto meno nel lessico: per etichettare la letteratura non minimalista, molta architettura eccentrica di oggi e un’estetica dell’eccesso e della “meraviglia” […]. Ma cos’è stato davvero il Barocco? Lo spiega il nuovo saggio di Tomaso Montanari, Il Barocco […]. Che è un sintetico e accurato viaggio nello stile sviluppato a partire dalla Roma dei Carracci e di Caravaggio, per culminare nei cicli di Pietro da Cortona e nelle invenzioni di Gian Lorenzo Bernini, a Seicento ormai avanzato. Montanari, professore di storia dell’ arte moderna a Napoli, attivo nella difesa del patrimonio culturale e nella denuncia […] dedica il libro ai suoi studenti. E trova una formula nuova di “racconto” della storia dell’arte, ponendosi a distanza dall’accademia e dalla semplice divulgazione. […] È giusto parlare di Neobarocco? Che nessi ci sono tra quel movimento e la contemporaneità? «Per analogia se ne può parlare. Una vaga concezione della teatralità e un certo iperdecorativismo avvicinano il gusto barocco a quello di oggi. Il ’600, poi, è il primo secolo in cui il pubblico, nella scena dell’arte, assume un’importanza pari a quella dell’artista. Il mercato e il collezionismo svolgono un ruolo centrale nell’arte barocca e questo è alle origini di quello che viviamo oggi». Ma perché oggi l’arte del ’600, da Caravaggio in poi, piace di più? «Perché il ’600 restituisce molta importanza agli individui. Il ritratto, che nel Rinascimento è considerato un genere minore, qui diventa quello chiave. In un’epoca di caduta delle grandi ideologie, parla di più al singolo individuo l’arte di Caravaggio e Bernini, la carne e il sangue, che la perfezione trascendente di Raffaello». […] Caravaggio e Bernini sono “nostri”. Ognuno di noi deve sapere perché. D. Pappalardo, Se il barocco è contemporaneo, in http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/07/28/se-il-barocco-contemporaneo.html

T2

Giovan Battista Marino

Temi chiave

Canto e morte dell’usignolo

• la gara fra un giovane innamorato e

dall’Adone, 32-34, 37-44, 47-49, 51-55

• un canto raffinato • la ricerca di stupire

un usignolo

Il passo assume l’andamento di una novelletta, che mette in scena una “gara” canora tra un usignolo e un giovane che sfoga le sue pene d’amore.

> Metro: ottave di endecasillabi; schema delle rime ABABABCC. 32

Ma sovr’ogni augellin vago1 e gentile, che più spieghi2 leggiadro il canto e il volo, versa il suo spirto tremulo e sottile la sirena3 de’ boschi, il rosignuolo; e tempra in guisa il peregrino stile4 che par maestro dell’alato stuolo5. In mille fogge6 il suo cantar distingue e trasforma una lingua in mille lingue.

33

Udir musico mostro7, o meraviglia, che s’ode sì ma si discerne8 a pena, come or tronca la voce, or la ripiglia, or la ferma, or la torce, or scema9, or piena,

1. vago: grazioso, leggiadro. 2. spieghi: dispieghi, distendi. 3. la sirena: le sirene erano creature mitolo-

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giche con l’aspetto di donna nella parte del corpo superiore e di pesce (o di uccello) in quella inferiore, che attiravano irresistibil-

mente con il loro canto i naviganti (nel XII canto dell’Odissea Ulisse riuscirà ad ascoltarlo facendosi legare all’albero della nave). 4. tempra … stile: modula, accorda il suo canto raro e prezioso (peregrino) in modo tale (in guisa). 5. dell’alato stuolo: di tutti gli uccelli. 6. fogge: modi, maniere. 7. mostro: nel senso del latino monstrum, “prodigio”. 8. discerne: vede, scorge. 9. scema: manchevole, fievole.

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

or la mormora grave, or l’assottiglia, or fa di dolci groppi10 ampia catena, e sempre, o se la sparge11 o se l’accoglie, con egual melodia la lega12 e scioglie. 34

O che vezzose13, o che pietose rime, lascivetto14 cantor compone e detta15. Pria flebilmente16 il suo lamento esprime, poi rompe in un sospir la canzonetta. In tante mute17 or languido, or sublime varia stil, pause affrena18 e fughe affretta, ch’imita insieme e ’nsieme in lui s’ammira cetra, flauto, liuto, organo e lira. […]

37

Chi crederà che forze accoglier possa animetta sì picciola cotante19? e celar tra le vene e dentro l’ossa tanta dolcezza un atomo20 sonante? o ch’altro sia che la liev’aura mossa21 una voce possente, un suon volante? e vestito di penne un vivo fiato, una piuma canora, un canto alato?

38

Mercurio allor, che con orecchie fisse vide Adone ascoltar canto sì bello, – Deh che ti pare – a lui rivolto disse – de la divinità di quell’augello? Diresti mai che tanta lena unisse22 in sì poca sostanza un spiritello? un spiritel, che d’armonia composto vive in sì anguste23 viscere nascosto?

39

Mirabil arte in ogni sua bell’opra (ciò negar non si può) mostra Natura, ma qual pittor che ’ngegno e studio scopra vie più che ’n grande in picciola figura24, ne le cose talor minime adopra diligenza maggiore e maggior cura. Quest’eccesso però sopra l’usanza d’ogni altro suo miracolo s’avanza25.

10. groppi: nodi. 11. sparge: distende. 12. la lega: la tiene unita. 13. vezzose: graziose. 14. lascivetto: voluttuoso. 15. detta: nel senso di “cantare”, “musicare”. 16. flebilmente: debolmente, con voce esile. 17. mute: modi mutevoli, cangianti.

18. affrena: tiene a freno. 19. cotante: tante. 20. atomo: cosa microscopica, corpuscolo. 21. ch’altro … mossa: che sia qualcosa di diverso da un lieve soffio d’aria mosso (dal canto dell’usignolo). 22. tanta … unisse: mettesse insieme tanto fiato.

23. anguste: piccole. 24. qual … figura: come quel pittore che mostri di avere (scopra) ingegno e cura assai più (vie più) nel dipingere una piccola figura che una grande. 25. Quest’eccesso … s’avanza: questa abilità straordinaria supera di gran lunga (sopra l’usanza) ogni altro fatto miracoloso della natura (suo).

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

40

Di quel canto nel ver26 miracoloso una istoria narrar bella ti voglio. Caso in un27 memorando e lacrimoso, da far languir di tenerezza un scoglio. Sfogava con le corde28 in suon pietoso29 un solitario amante il suo cordoglio30. Tacean le selve e dal notturno velo31 era occupato in ogni parte il cielo.

41

Mentr’addolcia d’amor l’amaro tosco32 col suon, che ’l sonno istesso intento33 tenne, l’innamorato giovane, ch’al bosco per involarsi a la34 città sen venne, sentì dal nido suo frondoso e fosco35 questo querulo36 augel batter le penne, e gemendo accostarsi ed invaghito mormorar tra se stesso il suono udito.

42

L’infelice augellin, che sovra un faggio erasi desto a richiamare il giorno37, e dolcissimamente in suo linguaggio supplicava l’Aurora a far ritorno, interromper del bosco ermo38 e selvaggio i secreti silenzii udì dintorno e ferir l’aure d’angosciosi accenti del trafitto d’amor gli alti lamenti39.

43

Rapito40 allora e provocato insieme dal suon, che par ch’a sé l’inviti e chiami, da le cime de l’arbore supreme41 scende pian piano in sui più bassi rami; e ripigliando le cadenze estreme42, quasi ascoltarlo ed emularlo brami, tanto s’appressa43 e vola e non s’arresta, ch’al fin viene a posargli in su la testa.

44

Quei che le fila44 armoniche percote, sente, né lascia l’opra, il lieve peso, anzi il tenor45 de le dolenti note46 più forte in tanto ad iterare47 ha preso. E ’l miser rosignuol quanto più pote48 segue suo stile ad imitarlo inteso49. Quei canta e nel cantar geme e si lagna, e questo il canto e ’l gemito accompagna.

26. nel ver: veramente. 27. in un: insieme, allo stesso tempo. 28. con le corde: suonando uno strumento musicale a corda. 29. pietoso: lamentevole. 30. cordoglio: dolore.

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31. notturno velo: il buio della notte. 32. tosco: veleno. 33. intento: attento (nel senso che impedisce di prendere sonno). 34. involarsi a la: staccarsi, allontanarsi dalla.

35. fosco: scuro (per il buio della notte). 36. querulo: che emette un suono lamentoso. 37. richiamare il giorno: a far venire, a salutare l’alba (l’Aurora). 38. ermo: solitario. 39. ferir … lamenti: dipende da udì; gli alti (i profondi) lamenti che colpivano (ferir), facevano risuonare l’aria (l’aure) con le note (accenti) angosciose di chi era stato colpito dalle ferite (del trafitto) provocate dall’amore (d’amor). 40. Rapito: affascinato. 41. da le cime … supreme: dalla vetta, dalla punta più alta dell’albero. 42. ripigliando … estreme: riprendendo, ricreando gli ultimi suoni. 43. s’appressa: si avvicina. 44. le fila: i fili, le corde dello strumento. 45. il tenor: il tono. 46. le dolenti note: evidente ripresa di Dante, Inferno, V, 25, con diverso significato. 47. iterare: replicare. 48. pote: può. 49. inteso: intento.

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

[…] 47

Quasi sdegnando il sonatore arguto50 de l’emulazion gli alti contrasti, e che seco51 animal tanto minuto non che concorra al paragon sovrasti52, comincia a ricercar sovra il liuto del più difficil tuon53 gli ultimi tasti54; e la linguetta garrula e faconda55 ostinata a cantar sempre il seconda56.

48

Arrossisce il maestro, e scorno prende57 che vinto abbia a restar da sì vil cosa. Volge le chiavi58, e i nervi tira e scende con passata maggior59 fino a la rosa60. Lo sfidator non cessa, anzi gli rende61 ogni replica sua più vigorosa; e secondo che l’altro o cala, o cresce, labirinti di voce implica e mesce62.

49

Quei di stupore allor divenne un ghiaccio e disse irato: «Io t’ho sofferto un pezzo. O che tu non farai questa ch’io faccio, o ch’io vinto ti cedo63 e ’l legno spezzo». Recossi poscia il cavo arnese in braccio e come in esso a far gran prove avezzo, con crome64 in fuga e sincope65 a traverso pose ogni studio a varïare il verso. […]

51

Vola su per le corde or basso or alto più che l’istesso augel la man spedita, di su, di giù con repentino salto van balenando66 le leggiere dita. D’un fier conflitto e d’un confuso assalto inimitabilmente i moti67 imita, ed agguaglia col suon de’ dolci carmi i bellicosi strepiti de l’armi. […]

53

Poi tace e vuol veder se l’augelletto col canto il suon per pareggiarlo68 adegua.

50. arguto: suggestivo, abile. 51. seco: con lui. 52. non che … sovrasti: non solo entri in gara (concorra) ma lo superi nel confronto.

53. tuon: tono. 54. tasti: «il manico del liuto aveva nove tasti, che si premevano con le dita della mano sinistra» (Ferrero)

55. garrula e faconda: propriamente loquace ed eloquente (ma si riferisce ai suoni emessi, non alle parole). 56. il seconda: ne accompagna l’andamento, i suoni. 57. scorno prende: si vergogna. 58. Volge le chiavi: gira le chiavi dello strumento, per rendere più tese le corde (i nervi). 59. passata maggior: «serie di accordi della massima estensione» (Getto). 60. rosa: «è l’apertura o finestrella variamente disegnata che si trova negli strumenti a corda» (Getto). 61. gli rende: gli restituisce, come controcanto. 62. implica e mesce: avvolge, intreccia e mescola. 63. vinto ti cedo: mi dichiaro sconfitto. 64. crome: «la croma è una nota musicale» (Getto). 65. sincope: «è una nota che appartiene alla fine di un tempo e all’inizio di un nuovo tempo» (Getto). 66. van balenando: si muovono velocissime, in un baleno. 67. moti: movimenti. 68. pareggiarlo: uguagliarlo.

65

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Raccoglie quello ogni sua forza al petto, né vuole in guerra69 tal pace né tregua. Ma come un debil corpo e pargoletto70 esser può mai ch’un sì gran corso segua71? Maestria tale ed artificio tanto semplice e natural non cape72 un canto. 54

55

Poi che molte e molt’ore ardita e franca pugnò del pari73 la canora coppia, ecco il povero augel, ch’al fin si stanca, e langue e sviene e infievolisce e scoppia. Così qual face74, che vacilla e manca75, e maggior nel mancar luce raddoppia, da la lingua, che mai ceder non volse76, il dilicato spirito si sciolse. Le stelle poco dianzi77 innamorate di quel soave e dilettevol canto fuggir piangendo, e da le logge aurate78 s’affacciò l’alba e venne il sole intanto. Il musico gentil per gran pietate l’estinto corpicel lavò con pianto, ed accusò con lagrime e querele79 non men se stesso che ’l destin crudele.

69. guerra: gara. 70. pargoletto: così piccolo. 71. un sì gran corso segua: riesca a seguire un così grande movimento. 72. cape: racchiude. 73. pugnò del pari: combatté con pari risultati, con pari merito. 74. face: fiaccola, lume. 75. manca: viene meno. 76. ceder non volse: non volle darsi per vinta. 77. dianzi: prima. 78. da le logge aurate: dai balconi dorati (indica l’orizzonte). 79. querele: lamenti.

Analisi del testo Un duello insolito

La ricerca della meraviglia

L’abbondanza di artifici retorici

66

> La volontà di sorprendere

Abbiamo visto come, nell’Adone, il motivo delle armi si riduca a una caccia al cinghiale, in cui il protagonista trova la morte; in questo passo si può dire che al duello, tipico dei poemi epici e cavallereschi, si sostituisca la gara canora fra un giovane innamorato, che affida al canto le pene della sua passione infelice, e un usignolo (in questo senso la terminologia guerresca è espressamente usata nell’ottava 51 «fier conflitto» e «confuso assalto», v. 5, «i bellicosi strepiti de l’armi», v. 8; nell’ottava 53 «né vuole in guerra tal pace né tregua», v. 4; nell’ottava 54 «pugnò del pari», v. 2). Il motivo, che ha in sé e nel suo sviluppo un carattere inaudito e paradossale, consente al poeta di mettere in atto tutti gli artifici della poetica barocca, a partire dalla situazione in cui lo sfidante viene definito «musico mostro» (ottava 33, v. 1), un vero e proprio prodigio della natura. All’insegna di una sorprendente “meraviglia” viene condotto l’intero episodio, soprattutto per quanto riguarda la rappresentazione dell’usignolo, che diventa il vero protagonista della scena. L’effetto-sorpresa viene sottolineato, per antitesi, dal contrasto fra il corpicino del volatile e la forza travolgente del suo canto, in una descrizione che si avvale anche di un linguaggio specialistico, rivelando l’attenzione del Marino per quello studio della natura che aveva in Galileo il più grande esponente. Basti considerare la cura con cui viene descritta l’emissione della voce, nelle sue diverse tonalità e gradazioni, insieme con i procedimenti della tecnica musicale nel suono del liuto.

> L’abile uso delle figure retoriche

La straordinaria capacità di riprodurre le modulazioni del suono è resa da un uso abilissimo del procedimento enumerativo (ottava 33, vv. 3-8), mentre le risonanze e la forza della descrizione sono amplificate dall’iperbole e dai paragoni iperbolici («In mille fogge il suo cantar

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

La ricerca dell’eccesso

distingue / e trasforma ogni lingua in mille lingue», ottava 32, vv. 7-8), dall’adynaton, figura retorica che indica cose impossibili («Caso in un memorando e lacrimoso, / da far languir di tenerezza un scoglio», ottava 40, vv. 3-4), dalla mescolanza onnicomprensiva di elementi eterogenei («ch’imita insieme e ’nsieme in lui s’ammira / cetra, flauto, liuto, organo e lira», ottava 34, vv. 7-8), dall’affermazione di ciò che sembra incredibile («Chi crederà che forze accoglier possa / animetta sì picciola cotante?», ottava 37, vv. 1-2), dal gioco metaforico, infine, che giunge all’estrema sintesi concettosa di nessi variamente combinati come «atomo sonante», «suon volante», «vivo fiato», «piuma canora», «canto alato» (ottava 37). Ne deriva la ricerca di quell’«eccesso» («Quest’eccesso però sopra l’usanza / d’ogni altro suo miracolo s’avanza», ottava 39, vv. 7-8) con cui la natura sembra superare talvolta i limiti imposti dalle sue stesse leggi, rivelando una “maestria” che diventa trionfo dell’«artificio» («Maestria tale ed artificio tanto / semplice e natural non cape un canto», ottava 53, vv. 7-8), in opposizione a quel «semplice e natural» a cui si erano richiamate le poetiche del classicismo rinascimentale. Non è difficile, a questo punto, stabilire un parallelismo tra il canto dell’usignolo e la poesia dell’autore (canto e poesia sono sinonimi), la cui abilità vuole andare oltre la naturalezza dell’espressione, per cercare soluzioni inedite e impreviste.

> La gara del poeta

Anche quella del poeta diventa così una gara, che – come accade per l’usignolo – non si accontenta di imitare la natura ma si basa sull’emulazione, sul superamento dei modelli del passato, all’insegna di un’abilità che vuole sancire la supremazia dei moderni sugli antichi. Così il motivo dell’agone musicale viene a riflettersi, per una sorta di implicito legame metaforico, con la gara che il poeta ingaggia con le parole del testo, dando prova di un virtuosismo che imprime ai versi una scorrevole e mutevole musicalità, in cui il suono finisce per prevalere sul significato

Esercitare le competenze CoMprEndErE

> 1. Proponi una breve sintesi del contenuto del passo. AnALizzArE

> 2. > 3.

Analizza l’ottava 33: che cosa osservi dal punto di vista fonico? Quali figure retoriche, e con quale funzione, riscontri nel verso «inimitabilmente i moti imita» (ottava 51, v. 6)? A quale tema presente nel passo dà risalto? > 4. Lessico Individua nel testo vocaboli e/o espressioni appartenenti al linguaggio specialistico riferito all’emis­ sione della voce e ai procedimenti della tecnica musicale. > 5. Lessico Individua nel testo le espressioni di “meraviglia” riferite agli interventi dell’io lirico. Stile Stile

ApprofondirE E inTErprETArE

> 6.

Testi a confronto: esporre oralmente I temi dell’«artificio» nell’imitazione della natura e del canto degli uccelli sono presenti anche nel famoso episodio del giardino di Armida nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Dopo aver riletto le ottave di seguito riportate (dal canto XVI, 12­13), effettua in un’esposizione orale (max 5 minuti) un confronto, nell’ambito dei temi indicati, fra la trattazione dell’autore cinquecentesco e quella di Marino, individuando e motivando eventuali analogie e differenze.

Vezzosi augelli infra le verdi fronde temprano a prova lascivette note; mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde garrir che variamente ella percote. Quando taccion gli augelli alto risponde, quando cantan gli augei piú lieve scote; sia caso od arte, or accompagna, ed ora alterna i versi lor la musica òra.

Vola fra gli altri un che le piume ha sparte di color vari ed ha purpureo il rostro, e lingua snoda in guisa larga, e parte la voce sí ch’assembra il sermon nostro. Questi ivi allor continovò con arte tanta il parlar che fu mirabil mostro. Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti, e fermaro i susurri in aria i venti.

67

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

> 7.

Altri linguaggi: musica Dopo aver ascoltato l’aria virtuosistica “Quell’usignol”, tratta dalla Merope, opera del compositore Geminiano Giacomelli (1692­1740), rispondi alle domande seguenti. a) In che modo il compositore ha messo Video da Merope in scena una “simulazione” virtuosistica del canto dell’usignolo? Nel rispondere, presta attenzione al binomio testo­musica. b) Quali elementi dell’esecuzione posso­ no essere ricondotti, in generale, ai prin­ cìpi della “poetica della meraviglia”?

Il mezzosoprano Viva Genaux interpreta l’aria “Quell’usignol” tratta dalla Merope di Geminiamo Giacomelli.

A1 L’atteggiamento impetuoso e polemista

Torino e gli ultimi anni

Le Filippiche

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Alessandro Tassoni Nato a Modena nel 1565, entrò nel 1597 al servizio del cardinale Ascanio Colonna, con cui si recò in Spagna. Rientrato a Roma nel 1603, vi soggiornò a lungo, facendosi ben presto conoscere per il suo temperamento impetuoso e per la vivace tempra di polemista. Dopo un’edizione parziale (1608), pubblica nel 1612 una Varietà di pensieri, in cui l’antiaristotelismo di fondo si traduce in una violenta condanna della cultura più retrograda e della stessa tradizione letteraria. Più tardi si aggiungerà ai precedenti un libro sugli Ingegni antichi e moderni. Del 1609 sono le Considerazioni sopra le Rime del Petrarca, animate da un accanito atteggiamento antipetrarchista, che contestava soprattutto la tradizione lirica del secolo precedente; la polemica che ne seguì diffuse enormemente la fama di Tassoni. Nel 1615 uscirono, anonime ma sicuramente sue, le due violente Filippiche contro gli Spagnoli e il loro re Filippo III (il titolo riprende quello delle orazioni scagliate da Demostene contro Filippo di Macedonia). L’episodio determinò l’accostamento a Carlo Emanuele I di Savoia, presso il quale Tassoni fu a Torino dal 1618 al 1621. Allontanatosi dalla corte sabauda quando il granduca si riavvicinò alla Spagna, pubblicò nel 1622 La secchia rapita (il titolo definitivo è del 1624), in gran parte composta già nel 1615. Trascorse gli ultimi anni presso il duca Francesco I nella città natale, dove morì nel 1635.

La vita

Le opere principali Nelle Filippiche lo scrittore esorta Carlo Emanuele a continuare la lotta contro la Spagna, fino a cacciare gli stranieri dall’Italia. Era il programma di Machiavelli, che veniva ripreso e aggiornato, pur senza entrare nel merito delle cause storiche e politiche: «E fino a che segno sopporteremo noi, o prencipi e cavalieri italiani, di essere non dirò dominati, ma calpestati dall’alterigia e dal fasto de’ popoli stranieri, che, imbarbariti da costumi africani e moreschi, hanno la cortesia per viltà?». Il carattere retorico dell’esortazione e dell’invettiva, con accenti di un risentimento e di una passione vibranti, recuperava parimenti i toni della canzone Italia mia di Petrarca: «Ma negli animi nobili non credo che siano ancora svaniti affatto quelli spiriti generosi, che già dominorno il mondo, benché i nostri nemici gli abbiano con gli artifici loro quasi tutti infettati di non meno empi che servili pensieri» (Filippiche, I).

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo La secchia rapita

Testi Tassoni • Come finì una famosa impresa del Conte di Culagna dalla Secchia rapita

T3

Di fatto, tuttavia, l’impossibilità di modificare la situazione politica esistente finiva per suggerire, nei confronti dell’ideologia ufficiale, soluzioni letterarie di tipo irriverente e anticonformistico. Tassoni sceglie il genere del poema eroicomico, cantando, nella Secchia rapita, la lotta ingaggiata nel Medioevo fra i Bolognesi e i Modenesi, che, vittoriosi nella battaglia di Zappolino (1325), riportarono nella loro città una secchia come trofeo. Risulta evidente a tutti i livelli, contenutistici e stilistici, la degradazione del poema epico, in un periodo in cui proseguiva, con assoluta ma ormai anacronistica serietà di intenti, l’attività degli imitatori e dei continuatori della Gerusalemme liberata. L’eroe di Tassoni è il Conte di Culagna, che sfida a duello, per motivi di gelosia, il suo rivale e cade svenuto per la paura. Ma l’opera non è solo significativa per lo smascheramento dei luoghi comuni letterari, nella direzione dell’irriverente e del grottesco. Al di sotto dei nomi fittizi si celano riferimenti e allusioni alla realtà contemporanea, che non sempre è ancora possibile identificare, ma che comunque imprimono alla narrazione anche il valore di una presa di posizione nei confronti della decadenza del presente. Alessandro Tassoni

Temi chiave

il rapimento della secchia

• i motivi dello scoppio della guerra tra

dalla Secchia rapita, I, 1-3; 5; 10-13; 25-30; 41-51

• la parodia del poema epico

Modenesi e Bolognesi

Nel primo canto sono narrate le origini del conflitto fra Mo­ dena e Bologna a causa del rapimento della secchia.

> Metro: ottave di endecasillabi; schema delle rime ABABABCC. 1

Vorrei cantar quel memorando sdegno1, ch’infiammò già ne’ fieri petti umani un’infelice e vil2 secchia di legno, che tolsero ai Petroni i Gemignani3. Febo4, che mi raggiri entro lo ’ngegno l’orribil guerra e gli accidenti strani, tu che sai poetar, servimi d’aio, e tiemmi per le maniche nel saio5.

2

E tu, nipote del rettor del mondo6, del generoso Carlo ultimo figlio, ch’in giovinetta guancia e ’n capel biondo copri canuto senno, alto consiglio7, se da gli studi tuoi di maggior pondo8 volgi talor per ricrearti il ciglio, vedrai, s’al cantar mio porgi l’orecchia, Elena9 trasformarsi in una secchia.

3

Già l’aquila romana avea perduto l’antico nido, e rotto il fiero artiglio, tant’anni formidabile e temuto oltre i Britanni ed oltre il mar vermiglio;

1. memorando sdegno: ricorda l’«ira funesta» di Achille, all’inizio dell’Iliade. 2. vil: di nessun valore, di poco conto.

3. Petroni … Gemignani: i Bolognesi e i Modenesi, così chiamati dai santi patroni delle rispettive città (san Petronio e san Gimignano).

4. Febo: Apollo, considerato qui come il dio della poesia, a cui il poeta chiede l’ispirazione. 5. servimi … saio: aiutami come se fossi il mio precettore, al cui vestito io mi aggrappo. 6. rettor del mondo: il pontefice Urbano VIII, della famiglia Barberini; si rivolge ad Antonio, figlio di Carlo, fratello del pontefice. 7. copri … consiglio: nascondi una saggezza propria di una persona anziana (in antitesi con la giovinetta guancia e il capel biondo, indicanti la giovane età), una profonda capacità di giudizio. 8. pondo: peso, importanza. 9. Elena: il rapimento di Elena, da parte di Paride, aveva dato origine alla guerra di Troia, cantata nell’Iliade; a Elena si sostituisce adesso una secchia, causa della guerra tra Bologna e Modena.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

e liete, in cambio d’arrecarle aiuto, l’italiche città del suo periglio, ruzzavano tra lor non altrimenti che disciolte polledre a calci e denti10. […] 5

Part’eran ghibelline11, e favorite da l’Imperio aleman12 per suo interesse; part’eran guelfe, e con la Chiesa unite, che le pascea di speme13 e di promesse: quindi tra quei del Sipa14 antica lite e quei del Potta ardea, quando successe l’alto, stupendo e memorabil caso, che ne gli annali scritto è di Parnaso15. […]

10

Viveano i Modanesi a la spartana16 senza muraglia allor né parapetto; e la fossa17 in più luoghi era sì piana, che s’entrava ed usciva a suo diletto18. Il martellar de la maggior campana fe’19 più che in fretta ognun saltar dal letto; diedesi a l’arma20, e chi balzò le scale, chi corse a la finestra, e chi al pitale21:

11

chi si mise una scarpa e una pianella22, e chi una gamba sola avea calzata; chi si vestì a rovescio la gonnella, chi cambiò la camicia con l’amata; fu chi prese per targa23 una padella, e un secchio in testa in cambio di celata24; e chi con un roncone25 e la corazza corse bravando26 e minacciando in piazza.

12

Quivi trovâr che ’l Potta27 avea spiegato lo stendardo maggior con le trivelle28, ed egli stesso era a cavallo armato con la braghetta rossa e le pianelle. Scriveano i Modanesi abbreviato pottà per potestà29 su le tabelle30, onde per scherno i Bolognesi allotta31 l’avean tra lor cognominato32 il Potta.

10. Già l’aquila … denti: da tempo ormai l’impero romano (che aveva l’aquila come simbolo) aveva perso l’antica sede (nido), Roma, e spezzati i suoi feroci artigli, per tanti anni formidabili e temuti fin oltre la Britannia (le attuali Gran Bretania e Irlanda) e il Mar Rosso (vermiglio), e le città dell’Italia, felici del pericolo (periglio) a cui Roma era esposta, invece di darle aiuto, si combattevano, si scontravano (ruzzavano) fra loro a colpi di calci e di

70

morsi come delle puledre (polledre) liberatesi dalle briglie (disciolte). 11. ghibelline: la divisione fra i Ghibellini, favorevoli all’imperatore, e i Guelfi, che stavano dalla parte del papa, si riferisce all’età dei Comuni, alle cui divisioni si richiama, con la più ampia libertà, il racconto di questa orribil guerra. 12. aleman: alemanno, tedesco (l’impero aveva la sua sede in Germania).

13. pascea di speme: nutriva di speranze. 14. quei del Sipa: i Bolognesi, che dicevano sipa al posto di sì (Inferno, XVIII, 61); quei del Potta sono invece i Modenesi, come verrà spiegato nell’ottava 12. 15. annali … di Parnaso: i fatti più notevoli, registrati anno per anno (annali), avvenuti in Parnaso, il monte sacro alle Muse e simbolo della poesia. 16. a la spartana: seguendo i costumi parsimoniosi e frugali attribuiti agli abitanti di Sparta, nell’antica Grecia. 17. la fossa: il fossato che, circondando la città, serviva da difesa. 18. a suo diletto: a piacere, senza difficoltà. 19. fe’: fece. 20. diedesi a l’arme: si corse alle armi. 21. pitale: vaso da notte. 22. pianella: ciabatta. 23. targa: scudo. 24. celata: elmo. 25. roncone: arma costituita da un’asta con un ferro aguzzo posto in cima e due uncini rivolti verso il basso ai lati. 26. bravando: sfidando, lanciando urla di sfida e di guerra. 27. Potta: già ricordato nell’ottava 5 ( nota 14); l’origine di questo soprannome, che ha anche un significato osceno, è spiegata in questa stessa ottava. 28. trivelle: perforatrici, l’immagine degli strumenti che servivano per trivellare, ossia far emergere le acque sotterranee, pratica in cui i Modenesi erano particolarmente abili. 29. potestà: il podestà era quella figura che, provenendo da un’altra città (per essere imparziale), reggeva il governo del Comune per un periodo limitato di tempo. 30. tabelle: documenti ufficiali. 31. allotta: allora. 32. cognominato: soprannominato.

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

13

Messer Lorenzo Scotti33, uom saggio e forte, era allor Potta, e decideva i piati34. Fanti e cavalli in tanto ad una sorte35 a la piazza correan da tutti i lati. Egli, poiché guernite36 ebbe le porte, una squadra formò de’ meglio armati, e ne diede il comando e lo stendardo al figlio di Rangon, detto Gherardo37. [Per rispondere a un’incursione nel loro territorio, i Modenesi attaccano i Bolognesi e, dopo averli sconfitti, si spingono sino alle mura di Bologna].

25

Allor Gherardo a’ suoi diceva: – O forti, ecco Dio che divide e che confonde38 questi bedani39; udite i lor consorti40 che sono del Panaro41 anco a le sponde. Prima del giugner lor42, questi fien morti43, pochi e stanchi, e ridotti entro a quest’onde. Seguitatemi voi; ché larga strada io vi farò col petto e con la spada. –

26

Così dicendo, urta44 ’l cavallo, e dove la battaglia gli par più perigliosa45, si lancia in mezzo a l’onda, e ’n giro move la spada fulminante e sanguinosa. Non fe’ il capitan Curzio46 tante prove sotto Lisbona mai né su la Mosa, quante ne fe’ tra l’una e l’altra ripa Gherardo allor su ’l popolo dal Sipa.

27

Uccise il Bertolotto, e ’l corpo grasso spirò ne l’acqua fresca e fu l’orrore de l’acqua ch’abborriva, in su quel passo47, de l’orror de la morte assai maggiore. Uccise appresso a48 lui Mastro Galasso, cavadente49 perfetto e ciurmatore50; vendea ballotte51 e polvere e braghieri52: meglio per lui non barattar mestieri53.

28

Senza naso lasciò Cesar Viano, fratel del podestà di Medicina54; e d’un dardo55 cader fe’, di lontano trafitto, un figlio del dottor Guaina;

33. Lorenzo Scotti: si è pensato a un conte di questo nome, amico del poeta (frequente, nella Secchia rapita, la presenza anacronistica di personaggi contemporanei, più o meno riconoscibili). 34. i piati: i litigi, le contese. 35. ad una sorte: con lo stesso scopo. 36. guernite: guarnite, rinforzate. 37. Gherardo: il conte Gherardo Rangoni, nato nel 1557, che ebbe fama di valoroso com-

battente. 38. Dio … confonde: così viene definito Dio nell’episodio della Bibbia relativo alla Torre di Babele e della confusione delle lingue (Genesi, 11, 1-9). 39. bedani: scemi (parola bolognese) 40. consorti: compagni d’arme. 41. Panaro: il fiume che nasce dall’Appennino modenese ed è l’ultimo affluente di destra del Po (anco: ancora).

42. del giugner lor: del loro arrivo. 43. fien morti: saranno uccisi. 44. urta: sprona. 45. perigliosa: pericolosa. 46. Curzio: Curzio Saracinelli, valoroso capitano al servizio degli Estensi ma anche capace di gloriarsi per imprese mai compiute, come quelle qui ricordate a Lisbona e nelle Fiandre (dove passa il fiume Mosa). 47. ch’abborriva … passo: che lui odiava, in punto di morte. 48. appresso a: dopo di. 49. cavadente: dentista. 50. ciurmatore: imbroglione. 51. ballotte: castagne bollite con la buccia. 52. braghieri: cinti per contenere l’ernia o fasce per reggere i pantaloni. 53. meglio… mestieri: sarebbe stato meglio per lui non cambiare il mestiere che faceva, andando a combattere. 54. Medicina: città vicino a Bologna, come più avanti Crespellano. 55. dardo: freccia.

71

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

indi ammazzò il barbier di Crespellano, che portava la spada a la mancina56; e mastro Costantin da le Magliette, che faceva le grucce a le civette57. 29

Un certo bell’umor de’ Zambeccari58 gli diede una sassata ne la pancia, e a un tempo59 Gian Petronio Scadinari gli forò la braghetta con la lancia; la buona spada gli mandò del pari60, come se fosse stata una bilancia, ch’a l’uno e l’altro tagliò il capo netto, e i tronchi ne la rena ebber ricetto61.

30

Qual già su ’l Xanto62 il furibondo Achille fe’ del sangue troian crescer quell’onda63, o Ippomedonte64 a le tebane ville fe’ de l’Asopo insanguinar la sponda, tal il giovane fier l’onde tranquille fa rosseggiar del sangue ostil65 che gronda: ma da la tanta copia66 infastidita diede la Musa a pochi nomi vita. […]

41

Tutto quel dì, tutta la notte intiera, i miseri Petroni ebber la caccia67; ne coperse ogni strada ogni riviera Manfredi Pio68, che ne seguì la traccia. Con trecento cavalli a la leggera69 con tanto ardire il giovane li caccia, che su ’l primo sparir de l’aria scura70 si trovò giunto a le nemiche mura.

42

La porta San Felice71 aperta in fretta fu a’ cittadini suoi72, ch’erano esclusi; ma tanta fu la calca in quella stretta73,

56. a la mancina: dalla parte sinistra. 57. faceva … civette: modo di dire per indicare una cosa inutile e assurda (le grucce sono le stampelle). 58. Zambeccari: con lo Scadinari di cui sotto, pare che il bolognese Zambeccaro, amico di Tassoni, gli avesse fatto uno scherzo (di qui l’epiteto di bell’umor, a indicare il suo spirito faceto). 59. a un tempo: contemporaneamente, al tempo stesso. 60. gli mandò del pari: usò contro di loro nello stesso modo. 61. i tronchi … ricetto: i corpi decapitati furono accolti (ricetto, accoglienza, ricovero) nel terreno sabbioso. 62. Xanto: il fiume presso Troia, dove Achille compì le sue imprese.

72

63. fe’… onda: fece gonfiare le onde con il sangue dei Troiani uccisi. 64. Ippomedonte: eroe della mitologia greca, uno dei Sette che guidarono la spedizione contro Tebe (le tebane ville), città della Beozia presso cui scorre il fiume Asopo. 65. ostil: nemico, dei nemici uccisi. 66. copia: quantità. 67. ebber la caccia: furono cacciati, inseguiti. 68. Manfredi Pio: era a capo della fazione ghibellina e vicario imperiale. 69. a la leggera: leggermente bardati. 70. su ’l … scura: al sorgere dell’alba, quando cominciò a schiarirsi il buio notturno (l’aria scura). 71. porta San Felice: da cui si usciva sulla via Emilia. 72. a’ cittadini suoi: ai Bolognesi. 73. stretta: spazio ristretto, strettoia.

Francesco Zucchi, incisione per La secchia rapita, ed. Modena, 1744.

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

che i vincitori e i vinti entrâr confusi74. Quei di Manfredi un tiro di saetta corser la terra75, e vi restavan chiusi76, s’ei da la porta, ove fermato s’era, non li chiamava tosto a la bandiera77. 43

Spinamonte del Forno, e Rolandino Savignani e Aliprando d’Arrigozzo de’ Denti da Balugola e Albertino Foschiera e Calatran di Borgomozzo78, affannati dal caldo e dal cammino, trovâr non lunge79 da la porta un pozzo, e una secchia calâr nuova d’abete per rinfrescarsi e discacciar la sete.

44

La carrucola rotta e saltellante, e la fune annodata in quella mena80, e l’acqua ch’era assai cupa e distante81, fêron più tardi82 uscir la secchia piena: le si avventaron tutti in un istante, e Rolandino avea bevuto a pena, quand’ecco a un tempo da diverse strade fûr loro intorno più di cento spade.

45

Scarabocchio figliuol di Pandragone, Petronio Orso e Ruffin dalla Ragazza e Vianese Albergatti e Andrea Griffone venìan gridando innanzi: – Ammazza, ammazza; – ma i potteschi già pronti in su l’arcione83, d’elmo e di scudo armati e di corazza, strinser le spade, e rivoltâr le facce84 a l’impeto nemico e a le minacce.

46

E Spinamonte che la secchia presa per bere avea, spargendo l’acqua in terra e tagliando la fune ond’era appesa, se ne servì contro i nemici in guerra; con la sinistra man la tien sospesa per riparo, e con l’altra il brando85 afferra. L’aiutano i compagni, e fangli sponda contra il furor che d’ogni parte inonda.

47

Lotto Aldrovandi e Campanon Ringhiera gridavano ambidue: – Canaglia matta, lasciate quella secchia ove prim’era; o la bestialità vi sarà tratta86. –

74. confusi: mescolati fra di loro. 75. corser la terra: percorsero la città (la terra) per il tratto di un tiro di saetta. 76. vi restavan chiusi: sarebbero rimasti imprigionati. 77. a la bandiera: a raccolta.

78.Spinamonte … Borgomozzo: nomi, come altri che seguono, di impossibile identificazione. 79. lunge: lontano. 80. mena: trambusto. 81. cupa e distante: scura e lontana, perché il pozzo era molto profondo.

82. più tardi: rispetto al grande bisogno e desiderio di bere. 83. in su l’arcione: a cavallo (l’arcione è propriamente la parte arcuata della sella). 84. rivoltâr le facce: si girarono di nuovo verso (a). 85. il brando: la spada. 86. la bestialità … tratta: o sarete privati della vostra natura bestiale.

73

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

– Fatevi innanzi voi, disse il Foschiera; notate la consegna87 che v’è fatta. – E ’n questo dire, un manrovescio lascia, e taglia a Companone una ganascia88. 48

Non fu rapita mai con più fatica Elena89 bella al tempo di Sadocco90, né combattuta Aristoclèa91 pudica, al par di quella secchia da un baiocco92. Passata a Calatran fu la lorica, sì che nel ventre penetrò lo stocco93, d’un fiero colpo di Carlon Cartari, falciatore sovran de’ macellari94.

49

Rolandino ferì d’un sopramano95 Napulion di Fazio Malvasìa, ed egli a lui storpiò la manca96 mano con una daga97 che brandita avìa. Se di Manfredi un poco più lontano era il soccorso, alcun non ne fuggìa: restò ferito quel de la Balugola, e del tanto gridar gli cadde l’ugola98.

50

Manfredi in su la porta i suoi raccoglie, e l’inimico stuol frena e reprime99, e poiché dal perielio si discioglie100, torna, e ripassa il Ren su l’orme prime101; né potendo mostrar più degne spoglie, in atto di trofeo leva sublime sopra una lancia l’acquistata secchia, ché presentarla al Potta s’apparecchia102;

51

parendo a lui via103 più nobile e degno de la vittoria aver su ’l chiaro giorno104 corsa Bologna, e trattone quel pegno105 che sarebbe a’ nemici eterno scorno. Da la Samoggia106 un messo a darne segno107 a Modana spedì senza soggiorno108: e tosto la città si mise in core di girgli109 incontro e fargli un bell’onore.

87. notate la consegna: prendete nota della consegna, della restituzione (che consiste nel manrovescio di cui subito dopo). 88. ganascia: la parte del viso che comprende la mascella e la guancia. 89. Elena: nota 9. 90. Sadocco: Sadoc, principe e sacerdote, assistente di David, re d’Israele. Non c’è in realtà nessun legame fra i due nomi, se non quello di indicare un tempo molto lontano, epico ed eroico. 91. Aristoclèa: la giovane della Beozia ama-

74

ta e contesa da Stratone e da Callistene, che, per averla, la tirarono violentemente da entrambe le parti fino a lacerarle e dividere il corpo. 92. baiocco: soldo, moneta di infimo valore. 99. stocco: tipo di spada dalla lama affusolata, per colpire con la punta. 94. falciatore … macellari: supremo uccisore, sterminatore, fra i macellai. 95. sopramano: colpo dato con la spada dall’alto in basso. 96. manca: sinistra.

97. daga: spada dalla lama corta e diritta. 98. l’ugola: la voce. 99. reprime: blocca. 100. poiché … si discioglie: quando, non appena si libera del pericolo. 101. su l’orme prime: rifacendo al contrario il cammino di prima. 102. s’apparecchia: si prepara. 103. via: assai. 104. su ’l chiaro giorno: all’alba. 105. pegno: cimelio, prova o testimonianza solenne. 106. Samoggia: affluente del Reno, tra Modena e Bologna. 107. segno: avviso. 108. soggiorno: indugio. 109. girgli: andargli.

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

Analisi del testo L’argomento

> Gli elementi tipici di una narrazione epica

Se la guerra di Troia, nell’Iliade, era scoppiata per il rapimento di Elena, e se lo scopo della Gerusalemme liberata era quello di liberare il Santo Sepolcro, nel poema eroicomico di Alessandro Tassoni l’origine e lo scopo della guerra, che metterà gli uni contro gli altri i Modenesi e i Bolognesi, sono costituiti da una comune secchia, usata per attingere l’acqua da un pozzo. Le ottave iniziali del canto primo realizzano formalmente le condizioni necessarie alla narrazione di un’impresa epica, a partire dall’argomento del poema, dall’invocazione alla musa (qui Apollo) e dalla dedica a un personaggio illustre, a cui tuttavia, proseguendo nel processo di degradazione segnalato, il poeta intende proporre la vicenda di «Elena trasformata in una secchia».

> Le innovazioni rispetto all’epos

Il protagonista

Elementi parodici

Non mancano, nel corso delle ottave, altri riferimenti all’epos ( ottava 30 e ottava 48), che coesistono però con la presenza di situazioni e personaggi comuni, chiusi in una dimensione popolare e provinciale, ben diversa da quella in cui si muovono i grandi eroi di Omero e di Virgilio, o di Tasso, per fare un esempio più ravvicinato. Di quest’ultimo non manca solo l’ispirazione religiosa, ma ogni serietà d’intenti; l’eroe non assomiglia in nulla a un Goffredo di Buglione, incaricato da Dio di condurre a compimento la santa impresa, ma è il conte di Culagna, che sin dal nome rivela l’infima statura del personaggio, tradito dalla moglie e coraggioso solo a parole, mentre nei fatti risulta vile e ridicolo. Ma anche nelle ottave sopra riportate la statura comica del condottiero è ben rappresentata dal Potta che, dopo avere «spiegato / lo stendardo», appare «a cavallo armato / con la braghetta rossa e le pianelle» (ottava 12). Si delineano così due livelli della narrazione, attraverso i quali si realizza la parodia nei confronti di quella serietà di intenti che era propria dell’epica: a un livello formalmente elevato, tipico di una rappresentazione eroica, si accompagna nei contenuti un livello basso, che ne contraddice e nega i significati tradizionali. Così quella che fu una grande battaglia (la battaglia del 1325 presso il castello di Zappolino) viene rappresentata come se fosse una scaramuccia, dove ai nomi altisonanti di Achille e di Ippomedonte si sostituisce un soprannome come quello del podestà, il Potta, tutt’altro che glorioso. Proprio questo procedimento parodico, esteso all’intera opera, registra l’esaurirsi del genere epico.

Esercitare le competenze CoMprEndErE

> 1. Proponi una breve sintesi del passo distinguendo le ottave con funzione proemiale da quelle con funzione narrativa. AnALizzArE

> 2. > 3.

Individua le figure retoriche nell’ottava 27 spiegandone l’efficacia sul piano espressivo. Individua i punti del testo in cui, a tuo parere, la parodia sembra assumere le caratteristiche del comico. Motiva la tua risposta. > 4. Lessico Analizza le scelte onomastiche compiute dall’autore per indicare i vari personaggi: quali di esse ritieni più efficaci in relazione alle finalità del poema? Stile Stile

ApprofondirE E inTErprETArE

> 5.

Esporre oralmente Il superamento del poema epico­eroico proposto da Tassoni può configurarsi come una critica alla società secentesca? Se sì, quali sono i motivi che inducono i poeti, con spirito parodico ed irriverente, a ribaltare i valori cavallereschi ed eroici? Rispondi oralmente (max 3 minuti) dopo aver valutato attentamente il contesto di ri­ ferimento dell’opera.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

> 6. Altri linguaggi: musica Il cantautore genovese Fabrizio De André (1940­ 99) ha scritto la canzone Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, godibile parodia delle virtù cavalleresche del celebre personaggio storico. Audio da Volume I Dopo aver ascoltato il brano musicale, rispondi alle domande seguenti. a) Perché, in base al testo della canzone, è possibile parlare, analogamen­ te all’operazione effettuata da Tassoni, di parodia del genere epico­eroico? b) Analizza l’esecuzione del cantautore: quali caratteristiche dell’into­ nazione della sua voce rendono più efficace il procedimento dell’ab­ bassamento di tono? Motiva la tua risposta.

Copertina dell’album Volume I di Fabrizio De Andrè, 1967.

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D a Ta s s o a M a r i n o : p o e m i e p i c i a c o n f r o n t o GErusAlEmmE libErAtA di TorquATo TASSo

Materia

Struttura

ADONE di GiovAn BATTiSTA MArino

lA sEcchiA rApitA di ALESSAndro TASSoni

Storico-religiosa: la crociata in Terra Santa

Mitologica con digressioni di contenuto vario

Storica, arricchita da situazioni comico-realistiche ed elementi parodici

Unitaria, sulla quale si innestano situazioni narrative “divaganti”

Molto dispersiva, caratterizzata da continue divagazioni

Ricalca lo schema del poema eroico teorizzato da Tasso

Alto, sublime

Tipicamente barocco: intensamente musicale e ricchissimo di figure retoriche

Mescolanza di stili diversi

Edificazione morale

Diletto

Diletto e critica della società

Dualistica: alla visione moralmente rigida, condizionata dalla Controriforma, si contrappone quella pagana edonistica

Edonistica, basata su presupposti materialistici che rinviano forse alla filosofia di Epicuro

Antitradizionalista, caratterizzata dalla volontà di sovvertire i valori del passato, sentiti come logori e anacronistici

Stile

Finalità

Visione della realtà

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Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

2 Il Don Chisciotte

A2

La carriera militare

Il ritorno in Spagna

Cervantes e la nascita del romanzo moderno Rispetto alla Secchia rapita di Alessandro Tassoni ( A1, p. 68), una più sottile dialettica nel registrare la crisi dell’eroe epico e nel decretarne la morte è presente nel Don Chisciotte di Miguel de Cervantes ( A2), che si apre al tempo stesso verso le nuove frontiere del romanzo moderno. A differenza dei poemi precedenti il Don Chisciotte è scritto in prosa, ed è già questo un elemento che favorisce le capacità analitiche della scrittura cervantiana; una scrittura che, pur muovendo anch’essa dalla polemica nei confronti della produzione cavalleresca, va oltre questa intenzione, per aprire nuove prospettive di conoscenza, proponendosi come una visione alternativa nei confronti dell’intera realtà, considerata in una prospettiva demistificante e “carnevalesca”. La follia che determina il comportamento di Don Chisciotte rappresenta un valore positivo capace di mettere in discussione l’intera eredità del passato, quando venga accettata supinamente, mentre il rapporto del protagonista con il suo “doppio”, lo scudiero Sancio Panza, coglie in senso problematico le ambiguità e le contraddizioni che si annidano nel rapporto fra le apparenze e la realtà, con la relatività della stessa conoscenza, nelle sue spesso false e illusorie convinzioni. Opera capitale, il Don Chisciotte apre le porte della modernità.

Miguel de Cervantes La vita Miguel de Cervantes condusse una vita non facile e assai avventurosa. Nato a Alcalá de Henares nel 1547 in una famiglia di modeste condizioni, trascorse l’infanzia e l’adolescenza in varie città spagnole e da ultimo a Madrid, dove si sono potute individuare le tracce di una sua educazione umanistica. Accusato di aver ferito un personaggio di riguardo, fuggì poco più che ventenne in Italia, per evitare la condanna al taglio della mano destra e a un esilio di dieci anni. Datosi alla carriera militare, partecipò nel 1571 alla battaglia di Lepanto e venne ferito, perdendo l’uso della mano sinistra. L’anno dopo partecipò a un’altra spedizione navale, combattendo poi alla presa di Tunisi e di Biserta (1573); due anni più tardi si imbarcò da Napoli per tornare in Spagna, ma la nave su cui viaggiava fu assalita da pirati turchi, che lo portarono ad Algeri e lo vendettero come schiavo. Venne riscattato solo nel 1580 e si recò prima in Spagna e poi in Portogallo; sposatosi nel 1584, abitò a Siviglia fino al 1600, occupandosi della fornitura dei viveri all’esercito spagnolo. Coinvolto nel fallimento di un banchiere, venne messo in carcere a Siviglia

(Attrib.) Juan de Jauregui, Miguel de Cervantes de Saavedra, XVII secolo, olio su tela, Madrid, Palazzo Reale.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

(1602), dove probabilmente maturò l’idea del Don Chisciotte; fu poi ingiustamente accusato di aver ucciso un cavaliere e di nuovo incarcerato per un breve periodo, a Valladolid. A Madrid, dove si trasferì al seguito della corte di Filippo III, trascorse gli ultimi anni di vita, attendendo alla composizione della maggior parte delle sue opere. Morì nel 1616. Le opere minori L’esordio letterario di Cervantes è rappresentato dalla novella paLe Novelle

Don Chisciotte e Il viaggio in Parnaso I testi teatrali

Le due parti dell’opera

Testi Cervantes • Il signor Chisciada diventa Don Chisciotte della Mancia, cavaliere “errante” da Don Chisciotte della Mancia

I narratori

Il Prologo della prima parte

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storale Galatea (1585). Ben più importanti sono le dodici Novelle esemplari (1613), alcune ambientate nel mondo dell’alta società (ad esempio La spagnola inglese e La zingarella), altre di ambiente popolare, con un taglio più realistico (come Rinconete e Cortadillo, storia di due malfattori, o Il dottor Vetrata, il cui protagonista, impazzito, è convinto di essere di vetro). Nel 1605 era intanto uscita la prima parte del suo capolavoro, il Don Chisciotte, a cui seguirà nel 1615 la parte conclusiva; l’anno prima Cervantes aveva pubblicato Il viaggio in Parnaso, il più lungo dei suoi componimenti poetici. In questo lasso di tempo, oltre alla composizione delle Novelle, si dedica alla stesura di testi teatrali, mettendo insieme Otto commedie e otto intermezzi (gli intermezzi sono brevi azioni sceniche, rappresentate fra un atto e l’altro delle commedie), tra cui eccellono la commedia Pedro di Urdemalas, la migliore fra quelle che ci ha lasciato, e l’intermezzo Il teatrino delle meraviglie, vivace rappresentazione della vita popolaresca. Postuma uscirà la novella I travagli di Persiles e Sigismonda, conclusa quattro giorni prima di morire. iL DON chisciOttE Genesi e struttura La pubblicazione dell’opera avvenne in due momenti e in parti nettamente distinte. La prima uscì nel 1605, con il titolo L’ingegnoso cavaliere Don Chisciotte della Mancia, composto da Miguel de Cervantes Saavedra (El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha, compuesto por Miguel de Cervantes Saavedra); la seconda seguì dieci anni dopo, con qualche variante nell’intitolazione: Seconda parte dell’ingegnoso cavaliere don Chisciotte della Mancia. Di Miguel de Cervantes Saavedra, autore della sua prima parte (Segunda parte del ingenioso caballero Don Quijote de la Mancha. Por Miguel de Cervantes Saavedra, autor de su primera parte). C’è da notare, in primo luogo, la sostituzione di hidalgo con caballero, a indicare una sorta di promozione onorifica (hidalgo indica un grado di nobiltà inferiore a quello di caballero). La precisazione, da parte di Cervantes, di essere stato l’«autore della prima parte» non è semplicemente una notazione informativa ma è dovuta al fatto che nel 1614 era uscita una continuazione del romanzo a firma Alonso Fernandéz de Avellaneda, un falsario a cui Cervantes si richiamò nella seconda parte, per denunciarne l’indebita ingerenza e anche per stabilire una sorta di ironico confronto circa la veridicità degli avvenimenti narrati. Questo complica il problema dei narratori, se si tiene conto che, nel Prologo della prima parte, il narratore afferma di essere soltanto il «patrigno» e non il «padre» dell’opera. Bisognerà giungere al capitolo IX perché il narratore ci dica che la storia di Don Chisciotte a quel punto era rimasta interrotta e solo il fortunoso ritrovamento del manoscritto gli ha consentito di proseguirla (l’espediente del manoscritto ritrovato è accorgimento tipicamente romanzesco, che, già presente in alcuni romanzi cavallereschi, verrà utilizzato ancora da Manzoni). Autore dell’opera sarebbe stato un tale «Cide Hamete Benengeli, storico arabo», di cui il narratore di primo grado fa tradurre l’opera in lingua spagnola, pur mettendo spesso in discussione la verità del racconto di quello che potremmo chiamare il narratore di secondo grado. In una tela narrativa così predisposta trovano posto altri narratori interni, che raccontano delle novelle, indipendenti rispetto alla trama principale. Contenuti e significati Nel Prologo della prima parte, in cui l’autore espone le motivazioni che l’hanno indotto a comporre l’opera, è netta la convinzione della sua originalità e del distacco dalla tradizione, con il rifiuto del principio rinascimen-

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

La fantasia di Don Chisciotte

Il Prologo della seconda parte

Verità e finzione

L’ironia

Testo critico C. Segre

tale dell’imitazione, che si traduce in una «invettiva contro i romanzi cavallereschi», per «distruggere l’autorità e il favore che hanno nel mondo e fra il volgo». Proprio la lettura di questi romanzi suggestiona a tal punto, fino a provocare una sorta di delirante follia, un gentiluomo decaduto della regione spagnola della Mancia, Don Chisciotte, inducendolo a farsi cavaliere errante e a intraprendere una serie di avventure, convinto di incarnare ancora e di poter far rivivere gli ideali del mondo cavalleresco, lottando contro i malvagi per difendere le donne, i deboli e gli oppressi ( T4, p. 83). La scelta delle armi, del cavallo e di uno scudiero, individuato in un contadino dei dintorni, Sancio Panza (che entra in scena nel capitolo VII), è condotta nelle forme e nei modi di una narrazione grottesca, spinta sino all’assurdo dall’anacronistico comportamento del protagonista. Alla base è la trasfigurazione del reale operata dalla fantasia allucinata di Don Chisciotte (in una contadina, da lui chiamata Dulcinea del Toboso, individua la dama alla quale dedicare le proprie vittorie), la cui immaginazione dà vita a un’inesistente realtà. Così scambia dei mulini a vento per dei giganti ( T5, p. 89) e un gregge di pecore per un esercito nemico. Contro di loro ingaggia furibondi combattimenti, da cui esce spesso malconcio e con le ossa rotte, trovando continuamente delle ragioni per giustificare le sue sconfitte (si convince ad esempio che gli incantesimi del mago Freston, suo mortale nemico, gli cambino sotto gli occhi i contorni delle cose). Invano Sancio, con il suo buon senso, cerca di dissuaderlo, pur continuando a credere nelle sue promesse di assicurargli il governo di un’isola o di un regno. Se nella prima parte, che si conclude con il secondo ritorno a casa dell’eroe, l’autore dichiara di non aver «potuto trovare alcuna notizia almeno in documenti autentici» della sua «terza sortita» e della morte, lasciando la narrazione in sospeso, nel Prologo con cui inizia la seconda parte Cervantes prende posizione «contro l’autore del secondo Don Chisciotte», quel Fernandéz de Avellaneda che ne aveva indebitamente continuato le avventure. Nella prosecuzione del racconto, meno incisiva rispetto alla parte precedente, Sancio otterrà per un certo tempo il governo dell’isola di Barattaria, comportandosi saggiamente, e alla fine Don Chisciotte, tornato definitivamente a casa, rinsavirà e detterà, prima di morire, il suo testamento. Il gioco dei narratori, di cui si è detto, introduce una serie di elementi che provocano una sostanziale ambiguità, come se il narratore di primo grado si sdoppiasse nella controfigura di Cide Hamete Benengeli, accusato peraltro di scarsa attendibilità. Si crea così una divaricazione fra la “verità” dei fatti narrati, spesso rivendicata ma ovviamente inesistente, e il trionfo della finzione, che dà luogo a una straordinaria allegoria fantastica, spinta sino ai confini del surreale. Il che non significa che vengano persi di vista i problemi della realtà, di cui si discute nelle conversazioni, che intercorrono non solo fra il protagonista e il coprotagonista (capitolo X: «Divertente conversazione fra Don Chisciotte e Sancio Panza suo scudiero», e altri capitoli successivi, dal titolo analogo), ma coinvolgono spesso, con risalto variabile, molti personaggi di contorno. Tra loro assumono importanza il curato e il barbiere del villaggio, che, preoccupati della salute mentale del protagonista, cercano di farlo rinsavire, esaminando e bruciando i più pericolosi libri di cavalleria (capitolo VI). Sul piano dei significati un particolare rilievo assume la figura dell’ironia, che porta avanti il racconto sui due registri indicati, quello della verità e quello della finzione. Così le più strampalate e folli imprese di Don Chisciotte possono essere presentate come una «veridica storia» o come «fatti perfettamente veri» (nei sommari dei capitoli XXIII e XLV), mentre il protagonista diventa di volta in volta, stando sempre alle enunciazione dei sommari, il «valoroso», il «fiero», l’«invincibile», e le sue imprese vengono definite, ad esempio, «la fierissima e straordinaria battaglia che Don Chisciotte sostenne con degli otri di vino rosso» (capitolo XXXV), con evidente e accentuata sproporzione tra le parole e il loro contenuto. 79

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Le digressioni A queste oscillazioni corrisponde una struttura stratificata e composita, nella quale – entro la trama principale delle avventure vissute dal protagonista – si alternano digressioni di vario genere, che rendono il racconto disarticolato e frammentario. Tra gli episodi che presentano una spiccata autonomia, tali da presentarsi come racconti entro il racconto, possiamo ricordare quello della «pastora Marcella» (capitoli XII-XIII), la novella L’indagatore indiscreto (capitoli XXXIII-XXXIV), la lunga «storia del prigioniero» (capitoli XXXIX-XLI) e la più breve «storia del mulattiere» (capitolo XLIII). Il Don Chisciotte si presenta così, per dirla con il Pirandello del saggio L’umorismo (1908), come una di quelle opere che «sono scomposte, interrotte, intramezzate di continue digressioni»: un’opera irregolare e anticonformistica, che non obbedisce a modelli o schemi precostituiti, ma, ampliando “a rete” le dimensioni e le prospettive del narrabile, pone il lettore di fronte a situazioni strane, paradossali, impreviste. Nulla di più lontano quindi dall’armonia e dall’equilibrio tipici delle forme rinascimentali, il che presuppone il netto rifiuto del principio di imitazione e delle regole dei generi esistenti, nel nome di un’originalità fortemente innovatrice e priva di veri precedenti. Un romanzo moderno

Microsaggio Il carnevale e la letteratura carnevalizzata

Il tramonto dei valori cavallereschi

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il Don chisciotte romanzo “carnevalesco” Grandioso esempio della letteratura cosiddetta “carnevalesca”, il Don Chisciotte, più ancora del Gargantua e Pantagruele di Rabelais, inaugura le fortune del romanzo moderno, il nuovo genere letterario che nasce dalla dissoluzione del classicismo e dal rifiuto delle regole che ne avevano codificato le forme. Non è un caso, allora, che l’opera si collochi tra Cinque e Seicento, nel momento in cui Manierismo e Barocco registrano il venir meno dell’equilibrio rinascimentale, nel nome di nuove istanze di indipendenza e di libertà. Da queste premesse nasce il romanzo, come genere che non obbedisce a regole prestabilite e può introdurre, nel suo onnivoro organismo, elementi delle più diverse specie. Nel corso del Cinquecento era proseguita ininterrotta la fortuna della narrativa cavalleresca, che, se ancora forniva la materia alle fantasie di Cervantes, era stata al centro di quel capolavoro assoluto dell’età rinascimentale che è l’Orlando furioso dell’Ariosto. In entrambi gli autori la consapevolezza che il mondo dei valori cavallereschi è ormai tramontato prende corpo nella follia dei due protagonisti, che però riflette, nei rispettivi autori, motivazioni assai diverse: in Ariosto si osserva un atteggiamento di distacco ironico, che tuttavia non rifiuta le suggestioni fantastiche che la materia è ancora in grado di fornire; in Cervantes, attraverso il protagonista, si registra una contraffazione parodica che finisce per destabilizzare e mettere in crisi un intero sistema di convinzioni consolidate. Ma la parodia non consiste in un semplice e meccanico rovesciamento, in cui la materia – come abbiamo visto nella Secchia rapita di Tassoni Charles Antoine Coypel, Sancho si sveglia e si dispera di non ( T3, p. 69) – viene degradata per trovare più il suo amato asino Grison, 1726, olio su tela, episodio da Don Quichotte de la Manche, Compiegne (Francia), presentare come eroico ciò che eroiMusée du Chateau. co non è. Il Conte di Culagna è un

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo La complessità del personaggio Don Chisciotte

Sancio Panza

Il mutamento delle prospettive

La compresenza di comico e serio

personaggio concepito in maniera semplicemente comica; non così Don Chisciotte, figura complessa che si fa portatore di nobili ideali e, attraverso il suo comportamento anacronistico, fuori del tempo, ne coglie la radicale incompatibilità con la prosaicità di un presente sordo a ogni più alto valore. La sua eccentricità è un elemento essenziale della visione del mondo carnevalesca (quella della “vita tolta ai suoi binari normali”), e, in questo senso, la sua follia, che dà luogo a situazioni all’apparenza soltanto ridicole, diventa anche un elemento conoscitivo, nella misura in cui mette in discussione il modo di vivere della gente comune. La componente comica è rappresentata invece da Sancio Panza, che – rispetto a Don Chisciotte – incarna nella maniera più evidente la figura del “doppio”, introducendo un elemento di forte contrasto (si tratta di due tipiche «figure accoppiate, scelte per contrasto», come dice Bachtin. Se Don Chisciotte vive in una dimensione del tutto ideale, che trascende le esigenze e gli impegni delle vita reale, Sancio vive completamente immerso nella dimensione materiale-corporea assicuratagli dalla sua condizione di contadino, sensibile ai piaceri delle bevande e del cibo, unicamente attento al benessere personale (la sua prima preoccupazione è quella di cavarsela nelle folli imprese che riguardano il suo padrone), interessato ai vantaggi che dalla sua funzione potrà ricavare (le promesse ovviamente mirabolanti di cui è prodigo Don Chisciotte). Naturalmente all’opposizione del carattere dei due personaggi corrisponde anche l’aspetto fisico: allampanato ed emaciato Don Chisciotte, quasi la sua mente tendesse verso il cielo; tozzo e grassoccio, e quindi saldamente attaccato alla terra, Sancio. Anche l’immagine del doppio e del rovesciamento, ampiamente diffusa nell’opera, appartiene alla fenomenologia carnevalesca che caratterizza, secondo Bachtin, il genere romanzesco (si pensi alla bacinella del barbiere indossata come un elmo, T6, p. 95). Su queste basi, sempre seguendo le indicazioni bachtiniane, è possibile individuare altri elementi costitutivi del romanzo. C’è, intanto, il continuo mutare delle prospettive, a partire dalla netta contrapposizione fra la visione distorta e straniante del reale che appartiene al protagonista, in conflitto con il metro di valutazione del sentire comune e soprattutto con quello di Sancio, che, per la sua assidua presenza a fianco di Don Chisciotte, sollecita costantemente il confronto. Dall’intrecciarsi e sovrapporsi dei punti di vista deriva una visione aperta e relativa della realtà, da cui risulta che i personaggi non sono concepiti come statici, ma subiscono una evoluzione: Sancio riuscirà a governare con saggezza l’isola di cui è diventato governatore, mentre Don Chisciotte finirà per riacquistare il lume della ragione (il che non significa che, anche in precedenza, non fosse in grado di dare giudizi e prendere decisioni sensate). Non solo, ma al di sotto della follia, non si può non riconoscere la nobiltà delle intenzioni di Don Chisciotte, in un mondo che, come scriverà Luigi Pirandello ( La voce del Novecento, p. 92), appare ormai privo di ideali autentici. Carnevalesca è la congiunzione dell’elemento comico, che induce al riso, con quello serio. Dall’affollarsi delle voci, che fanno capo ai diversi punti di vista, nasce inoltre il carattere “polifonico” del romanzo ( T6, p. 95), che diventa più propriamente plurilinguistico articolandosi su livelli di stili diversi, a seconda dei personaggi (non manca, ad esempio, il linguaggio della sofferenza amorosa, che coesiste accanto a quello della tradizione arcadica, bucolica e pastorale, nell’episodio del giovane che si uccide a causa dell’amore non corrisposto per la «pastora Marcella», ai capitoli XIIXIV). Anche in questo caso funziona esemplarmente l’antitesi fra le parole dei personaggi comuni e quelle di Don Chisciotte, che diventano una parodia dello stile ideale e “sublime” della tradizione poetica cavalleresca e cortese; uno stile che suona strano e oscuro tanto da trasfigurare la realtà e risultare spesso, per chi lo ascolta, incomprensibile, divenendo fonte di fraintendimenti e di equivoci. È il registro in base al quale le osterie diventano castelli, gli osti castellani, le donne di facili costumi 81

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

aristocratiche dame e damigelle, in espressioni che si riferiscono ai compiti cavallereschi o al “servizio d’amore” che Don Chisciotte tributa alla sua bella. Basti questo breve esempio, in cui il traduttore ha cercato di riprodurre lo stile per così dire arcaico e anacronistico dell’originale: O principessa Dulcinea, signora di questo cuore prigione [prigioniero]! Grande torto fatto mi avete dandomi congedo e imponendomi il rigoroso divieto di presentarmi innante [davanti] alla vostra beltade. Degnatevi, signora, di ricordarvi di questo cuore vostro suddito, che tanta penanza [pena] per amor vostro sustenta [sopporta].

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I caratteri del Don Chisciotte GEnErE

ArGoMEnTo

fonTi

Le avventure ridicole e umilianti di un povero hidalgo che si è lasciato talmente assorbire dalla lettura dei romanzi cavallereschi da impazzire e decidere di partire alla ventura La fonte principale è il racconto burlesco anonimo Entremés de los romances (1588-91), da cui è tratta la storia nelle sue linee essenziali; frequenti sono i riferimenti, parodistici o seri, ad altre opere

nArrATori

Il racconto è affidato a più voci narranti, nessuna delle quali onnisciente, che intervengono spesso nella vicenda: • il narratore principale, che si presenta come il “curatore” di un romanzo arabo venuto in suo possesso; • l’autore del manoscritto su cui, nella finzione, si basa la vicenda; • il traduttore, anch’esso fittizio, del manoscritto dall’arabo al castigliano; • Avellaneda, l’autore reale di una continuazione della prima parte del Don Chisciotte

pErSonAGGi prinCipALi

Il protagonista Don Chisciotte si affianca lo scudiero Sancio Panza, che ne rappresenta in un certo senso l’antitesi: il primo è idealista e intriso di cultura libresca, il secondo è un contadino incolto dotato di grande buonsenso “popolare” e realismo; sul finire della storia i caratteri dei due personaggi si trasformano e tendono a influenzarsi a vicenda

STruTTurA

foCALizzAzionE

LinGuAGGio

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Romanzo in prosa che recupera in una sorta di mixage vari generi della tradizione: la letteratura cavalleresca, il genere idillico-bucolico, il romance (componimento epico-lirico di origine popolare), la narrazione picaresca, il saggio

Sulla vicenda principale si innestano numerose digressioni: • racconti secondari inseriti nella narrazione principale; • incursioni dei narratori nella storia; • commento o approfondimento dei temi trattati, principalmente a opera del protagonista Il racconto è spesso svolto dalla prospettiva dei personaggi e dei diversi narratori: si ha per conseguenza una continua variazione dei punti di vista da cui le vicende sono osservate, nessuno dei quali risulta obiettivo Il linguaggio si modella sui personaggi e sulle situazioni

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

T4

Miguel de Cervantes

il «famoso gentiluomo don Chisciotte della Mancia» dal Don Chisciotte della Mancia, libro I, cap. 1 È il capitolo iniziale del libro primo, in cui Cervantes delinea il ritratto del suo protagonista.

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Temi chiave

• la descrizione del protagonista e la

sua trasformazione in chiave grottesca • la creazione di un mondo parallelo immaginario • la parodia del genere cavalleresco

In un borgo della Mancia1, di cui non voglio ricordarmi il nome, non molto tempo fa viveva un gentiluomo di quelli con lancia nella rastrelliera2, scudo antico, ronzino3 magro e can da séguito4. Qualcosa in pentola, più spesso vacca5 che castrato, quasi tutte le sere gli avanzi del desinare in insalata, lenticchie6 il venerdì, un gingillo7 il sabato, un piccioncino ogni tanto in più la domenica, consumavano tre quarti delle sue rendite; il resto se ne andava tra una casacca di castoro con calzoni e scarpe di velluto per le feste, e un vestito di fustagno, ma del più fino, per tutti i giorni. Aveva una governante che passava i quarant’anni, una nipote che non arrivava ai venti e un garzone capace per il campo come per il mercato8, buono a sellare il ronzino come a menar la roncola9. L’età del nostro gentiluomo rasentava la cinquantina: era di complessione10 robusta, asciutto di corpo, magro di viso, molto mattiniero e amante della caccia. Voglion dire che avesse il soprannome di Chisciada o Chesada (perché a questo proposito c’è qualche discrepanza tra gli autori che ne hanno scritto), ma da congetture assai verosimili si arguisce che si chiamava Chisciana. Ma questo importa poco pel nostro racconto: basta che nell’esposizione dei fatti non ci si scosti una linea dalla verità. Bisogna poi sapere che questo gentiluomo, nei periodi di tempo in cui non aveva nulla da fare (cioè la maggior parte dell’anno), si dedicava alla lettura dei romanzi cavallereschi e a poco per volta ci si appassionò tanto, che dimenticò quasi del tutto la caccia e anche l’amministrazione del suo patrimonio; anzi, la sua curiosità e la smania di questa lettura arrivarono a tal segno11, che vendé parecchi appezzamenti di terreno, e di quello buono anche, per comprarsi dei romanzi cavallereschi. Quindi ne portò a casa quanti ne poté avere, e i più belli di tutti gli parevano quelli del famoso Feliciano de Silva12, perché la limpidità della sua prosa e quei suoi discorsi intricati gli parevano una meraviglia, specialmente quando arrivava a leggere quelle lettere d’amore e quei cartelli di sfida, in cui molto spesso si trovava scritto: la ragione dell’irragionevole torto che alla mia ragione fassi, in guisa13 tale la mia ragion debilita, che della beltade vostra con ragione lagnomi14; oppure: Gli alti cieli che della divinità vostra divinamente con le stelle vi fortificano, e vi fanno emerita15 del merito che la grandezza vostra merita.

1. Mancia: regione interna della Spagna, che fa parte della Castiglia. 2. rastrelliera: intelaiatura addossata al muro, per reggere oggetti di vario genere. 3. ronzino: cavallo di scarso valore, vecchio e sciancato. 4. can da séguito: cane da caccia. 5. vacca: carne di mucca, meno cara di quella di agnello (castrato). 6. lenticchie: era comune credenza che le

lenticchie predisponessero alla pazzia. 7. gingillo: pasticcio con i resti della carne di maiale. 8. capace … mercato: adatto a tutte le incombenze, per tutti gli usi. 9. roncola: attrezzo agricolo con lama ricurva e impugnatura in legno. 10. complessione: costituzione. 11. a tal segno: a tal punto. 12. Feliciano de Silva: uno dei più noti au-

tori di romanzi cavallereschi (1491-1554), fra cui Lisuarte di Grecia e Amadigi di Grecia, legati alla tradizione dell’Amadigi di Gaula ( nota 21). 13. fassi, in guisa: si fa, in modo. 14. lagnomi: mi lagno, mi lamento. 15. emerita: particolarmente meritevole (continua il gioco di parole baroccheggiante, in particolare per quanto riguarda la figura etimologica).

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Il povero cavaliere perdeva la testa dietro a questi discorsi, e non dormiva per spiegarseli e sviscerarne16 il senso, mentre non ci sarebbe riuscito nemmeno Aristotele17, anche se fosse resuscitato apposta. Non lo persuadevan molto i colpi che Don Belianigi18 dava e riceveva, perché si immaginava che, per quanto fossero bravi i chirurghi che lo avevan curato, doveva avere il corpo e il viso pieno di segni e di cicatrici. Tuttavia lodava nell’autore quel modo di terminare il libro con la promessa del seguito di quella interminabile avventura; e molte volte gli venne la voglia di pigliar la penna e di finirla lui, con grande precisione, come lì si prometteva; e lo avrebbe fatto di certo, e vi sarebbe anche riuscito, se non lo avessero distolto altri maggiori e continui pensieri. Ebbe molte discussioni col curato del paese (uomo dotto, laureato a Siguenza19) a proposito di chi fosse stato miglior cavaliere, se Palmerino d’Inghilterra o Amadigi di Gaula; ma diceva Mastro Nicola, barbiere di quello stesso borgo, che nessuno raggiungeva il Cavaliere del Febo, e che se qualcuno gli si poteva paragonare, era Don Galaor20, fratello di Amadigi di Gaula21, perché aveva disposizione a tutto, non era sentimentale e piagnucolone come suo fratello, e non gli cedeva punto in fatto di valore. Insomma, si sprofondò tanto in quelle letture, che passava le notti dalla sera alla mattina, e i giorni dalla mattina alla sera, sempre a leggere; e così, a forza di dormir poco e di legger molto, gli si prosciugò talmente il cervello, che perse la ragione. Gli si riempì la fantasia di tutto quello che leggeva nei suoi libri: incanti, litigi, battaglie, sfide, ferite dichiarazioni, amori, tempeste e stravaganze impossibili; e si ficcò talmente nella testa che tutto quell’arsenale di sogni e d’invenzioni lette ne’ libri fosse verità pura, che secondo lui non c’era nel mondo storia più certa. […] E così, perso ormai del tutto il cervello, gli venne il pensiero più stravagante che sia mai venuto a un pazzo; cioè parve opportuno e necessario, sia per accrescere il proprio onore, sia per servire il proprio paese, di farsi cavaliere errante, e d’andar per il mondo con le sue armi e il suo cavallo a cercare avventure e a cimentarsi in tutte le imprese in cui aveva letto che si cimentavano i cavalieri erranti22, combattendo ogni sorta di sopruso ed esponendosi a prove pericolose, da cui potesse, dopo averle condotte a termine, acquistarsi fama immortale. Il pover’uomo si figurava già di diventare, grazie al valore del suo braccio, per lo meno imperatore di Trebisonda23, e quindi, sospinto da così radiosi pensieri e dalla straordinaria soddisfazione che gli davano, si affrettò a mandare ad effetto24 il suo desiderio. Anzitutto lucidò certe armi che erano appartenute ai suoi antenati, le quali da parecchi secoli se ne stavano piene di ruggine e di muffa dimenticate in un cantuccio. Le ripulì dunque, e le accomodò alla meglio, ma si accorse che vi mancava un pezzo di grande importanza; perché invece di una celata con la relativa barbozza c’era un semplice morione25. A questa mancanza rimediò ingegnandosi. Con del cartone fece alla peggio una specie di barbozza, che, incastrata nel morione, gli dava l’apparenza di una celata intera.

16. sviscerarne: indagarne, analizzarne a fondo. 17. Aristotele: il celebre filosofo greco (IV secolo a. C.). 18. Don Belianigi: protagonista di Belianís de Grecia, pubblicato nel 1545 da Jerónimo Fernández. 19. Siguenza: cittadina della Castiglia, sede di una piccola università nota per la facilità con cui si conseguivano le lauree. 20. Palmerino d’Inghilterra … Don Galaor: famosi protagonisti di quei romanzi

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che Don Chisciotte aveva nella sua biblioteca (più avanti, al cap. 6 del libro I, questi romanzi verranno bruciati dal curato e dal barbiere perché non sconvolgano ancora di più la mente di Don Chisciotte). 21. Amadigi di Gaula: protagonista dell’omonimo romanzo, pubblicato nel 1508 da Garcia Rodríguez de Montalvo, la cui vicenda risaliva tuttavia a precedenti narrazioni del ciclo bretone. 22. cavalieri erranti: i cavalieri erano detti “erranti” perché (come farà Don Chisciotte)

si spostavano da un luogo all’altro in cerca di avventure. 23. Trebisonda: città della Turchia sul Mar Nero, capitale dell’Impero che da lei prese il nome (1204-1461), prima di essere conquistata dai turchi Ottomani. 24. mandare ad effetto: realizzare. 25. celata … morione: la celata è l’elmo; la barbozza è la parte dell’armatura che protegge il viso e il collo; il morione è invece un elmetto che lascia il volto scoperto.

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Vero è che per provare se era forte e poteva reggere al rischio di una sciabolata, tratta fuori la spada, le tirò due colpi, ma al primo disfece in un attimo il lavoro di una settimana. La facilità con cui l’aveva tribbiata26 non gli piacque tanto; perciò la rifece di nuovo mettendoci a traverso dalla parte di dentro delle sbarrette di ferro per garantirsi meglio da ogni pericolo. In questo modo rimase soddisfatto della sua solidità e non volle rifar la prova, ma senz’altro la ritenne una celata di qualità ottima. Dopo andò a fare un’ispezione al suo ronzino e sebbene avesse più guidaleschi27 che il cavallo del Gonnella28, il quale tantum pellis et ossa fuit, gli parve che né il Bucefalo29 d’Alessandro né il Babieca30 del Cid gli potessero stare a pari. Stette quattro giorni a pensare che nome gli potesse mettere, perché, diceva lui, non era giusto che il cavallo di un cavaliere così famoso, e poi anche bravo31 di suo, dovesse rimanere senza un bel nome. Quindi cercava di trovargliene uno che designasse ciò che era stato prima d’entrare nella cavalleria errante e ciò che era allora. Ed era molto logico che, mutando condizione il padrone, anche il cavallo dovesse mutare il nome e prendersene uno pomposo32 e risonante, come era conveniente al nuovo ordine33 e all’uffizio nuovo che ormai assumeva. Quindi, dopo d’aver nel suo cervello inventati e poi scartati, allungati ed accorciati, disfatti e rifatti una gran quantità di nomi, finì col chiamarlo Ronzinante; nome, secondo lui, maestoso, sonoro, e che significava molto bene ciò che era stato, quando era stato ronzino, di fronte a ciò che era ora, cioè un ronzino «innante34» a tutti i ronzini del mondo. Messo un nome, e un nome tanto di suo gusto, al cavallo, volle metterselo anche per sé, e stette altri otto giorni a pensarci, finché decise di chiamarsi Don Chisciotte; e di qui, come si è già detto, presero occasione gli autori di questa verissima storia per affermare che si dovesse chiamar Chisciada e non Chesada, come altri invece vollero sostenere. Ma ricordadosi che il valoroso Amadigi non si era contentato di chiamarsi puramente Amadigi, ma aveva aggiunto l’indicazione del suo regno e della sua patria per renderla famosa, e si era dato il nome di Amadigi di Gaula, anch’egli volle da buon cavaliere aggiungere quello della patria al proprio nome e chiamarsi Don Chisciotte della Mancia.

26. tribbiata: frantumata. 27. guidaleschi: piaghe (dovute allo sfregamento dei finimenti). 28. Gonnella: Pietro Gonella, famoso buffone alla corte di Ferrara nel XIV secolo, attorno al quale fiorì tutta una serie di aneddoti; in un componimento Teofilo Folengo (1491-1544) dice che il suo cavallo “fu soltanto pelle e ossa”. 29. Bucefalo: il celebre cavallo di Alessandro Magno. 30. Babieca: il cavallo di Rodrigo Diaz di Bivar (1043-99), meglio conosciuto come El Cid Campeador, eroe della lotta contro gli arabi immortalato nel poema epico anonimo Cantar de mio Cid, risalente al 1140 circa. 31. bravo: valente. 32. pomposo: magniloquente. 33. ordine: condizione. 34. innante: innanzi, davanti.

Octavio Ocampo, Las Visiones del “Quijote”, 1989, olio su tela, Collezione privata.

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Così gli parve di avere manifestato, in modo molto chiaro, lignaggio35 e origini, e di aver reso alla patria il dovuto onore prendendo da essa il proprio cognome. Ripulite quindi le armi, fatta col morione una celata, dato un nome al ronzino, e ribattezzato se stesso, si persuase che non gli mancava più altro che trovare una dama di cui innamorarsi. Perché un cavaliere errante senza amore è lo stesso che un albero senza foglie e senza frutto, e un corpo senz’anima. «Se io» diceva fra sé «per penitenza dei miei peccati o per buona fortuna, incontro qualche gigante come suole accadere ai cavalieri erranti, e lo atterro al primo scontro, o lo divido nel bel mezzo, o finalmente lo vinco e lo costringo ad arrendersi, bisognerà pure che io abbia a chi farne un presente, perché egli possa entrare, inginocchiarsi davanti alla mia dolce signora, e dirle con voce umile e sottomessa: “Io, signora, sono il gigante Visoculonio, signore dell’isola Malindrania36 vinto in singolar tenzone37 dal non mai abbastanza lodato cavaliere Don Chisciotte della Mancia, il quale mi ordinò di presentarmi a Vostra Signoria, perché la Grandezza Vostra disponga di me a suo talento”». Oh come si rallegrò il nostro buon cavaliere quando ebbe fatto questo discorso, e più con più38, quando trovò chi scegliere per sua dama! Pare che in un paesetto vicino al suo ci stesse una ragazza, una contadina piuttosto belloccia, di cui un tempo era stato innamorato, ma senza che lei, a quel che si dice, lo sapesse neanche, né si curasse di lui. Si chiamava Aldonza Lorenzo. Questa fu la ragazza che gli parve adatta per conferirle il titolo di signora dei suoi pensieri, e volendo darle un nome che non disdicesse al suo e che avesse aria signorile e principesca la chiamò Dulcinea del Toboso, perché era nativa del Toboso39: nome a parer suo armonioso, peregrino40 e significativo, come gli altri che s’era scelti per sé e per le cose sue. M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a cura di C. Segre e D. Moro Pini, trad. it. di F. Carlesi, Mondadori, Milano 1974

35. lignaggio: discendenza, casata. 36. Visoculonio … Malindrania: nomi inventati, con valore burlesco.

37. singolar tenzone: duello. 38. più con più: tanto più. 39. Toboso: paese spagnolo nella regione

di Castiglia-La Mancia 40. peregrino: raro, inconsueto.

Analisi del testo

> illusione e realtà

Il ritratto del protagonista

Una realtà parallela

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Il titolo di questo passo, tratto dalla presentazione del capitolo iniziale del Don Chisciotte, introduce quell’elemento ironico su cui si gioca il rapporto fra illusione e realtà. Sono i due piani attorno a cui si sviluppa il romanzo, a partire dal ritratto, qui compiutamente delineato, del protagonista; esso viene presentato come un «gentiluomo» povero e decaduto, che conserva alcuni segni, anacronistici e degradati (il «ronzino magro») delle glorie passate. Del luogo in cui vive non vale la pena di fare menzione (si veda l’incipit: «In un borgo della Mancia, di cui non voglio ricordarmi il nome…»), così come incerta appare la grafia stessa del nome. Non per questo il narratore, giocando ancora sul registro della finzione letteraria, rinuncia a storicizzarne la figura, indicando le varie congetture fatte sull’esattezza della sua identificazione. Si prepara, in questo modo, la distinzione (e la confusione) fra il mondo reale (quello, diciamo così della gente comune, o del comune buon senso) e il mondo immaginario, in cui

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

vive e agirà il protagonista, creandosi una realtà parallela, interamente alternativa e sostitutiva. Ma anche in questo caso il narratore si preoccupa di indicarne le cause: la mente di Don Chisciotte è stata sconvolta dalla lettura dei romanzi cavallereschi, in cui si è interamente immedesimato, al punto di voler tradurre nella realtà del presente le gloriose imprese del passato, facendole rivivere attraverso la sua persona. L’immedesimazione in un cavaliere errante

L’anacronismo dei modelli letterari

> La trasformazione del protagonista

Eccolo quindi iniziare una sorta di metamorfosi che, sulla scia di quelle avventure antiche e ormai del tutto improponibili, lo porta a nobilitare, nella mente sconvolta, la sua persona, per essere degno delle imprese gloriose che si propone di affrontare. Nel fornirci la traccia per comprendere le future vicende il narratore è esplicito: «E così, perso ormai del tutto il cervello, gli venne il pensiero più stravagante che sia mai venuto a un pazzo; cioè parve opportuno e necessario, sia per accrescere il proprio onore, sia per servire il proprio paese, di farsi cavaliere errante», assumendone tutti i compiti relativi. L’assurdità della decisione dà luogo a una trasformazione grottesca: il presunto Chisciana sceglie il nome altisonante di Don Chisciotte della Mancia, dopo aver rabberciato alla meglio «certe armi che erano appartenute ai suoi antenati, le quali da parecchi secoli se ne stavano piene di ruggine e di muffa dimenticate in un cantuccio» (rr. 61-62); il «ronzino» viene da lui innalzato al rango dei più famosi destrieri della tradizione eroica e prende, per antitesi rispetto ai loro nomi altisonanti, il nome poco glorioso di Ronzinante; non manca, per completare questa prima trasformazione, che la figura di una «dama», della «signora dei suoi pensieri», di cui innamorarsi e a cui dedicare le proprie imprese, secondo l’idea del servizio d’amore tipica dell’immaginario del mondo cortese e cavalleresco. La scelta cade sulla contadinotta di un paese vicino, da lui chiamata Dulcinea del Toboso. Su questo doppio registro, di abbassamento e degradazione della materia eroica e cavalleresca, si svilupperà l’andamento del romanzo, in cui il protagonista partecipa della realtà ma, al tempo stesso, se ne allontana radicalmente, scegliendo di uniformare la propria vita, pensieri e comportamenti, su dei modelli letterari che, sebbene ancora operanti nella fantasia dei lettori, finivano per risultare del tutto anacronistici e improponibili.

Esercitare le competenze CoMprEndErE

> 1. Fino a qual segno arriva in Don Chisciotte la smania di lettura di romanzi cavallereschi? > 2. Quali conseguenze fisiche derivano a Don Chisciotte dall’assiduità della lettura? > 3. Quale risoluzione prende il protagonista del romanzo «sia per accrescere il proprio onore, sia per servire il proprio paese» (rr. 52­53)?

> 4. Perché il cavallo viene chiamato «Ronzinante»? > 5. Che cos’è, secondo Don Chisciotte, un «cavaliere errante senza amore» (r. 108)? AnALizzArE

> 6. Stile Quali figure retoriche rintracci nella parte in corsivo? Quale stile riproducono? > 7. Lessico Spiega il significato dell’espressione “perdere la trebisonda”. Con quale sfumatura di significato è utilizzato nel testo il nome della città (r. 58)?

ApprofondirE E inTErprETArE

> 8.

Scrivere Spiega, in un testo di circa 10 righe (500 caratteri), perché è possibile parlare del romanzo come una “collezione” di generi letterari. > 9. Altri linguaggi: arte Dopo aver osservato il dipinto di p. 85, individua e distingui i singoli elementi che l’auto­ re ha tratto dall’opera di Cervantes.

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Interpretazioni critiche

Erich Auerbach Il Don Chisciotte come «girotondo allegro, confuso e divertente» Il grande filologo Auerbach nel suo libro Mimesis. Il realismo nella cultura occidentale, pubblicato in tedesco nel 1946 e Erich Auerbach è uno studioso di estra­ poi tradotto in molte lingue, sostiene che quello di Cervantes zione filologica che fonda il suo operare è un romanzo gaio e divertente e che non si può attribuire sulla critica stilistica, in generale, e, in par­ alla follia del protagonista «un significato simbolico e tragico» ticolare, sulla indagine dei vari “livelli” di stile nelle opere letterarie. Le sue indagini come fanno quasi tutti gli altri critici alle cui opinioni ci siamo stilistiche sono basate su un solido storici­ rifatti per la rubrica Che cosa ci dicono ancora oggi i classici smo che intende collocare i lavori letterari dedicata al capolavoro dello scrittore spagnolo ( p. 104). presi in esame nel tempo che li vide na­ Presentiamo questo brano per dar voce a quel “conflitto scere e così giungere al nucleo profondo delle interpretazioni” cui sempre possono dare vita opere del loro significato. così grandi non senza notare però che per sostenere la sua tesi – strettamente legata a un punto di vista filologico e cioè a voler vedere l’opera nel proprio tempo al di là delle interpretazioni successive – Auerbach è costretto a tralasciare citazioni e richiami al testo che servirebbero assai bene a sostenere una tesi diversa dalla sua.

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Il comportamento del Cervantes è tale per cui il suo mondo diventa un giuoco in cui ogni personaggio è giustificato soltanto dalla sua vita collocata al suo luogo. […] Soltanto don Chisciotte ha torto, fino a quando è matto; soltanto lui ha torto in un mondo ben ordinato, in cui ognuno, all’infuori di lui, ha il suo posto; ed egli stesso lo riconosce alla fine, quando in punto di morte si ritrova entro l’ordine comune. Ma il mondo è poi davvero ben ordinato? La domanda non vien posta. Certo è che esso, alla luce della pazzia di don Chisciotte, e confrontato con questa, appare un giuoco ordinato e perfino sereno. Può darsi che vi si trovi infelicità, ingiustizia e disordine; v’incontriamo prostitute, delinquenti in veste di galeotti, ragazze traviate, banditi impiccati e molte altre cose del genere. Ma tutto questo non ci tocca. L’apparire di don Chisciotte, che non migliora nulla e a nulla porta rimedio, tramuta in giuoco felicità e infelicità. L’argomento del nobiluomo di campagna che vuol far rivivere la cavalleria errante, offrì al Cervantes la possibilità di mostrare il mondo sotto l’aspetto d’un giuoco, con l’indifferenza versatile, capace di varie prospettive, che non giudica e meno che mai domanda, e che costituisce una prode saggezza. Si potrebbe esprimerla con le parole già citate di don Chisciotte: «che ciascuno se ne vada col suo peccato; nel cielo c’è Dio che non dimentica di punire il cattivo né di premiare il buono»; o anche con quelle da lui dette a Sancio (nel capitolo VIII della parte II), alla fine del discorso sui monaci e cavalieri: «molte sono le vie per cui Dio porta i suoi al cielo». […] Al Cervantes non sarebbe mai venuto in mente che lo stile d’un romanzo, sia pure il migliore, potesse render trasparente l’ordine del mondo. Tuttavia anche a lui riusciva ormai difficile dominare i fenomeni della realtà, i quali non consentivano più di essere ordinati in maniera unica e tradizionale. In altri paesi europei già da lungo tempo si era cominciato a porsi domande e dubbi, a costruire con la propria ragione. Ma ciò non rispondeva né allo spirito del suo paese, né al temperamento del Cervantes, né alla sua idea dell’ufficio dello scrittore. Non è più il dramma Ognuno1, in cui si può secondo norme fisse

1. il dramma Ognuno: si tratta di un’elaborazione medievale della parabola di Lazzaro e del ricco Epulone (Luca, XVI, 19-33), il

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cui tema centrale è costituito dal mistero della morte. Il tema venne ripreso nei vari paesi attraverso il tempo fino al Novecento

quando Hugo von Hofmannsthal, nel 1911, scrisse il suo Jedermann (“Ognuno”), atto unico in versi.

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giudicare di quanto è buono o cattivo; così si faceva ancora nella Celestina2. La cosa ormai non è più così semplice: il Cervantes limita i suoi giudizi alle cose che concernono il suo mestiere di scrittore. Quanto al resto, siamo tutti dei peccatori; ci penserà Dio a punire i malvagi e premiare i buoni. Qui, sulla terra, l’ordinamento di ciò che è incomprensibile si riduce a un giuoco: per quanto sia difficile dominare e giudicare i fenomeni, davanti al pazzo cavaliere della Mancia tutto diventa un girotondo allegro, confuso e divertente. Questa, mi sembra, la funzione della pazzia di don Chisciotte. Quando il tema - la sortita dell’hidalgo pazzo, che vuol creare l’ideale del cavaliere errante - incominciò ad accendere la fantasia del Cervantes, gli apparve anche l’immagine della realtà contemporanea, quale sarebbe stata confrontandola con quella pazzia, e tale idea gli piacque, sia per la sua varietà che per l’indifferente gaiezza che la follia diffonde su tutto quello in cui s’imbatte. E certamente trovò altrettanto gradito che si trattasse d’una pazzia eroica e ideale, che lascia posto alla saggezza e all’umanità. Ma dare a questa follia un significato simbolico e tragico, mi sembra una sforzatura. Una tale interpretazione può anche esser data, ma nel testo non esiste. Una simile gaiezza universale, estesa a tutta la società, e con ciò libera da critiche e problemi, nella rappresentazione della vita quotidiana, non è stata mai più tentata in Europa, né io so immaginare dove e quando avrebbe potuto esserlo. E. Auerbach, Dulcinea incantata, in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956

2. Celestina: è questo il titolo sotto cui si conosce la Tragicommedia di Calisto e Melibea di Fernando de Rojas pubblicata nel

1499. L’opera, 21 atti nella stesura definitiva, è considerata di grande valore tanto che, secondo molti critici, occuperebbe il primo

posto tra i capolavori della letteratura spagnola se non ci fosse il Don Chisciotte.

Esercitare le competenze CoMprEndErE

> 1. Che cosa intende il critico per «giuoco» (r. 1)? AnALizzArE

> 2. Lessico Individua nel brano l’occorrenza del termine «pazzia» spiegandone, di volta in volta, la precisa accezio­ ne nell’ambito del discorso. ApprofondirE E inTErprETArE

> 3. Quali tesi di Auerbach sembrano rimandare al contesto di riferimento dell’opera di Cervantes? Delineale in una esposizione orale (max 5 minuti).

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Miguel de Cervantes

La «spaventosa avventura dei mulini a vento»

Temi chiave

• la parodia di un duello cavalleresco • il contrasto tra realtà e immaginazione

dal Don Chisciotte della Mancia, libro I, cap. 8 Vedendo da lontano dei mulini a vento, Don Chisciotte li scambia per giganti.

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In quel mentre scorsero trenta o quaranta mulini a vento che si trovano in quella pianura, e appena Don Chisciotte li vide, disse al suo scudiero: – La fortuna guida i nostri affari meglio di quanto avremmo potuto desiderare. Guarda, amico Sancio, ecco là una trentina, o poco più, di giganti smisurati, con cui mi propongo di venire a battaglia e di ucciderli tutti. Con le loro spoglie1 cominceremo ad arricchirci, perché è buona guerra2 e perfetto servizio di Dio il levar dal mondo così cattiva semenza3. – Che giganti? – domandò Sancio Panza.

1. spoglie: preda di guerra, bottino. 2. è buona guerra: è una guerra combattu-

ta per buoni motivi. 3. semenza: razza.

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– Quelli là – rispose Don Chisciotte – con le braccia lunghe. Alle volte alcuni le hanno di quasi due leghe4. – Badi bene, sa – rispose Sancio – che quelli là non sono giganti, ma mulini a vento, e quelle che paion braccia, son le ali, che mosse dal vento fanno andare la macina5. – Si vede bene – rispose Don Chisciotte – che d’avventure non te ne intendi: quelli là son giganti, caro mio; e se hai paura, allontànati e mettiti a pregare, mentre io vo a ingaggiare con loro una fiera e inegual tenzone6. Così dicendo spronò Ronzinante, senza badare a quel che gli urlava Sancio, il quale lo avvertiva che eran proprio mulini a vento e non giganti. Ma egli s’era tanto intestato7 che fossero giganti, che non udiva le grida del suo scudiero, e non riusciva a vedere, sebbene ormai fosse ben vicino, ciò che erano. Anzi andava gridando: – Non fuggite, codarde e vili creature, è un cavaliere solo che vi assale. Essendosi nel frattempo levato un po’ di vento, le grandi ali cominciarono a muoversi, e Don Chisciotte, visto ciò: – Anche se moveste più braccia che il gigante Briareo8 – disse – me la pagherete. Così dicendo, si raccomandò di tutto cuore alla sua dama Dulcinea, chiedendole che lo soccorresse in tal frangente; e ben coperto dalla rotella9, con la lancia in resta10, mise Ronzinante a gran galoppo; si precipitò contro il primo mulino che gli stava davanti, e gli infilò un’ala; ma in quel mentre il vento la fece girare con tanta violenza, che mandò la lancia in mille pezzi e si portò dietro cavallo e cavaliere. Don Chisciotte andò a rotolare molto malconcio sul terreno, e Sancio Panza con l’asino di carriera11 accorse a soccorrerlo, ma quando giunse trovò che non si poteva muovere: tale era il colpo che aveva battuto insieme con Ronzinante. – Dio Santissimo! – esclamò Sancio. – Non gliel’ho detto che badasse bene a quel che faceva, che non eran che mulini, e che bisognava proprio averne degli altri in testa per non accorgersene? – Sta’ zitto, amico Sancio – rispose Don Chisciotte – ché le faccende di guerra, più che tutte le altre, vanno soggette a continui mutamenti; tanto più che io penso che deve proprio esser così: cioè che quel mago Frestone12 che mi rubò la stanza e i libri, ha cangiato13 questi giganti in mulini a vento, per togliermi la gloria di vincerli. Tanta è l’inimicizia che ha con me! Ma alla fine dei conti poco potranno le sue male14 arti contro la bontà della mia spada. – Così voglia Iddio nella sua onnipotenza – rispose Sancio Panza. E l’aiutò a rialzarsi e a rimontare su Ronzinante, che era mezzo spallato15. M. de Cervantes, op. cit.

4. leghe: la lega è un’unità di misura che corrisponde a circa cinque chilometri. 5. la macina: la pietra di forma rotonda che serviva per triturare e macinare il grano. 6. inegual tenzone: duello tra forze impari, nel senso di uno contro tanti. 7. intestato: messo in testa, convinto. 8. Briareo: mostro, nella mitologia greca,

con cinquanta teste e cento braccia. 9. rotella: piccolo scudo di forma circolare, leggermente convesso. 10. con la lancia in resta: disponendosi all’assalto (la resta era il ferro applicato al lato destro della corazza su cui si appoggiava la lancia durante il combattimento a cavallo). 11. di carriera: di corsa.

12. Frestone: il mago inesistente da cui Don Chisciotte era convinto di essere odiato; sarebbe stato lui a derubarlo dei libri che invece erano stati eliminati dal parroco e dal barbiere (libro I, cap. 6). 13. cangiato: cambiato, trasformato. 14. male: malvagie. 15. spallato: con le spalle rotte.

Analisi del testo

> La notorietà della scena

A completare il travestimento di Don Chisciotte, insieme con una serie di equivoci che lo portano a scambiare un oste per un castellano, o due giovani di facili costumi con due dame, mancavano l’investitura di cavaliere, ottenuta attraverso una cerimonia del tutto strampalata, e la scelta di uno scudiero, che, come si è detto, verrà trovato in quella sorta di “doppio” che è Sancio Panza. Da quel momento i due si accompagnano per lunghi trat-

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ti, come in questo episodio, che, dell’intero romanzo, è tra i più noti, se non il più noto, spesso riprodotto nelle illustrazioni. Come ha scritto Italo Calvino nelle Lezioni americane: «la scena di Don Quijote che infilza con la lancia una pala del mulino a vento e viene trasportato in aria occupa poche righe nel romanzo di Cervantes; si può dire che in essa l’autore non ha investito che in minima misura le risorse della sua scrittura; ciononostante essa resta uno dei luoghi più famosi della letteratura di tutti i tempi». La parodia dei duelli

Il buon senso contrapposto a una logica stravolta

> La contrapposizione tra i punti di vista di don Chisciotte e di Sancio panza

Visti dei mulini a vento, Don Chisciotte li identifica immediatamente con dei «giganti smisurati» (la «malvagia semenza» di tanti romanzi cavallereschi), che, essendosi messo al «servizio di Dio» e della giustizia, si sente in dovere di sfidare e uccidere. In questa evidente parodia dei duelli che costellavano le avventure dei cavalieri erranti, il dislivello fra la sua immaginazione allucinata e la realtà è talmente evidente che Sancio non può non sottolinearlo, indicando chiaramente la distanza fra ciò che sembra alla mente alterata del suo padrone, l’apparenza, e ciò che è («quelle che paion braccia, son le ali, che mosse dal vento fanno andare la macina», r. 10). Naturalmente, nella sua incrollabile fede, Don Chisciotte non intende ragioni, e l’avventura avrà l’esito di tante altre, con l’eroe caduto a terra, assieme a Ronzinante, con le ossa ammaccate. Il contrasto fra il principio di realtà, che Sancio rappresenta con il suo buon senso, e il rifiuto di accettare l’evidenza, da parte di chi si è rifugiato in un universo fantastico del tutto particolare, risulta il filo conduttore dell’opera, trovando anche qui una sua tipica espressione nel fatto che Don Chisciotte, alla luce della sua logica stravolta, trova sempre una spiegazione dei suoi fallimenti, mentre Sancio finisce per accettarne, quasi fossero normali, le conseguenze, con una sorta di fatalistica rassegnazione («Così voglia Iddio nella sua onnipotenza», r. 38).

Esercitare le competenze CoMprEndErE

> 1. Qual è il commento di Sancio di fronte a Don Chisciotte “disarcionato” dai mulini a vento? Che cosa risponde Don Chisciotte? A chi attribuisce la colpa dell’improvvisa ed improbabile trasformazione da giganti a mulini?

AnALizzArE

> 2. > 3. > 4.

Distingui nel brano, all’interno del dialogo tra i due protagonisti, la voce del narratore. A partire da questo brano, spiega la metafora: “prendersela con i mulini a vento”. Lessico Individua e soffermati a considerare il diverso registro stilistico utilizzato rispettivamente da Don Chi­ sciotte e da Sancio. narratologia Stile

ApprofondirE E inTErprETArE

> 5.

Audio da Stagioni

Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) spiega in che senso i due personaggi del brano possono essere considerati complementari. > 6. Esporre oralmente Esponi oralmente (max 3 minuti) in che modo Cervantes ordisce una vera e propria “rete” di voci narrative. > 7. Altri linguaggi: musica Dopo aver ascoltato la canzone Don Chisciotte del cantautore contemporaneo Francesco Guccini, rispondi alle seguenti domande. a) Spiega chi sono, secondo Guccini, Chisciotte, i cinici ed i codardi. Sei d’accordo con quanto scrive il cantautore? b) Come descrive Guccini l’avventura dei mulini a vento? c) Come pensa il Don Chisciotte di Guccini di opporsi all’ingiustizia e al potere, «immondizia della storia degli umani»?

Copertina dell’album Stagioni di Francesco Guccini, 2000.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

La voce del Novecento

pirandello e Cervantes: l’umorismo di don Chisciotte Luigi Pirandello (1867­1936) pubblica la prima volta il saggio L’umorismo nel 1908. In questo volume egli illustra la sua poetica umoristico­grottesca che ha già informato e ulteriormente informerà tutta la sua attività di scrittore culminata nel teatro. Le pagine che presentiamo sul Don Chisciotte e su Cervantes sono emblematiche dell’interpretazione moderna e contemporanea del capolavoro cervantino.

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Si può dire e sostenere sul serio che l’intenzione del poeta1 nel comporre il suo libro era solamente quella di toglier con l’arma del ridicolo ogni autorità e prestigio che avevan nel mondo e presso il volgo i libri di cavalleria, a fine di distruggerne i mali effetti, e che il poeta non si sognò mai di porre in quel suo capolavoro tutto quello che ci vediamo noi? Chi è Don Quijote, e perché è ritenuto pazzo? Egli in fondo non ha – e tutti lo riconoscono – che una sola e santa aspirazione: la giustizia. Vuol proteggere i deboli e atterrare i prepotenti, recar rimedio agli oltraggi della sorte, far vendetta delle violenze della malvagità. Quanto più bella e più nobile sarebbe la vita, più giusto il mondo, se i propositi dell’ingegnoso gentiluomo potessero sortire il loro effetto! Don Quijote è mite, di squisiti sentimenti, prodigo e non curante di sé, tutto per gli altri. E come parla bene! Quanta franchezza e quanta generosità in tutto ciò che dice! Egli considera il sacrificio come un dovere, e tutti i suoi atti, almeno nelle intenzioni, son meritevoli d’encomio e di gratitudine. E allora la satira dov’è? Noi tutti amiamo questo virtuoso cavaliere; e le sue disgrazie se da un canto ci fanno ridere, dall’altro ci commuovono profondamente. Se il Cervantes voleva far dunque strazio dei libri di cavalleria, per i mali effetti che essi producevano negli animi de’ suoi contemporanei, l’esempio ch’egli reca con Don Quijote non è calzante. L’effetto che quei libri producono in Don Quijote non è disastroso se non per lui, per il povero Hidalgo2. Ed è così disastroso, solo perché l’idealità cavalleresca non poteva più accordarsi con la realtà dei nuovi tempi. Orbene, questo appunto, a sue spese, aveva imparato don Miguel Cervantes de Saavedra. Com’era stato egli rimeritato del suo eroismo, delle due archibugiate e della perdita della mano nella battaglia di Lepanto3, della schiavitù sofferta per cinque anni in Algeri4, del valore dimostrato nell’assalto di Terceira5, della nobiltà dell’animo, della grandezza dell’ingegno, della modestia paziente? che sorte avevano avuto i sogni generosi, che lo avevano tratto a combattere sui campi di battaglia e a scrivere pagine immortali? che 1. poeta: per estensione, artista. 2. Hidalgo: nobile, gentiluomo; e, più propriamente nel caso di Don Chisciotte, persona di animo generoso e nobile. 3. perdita … Lepanto: nel 1571 Cervantes combatté valorosamente alla

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battaglia di Lepanto e venne ferito al petto e a una mano che rimase storpiata. 4. schiavitù … Algeri: nel 1575 durante un viaggio tra l’Italia e la Spagna la nave su cui viaggia Cervantes

viene assalita dai corsari che lo conducono schiavo ad Algeri dove rimarrà cinque anni. 5. Terceira: isola delle Azzorre.

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sorte le illusioni luminose? S’era armato cavaliere come il suo Don Quijote, aveva combattuto, affrontando nemici e rischi d’ogni sorta per cause giuste e sante, s’era nutrito sempre delle più alte e nobili idealità, e qual compenso ne aveva avuto? Dopo aver miseramente stentato la vita in impieghi indegni di lui; prima scomunicato, da commissario di proviande militari in Andalusia6; poi, da esattore, truffato, non va forse a finire in prigione? E dov’è questa prigione? Ma lì, proprio lì nella Mancha! In un’oscura e rovinosa carcere della Mancha, nasce il Don Quijote. Ma era già nato prima il vero Don Quijote: era nato in Alcalà de Henáres nel 1547. Non s’era ancora riconosciuto, non s’era veduto ancor bene: aveva creduto di combattere contro i giganti e di avere in capo l’elmo di Mambrino. Lì, nell’oscura carcere della Mancha, egli si riconosce, egli si vede finalmente; si accorge che i giganti eran molini a vento e l’elmo di Mambrino un vil piatto da barbiere. Si vede, e ride di sé stesso. Ridono tutti i suoi dolori. Ah, folle! folle! folle! Via, al rogo, tutti i libri di cavalleria! […] Leggete nello stesso prologo alla prima parte ciò che il Cervantes dice all’ozioso lettore7: «Io non ho potuto contravvenire all’ordine naturale che vuole che ogni cosa generi ciò che le somiglia8. E così, che cosa poteva mai generare lo sterile e mal coltivato ingegno mio, se non la storia d’un figlio rinsecchito, ingiallito e capriccioso, pieno di pensieri vari non mai finora da alcun altro immaginati; generato com’ei fu in una carcere, dove ogni angustia siede ed ha stanza ogni tristo umore?». Ma come si spiegherebbe altrimenti la profonda amarezza che è come l’ombra seguace d’ogni passo, d’ogni atto ridicolo, d’ogni folle impresa di quel povero gentiluomo della Mancha? È il sentimento di pena che ispira l’immagine stessa nell’autore, quando, materiata com’è del dolore di lui, si vuole ridicola. E si vuole così, perché la riflessione, frutto d’amarissima esperienza, ha suggerito all’autore il sentimento del contrario9, per cui riconosce il suo torto e vuol punirsi con la derisione che gli altri faranno di lui. […] Coraggio a tutta prova, animo nobilissimo, fiamma di fede; ma quel coraggio non gli frutta che volgari bastonate; quella nobiltà d’animo è una follia; quella fiamma di fede è un misero stoppaccio ch’egli si ostina a tenere acceso, povero pallone mal fatto e rappezzato, che non riesca pigliar vento, che sogna di lanciarsi a combattere con le nuvole, nelle quali vede giganti e mostri, e va intanto terra terra, incespicando in tutti gli sterpi e gli stecchi e gli spuntoni, che ne fanno strazio, miseramente. 6. commissario di … Andalusia: responsabile del vettovagliamento per l’Andalusia, regione della Spagna di cui è capitale Siviglia, dove Cervantes risiede per alcuni anni sino al 1600.

7. ozioso lettore: sono le due parole con cui inizia il Prologo del Don Chisciotte: Cervantes si rivolge, certo con ironia, agli “oziosi” lettori di libri di cavalleria.

8. ogni … somiglia: il corsivo è di Pirandello. 9. sentimento del contrario: Analisi del testo.

Analisi del testo L’umorismo

Modernità dell’interpretazione pirandelliana

Nel saggio L’umorismo, scritto per partecipare a un concorso universitario, Pirandello coglie l’occasione per chiarire la sua poetica che in quel torno di tempo aveva già informato di sé almeno un capolavoro, Il fu Mattia Pascal, di quattro anni precedente al saggio in questione. D’altronde L’umorismo riprende e rifonde in parte scritti dell’autore sistemati definitivamente in modo compiuto. Il brano inizia con un periodo interrogativo: si può pensare veramente che Cervantes, componendo il Don Chisciotte, volesse soltanto opporsi ai libri di cavalleria, attraverso il comico, e non conoscesse tutte le valenze che noi oggi vediamo in quel libro? Ovviamente Pirandello la pensa in modo diverso, allineandosi così alle molte e molteplici interpretazioni del capolavoro cervantino che sono state proposte dal Romanticismo al Novecento; ma, si sa, i grandi artisti spesso anticipano i tempi. 93

L’età del Barocco e della Nuova Scienza Dov’è la satira?

Quando un artista indaga l’opera di un altro artista

La riflessione di Cervantes sulle sue sventure

Il «sentimento del contrario»

La sua analisi del Don Chisciotte segue una linea molto precisa e personalissima: egli rileva come il protagonista sia una persona che ha «una sola e santa aspirazione: la giustizia». E fin qui saremmo tutti d’accordo con lui. E allora, continua a chiedersi Pirandello, «la satira dov’è?» visto che il male prodotto dai libri di cavalleria nuoce soltanto a lui, Don Chisciotte? Ci troviamo a questo punto di fronte a un’osservazione molto interessante che riguarda il rapporto degli ideali del cavaliere dalla triste figura con i suoi tempi: il disastro di Don Chisciotte avviene «solo perché l’idealità cavalleresca non poteva più accordarsi con la realtà dei nuovi tempi» (rr. 19-20). A questo punto è necessario notare che un artista, soprattutto quando è grande, parla sempre di sé filtrando attraverso la sua soggettività tutto un mondo, il suo mondo, in cui però siamo compresi anche noi: è questa una peculiarità fondamentale dell’arte. Anche Pirandello non è affatto in sintonia col suo tempo e tutta la sua opera contiene sempre elementi critici nei confronti dell’arte e del mondo suoi contemporanei. Il proseguimento della sua analisi tende a spostare l’asse del discorso sulle motivazioni che spinsero Cervantes a scrivere seguendo una determinata poetica; ed è questa poetica che interessa a Pirandello. Infatti, a questa constatazione teorica, segue una elencazione ferocemente ironica delle vicende eroiche vissute dallo scrittore spagnolo, il cui unico risultato è quello delle delusioni patite da lui e dal suo ideale cavalleresco che lo spingono, nel carcere della Mancha dove viene imprigionato per una falsa accusa, a ridere di se stesso e, seguendo «l’ordine naturale che vuole che ogni cosa generi ciò che le somiglia» (rr. 41-42), a iniziare a scrivere quel grande libro. È Pirandello a mettere in corsivo la frase di Cervantes, che sottolinea appunto come ogni scrittore di vaglia parli di sé; allo scrittore agrigentino non interessa il fatto che Cervantes abbia creato un personaggio che racchiude in sé, in modo paradigmatico, le problematiche di tutta un’epoca che giungono fino a noi, ma gli interessa leggere il libro nella prospettiva del suo autore. Ciò però non esclude affatto che, al di là delle sue intenzioni esplicite, egli non tocchi invece, implicitamente, il punto nodale e contemporaneamente vitale del problema: e, infatti, introduce, a illustrare l’impulso primo che spinge Cervantes a creare quella figura, il concetto, a lui carissimo, della riflessione su un personaggio solo apparentemente comico, e cioè nel nostro caso di Cervantes su se stesso e sulle sue disgrazie, riflessione che genera il «sentimento del contrario». Quando lo studente, nell’ultimo anno, affronterà lo studio di Pirandello, meglio approfondirà questa questione; ora basti dire che Pirandello distingue il comico dall’umorismo basandosi sul fatto che il comico scaturisce dall’«avvertimento del contrario» e cioè dall’avvertire che una determinata persona dovrebbe essere diversa da come si presenta agli occhi dell’osservatore; ma se poi interviene la riflessione, che in molti casi, non tutti certamente, ci fa comprendere che quella persona è soltanto apparentemente comica ma che di fatto soffre di quell’essere diversa da ciò che ci si aspetterebbe fosse, interviene il «sentimento del contrario». Questo «sentimento» fa sì che il riso ci si geli in gola perché ci troviamo di fronte a una situazione tipicamente «grottesca» – che qui Pirandello definisce ancora «umoristica» prima di passare, non molti anni dopo, alla formulazione corrente – che provoca nel lettore una commistione di riso e pianto, frutto della coscienza che non c’è farsa senza tragedia né tragedia che, oggi come ai tempi di Cervantes, non possa ribaltarsi in farsa.

Esercitare le competenze CoMprEndErE

> 1. Quali sono, secondo Pirandello, le circostanze in cui Cervantes concepì la sua opera? AnALizzArE

> 2. > 3.

Analizza, dal punto di vista stilistico­retorico, la conclusione del brano (rr. 52­57). Individua nel brano vocaboli e/o espressioni relativi al riso, spiegandone il significato, di volta in volta, nell’ambito del discorso. Stile

Lessico

ApprofondirE E inTErprETArE

> 4.

Scrivere Ritieni che dal brano analizzato emerga una vera e propria ammirazione di Pirandello per Cervantes e la sua opera? Motiva la tua risposta in circa 15 righe (750 caratteri).

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Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

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Miguel de Cervantes

L’elmo di Mambrino è un «catinelmo»

Temi chiave

• lo sdoppiamento della realtà • la molteplicità dei punti di vista

dal Don Chisciotte della Mancia, libro I, capp. 21 e 44-45 Anche in questo caso il racconto nasce da uno scambio fra illusione e realtà: nella catinella di un barbiere Don Chisciotte vede il famoso elmo di Mambrino.

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Di lì a poco Don Chisciotte scorse un uomo a cavallo, il quale portava in capo un arnese che luccicava come se fosse stato d’oro, e appena l’ebbe visto, si voltò a Sancio e gli disse: – Sancio, io credo che non ci sia proverbio che non contenga una verità, perché tutti quanti non sono che sentenze attinte direttamente all’esperienza madre d’ogni sapere; e specialmente quello che dice: «Quando una porta si serra1, un’altra se n’apre». Perché se la sorte, ingannandoci con i magli2, ci serrò stanotte la porta che cercavamo, ora ce n’apre pari pari un’altra, per un’altra avventura migliore e più facile; e se non riesco a entrarvi dentro3, mia sarà tutta la colpa, perché questa volta non potrò darla né alla poca conoscenza dei magli né all’oscurità della notte. Ti dico questo perché, se non mi inganno, viene verso di noi uno che ha in capo l’elmo di Mambrino4, a proposito del quale io ho fatto il giuramento che tu sai. – Badi bene a quel che dice e ancora meglio a quel che fa – esclamò Sancio. – Non vorrei che fossero degli altri magli che finissero col martellarci e spaccarci il cervello. – Il diavolo ti porti! – replicò Don Chisciotte. – Che ci ha da vedere5 un elmo con un maglio? – lo non so nulla – rispose Sancio – ma se potessi discorrere come prima, forse le potrei portare tali ragioni che lei s’accorgerebbe che s’inganna. – Come m’inganno?! Al diavolo te e i tuoi dubbi, traditore! – esclamò Don Chisciotte. – Dimmi un po’: non vedi quel cavaliere che viene verso di noi sopra un cavallo grigio pomellato6 ed ha in capo un elmo d’oro? – Io – rispose Sancio – veggo solamente un uomo a cavallo su un ciuco bigio7 come il mio, con qualcosa in capo che luccica. – L’elmo di Mambrino ha in capo – replicò Don Chisciotte. – Tirati da una parte e lasciami solo con lui. Vedrai quanto ci metto a sbrigar la faccenda, senza neanche dire una parola per non perder tempo; e puoi far conto che l’elmo che ho tanto desiderato sia già mio. – A tirarmi da parte ci penso io – replicò Sancio – ma Dio voglia che gli abbiano ad esser maglioli8 e non magli. – Ve l’ho già detto – esclamò Don Chisciotte. – Non mi rammentate più questi magli o giuro... vi do i magli e qualcos’altro. Sancio si chetò dalla paura che il padrone mantenesse il giuramento che gli aveva fatto chiaro e tondo. Quanto all’elmo, al cavallo e al cavaliere visto da Don Chisciotte ecco di quel che si trattava. In quei dintorni c’erano due paesi: uno dei quali così piccolo, che non aveva né farmacia né barbiere9; mentre invece c’erano nell’altro, che sorgeva poco distante; e quindi il barbiere del paese grande faceva servizio anche in quello piccolo. Un malato del paese piccolo ebbe bisogno di cavarsi sangue, e un altro di farsi la barba; e quindi il barbiere

1. si serra: si chiude. 2. i magli: specie di mazze o di grossi martelli, da cui Don Chisciotte e Sancio erano stati colpiti in un’avventura notturna narrata nel precedente capitolo 20. 3. entrarvi dentro: prendervi parte. 4. Mambrino: re moro di cui si parla nell’Or-

lando furioso dell’Ariosto (canto I, ottava 28); il suo elmo fatato rendeva invincibile chi lo portava. 5. Che … vedere: che ci ha a che fare, che cosa c’entra. 6. pomellato: con il manto cosparso di piccole macchie di forma circolare.

7. bigio: grigio cenere. 8. maglioli: rametti della vite, a forma di martello, piantati per far mettere le radici. Sancio spera cioè che non arrivino altre botte. 9. barbiere: all’epoca i barbieri avevano anche il compito di eseguire semplici operazioni chirurgiche.

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si mise in cammino portando con sé una catinella10 d’ottone. Via facendo era cominciato a piovere, e per non infradiciare il cappello che forse era nuovo, il brav’uomo s’era messo sul capo la catinella; la quale essendo lucidata di fresco, si vedeva luccicare a mezza lega11 di distanza. L’uomo era sopra un asino grigio e per ciò a Don Chisciotte gli era parso di vedere un cavallo pomellato, un cavaliere e un elmo d’oro; perché tutto quello che vedeva, con la più grande facilità l’adattava alle sue fantasie cavalleresche e ai suoi erranti12 pensieri. Quando vide che il povero cavaliere s’avvicinava senza rivolgergli la parola, mise Ronzinante di carriera e con la lancia in resta13 gli andò addosso per passarlo da parte a parte; ma al momento di raggiungerlo, senza arrestare la furia della sua carica gli gridò: – Difenditi, vile creatura, o consegnami spontaneamente ciò che con tanta ragione14 mi è dovuto. Il barbiere, che si vide venire addosso tutto a un tratto quel fantasma, non trovò altro rimedio per evitare il colpo, che quello di buttarsi di sotto dal suo asino. Ma appena toccata terra, si rialzò più svelto d’un daino, e cominciò a correre per quella pianura, che non lo avrebbe raggiunto il vento. La catinella rimase sul terreno. Don Chisciotte fu soddisfatto, e disse che il pagano aveva avuto giudizio e aveva fatto come il castoro, che quando si vede vicini i cacciatori si strappa coi denti ciò per cui, per istinto naturale, sa d’essere inseguito15. Ordinò a Sancio di raccattare l’elmo, e quello, pigliandolo fra le mani: – Per Dio! – disse – la catinella è buona, e vale un real da otto come un maravedì16. E la dette al padrone, che subito se la pose in capo rigirandola per tutti i versi per trovare il punto della visiera17, e siccome non lo trovava, disse: – Senza dubbio il pagano per cui fu fatto su misura la prima volta quest’elmo famoso, doveva avere una gran testa; ma il peggio è che ne manca la metà. Sancio a sentir chiamare elmo quella catinella non poté trattenere le risa, ma ricordatosi della furia18 che aveva fatto poco prima il padrone si fermò a mezzo. – Di che ridi? – gli chiese Don Chisciotte. – Rido – rispose lui – pensando alla gran testa che aveva il pagano padrone di questo elmetto, che somiglia tale e quale a una catinella da barbiere. – Lo sai quel che credo, Sancio? – disse Don Chisciotte. – Che questo famoso elmetto incantato debba per qualche caso strano esser capitato nelle mani di qualcuno che non seppe conoscere né apprezzare il suo valore, e senza sapere quel che si faceva, vedendolo d’oro purissimo, ne dovette far fondere una metà per far quattrini, e con l’altra ci fece questo arnese che pare una catinella da barbiere, come tu dici; ma comunque stia la cosa, per me che conosco l’oggetto, poco m’importa la sua trasformazione, e nel primo villaggio dove ci sia un fabbro ferraio, lo farò aggiustare in modo che non abbia nulla da invidiare a quell’elmo che fucinò il dio del fuoco pel dio delle battaglie19. Intanto lo porterò come potrò: alle brutte20 basterà almeno per difendermi da qualche sassata. [A distanza di tempo il malcapitato barbiere ritrova Don Chisciotte e Sancio in un’osteria.]

Quando eccoti che il demonio, il quale non dorme, fece sì che in quel momento entrasse nell’osteria il barbiere a cui Don Chisciotte aveva tolto l’elmo di Mambrino e Sancio 10. catinella: piccolo catino, bacinella (l’ottone è una lega di rame e zinco). 11. lega: unità di misura che corrisponde a circa cinque chilometri. 12. erranti: vaganti (in ironica sintonia, si direbbe, con la sua condizione di «cavaliere errante»). 13. di carriera … in resta: di corsa e con la lancia pronta per colpire (la resta era l’uncino

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metallico applicato alla corazza su cui si appoggiava la lancia in vista dell’attacco). 14. con tanta ragione: a buon diritto. 15. il castoro … inseguito: secondo una falsa credenza, il castoro, braccato dai cacciatori, si strapperebbe da sé i testicoli, che erano la causa della sua cattura, in quanto venivano ricercati per la preparazione di medicinali. 16. real … maravedì: il “reale da otto” era

una moneta di notevole valore, mentre il maravedì valeva molto meno. 17. visiera: la parte frontale dell’elmo, che in alcuni casi può essere rialzata per consentire una migliore visione. 18. furia: sfuriata. 19. fucinò … battaglie: forgiò Vulcano (il dio del fuoco) per Marte (il dio delle battaglie). 20. alle brutte: alla peggio.

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Panza i finimenti21 dell’asino, che aveva mutati coi suoi. Il barbiere nel portare la sua bestia nella stalla, vide Sancio Panza che stava raccomodando non so che ferro al basto. Appena vide quel basto22, il barbiere riconobbe subito ch’era il suo, e non ebbe paura a saltare addosso a Sancio, gridandogli: – Ah, signor ladro, v’ho preso finalmente! Qua la mia catinella, qua il mio basto con tutti i finimenti che mi rubaste. Sancio che si trovò assalito così all’improvviso, e sentì dirsi tutti quei vitupèri23, con una mano afferrò il basto e con l’altra lasciò andare una tale sgrugnata24 al barbiere, che gli fece sanguinare i denti; ma non per questo il barbiere lasciò andare il basto che aveva afferrato, anzi cominciò a urlare in modo che tutti quelli dell’osteria accorsero al rumore della questione25. – Aiuto! in nome del re e della giustizia! – urlava. – Ché oltre a rubarmi la mia roba, mi vuole ammazzare, questo ladro, questo brigante! – Tu menti! – rispose Sancio. – lo non sono un brigante, perché queste spoglie26 le ha guadagnate in regolare e leale battaglia il mio signore Don Chisciotte. Questi che era già accorso, stava tutto contento a vedere come si difendeva bene27 il suo scudiero, e da allora in avanti lo reputò un uomo di fegato, e si propose di armarlo28 cavaliere alla prima occasione, perché gli parve che l’ordine della cavalleria fosse in lui ben collocato. Fra l’altro il barbiere durante la discussione disse: – Signori, questo basto è mio, quant’è vero che debbo render l’anima al Creatore: lo riconosco come se l’avessi fatto io. Il mio asino è nella stalla, e non mi farà bugiardo29; proviamoglielo, e se non gli sta a pennello, dite ch’io sono un infame. Ma c’è di più. Il medesimo giorno che me lo presero, mi presero anche una catinella d’ottone, nuova di zecca, che valeva uno scudo30. A questo punto Don Chisciotte non si poté trattenere, e mettendosi fra i due contendenti, li separò, poi posato il basto in terra, perché tutti lo vedessero, finché non fosse stabilita la verità: – Le Signorie Loro – disse – vedono chiaro e manifesto l’errore in cui cade questo buon scudiero, quando chiama catinella quella che fu, è, e sempre sarà l’elmo di Mambrino, e che io gli tolsi in regolare e leale battaglia, impadronendomene con legittimo e lecito possesso. In quanto a ciò che al basto si pertiene, non mi intrometto. Questo solo so: che il mio scudiero mi chiese licenza31 di impadronirsi dei finimenti del destriero di questo vinto e codardo uomo per metterli al suo: licenza che io gli concessi, per cui egli li prese; ma quanto all’essersi la sella cangiata in basto non saprei darne altra spiegazione che quella solita, e cioè che queste trasformazioni si vedono comunemente durante le imprese cavalleresche. In prova di che32, corri, caro Sancio, e porta qui l’elmo che questo brav’uomo chiama catinella. – Perdinci! – disse Sancio – se non abbiamo altri moccoli33 che questi, si può davvero andare a letto al buio. Perché purtroppo è tanto catinella l’elmo di Malino34, quanto è basto la sella di questo galantuomo. – Fa’ quello che t’ordino – replicò Don Chisciotte. – Ché non tutte le cose di questo castello saranno incantate.

21. finimenti: accessori indossati dagli equini (sella, briglie, ecc.) durante la corsa o il lavoro. Alla fine dell’episodio precedente, Sancio aveva sostituito i finimenti del suo asino con quelli più pregiati dell’asino del barbiere. 22. basto: specie di rozza sella di legno che si mette sul dorso delle bestie da soma per trasportare dei carichi. 23. vitupèri: offese, insulti.

24. sgrugnata: manrovescio sul “grugno”, sulla faccia. 25. questione: lite. 26. spoglie: bottino. 27. bene: coraggiosamente. 28. armarlo: nominarlo, crearlo. 29. mi farà bugiardo: mi smentirà. 30. scudo: moneta preziosa, d’argento o d’oro. 31. licenza: il permesso.

32. In prova di che: come prova di ciò. 33. moccoli: candele consumate, ridotte a mozzicone. Nel suo modo colorito e figurato di esprimersi, Sancio vuol dire che, se non ci sono che queste spiegazioni, si può benissimo lasciar perdere. 34. Malino: Sancio, che non conosce gli eroi dei romanzi cavallereschi, storpia il nome di Mambrino.

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Sancio andò a prendere la catinella dov’era, e la portò. Don Chisciotte quando la vide, la prese in mano disse: – Guardino, le Signorie Vostre: con che faccia s’attenta a sostenere costui che questa è una catinella e non l’elmo che ho detto io? E giuro, per l’ordine della cavalleria che professo, che questo elmo è proprio lo stesso che gli tolsi io, e che non ci ho aggiunto né levato nulla. – Su questo non c’è dubbio – disse qui Sancio – perché da quando il padrone l’ha conquistato fino ad ora, non ci ha fatto che una battaglia, e precisamente quando liberò quei poveracci incatenati35; e se non era questo catinelmo36, con le sassate che piovvero in quella circostanza, non l’avrebbe passata tanto liscia. – Che ve ne pare, signori – disse il barbiere – di quel che affermano questi gentiluomini, i quali si ostinano a dire che questa non è una catinella, ma un elmo? – E chi affermasse il contrario – disse Don Chisciotte – gli farei conoscer bene io che mente, se è cavaliere, e se è scudiero, che mente e stramente mille volte. Il nostro barbiere37 che era stato presente a tutta la scena, e che ormai conosceva bene l’umore di Don Chisciotte, volle divertirsi a stuzzicare ancor più la sua stravaganza e mandare avanti la burla, per far ridere tutta la brigata38. Quindi rivolgendosi all’altro barbiere gli disse: – Signor barbiere, o chiunque voi siate, dovete sapere che sono anch’io del vostro mestiere, e son più di vent’anni ormai che ho la patente39, e conosco quindi molto bene tutti gli strumenti di bottega niuno40 escluso né eccettuato. Vi dirò di più. Da giovane ho fatto anche il militare, e so che cos’è un elmo, che cos’è un morione, una celata41, e altri arnesi militari. Sostengo quindi, salvo miglior parere, e sempre pronto a rimettermi a chi ne sa più di me, che questo oggetto che ci sta davanti e che questo signore tiene in mano, non solo non è una catinella da barbiere, ma anzi ci corre tanto, quanto ci corre dal bianco al nero42 e dalla verità alla menzogna. E sostengo anche che, sebbene sia un elmo, non è un elmo completo. – No, di certo – disse Don Chisciotte – perché ne manca mezzo, e cioè la gorgiera43. – Precisamente – disse il curato, che aveva già capito l’intenzione del suo amico barbiere, e lo stesso confermaron Cardenio, Don Fernando44 e i suoi compagni […]. – Sant’Iddio! – esclamò a questo punto il barbiere burlato. – È mai possibile che tanta gente per bene sostenga che questa non è una catinella, ma un elmo? Questa è una cosa da fare sbalordire un’università intiera, con tutta la sua sapienza: Basta! Se questa catinella è un elmo, anche questo basto allora sarà una sella da cavallo, come ha detto questo signore. – Veramente, questo a me pare un basto – disse Don Chisciotte – ma, ripeto, in questo non mi intrometto. – Se sia un basto o una sella – disse il curato – tocca al signor Don Chisciotte a dirlo, perché in queste cose di cavalleria tutti questi signori ed io stesso riconosciamo la sua superiorità. – Per Dio, signori miei! – replicò Don Chisciotte. – Son tante e tanto strane le cose che mi son successe in questo castello le due volte che ci ho alloggiato, che non mi arrischio a pronunziare alcun giudizio che mi si domandi relativamente a cose in esso contenute; perché m’immagino che tutto quello che vi si svolge sia opera di magia. […]

35. poveracci incatenati: erano in realtà dei galeotti (cap. XXII) che, dopo essere stati liberati da Don Chisciotte, avevano malmenato e derubato lui e Sancio. 36. catinelmo: riunisce e contamina in una sola parola le opposte tesi della “catinella” e dell’“elmo”. 37. Il nostro barbiere: non quello deruba-

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to, ma il conoscente di Don Chisciotte. 38. brigata: compagnia. 39. la patente: la licenza, l’autorizzazione a esercitare la professione. 40. niuno: nessuno. 41. morione … celata: la celata è l’elmo, mentre il morione è un elmetto che lascia il volto scoperto.

42. dal bianco al nero: indica la distanza che intercorre (ci corre) fra gli opposti. 43. gorgiera: parte dell’elmo a protezione della gola e della parte bassa del viso. 44. Cardenio, Don Fernando: personaggi, con altri citati in seguito, occasionalmente presenti.

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– Non c’è dubbio – rispose qui Don Fernando – il signor Don Chisciotte ha detto molto bene: tocca a noi la definizione di questo caso; e perché abbia maggior fondamento, io raccoglierò segretamente i voti di questi signori, e riferirò chiaro e intero il resultato. […] E dopo che ebbe raccolti i voti di quelli che conoscevan Don Chisciootte, disse ad alta voce: – Brav’uomo, io sono già stanco di raccoglier tanti pareri, perché vedo che non ho finito di far la domanda, che subito tutti mi rispondono che è una vera sciocchezza il voler sostenere che questo è un basto, e non una sella da cavallo ed anche da cavallo di lusso. Quindi bisognerà che abbiate pazienza, perché, malgrado vostro e del vostro asino, questa è una sella e non un basto; le vostre prove non sono state convincenti e la vostra causa è perduta. – Ch’io possa morir dannato – disse il povero barbiere – se tutte le Signorie Loro non si ingannano; possa l’anima mia apparire dinanzi a Dio, come questo basto appare a me basto e non sella; ma così va la legge ... e non dico altro! E sì che non son briaco45, perché son sempre digiuno! Non facevano meno ridere le scempiaggini dette dal barbiere che le stravaganze di Don Chisciotte, il quale a questo punto aggiunse: – Qui non c’è altro da fare se non che ciascuno si tenga la sua roba, e a chi Dio l’ha data, San Pietro gliela benedica. Uno dei quattro domestici disse: – Se questa non è una burla preparata, non mi posso persuadere che uomini così intelligenti, come sono o sembrano tutti quelli che son qui, abbiano il coraggio di sostenere che questa non è una catinella e quello non è un basto; ma siccome veggo che lo dicono e lo affermano, m’immagino che ci debba essere qualche mistero in questa testardaggine a sostenere una cosa tanto contraria a quel che ci dimostra la verità e l’esperienza. Perché giuro a ... – e ce lo piantò bello tondo – non pretendan di darmela ad intendere a me, nemmen se ci si mette il mondo intero, che questa non è una catinella da barbiere e questo non è un basto da ciuco. – Potrebbe esser da ciuca – disse il curato. – Questo è lo stesso – ribatté il servitore. – La questione non è lì, ma nel sapere se questo è, o non è, un basto come dicono le Signorie Vostre. Udendo ciò, uno degli arcieri della Santa Fratellanza46 arrivati poco prima, che era stato a sentire tutta la questione, non poté trattenere la stizza e impazientito disse: – Questo è un basto quant’è vero che mio padre è un uomo, e chi dice di no è briaco fradicio. – Mentite come insolente marrano47 – urlò Don Chisciotte, e alzata la lancia, che non posava mai, gli lasciò andare una tal legnata sulla testa, che se l’arciere non si scansava, ci rimaneva stecchito. La lancia andò in pezzi, e gli altri arcieri, che videro assalire il compagno, si misero a urlare chiedendo man forte alla Santa Fratellanza. L’oste, che ne faceva parte anche lui, entrò in campo con la sua mazza e la sua spada, e si mise a fianco dei suoi compagni; i dome-

45. briaco: ubriaco. 46. Santa Fratellanza: la Santa Hermandad, corpo di polizia creato dai re cattolici di Spagna (di qui l’appellativo di “santa”).

47. marrano: villano, traditore (era propriamente titolo ingiurioso dato dagli Spagnoli ai musulmani e agli ebrei che erano stati convertiti al cristianesimo).

Honorè Daumier, Don Quichotte, 1868, olio su tela, Monaco, Neue Pinakothek.

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stici di Don Luigi si posero intorno al loro padrone perché nel trambusto non pigliasse la fuga; il barbiere, vedendo la casa in subbuglio, rimise le mani sopra il suo basto e altrettanto fece Sancio; Don Chisciotte sguainò la spada e si gettò sugli arcieri; Don Luigi gridava ai suoi domestici che lasciassero star lui e andassero ad aiutare Don Chisciotte e anche Cardenio e Don Fernando, che tutti e due avevan preso la sua difesa; il curato urlava, l’ostessa strillava, la sua figliuola sospirava, Maritornes piangeva, Dorotea era intontita, Lucinda impaurita e Donna Clara svenuta. Il barbiere bussava su48 Sancio, Sancio menava sul barbiere; Don Luigi, sentendosi pigliare per un braccio da un domestico perché non scappasse, gli lasciò andare un pugno che gli fece sanguinare i denti; l’auditore49 lo difendeva; Don Fernando era montato sopra un arciere, e gli misurava le costole a misura di «piedi», l’oste ricominciò a urlar più forte chiedendo aiuto alla Santa Fratellanza; di modo che per tutta l’osteria eran pianti, gridi, urli, confusione, timori, allarmi, disgrazie, sciabolate, sgrugnoni, bastonate, calci e ferite. Quand’ecco che nel bel mezzo di questo parapiglia a un tratto a Don Chisciotte balena nel cervello una delle sue fantasie: si figura d’esser capitato di punto in bianco nel campo di Agramante50, e con una voce che fa rintronare l’osteria: – Fermi tutti! – urla. – Dentro le spade! Calma e attenzione, chi vuole aver salva la vita. A quegli urli tutti infatti si fermarono, ed egli proseguì dicendo: – Non ve l’ho già detto, signori, che questo castello era incantato? E che ci deve abitare qualche legione di demoni? E a conferma di questo voglio che vediate coi vostri occhi come è passata e si è trasferita qui fra noi la discordia del campo d’Agramante. Mirate come lì per la spada si contenda, qui pel destriero, là per l’aquila, qui per l’elmo; e tutti combattiamo e tutti senza riuscire a intenderci. Venga dunque qui lei signor auditore, e lei signor curato, e uno faccia da re Agramante e l’altro da re Sobrino; e mettano la pace fra noi: perché per Iddio onnipossente, è una gran ribalderia51 che tante persone di buona condizione, come siam qui, si uccidano per così futili motivi. M. de Cervantes, op. cit.

48. bussava su: picchiava, malmenava. 49. auditore: uditore giudiziario, magistrato. 50. Agramante: si riferisce al re dei Mori, che, nell’Orlando furioso, guida il suo eserci-

to contro Carlo Magno; con Sobrino, ricordato poco dopo, porrà fine alla battaglia scoppiata fra le truppe per conquistare la spada Durlindana, il destriero Frontino e lo

scudo dell’aquila bianca (l’episodio è narrato nel canto XXVII). 51. ribalderia: scelleratezza, mascalzonata.

Analisi del testo

> i contenuti del passo

L’episodio prende lo spunto da uno dei consueti abbagli di Don Chisciotte, che scambia la bacinella di un barbiere per l’elmo di Mambrino, consacrato da una gloriosa tradizione cavalleresca. Assalito, il malcapitato barbiere si dà alla fuga malconcio, mentre Don Chisciotte, entrato in possesso del trofeo, si conferma nella sua convinzione. A nulla servono il parere contrario di Sancio e la mancanza di un elemento essenziale come la celata, a cui l’hidalgo provvede – come aveva fatto all’inizio con le armi – rabberciando l’elmo alla meglio. L’episodio, se da un lato segue una dinamica consueta (quella che muove dalla trasfigurazione della realtà), dall’altro se ne distingue, perché avrà una ripresa a distanza, più avanti. In un’osteria, dove si trovano Don Chisciotte e Sancio con altri avventori, giunge il barbiere, che reclama la restituzione del suo bacile, mentre Don Chisciotte si ostina a

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considerarlo un elmo. Il problema si sposta così sull’identità dell’oggetto, tra chi – in una disputa scherzosa che si finge invece essere seria – sostiene le due tesi opposte (evidente, in questo contesto, l’irrisione parodica di una vuota discussione accademica). Il motivo del doppio

Elementi carnevaleschi

> un esempio di letteratura carnevalizzata

Al di là dell’andamento del confronto, che si conclude con la burla di una finta votazione, ci troviamo di fronte a uno sdoppiamento dell’oggetto (complicato da una duplicazione parallela, se il basto sia invece una sella), che finisce per perdere la sua consistenza reale. Il motivo del doppio è giocato sullo scambio fra apparenza e realtà, che possono confondere i loro contorni, fino a identificarsi ognuno nel suo opposto. È la conclusione a cui giunge Sancio, quando chiamerà «catinelmo» l’oggetto divenuto misterioso. L’inversione dei ruoli e delle funzioni è un elemento tipicamente carnevalesco, come carnevalesche sono la confusione e l’intrecciarsi delle parole (la polifonia) fra gli attori della scena all’osteria. La mobilità dei ruoli e delle funzioni, che, rifiutando ogni collocazione o identità prestabilita, giungono a mescolarsi e a confondersi fra di loro, è, come si è visto, un elemento tipicamente carnevalesco, così come vistosamente carnevalesco è il “parapiglia” che si scatena nell’osteria, il luogo tipico del romanzo d’avventura, aperto a tutti i possibili incontri, dove si confrontano, e si scontrano, le esperienze e le visioni della realtà più disparate. Qui la mescolanza caotica dei gesti e dei comportamenti è resa stilisticamente dall’animatissimo procedimento accumulativo, che traduce l’accavallarsi e il sovrapporsi di «pianti, gridi, urli, confusione, timori, allarmi, disgrazie, sciabolate, sgrugnoni, bastonate, calci e ferite» (rr. 212-213).

Esercitare le competenze CoMprEndErE

> 1. Qual è, in realtà, il ruolo e l’abbigliamento dell’uomo che Don Chisciotte crede un cavaliere con l’elmo di Mam­ brino (rr. 31­39)?

> 2. Come viene descritto da Don Chisciotte l’oggetto posseduto dall’uomo che crede un cavaliere? Di che cosa è mancante, a suo avviso, e perché (rr. 63­71)?

> 3. Riassumi la lite tra Sancio e il barbiere. Che cosa conclude Don Chisciotte, mentre assiste all’alterco (rr. 76­97)? > 4. Perché il barbiere compaesano e il curato assecondano la «stravaganza» di Don Chisciotte? Qual è la reazione del barbiere burlato di fronte all’atteggiamento dei presenti? AnALizzArE

> 5. Analizza la prima parte del testo (rr. 1­71) e ricerca i passi in cui è presente il tema dell’autoinganno. Quale rap­ porto intercorre tra questo e il tema della follia? Stile Individua i proverbi presenti nel brano, che sono spesso sulla bocca di Sancio.

> 6.

ApprofondirE E inTErprETArE

> 7. Esporre oralmente Prendendo spunto da questo e dagli altri brani antologizzati, spiega in un’esposizione orale (max 3 minuti) qual è il ruolo dell’ironia all’interno del Don Chisciotte. > 8. Altri linguaggi: arte Dopo aver osservato il dipinto di p. 99, rispondi alle seguenti domande. a) Per quale motivo, a tuo avviso, Don Chisciotte è raffigurato senza volto? b) Osserva bene ed indica dove è raffigurato Sancio, motivando la scelta. c) Descrivi il paesaggio intorno: che cosa comunica? E Ronzinante? SCriTTurA CrEATivA

> 9. Inventa un episodio da aggiungere al Don Chisciotte, narrando una situazione in cui siano presenti i due prota­ gonisti. Non superare le 30 righe (1500 caratteri).

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

LETTErATurA E CinEMA Video

Don Chisciotte di Orson Welles un film incompiuto Nella seconda metà degli anni Cinquanta il regista statunitense Or-

son Welles inizia a lavorare a un progetto ambizioso: un film-saggio che rifletta sull’idealismo inattuale di Don Chisciotte della Mancia, il protagonista dell’omonimo romanzo di Miguel de Cervantes. Welles terminerà le riprese nel 1969, ma negli anni successivi non realizzerà mai una versione definitiva del film e così, al momento della sua morte avvenuta nel 1985, l’intero progetto resterà incompiuto.

un montaggio controverso Nel 1992 un altro regista, Jess Franco, entra in possesso dei

diritti su parte del materiale girato e realizza una propria versione del film, intitolata Don Quijote de Orson Welles, oggi l’unica accessibile al grande pubblico. Franco cerca di ricondurre a una trama coesa quella che Welles aveva probabilmente pensato come un’opera sperimentale, composta da frammenti più o meno indipendenti tra di loro, nei quali l’hidalgo e il suo scudiero vagano spaesati per la Spagna del secondo Novecento. L’operazione di Franco è quindi controversa: ha infatti permesso a tanti di vedere molte delle sequenze girate da Welles, ma in una forma lontana da quella immaginata dal loro autore.

La critica dei mezzi di comunicazione di massa L’ambientazione novecentesca rivela una delle chiavi di lettura dell’opera: la “follia” di Don Chisciotte è in realtà lo scudo che protegge il personaggio dall’ambiguità e mutevolezza della realtà contemporanea. Del presente Welles critica soprattutto il potere ipnotico e mistificatore dei mezzi di comunicazione di massa, come rivela una scena, assente nel montaggio di Franco, nella quale il protagonista fa brandelli di uno schermo cinematografico di fronte allo sguardo attonito di Sancio Panza. Il regista sembra evocare il meccanismo di sdoppiamento della realtà che caratterizza l’esperienza dei due personaggi nell’opera di Cervantes, per esempio nell’episodio del catino del barbiere, riconosciuto subito da Sancio ma scambiato dall’hidalgo per un prezioso elmo ( T6, p. 95). In realtà il valore dell’opposizione viene ribaltato: lo scudiero infatti capisce di trovarsi di fronte a un film, ma proprio per questo finisce per diventare spettatore passivo dello spettacolo cinematografico; il cavaliere invece, a causa del suo rifiuto intransigente del presente, è in grado di sottrarsi all’“incantesimo” del cinema, cioè al suo potere di soggiogare lo spettatore e di far credere vero il falso, come dice lo stesso Don Chisciotte al termine del film.

In questa sequenza Sancio Panza, inter­ pretato da Akim Tamiroff, guarda incredulo e terrorizzato un telegiornale che celebra il collaudo di un nuovo missile antiaereo. Il personaggio è quindi a un tempo incanta­ to dallo scorrere delle immagini e spaven­ tato dal potere distruttivo delle nuove armi. Welles critica, attraverso questa sce­ na e sfruttando la straordinaria espressività dell’attore, la corsa agli armamenti, che negli anni della guerra fredda minacciava di precipitare il mondo nell’orrore di una nuova guerra mondiale.

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Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

La tragedia della modernità La visione di Welles è profondamente tragica. Il cavaliere

dalla triste figura è infatti condannato allo spaesamento perenne in una realtà ingannevole, complessa e multiforme che non è in grado di capire. Ma anche Sancio, che nel libro rappresenta l’anima disincantata e materialista della coppia, è incapace di adattarsi al presente. Forse nel suo personaggio Welles ha voluto rappresentare una mitica civiltà contadina spagnola ormai al tramonto, spazzata via dall’avanzare del mondo contemporaneo e della sua cultura massificante.

Il film presenta diverse parti realizzate in sti­ le documentaristico. Alcune riflettono sul modo in cui il turismo e il progresso tecno­ logico hanno trasformato il paesaggio spa­ gnolo, soffermandosi su palazzi in costru­ zione e sulle automobili che, a discapito dei carretti dei contadini, cominciano ad affolla­ re le vie delle città. Altre mostrano invece alcuni eventi culturali molto amati da Wel­ les, come le corride e, come in questo foto­ gramma, la festa di San Firmino a Pamplo­ na durante la quale i tori che parteciperan­ no alle corride pomeridiane vengono lascia­ ti liberi per le strade della città.

Esercitare le competenze STABiLirE nESSi TrA LETTErATurA E CinEMA

> 1. In quali aspetti, a tuo parere, l’opera di Franco può essere definita «controversa»? > 2. Perché la visione di Welles è «profondamente tragica»? Motiva la tua risposta in base a quanto appreso dalla scheda.

> 3. Esprimi un tuo parere personale sull’interpretazione in chiave novecentesca dell’opera di Cervan­

tes: ritieni che Don Chisciotte sia un classico in grado di offrire evidenti spunti di riflessione per una lettura in chiave contemporanea?

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Che Cosa Ci diCono anCora oggi i ClassiCi

Cervantes iL BAroCCo CroGiuoLo dELLA ModErniTà Ci sono opere che si stagliano nel mondo e nella storia dell’arte con un loro carattere di esemplarità; e questo fatto di essere dei veri e propri paradigmi della loro epoca, le rilanciano fino a noi sia aprendo la strada a temi e procedimenti formali della modernità, sia grazie alla complessità di pensiero di cui sono portatrici. In quel grande crogiuolo di idee e di diverse e nuove forme artistiche che è stato il Barocco, affonda le radici la storia moderna in generale e quella delle arti per ciò che riguarda il campo che stiamo esplorando, dove vissero e operarono sia Shakespeare che Cervantes, straordinari scrittori il cui messaggio è ancora oggi vivissimo.

CriTiCA ALLA CAvALLEriA E SConTro TrA duE CiviLTà Poetica del Don Chisciotte Del rapporto del primo con il nostro tempo diremo più avanti ( cap. 4, pp.175-177), mentre per parlare di Cervantes è necessario sgombrare per prima cosa il campo da un persistente equivoco, e cioè quello di ritenere che il valore del Don Chisciotte stia, o stia soltanto, nella polemica nei confronti dei precedenti e soprattutto dei coevi romanzi cavallereschi e che pertanto si tratti di un romanzo esclusivamente comico. L’opposizione alle falsità contenute nei romanzi cavallereschi è un sentimento che certamente spinse Cervantes a dare inizio alla sua impresa romanzesca, anche perché egli era assai deluso della sua vita di “cavaliere di ventura” gravemente ferito nella battaglia di Lepanto, divenuto poi schiavo dei mori e infine rinchiuso in galera nella sua patria. Ma, come è concorde parere di tutti i critici che si occuparono dell’opera, questa gli si mutò nelle mani strada facendo e divenne altra cosa, ben altra e ben più importante per la storia del pensiero e dell’arte occidentale. L’antagonismo tra «età del mondo» Per il filosofo Theodor W. Adorno il nucleo centrale della poetica di Cervantes sta nel fatto che «l’antagonismo dei generi letterari, da cui Cervantes procedette, sotto le mani gli diventò un antagonismo tra età del mondo». Perché

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Cervantes, durante il lungo lavoro di stesura del suo capolavoro (poco meno di vent’anni), si rese conto concretamente, e cioè nell’atto dello scrivere, che la materia da cui era partito, la messa in burla dei romanzi cavallereschi, gli si mutava tra le mani e che ormai egli e la sua opera stavano affrontando un problema ben più vasto e cioè lo scontro in atto – siamo negli ultimi anni del Cinquecento e nei primi del Seicento – tra due civiltà contrapposte: quella feudale, ormai al tramonto, con la sua struttura sociale e con i valori a questa correlati come quelli della cavalleria, e la nuova età borghese, a questo punto affermatasi in paesi come l’Inghilterra e in via di affermazione in tutto il mondo occidentale, Spagna compresa, dove però il trapasso tra le due età è più lento. Il progressivo rendersi conto di Cervantes di stare affrontando il contrasto «tra età del mondo» portò dunque lo scrittore a precisare sempre meglio il suo obiettivo che risultò poi, e alla fine, quello di registrare autenticamente la «crisi del senso immanente nel mondo disincantato», così prosegue il suo ragionamento Adorno, e cioè la crisi della possibilità di attribuire un senso alla realtà in un mondo in cui, venuti meno gli alti valori dell’epoca precedente, come quelli della cavalleria appunto, nessun valore li ha sostituiti nell’epoca attuale (per Cervantes e per noi oggi), causando all’uomo quello spaesamento, quel vivere tra sogno e realtà senza mai rendersi ben conto dove inizi l’uno e dove si trovi l’altra, che è proprio dei due protagonisti del Chisciotte.

iL SiGnifiCATo dELLA CoppiA don ChiSCioTTE-SAnCio pAnzA Articolazione duale della storia Malgrado il titolo del libro possa trarre in inganno, i protagonisti del romanzo sono due, speculari e quasi il doppio l’uno dell’altro; e il tema del doppio è un classico della coscienza dilacerata dell’uomo nell’epoca del disincanto, un tema che giunge fino a noi. Infatti nell’epoca di Cervantes e nostra, al contrario dell’uomo del Medioevo feudale “tutto d’un pezzo” e saldo nelle proprie credenze, si vive sempre con la coscienza di avere vicino a noi un’altra entità, con una personalità opposta alla nostra, che è l’espressione di una coscienza dilacerata proprio perché priva di appigli certi su cui costruire il proprio essere nel mondo. Così Sancio Panza nei confronti del suo padrone svolge un ruolo che sarebbe riduttivo definire senz’altro antagonistico, anche se

Capitolo 2 · Dal poema al romanzo

viene spesso letto in questo senso: da una parte il cavaliere che cerca di vivere in un mondo ormai tramontato e dall’altra lo scudiero che invece incarnerebbe la concretezza e il senso di realtà. Anche Sancio però ha i suoi sogni, più legati a benefizi concreti da conseguire, come è proprio dell’anti-ideale borghese che ha sostituito i vincoli feudali, sublimati in ideali come quello dell’entusiasmo cavalleresco, con il freddo “pagamento in contanti” – e cioè con rapporti non più basati sui sentimenti ma esclusivamente sull’economia – ma pur sempre sogni come quello di diventare il signore di un’isola; un sogno concreto però, a differenza di quelli puramente ideali e feudali di Don Chisciotte, che si realizzerà nel secondo volume ma che terminerà ben presto e da cui Sancio trarrà la morale, tutta borghese, che ciascuno deve stare al proprio posto e non ambire a “salti di classe” eccessivamente pericolosi: «Ognuno col suo pari» e «nessuno stenda la gamba più di quanto è lungo il lenzuolo» (parte II, cap. LIII), dove gli amati proverbi servono proprio, col loro essere portatori del senso comune, a confermare il carattere fondamentalmente conformistico dello scudiero.

Funzione polivalente di Sancio Panza e conseguente metanarratività del romanzo Sancio Panza, dunque, nutre anch’egli ideali, ma ideali in qualche modo in sintonia con i tempi. Cervantes nello sviluppare il carattere del personaggio lo mostra al lettore certamente come conformista, ma contemporaneamente anche contraddittorio. Ciò risulta evidente, per esempio, nell’episodio in cui i due incontrano tre contadine e Sancio fa credere all’allucinato Don Chisciotte che siano Dulcinea del Toboso, la figura mitica di cui egli è innamorato, e le sue damigelle. Il cavaliere vede soltanto tre contadine rozze e sboccate ma crede, o meglio vuol credere, all’illusione che gli fornisce il suo scudiero e attribuisce la realtà che egli ha constatato con i suoi occhi alla malevolenza degli incantatori: «Vedi quanto male mi vogliono gl’incantatori? Vedi fin dove arriva la loro cattiveria e l’astio che mi portano, poiché hanno voluto privarmi della gioia che avrebbe potuto darmi il veder nella sua vera forma la mia signora» (parte II, cap. X). Questo è uno dei molti episodi in cui Sancio si rivela all’altezza dei sogni del padrone proprio riuscendo a fargli credere che la realtà si adegui al suo ideale, un ideale che lo scudiero sa raffigurare tal quale quello nutrito da Don Chisciotte.

Dominique Pery, L’errance de Don Quichotte, 2002, acrilico su legno, Collezione privata.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Questa funzione plurivoca di Sancio Panza è tale per cui Cervantes è costretto spesso a interrompere il filo del discorso romanzesco con digressioni in cui interviene in prima persona; è questo il caso del quinto capitolo della seconda parte dove, attribuendo la responsabilità della digressione critica a un supposto traduttore della storia che sarebbe stata composta, in un sapiente gioco degli specchi, dall’arabo Hamete Benengeli, afferma: «Il traduttore di questa storia, giunto a scrivere questo quinto capitolo, dice che lo ritiene apocrifo, perché Sancio Panza vi parla in modo diverso da quello che ci si poteva ripromettere dalla sua limitata intelligenza e vi dice cose tanto sottili da non creder possibile che potesse saperle»; e l’autore, con sottile perfidia, prosegue: «dice però che non volle tralasciare di scriverlo per compiere tutto il dovere dell’incarico commessogli». Abbiamo qui quella struttura tipica del romanzo dell’epoca moderna che possiamo definire in più modi o come romanzo-saggio o come romanzo-digressivo o, infine e con più precisione, come metaromanzo, e cioè un romanzo che ha per oggetto il romanzo stesso, come ben chiarisce Jorge Luis Borges, non solo grande narratore ma anche acutissimo critico: «Queste parziali e momentanee fusioni del fittizio e del reale, dei sogni e della veglia, culminano nella seconda parte. In essa i protagonisti hanno letto la prima parte: i protagonisti del Don Chisciotte sono, allo stesso tempo, lettori del Don Chisciotte».

ATTuALiTà dELL’idEoLoGiA di CErvAnTES Comico, tragico e umorismo L’attualità del Don Chisciotte non riguarda però soltanto questa struttura formale ma anche la sua ideologia profonda: noi oggi, infatti, attribuiamo spesso i motivi delle nostre frustrazioni a enti astratti come il destino, la sorte e cose del genere che sono gli equivalenti degli incantatori di Don Chisciotte. Quello di vedere il doppio aspetto dell’illusione consolatoria che comunque lascia, al «cavaliere dalla triste figura» come a noi oggi, l’“amaro in bocca” mostra una tendenza dialettica dell’arte di Cervantes che si rivela compiutamente là dove si manifesta «il senso comico che affiora dalla tragedia, come il tragico dalla commedia, e la duplice natura dell’eroe, che ora tocca il ridicolo, ora il sublime» (Hauser). È questo il punto nodale del romanzo che tanto affascinerà Pirandello poiché coincide con la prospettiva della sua arte più grande e cioè con l’idea, espressa nell’Umorismo, come abbiamo visto ( La voce del

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Novecento, p. 92), del «sentimento del contrario» che è oggi più attuale che mai perché fornisce uno strumento privilegiato, e forse l’unico, per poter affrontare la complessità degli avvenimenti del mondo. Molti altri motivi del Don Chisciotte, e le conseguenti soluzioni formali intese a veicolarli al lettore, sono decisamente protesi verso un futuro che giunge fino a noi: uno per tutti, il carattere burattinesco non solo dei personaggi, il protagonista in modo particolare, ma di tutta la vicenda. Nulla di più attuale, ovviamente, se guardiamo non solo alla letteratura ma a tutta l’arte del Novecento senza dimenticare teatro e cinema. Nostalgia e malinconia Un ultimo tema, ma fondamentale, è certamente quello costituito dalla “malinconia”, altro sentimento ben noto, e non certo da oggi, alle nostre coscienze. Ricorriamo ancora a Borges: «Il Don Chisciotte è meno un antidoto contro quelle finzioni che un segreto congedo pieno di nostalgia». Borges usa il termine matrice della malinconia e cioè “nostalgia”, letteralmente “ritorno (con) dolore”: la nostalgia di Don Chisciotte è proprio data dal suo vagheggiare un mondo ormai tramontato, ricco di ideali nobili e alti, non più praticabili nell’era del disincanto; di qui, sotto l’impulso della nostalgia, scaturisce la sua malinconia che è così legata alla malinconia dell’uomo contemporaneo tormentato proprio dalla scomparsa, che si rivela sempre più vera e contemporaneamente dolorosa, di quegli ideali che tradotti in pratica permisero agli uomini d’un altro tempo di vivere una vita intensa, dimenticando almeno in parte l’aspetto oscuro del nostro essere naturale. Lo scontro costante delle azioni di Don Chisciotte contro la dura e cruda realtà è lo stesso conflitto che tanti personaggi di scritture moderne, romanzi e poesie, conducono costantemente contro una società che non concede loro di realizzare, prima in parte e ora quasi del tutto, le pulsioni vitali, l’aspirazione a un mondo diverso e migliore. Il sociologo e filosofo Bauman, una delle voci più ascoltate tra coloro che intendono cercare di interpretare la nostra realtà, sostiene che la coscienza infelice dell’uomo dei nostri tempi è data dalla sua nostalgia per una comunità vera nel cui seno risolvere il conflitto interiore tra sicurezza e libertà: anche Don Chisciotte intendeva, con le sue gesta “eroiche”, evocare un tempo di sicurezza e libertà per l’individuo, probabilmente mai esistito ma mitologicamente vagheggiato; egli segna così la via a tutta un’epoca che non può che essere nostalgicamente malinconica.

In sintesi

dAL poEMA AL roMAnzo Verifica interattiva

L’ADONE di MArino L’esaurirsi delle spinte che avevano portato alla fortuna cinquecentesca dei poemi epico­cavallereschi rende evidente la necessità di un cambiamento. A farsene ca­ rico sarà soprattutto Giovan Battista Marino, che è stato il maggior esponente in Italia del gusto barocco, da lui introdotto nella letteratura secentesca. Nel suo lungo poema in ottave, l’Adone, il motivo della guerra viene sostituito da quello dell’amore. L’esile vicenda mitologi­ ca che ne costituisce l’argomento (la passione concepita da Venere per il bellissimo Adone), rifiutando la linearità dell’azione continuativa e organica della trama, viene ar­ ticolata in un gran numero di digressioni e di episodi narrativi, fra cui spicca la favola di Amore e Psiche, che Marino ricava da Apuleio. All’interesse per l’azione si sostituisce un descrittivismo in cui si manifesta, spinto sino al virtuosismo, la capacità di ricreare atmosfere vo­ luttuose e sensuali, grazie a un uso della parola in grado di suscitare la “meraviglia” con i più sorprendenti effetti verbali.

lA sEcchiA rApitA di TASSoni Di dichiarati sentimenti antispagnoli, Alessandro Tassoni irride i valori eroici, rivendicati dall’orgoglio e dalla pre­ sunzione dei poteri dominanti, attraverso il suo poema eroicomico, La secchia rapita. La parodia nei confronti dell’epica consiste nella ripresa di schemi e stilemi che appartengono a questo genere per immettervi contenu­ ti vili e degradati. Così alla guerra di Troia, cantata nell’Iliade, si sostituisce uno scontro municipale, durante il Medioevo, fra i Modenesi e i Bolognesi, mentre al rapi­

mento di Elena subentra la sottrazione di una secchia, esibita come glorioso trofeo da parte dei vincitori.

iL DON chisciOttE di CErvAnTES Se anche il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes muo­ ve da una parodia nei confronti della letteratura cavalle­ resca, la sua concezione – che non ha più nulla a che vedere con le regole dei generi precedenti – va oltre questa forma di contestazione per aprirsi a quelle nuove frontiere della narrazione che saranno proprie del ro­ manzo moderno. Quella del protagonista è una lucida follia che lo porta a scambiare la sua immaginazione con la realtà, vedendo ad esempio dei giganti nei mulini a vento o l’elmo di Mambrino in una semplice bacinella da barbiere. La visione straniante che ne deriva introdu­ ce una duplicità dei punti di vista che ha il suo corrispet­ tivo nella figura del doppio, evidente nel contrasto fra l’idealista Don Chisciotte e il suo scudiero Sancio Panza, il cui buon senso contadino resta tenacemente attacca­ to alla concretezza dei beni terreni. In questo contrasto tra l’ideale e il reale, tra le illusioni e la loro impossibile realizzazione, consiste una visione critica della realtà, che demistifica i luoghi comuni e denuncia quell’assen­ za di valori di cui solo Don Chisciotte, anche se in ma­ niera anacronistica, è portatore. Per le ambivalenze che lo contraddistinguono, nella mescolanza fra elemento serio ed elemento comico, in cui l’ironia svolge un ruolo di particolare rilievo, il Don Chisciotte è un grande esempio di letteratura “carnevalesca”, in cui si mescola­ no vari generi e si incontrano, scontrandosi, più stili e più voci, che obbediscono a diverse visioni del reale.

facciamo il punto 1. L’Adone di Giovan Battista Marino è un’opera innovativa rispetto al poema epico; perché? Qual è la

struttura del poema? Quali temi vengono trattati? 2. Come si colloca La secchia rapita di Alessandro Tassoni rispetto al poema eroico tradizionale? Può essere considerata una parodia? Quale importanza assume il registro comico? 3. A quali grandi avvenimenti del tempo partecipò Cervantes? 4. Rifletti sulle caratteristiche di Cervantes come intellettuale di transizione dal Rinascimento al Barocco. 5. Quali sono le caratteristiche che fanno del poema Don Chisciotte di Cervantes un “romanzo moderno”?

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Capitolo 3

La trattatistica e la prosa storico-politica

Il cannocchiale di Tesauro

La «dissimulazione» di Accetto

Paolo Sarpi

La ripresa delle posizioni di Botero

Testi dai contenuti antispagnoli

I «ragguagli» di Boccalini

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Un posto di primo piano nella trattatistica del Seicento spetta al Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro ( Il contesto, La voce dei testi, p. 13), che ha fornito le giustificazioni teoriche di buona parte delle esperienze letterarie del tempo, codificando i princìpi fondamentali di una visione della realtà fondata sul linguaggio metaforico e sugli artifici retorici di uno stile concettoso. In questo senso l’opera assume un significato di assoluto rilievo non solo sul piano delle poetiche barocche ma anche, più in generale, come strumento di conoscenza. Soffermandosi sul rapporto fra verità e menzogna, Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto ( A1, p. 109) assume un particolare sapore di modernità, per l’immagine dell’individuo che in essa si riflette. L’uomo che ricorre alla «dissimulazione» non ha più nulla dell’eroe classico; la sua è ormai una coscienza borghese che si accetta nelle ambiguità e nei compromessi, con i suoi limiti e le sue preoccupazioni. La «dissimulazione» è infatti arte di «prudenza» e di «pazienza», «non essendo altro il dissimulare che un velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti, da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a [suo] tempo». Per quanto riguarda le posizioni e le contrapposizioni ideologiche, la situazione politica del mondo cattolico, con la sua profonda divisione rispetto ai paesi protestanti, condiziona fortemente la riflessione sulle vicende della storia. Il carattere di indipendenza che si ha nella cultura veneziana, come si è visto, è il segno di una linea di resistenza che, pur con una difficile ricerca di equilibrio, cerca di opporsi all’ingerenza del potere ecclesiastico. Il maggior esponente di questa tendenza è Paolo Sarpi ( A2, p. 111), che, nell’Istoria del Concilio Tridentino ( T2, p. 113), ne dà una interpretazione critica, condannando gli interessi politici e i maneggi diplomatici che contraddicono la purezza della fede religiosa. Come risposta alle posizioni sarpiane Pietro Sforza Pallavicino (1607-67) scrisse a sua volta una Istoria del Concilio di Trento, accusando Sarpi di essere giunto «a tale empietà di dottrina, che altro non rimase certo di lui, salvo che non era cattolico». Continua, in tutto il XVII secolo, la fortuna della Ragion di Stato di Giovanni Botero, che, a fine Cinquecento, aveva indicato i fondamenti del potere politico nel rispetto dei princìpi dell’ideologia controriformistica. Su queste posizioni, senza sostanziali elementi di novità, si attestano i due trattati dal titolo omonimo composti da Ludovico Zuccolo (fine XVI secolo-prima del 1631) e dal medico Ludovico Settala (1555-1633), la cui fama è soprattutto affidata al ricordo lasciatone da Manzoni, nei capitoli sulla peste dei Promessi sposi. Contenuti politici, decisamente antispagnoli, hanno le Filippiche contra gli spagnuoli di Alessandro Tassoni e i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini. Il primo esorta Carlo Emanuele I, duca di Savoia, a continuare la lotta contro la Spagna e a cacciare gli stranieri dall’Italia, riprendendo e aggiornando le aspettative della canzone Italia mia, benché ’l parlar sia indarno di Petrarca e il programma del Principe di Machiavelli. Nell’opera di Traiano Boccalini ( A3, p. 115) una specie di giornalista, sotto cui si nasconde l’autore, pubblica una serie di bollettini o resoconti («ragguagli») in cui conduce – sotto il segno di una finzione che ambienta l’opera nel mitico monte Parnaso,

Capitolo 3 · La trattatistica e la prosa storico-politica

L’opera di Bartoli sui gesuiti

Testi Accetto • Serpente e colomba da Della dissimula­ zione onesta

A1

sacro alle Muse – una stringente polemica contro la corruzione del potere e l’inutilità delle istituzioni culturali del tempo, dandoci l’esempio coraggioso di una scrittura fortemente impegnata. L’importanza assunta dall’Ordine dei gesuiti, sul piano dell’organizzazione interna e su quello delle missioni internazionali, trova nell’Istoria della Compagnia di Gesù, di Daniello Bartoli ( A4, p. 119), l’opera destinata a celebrarne i successi e le conquiste. Concepita sulla base di criteri geografici, utilizzando le relazioni giunte dai paesi stranieri, venne pubblicata tra il 1653 e il 1673 in diverse parti, riguardanti alcuni paesi orientali, l’Inghilterra e l’Italia. Particolarmente suggestivo è il volume dedicato alla Cina, in cui l’autore, grazie alla sua brillante scrittura, fa conoscere ai lettori gli splendori di un’antica civiltà, con le sue bellezze paesaggistiche e architettoniche (la Grande Muraglia) ma anche con la sapienza dell’organizzazione politica e i valori morali ereditati dall’insegnamento di Confucio.

Torquato Accetto La vita e le opere Nato tra il 1586 e il 1589, a Trani o a Napoli, restano pochissime notizie certe sulla sua vita, salvo i contatti con l’ambiente napoletano riunito attorno a Giambattista Manso, amico e biografo di Torquato Tasso. Oltre al trattato Della dissimulazione onesta (1641), fu autore di Rime, che ebbero tre edizioni (1621, 1626, 1638).

T1

Torquato Accetto

Temi chiave

Simulare e dissimulare

• le caratteristiche della dissimulazione • i vantaggi sociali della dissimulazione

da Della dissimulazione onesta, cap. IX Nel passo che segue Torquato Accetto definisce il concetto di «dissimulazione», elogiandone la funzione sul piano della pratica sociale.

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Presupposto1 che nella condizion della vita normale possono succedere molti difetti2, segue che gravi disordini3 siano al mondo quando, non riuscendo di emendarli4, non si ricorre allo spediente5 di nasconder le cose che non han merito6 di lasciarsi vedere, o perché son brutte o perché portano pericolo di produrre brutti accidenti7. E oltre a quanto avviene agli uomini, se pur si considera la natura per tante opere di qua giù8, si conosce che tutto il bello non è altro che una gentil dissimulazione. Dico il bello de’ corpi che stanno soggetti alla mutazione, e veggansi9 tra questi i fiori e tra’ fiori la lor reina10; e si troverà che la rosa par bella perché a prima vista dissimula di esser cosa tanto caduca11, e quasi con una semplice superficie di vermiglio12 fa restar gli occhi in un certo senso persuasi ch’ella sia porpora immortale13; ma in breve, come disse Torquato Tasso, quella non par che disiata avanti fu da mille donzelle e mille amanti14;

1. Presupposto: premesso. 2. possono … difetti: possono succedere molte sventure. 3. disordini: inconvenienti. 4. emendarli: correggerli. 5. spediente: espediente, soluzione. 6. han merito: meritano.

7. brutti accidenti: conseguenze spiacevoli. 8. se pur … qua giù: se solo si considera co­ me opera la natura in questo mondo. 9. veggansi: si vedano. 10. la lor reina: la regina dei fiori, la rosa. 11. caduca: effimera, destinata ben presto a sfiorire.

12. superficie di vermiglio: velo (si riferisce ai petali) dal colore rosso vivo. 13. ch’ella … immortale: che avrà per sem­ pre il colore rosso porpora, ossia che vivrà per sempre. 14. quella … amanti: Gerusalemme libera­ ta, canto XVI, ottava 14.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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perché la dissimulazione in lei non può durare. E tanto15 si può dir di un volto di rose16, anzi di quanto per la terra riluce17 tra le più belle schiere d’Amore18; e benché della bellezza mortale sia solito dirsi di non parer19 cosa terrena, quando poi si considera il vero, già non è altro che un cadavero dissimulato dal favor dell’età20, che ancor si sostiene nel riscontro21 di quelle parti e di que’ colori che han da22 dividersi e cedere alla forza del tempo e della morte. Giova23 quindi una certa dissimulazion della24 natura per quanto si contiene25 tra lo spazio degli elementi26, dov’è molto vera quella proposizione che afferma di non esser tutt’oro quello che luce27; ma ciò che luce nel Cielo ben corrisponde sempre28, perché ivi tutte le cose son belle dentro e fuori. Or, passando all’utile che nasce Lorenzo Lippi, Allegoria della simulazione, 1640 ca., dalla dissimulazione ne’ termini morali29, olio su tela, Angers, Musée des Beaux-Arts. comincio dalle cose che più bisognano, 30 dico dall’arte della buona creanza , la qual si riduce nella destrezza di questa medesima diligenza31. E leggendosi quanto ne scrisse monsignor della Casa32, si vede che tutta quella nobilissima dottrina33 insegna così di ristringer i soverchi desiderii34, che son cagione di atti noiosi35, come il mostrar di non veder gli errori altrui acciò che la conversazione riesca di buon gusto.

15. tanto: altrettanto, la stessa cosa. 16. un volto di rose: un viso giovane, dalle guance rosee. 17. riluce: brilla. 18. schiere d’Amore: quelle dei giovani innamorati. 19. di non parer: che non sembra. 20. dal favor dell’età: dall’età favorevole, in cui ancora si conserva la bellezza. 21. si sostiene nel riscontro: si regge nel­ l’armonia, nell’accordo.

22. han da: sono destinati a. 23. Giova: è utile. 24. della: da parte della. 25. si contiene: è compreso, è contenuto. 26. degli elementi: delle cose del mondo. 27. luce: luccica. 28. ben corrisponde sempre: trova sempre corrispondenza, nel senso che la luce e la bellezza sono eterne. 29. ne’ termini morali: per quanto riguarda la morale.

30. buona creanza: educazione. 31. nella destrezza … diligenza: all’abilità di questa medesima accortezza. 32. della Casa: Giovanni Della Casa (150356), poeta petrarchista e autore del celebre Galateo. 33. dottrina: disciplina. 34. ristringer … desiderii: moderare le vo­ glie eccessive. 35. noiosi: spiacevoli.

Analisi del testo Ciò che è e ciò che appare

La maschera

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Il critico Giovanni Macchia, studioso di letteratura francese e di letterature comparate, ha scritto che «il Seicento è stato il grande secolo della dissimulazione così come in pittura è stato il secolo dell’ombra, quale via che conduce alla luce, cioè alla conoscenza». Il rapporto fra ciò che è, ciò che deve essere e ciò che appare, affrontato anche sul piano dei comportamenti etico-politici, è al centro del trattato dell’Accetto, secondo cui la dissimulazione, definita come l’«industria [l’accorgimento] di non far vedere le cose come sono», è ben distinta dalla simulazione, in quanto «si simula quello che non è, si dissimula quello che è». In un mondo ingiusto, in cui i rapporti sociali si basano sulla violenza e sull’inganno, è difficile, quando non impossibile, esprimere se stessi, ma si è costretti, tanto dalle convenzioni quanto dalle opportunità, a indossare una maschera, a nascondere con abilità il pro-

Capitolo 3 · La trattatistica e la prosa storico-politica

La dissimulazione e la «buona creanza» Dissimulazione e ipocrisia

prio pensiero attraverso la pratica della dissimulazione. Si tratta in altri termini di individuare e preservare uno spazio intimo di coscienza, un luogo nascosto dove custodire la propria verità e difenderla dagli attacchi di un potere malevolo della società e della politica. In questo passo Accetto ricorre a delle immagini poetiche e preziose, come quella della rosa, per cui la celebrazione della bellezza (secondo un motivo tradizionalmente diffuso in poesia) «dissimula» la sua caducità, come l’espressione secondo cui non è «tutt’oro quello che luce» (r. 28) sottolinea come il prezioso metallo copra e nasconda spesso ciò che è brutto e negativo. Sul piano del costume, la dissimulazione diventa il fondamento di quella «buona creanza» che regola i comportamenti sociali (il riferimento è al Galateo dello scrittore cinquecentesco Giovanni Della Casa), dove è spesso necessario «mostrar di non veder gli errori altrui». Ma, possiamo aggiungere noi, la dissimulazione – per la sua stessa natura di tenere nascosta la verità – può facilmente comportare il rovesciamento del suo significato positivo e “onesto”, mostrando l’altra faccia della medaglia, ossia mettendosi al servizio dell’opportunismo e dell’ipocrisia, quando la si utilizzi per un calcolo di interessi personali. In questo senso sarà da collegare alla morale permissiva e puramente formale che caratterizza i rapporti fra gli uomini e le istituzioni politico-sociali. In questa sua ambivalenza il trattato Della dissimulazione onesta è davvero indicativo di un aspetto importante della mentalità secentesca.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Come giunge Accetto ad affermare che «tutto il bello non è altro che una gentil dissimulazione» (r. 6)? > 2. Quali osservazioni esprime l’autore sulla «bellezza mortale» (r. 17)? > 3. Quali riflessioni scaturiscono dalla citazione di «monsignor della Casa» (r. 36)? AnALizzAre

> 4. > 5.

Quali caratteristiche del genere della trattatistica evidenzia il brano? Motiva la tua risposta. Il discorso, nel suo complesso, presenta un andamento paratattico o ipotattico? Motiva la tua risposta attraverso uno o più esempi significativi ricavati dal testo. Stile

Lingua

Approfondire e inTerpreTAre

> 6.

Scrivere Individua nel brano i riferimenti al tema della caducità e commentali, contestualizzandoli nell’ambito della cultura del Barocco, in un testo di circa 15 righe (750 caratteri). > 7. Testi a confronto: esporre oralmente Effettua un confronto tra il brano analizzato e l’Elogio della rosa tratto dall’Adone di Marino ( cap. 2, T1, p. 59): l’immagine del fiore, presente in ambedue i testi, evidenzia elementi comuni? Motiva la tua risposta in un’esposizione orale (max 3 minuti).

A2

La “contesa dell’interdetto”

paolo Sarpi Nato nel 1552, in una famiglia di umili condizioni, a Venezia (vi morirà nel 1623), entrò nell’Ordine dei Servi di Maria. Profonda e vastissima si rivela, fin dall’inizio, la sua preparazione, che abbraccia la conoscenza delle lingue, la filosofia, la storia, il diritto, la teologia, le scienze e la matematica (basta ricordare, a questo proposito, la stima che ebbe per lui Galileo). Non meno importante risulta l’esperienza da lui maturata alla corte di Mantova, a Milano, presso Carlo Borromeo, e a Roma, dove si recò più volte con incarichi del suo ordine. Con questo bagaglio di cognizioni, insieme teoriche e pratiche, Sarpi visse in prima persona la cosiddetta “contesa dell’interdetto”, apertasi tra la Repubblica veneta e la Curia pontificia, nel 1605, per il rifiuto di consegnare al tribunale

La vita e le opere

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

L’attentato alla sua vita

La separazione dei due poteri

Il ritorno allo spirito evangelico

religioso due prelati arrestati per reati comuni. Nell’occasione Sarpi dimostrò uno zelo e un’acutezza eccezionali, assumendo la difesa della sua città e sostenendo l’intero peso ideologico della questione, finché nel 1607 rimase gravemente ferito in un attentato. Nello stesso anno aveva pubblicato l’Istoria particolare dell’interdetto, che raccoglieva e sistemava i risultati dei suoi numerosi scritti contro le pretese di Roma. Ma al vertice della nuova consapevolezza storica e delle approfondite convinzioni politico-religiose si colloca l’Istoria del Concilio Tridentino, composta nel periodo 1612-18 e pubblicata a Londra nel 1619. Sarpi è autore di numerosi altri scritti filosofici, teologici e giuridici. Ma si ricordino soprattutto le lettere, che permettono di ricostruire un vasto raggio di relazioni internazionali, specie con gli ambienti delle religioni riformate. L’Istoria del Concilio Tridentino Già nell’Istoria particolare dell’interdetto la consapevolezza di aver individuato alcuni problemi nodali andava al di là delle occasioni contingenti e delle soluzioni politico-diplomatiche adottate. La ricostruzione e l’analisi degli avvenimenti trascorsi convincono Sarpi a ribadire non solo il principio della separazione dei due poteri (quello spirituale e quello temporale), ma a subordinare, nella pratica concreta del governo civile, l’autorità ecclesiastica a quella dello Stato. Non vi era comunque, in lui, un intento di esaltazione dell’assolutismo temporale (Venezia, non si dimentichi, continuava a essere una repubblica), né tanto meno il problema veniva a porsi in termini astrattamente giuridici. A tali conclusioni lo guidava la coscienza della crisi apertasi all’interno della Chiesa, con l’esigenza di un rinnovamento che superasse la grave frattura della riforma protestante. Il banco di prova (una prova, di fatto, fallita) era stato il Concilio di Trento, da Sarpi stesso definito l’«Iliade del secol nostro» ( T2, p. 113). Nasce così, sulla base di questo progetto di chiarificazione, l’Istoria del Concilio Tridentino, il cui criterio orientatore consiste proprio, alla luce di un ritorno allo spirito evangelico, nel rifiuto della “ragion di Stato”, ossia di quegli interessi politici che soffocano e negano l’autentico messaggio religioso. La simpatia di Sarpi, al di là delle diverse confessioni, è tutta per i riformatori, che gli sembrano i meno corrotti da una religione intesa esclusivamente come strumento di potere. Con alcuni di loro, pur senza aderire al protestantesimo, egli fu in rapporti, diretti o epistolari. Si spiega così il carattere militante dell’Istoria, il ruolo da essa esercitato nella battaglia delle idee. Le aperture e gli interessi di Sarpi fanno di lui uno dei pochi intellettuali veramente cosmopolitici del Seicento, favorendo quel risveglio culturale che passerà anche attraverso l’esperienza di Galileo Galilei.

Pasquale Cati, Il Concilio di Trento, 1569, affresco, part., Roma, Santa Maria in Trastevere, Cappella Altemps.

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Capitolo 3 · La trattatistica e la prosa storico-politica

T2

paolo Sarpi

Temi chiave

L’«iliade del secol nostro»

• un bilancio amaro del Concilio di Trento • la sfiducia nella «prudenza umana»

dall’Istoria del Concilio Tridentino, libro I, cap. I È la dichiarazione d’intenti con cui si apre l’opera.

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Il proponimento mio è di scrivere l’istoria del concilio tridentino1, imperò che, quantonque molti celebri istorici del secol nostro nelli loro scritti abbiano toccato2 qualche particolar successo in3 quello, e Gioanni Sleidano4 diligentissimo auttore abbia con esquisita diligenzia5 narrato le cause antecedenti6, nondimeno, quando bene fossero tutti raccolti insieme, non si componerebbe un’intiera narrazione7. Io immediate che ebbi gusto delle cose umane8, fui preso da gran curiosità di saperne l’intiero9, et oltre l’aver letto con diligenzia quello che trovai scritto, e li publici documenti usciti in stampa o divulgati a penna, mi diedi a ricercare nelle reliquie de’ scritti10 delli prelati et altri in concilio intervenuti, le memorie da loro lasciate, e li voti, cioè pareri detti in publico, conservati dalli auttori propri11 o da altri, e le lettere d’avisi12 da quella città scritte, non tralasciando fatica o diligenzia, onde13 ho avuto grazia14 di veder sino qualche registri intieri15 di note e lettere di persone che ebbero gran parte in quei maneggi. Ora avendo tante cose raccolte, che mi possono somministrar assai abondante materia per narrazione del progresso16, vengo in resoluzione di ordinarla17. Raccontarò le cause e li maneggi d’una convocazione18 ecclesiastica, nel corso di 22 anni19, per diversi fini e con vari mezi, da chi procaciata20 e sollecitata, da chi impedita e differrita, e per altri anni 1821 ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha sortito forma e compimento22 tutto contrario al dissegno di chi l’ha procurata23 et al timore di chi con ogni studio24 l’ha disturbata: chiaro documento25 per rasignare li pensieri in Dio26, e non fidarsi della prudenza umana. Imperò che27 questo concilio, desiderato e procurato28 dagl’uomini pii per riunire la Chiesa, che principiava a dividersi, per contrario ha così stabilito lo scisma29 et ostinate30 le parti, che ha fatto31 le discordie irreconciliabili; e maneggiato32 dai principi per riforma dell’ordine ecclesiastico ha causato la maggior disformazione33 che sia mai stata doppo che il nome cristiano si ode34, e dalli vescovi adoperato per racquistar l’auttorità episco-

1. concilio tridentino: il Concilio di Trento, vedi note 18 e 21. 2. abbiano toccato: si siano occupati di. 3. successo in: episodio di. 4. Gioanni Sleidano: lo storico e riformatore religioso Johannes Philippson, nato a Schleiden presso Colonia (1506-56), prese parte al Concilio come delegato protestante. È autore dell’opera De statu religionis et reipubli­ cae Carolo V Caesare imperatore (“Sullo stato e sul governo dell’impero di Carlo V”). 5. esquisita diligenzia: straordinaria preci­ sione, accuratezza. 6. antecedenti: che avevano portato alla convocazione del Concilio. 7. non si … narrazione: non si potrebbe mettere insieme una narrazione completa. 8. immediate … umane: non appena (immediate) mostrai interesse (gusto) per gli avvenimenti storici (le cose umane). 9. l’intiero: l’intero svolgimento. 10. reliquie de’ scritti: documenti rimasti. 11. dalli auttori propri: dagli stessi autori,

da chi li aveva scritti. 12. le lettere d’avisi: le relazioni, i rapporti informativi. 13. onde: per cui. 14. grazia: il favore. 15. qualche … intieri: alcuni registri com­ pleti. 16. del progresso: di come sono procedute le cose. 17. vengo … ordinarla: mi sono deciso di narrarla ordinatamente. 18. convocazione: assemblea, concilio. 19. nel … 22 anni: per 22 anni, dal 1523 al 1545; il papa Adriano VI proprio nel 1523 aveva pensato di dare attuazione pratica al progetto di un Concilio che provvedesse alla riforma della Chiesa, sentita da molti già allora come necessaria e urgente. 20. procacciata: cercata. 21. anni 18: dal 1545 al 1563; il Concilio rimase aperto appunto lungo un arco di diciotto anni, ma subì numerose interruzioni e fu riunito e condotto (celebrata) con varie finalità.

22. forma e compimento: andamento e conclusione. 23. al dissegno … procurata: alle intenzio­ ni di chi l’ha voluta e organizzata. 24. studio: cura, accorgimento. 25. documento: testimonianza. 26. rasignare … in Dio: rimettere le inten­ zioni nelle mani di Dio. 27. Imperò che: perché, infatti. 28. procurato: voluto. 29. stabilito lo scisma: reso stabile, irreversi­ bile la frattura (lo scisma indica qui propriamente le divisioni di tipo religioso, come quella provocata dalla Riforma protestante). 30. ostinate: rese nemiche, irriducibili a ogni forma di dialogo (le parti sono ovviamente i cattolici e i protestanti). 31. fatto: reso. 32. maneggiato: usato, strumentalizzato. 33. disformazione: deformazione, guasto (gioca sull’antitesi con riforma). 34. doppo … ode: da quando esiste la reli­ gione cristiana.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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pale35, passata in gran parte nel solo pontefice romano, gliel’ha fatta perder tutta intieramente, et interessati loro stessi nella propria servitù36; ma temuto e sfugito dalla corte di Roma come efficace mezo per moderare l’essorbitante potenza37 da piccioli principii38 pervenuta con vari progressi ad un eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e confermata39 sopra la parte restatagli soggietta40, che mai fu tanta né così ben radicata. Sì che non sarà inconveniente41 chiamarlo la Illiade42 del secol nostro, nella esplicazione43 della quale seguirò drittamente la verità non essendo posseduto da passione che mi possi far deviare: e chi mi osserverà in alcuni tempi abbondare, in altri andar ristretto44, si raccordi45 che non i campi tutti sono di ugual fertilità, né tutti li grani meritano d’esser conservati, e di quelli che il mietitore vorrebbe tenir conto46, qualche spica47 anco sfugge la presa della mano o il filo della falce, così comportando la condizione d’ogni mietitura, che resti anco parte per rispigolare48.

35. episcopale: vescovile. 36. interessati … servitù: relegati essi stessi in un ruolo subordinato (servitù), nel senso che il Concilio aveva rafforzato l’autorità del pontefice. 37. l’essorbitante potenza: esorbitante po­ tere della curia pontificia (la corte di Roma). 38. principii: inizi (quelli della Chiesa primitiva). 39. stabilita e confermata: resa stabile e

rafforzata. 40. la parte … soggietta: i paesi cattolici, rimasti soggetti, assoggettati, alla Chiesa di Roma. 41. inconveniente: sbagliato, fuori luogo. 42. Illiade: il poema in cui Omero ha cantato la guerra di Troia, durata dieci anni. 43. esplicazione: trattazione. 44. andar ristretto: essere breve, sintetico.

45. si raccordi: si ricordi. 46. tenir conto: tenere conto, prendere in considerazione. 47. spica: spiga. 48. comportando … rispigolare: essendo inevitabile in ogni mietitura che rimanga an­ cora una parte da spigolare di nuovo (ossia raccogliere le spighe rimaste a terra dopo la mietitura).

Analisi del testo

> il fallimento del Concilio

Nel “disegno” premesso all’Istoria del Concilio Tridentino Sarpi sottolinea subito come i risultati siano stati opposti rispetto alle intenzioni che avevano dato vita all’iniziativa («questo concilio, desiderato e procurato dagl’uomini pii per riunire la Chiesa, che principiava a dividersi, per contrario ha così stabilito lo scisma et ostinate le parti, che ha fatto le discordie irreconciliabili», rr. 21-23), manifestando così la sua sfiducia nei confronti della «prudenza umana». Non sono premesse neutrali, se è vero che il punto d’arrivo è consistito nel rafforzamento del potere accentratore del papato, con cui ogni possibilità di confronto e di dialogo veniva preclusa. Un esito che ha di fatto negato le speranze di rinnovamento, per il prevalere dei calcoli di una politica fatta di maneggi e di intrighi, lontana dai veri valori del messaggio cristiano.

Una vicenda “labirintica”

L’aderenza della scrittura ai fatti narrati

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> Una scrittura essenziale per narrare una vicenda tortuosa

Per tali ragioni Sarpi sembra muoversi all’interno di una vicenda tortuosa e quasi “labirintica”, di cui non vuole travisare il complicato svolgimento né insinuare una visione di parte degli avvenimenti («seguirò drittamente la verità», afferma, «non essendo posseduto da passione che mi possa far deviare», rr. 32-33); questi, tuttavia, hanno in se stessi le loro particolari ragioni (quelle appunto che avevano provocato il fallimento degli sforzi degli «uomini pii») e vengono quindi a collocarsi in una scala di valori ideali, che consente di formulare un preciso giudizio nei loro confronti. Di qui l’aderenza della scrittura agli avvenimenti narrati, e – di conseguenza – il rifiuto delle soluzioni stilistiche barocche e della loro ricerca di abbellimenti formali, a favore di una scrittura essenziale, secca, nervosa. Ma un atteggiamento del genere giustifica anche la concezione dell’opera, con le sue scelte e le eventuali esclusioni, nel senso che Sarpi finisce per selezionare le fonti utilizzate (dallo storico tedesco “Giovanni Sleidano” alle lettere e ai documenti d’archivio), “interpretandole” con una passione morale che, grazie anche all’uso dell’ironia e del sarcasmo, esclude ogni forma di indifferenza o di scetticismo storiografico.

Capitolo 3 · La trattatistica e la prosa storico-politica

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Perché, secondo Sarpi, il Concilio «ha sortito forma e compimento tutto contrario al dissegno di chi l’ha pro-

curata» (r. 18)? AnALizzAre

> 2. Il brano presenta affermazioni di tipo programmatico e/o metodologico? Motiva la tua risposta. > 3. Stile Nelle ultime righe il testo presenta una metafora molto efficace: individuala e spiegane la funzione. > 4. Lessico Attraverso quali vocaboli e/o espressioni l’autore rappresenta se stesso? Quale ritratto d’intellettuale ne emerge?

Approfondire e inTerpreTAre

> 5.

esporre oralmente In relazione a quali altri autori dell’età del Barocco hai constatato l’importanza del contesto socio-culturale di una città come Venezia? Motiva la tua risposta in un’esposizione orale (max 3 minuti) in base agli studi da te effettuati. > 6. Contesto: storia Le riflessioni di Sarpi sul Concilio di Trento trovano conferma presso le interpretazioni storiografiche più recenti? Effettua, anche con l’aiuto del docente di storia, un percorso di ricerca e documentazione sull’argomento.

A3 Da Roma a Venezia

Le Osservazioni sopra Cornelio Tacito

I Ragguagli di Parnaso

Traiano Boccalini La vita Nato a Loreto, nel 1556, dopo gli studi di diritto a Perugia e a Padova, si stabilì

a Roma, diventando governatore di alcune cittadine dello Stato Pontificio. Deluso da queste esperienze, si trasferì nel 1612 a Venezia, per essere vicino a Paolo Sarpi ( A2, p. 111) e per vivere in un ambiente più aperto e indipendente, dove più liberamente potesse esprimere le proprie opinioni. A Venezia si dedicò alle due opere che lo occuperanno sino alla morte, avvenuta improvvisamente nel dicembre 1613. Si è potuto pensare a un avvelenamento, messo in atto da emissari spagnoli, ma il sospetto non è stato provato. Resta il fatto che la stessa supposizione è indicativa non solo della violenza dei contrasti del tempo (anche Sarpi subì un attentato), ma anche della posizione radicalmente scomoda assunta dallo scrittore.

Le opere Opera strettamente politica sono le Osservazioni sopra Cornelio Tacito,

di cui Boccalini, quando morì, stava curando la stesura definitiva. L’opera, che nella forma rimasta verrà pubblicata a Ginevra nel 1677, intendeva sia correggere le più drastiche posizioni di Machiavelli, sostituendo le sue concezioni, condannate dalla Chiesa, con quelle dello storico latino Tacito (è il fenomeno del cosiddetto “tacitismo”), sia rifiutare le soluzioni ritenute ipocrite di chi intendeva giustificare la “ragion di Stato” con le esigenze dell’ideologia controriformistica. Nel 1612 e nel 1613 vennero pubblicate le due “centurie” (raccolte di cento brani) dei Ragguagli di Parnaso ( T3, p. 116), che ottennero un immediato successo, portando alla ribalta il nome sconosciuto del loro autore. Nell’opera, sotto il travestimento della finzione letteraria, traspare la forte avversione politica dell’autore nei confronti della Spagna e dello Stato Pontificio. Nel regno di Apollo, sul monte Parnaso sacro alle Muse, vengono pubblicate delle notizie sotto forma di relazioni giornalistiche in cui, attraverso lo sguardo straniante dell’invenzione fantastica portato sul presente, si assiste a una satirica rappresentazione di figure e fatti del costume politico e culturale del tempo; la penna caustica e corrosiva dell’autore mette alla berlina e dileggia le prevaricazioni e le contraddizioni del potere, demistificando le storture e i pregiudizi delle prese di posizione ufficiali. 115

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

T3

Traiano Boccalini

Temi chiave

La condanna di machiavelli

• la messa in scena di un finto processo • la condanna della “ragion di Stato”

dai Ragguagli di Parnaso, Centuria prima, 89 È il “ragguaglio” più famoso dell’opera, incentrato sulla figura di Machiavelli.

RAGGuAGlIO lxxxIx Niccolò Macchiavelli, capitalmente sbandito1 da Parnaso2, essendo stato ritrovato ascoso3 nella biblioteca di un suo amico, contro lui vien eseguita la sentenza data prima del fuoco4. 5

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Tutto che5 Niccolò Macchiavelli molti anni sono6 fosse sbandito da Parnaso e suo territorio con pena gravissima tanto a lui quanto a quelli che avessero ardito nella lor biblioteca dar ricetto7 ad uomo tanto pernicioso8, la settimana passata nondimeno in casa di un suo amico, che secretamente lo teneva ascoso nella sua libraria9, fu fatto prigione10. Dai giudici criminali11 subito fu fatta la ricognizione della persona12, e questa mattina contro lui doveva eseguirsi la pena del fuoco, quando egli fece intendere a Sua Maestà13 che prima gli fosse conceduto che avanti il tribunale che l’avea condannato potesse dire alcune cose in sua difesa. Apollo, usando verso lui la solita sua benignità, gli fece sapere che mandasse i suoi avvocati, che cortesemente sarebbero stati ascoltati. Replicò il Macchiavelli che voleva egli difender la causa sua, e che i fiorentini nel dir le ragioni loro non avevano bisogno di avvocati. Di modo che li fu conceduto quanto domandava. Il Macchiavelli dunque fu introdotto nella quarantia criminale14, dove in sua difesa ragionò in questo modo: – Ecco, o sire de’ letterati, quel Niccolò Macchiavelli, che è stato condannato per seduttore e corruttore del genere umano e per seminatore di scandalosi precetti politici. Io in tanto non intendo difendere gli scritti miei, che15 pubblicamente gli accuso e condanno per16 empi, per pieni di crudeli ed esecrandi documenti da17 governare gli Stati. Di modo che, se quella che ho pubblicata alla stampa è dottrina inventata di mio capo18 e sono precetti nuovi, dimando che pur ora19 contro di me irremessibilmente20 si eseguisca la sentenza che a’ giudici è piaciuto darmi contro: ma se gli scritti miei altro non contengono che quei precetti politici e quelle regole di Stato che ho cavate dalle azioni di alcuni prencipi – che se Vostra Maestà mi darà licenza nominarò in questo luogo, – de’ quali è pena la vita dir male21, qual giustizia, qual ragione vuole ch’essi che hanno inventata l’arrabbiata e disperata politica scritta da me, sieno tenuti sacrosanti22, io che solo l’ho pubblicata23, un ribaldo, un ateista24? Ché certo non so vedere per qual cagione stia bene adorar l’originale25 di una cosa come santa e abbruciare la copia26 di essa come esecrabile, e come io tanto debba esser perseguitato, quando la lezione delle istorie, non solo permessa ma tanto commendata27 da ognuno, notoriamente ha virtù di

1. capitalmente sbandito: cacciato, messo al bando sotto pena di morte. 2. Parnaso: il monte sacro ad Apollo, dio della poesia, e alle Muse. 3. ascoso: nascosto. 4. sentenza … fuoco: la sentenza di con­ danna, emessa (data) in precedenza, a essere bruciato. 5. Tutto che: sebbene. 6. sono: fa. 7. dar ricetto: accogliere, offrire rifugio. 8. pernicioso: dannoso, pericoloso. 9. libraria: biblioteca. 10. fatto prigione: arrestato, fatto prigioniero.

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11. giudici criminali: giudici che amministrano la giustizia penale. 12. ricognizione della persona: riconosci­ mento della persona, identificazione. 13. Sua Maesta: Apollo, re del Parnaso. 14. quarantia criminale: corte di giustizia penale composta da quaranta giudici. 15. che: tanto che. 16. per: come. 17. documenti da: insegnamenti per. 18. inventata … capo: inventata di testa mia, di mia invenzione. 19. pur ora: sin d’ora, subito. 20. irremessibilmente: senza remissione,

senza scampo. 21. de’ quali … male: a dir male dei quali si viene condannati a morte. 22. tenuti sacrosanti: ritenuti intoccabili, irreprensibili. 23. l’ho pubblicata: l’ho fatta conoscere, re­ sa nota attraverso la mia opera. 24. ateista: ateo, qui ad indicare uomo privo di scrupoli e princìpi morali. 25. l’originale: nel senso di “realtà”. 26. la copia: la sua rappresentazione. 27. commendata: lodata, elogiata.

Capitolo 3 · La trattatistica e la prosa storico-politica

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convertire in tanti Macchiavelli quelli che vi attendono28 con l’occhiale politico29. Mercé che30 non così semplici31 sono le genti, come molti si dànno a credere; sì che quei medesimi che con la grandezza degl’ingegni loro hanno saputo investigare i più reconditi secreti della natura, non abbino anco giudicio di scoprire i veri fini che i prencipi hanno nelle azioni loro, ancor che artifici grandissimi usino nell’asconderli32. E se i prencipi per facilmente, dove meglio lor pare, poter aggirare33 i loro sudditi, vogliono arrivare al fine di averli balordi e grossolani34, fa bisogno che si risolvino di venire all’atto35, tanto bruttamente praticato da’ turchi e dal moscovita36, di proibir le buone lettere37, che sono quelle che fanno divenir Arghi38 gl’intelletti ciechi; ché altrimente non conseguiranno mai il fine de’ pensieri loro39. Mercé che l’ipocrisia, oggidì tanto famigliare nel mondo, solo ha la virtù delle stelle d’inclinare, non di sforzare gl’ingegni umani a creder quello che più piace a chi l’usa40. – Grandemente si commossero i giudici a queste parole, e parea che trattassero di rivocar41 la sentenza, quando l’avvocato fiscale42 fece saper loro che il Macchiavelli per gli abbominevoli ed esecrandi precetti che si leggevano negli scritti suoi, così meritatamente era stato condannato, come di nuovo severamente doveva essere punito per esser di notte stato trovato in una mandra di pecore, alle quali s’ingegnava di accomodare43 in bocca i denti posticci di cane, con evidente pericolo che si disertasse44 la razza de’ pecorai, persone tanto necessarie in questo mondo, i quali indecente e fastidiosa cosa era che da quello scelerato fossero posti in pericolo di convenirli mettersi il petto a botta e la manopola di ferro45, quando avessero voluto munger le pecore loro o tosarle: ché a qual prezzo sarebbono salite le lane e il cacio, se per l’avvenire fosse convenuto a’ pastori più guardarsi dalle stesse pecore che da’ lupi, e se non più col fischio e con la verga, ma con un reggimento di cani si dovevano tener in ubbidienza, e la notte per guardarle fosse stato bisogno non più far loro gli steccati di corda, ma i muri, i baluardi e le fosse con le contrascarpe46 fatte alla moderna? Troppo importanti parvero ai giudici accuse tanto atroci, onde votarono tutti che fosse eseguita la sentenza data contro uomo tanto scandaloso: e per legge fondamentale47 pubblicarono che, per l’avvenire, ribello del genere umano fosse tenuto48 chi mai più avesse ardito insegnare al mondo cose tanto scandalose, confessando49 tutti che non la lana, non il cacio, non l’agnello che si cava dalla pecora, agli uomini prezioso rendeva quell’animale, ma la molta semplicità e l’infinita mansuetudine di lui, il quale non era possibile che il numero grande da un solo pastore venisse governato, quando affatto non50 fosse stato disarmato di corna, di denti e d’ingegno: e che era un voler porre il mondo tutto in combustione51 il tentare di far maliziosi52 i semplici e far veder lume a quelle talpe le quali con grandissima circospezione53 la madre natura avea create cieche.

28. vi attendono: se ne occupano. 29. con l’occhiale politico: con il cannoc­ chiale della politica, che consente di vedere meglio e da vicino le cose. 30. Mercé che: dal momento che. 31. semplici: ingenue, facili a essere ingan­ nate. 32. nell’asconderli: nel nasconderli. 33. aggirare: ingannare, raggirare. 34. balordi e grossolani: stupidi e ignoranti. 35. si risolvino … atto: si decidano di giun­ gere alla decisione. 36. moscovita: lo zar della Russia. 37. lettere: opere. 38. Arghi: Argo era un mostro mitologico con cento occhi. 39. de’ pensieri loro: delle loro intenzioni. 40. Mercé … usa: dal momento che l’ipocri­

sia, oggi tanto frequente (famigliare) nel mondo, ha soltanto la facoltà che hanno le stelle di predisporre (inclinare), non di costrin­ gere (sforzare) le menti umane a credere quello che piace di più a chi la pratica, la eser­ cita (usa). 41. trattassero di rivocar: discutessero se revocare, annullare. 42. l’avvocato fiscale: il giudice accusatore, ora diremmo il “pubblico ministero”. 43. accomodare: sistemare. 44. si disertasse: si estinguesse, si distrug­ gesse. 45. i quali … ferro: i quali sarebbe stato dan­ noso e sconveniente (fastidiosa cosa) che da quello scellerato (Machiavelli) fossero messi a rischio tanto da rendere necessario (convenirli) proteggere il petto con una corazza a

prova di pistola (mettersi il petto a botta) e un guanto di maglia di ferro (manopola di ferro). 46. le controscarpe: la “controscarpa” è un termine tecnico usato in architettura per indicare il terreno posto tra la fortificazione e il fossato che la circonda. 47. fondamentale: posta a fondamento della legislazione, e quindi immutabile. 48. tenuto: considerato. 49. confessando: ammettendo, afferman­ do. 50. quando affatto non: se non quando. 51. in combustione: in fiamme. 52. far maliziosi: rendere smaliziati, capaci di rendersi conto dell’ipocrisia e degli inganni. 53. circospezione: accortezza, prudenza.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Analisi del testo

> Un’invenzione ironica

L’autodifesa di Machiavelli

La nuova accusa

Particolarmente efficace risulta in questo brano il gioco dell’invenzione ironica che caratterizza i Ragguagli di Parnaso: si tratta della condanna a morte di Machiavelli, accusato di avere scritto un’opera immorale e di corrompere i lettori, facendosi maestro di nefandezze. L’autodifesa consiste nella dimostrazione che le colpe a lui imputate sono quelle commesse da coloro che detengono il potere, dei quali «è pena la vita dir male» (r. 25); non solo, ma costoro sono «tenuti sacrosanti», ossia i loro pensieri e i loro comportamenti sono giudicati irreprensibili, e non avrebbe quindi senso condannare chi si è limitato a presentarli, per farli conoscere. Le ragioni addotte convincono i giudici a revocare la sentenza, senonché una nuova accusa colpisce Machiavelli: quella di essere stato trovato in un gregge mentre cercava di mettere alle pecore i denti del cane. «Accuse tanto atroci», per un comportamento che porterebbe a un grave danno economico e rischierebbe di sconvolgere l’ordine esistente, ponendo «il mondo tutto in combustione» (rr. 63-64), inducono a ribadire la condanna.

> L’andamento dell’apologo Un atteggiamento rivoluzionario

Il racconto assume qui l’andamento dell’apologo, nel quale gli animali assumono una funzione metaforica di ammonizione e di insegnamento. Il «far maliziosi i semplici» è come il «far veder lume a quelle talpe», riguarda cioè l’atteggiamento rivoluzionario di chi vuol far aprire gli occhi di fronte a una realtà che l’ideologia dominante plasma a suo piacimento, mistificando i suoi reali interessi per assicurarsi una giustificazione e un consenso fondati sull’ignoranza. A essere messa sotto accusa da Boccalini è quella che, dal titolo del celebre libro di Botero, veniva chiamata la “ragion di Stato”, attenta a proporre una versione ipocrita ed edulcorata dei rapporti di forza esistenti, per nascondere le crudeltà e gli inganni del potere, che invece il Principe non aveva esitato a rivelare, mettendo in guardia contro le violenze e i raggiri (è la cosiddetta interpretazione “obliqua” del Principe, ripresa poi nei Sepolcri da Ugo Foscolo, secondo cui Machiavelli «alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue» il potere dei regnanti).

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Che cosa risponde Machiavelli ad Apollo, che gli dice di mandare i suoi avvocati a sostenere le sue ragioni?

Dove si svolge il processo? > 2. Riassumi l’apologo che racconta di Machiavelli che cerca di mettere alle pecore i denti del cane. Quali sono i rischi e le conseguenze per i pastori? > 3. Quali caratteristiche rendono preziose agli uomini le pecore? AnALizzAre

> 4.

Stile Quale figura rintracci nelle espressioni: «convertire in tanti Macchiavelli quelli che vi attendono con l’occhiale politico» (r. 31) e «fanno divenir Arghi gl’intelletti ciechi» (r. 39)?

Approfondire e inTerpreTAre

> 5.

Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) illustra le ragioni per cui secondo Boccalini-Machiavelli, il Principe, come opera in sé, non è da condannare come esecrabile ed immorale. > 6. esporre oralmente Esponi oralmente (max 3 minuti) le ragioni per cui viene condannato Machiavelli. Che cosa ha rivelato agli uomini?

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Capitolo 3 · La trattatistica e la prosa storico-politica

A4

daniello Bartoli La vita e le opere Nato a Ferrara nel 1608, entrò nell’Ordine dei gesuiti; si dedicò

L’Istoria della Compagnia di Gesù

Le opere morali e religiose

Caratteristiche dell’Istoria

T4

soprattutto alla predicazione e agli studi, secondo le direttive dei suoi superiori, che non gli accordarono il permesso di divenire missionario, per trattenerlo in patria. Nel 1648 venne infatti incaricato di compilare l’Istoria della Compagnia di Gesù ( T4), concepita sulla base di criteri geografici e rimasta incompiuta alla sua morte, avvenuta nel 1685. Ne pubblicò tuttavia diverse parti, man mano che le veniva componendo: L’Asia (1653), Il Giappone (1660), La Cina (1663), L’Inghilterra (1667) e L’Italia (1673). Oltre a scritti scientifici di scarso rilievo, è autore di numerose opere, in cui ha cercato di conciliare l’esercizio letterario con le preoccupazioni morali e religiose: L’uomo di lettere difeso ed emendato (1645), Il torto e il diritto del non si può (1655), La ricreazione del savio (1659), La geografia trasportata al morale (1664), L’uomo al punto, cioè in punto di morte (1668), De’ simboli trasportati al morale (1677). Storiografo ufficiale della Compagnia di Gesù, impegnata in una vasta opera di evangelizzazione, Bartoli sostituì i viaggi della fantasia a quelli della realtà, costruendo le sue opere sulla base di documenti d’archivio, di testimonianze e relazioni di viaggiatori e di missionari. Sulla ricostruzione dei fatti e sulla descrizione dei costumi prevale il processo dell’elaborazione espressiva, che reinventa il dato cronachistico e lo trasferisce sul piano delle immagini, ora assaporate nella scenografica meraviglia delle descrizioni paesaggistiche, ora sottoposte a un più rigoroso controllo, là dove prevalgono gli intenti della propaganda gesuitica.

daniello Bartoli

Temi chiave

La civiltà della Cina

• usi e costumi della società cinese • l’ammirazione per un paese diverso

dalla Cina, libro I, cap. I Fin dall’inizio Bartoli sottolinea l’eccellenza e la bontà dei costumi del popolo cinese.

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Per que’ vari, e tanto giusti affetti1 di cristiana pietà, [spiace] il veder mancata a Dio, e alla sua Chiesa, per un sì lungo corso2 d’anni, e di secoli, una nazione tanto degna di lei, o se3 ne consideri la moltitudine4, numerosa forse più che tutta insieme l’Europa, o la qualità dello spirito: gente d’elevatissimo ingegno, e per coltura nel dimestico usare5, non che punto6 barbara, o disavvenente7, ma costumata, e gentile, anzi soverchio, che meno del convenevole8: vivente alle più savie9 leggi umane, che dettar si possan10 da uomini senza legge divina: e ciò non interrottamente11 in diverse età

1. affetti: sentimenti. 2. corso: periodo. 3. o se: sia che. 4. la moltitudine: il numero degli abitanti. 5. nel dimestico usare: nei rapporti familiari. 6. non che punto: non solo niente affatto. 7. disavvenente: sgradevole. 8. soverchio … convenevole: troppo, piut­ tosto che meno di quanto si conviene. 9. vivente … savie: che vive obbedendo alle più sagge.

10. dettar si possan: possano essere pro­ mulgate. 11. non interrottamente: senza interru­ zione.

Gian Domenico Tiepolo, La Passeggiata del Mandarino, XVIII secolo, affresco, Vicenza, Villa Valmarana.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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anch’ella diversa, ed or salvatica, or colta: ma sempre ugualmente disciplinata, e sotto il governo di Re e d’Imperadori, o Filosofi, o retti da Consiglieri filosofanti12: e n’è raccordo13 fin da tanti secoli addietro, che non so di verun’altra14 nazione, che ne conservi un tesoro, né di più antiche, né di più distinte, né di più continuate, e fedeli memorie, da gli annalisti del publico registrate15. Dispostissima poi a mettersi in via sul16 diritto, e seguire il giusto, e ’l vero, dietro al lume della ragion naturale: stata quivi17 in ogni età la maestra, de’ cui insegnamenti si leggono tuttavia18 scritture di valentissimi autori, che nella Cina fiorivano, prima che la Grecia desse maestri al mondo. E quanto si è alla19 professione e allo studio delle scienze, […] la Cina è veramente l’Imperio20 de’ letterati21: perché quivi essi soli comandano, e nel ben ordinato corpo22 di quella Monarchia, il capo in cui è il senno sta nel più eminente luogo, ed egli solo governa, non i piedi. Tanto ognuno ivi può, quanto sa: né altra nobiltà vi si pregia23, che quella dell’anima, e della mente, ch’è la parte di noi più divina: né con altro vi si comperan le dignità24, e i gradi dalle infime preminenze25 fino alle somme, che col valor dell’ingegno, e col merito del sapere: ond’è che26 in mano a ciascuno sta il farsi da sé medesimo la sua fortuna27: peroché sì providamente sono ordinate l’esaminazioni in pruova del merito28, che non riman luogo dove entrare a frammettersi i favori, per levare alto gl’indegni, o i disfavori, per attraversare il passo e chiudere la salita a’ degni29: così ciascun che vuole, tanto è sicuro d’avere, quanto si sa provar degno di meritare30.

12. filosofanti: con competenze filosofiche. 13. raccordo: ricordo. 14. verun’altra: nessun’altra. 15. da gli … registrate: documentate dagli storici (da coloro che registrano i fatti anno per anno) della cosa pubblica. 16. in via sul: sulla strada del. 17. stata quivi: che è stata qui (si riferisce alla ragion naturale). 18. tuttavia: ancora. 19. quanto si è alla: per quanto riguarda la. 20. l’Imperio: il dominio, il paese in cui comandano. 21. Letterati: sono i “mandarini”, funzionari

civili e militari dell’Impero cinese. 22. corpo: assetto; il corpo è elemento della metafora secondo cui a governare è il capo, che sta più in alto (nel più eminente luogo) per la sua saggezza (senno), e non i piedi (ossia coloro che stanno più in basso). 23. pregia: apprezza. 24. dignità: le cariche. 25. dalle infime preminenze: dai più bassi incarichi. 26. ond’è che: per questo. 27. il farsi … fortuna: riprende l’espressione latina secondo cui ognuno è artefice della propria fortuna (faber est suae quisque

fortunae). 28. peroché … merito: poiché così saggia­ mente (providamente) sono condotti gli esa­ mi per riconoscere (in pruova del) il merito. 29. non riman … degni: non resta nessuno spazio (luogo) dove sia possibile favorire (frammettersi i favori) qualcuno, innalzan­ do coloro che non sono degni, o sfavorirlo, per tagliare la strada (attraversare il passo) o impedire di salire (chiudere la salita) a chi ne è degno. 30. ciascun … meritare: chi vuole qualcosa è tanto sicuro di averla quanto sa dimostrarsi (si sa provar) degno di meritarla.

Analisi del testo Un ideale di perfezione terrena

I «Letterati» La moralità e le altre virtù

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> L’ammirazione per un paese lontano

Il rammarico che la Cina abbia ignorato per secoli l’insegnamento di Cristo, e sia rimasta lontana da quella che è per l’autore la vera religione, è giustificato dal fatto che questo enorme paese rappresenta per lui un ideale di perfezione terrena, sia per quanto riguarda il modo in cui è governata, sia per l’indole degli abitanti. Il reggimento di monarchi che adesso definiremmo “illuminati” ha fatto sì che la Cina sia stata «sempre ugualmente disciplinata», garantendo quell’ordine che, imposto dall’autorità, era fra le preoccupazioni più sentite dell’ideologia controriformistica; un’autorità, tuttavia, che – stando sempre alle intenzione dell’autore – viene esercitata umanamente dai funzionari, i «Letterati», che detengono il potere con saggezza filosofica e umanità. A questi valori si adegua il comportamento dei Cinesi, rispettosi dell’insegnamento dei maestri, tra cui Confucio, fonte di quella sapienza e di quei princìpi morali che, insieme con l’amore per lo «studio delle scienze», rappresentano l’eccellenza di quella popolazione, in cui non «altra nobiltà vi si pregia, che quella dell’anima, e della mente» (r. 22; di Confucio Bartoli si occuperà più avanti, considerandolo alla stregua di quei pagani che vissero santamente senza poter conoscere Cristo). Come si è detto,

Capitolo 3 · La trattatistica e la prosa storico-politica

La comprensione del “diverso”

l’autore non visitò mai la Cina ma la descrisse sulla scorta delle relazioni dei missionari; l’esaltazione di quel popolo, inoltre, era anche strumentale, in vista di un progetto di conversione che era il principale obiettivo perseguito dalla Compagnia di Gesù. È comunque interessante notare la piena comprensione di una realtà diversa da quella occidentale, mentre conservano un sapore di stretta attualità le considerazioni finali sul merito dei singoli, che solo dovrebbe consentire – diremmo oggi – di “fare carriera”, senza corruzione e favoritismi.

> Lo stile

Più che in altri luoghi della stessa opera, lo stile barocco dell’autore (quanto all’uso delle metafore e delle iperboli) è qui frenato dal carattere più concettuale che descrittivo della pagina, il cui contenuto, denso e complesso, è nettamente demarcato dalla fitta punteggiatura, che rende la frase articolata e scandita nei suoi brevi segmenti, con una struttura per così dire “labirintica”.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Quali sono le qualità per cui si distinguono gli abitanti della Cina, secondo quanto scrive Bartoli? > 2. Qual è il valore dei governanti della Cina? A quali categorie sono appartenuti? > 3. Perché ciascuno nel paese può essere artefice della sua fortuna? AnALizzAre

> 4.

Stile Quale figura rintracci nella descrizione generale del grado di civiltà riscontrato dall’autore all’interno della società cinese?

Approfondire e inTerpreTAre

> 5.

esporre oralmente Esponi oralmente (max 3 minuti) le finalità dell’opera l’Istoria della Compagnia di Gesù e le modalità di lavoro dell’autore Daniello Bartoli. pASSATo e preSenTe Un esempio di rispetto della diversità

> 6. Rifletti e discuti con i compagni e l’insegnante sull’atteggiamento di estrema apertura e rispetto mostrato

dal gesuita Daniello Bartoli verso una cultura e una civiltà assai diversa da quella occidentale e cattolica. Ritieni che tale forma di considerazione positiva possa costituire, oggi, un esempio di tolleranza verso le altre culture?

Il più antico mappamondo cinese nello stile delle mappe europee, fu stampato per la prima volta in Cina, nel 1602, dal gesuita missionario Matteo Ricci su richiesta dell’Imperatore Wanli.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

In sintesi

LA TrATTATiSTiCA e LA proSA SToriCo-poLiTiCA Verifica interattiva

Tra i prosatori del Seicento spiccano alcune figure che ne hanno rappresentato diverse concezioni e disposizioni ideologiche. Per quanto riguarda la comprensione della letteratura marinista, di fondamentale importanza è Il cannocchiale aristotelico del torinese Emanuele Tesauro, che fa della metafora uno strumento privilegiato di conoscenza, non solo sul piano delle poetiche letterarie, di cui è l’elemento costitutivo e fondante, ma in generale per quanto riguarda la particolare visione del mondo barocca. Mettendo in relazione cose lontane fra di loro, la metafora favorisce quello scambio fra illusione e realtà tipico di una particolare percezione del reale.

TorQUATo ACCeTTo Utile per rivelare un caratteristico aspetto della mentalità secentesca, e per intendere certi atteggiamenti psicologici, è il trattato Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto, autore meridionale di cui ci sono giunte scarse notizie. L’opera nasce dalla distinzione fra la «simulazione», che è la volgare menzogna, e la «dissimulazione», in cui si nasconde una verità che può risultare sgradevole e offensiva. Da un lato la dissimulazione può favorire l’ipocrisia, ma anche, dall’altro, difendere l’individuo dalle offese dei potenti.

pAoLo SArpi Difensore delle istituzioni repubblicane di Venezia e direttamente impegnato a combattere le pretese ecclesiastiche nei confronti dell’autonomia dello Stato, Paolo Sarpi prese parte ai contrasti con la Curia pontificia, raccogliendone gli scritti relativi nella Storia particolare dell’interdetto. Ai vertici della sua passione storiografica e a testimonianza del suo impegno politico, si colloca

l’Istoria del Concilio Tridentino, che, utilizzando in modo non sempre neutrale un’attenta ricerca delle fonti, ricostruisce la lunga vicenda di quella che lui stesso ha definito una sorta di «Iliade» dei suoi tempi, condannando quella “ragion di Stato” che, soprattutto da parte cattolica, avena anteposto gli interessi del potere a uno spirito evangelico volto a ristabilire la pace.

TrAiAno BoCCALini Nato a Loreto, Traiano Boccalini passò da Roma a Venezia, dove fu vicino alla battaglia politica di Paolo Sarpi. Animato da profondi sentimenti antispagnoli, la sua morte improvvisa lasciò adito al sospetto che la Spagna l’avesse fatto avvelenare. Critico nei confronti del potere politico e religioso, morì quando stava ultimando la revisione delle Osservazioni sopra Cornelio Tacito. Nel 161213 uscirono le due “centurie” dei Ragguagli di Parnaso, specie di bollettini giornalistici che si immaginano affissi sul monte sacro alle Muse. L’opera, che rese immediatamente noto il nome dell’autore, contiene una satirica e corrosiva rappresentazione del costume politico e culturale del tempo, smascherandone ipocrisie e pregiudizi.

dAnieLLo BArToLi Appartenente all’Ordine dei gesuiti, Daniello Bartoli è autore di numerose opere di carattere religioso e morale. Ma soprattutto ebbe dai superiori, che gli impedirono di farsi missionario, l’incarico di diventare storiografo della Compagnia di Gesù. Dell’impegno restano alcuni volumi a carattere storico-geografico, messi insieme utilizzando relazioni e testimonianze di vario genere. Particolarmente interessanti quelli dedicati ai paesi asiatici, che, all’interesse per gli usi e i costumi, accompagnano descrizioni ricercate e brillanti.

facciamo il punto 1. Quale funzione assume, per Torquato Accetto, la «dissimulazione» nella società del Seicento? 2. Quali sono gli eventi salienti della vita di Paolo Sarpi? 3. Individua quali sono le principali tesi espresse nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi. 4. Perché i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini si possono definire una satirica rappresentazione

della politica e della cultura secentesca? 5. Quali caratteristiche presenta l’Istoria della Compagnia di Gesù di Daniello Bartoli?

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Capitolo 4

La letteratura drammatica europea

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A1

Il secolo del teatro Il Seicento si può considerare il secolo per eccellenza del teatro europeo, per i capolavori che fioriscono in Spagna (in particolare con l’opera di Pedro Calderón de la Barca), in Francia (con Racine, Corneille e Molière) e soprattutto in Inghilterra, dove, nel contesto del “teatro elisabettiano”, si impongono i drammi di Shakespeare. Abbiamo visto come il teatro italiano abbia risposto a questa supremazia europea con la nascita del melodramma, destinato poi ad avere una straordinaria risonanza, mentre un’importanza decisamente minore assume, in Italia, il teatro tragico che, nonostante la presenza di autori interessanti, come Federico Della Valle, non ha i mezzi per competere con il resto d’Europa. Anche la commedia soffre una cronica mancanza di idee e di respiro, e si risolve perlopiù nella ripresa di modelli cinquecenteschi. La scena è ancora dominata dalla Commedia dell’Arte ( Il contesto, p. 25): un teatro di forte improvvisazione, di origine anch’esso cinquecentesca, che vede alternarsi attori a mimi e comici che attingono a piene mani al folclore delle tradizioni carnevalesche e popolari. 

Il teatro in Italia Fedele agli schemi tradizionali del teatro tragico resta, in Italia, l’Aristodemo di Carlo de’ Dottori, pervaso da un senso inesorabile della morte, che copre, con la sua grandiosità, lo scorrere del tempo e la fragilità delle cose. Un posto a sé occupano le tragedie di Federico Della Valle ( A1), in cui è da riconoscere il migliore autore teatrale italiano del Seicento. La sua attività si svolge appartata, lontana dalle polemiche del tempo e dall’ossequio troppo vincolante a criteri di poetica. La sua attenzione si sofferma sugli affetti dolenti della vita, sulla sofferenza dei vinti a cui si contrappone l’esultanza dei vincitori. Animate da un intimo sentimento religioso sono le tragedie di argomento biblico Iudith ed Esther; ambientata in età contemporanea, La reina di Scotia, si riferisce invece alla condanna a morte di Maria Stuarda mandata al patibolo da Elisabetta d’Inghilterra.

Federico Della Valle La vita Poche le notizie certe che ci sono giunte della vita di Della Valle. Nato nell’asti-

giano intorno al 1560, dal 1587 visse a Torino alla corte della duchessa Caterina, moglie di Carlo Emanuele I di Savoia, facendo rappresentare nel 1595 la tragicommedia di argomento mitico Adelonda in Frigia. Dopo la morte della duchessa (1597), compì nei primi anni del Seicento un viaggio in Spagna e si stabilì poi a Milano, dove la sua presenza è registrata dal 1621 al servizio del governatore spagnolo. A Milano morì intorno al 1628-29.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Se si eccettuano rime d’occasione e prose di argomento politico, la sua attività letteraria si riduce a tre tragedie, che non vennero mai rappresentate e di cui si erano perse le tracce, sino a quando furono fatte conoscere da Benedetto Croce, nel 1929. Delle due tragedie di argomento biblico, pubblicate nel 1627, Iudith è incentrata sulla storia di Giuditta che uccise Oloferne per salvare gli ebrei, mentre Esther ha come protagonista la sposa ebraica del re assiro Assuero, che riesce a difendere il suo popolo dallo sterminio, contrastando i disegni del primo ministro Aman. Ma soprattutto è da ricordare La reina di Scotia (1628, T1), che fa di Della Valle il più importante autore della letteratura drammatica italiana del XVII secolo. La tragedia è di argomento storico e mette in scena un episodio che poteva essere considerato ancora di bruciante attualità: la fine della regina Maria Stuarda, cattolica, fatta imprigionare e poi giustiziare, nel 1587, dalla regina d’Inghilterra Elisabetta I, capo della Chiesa anglicana. Una profonda sensibilità religiosa va oltre le contingenti ragioni polemiche dell’ideologia controriformistica per toccare, a partire dai conflitti fra i sentimenti e la “ragion di Stato”, i nodi più problematici di una condizione umana fragile e indifesa, costantemente minacciata dalla sofferenza e dal dolore. Povere di azione, che risulta pressoché inesistente, queste tragedie insistono soprattutto sullo scavo psicologico e sulle altalenanti vicende delle ripercussioni interiori, mentre gli effetti drammatici sono affidati al contrasto tra le esigenze pratiche e i bisogni spirituali, tra le speranze e le delusioni, tra le lusinghe dei beni mondani e l’attesa della felicità eterna. Le opere

Iudith ed Esther

La reina di Scotia

T1

Federico Della Valle

Temi chiave

Il «volubil giro de le cose mortali»

• l’imprevedibilità del destino • la precarietà della condizione umana

da La reina di Scotia, atto I, scena I Invano, nel passo che segue, la cameriera cerca di offrire alla regina Maria Stuarda motivi di speranza e di consolazione. reina

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1. volubil giro: alterne vicende. 2. si caggia o si ruine: si cada o si precipiti. 3. meschine: misere. 4. rimiri: guardi. 5. già reina … scettri: regina (reina) di due regni; la corona e lo scettro sono i simboli, l’“ornamento” del potere regale; chiare: illu-

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Se pur è alcun, che nel volubil giro1 de le cose mortali cerchi come si caggia o si ruine2 da nubi di fortuna alte e felici a dolorosi abissi di sorti infelicissime, meschine3, senta me che ragiono, e me rimiri4. Rimiri me, che già reina adorna di due chiare corone e di due scettri5, che resser ad un tempo6 Franchi e Scoti7, figlia di re, moglie di re possente, discesa per lungo ordine da regi8, e di re madre ancora9, stri, famose. 6. che resser ad un tempo: che governarono contemporaneamente. 7. Franchi e Scoti: Maria Stuarda, figlia di Giacomo V Stuart, era stata regina di Scozia e, in quanto moglie di Francesco II, regina di Francia.

8. discesa … regi: discendente lungo numerose generazioni (per lungo ordine) da sovrani (regi). 9. di re … ancora: era inoltre madre del successore al trono di Scozia e futuro re d’Inghilterra Giacomo I.

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

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10. anguste: strette (le mura indicanti per metonimia la cella). 11. voglia: volontà, arbitrio. 12. impero real: comando regale. 13. mi rimembra: mi viene in mente, mi ricordo. 14. di quel … vita: di quell’aria libera che la natura concede per alimentare tutto ciò che vive; perifrasi per indicare la libertà. 15. vario costume: vari modi. 16. volve … mano: una potente mano nascosta (il misterioso potere di Dio) fa girare, e

or chiusa in mura anguste10, or prigioniera, legata a l’altrui forza, a l’altrui voglia11, priva, non dirò già di maestade o d’impero real12, ché di ciò ’l nome a pena mi rimembra13, misera, ma priva anco di quel che dà natura aere sereno a nodrir quanto ha vita14, passo le notti e i dì fra i rischi e i danni e di morte e di vita. Ma s’è pur ver che con incerta norma e con vario costume15, or doloroso, or lieto, volve lo stato umano possente ascosa mano16, com’esser può che dopo ’l lungo corso di vent’anni infelici17 al fin non giunga, o non si muti almeno, la miseria o la vita? E pur non posso, se ben rincorro18 le sciagure e i mali, a tormentar avezzi19 i miseri mortali, non posso ritrovar quel che più manchi al colmo20 del mio affanno, al sommo del mio danno: reina prigioniera, vedova sconsolata, abbandonata madre d’inutil figlio21, signora di rubella infida gente22, donna senza consiglio23, povera, inferma ed in età cadente. Poss’io più dir, o può formar la vita altre nuove sciagure? O non ha luogo, lassa, ove le impieghi; se non in me sola?24 Sola, e tutto al tormento; nulla, hai, nulla al contento25! Deh, come oscuro e crudo26 rotasti, o sol, quel dì che l’empio lido, empio lido e spergiura infame arena quindi muta, le sorti degli uomini. 17. vent’anni infelici: gli anni della prigionia, dal 1568 al 1587. 18. rincorro: ripercorro con la mente, ricordo. 19. a tormentar avvezzi: che abitualmente tormentano. 20. non posso … al colmo: non riesco a individuare il male (quel) che ancora manca per raggiungere il culmine (al colmo). 21. inutil figlio: nota 9. 22. rubella infida gente: un popolo inaffidabile e ribelle (gli Scozzesi, guidati dal calvi-

nista John Knox, che si erano ribellati a Maria Stuarda costringendola a fuggire). 23. senza consiglio: priva di possibilità di decidere. 24. non ha … sola?: o non c’è un luogo, me infelice (lassa), dove (il soggetto è la vita) possa collocarle (le sciagure), se non in me solamente? 25. tutto … contento: tutto (è destinato) a tormentarmi, nulla, ahimè, a procurarmi gioia. 26. crudo: crudele.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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d’Inghilterra, toccò l’infausto piede27, che me portò con nome di reina coronata, onorata, e con destin di serva28 rapita, catenata! […] Ahi ria29 sorte, ahi sventura, ahi affanno, ahi dolore, come non spezzi il core? cameriera

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[…] Giransi i tempi, e raggirando, seco s’aggiran30 nuove sorti, e quel che sembra impossibil un dì, ne l’altro fassi31. Continui preghi32 e umil sofferenza al Ciel fan violenza33: così dice e promette santa voce fedel34; e tu molt’anni sofferenze, pieghevole e dimessa35 sotto ’l peso fatal sostieni36 e preghi. Manchin37 l’armi a la terra, e manchi ’l dritto38 e la pietà qui fra le menti umane39: mancherà forse a le celesti menti la fede a le promesse?40 Segue a questo41 che l’aspra tua nemica offre condizioni, onde42 tu possa liberarti, se vuoi; che se son dure e le ricusi tu, vagliano43 almeno per speranza di ben fra tanti mali: di nulla si disperi, chi aver può cosa, in cui refugio speri44. Oltreché45, t’assicura ella la vita con le lettere sue, come vedesti pochi dì son46, né consentir promette che la real persona tua s’offenda fuorché di prigionia47. La qual è ingiusta, né già si può negar, è acerba e grave: ma che? Luogo48 non resta né a forza, né ad inganno? Resti dunque

27. quel dì … piede: quel giorno in cui posi piede (infausto, malaugurato) sulle coste inglesi, indicate qui con la spiaggia, lido (empio perché l’Inghilterra è sacrilega, essendosi staccata dalla Chiesa di Roma) e la sabbia, arena (spergiura e infame perché Maria Stuarda venne tradita da Elisabetta, che la fece imprigionare). 28. con destin di serva: destinata a essere imprigionata, come una schiava. 29. ria: malvagia, crudele. 30. Giransi … s’aggiran: volgono, si trasformano i tempi e, trasformandosi, con loro (seco) si trasformano.

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31. fassi: si fa, si compie. 32. preghi: preghiere. 33. al Ciel fan violenza: nel senso che spingono Dio a concedere una grazia. 34. santa voce fedel: la voce di Cristo, che nel Vangelo dice: “Chiedete e vi sarà dato” (Luca, 11. 1-13). 35. pieghevole e dimessa: arrendevole e umile. 36. sostieni: sopporti. 37. Manchin: supponiamo che manchino. 38. ’l dritto: il diritto, la giustizia. 39. fra le menti umane: fra gli uomini. 40. mancherà … promesse?: verrà forse

Maria regina di Scozia, XVI secolo, olio su tavola, Falkland, Fife (UK) Falkland Palace.

meno nelle celesti menti, nei disegni della divina provvidenza, la fedeltà alle promesse fatte? 41. Segue a questo: ne consegue, potrà accadere. 42. onde: grazie alle quali. 43. vagliano: possano valere, servire. 44. chi aver … speri: chi può ottenere qualcosa per cui sperare un aiuto. 45. Oltreché: inoltre. 46. pochi dì son: pochi giorni fa. 47. s’offenda … prigionia: venga oltraggiata, colpita da una pena diversa da quella della prigionia. 48. Luogo: spazio.

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

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a sofferenza, a speme49, e se si niega la libertade al corpo, non si tolga a l’alma l’aspettarla50. Il dritto e ’l vero mai non rimaser vinti, ed è vittoria bellissima, che ben ristora51 i danni con fregi alti di gloria, quella che sorge e nasce dai campi degli affanni52. reina

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49. a speme: a speranza (sottinteso il precedente luogo). 50. si tolga … aspettarla: non si impedisca all’anima di aspettarla. 51. ristora: risarcisce, ricompensa.

Mia vittoria sarà la sepoltura! Ivi alzerò il trofeo de l’altrui crudeltade e del mio danno con poca terra oscura. E tu, ch’or mossa da fedele affetto, gradito e caro inver, ma inutil forse, argomenti53 e discorri e ragion cerchi54 dal variar de le mondane cose, da le promesse altrui, dai merti miei e dal dritto e dal ver non vinto mai55, forse altro pensi e altro parli56. 52. dai campi degli affanni: dai luoghi delle sofferenze. 53. argomenti: discuti. 54. ragion cerchi: cerchi di ricavare le prove. 55. dal dritto … vinto mai: dalla giustizia e

dalla verità non possono mai essere sconfitti (è detto con amara ironia). 56. altro parli: dici cose diverse da ciò che pensi.

Analisi del testo Le vicissitudini della fortuna

Le antitesi

La precarietà della condizione umana

Maria Stuarda, in carcere, medita sulla sua sorte, mostrando una sfiducia che la cameriera cerca di alleviare, suggerendo eventuali quanto vane ipotesi di speranza. La riflessione riguarda le alterne vicissitudini della fortuna, che può mutare a suo piacimento il destino degli uomini, innalzandoli nella loro condizione e poi cancellandone i privilegi. È un motivo che, mentre risale al passato, si ritroverà ancora in Alessandro Manzoni (il quale, peraltro, non poteva conoscere l’opera di Della Valle), in testi famosi, come l’ode Il cinque maggio, dedicata alla morte di Napoleone, e il coro dell’atto IV della tragedia Adelchi, sulla fine di Ermengarda. La raffigurazione del conflitto resta formalmente affidata alle antitesi su cui sono strutturate le parole di Maria Stuarda, a partire dalla rovinosa caduta «da nubi di fortuna alte e felici / a dolorosi abissi / di sorti infelicissime, meschine» (vv. 82-84). Il mutamento della condizione da «reina coronata» a «serva» e «prigioniera», che si esprime anche attraverso l’opposizione tra luce e buio, tra spazi aperti e spazi ristretti, si fa segno di un conflitto psicologico che, escludendo la protagonista dalla libera vita della natura («priva anco / di quel che dà natura aere sereno / a nodrir quanto ha vita», vv. 97-99), assume un più ampio significato esistenziale, di solitudine e di estraneità. Al tempo stesso sottolinea il motivo, tipicamente barocco, della precarietà della condizione umana, di una mutevolezza a cui sembrano mancare dei punti di riferimento stabili e sicuri. Non a caso Della Valle insiste sul mistero della creazione, in cui «volve lo stato umano / possente ascosa mano» (vv. 105-106). Dal «volubil giro / de le cose mortali» (vv. 79-80), con le sue sofferenze e le sue crudeltà, la sola via d’uscita è quindi rappresentata dalla morte: «Mia vittoria sarà la sepoltura! / Ivi alzerò il trofeo / de l’altrui crudeltade e del mio danno / con poca terra oscura» (vv. 256-259). 127

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Esercitare le competenze ComprenDere

> 1. Proponi una sintetica versione in prosa dei discorsi della «Reina» e della «Cameriera». AnALIzzAre

> 2. Compaiono nel passo riferimenti alla figura di Elisabetta I? Se sì, individuali e commentali. > 3. Stile Individua nel testo le figure di ripetizione (prestando particolare attenzione all’anadiplosi) e spiegane l’efficacia sul piano espressivo e in relazione al contenuto. > 4. Lessico Con quali vocaboli e/o espressioni la «Reina» definisce se stessa? > 5. Lessico Che cosa intendono la «Cameriera» e la «Reina» con il «dritto» e il «ver(o)» (vv. 250 e 265)? ApproFonDIre e InTerpreTAre

> 6.

Scrivere In un testo di circa 20 righe (1000 caratteri) delinea, in base al testo, le caratteristiche del personaggio della Cameriera, erede di una secolare tradizione – risalente alla letteratura greca – in cui umili figure appartenenti al contesto domestico e familiare divengono interlocutrici dei protagonisti: è realistico o idealizzato? Risponde a precisi intenti dell’autore? Assolve a particolari esigenze drammaturgiche?

SCrITTurA CreATIVA

> 7. Prendendo spunto dal passo analizzato, immagina che ad intervenire nel colloquio fra i due personaggi fem-

minili sia proprio Elisabetta I, forte sia della sua posizione di sovrana e di capo della Chiesa anglicana, sia delle sue decisioni improntate alla ragion di Stato: elabora il suo discorso, indirizzato a Maria Stuarda, dopo aver anche delineato opportunamente il contesto storico di riferimento. Non superare le 40 righe (2000 caratteri).

3 Testi Tirso de Molina • La spavalderia di Don Juan sbeffeggia le convenzioni sociali e morali • La seduzione di Aminta da Il seduttore di Siviglia e convitato di pietra

Calderón de la Barca

A2

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Il teatro in Spagna Nel cosiddetto Siglo de oro spagnolo, insieme con la fortuna incontrata dalla lirica barocca di Góngora e di Quevedo, si assiste alla fioritura di una letteratura drammatica che annovera, tra i più noti e apprezzati esponenti Lope de Vega (1562-1635), autore che si è cimentato in tutti i generi letterari (escluso il romanzo) e che ha scritto numerosissime commedie, caratterizzate da una mescolanza degli stili e da una grande varietà inventiva. Le sue orme sono state seguite da Tirso de Molina (1579-1648), la cui notorietà è attribuita soprattutto, nell’opera El burlador de Se villa (“L’ingannatore di Siviglia”) alla creazione della figura di Don Giovanni, ripresa in celebri opere teatrali (Molière, A4, p. 137 e musicali (Mozart, Il Don Giovanni, p. 145). Il problema dell’interiorità e un’attenzione rivolta alla precarietà della condizione umana riguardano invece l’opera di Pedro Calderón de la Barca ( A2), il cui testo più importante, La vita è sogno, traduce il motivo barocco dell’illusorietà del reale nelle sue implicazioni e ripercussioni esistenziali, rivelando il carattere effimero delle ambizioni umane.

pedro Calderón de la Barca Nato nel 1600 a Madrid da un funzionario imperiale, frequentò le scuole dei gesuiti e seguì gli studi universitari ad Alcalà e a Salamanca. Dopo aver rappresentato a corte la sua prima commedia nel 1623, andò a combattere, sino al 1625, in Italia e nelle Fiandre (un’altra parentesi di vita militare avverrà nel 1640-41). Tornato a Madrid nel 1626, si dedicò all’attività teatrale, componendo oltre cento commedie e un’ottantina di autos sacramentales, drammi religiosi in un solo atto dedicati ai sacramenti. Entrato nell’Ordine francescano nel 1650, l’anno dopo venne ordinato sacerdote, divenendo nel 1663 cappellano onorario del re di Spagna; a corte visse dal 1679 fino alla morte, avvenuta nel 1681.

La vita

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea L’ispirazione morale e religiosa

La vita è sogno



Testi Calderón de la Barca L’illusorietà del reale e la realtà del sogno da La vita è sogno

T2

Le opere I suoi testi, che utilizzano i consueti meccanismi del travestimento e dello scambio di persona, sono sottoposti a una costante ispirazione morale e religiosa, espressa nell’antitesi fra il bene e il male che contraddistingue il comportamento dei personaggi. La difesa della fede, che riporta le azioni degli individui a un prospettiva provvidenziale e a un giudizio superiore, sottolinea la fragilità della condizione umana di fronte all’eternità. Di qui deriva non solo l’idea di un’esistenza sottoposta a insidie e pericoli, a cui occorre reagire esercitando una forte volontà per conquistare la virtù, ma il carattere illusorio delle attese e delle speranze mondane. La realtà stessa allora, in linea con una concezione tipica dell’immaginario barocco, appare frutto di una costruzione fantastica e quasi irreale, come accade nella commedia più nota di Calderón de la Barca, La vita è sogno ( T2), dove il protagonista giunge a confondersi e a dubitare della sua stessa identità, per quanto riguarda il significato del suo essere nel mondo. Si tratta di quel «gran teatro del mondo» di cui si legge in questa commedia (è il protagonista a parlare esplicitamente di una «vasta piazza del gran teatro del mondo») e che dà il titolo, El gran teatro del mundo (1636); a uno degli autos sacramentales, in cui l’avvicendarsi dei personaggi, che rappresentano antitetici aspetti dei caratteri e dei ruoli sociali, sta a indicare la fugacità delle esperienze umane, il loro andamento mutevole e transitorio.

pedro Calderón de la Barca

Temi chiave

La realtà e il sogno

• il rapporto tra finzione e realtà • la fragilità dell’esistenza

da La vita è sogno, atto II, scena XIX, e atto III, scena III In questi due monologhi il protagonista, Sigismondo, si sofferma sul problema del rapporto fra l’illusione e la realtà.

Atto II, scena XIX sigismondo

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È vero. Reprimiamo dunque questa fiera inclinazione, questa furia, quest’ambizione, perché forse stiamo sognando. Faremo così, se viviamo in un mondo tanto singolare che il vivere non è che sognare. L’esperienza mi ha insegnato che l’uomo che vive sogna di essere quel che è, fino a quando si desta. Il re sogna d’esser re, e così ingannato vive comandando, disponendo e governando; e l’applauso che riceve in prestito lo scrive nel vento, e la morte lo muta in cenere. Sventura immensa! È possibile che ci sia chi cerca di regnare, se sa che poi dovrà ridestarsi nel sonno

L’opera

La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca Il re di Polonia, Basilio, crede nella profezia secondo cui il figlio, Sigismondo, lo priverà del regno; lo rinchiude quindi in una torre, affidandone la sorveglianza al servo Clotaldo. Ma quando il figlio è ormai cresciuto, separato da tutto e da tutti, decide di offrirgli una possibilità. Lo fa addormentare e trasportare a corte, dove gli viene raccontata la verità della sua condizione. Rozzo e incolto, Sigismondo si mostra però arrogante e violento, al punto che il re decide di farlo ricondurre, addormentato, nella torre dove era cresciuto. Risvegliatosi, Sigismondo crede di aver sognato, ma, siccome il sogno sembrava vero, così anche la realtà

può essere considerata un’illusione, un sogno, da cui ci si sveglia, paradossalmente, con la morte, mentre dell’uomo resta solo il ricordo del bene compiuto. Di qui deriva la maturazione del giovane, che il padre, dopo aver abdicato, esclude dalla successione, fino a quando «una rivolta popolare lo insedia di nuovo a Corte e gli restituisce, dopo la vittoria sul re Basilio e le sue truppe, il titolo e il regno che legittimamente gli competono. Ma l’esperienza […] ha reso Sigismondo pensoso e saggio: per cui ora perdona il padre, che prima voleva umiliare, e, con il potere riacquistato, restaura pace e giustizia» (Puccini).

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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della morte? Il ricco sogna le sue ricchezze che gli procurano affanni; il povero sogna di soffrire la sua miserabile povertà; sogna chi comincia a prosperare1; sogna chi s’affanna a correr dietro agli onori; sogna chi insulta e offende. In conclusione, tutti nel mondo sognano di essere quel che sono, anche se nessuno se ne rende conto. Io sogno d’essere qui, oppresso da queste catene, e ho sognato che mi vedevo in altra condizione, ben più lusinghiera. Che è la vita? Una frenesia. Che è la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione. E il più grande dei beni è poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni. Atto III, scena III sigismondo

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Che mi succede, cielo? Vuoi che sogni un’altra volta grandezze che il tempo dissiperà? Vuoi che di nuovo, tra ombre e immagini incerte, io veda la maestà e la pompa2 dissolversi nel vento? Vuoi che ancora una volta assapori la delusione o che affronti il rischio di fronte al quale l’umano potere è chino come un servo, per tutta la vita? Ebbene no. Non voglio vedermi un’altra volta soggetto alla3 fortuna. So che tutta questa vita è sogno: dunque andate via, ombre che fingete oggi dinanzi ai miei sensi morti un corpo e una voce, mentre la verità è che non avete né voce né corpo. Non voglio maestà finte, non desidero fantastiche illusioni che al più lieve soffio del vento si dissolvono, come fa il mandorlo, i cui fiori, quando spuntano troppo presto senza aspettare né prender consiglio, si spengono al primo soffio guastando e appassendo4 la bellezza, la luce e l’ornamento delle rosee corolle. Vi conosco, vi conosco; e so che questo accade a chiunque s’addormenta. Non ci sono più finzioni, per me. Ho aperto gli occhi e so bene che la vita è sogno. P. Calderón de la Barca, La vita è sogno, a cura di C. Acutis, trad. it. di A. Gasparetti, Einaudi, Torino 1980

1. a prosperare: ad arricchirsi. 2. la maestà e la pompa: la gloria e lo sfarzo. 3. soggetto alla: in balìa della. 4. appassendo: lasciando appassire.

Johann Baptist Gump, Autoritratto, XVII secolo, olio su tela, Firenze, Galleria degli Uffizi.

Analisi del testo

> Lo scambio tra illusione e realtà

Il motivo della finzione

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I due monologhi proposti, attribuiti a Sigismondo, rappresentano gli indugi di una riflessione che, partendo dal motivo tipicamente barocco dello scambio tra illusione e realtà, assumono un significato e un valore esistenziale. C’è, intanto, l’idea pessimistica di un mondo “triste” e squallido, visto come una sorta di deserto inabitabile, che si può accettare sola a condizione di “trasformarlo” attraverso il «sogno». Da un lato il testo sembra giustificare le ragioni della finzione e dell’inganno, se è vero che «viviamo in un mondo tanto singolare che il vivere non è che sognare» (rr. 2-3; è qui presente, se si vuole, il motivo della “meraviglia”, visto però negativamente, con l’insistenza sul carattere ingannevole delle apparenze).

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea Il carattere effimero della realtà

Il «sonno della morte»

Ma resta la convinzione che si tratta di uno sforzo illusorio, che questa realtà è effimera e precaria, così come mutevole e oscillante è l’atteggiamento nei suoi confronti, per un’indecisione divisa fra la gioia e il dolore, i successi e le sconfitte, le speranze e le disillusioni. È la denuncia della fragilità e precarietà dell’esistenza, dove solo il «sogno» consente di vivere, fino a coincidere con la realtà della stessa vita, vista come un “delirio”, come «illusione»: «Un’illusione, un’ombra, una finzione. E il più grande dei beni è poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni» (rr. 13-15). Profondamente radicati nella realtà, la finzione e l’inganno (o meglio l’autoinganno) diventano la condizione fondamentale della vita, ma ne sono anche la negazione, dal momento che ciò che sembra reale non è altro che apparenza, sotto la quale si insinua, come unica certezza, anch’essa impalpabile ma definitiva, il «sonno della morte», a ribadire la convinzione del carattere inautentico e, in ultima analisi, assurdo dell’esistenza.

Esercitare le competenze ComprenDere

> 1. Individua all’interno del primo monologo una frase in grado di costituirne la sintesi. > 2. Quali sono le forme di “sogno” elencate come esempio, nel primo monologo? > 3. Che cosa ha scoperto sul senso della vita il protagonista, così come emerge dal secondo monologo? A quali conclusioni lo conduce tale scoperta?

AnALIzzAre

> 4.

Lessico

Quale campo semantico prevale nel lessico di entrambi i brani?

ApproFonDIre e InTerpreTAre

> 5.

Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) spiega quali valori Calderón de la Barca, all’interno della sua concezione poetica ed esistenziale, contrappone al carattere effimero e inautentico della vita.

4 Corneille

Racine e la contesa con Corneille

Il teatro in Francia La storia del teatro francese del XVII secolo è segnata dalla rivalità che divise fra loro Pierre Corneille (1606-84) e Jean Racine ( A3, p. 132). Entrambi si cimentarono anche nella commedia, che resta però un’attività minore, non in grado di reggere il confronto con la fama raggiunta da Molière. La loro importanza è legata alle tragedie, che li videro impegnati in un’accanita contesa, sostenuti da due veri e propri “partiti” di ammiratori. Dopo l’accoglienza piuttosto fredda che ottenne la sua prima tragedia, Medea (1635), Corneille raggiunse la fama l’anno dopo con Il Cid (ambientato nel leggendario Medioevo spagnolo), a cui seguirono altre opere fondamentali come Orazio (1640), Cinna (1641), Poliuto (1642) e La morte di Pompeo (1643), prima che inizi una decadenza conclusasi con il silenzio degli ultimi anni. Il successo del più anziano Corneille venne offuscato da quello di Racine a partire dalla fama raggiunta da quest’ultimo con il suo primo capolavoro, Andromaca (1667), a cui seguì, nel 1669, Britannico, scritto con l’intenzione di offuscare la fama del rivale. La rappresentazione di due tragedie dal soggetto analogo, Berenice di Racine e Tito e Berenice di Corneille, andate in scena entrambe nel 1670, fece pendere definitivamente la bilancia a favore del primo, che confermò la sua supremazia con Mitridate (1673) e Fedra (1677), sempre costruite seguendo le regole dei modelli classici. Ma, al di là di queste vicende, il confronto tra i due autori andrà riportato alla diversa concezione dell’individuo che 131

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Le commedie di Molière

A3

Il successo delle tragedie

Fedra

La crisi religiosa

132

informa le rispettive opere: se Corneille esalta il libero arbitrio, mettendo in primo piano la volontà dell’eroe, che non arretra di fronte agli ostacoli, Racine, al contrario, ritiene impossibile resistere alla forza travolgente delle passioni, rivelando un sostanziale pessimismo sulla libertà della natura umana. Ampia notorietà, fino ai nostri giorni, ha meritato il teatro comico di Molière ( A4, p. 137), che, riprendendo in chiave moderna i personaggi tradizionali e le situazioni tipiche della commedia classica e rinascimentale, ha condotto, in opere come L’avaro o il Don Giovanni, Tartufo o Il malato immaginario, una sottile operazione demistificante nei confronti dell’ipocrisia e delle presunzioni umane, smascherando i falsi moralismi e rivelando i pericoli che si nascondono sotto l’inganno delle parole.

Jean racine Nato nel 1639 a La Ferté-Milon in una famiglia di modeste condizioni e rimasto presto orfano dei genitori, fu educato alla scuola del convento giansenista di Port-Royal, dove maturò una approfondita conoscenza della cultura classica. Ma soprattutto risentì l’influenza della disciplina religiosa professata dal giansenismo, corrente religiosa del XVII secolo che sosteneva il rigorismo di una religione tutta interiore e austera, lontana dalle espressioni esteriori del culto e dalla morale più permissiva praticata dai gesuiti. Gli anni della formazione

Pur essendosene temporaneamente allontanato al tempo delle prime fortune teatrali, queste convinzioni hanno condizionato l’esperienza di Racine, a partire dal suo esordio parigino con La Tebaide o i fratelli nemici (1664), con cui divenne l’astro nascente della scena francese, che avrebbe ben presto conteso e alla fine offuscato la fama già raggiunta dal suo rivale, Pierre Corneille (1606-84). Grande successo ottennero anche le tragedie successive: Andromaca (1667), Britannico (1669), Berenice (1670), Mitridate (1673) e Ifigenia (1674), con cui Racine consolidò la propria supremazia, ottenendo anche i favori della corte. Ma il punto più alto della sua arte è quello toccato dalla Fedra (1677, T3, p. 133), in cui l’insana passione della protagonista per il figliastro Ippolito travolge ogni sforzo di resistenza tentato dalla morale e dal dovere, lasciandola completamente in balia della forza irresistibile degli istinti. Riprendendo un soggetto già trattato da Euripide e da Seneca, Racine ne forniva una versione complessa, facendo dell’eroina una creatura ambiguamente oscillante fra il desiderio del bene e la volontà del male. In questo modo dava corpo e sostanza espressiva alle pulsioni oscure e irrazionali che si nascondono nei recessi profondi della natura umana; pulsioni che sfuggono al controllo della ragione e che solo il limpido stile dell’autore riesce a disciplinare, nell’impianto formale rigorosamente precostituito dalle classiche unità di tempo, di luogo e di azione. In seguito Racine attraversò una crisi religiosa, che lo riportò alla rigorosa professione di fede della sua giovinezza, abbandonata per i giudizi negativi che i giansenisti avevano espresso sull’attività teatrale, da loro ritenuta fomentatrice delle passioni. Condividendo adesso queste critiche, si staccò dal teatro e prese moglie, dedicandosi all’educazione dei sette figli. Su richiesta di un’influente ammiratrice, Madame de Maintenon, scriverà ancora, a scopo di edificazione per le educande di un convento, due tragedie di argomento biblico, Esther (1689) e Atalia (1691), da cui è rigorosamente esclusa ogni passione amorosa. Nominato storiografo di corte, pose mano a un Compendio della storia di Port Royal, che lo occupò dal 1693, e difese il convento dei giansenisti, dove volle essere sepolto (1699), dagli attacchi degli avversari. Le opere e gli ultimi anni

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

T3

Jean racine

Temi chiave

Il peccato inconfessabile

• la ripresa del mito • il contrasto tra passione e dovere

da Fedra, atto I, scena III Fedra confessa alla nutrice, Enone, l’insana passione per il figliastro Ippolito. enone

245

Per tutte le mie lacrime, per le vostre ginocchia tremanti a cui m’aggrappo, toglietemi, signora, questo dubbio funesto1. fedra

Sei tu a volerlo. Alzati. enone

Vi ascolto. fedra

Cielo! che dirle? e come cominciare? enone

Basta, vi prego, offendermi con assurdi timori. fedra

250

O corruccio2 di Venere! o collera fatale! In quali errori si smarrì mia madre3 per amore… enone

Scordiamoli, signora; che un eterno silenzio li nasconda. fedra

E tu Arianna4, sorella, abbandonata sui lidi dove a morte ti feriva l’amore… enone

255

Ma che fate, signora? quale tedio5 mortale vi prende adesso contro il vostro sangue6?

1. funesto: tragico, fatale. 2. corruccio: sdegno, risentimento. 3. mia madre: Pasifae, che, accoppiandosi con un toro, generò il Minotauro.

4. Arianna: figlia di Pasifae e quindi sorella di Fedra, innamorata di Teseo che, dopo aver ucciso il Minotauro, era uscito dal Labirinto grazie al filo che la giovane gli aveva dato; si

uccise dopo essere stata abbandonata da Teseo sulla spiaggia dell’isola di Nasso. 5. tedio: disgusto. 6. sangue: famiglia.

L’opera

Fedra di Jean Racine Seconda moglie di Teseo, Fedra è consumata da un male misterioso, di cui confessa la causa alla nutrice Enone: la passione per il figliastro Ippolito. Diffusasi la notizia della falsa morte di Teseo, Fedra rivela il suo amore a Ippolito, che sdegnato la respinge. Ma Teseo ritorna ed Enone, per difendere Fedra, accusa della colpa Ippolito, che il padre maledice e scaccia. Il giovane si innamora della principes-

sa Aricia e la matrigna è presa da una violenta crisi di gelosia. Aricia insinua il dubbio dell’innocenza del figlio a Teseo, il quale viene a sapere che Enone si è gettata nel mare e Fedra vuole morire. Invano Teseo spera che venga annullata la maledizione scagliata contro Ippolito, che muore travolto dai cavalli atterriti da un mostro marino. Dopo aver confessato la verità, Fedra si uccide.

133

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

fedra

Di quel misero sangue io per ultima, io più misera perisco, poiché lo vuole Venere. enone

Voi amate? fedra

Da ogni furia dell’amore sono squassata. enone

260

E chi…? fedra

Stai per udire il colmo degli orrori. Io amo… Al nome fatale rabbrividisco, tremo. Amo… enone

Chi? fedra

Tu conosci il figlio dell’amazzone7, quel principe che a lungo fu mia vittima? enone

Ippolito? fedra

Sei tu che hai detto il nome. enone

265

Il sangue mi si agghiaccia nelle vene. Disastro! Orrore! razza sventurata! Viaggio8 increscioso! Bisognava proprio approdare ai tuoi lidi perigliosi9, paese maledetto. fedra

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Viene più da lontano il mio male. Da poco avevo celebrato la mia unione con il figlio d’Egeo10 e calma e gioia m’erano certezza quando a Atene m’apparve, superbo, il mio nemico. Lo vidi: da rossore e da pallore fui invasa alla sua vista; lo scompiglio s’impadronì dell’anima perduta; i miei occhi non vedevano, non riuscivo a parlare; sentii il mio corpo ardere e gelare. Venere riconobbi, e i suoi fuochi11 temibili, tormenti inevitabili per una stirpe12 odiata dalla dea,

7. il figlio dell’amazzone: Ippolito, figlio di Teseo, marito di Fedra, e di Ippolita, regina del popolo guerriero delle Amazzoni, che secondo il mito avevano assediato Atene, prima di

134

essere vinte da Teseo. 8. Viaggio: il viaggio compiuto da Fedra e dalla nutrice per raggiungere la reggia di Teseo.

9. perigliosi: pericolosi. 10. Egeo: mitico re di Atene, padre di Teseo. 11. fuochi: il fuoco della passione amorosa. 12. stirpe: nota 4.

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

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ma che a furia d’offerte13 m’illusi di stornare. Le eressi un tempio, le adornai un altare, e frugando nei fianchi delle vittime14 sperai di ritrovare la mia mente smarrita. Rimedi vani, ahimè, a un amore incurabile! Senza effetto bruciava l’incenso sugli altari; quando imploravo il nome della dea era Ippolito, invece, che adoravo. Lo vedevo dovunque, di continuo, lo vedevo anche ai piedi degli altari che facevo fumare, quel dio15 che non osavo nominare; e dovunque cercavo di evitarlo. Ma, colmo di miseria! Lo incontravo persino nei tratti di suo padre… Infine, ribellandomi a me stessa, ebbi tanto coraggio da diventare sua persecutrice. Per bandire il nemico di cui ero idolatra16 di un’ingiusta matrigna finsi l’ira; ne pretesi l’esilio, e con eterni strepiti lo strappai dalle braccia di suo padre. Sì, Enone: respiravo. Ebbi dalla sua assenza giorni meno agitati, momenti d’innocenza; sottomessa allo sposo, celando le mie pene, mi diedi tutta a quel fatale imene17. Cautele vane! destino crudele! Fu proprio lui, il mio sposo, a condurmi a Trezene18: qui ritrovai il nemico19 che avevo allontanato; la piaga, ancora viva, di nuovo ha sanguinato. Non più un fuoco nascosto nelle vene; Venere intera, adesso, sta addosso alla sua preda20. Contemplo la mia colpa con terrore; ho in odio la mia vita, la mia fiamma21 in orrore. 13. offerte: le offerte votive, fatte per placare la dea durante i sacrifici in suo onore. 14. nei fianchi delle vittime: nelle viscere degli animali sacrificati, da cui si ricavavano gli auspici per conoscere il futuro. 15. dio: Ippolito. 16. di cui ero idolatra: che idolatravo, adoravo. 17. imene: matrimonio. 18. Trezene: la città dell’Argolide dove Ippolito era stato mandato in esilio dal padre. 19. il nemico: Ippolito. 20. alla sua preda: a Fedra. 21. la mia fiamma: la fiamma della mia passione.

Alexandre Cabanel, Fedra, 1880, olio su tela, Montpellier, Musée Fabre.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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Volevo, con la morte, salvare la mia gloria22, nascondendo una fiamma così nera: ho ceduto alla forza del tuo triste tormento; ti ho confessato tutto, e non mi pento. Però niente rimproveri; rispetta la mia morte imminente e non sforzarti di rinvigorire un resto di calore23 che sta ormai per svanire. J. Racine, Teatro, a cura di A. Beretta Anguissola, trad. it. di G. Raboni, Mondadori, Milano 2012

22. gloria: fama.

23. calore: il calore della vita.

Analisi del testo

> La ripresa di un mito classico

L’eredità mostruosa di Fedra

L’incesto

La funzione della nutrice

Il contrasto fra passione e dovere

136

Per capire il comportamento di Fedra occorre sapere che era figlia di Minosse, il re che fece costruire il labirinto a Creta, e di Pasifae, che venne ingravidata dal toro di cui si era innamorata, dando alla luce il Minotauro. Con queste due figure – di cui Fedra ha ricevuto una sorta di eredità mostruosa – si toccano le radici più profonde e misteriose del mito, quelle che segnano il passaggio dal caos primigenio delle forze della natura alle regole della civiltà. Questo passaggio è rappresentato dalla proibizione dell’incesto, con la quale – simbolicamente – si stabiliscono le norme che regolano i rapporti della vita sociale. In questo senso la passione potenzialmente incestuosa dell’eroina tragica, con la catastrofe che ne deriverà, va oltre la dimensione dei ciechi disegni del destino, per alludere a quelle pulsioni che affondano le radici nelle buie regioni dell’inconscio.

> Istinti e passioni irrazionali

Violando un tabù sociale e religioso, l’incesto rappresenta un ritorno alle forze ferine e selvagge della natura, dominate dagli istinti più feroci e non ancora sottoposte al controllo della ragione; l’incesto è il peccato che non si può né cancellare né espiare, perché la sua funzione distruttiva nega i fondamenti stessi del vivere in comune, che sono alla base della famiglia e della società. Per questo Fedra non può nemmeno pronunciare il nome di chi è l’oggetto del suo colpevole desiderio, ma lo fa dire alla nutrice (EnonE: «Ippolito?» / FEdra: «Sei tu che hai detto il nome», v. 264), figura essenziale nelle opere tragiche perché depositaria dei segreti delle protagoniste, che non possono essere apertamente confessati ad altri. È questo il momento più intensamente tragico della Fedra, più ancora del macchinoso finale, quando la protagonista si ucciderà col veleno, dopo aver scagionato Ippolito, accusato di averla voluta sedurre, di fronte al marito Teseo, che aveva decretato la condanna del figlio. L’irrompere dell’irrazionale dà luogo alla forte tensione emotiva dell’opera, nel dibattersi delle tensioni e dei desideri contrastanti che si annidano nell’animo di Fedra, divisa tra la forza invincibile della passione e i richiami alla fedeltà e al dovere, in un’altalena psicologica che invano, tra resistenze e abbandoni, si sforza di dominare le forze del caos. Ma il più alto controllo della ragione resta quello affidato alla limpida chiarezza dello stile, che esorcizza i mostri dell’inconscio per riportarli alla superiore misura di un equilibrio formale di classica chiarezza e compostezza (nel testo francese i versi di dodici sillabe, i cosiddetti “alessandrini”, sono raggruppati in coppie a rima baciata e nettamente distinti e cadenzati in due emistichi di uguale misura).

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

Esercitare le competenze ComprenDere

> 1. Attraverso il discorso di Fedra ricostruisci gli eventi accaduti in precedenza al dialogo. AnALIzzAre

> 2. Delinea il carattere di Enone in base alle battute che pronuncia. > 3. In quale punto del testo Fedra prende atto della propria condizione ed esprime la volontà, seppure a suo

modo, di porvi rimedio? > 4. Lessico Perché – seppure in traduzione – Enone parla di «dubbio funesto» (v. 245)? Nel rispondere, indicando a che cosa si riferisce, spiega il preciso significato dell’aggettivo. ApproFonDIre e InTerpreTAre

> 5.

Scrivere Nel passo analizzato sono presenti, attraverso i discorsi delle due protagoniste, riferimenti alla sfera del sacro e del divino; individuali e commentali in un testo di circa 10 righe (500 caratteri). pASSATo e preSenTe Gli oscuri abissi della psiche

> 6. Quali sono le ragioni di una donna come Fedra? È possibile considerarla una vittima di se stessa o delle circostanze? È possibile assolverla dalla sua colpa? Istituisci in classe, con l’insegnante e i compagni, una sorta di “processo” al personaggio, chiamando in causa, se lo ritieni opportuno, anche altre eroine letterarie “negative” che conosci attraverso gli studi effettuati o letture personali.

A4

molière La vita e le prime opere Jean-Baptiste Poquelin, noto con lo pseudonimo di Molière, nacque a Parigi nel 1622, figlio di un ricco tappezziere, studiò nel collegio dei gesuiti a Clermont e frequentò i corsi di diritto a Orléans. Con l’attrice Madeleine Béjard fondò nel 1643 una compagnia teatrale con cui sperò inutilmente di imporsi sulla scena parigina. Imprigionato per debiti, abbandonò Parigi nel 1646, portando le sue rappresentazioni (interpretò tra l’altro le tragedie di Corneille) nelle città della provincia francese. Maturò così un’esperienza fondamentale per il futuro della sua attività, che nel 1658 lo riportò a Parigi, dove, dopo il successo ottenuto con una recita a corte, entrò nelle grazie del fratello del re, il duca di Orléans, che gli concesse l’uso di un apposito teatro. Da allora visse a corte per un quindicennio, dopo avere scritto Le preziose ridicole (1659), la prima delle circa trenta commedie di costume, in cui colpiva con l’arma del ridicolo, facendone oggetto di rappresentazione comica e satirica,

Charles-Antoine Coypel, Ritratto di Molière, 1734, olio su tela, Parigi, Palais Royal, Comédie Française.

137

L’età del Barocco e della Nuova Scienza La satira dei vizi

Tartufo

Testi Molière • Chi è Tartufo? dal Tartufo

Don Giovanni



Testi Molière La “recita” dell’innamoramento • Le “acrobazie” retoriche da Don Giovanni

Il misantropo

L’avaro e Il malato immaginario

le manie e le mode del suo tempo. Ma la sua propensione a stigmatizzare i vizi e i difetti della società borghese e aristocratica, smascherandone la falsità e l’ipocrisia, gli provocò profonde avversioni e accuse, da cui lo difese lo stesso sovrano, che gli assegnerà una pensione e una sala del Palais Royal. Nelle sue commedie Molière ha toccato argomenti scomodi, che riguardavano i fondamenti dell’ideologia e delle istituzioni sociali, mostrando il vuoto di valori che si nascondeva dietro la facciata dei perbenismi ufficiali. Pur richiamandosi al teatro classico, e a quello di Plauto in particolare, le sue opere, in cui intendeva ispirarsi ai princìpi della “verità” e della “naturalezza”, presentavano così decisivi agganci di una bruciante attualità che lo rende moderno anche ai nostri occhi. Sganarello, o il cornuto immaginario (1660) portava sulla scena il problema dei rapporti matrimoniali, e delle loro convenzioni formali, toccando un argomento che sarebbe poi stato ripreso nella Scuola dei mariti (1661) e nella Scuola delle mogli (1662). Pittura dei vizi umani ed elementi di satira del costume sociale restano una costante dell’opera di Molière, caratterizzata al tempo stesso da una sua intrinseca moralità. Le opere della maturità Nel Tartufo, commedia in versi del 1664, viene delineata la figura di un impostore che, fingendo di seguire scrupolosamente i dettami della fede religiosa e una condotta irreprensibile di vita, si insinua nella casa di un ricco e devoto borghese, cercando di ottenere la sua incondizionata fiducia per impadronirsi delle sue sostanze. L’accusa nei confronti dei formalismi di cui può rivestirsi l’esercizio della morale corrente e delle vuote pratiche religiose mostrò di colpire nel segno, provocando tali reazioni da indurre il re a far sospendere le recite. Una sorte analoga toccò l’anno dopo al Don Giovanni, o il convitato di pietra, in cui Molière riprendeva la figura, già trattata dal drammaturgo spagnolo Tirso de Molina (1584-1648, Il Don Giovanni, p. 145), del seduttore, ateo e libertino, spregiatore di ogni legge umana e divina. A essere stigmatizzati non sono solo i comportamenti cinici del protagonista, ma l’ipocrisia sua e della società, l’uso delle parole ingannatrici che, nella suggestione della loro efficacia persuasiva, gli consentono di realizzare i suoi raggiri ( T5, p. 141). Il protagonista del Misantropo (1666) è un giovane onesto e sincero che si allontana, isolandosi, dall’ambiente aristocratico al quale appartiene e di cui denuncia, in questo modo, l’assenza di valori autentici, insieme con la pervicacia degli egoismi e delle presunzioni. La commedia è caratterizzata da una serietà di intenti che si accompagnerà, per ricordare ancora due dei testi più noti, alla godibilissima comicità dell’Avaro (1668, T4, p. 139), che adatta alla realtà contemporanea le situazioni dell’Aulularia di Plauto, e del Malato immaginario (1673), giocato su effetti scenici meno riflessivi e più immediati, che si basano sul meccanismo degli equivoci e delle finzioni, degli inganni e degli autoinganni. Molière morì a Parigi nel 1673.

L’opera

L’avaro di Molière Arpagone è odiato dai figli Cleante ed Elisa per la sua avarizia, che li tiene in gravi ristrettezze economiche. In più ha comunicato di voler sposare la giovane Marianna, amata dal figlio, mentre ha deciso di dare la figlia, innamorata di Valerio, in moglie a un anziano gentiluomo, Anselmo. Intanto il servitore di Cleante sottrae ad Arpagone

138

una cassetta piena di denaro per darla al suo padrone, che pensa di servirsene per ottenere Marianna. A risolvere l’intricata situazione interviene a questo punto Anselmo, che riconosce in Marianna e Valerio i figli creduti morti in un naufragio; questi sposeranno Cleante ed Elisa, mentre Arpagone può recuperare la sua preziosa cassetta.

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

T4

molière

Temi chiave

«Senza dote»

• gli equivoci delle parole • l’avarizia del protagonista

da L’avaro, atto I, scena V A essere rappresentate sono qui l’avarizia di Arpagone e le astuzie di Valerio. scena v

Valerio, Arpagone, Elisa Vieni qui, Valerio. Ti abbiamo scelto per dirci chi ha ragione fra me e mia figlia. Voi Signore, senza dubbio. arpagone Sai di cosa stiamo parlando? valerio No, ma voi non potete avere torto, siete la ragione in persona. arpagone Voglio darla in sposa ad un uomo ricco e saggio, questa sera stessa e quella sciocca mi viene a dire in faccia che non lo vuole assolutamente. Che ne dici? valerio Che ne dico? arpagone Già. valerio Eh! Eh! arpagone Beh? valerio Dico, che in fondo sono del vostro stesso parere; ed è impossibile che voi non abbiate ragione; ma anche lei non ha del tutto torto, e… arpagone Ma come? Il signor Anselmo è un ottimo partito, un gentiluomo che è anche nobile, calmo, posato e saggio, molto ricco, e che dal primo matrimonio non ha avuto figli. Si può incontrare di meglio? valerio È vero; ma lei potrebbe replicarvi di voler precipitare le cose e che occorrerebbe almeno aspettare un po’ di tempo per vedere se la sua inclinazione1 possa conciliarsi con… arpagone È un’occasione da cogliere al volo. Vi trovo un vantaggio di cui non godrei mai più, si impegna a sposarla senza dote. valerio Senza dote? arpagone Sì. valerio Ah! Quand’è così. Ecco una ragione assolutamente convincente alla quale non si può che cedere. arpagone Si tratta d’un risparmio considerevole. valerio Sicuramente, non vi è nulla da obiettare. Vero è che vostra figlia potrebbe farvi osservare che il matrimonio è una questione più importante di quanto si possa credere, che ne va della felicità o dell’infelicità di tutta una vita, e che un impegno destinato a durare fino alla morte va assunto solo con grandi precauzioni. arpagone Senza dote. valerio Avete ragione. La cosa è decisiva, è chiaro. Anche se vi si potrebbe obiettare che in simili occasioni l’inclinazione di una figlia è cosa di cui aver riguardo, e che la gran differenza d’età, di carattere e di sentimenti, espone un matrimonio a incidenti piuttosto sgradevoli. arpagone Senza dote. valerio Ah! A questo non vi è nulla da replicare: si sa, chi diavolo potrebbe sostenere il contrario? Non che non ci siano molti padri che preferirebbero preoccuparsi della felicità delle figlie, piuttosto che del denaro da sborsare; e che non vorrebbero, per nessuna ragione, sacrificarle all’interesse, e che cercherebbero, sopra ogni cosa, di arpagone

valerio

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1. inclinazione: intenzione, propensione.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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suscitare in un matrimonio quella dolce affinità che mantiene inalterati l’onore, la pace e la gioia; e che… arpagone Senza dote. valerio È vero, questo tappa la bocca a tutti, senza dote. Cosa controbattere a un’argomentazione così solida? arpagone (Guarda verso il giardino2) Ehi! Mi sembra di sentire un cane che abbaia. Non vorrei che qualcuno ce l’avesse con il mio denaro. Non muovetevi, torno subito. elisa Scherzate, Valerio, a parlargli così? valerio È per non inasprirlo e per venirne a capo più facilmente. Opporsi apertamente alle sue idee, significa rovinare tutto. Certi caratteri vanno presi di sbieco3; temperamenti restii ad ogni resistenza, nature testarde che la verità fa impennare, che si irrigidiscono di fronte alla diritta via della ragione; e che si può condurre dove si vuole solo attraverso giravolte. Fingete di acconsentire a ciò che desidera, raggiungerete meglio il vostro scopo e… elisa Ma queste nozze, Valerio? valerio Troveremo qualche stratagemma per mandarle a monte. Molière, L’Avaro, in Teatro, a cura di F. Fiorentino, trad. it. di S. Alessandrelli, Bompiani, Milano 2013

2. il giardino: dove ha nascosto, dentro una cassetta, una cospicua somma di denaro.

3. di sbieco: di traverso, non di petto.

Analisi del testo

Il procedimento ironico

L’ossessione del denaro

Gli effetti comici

140

Arpagone ha in mente di far sposare la figlia Elisa, nonostante la sua opposizione, a una persona anziana e ricca, che soprattutto non pretende nulla in dote; in questa scena Valerio, a sua volta innamorato di Elisa, mostra di condividere le posizioni dell’avaro e ne difende le intenzioni. La situazione si sviluppa attraverso l’equivoco delle parole, in un gioco delle parti per cui Valerio ribadisce il pensiero di Arpagone, con il procedimento ironico di chi dice il contrario di quello che pensa. Quello che è un apparente tradimento nei confronti dell’impegno contratto con Elisa viene spiegato subito dopo, non appena Arpagone si allontana: «Opporsi apertamente alle sue idee, significa rovinare tutto. Certi caratteri vanno presi di sbieco […]. Fingete di acconsentire a ciò che desidera, raggiungerete meglio il vostro scopo e…» (rr. 48-53). Ma il procedimento non è così meccanico, se è vero che, al di sotto dei suoi falsi ragionamenti, Valerio trova il modo di insinuare ciò che in effetti pensa («Vero è che vostra figlia potrebbe farvi osservare…»; «Anche se vi si potrebbe obiettare…»; «Non che non ci siano molti padri che…») e che realmente ha valore. Il carattere di Arpagone è tutto racchiuso nell’icastica espressione che per quattro volte viene ripetuta («Senza dote»), in cui trova un’efficace formulazione sintetica l’ossessione che il vecchio avaro ha per il denaro, al punto da anteporlo a ogni altro bene e rispetto umano, persino nei confronti dei figli. Spinta comicamente sino all’iperbole, tanto da ridurre al limite della sopravvivenza coloro che dipendono da lui, la sua delirante passione ne fa un essere insieme ridicolo e disumano, in continua apprensione di essere ingannato e derubato. Di qui scaturiscono gli effetti di una comicità che riguarda le assurde accuse a tutte le persone che gli stanno accanto, e in cui vede dei possibili ladri, soprattutto per quanto riguarda la cassetta piena di soldi che ha sepolto in giardino. Naturalmente la conclusione della commedia metterà al loro giusto posto le vicende dei personaggi, ristabilendo, anche attraverso una serie di agnizioni, la vittoria della “normalità” e i legami degli affetti autentici, quelli secondo cui – per quanto riguarda la tematica dei rapporti familiari, cara a Molière – «il matrimonio è una questione più importante di quanto si possa credere» e «ne va della felicità e dell’infelicità di tutta una vita» (rr. 27-28).

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

Esercitare le competenze ComprenDere

> 1. Che cosa intende dire Valerio con l’affermazione «È vero, questo tappa la bocca a tutti, senza dote» (r. 43)? > 2. Spiega il senso della battuta di Arpagone «Ehi! Mi sembra di sentire un cane che abbaia. Non vorrei che qualcuno ce l’avesse con il mio denaro. Non muovetevi, torno subito» (rr. 45-46).

AnALIzzAre

> 3. In quali passaggi del dialogo sembra che Valerio attui nei confronti di Arpagone una vera e propria captatio

benevolentiae? Motiva la tua risposta. > 4. Lessico Attraverso quali vocaboli e/o espressioni chiave, seppure in traduzione, Arpagone rivela la propria avarizia? ApproFonDIre e InTerpreTAre

> 5.

esporre oralmente In un’esposizione orale (max 5 minuti) contestualizza la scelta del tema centrale della commedia in riferimento alla società del tempo di Molière e ai bersagli polemici di altre sue opere. > 6. Competenze digitali La figura dell’“avaro”, fin dal teatro antico, occupa un ruolo privilegiato persino nell’immaginario popolare, divenuto oggi cultura di massa: quali personaggi emblematici in tal senso hanno proposto il fumetto, il teatro, il cinema, la televisione e altre forme di espressione nell’ambito del genere comico? Proponi in un lavoro multimediale (ad esempio un montaggio in PowerPoint) una carrellata di personaggi, tipi, situazioni riferiti all’avarizia e appartenenti a tali ambiti.

T5

molière

Temi chiave

L’inganno delle parole

• un eroe che affascina e seduce • l’uso della parola per ingannare

da Don Giovanni, atto II, scena I Con la sua abile dialettica Don Giovanni convince contemporaneamente due giovani di essere innamorato di entrambe. maturina

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(a Don Giovanni) Signore, che fate dunque qui con Carlotta, parlate d’amore anche a lei? don giovanni (a Maturina) No, al contrario, è lei che mi manifestava il desiderio di essere mia moglie, e io le rispondevo che ero impegnato con voi. carlotta Cosa dunque vuole da voi Maturina? don giovanni (basso, a Carlotta) È gelosa di vedermi parlare con voi, e vorrebbe che io la sposassi, ma io le dico che è voi che voglio. maturina Come, Carlotta… don giovanni (basso, a Maturina) Tutto ciò che le dite sarà inutile, si è messa in testa questa cosa. carlotta Comènne donga1 Maturina … don giovanni (basso, a Carlotta) È inutile che le parliate, non le leverete di capo questo capriccio. maturina Ma… don giovanni (basso, a Maturina) Non c’è modo di farle intendere ragione. carlotta Vorrei… don giovanni (basso, a Carlotta) È ostinata come tutti i diavoli.

1. Comènne donga: come dunque (la traduttrice, nel rendere il francese regionale

usato da Molière, dichiara di essersi servita di un dialetto, non altrimenti specificato,

dell’Italia centrale).

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

maturina

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Davero… don giovanni (basso, a Maturina) Non ditele niente, è una pazza. carlotta Penso… don giovanni (basso, a Carlotta) Lasciatela perdere, è una stravagante. maturina No, no, bisogna che le parli. carlotta Voglio vedere un po’ le sue ragioni. maturina Come… don giovanni (basso, a Maturina) Scommetto che vi dirà che ho promesso di sposarla. carlotta Io… don giovanni (basso, a Carlotta) Scommettiamo che sosterrà che le ho dato la mia parola di prenderla in moglie.

[…]

maturina

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carlotta

È me che il Signore ha visto per prima. Se vi ha vista per prima, mi ha vista per seconda, e ha promesso di sposar-

mi. don giovanni

(basso, a Maturina) Ebbene, che vi ho detto? Vi bacio le mani, sono io, e non voi che ha promesso di sposare. don giovanni (basso, a Carlotta) Non ho indovinato? carlotta Raccontatela a qualcun altro, vi prego, sono io, vi dico. maturina State scherzando, sono io, e tre. carlotta Ècchero ’u dirà lu’, se nun ciò ragió’2. maturina Ècchero me smentirà lu’, se nun digo vero3. carlotta Allora, Signore, le avete promesso di sposarla? don giovanni (basso, a Carlotta) Mi prendete in giro. maturina È vero, Signore, che le avete dato la vostra parola di essere suo marito? don giovanni (basso, a Maturina) Potete avere questo pensiero? carlotta Vedete che lìa ’u sustiene4. don giovanni (basso, a Carlotta) Lasciatela fare. maturina Siete testimone di com’è sigura5. don giovanni (basso, a Maturina) Lasciatela dire. carlotta No, no, bisogna sapere la verità. maturina Tocca fa’ justizia6. maturina

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2. Ècchero … ragiò’: eccolo lo dirà lui, se non ho ragione. 3. Ècchero … vero: eccolo mi smentirà lui, se

non dico il vero. 4. Vedete … sustiene: vedete che lei lo sostiene.

5. sigura: sicura. 6. Tocca fa’ justizia: bisogna fare giustizia.

L’opera

Don Giovanni di Molière Don Giovanni, insieme con il servitore Sganarello, scampa a un naufragio grazie all’intervento di un abitante della costa, Pierrot. Approfittando della situazione seduce la promessa sposa del contadino, Carlotta, promettendo al tempo stesso di sposare anche un’altra giovane, Maturina. Don Giovanni aveva già sposato, e subito dopo abbandonato, Elvira, che aveva rapito in un monastero. Inseguito dai parenti della donna, raggiunto da lei e dal padre, Don Luigi, promette ipocritamente di redimersi, ma si tratta

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sempre di promesse che non intende rispettare, continuando a perseguire, senza mai pentirsi, i suoi disegni scellerati. Nella sua sfida a Dio e agli uomini, penetra in un sepolcro e invita a cena la statua del padre di una delle sue vittime, il Commendatore, che ricambia l’invito per la sera successiva. Preso per mano dalla statua, in un clima ormai surreale, Don Giovanni si sente bruciare dentro finché un fulmine lo colpisce e la terra si spalanca sotto di lui, per accoglierlo nell’inferno.

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

Sì, Maturina, voglio che il Signore vi mostri che merla7 siete. maturina Sì, Carlotta, voglio che il Signore vi lasci con un palmo di naso. carlotta Signore, regolate la disputa per favore. maturina Metteteci d’accordo, Signore. carlotta (a Maturina) Vedrete. maturina (a Carlotta) Vedrete voi stessa. carlotta (a Don Giovanni) Dite. maturina (a Don Giovanni) Parlate. don giovanni (imbarazzato, si rivolge a tutte e due) Che volete che vi dica? Sostenete ugualmente tutte e due che ho promesso di prendervi in moglie. Ciascuna di voi non sa forse come stanno le cose, senza che sia necessario ch’io dia ulteriori spiegazioni? Perché obbligarmi a ripetermi? Quella a cui ho effettivamente promesso non ha forse dentro di sé di che infischiarsene dei discorsi dell’altra, le deve forse mettersi in pena, purché io mantenga la mia promessa? Tutti questi discorsi non portano a niente, bisogna fare, e non dire, e gli effetti risolvono di più delle parole. Dunque basti questo a mettervi d’accordo, e si vedrà quando mi sposerò quale delle due ha il mio cuore. (Basso, a Maturina) Lasciatele credere quel che vorrà. (Basso, a Carlotta) Lasciatela lusingarsi nella sua immaginazione. (Basso, a Maturina) Vi adoro. (Basso, a Carlotta) Sono tutto vostro. (Basso, a Maturina) Tutti i visi sono brutti vicino al vostro. (Basso, a Carlotta) Non si possono più soffrire le altre dopo avervi vista. Ho un piccolo ordine da dare, vengo a ritrovarvi tra un quarto d’ora. carlotta (a Maturina) Sono colei che ama, almeno. maturina È me che sposerà. sganarello Ah, povere ragazze che non siete altro, ho pietà della vostra innocenza, e non posso soffrire di vedervi correre incontro alla vostra disgrazia. Credetemi l’una e l’altra, non crogiolatevi in tutte le favole che vi racconta, e restatevene nel vostro paese. carlotta

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Molière, Don Giovanni, in Teatro, a cura di F. Fiorentino, trad. it. di A. I. Squarzina, Bompiani, Milano 2013

7. merla: sciocca, credulona.

Analisi del testo Il ritratto di Don Giovanni

Il fascino dell’eroe del male

> Don Giovanni, un eroe negativo

All’inizio della commedia il servitore di Don Giovanni, Sganarello, presenta il suo padrone come «il più grande scellerato che la terra abbia mai prodotto, un assatanato, un cane, un diavolo, un turco, un eretico, che non crede né al Cielo né all’Inferno […], che chiude l’orecchio a tutte le rimostranze che gli si possono fare, e tratta da bazzecole tutto ciò in cui crediamo». Don Giovanni è un eroe del male, il prototipo del superuomo che disprezza e irride ogni legge umana e divina. Il carattere abominevole della sua condotta colpisce al cuore la base stessa dell’edificio sociale, la famiglia, a partire dal ripudio della giovane sposa, Elvira, che ha da poco sposato dopo averla rapita dal convento in cui si trovava. Libertino e seduttore irresistibile (di qui il fascino che comunque ne promana), la sua volubilità in amore è da lui stesso giustificata nel nome di un arbitrio assoluto: «Amo la libertà in amore, lo sai, e non saprei risolvermi a rinchiudere il mio cuore tra quattro mura. Te l’ho detto venti volte, ho un’inclinazione naturale a lasciarmi andare a tutto 143

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

ciò che mi attira». Così si rivolge a Sganarello, che, se per paura e interesse lo asseconda, non può non esprimere la sua disapprovazione, individuando il nocciolo del problema: «girate le cose in modo che sembra che abbiate ragione, è tuttavia è vero che non l’avete».

> Gli inganni del protagonista La parola ingannatrice

La riflessione che nasce dal comico

Don Giovanni riesce a essere convincente attraverso dei paralogismi, ossia dei ragionamenti che risultano pretestuosi e falsi, di cui si serve per giustificare le sue azioni malvagie. Tutto questo grazie all’abile uso della parola ingannatrice, che nel dialogo in questione gli consente di dichiarare il suo amore contemporaneamente a due giovani contadine. La sua è una parola che, assecondata dal fascino di chi la pronuncia, nasconde l’inganno, indifferente delle conseguenze che i suoi capricci possono provocare. Gli equivoci che ne derivano fanno parte, qui, di un gioco scenico particolarmente efficace, per la rapidità con cui lo scambio delle brevi battute ottiene l’effetto illusorio di convincere entrambe le giovani, carpendo la buona fede di un’ingenuità disarmata di fronte alla scaltrezza del seduttore. La scena è certo divertente, per gli equivoci generati dalle parole a senso alterno di Don Giovanni, ma al disotto dell’andamento comico e della sua vivacità espressiva non manca la possibilità di una seria riflessione per quanto riguarda gli effetti negativi che il rovesciamento della verità riesce a produrre (qui riferiti alla delusione e alla sofferenza che attendono Carlotta e Maturina). A Sganarello (che è portatore peraltro di una visione convenzionale e perbenista, dominata dall’interesse personale) spetta il compito di riequilibrare la situazione riportando la vicenda nei suoi binari reali, con l’invito, per evitare la «disgrazia», a non fidarsi della false promesse.

Esercitare le competenze ComprenDere

> 1. Elabora una sintetica versione in prosa della scena. AnALIzzAre

> 2. Motiva, attraverso l’esame dei diversi interventi, la presentazione di Don Giovanni e Sganarello proposta nell’Analisi del testo.

> 3. Carlotta e Maturina sono ambedue rappresentate come ingenue? O si comportano diversamente riguardo le parole insidiose di Don Giovanni e la sua pericolosa abilità retorica? Stile Perché le battute pronunciate dalle due contadine non rispettano – trattandosi di una traduzione – la corretta forma dell’italiano? A quale intento dell’autore (ed esigenza del traduttore) rispondono?

> 4.

ApproFonDIre e InTerpreTAre

> 5.

Scrivere In un testo di circa 15 righe (750 caratteri) individua quali sono gli elementi comici della scena. Attraverso quali espedienti l’autore suscita il riso negli spettatori? > 6. Altri linguaggi: musica Nello spezzone (tratto dall’atto I, scena 9, dell’opera di Mozart, Il Don Giovanni p. 145) Thomas Allen e Susanne Mentzer interpretano, in una messa in scena al Teatro alla Scala di Milano nel 1987, Don Giovanni e la contadinella Zerlina: malgrado la donna stia celebrando il suo matrimonio con Masetto, l’abile seduttore riesce ad ammaliarla promettendole che “la sposerà” nella dimora dove intende condurla. Rispondi alle domande. a) A che cosa si riferiscono i versi «Là ci darem la mano, / là mi dirai di sì. / Vedi, non è lontano; / partiam, ben mio, da qui…»? b) Descrivi l’atteggiamento e le movenze dei due protagonisti sulla scena, spiegandone la funzione. c) In base alla scheda a p. 145, spiega se le caratteristiche della versione mozartiana risultano evidenti anche nel breve spezzone dell’opera.

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L’operA LIrICA

Il Don Giovanni Video da Don Giovanni

di Wolfgang Amadeus Mozart

Video

Il personaggio di Don Giovanni ha un’origine incerta: la figura del vitalissimo libertino, che oscilla tra storia e fantasia, si può quasi sicuramente ricondurre alle tradizioni folcloriche spagnole che accennano già in epoca medievale al conquistatore e alle sue avventure. Progressivamente la leggenda si afferma in generi teatrali diversi, spaziando dalla tragedia alla Commedia dell’Arte fino al dramma per musica. Bisogna aspettare il 1630 perché Don Giovanni si imponga sulle scene teatrali dando inizio alle numerose interpretazioni delle sue avventure: El burlador de Sevilla y convidado de piedra (“Il seduttore di Siviglia e convitato di pietra”) di Tirso de Molina ( p. 128) è la prima opera scritta che si rifà alla vecchia leggenda del giovane libertino che, in segno di sfida, invita a cena una statua, simboM. Slevogt, Francisco d’Andrade lo dell’aldilà. interpreta Don Giovanni, 1902, Rivisitata in diverse occasioni, la figura di Don Giovanni olio su tela, Stoccarda, Staatsgalerie. conosce una felice rielaborazione con Dom Juan ou Le festin de pierre (“Don Giovanni o Il convitato di pietra”, 1665) di Molière ( T5, p. 141); anche Goldoni si accosterà al personaggio mettendo in scena nel 1736 Don Giovanni Tenorio, o sia Il Dissoluto. La storia teatrale del protagonista

Il compositore austriaco Wolfgang Amadeus Mozart (1756-91), che tra l’altro conosceva il balletto Don Juan (1761) del musicista tedesco Christoph Willibald Gluck, scelse con il librettista Lorenzo Da Ponte (1749-1838) di mettere in scena ancora una volta, ma in modo completamente nuovo, le avventure di Don Giovanni, impostandole secondo l’idea del dramma giocoso: l’opera venne rappresentata per la prima volta al Teatro Nazionale di Praga il 29 ottobre 1787, sotto la direzione dello stesso compositore. Il personaggio dell’empio infine punito trova con la musica di Mozart un esito del tutto nuovo grazie alla commistione di elementi comici e drammatici che superano lo spirito spensierato proprio del dramma giocoso tradizionale: il compositore va oltre il puro divertimento e non si pone mai in modo moralistico nei confronti delle audaci avventure del conquistatore che giunge a sfidare l’aldilà per appagare i propri sensi.

Il comico e il tragico

Dopo l’ouverture il sipario si alza «in una città della Spagna» di un probabile, ma non meglio definito Cinquecento. La vicenda di Mozart e Da Ponte è quella nota del «giovane cavaliere estremamente licenzioso» (come recita la didascalia del libretto) alle prese con conquiste e serenate, macchinazioni e travestimenti che si concluderanno con la sua morte. Al fianco di Don Giovanni c’è Leporello: servo fedele, personaggio buffo e giocoso che sarà presto testimone dell’omicidio del Commendatore da parte del suo padrone. I personaggi femminili sono tre: donna Anna, figlia del Commendatore, donna Elvira, conquista precedente di Don Giovanni, ancora invaghita di lui e desiderosa di redimerlo, e la contadina Zerlina. Da nessuna di queste il libertino otterrà l’appagamento sperato, quasi che il suo vero interesse risieda nell’impresa seduttiva più che nell’effettiva conquista.

I personaggi e la vicenda

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La vera natura del conquistatore viene cantata da Leporello a donna Elvira nella famosa aria detta “del Catalogo”, nella quale sono minuziosamente enumerate tutte le donne da lui sedotte: «Madamina, il catalogo è questo / Delle belle che amò il padron mio […] / In Italia seicento e quaranta, / In Lamagna [Germania] duecento e trentuna, / Cento in Francia, in Turchia novantuna, / Ma in Ispana son già mille e tre». In quest’aria Mozart esprime implicitamente il suo punto di vista sul protagonista: la descrizione delle licenziose imprese non è l’espressione di un giudizio morale dal momento che la musica tratteggia la storia del seduttore con umorismo, snocciolando le sue conquiste in una rassegna femminile “internazionale” che sfiora i confini del grottesco. Don Giovanni, imbattutosi in un corteo nuziale, si invaghisce immediatamente della sposa, Zerlina, che, nonostante gli avvertimenti di donna Anna e le gelosie del fidanzato, si lascia corteggiare dalle lusinghe e dalle promesse del Cavaliere. «Là ci darem la mano, / Là mi dirai di sì» canta il libertino alla ragazza, rapita dal suo fascino, in uno dei duetti più famosi della storia dell’opera. La vitalità dialettica che corre tra il tema della seduzione – di cui è portatore Don Giovanni – e quello dell’accusa – incarnato dagli altri personaggi – caratterizza tutta l’opera e dimostra come il Don Giovanni di Mozart sia una creazione completamente nuova rispetto ai precedenti letterari: audacia, inganno, vitalità sfrenata e incoscienza si traducono nella ricerca infinita del piacere senza nessuna intenzione di redenzione. Don Giovanni, in segno di scherno e di sfida, invita a cena la statua del Commendatore, padre di donna Anna, da lui ucciso: il suono è cupo e pungente, la commedia si trasforma velocemente in dramma, ma con il protagonista che, fino alla fine, mantiene la sua carica vitale; il Commendatore, caratterizzato in tutta l’opera da accordi fortissimi di tutta l’orchestra, chiede al libertino di pentirsi. Ancora un deciso «no» in risposta all’ultima esortazione al pentimento e Don Giovanni, avvolto dalle fiamme dell’inferno, sprofonda con il suono dell’orchestra e del coro. L’ultima scena vede tutti i personaggi del dramma che moraleggiano sul libertino: «Questo è il fin di chi fa mal». La morte di Don Giovanni, lungi però dall’essere una liberazione sospirata, fa sì che svanisca anche tutto il vitalismo e l’energia; la sua frenesia erotica che sfida la società e il buon costume borghese è un motore di forza brillante e inesauribile che serpeggia per tutta l’opera: la morale quindi, cantata dai personaggi rientrati in scena, risulta retorica e quasi svuotata di senso, per via dell’assenza del protagonista. Dalla tenerezza e dolcezza delle pagine amorose fino alle crudezze della morte nella visione ultraterrena, emerge la perfezione dell’opera di Mozart: l’ambiguo protagonista compare e scompare senza mai presentarsi al pubblico con un’aria solistica, come solitamente vuole la tradizione operistica; la vitalità e la policromia con cui il compositore austriaco tratta l’orchestra nella fusione di elementi perfetti, semplici e lineari, mostrano la straordinaria abilità del suo genio. Anche l’organico strumentale, rispetto a quello utilizzato precedentemente, si amplia: il Mozart maturo conferma l’importanza dei fiati (flauti, oboi, fagotti, clarinetti ecc.) che diventano fondamentali per la sonorità orchestrale e a cui vengono affidate parti di rilievo melodico. Con Mozart, inoltre, si è ormai lontani dalla tipizzazione dei ruoli, caratteristica diffusa nella produzione melodrammatica precedente: tutti i personaggi hanno una sfaccettatura psicologica; l’opera, infine, afferma decisamente la supremazia dell’architettura musicale a detrimento del libretto, aprendo così le porte alla futura affermazione ottocentesca dell’opera lirica. Le novità musicali

Austin Kness nei panni di Don Giovanni cerca di sedurre Zerlina impersonata da Joelle Harvey nel Don Giovanni di Mozart, San Francisco, Cowell Theater, 30 luglio 2008.

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Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

5 Le straordinarie novità di Shakespeare

Il “teatro elisabettiano”

Il teatro in Inghilterra In Inghilterra domina incontrastata, a livello europeo, la personalità di William Shakespeare ( cap. 1, A10, p. 53), che rinnova con straordinario vigore le forme della scrittura teatrale, conducendole verso una modernità destinata ad avere, a partire dal Romanticismo ottocentesco, i suoi più ampi riconoscimenti. Il problema del male e la crudeltà del potere hanno, nelle tragedie, una forza tale da rompere gli schemi delle rappresentazioni tradizionali, sia sul piano della storia sia su quello dell’individuo, raffigurato nelle sue follie deliranti ma anche nei tormentati turbamenti dei sensi di colpa e nelle crisi della coscienza (non meno riuscita, nel gioco talora fantastico e surreale degli equivoci e degli inganni, è la pittura dei sentimenti nelle numerose commedie shakespeariane). Ma la grandezza di Shakespeare non si capisce se non si inserisce in quel moto di rinnovamento che va sotto il nome di “teatro elisabettiano”, così definito perché fiorì durante il regno di Elisabetta I (1558-1603), che ne promosse gli sviluppi, e proseguì con l’avvento del successore Giacomo I (1603-25). I suoi principali esponenti ( Il teatro elisabettiano, p. 148) costruirono le loro tragedie con una libertà di invenzione che rifiutava ogni regola prestabilita, introducendo tematiche fosche e cupe, scene di sangue e di orrore (sull’esempio soprattutto delle tragedie latine di Seneca).

William ShakeSpeare

Capitolo 1, a10, p. 53

Le opere teatrali Se si eccettuano i Sonetti ( cap. 1, p. 54), che sono tra i risultati più

La vastità della produzione teatrale

Mescolanza degli stili e rifiuto delle unità aristoteliche

Testo critico E. Auerbach

Le opere comiche e tragiche

alti della lirica europea del XVII secolo, Shakespeare ha legato il suo nome alla più vasta e imponente produzione di letteratura teatrale di tutti i tempi. Si può dire che nessun territorio gli sia stato precluso, né sul piano tragico né su quello comico, fino a unire le due componenti in quella dimensione del grottesco che piacerà ai romantici, insieme con il rifiuto della mitologia (prediletta invece dal teatro dei classicisti, come nel caso di Racine) e l’amore per la storia. Grazie alla mescolanza degli stili e al rifiuto delle unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione, Shakespeare inaugura la stagione del teatro moderno, quale si verrà sviluppando nei secoli XIX e XX. La sua produzione è caratterizzata da una libertà di forme e di modi che cerca le fonti della sua ispirazione nei più vari soggetti e nei più vari momenti, dalla storia antica a quella recente, dalla letteratura dei secoli precedenti (da novelle italiane del Cinquecento derivano l’Otello e Romeo e Giulietta) al patrimonio popolare delle superstizioni e delle leggende, sino all’invenzione creativa di personaggi indimenticabili come Amleto. Penetrando nelle pieghe più nascoste e segrete dell’animo umano, Shakespeare ha saputo rivelare il volto demoniaco del potere, gli eccessi della crudeltà e dell’odio, la violenza invincibile delle passioni; al tempo stesso è riuscito a toccare le corde più tenere dei sentimenti e degli affetti. Abile nel muovere sulla scena un grande numero di personaggi, ha dato vita anche a indimenticabili personalità di grande risalto scenico, mosse da sentimenti, nel bene e nel male, eccezionali, forti e profondi. Tra le commedie ricordiamo La bisbetica domata, il Sogno di una notte di mezz’estate, Il mercante di Venezia ( T10, p. 172), Molto rumore per nulla, La dodicesima notte e Le allegre comari di Windsor. Per quanto riguarda le opere tragiche Giorgio Melchiori, che ha curato un’autorevole edizione bilingue di tutti i drammi shakespeariani, in inglese e nella traduzione italiana, ha proposto questi raggruppamenti: 1. i drammi dialettici: Amleto, Troilo e Cressida, Tutto è bene quel che finisce bene e Misura per misura; 2. le tragedie: Romeo e Giulietta, Otello, Re Lear e Macbeth; 3. i drammi classici: Tito Andronico, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano e Timone di Atene, Pericle; 147

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Il linguaggio immaginifico

4. i drammi romanzeschi: Cimbelino, Il racconto d’inverno, La tempesta, I due nobili congiunti; 5. i drammi storici: Riccardo II, Enrico IV, Enrico V, Enrico VI (in tre parti), Riccardo III, Re Giovanni, Edoardo III, Tommaso Moro e Enrico VIII. Uno sguardo allo sviluppo cronologico mostra l’affinarsi delle capacità tecniche del drammaturgo, che tuttavia già nell’ultimo decennio del XVI secolo ci dà alcuni dei suoi capolavori, come l’Amleto ( T8, p. 160), che propone il dramma della volontà e della decisione, o il Riccardo III ( T6, p. 150), dove si staglia la potente figura di un eroe del male. Sul piano stilistico si registra sin d’ora l’uso di un linguaggio ricco di immagini potenti, intessuto di ardite e suggestive metafore, per la straordinaria capacità di far coesistere registri diversi, dal patetico al tragico. Diverse sono sin d’ora le influenze, da quella di Plauto nella Commedia degli equivoci alla tragedia di Seneca nel Livio Andronico e alla novella cinquecentesca di Luigi da Porto in Romeo e Giulietta (che Shakespeare conobbe però nella rielaborazione di Matteo Bandello, T7, p. 157).

microsaggio Il teatro elisabettiano

Lo sviluppo del teatro professionistico Il condizionamento del pubblico

La scena drammatica inglese ai tempi di Shakespeare Con l’avvento al trono di Elisabetta I (15581603) Londra conobbe uno sviluppo culturale senza precedenti e vide l’affermazione del teatro professionistico, che soppiantò quasi del tutto le rappresentazioni di piazza, nelle locande e nelle case private. Nacquero, di conseguenza, i primi veri e propri edifici teatrali. La scrittura drammatica fu così sollecitata dalle richieste del nascente “mercato spettacolare”: la popolazione infatti gremiva le rappresentazioni teatrali, in un periodo in cui la relativa pace politica interna favoriva l’evasione e l’intrattenimento. Il clima culturale dell’epoca, perciò, indusse gli autori drammatici a sperimentare direttamente sulla scena le loro composizioni, in una Londra in fermento in cui il pubblico indirizzava pesantemente le scelte degli artisti, costretti a rivaleggiare tra loro per ottenere il maggior consenso possibile.

I nuovi teatri L’evoluzione architettonica dell’edificio teatrale Il primo edificio appositamente costruito per le pub-

Le modificazioni della scrittura drammatica

La sperimentazione scenotecnica

bliche rappresentazioni fu il Theatre (1576), collocato però fuori dal centro storico di Londra per via delle resistenze della borghesia puritana. Ne seguirono molti altri, tra i quali il Globe Theatre (1599, distrutto da un incendio nel 1613), il cui nome allude esplicitamente al mondo e quindi al teatro come sua metafora, gestito dalla compagnia di cui faceva parte lo stesso Shakespeare, i Lord Chamberlain’s Men. La loro struttura architettonica dettava condizioni rigorose alla scrittura drammatica: «uno spazio […] senza possibilità di mutamenti di scena o di effetti di luce […] così da privilegiare esclusivamente la parola e il gesto […]. D’altra parte lo spettatore non era separato dall’attore […]: la comunicazione era immediata, il monologo e l’aside [l’“a parte”] trasformavano lo spettatore […] in interlocutore diretto o addirittura in confidente» (Melchiori). Successivamente sorsero anche teatri al chiuso a più piani, con un proscenio privo di sipario, nei quali si recitava alla luce artificiale ed era possibile inserire elementi scenografici: fu così possibile sperimentare tecniche rappresentative che permisero un progressivo superamento delle precedenti convenzioni comunicative.

Gli autori elisabettiani Tra i molti scrittori di teatro che contesero a Shakespeare la scena londinese vanno ricordati quegli autori che seppero elevarsi al di sopra della condizione di semplici “fornitori” di coMarlowe pioni per le compagnie della capitale. Tra questi Christopher Marlowe (1564-93), personalità irrequieta di letterato, morto in una rissa in giovane età. Di lui si ricordano Tamerlano il Grande (1587-88), sulle gesta di Tamerlano, crudele conquistatore dei grandi regni dell’Asia, piegato e sconfitto solo dalla morte; e la tragedia Dottor Faust (1588-93), «parabola della ricerca della conoscenza e del potere infinito che anima la nuova civiltà, e dei limiti che la natura a tale ricerca impone» (Marenco). Jonson Attivi durante il regno di Giacomo I (1603-25) furono poi Ben Jonson (1572-1637), poeta, letterato e e Chapman drammaturgo dalla forte vena satirica, e George Chapman (1559-1634), autore anch’egli di drammi satirici, dove centrale è la messa in ridicolo dell’eroismo e della classicità, oltre a John Webster (1580 ca.1625 ca.) e a John Ford (1586-1636 ca.).

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Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

Le opere teatrali di Shakespeare Periodo di composizione

Drammi storici inglesi

Drammi storici romani e greci

Commedie

Drammi dialettici

Tragedie

Drammi romanzeschi

La bisbetica domata (1588-93)

GLI uLTImI AnnI DeL reGno DI eLISABeTTA I (1594-1603)

GLI eSorDI (1588-94)

La commedia degli equivoci (1590-94) Enrico VI (1588-92)

I due gentiluomini di Verona (1590-96)

Riccardo III (1593-95)

Pene d’amor perdute (1593-96) Sogno di una notte di mezz’estate (1593-96)

Tito Andronico (1594)

Romeo e Giulietta (1592-94)

Re Giovanni (1594-95) Riccardo II (1594-96)

Il mercante di Venezia (1596)

Enrico IV (1597-98)

Molto rumore per nulla (1598)

Enrico V (1597-99)

Giulio Cesare (1599)

Come vi piace (1599-1600)

Tutto è bene quel che finisce bene (1599-1602)

Sir Falstaff e le allegre comari di Windsor (1600-01)

Amleto (1598)

La dodicesima notte o quel che volete (1601)

Troilo e Cressida (1601-02) Misura per misura (1603-04) Otello (1604-05)

I prImI AnnI DeL reGno DI GIAComo I (1603-08)

Timone d’Atene (1605-08)

Re Lear (1605-06) Macbeth (1606)

Antonio e Cleopatra (1606-09)

L’uLTImA FASe (1608-16)

Coriolano (1606-09)

Pericle, principe di Tiro (1607-08)

Cimbelino, re di Britannia (1607-10) Il racconto d’inverno (1608-11) La tempesta (1611)

Enrico VIII (1613)

I due nobili congiunti (1613)

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza Il passato della storia inglese La vivacità delle commedie

I capolavori della maturità



Testi Shakespeare Il Re e il Buffone da Re Lear

L’ultima fase

Testi Shakespeare • Riccardo conquista lady Anna con il potere persuasivo delle parole dal Riccardo III

T6

Negli anni a cavallo tra i due secoli, sino alla morte della regina Elisabetta, Shakespeare ripercorre con i suoi drammi storici il passato della storia inglese, a cui, sia pure stigmatizzando le crudeltà e gli eccessi, si guarda con l’orgoglio di una nazione che si sta affermando come grande potenza sulla scena della politica europea. Particolarmente vivace è anche la drammaturgia comica, che, ispirandosi alla commedia italiana del Cinquecento per quanto riguarda lo sviluppo degli intrecci basati sugli equivoci e sui travestimenti, dà vita a opere caratterizzate da un dialogo arguto, vivace e brillante, oltre che da una delicata rappresentazione del sentimento amoroso. Seguono quelli che si possono definire i grandi capolavori della maturità: l’Otello, anch’esso riduzione scenica di una novella dello scrittore cinquecentesco Matteo Bandello, in cui si assiste, nel bene e nel male, all’esplosione di travolgenti passioni, dalla gelosia alla sete di vendetta; Re Lear, che si può definire una tragedia della paternità, prima colpevole nei confronti di una delle tre figlie, ripudiata dal protagonista, e poi vittima dell’ingratitudine delle altre due, da lui privilegiate; Macbeth ( T9, p. 167), in cui la sete di potere determina una rappresentazione del male allo stato puro, con una crudeltà e una violenza incontenibili, capaci di sprigionare la primordiale superstizione degli spettri infernali (non meno crudele, nella tragedia, è la figura di Lady Macbeth). Nell’ultima fase Antonio e Cleopatra si collega, dal punto di vista della storia, al precedente Giulio Cesare, imperniato sul tirannicidio di Bruto. Infine se l’Enrico VIII prosegue la serie dei drammi legati alla storia della monarchia inglese e al crudele esercizio della lotta per il potere, ben diverso è lo stemperarsi dei conflitti politici in una commedia come La tempesta, in cui la vicenda della destituzione e della cacciata di Prospero, duca di Milano, da parte del fratello, Antonio, si risolve alla fine placando il forte conflitto delle passioni in una più riposante atmosfera di serenità e di perdono. William Shakespeare

L’omicidio e l’orrore degli incubi

Temi chiave

• l’ambiguità e malvagità del protagonista • la rappresentazione dell’inconscio attraverso un incubo

dal Riccardo III, atto I, scene III e IV Riccardo ordina a due sicari di uccidere Clarence, che nella notte ha un sogno premonitore.

Atto I, scena III riccardo

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Sono il primo a indignarmi per il male che faccio: attribuisco ad altri i segreti misfatti che intraprendo; ho mandato in gattabuia1 Clarence, ma lo compiango per2 questi sempliciotti – ossia Derby, Hastings, Buckingham - e sostengo che è stata la regina e i suoi confederati3 ad aizzare il re contro il duca mio fratello. Loro mi credono e mi sollecitano a vendicarmi di Rivers, Dorset, Grey. Io sospiro e, citando la Bibbia, ricordo che Dio ci impone di rendere bene per male: così rivesto la mia nuda ferocia nei vecchi stracci delle sacre scritture, e sembro santo quanto più faccio il diavolo. 1. gattabuia: prigione. Entrano due assassini 2. per: davanti a. Piano, arrivano i miei due carnefici. 3. confederati: alleati.

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

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Come va, forti e risoluti amici, siete pronti a dar capo alla4 faccenda?

[primo] assassino Sì, e ci serve l’autorizzazione per entrare nel luogo dove è rinchiuso. riccardo

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Giusto, giustissimo, l’ho portata con me. Appena fatto, venite a Crosby Place. Signori, agite senza esitazione, siate di sasso, non date ascolto a suppliche: Clarence ha buona lingua, se l’ascoltate potrebbe forse indurvi a compassione.

[primo] assassino 350

Macché, non perderemo tempo in chiacchiere. Chi parla troppo, poco fa: credetemi, useremo le mani, non la lingua. riccardo

Gli sciocchi piangono lacrime, ma voi pietre. Ragazzi, mi piacete. Sù, al lavoro, andate, e fate presto.

[primo] assassino Sissignore. Escono Atto I, scena IV Entrano Clarence e un carceriere carceriere

Perché siete oggi così triste, signore? clarence

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Perché ho passato una nottata orrenda, piena di sogni tetri, brutte visioni. Giuro sulla mia fede di cristiano che non vorrei passarne un’altra uguale, neanche per tutto un mondo di giorni lieti, tanto era piena di visioni agghiaccianti. carceriere

Com’era il sogno? Raccontatemi, vi prego.

4. dar capo alla: dar compimento alla, compiere la.

L’opera

riccardo III di William Shakespeare Incurante delle unità aristoteliche, la tragedia porta sulla scena gli episodi salienti di un ampio affresco storico. Il fratello del re Edoardo IV, Riccardo duca di Gloucester, e futuro re con il nome di Riccardo III, con una serie di inganni, di violenze e di delitti riesce a conquistare il trono. Dapprima fa uccidere il fratello maggiore, Clarence, che era stato complice dei suoi misfatti, e convince Anna a sposarlo in presenza del cadavere del marito, per poi ripu-

diarla con l’intenzione di sposare la nipote Elisabetta. Morto il re, diventa reggente, in attesa che il figlio e successore di Edoardo VI compia la maggior età; ma subito lo fa imprigionare, e alla fine uccidere, con il fratello. Insieme con loro elimina i nobili che gli sono ostili, determinando la ribellione del duca di Buckingham, anch’egli catturato e giustiziato, e del conte di Richmond, il cui esercito riuscirà alla fine a ucciderlo nella battaglia di Bosworth.

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clarence

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Ero fuggito, credo, dalla Torre5 sopra un battello diretto in Borgogna6, e mio fratello Gloucester7, ch’era con me, mi invitava a salire in coperta, e guardavamo verso l’Inghilterra, ricordando le guerre fra York e Lancaster8 e i mille rischi tremendi vissuti in quelle guerre. Mentre passeggiavamo sul dondolante assito della coperta9, vidi Gloucester che inciampava e cadeva spingendo me, che volevo trattenerlo, nelle onde rivoltose10 dell’oceano. Pensai, o Dio, che dolore annegare, che tremendo rumore di acqua nelle orecchie, che brutte immagini di morte negli occhi! Vidi mille relitti, credo, di navi, migliaia di uomini rosicchiati dai pesci, lingotti d’oro, ancore, mucchi di perle, pietre preziose, gioielli senza prezzo sparsi nel fondo del mare. Taluni dentro i teschi dei morti, e nelle orbite ove un tempo erano occhi, si trovavano, quasi a scherno degli occhi11, gemme lucenti

5. Torre: dove Clarence è incarcerato. 6. in Borgogna: verso le terre del ducato di Borgogna, nella Francia nord-orientale. 7. Gloucester: il fratello Riccardo.

8. York e Lancaster: le due casate che si contesero il Regno d’Inghilterra nella seconda metà del XV secolo. 9. assito della coperta: pavimento di assi

della parte alta della nave. 10. rivoltose: tumultuose, burrascose. 11. quasi … occhi: quasi volessero schernire gli occhi.

William Hogarth, L’attore David Garrick nel ruolo di Riccardo III, 1741, olio su tela, Collezione privata.

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Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

per sedurre quell’abisso melmoso, e farsi gioco delle ossa dei morti sparse all’intorno. carceriere

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E aveste tempo, nel punto di morte, di osservare i segreti degli abissi? clarence

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Così mi parve: io volevo rendere lo spirito12, ma quel mare invidioso lo ricacciava dentro, non lo lasciava cercare l’aria vasta, errante13 e vuota, ma lo rinserrava nel mio corpo ansimante, che quasi scoppiava, nello sforzo di rigettarlo in mare. carceriere

E non vi risvegliò questo tormento? clarence

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No, no, il sogno durava oltre la vita. Oh, che tempesta si scatenò nell’anima, che varcava, mi sembra, il triste fiume14, col barcaiolo tetro dei poeti15, diretta al regno della notte perpetua16. II primo a accogliere la mia anima straniera fu il grande Warwick, il mio famoso suocero, urlando “Che supplizio per spergiuri può offrire questa buia monarchia17 al falso Clarence?” Dopo di che scomparve. Mi venne incontro allora un’ombra errante simile a un angelo, coi capelli biondi insanguinati, e strillò forte “È giunto il falso Clarence, incostante e spergiuro, che mi trafisse sul campo di Tewksbury. Furie18, straziatelo coi vostri tormenti!” Mi parve che una folla di orrendi demoni mi circondasse e mi urlasse all’orecchio grida così tremende che col rumore mi risvegliai tremante, e per un pezzo avrei giurato ch’ero nell’inferno, così forte impressione mi fece il sogno. carceriere

Capisco, sì, che vi abbia spaventato: solo a sentirlo ha spaventato me! W. Shakespeare, Riccardo III, in Teatro completo, a cura di G. Melchiori, trad. it. di J. R. Wilcock, vol. VIII, I drammi storici 2, Mondadori, Milano 1989

12. lo spirito: l’anima. 13. errante: vagante. 14. fiume: l’Ade, il fiume infernale. 15. barcaiolo … poeti: Caronte, che, nell’E-

neide di Virgilio (libro VI) e nella Commedia di Dante (canto III), traghetta le anime nell’inferno. 16. notte perpetua: la notte eterna, la morte.

17. buia monarchia: il regno dei morti. 18. Furie: o Erinni, i mostri infernali Aletto, Tesifone e Megera.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Analisi del testo

> un protagonista malvagio e ambiguo

Malvagità e doppiezza di Riccardo III

Le due scene contigue si riferiscono alla fine del rapporto fra Riccardo III e il fratello Clarence, che, dopo aver servito il futuro sovrano, viene da lui imprigionato e fatto uccidere. Nelle prime battute è lo stesso Riccardo III, che, mentre si accinge a ordinare il delitto, rivela la sua falsità, l’aspetto camaleontico del suo carattere, che sa simulare e dissimulare, attribuendo ad altri le sue malvagie intenzioni. Privo di ogni scrupolo, la sua è una sorta di consapevole e voluta recitazione (quasi una sorta di teatro nel teatro) da parte di chi, per perseguire i suoi disegni di pura e «nuda ferocia» non esita a disprezzare la stessa religione, rivestendosi – con immagine blasfema – dei «vecchi stracci delle sacre scritture» (v. 336). Riccardo III incarna la quintessenza del male al punto da definirsi egli stesso un «diavolo», tanto più infido e pericoloso in quanto sa presentarsi sotto le vesti di un «santo». La sua crudeltà è pronta a trasformarsi in azione e rivela tutta la sua efferatezza nell’ordine impartito ai sicari, da cui traspare un sadico compiacimento nel commettere il male («Ragazzi, mi piacete! Su, al lavoro», v. 353).

> un incubo premonitore L’incubo di Clarence

I fantasmi dell’inconscio

Nel riandare al passato Clarence ricorderà il male da lui commesso, quando si era macchiate le mani di sangue per obbedire a Riccardo e compiacere a lui, e lamenterà l’ingratitudine con cui è stata ripagata la sua fedeltà. Ma soprattutto una sorta di sogno premonitore ha turbato l’ultima notte della sua vita, trasformandosi in un incubo popolato di fantasmi e di presenze angosciose. Al centro del sogno è il motivo del naufragio, con Riccardo che dapprima invita Clarence a salire sulla nave e poi lo fa precipitare «nelle onde rivoltose dell’oceano» (v. 21). Nelle profondità del mare si materializzano le ombre di uno sconvolgimento che, dopo l’assordante fragore nelle «orecchie», quasi a voler annullare la capacità di sentire e di pensare, si manifesta in macabri «immagini di morte», iperbolicamente amplificati («mille relitti … di navi, / migliaia di uomini rosicchiati dai pesci», vv. 25-26). Nel quadro di una fantasmagoria infernale i fantasmi dei nemici uccisi a tradimento, contraffatti e ancora insanguinati, si confondono con «una folla di orrendi demoni», dando luogo alle immagini di una straordinaria potenza espressiva e visionaria. La presenza dell’acqua si carica così di valenze simboliche, che trasformano l’incubo in una sorta di viaggio allucinato nell’inconscio, con la rivelazione paurosa delle sue angosce e l’abisso dei suoi orrori.

Esercitare le competenze ComprenDere

> 1. In che modo Riccardo III descrive se stesso all’inizio della scena? > 2. Riassumi il sogno di Clarence. AnALIzzAre

> 3. Rintraccia nel sogno di Clarence il contrasto tra lo sfavillio dell’oro e delle ricchezze, nel fondo dell’oceano, e

le immagini di morte e spiegane il senso. Stile Quale figura retorica rilevi nell’espressione di Riccardo: «sembro santo quanto più faccio il diavolo» (v. 337)?

> 4.

ApproFonDIre e InTerpreTAre

> 5.

Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) delinea un ritratto della complessa personalità di Riccardo III, splendido eroe del male e vero protagonista del dramma. > 6. Testi a confronto Confronta la capacità dialettica di Riccardo III con l’altrettanto abile uso della parola, spesso ingannatrice, di Don Giovanni di Molière ( T5, p. 141), specificandone e distinguendone i rispettivi obiettivi.

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Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

Interpretazioni critiche

Giorgio melchiori Shakespeare e il teatro moderno In queste pagine, tratte dal volume di Melchiori che s’intitola Shakespeare. Genesi e struttura delle opere, il critico mette in evidenza come Riccardo III sia “il primo dramma del teatro moderno” perché Riccardo è egli stesso autore della trama della vicenda costruita attraverso e grazie alle parole che egli pronuncia nel corso dello svolgimento del dramma. Tra le altre cose ciò mostra con particolare rilievo che il teatro è finzione, finzione che, proprio perché apertamente denunciata, tende a esprimere la verità della figura così forte e tremenda di Riccardo grazie all’astrazione che è propria dell’arte. L’altro motivo per cui Riccardo III, all’analisi profonda di Melchiori, rivela la sua modernità è insito nel fatto che «nella figura del protagonista, emerge l’eroe anti-eroe che dominerà tutto lo svolgimento del teatro moderno». In questo, infatti, dominano le figure moralmente e psicologicamente ambigue e contraddittorie in cui il confine morale tra bene e male non è più così nettamente definito come nelle epoche precedenti.

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Giorgio Melchiori (1920-2009) è un anglista di fama internazionale cui dobbiamo fondamentali indagini critiche su un ampio campo della letteratura inglese. I suoi studi shakespeariani culminarono, nel periodo che va dal 1971 al 1991, nella cura di tutto il teatro di Shakespeare nell’edizione mondadoriana dei “Meridiani”. Il suo metodo critico prendeva le mosse da un robusto substrato filologico – si deve a lui la riclassificazione tra le opere certamente shakespeariane di Re Edoardo III, prima considerato apocrifo – per coniugare poi con grande sagacia e profondità gli elementi storici in cui maturarono determinate opere con la loro collocazione nel genere, come risulta evidente dalle sue indagini sulla storia del teatro recitato elisabettiano, per giungere infine a indagare il loro valore artistico.

Richard III è forse il primo dramma del teatro moderno che abbia a protagonista non l’eroe tragico come tale, ma l’autore stesso della trama (il termine in questo caso non potrebbe essere più appropriato) che verrà rappresentata - una trama intesa come tessuto di parole, e tutta giocata sull’ambiguità e la pregnanza dell’espressione verbale. È la riscoperta che la finzione teatrale si sostanzia dell’inganno della parola, anzi che il teatro è tanto più verità quanto più è finzione. Riccardo allestisce lo spettacolo e si assicura la complicità del pubblico tenendolo puntualmente informato di quanto va tramando, come farà il Duca in Measure for Measure (nel suo caso, a fin di bene), come farà Iago in Othello, e come, in certa misura, fa il protagonista con l’aiuto del coro in Henry V 1. Questo dramma è dunque un passaggio fondamentale in quel processo di rifondazione della drammaturgia moderna operato da Shakespeare e che culminerà in Hamlet con il capovolgimento della funzione essenziale del teatro: da rappresentazione di un conflitto a indagine interna al personaggio e alla situazione esistenziale. È per questo che, sebbene Riccardo sia chiaramente concepito come raffigurazione su scala addirittura colossale del villain2, ossia del personaggio tradizionale del Vizio nei Moralities3, egli risulta una figura fascinosa con un ampio margine di ambiguità e un irresistibile senso di humour che va ben oltre la misura del grottesco4. È vero che il ruolo del

1. Measure for measure … Henry V: I riferimenti sono alle opere shakespeariane Misura per misura, Otello, Enrico V. 2. villain: il significato letterale è “furfante, malvivente”: nel teatro si tratta della figura del “cattivo” e del “malvagio”. 3. Moralities: letteralmente “Moralità” e

cioè un tipo di rappresentazione sacra, tipica dell’alto Medioevo, che, utilizzando la forma allegorica, persegue fini moralistici e edificanti. 4. un irresistibile … grottesco: come si evince dalle righe che seguono alla figura di Riccardo Shakespeare ha attribuito anche

la valenza di umorista “nero” proprio perché egli è un eroe tragico ma, contemporaneamente, un anti-eroe non solo in quanto espressione di malvagità assoluta ma anche perché spregiatore, attraverso questa forma di tetro humor, delle regole più sacre della morale umana.

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Vizio nelle sacre rappresentazioni era regolarmente assunto dal clown della compagnia, che aveva il compito di divertire l’uditorio con le sue battute salaci e azioni e allusioni furbesche. Ma il ruolo di Riccardo, e di ciò abbiamo testimonianze precise, era destinato al giovane primo attore della compagnia, Richard Burbage, il grande tragico per il quale Shakespeare scriverà le parti di Bruto, di Hamlet, di Othello, di Machbet, di Lear, di Timon e via dicendo. La grandezza e l’originalità del personaggio di Riccardo nascono dal suo essere stato concepito come ruolo di villain-clown destinato ad un grande attore tragico. Riccardo è così insieme eroe e anti-eroe, manipolatore del destino proprio e altrui: non solo regista dell’evento teatrale, ma sintesi e personificazione di tale evento, emblema del Teatro. Gli altri personaggi esistono in funzione di Riccardo, a partire da quel duca di Buckingham (il personaggio con la parte più estesa dopo quella di Riccardo) che appare come una sua creatura: la fine tragica di Buckingham è dovuta alla sua incapacità di condividere appieno la malvagità totale del suo signore. Il dramma è costruito attraverso una serie di corrispondenze e parallelismi emblematici: al conte di Richmond, il futuro Enrico VII, presente solo nelle ultime scene della tragedia, fa riscontro Clarence, presente solo nelle prime; sono i due personaggi positivi, ed è significativo che i momenti più importanti della loro presenza sulla scena siano contrassegnati dalla narrazione o dalla rappresentazione dei loro sogni profetici. La stupenda raffigurazione degli abissi marini sognati da Clarence (I, iv 1-75) ne annunciano la morte imminente turbata da rimorsi di coscienza, mentre la processione dei fantasmi delle vittime di Riccardo che appare a Richmond alla vigilia della battaglia decisiva (V, iii 119-77) è l’annuncio della sua vittoria. La seconda di queste scene simmetriche, alternando al sogno di Richmond quello di Riccardo, si propone, attraverso la presenza degli spettri, di comunicare anche mediante l’elemento visivo quella dimensione metafisica della tragedia che nel sogno narrato da Clarence è data dalla sua qualità lirica. […] In Richard III dunque al dramma di storia inglese si aggiunge una nuova dimensione che lo accomuna ad una tradizione teatrale ben più antica e, al tempo stesso, nella figura del protagonista, emerge l’eroe anti-eroe che dominerà tutto lo svolgimento del teatro moderno. G. Melchiori, Shakespeare. Genesi e struttura delle opere, Laterza, Roma-Bari 2005

Esercitare le competenze ComprenDere

> 1. Spiega, in base al testo, il significato dell’affermazione «È la riscoperta che la finzione teatrale si sostanzia dell’inganno della parola, anzi che il teatro è tanto più verità quanto più è finzione» (rr. 6-8). > 2. Definisci, in base al testo, il ruolo del «Vizio» (r. 17) secondo Melchiori. > 3. Che cosa afferma il critico a proposito dell’elemento, riscontrato nell’opera di Shakespeare, del “sogno”? AnALIzzAre

> 4.

Lessico Spiega il significato nel testo, in relazione al contenuto, dei termini «emblema» ed «emblematici» (rr. 28 e 33).

ApproFonDIre e InTerpreTAre

> 5.

esporre oralmente In un’esposizione orale (max 5 minuti) motiva, in base agli studi effettuati riguardo l’opera di Shakespeare, l’affermazione del critico «Questo dramma […] e alla situazione esistenziale» (rr. 11-15).

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Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

T7

William Shakespeare

Temi chiave

Amore e morte

• l’impossibilità di un amore terreno • l’eternità dell’amore

da Romeo e Giulietta, atto V, scena III Il tragico equivoco finale determina la morte dei due amanti. romeo

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O mio amore, mia sposa! La morte, che ha già succhiato il miele del tuo respiro, nulla ha potuto sulla tua bellezza. Ancora non sei vinta, e l’insegna1 di bellezza, sulle labbra e sul viso, è ancora rossa, e la pallida bandiera della morte su te non è distesa. […] O amata Giulietta, perché sei ancora bella? Ti ama forse la morte senza corpo? L’odioso, squallido mostro ti tiene qui nell’ombra come amante? Questo io temo, e resterò con te, per sempre, chiuso nella profonda notte. Qui voglio restare, qui, coi vermi, i tuoi fedeli; avrò qui riposo eterno, e scuoterò dalla carne, stanca del mondo, ogni potenza di stelle maligne2. Occhi, guardatela un’ultima volta, braccia, stringetela nell’ultimo abbraccio, o labbra, voi, porta del respiro, con un bacio puro suggellate un patto senza tempo con la morte che porta via ogni cosa. Vieni, amara guida3, vieni, scorta ripugnante. E tu, pilota disperato4, avventa veloce su gli scogli la tua triste barca stanca del mare. Eccomi, o amore! [Beve] O fedele mercante5, i tuoi veleni sono rapidi: io muoio con un bacio! [Muore]

1. l’insegna: il segno, l’immagine, nel senso del colorito. 2. ogni … maligne: ogni influsso astrale negativo, diabolico.

3. guida: la morte, come scorta che segue. 4. pilota disperato: la figura mitologica di Caronte, che traghettava (pilota, nocchiero) le anime dei dannati nell’aldilà (si trova sia

nel libro VI dell’Eneide di Virgilio sia nel canto III dell’Inferno di Dante). 5. mercante: che aveva procurato il veleno a Romeo.

L’opera

romeo e Giulietta di William Shakespeare La tragedia, ambientata a Verona, rappresenta la celebre vicenda, tratta dalla novellistica italiana del Cinquecento, dell’amore dei giovani appartenenti alle due famiglie rivali dei Montecchi e dei Capuleti. Non riuscendo a vincere l’opposizione dei parenti, Romeo e Giulietta decidono di fuggire e di unirsi in matrimonio. Vengono aiutati da un frate, Lorenzo, che ricorre allo stratagemma di far bere a Giulietta una pozione capace di procurare una morte ap-

parente. La giovane viene sepolta ma Romeo, che ignora il piano di fuga, la crede morta e si toglie la vita dopo aver ucciso Paride, che il padre di Giulietta le aveva destinato come sposo. Al risveglio Giulietta scopre il cadavere di Romeo e decide a sua volta di uccidersi, immergendosi il pugnale del giovane nel petto. Entrambi verranno seppelliti in un’unica tomba e fra le famiglie nemiche tornerà la pace.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Entra frate Lorenzo con una lanterna, la leva di ferro e una vanga

[…] frate lorenzo

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Romeo! Si china a guardare il sangue e le armi Ahimè, che cosa vuol dire questo sangue sull’entrata della tomba? Che significano queste spade sporche di sangue, in questo luogo di pace? Romeo! Oh, come è pallido! E chi c’è ancora? Come? Anche Paride? E tutto insanguinato? E quando sarà avvenuta questa sventura? La fanciulla si muove. Giulietta si sveglia giulietta

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O frate consolatore, dov’è il mio Romeo? Ricordo bene dove avrei dovuto trovarmi. E infatti sono qui. Dov’è il mio Romeo? frate lorenzo

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Sento rumore, esci da quel luogo di morte, di putrefazione e di sonno non naturale. Una forza superiore a cui non possiamo opporci ha contrastato i nostri progetti. Vieni, vieni via! Il tuo sposo è morto e si trova al tuo fianco; e anche Paride6. Vieni, ti farò entrare in un convento di monache. Non perdiamo tempo, ora, non domandarmi; la guardia sta per arrivare. Vieni, andiamo via, buona Giulietta. Non è prudente restare qui.

6. Paride: il giovane innamorato di Giulietta e destinato dal padre a sposarla.

Theodore Chasseriau, La morte degli amanti, XIX secolo, olio su tela, studio per Romeo e Giulietta di William Shakespeare, Parigi, Musée du Louvre.

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Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea giulietta

Ebbene; vattene; io non ti seguirò. Esce frate Lorenzo

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Che c’è qui? Una tazza, stretta ancora dalla mano del mio fedele amore7. Capisco, è stato il veleno a ucciderlo prima del tempo. Oh, egoista! L’ha bevuto tutto e non ne ha lasciato una goccia amica per me. Ora lo bacerò: forse un po’ di veleno è rimasto sulle sue labbra e basterà a darmi una morte consolatrice. [Lo bacia] Le tue labbra sono calde! Entrano le guardie e il paggio di Paride prima guardia

Guidaci, ragazzo. Quale è la strada? giulietta

Ancora rumore! Devo fare presto. Oh, caro pugnale! Questo è il tuo fodero! Riposa qui e fammi morire.

Si uccide con il pugnale [di Romeo]

7. fedele amore: Romeo.

W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, in Teatro completo, a cura di G. Melchiori, trad. it. di S. Quasimodo, vol. IV, Le tragedie, Mondadori, Milano 1976

Analisi del testo Amore e morte

L’unione delle simboliche nozze

Come nella novella italiana di Bandello, da cui è stata ricavata la vicenda, la tragedia shakespeariana ha il suo approdo risolutivo nella grande tematica di amore e morte, che ha una sorta di archetipo nella più famosa leggenda della letteratura dell’età cortese. Ci riferiamo alla vicenda di Tristano e Isotta, suggellata dalla morte degli amanti, per l’equivoco della presunta morte di uno di essi. Analogo è il destino dei due protagonisti della tragedia: la presunta morte di Giulietta spinge Romeo a darsi la morte, a cui seguirà quella della giovane. Naturalmente l’azione si basa su elementi avventurosi, per vincere gli ostacoli che le famiglie nemiche oppongono al matrimonio dei due innamorati, fino a quando frate Lorenzo, per poterli sposare di nascosto, provoca la morte apparente della giovane; morte che, creduta vera, prelude alla catastrofe finale. Non a caso, allora, Romeo si rivolge a Giulietta con l’appellativo di «sposa», quando ancora i colori della vita mantengono intatta la sua bellezza, quasi a sfidare quella morte che sembra mettere il suggello della fine a ogni speranza. L’«abbraccio» e il «bacio» sono gli ultimi segni dell’impossibile amore terreno che tuttavia, vincendo le leggi della natura, proseguirà anche dopo la morte, superando la macabra immagine dei «vermi» e consentendo di restare con la donna amata «per sempre, chiuso nella profonda notte». A compiere l’opera sarà Giulietta, che al risveglio, trovando morto Romeo, lo bacia sulle «calde» labbra per seguirne poi in maniera speculare la sorte, immergendosi nel petto il pugnale dell’amato, in una simbolica comunione finale: «Oh, caro pugnale! / Questo è il tuo fodero! Riposa qui e fammi morire». L’amore, impossibile in vita, può così trionfare sulla vita stessa, congiungendo i due amanti, che verranno sepolti nella medesima tomba, per l’eternità. Il loro sacrificio avrà anche una funzione positiva, portando la pace fra le due famiglie rivali. 159

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Esercitare le competenze ComprenDere

> 1. Riassumi il contenuto del brano. > 2. Perché Romeo chiama Giulietta «mia sposa»? AnALIzzAre

> 3.

Stile

Individua le metafore presenti all’interno del monologo di Romeo.

ApproFonDIre e InTerpreTAre

> 4.

Scrivere Metti in evidenza, in un testo di circa10 righe (500 caratteri), il nesso tra amore e morte, come appare in questo brano e nell’intero dramma.

SCrITTurA CreATIVA

> 6. Immagina per il dramma un finale diverso, un lieto fine ad esempio, riscrivendo l’epilogo ed individuando un modo, un espediente narrativo, affinché tutto si chiarisca. pASSATo e preSenTe Amore e morte oggi

> 6. Talvolta la passione amorosa si spinge fino a limiti estremi, all’autodistruzione e alla morte: qual è a tuo avviso il limite tra amore per l’altro e perdita di sé? Non credi che per amare davvero qualcuno si debba amare prima di tutto se stessi? Motiva la tua risposta dopo esserti confrontato con il docente e i compagni in una discussione in classe.

Testi Shakespeare • L’ingresso in scena di Amleto • L’“ombra” tra Amleto e Gertrude • La morte di Amleto dall’Amleto

T8

William Shakespeare

Temi chiave

«essere o non essere» da Amleto, atto III, scena I

• l’ingannevole apparenza della realtà • la problematicità dell’esistenza • la paura della morte

È la famosa riflessione con cui Amleto esprime i suoi dubbi sul significato della vita.

Atto III, scena I amleto

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1. di: da parte della. 2. dardi: frecce. 3. al crepacuore: alle più acute sofferenze.

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Essere… o non essere. È il problema. Se sia meglio per l’anima soffrire oltraggi di1 fortuna, sassi e dardi2, o prender l’armi contro questi guai e opporvisi e distruggerli. Morire, dormire… nulla più. E dirsi così con un sonno che noi mettiamo fine al crepacuore3 ed alle mille ingiurie naturali, retaggio4 della carne! Questa è la consunzione5 da invocare devotamente. Morire, dormire; dormire, sognar forse… Forse; e qui è l’incaglio6: che sogni sopravvengano 4. retaggio: eredità. 5. la consunzione: il modo di consumarsi, di finire.

6. l’incaglio: l’ostacolo, l’intoppo.

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dopo che ci si strappa dal tumulto della vita mortale7, ecco il riguardo8 che ci arresta e che induce la sciagura a durar tanto anch’essa9. E chi vorrebbe sopportare i malanni e le frustate dei tempi, l’oppressione dei tiranni, le contumelie10 dell’orgoglio, e pungoli d’amor sprezzato e rèmore11 di leggi, arroganza dall’alto e derisione degl’indegni sul merito paziente12, chi lo potrebbe mai se uno può darsi quietanza col filo d’un pugnale13? Chi vorrebbe sudare e bestemmiare spossato, sotto il peso della vita, se non fosse l’angoscia del paese dopo la morte14, da cui mai nessuno è tornato, a confonderci il volere15 ed a farci indurire ai mali d’oggi piuttosto che volare a mali ignoti16? La coscienza, così, fa tutti vili, così il colore della decisione al riflesso del dubbio si corrompe e le imprese più alte e che più contano si disviano17, perdono anche il nome dell’azione. Ma zitto! Ora la bella Ofelia s’avvicina. W. Shakespeare, Amleto, in Teatro completo, a cura di G. Melchiori, trad. it. di E. Montale, vol. III, I drammi dialettici, Mondadori, Milano 1971

7. dopo … mortale: dopo la morte (la vita è vista come un tumulto, un’esperienza caotica e tumultuosa). 8. il riguardo: la cautela. 9. tanto anch’essa: quanto dura la vita. 10. le contumelie: le offese, gli oltraggi. 11. rèmore: indugi provocati dalle leggi.

12. merito paziente: il merito che ha la pazienza di aspettare i riconoscimenti che gli sarebbero dovuti. 13. può … pugnale: può procurarsi la ricevuta (quietanza, nel senso di saldare il conto con la vita) uccidendosi con la lama di un pugnale.

14. paese … morte: l’aldilà. 15. confonderci il volere: confondere la nostra volontà. 16. ignoti: che, dopo la morte, non si conoscono. 17. si disviano: si sviano, si allontanano dalla giusta via.

L’opera

L’Amleto di William Shakespeare Ad Amleto, principe di Danimarca, appare lo spettro del padre, che accusa il fratello, Claudio, di averlo assassinato per sposare la regina, Gertrude, e salire al trono. Dopo aver giurato vendetta, si finge pazzo per scoprire i colpevoli, ma la sua decisione è turbata da dubbi e incertezze. Ama Ofelia, figlia del ciambellano Polonio, ma la respinge e poi ne uccide il padre, che ascoltava di nascosto i suoi colloqui con la madre, in cui Amleto cercava di scoprire la verità. Claudio lo manda in Inghilterra con l’intenzione di eliminarlo. Nel frattempo Ofelia impazzisce e si annega; il

fratello, Laerte, sfida Amleto a duello, per vendicare il padre e la sorella. Ma Claudio ha fatto avvelenare la punta della spada di Laerte e la coppa di vino da offrire ad Amleto, che viene ferito, ma riesce a uccidere Laerte e il re. Muore anche la regina, dopo aver bevuto il veleno destinato al figlio, che, in punto di morte, chiede all’amico Orazio (il solo che abbia avuto e gli sia stato vicino) di narrare la sua storia. Il governo del regno sarà assunto dal principe di Norvegia, Fortebraccio, che sbarca in Danimarca col suo esercito.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Analisi del testo Il momento del dubbio

Il rapporto problematico con la realtà

Il mistero della morte Il problema dell’esistenza

> Le paure e le incertezze della vita

Nel momento in cui, scoperta la verità, decide di vendicarsi dello zio fratricida e usurpatore, Amleto è colto dal dubbio, da un’esitazione, che lo induce a interrogarsi sulle ragioni e sui fini dell’esistenza. L’interrogativo «Essere… o non essere», con cui si apre il più celebre monologo di tutta la storia del teatro, pone l’accento sulle diverse e tra loro contrastanti tendenze che si manifestano nella natura umana senza riuscire a comporsi o ad amalgamarsi, impedendole di raggiungere una definita identità. È l’indecisione che, nascendo da un travaglio della mente e della coscienza, rende complesso e problematico il rapporto con la realtà; una realtà di cui sembra venir meno la consistenza oggettiva, per ridursi a un’ingannevole apparenza, priva di direzioni da percorrere e di scopi da realizzare. La vita appare così non solo come un mistero indecifrabile ma anche come un male, o meglio una serie infinita di mali, da cui solo con la morte ci si potrebbe liberare; ma neppure questa soluzione è praticabile, dal momento che – è detto con immagine di potente suggestione – ci sgomenta «l’angoscia del paese / dopo la morte, da cui mai nessuno / è tornato» (vv. 247-249). Tra le sofferenze che ci affliggono durante una vita tutta negativa, che non ha senso, e il mistero della morte, con il terrore dell’ignoto, di ciò che c’è «dopo», l’uomo non possiede certezze né punti di riferimento, ma appare continuamente dubbioso e incapace di decidere, incerto se lottare nella vita o rinunciare alla vita. È questa la drammatica condizione dell’esistenza, con il dilemma dell’«Essere… o non essere» che, paralizzando l’individuo, e rendendo sofferta la sua capacità di agire e di prendere decisioni, sembra anticipare le concezioni della filosofia esistenzialistica del Novecento.

> un’interpretazione psicoanalitica

Ma si potrebbe anche impostare il discorso in chiave psicoanalitica, parlando, con Freud, della coppia Eros e Thanatos, come istinto di vita e pulsione di morte, che difficilmente giungono a contemperarsi in un maturo equilibrio. Ne deriva un complesso legame attrazione-repulsione che presenta, dell’uomo, un’immagine conflittuale e divisa.

Esercitare le competenze ComprenDere

> 1. Che cosa trattiene Amleto dal passare all’azione? Che cosa gli impedisce di scegliere la morte? > 2. Quali sono gli oltraggi che l’uomo deve sopportare nella vita? AnALIzzAre

> 3.

Stile

Individua nel testo le metafore e spiegane il senso.

ApproFonDIre e InTerpreTAre

> 4.

esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) soffermati a considerare e chiarisci il senso del sottile gioco tra realtà e sogno, come emerge nel brano e che risulta cifra stilistica e tematica della letteratura drammatica del Seicento (puoi far riferimento anche al brano La realtà e il sogno di Calderón de la Barca, T2, p. 129) > 5. Testi a confronto Rifletti e spiega, alla luce di quanto scritto anche nell’Analisi del testo, quanto sostiene un autore del primo Novecento come Luigi Pirandello su Oreste e Amleto nel romanzo Il fu Mattia Pascal, mentre i suoi personaggi assistono alla rappresentazione in un teatrino di marionette dell’Elettra di Sofocle. Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, […] Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato […] sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto.

per IL poTenzIAmenTo

> 6. Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) specifica e approfondisci le affinità e le differenze tra il personaggio di Oreste, eroe della tragedia classica, e quello di Amleto, eroe del dramma moderno, spinti alla vendetta del padre, contro la madre, rispettivamente dalla voce di un oracolo e di un fantasma.

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Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

La voce del Novecento

una parodia straziata: petrolini rilegge Shakespeare Ettore Petrolini (1884-1936) è stato un “attor comico” eccezionale che riscosse successi clamorosi sia in Italia che all’estero. La sua comicità nasceva da un presupposto profondamente sofferto, tragico, e cioè dal fatto che la sua eccezionale intelligenza e il suo gusto raffinato non sopportavano il mondo in cui viveva, l’arte in genere del tempo e, in particolare, il teatro ufficiale che si era soliti definire “serio”. Egli, attore del teatro di varietà, divenne rapidamente noto per il suo caustico parodiare tutto ciò che veniva ritenuto “sacro” e che tale non era affatto ma soltanto espressione di quel conformismo, della vita e dell’arte, che egli non sopportava. Il brano che segue, scritto tra il 1912 e il 1914 potrebbe trarre in inganno: infatti non si tratta affatto di una parodia dell’Amleto di Shakespeare ma, al contrario la implicita difesa del testo, della messa in burla di come questo veniva recitato in quel tempo e, in fondo e cambiato tutto ciò che c’è da cambiare, come viene messo in scena ancora oggi.

Audio

Io sono il pallido prence danese1, che parla solo, che veste a2 nero. Che si diverte nelle contese, che per diporto3 va al cimitero. Se giuoco a carte fo il solitario suono ad orecchio tutta la Jone4. Per far qualcosa di ameno e gaio col babbo morto fo colazione. Gustavo Modena, Rossi, Salvini5 stanchi di amare la bionda Ofelia forse sul serio o forse per celia mi han detto vattene, con Petrolini, dei salamini6. Essere o non essere… no, non può essere così, … sia comunque sia … È là, è il padre mio che mi chiama. Lo so ti fu inoculato il veleno in un orecchio. È là, mi si presenta sotto le spoglie di un fantasma. Ma dí ben su fantasma non hai mai preso qualche equivoco in tempo di vita tua? Ha il cimiero alzato, grida vendetta, sarai vendicato! Sarai vendicato! Il gallo canta. Il padre mio ha fatto l’uovo7

1. prence danese: Amleto, principe di Danimarca. 2. a: di. 3. diporto: divertimento. 4. Jone: opera lirica di Errico Petrella, rappresentata nel 1858. Si tratta di un drammone ambientato ai tempi dell’eruzione del Vesuvio che distrusse Pom-

pei nel 79 d.C. 5. Gustavo Modena, Rossi, Salvini: tre “grandi attori” ( Analisi del testo, p. 164). Modena visse tra il 1803 e il 1861, Ernesto Rossi dal 1827 al 1896, Tommaso Salvini tra il 1829 e il 1915. 6. Petrolini, dei salamini: I salamini è, insieme a Gastone, forse la “macchietta”

(in questo caso significa breve scena comica teatrale come Amleto) più celebre di Petrolini. 7. Il gallo … l’uovo: per comprendere la funzione di questo nonsense nella scena l’Analisi del testo, p. 164.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Giuoco a scopone Il mio compagno spariglia i sette. Compro le scarpe mi vanno strette. Se qualche volta in festa io ballo la mia compagna mi pesta un callo. Monto in vettura muore il cavallo. Vado a Messina viene il tremoto8. Se compro un sigaro ci trovo un pelo. Se compro qualche cosa che non è un sigaro, non ci trovo quello. Ma si può essere più disgraziati di Amleto? Più afflitti, più melanconici, più dolorosi di Amleto? Amleto! Amleto!… Ma che voleva Amleto? Io non ho mai capito cosa voleva Amleto. Poteva essere felice, no! Poteva essere amato, no! Ofelia è là, amarla, sognare, sí sognare, dormire amare, sì … poiché l’amore: L’amore è facile Non è difficile Si ha da succedere Succederà. E. Petrolini, Teatro, Edizioni del Ruzante, Venezia 1977; le variazioni che l’autore ha apportato in seguito sono desunte dal disco emi, Petrolini, Melanconie petroliniane, III, 1972

8. tremoto: nel dicembre del 1908 a Messina ci fu un tremendo terremoto.

Analisi del testo

> Il testo

Il testo che qui è riportato non è del tutto quello originale del 1912-14 dovuto alla penna di Petrolini e Libero Bovio, commediografo e giornalista napoletano. Infatti Petrolini, quando lo registrò in disco all’inizio degli anni Trenta, modificò il testo rendendolo più propriamente suo; e, infatti, sul disco compare soltanto il suo nome. È quindi quella tratta dal disco, ancora oggi reperibile, la parodia che trascriviamo.

La critica al “grande attore”

164

> A cosa è rivolta la parodia petroliniana

Come già accennato nella breve introduzione il testo è da considerare con attenzione: non si tratta infatti di una parodia dell’Amleto di Shakespeare ma del modo come veniva portato in scena da quel tipo particolare d’attore che, in Italia, veniva definito “grande attore” termine con cui si designava non solamente un attore considerato “grande” ma tutta una struttura spettacolare particolare che si incentrava quasi esclusivamente sul protagonista; Amleto, ovviamente, nel nostro caso. Il “grande attore”, che verrà più tardi definito “mattatore”, dove ancora più chiaramente si mette in evidenza la preminenza del protagonista sugli altri codici dello spettacolo, storpiava i testi in modo da adattarli al suo tipo di recitazione, partendo da una base comune e cioè dal prolungamento del tipo di recitazione propria del Romanticismo, enfatica sia nell’intonazione come nei gesti, nella posizione del corpo e nel modo in cui il recitante si poneva nei confronti dello spazio del palcoscenico. Tutto ciò, che piaceva molto al pubblico borghese, urtava la sensibilità raffinata di chi, come Petrolini o Pirandello (i due sono quasi coetanei) al contrario auspicava un’arte in genere, e teatrale in

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

specie, che si occupasse dei veri problemi dell’epoca e non sempre e solo dei grandi sentimenti esaltati dal Romanticismo, che per questo tipo di attore erano divenuti gli unici: quello della malinconia per la condizione umana e quello correlato dell’amore infelice.

La messa in scena del dolore

La falsità degli attori

> Temi della parodia

Fin dall’inizio vediamo messo in burla proprio il tema della malinconia che è matrice del dolore; ma quello che scatena l’ira comica di Petrolini non è il dolore inteso come sofferenza per i mali del mondo, tra cui naturalmente c’è la finitezza dell’uomo, e per la società in cui si vive, dolore che è anche suo come di tutti i veri artisti del tempo (ancora una volta torna il nome di Pirandello). È l’espressione di quel dolore che è stata definita “doloristica” e cioè un’espressione attorica tanto roboante quanto superficiale che non va mai alla radice del problema, ma che esplora soltanto la superficie del sentimento e si incentra soprattutto nell’afflizione per l’amore non corrisposto letta in modo sentimentale e lacrimevole.

> La “falsità”, secondo petrolini, del “grande attore”

I tre “grandi attori” che l’«attor comico» cita, Gustavo Modena, Rossi, Salvini, sono ricordati proprio per la falsità della loro recitazione, una falsità che non può essere riscattata solamente dal talento, sempre grande in ognuno di questi affascinatori e incantatori delle platee mondiali e non solo italiane. L’ultima quartina della prima parte in versi viene recitata da Petrolini con un’enfasi che intende essere parodia dello stile dei tre attori citati. Quest’enfasi è però troncata dall’attore-autore con un nonsense, «Il gallo canta. Il padre mio ha fatto l’uovo», beffardo nei confronti di quello che abbiamo definito “dolorismo”, secondo un procedimento spiazzante tipico di Petrolini. La parodia di questo falso sentimento continua con i versi che iniziano con «Giuoco a scopone…» dove, in modo assai comico, viene derisa la malinconia degli Amleto teatrali del tempo.

> Il tragico nel comico

Il fatalismo

Il finale è, come tutto il resto, parodico ma sotto l’apparenza fa capolino il dolore autentico per la condizione umana. Infatti a quei falsi e svenevoli sentimentalismi con cui i “grandi attori” esprimevano il loro amore alla bionda Ofelia – bionda, è chiaro, perché donna angelicata come la donna bruna era allora immagine del peccato e della lussuria – Petrolini contrappone una strofa di canzonetta dove però, nella parodia, si nasconde il tragico destino dell’uomo. Infatti quel «se ha da succedere / Succederà» risulta sempre un momento parodico che contrappone un “sano” fatalismo agli sdilinquimenti sentimentalistici dell’amore, come è rappresentato, ieri come oggi, sui palcoscenici e nei film, ma contemporaneamente insinua anche il pensiero del fatto che nulla si sa del futuro e che qualsiasi cosa può occorrere all’uomo in qualsiasi momento; e forse anche qui si allude all’impotenza dell’uomo che ormai, nella modernità trionfante, non è più padrone della propria vita perché questa è del tutto o in parte eterodiretta: siamo al concetto di alienazione che certamente non è estraneo all’arte petroliniana.

Esercitare le competenze ComprenDere

> 1. Con l’ausilio delle note, elabora una parafrasi del testo del monologo. AnALIzzAre

> 2. Quali chiari riferimenti alla vicenda dell’opera shakespeariana sono presenti nel testo? Individuali e commentali. > 3. Lessico Quali vocaboli e/o espressioni presenti nel testo determinano un evidente abbassamento di tono? ApproFonDIre e InTerpreTAre

> 4.

Scrivere La personalità dell’Amleto di Petrolini, così come emerge dal monologo, presenta tratti chiaramente riconducibili al contesto contemporaneo: individuali e commentali in un testo scritto di circa 10 righe (500 caratteri).

SCrITTurA CreATIVA

> 5. Prendendo spunto dalla versione petroliniana del celebre monologo, elabora anche tu una versione parodiata del testo shakespeariano che tenga conto, attraverso la problematica figura del principe di Danimarca, del contesto del tuo tempo e delle inquietudini che lo attraversano.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

LeTTerATurA e CInemA

Amleto nel cinema secondo Laurence Olivier e Kenneth Branagh

Video da Hamlet

I film shakespeariani di Laurence olivier Nel 1948 Laurence Olivier, già allora considerato

come uno dei più importanti attori shakespeariani del Regno Unito, dirige e interpreta un celebre adattamento cinematografico dell’Amleto dopo essere già stato regista e protagonista, nel 1944, di un’altra pellicola tratta dal teatro di Shakespeare, Enrico V; nel 1955 realizzerà anche Riccardo III.

Lo scenario lugubre di Amleto (1948) L’atmosfera del film è cupa: il castello nel quale si

svolge la vicenda è spoglio, desolato e immerso in una fitta nebbia. Inoltre la regia, attraverso gli articolati movimenti della macchina da presa, suggerisce la presenza costante del fantasma del vecchio re in cerca di vendetta, donando così alla pellicola un carattere spettrale. In questo lugubre scenario Olivier interpreta i tormenti del principe con maestria, riuscendo a esprimere il disagio e le contraddizioni del personaggio moderno presenti nel testo shakespeariano ( Che cosa ci dicono ancora i classici, p. 175), ma in più caricando Amleto di elementi psicoanalitici relativi al sentimento che lo lega alla madre, la regina Gertrude. Hamlet (1996) Diversi anni dopo, nel 1996, un altro attore molto legato a Shakespeare, Kenneth

Branagh, sarà regista e protagonista di un famoso adattamento di Amleto. Il film si avvale di un ricco cast di attori dalla fama internazionale (Charlton Heston, Gérard Depardieu, Robin Williams, Kate Winslet, John Gielgud e tanti altri) che, per rendere più evidenti i sentimenti che sono alla base del loro comportamento, caricano la propria recitazione di gesti ed espressioni particolarmente efficaci a ottenere lo scopo. L’immagine fa riferimento al primo scambio di battute fra Amleto e sua madre, la regina Gertrude. Olivier propone una lettura dei due personaggi in chiave freudiana per cui figlio e madre sono legati da una forte attrazione sessuale. La sequenza si conclude infatti con un lungo bacio della regina sulle labbra di Amleto che mette in visibile imbarazzo Claudio, zio del principe e nuovo re di Danimarca.

La sequenza delle celebrazioni per il matrimonio di Claudio e Gertrude (i due sono visibili, di spalle, al centro del fotogramma) mostra la cura estrema ed estetizzante dedicata a costumi e ambienti, caratterizzata da un uso fortemente simbolico del colore: il rosso intenso degli abiti sembra richiamare il sangue che scorrerà nel corso della vicenda, mentre il pavimento a quadrati neri e bianchi rimanda al gioco degli scacchi alludendo così alla lotta per la corona che è tema fondamentale della tragedia.

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Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

una critica della società inglese dell’ottocento Il film di Branagh è il primo a proporre il testo dell’opera nella sua interezza. Ma, nonostante il presupposto di fedeltà all’opera, l’attore interviene pesantemente sul piano espressivo. Sposta infatti l’azione nel diciannovesimo secolo e la ambienta in uno stupendo e luminoso palazzo inglese, molto lontano dalle atmosfere medievali solitamente associate all’opera. Branagh fa così di Amleto uno “strumento” per indagare la società britannica dell’Ottocento, di cui sembra voler condannare la morale ipocrita e repressiva: a quel tempo il Regno Unito era infatti diventato una potenza industriale, ma al progresso tecnologico non ne era seguito uno sociale, in particolare per ciò che riguardava i diritti dei bambini e delle donne. Questa critica è incarnata soprattutto dai personaggi di Polonio e di sua figlia Ofelia: il primo diventa nel film un vizioso che, in privato, si intrattiene con una prostituta, ma che in pubblico tormenta e umilia la seconda, accusata di coltivare con Amleto una relazione “peccaminosa” e sconveniente. Anche il suicidio della ragazza riflette questa impostazione: non si tratta di un incidente, né di un gesto dettato dalla follia, ma è invece una reazione disperata ai maltrattamenti subiti in famiglia e a corte.

Esercitare le competenze STABILIre neSSI TrA LeTTerATurA e CInemA

> 1. Ritieni coerente con il testo shakespeariano la versione in chiave psicoanalitica interpretata da

Olivier? Motiva la tua risposta. > 2. Ti sembra che la “rilettura” in chiave ottocentesca di Branagh, attenta alla società inglese del tempo, alle dinamiche politiche e ai ruoli familiari, metta in secondo piano la dimensione esistenziale del protagonista? Motiva la tua risposta. > 3. Immaginando di essere un regista cinematografico, ipotizza e illustra una nuova e inedita “rilettura” e/o ambientazione per l’Amleto.

T9

William Shakespeare

Temi chiave

Lo spettro di Banquo

• la violenza del potere • la follia del protagonista, assetato di potere

da Macbeth, atto III, scena IV Durante un banchetto compare il fantasma di Banquo, che sconvolge la mente di Macbeth.

Lo spettro di Banquo entra e siede al posto di Macbeth macbeth

40

Avremmo qui, sotto il nostro tetto, tutto l’onore del nostro paese se fosse presente la nobile persona del nostro Banquo. Ma preferirei rimproverarlo per la sua scortesia piuttosto che compiangerlo per una disgrazia. ross

La sua assenza, signore, smentisce la sua promessa. Vostra Altezza vuol compiacersi di onorarci con la sua regale compagnia? macbeth

La tavola è al completo. lennox

C’è un posto libero, signore.

45

macbeth

Dove?

167

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

lennox

Qui, mio buon signore. Che cosa agita Vostra Altezza? macbeth

Chi di voi ha fatto questo? nobili

Che cosa, buon signore? macbeth

50

Tu non puoi dire che sono stato io: non scuotermi in faccia le chiome insanguinate. ross

Alzatevi, signori: Sua Altezza non sta bene. lady macbeth

55

Sedete, degni amici. Il mio signore è spesso così, lo è stato fin da giovane: vi prego, rimanete seduti. L’attacco è temporaneo: tra un momento starà di nuovo bene. Se gli darete troppo conto1 lo offenderete e accrescerete il suo delirio: mangiate e non curatevi di lui. – Sei un uomo? macbeth

Sì, e tanto audace che oso guardare ciò che atterrirebbe lo stesso Diavolo. lady macbeth

60

65

Fantasie! Questo è solo un quadro2 della tua paura. È come il pugnale disegnato nell’aria che, secondo te, ti ha guidato da Duncan3. Oh, questi sussulti e trasalimenti (impostori della vera paura) sarebbero indicati per un racconto da donnicciuola, fatto d’inverno, al focolare, con la garanzia della nonna. Vergogna! Perché fai tante smorfie? Tutto sommato, quello che fissi è solo uno sgabello. macbeth

70

Ti prego, guarda lì! Vedi? Che cosa dici? Ma che m’importa! Se sai far cenni col capo saprai anche parlare. – Se i carnai4 e le fosse debbono rimandarci indietro quelli che seppelliamo, i nostri mausolei5 saranno gli stomaci degli avvoltoi. [Lo spettro scompare]

1. troppo conto: troppa importanza. 2. un quadro: un’immagine (come se fosse

una raffigurazione pittorica). 3. Duncan: il re assassinato da Macbeth.

4. carnai: fosse comuni, ammassi di cadaveri. 5. mausolei: tombe.

L’opera

macbeth di William Shakespeare Dopo aver sconfitto l’esercito dei ribelli, Macbeth e Banquo, generali del re di Scozia Duncan, incontrano tre streghe, che fanno questa profezia: Macbeth diventerà re e Banquo progenitore di re. Lady Macbeth convince il marito a eliminare il re, ospite nel loro castello, mentre i figli di Duncan, Malcolm e Donalbain riescono a fuggire. Fattosi eleggere re, Macbeth fa uccidere anche Banquo, ma da morto l’amico tradito lo ossessiona, comparendogli sotto l’aspetto di un fantasma. Si macchia di altri omicidi e viene abbandonato da tutti. Le tre

168

streghe pronunciano ancora il vaticinio secondo cui Macbeth sarà vinto solo quando la foresta di Birnam giungerà a Dunsinane. Raccolte intorno a sé tutte le forze che gli sono ostili, Malcolm si pone alla guida di un esercito per combatterlo. Le truppe si avvicinano al campo di Dunsinane nascoste dietro il fogliame e i rami tagliati nella foresta di Birnam. Si compie così la profezia delle streghe e Macbeth viene ucciso. Malcolm verrà incoronato re di Scozia, mentre già prima Lady Macbeth, impazzita, si era tolta la vita.

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea lady macbeth

Non sei più uomo per questa pazzia? macbeth

Com’è vero che sono qui, l’ho veduto! lady macbeth

Vergogna! macbeth

75

80

Sangue è stato versato prima d’ora, nei tempi antichi, prima che leggi umane purificassero lo stato ingentilendolo. Sì, e anche dopo sono stati compiuti delitti troppo orrendi per le orecchie. V’è stato un tempo in cui, quando il cervello usciva dal cranio, l’uomo moriva e tutto era finito; ma ora essi risorgono con venti ferite mortali nella testa, e ci buttano giù dai nostri seggi6. Questo è più strano di un assassinio. lady macbeth

Mio signore, i vostri nobili amici vi desiderano. macbeth

90

Dimenticavo… Non preoccupatevi, degni amici, io ho una strana infermità, che è un nonnulla per chi mi conosce. Su, salute a tutti, e il mio affetto. Poi mi siederò. Datemi del vino: riempite il bicchiere! Entra lo spettro Bevo alla gioia dell’intera tavola e al nostro caro amico Banquo, che ci manca. Vorrei che fosse qui! a tutti, e a lui, beviamo; e a tutti, ogni felicità. nobili

A voi il nostro brindisi, e la nostra lealtà. macbeth

95

Vattene, lascia la mia vista! Ti nasconda la terra! Le tue ossa sono senza midollo, il tuo sangue è freddo, tu non hai sguardo in quegli occhi con cui mi fissi. lady macbeth

Prendétela come una cosa normale, buoni amici, non è altro. Solo sciupa il piacere dell’occasione. macbeth

100

Ciò che l’uomo osa, lo oso io. Avvicinati nella forma dell’irsuto7 orso di Russia, del rinoceronte armato di corno e della tigre ircana8, prendi qualsiasi aspetto tranne questo e i miei nervi saldi non tremeranno mai. Oppure torna in vita e sfidami nel deserto con la spàda: se starò lì a tremare, allora chiamami la bambola di una mocciosa.

6. seggi: troni, sedili riservati alle autorità. 7. irsuto: peloso.

8. ircana: proveniente dall’Ircania, regione dell’antica Persia.

Gustav Doré, L’apparizione dello spettro di Banquo a Macbeth, 1855, incisione.

169

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

105

Via, ombra orrenda! Via, beffa illusoria! [Lo spettro scompare] Ecco, ora che se n’è andato sono di nuovo un uomo. – Vi prego, sedete. lady macbeth

Hai disperso l’allegria, spezzato l’armonia della festa con questa straordinaria agitazione. macbeth

110

115

Possono esistere cose simili, e assalirci come una nuvola d’estate senza il nostro stupore? Mi rendete estraneo alla mia stessa natura quando penso che voi potete contemplare tali spettacoli e mantenere il naturale rossore delle guance mentre le mie sono imbiancate dalla paura. ross

Quali spettacoli, mio signore? lady macbeth

Vi prego, non parlate: peggiora di momento in momento. Le domande lo fanno infuriare. Buona notte, allora, non rispettate l’ordine, uscendo, ma andate via subito. lennox

Buona notte, con l’augurio che Sua Maestà riacquisti la salute! lady macbeth

Buona notte a tutti. Escono i nobili

120

macbeth

125

Ci vorrà sangue, dicono: il sangue vuole sangue. Si è saputo di pietre che si son mosse, di alberi che hanno parlato; auspicii, e rapporti bene intesi9, hanno rivelato per mezzo di piche10, corvi e cornacchie il più segreto degli assassini. A che punto è la notte? W. Shakespeare, Macbeth, in Teatro completo, a cura di G. Melchiori, trad. it. di A. Lombardo, vol. IV, Le tragedie, Mondadori, Milano 1976

9. rapporti ben intesi: relazioni ben interpretate.

10. piche: gazze.

Analisi del testo

> «Il sangue vuole sangue»

Un potere che gronda sangue

170

Il filo conduttore dell’episodio, e dell’intera tragedia, può essere indicato con l’affermazione di Macbeth, verso la fine del passo: «Ci verrà sangue, dicono: il sangue vuole sangue». È questa la legge a cui obbedisce buona parte della produzione drammatica di Shakespeare, e il Macbeth non fa certo eccezione. Anche qui il sangue è versato per obbedire alla logica perversa che vede nella conquista e nel mantenimento del potere un obiettivo che non conosce ostacoli, al quale occorre sacrificare tutto, compresi gli affetti più cari e le amicizie più fedeli. Macbeth ha fatto uccidere Banquo ma, nella festa che celebra la conquista del regno, finge di rimpiangere la sua assenza, augurandone il pronto ritorno; sono parole

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

false, dettate dall’ipocrisia, che trovano risposta nel presentarsi dello spettro dell’amico ucciso, che si siede al posto a lui riservato e rimasto vuoto.

La delirante follia di Macbeth

La perdita dell’integrità

> La lacerazione interna dell’eroe

È una straordinaria invenzione scenica quella escogitata da Shakespeare, nella misura in cui determina lo sconvolgimento della mente del protagonista, una delirante follia in cui prende forma l’orrore invincibile che si traduce nell’immagine delle «chiome insanguinate» agitate davanti agli occhi di Macbeth. I sensi di colpa che così si materializzano mettono in discussione il coraggio dell’eroe, che, disposto ad affrontare a viso aperto anche le prove più difficili e pericolose, di fronte all’apparizione dello spettro cade in preda a misteriose, impalpabili angosce e paure. Ecco allora che il delitto non ha soltanto le conseguenze di un impatto immediato (quelle, espresse con un’immagine forte, del «cervello» che esce «dal cranio», quando «l’uomo moriva / e tutto era finito» (vv. 77-79)), ma i suoi effetti durano anche dopo la morte della vittima, nei fantasmi che, animando oscuri sensi di colpa, «risorgono / con venti ferite mortali nella testa, / e ci buttano giù dai nostri seggi» (vv. 79-81). Anche se qui non se ne rende direttamente conto (come accade invece ad Amleto), l’eroe shakespeariano perde la sua monolitica integrità, per rivelare il “doppio” di una coscienza divisa, lacerata da un terrore quasi infantile, così forte da paralizzarne la volontà e la decisione (il confronto sarà allora con l’atteggiamento di Lady Macbeth, che, senza tentennamenti, rivela la cinica capacità di dominare la situazione).

Esercitare le competenze ComprenDere

> 1. Riassumi che cosa dice Lady Machbeth al marito, che crede di vedere il fantasma di Banquo. Di che cosa lo rimprovera? A che cosa paragona il suo comportamento?

> 2. Che cosa, secondo il re, «è più strano di un assassinio» (v. 82)? AnALIzzAre

> 3. Individua tutti i luoghi del testo in cui il re si rivolge allo spettro dell’amico ucciso. > 4. Stile Sottolinea le metafore e le similitudini presenti nel testo, spiegandone il significato. > 5. Lessico Rileva nel testo i termini che si riferiscono all’ambito semantico della violenza e del sangue, tra i motivi principali della tragedia.

ApproFonDIre e InTerpreTAre

> 6. Scrivere Descrivi in circa 10 righe (500 caratteri) le due figure del re e di Lady Machbeth, così come appaiono nel brano, nel loro fronteggiarsi: l’uno in preda alla follia e al terrore, l’altra spietata e cinica nel ricordare al marito le sue debolezze. > 7. esporre oralmente Esponi oralmente (max 3 minuti) quali sono i temi principali della tragedia. > 8. Altri linguaggi: arte “Macbeth e Banquo incontrano le streghe” è un dipinto del pittore francese Théodore Chassériau (1855) in cui l’artista rappresenta il momento della profezia. Quali elementi della composizione, secondo te, suggeriscono che l’avvenimento è sovrannaturale?

Théodore Chassériau, Macbeth e Banquo incontrano le streghe, 1855, olio su tela, Parigi, Musée d’Orsay.

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L’età del Barocco e della nuova Scienza

L e t t e r a t u r a e Economia

T10

William Shakespeare

I rischi del commercio per mare

Testo e realtà Al centro del dramma di Shakespeare è il potere del denaro e la logica del commercio, di fronte ai quali spesso si rischia di venir meno ai valori più sacri.

da Il mercante di Venezia, atto I, scena I

Il passo rivela l’attenzione che Shakespeare mostra anche nei confronti dei meccanismi che regolano i processi economici (Salerio e Solanio sono due amici del protagonista Antonio).

Atto I, scena I Entrano Antonio, Salerio e Solanio antonio

5

Non so spiegare questa mia tristezza; mi stanca; anche voi dite che vi stanca; ma come l’abbia presa, trovata, assorbita, di che è fatta, di dove venga, vallo a sapere … La malinconia mi rende un tale mentecatto1, che stento a riconoscere me stesso. salerio

10

La tua mente è in balia del mare, là dove le tue ragusee2 con vele maestose, come signori e pingui borghesi dei flutti, ovvero carri trionfali dell’oceano, sovrastano i piccoli mercantili che si sprofondano e inchinano quando quelle gli volano accanto con ali intessute3.

1. mentecatto: stupido, inebetito. 2. ragusee: navi commerciali (da Ragusa,

ora Dubrovnik, città sulle coste della Dalmazia allora sotto il dominio veneziano).

3. ali intessute: sono le vele composte da stoffe robuste.

L’opera

Il mercante di Venezia di William Shakespeare Antonio, ricco mercante veneziano, si offre come garante di un prestito che l’amico Bassanio, per poter sposare l’amata Porzia, chiede all’usuraio ebreo Shilock. Questi concede il denaro richiesto ma pretende come garanzia una libbra della carne di Antonio se il debito non sarà onorato. Alla scadenza prefissata giunge la notizia che le navi con i ricchi guadagni delle merci vendute hanno fatto naufragio e Shilock pretende che le clausole dell’accordo

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vengano rispettate. Porzia, travestita da avvocato, difende davanti al doge la causa di Antonio, sostenendo che Shilock ha sì diritto alla carne ma senza versare una goccia di sangue, reato che verrebbe punito con la pena capitale. La commedia si risolve con il ritorno delle navi che si ritenevano perdute e la soluzione dei contrasti che, coinvolgendo anche altri personaggi, si erano creati.

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea solanio

15

20

Credimi, se avessi in ballo i tuoi investimenti, quasi tutti i miei pensieri seguirebbero là le mie speranze. Starei sempre a strappar l’erba per sapere dove spira il vento, a scrutare nelle mappe porti, moli e rade4, e certo tutto ciò che potesse far temere per i miei investimenti, mi renderebbe triste. salerio

25

30

35

40

Il soffio con cui raffreddo il brodo mi farebbe salir la febbre al pensiero del danno che può arrecare in mare un vento troppo forte. Solo guardando scorrere la sabbia nella clessidra penserei a secche e a bassifondi, vedrei insabbiato il mio ricco galeone5 che abbassa il capo fin sotto le fiancate per baciare la sua tomba; andando in chiesa e vedendo il sacro edificio di pietra, non penserei subito alle rocce perigliose6 che solo sfiorando il fianco del mio vascello ne spargerebbero tutte le spezie7 sull’acqua, drappeggiando8 con le mie sete le onde tumultuose? In una parola: adesso valgo tanto, e di colpo più nulla? Potrò pensare a questo, e non pensare che un simile accaduto mi renderebbe triste? Non dirlo a me, io so che Antonio è triste perché pensa alle sue mercanzie. antonio

45

No, credimi, ringrazio la fortuna: i miei investimenti non sono affidati a una sola nave o a un solo approdo9, né tutti i miei averi dipendono dalla fortuna di quest’anno. A rendermi triste non sono le mercanzie. W. Shakespeare, Il mercante di Venezia, in Teatro completo, a cura di G. Melchiori, trad. it. di S. Perosa, vol. II, Le commedie romantiche, Mondadori, Milano 1982

4. rade: insenature. 5. galeone: grande veliero, considerato come un imponente uccello marino, che abbassa il capo sino a baciare il mare (la tomba

in cui sprofonda). 6. perigliose: pericolose. 7. tutte le spezie: il carico di spezie che la nave (il vascello) trasporta.

8. drappeggiando: avvolgendo, ricoprendo. 9. approdo: porto a cui approdano le navi.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Analisi del testo La condizione del mercante

La differenziazione dei rischi

Antonio rappresenta la figura del mercante, che, divenuto imprenditore, dispone di una piccola flotta che manda in diverse parti del mondo ad acquistare grandi partite di merci, da rivendere poi in patria. Non a caso Salerio sottolinea all’inizio la differenza rispetto ai commercianti meno importanti, dicendo che le imbarcazioni di Antonio «come signori e pingui borghesi dei flutti […], / sovrastano i piccoli mercantili / che si sprofondano e inchinano» (vv. 10-13). La sua condizione gli consente di ammortizzare i costi dei trasporti, che incidevano allora in misura notevolmente superiore rispetto a quella attuale, per la loro lentezza e per i pericoli a cui erano esposti soprattutto coloro che viaggiavano per mare, a causa delle tempeste o degli incontri con i pirati. Ma Antonio dice che tutto questo non lo preoccupa più di tanto, dal momento che ha provveduto a dividere le sue attività, in modo che, se fosse capitata qualche disgrazia a una nave, i guadagni ottenuti con le altre sarebbero stati in grado di compensare le perdite subite. In altri termini: Antonio ha “differenziato” le proprie fonti di profitto, secondo un principio economico che, applicato ancora oggi anche per quanto riguarda il risparmio, consente di ridurre i rischi degli investimenti del capitale.

Joseph Vernet, Il porto di Marsiglia, XVIII secolo, olio su tela, Parigi, Musée De La Marine.

Esercitare le competenze ComprenDere

> 1. Che cosa affligge Antonio, secondo quanto egli stesso afferma all’inizio del brano? Che cosa determina questo suo stato? Che cosa sospetta Salerio a tale proposito?

> 2. Riassumi le posizioni dei due interlocutori di Antonio: se fossero al suo posto, ricchi mercanti possessori di navi, che cosa li preoccuperebbe maggiormente?

AnALIzzAre

> 3. > 4.

Stile Stile

Individua e spiega le metafore presenti nel testo. Quale significato metaforico nasconde la contropartita di «una libbra di carne» al posto del denaro?

ApproFonDIre e InTerpreTAre

> 5.

Scrivere In un testo di circa 7 righe (350 caratteri) metti in luce nel dramma le diverse figure, contrapposte, dell’usuraio ebreo e del mercante cristiano. > 6. Contesto: storia Rifletti, con l’eventuale aiuto dell’insegnante di storia, sul ruolo della città di Venezia come una delle principali potenze economiche europee nel XVI secolo.

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Che Cosa Ci diCono anCora oggi i ClassiCi

Shakespeare i testi teatrali Come grande repertorio storiCo Il teatro di Shakespeare è vivissimo ancora oggi: infatti non c’è anno in cui qualche compagnia non metta in scena almeno una delle sue opere. Una caratteristica della letteratura drammatica È questa una caratteristica specifica della letteratura drammatica, che persiste nel tempo come “repertorio”, e cioè come un ampio bagaglio artistico a cui un attore o un regista può liberamente attingere. Questo non vuol dire che tutte le opere dei drammaturghi possano essere riprese nei tempi successivi al momento in cui furono scritte, perché per lo scorrere del tempo e per il variare delle esigenze così del linguaggio della scena come delle attese degli spettatori, non sono poi molte quelle che rimangono.

Quest’ultime sono quelle che vengono considerate le più artisticamente grandi e comunque tali da essere portatrici di problemi che riguardano ancora il presente. Le opere di Shakespeare, tragedie e commedie, sono certamente quelle che meglio e più hanno resistito al tempo e, tra queste, alcune in modo particolare.

la grande novità di Amleto

Le numerose trasposizioni di Amleto Tra le opere di Shakespeare che meglio hanno superato la prova del tempo la più frequentata, soprattutto nell’Otto e Novecento, è certamente The tragedy of Hamlet, prince of Denmark (“La tragedia di Amleto, principe di Danimarca”), che non solo viene tuttora recitata sui palcoscenici ma che ha conosciuto anche molte trasposizioni cinematografiche, tra cui le più celebri sono quella di Laurence Olivier e, più recentemente, di Kenneth Branagh. Nuovi modelli drammaturgici Il motivo di questa persistenza sulle scene e sui set cinematografici è dovuto al fatto che Amleto è un’opera, per così dire, “capostipite”, in cui l’autore imposta nuovi modelli drammaturgici, diversi da quelli precedenti. Nei secoli a venire questi nuovi modelli drammaturgici rivoluzioneranno il modo di concepire non solo la scrittura drammatica ma anche il linguaggio della scena; e, infatti, dopo Shakespeare non sarà più possibile recitare come si faceva prima e cioè in modo “classicheggiante”.

Philip Sutton, William Shakespeare in the Globe Theatre, 1988, olio su tela, Collezione privata.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

La crisi sociale e culturale in Inghilterra Gli anni di composizione del testo, e cioè gli ultimi del Cinquecento e i primissimi del Seicento, sono quelli in cui si registra una crisi sia sociale sia culturale in Inghilterra: infatti Amleto venne composto tra il 1598 e il 1601, data in cui probabilmente fu recitato per la prima volta, e Shakespeare seppe dare una risposta a questa crisi scrivendo, e recitando nella parte dello Spettro, una “tragedia” che non è più tale se non di nome perché viola le regole drammaturgiche dell’epoca – le tre unità aristoteliche, di tempo, di luogo e di azione – e propone quindi un nuovo modello drammatico, che comporta di necessità un diverso modo di strutturare il dramma, basandosi non più su una «conflittualità finalizzata ad una determinata conquista», del potere o di un oggetto d’amore per fare i due esempi più frequentati, ma indirizzando l’opera a «esplorare i moventi delle azioni rappresentate» (Melchiori). È evidente che questo sconvolgimento delle regole drammaturgiche doveva necessariamente stravolgere, come abbiamo già accennato, anche il modo di recitare questi testi; infatti, dopo Shakespeare, il linguaggio della scena non potrà non essere diverso da quello precedente, retto anche questo da regole ancora “classiche”. Un dramma psicologico Infatti Amleto è l’opera che apre la via al dramma psicologico, che interessa l’uomo dei nostri tempi perché ancora oggi siamo costantemente dilacerati dal dubbio (e Amleto fu spesso definita la “tragedia del dubbio”), non solo sull’essere o non essere del famoso monologo ( T8, p. 160) ma più in generale sui motivi per cui compiamo o non compiamo una determinata azione, aderiamo o non aderiamo a una determinata dottrina o ideologia, e così via: la “coscienza infelice” o “dilacerata” dell’uomo moderno, di cui tanto s’è detto nel Novecento e si continua a discutere, è già tutta lì.

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CoSCIenzA “DILACerATA” e mALInConIA. «L’infinita vanità del tutto» E questa coscienza è proprio “infelice” e, in quanto infelice, “dilacerata”, perché non trova più consistenza certa e indubitabile in miti e credenze che l’epoca precedente, quella che va dal Medioevo al Rinascimento, aveva invece ritenuti indiscutibili: siamo infatti in un’epoca come quella barocca in cui l’uomo si sente solo di fronte ai grandi problemi dell’esistenza, che possono essere riassunti nel chiedersi il perché della vita dal momento che questa comporta ineluttabilmente il dover morire. E, anche in questo caso, Shakespeare con Amleto apre una strada che giunge fino a noi e che passa attraverso il Romanticismo, dove questo angoscioso interrogativo si condensa nella folgorante sintesi leopardiana su «l’infinita vanità del tutto». La malinconia Un simile atteggiamento verso i problemi dell’esistenza e della storia non poteva e non può non sfociare nella malinconia: infatti, se tutto è vano, anche gli sforzi dell’uomo per migliorare il proprio stato sono altrettanto vani e, se pur riuscissero a rendere meno gravose le condizioni di vita sulla terra, non risolverebbero però il problema primario dell’esistenza, quello appunto della vita e della morte. Shakespeare non è il primo scrittore a frequentare questo tema all’epoca sua, ma è certamente quello che più e meglio lo eleva a struttura portante di tutta un’opera, anche se altri suoi drammi non sono certo esenti da

Ricostruzione del Globe Theatre di Shakespeare a Londra.

Capitolo 4 · La letteratura drammatica europea

questo “male del secolo” (che si rivelerà in seguito come male di tutti i secoli a venire), interpretandolo a livello artistico altissimo proprio nel personaggio di Amleto, che non ha più certezze, nemmeno sulla colpevolezza dello zio usurpatore e incestuoso, se non quella della propria infelicità dovuta al fatto di essere nato, e di essere nato, senza ovviamente averlo chiesto, principe e quindi destinato a divenire re un giorno: «Il mondo è fuor di squadra: che maledetta sorte / ch’io sia mai nato per rimetterlo in sesto!».

LA ForTunA DeI DrAmmI DI ShAkeSpeAre SuLLA SCenA

Video da Amleto di C. Bene

A tutto questo si aggiunge poi, ed è cosa di grande importanza a teatro, il fatto che si tratta di un testo tale da permettere a un attore di dispiegare tutta la sua bravura artistica nel recitare la parte del protagonista. Gli attori interpreti di Amleto E, infatti, molti furono gli attori che interpretarono con grande partecipazione il personaggio di Amleto, in Inghilterra, ovviamente, e in altri paesi, tra cui l’Italia. Shakespeare, che era appunto anche attore e capocomico, aveva scritto il dramma per Richard Burbadge, che in quegli anni era giunto all’apice della sua maturità artistica; ma la tragedia del principe di Danimarca fu soprattutto apprezzata in epoca romantica e in tutto l’Otto e Novecento e conobbe interpretazioni che ebbero una risonanza talmente forte da giungere fino a noi: per fare un solo esempio clamoroso, la più celebrata attrice francese del secondo Ottocento, Sarah Bernhardt, lo mise in scena e portò questo spettacolo al successo in tutto il mondo. Amleto in Italia In Italia, paese che conobbe il fenomeno del “grande attore” e cioè di un attore talmente grande da sovrastare tutti gli altri codici teatrali (gli attori minori, la scenografia, i costumi, le luci, eccetera), accentrando tutta l’espressione artistica dell’intero spettacolo su di sé, il ruolo di Amleto risultò particolarmente attraente e rispondente alla poetica scenica di questo tipo di teatranti che, essendo, almeno per tutto l’Ottocento, influenzati dalle tematiche e dall’aura del

Carmelo Bene in un fotogramma del film tv Amleto da Shakespeare a Laforgue di e con Carmelo Bene, Italia, 1974.

Romanticismo, accentuarono proprio la malinconia del personaggio. In apertura del Novecento, si impose l’interpretazione languida e dannunzianeggiante di Ruggero Ruggeri, il nostro attore più rappresentativo dell’epoca simbolistica-decadente. Il secolo scorso però fu periodo di sperimentazioni, oltre che per la letteratura, le arti figurative e la musica, anche per il linguaggio della scena: infatti, all’interno della sensibilità dell’avanguardia degli anni Sessanta e Settanta, Carmelo Bene recitò un Amleto, dove era interprete, regista e autore del testo che strutturò mescidando il dramma shakespeariano con una delle Moralità leggendarie che Jules Laforgue (1860-87) aveva dedicato al principe di Danimarca: ne risultò uno spettacolo di grande interesse che Bene, nel 1978, registrò anche per la televisione (se ne possono vedere frammenti su you tube). La fortuna di Amleto, sulle scene e nel cinema, continuò e continua tutt’oggi anche se interpretazioni così artisticamente rilevate come quella di Bene, per ora, non se ne sono più viste.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

In sintesi

La LETTERaTURa dRammaTica EURopEa Verifica interattiva

FeDerICo DeLLA VALLe La letteratura teatrale italiana del XVII secolo occupa una posizione marginale e defilata rispetto a quella delle grandi nazioni europee. Non si può comunque dimenticare un’esperienza come quella di Federico Della Valle, della cui esistenza ci sono giunte poche testimonianze; anche delle sue opere si erano perse le tracce, sino a quando le riscoprì, nel 1929, Benedetto Croce. Oltre alla tragicommedia Adelonda in Frigia, compose due tragedie di argomento biblico, Iudith ed Esther, a cui si deve aggiungere La reina di Scotia, che, animata da un profondo sentimento religioso, narra la vicenda della prigionia della regina Maria Stuarda, fatta giustiziare da Elisabetta I d’Inghilterra.

peDro CALDerÓn De LA BArCA Per quanto riguarda la Spagna, spicca l’attività di Pedro Calderón de la Barca, che, dopo aver preso parte ad alcune campagne militari, entrò nell’Ordine francescano e venne ordinato sacerdote, divenendo cappellano del re di Spagna. Calderón è autore di un’ottantina di autos sacramentales (drammi di un solo atto dedicati ai sacramenti) e di oltre cento commedie, che, basate sui meccanismi degli equivoci e dei travestimenti, obbediscono a un’ispirazione di tipo religioso e morale. Tra queste spicca La vita è sogno, il cui titolo, divenuto proverbiale, allude alla precarietà della condizione umana, che induce il protagonista a dubitare della propria identità, in quello scambio – tipicamente barocco e, al tempo stesso, ricco di implicazioni esistenziali – fra illusione e realtà, fra ciò che è e ciò che appare. Non a caso si parla qui del “gran teatro del mondo”, di un mondo visto come ingannevole finzione.

IL TeATro In FrAnCIA: rACIne e moLIÈre La storia del teatro tragico francese del Seicento (quello che è stato chiamato il grande secolo, le grand siècle) ruota attorno alla rivalità fra Pierre Corneille (1606-84) e Jean Racine. La fama già consolidata del primo, giunto al successo con Il Cid (1636), venne offuscata sin dagli esordi del più giovane tragediografo, con cui divenne l’astro nascente della scena parigina. Con le tragedie degli anni Sessanta e Settanta Racine consolidò la propria supremazia, ottenendo i favori della corte. Nel 1677 scrive il suo capolavoro, la Fedra, che, riferendosi agli esempi di Euripide e di Seneca, tratteggia l’insana passione della protagonista per il figliastro Ippolito una passione che travolge ogni sforzo di resistenza tentato dal

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dovere. In questo modo Racine fa emergere gli istinti oscuri che si nascondono nelle pieghe profonde della natura umana, che sfuggono al controllo della ragione e che solo la misura dello stile riesce a disciplinare. Senza rivali sarà invece, dopo un esordio difficile, il trionfo di Molière sulle scene dei teatri parigini. Uomo di teatro e attore egli stesso, fondò nel 1643 una sua compagnia, che, non riuscendo a imporsi, lo costrinse nel 1646 ad abbandonare Parigi, dove tornerà nel 1658, dopo l’esperienza maturata in diverse città della provincia francese. Da quel momento vivrà a stretto contatto con l’ambiente della corte, entrando prima nelle grazie del fratello del re, il duca di Orléans, e poi ottenendo la protezione dello stesso sovrano, che gli assegnò una pensione e gli riservò l’uso esclusivo di una sala del Palais Royal. Sarà ancora il re a difenderlo dagli attacchi e dalla accuse che verranno rivolti alle sue commedie, per la forza con cui aveva saputo smascherare i vizi e i difetti della società borghese e aristocratica, come quelli che si nascondevano dietro la rispettabilità ufficiale del matrimonio (da La scuola dei mariti alla Scuola delle mogli) o nei comportamenti solo all’apparenza devoti e onesti. Nascono così opere come il Tartufo, Don Giovanni o il convitato di pietra, Il misantropo, L’avaro e Il malato immaginario, in cui l’abile impiego dei meccanismi comici, tipici della commedia classica, non offusca la profonda moralità di testi che, condannando ogni forma di ipocrisia e di presunzione, conservano una validità che li rende ancora attuali.

WILLIAm ShAkeSpeAre William Shakespeare si può considerare il massimo rappresentante della letteratura teatrale moderna, la cui grandezza è cresciuta nel tempo. La sua storia, insieme con quella degli autori dei cosiddetto “teatro elisabettiano”, è strettamente legata alla vicenda dei teatri costruiti a Londra negli ultimi decenni del secolo XVI, che videro la sua fondamentale presenza come attore e come drammaturgo. La straordinaria abilità nella composizione teatrale si è rivelata sia nel campo della commedia sia nel campo della tragedia, sino a fondere l’elemento tragico e quello comico nella dimensione del grottesco, giungendo a una mescolanza degli stili che piacerà ai romantici del primo Ottocento, insieme con l’amore per la storia e il rifiuto della mitologia e delle regole aristoteliche (caratteristiche del teatro classicista di Racine). La sua produzione è contraddistinta da una libertà di forme e di modi ispirata dai più diversi momenti e soggetti, dalla storia (ad

esempio il Riccardo III) alla letteratura precedente (come nel caso di Romeo e Giulietta), dal patrimonio folklorico delle leggende all’invenzione di personaggi come quelli, nelle tragedie omonime, di Macbeth e di Amleto. Abile nel far agire sulla scena un grande numero di personaggi, ha dato vita al tempo stesso all’individualità di indimenti-

cabili personaggi, mossi da passioni eccezionali, forti e profonde. Così, insieme alla capacità di dare espressione ai più nobili affetti, ha saputo mostrare l’orrore della perfidia e del male, suscitando le terribili immagini che nascono dalla crudeltà e dal delitto, con i fantasmi nati dai sogni premonitori e dai sensi di colpa.

Facciamo il punto 1. I personaggi femminili delle tragedie antologizzate di Della Valle e di Racine, Maria Stuarda e Fedra,

presentano delle caratteristiche comuni? 2. Quale concezione del potere e della vita di corte è possibile riconoscere nei brani di Federico Della Valle e di Calderón de la Barca? 3. Riconosci negli atteggiamenti e nelle parole dei personaggi di Federico Della Valle e di Calderón de la Barca alcuni precetti della morale cattolica e svolgi un confronto con la spregiudicata mancanza di valori del Don Giovanni di Molière. 4. Il contrasto tra finzione e realtà costituisce un tema fondamentale del teatro secentesco: in quali dei brani antologizzati viene affrontato l’argomento e con quali implicazioni per le vicende narrate? 5. Quali sono i pochi dati certi riguardanti la biografia di Shakespeare? 6. Quale rappresentazione del potere è presente nell’opera shakespeariana? 7. Qual è il rapporto di Shakespeare con il teatro del tempo? È solo autore di opere o ricopre anche altri ruoli? 8. Quali sono i temi ricorrenti nella produzione shakespeariana?

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Capitolo 5

Galileo Galilei L’importanza dello scienziato

Era il rovesciamento di un’intera concezione cosmologica; il passaggio dal sistema geocentrico al sistema eliocentrico introduceva una nuova visione del mondo, aprendo prospettive prima impensabili alla conoscenza.

Galileo Galilei occupa, nella storia del pensiero scientifico di tutti i tempi, un posto di fondamentale importanza, tale da introdurre la civiltà occidentale nell’era della modernità, grazie alle sue invenzioni e alle sue scoperte. In particolare Infiniti oggetti che, o per la loro il perfezionamento del cannocchiale, da lui punlontananza o per la loro estrema piccotato verso la volta celeste, gli permise di scoprire lezza, ci erano invisibili, si sono co ’l quattro nuovi pianeti e di osservare le macchie lunari, consentendogli di dimostrare che la sumezo del telescopio resi visibilissimi. perficie della luna non era liscia e levigata, come (Dialogo sopra i due massimi sistemi) si era sino ad allora sostenuto, ma presentava caratteristiche non diverse rispetto a quelle della Il metodo scientifico e l’opposizione crosta terrestre. Dall’osservazione diretta del della Chiesa cielo mediante il cannocchiale sarebbe derivata Il vecchio sistema tolemaico, sostenuto dall’aula conferma dell’ipotesi avanzata dall’astronomo polacco Niccolò Copernico (1473-1543), secon- torità di Aristotele, costituiva un caposaldo uffido cui non il Sole girava attorno alla Terra ma, ciale della dottrina della Chiesa, che si oppose viceversa, era la Terra a girare intorno al Sole. decisamente alle conclusioni a cui era giunto Ga180

che ne raccoglieranno l’insegnamento dando vita, nel 1657, all’Accademia del Cimento.

La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo) […] è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. (Saggiatore)

La grandezza dello scrittore

lileo. Nel difendere le sue posizioni, e nel tentativo di farle riconoscere e accettare, lo scienziato poneva delle questioni di metodo decisive per gli sviluppi di quella che Francesco De Sanctis, nella sua Storia della letteratura italiana, chiamerà poi la «nuova scienza». Sostenendo che non ci poteva essere contraddizione tra la fede e la ragione, Galileo affidava la conoscenza della “verità” alla sperimentazione e alla dimostrazione matematica, da lui ritenute la più alta espressione della filosofia. Così veniva a rifiutare – con l’ipse dixit, il principio d’autorità aristotelico – ogni forma di dogmatismo e di imposizione autoritaria, rivendicando la libertà della ricerca e la responsabilità dello scienziato. Le sue speranze, però, andarono deluse: sottoposto a processo, fu indotto, ormai vecchio, ad abiurare. Trascorse gli ultimi anni nella sua villa di Arcetri, continuando gli studi e tenendosi in contatto con i suoi discepoli,

Il Sidereus nuncius (1610) è un trattato scientifico scritto in latino e indirizzato essenzialmente ai dotti del tempo, per comunicare i risultati delle ricerche condotte con il cannocchiale. Oltre alla loro importanza, che procurò immediatamente all’autore una grande notorietà, l’opera è notevole perché si può considerare la prima descrizione di un paesaggio (in questo caso quello lunare) condotta “dal vero”, al di fuori cioè dei luoghi comuni abituali. Ma il capolavoro letterario dello scrittore è il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano (1632), che rivela l’impeccabile formazione umanistica e l’abilità dello scrittore. Il trattato dialogico era la più alta conquista della civiltà rinascimentale; nel riprendere questa forma, Galileo intendeva rivolgersi non solo agli specialisti ma al pubblico più colto, in grado di accettare e promuovere le sue idee. L’opera, insieme con il gusto di certi momenti narrativi, rivela l’abilità argomentativa del pacato polemista, che si affida all’ironia e alle prove delle sue dimostrazioni per difendere le proprie tesi e confutare, ridicolizzandole, quelle dell’avversario. E se Leopardi amava questa scrittura perché sostenuta dalla robustezza del pensiero, Italo Calvino apprezzerà la chiarezza e la limpida precisione della parola, non esitando a riconoscere e proclamare la grandezza di Galileo scrittore. 181

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

1 Gli studi a Pisa

Il periodo padovano

La vita La formazione e l’insegnamento universitario

Videolezione

Nato a Pisa nel 1564 da Vincenzo, musicista appartenente alla Camerata de’ Bardi, e da Giulia degli Ammannati, Galileo Galilei ebbe una raffinata educazione artistica e letteraria. A Pisa, nel 1581, iniziò gli studi di medicina, che abbandonò per dedicarsi a quelli della matematica e della fisica, scoprendo già nel 1583 la legge dell’isocronismo del moto pendolare. Nel 1586 progettò e costruì una bilancetta idrostatica, per misurare il peso specifico dei corpi; intraprese poi degli studi sulla gravità dei solidi, che gli procurarono, nel 1589, l’assegnazione della cattedra di matematica presso lo Studio di Pisa. In quel periodo scrisse il trattato De motu (“Sul moto”), rimasto inedito, sulle leggi che regolano il movimento dei corpi e che segnano la nascita della fisica moderna, in particolare della meccanica. L’importanza delle sue scoperte gli valse nel 1591, da parte del senato veneto, la chiamata presso l’Università di Padova, dove rimase diciotto anni, che rappresentano il periodo più felice e operoso della sua vita, sia per le migliorate condizioni economiche sia per i rapporti di amicizia con gli intellettuali del più libero e spregiudicato ambiente veneziano, tra cui Paolo Sarpi e Gianfrancesco Sagredo, che diventerà un personaggio dei suoi dialoghi. Ma a Venezia frequenta anche i cantieri dell’Arsenale, per osservare e imparare i segreti della tecnica manuale con cui gli operai costruivano le navi.

Le scoperte astronomiche e il conflitto con la Chiesa Il cannocchiale

Nel 1609, sulla base di notizie che gli erano giunte dall’Olanda, perfezionò la fabbricazione del cannocchiale, che, puntato verso il cielo, gli permise di compiere fondamentali scoperte, tra cui l’esistenza di nuovi astri e delle macchie lunari. L’anno dopo pubblicava il Sidereus nuncius (“Avviso astronomico”), un trattato, scritto in latino, in cui comunicava ai dotti e agli scienziati del tempo i risultati di queste sco-

Galileo e il suo tempo

Linea del tempo

Sidereus nuncius

Nasce a Pisa da una nobile famiglia fiorentina

Studia in convento, a Firenze, e poi all’Università di Pisa

Perfeziona il cannocchiale, già in uso in Olanda

Studia medicina, matematica e filosofia naturale Abbandona l’Università

Ottiene la cattedra all’Università di Pisa

Gli anni della formazione

1564 1571

1581

Battaglia di Lepanto: è arrestata l’avanzata dei Turchi verso Occidente

182

Si trasferisce all’Università di Padova

Riceve l’incarico di «primario matematico e filosofo del granduca di Toscana»

Periodo dell’insegnamento

1585 1588 1589 Papa Sisto V rafforza i poteri del Sant’Uffizio, l’organo preposto alla repressione del dissenso religioso

1592 1598 1609 L’editto di Nantes segna la fine delle guerre di religione in Francia

1610

Capitolo 5 · Galileo Galilei

perte, che – per le ragioni che vedremo – recavano una implicita conferma alla validità della teoria eliocentrica enunciata dall’astronomo polacco Niccolò Copernico (14731543), secondo la quale – a differenza di quanto si era sino ad allora creduto – era la Terra a girare intorno al Sole (teoria eliocentrica) e non viceversa, come pretendeva la teoria geocentrica, risalente all’astronomo egiziano Tolomeo (II secolo). Se già in precedenza Galileo si era pronunciato privatamente in tal senso, il Sidereus rischiava di mettere ufficialmente in discussione questa teoria, che coincideva con le posizioni sostenute dalla Chiesa. Inizialmente, tuttavia, questa non oppose sostanziali obiezioni e un primo incontro con la curia romana, a cui Galileo aveva illustrato i contenuti della sua opera, si concluse favorevolmente, procurandogli ampi riconoscimenti.

Gli incarichi ufficiali e l’abiura A Firenze come «matematico» e «filosofo» del granduca

L’ammonimento del 1616

La grande notorietà ottenuta grazie al Sidereus gli valse l’offerta, da parte di Cosimo II de’ Medici, degli incarichi di “matematico straordinario dello Studio di Pisa”, senza obbligo di lezioni, e di “filosofo del serenissimo granduca”; poco dopo pubblicava il Discorso sulle cose che stanno in su l’acqua (1612) e l’Istoria e dimostrazione intorno alle macchie solari (1613). Ma, a differenza dell’ambiente veneziano, più libero e indipendente, l’influenza dell’Inquisizione in Toscana era forte e aumentarono, soprattutto da parte dei gesuiti, i sospetti nei suoi confronti. Per difendere le proprie posizioni e contrastare i suoi detrattori, Galileo scrisse fra il 1613 e il 1615 quattro lettere, le cosiddette “lettere copernicane”, in cui, oltre a sostenere la tesi dell’astronomo polacco, si pronunciava chiaramente sui rapporti fra la scienza e la fede. Queste lettere provocarono l’intervento del Sant’Uffizio, che nel 1616 condannava come eretiche le tesi copernicane e diffidava Galileo dal farne professione. Non per questo lo scienziato era disposto a rinunciare alla sua battaglia. Intervenne nella polemica sollevata dall’apparizione di tre comete e prese decisamente posizione contro la Libra astronomica ac philosophica del padre gesuita Orazio Grassi. Nacque così Il Saggiatore (1623), opera vivacemente polemica, caratterizzata da un forte spirito antiaristotelico e antidogmatico.

Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo

Lettere “copernicane”

Subisce contestazioni da parte di molti esponenti della Chiesa

È denunciato all’Inquisizione e ammonito a non diffondere la teoria copernicana, contestualmente condannata

Il Saggiatore

I gesuiti condannano il Dialogo: processato dall’Inquisizione, abiura le proprie tesi ed è condannato alla segregazione perpetua

Lo scontro con la Chiesa

1615-16

1618

Inizia la guerra dei Trent’anni, che coinvolge gran parte dell’Europa

1623 Il cardinale Barberini, uomo di aperte vedute, è eletto papa col nome di Urbano VIII

Pubblica in Olanda i Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze Si trasferisce da Roma nella sua residenza di Arcetri, vicino a Firenze

Perde progressivamente la vista

Muore ad Arcetri

La segregazione

1633

1640

1642

Prima rivoluzione inglese

183

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Il Dialogo

La condanna

Testo interattivo Verbale del processo

Le ultime opere

Nello stesso anno, frattanto, era stato eletto papa, col nome di Urbano VIII, il cardinale Maffeo Barberini, che gli aveva dato prova di comprensione e di aperta simpatia. Spinto anche da questa congiuntura, Galileo si dedicò, dal 1624 al 1630, alla composizione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano ( T5, p. 210; T6, p. 215; T7, p. 221), che, superate alcune difficoltà, poté vedere la luce nel 1632. Le conseguenze non si fecero attendere a lungo. Dopo pochi mesi il libro, da cui risultava chiaramente la posizione copernicana dell’autore, venne sequestrato e fu intimato a Galileo di recarsi a Roma, dove fu incarcerato e minacciato di tortura. Il processo che ne seguì (1633) si chiuse con l’abiura del vecchio scienziato e la sua condanna al carcere perpetuo, che venne commutata in una specie di confino, prima a Siena e poi nella villa di Arcetri, dove gli fu consentito di ricevere qualche visita (del filosofo Hobbes e del poeta Milton, oltre che dei più fedeli allievi). Qui, assistito amorosamente dalla figlia Virginia, che morì però prima di lui, trascorse gli ultimi anni della sua vita, afflitto anche dalla perdita quasi totale della vista. Nonostante i dolori e le difficoltà, non volle rinunciare al suo lavoro scientifico e riuscì ancora a pubblicare, nel 1638, i Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze, opera anch’essa dialogica, dove vengono gettate le basi della meccanica razionale moderna, per quanto riguarda la statica e la dinamica. L’ultimo suo scritto fu la lettera Sul candore lunare, del 1640; morì poco più di un anno dopo, l’8 gennaio 1642.

Carta interattiva

I luoghi e la vita di Galileo 4 roma Nel 1633 è costretto a presentarsi davanti al tribunale dell’Inquisizione, di fronte al quale pronuncia l’abiura delle proprie tesi ed è condannato al “carcere formale” perpetuo.

VENEZIA PADOVA 1 Pisa

Nasce nel 1564 da una nobile famiglia fiorentina. Studia all’Università di Pisa (dal 1580) medicina, matematica e filosofia naturale. Nel 1585 abbandona l’università, per rientrarvi nel 1589 come docente di matematica.

FIRENZE PISA

2 Padova

Nel 1592 si trasferisce all’Università di Padova, presso la quale rimane quasi diciotto anni. Quelli trascorsi in Veneto sono anni assai felici e operosi.

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ROMA

3 firenze Nel 1610 è nominato “primario matematico e filosofo del granduca di Toscana”. Nel 1615 viene denunciato all’Inquisizione; nel 1616 è ammonito dal tribunale del Sant’Uffizio di non sostenere e divulgare le teorie copernicane. Dal 1633 è agli arresti domiciliari nella sua residenza di Arcetri, dove muore nel 1642.

Capitolo 5 · Galileo Galilei

2

L’elaborazione del pensiero scientifico e il metodo galileiano

Videolezione

La nuova ricerca scientifica e un nuovo linguaggio Le novità introdotte da Galileo

Testo critico L. Geymonat

L’importanza della ricerca sperimentale

Le istanze innovative percepibili in alcuni settori della cultura tra Cinque e Seicento raggiungono la più convinta formulazione nell’opera di Galileo. Con lui si contemperano in una sintesi matura i risultati conseguiti dalla civiltà umanistico-rinascimentale (viene in mente, in particolare, il nome di Leonardo da Vinci) e le successive esigenze di un aggiornamento su posizioni di una più inquieta e spregiudicata modernità. La ricerca galileiana non solo rende operante il controllo dell’uomo sulla natura, ma infligge il colpo di grazia al principio di autorità aristotelico, secondo cui quanto affermato da Aristotele aveva valore di verità e non poteva essere messo in discussione. È il cosiddetto ipse dixit (“l’ha detto lui”, e quindi non può essere messo in discussione, T7, p. 221) che, accettato dalla Chiesa, comportava anche una sudditanza del presente rispetto al passato, considerato come fonte di certezze immutabili. Con la forza inoppugnabile delle sue argomentazioni, Galileo sembra risolvere in maniera definitiva la questione degli antichi e dei moderni, gettando le fondamenta della nuova ricerca scientifica. Della sua portata rivoluzionaria è ben consapevole, fino al punto di farla coincidere con il valore e la dignità della più alta ricerca filosofica. La filosofia, intesa come visione del mondo, perde così le sue fumose connotazioni metafisiche, per farsi metodo immanente e operativo. Non solo, ma viene rivalutata tutta la componente sperimentale della ricerca, che appare come lo strumento di verifica essenziale per il conseguimento della verità; una verità non più rivelata o identificata con quanto asseriva Aristotele, ma comprovata dall’esperimento con la certezza delle leggi matematiche. La matematica, in questo senso, assume il valore di un metodo totale, valido universalmente, se è vero che il suo uso di segni convenzionali appare in grado di dare la sola possibile spiegazione razionale dei fenomeni. Galileo giunge così a posizioni di una sorprendente modernità, quando, nel Saggiatore, scrive: «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». È la scoperta di un nuovo linguaggio, in altri termini, capace di guidare l’uomo all’interno di quel «laberinto» che, dell’universo barocco, è uno dei simboli più pertinenti, ma da cui Galileo intende uscire, esplorandone i recessi segreti con la guida della ragione.

Il rapporto con la Chiesa La messa in discussione della tradizione aristotelica

L’autonomia della ricerca

Per evitare possibili confusioni, Galileo non mette in discussione le verità della fede, la cui efficacia resta valida al di fuori delle dimostrazioni scientifiche ( T3, p. 198). Ma il carattere rivoluzionario del metodo galileiano non poteva evitare le collisioni con le direttive della Chiesa e con la tradizione aristotelica, arroccata nelle università, che difendeva le ragioni della vecchia scienza e della logica medievale; tanto più se si pensa che, attraverso le sue scoperte nel campo fisico e astronomico, un’intera visione del mondo veniva posta in discussione e alla fine negata, creando fratture e lacerazioni, la cui portata investiva l’essenza stessa della cultura e i privilegi che le erano connessi. Si trattava, in primo luogo, di salvaguardare l’autonomia della ricerca scientifica, sottraendola alle ingerenze del potere ecclesiastico, rappresentato soprattutto dal potente Ordine dei gesuiti, e alle accuse di eresia, secondo un impegno che ha sorretto l’intero arco dell’opera dello scienziato. 185

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

3 Comunicare nuove scoperte

L’uso del latino

Il ricorso a paragoni

T1

Il Sidereus nuncius Il Sidereus nuncius è il trattato scientifico in cui Galileo comunicava al mondo gli straordinari risultati, da cui dovevano derivare conseguenze di incalcolabile importanza, delle scoperte ottenute scrutando il cielo con il suo cannocchiale: la Via lattea come un insieme di stelle infinite; le macchie lunari, ossia le montagne e i “mari” della Luna; i quattro satelliti di Giove, chiamati in onore della casa regnante in Toscana “pianeti medicei”; l’anello di Saturno e le fasi di Venere; le macchie solari e il moto rotatorio del Sole, riconoscibile dagli spostamenti delle macchie. L’opera, come si è accennato, divise la comunità scientifica e religiosa fra gli ammiratori e i detrattori di Galileo, preoccupati, questi ultimi, del fatto che alcune osservazioni potessero mettere in crisi il sistema aristotelico e tolemaico, sostenuto dalla Chiesa: i corpi celesti, a seguito della rilevazione della macchie lunari, non apparivano più perfetti e incorruttibili ( T1), mentre la scoperta del moto orbitale dei satelliti di Giove forniva una prova ulteriore a favore del sistema copernicano, che possono esistere nel cosmo altri centri gravitazionali. La scelta del latino riservava l’opera soprattutto ai dotti e agli scienziati, ma non per questo minore era l’attenzione per una scrittura capace di assecondare i movimenti delle argomentazioni, al di là di ogni arida o astrusa astrazione. Nell’opera le parole seguono da vicino l’andamento delle descrizioni, rese vive da un’abilità analitica rappresentativa che sa rendere con precisione, ad esempio, le immagini mutevoli del paesaggio lunare, tradotte visivamente dai disegni inseriti a corredo del testo. Quasi per rendere familiari gli aspetti di un paesaggio sconosciuto, Galileo non esita a ricorrere a dei confronti con fenomeni simili visibili sulla terra, grazie all’uso di quei paragoni che sono caratteristici della prosa galileiana e ne animano l’andamento. Al tempo stesso traspare l’entusiasmo per aver potuto osservare cose mai viste prima, quella meraviglia che solo superficialmente, per la profonda emozione che la percorre, può essere avvicinata a quella della poetica barocca; una meraviglia che, a differenza di questa, nasce dalla conoscenza delle cose e non da una ricerca delle parole.

La superficie della Luna

Temi chiave

• la meraviglia di fronte a nuove

dal Sidereus nuncius

scoperte

È l’inizio del Sidereus nuncius, in cui Galileo dava notizia delle sue scoperte, a partire dalla conformazione della superficie lunare.

• la nuova immagine della Luna

avviso astronomico

5

che contiene e spiega osservazioni di recente condotte con l’aiuto di un nuovo occhiale1 sulla faccia della Luna, sulla Via Lattea2 e le nebulose, su innumerevoli stelle fisse 3, e su quattro pianeti detti astri medicei 4 non mai finora veduti. Grandi cose per verità in questo breve trattato propongo all’osservazione e alla contemplazione di quanti studiano la natura. Grandi, dico, e per l’eccellenza della materia

1. nuovo occhiale: il cannocchiale. 2. Via Lattea: la Galassia, su cui si veda più avanti la nota 12. 3. stelle fisse: stelle che, dalla Terra, risulta­ no praticamente immobili a causa dell’enor­

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me distanza dall’osservatore. Il Cielo delle stelle fisse costituiva, nel modello dell’uni­ verso derivato da Tolomeo (II secolo d. C.), la sfera di corpi celesti più lontana dalla Terra. Galileo distinse nettamente i pianeti («stelle

erranti») dalle stelle fisse. 4. astri medicei: i quattro satelliti di Giove, scoperti da Galileo col cannocchiale e da lui denominati medicei, in onore del granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici.

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stessa, e per la novità non mai udita nei secoli, e infine per lo strumento mediante il quale queste cose stesse si sono palesate al nostro senso. Grande cosa è certamente alla immensa moltitudine delle stelle fisse che fino a oggi si potevano scorgere con la facoltà naturale5, aggiungerne e far manifeste all’occhio umano altre innumeri6, prima non mai vedute e che il numero delle antiche e note superano più di dieci volte. Bellissima cosa e mirabilmente piacevole, vedere il corpo della Luna, lontano da noi quasi sessanta raggi terrestri7, così da vicino come distasse solo due di queste dimensioni8; così che si mostrano il diametro stesso della Luna quasi trenta volte, la sua superficie quasi novecento, il volume quasi ventisettemila volte maggiori che quando si guardano a occhio nudo: e quindi con la certezza della sensata esperienza9 chiunque può comprendere che la Luna non è ricoperta da una superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale, e, proprio come la faccia della Terra, piena di grandi sporgenze, profonde cavità e anfratti10. Inoltre non mi pare si debba stimar cosa da poco l’aver rimosso le controversie11 intorno alla Galassia, o Via Lattea, e aver manifestato al senso oltre che all’intelletto l’essenza sua12; e inoltre il mostrare a dito13 che la sostanza degli astri fino a oggi chiamati dagli astronomi nebulose14 è di gran lunga diversa da quel che si è fin qui creduto, sarà cosa grata15 e assai bella. Ma quel che di gran lunga supera ogni meraviglia, e principalmente ci spinse a renderne avvertiti16 tutti gli astronomi e filosofi, è l’aver scoperto quattro astri erranti17, da nessuno, prima di noi, conosciuti né osservati, che, a somiglianza di Venere e Mercurio intorno al Sole, hanno le loro rivoluzioni18 attorno a un certo astro cospicuo tra i conosciuti19, ed ora lo precedono ora lo seguono, non mai allontanandosene oltre determinati limiti. E tutte queste cose furono scoperte e osservate pochi giorni or sono con l’aiuto d’un occhiale che io inventai dopo aver ricevuto l’illuminazione della grazia divina20. Altre cose più mirabili forse da me e da altri si scopriranno in futuro con l’aiuto di questo strumento, della cui forma e struttura e dell’occasione d’inventarlo dirò prima brevemente, poi narrerò la storia delle osservazioni da me fatte. […] Non risparmiando fatiche e spese, venni a tanto da costruirmi uno strumento così eccellente, che gli oggetti visti per il suo mezzo appaiono ingranditi quasi mille volte e trenta volte più vicini che visti a occhio nudo. Quanti e quali siano i vantaggi di un simile strumento, tanto per le osservazioni di terra che di mare21, sarebbe del tutto superfluo dire. Ma lasciate le terrestri, mi volsi alle speculazioni22 del cielo; e prima-

5. con la facoltà naturale: con le capacità date dalla natura, con la vista, a occhio nudo. 6. innumeri: innumerevoli. 7. raggi terrestri: il “raggio terrestre” è la di­ stanza del centro della Terra dalla sua super­ ficie al livello del mare. 8. due … dimensioni: due misure, la misura di due “raggi terrestri”. 9. sensata esperienza: esperienza dei sensi. 10. la Luna … anfratti: l’indicazione verrà ri­ presa dalle osservazioni che seguono ( nota 26). 11. rimosso le controversie: risolto le discussioni, le dispute. 12. Via Lattea … essenza sua: il potere di risoluzione del cannocchiale rivela l’autenti­ ca essenza (natura, costituzione) della Via Lattea, che si presenta all’osservatore come

una miriade di stelle di diversa luminosità (e grandezza). 13. mostrare a dito: mostrare nel modo in cui si indica, senza possibilità di equivoco, un oggetto vicino, la cui percezione è chiara ed evidente. 14. nebulose: o galassie, gli ammassi stella­ ri di cui si parla alle note 2 e 12. 15. grata: gradita, apprezzata. 16. renderne avvertiti: informare, darne avviso. 17. astri erranti: gli astri medicei ( nota 4). 18. rivoluzioni: movimenti circolari intorno a un corpo celeste (astro); i pianeti ruotano intorno a una stella, i satelliti intorno a un pianeta (Giove in questo caso). 19. cospicuo tra i conosciuti: molto evidente tra quelli che sono già noti (si tratta di Gio­

ve). 20. inventai … divina: non si tratta di una invenzione, ma del perfezionamento di uno strumento di cui a Galileo era giunta notizia ( T2, p. 193). 21. di mare: non sfuggiva a Galileo, che già aveva collaborato alla realizzazione delle forti­ ficazioni di terra della Repubblica di Venezia, la portata pratica delle applicazioni militari del cannocchiale, che permetteva, per esem­ pio, alla flotta che ne fosse dotata, di avvistare gli avversari con un paio di ore d’anticipo; ap­ plicazione che aveva ben messo in risalto of­ frendo al Doge il modello del cannocchiale da lui perfezionato alcuni mesi prima. 22. speculazioni: nel senso di “osservazio­ ni”, “esplorazioni”.

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mente23 vidi la Luna così vicina come distasse appena due raggi terrestri. Dopo questa, con incredibile godimento dell’animo, osservai più volte le stelle24 sia fisse che erranti. […] Ora verremo esponendo le osservazioni da noi fatte nei due mesi trascorsi, richiamando, agli esordi25 di così grandi contemplazioni, l’attenzione di tutti quanti amano la vera filosofia. In primo luogo diremo dell’emisfero della Luna che è volto verso di noi. Per maggior chiarezza divido l’emisfero in due parti, più chiara l’una, più scura l’altra: la più chiara sembra circondare e riempire tutto l’emisfero, la più scura invece offusca come nube la faccia stessa e la fa apparire cosparsa di macchie. Queste macchie alquanto scure e abbastanza ampie, ad ognuno visibili, furono scorte in ogni tempo; e perciò le chiameremo grandi o antiche, a differenza di altre macchie minori per ampiezza ma pure così frequenti da coprire l’intera superficie lunare, soprattutto la parte più luminosa: e queste non furono viste da altri prima di noi. Da osservazioni più volte ripetute di tali macchie fummo tratti alla convinzione che la superficie della Luna non è levigata, uniforme ed esattamente sferica, come gran numero di filosofi credette di essa e degli altri corpi celesti26, ma ineguale, scabra e con molte cavità e sporgenze, non diversamente dalla faccia della Terra, variata da catene di monti e profonde valli. Le cose che vidi e da cui potei trarre queste conclusioni, sono le seguenti: Nel quarto o quinto giorno dopo la congiunzione27, quando la Luna ci mostra i corni splendenti, il termine di divisione tra la parte scura e la chiara28 non si stende uniformemente secondo una linea ovale, come accadrebbe in un solido perfettamente sferico, ma è tracciato da una linea ineguale, aspra e assai sinuosa. Infatti molte luminosità come escrescenze si estendono oltre i confini della luce e delle tenebre, e per contro 23. primamente: per prima cosa, dapprima. 24. stelle: corpi celesti. 25. esordi: inizi; ma il termine indica in particolare la parte introduttiva di un’opera, di un discorso; implica perciò uno sviluppo, un progresso che da quell’“inizio” prende coerentemente l’avvio. 26. gran … celesti: il modello derivato dall’opera di Tolomeo, e accettato dalla Chiesa, prevedeva una netta e sostanziale distinzione tra il mondo celeste, immutabile e perfetto, e il mondo terrestre, mutevole e imperfet­ to. Caratteristica distintiva dei corpi celesti era, nel sistema tolemaico, la loro perfetta sfericità. 27. congiunzione: indica la posizione reciproca di due astri, nel caso in cui i piedi delle perpendicolari portate dai due astri sull’orizzonte dell’os­ servatore terrestre vengano a coincidere. I due astri, indipendentemen­ te dalla loro altezza sull’orizzonte, presenteranno la stessa longitudine. Nel caso della Luna e del Sole, si ha congiunzione nella fase del novilu­ nio: la Luna, trovandosi tra la Terra e il Sole, rivolge verso la Terra l’emisfe­ ro non illuminato dal Sole. 28. la parte … chiara: la parte non illuminata e la parte illuminata.

Galileo Galilei, Studio sulle fasi lunari, 1609, inchiostro su carta, dal Manoscritto Galileiano 48, c. 28 r, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

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alcune particelle oscure si introducono nella parte illuminata. Di più: anche gran copia29 di piccole macchie nerastre, del tutto separate dalla parte oscura, cospargono quasi tutta la plaga30 già illuminata dal Sole, eccettuata soltanto quella parte che è cosparsa di macchie grandi e antiche31. Notammo pure che le suddette piccole macchie concordano, tutte e sempre, in questo: nell’avere la parte nerastra volta al luogo del Sole32; nella parte opposta al Sole invece sono coronate da contorni lucentissimi, quasi33 montagne accese. Uno spettacolo simile abbiamo sulla Terra verso il sorgere del Sole quando vediamo le valli non ancora illuminate e splendenti i monti che le circondano dalla parte opposta al Sole: e come le ombre delle cavità terrestri di mano in mano che il Sole si innalza si fanno più piccole, così anche queste macchie lunari, al crescere della parte luminosa, perdono le tenebre. Veramente non solo i confini tra luce e tenebre si scorgono nella Luna ineguali e sinuosi, ma – ciò che desta maggior meraviglia – nella parte tenebrosa della Luna si mostrano moltissime cuspidi34 lucenti, completamente divise e avulse35 dalla parte illuminata e lontane da questa non piccolo tratto36: che a poco a poco, dopo un certo tempo, aumentano di grandezza e luminosità: dopo due o tre ore si congiungono alla restante parte luminosa già divenuta più grande; frattanto altre e altre punte come pullulanti qua e là si accendono nella parte tenebrosa, ingrandiscono e infine si congiungono anch’esse alla parte luminosa che si è venuta sempre più ampliando. […] E sulla Terra, prima che si levi il Sole, mentre ancora l’ombra occupa le pianure, le cime dei monti più alti non sono forse illuminate dai raggi solari? non s’accresce in breve tempo la luce, quando le parti medie e le più larghe dei monti si illuminano: e finalmente, sorto già il Sole, non si congiungono le illuminazioni delle pianure e dei colli? Le varietà di tali protuberanze e cavità della Luna sembrano poi superare d’assai l’asperità della superficie terrestre, come dimostreremo più innanzi. Frattanto non passerò sotto silenzio un fatto degno di attenzione che osservai mentre la Luna si avviava al primo quarto: […] nella parte luminosa penetra un grande seno37 oscuro, collocato verso il corno38 inferiore, il qual seno avendo io a lungo osservato e scorto del tutto oscuro, finalmente dopo circa due ore cominciò a spuntare, poco sotto il mezzo della sinuosità, una sorta di vertice luminoso; questo a poco a poco crescendo prendeva figura triangolare e rimaneva del tutto staccato e separato dalla faccia luminosa; poco dopo attorno a quello cominciarono a luccicare tre piccole punte, fino a che, volgendo già la Luna al tramonto, la figura triangolare, estesa e fatta più ampia, si univa alla rimanente parte luminosa e grande come un grande promontorio, ancora circondata dai tre punti ricordati, si diffondeva nel seno tenebroso. Inoltre, all’estremità dei corni, sia superiore che inferiore, emergevano alcuni punti luminosi e completamente disgiunti dall’altra parte luminosa. […] Nell’uno e nell’altro corno era gran quantità di macchie scure, sopra tutto nell’inferiore; ed appaiono più grandi e scure le più vicine al limite tra luce e tenebre, le più lontane meno oscure e più sbiadite. Sempre però, come anche sopra ricordammo, la parte nericcia39 della macchia è rivolta verso l’irradiazione solare40, mentre un contorno luminoso circonda la macchia nericcia dalla parte opposta al Sole e rivolta alla parte oscura della Luna. Questa superficie lunare, là dove è variata41 da macchie, come

29. copia: quantità, numero (latino copia, “abbondanza”). 30. plaga: regione, zona. 31. antiche: note da sempre. 32. volta … Sole: rivolta dalla parte del So­ le, situata nella zona (della macchia) che guarda nella direzione del Sole.

33. quasi: quasi fossero, come se fossero. 34. cuspidi: punte aguzze. 35. avulse: distinte, staccate. 36. non piccolo tratto: non per un breve tratto, non poco. 37. seno: insenatura. 38. corno: l’estremità della falcatura lumi­

nosa, che è l’aspetto assunto dalla Luna quando si trova (come qui) al primo o all’ul­ timo quarto. 39. nericcia: nerastra, più scura. 40. l’irradiazione solare: i raggi del Sole. 41. variata: variegata.

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occhi cerulei42 d’una coda di pavone, appare simile a quei vasetti di vetro che, posti ancora incandescenti in acqua fredda, acquistan superficie screpolata e ineguale, onde son detti dal volgo bicchieri di ghiaccio43. Invero le grandi macchie della Luna non si vedono così rotte e ricche di avvallamenti e sporgenze, ma più uguali e uniformi; infatti spuntano solo qua e là piccole zone più luminose, cosicché se qualcuno volesse riesumare l’antica opinione dei pitagorici44, cioè che la Luna sia quasi una seconda Terra, la parte di essa più luminosa rappresenterebbe meglio la superficie solida, la più scura quella acquea; e non mai ebbi dubbio che, guardato da lontano, il globo terrestre illuminato dal Sole, la superficie terrea si presenterebbe più chiara, più scura la parte acquea. G. Galilei, Opere, a cura di F. Flora, trad. it. di L. Lanzillotta, Ricciardi, Milano-Napoli 1953

42. cerulei: di colore azzurro, turchini. 43. son … ghiaccio: con ogni probabilità, Galileo imparò questa espressione popo­ lare negli anni in cui, a Venezia, frequentò

l’arsenale e le vetrerie (manifatture, allora, depositarie di conoscenze tecniche d’avan­ guardia). 44. pitagorici: gli esponenti della scuola fi­

losofica del IV secolo a.C., che sviluppò gli insegnamenti del matematico, astronomo e filosofo Pitagora (572 ca.­ 494 a.C.).

Analisi del testo La meraviglia

Immagini dinamiche

> Il modo di comunicare nuove scoperte

All’inizio dell’opera, accingendosi a comunicare gli straordinari risultati delle scoperte da lui compiute grazie all’uso del cannocchiale, Galileo dà voce al suo stupore, a quella “meraviglia” («Grandi cose per verità», «Grandi, dico», «Grande cosa è certamente», «Bellissima cosa e mirabilmente piacevole») dovuta alla «novità non mai udita nei secoli» (r. 7). Ora, la “meraviglia” era cercata anche dai poeti barocchi e dal loro capostipite, Giambattista Marino, che l’aveva posta alla base della sua poetica («È del poeta il fin la meraviglia»). Ma i poeti barocchi si proponevano di ottenere effetti sorprendenti attraverso l’uso delle parole e delle figure retoriche (metafore, iperboli, concetti, giochi verbali di vario genere), mentre la meraviglia di Galileo nasce dalle cose (in re), dallo scoprire ciò che nessun altro mai prima aveva osservato, e non dalle parole (in verbis), combinate nelle forme e nei modi più imprevisti. Nel rappresentare la superficie lunare, Galileo si propone di ricostruirne le forme, le linee e i contorni, nella maniera più fedele e corrispondente a ciò che ha visto (lo scritto è corredato da disegni che lui stesso ha eseguito). Non si tratta solo, però, di immagini statiche; Galileo ne segue le trasformazioni a seconda dell’incidenza dei raggi luminosi, nel mutevole variare delle zone illuminate e di quelle in ombra. Poteva così dimostrare che la superficie lunare non era perfettamente sferica e levigata come si credeva, ma presentava delle evidenti somiglianze con la configurazione della crosta terrestre; non a caso, per farne meglio comprendere la conformazione, stabiliva dei persuasivi confronti con delle condizioni o situazioni che tutti potevano conoscere e verificare («Uno spettacolo simile abbiamo sulla Terra verso il sorgere del Sole quando vediamo le valli», rr. 72-73). A partire da queste indicazioni, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano Galileo dimostrerà la falsità delle tesi tolemaico-aristoteliche sulla perfezione e sull’inalterabilità dei corpi celesti ( T5, p. 210).

> L’importanza letteraria del testo Una descrizione dal vero

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Decisivo sul piano della conoscenza, al punto da rovesciare un intero modo di concepire l’universo, il testo di Galileo ha anche una notevole importanza sul piano più propriamente letterario. La sua è una descrizione dal vero, la prima nella letteratura italiana e, si può dire, nella storia di tutte le letterature, se si pensa che in passato il

Capitolo 5 · Galileo Galilei

paesaggio era sempre stato raffigurato nelle forme idealizzate e convenzionali del cosiddetto locus amoenus (con i suoi consueti elementi, indicati e connotati in maniera generica e astratta, senza nessuno scrupolo di verosimiglianza: il cielo azzurro di primavera, l’erba verde, gli alberi ombrosi, il ruscelletto che scorre, gli uccellini che cantano, ecc.). Anche dopo Galileo continueranno a ripetersi questi luoghi comuni; perché le cose cambino, occorrerà aspettare le letteratura “realistica” dell’Ottocento (si può vedere, per un esempio, la descrizione del lago di Como con cui iniziano I promessi sposi di Alessandro Manzoni).

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. A chi si rivolge Galileo? Qual è il suo pubblico di riferimento, tenuto conto che l’opera è scritta in latino? > 2. Quali sono le rivoluzionarie scoperte astronomiche che lo scienziato annuncia nello scritto? > 3. Su quale tipo di conoscenza, grazie all’uso del cannocchiale, si basano tali scoperte? Con quale espressione è indicata nel testo (rr. 5-20)? > 4. In che modo Galileo divide le macchie lunari? Che cosa conclude dalla loro osservazione (rr. 45-55)? AnALIzzAre

> 5. Galileo intende la ricerca scientifica fine a se stessa o ritiene che certi suoi aspetti possano applicarsi alla vita quotidiana per migliorarla?

> 6. Lo scienziato si presenta in questo brano come studioso mosso solo dagli interessi scientifici o ancora legato all’esperienza religiosa? Stile Qual è il termine di paragone di cui lo scienziato si serve per rendere meglio comprensibili al lettore le sue osservazioni? > 8. Lessico Rintraccia i termini che sottolineano la portata eccezionale della scoperta: quale tono conferiscono alla scrittura? Sono presenti nel testo anche vocaboli che alludono allo stupore e alla meraviglia? A quale clima culturale si possono riferire?

> 7.

ApprofondIre e InTerpreTAre

> 9.

Video da Galileo

Scrivere Rifletti in un testo di circa 5 righe (250 caratteri) sulla portata rivoluzionaria del Sidereus nuncius per l’uomo contemporaneo all’epoca di Galileo. > 10. Altri linguaggi: cinema Nel 1968 la regista Liliana Cavani ricostruisce il famoso processo a Galileo, in un film che prende il titolo dal nome del protagonista ( p. 220). Dopo aver preso visione dello spezzone indicato, tratto dal film, rispondi alle domande seguenti. a) Nella sequenza compare a colloquio con Galileo il filosofo Giordano Bruno (1548-1600), che consiglia allo scienziato di essere cauto e di non fare resistenze di fronte all’autorità della Chiesa; nella realtà storica Bruno è morto sul rogo da oltre trent’anni. Perché, a tuo avviso, la Cavani introduce nel film tale “falso storico”? Che cosa rappresenta la figura di Giordano Bruno? b) Registra su due diverse colonne le ragioni della Chiesa e quelle di Galileo esposte per bocca dei protagonisti.

Fotogramma dal film Galileo.

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L’ArTe InConTrA LA LeTTerATurA

Arte Arte e scienza nel XVII secolo

Galileo Galilei e Ludovico Cigoli: la pittura incontra la scienza Amico di Galileo fin dalla gioventù, il pittore fiorentino Ludovico Cardi detto il Cigoli (15591613) ebbe con lo scienziato pisano un fitto carteggio; tre lettere del 1612 indirizzate da Cigoli a Galileo riportano i commenti di chi respingeva le teorie esposte nel Sidereus nuncius (1610). Trovandosi a Roma nel 1611, Galilei aveva chiesto all’amico – a cui la Corte Pontificia conferiva prestigiosi incarichi pubblici – di raffigurare la Luna tenendo presenti proprio le illustrazioni del Sidereus nuncius. Ludovido Cardi da Cigoli, La Vergine sopra la luna galileiana, 1610­12, affresco, Roma, Basilica di Santa Maria Maggiore, Cappella Paolina.

L’Immacolata Concezione, ultima opera di Cigoli, nella Basilica romana di Santa Maria Maggiore, è un bell’esempio di incontro tra arte e scienza, tanto più significativo poiché assai raro a quei tempi. Nella cupola affrescata, con due zone concentriche, campeggia la Madonna in gloria, vestita come una regina, coronata di dodici stelle e poggiante i piedi su una mezzaluna con le punte verso il basso, secondo la descrizione di Apocalisse 12, 1 («Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la Luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle […]»). Il particolare della Luna rotonda con curva illuminata e interno in ombra è un dettaglio di rilevantissima novità, giacché riproduce le recenti scoperte scientifiche di cui la Chiesa diffidava. Che Cigoli abbia potuto onorare l’invito dell’amico in una delle basiliche più importanti è un fatto straordinario che contribuì a diffondere le idee galileiane presso il pubblico colto di Roma: quella Luna opaca su cui svetta la Vergine costituisce la manifestazione pittorica dei progressi della ricerca scientifica, preannunciando i successi della scienza moderna.

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Esercitare le competenze STAbILIre neSSI TrA LeTTerATurA e ArTI vISIve

> 1. Effettua una descrizione del dipinto che tenga conto dell’elemento della luce, rilevandone l’importanza in relazione al soggetto sacro rappresentato. > 2. Perché il connubio fra arte e scienza era, nel tempo in cui operò l’artista, piuttosto raro? Motiva la tua risposta considerando con attenzione il contesto storico-culturale di riferimento.

Capitolo 5 · Galileo Galilei

4 Gli scambi epistolari

Le lettere “copernicane”

Il rapporto tra fede e ragione

L’epistolario e le lettere “copernicane” Fondamentali, per comprendere la figura di Galileo, con i suoi progetti e le sue preoccupazioni, sono le lettere, che ci fanno conoscere le relazioni scientifiche e culturali intrattenute con le più illustri personalità del tempo, sul piano nazionale e internazionale: basti ricordare, già nel 1597, lo scambio di lettere con il grande astronomo tedesco Giovanni Keplero (1571-1630). Nelle lettere trovano spazio le sue convinzioni, fin dall’inizio volte alla difesa della libertà della ricerca scientifica contro i pregiudizi, ma anche le notizie delle sue invenzioni, come nella lettera del 1609 sugli effetti del cannocchiale e quella, di anni successivi, sul microscopio, indirizzata nel 1623 al principe Cesi, fondatore dell’Accademia dei Lincei. La scelta di importanti destinatari era motivata anche dalla necessità di difendere e diffondere le proprie concezioni e di trovare dei sostenitori, che lo aiutassero in questo compito. La pratica epistolare serviva così anche come risposta alle accuse, prima implicite e poi più chiaramente espresse, mosse dagli ambienti accademici, aristotelici ed ecclesiastici dopo la pubblicazione del Sidereus. In tale ambito acquistano un grande rilievo le quattro lettere “copernicane”, indirizzate una all’allievo don Benedetto Castelli, due all’amico monsignor Piero Dini e l’ultima a Cristina di Lorena, granduchessa madre di Toscana. Scritte tra il 1613 e il 1615 e rese note pubblicamente, la loro denominazione deriva dalla difesa che Galileo assume del sistema eliocentrico sostenuto da Copernico. Contenuti diversi presenta la lettera a Castelli, che tocca direttamente lo spinoso, e pericoloso, problema dei rapporti tra la ricerca scientifica e la religione. In essa Galileo ha esposto la dottrina dell’autonomia e dell’indipendenza della scienza, che non soggiace all’autorità di Aristotele e nemmeno a quella delle Sacre Scritture. Tra la fede e la ragione non ci può essere contrasto o confusione; se tra le verità scientifiche e quelle religiose ci fosse un’apparente contraddizione, questa dovrebbe essere risolta a favore delle prime, dal momento che la natura, con le sue leggi, è diretta espressione della volontà divina, mentre la Scrittura risente della mentalità del tempo in cui l’opera venne composta, e occorre quindi saperne cogliere, interpretandola, i «veri sensi». Tutto questo non metteva in discussione l’autentica fede religiosa e l’ortodossia di Galileo, ma non impedì che le lettere venissero impugnate per suffragare le accuse di eresia rivolte allo scrittore.

L e t t e r a t u r a e Tecnica

T2

Il cannocchiale e il microscopio dalle Lettere

Testo e realtà

I due passi, testimonianza del legame Per quanto riguarda il cannocchiale non potevano certo sfuggire strettissimo fra scienza e tecnica, tutti i vantaggi di una destinazione e utilizzazione pratica, «tanto evidenziano quanto delle “meraviglie” del mondo riescano a rivelare i nuovi per le osservazioni di terra che di mare». Presentando lo strustrumenti. mento da lui perfezionato al Doge e alle più importanti cariche veneziane (stupite e impazienti di poterne subito verificare gli effetti), Galileo mostra la possibilità di avvistare le navi con grande anticipo rispetto alla comune osservazione a occhio nudo; cosa di grande importanza per una Repubblica che affidava al mare le sue fortune e la sua potenza, basata sulla navigazione mercantile e militare. Ancora in questo periodo i risultati della ricerca scientifica hanno come destinatario privilegiato il potere (solo più tardi l’inventore, divenuto proprietario del brevetto, proporrà i suoi strumenti al libero mercato). Non stupisce allora che Galileo, appena messo a punto il microscopio, lo abbia mandato al principe Federico Cesi, spiegandogliene il funzionamento, per consentire quelle osservazioni che, sebbene di utilità meno immediata, avrebbero comunque aperto nuove strade alla conoscenza della natura.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

A Dovete dunque sapere come sono circa due mesi che1 qua fu sparsa fama2 che in Fian-

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dra3 era stato presentato al conte Maurizio4 un occhiale fabbricato con tale artifizio5, che le cose molto lontane le faceva vedere come vicinissime, sì che un uomo per la6 distanza di due miglia7 si poteva distintamente vedere. Questo mi parve effetto tanto meraviglioso, che mi dette occasione di pensarvi sopra; e parendomi che dovessi avere fondamento8 su la scienza di prospettiva, mi messi a pensare sopra la sua fabbrica9, la quale finalmente ritrovai e così perfettamente, che uno che ne ho fabbricato supera di assai la fama di quello di Fiandra. Ed essendo arrivato a Venezia voce che ne avevo fabbricato uno, sono sei giorni che10 sono stato chiamato dalla Serenissima Signoria11, alla quale mi è convenuto mostrarlo e insieme a tutto il Senato con infinito stupore di tutti; e sono stati moltissimi i gentiluomini e senatori, li quali, benché vecchi, hanno più di una volta fatte le scale de’ più alti campanili di Venezia per scoprire in mare vele e vascelli tanto lontani, che venendo a tutte vele12 verso il porto passavano due ore e più di tempo avanti13 che, senza il mio occhiale14, potessero essere veduti: perché insomma l’effetto di questo strumento è il rappresentare quell’oggetto che è, verbi grazia15, lontano 50 miglia, così grande e vicino come se fosse lontano miglia 5. Ora avendo io conosciuto quanto vi sarebbe stato di utilità per le cose di mare16 come di terra, e vedendolo desiderare da questo Serenissimo Principe17, mi risolvetti il dì 25 stante di comparire in Collegio18, e farne libero dono a Sua Serenità: ed essendomi stato ordinato nell’uscire del Collegio che io mi trattenessi nella sala dei Pregadi19, di lì a poco l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Sr.20 Procurator Prioli, che è uno de’ Riformatori di studio21, uscì fuori di Collegio e presomi per la mano mi disse, come l’Eccellentissimo Collegio sapendo la maniera con la quale avevo servito per anni diciassette in Padova22, e avendo di più conosciuta la mia cortesia nel farli dono di cosa così accetta23, aveva immediate24 ordinato agli Illustrissimi Signori Riformatori, che, contentandomi io25, mi rinnovassero la mia condotta26 in vita, con stipendio di fiorini27 1000 l’anno […]. Io, sapendo come la speranza ha le ale28 molto pigre e la fortuna velocissime, dissi che mi contentavo di quanto piaceva a Sua Serenità. Lettera di Galileo del 29 agosto 1609 al cognato Benedetto Landucci b Ho tardato a mandarlo [il microscopio] perché non l’ho prima ridotto a perfezione29,

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avendo avuto difficoltà in30 trovare il modo di lavorare i cristalli perfettamente. L’oggetto si attacca sul cerchio mobile, che è nella base, e si va movendo per vederlo tutto31, atteso che32 quello che si vede in un’occhiata è piccola parte. E perché la distanza tra la lente e l’oggetto vuol esser puntualissima33, nel guardar gl’oggetti che hanno rilievo bisogna potere arrivare34

1. come … mesi che: che circa due mesi fa. 2. fama: la voce, la notizia. 3. Fiandra: la regione corrispondente pres­ sappoco agli attuali Belgio e Olanda. 4. conte Maurizio: Maurizio, conte di Nas­ sau e principe d’Orange (1567­1625). 5. artifizio: artificio, nel senso di abilità, pe­ rizia tecnica. 6. per la: alla. 7. miglia: unità di misura di lunghezza va­ riabile intorno a 1 km e mezzo. 8. dovessi … fondamento: dovesse basarsi. 9. mi messi … fabbrica: mi misi a riflettere intorno alla sua costruzione, alla maniera di costruirlo. 10. sono sei giorni che: sei giorni fa. 11. Serenissima Signoria: il Doge di Vene­ zia. 12. a tutte vele: a vele spiegate. 13. avanti: prima.

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14. occhiale: cannocchiale. 15. verbi grazia: per esempio (locuzione la­ tina). 16. le cose di mare: la navigazione, ma so­ prattutto le battaglie navali, per la possibili­ tà di avvistare le navi nemiche. 17. Serenissimo Principe: ancora il Doge (più avanti «Sua Serenità»). 18. Collegio: il Collegio dei Savi, sorta di consiglio dei ministri della Repubblica ve­ neziana. 19. Pregadi: o Rogadi, termine con cui si indicavano i senatori. 20. Sr.: abbreviazione di “Signor”. 21. Riformatori di studio: i tre magistrati che sovrintendevano all’Università (studio) di Padova. 22. servito … Padova: all’Università di Pa­ dova Galileo insegnò a partire dal 1592 e qui, nel 1609, perfezionò il cannocchiale.

23. accetta: gradita. 24. immediate: immediatamente (latino). 25. contentandomi io: se io fossi stato contento. 26. condotta: l’incarico di insegnamento. 27. fiorini: il fiorino era l’antica moneta fio­ rentina. 28. ale: ali. Espressione di tipo proverbiale, per dire che la speranza è lenta a realizzarsi, mentre la fortuna può rapidamente cambia­ re le situazioni. 29. ridotto a perfezione: condotto alla sua forma perfetta, messo a punto, perfezionato. 30. in: nel, per. 31. vederlo tutto: poter vedere tutti i particolari. 32. atteso che: dal momento che, perché. 33. vuol … puntualissima: deve essere precisissima. 34. potere arrivare: riuscire.

Capitolo 5 · Galileo Galilei

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e discostare il vetro, secondo che si guarda questa o quella parte; e perciò il cannoncino35 è fatto mobile nel suo piede, o guida36 che dir la vogliamo. Devesi ancora37 usarlo all’aria molto serena e lucida, e meglio è al sole medesimo, ricercandosi38 che l’oggetto sia illuminato assai. Io ho contemplati moltissimi animalucci con infinita ammirazione: tra i quali la pulce è orribilissima, la zanzara e la tignola39 son bellissimi; e con gran contento40 ho veduto come faccino le mosche ed altri animalucci a camminare attaccati a’ specchi, ed anco41 di sotto in su. Ma V. E.42 avrà campo43 larghissimo di osservar mille e mille particolari, de i quali la prego a darmi avviso44 delle cose più curiose. In somma ci è da45 contemplare infinitamente la grandezza della natura, e quanto sottilmente ella lavora, e con quanta indicibil diligenza. Lettera di Galileo del 23 settembre 1624 al principe Federico Cesi

35. cannoncino: la canna, il tubo. 36. guida: la base mobile che consente di orientare il microscopio, sollevandolo da una parte o dall’altra. 37. Devesi ancora: inoltre si deve. 38. ricercandosi: facendo in modo.

39. tignola: insetto della famiglia dei Lepi­ dotteri, di piccole dimensioni, le cui larve attaccano i tessuti e le piante. 40. contento: piacere. 41. anco: anche. 42. V. E.: Vostra Eccellenza.

43. campo: tempo e modo. 44. a darmi avviso: di darmi notizia, informarmi. 45. ci è da: è possibile.

Analisi del testo Cannocchiale e microscopio

Scienza e tecnica

Alla base delle scoperte scientifiche, che consentono di giungere a certezze e risultati risolutivi, c’è spesso l’affinamento e la messa a punto degli strumenti che ne sono il presupposto e la condizione necessaria. È il caso del cannocchiale e del microscopio, la cui costruzione non solo consente a Galileo di scoprire mondi prima sconosciuti, ma troverà anche nei successivi perfezionamenti di questi strumenti applicazioni sempre più raffinate e potenziate. Oltre ai passi da gigante che l’uomo, negli ultimi decenni, ha compiuto nel campo delle conoscenze astronomiche e poi delle conquiste spaziali, si pensi alle scoperte (con le loro applicazioni) consentite dal microscopio nel campo della biologia e della medicina. Questo rapporto fra la scienza e la tecnica trova il suo punto d’incontro nella pratica di quella manualità che Galileo aveva acquistato e maturato nelle sue frequentazioni dell’Arsenale di Venezia (il cantiere dove si costruivano e riparavano le navi), venendo a contatto con l’esperienza diretta degli operai e dei costruttori, chiamati a risolvere quei problemi che continuamente potevano porsi. Il continuo scambio tra la fase teorica e quella pratica coinvolge concretamente la personalità dello scienziato-scrittore, nei diversi momenti di un’avventura portata avanti con orgoglio e quasi con trepidazione. Ai procedimenti della lavorazione («il modo di lavorare i cristalli perfettamente», r. 29) segue la comunicazione dei risultati che si possono ottenere («l’effetto di questo strumento», r. 14). Ma soprattutto, insieme con le attese da parte di chi si accinge a conoscere le novità presentate da Galileo, ricompare il motivo della “meraviglia” già individuato nel testo precedente ( T1, p. 186): è, nell’osservare per la prima volta ciò che prima non si riusciva a vedere, l’«infinita ammirazione» che coglie l’uomo nel «contemplare infinitamente la grandezza della natura, e quanto sottilmente ella lavora, e con quanta indicibil diligenza» (rr. 40-41).

Lente e cannocchiale di Galileo, Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. Sintetizza, anche in modo schematico, i contenuti dei due brani. ANALIZZARE

> 2. Quali elementi presenti nei due testi evidenziano il fatto che i destinatari delle lettere sono persone diverse sul piano dell’appartenenza familiare e del prestigio sociale?

> 3. «L’oggetto si attacca … sia illuminato assai» (brano B, rr. 29-35): quali sono le finalità di questo passo? Nel

rispondere, rifletti sulle esigenze comunicative che caratterizzano il lavoro dello scienziato Stile «la speranza ha le ale molto pigre e la fortuna velocissime» (brano A, r. 26): l’espressione, oltre ad essere di tipo proverbiale, come riportato in nota, presenta una metafora: quale? > 5. Lessico A quale clima culturale si ricollega la presenza dell’aggettivo «meraviglioso» (brano A, r. 4)? > 6. Lingua Quale effetto produce nel testo il ricorso al diminutivo «animalucci» (brano B, r. 36) da parte dell’autore-scienziato?

> 4.

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 7.

Testi a confronto: esporre oralmente Quali elementi accomunano il brano analizzato e il T1 (p. 186) riguardo la prospettiva adottata in questa sede, ovvero la considerazione dei vantaggi del legame strettissimo fra scienza e tecnica? Argomenta la tua risposta in un’esposizione orale (max 3 minuti).

Interpretazioni critiche

Andrea Battistini Il cannocchiale e il nuovo immaginario Rendendo possibile, nel Sidereus, il rapporto fra la parola e l’immagine, fra la scrittura e la sua rappresentazione grafica figurativa, il cannocchiale, perfezionato da Galileo, è divenuto il simbolo di una rivoluzione culturale che ha profondamente influenzato il futuro della scienza e l’immaginario del tempo.

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Filtrati dall’organo della vista, “senso sopra tutti gli altri eminentissimo1”, come si legge nel Saggiatore, gli oggetti, benché separati da distanze siderali2, assumono la nitidezza di corpi tangibili3, conservando al Sidereus una stupefacente facilità di lettura e di comprensione, agevolata dalle numerose illustrazioni che corredano il testo. […] Certamente però le illustrazioni del Sidereus non si offrono più come cornice decorativa condizionata da un gusto ornamentale e da un compiacimento pittorico, ma come guida didascalica4 innalzata a parte integrante del discorso scientifico, indispensabile perché la loro accuratezza geometrica attua la chiarezza e la distinzione […] meglio della stessa scrittura, troppo succube, con l’alfabeto, alla mimesi dell’acustico5 discorso orale. Molto più delle parole dovettero impressionare gli sbattimenti6 tenebrosi che negli schizzi della superficie lunare facevano stagliare i picchi delle sue montagne, non senza effetti sulla pittura del tempo […].

1. eminentissimo: importantissimo, di gran lunga superiore. 2. siderali: stellari, enormi. 3. tangibili: concretamente evidenti e perce-

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Andrea Battistini, critico letterario e docente universitario, si è occupato dei più diversi aspetti e problemi della letteratura italiana, da Dante al Novecento. Le sue ricerche hanno riguardato in particolare l’autobiografia, il Barocco, la prosa scientifica e la retorica.

pibili. 4. didascalica: didattica, esplicativa. 5. acustico: costituito da suoni. 6. sbattimenti: termine della tecnica pit­

torica, usato per indicare l’ombra proietta­ ta da un oggetto sul suo piano d’appog­ gio.

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Nel raffigurare il nuovo ethos7 dello scienziato che non accettava più la comoda lettura dei libri altrui, sentita quasi con un senso di insofferente claustrofobia8, il cannocchiale rivelò in chi l’assunse “una coscienza moderna di sperimentatore”, divenendo sinonimo figurato9 di “logica scientifica” che insegna a veder chiaro. Poiché Galileo non solo ne comprese il valore scientifico, non solo lo perfezionò, ma lo utilizzò al meglio, ne insegnò l’uso e soprattutto ne fece la sigla del nuovo abito10 scientifico, questo strumento fu promosso a metonimia11 della sua stessa figura. […] E mentre gli scienziati, tra Keplero e Cartesio12, traevano spunto dalle istruzioni empiriche del Sidereus per formulare in sede teorica le leggi ottiche che presiedevano all’ingrandimento e all’avvicinamento degli oggetti analizzati attraverso le sue lenti, i letterati e la gente comune ne subivano il fascino esercitato sul loro immaginario. Il potenziamento della vista umana permesso dal cannocchiale faceva di questo strumento il segno tangibile delle intraprendenti risorse dello spirito umano ad ampliare indefinitamente i propri orizzonti, che per merito suo potevano superare le colonne d’Ercole13 […]. La stessa conformazione consistente, nelle parole essenziali di Marino, in “un picciol cannone e duo cristalli” (Adone, X, 42, 8), era la testimonianza della semplicità con cui opera la natura, capace di donare il meraviglioso14 attraverso oggetti quotidiani alla portata di tutti, secondo la tesi galileiana che fa “derivare et esser prodotte” “le più mirabili operazioni” “da mezi tenuissimi”. Se la peculiarità del barocco risiede nel gusto della contraddizione e dell’ossimoro, anche da questo punto di vista il cannocchiale ne è una volta di più l’emblema, perché la magnificenza delle conquiste umane si fonda su una struttura debole e dimessa […]. In fondo, a voler gareggiare in arguzia con l’uomo barocco, il cannocchiale potrebbe apparire l’equivalente iconico15 del Sidereus che, come si autodefinisce nelle sue prime battute, è un “breve trattato” che fa vedere “grandi cose”, proprio come l’antitesi del congegno che nella sua esiguità mostra fenomeni grandiosi. Il suo potere metamorfico16, nell’ingigantire cose piccole e, capovolto, nel rendere microscopici gli oggetti grandi, favorì in poco tempo la sua adozione presso poetiche che si richiamavano alle tecniche aristoteliche dell’amplificare e dello sminuire, in un gioco di specchi concavi e convessi che si poteva applicare anche alla parola e ai suoi processi di rifrazione retorica. Il cannocchiale, insomma, si comportava proprio come l’ingegno, la prerogativa umana di avvicinare cose lontane. Dopo il precedente dell’Occhiale di Tommaso Stigliani17, che si valse della metafora ottica per stroncare l’Adone, seguito a breve distanza, con intenti apologetici18, dall’Occhiale appannato di Scipione Errico, dall’Antiocchiale di Agostino Lampugnani e dell’Occhiale stritolato di Angelico Aprosio, scese in campo il più acuto ingegno barocco, Emanuele Tesauro, con il suo Cannocchiale aristotelico, illustrato da un frontespizio allegorico dove la Poesia, aiutata da Aristotele, osserva con il cannocchiale le macchie solari […]. Poiché l’operazione avviene alla presenza della Pittura, nella cui tavolozza sono riprodotte le stesse macchie visibili sul sole, nel telescopio vengono di nuovo a riassumersi l’iconismo19 della vista e le illusioni verbali della poesia, in perenne equilibrio, soprattutto nel Seicento, tra artificio e mimesi, tra razionalità geometrica e spettacolo teatrale. Forse per questo il cannocchiale, da quanto venne annunziato al mondo dal Sidereus, rimase per tutto il secolo protagonista privilegiato di imprese20, le rappresentazioni simboliche costituite da un motto e da una figura che vicendevolmente si interpretano, con la stessa complementarità con cui nei testi scientifici la scrittura si integrava con le illustrazioni e i grafici. A. Battistini, Introduzione al Sidereus Nuncius, Marsilio, Venezia 2001

7. ethos: comportamento, convinzione. 8. claustrofobia: chiusura soffocante (è pro­ priamente la paura dei luoghi chiusi). 9. figurato: tradotto in immagine, in figura. 10. abito: atteggiamento. 11. metonimia: qui il cannocchiale è consi­ derato una parte integrante e sostitutiva dello stesso Galileo. 12. Keplero e Cartesio: l’astronomo tedesco Giovanni Keplero (Johannes von Kepler, 1571­1630), scoprì le leggi che regolano il movimento dei pianeti; il filosofo francese Renato Cartesio (René Descartes, 1596­1650)

è il celebre autore del Discorso sul metodo, considerato il fondatore della filosofia razio­ nalista moderna. 13. colonne d’Ercole: le colonne poste da Ercole che, secondo la mitologia, rappre­ sentavano gli estremi confini del mondo conosciuto, oltre i quali non era possibile procedere (sono collocabili in quello che è attualmente lo stretto di Gibilterra). 14. il meraviglioso: riferimento alla poeti­ ca barocca della “meraviglia”. 15. iconico: per quanto riguarda l’immagine. 16. metamorfico: capace di trasformare le cose.

17. Tommaso Stigliani: avversario di Mari­ no, fu autore del Mondo nuovo (1617) e dell’Occhiale (1627), con cui intese stronca­ re l’Adone. Favorevoli all’Adone sono invece i testi degli scrittori che seguono. 18. apologetici: di difesa. 19. l’iconismo: il repertorio di immagini. 20. imprese: o “emblemi”, figure simboli­ che accompagnate da un motto, come è detto subito dopo. Il più noto autore di que­ sto genere, divenuto molto popolare, era stato nel secolo precedente Andrea Alciato (1492­1550), con i suoi Emblemata (1531).

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Quale funzione hanno, secondo Battistini, le illustrazioni del Sidereus? > 2. Spiega l’importanza del cannocchiale nell’attività scientifica di Galileo e nel clima culturale dell’epoca secondo l’interpretazione del critico.

AnALIzzAre

> 3.

Lessico Individua nel testo tutti i vocaboli – volutamente utilizzati da Battistini – che rimandano alla cultura, non soltanto scientifica, del Barocco.

ApprofondIre e InTerpreTAre

> 4.

esporre oralmente La “vista”, considerata da Galileo – come ricorda Battistini – «senso sopra tutti gli altri eminentissimo» (rr. 1-2), assume un’importanza fondamentale nella cultura dell’età del Barocco: in quali ambiti, oltre a quello scientifico? Rispondi oralmente (max 3 minuti).

T3

Lettera a benedetto Castelli 1 dalle Lettere

Temi chiave

• la difficoltà di conciliare la verità scientifica con i contenuti delle Sacre Scritture

• l’irrompere della teoria eliocentrica nel mondo della scienza

In questa lettera famosa, datata 21 dicembre 1613, Galileo si preoccupa di definire i rapporti tra la scienza e la fede, sostenendo che non possono essere in contraddizione fra di loro.

• la necessità di applicare il metodo scientifico anche ai contenuti di fede

• la chiusura della Chiesa controriformistica

Molto reverendo Padre e Signor mio Osservandissimo2.

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I particolari che ella disse, referitimi dal signor Arrighetti3, m’hanno dato occasione di tornar a considerare alcune cose in generale circa ’l portar4 la Scrittura Sacra in dispute di conclusioni naturali5, ed alcun’altre in particolare sopra ’l luogo di Giosuè6, propostoli, in contradizione7 della mobilità della Terra e stabilità del Sole, dalla Gran Duchessa Madre8, con qualche replica della Serenissima Arciduchessa9. Quanto alla prima domanda generica di Madama Serenissima10, parmi che prudentissimamente fusse proposto da quella e conceduto e stabilito dalla Paternità Vostra11, non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti12 d’assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori13, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole14, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestem-

1. Benedetto Castelli: frate benedettino (1578­1643), allievo e collaboratore di Gali­ leo, fu lettore di matematica alle università di Pisa e di Roma; fisico e matematico, scris­ se un’importante opera di idraulica, Della natura delle acque correnti (1628). 2. Osservandissimo: nobilissimo; era una formula corrente di cortesia. 3. Arrighetti: il fiorentino Niccolò Arrighetti (1586­1639) era stato incaricato da Castelli di riferire i risultati della discussione, avve­ nuta alla corte del granduca Cosimo II, sulla

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possibilità di conciliare la teoria copernica­ na con l’autorità delle Sacre Scritture. 4. portar: esibire, allegare (come prova). 5. di conclusioni naturali: riguardanti l’interpretazione dei fenomeni naturali. 6. luogo di Giosuè: il passo della Bibbia (X, 12­13) in cui si legge che Giosuè chiese a Dio di fermare il Sole, ritardando il tramonto fino al giorno dopo, per poter vincere la batta­ glia contro gli Amorrei. 7. propostoli, in contradizione: oppostogli, per contraddire l’ipotesi.

8. Gran Duchessa Madre: Cristina di Lore­ na, madre di Cosimo II. 9. Serenissima Arciduchessa: Maria Mad­ dalena d’Austria, moglie di Cosimo II. 10. Madama Serenissima: altro titolo di Cristina di Lorena. 11. Paternità Vostra: titolo di cortesia per indicare il destinatario della lettera. 12. decreti: affermazioni, insegnamenti. 13. espositori: commentatori. 14. nel puro … parole: al semplice significato letterale delle parole.

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mie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti15 corporali e umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, e anco talvolta l’obblivione16 delle cose passate e l’ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni17 le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi all’incapacità del vulgo18, così per quei pochi che meritano d’esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi19, e n’additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti20. Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace21, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali22 ella doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo23: perché, procedendo di pari24 dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello25 Spirito Santo, e questa come osservantissima26 esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto27 nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale28, dir molte cose diverse, in aspetto29 e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto30; ma, all’incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante31 che le sue recondite32 ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità33 de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli34; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante35, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura36. Anzi, se per questo solo rispetto37, d’accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati38, non s’è astenuta la Scrittura d’adombrare de’ suoi principalissimi dogmi39, attribuendo sino all’istesso Dio condizioni40 lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente41 sostenere che ella, posto da banda42 cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente43 di Terra o di Sole o d’altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole44 […]. Stante questo45, ed essendo di più manifesto che due verità non posson mai contrariarsi46, è ofizio47 de’ saggi espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de’ luoghi sacri48, concordanti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto49 o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri. […]

15. affetti: sentimenti. 16. obblivione: dimenticanza 17. proposizioni: affermazioni. 18. accomodarsi … vulgo: adattarsi all’ignoranza del volgo. 19. espositori … sensi: commentatori facciano conoscere i significati veri, autentici. 20. n’additino … profferiti: ci indichino le ragioni particolari secondo cui sono stati esposti con tali parole (chiariscano cioè di volta in volta il significato simbolico delle parole). 21. capace: passibile. 22. naturali: sulla natura. 23. riserbata … luogo: riservata per ultima, usata come ultimo argomento. 24. procedendo di pari: derivando parimenti. 25. dettatura dello: dettata dallo. 26. osservantissima: ubbidientissima. 27. essendo … convenuto: essendo stata riconosciuta la necessità. 28. accomodarsi … universale: adattarsi alla comprensione di tutti.

29. in aspetto: nella forma. 30. vero assoluto: verità in assoluto, assoluta. 31. nulla curante: indifferente al fatto, per nulla preoccupata. 32. recondite: nascoste, segrete. 33. capacità: capacità di comprendere, intelligenza. 34. per lo che … imposteli: per cui essa non oltrepassa mai i limiti delle leggi che le sono imposte. 35. pare … sembiante: pare evidente che quei fenomeni della natura (quello de gli affetti naturali) che o l’esperienza dei sensi (la sensata esperienza) ci mette davanti agli occhi o le dimostrazioni fondate sulla coerenza logica (necessarie) provano (ci concludono) non debba in alcun modo essere messo in dubbio anche se ci fossero (per quanti) dei passi della Scrittura le cui parole avessero diverso aspetto, ossia sembrassero affermare qualcosa di diverso. 36. legato … natura: tenuto a rispettare leggi così rigorose (obblighi così severi) come

tutti gli effetti della cause naturali (ogni effetto di natura). 37. rispetto: motivo. 38. indisciplinati: privi di capacità logiche, intellettuali. 39. adombrare … dogmi: velare, mettere in ombra alcune essenziali verità di fede. 40. condizioni: caratteristiche. 41. asseverantemente: dichiaratamente. 42. posto da banda: messo da parte. 43. incidentemente: per caso, in maniera occasionale. 44. eletto … parole: scelto (eletto) di limitarsi (contenersi) nella maniera più rigorosa entro i significati precisi e propri (limitati e ristretti) delle parole. 45. Stante questo: stando così le cose. 46. contrariarsi: coesistere, se una è il contrario dell’altra. 47. ofizio: compito. 48. i veri … sacri: i veri significati delle Sacre Scritture. 49. il senso manifesto: l’evidenza dei sensi.

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Io crederei che l’autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini questi articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell’istesso Spirito Santo50. Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire51, non penso che sia necessario il crederlo, e massime52 in quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise53 se ne legge nella Scrittura; qual appunto è l’astronomia, di cui ve n’è così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti. Però se i primi scrittori sacri avessero auto54 pensiero di persuader al popolo le disposizioni55 e movimenti de’ corpi celesti, non ne avrebbon56 trattato così poco, che è come niente in comparazione dell’infinite conclusioni altissime e ammirande57 che in tale scienza si contengono. Veda dunque la Paternità Vostra quanto, s’io non erro, disordinatamente procedino quelli che nelle dispute naturali, e che direttamente non sono de Fide, nella prima fronte costituiscono luoghi58 della Scrittura, e bene spesso malamente da loro intesi. Ma se questi tali veramente credono d’avere59 il vero senso di quel luogo particolar della Scrittura, ed in consequenza si tengon sicuri d’avere in mano l’assoluta verità della quistione che intendono di disputare, dichinmi appresso ingenuamente, se loro stimano, gran vantaggio aver colui che in una disputa naturale s’incontra a sostener il vero, vantaggio, dico, sopra l’altra a chi tocca sostener il falso60? So che mi risponderanno di sì, e che quello che sostiene la

50. Io … Santo: io sarei propenso a credere (crederei) che l’autorevolezza (concessa da Dio) alle Sacre Scritture (Lettere) abbia (avesse) avuto come scopo (mira) quello di persuadere gli uomini (della verità di) questi insegnamenti (articoli) e affermazioni (proposizioni), i quali, essendo necessari per la loro salvezza (salute) e situandosi al di là dei limiti (superando) della conoscenza esprimibile dal linguaggio umano (umano discorso), non potevano essere a noi presentate in veste credibile (farcisi credibili)

con altra conoscenza (scienza) e altro mezzo se non per voce (bocca) dello stesso Spirito Santo (che, secondo quanto asserisce la tradizione ecclesiastica, avrebbe ispirato gli autori delle Sacre Scritture). 51. posponendo … conseguire: relegando in secondo piano (posponendo) l’uso di questi strumenti (i sensi, il discorso e l’intelletto), darci in un altro modo (con altro mezzo) la conoscenza (le notizie) che possiamo ottenere per mezzo di quelli (i sensi, il discorso e

l’intelletto). 52. massime: soprattutto. 53. delle quali … divise: solo una minima parte (particella) degli argomenti delle quali (scienze), e (trattati) in modo frammentario e contraddittorio (divise). 54. auto: avuto. 55. le disposizioni: la collocazione. 56. avrebbon: avrebbero. 57. ammirande: sorprendenti e ammirevoli. 58. quanto … luoghi: come, se non mi sbaglio, procedano senza criterio (disordinatamente) coloro che nelle discussioni sulle scienze naturali (dispute naturali) e che non riguardano direttamente la fede (non sono de Fide), schierano in prima linea (nella prima fronte) passi, citazioni (luoghi); de Fide va inteso qui come Rivelazione; fronte è metafora tratta dal linguaggio militare. 59. avere: aver compreso e “detenere”. 60. dichinmi … falso: mi dicano poi, in tutta sincerità e buona fede (ingenuamente) se loro ritengano (stimano) che colui che, in una discussione scientifica abbia (s’incontra) a sostenere la verità, si trovi in una condizione di grande vantaggio (gran vantaggio aver) rispetto a quella (sopra all’altra) di colui che (a chi) sostiene una posizione non scientificamente vera (il falso).

Andrea Cellario, Sistema dell’universo copernicano, 1708, incisione a colori da Harmonia Macrocosmica, tavola 5, Amsterdam.

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parte vera, potrà aver mille esperienze e mille dimostrazioni necessarie per la parte sua, e che l’altro non può aver se non sofismi paralogismi e fallacie61. Ma se loro, contenendosi dentro a’ termini naturali né producendo altr’arme che le filosofiche62, sanno d’essere tanto superiori all’avversario, perché, nel venir poi al congresso, por subito mano a un’arme inevitabile e tremenda, che con la sola vista atterrisce ogni più destro ed esperto campione?63 Ma, s’io devo dir il vero, credo che essi sieno i primi atterriti, e che, sentendosi inabili a potere star forti contro gli assalti dell’avversario, tentino di trovar modo di non se lo lasciar accostare64. Ma perché, come ho detto pur ora, quello che ha la parte vera dalla sua, ha gran vantaggio, anzi grandissimo, sopra l’avversario, e perché è impossibile che due verità si contrariino, però non doviamo temer d’assalti che ci venghino fatti da chi si voglia65, pur che a noi ancora sia dato campo66 di parlare e d’essere ascoltati da persone intendenti e non soverchiamente alterate67 da proprie passioni e interessi. In confermazione di che68, vengo ora a considerare il luogo particolare di Giosuè69, per il qual ella apportò70 a loro Altezze Serenissime tre dichiarazioni; e piglio la terza, che ella produsse come mia, sì come veramente è71, ma v’aggiungo alcuna considerazione di più, qual72 non credo d’avergli detto altra volta. […] Ho scritto più assai che non comportano73 le mie indisposizioni: però finisco, con offerirmegli servitore74, e gli bacio le mani, pregandogli da Nostro Signore le buone feste75 e ogni felicità. Di Firenze, li 21 Dicembre 1613.

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Di Vostra Paternità molto Reverenda Servitore Affezionatissimo Galileo Galilei.

61. e che … fallacie: e che colui che sostiene la verità scientifica (la parte vera) dovrà esporre (potrà avere) mille esperimenti e relative dimostrazioni che confermino la correttezza logica delle sue affermazioni necessarie (a convalida­ re) la sua posizione (per la parte sua) e che l’altro non può che avere (aver se non) ragionamenti errati (sofismi) o illusori (paralogismi) e inganni (fallacie). 62. Ma se … filosofiche: ma se costoro, senza uscire dai limiti (dei fenomeni) naturali (contenendosi dentro a’ termini naturali), né mettendo in campo altre armi (producendo altr’arme) che quelle della filosofia. 63. perché … campione?: perché nel giungere alla disputa (congresso) subito impugnano (por … mano a) un’arma contro cui non c’è difesa che tenga (inevitabile) e che incute terrore (tremenda), che alla (con) sola vista spaventa (atterrisce) qualsiasi abile (destro) ed esperto campione? Continua la metafora militare con cui Galilei allude allo scontro tra le posizioni

degli scienziati e di coloro che interpretano alla lettera i passi biblici. 64. credo che … accostare: credo che essi siano i primi ad aver paura (i primi atterriti) e che, sentendosi incapaci (inabili a) di resistere con determinazione agli (a potere star forti contro) assalti dell’avversario, tentino di trovare il modo per non lasciarselo avvicinare (troppo, per evitare lo scontro diretto, ad “armi pari”, in cui l’avversario avrebbe con ogni probabilità la meglio). 65. e perché … voglia: e dal momento che (perché) è impossibile che due verità risultino in contraddizione tra loro (si contrariino), per questo (però) non dobbiamo (doviamo) temere attacchi (d’assalti) che provengano da chicchessia (che ci venghino fatti da chi si voglia). 66. dato campo: concessa la possibilità; campo è anche, nel linguaggio militare, lo spazio necessario a schierare le truppe per la batta­ glia. 67. intendenti … alterate: in grado di inten-

dere la materia e non eccessivamente influenzate (soverchiamente alterate, al punto di tradi­ re se stesse). 68. In confermazione di che: a conferma di ciò. 69. luogo … Giosuè: vedi nota 6. 70. per il qual … apportò: a proposito del quale Lei (ella, titolo di cortesia, rivolto a padre Castelli) presentò (apportò). 71. produsse … è: mise in campo come mia (tesi) dal momento che (sì come) lo è veramente. 72. di più, qual: aggiuntiva, che. 73. più … comportano: più di quanto non consentano. 74. però … servitore: perciò concludo dichiarandomi suo servitore. Dichiararsi “servo vo­ stro”era, al tempo, la formula comune di com­ miato; il nostro “ciao” deriva dalla formula veneziana di congedo s-ciao, cioè “schiavo, servitore (vostro)”. 75. pregandogli … feste: pregando Nostro Signore che gli conceda di passare buone feste.

Analisi del testo I rapporti tra fede e scienza Le affermazioni nella Bibbia

La lettera al padre Benedetto Castelli è un documento fondamentale per definire i rapporti fra la fede e la scienza, alla luce delle scoperte di Galileo che, oltre a contrastare con l’insegnamento della Chiesa, sembravano andare contro le stesse affermazioni contenute nella Sacra Scrittura. Un punto sembrava insormontabile, ed era il luogo della Bibbia in cui si dice che Dio fermò il Sole per consentire a Giosuè di proseguire la battaglia e sconfiggere i nemici. Stando alla lettera del testo, sarebbe stato il Sole a ruotare attorno alla 201

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Occorre interpretare le Scritture

La superiorità delle leggi della natura

Terra, non potendosi fermare ciò che è per sua natura immobile. Ma proprio di qui muove l’abile confutazione di Galileo, che introduce una distinzione, dal sapore molto moderno, sul significante della parola, che può rinviare a significati diversi. Con un approccio storico, Galileo sostiene che le parole usate sono quelle adatte alla mentalità e alle conoscenze del tempo di chi le ascolta e che, nella fattispecie, non possono prescindere da quelle convinzioni che le nuove scoperte avrebbero dimostrato erronee. La parola di Dio, affidata alle Scritture, deve quindi essere interpretata («per trovare i veri sensi de’ luoghi sacri», (r. 42) e riportata a quelle verità che solo la scienza può confermare. Dio non può mentire, ma possono mentire i suoi commentatori. Se ci sono, come nel caso in questione, delle apparenti contraddizioni, occorre prestare fede alle leggi della natura, che non possono errare, perché la natura è stata creata da Dio, secondo la vecchia concezione del mondo come «libro di Dio», confermata da Galileo alla luce delle leggi fisiche e matematiche.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Spiega il significato del passo «Stante questo […] ci avesser resi certi e sicuri» (rr. 41-44). AnALIzzAre

> 2. In quale punto della lettera lo scienziato, riguardo la Scrittura, pone le basi della tesi secondo cui il testo e la sua interpretazione sono due elementi nettamente separati fra loro?

> 3. Analizza la struttura della sequenza «Stante, dunque […] natura» (rr. 21-34), individuando la tesi e tutte le argomentazioni proposte a suo sostegno. > 4. Lessico Quali vocaboli rispecchiano l’impostazione razionale tipica dell’indagine filosofica e scientifica? Fornisci uno o più esempi significativi ricavati dal testo. > 5. Lingua Come definiresti la sintassi del brano: semplice o complessa? Motiva la tua risposta attraverso uno o più esempi significativi ricavati dal testo. ApprofondIre e InTerpreTAre

> 6.

esporre oralmente In un’esposizione orale (max 5 minuti) ricostruisci le vicende e le ragioni che determinarono la condanna di Galileo da parte del Sant’Uffizio. pASSATo e preSenTe I nuovi conflitti fra scienza e fede

> 7. Dopo aver letto il passo di seguito riportato, discuti in classe con l’insegnante e i compagni gli interrogati-

vi scaturiti dal tema proposto: possono configurarsi anche oggi casi simili a quello di Galileo? Perché la Chiesa, secondo quanto emerso dal libro recensito dal giornalista, avrebbe spostato la sua attenzione dall’astronomia alla biologia? La validità di una verità scientifica può dipendere dall’epoca in cui la si dimostra? L’attualità di Galileo? È nelle cellule staminali Grazie alla cortesia di Gian Mario Bravo, professore di Storia delle dottrine politiche all’Università di Torino, ho sul mio tavolo fresco di stampa il volume “Il processo a Galileo Galilei e la questione galileiana” (44 euro) pubblicato a Roma dalle Edizioni di Storia e Letteratura: 300 pagine che raccolgono una ventina di saggi generati in occasione di un convegno svoltosi nel 2009, Anno Internazionale dell’Astronomia. Si parla di eventi che risalgono a quattro secoli fa ma il tema è di oggi. Basta sostituire la biologia all’astronomia. Sono le scienze della vita, attualmente, nel mirino della Chiesa: cellule staminali embrionali, clonazione, status ontologico e giuridico dell’embrione, fecondazione assistita, terapie e fine vita hanno preso il posto del moto della Terra su se stessa e intorno al Sole. Ma paradossalmente, come fa notare Simona Ronchi della Rocca nel saggio che ha scritto per questo volume, ciò comporta anche un passo indietro sulla questione galileiana perché “se si accetta che la Chiesa abbia avuto torto nel caso Galileo, allora bisogna presumere la possibilità che possa avere torto anche ora, e questo toglierebbe alle sue affermazioni odierne la loro validità”. Ovviamente non che si cerchi di tornare alla Terra immobile al centro dell’universo. Si cerca invece di affermare che, al di là della verità scientifica della teoria eliocentrica, la Chiesa ha avuto ragione nel processo a Galileo dal punto di vista giuridico in riferimento alle conoscenze dell’epoca e rispetto alla pretesa galileiana di interpretare a modo suo la Bibbia. P. Bianucci, “La Stampa”, Tuttoscienze, 18 aprile 2011

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Capitolo 5 · Galileo Galilei

microsaggio

L’antica cosmologia aristotelico-tolemaica e il sistema copernicano

La Terra e l’uomo al centro del sistema cosmico Due sfere

Due tipi di moto

Da ipotesi matematica a spiegazione della realtà fisica

Aggiustamenti successivi Gli “eccentrici” e gli “epicicli”

Progressiva complicazione dei calcoli

La teoria geocentrica di Aristotele Per duemila anni la nostra civiltà è stata diretta e orientata dalla cosmologia elaborata da Aristotele, che poneva al centro di un universo ordinato (il kósmos greco, contrapposto al kháos: il “baratro”, l’ammasso disordinato delle origini) la Terra, sfera imperfetta dominata da processi di trasformazione e corruzione, nascita e morte. In questa visione il globo terrestre è attorniato dai corpi celesti, incastonati come gioielli in sfere concentriche di cristallo in perenne e costante movimento; l’ultima sfera segna i confini del mondo, immaginato chiuso e sospeso nel vuoto. La Terra e l’uomo sono posti al centro della “macchina” di questo sistema cosmico. Oltre il cielo della Luna è collocata la sfera in cui si attua la perfezione, intesa come immutabilità ed eternità; nella sfera che va dalla Luna al centro della Terra vige invece la legge della trasformazione continua e del divenire. Ogni fenomeno terreno si spiega attraverso la mescolanza di quattro elementi (acqua e terra tendono al basso, fuoco e aria verso l’alto); il resto dello spazio è costituito da una sostanza intangibile e incorruttibile, l’“etere”. Le due zone, quella al di sopra e quella al di sotto della Luna, sono caratterizzate da leggi fisiche distinte e contrapposte: nel mondo sublunare vige il moto rettilineo, nella sfera celeste il moto circolare, tipico delle orbite dei corpi celesti (nell’ordine: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno). L’antitesi tra Cielo e Terra quindi si confermerebbe anche nell’opposizione tra moto rettilineo, definito da un’origine e un termine, e moto circolare, perfetto perché immutabile ed eterno. Stando all’opposizione tra Cielo e Terra, quest’ultima – essendo collocata al centro dell’universo dominato dal movimento perfetto ed eterno delle sfere – per simmetria e contrasto risulta immobile. da eudosso di Cnido a Tolomeo Aristotele non è l’inventore della teoria geocentrica: essa risale, in forma di ipotesi matematica ad Eudosso di Cnido (prima metà del IV secolo a.C.); ma il filosofo greco contribuì a dare a questa ipotesi il valore di spiegazione compiuta della realtà fisica dell’universo. Tutte le altre cosmologie antiche restarono nei termini simbolici dei racconti mitologici; l’interpretazione aristotelica fu l’unica a offrire una descrizione razionale del mondo attraverso una spiegazione dei fenomeni fisici. Il pensiero cristiano medievale accolse di buon grado questa visione dell’universo, poiché offriva una conferma razionale alla persuasione espressa nella Genesi del fatto che l’universo fosse stato creato in funzione dell’uomo. In realtà, quando Tommaso d’Aquino accolse questa teoria, riscoprendola attraverso una versione araba del IX secolo d.C., il quadro aristotelico dell’universo aveva già subito alcuni sostanziali aggiustamenti, che rivelavano la difficoltà di conciliare perfettamente il modello delle sfere con i risultati dell’osservazione del moto dei pianeti. La teoria dei cieli fissi orbitanti intorno alla Terra si arricchiva dell’ipotesi degli “eccentrici”, cioè i moti circolari dei pianeti intorno a un centro diverso dalla Terra, e degli “epicicli”, cioè i cicli dei corpi celesti intorno a un punto a sua volta moventesi circolarmente intorno alla Terra. Nel II secolo d.C. l’astronomo alessandrino Claudio Tolomeo fece propria la teoria epiciclica inserendola in una visione cosmologica estesa a tutto il sistema astronomico fino ad allora conosciuto. Ma l’osservazione sistematica dei pianeti richiese costantemente l’introduzione di nuovi “epicicli”, portando a ulteriori complicazioni della spiegazione matematica dei “cicli”: ne derivò un progressivo ampliarsi della distanza tra la semplicità originaria del modello e il complesso delle operazioni matematiche necessarie a spiegare i fenomeni.

L’ipotesi eliocentrica

La rivoluzione copernicana La rivoluzione cosmologica copernicana si prefisse di offrire una spiegazione meno macchinosa delle “anomalie”. L’astronomo polacco Niccolò Copernico (1473-1543) giunse così nel De revolutionibus orbium coelestium libri VI (“Sei libri sulle rivoluzioni dei mondi celesti”, pubblicato a Norimberga nel 1543) a teorizzare un sistema che vede al proprio centro il Sole, intorno al quale ruotano i pianeti. La Terra, ridotta a pianeta, gira intorno al Sole secondo un’orbita circolare e contemporaneamente ruota intorno a se stessa. Per Copernico, tuttavia, l’universo continuava a essere chiuso e finito.

La supernova del 1572

Il compromesso di brahe Con Tycho Brahe (1546-1601) si ebbe poi un’ulteriore svolta nella direzione del superamento delle antiche credenze cosmologiche. Le osservazioni da lui effettuate sulla supernova apparsa nel 1572 e sulla cometa del 1577 suscitarono infatti gravi dubbi rispetto alla possibilità del sistema tolemaico di accogliere ulteriori modifiche. Infatti la supernova è un fenomeno stellare che contraddice la teoria della fissità e imperturbabilità della sfera celeste, dal momento che la grande esplosione con cui essa si manifesta è un episodio di distruzione e di generazione di nuove stelle. La scoperta dimostrava come il mondo celeste potesse ospitare esperienze di nascita e di morte; i calcoli di Brahe infatti escludevano che la supernova appartenesse (come avrebbe dovuto, stando alla concezione tolemaica) all’ultima sfera celeste “imperfetta”, quella cioè tra Luna e Terra. Ma neppure Tycho Brahe osò accettare l’ipotesi copernicana come rappresentazione fedele della realtà. Propose infatti una soluzione di compromesso: la Terra resta immobile; intorno a essa ruotano Luna e Sole; intorno al Sole, gli altri pianeti.

La non accettazione dell’ipotesi copernicana

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I contenuti

Testi Il grande libro dell’universo dal Saggiatore

L’aspetto formale

Analisi interattiva

T4

Il Saggiatore L’apparizione di tre comete, avvenuta nel 1618, è all’origine dello scritto De tribus cometis (1619) del gesuita Orazio Grassi, a cui Galileo rispose lo stesso anno con un Discorso sulle comete. Grassi ribadì le sue tesi nella Libra astronomica ac philosophica e Galileo riprese la polemica nel Saggiatore (a differenze della “libra”, che è una semplice bilancia, il “saggiatore” è un bilancino di precisione usato dagli orefici), breve trattato sotto forma di un’epistola indirizzata all’amico Virgilio Cesarini, socio dell’Accademia dei Lincei. Pur difendendo la teoria erronea già esposta nel Discorso sulle comete (secondo cui le comete sono bagliori e non corpi celesti, come sostiene Grassi), l’opera conteneva acute considerazioni di tipo metodologico e delineava l’ideale della nuova scienza, a partire dall’imprescindibile necessità di attenersi ai dati sperimentali dell’esperienza, per riuscire a interpretare il «libro della natura». Alla verità scientifica si può giungere solo esaminando le qualità oggettive dei fenomeni, che sono misurabili (il peso, la lunghezza, ecc.), mentre non si dà scienza delle qualità soggettive, per cui non esistono unità di misura. Dal punto di vista della composizione letteraria si osservano l’inserimento di una favola ( T4), per variare il procedimento della dimostrazione scientifica, e la citazione letterale di molti passi della Libra, che dal latino vengono tradotti in volgare. L’espediente consente a Galileo di trasformare le sue ipotesi in un dialogo stringente, contrapponendo le due voci (quella del padre Grassi e dell’autore, che la introduce direttamente). In questo modo, presentandosi come portavoce del proprio avversario, finisce per ritorcere contro di lui le sue stesse affermazioni, rivelandone gli errori di impostazione e le contraddizioni logiche. Ne risulta una sapiente ed efficace argomentazione ironica, già evidente nella ripresa del titolo, secondo cui il “saggiatore” sottolinea la maggiore esattezza rispetto alla più semplice e comune “libra”.

La favola dei suoni da Il Saggiatore Attraverso questo indugio narrativo Galileo intende dimostrare il carattere aperto e in continua evoluzione della conoscenza scientifica.

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• la ricerca scientifica vissuta con «curiosità» e «meraviglia» • la definizione di un metodo scientifico e razionale da applicare ad una molteplicità di fenomeni

• l’interesse per i meccanismi della natura • il dubbio come strumento di conoscenza • la conoscenza come processo di ricerca mai concluso

Parmi d’aver per lunghe esperienze osservato, tale esser la condizione umana intorno alle cose intellettuali, che quanto altri1 meno ne intende e ne sa, tanto più risolutamente voglia discorrerne; e che, all’incontro2, la moltitudine delle cose conosciute ed intese renda più lento ed irresoluto al sentenziare circa3 qualche novità. Nacque già in un luogo assai solitario un uomo dotato da natura d’uno ingegno perspicacissimo e d’una curiosità4 straordinaria; e per suo trastullo allevandosi diversi uccelli, gustava molto del lor canto, e con grandissima meraviglia andava osservando con che bell’artificio, colla stess’aria con la quale respiravano, ad arbitrio loro5 formavano canti diversi, e tutti soavissimi. Accadde che una notte vicino a casa sua sentì un delicato suono, né potendosi immaginar che fusse altro che qualche uccelletto, si mosse per prenderlo; e venuto nella strada, trovò un pastorello, che soffiando in certo legno forato e movendo le dita sopra il legno, ora serrando ed ora aprendo certi fori che vi erano, ne traeva quelle diverse voci, simili a quelle d’un uccello, ma con maniera diversissima. Stupefat-

1. altri: uno. 2. all’incontro: al contrario.

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Temi chiave

3. al sentenziare circa: nel pronunciare giudizi intorno a.

4. curiosità: desiderio di conoscere, di sapere. 5. ad arbitrio loro: a loro piacimento.

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to e mosso dalla sua natural curiosità, donò al pastore un vitello per aver quel zufolo; e ritiratosi in se stesso, e conoscendo che se non s’abbatteva6 a passar colui, egli non avrebbe mai imparato che ci erano in natura due modi da formar voci e canti soavi, volle allontanarsi da casa, stimando di potere incontrar qualche altra avventura. Ed occorse7 il giorno seguente, che passando presso a un piccol tugurio, sentì risonarvi dentro una simil voce; e per certificarsi8 se era un zufolo o pure un merlo, entrò dentro, e trovò un fanciullo che andava con un archetto, ch’ei teneva nella man destra, segando9 alcuni nervi tesi sopra certo legno concavo, e con la sinistra sosteneva lo strumento e vi andava sopra movendo le dita, e senz’altro fiato ne traeva voci diverse e molto soavi. Or qual fusse il suo stupore, giudichilo10 chi participa dell’ingegno e della curiosità che aveva colui; il qual, vedendosi sopraggiunto11 da due nuovi modi di formar la voce ed il canto tanto inopinati12, cominciò a creder ch’altri ancora ve ne potessero essere in natura. Ma qual fu la sua meraviglia, quando entrando in certo tempio si mise a guardar dietro alla porta per veder chi aveva sonato13, e s’accorse che il suono era usci-

6. s’abbatteva: capitava. 7. occorse: accadde. 8. certificarsi: accertarsi.

9. segando: sfregando. 10. giudichilo: lo giudichi, può giudicarlo. 11. sopraggiunto: colto di sorpresa.

12. inopinati: impensati, non previsti. 13. sonato: emesso suoni con uno strumen­ to musicale.

pesare le parole Inopinati (r. 25)

> È voce dotta. Proviene dal latino inopinàtum, participio

passato di opinàri, “essere di una certa idea, pensare, ritenere”, più in- negativo; inopinato quindi vuol dire “che avviene in modo impensato, inatteso, imprevisto” (es. mi è occorso un caso inopinato, che mi ha piacevolmente sorpreso). Dalla stessa radice deriva opinabile, il cui senso più comune è “discutibile”, cioè “che dipende dalle diverse opinioni” (es. è materia opinabile che si

possano conciliare le due cose). Anche opinione, “idea soggettiva, parere”, ha la stessa etimologia (es. è mia opinione che tu stia commettendo un grave errore). Un altro senso della parola è “stima, considerazione” (es. è uno scrittore che gode di buona opinione presso il pubblico). L’opinione pubblica è quanto pensa e giudica la collettività (es. i giornali sono spesso portavoce dell’opinione pubblica).

Jan­Brueghel il Giovane, Allegoria dell’udito, 1645­50, olio su tela, Collezione privata.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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to dagli arpioni e dalle bandelle14 nell’aprir la porta? Un’altra volta, spinto dalla curiosità, entrò in un’osteria, e credendo d’aver a veder uno che coll’archetto toccasse leggiermente le corde d’un violino, vide uno che fregando il polpastrello d’un dito sopra l’orlo d’un bicchiero, ne cavava soavissimo suono. Ma quando poi gli venne osservato15 che le vespe, le zanzare e i mosconi, non, come i suoi primi uccelli, col respirare formavano voci interrotte, ma col velocissimo batter dell’ali rendevano un suono perpetuo16, quanto crebbe in esso lo stupore, tanto si scemò17 l’opinione ch’egli aveva circa il sapere come si generi il suono; né tutte l’esperienze già vedute sarebbono state bastanti a fargli comprendere o credere che i grilli, già che18 non volavano, potessero, non col fiato, ma collo scuoter l’ali, cacciar sibili così dolci e sonori. Ma quando ei si credeva non potere esser quasi possibile che vi fussero altre maniere di formar voci, dopo l’avere, oltre a i modi narrati, osservato ancora tanti organi, trombe, pifferi, strumenti da corde19, di tante e tante sorte20, e sino a quella linguetta di ferro che, sospesa fra i denti, si serve con modo strano della cavità della bocca per corpo della risonanza e del fiato per veicolo del suono21; quando, dico, ei credeva d’aver veduto il tutto, trovossi più che mai rinvolto22 nell’ignoranza e nello stupore nel capitargli in mano una cicala, e che né per serrarle la bocca né per fermarle l’ali poteva né pur diminuire il suo altissimo stridore, né le vedeva muovere squamme23 né altra parte, e che finalmente, alzandole il casso del petto24 e vedendovi sotto alcune cartilagini dure ma sottili, e credendo che lo strepito derivasse dallo scuoter di quelle, si ridusse a romperle per farla chetare, e che tutto fu in vano, sin che, spingendo l’ago più a dentro, non le tolse, trafiggendola, colla voce la vita, sì che né anco poté accertarsi se il canto derivava da quelle: onde si ridusse a tanta diffidenza del suo sapere, che domandato come si generavano i suoni, generosamente rispondeva di sapere alcuni modi, ma che teneva per fermo25 potervene essere cento altri incogniti ed inopinabili26. Io potrei con altri molti essempi spiegar la ricchezza della natura nel produr suoi effetti con maniere inescogitabili27 da noi, quando il senso e l’esperienza non lo ci mostrasse28.

14. arpioni… bandelle: gli arpioni sono i ferri uncinati conficcati nel muro su cui si infila l’anello delle bandelle, permettendo alla porta di rimanere salda e ruotare. 15. gli venne osservato: gli capitò di osservare. 16. perpetuo: continuo. 17. si scemò: diminuì.

18. già che: poiché. 19. da corde: a corda. 20. sorte: maniere, specie. 21. linguetta … suono: il semplice stru­ mento detto “scacciapensieri”. 22. rinvolto: nuovamente avvolto, immerso. 23. squamme: squame, scaglie. 24. il casso del petto: la cassa toracica.

25. teneva per fermo: riteneva come cosa certa, era convinto. 26. incogniti ed inopinabili: sconosciuti e impensabili. 27. inescogitabili: inimmaginabili, imprevedibili. 28. il senso … mostrasse: se l’esperienza dei sensi (endiadi) non ce lo rivelasse.

Analisi del testo Un breve racconto

Lo scopo della ricerca

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> La struttura e i contenuti

Nei testi scientifici di Galileo, si è detto, si trovano non solo parti descrittive o argomentative, ma anche momenti tipicamente narrativi, come in questa «favola dei suoni», che assume le caratteristiche e l’andamento dell’apologo. Il breve racconto è volto a illustrare la natura e le prospettive di una conoscenza basata sulle «lunghe esperienze» dell’osservatore, a partire dalla considerazione che la gente comune tanto più ama parlare delle «cose intellettuali» quanto «meno ne intende e ne sa». La dimostrazione di quanto affermato è affidata alle esperienze di un giovane che, venuto progressivamente a conoscere diversi tipi di suoni giunge alla conclusione che la natura può produrli in infiniti modi e che solo possiamo parlare di quelli che ci sono noti attraverso «il senso e l’esperienza» (r. 54). Sono questi i limiti della conoscenza ma anche la sua forza, che riguarda la certezza delle conclusioni a cui è possibile arrivare; ed è questo lo scopo della ricerca, che deve essere

Capitolo 5 · Galileo Galilei

condotta con perseveranza e modestia (a queste conclusioni giunge il protagonista), per strappare alla natura anche uno solo dei suoi segreti, rispetto a quel tanto di lei che ancora rimane sconosciuto. La curiosità

Un linguaggio preciso

> Gli aspetti formali

In questa sorta di discorso metaforico sulla conoscenza (non manca il motivo della «grandissima meraviglia»), il filo conduttore è costituito dalla «curiosità» (una «curiosità straordinaria», ma anche la «natural curiosità»), intesa nel significato profondo di desiderio di conoscere e di imparare, che porta via via ad aumentare le acquisizioni e le competenze. Il suo carattere difficoltoso e faticoso è segnato dalla lenta progressione con cui il giovane apprende i nuovi modi di produrre il suono, quasi a voler insistere sulla tenacia che deve contraddistinguere, di fronte alle difficoltà, il lavoro dell’uomo di scienza, dell’intellettuale e del ricercatore. Sul piano formale, questo si traduce nella chiarezza con cui si dispone l’ordinata sequenza delle esperienze del giovane, che pure assume le caratteristiche dell’«avventura», fonte di “meraviglia” e di “stupore” (ma si vedano, al riguardo, i testi di Marino per le differenze che possono separare le diverse trattazioni di un analogo motivo, cap. 2, T1, p. 59 e T2, p. 62). Né va dimenticata la precisione del linguaggio tecnico impiegato, in particolare per quanto riguarda, nell’ultima parte del passo, il frinire della cicala.

Esercitare le competenze

Laboratorio interattivo

Comprendere

> 1. Da quale curiosità del protagonista prende avvio la ricerca? > 2. Come si snoda la ricerca del protagonista? Quali sono di volta in volta gli oggetti e i suoni presi in considerazione? > 3. A quale conclusione giunge l’indagine conoscitiva? Riassumi brevemente la parte finale dell’apologo. AnALIzzAre

> 4.

Stile Galileo evita con cura di definire gli oggetti che producono i suoni, limitandosi a descriverli dall’esterno come realtà misteriose, secondo la tecnica dello straniamento: si tratta di un puro artificio retorico o è un tentativo di “mimare” l’esperienza conoscitiva? > 5. Stile Individua nel testo la figura dell’enumerazione: quale funzione svolge? > 6. Lessico Sottolinea nel testo i termini che rinviano al campo semantico dello stupore. > 7. Lessico L’antitesi opinione soggettiva/certezza obiettiva percorre tutto il brano. Verifica la validità di tale affermazione individuando sul piano lessicale gli elementi che rinviano all’uno e all’altro settore.

ApprofondIre e InTerpreTAre

> 8. > 9.

Riassumi in non più di 10 righe (500 caratteri) i tratti caratteristici del metodo sperimentale. Calvino in un saggio dal titolo Il rapporto con la luna definisce Galileo, in modo volutamente iperbolico, come il più grande scrittore della letteratura italiana d’ogni secolo, tanto che la sua lingua «fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, grande poeta lunare…» (in Una pietra sopra, Mondadori, Milano 1995). E ancora, in Due interviste su scienza e letteratura (ibid.), scrive a proposito della lingua di Galileo quanto segue. Scrivere

esporre oralmente

Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica. Leggendo Galileo mi piace cercare i passi in cui parla della Luna: è la prima volta che la Luna diventa per gli uomini un oggetto reale, che viene descritta minutamente come cosa tangibile, eppure appena la Luna compare, nel linguaggio di Galileo si sente una specie di rarefazione, di levitazione: ci s’innalza in un’incantata sospensione. Non per niente Galileo ammirò e postillò quel poeta cosmico e lunare che fu Ariosto […]. L’ideale di sguardo sul mondo che guida anche il galileo scienziato è nutrito di cultura letteraria. Tanto che possiamo segnare una linea Ariosto-Galileo-Leopardi come una delle più importanti linee di forza della nostra letteratura.

Soffermati, pertanto, ad analizzare in un’esposizione orale (max 3 minuti) la prosa di Galileo, individuando e distinguendo le parti minutamente descrittive, in linea con il rigore del metodo scientifico, dalle parti più liberamente immaginative.

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Incontro con l’Opera

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Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano

Videolezione

Genesi, struttura e destinatari La composizione dell’opera

La suddivisione dell’opera

I personaggi

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Galileo terminò la composizione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo nel 1630. Due anni dopo ottenne l’autorizzazione a pubblicarlo dal papa Urbano VIII, al quale aveva preventivamente sottoposto lo schema dell’opera, accettando di proporre le due tesi contrapposte, quella tolemaica e quella copernicana, come teorie “astratte” e di mantenere nei loro confronti un atteggiamento di equidistanza. Convinto che queste limitazioni avessero soprattutto un valore formale, e sperando che la Chiesa potesse accettare i risultati delle nuove scoperte, Galileo finì per fare di quest’opera la più stringente ed efficace dimostrazione della validità del sistema copernicano. Ambientato a Venezia, che non a caso era la città più aperta e tollerante del tempo, il trattato, concepito in forma di dialogo, è suddiviso in quattro giornate: nella prima si discute del rapporto fra la Terra e gli astri, con particolare riferimento alla presunta perfezione e incorruttibilità dei corpi celesti; la seconda giornata è dedicata al principio di autorità aristotelico, l’ipse dixit; nella terza giornata è posto per la prima volta il problema delle maree che, sviluppato nella quarta giornata, costituisce il tema centrale dell’opera, fornendo per Galileo la prova decisiva, peraltro erronea, del moto orbitale della Terra intorno al Sole. L’opera, è basata sul confronto – e sullo scontro – fra due concezioni antagonistiche del mondo: quella copernicana, sostenuta dal nobile fiorentino Filippo Salviati, portavoce dell’autore, che rappresenta lo spirito più genuino della ricerca sperimentale e scientifica; quella tolemaica, difesa dall’aristotelico Simplicio, personaggio d’invenzione che è l’esponente della vecchia cultura, di quel conformismo intellettuale che, succube dell’ipse dixit, ossia del principio di autorità continuamente ricondotto ad Aristotele, si oppone, anche di fronte all’evidenza, a ogni innovazione. In mezzo, ma neutrale solo in apparenza, si trova il nobile veneziano Francesco Sagredo, che, convinto dalle argomentazioni di Salviati, si fa espressione di una vivacità ironica e polemica nei confronti delle istituzioni e della mentalità del passato. Ma queste figure non sono dei simboli astratti o delle fredde personificazioni; attraverso le loro parole traspare un’umanità viva e vitale, che ne fa la concreta manifestazione del disporsi dell’individuo nei confronti della realtà, resa qui più significativa da un confronto di fatti e di idee di assoluta rilevanza storica e culturale. Anche Simplicio, che ci apparirà alla fine “schiacciato” dalle dimostrazioni contrarie alla tesi da lui sostenuta, non è semplicemente un personaggio ridicolo, ma riflette un aspetto fondamentale della natura umana, la paura di regolarsi nella vita e di affrontare i problemi della conoscenza mettendo in gioco la propria responsabilità, senza affidarsi a qualcuno che pensi e giudichi al posto suo. È questo il coraggio necessario per una ricerca che non si limiti a seguire le strade già percorse e non si arresti di fronte alle difficoltà che spesso la scoperta del nuovo comporta. Era questa la battaglia che Galileo intendeva combattere contro l’ignoranza e la pericolosità di una mentalità dogmatica e reazionaria. Ma l’affermazione delle proprie idee

Capitolo 5 · Galileo Galilei

I destinatari

era anche affidata all’appoggio delle persone influenti, a un’organizzazione del consenso di cui anche il carteggio rende conto. In quest’ottica va considerato il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, che è cosa completamente diversa rispetto a un arido trattato scientifico, ma, utilizzando il volgare e riprendendo una forma eminentemente letteraria come quella dialogica, si innesta su una precisa e consolidata tradizione, duttilmente piegata ad accogliere e a divulgare i nuovi contenuti. I destinatari non erano solo gli scienziati, ma gli esponenti più aperti del pubblico colto, capaci di farsi promotori della loro diffusione.

La forma e lo stile

L’uso del dialogo

L’ideale letterario di Galileo è per molti aspetti rinascimentale: l’Ariosto, di cui, a differenza dei giudizi sul Tasso, fu fervido ammiratore (nelle giovanili Postille all’Ariosto e Considerazioni sul Tasso), incarna ancora per lui l’ideale di un’armonia e di un equilibrio senza freni e inibizioni. La scelta del dialogo, come strumento espressivo privilegiato, riflette questa sensibilità e meglio si presta a far risaltare le sue doti di scrittore, la lucida perspicuità dell’argomentazione, il giudizio tagliente, l’ironia che colpisce gli avversari. Nel Dialogo, come nel Saggiatore, Galileo assume anche il punto di vista dell’avversario per confutarlo dall’interno, sfruttando appieno le potenzialità implicite nella forma dialogica. Non a caso il dialogo, derivato dalla tradizione umanistico-rinascimentale, è forma intrinsecamente dialettica, e, alla divergenza delle opinioni, Galileo affida l’efficacia persuasiva delle tesi da dimostrare. Al rigore linguistico e argomentativo corrisponde l’equilibrio, tipicamente rinascimentale, della costruzione letteraria, che affonda le radici nella brillante tradizione della narrativa toscana. Al gusto della narrazione (che sa

visualizzare i concetti

Gli scritti di Galileo tra scienza e letteratura Prosa ricca di immagini e di esempi concreti che aiutano il lettore ad avvicinarsi alla materia scientifica

InTenTo ApoLoGeTICo e dIvuLGATIvo

Utilizzo del volgare per raggiungere un pubblico ampio, non solo specialistico Ricorso alla forma dialogica per presentare “dall’interno” il punto di vista dell’oppositore, dimostrandone infondate le obiezioni Metodo dialettico Prosa dotata di precisione descrittiva, chiarezza, rigore logico nelle argomentazioni

ApproCCIo SCIenTIfICo

Metodo di ricerca sperimentale e razionale, basato sull’osservazione tramite strumenti dei fenomeni naturali e sull’elaborazione matematica dei dati Interpretazione storicistica delle Sacre Scritture, il cui messaggio deve essere recepito tenendo conto dell’epoca e della finalità degli autori

Autonomia della ricerca scientifica rispetto al dato della religione e alla filosofia aristotelica

Contestazione del “principio di autorità”

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Il giudizio di Calvino…

… e di Leopardi

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avvalersi dell’abile uso dei paragoni e delle corrispondenze, con sciolti ed efficaci indugi di tipo novellistico o aneddotico) si accompagna la caratterizzazione anche teatrale dei personaggi, con la ricerca di un effetto sorpresa che sembra talora avvicinare la scrittura galileiana a certe suggestioni della prosa barocca (pur nella sostanziale differenza, come si è detto a proposito del Sidereus nuncius, p. 186 delle due posizioni). Proprio per l’efficace trasposizione della materia scientifica in una forma letteraria attigua al genere drammatico Tommaso Campanella poté definire l’opera come una «commedia filosofica». A tutto questo, grazie anche alla scelta del volgare toscano, vanno aggiunte la chiarezza e la precisione del linguaggio, a cui contribuirono sia la raffinata educazione letteraria sia l’occhio dello scienziato, che sa cogliere l’esattezza dell’espressione, conservando al tempo stesso quella “leggerezza” della parola tanto cara a Italo Calvino, che definirà Galileo uno dei più grandi scrittori italiani, aggiungendo: «appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa a un grado di precisione ed evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare…». A sua volta Giacomo Leopardi, nell’antologia dei migliori passi in prosa degli scrittori italiani (la Crestomazia della prosa italiana, pubblicata nel 1827), aveva riservato lo spazio maggiore proprio a Galileo, a cui veniva riconosciuto il merito, così raro nella nostra tradizione letteraria, di una scrittura non solo stilisticamente raffinata ma anche ricca di pensiero. In questo senso si può dire che l’influenza galileiana non si sia solo esercitata sulla prosa scientifica sei-settecentesca degli allievi e dei continuatori, ma sia penetrata a fondo in altri importanti settori della letteratura italiana.

L’idea di perfezione e la paura della morte dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Prima giornata

Temi chiave

• una nuova idea di perfezione • la natura degli astri • il rapporto tra il sistema geocentrico e quello eliocentrico

Mettendo in discussione l’immutabilità e l’inalterabilità attribuite nel sistema tolemaico ai corpi celesti, Galileo sostiene che la loro natura non può essere diversa da quella della Terra; confuta inoltre un’idea della perfezione che, non tenendo conto della destinazione e dell’utilità delle cose, nasce presso il volgo dalla paura della morte.

Io non posso senza grande ammirazione1, e dirò gran repugnanza al2 mio intelletto, sentir attribuir per3 gran nobiltà e perfezione a i corpi naturali ed integranti4 dell’universo questo esser impassibile, immutabile, inalterabile, etc., ed all’incontro stimar grande imperfezione l’esser alterabile, generabile, mutabile, etc.: io per me reputo la Terra nobilissima ed ammirabile per le tante e sì diverse alterazioni, mutazioni, generazioni, etc., che in lei incessabilmente si fanno; e quando5, senza esser suggetta ad alcuna mutazione, ella fusse tutta una vasta solitudine d’arena6 o una massa di diaspro7, o che al tempo del diluvio diacciandosi8 l’acque che la coprivano fusse restata un globo immenso di cristallo, dove mai non nascesse né si alterasse o si mutasse cosa veruna, io la stimerei un corpaccio inutile al mondo, pieno di ozio e, per dirla in breve, superfluo e come se non fusse9 in natura, e quella stessa differenza ci farei che è tra l’animal vivo e il morto; ed il medesimo dico della Luna, di Giove e di tutti gli altri globi mondani10. Ma

sagredo

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1. ammirazione: meraviglia, stupore. 2. al: per il. 3. per: come segno di. 4. integranti: facenti parte.

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5. quando: qualora. 6. solitudine d’arena: deserto di sabbia. 7. diaspro: quarzo, minerale dalla superficie liscia.

8. diacciandosi: ghiacciandosi. 9. se non fusse: se non esistesse. 10. mondani: dell’universo.

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quanto più m’interno11 in considerar la vanità de i discorsi popolari12, tanto più gli trovo leggieri13 e stolti. E qual maggior sciocchezza si può immaginar di quella che chiama cose preziose le gemme, l’argento e l’oro, e vilissime14 la terra e il fango? e come non sovviene15 a questi tali, che quando fusse tanta scarsità della terra quanta è delle gioie o de i metalli più pregiati, non sarebbe principe alcuno che volentieri non ispendesse una soma16 di diamanti e di rubini e quattro carrate17 di oro per aver solamente tanta terra quanta bastasse per piantare in un picciol vaso un gelsomino o seminarvi un arancino della Cina18, per vederlo nascere, crescere e produrre sì belle frondi, fiori così odorosi e sì gentil frutti? È, dunque, la penuria19 e l’abbondanza quella che mette in prezzo ed avvilisce20 le cose appresso il volgo21, il quale dirà poi quello essere un bellissimo diamante, perché assimiglia l’acqua pura, e poi non lo cambierebbe con dieci botti d’acqua. Questi che esaltano tanto l’incorruttibilità, l’inalterabilità, etc., credo che si riduchino22 a dir queste cose per il desiderio grande di campare assai23 e per il terrore che hanno della morte; e non considerano che quando24 gli uomini fussero immortali, a loro non toccava a25 venire al mondo. Questi meriterebbero d’incontrarsi in un capo di Medusa26, che gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante, per diventar più perfetti che non sono. salviati E forse anco una tal metamorfosi non sarebbe se non con qualche lor vantaggio; ché meglio credo io che sia il non discorrere, che discorrere a rovescio. simplicio E’ non è dubbio alcuno che la Terra è molto più perfetta essendo, come ella è, alterabile, mutabile, etc., che se la fusse una massa di pietra, quando ben anco fusse un intero diamante, durissimo ed impassibile27. Ma quanto queste condizioni arrecano di nobiltà alla Terra, altrettanto renderebbero i corpi celesti più imperfetti, ne i quali esse sarebbero superflue, essendo che i corpi celesti, cioè il Sole, la Luna e l’altre stelle, che

11. m’interno: mi addentro. 12. popolari: del volgo, della gente ignorante. 13. leggieri: superficiali. 14. vilissime: di scarsissimo valore. 15. non sovviene: non viene in mente. 16. una soma: un carico (quale può traspor­ tare una bestia da soma). 17. carrate: carri. 18. arancino della Cina: probabilmente un

piccolo agrume chiamato “fortunella”, colti­ vato a scopo ornamentale. 19. penuria: scarsità. 20. mette … avvilisce: attribuisce valore o deprezza. 21. il volgo: la gente del popolo, con valore negativo attribuito, in generale, a chi ragio­ na in maniera superficiale, sulla base dei luoghi comuni.

22. si riduchino: siano indotti. 23. campare assai: vivere molto a lungo. 24. quando: qualora, se. 25.non toccava a: non sarebbe stato concesso di. 26. in un capo di Medusa: in una testa di Medusa, il mostro mitologico con i capelli di serpente che, con lo sguardo, trasformava gli uomini in pietre. 27. impassibile: immutabile, inalterabile.

pesare le parole Superfluo (r. 10) > Deriva

dal latino superflùere, “scorrere (flùere) sopra (sùper)”, cioè “traboccare”. È una voce dotta, che indica ciò che eccede il bisogno, che non è necessario (es. le chiacchiere superflue mi annoiano). Può essere anche sostantivo (es. in tempi di crisi bisogna abituarsi a rinunciare al superfluo).

Sovviene

(r. 16)

> Sovvenire deriva dal latino subvenìre, “accorrere”, compo-

sto di sub-, “sotto”, e venìre. Qui ha il senso di “venire in mente, alla memoria”, che è oggi letterario e poco in uso (es. ora mi sovviene dei consigli che mi hai dato e che non ho seguito). Un altro senso, egualmente della lingua colta, è “aiutare, soccorrere” (es. è bello sovvenire con elargizioni in denaro alle esigenze dei più bisognosi).

Impassibile

(r. 33)

> Viene dal latino tardo impassìbilem, composto di in- ne-

>

gativo e da un derivato di pàssus, participio passato di pàti, “patire, soffrire, subire”. Qui ha il senso, oggi non più in uso, di “inalterabile”, cioè “che non può patire alterazioni”; il senso attuale è “che non si lascia vincere da alcuna emozione, che non mostra alcun turbamento” (es. è rimasto impassibile dinanzi alle gravi accuse che gli venivano mosse). Sinonimi: imperturbabile, da turbare con in- negativo e per-: è chi non si turba, non perde la calma (es. conservò un atteggiamento imperturbabile anche dinanzi all’estremo pericolo); inalterabile, da in- negativo e alterare, dal latino àlterum, “altro”, quindi in senso generale “che non si può rendere altro, diverso, modificare”, in senso psicologico “che non si altera”, cioè “non si adira, non si irrita” (es. rimase inalterabile nonostante gli insulti da cui era bersagliato); imperterrito, dal latino terrère, “spaventare”, più in- negativo e per-, quindi “che non si lascia spaventare o turbare da nulla” (es. il pirata della strada arrestato passò imperterrito tra la folla inferocita).

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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non sono ordinati28 ad altro uso che al servizio della Terra, non hanno bisogno d’altro per conseguire il lor fine, che del moto e del lume. sagredo Adunque la natura ha prodotti ed indrizzati29 tanti vastissimi, perfettissimi e nobilissimi corpi celesti, impassibili, immortali, divini, non ad altro uso che al servizio della Terra, passibile30, caduca e mortale? al servizio di quello che voi chiamate la feccia del mondo31, la sentina di tutte le immondizie32? e a che proposito far i corpi celesti immortali etc., per servire a uno caduco etc.? Tolto via questo uso di servire alla Terra, l’innumerabile schiera di tutti i corpi celesti resta del tutto inutile e superflua, già che non hanno, né possono avere, alcuna scambievole operazione33 fra di loro, poiché tutti sono inalterabili, immutabili, impassibili: ché se, verbigrazia34, la Luna è impassibile, che volete che il Sole o altra stella operi in lei35? sarà senz’alcun dubbio operazione minore assai che quella di chi con la vista o col pensiero volesse liquefare una gran massa d’oro. In oltre, a me pare che mentre che36 i corpi celesti concorrano alle generazioni ed alterazioni della Terra, sia forza che essi ancora37 sieno alterabili; altramente38 non so intendere che l’applicazione della Luna o del Sole alla39 Terra per far le generazioni40 fusse altro che mettere a canto alla sposa una statua di marmo, e da tal congiugnimento41 stare attendendo prole. simplicio La corruttibilità, l’alterazione, la mutazione etc. non son nell’intero globo terrestre42, il quale quanto alla sua integrità43 è non meno eterno che il Sole o la Luna, ma è generabile e corruttibile44 quanto alle sue parti esterne45; ma è ben vero che in esse la generazione e corruzione son perpetue46, e come tali ricercano47 l’operazioni celesti eterne; e però è necessario48 che i corpi celesti sieno eterni.

[…]

28. ordinati: destinati. 29. indrizzati: indirizzati, orientati. 30. passibile: soggetta ad alterazioni. 31. la feccia del mondo: la parte più vile e spregevole dell’universo. 32. la sentina … immondizie: il luogo, il deposito di tutte le bruttura (la sentina è la parte più bassa della nave, dove si raccolgono le acque di scolo). 33. scambievole operazione: scambio di influenze, scambievole influenza.

34. verbigrazia: per esempio. 35. operi in lei: influisca su di lei. 36. mentre che: siccome, dal momento che. 37. essi ancora: anch’essi. 38. altramente: altrimenti, diversamente. 39. l’applicazione … alla: l’influsso sulla. 40. far le generazioni: generare le diverse forme di vita. 41. congiugnimento: unione. 42. non son … terrestre: non coinvolgono per intero la sfera terrestre.

43. quanto … integrità: per quanto riguarda la sua interezza. 44. generabile e corruttibile: soggetto alla generazione e alla corruzione. 45. quanto … esterne: per quanto riguarda la sua superficie. 46. perpetue: incessanti, continue. 47. ricercano: richiedono, presuppongono. 48. è necessario: ne consegue necessariamente.

pesare le parole Caduca (r. 40)

> Deriva dal latino cadùcum, da càdere, “cadere”, e significa

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“di breve durata”, letteralmente “destinato a cadere” (es. si aggrappa a speranze caduche e resterà deluso). Il mal caduco nel linguaggio popolare è l’epilessia. Caducifoglie sono le piante che perdono le foglie nella stagione fredda, dette anche piante decidue (sempre da càdere più de-). Sinonimi: effimero, dal greco ephémeros, composto di epi-, “in” ed heméra, “giorno”, letteralmente “in un giorno”, “che dura un sol giorno”, quindi nel senso corrente “di breve durata” (es. come cantante ha goduto di una gloria effimera ed è stato presto dimenticato); labile, dal latino làbi, “scivolare”, letteralmente “che scivola via facilmente”, cioè “scompare presto” (es. la gioventù e la bellezza sono beni labili); fugace, dal latino fùgere, “fuggire”, letteralmente “che fugge via” (es. ha fatto una comparsa fugace alla festa e se n’è andata subito); dalla stessa radice e con lo stesso senso si ha anche fuggevole; transitorio, dal latino transìre, “passare”, letteralmente “che passa presto, in fretta”, quindi “destinato a durare un periodo limitato” (es.

sono state approvate alcune norme transitorie in materia fiscale); passeggero, dal latino pàssum, “passo”, alla lettera “destinato a passare” (es. è stato un malore passeggero, non c’è da preoccuparsi); precario, dal latino precàrium, “ottenuto con preghiere” (prèx, prècis, “preghiera”), “che si concede solo per grazia”, quindi “che non è sicuro, stabile, definitivo” (es. ha un impiego precario, che non gli dà alcuna sicurezza per l’avvenire); provvisorio, dal latino provisiònem, da providère, “provvedere”, in quanto è ciò che provvede solo temporaneamente (es. ha avuto una nomina provvisoria come supplente di lettere); temporaneo, dal latino tèmpus-tèmporis, “tempo”, cioè “che è limitato nel tempo” (es. il suo incarico è solo temporaneo); momentaneo, dal latino momèntum, “momento”, letteralmente “che dura solo un momento” (es. ha goduto di una gioia momentanea, subito svanita). La gran quantità di sinonimi per indicare lo stesso concetto può voler significare quanto gli uomini sentano e patiscano la fugacità delle cose.

Capitolo 5 · Galileo Galilei sagredo

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Che nella Luna o in altro pianeta si generino o erbe o piante o animali simili a i nostri, o vi si facciano pioggie, venti, tuoni, come intorno alla Terra, io non lo so e non lo credo, e molto meno che ella sia abitata da uomini: ma non intendo già come tuttavolta che49 non vi si generino cose simili alle nostre, si deva50 di necessità concludere che niuna alterazione vi si faccia, né vi possano essere altre cose che si mutino, si generino e si dissolvano, non solamente diverse dalle nostre, ma lontanissime dalla nostra immaginazione, ed in somma del tutto a noi inescogitabili51. E sì come io son sicuro che a uno nato e nutrito in una selva immensa, tra fiere ed uccelli, e che non avesse cognizione alcuna dell’elemento dell’acqua, mai non gli potrebbe cadere nell’immaginazione essere52 in natura un altro mondo diverso dalla Terra, pieno di animali li quali senza gambe e senza ale velocemente camminano, e non sopra la superficie solamente, come le fiere53 sopra la terra, ma per entro tutta la profondità, e non solamente camminano, ma dovunque piace loro immobilmente si fermano54, cosa che non posson fare gli uccelli per aria, e che quivi di più abitano ancora uomini, e vi fabbricano palazzi e città55, ed hanno tanta comodità nel viaggiare, che senza niuna56 fatica vanno con tutta la famiglia e con la casa e con le città intere in lontanissimi paesi; sì come, dico, io son sicuro che un tale, ancorché di perspicacissima57 immaginazione, non si potrebbe già mai figurare58 i pesci, l’oceano, le navi, le flotte e le armate di mare; così, e molto più59, può accadere che nella Luna, per tanto intervallo remota60 da noi e di materia per avventura61 molto diversa dalla Terra, sieno sustanze e si facciano operazioni non solamente lontane, ma del tutto fuori, d’ogni nostra immaginazione, come quelle che non abbiano similitudine62 alcuna con le nostre, e perciò del tutto inescogitabili, avvengaché63 quello che noi ci immaginiamo bisogna che sia64 o una delle cose già vedute, o un composto di cose o di parti delle cose altra volta vedute; ché65 tali sono le sfingi, le sirene, le chimere, i centauri66, etc.

49. tuttavolta che: sebbene. 50. si deva: si debba. 51. a noi inescogitabili: per noi impensabili. 52. cadere … essere: venire in mente che esista. 53. fiere: animali selvatici. 54. immobilmente si fermano: si fermano e restano immobili.

55. palazzi e città: nel senso di “navi e flotte”. 56. niuna: nessuna. 57. ancorché di perspicacissima: benché dotato di una estremamente fervida. 58. figurare: immaginare. 59. e molto più: a maggior ragione. 60. per tanto … remota: per così grande distanza lontana.

61. per avventura: forse. 62. similitudine: somiglianza. 63. avvengaché: dal momento che. 64. bisogna che sia: deve essere. 65. ché: perché, e. 66. sfingi … centauri: creature mitologi­ che variamente formate da parti di uomini e di animali.

Analisi del testo

> L’idea di perfezione

Rovesciare i luoghi comuni

Il bisogno umano di valori assoluti

Il discorso scientifico, nel Dialogo, non è separabile dalle ragioni di una più profonda umanità, che riconduce l’attenzione di Galileo alle concrete condizioni di vita dell’uomo sulla terra. Dopo aver dimostrato nel Sidereus nuncius che la superficie lunare non è diversa da quella terrestre, Galileo ha buon gioco ad affermare che gli astri non possono avere una forma perfetta, «immutabile, inalterabile». Con la sua logica stringente (non astratta, sia chiaro, ma fondata sui riscontri con la realtà) Galileo afferma che la vera perfezione delle cose consiste nella funzione a cui sono destinate e nella loro capacità di corrispondere alle esigenze fondamentali della vita. Conta non la forma, potremmo dire, ma la sostanza; pensarla diversamente vuol dire condividere i pregiudizi della gente, che ragiona sulla base di luoghi comuni. Se si rovesciano queste prospettive, per ripristinare una visione più corretta delle cose, si dovrà convenire che l’acqua, indispensabile all’esistenza umana, è molto più importante e «nobile» del diamante, il cui pregio è stabilito sulla base di una sola convenzione. Così l’idea di perfezione nasce nell’uomo da un bisogno di valori assoluti che è connaturato con la sua natura, oltre che con la sua condizione di essere mortale; con una profonda intuizione psicologica, Galileo dichiara che questa idea nasce dal desiderio di vivere a 213

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Il ricorso all’ironia

Il rapporto tra i due sistemi astronomici

La vita su altri pianeti

lungo e soprattutto dalla paura della morte, che l’immaginazione dell’incorruttibilità sembra rimuovere e allontanare. Interviene a questo punto l’ironia, che riguarda non solo l’ignoranza, ma anche la comoda abitudine a non voler guardare in faccia la realtà, preferendo ingannare se stessi e crearsi false consolazioni: «Questi meriterebbero d’incontrarsi in un capo di Medusa, che gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante, per diventar più perfetti che non sono» (rr. 27-28).

> Il sistema geocentrico e quello eliocentrico

Proseguendo nell’argomentazione, al di là dei rilievi più propriamente tecnici e scientifici, Galileo tocca un argomento capitale, quello del rapporto fra sistema geocentrico e sistema eliocentrico, quando Sagredo, anche in questo caso ironicamente, chiede se «la natura» abbia «prodotti ed indrizzati tanti vastissimi, perfettissimi e nobilissimi corpi celesti, impassibili, immortali, divini, non ad altro uso che al servizio della Terra, passibile, caduca e mortale» (rr. 38-40). Anche questo è un modo per mettere in discussione e ridimensionare l’orgoglio dell’uomo che, con la Terra, si considera al centro dell’universo. L’ultimo rilievo riguarda l’esistenza della vita sugli altri pianeti e consente a Galileo, ancora una volta, di soffermarsi sul problema della conoscenza attraverso una breve esemplificazione di tipo narrativo (viene in mente T4, p. 204), secondo cui non è possibile pronunciarsi su cose non viste o sperimentate direttamente.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Spiega il senso dell’affermazione di Sagredo «e non considerano che quando gli uomini fussero immortali, a loro non toccava a venire al mondo» (rr. 26-27). > 2. Che cosa intende dire Sagredo con il paragone, esplicitato in nota, «altramente non so intendere che l’applicazione della Luna o del Sole alla Terra per far le generazioni fusse altro che mettere a canto alla sposa una statua di marmo, e da tal congiugnimento stare attendendo prole» (rr. 49-51)? > 3. Sintetizza il contenuto dell’ultimo intervento di Sagredo (rr. 57-80). AnALIzzAre

> 4. > 5.

Individua nel testo i casi di enumerazione e polisindeto, spiegandone l’efficacia in relazione al contenuto. La finalità divulgativa dell’opera condiziona lo stile della prosa galileiana, ricca di immagini e di esempi concreti. Individua i punti del testo in cui emerge questa caratteristica. Stile

Stile

ApprofondIre e InTerpreTAre

> 6.

esporre oralmente Il seguente passo critico evidenzia alcuni aspetti rilevanti della prosa galileiana, pienamente collocata nell’ambito delle tendenze dominanti del Barocco, ma distante dal gusto per l’artificio fine a se stesso. Spiega oralmente (max 5 minuti) quali osservazioni in esso contenute risultano pertinenti al testo analizzato.

Nei nostri tempi, nel corso di una revisione e riabilitazione del barocco, si è più volte cercato di collocare Galileo in diretta relazione con la moda artistica dominante nel Seicento. […] Certo, la preferenza per i dettagli, quel tirar fuori, quasi a grappolo, un particolare dietro l’atro, dando ad ognuno un proprio posto, colore e significato, il moto stesso della fantasia galileiana che, mentre mira direttamente all’oggetto del discorso, non perde di vista l’elemento marginale e scorre di continuo dal centro alla circonferenza e viceversa, tutto questo potrà apparire effetto del barocco […]. La prosa galileiana, non insensibile alle forme culturali ed artistiche del Seicento, non ne resta tuttavia coinvolta, perché il dominio che Galileo esercita sulla parola gli consente un uso ampio, vario ed elegante, che non ha nulla di sfarzoso o di stucchevole, proprio perché il realismo, la vivacità e la spontaneità del pensiero galileiano meglio s’acconcia a forme espressive chiare e precise, che dicano cose e non vuote parole. La limpidezza della sua pagina aderisce più direttamente ad un’ideale classicità, sicché rifiutando la nudità di un discorso strettamente specialistico e rivestendo forme più sontuose, non smarrisce mai l’equilibrio tra parola e pensiero. L. Geymonat-F. Brunetti, La prosa e la lingua di Galileo Galilei, in Storia della letteratura italiana. Vol. V, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, Garzanti, Milano 1982

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Capitolo 5 · Galileo Galilei per IL poTenzIAmenTo

> 9. Alla fine degli anni Settanta il chimico britannico James Lovelock formulò l’ipotesi – detta “Teoria di Gaia” –

secondo cui gli organismi viventi modificano attivamente il loro ambiente al fine di mantenere la terra abitabile. Gli scienziati sostennero che una simile proposta contraddiceva l’evoluzione darwiniana, eppure le prove a sostengo dell’idea fondamentale alla base di “Gaia” sono sempre più numerose. Tenendo conto della lezione galileiana in merito al concetto di “trasformazione” applicato all’intero universo, effettua una ricerca sull’argomento. pASSATo e preSenTe La trasformazione: una legge universale

> 10. È possibile considerare la “catastrofe” il risultato estremo di una trasformazione? Ed è la ”trasformazione” una sorta di legge universale in grado di mantenere vivi il mondo e l’universo? Discuti in classe con l’insegnante e i compagni la singolare tesi proposta nel passo seguente, ipotizzando l’ambito, non soltanto cosmologico, cui potrebbe riferirsi il concetto di «Apocalisse» espresso dall’autore. Sento arrivare una serie di catastrofi causate dalle nostre diligenti benché inconsce preoccupazioni. Se queste catastrofi fossero abbastanza potenti da riuscire a svegliare il mondo, e non troppo da schiacciarlo, direi che potrebbero assumere un valore pedagogico, sarebbe l’unico modo per sormontare la nostra inerzia e l’invincibile propensione dei cronisti a tacciare come “psicosi dell’Apocalisse” qualsiasi denuncia di una reale condizione di pericolo. F. Partant, in “Réforme”, 3 marzo 1979, poi in S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2007

T6

L’elogio dell’intelletto umano dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Prima giornata

Temi chiave

• il problema della conoscenza • la perfezione delle opere di natura • la dignità dell’uomo

I limiti della conoscenza umana rappresentano al tempo stesso la sua forza e la sua grandezza. È quanto Galileo ci mostra indicando alcuni momenti dei grandiosi progressi compiuti dall’umanità nel campo delle scienze e delle arti.

Estrema temerità1 mi è parsa sempre quella di coloro che voglion far la capacità umana misura2 di quanto possa e sappia operar la natura, dove che, all’incontro3, e’ non è effetto4 alcuno in natura, per minimo che e’ sia, all’intera cognizion5 del quale possano arrivare i più specolativi ingegni6. Questa così vana prosunzione7 d’intendere

sagredo

1. temerità: temerarietà. 2. far … misura: prendere l’intelligenza (capacità) umana come misura. 3. all’incontro: al contrario.

4. e’ non è effetto: non c’è fenomeno. 5. all’intera cognizion: alla completa conoscenza. 6. i più… ingegni: le menti più portate alla

speculazione, all’indagine filosofica. 7. prosunzione: presunzione.

pesare le parole Specolativi (r. 4)

> Oggi si usa la forma speculativo. L’origine è il verbo latino speculàri, “osservare, esplorare”, da spèculum, “specchio” (la radice è quella del verbo spectàre, “guardare”). Speculativo si riferisce all’indagine intellettuale, alla teorizzazione filosofica (es. possiede una spiccata vocazione speculativa più che attitudini pratiche). La speculazione, nel linguaggio filosofico, è la contemplazione intellettuale con fini esclusivamente teorici (es. quando è immerso nelle sue profonde speculazioni non si accorge del mondo che lo circonda). In campo economico la parola ha tutt’altro significato: indica l’insieme delle operazioni intese a conseguire un guadagno, che implicano un certo azzardo sul futuro e a volte anche mancanza di scrupoli

>

(es. attraverso ardite speculazioni in Borsa ha accumulato una fortuna). In senso figurato è un pretesto sfruttato per raggiungere un vantaggio politico (es. hanno montato una speculazione elettorale sugli scandali che hanno investito gli avversari). Il nesso fra il senso filosofico e quello economico è che chi specula economicamente deve osservare attentamente la realtà e spingersi a prevedere andamenti futuri. Dalla stessa radice proviene specola, “osservatorio astronomico situato in luogo elevato”. Nel linguaggio colto, “luogo eminente da cui si può osservare”, usato anche in senso figurato (es. dalla specola della sua sapienza vede cose che noi ignoriamo).

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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il tutto non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai nulla, perché, quando altri avesse esperimentato una volta sola a8 intender perfettamente una sola cosa ed avesse gustato veramente come è fatto il sapere, conoscerebbe come dell’infinità dell’altre conclusioni niuna ne intende9. salviati Concludentissimo10 è il vostro discorso; in confermazion11 del quale abbiamo l’esperienza di quelli che intendono o hanno inteso qualche cosa, i quali quanto più sono sapienti, tanto più conoscono e liberamente confessano di saper poco; ed il sapientissimo della Grecia12, e per tale sentenziato13 da gli oracoli, diceva apertamente conoscer14 di non saper nulla. simplicio Convien15 dunque dire, o che l’oracolo, o l’istesso Socrate, fusse bugiardo, predicandolo quello per sapientissimo16, e dicendo questo di conoscersi17 ignorantissimo. salviati Non ne seguita18 né l’uno né l’altro, essendo che amendue i pronunziati19 posson esser veri. Giudica l’oracolo sapientissimo Socrate sopra gli altri uomini, la sapienza de i quali è limitata; si conosce Socrate non saper nulla20 in relazione alla sapienza assoluta, che è infinita; e perché dell’infinito tal parte n’è il molto che ’l poco e che il niente21 (perché per arrivar, per esempio, al numero infinito tanto è l’accumular migliaia, quanto decine e quanto zeri), però22 ben conosceva Socrate, la terminata sua sapienza esser nulla all’infinita23, che gli mancava. Ma perché pur tra gli uomini si trova qualche sapere, e questo non egualmente compartito a24 tutti, potette Socrate averne maggior parte de gli altri, e perciò verificarsi25 il responso dell’oracolo. sagredo Parmi di intender benissimo questo punto. Tra gli uomini, signor Simplicio, è la potestà di operare26, ma non egualmente participata27 da tutti: e non è dubbio che la potenza d’un imperadore è maggiore assai che quella d’una persona privata; ma e questa e quella è nulla in comparazione28 dell’onnipotenza divina. Tra gli uomini vi sono alcuni che intendon29 meglio l’agricoltura che molti altri; ma il saper piantar un sermento30 di vite in una fossa, che ha da far col31 saperlo far barbicare32, attrarre il nutrimento, da quello scierre33 questa parte buona per34 farne le foglie, quest’altra per formarne i viticci35, quella per i grappoli, quell’altra per l’uva, ed un’altra per i fiocini36, che son poi l’opere della sapientissima natura? Questa è una sola opera particolare delle innumerabili che fa la natura, ed in essa sola37 si conosce un’infinita sapienza, talché38 si può concludere, il saper divino esser infinite volte infinito. salviati Eccone un altro esempio. Non direm noi che ’l sapere scoprire in un marmo una bellissima statua ha sublimato39 l’ingegno del Buonarruoti40 assai assai sopra gli ingegni comuni degli altri uomini? E questa opera non è altro che imitare una sola attitudine41 e disposizion di membra esteriore e superficiale d’un uomo immobile; e

8. esperimentato … a: fatto esperienza … di. 9. conoscerebbe … intende: saprebbe che degli altri infiniti argomenti (conclusioni) non ne comprende nessuno. 10. Concludentissimo: perfettamente convincente, risolutivo. 11. in confermazion: a conferma. 12. il sapientissimo della Grecia: il più sa­ piente di tutti i Greci, cioè il filosofo Socrate (470­469 a.C.­399 a.C.). 13. per tale sentenziato: pubblicamente giudicato come tale (in particolare dall’ora­ colo di Delfi, secondo quanto sostenuto da Platone nell’Apologia di Socrate). 14. diceva … conoscer: affermava pubblicamente di sapere. 15. Convien: bisogna, si deve.

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16. predicandolo … sapientissimo: definendolo quello come il più sapiente. 17. conoscersi: sapere di essere. 18. seguita: consegue. 19. amendue i pronunziati: entrambe le affermazioni. 20. si conosce … nulla: riconosce Socrate di non saper nulla. 21. dell’infinito … niente: di fronte all’infinito il molto equivale al poco e al niente. 22. però: perciò. 23. la terminata … infinita: che la sua finita sapienza era nulla di fronte all’infinita. 24. compartito a: distribuito, suddiviso fra. 25. verificarsi: essere veritiero. 26. è … operare: c’è, si trova il potere di agire. 27. partecipata: condivisa.

28. in comparazione: in confronto. 29. intendon: conoscono. 30. sermento: tralcio. 31. che ha … col: che cosa c’entra, che cosa ha in comune. 32. barbicare: radicare. 33. scierre: scegliere. 34. buona per: adatta a, capace di. 35. viticci: cirri, propriamente foglie modifi­ cate che consento alla pianta di aggrapparsi ad altre piante o a pali di sostegno. 36. fiocini: semi d’uva. 37. in essa sola: soltanto in lei, nella natura. 38. talché: sicché. 39. sublimato: elevato, innalzato. 40. Buonarruoti: Michelangelo Buonarror­ ti (1475­1564), scultore, pittore e poeta. 41. attitudine: atteggiamento, posizione.

Capitolo 5 · Galileo Galilei

però che cosa è in comparazione d’un uomo fatto dalla natura, composto di tante membra esterne ed interne, de i tanti muscoli, tendini, nervi, ossa, che servono a i tanti e sì diversi movimenti? Ma che diremo de i sensi, delle potenze42 dell’anima, e finalmente dell’intendere? non possiamo noi dire, e con ragione, la fabbrica43 d’una statua cedere d’infinito intervallo44 alla formazion d’un uomo vivo, anzi anco alla formazion d’un vilissimo45 verme?

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Io son molte volte andato meco medesimo considerando, in proposito di questo che di presente dite46, quanto grande sia l’acutezza dell’ingegno umano; e mentre io discorro per47 tante e tanto maravigliose invenzioni trovate da gli uomini, sì nelle arti come nelle lettere, e poi fo reflessione48 sopra il saper mio, tanto lontano dal potersi promettere49 non solo di ritrovarne50 alcuna di nuovo, ma anco51 di apprendere delle già ritrovate, confuso dallo stupore ed afflitto dalla disperazione, mi reputo poco meno che infelice. S’io guardo alcuna statua delle eccellenti, dico a me medesimo: «E quando sapresti levare il soverchio52 da un pezzo di marmo, e scoprire sì bella figura che vi era nascosa53? quando mescolare e distendere sopra una tela o parete colori diversi, e con essi rappresentare tutti gli oggetti visibili, come un Michelagnolo, un Raffaello, un Tiziano54?». S’io guardo quel che hanno ritrovato gli uomini nel compartir gl’intervalli musici55, nello stabilir precetti e regole per potergli maneggiar con diletto mirabile dell’udito, quando potrò io finir di stupire? Che dirò de i tanti e sì diversi strumenti? La lettura de i poeti eccellenti di qual meraviglia riempie chi attentamente considera l’invenzion de’ concetti e la spiegatura56 loro? Che diremo dell’architettura? che dell’arte navigatoria57? Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente58 fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi59 sopra una carta.

42. potenze: facoltà. 43. la fabbrica: che la realizzazione. 44. cedere… intervallo: essere infinitamente inferiore. 45. vilissimo: di nessun valore. 46. di presente dite: state dicendo, in questo momento (di presente). 47. discorro per: percorro con la mente, passo mentalmente in rassegna. 48. fo riflessione: rifletto. 49. promettere: ripromettere. 50. ritrovarne: scoprirne, inventarne. 51. anco: persino. 52. il soverchio: il di più, ciò che eccede.

53. nascosa: nascosta. È l’idea di Michelan­ gelo, secondo cui il blocco di marmo contie­ ne in potenza la statua che lo scultore sa ri­ cavare. 54. Raffaello … Tiziano: Raffaello Sanzio (1483­1520) e Tiziano Vecellio (1490­1576), con Michelangelo i maggiori esponenti dell’arte rinascimentale. 55. compartir … musici: suddividere la distanza fra i suoni. Si ricordi che erano musici­ sti il padre e il fratello, Michelangelo, di Gali­ leo. 56. l’invenzion … spiegatura: l’invenzione e lo sviluppo degli argomenti (il termine con-

cetti è usato in senso generico, e non nel si­ gnificato del “concettismo” barocco; la meraviglia, come già si è avuto occasione di osservare, nasce dalla scoperta delle cose, non dalla ricerca delle parole). 57. arte navigatoria: tecnica della navigazione. Si ricordi che Galileo, a Venezia, si re­ cava ai cantieri dell’Arsenale per osservare il lavoro degli operai impegnati nelle costru­ zioni navali. 58. eminenza di mente: mente eccelsa. 59. vari … caratteruzzi: le più svariate combinazioni di venti piccoli caratteri (le lettere dell’alfabeto).

pesare le parole Sublimato (r. 37) > Sublimare

proviene dal latino sublìmem, “sublime, elevato”. Qui significa “innalzato a un livello sublime”, ed è un termine ancora in uso in questa accezione, nel linguaggio colto (es. si è sublimato alla santità con la sua dedizione in soccorso ai diseredati). Nel linguaggio della psicoanalisi significa “trasferire gli impulsi

sessuali in qualcosa di superiore, l’espressione letteraria o artistica, la meditazione filosofica, la ricerca scientifica, l’attività sociale, l’ascesi religiosa”. In campo scientifico indica il passaggio diretto di un corpo dallo stato solido a quello gassoso, senza attraversare lo stato liquido.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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Sia questo il sigillo60 di tutte le ammirande invenzioni umane, e la chiusa61 de’ nostri ragionamenti di questo giorno: ed essendo passate le ore più calde, il signor Salviati penso io che avrà gusto62 di andare a godere de i nostri freschi in barca63; e domani vi starò attendendo amendue64 per continuare i discorsi cominciati, etc.

60. il sigillo: il suggello, la confema definitiva. 61. la chiusa: il termine, la conclusione.

62. gusto: piacere. 63. freschi in barca: le frescure (della sera) su una gondola.

64. vi starò … amendue: vi aspetterò entrambi.

Competenze attivate

Analisi attiva Comprendere

> Il paradosso di Socrate

In questo passo Sagredo e Salviati risolvono quello che a Simplicio sembra un paradosso insolubile: Socrate sostiene di non sapere nulla, mentre l’oracolo di Delfi lo proclama il più sapiente di tutti gli uomini. La questione era nata dall’osservazione secondo cui la mente dell’uomo più intelligente non è in grado di penetrare in tutti i segreti della natura.

• Leggere, comprendere ed interpretare

testi letterari: prosa • Dimostrare consapevolezza della

storicità della letteratura

> 1. Come si spiega il paradosso riferito alla figura di Socrate?

AnALIzzAre

> Il problema della conoscenza

Come si è visto nella «favola dei suoni» ( T4, p. 204), conoscere una cosa significa avere la consapevolezza che ce ne possono essere infinite altre che non conosciamo. Solo le persone ignoranti hanno la «vana presunzione d’intendere il tutto». La conciliazione delle due posizioni del dilemma proposto consiste nel fatto che, di fronte alla «sapienza assoluta» («infinita» e divina), Socrate stesso ammette di conoscere ben poche cose. Si può quindi affermare che il grado di conoscenza delle leggi della natura è variabile in relazione all’intelligenza degli uomini, che può comunque raggiungere, nell’applicarsi a singole conoscenze, risultati straordinari e livelli di certezza indubitabili (quelli, appunto, che possono derivare dalle dimostrazioni scientifiche e matematiche).

> Le opere dell’uomo

Le sculture di Michelangelo – è questo l’esempio che fa Galileo – sono superiori a quelle di tutti gli altri scultori, ma restano infinitamente inferiori ai mirabili meccanismi che consentono di dare vita al corpo dell’uomo. I limiti delle esperienze umane sono la condizione stessa dei successi che la ricerca ha consentito di compiere, nel campo della scienza e in quello delle arti. Il ragionamento assume l’andamento di un vero e proprio inno (e con un crescendo, anche stilisticamente, di entusiasmo) nei confronti delle mirabili creazioni che hanno accompagnato il corso dell’umanità.

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> 2. Precisa in che cosa consiste il rapporto fra questo testo e la «favola dei suoni» ( T4, p. 204).

> 3. È possibile parlare di relatività per quanto riguarda i tipi e le forme della conoscenza?

> 4. Che rapporto c’è fra le capacità dell’uomo e la perfezione divina della natura? > 5. Come esprime Galileo il suo entusiasmo per l’arte e le conquiste dell’umanità?

Capitolo 5 · Galileo Galilei

ApprofondIre e InTerpreTAre

> L’esaltazione della dignità dell’uomo

Il passo si conclude ricordando l’invenzione più clamorosa di tutte, quella dell’alfabeto, che, «con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta» (r. 66), ha consentito agli uomini di comunicare fra di loro vincendo le distanze nello spazio e nel tempo. Con questa pagina giunge al culmine quell’esaltazione del valore e della dignità dell’uomo (de dignitate hominis) che era stata, nel Quattrocento, la grande conquista della cultura dell’Umanesimo.

> 6. È possibile stabilire un confronto fra questo passo e la lettera a Benedetto Castelli ( T3, p. 198)?

> 7. In che misura Galileo approfondisce il discorso sulla “dignità dell’uomo” avviato dalla cultura umanistica nel Quattrocento?

LeTTerATurA e CInemA

Il Galileo di Joseph Losey e di Liliana Cavani

Video da Galileo di J. Losey

Il modello teatrale Il film Galileo di Joseph Losey (1975) è tratto dall’opera teatrale Vita di Galileo di Bertolt Brecht, e in particolare dalla sua messa in scena statunitense del 1947, diretta dal drammaturgo tedesco assieme allo stesso Losey e al grande attore e regista inglese Charles Laughton, che interpreta a teatro il ruolo del protagonista. La vicenda narrata inizia nel 1609 nella Repubblica di Venezia, dove Galileo è libero di portare avanti le sue ricerche, ma a costo che si concentrino su invenzioni e scoperte utili agli interessi di mercanti e politici locali. La pellicola segue poi in maniera piuttosto fedele la biografia dell’astronomo, fino a mostrarci un Galileo ormai vecchio che negli anni Trenta, dopo essere stato costretto all’abiura delle sue teorie e all’isolamento, continua in segreto i suoi studi e riesce infine a consegnare il suo ultimo lavoro a un seguace diretto in Olanda, un paese dove non arriva la censura pontificia e dove il manoscritto può pertanto essere pubblicato. Un personaggio complesso Il ruolo dell’astronomo è interpretato con grande abilità da Chaim Topol, efficace nel far emergere la complessità di un personaggio diviso tra la passione per la ricerca e la paura di perdere il favore dei potenti che lo finanziano, ma allo stesso tempo sempre coerente alla propria visione “democratica” della scienza. Questa infatti, secondo Galileo, non può essere ridotta a un insieme di teorie riservate ai dibattiti tra specialisti delle classi agiate, ma ha invece il compito di portare cambiamenti concreti nella vita di tutti. L’interesse alla divulgazione è peraltro centrale nella biografia dello scienziato come dimostra l’aver scelto una lingua quasi colloquiale per la redazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. il rifiuto dell’immedesimazione Anche la scenografia del film si rifà alla concezione

teatrale di Brecht: i costumi, i mobili e gli accessori sono infatti realistici dal punto di vista storico-sociale, così come consigliato dal drammaturgo nelle sue note al testo, mentre i fondali sono spesso delle semplici tele dipinte, e quindi non realistici. In questo modo lo spettatore riesce a seguire facilmente la vicenda raccontata (la ricchezza e tipologia degli abiti gli permette infatti di identificare subito il rango e la classe di appartenenza dei personaggi) e, allo stesso tempo, non si immedesima, cioè non dimentica di concentrare tutta la sua attenzione critica sul discorso portato avanti dagli attori. 219

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

il Galileo “ribelle” di Liliana Cavani Va in direzione opposta Liliana Cavani, regista di

Galileo, film uscito nel 1968 e dichiaratamente lontano dal testo di Brecht. Dell’astronomo, con il quale lo spettatore deve immedesimarsi, viene evidenziato soprattutto lo spirito ribellista, in linea con il sentire di molti movimenti giovanili di quegli anni. Al personaggio storico complesso, indagato da Brecht e da Losey, viene quindi sostituita la figura piatta dell’eroe solitario che si scaglia contro i simboli dell’autorità accademica, ecclesiastica e famigliare.

Nell’immagine vediamo Galileo rivolgersi allo spettatore per spiegare quanto forte sia il suo desiderio di conoscenza. Il primo piano spinge chi guarda a concentrarsi sul volto e sulle parole dell’astronomo e traduce quindi in forma cinematografica un precetto brechtiano, proprio del suo teatro epico: interrompere, anche bruscamente, l’immersione dello spettatore nella narrazione del film.

Nella scena dell’abiura di Galileo la scenografia scelta da Losey è un semplice telo bianco. È il momento di massima rottura con il naturalismo: Losey vuole infatti che l’attenzione dello spettatore si concentri tutta sul conflitto tra il desiderio della figlia di Galileo (a destra), che prega perché il padre abiuri così che gli venga risparmiata la vita, e quello degli allievi dello scienziato (a sinistra), che sostengono sia un dovere di quest’ultimo difendere le proprie idee, anche fino a morire per queste.

Esercitare le competenze STAbILIre neSSI TrA LeTTerATurA e CInemA

> 1. Perché il Galileo della Cavani è considerato «figura piatta» rispetto al «personaggio storico com-

plesso» di Brecht e Losey? > 2. La scenografia nel secondo fotogramma quali elementi della scena pone in particolare risalto per lo spettatore?

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Capitolo 5 · Galileo Galilei

Analisi interattiva

T7

La confutazione dell’ipse dixit e il coraggio della ricerca dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Seconda giornata

Temi chiave

• lo scontro tra due ipotesi opposte sulla

struttura dell’universo: il carattere astratto del sapere aristotelico e l’apertura alle teorie copernicane • la paura di affrontare ciò che non si conosce • la condanna del dogmatismo

In queste pagine, con cui inizia la Seconda giornata del dialogo, è condotta una rigorosa contestazione nei confronti del principio di autorità, che ridicolizza i seguaci di Aristotele. Questi sono accusati di tradire la dignità della scienza, che non può accettare passivamente le conclusioni del passato ma, praticata da chi «ha gli occhi nella fronte e nella mente», deve avventurarsi coraggiosamente, con il soccorso della ragione, lungo i sentieri sconosciuti della conoscenza.

Io vi confesso che tutta questa notte sono andato ruminando1 le cose di ieri, e veramente trovo di2 molte belle nuove e gagliarde considerazioni; con tutto ciò mi sento stringer3 assai più dall’autorità di tanti grandi scrittori, ed in particolare4… Voi scotete la testa, signor Sagredo, e sogghignate5, come se io dicessi qualche grande esorbitanza6. sagredo Io sogghigno solamente, ma crediatemi7 ch’io scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori8, perché mi avete fatto sovvenire di9 un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti anni, insieme con alcuni altri nobili amici miei, i quali vi potrei ancora nominare. salviati Sarà ben che voi ce lo raccontiate, acciò10 forse il signor Simplicio non continuasse di creder d’avervi esso mosse le risa11. sagredo Son contento12. Mi trovai un giorno in casa un13 medico molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano14 tal volta a veder qualche taglio di notomia per mano di15 uno veramente non men dotto che diligente e pratico notomista16. Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l’origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa controversia tra i medici galenisti ed i peripatetici17; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo18 de i nervi si andava poi distendendo per la spinale19 e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe20 arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo21 ch’egli conosceva per filosofo peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato il tutto22, gli domandò s’ei restava ben pago e sicuro, l’origine de i nervi venir dal cervello23 e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé24, rispose: «Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e simplicio

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1. ruminando: rimuginando; ma “ruminare”, ha un’inflessione ironica, in quanto si riferi­ sce alla masticazione degli animali erbivori, appartenenti appunto al sottordine dei ru­ minanti. 2. di: pleonastico, tipico dell’uso toscano. 3. stringer: costringere, convincere. 4. in particolare…: Simplicio si ferma prima di pronunciare il nome di Aristotele, perché vede che Sagredo scuote la testa e sorride. 5. sogghignate: sorridete. Si ricordi che il termine “ghigno” indicava il “sorriso”, tanto da parlare, ad esempio, del “ghigno della Gioconda”, il celebre quadro di Leonardo. 6. esorbitanza: enormità, stravaganza.

7. crediatemi: credetemi. 8. le risa maggiori: una risata più forte. 9. sovvenire di: ricordare, tornare in mente. 10. acciò: affinché 11. di creder … risa: a credere di essere stato lui a farvi ridere. 12. Son contento: d’accordo, mi sta bene. 13. in casa un: a casa di un (uso toscano). 14. convenivano: si incontravano, si riunivano. 15. taglio … mano di: dissezione anatomica per opera di, realizzata da. 16. notomista: anatomista. 17. galenisti … peripatetici: i galenisti so­ no i seguaci di Claudio Galeno (129­201 d.C.),

il più famoso medico e fisiologo dell’antichi­ tà; i peripatetici sono i seguaci di Aristotele (che nella sua scuola, il Liceo, faceva lezione “passeggiando” con i suoi allievi). 18. ceppo: fascio. 19. per la spinale: lungo la spina dorsale. 20. refe: filo per cucire. 21. gentil uomo: gentiluomo, nobiluomo. 22. scoperto … tutto: rivelato e dimostrato tutto quanto, ossia condotta tutta la dimo­ strazione. 23. pago … cervello: soddisfatto e convinto che l’origine dei nervi si trovava. 24. alquanto … di sé: per qualche tempo, un po’ sovrappensiero.

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sensata25, che quando il testo d’Aristotile non fusse in contrario26, che apertamente dice, i nervi nascer27 dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera28». simplicio Signori, io voglio che voi sappiate che questa disputa dell’origine de i nervi non è miga così smaltita e decisa29 come forse alcuno si persuade30. sagredo Né sarà mai al sicuro, come si abbiano di simili contradittori31; ma questo che voi dite non diminuisce punto32 la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a così sensata33 esperienza non produsse34 altre esperienze o ragioni d’Aristotile, ma la sola autorità ed il puro ipse dixit35. simplicio Aristotile non si è acquistata sì grande autorità se non per la forza delle sue dimostrazioni e della profondità de i suoi discorsi: ma bisogna intenderlo, e non solamente intenderlo, ma aver tanta gran pratica ne’ suoi libri, che se ne sia formata un’idea perfettissima, in modo che ogni suo detto vi sia sempre innanzi alla mente; perché e’ non ha scritto per il volgo, né si è obligato a infilzare i suoi silogismi col metodo triviale ordinato36, anzi, servendosi del perturbato37, ha messo talvolta la prova di una proposizione fra testi che par che trattino di ogni altra cosa38: e però bisogna aver tutta quella grande idea39, e saper combinar questo passo con quello, accozzar40 questo testo con un altro remotissimo41; ch’ e’ non è dubbio che chi averà questa pratica42, saprà cavar da’ suoi libri le dimostrazioni di ogni scibile43, perché in essi è ogni cosa. sagredo Ma, signor Simplicio mio, come44 l’esser le cose disseminate in qua e in là non vi dà fastidio, e che voi crediate45 con l’accozzamento e con la combinazione di varie particelle46 trarne il sugo47, questo che voi e gli altri filosofi bravi48 farete con i testi d’Aristotile, farò io con i versi di Virgilio o di Ovidio49, formandone centoni50 ed esplicando51 con quelli tutti gli affari de gli uomini e i segreti della natura. Ma che dico io di Virgilio o di altro poeta? io ho un libretto assai più breve d’Aristotile e

25. aperta e sensata: chiara e ragionevole, in maniera evidente e convincente. 26. fusse in contrario: non affermasse il contrario. 27. che … nascer: dicendo chiaramente che i nervi nascono. 28. confessarla per vera: ammetterla, riconoscerla come vera. 29. miga … decisa: mica così risolta e definita, risolta in maniera definitiva. 30. si persuade: vuole credere. 31. come … contraddittori: finché ci saranno delle persone che fanno obiezioni (contraddittori) di questo genere. 32. punto: affatto. 33. sensata: comprovata dai sensi. 34. produsse: addusse, propose. 35. ipse dixit: è l’espressione latina (“l’ha detto lui”) con cui i seguaci di Aristotele pro­ ponevano il suo insegnamento come una

verità assoluta e indubitabile. 36. né si è … ordinato: né si è imposto di mettere in fila (infilzare) i suoi ragionamenti seguendo il metodo banale (triviale, a detta di Simplicio) che dispone gli argomenti secondo un ordine consequenziale (ordinato). I sillogismi sono propriamente delle argo­ mentazioni per cui, da due premesse che hanno un elemento comune, si deduce la conseguenza (ad esempio: 1. Tutti gli uomi­ ni sono mortali; 2. Socrate è un uomo; 3. Socrate è mortale). 37. servendosi del perturbato: utilizzando il metodo perturbato, ossia il metodo oppo­ sto a quello ordinato, in quanto non segue un ordine preciso nelle argomentazioni. 38. di ogni … cosa: di una cosa completamente diversa. 39. aver… idea: conoscere nella sua totalità (tutta), avere tutto presente il suo grande si-

stema filosofico (idea). 40. accozzar: unire, collegare. 41. remotissimo: lontanissimo. 42. averà … pratica: avrà questa capacità. 43. scibile: forma di conoscenza. 44. come: dal momento che, siccome. 45. che voi crediate: siccome (che) voi credete. 46. particelle: frammenti. 47. il sugo: il significato profondo; si noti qui l’uso di un linguaggio colloquiale, comune. 48. bravi: abili e coraggiosi (è detto ironica­ mente). 49. Virgilio … Ovidio: i poeti latini Publio Virgilio Marone (7­19 a.C.), autore dell’Eneide, e Ovidio (43 a.C.­18 d.C.), autore delle Metamorfosi. 50. centoni: accostamento di versi tratti da differenti poeti dell’antichità. 51. esplicando: spiegando.

pesare le parole Smaltita (riga 28)

> Qui smaltire è usato nel senso di “risolvere, liquidare”. Il

verbo viene dal gotico smaltijan, “fondere” (da una comune radice germanica derivano il tedesco schmelzen e l’inglese to melt, “fondere, sciogliere, liquefare”). In senso fisico smaltire significa “digerire” (es. è difficile smaltire un pranzo di Natale così abbondante), figuratamente,

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“far passare” (es. riprenderemo il discorso dopo che avrai smaltito la sbornia), oppure “vendere completamente, liquidare una partita di merci” (es. con i saldi si cerca talvolta di smaltire vecchi fondi di magazzino invenduti), o ancora “dare sfogo alle acque” (es. occorre scavare un canale per smaltire le acque piovane).

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d’Ovidio, nel quale si contengono tutte le scienze, e con pochissimo studio altri52 se ne può formare una perfettissima idea: e questo è l’alfabeto; e non è dubbio che quello che saprà ben accoppiare e ordinare questa e quella vocale con quelle consonanti o con quell’altre, ne caverà le risposte verissime a tutti i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di tutte le arti, in quella maniera appunto che il pittore da i semplici colori diversi, separatamente posti sopra la tavolozza, va, con l’accozzare un poco di questo con un poco di quello e di quell’altro, figurando53 uomini, piante, fabbriche54, uccelli, pesci, ed in somma imitando tutti gli oggetti visibili, senza che su la tavolozza sieno né occhi né penne né squamme55 né foglie né sassi: anzi pure è necessario che nessuna delle cose da imitarsi, o parte alcuna di quelle, sieno attualmente56 tra i colori, volendo57 che con essi si possano rappresentare tutte le cose; ché se vi fussero, verbigrazia58, penne, queste non servirebbero per dipignere altro che uccelli o pennacchi. salviati E’ son vivi e sani alcuni gentil uomini che furon presenti quando un dottor leggente in uno Studio59 famoso, nel sentir circoscrivere60 il telescopio, da sé61 non ancor veduto, disse che l’invenzione era presa da Aristotile; e fattosi portare un testo, trovò certo luogo62 dove si rende la ragione onde63 avvenga che dal fondo d’un pozzo molto cupo si possano di giorno veder le stelle in cielo; e disse a i circostanti: «Eccovi il pozzo, che denota il cannone64; eccovi i vapori grossi65, da i quali è tolta66 l’invenzione de i cristalli67; ed eccovi finalmente fortificata68 la vista nel passare69 i raggi per il diafano più denso e oscuro».

[…]

simplicio

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Io credo, e in parte so, che non mancano al mondo de’ cervelli molto stravaganti, le vanità de’ quali70 non dovrebbero ridondare in pregiudizio71 d’Aristotile, del quale mi par che voi parliate talvolta con troppo poco rispetto; e la sola antichità, e ’l gran nome che si è acquistato nelle menti di tanti uomini segnalati72, dovrebbe bastar a renderlo riguardevole appresso di tutti i letterati73. salviati Il fatto non cammina così74, signor Simplicio: sono alcuni suoi seguaci troppo pusillanimi75, che danno occasione, o, per dir meglio, che darebbero occasione, di

52. altri: uno. 53. figurando: rappresentando. 54. fabbriche: costruzioni, edifici. 55. squamme: squame. 56. attualmete: effettivamente (è il significa­ to conservato dall’inglese actually). 57. volendo: se si vuole. 58. verbigrazia: ad esempio. 59. leggente … Studio: lettore, professore in una università. 60. circoscrivere: descrivere. 61. da sé: da lui.

62. certo luogo: un certo passo. 63. si rende … onde: si spiega la ragione per cui. 64. denota il cannone: indica la canna, il tubo. 65. i vapori grossi: il vapore acqueo. 66. tolta: ricavata. 67. i cristalli: le lenti. 68. fortificata: resa più acuta. 69. nel passare: con il passare dei raggi at­ traverso i vapori densi e spessi ma traspa­ renti (il diafano).

70. le vanità de’ quali: la cui leggerezza, stupidità. 71. ridondare in pregiudizio: ritorcersi a danno. 72. segnalati: illustri. 73. riguardevole … letterati: degno di ammirazione presso tutte le persone colte, gli uo­ mini di cultura e di scienza. 74. Il fatto … così: le cose non stanno così. 75. pusillanimi: vili, meschini.

pesare le parole Pusillanimi (r. 77)

> Viene dal latino pusìllum, “piccolo”, e ànimum, “animo”: >

letteralmente significa “dall’animo piccolo”, quindi “di scarso coraggio” (es. dinanzi alle minacce di quel gruppo di teppisti si è mostrato pusillanime). Sinonimi: pavido, o pauroso, dal latino pavère, “aver paura” (es. è un uomo pavido, che ha paura persino della sua ombra); vigliacco, dallo spagnolo bellaco, “briccone”, di etimologia incerta: è chi fugge davanti a un pericolo, o

accetta, senza ribellarsi, ingiustizie, soprusi, umiliazioni (es. dinanzi alle prepotenze del capo non osa reagire perché è un vigliacco); vile, dal latino vìlem, “di poco prezzo, di poco valore” (es. è un vile, che non osa affrontare le conseguenze delle sue azioni); codardo, dall’antico francese coudard, “dalla coda bassa”, come i cani quando hanno paura, quindi “che si ritira dinanzi a rischi o doveri” (es. colpendolo a tradimento si è rivelato un codardo).

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stimarlo meno, quando noi volessimo applaudere alle loro leggereze76. E voi, ditemi in grazia, sete così semplice che non intendiate77 che quando78 Aristotile fusse stato presente a sentir il dottor che lo voleva far autor79 del telescopio, si sarebbe molto più alterato80 contro di lui che contro quelli che del dottore e delle sue interpretazioni si ridevano? Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte in cielo, e’ non fusse per mutar81 opinione e per emendar82 i suoi libri e per accostarsi alle più sensate dottrine, discacciando da sé quei così poveretti di cervello che troppo pusillanimamente s’inducono83 a voler sostenere ogni suo detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo figurano, sarebbe un cervello indocile84, una mente ostinata, un animo pieno di barbarie, un voler tirannico, che85, reputando tutti gli altri come pecore stolide86, volesse che i suoi decreti87 fussero anteposti a i sensi, alle esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data l’autorità ad Aristotile, e non esso88 che se la sia usurpata o presa; e perché è più facile il coprirsi sotto lo scudo d’un altro che ’l comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono d’allontanarsi un sol passo, e più tosto che mettere qualche alterazione89 nel cielo di Aristotile90, vogliono impertinentemente91 negar quelle che veggono nel cielo della natura. simplicio Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta92 nella filosofia? nominate voi qualche autore. salviati Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti93 e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente94, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo95 e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda96 in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si debba avere

76. quando … leggerezze: se noi volessimo applaudire, acconsentire alle loro sciocchezze, alla loro superficialità (leggerezze). 77. che non intendiate: da non capire. 78. quando: se. 79. autor: inventore. 80. alterato: adirato. 81. non fusse per mutar: non cambierebbe. 82. per emendar: correggerebbe. 83. s’inducono: si convincono, si persuadono. 84. indocile: irragionevole. 85. che: se. 86. stolide: stolte, stupide. 87. decreti: affermazioni, conclusioni. 88. esso: lui.

89. mettere … alterazione: introdurre qualche variazione, modifica. 90. nel cielo di Aristotile: si riferisce al trat­ tato aristotelico De coelo ma soprattutto alla teoria geocentrica da lui sostenuta. 91. impertinentemente: con ragionamenti non pertinenti. 92. scorta: guida (ma anche guardia arma­ ta). 93. incogniti: sconosciuti. 94. occhi … mente: per vedere e per ragionare (nella mente). 95. il vederlo: leggerlo, conoscerlo. 96. darsegli in preda: consegnarsi a lui come una preda, un prigioniero.

pesare le parole Usurpata (r. 90)

> Deriva dal latino usurpàre, “prendere possesso con un rapimento” (ràpere,

“rapire”, ùsu, “con l’uso”); in italiano significa “fare indebitamente proprio, con la violenza o l’inganno, un bene, un titolo, una carica legittimamente spettanti ad altri” (es. dopandosi ha usurpato il titolo di campione del mondo). In senso estensivo, “usare o godere senza merito” (es. ha usurpato la fama di grande esperto d’arte, mentre in realtà è un ignorante presuntuoso).

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Aristotele, Tolomeo e Copernico, 1635, incisione colorata, frontespizio da Dialogus De Systemate Mundi di Galileo Galilei.

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per decreto inviolabile97; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non98 si applica più a cercar d’intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è più vergognosa che ’l sentir nelle publiche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili99 uscir un di traverso100 con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito101, e con esso serrar la bocca all’avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete102 il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria103; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo. Ma è ben ritornare a riva104, per non entrare in un pelago105 infinito, del quale in tutt’oggi non si uscirebbe. Però106, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta.

97. decreto inviolabile: verità indiscutibile. 98. altri non: nessuno. 99. dimostrabili: che si possono dimostrare. 100. un di traverso: uno che si mette in mezzo. 101. in ogni … proposito: con tutt’altra in-

tenzione. 102. deponete: abbandonate, lasciate stare. 103. dottori di memoria: che ricordano i testi antichi e si limitano a impararne a me­

moria le citazioni. 104. a riva: all’argomento della discussione (che riguarda la rotazione della Terra). 105. pelago: mare (di argomentazioni). 106. Però: perciò.

Analisi del testo L’opposizione assurda a una dimostrazione impeccabile

L’accusa ai seguaci di Aristotele

> Le prese di posizione dei personaggi

A confutare l’ipse dixit aristotelico, quel principio di autorità in cui crede ciecamente Simplicio, Sagredo racconta un aneddoto che, mentre conferma la felice vena narrativa di Galileo, pone l’accento sul paradosso di chi, anche contro l’evidenza della cose, continua testardamente a prestare fede alle sue errate convinzioni. Di fronte all’impeccabile dimostrazione che i nervi traggono la loro origine dal cervello, l’intransigente peripatetico non trova di meglio che affermare: «Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d’Aristotele non fusse in contrario […], bisognerebbe per forza confessarla per vera» (rr. 24-26). Cominciando a sentirsi spiazzato, Simplicio sostiene la tesi curiosa, secondo cui la verità dei testi di Aristotele va cercata collegando fra loro osservazioni sparse nelle varie opere, anche quando si riferiscano singolarmente a realtà diverse fra loro. Procedimento a dir poco curioso, osserva Sagredo, come se si accozzassero alla rinfusa dei versi di Virgilio o di Ovidio, dando vita a dei «centoni» incoerenti. Non diversamente, incalza Salviati in un altro breve inserto aneddotico, un «dottore», sentendo parlare del telescopio (senza, si noti, averlo mai neppure visto), poteva sostenere la tesi, basata su considerazioni impossibili e assurde, che la paternità dell’invenzione fosse da attribuire ad Aristotele. Come a dire, aggiunge Sagredo, che un blocco di marmo contiene «mille bellissime statue; ma il punto sta a saperle scoprire». Ora, se Simplicio continua a difendere la fama di Aristotele, Salviati non ne contesta l’importanza, ma accusa i suoi seguaci di aver attribuito un valore assoluto alle sue teorie, finendo per tradire l’autenticità del suo insegnamento, che va riportato alla sua concreta dimensione storica, per coglierne la reale importanza. Attribuendogli un valore indiscutibile e universale, gli aristotelici hanno tradito il maestro, che, se fosse vissuto nei tempi presenti, avrebbe preso atto delle nuove scoperte e invenzioni. 225

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

La cultura come conquista faticosa

La dignità dell’uomo

La condanna del dogmatismo

> La ricerca scientifica e la vera conoscenza

L’idea che la cultura e la scienza siano non dei valori calati dall’alto e stabiliti una volta per tutti, ma una conquista da cercare faticosamente e da difendere giorno per giorno, mette in crisi Simplicio e provoca in lui lo sgomento di chi si sente smarrito, perduto nel vuoto, privo di certezze e di appigli, di punti di riferimento, confuso nell’angosciosa domanda: «Ma quando si lasci Aristotele, chi ne ha da essere scorta nella filosofia?» (r. 95). La risposta di Salviati è un documento davvero esemplare, nella misura in cui collega il grande tema umanistico della “dignità dell’uomo” all’autonomia della ricerca scientifica, posta al vertice di una conoscenza che va cercata da chi, metaforicamente, non è cieco, ma «ha gli occhi nella fronte e nella mente» (r. 99) e di questi «si ha da servire per iscorta» (rr. 99-100). Vibrante e sdegnosa si fa a questo punto la polemica nei confronti di chi ripete delle idee passivamente acquisite, rinunciando alle più alte prerogative della natura umana e rifiutando di conseguenza ogni confronto, ma servendosi dell’autorità altrui per «serrar la bocca all’avversario» (r. 107). È la netta condanna di quel dogmatismo che rappresenta la negazione di ogni ricerca scientifica e filosofica, che invece, dovendo dimostrare la verità delle proprie affermazioni, ha il dovere di esercitarsi «intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta» (r. 114).

Esercitare le competenze

Laboratorio interattivo

Comprendere

> 1. Quale equivoco, a proposito del riso, si crea all’inizio e tra chi? > 2. Completa la tabella assegnando un titolo a ciascuna delle parti in cui è stato suddiviso il testo. righe

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> 3. Che cosa dimostra il «notomista» e che cosa sostiene, all’opposto, il peripatetico? AnALIzzAre

> 4. Individua i punti sui quali si basano le argomentazioni dei tre personaggi. > 5. Stile Sottolinea gli aneddoti presenti nel brano e spiegane la funzione a livello stilistico. > 6. Stile Qual è il tono dominante nel racconto e quale il registro stilistico? Alto e ricercato o comico e realistico? > 7. Stile Individua le metafore presenti alle righe 1-19. > 8. Lessico Analizza il tipo di lessico utilizzato alle righe10-22: sono utilizzati termini astratti o tecnici e concreti? ApprofondIre e InTerpreTAre

> 9.

Scrivere Descrivi in circa 10 righe (500 caratteri) il concetto espresso nel brano sulla combinatoria delle lettere dell’alfabeto (rr. 37-52). > 10. Contesto: storia Alla luce delle critiche al principio di autorità aristotelico, ricostruisci gli eventi storici che fanno da sfondo a tale disputa e che vedono protagonista la Chiesa in questi anni.

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Capitolo 5 · Galileo Galilei

La voce del Novecento

Echi nel tempo Galileo secondo Bertolt Brecht

Galileo e la rivoluzione scientifica moderna secondo Brecht Il grande drammaturgo tedesco Bertolt Brecht (1898-1956) ha dedicato alla figura di Galileo un dramma famoso, Vita di Galileo, del 1938-39 ma rimaneggiato più volte in seguito. Riportiamo l’inizio dell’opera: Galileo nel 1609 insegna matematica all’Università di Padova, e in questa prima scena spiega le nuove teorie scientifiche a un ragazzino, Andrea Sarti, il figlio della sua governante.

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galileo Bravo. Ho qualcosa da mostrarti. Guarda dietro quelle mappe stellari. Da dietro le mappe Andrea tira fuori un grande modello in legno del sistema tolemaico. andrea Cos’è? galileo Un astrolabio: un aggeggio che fa vedere come si muovono gli astri intorno alla terra, secondo l’opinione degli antichi. andrea E come? galileo Esaminiamolo. Cominciamo dal principio: descrizione. andrea In mezzo c’è un sassolino. galileo La terra. andrea Tutt’intorno, una sopra l’altra, tante calotte. galileo Quante? andrea Otto. galileo Sono le sfere di cristallo. andrea Alle calotte sono attaccate delle palline… galileo Le costellazioni. andrea E qui ci sono dei nastri, con dipinte sopra delle parole. galileo Che parole? andrea I nomi degli astri. galileo Per esempio? andrea La pallina più in basso è la luna, dice la scritta. Quella sopra, il sole. galileo E adesso fa’ muovere il sole. andrea (muovendo le calotte) Bello. Ma noi siamo come intrappolati dentro. galileo (asciugandosi) Già. Anche a me, la prima volta che lo vidi, fece lo stesso effetto. A certi, lo fa. (Getta la salvietta ad Andrea perché gli asciughi le spalle) Muri, calotte, ogni cosa immobile! Per duemil’anni l’umanità ha creduto che il sole e tutte le costellazioni celesti le girassero attorno. Papa, cardinali, principi, scienziati, condottieri, mercanti, pescivendole e scolaretti: tutti erano convinti di starsene immobili dentro questa calot-

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ta di cristallo. Ma ora ne stiamo uscendo fuori, Andrea: e ci attende un grande viaggio. Perché l’evo antico è finito e siamo nella nuova era. Da cent’anni è come se l’umanità si aspettasse qualche cosa. Le città sono piccole, le teste altrettanto: piene di superstizioni e di pestilenze. Ma ora noi diciamo: visto che così è, così non deve rimanere. Perché ogni cosa si muove, amico mio. Io ho in mente che tutto sia incominciato dalle navi. Sempre, a memoria d’uomo, le navi avevano strisciato lungo le coste: ad un tratto se ne allontanarono e si slanciarono fuori, attraverso il mare. Sul nostro vecchio continente allora si sparse una voce: esistono nuovi continenti. E da quando le nostre navi vi approdano, i continenti ridendo dicono: il grande e temuto mare non è che un po’ d’acqua. E c’è una gran voglia d’investigare le cause prime di tutte le cose: per quale ragione un sasso, lasciato andare, cade, e gettato in alto, sale. Ogni giorno si trova qualcosa di nuovo. Perfino i centenari si fanno gridare all’orecchio dai giovani le ultime scoperte. Molto è già stato trovato, ma quello che è ancora da trovare, è di più. A Siena, quand’ero giovane, una volta vidi alcuni muratori discutere per pochi minuti intorno al modo di spostare dei blocchi di granito: dopodiché, abbandonarono un metodo vecchio di mille anni per adottare una nuova disposizione di funi, più semplice. In quel momento capii che l’evo antico era finito e cominciava la nuova era. Presto l’umanità avrà le idee chiare sul luogo in cui vive, sul corpo celeste che sta scritto negli antichi libri. Sì, perché, dove per mille anni aveva dominato la fede, ora domina il dubbio. Tutto il mondo dice: d’accordo, sta scritto nei libri, ma lasciate un po’ che vediamo noi stessi. È come se la gente si avvicinasse alle verità più solenni e battesse loro sulla spalla; quello di cui non si era mai dubitato, oggi è posto in dubbio. E il gran risucchio d’aria che s’è levato da tutto questo, non rispetta neppure le vesti trapunte d’oro dei principi e dei prelati; e mette in mostra gambe grasse e gambe magre, gambe uguali alle nostre, insomma. È risultato che i cieli sono vuoti: e a questa constatazione si è innalzata una gran risata d’allegria. Ma l’acqua della terra fa girare le nuvole conocchie1, e nei cantieri, nelle fabbriche di sartie2 e di vele, cinquecento mani si muovono insieme, secondo un nuovo sistema di lavoro. Io prevedo che noi non saremo ancora morti, quando anche sulle piazze dei mercati si discuterà di astronomia. Anche i figli delle pescivendole andranno a scuola. E gli abitanti delle nostre città, assetati di cose nuove, prenderanno gusto a una nuova astronomia che faccia muovere un po’ anche la terra. S’è sempre detto che le costellazioni sono fissate a una volta di cristallo3, in modo che non possano cadere. Ma adesso abbiamo preso coraggio e lasciamo che si librino da sole, senza aggancio; e son tutte impegnate in lunghi percorsi, come le nostre navi: disancorate e in viaggio. E la terra allegramente ruota intorno al sole, e insieme a lei ruotano pescivendole, mercanti, principi e cardinali e perfino il Papa. Ma l’universo nel giro di una notte ha perduto il suo centro4, e la mattina seguente ne aveva un’infinità. Da un momento all’altro, guarda quanto posto c’è. Le nostre navi vanno lontano, le nostre costellazioni girano nello spazio, perfino negli scacchi è un po’ di tempo che le torri si muovono liberamente per tutta la scacchiera.

1. conocchie: strumenti per filare. Ora non si fila più a mano, ma con macchine mosse dall’acqua.

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2. sartie: le funi delle navi. 3. volta di cristallo: secondo la teoria tolemaica le sfere celesti, in cui erano

inseriti i pianeti, erano fatte di una materia cristallina e incorruttibile. 4. perduto … centro: la Terra.

Capitolo 5 · Galileo Galilei

Nel 1633 Galileo ha subito il processo da parte dell’Inquisizione per le sue teorie scientifiche. Avendole sconfessate, è riuscito a salvarsi dal rogo. Ora vive in una sorta di confino nella villa di Arcetri, continuando i suoi studi, sia pure sotto lo stretto controllo ecclesiastico. In questa scena l’antico discepolo Andrea Sarti, divenuto anch’egli scienziato, in viaggio verso l’Olanda, dove potrà procedere nelle sue ricerche più liberamente, passa a visitarlo. Andrea esalta il realismo dimostrato da Galileo nel ritrattare le sue tesi scientifiche: l’eroismo e il martirio sarebbero stati inutili, mentre nascondendo la verità lo scienziato ha potuto continuare la sua ricerca, così la scienza ha vinto. Galileo invece ribatte che hanno vinto i nemici della scienza, non la scienza (dalla scena XIV).

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(con le mani professoralmente congiunte sull’adipe) Nel tempo che ho libero – e ne ho, di tempo libero – mi è avvenuto di rimeditare il mio caso e di domandarmi come dovrà giudicarlo quel mondo della scienza al quale non credo più di appartenere. Anche un venditore di lana, per quanto abile sia ad acquistarla a buon prezzo per poi rivenderla cara, deve preoccuparsi che il commercio della lana possa svolgersi senza difficoltà. Non credo che la pratica della scienza possa andar disgiunta dal coraggio. Essa tratta il sapere, che è un prodotto del dubbio; e col procacciare sapere a tutti su ogni cosa, tende a destare il dubbio in tutti. Ora, la gran parte della popolazione è tenuta dai suoi sovrani, dai suoi proprietari di terre, dai suoi preti, in una nebbia madreperlacea di superstizioni e di antiche sentenze, che occulta le malefatte di costoro. Antica come le rocce è la condizione dei più, e dall’alto dei pulpiti e delle cattedre si soleva dipingerla come altrettanto imperitura. Ma la nostra nuova arte del dubbio appassionò il gran pubblico, che corse a strapparci di mano il telescopio per puntarlo sui suoi aguzzini. Cotesti uomini egoisti e prepotenti, avidi predatori a proprio vantaggio dei frutti della scienza, si avvidero subito che un freddo occhio scientifico si era posato su una miseria millenaria ma artificiale1: una miseria che chiaramente poteva essere eliminata con l’eliminare loro stessi; e allora sommersero noi sotto un profluvio2 di minacce e di corruzioni, tale da travolgere gli spiriti deboli. Ma possiamo noi respingere la massa e conservarci uomini di scienza? I moti dei corpi celesti ci sono divenuti più chiari; ma i moti dei potenti restano pur sempre imperscrutabili ai popoli. E se il dubbio ha vinto la battaglia per la misurabilità dei cieli3, la battaglia della massaia romana per la sua bottiglia di latte sarà sempre perduta dalla credulità4. Con tutt’e due queste battaglie, Andrea, ha a che fare la scienza. Finché l’umanità continuerà a brancolare nella sua nebbia millenaria di superstizioni e di venerande sentenze, finché sarà troppo ignorante per sviluppare le sue proprie energie, non sarà nemmeno capace di sviluppare le energie della natura che le vengono svelate. Che scopo si prefigge il vostro lavoro? Non credo che la scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà che fonte di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del galileo

1. miseria … artificiale: la miseria millenaria delle plebi non era un dato di natura, voluto dall’ordine provvi­ denziale di Dio, ma il prodotto storico di un certo ordine sociale. La scienza è

in grado di smascherare l’inganno e di liberare gli uomini. 2. un profluvio: una grande quantità. 3. misurabilità dei cieli: la scienza dimostra che i cieli sono entità fisiche

e misurabili. 4. la battaglia … credulità: la credulità delle masse le renderà sempre indifese e vittime del potere, quindi misere.

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tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità si scaverà un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka5 risponderà un grido di dolore universale. Nella mia vita di scienziato ho avuto una fortuna senza pari: quella di vedere l’astronomia dilagare nelle pubbliche piazze6. In circostanze così straordinarie, la fermezza di un uomo poteva produrre grandissimi rivolgimenti. Se io avessi resistito, i naturalisti7 avrebbero potuto sviluppare qualcosa di simile a ciò che per i medici è il giuramento d’Ippocrate: il voto solenne di far uso della scienza ad esclusivo vantaggio dell’umanità. Così stando le cose, il massimo in cui si può sperare è una progenie di gnomi inventivi8, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo. Mi sono anche convinto, Andrea, di non aver mai corso dei rischi gravi. Per alcuni anni ebbi la stessa forza di una pubblica autorità; e misi la mia sapienza a disposizione dei potenti perché la usassero, o non la usassero, o ne abusassero, a seconda dei loro fini. (Virginia9 è entrata con un vassoio: resta immobile ad ascoltare). Ho tradito la mia professione; e quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io, la sua presenza non può essere tollerata nei ranghi della scienza. B. Brecht, Teatro, trad. it. di E. Castellani, Einaudi, Torino 1963

5. eureka: in greco “ho trovato”; la leggenda attribuisce la battuta ad Archimede, in occasione della sco­ perta delle leggi del galleggiamento. 6. astronomia … piazze: la cono­

scenza delle scoperte astronomiche ha potuto diffondersi tra la gente co­ mune. 7. naturalisti: gli studiosi di scienze naturali, come l’astronomia e la fisica.

8. gnomi inventivi: sono gli scien­ ziati “piccoli”, dai ristretti orizzonti culturali e senza scrupoli morali, co­ me viene detto subito dopo. 9. Virginia: la figlia di Galileo.

Analisi del testo

> Una nuova era (brano A)

Le scoperte geografiche Fede e dubbio

La rivoluzione tecnologica e produttiva Il diffondersi dell’istruzione

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Negli insegnamenti che Galileo impartisce al ragazzo viene tracciato sinteticamente il quadro della rivoluzione scientifica moderna. Lo scienziato ha chiarissima la consapevolezza che si è all’inizio di una nuova era: dopo duemila anni di immobilità, in cui l’umanità era rimasta fissata alle stesse credenze, ora tutto sta cambiando, «ogni giorno si trova qualcosa di nuovo» (r. 41). Galileo collega la rivoluzione scientifica alle scoperte geografiche, cioè alle navi che osano abbandonare il noto e il rassicurante per spingersi a esplorare l’ignoto, sino a scoprire nuovi continenti. Scoperte scientifiche e geografiche nascono dalla stessa esigenza, non accontentarsi di ciò che si sa e avventurarsi a investigare ciò che non si sa: non più una passiva acquiescenza a ciò che sta scritto nei libri e viene tramandato da secoli da un’autorità, ma il coraggio di mettere in discussione tutto ciò che è dato per acquisito («dove per mille anni aveva dominato la fede, ora domina il dubbio», r. 49). Si investigano «le cause prime di tutte le cose» (rr. 39-40) attraverso la ricerca personale e l’esperienza diretta della realtà. Ne scaturisce per l’umanità un senso di liberazione dalla cappa opprimente di credenze millenarie: alla constatazione che i cieli sono vuoti si leva «una gran risata d’allegria» (r. 56). Il fatto che l’universo abbia perso il suo centro non provoca smarrimento, ma un senso anche qui di liberazione, che nasce dall’infinito allargarsi degli spazi. Galileo vede chiaramente anche che alla rivoluzione scientifica si accompagnerà quella delle tecnologie e dei nuovi sistemi di lavoro e di produzione. Ne scaturirà altresì il diffondersi dell’istruzione, delle nuove conoscenze e della nuova visione del mondo («sulle piazze dei mercati si discuterà di astronomia. Anche i figli delle pescivendole andranno a scuola», rr. 59-60).

Capitolo 5 · Galileo Galilei

> La problematicità del personaggio (brano B) Le forze dell’oscurantismo

Le responsabilità della scienza

Impianto didascalico e vivezza del personaggio

Nella prima scena Galileo rappresenta l’entusiasmo dello scienziato, dell’uomo moderno, per i cambiamenti in atto, per il progresso che si prospetta all’umanità. Ma tanto ottimismo, nel corso del dramma, sarà problematizzato dalla presenza delle forze della reazione e dell’oscurantismo, che sottoporranno Galileo a processo per le sue teorie scientifiche e lo costringeranno ad abiurare ad esse con la minaccia del rogo. A bilanciare l’ottimistica fiducia nella scienza e nel progresso e a problematizzare la figura dello scienziato interverrà ancora la scena XIV, in cui Galileo insisterà sulla responsabilità della ricerca scientifica, che, se non penserà esclusivamente al vantaggio dell’umanità, ad «alleviare la fatica dell’esistenza umana» (r. 28), e si limiterà ad «accumulare sapere per sapere» (r. 30), darà origine a «una progenie di gnomi inventivi» (rr. 40-41), cioè di scienziati meschini e privi di scrupoli, «pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo» (r. 41). Nelle sue note al dramma, scritte dopo la guerra, Brecht stesso ci avverte che questa idea delle terribili responsabilità della scienza gli fu suggerita dagli studiosi che consentirono la costruzione della bomba atomica: «Il misfatto di Galileo [cioè l’abiura alle sue scoperte] può esser considerato il “peccato originale” delle scienze naturali moderne». L’episodio della prima scena è molto didascalico, nell’illustrare la forza dirompente della rivoluzione scientifica, che è destinata a spazzare via tutto un modo di concepire il mondo. Però Galileo non è un personaggio astratto e statico, una pura personificazione di idee e teorie, è una persona viva, con la sua ricca umanità, i suoi meriti e i suoi limiti, come risalta dal complesso del dramma, in cui il personaggio conosce una fondamentale evoluzione nelle sue posizioni.

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. Quale discorso Galileo rivolge al giovane Andrea dopo avergli mostrato l’astrolabio (brano A)? > 2. Come argomenta il protagonista l’affermazione «Io ho in mente che tutto sia incominciato dalle navi» (brano A, r. 34)?

> 3. Qual è, secondo Galileo, il vero «scopo» che «si prefigge» (r. 27) la scienza (brano B)? > 4. Perché Galileo afferma «Ho tradito la mia professione» (brano B, r. 45)? ANALIZZARE

> 5. Delinea, attraverso i due testi analizzati, il carattere del protagonista: quali sono i tratti caratterizzanti il suo

essere scienziato? Stile Analizza il passo «E il gran risucchio d’aria […] secondo un nuovo sistema di lavoro» (brano A, rr. 53-58): quali figure retoriche, e con quale funzione, presenta? > 7. Stile Individua nel brano B, spiegandone la funzione, paragoni e similitudini.

> 6.

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 8.

Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) indica come si configura, attraverso il confronto fra i due brani, la dimensione problematica del protagonista. Nel rispondere, puoi prendere in esame, ad esempio, la riflessione sulle figure delle «pescivendole» (brano A, r. 27) e della «massaia romana» (brano B, r. 22). > 9. Esporre oralmente Considera i passi «dove per mille anni aveva dominato la fede, ora domina il dubbio» (brano A, r. 49) e «Non credo […] tende a destare il dubbio in tutti» (brano B, rr. 6-8): ritieni che le affermazioni del Galileo di Brecht vadano contestualizzate nel clima culturale del Seicento, o vadano maggiormente riferite al contesto – la vigilia della Seconda guerra mondiale – in cui l’autore novecentesco concepisce l’opera? Rispondi oralmente (max 5 minuti).

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Che Cosa Ci diCono anCora oggi i ClassiCi

Galileo L’InnovAzIone meTodoLoGICA dI GALILeo Lo sviluppo scientifico dell’età moderna è debitore a Galileo di un metodo – quello della ricerca sperimenta­ le – che, nonostante l’enorme quantità delle conoscen­ ze in seguito acquisite (e nonostante certe revisioni introdotte da più sofisticate teorie fisiche e matemati­ che), nulla ha perso della sua efficacia e validità. “Provando e riprovando” Il motto “provando e ripro­ vando”, adottato poi dagli allievi che fondarono l’Acca­ demia del Cimento dopo la morte del Maestro, riguarda non solo i problemi della scienza, ma finisce per investi­ re tutta una serie di aspetti più generali, relativi alla vita e ai rapporti fra gli uomini.

Alexander Calder, Un universo, 1934, New York, Museum of Modern Art.

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LIberTà deLLA rICerCA AL dI Là deI LuoGHI ComunI Contro l’ignoranza e il pregiudizio In primo luogo, con Galileo, il concetto di “verità” subisce un decisivo mutamento di significato e non coincide più, come per il passato, con un principio di autorità imposto dall’alto, al quale bisogna obbedire ciecamente. Il con­ cetto di prova, ampliando il campo delle sue possibili applicazioni, riguarda anche il problema del diritto e della giustizia, se si pensa che i processi venivano celebrati in segreto e che le condanne non dipende­ vano dall’accertamento delle prove ma dalla pratica disumana delle torture; in questo modo la ricerca del­ la verità diventava la negazione della verità. Sarà l’Illu­ minismo, nel secolo successivo, a denunciare queste aberrazioni, aprendo la strada a un’idea della giustizia non più fondata su princìpi astratti, che, quando sono controllati da poteri fanatici e tirannici, possono dar luogo alle peggiori ingiustizie e sopraffazioni.

L’AnTIConformISmo dI GALILeo Una ricerca libera e indipendente Per tutta la vita Galileo si è battuto contro il dogmatismo, dando for­ za e vigore a un’idea della ricerca libera e indipendente, che deve essere portata avanti nonostante le difficoltà che si possono incontrare, contro ogni tendenza autori­ taria e contro ogni sforzo volto a limitarne le possibilità. Non solo, ma per Galileo la ricerca ha un valore pro­ blematico, che coinvolge tutti i tipi e le forme della conoscenza, a cui ci si deve accostare in maniera critica e responsabile. Colpendo l’ottusità degli aristote­ lici (si ricordi la figura di Simplicio, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo), Galileo ci fa capire come si debba rifiutare ogni sorta di conformismo, ogni sciocca fiducia in quei luoghi comuni che sono spesso il frutto di ignoranza e pregiudizi. Il discorso diventa tanto più valido in una società come la nostra, sottoposta a bom­ bardamenti mediatici che tendono a livellare la menta­ lità e il modo di vivere, in un processo di massificazione che subordina la libera scelta alle mode del momento, spesso gonfiate dai messaggi pubblicitari e legate ai co­ lossali interessi economici delle multinazionali.

Capitolo 5 · Galileo Galilei

IL vALore odIerno deLLA “CurIoSITà” GALILeIAnA Non è questa la “curiosità” di cui – nella Favola dei suoni – ha parlato Galileo, facendone il fondamento della conoscenza non solo in generale, ma anche – pensia­ mo di poter aggiungere – per quanto riguarda il no­ stro lavoro quotidiano. Partecipazione e capacità critica Ora, visto che stia­ mo parlando direttamente a molti studenti, vorrem­ mo dire loro che lo studio non è passiva ripetizione di concetti appresi meccanicamente (per essere poi pre­ sto dimenticati), ma partecipazione attiva, curiosità intellettuale stimolata da quegli interessi culturali che possono concorrere a una effettiva crescita e matura­ zione dell’individuo, mettendolo in condizione di svi­ luppare una autonoma capacità di comprensione e di giudizio. E questo richiede partecipazione e coinvol­ gimento personali, desiderio di scoprire e di conosce­ re che non si limiti ai procedimenti, spesso divenuti abituali, di un semplice copia­incolla. L’uso di Internet può essere di grande ultilità, a condizione che le ri­ sposte fornite vengano messe a confronto e sottopo­ ste a verifiche. Occorre saper esaminare i dati, sceglie­ re fra le diverse opzioni, per giungere poi a valutazioni consapevoli e motivate. Il problema, d’altronde, non riguarda solo – è ovvio – lo studio della letteratura, ma l’acquisizione di quelle capacità critiche che consen­ tano a ogni cittadino (a maggior ragione tenendo conto della massa di notizie e informazioni anche ete­ rogenee da cui siamo quotidianamente investiti) di prendere posizione nei confronti dei problemi che ci riguardano. Il che significa anche, ad esempio, saper leggere un giornale, rendendosi conto del punto di vista di chi scrive (e degli interessi che eventualmente difende), o saper interpretare un discorso politico, cogliendo il vero significato di quelle parole che possono in qualche modo nascon­ dere o mistificare la realtà.

L’AmpIo SIGnIfICATo dI “rICerCA SCIenTIfICA” Si può dire, per concludere, che Galileo ha attribuito la più alta dignità alla nozione di “ricerca scientifica”, applicabile non solo alle scienze in senso stretto ma a tutti i campi del sapere. Le stesse difficoltà da lui in­ contrate per difendere la verità delle sue scoperte e per diffonderne i risultati ci fanno capire come la ri­ cerca debba essere libera e indipendente, non condi­ zionata da interessi di parte o asservita alle mire del potere politico o economico. L’importanza dell’insegnamento Al tempo stesso la lezione di Galileo sottolinea l’importanza dell’in­ segnamento, di quella trasmissione del sapere che, grazie ai discepoli riuniti nell’Accademia del Cimento e all’impegno delle menti più aperte e illuminate, è giunta, attraverso i secoli, fino a noi.

Marco Paolini in un momento del suo spettacolo teatrale, ITIS Galileo, 2011.

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dialoghi immaginari

Galileo e Marino moderatore Da decenni ormai si è consumata la crisi economica e politica della penisola italiana. Il paese non solo è diviso, ma è passato sotto il controllo delle grandi nazioni europee, che si combattono fra di loro. Quale atteggiamento deve assumere la letteratura nei confronti di questa situazione?

marino La crisi, come sempre accade, non interessa più di tanto chi sta bene economicamente, anzi… Per il resto l’età in cui viviamo è talmente satura di civiltà che ha determinato in tutti noi scrittori un senso profondo di stanchezza, di noia, di «svogliatura» (per usare una parola che mi piace), tale da farci rifiutare le soluzioni della letteratura che finora sono state praticate. Il pubblico vuole qualcosa di nuovo, che lo scuota dal suo torpore e dalle tante preoccupazioni. Come ho scritto, deve essere stupito, “meravigliato”: «è del poeta il fin la meraviglia; parlo dell’eccellente e non del goffo; chi non sa far stupir vada alla striglia». moderatore

E in concreto?

marino È ora di finirla con quel figurino femminile della donna angelicata, che dagli stilnovisti, passando per Petrarca, è giunto fino ai tanti “petrarchisti” dei nostri giorni (a dire il vero ne salverei davvero pochi, metti il Tasso e il Tansillo). Le regole ci sono anche per essere disattese. Perché non posso rappresentare la donna in tutte le sue possibili espressioni e nei più diversi atteggiamenti? La donna brutta, sciancata; la donna che nuota, che assiste a un’esecuzione capitale; la donna che si pettina e magari, dai suoi «capei d’oro», cerca di togliere i pidocchi? La varietà e la variazione sono necessarie per vincere la noia e la monotonia. 234

moderatore (rivolgendosi a Galileo). Credo che per lei il compito della letteratura debba essere diverso, se non altro perché lei è soprattutto – e come tale è conosciuto in tutta Europa – uno scienziato.

Galileo È naturale. La letteratura deve contribuire a cambiare la realtà, a migliorare le condizioni di vita degli uomini; la letteratura, se così posso dire, deve essere alleata della scienza. Sulla natura si basa la nostra conoscenza, ogni forma di conoscenza; per questo la natura deve essere sottoposta all’analisi, per trovare quelle leggi che regolano l’andamento dei fenomeni e i loro reciproci rapporti. Solo così possiamo renderci conto del mondo in cui viviamo, comprendere il significato e il valore della nostra stessa esistenza. Gli uomini hanno sempre sentito il bisogno di cercare la verità; questo compito, in particolare, spetta allo scienziato, che, nello studiare i fenomeni naturali, deve comprendere i meccanismi del loro funzionamento cercandone le prove attraverso la sperimentazione, usando cioè quel metodo sperimentale che solo può dimostrare l’esattezza delle conclusioni. Le leggi della natura non possono ingannare, perché sono volute da Dio; per questo non contraddicono le verità della fede. La loro verità, una volta accertata e dimostrata, è indiscutibile, tanto da poter essere espressa con la precisione di formule matematiche. La matematica diventa così anche la più alta espressione della speculazione filosofica. Non c’era proprio ragione… (aggiunge facendo una breve pausa, in cui il volto si rabbuia e si contrae in una espressione di dolorosa tristezza) perché, ormai vecchio, mi facessero subire l’umiliazione di un processo…

Capitolo 5 · Galileo Galilei

moderatore Si è trattato, in effetti di una pagina buia, molto buia, della nostra storia… Per lei, comunque, la letteratura deve seguire i percorsi di un processo razionale…

Galileo Credo che la letteratura, in questo senso, rappresenti anche un impegno morale, che non può eludere il confronto con la realtà, né, tanto meno, trasformarsi in un esercizio ozioso, per così dire “consolatorio”, in quanto evasione e fuga dai problemi del presente. La letteratura deve comprendere il “pensiero”, un pensiero “forte” che la governi e la disciplini; il che non esclude la libertà fantastica, che non sottostà a imposizioni dogmatiche (per questo preferisco l’Ariosto al Tasso). moderatore (a Marino). Nelle parole di Galileo c’era forse un velato rimprovero alla letteratura praticata da lei e dai suoi seguaci, i “marinisti”, accusata di uscire da ogni regola, di cercare la novità a tutti i costi, di essere strana e bizzarra, in un certo senso lontana dalla natura, oltre che dalla ragione comune.

marino Anche questa è una conseguenza della mia poetica della “meraviglia”. Allo stile uniforme, levigato (perfetto, per carità, niente da dire!) di Petrarca e seguaci eravamo oramai troppo abituati. Ci siamo quindi proposti di trovare soluzioni sorprendenti, facendo largo uso di figure retoriche capaci di ottenere effetti imprevisti e imprevedibili: le metafore, soprattutto, che mettono a confronto cose diverse e lontane fra di loro, e poi le iperboli, le allitterazioni, i giochi brillanti di parole… Per finire con un concetto divertente, spiritoso, che riveli l’acutezza dell’intelligenza e imprima ai versi il sigillo di una inattesa e sbalorditiva originalità.

moderatore La meraviglia e lo stile, ecco. Lei, Galileo, che cosa ne pensa? Come si è regolato in proposito?

Galileo Naturalmente anch’io ho posto una particolare attenzione alla cura stilistica; e chissà che un giorno, magari fra qualche secolo, a qualcuno venga in mente di considerarmi non solo un grande scienziato, ma uno dei più significativi scrittori italiani… Questo mi farebbe davvero piacere. Al contrario di Marino, però, ho cercato la parola aderente alla realtà delle cose; la parola esatta, precisa, ma anche leggera, direi quasi aerea… Quando parlo della luna, sento che la mia prosa si innalza a un grado più alto di precisione e di evidenza e insieme di rarefazione lirica. Non per nulla, come dicevo, ho molto amato l’Ariosto. Anch’io ho cercato la “meraviglia”; ma una meraviglia che deve essere prima di tutto nelle cose, non prima delle cose. Potete vedere con che emozione, all’inizio del Sidereus nuncius, mi accingo a descrivere quella superficie lunare che per la prima volta occhio umano era riuscito a osservare… moderatore Il problema riguarda anche, credo, il genere letterario prescelto.

marino Dopo avere raccolto i miei versi nella Lira e nella Sampogna, mi sono accorto che, per avere davvero successo, bisognava scrivere la grande opera letteraria, il poema; già Petrarca la pensava così, e cercò di affidare la sua fama futura – posteritati, diceva lui – all’Africa, ma gli andò male. A me, invece, è andata benissimo; il successo c’è stato, eccome!, ed è stato sorprendente, addirittura clamoroso. Intanto l’Adone io ho voluto pubblicarlo a Parigi, che era diventata il centro internazionale della cultura e dell’arte, e mi sono fatto scrivere la prefazione da un letterato di prim’ordine, Jean Chapelain, che ha definito, il mio, un «poema della pace». La gente era stufa di sentir parlare di guerre; il modello 235

L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Gerusalemme liberata non funzionava più. E poi perché negare, con l’amore, la legittima soddisfazione del desiderio? Proprio l’amore ho voluto mettere al centro del mio poema, l’amore voluttuoso, che si basa sui sensi; e non a caso, ai cinque sensi, ho dedicato un meraviglioso giardino, dove gli amanti, circondati dagli agi e dalle bellezze di una vita raffinata e lussuosa, potessero abbandonarsi ai più raffinati e squisiti piaceri e godimenti; quelli che trovano corrispondenza nella musicalità e nella ricercata costruzione delle mie ottave. Queste cose le aveva sognate anche il Tasso, ma, mentre cercava di rappresentarle, si sentiva costretto a condannarle e a negarle, per quei sensi di colpa che tutti conosciamo. Io non ho più voluto saperne di imprese eroiche e di guerre, e ho preferito rifugiarmi in quel mondo mitologico che nessuno meglio di Venere poteva rappresentare; e i miei lettori hanno mostrato di apprezzare la scelta. moderatore Se non ho capito male, la differenza riguarda i diversi rapporti che avete stabilito fra il significante e il significato, da valutare anche in relazione ai generi letterari praticati.

marino Sì, secondo me – ma parlo anche a nome dei miei amici, che condividono le stesse idee – le liriche e il poema autorizzano quella libertà di immaginazione che consente di condurre le scelte espressive anche più spericolate. moderatore Lei invece (rivolto a Galileo) non si è servito di uno stile “spericolato”…

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Galileo Tutt’altro. Nel Sidereus nuncius ho cercato di adattare le parole alla descrizione di quel paesaggio lunare che per la prima volta si rivelava al mio sguardo, rappresentandolo nella maniera più fedele che mi fosse possibile (ne ho anche eseguito alcuni disegni “dal vero”). Era una scelta che penso si possa definire realistica, in opposizione al modo con cui i paesaggi – quelli terrestri, naturalmente! – erano stati rappresentati sinora: il locus amoenus, per intenderci, con i suoi elementi convenzionali e stilizzati. L’ho scritto in latino, perché era rivolto soprattutto agli uomini di scienza europei. moderatore In volgare ha scritto invece quello che molti ritengono il suo capolavoro, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.

Galileo C’era una ragione precisa. Con il Dialogo intendevo rivolgermi soprattutto alle persone colte, quelle che praticano le corti. Cercavo il consenso delle persone più autorevoli e influenti che potessero condividere e aiutarmi a promuovere le mie idee, quelle che, come sapete, la Chiesa ha rifiutato: sia perché confermavo la validità del sistema copernicano, sia perché mettevo in discussione il principio di autorità, l’ipse dixit. Anche per questo ho scelto la forma del trattato dialogico, in cui la tradizione umanistico-rinascimentale aveva espresso la misura della sua più alta civiltà. Oltre che una formazione scientifica, del resto, ho avuto anche una raffinata educazione letteraria. Il dialogo si prestava ad accogliere, in maniera pacata e a volte anche ironica, le mie argomentazioni e i miei ragionamenti; voleva essere una sorta di «civile conversazione» (uso il titolo di un famoso trattato del Cinquecento, scritto da Stefano Guazzo), in cui la verità non fosse un’imposizione ma nascesse da un libero confronto fra posizioni diverse. Non volevo stupire, ma persuadere.

Capitolo 5 · Galileo Galilei

Facciamo il punto L’ESPERIENZA DI VITA

1. Padova, Venezia, Firenze, Roma, Arcetri: illustra le esperienze culturali significative che Galilei visse in

ognuno di questi luoghi. 2. Elenca le invenzioni di tipo tecnico-pratico (ad esempio il cannocchiale) e quelle scientifiche (ad esempio la legge dell’isocronismo) di Galileo. C’è una base comune tra esse? LA FORMAZIONE

3. Quale tipo di studi compì Galileo? 4. Cosa rappresentano Aristotele, Tolomeo e Copernico per Galileo? 5. In quali campi del sapere Galileo indirizzò le proprie ricerche? IL MODELLO D’INTELLETTUALE E DI SCIENZIATO

6. Quali rapporti Galileo ebbe con il potere sia politico sia religioso? 7. Quali rapporti lo scienziato fiorentino ebbe con la comunità scientifica del tempo? Fu favorevole allo

scambio delle informazioni tra scienziati? Quale rapporto instaurò con i propri allievi? 8. Come Galileo affrontò il problema del rapporto tra scienza e fede, tra verità scientifica e testi sacri? 9. Quale nuova concezione della scienza si deve a Galileo? 10. In quale modo nuovo Galileo usò la matematica? 11. Per esporre le proprie teorie Galileo utilizzò soprattutto la lingua volgare, i generi letterari delle lettere e del dialogo: su quali presupposti si basano queste scelte? 12. Spiega perché Galileo diede tanta importanza ai «meccanici» ed agli oggetti da loro prodotti. LE OPERE

13. Compila una tabella in cui vengono elencati sinteticamente il titolo, l’anno di pubblicazione, la lingua

usata, i temi e i destinatari delle opere di Galileo.

Bibliografia La critica

` EDIZIONI DELLE OPERE

Edizione nazionale delle Opere, a cura di A. Favaro, I. Del Lungo, U. Marchesini, 20 voll., Barbèra, Per la ricerca Firenze 1890-1909 (ristampa con nel web modifiche e aggiunte 1929-39, e ancora 1966, da cui si cita).

` ANTOLOGIE Opere, a cura di F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli 1953, edizione di riferimento per i testi in traduzione • Opere, a cura di F. Brunetti, utet, Torino 1964.

` STUDI CRITICI A. Banfi, Galileo Galilei, La Cultura, Milano 1930 • L. Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, Torino 1957 • P. Rossi, Galileo Galilei, cei, Milano 1966. Su Galileo come scrittore e letterato: T. Wlassics, Galilei critico letterario, Longo, Ravenna 1974. Sull’attività scientifica e sul pensiero filosofico: A. Koyré, Studi galileiani (1939), trad. it., Einaudi, Torino 1976 • A. Banfi, L’uomo copernicano, Mondadori, Milano 1950 • A. R. Hall, Da Galileo a Newton (1963),

trad. it., Feltrinelli, Milano 1973 • L. Geymonat, La fisica e il metodo di Galilei, in AA.VV., Fortuna di Galilei, Laterza, Bari 1964 • W. R. Shea, La rivoluzione intellettuale di Galilei (1972), trad. it., Sansoni, Firenze 1974 • P. Redondi, Galilei eretico, Einaudi, Torino 1983 • A. Battistini, Introduzione a Galilei, Laterza, Roma-Bari 1989 • S. Drake, Galilei pioniere della scienza, Muzzio, Roma 1992 • A. Frova - M. Maranzana, Parola di Galileo, Rizzoli, Milano 1998 • A. Fantoli, Il caso Galileo, Rizzoli, Milano 2003.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Ripasso visivo

GALILEO GALILEI (1564-1642) Mappa interattiva

Ripasso interattivo

ELEMENTI BIOGRAFICI

• Nasce a Pisa nel 1564 ed ha una raffinata educazione artistica e letteraria • Si dedica agli studi di medicina che abbandona per quelli di matematica e fisica • Dal 1592 insegna all’Università di Padova; si trasferisce a Firenze nel 1610 con l’incarico di “primario matematico e filosofo del granduca di Toscana”

• Nel 1615 è denunciato al tribunale dell’Inquisizione e nel 1633 è costretto all’abiura delle proprie tesi • Trascorre gli ultimi anni della sua vita relegato nella villa di Arcetri, dove muore nel 1642 POETICA E PENSIERO

• Mette a punto nuovi strumenti per la rilevazione dei dati (il compasso geometrico e militare, il cannocchiale galileiano, il microscopio) • Elabora il metodo sperimentale per la ricerca scientifica • Propone una nuova visione dell’universo che si fonda sulla teoria copernicana • Sceglie di comporre le sue opere in volgare per

divulgare le sue scoperte e il suo metodo presso un ampio pubblico • Tenta di conciliare scienza e letteratura • Adotta uno stile che favorisce la comprensione delle questioni trattate e induce alla persuasione • Sceglie la forma del dialogo perché ritiene che la discussione costruttiva e il confronto delle opinioni siano un mezzo di conoscenza

PRINCIPALI OPERE Lettere “copernicane” o “teologiche”

• Contengono una

strenua difesa delle teorie scientifiche • Affrontano il tema del rapporto tra la teoria eliocentrica e le Sacre Scritture • Rivendicano il ruolo della ricerca scientifica e la sua autonomia rispetto alla religione

Sidereus nuncius

• Trattato scientifico

• Genere: dialogo di argomento

scientifico • Il dialogo, ambientato a Venezia, è suddiviso in quattro giornate

Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo

• Trattato di argomento

in latino • Contiene la presentazione di alcune scoperte astronomiche

STRUTTURA

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Il Saggiatore

scientifico

• Confuta alcune

critiche mosse alle sue scoperte • Affronta questioni legate al metodo della ricerca scientifica • È composto in volgare per raggiungere un ampio pubblico

TEMI

• Sono contrapposte dialettica-

mente la teoria tolemaica (di cui si fa portavoce Simplicio) e quella copernicana (avanzate da Salviati)

LINGUA E STILE

• L’argomentazione scientifica

è percorsa da una vena narrativa che si avvale anche di un’abile ironia • È usato il volgare, ritenuto lingua della speculazione scientifica • Il linguaggio è chiaro e preciso

In sintesi

GALILeo GALILeI (1564-1642) Verifica interattiva

Galileo Galilei è una figura di primo piano nella storia del pensiero scientifico sia per le sue scoperte sia per l’elaborazione di un metodo di ricerca destinato a modificare radicalmente la mentalità degli studiosi. Per lo sforzo di conciliare scienza e letteratura egli segna inoltre una svolta importante nella cultura occidentale, rappresentando un modello a cui molti autori della modernità guarderanno con stima e apprezzamento.

unA vITA dedICATA ALLA SCIenzA Nato a Pisa nel 1564, ebbe una raffinata educazione artistica e letteraria. Dedicatosi agli studi di matematica e fisica, scoprì nel 1583 la legge dell’isocronismo del moto pendolare. Dopo l’invenzione di una bilancetta idrostatica, intraprese gli studi sulla gravità dei solidi, grazie ai quali nel 1689 ottenne l’insegnamento di matematica all’Università di Pisa, per essere poi chiamato, due anni dopo, all’Università di Padova, dove insegnò per diciotto anni. Nel 1609 perfezionò la fabbricazione del cannocchiale, con cui scoprì, tra le altre cose, le macchie lunari e i quattro satelliti di Giove, da lui chiamati «medicei». L’anno dopo, con il Sidereus nuncius, comunicava i risultati delle sue scoperte, che confermano di fatto la validità della tesi eliocentrica formulata da Copernico. La fama raggiunta gli valse la chiamata, da parte di Cosimo II de’ Medici, allo Studio di Pisa, con gli incarichi di “matematico straordinario” e di “filosofo del serenissimo granduca”. In un ambiente meno libero di quello veneziano, Galileo non riuscì ad evitare i sospetti. In particolare, la divulgazione delle quattro lettere dette “copernicane” (1613-1615) richiamò l’attenzione del Sant’Uffizio, che condannava le tesi copernicane e diffidava dal farne professione. Non per questo Galileo rinunciava alla battaglia per il trionfo delle proprie idee. Dopo aver pubblicato Il Saggiatore (1623), componeva, tra il 1624 e il 1630, il fondamentale Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano (1632), in cui, oltre a illustrare i risultati delle proprie ricerche e confutando quelle degli avversari, recava prove decisive a favore del sistema copernicano. L’anno dopo l’opera veniva sequestrata e Galileo, costretto a recarsi a Roma, venne incarcerato e minacciato di tortura. Il processo si concluse con l’abiura e con la condanna al carcere perpetuo, che venne commutato in una sorta di reclusione nella villa di Arcetri, dove il vecchio scienziato morì nel 1642. Nel 1638 aveva ancora pubblicato un’opera scientifica di grande importanza, i Di-

scorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze, che gettavano le basi per lo studio della statica e della dinamica.

IL nuovo meTodo SperImenTALe Con Galileo giungono alla massima espressione quelle esigenze di rinnovamento che, a partire da Leonardo da Vinci, avevano caratterizzato la cultura umanistico-rinascimentale. Gli studi da lui condotti non solo ribadivano il controllo dell’uomo sulla natura, ma contestavano dalle fondamenta il principio di autorità aristotelico, l’ipse dixit, venendo a ribadire la superiorità della cultura moderna fondata sulla ricerca scientifica. La consapevolezza della sua importanza rivoluzionaria è tale da farla coincidere con l’essenza della filosofia, che perde le sue connotazioni astratte e metafisiche, per risolversi in un metodo immanente e operativo. È una concezione che attribuisce un’importanza fondamentale al carattere sperimentale della ricerca, come strumento necessario per l’accertamento della verità; una verità che, fondata sulle dimostrazioni dell’esperienza e del tutto indipendente dal pensiero di Aristotele, trova le sue verifiche nella certezza indubitabile delle leggi matematiche. Nella speranza di evitare il conflitto con la Chiesa, Galileo, nelle cosiddette lettere “copernicane” sosterrà che tra la fede e la ragione non ci può essere contrasto o confusione. Se tra le verità scientifiche e quelle religiose ci fosse un’apparente contraddizione, questa dovrebbe essere risolta a favore delle prime, dal momento che la natura, con le sue leggi, è diretta espressione della volontà divina, mentre la Scrittura risente della mentalità dei tempi e deve quindi essere interpretata storicamente, per intenderne i «veri sensi».

IL SIDEREUS NUNCIUS e IL SAGGIATORE Pubblicato nel 1610, il Sidereus nuncius comunicava gli straordinari risultati ottenuti puntando verso la volta celeste il telescopio da lui perfezionato. Di qui l’entusiasmo per la scoperta di un realtà del tutto nuova, che nessuno aveva mai prima osservato prima, fonte di una “meraviglia” che nasce dalle cose, e non, come nella poesia barocca, dalle parole. Dedicato soprattutto ai dotti del tempo, non per questo il trattato, scritto in latino, rinuncia all’eleganza di una scrittura che sa assecondare l’andamento di una descrizione analiticamente attenta a seguire le linee e i chiaroscuri della superficie lunare, mettendoli a confronto con quelli di paesaggi terrestri già noti.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

Nel Saggiatore (1623) Galileo intendeva confutare le opinioni del padre gesuita Orazio Grassi intorno all’apparizione, nel 1618, di tre comete. Se la tesi sostenuta da Galileo era errata, l’opera è comunque importante per le considerazioni di tipo metodologico, che ribadiscono la necessità di attenersi ai dati oggettivi dell’esperienza, i soli misurabili, non potendosi dare scienza di ciò che è soggettivo. Nello stringente confronto polemico con l’avversario risalta l’abilità argomentativa dello scrittore, che sa sapientemente avvalersi delle doti dell’ironia.

IL DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO, TOLEMAICO E COPERNICANO Il capolavoro di Galileo è suddiviso in quattro giornate e ha come interlocutori contrapposti Filippo Salviati, portavoce del pensiero dell’autore, che difende il sistema copernicano, e Simplicio che, succube dell’ipse dixit, ossia del principio di autorità aristotelico, è sostenitore del sistema tolemaico. Tra loro si colloca la figura di un nobile veneziano, Francesco Sagredo, che risulta neutrale solo in apparenza, mentre in realtà si mostra convinto delle dimostrazioni di Salviati. Questi personaggi,

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che affidano le loro ragioni a un serrato contraddittorio, non sono delle fredde e astratte personificazioni, ma si fanno espressione di un’umanità autentica e vitale, che rappresenta l’atteggiamento degli individui di fronte alla realtà, in un confronto – su argomenti di assoluta rilevanza storico-culturale – fra chi vuole aprire nuove vie alla conoscenza e chi invece, come Simplicio, si aggrappa timoroso alla mentalità di un anacronistico passato. La scelta del trattato dialogico rispondeva del resto a esigenze prettamente letterarie, che, risalendo a un’illustre tradizione umanistico-rinascimentale, intendevano rivolgersi alle classi più colte, alla ricerca di un consenso che agevolasse l’affermazione delle idee sostenute. Ma c’era in più, nel Dialogo, il gusto di un’argomentazione che non è astratta dimostrazione scientifica, ma è percorsa da una felice vena narrativa che sa avvalersi dell’ironia, con efficaci indugi di tipo aneddotico. A questa va aggiunta la precisione del linguaggio, a cui contribuì, con la raffinata educazione letteraria, l’occhio dello scienziato, che sa cogliere l’esattezza dell’espressione, conservando al tempo stesso la “leggerezza” della parola, tanto apprezzata da Italo Calvino, che non ha esitato a chiamare in causa anche Leopardi.

PALESTRA DI ALLENAMENTO

PRIMA PROVA TIPOLOGIA B Analisi e produzione di un testo argomentativo

Ambito scientifico Marco Ciardi

«Io sono come Galileo» Marco Ciardi (1955) è docente all’Università di Bologna e si occupa in particolare di storia della scienza e delle tecniche. Il brano che segue è tratto da un suo articolo pubblicato sulla rivista ufficiale del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze).

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Una delle argomentazioni utilizzate dai sostenitori di teorie alternative a quelle riconosciute dalla comunità scientifica può essere riassunta in questo modo: «La mia teoria è oggi inaccettabile e considerata eretica, come a suo tempo fu giudicata inaccettabile ed eretica la teoria eliocentrica. In realtà, io sono come Galileo, ingiustamente perseguito e discriminato». Purtroppo questa affermazione non ha fondamento e nasce da una inadeguata conoscenza delle ragioni che portarono alla nascita della scienza moderna. Vediamo sinteticamente perché. Al tempo di Galileo, la scienza moderna ancora non esisteva, né esisteva la professione di scienziato (il termine “scienziato” cominciò a essere utilizzato solo nel corso dell’Ottocento). Dunque Galileo ha subito, com’è noto, il giudizio della Chiesa e dei filosofi aristotelici, ma non quello dei suoi “colleghi”. Infatti, è stato proprio Galileo, insieme ad altri grandi personaggi del suo tempo (Bacone, Cartesio, eccetera) a creare l’idea di comunità scientifica e, soprattutto, a “inventare” una nuova figura fino ad allora inesistente nella cultura europea: lo scienziato moderno. Ed è a Galileo che va il merito di aver posto le basi per la costruzione di ciò che oggi noi chiamiamo genericamente “metodo scientifico”, indicando quei criteri che devono essere rispettati se si intende essere accettati all’interno della comunità scientifica, e se si vuol cercare di provare la verità di una teoria o di un’affermazione. Cerchiamo di elencarne alcuni. 1) La scienza è l’unico luogo del sapere all’interno del quale non ha alcun valore l’appello ai testi e alle autorità del presente e del passato. Ecco come Galileo si esprimeva in uno dei suoi più celebri passi: «Venite pure con le ragioni e le dimostrazioni vostre o di Aristotele e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno da essere intorno al mondo sensibile e non sopra un mondo di carta». Nel discorso scientifico non ha senso fare riferimento alle testimonianze: «Addurre tanti testimoni non serve a niente. Perché noi non abbiamo mai negato che molti abbiano scritto o creduto tal cosa, ma si bene abbiamo detto tal cosa essere falsa». Di fronte a una certa dimostrazione della falsità di un’affermazione, sosteneva Galileo, persino i grandi maestri dell’antichità avrebbero ammesso di essersi sbagliati. Per questo motivo, coloro che ritengono di essere giunti a qualche straordinaria scoperta o formulazione teorica possono stare tranquilli. La comunità scientifica, per sua natura costitutiva, è aperta alle novità ed è sempre ben disposta a vagliare proposte originali. Proposte che talvolta hanno portato a delle vere e proprie rivoluzioni.

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L’età del Barocco e della Nuova Scienza

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Naturalmente (come tutti gli storici della scienza sanno), è certamente vero che anche in ambito scientifico non mancano interessi (prima di tutto economici), posizioni di potere, conservatorismi accademici e così via. Questa, però, non è una colpa del metodo scientifico (caso mai della natura umana), e la storia dimostra che, prima o poi, le affermazioni vere sono sempre diventate di dominio pubblico e largamente, se non unanimemente, accettate. È vero che Galileo venne giudicato eretico, ma non dagli scienziati, che nel giro di breve tempo si schierarono dalla sua parte e da quella del sistema copernicano. L’eliocentrismo, infatti, si rivelò essere vero, così come molte delle scoperte galileiane, sulla base di numerosissime verifiche. […] 2) Tutti coloro che propongono una nuova teoria o affermano di aver fatto un’incredibile scoperta devono accettare il confronto con la comunità scientifica, consentendo agli scienziati nei laboratori di tutto il mondo di poter sottoporre a verifica le affermazioni fatte o le prove addotte. Questo perché la scienza, in opposizione alla magia, nasce come sapere pubblico, controllabile e verificabile da tutti, universale e fondato sul principio dell’uguaglianza delle intelligenze. «Aggiungo poi» scriveva Galileo «che non è il mio solo occhiale, o gli altri fabbricati da me, che faccino vedere li quattro Pianeti Gioviali, ma tutti gli altri, fatti in qualsivoglia luogo e da qualunque artefice». I sostenitori di nuove idee, teorie o scoperte non hanno dunque motivo di rifarsi all’autorità di Galileo per sottolineare una eventuale o presunta discriminazione delle loro proposte. Del resto, Galileo non approverebbe, avendo stabilito per primo il rifiuto di ogni autorità nell’ambito delle dimostrazioni scientifiche. Se veramente si vuole essere come Galileo, è molto semplice: basta sottoporsi al giudizio della comunità scientifica e alle regole – costruite faticosamente nel giro di alcuni secoli – che fanno della scienza moderna l’unica forma di sapere che può fornire certezze universali condivise da tutti. (M. Ciardi, Io sono come Galileo, in “Query. La scienza indaga i mysteri”, n. 13, 2013)

COMPRENSIONE E ANALISI > 1. Scrivi la sintesi del testo in circa 40 parole.

> 2. Quale potrebbe essere il periodo che riassume la tesi di fondo sostenuta dall’autore nell’articolo? Individualo nel testo e trascrivilo.

> 3. Marco Ciardi enuncia due criteri che bisogna rispettare per essere considerati veri scienziati. Riassumili con le tue parole.

> 4. Qual è lo scopo delle citazioni di Galileo presenti nel testo?

> 5. In due punti del testo si dà una definizione complessiva della scienza moderna. Riconosci e riporta di seguito le frasi che la contengono.

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Nuovo esame di Stato

PRODUZIONE A partire dalle tue riflessioni intorno al passo che hai letto, scrivi un testo argomentativo che non superi le tre colonne di metà di foglio protocollo (circa 2500 battute al computer). Dall’articolo di Marco Ciardi emerge l’idea che se una teoria non rispetta determinati criteri non può essere considerata scientifica. In tal senso si entra nell’ambito delle cosiddette “pseudoscienze”, che offrono opinioni alternative a quelle comunemente accettate e dimostrate in diversi campi (ad esempio ufologia, astrologia, archeologia non convenzionale ecc.). Basandoti sulle tue esperienze personali e sulle conoscenze acquisite nel tuo percorso di studi, prendi in esame alcuni esempi significativi di queste pseudoscienze e spiega perché violano i criteri propri della scienza moderna. Esprimi poi la tua personale opinione sulla loro dannosità, innocuità o positività, argomentando in modo tale da organizzare il tuo elaborato in un testo coerente e coeso che potrai, se lo ritieni utile, suddividere in paragrafi.

PALESTRA DI ALLENAMENTO

PRIMA PROVA TIPOLOGIA C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito scientifico e tecnologico argomento

Come scienza e tecnologia modificano l’uomo e l’ambiente

Non ci sono dubbi sulla capacità dell’uomo di modificare – grazie al progresso della scienza e della tecnologia – l’ambiente in cui vive e sulla portata degli effetti delle nostre azioni sull’intero pianeta. Tutti questi cambiamenti, direttamente e indirettamente, condizionano in maniera sempre più significativa il nostro modo di vivere e di pensare. Rifletti su uno o più esempi di innovazioni scientifiche e tecnologiche che hanno maggiormente influito sulla realtà contemporanea, non sempre in maniera positiva, e su quali sviluppi esse potrebbero avere in futuro. Sviluppa l’argomento basandoti innanzitutto sulle tue conoscenze ed esperienze e assegna un titolo generale alla tua trattazione. Se lo ritieni opportuno, puoi strutturare il discorso in paragrafi, attribuendo a ciascuno un titolo specifico.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo 1700 -1794

I LUOGHI DELLA CULTURA

LONDRA

AMSTERDAM

PARIGI

PARIGI • Nasce la figura del philosophe (Montesquieu, Rousseau, Voltaire) ed il genere del pamphlet; viene pubblicata l’Enciclopedia (Diderot, d’Alembert). Si sviluppano il pensiero scientifico e tecnologico (Lavoisier, Montgolfier), quello filosofico (sensismo, deismo), la saggistica e il romanzo. Vi soggiornano Goldoni e Alfieri.

LONDRA • In Inghilterra, dove si afferma la Rivoluzione industriale, la borghesia si esprime attraverso la stampa periodica (Defoe, Swift) e il romanzo realistico (Richardson, Fielding e Sterne, oltre a Defoe e Swift). Smith teorizza liberismo e liberalismo e Hume sviluppa il pensiero empirista.

MILANO • È teatro di riforme promosse dall’assolutismo illuminato austriaco di Maria Teresa. L’Illuminismo lombardo si divide tra un’ala progressista (Accademia dei Pugni, nel cui ambito nasce per opera dei fratelli Verri e di Beccaria la rivista antiaccademica “Il Caffè”) e una più moderata (Accademia dei Trasformati e Parini).

FIRENZE • Il Granducato di Toscana diventa un paese all’avanguardia sotto Leopoldo I, promotore di molte riforme. La discussione sulla lingua vede gli interventi dei puristi tradizionalisti, cui si contrappongono gli innovatori. In Toscana trascorre un lungo periodo Alfieri.

VIENNA

MONACO

MILANO TORINO TORINO • Sabauda, sotto il Regno di Sardegna è dominata da un assolutismo di stampo militaresco: GENOVA teatro di importanti trasformazioni architettoniche e sede di prestigiose accademie, vi compie la sua formazione illuminista e classicista Alfieri.

SAN PIETROBURGO

VENEZIA PADOVA

VENEZIA • A Venezia, che resta un centro importante dell’editoria, nascono il giornalismo e la saggistica letteraria (“La Frusta letteraria” di Baretti); si sviluppano poi l’autobiografia (Goldoni e Casanova) e il romanzo. Gozzi, Chiari e soprattutto Goldoni animano il mondo del teatro veneziano

PISA FIRENZE

ROMA

NAPOLI • La più popolosa città d’Italia, è governata fino a metà secolo da Carlo III di Borbone, che attua un valido sistema di riforme. Sulla scia di Giannone e Vico, si sviluppa la cultura illuminista con studi storici, giuridici ed economici (Filangieri, Genovesi e Galliani). Metastasio porta al successo anche europeo i suoi melodrammi. PALERMO

ROMA • La riscoperta dell’antico rielegge Roma capitale culturale grazie allo sviluppo degli studi sulle antichità romane, che dà origine all’archeologia (Winckelmann) e all’arte neoclassica. L’Arcadia, fondata nel 1690, diffonde in le sue idee classiciste sul rinnovamento della poesia.

NAPOLI

Il contesto

Società e cultura

1

La storia politica, l’economia e il diritto

Visione d’insieme

Lo scenario politico Il Settecento è il secolo delle grandi trasformazioni storico-sociali, in cui si avviano i processi della modernità. Mentre si rafforza l’egemonia francese a scapito dell’indebolimento della Spagna, acquistano importanza la Prussia, la Russia e l’Inghilterra, che vede crescere il suo ruolo di potenza marinara, grazie all’incremento dei commerci sulle rotte oceaniche. La cosiddetta “Gloriosa rivoluzione” del 1688-89 condurrà inoltre all’instaurazione di una monarchia costituzionale, che, con la Dichiarazione dei diritti del 1689, sancisce le prerogative del parlamento, in grado di porre dei limiti all’autorità del re circoscrivendola essenzialmente all’esercizio del potere esecutivo. Era un’innovazione sostanziale rispetto all’assolutismo, ossia al governo senza limiti e restrizioni del sovrano, di cui la Francia rappresentava il più rigido esempio.

Letteratura

Cultura

Juvarra inizia la costruzione della basilica di Superga a Torino (1717) Defoe pubblica Robinson Crusoe (1719)

Hume scrive il Trattato sulla natura umana (1739)

Swift pubblica I viaggi di Gulliver (1726) Giannone pubblica la Storia civile del Regno di Napoli (1721-23)

Montesquieu pubblica le Lettere persiane (1721)

Vico pubblica la prima edizione della Scienza nuova (1725)

Richardson pubblica Pamela (1741)

Scienza e Tecnica

Storia e Società

1700-1749

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Si combatte la Guerra di successione spagnola, con l’Inghilterra, le Province Unite e i principi tedeschi opposti alla Francia (1701-14)

Con la pace di Utrecht il Ducato di Milano e il Regno di Napoli entrano sotto l’influenza austriaca (1714)

Fahrenheit inventa il termometro a mercurio (1714)

Con la pace di Vienna in Toscana si insediano gli Asburgo-Lorena e i Regni di Napoli e Sicilia passano a Carlo di Borbone (1738)

Si combatte la Guerra di successione austriaca che vede in campo la Francia e l’Inghilterra contro l’Austria (1740-48) Maria Teresa sale al trono d’Austria (1740)

Il contesto · Società e cultura Le condizioni dell’Italia

Rispetto alla situazione determinata dal gioco delle grandi monarchie europee, la condizione dell’Italia rimaneva sostanzialmente statica, riproponendo la divisione in tanti piccoli stati per lo più sottoposti al dominio delle potenze straniere e in ogni caso incapaci di svolgere un ruolo autonomo nella politica europea. Nelle sue grandi ripartizioni, se Venezia (fino al 1797), il Piemonte e lo Stato Pontificio conservavano la loro precedente fisionomia, la Lombardia entrava nell’orbita dell’influenza austriaca, sotto i sovrani Maria Teresa e Giuseppe II, promotori di riforme che ne favoriscono lo sviluppo economico-sociale; analoghi progressi si registrarono nel Regno delle Due Sicilie, governato fino al 1759 dal futuro re di Spagna Carlo III, sovrano “illuminato” che inaugurò la dinastia dei Borboni di Napoli. Non a caso questa città e Milano furono nel Settecento fra i più vivi centri culturali.

Le trasformazioni economiche La rivoluzione industriale

Diderot e D’Alembert iniziano la pubblicazione dell’Enciclopedia (1751) Goldoni scrive La locandiera (1752)

Soprattutto a livello europeo, la storia appare sempre più legata alle trasformazioni economiche, destinate a modificare radicalmente i rapporti sociali e di potere esistenti. Fondamentale, in questo senso, l’avviarsi e il compiersi, nella seconda metà del secolo, della cosiddetta “Rivoluzione industriale”, che vede all’avanguardia e come protagonista proprio l’Inghilterra, dove, grazie all’invenzione della macchina a vapore e allo sfruttamento dell’energia prodotta dal carbone, si compie la lavorazione dell’acciaio, destinata ad avere un rapido sviluppo per la grande varietà delle sue applicazioni, dagli usi domestici a quelli militari (la costruzione delle navi e dei cannoni, che rafforzano la potenza inglese sulla terra e sui mari). Si forma così un ceto imprenditoriale, che dà impulso alla crescita delle attività commerciali e intellettuali, incrementando l’influenza e il potere economico di una nuova classe sociale, la borghesia, dinamica e intraprendente. A favorire questi sviluppi risulta la politica del liberismo già avviata nel secolo precedente e teorizzata adesso dal filosofo Adam Smith (1723-90), autore nel 1776 dell’Indagine sulla natura e sulle cause del progresso delle nazioni, secondo cui solo la libera e privata concorrenza sul mercato è in grado di garantire lo sviluppo economico e sociale.

Rousseau pubblica il Contratto sociale (1762)

Voltaire pubblica il Dizionario filosofico (1764)

Sterne pubblica Vita Beccaria e opinioni di Tristram pubblica Dei Shandy, gentiluomo delitti e delle (1760-67) pene (1764)

Voltaire scrive il Candido o l’ottimismo (1759)

Kant pubblica la Critica della ragion pura (1781)

I fratelli Verri e Beccaria pubblicano la rivista “Il Caffè” (1764-66)

Goethe pubblica I dolori del giovane Werther (1774)

Parini compone le prime due parti del Giorno (il Mattino e il Mezzogiorno) (1763-65)

Sono pubblicate postume Le confessioni di Rousseau (1782-89) Alfieri compone il Saul (1782)

1750-1794 Caterina II, modello di sovrana illuminata, sale al trono di Russia (1762)

Franklin inventa il parafulmine (1752)

I coloni americani Giuseppe redigono la Dichiarazione II diviene d’Indipendenza con cui imperatore nascono gli Stati Uniti d’Austria (1776) (1780)

Watt perfeziona la macchina a vapore (1769)

Scoppia la Rivoluzione francese (1789)

Luigi XVI viene decapitato (1793)

I fratelli Montgolfier collaudano il primo aerostato ad aria calda (1783)

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo Il capitalismo moderno

L’inurbamento

Si entra nell’era del moderno capitalismo, che, con i profitti ricavati dalle industrie e dalle attività collegate, aumenta la circolazione del denaro e, con esso, il benessere dei ceti più abbienti, favorito via via dalle nuove scoperte scientifiche (il primo generatore elettrico, la pila, inventata da Alessandro Volta, gli studi sull’elettricità di Benjamin Franklin, uno dei protagonisti della Rivoluzione americana e inventore del parafulmine) e dal progredito spirito scientifico che si manifesta (ne è espressione, dopo Galileo, il grande fisico e matematico Isaac Newton, 1642-1727). La costruzione delle fabbriche (soprattutto intorno alla regione di Manchester), in continua crescita, comporta un altro dei fenomeni tipici della modernità: l’abbandono delle campagne e l’inurbamento di masse sempre più numerose, con la costituzione di una nuova classe sociale – il proletariato – che vive in condizioni igieniche e ambientali difficili e precarie, sottoposto a disumani turni di lavoro che non risparmiano la mano d’opera femminile e infantile. Sono le premesse della futura questione sociale, che darà luogo nell’Ottocento agli scioperi e alle rivendicazioni, fino ai progetti della lotta di classe, per l’affermazione delle tutele e dei diritti che troveranno nei partiti di ispirazione socialista i loro difensori e sostenitori.

La concezione dei diritti

Il dispotismo illuminato

Arte La residenza di Würzburg, apoteosi del Rococò

La Rivoluzione francese

Il mutamento delle condizioni economico-sociali favorisce l’indebolirsi delle vecchie istituzioni, introducendo, anche nei paesi dell’assolutismo, i germi di una nuova concezione dei diritti dei cittadini, di cui si fanno portatori, con i nuovi intellettuali di estrazione borghese, gli elementi più aperti di una aristocrazia oramai avviata per il resto a un irreversibile declino. Nascono i progetti di un rinnovamento che troverà espressione, in Francia, nel movimento del cosiddetto Illuminismo ( L’Illuminismo e lo spirito enciclopedico, p. 251), a cui sembreranno dare ascolto alcuni sovrani, come Federico II di Prussia (1712-86), Maria Teresa d’Austria (1717-80) e Caterina II di Russia (172996), nell’ambito del dispotismo illuminato, ossia di un potere sì assoluto ma aperto a quelle concessioni e riforme che garantivano una maggior tutela dei diritti dei sudditi. Se in Inghilterra, come si è visto, nasceva la monarchia parlamentare, arroccati sulle loro posizioni rimanevano i vecchi baluardi dell’assolutismo, come la Francia, che delle idee illuministiche sarà ben presto all’avanguardia, acuendo il contrasto fra visioni del mondo destinate a divenire sempre più incompatibili. A lungo compresso e latente, questo scontro esploderà nel 1789 con la Rivoluzione francese, segnando, con la decapitazione del sovrano, Luigi XVI, e di numerosi esponenti della nobiltà, il momento di rottura più forte negli equilibri secolari della politica europea. In un bagno di sangue nasceva, simbolicamente, la modernità; poi, nonostante i tentativi di ritornare al passato, nulla sarebbe più stato come prima. Intanto, già nel 1799 Napoleone Bonaparte veniva eletto in Francia Primo Console, preparandosi a invadere l’Europa con le sue armate. Poco prima gli abitanti delle colonie inglesi del Nordamerica si erano ribellati contro la vecchia madrepatria, ottenendo nel 1776 l’indipendenza.

A Pit Head (“Accesso di una miniera”), fine XVIII - inizio XIX secolo, olio su tela, Liverpool, National Museums, Walker Art Gallery.

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Il contesto · Società e cultura

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La cultura del primo Settecento Il ritorno alla “ragione” La condanna, maturata nel secolo XVIII dell’esperienza barocca, sottolinea l’esigenza di un nuovo senso dell’equilibrio e della misura, da ottenere sottoponendo i dati della realtà al controllo della ragione. Così agli arditi collegamenti metaforici del Barocco si sostituiva la ricerca di una relazione logica fra le cose, considerate nella loro naturale collocazione ed esaminate alla luce della ragionevolezza e del buon senso. Il richiamarsi alla natura e alla ragione teneva conto di alcuni dei risultati a cui era giunto il pensiero scientifico e filosofico del secolo precedente: da un lato l’approccio sperimentale ai fenomeni della realtà introdotto da Galileo Galilei ( L’età del Barocco e della Nuova Scienza, cap. 5, p. 180) e proseguito dai suoi discepoli; dall’altro il Discorso sul metodo di Cartesio (René Descartes, 1596-1637), che vedeva nella ragione la facoltà propria dell’uomo e lo strumento privilegiato della conoscenza, il solo in grado di accertare la verità distinguendola dall’errore (fondamentale, per entrambi, era lo strumento di verifica offerto dalla matematica). Applicato ai problemi culturali, il criterio della natura e della ragione si trasformava in quello della naturalezza e della ragionevolezza, che contestava duramente gli artifici e le bizzarrie di una poesia come quella marinista, giudicata irrazionale e priva del necessario equilibrio. Non a caso, nel trattato Della perfetta poesia (1706), un autorevole intellettuale come Ludovico Antonio Muratori ( cap. 2, A1, p. 285) si faceva assertore di una pratica dell’esercizio poetico in cui si contemperassero l’“intelletto” e la “fantasia”, come controllo razionale esercitato sull’ispirazione. Di qui l’auspicio di un ritorno a un tipo di poesia più classicamente composta, che trova la sua espressione nell’esperienza dell’Arcadia ( Le accademie, p. 256).

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Politica, economia e cultura nel Settecento POLITICA

ECONOMIA

Elaborazione del concetto di liberalismo e definizione dei diritti dei cittadini

Affermazione del cosmopolitismo: l’uomo, a qualunque paese, cultura o ceto appartenga, ha i medesimi diritti fondamentali e “naturali”

Rivoluzione industriale e applicazione delle innovazioni tecnologiche all’agricoltura

Nascita delle prime forme di Stato moderno in Inghilterra (già nel 1688), Stati Uniti (1776) e Francia (1789)

Maggiore disponibilità di risorse alimentari e conseguente aumento demografico

Sviluppo delle città come luoghi privilegiati di scambio e trasformazione dei prodotti

CULTURA

Applicazione del metodo matematicoscientifico a tutto lo scibile

Cultura orientata all’azione e nascita dell’ideale di “progresso”

Elaborazione ad opera di Adam Smith della dottrina economica del liberismo, che sancisce la necessità che il commercio e l’iniziativa economica siano liberi

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Muratori

Vico

Ma la battaglia era condotta anche contro le frivolezze di una letteratura che sembrava appagarsi delle sue conquiste formali, trascurando la serietà dei contenuti e l’impegno a favore di più concreti problemi civili e sociali, a cui lo sviluppo delle conoscenze deve essere finalizzato. Si pensi ancora all’opera di Muratori che insiste sulla serietà del lavoro delle accademie, proponendo di svincolarle dai rituali più inutili e di riunirle in una sorta di «repubblica dei letterati» che ponga al centro dei suoi interessi la «filosofia sperimentale». Non solo la scienza acquista importanza, soprattutto per quanto si riferisce alla sua utilità sociale, ma l’attenzione riguarda anche la riscoperta e lo studio del passato, che induce Muratori a raccoglierne le testimonianze più significative. Attraverso la sua erudizione comincia a delinearsi una più corretta comprensione del divenire storico che, fondamentale per intendere il presente, avrà in Giambattista Vico ( cap. 2, A2, p. 289), figura peraltro non assimilabile a una concezione in senso stretto razionalistica, un punto di riferimento destinato a esercitare la sua influenza più tardi, nella successiva età del Romanticismo. Ma anche questo nuovo senso della storia non negava l’importanza della scienza e finiva per porre l’accento, in ultima analisi, sulla responsabilità razionale delle azioni umane.

L’osservazione “scientifica” della realtà: il vedutismo di Canaletto

Antonio Canal detto il Canaletto, Il Campo di Rialto, 1758-63, olio su tela, Berlino, Gemäldegalerie.

La veduta del Campo di Rialto, realizzata da Canaletto negli anni della maturità, mostra il livello di perfezione cui era giunta la tecnica del pittore veneziano. Abbandonati i cieli rosati, le piazze monumentali e persino l’acqua della laguna, che tanto aveva contribuito con i suoi riflessi ad amplificare il fascino delle architetture veneziane, Canaletto concentra la sua attenzione su una porzione di città apparentemente poco significativa. L’idea di ritrarre il Campo, sede del mercato centrale, infatti non fu sua, ma del commerciante tedesco Sigmund Streit che intendeva celebrare con una serie di dipinti i luoghi di Venezia in cui aveva costruito la sua fortuna. Con le spalle al Ponte di Rialto, il pittore restituisce la piazza con precisione scientifica descrivendo senza errori il disegno della rinnovata pavimentazione e la fuga dei portici su entrambi i lati. Secondo le fonti, l’abilità di Canaletto prospettico era coadiuvata dall’uso della camera oscura: uno strumento che, sfruttando le leggi dell’ottica, consentiva ai pittori di ottenere immagini nitide e obiettive dei paesaggi urbani e naturali. Per questa sua caratteristica di coniugare felicemente arte e scienza, la camera oscura venne accolta entusiasticamente dagli intellettuali illuministi e utilizzata da generazioni di vedutisti per tutto il Settecento.

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Il contesto · Società e cultura

3 I “lumi”

La barbarie del Medioevo

L’Illuminismo e lo spirito enciclopedico La rottura rispetto al passato Quello che, per il primo Settecento, abbiamo chiamato il “ritorno alla ragione” avrà un salto di qualità, affermandosi nella maniera più compiuta e radicale, intorno alla metà del secolo, nel movimento di uomini e di idee che verrà chiamato in Italia Illuminismo. La sua origine è però in Francia, dove si parla di siècle des lumières (“secolo dei lumi”) e il termine lumières si riferisce a quelle “luci” che la mente razionale dell’uomo deve introdurre nel campo della conoscenza, per squarciare le “tenebre” delle superstizioni e dei pregiudizi che nei secoli passati hanno ostacolato la ricerca della verità e il riconoscimento degli stessi elementari diritti umani. Il bersaglio della polemica è rappresentato soprattutto dal Medioevo, considerato come un periodo di ignoranza e di barbarie, le cui conseguenze negative si sono protratte fino al presente, incarnandosi nel dogmatismo religioso e nell’assolutismo dei poteri monarchici. Il liberarsi da questi condizionamenti è ritenuto fondamentale per gli sviluppi stessi della società moderna, di cui l’Illuminismo vuole rappresentare la coscienza critica e problematica, facendosi interprete delle nuove esigenze: quelle legate ai processi di uno svi-

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Le radici culturali e i caratteri dell’Illuminismo Empirismo inglese

Razionalismo cartesiano

ILLUMINISMO

Nuova scienza di Copernico, Galilei, Newton

Razionalismo: fiducia nella ragione come strumento di conoscenza della realtà

Ottimismo: la conoscenza razionale può migliorare la realtà

Cosmopolitismo: la ragione accomuna gli uomini di tutte le nazioni; l’uomo razionale è pertanto “cittadino del mondo”

Atteggiamento critico nei confronti dei pregiudizi basati sul principio di autorità

Filantropismo: atteggiamento solidale e fraterno verso gli altri uomini

Rifiuto di ogni forma di dogmatismo e di fanatismo

Tolleranza delle opinioni e delle mentalità altrui, seppur non condivise

Critica delle religioni tradizionali

Deismo: religiosità basata sul convincimento razionale e non sulla fede

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Contro l’ipse dixit

Le leggi della natura

I diritti dell’uomo

Contro l’assolutismo

luppo scientifico da cui stava nascendo la “Rivoluzione industriale” e alle richieste di un cambiamento politico che, se condurrà a fine secolo ai traumatici eventi della rivoluzione francese, aprirà poi la strada all’affermarsi dei sistemi democratici. Se nei decenni precedenti la ragione era stata l’elemento propulsore di un riformismo moderato e graduale, con l’Illuminismo assume un ruolo ben più deciso di rinnovamento e di rottura rispetto al passato, proponendosi come una concezione filosofica totale, in grado non solo di rimettere in discussione tutti i fondamenti della vita civile e sociale ma anche di avviare una trasformazione antropologica rivoluzionaria della mentalità e dei costumi dell’uomo occidentale. Grazie alla ragione (in cui si volle addirittura vedere una sorta di “divinità”), intesa come guida dei comportamenti e dei giudizi umani, viene meno il rispetto di quell’autorità (l’aristotelico ipse dixit, già contestato da Galileo) che, imposta dall’alto, non sia comprovata dall’esperienza e giustificata sul piano di una dimostrazione logica. La ragione, a sua volta, ha il suo fondamento nelle leggi della natura, che devono informare anche una concezione del diritto (giusnaturalismo) secondo cui gli uomini nascono liberi e uguali, dotati di una pari dignità. Se queste premesse presupporranno motivazioni anche diverse (si vedano i passi di Montesquieu e di Rousseau, cap. 3, A3, p. 321 e A4, p. 327), resta la fondamentale rivendicazione del valore dell’individuo in quanto tale, che esige il rispetto delle sue prerogative fondamentali. Queste verranno riassunte nel motto liberté, égalité, fraternité (“libertà, uguaglianza, fratellanza”) e troveranno la più articolata formulazione nella celebre Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino ( La voce dei documenti, p. 254), approvata a Parigi il 26 agosto 1789 dall’Assemblea Nazionale (già in precedenza la nascita degli Stati Uniti d’America era stata sanzionata da una analoga affermazione dei diritti). Era la messa in discussione dei governi assoluti, che consideravano il loro potere derivato direttamente da Dio e, di conseguenza, non sottoposto a controlli o restrizioni, e l’avvio di una concezione democratica dello Stato, governato dai rappresentanti del popolo; al tempo stesso si proponeva una revisione dei processi criminali, con il rifiuto della pratica della tortura come mezzo per estorcere una presunta verità (se ne fecero carico, in particolare, gli illuministi italiani Pietro Verri e Cesare Beccaria, che nell’opera Dei delitti e delle pene si pronunciò nettamente contro la pena di morte, cap. 4, A1, p. 335 e A2, p. 339).

L’Enciclopedia

Il piano dell’opera

L’esigenza di non accettare più passivamente le “verità” tramandate dalla tradizione porta non solo a rivedere le nozioni intellettuali e i valori del passato, ma giunge all’elaborazione di una ideologia basata su un sistema di valori laici e alternativi. I fondamenti di queste aperture trovano la loro codificazione nell’impresa che meglio rappresenta lo spirito dell’Illuminismo: l’Enciclopedia. Con il sottotitolo di Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, l’opera venne diretta da Denis Diderot con la collaborazione di Jean Baptiste d’Alembert, che vi pubblicherà più di mille voci. Preceduto da un piano dell’opera di Diderot, stampato a parte, il primo Denis Diderot, Il circolo letterario di Diderot, 1888, incisione a colori da “The Artistic Illustration”.

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Il contesto · Società e cultura

Caratteristiche dell’opera

volume (1751) era introdotto da un Discorso preliminare, scritto da d’Alembert, in cui venivano esposti gli intendimenti, che prospettavano il nuovo orientamento, insieme sperimentale e razionale, delle conoscenze scientifiche e filosofiche. L’opera, che venne conclusa nel 1772, constava di 17 volumi di grande formato, accompagnati da 11 volumi di tavole. A questa impresa monumentale collaborarono i più noti illuministi, da Montesquieu a Voltaire, da Rousseau a Condillac. Rispetto alle “enciclopedie” medievali, espressione di una conoscenza fantastica sottratta a ogni verifica sperimentale, l’“enciclopedia” illuministica si offriva come un progetto razionale di catalogazione e illustrazione dei diversi rami dello scibile, fornendo un modello ancora valido nei secoli successivi; non rinunciava inoltre a prese di posizione precise, come proposta e rivendicazione delle rinnovate aperture culturali. Le sue – a differenza di quanto accade nelle moderne enciclopedie, cartacee e adesso on line – non erano però voci puramente compilative, ma trattazioni degli argomenti di tipo problematico e costruttivo, volte a risistemare i fondamenti del sapere sulla base di una mutata visione della realtà. Non mancarono comunque le difficoltà – l’opera venne più volte sospesa dalla corte e nel 1759 fu condannata dalla Chiesa – che tuttavia non impedirono il compimento dell’impresa (volumi di supplemento e di tavole uscirono ancora nel 1777 e nel 1780).

La diffusione delle nuove idee Crisi della prospettiva eurocentrica

Il “cosmopolitismo”

La filantropia

L’utile e il piacere

L’esercizio libero e indipendente delle facoltà intellettuali dell’individuo portava così a un ampliamento degli orizzonti mentali, in base ai quali comincia a entrare in crisi la prospettiva della visione eurocentrica, basata sulla convinzione che il punto di vista dell’uomo occidentale sia la sola unità di misura per comprendere e giudicare la realtà; nelle Lettere persiane il già ricordato Montesquieu ( cap. 3, A3, p. 321) immagina un protagonista che, arrivando dall’Oriente, porta uno sguardo critico e straniante, nel nome di un buon senso razionale, sui costumi europei. Sul problema un grande storico delle civiltà, Paul Hazard, ha pubblicato nel 1935 un libro intitolato La crisi della coscienza europea, in cui parla di una crisi favorita dalla conoscenza degli usi e dei costumi degli altri popoli, a cui avevano dato impulso le grandi scoperte geografiche avviate ormai da due secoli. Ma l’attenzione rivolta a ciò che era lontano e diverso, insieme con l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini, portava a una nuova concezione della tolleranza, indicativa di quel “cosmopolitismo” che caratterizza la mentalità e il comportamento dell’intellettuale settecentesco; il quale, oltre ai frequenti viaggi, considera la propria azione non circoscritta entro i confini nazionali, ma in un contesto in senso lato internazionale, in quella che comincia a delinearsi come un’ideale patria dell’intelligenza. Si può dire che l’Illuminismo porti a compimento, ampliandone la sfera, quella concezione del valore dell’individuo, della “dignità dell’uomo” (de dignitate hominis) a cui era pervenuta la cultura umanistico-rinascimentale. Nell’affacciarsi di un’idea democratica della convivenza umana si affermava anche quel concetto di “filantropia” che, predicando una sorta di fratellanza universale, risultava contrario alle violenze e alle prevaricazioni. Di qui l’attenzione per il benessere degli individui, che si traduce nei programmi di riforme volte a migliorarne le condizioni di vita (il Settecento è stato chiamato il “secolo riformatore”), anche sul piano delle condizioni sanitarie e ambientali (un poeta come Giuseppe Parini scriverà, con l’ode La salubrità dell’aria, il primo testo “ecologico” della nostra storia letteraria, cap. 8, T1, p. 499). A questo intento si collega la ricerca dell’“utile”, di cui anche la letteratura deve farsi carico, per non essere quell’esercizio ozioso di cui gli illuministi accusavano gli scrittori del passato. Muta quindi l’idea stessa della letteratura, che, attenta al benessere degli individui, deve proporsi l’“utile come scopo” (per usare una formula che ritroveremo in Manzoni), non per un intento moralistico ma in quanto si 253

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Il deismo

collega alle riflessioni sulla felicità e sul piacere, che si sviluppano nell’ambito della filosofia sensista, secondo cui i sensi rappresentano la forma privilegiata di conoscenza (importante, in questo senso, il pensiero di Étienne Bonnot de Condillac, formulato nel Trattato delle sensazioni, 1754, e ripreso da d’Alembert negli Elementi di filosofia del 1759). Il rifiuto del dogmatismo e del fanatismo, infine, porta a elaborare una sorta di religione naturale, il “deismo”, che non coincide con nessuna delle religioni storiche, ma presuppone l’esistenza di un essere supremo, creatore di tutte le cose, visto come una sorta di intelligenza razionale, che presiede alle leggi della natura e pretende il rispetto dei doveri fondamentali che ognuno ha nei confronti dei propri simili. Se le idee dell’Illuminismo si svilupparono in Italia (soprattutto a Milano e a Napoli) sotto l’influenza della cultura francese, non per questo mancarono di ottenere risultati degni di rilievo (la già ricordata opera di Beccaria ebbe una immediata e clamorosa risonanza europea). In Francia, irradiato da un centro propulsore come Parigi e reso sistematico da un’opera come l’Enciclopedia, l’Illuminismo raggiunse ben presto l’importanza e il prestigio di un grande movimento di idee, organico e originale, in grado di rifondare i rapporti fra l’individuo e la società; in Italia (dove si sviluppò in maniera più discontinua) l’intento riformatore si esercitò su questioni più circoscritte e su problemi più concreti, di tipo economico e giuridico, rifiutando inoltre le soluzioni radicali, come quelle di Rousseau nei confronti della società e di Voltaire nei confronti della religione.

La voce dei documenti | OPERA: La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino

La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino La Rivoluzione francese ha il suo momento emblematico, il 14 luglio 1789, con la “presa della Bastiglia”, la fortezza dove erano detenuti i prigionieri politici; poco dopo, il 26 agosto, si riunisce l’Assemblea Nazionale, in cui i rappresentanti dei comitati rivoluzionari pronunciano la fondamentale “dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”. Ad essa si ispirerà ancora la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo formulata nel 1948 e adottata da 58 paesi.

I rappresentanti del popolo francese costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa dichiarazione costantemente pre5 sente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i loro diritti e i loro doveri; affinché maggior rispetto ritraggano gli atti del Potere legislativo e quelli del Potere esecutivo dal poter essere in ogni istante paragonati con il fine di ogni istituzione politica; affinché i reclami dei cittadini, fondati d’ora innanzi su dei principi semplici ed incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della Costituzione e la felicità di tutti. Di conseguenza, 10 l’Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell’Essere Supremo1, i seguenti diritti dell’uomo e del cittadino: Art. 1 – Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune. 1. Essere Supremo: si riferisce alla concezione del “deismo” propria degli illuministi, che non credevano nei dogmi delle religioni storiche, ma presupponevano l’esistenza di una

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divinità, l’“Essere Supremo”, come principio ordinatore razionale del mondo.

Il contesto · Società e cultura

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Art. 2 – Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. Art. 3 – Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa. Art. 4 – La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Tali limiti possono essere determinati solo dalla Legge. Art. 5 – La Legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina. Art. 6 – La Legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi, sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti. Art. 7 – Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla Legge, e secondo le forme da essa prescritte. Quelli che sollecitano, emanano, eseguono o fanno eseguire degli ordini arbitrari, devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire immediatamente: opponendo resistenza si rende colpevole. Art. 8 – La Legge deve stabilire solo pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una Legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, e legalmente applicata. Art. 9 – Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato colpevole, se si ritiene indispensabile arrestarlo, ogni rigore non necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla Legge. Art. 10 – Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge. Art. 11 – La libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge. Art. 12 – La garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino ha bisogno di una forza pubblica; questa forza è dunque istituita per il vantaggio di tutti e non per l’utilità particolare di coloro ai quali essa è affidata. Art. 13 – Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese d’amministrazione, è indispensabile un contributo comune: esso deve essere ugualmente ripartito fra tutti i cittadini in ragione delle loro capacità. Art. 14 – Tutti i cittadini hanno il diritto di constatare, da loro stessi o mediante i loro rappresentanti, la necessità del contributo pubblico, di approvarlo liberamente, di controllarne l’impiego e di determinarne la quantità, la ripartizione, la riscossione e la durata. Art. 15 – La società ha il diritto di chiedere conto della sua amministrazione ad ogni pubblico funzionario. Art. 16 – Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione. Art. 17 – La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previo un giusto e preventivo indennizzo. P. Biscaretti di Ruffia, Le Costituzioni di dieci Stati di “democrazia stabilizzata”, Giuffrè, Milano 1994

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Guida alla lettura Le conquiste del pensiero illuministico La limpida formulazione dei diritti contenuta in

questa dichiarazione sintetizza, attraverso punti di una chiarezza ammirevole, le più alte conquiste del pensiero illuministico, a partire dal principio secondo cui «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti» (r. 12). Il fondamento di questa libertà è garantito dalla legge, che non è un’imposizione arbitraria, dipendente dall’autorità assoluta di un sovrano, ma consiste nell’«espressione della volontà generale». Le leggi e la giustizia Si afferma così un nuovo concetto della giustizia, che deve somministrare solo «pene strettamente ed evidentemente necessarie», tenendo conto di quella che si chiama adesso “presunzione di innocenza” («Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato colpevole», r. 37). La libertà di pensiero e di stampa Fondamentale è poi l’affermazione della libertà di pensiero e di stampa, secondo cui «ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge» (rr. 43-44). La salvaguardia del bene pubblico comporta anche la condanna della corruzione (Art. 15), così come l’ordine sociale si basa sul principio della separazione dei poteri (Art. 16), legislativo, esecutivo e giudiziario, la cui indipendenza è garanzia del buon funzionamento dello Stato. Cittadini, non sudditi Ne consegue che gli individui non vengono più considerati sudditi ma cittadini, forniti di uguali diritti e doveri. Sono questi i fondamenti da cui avranno origine le moderne costituzioni e che, nella loro persistente validità e attualità, alimentano i sistemi democratici in cui viviamo e le forme più mature della convivenza civile, fondaJean Jacques François LeBarbier, Déclaration des droits ta sul diritto e sulla giustizia. de l’homme et du citoyen, 1789, olio su tela con pagine a stampa incollate, Parigi, Musée Carnavalet.

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Gli intellettuali e le istituzioni culturali in Italia Le accademie

La Crusca e l’Arcadia

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Se le novità introdotte dall’Illuminismo aprono nuove prospettive e orientamenti culturali, non per questo viene meno la natura delle vecchie accademie. Proseguono le iniziative dell’Accademia della Crusca, che tra il 1729 e il 1738 pubblica una nuova edizione del suo dizionario; particolarmente vivace si presenta fin dall’inizio l’attività dell’Accademia dell’Arcadia ( L’età del Barocco e della Nuova Scienza, Il contesto, p. 10), che, fondata nel 1690 a Roma, tra gli altri, da Gian Vincenzo Gravina, Giovanni Mario Crescimbeni e Giambattista Felice Zappi nell’ambito del cenacolo culturale della regina Cristina di Svezia, si espande rapidamente (“colonie” arcadiche

Il contesto · Società e cultura

L’Accademia dei Pugni

vennero fondate nelle principali città italiane), promuovendo durante tutto il Settecento una nuova concezione, rispetto a quella barocca, dell’esercizio poetico. Ma si tratta, anche in questo caso, di istituzioni a carattere ufficiale, i cui regolamenti corrispondono a cerimoniali legati ancora alle convenzioni del passato. Ben diversa è la natura dell’Accademia dei Pugni, fondata nel 1761 a Milano dai fratelli Pietro e Alessandro Verri ( cap. 4, A2, p. 339 e cap. 5, A2, p. 359), che, coinvolgendo un ristretto gruppo di intellettuali (la personalità più nota è quella di Cesare Beccaria), diventerà il centro italiano più importante per l’elaborazione delle nuove idee illuministiche. Nata al di fuori di ogni ufficialità e basata sulla libera partecipazioni di amici uniti dal comune intento di promuovere le condizioni di un miglioramento civile e culturale, gli incontri – che si svolgevano nell’abitazione di Pietro Verri – davano luogo a un confronto di idee che si trasformava in accese discussioni, tali da giustificare metaforicamente il nome assunto dall’Accademia.

I giornali “Il Caffè”

I modelli inglesi

La pubblica opinione I giornali italiani

I progetti di riforme che nascevano – favoriti dalle opportunità di collaborazione consentite da un sovrano illuminato come Maria Teresa d’Austria – trovarono spazio sul periodico politico e letterario “Il Caffè”, che, fondato nel giugno 1764 e diretto da Pietro Verri, cessò le pubblicazioni nel maggio 1766, concludendo al tempo stesso l’esperienza dell’Accademia dei Pugni da cui era nato. Il titolo stesso della rivista – come vedremo nei dettagli analizzando l’intervento programmatico d’apertura ( cap. 5, T2, p. 355) – voleva essere indicativo di una pratica culturale sottratta a ogni condizionamento, nella misura in cui il “caffè” simboleggiava un luogo aperto agli incontri e ai confronti, ambiente di vita confortevole dove ci si poteva comportare liberamente a piacere, riflettendo in silenzio o leggendo i giornali che giungevano anche dagli altri paesi europei. Le riviste, o gazzette, sono infatti uno dei fenomeni culturali più rilevanti e indicativi del secolo, segno dello sviluppo dell’editoria che si verifica nel Settecento (soprattutto con l’incremento della saggistica legata ai progressi delle varie scienze) ma anche dell’esigenza, per così dire “enciclopedica”, di una divulgazione che metta al corrente un più ampio numero di individui di ciò che accade e di cui è utile avere conoscenza. Siamo alle origini del moderno giornalismo, e non a caso, con “The Tatler” (“Il chiacchierone”, 1709-11) e “The Spectator” (“Lo spettatore”, 1711-12) di Joseph Addison e di Richard Steele (ma già prima con “The Review”, “La rivista”, fondata nel 1704 da Daniel Defoe, cap. 6, A2, p. 373) i modelli vanno cercati in Inghilterra, la prima nazione dove, con la rivoluzione industriale, la borghesia prende coscienza dei suoi diritti e comincia a imporsi come classe egemone. Di qui il costituirsi del concetto fondamentale di una “pubblica opinione”, che, sia pure in proporzioni più limitate, comincia a formarsi anche in Italia. Tra i giornali pubblicati si possono ricordare il “Giornale dei letterati d’Italia” (1710-40); “La gazzetta veneta” e “L’osservatore veneto” (1760-62), compilati interamente dal loro fondatore, Gasparo Gozzi; “La frusta letteraria” (Venezia, 1763-65) di Giuseppe Baretti, che, con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, “fustigò” aspramente il vuoto formalismo della letteratura del tempo. Carattere bibliografico ebbe la “Biblioteca oltremontana” (1787), che, partendo dalla considerazione dell’impossibilità di leggere le opere scientifico-letterarie pubblicate in sempre maggior quantità, ne proponeva dei riassunti, per tenere aggiornati i lettori colti dei progressi compiuti dalle scienze e dalle arti.

La condizione degli intellettuali Ma il giornalismo e l’editoria non erano certo in grado, soprattutto in Italia, di garantire l’indipendenza economica dell’intellettuale, che, come condizione necessaria della sua attiva presenza nella vita sociale, rivendica la propria libertà di comportamento e 257

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo Contro il mecenatismo

L’intellettuale e le riforme

di giudizio. L’esigenza induceva il ricco e aristocratico Vittorio Alfieri ( cap. 9, p. 562), nel trattato Del principe e delle lettere, a mettere in discussione l’istituto del mecenatismo, che vedeva lo scrittore cortigiano subordinato, se non asservito, alle direttive del signore. Seppure destinato ad esaurirsi, il fenomeno, soprattutto nella prima parte del secolo, era ancora vivo, ad esempio nella figura del “poeta cesareo”, stipendiato dal monarca, come nel caso di Metastasio ( cap. 1, A3, p. 276); ben diversa si presenta invece la figura dell’intellettuale, come consulente dei sovrani illuminati nei progetti riformatori. Indipendentemente dalla possibilità di vivere con le proprie rendite, come accadde ad Alfieri, resta il fatto che l’idea dello scrittore impegnato comincia a essere associata al bisogno e alla concretezza di un lavoro utile, per quanto riguarda ad esempio l’aristocratico Pietro Verri, funzionario statale, o il borghese Giuseppe Parini, precettore presso nobili famiglie.

George Woodward, Lloyd’s Coffee House, 1798, stampa a colori, Calke Abbey (UK), Caricature Room.

Facciamo il punto 1. Come si trasforma lo scenario politico europeo e italiano nel corso del Settecento? 2. Quali sono le principali conseguenze della “Rivoluzione industriale” dal punto di vista sociale ed econo-

mico? 3. Che cosa si intende con il termine “liberismo”? 4. Individua quali sono le tappe principali che portarono a una concezione democratica dello Stato. 5. Che cosa significa il termine “Illuminismo”? 6. Quali sono i fondamenti culturali basilari della mentalità del primo Settecento? 7. Che cos’è e quali caratteristiche ha l’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert? 8. Quali sono le principali accademie che nascono in Italia nel corso del XVIII secolo? Quali sono le loro principali attività? 9. Quali sono le principali caratteristiche del giornale milanese “Il Caffè”? 10. Qual è il ruolo del letterato italiano nella prima parte del Settecento? Che tipo di rapporto si instaura con il potere?

258

Il contesto

Storia della lingua e fenomeni letterari

1

La questione della lingua nel Settecento Tradizionalisti e innovatori

Filo rosso Storia della lingua L’Accademia della Crusca

Un classicismo moderato

Le tendenze innovatrici dell’Illuminismo

Persistono nel Settecento le posizioni tradizionaliste che si rifanno alle tesi dell’Accademia della Crusca e difendono il modello normativo degli scrittori fiorentini del Trecento. Ne è un significativo rappresentante Carlo Gozzi (1720-1806), autore di rilievo anche per la sua produzione drammatica, che vedremo impegnato a contrastare la riforma goldoniana della commedia, e che difende la purezza della lingua in polemica con la ben più aperta cultura illuministica. Nel 1783 però l’Accademia della Crusca viene sciolta dal Granduca di Toscana Pietro Leopoldo e confluisce nell’Accademia fiorentina: è un segnale significativo, che fa capire come una certa tradizione si vada esaurendo sotto la spinta di nuove condizioni storiche (anche se la corrente puristica rimarrà attiva ancora nel primo Ottocento). Ai tradizionalisti si oppone una schiera di teorici innovatori, però ampiamente articolata al suo interno. All’inizio del secolo, nell’età del razionalismo e dell’Arcadia, Ludovico Antonio Muratori ( cap. 2, A1, p. 285) e Gian Vincenzo Gravina (16641718) assumono posizioni di un classicismo moderato: pur restando ossequenti alla tradizione, sono aperti a un uso più moderno della lingua, più rispondente alle esigenze della vita civile e della nuova cultura, che si va avviando all’Illuminismo. Per questo appare prioritario il problema della capacità comunicativa della lingua, che la rigidità puristica e retorica della tradizione minaccia di compromettere: «Chi scrive ad altri», sostiene Muratori, «scriva per farsi intendere». Nel secondo Settecento, con l’affermarsi della civiltà illuministica, si accentuano le tendenze innovatrici. Anche qui però occorre distinguere posizioni più moderate, che pur propugnando un rinnovamento della lingua non hanno atteggiamenti di rottura nei confronti della tradizione. Esse sono rappresentate in particolar modo da Melchiorre Cesarotti (1730-1808), che insiste sul fatto che la lingua si modifica continuamente e che è assurdo volerla fissare a un dato modello fuori del tempo; con questo però non respinge la tradizione, che deve restare comunque un punto di riferimento. Gli intellettuali illuministi che fanno capo alla rivista “Il Caffè” ( cap. 4, pp. 334-335) assumono invece posizioni di rottura radicale, in coerenza con la battaglia civile e culturale da essi condotta. Esemplare a tal proposito è l’articolo di Alessandro Verri, Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca ( cap. 5, T3, p. 359), in cui si respinge la letteratura «di parole» in nome di una letteratura «di cose», che si impegni sui concreti problemi dell’attualità. A tal fine, Verri compie una scelta linguistica decisamente ostile ad ogni purismo: arriva infatti a proclamare che se italianizzando parole francesi, inglesi, turche, greche, arabe, slave si arrivasse a esprimere più chiaramente le idee, non bisognerebbe avere alcuna esitazione nel farlo. 259

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Il contesto storico Un nuovo ruolo dell‘intellettuale e un nuovo pubblico

La più ampia diffusione dell’italiano

L’uso del francese

Il linguaggio della scienza

Il latino

I dialetti

260

Rispetto al secolo precedente, nel corso del Settecento si presentano fattori di deciso rinnovamento nell’uso della lingua, di cui il dibattito teorico sopra richiamato a grandi linee è lo specchio. Cambiano innanzitutto il ruolo e la fisionomia dell’intellettuale: al letterato accademico tradizionale viene sempre più sostituendosi una figura nuova, impegnata nella battaglia culturale e civile, che si imporrà pienamente nella seconda metà del secolo con l’affermazione dell’Illuminismo. Si fa più ampia e più rapida la circolazione delle idee, con la nascita di fogli periodici che si propongono di diffondere notizie e cognizioni utili, e con la più stretta e intensa comunicazione con le culture straniere, soprattutto con la Francia e l’Inghilterra, in nome del cosmopolitismo, che è uno dei princìpi basilari del secolo. Si allarga anche il pubblico potenziale della letteratura e della cultura in genere, che non è più composto soltanto di accademici e di letterati di professione e comincia a guadagnare più ampi strati di ceto medio (avvocati, giudici, notai, medici, funzionari amministrativi...). Tutto questo si riflette innanzitutto in un allargamento dell’area di impiego dell’italiano, rispetto alle epoche precedenti: più persone, usufruendo dei nuovi mezzi di comunicazione e venendo a contatto con più occasioni di scambio culturale, sono indotte ad usare la lingua unitaria. Certo è che gran parte della popolazione, il proletariato urbano e contadino, non è ancora alfabetizzata, quindi resta esclusa dall’uso della lingua e confinata nel cerchio ristretto del dialetto locale. Inoltre, anche dove viene usato, l’italiano rimane una lingua prevalentemente scritta (se si eccettua la Toscana, per il solo fatto che il dialetto vi coincide largamente con la lingua). Limitato è l’uso orale, nella comunicazione quotidiana, dove predominano ancora i dialetti, anche da parte dei ceti colti, salvo il caso in cui si incontrino persone provenienti da regioni diverse. L’italiano viene impiegato in occasioni ufficiali e solenni, discorsi pubblici, arringhe in tribunale, prediche in chiesa, ma in tal caso generalmente ricalca le forme della lingua scritta. In Veneto peraltro il dialetto, magari nobilitato con apporti dell’italiano, resta la lingua d’uso anche nelle occasioni ufficiali. Con l’affermarsi del cosmopolitismo e l’intensificarsi dei rapporti con la cultura d’oltralpe si diffonde largamente, nei ceti colti, l’uso del francese, grazie al prestigio indiscusso della Francia in campo letterario, filosofico e culturale in genere (e grazie anche al fatto che il francese è la lingua della diplomazia). Gli intellettuali italiani sono di norma bilingui, leggono correntemente le opere francesi e in quella lingua comunicano, epistolarmente o di persona, con i colleghi di quel paese. Ne deriva che parole francesi si inseriscono abbondantemente nel lessico italiano, nella forma originaria o italianizzate (e ne restano tracce copiose nell’italiano attuale). A questo “imbarbarimento” reagiscono i tradizionalisti, ma come si è visto gli innovatori replicano difendendo a spada tratta l’arricchimento della lingua grazie agli innesti stranieri e la maggior chiarezza di comunicazione che ne può derivare. Ad innovare e ad arricchire il lessico contribuisce il prestigio che nel secolo assumono le scienze, soprattutto grazie alla divulgazione tra il pubblico dei non specialisti: entrano nel linguaggio comune e nelle opere letterarie termini provenienti dalla chimica, dalla botanica, dalla fisica, dalla medicina, dall’economia (ne è un bell’esempio il «giovin signore» del Giorno di Parini, che fa sfoggio di un simile lessico per farsi bello con le signore, ed è per questo irriso dal poeta ( cap. 8, p. 486). Il latino è ancora di norma usato nell’insegnamento universitario: i professori fanno lezione in latino non solo nelle facoltà umanistiche, trattando di letteratura o filosofia, ma anche in campo economico e scientifico, nella medicina, nella matematica, nella fisica, nell’astronomia…, e in latino spesso scrivono i loro trattati. Per contro, i dialetti continuano ad avere notevole importanza nella produzione letteraria: basti pensare a Carlo Goldoni ( cap. 7, p. 396), che scrive alcune delle sue commedie più importanti in veneziano, o addirittura nella parlata di Chioggia (Le baruffe chiozzotte), oppure al poeta siciliano Giovanni Meli (1740-1815).

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari La semplificazione della sintassi

2

Oltre che nel lessico importanti innovazioni sono rilevabili nella sintassi. La tradizione letteraria si basava sul modello sintattico latino, caratterizzato da periodi complessi, ricchi di subordinate, e da forti inversioni di termini; ora si impone sempre più una tendenza alla semplificazione, per rispondere alle esigenze della diffusione dei “lumi” e della circolazione delle idee in un pubblico più vasto, grazie anche ai fogli periodici: di conseguenza la sintassi si fa più lineare, con un uso moderato di subordinate e un’accentuazione delle coordinate, la struttura della frase tende a divenire più diretta, senza inversioni. Vi contribuisce l’influenza del francese, la cui caratteristica, come si è sempre riconosciuto, è la razionale clarté (“chiarezza”). Un uso più tradizionale si riscontra invece nella poesia che, rivolgendosi a un pubblico elitario, composto prevalentemente da persone di elevata cultura, impiega un linguaggio più sofisticato, che si rifà ai grandi modelli del passato: un lessico prezioso e a volte arcaico e latineggiante, una sintassi complessa e ricca di subordinate, oltre che caratterizzata spesso da forti inversioni nell’ordine delle parole all’interno della frase. In questa lingua, lontana dall’uso comune, si esprimono Metastasio, Parini, Alfieri; mentre le commedie in lingua di Goldoni puntano su uno strumento espressivo più vicino al parlato e di più immediata comunicazione.

Forme e generi della letteratura nel Settecento La lirica e il melodramma

L’Arcadia

Metastasio

La storia della lirica del Settecento si può per la maggior parte ricondurre sotto il segno dell’Arcadia, sia per quanto riguarda il prevalere di un gusto divenuto ben presto di maniera, sia per la ricerca di una melodica cantabilità. Le forme più diffuse della poesia arcadica sono il sonetto e la canzonetta, che più avanti analizzeremo con i due poeti più significativi del tempo, Paolo Rolli ( cap. 1, A1, p. 272) e Giambattista Felice Zappi ( cap. 1, A2, p. 275). Se nel sonetto l’intenzione era quella di imitare Petrarca (ma si tratta di un Petrarca privo di profonde tensioni esistenziali), la canzonetta assume le cadenze di una scorrevolezza in cui trova espressione un sentimentalismo fatto di stati d’animo convenzionali, privi – nella cornice di un travestimento pastorale tipico della tradizione bucolica – di ogni sofferta partecipazione. Sono queste, sia pure spesso a un livello superiore, le caratteristiche che si trovano nelle liriche di Pietro Metastasio ( cap. 1, A3, p. 276), e soprattutto nelle canzonette (la più famosa è La libertà, del 1733) e che vengono esaltate nelle situazioni dei suoi melodrammi, dove il testo, coniugando la pittura delle passioni con l’azione drammatica, e coinvolgendo così più strettamente, grazie anche al ruolo della musica, la sensibilità del pubblico, ottiene effetti di più duratura tenuta e di più profonda persuasione. Per queste ragioni Metastasio si può considerare lo scrittore più rappresentativo dei gusti di un’epoca, tipico rappresentante di quella letteratura cortigiana contro la quale lancerà i suoi strali Vittorio Alfieri ( cap. 9, p. 562).

La trattatistica italiana del primo Settecento La razionalità nell’organizzazione del sapere

Si può dire che l’intento della trattatistica del primo Settecento sia stato soprattutto quello di promuovere gli studi a partire da una base storica e di introdurre un concetto di razionalità all’interno dell’organizzazione del sapere, per l’esigenza di comprendere il presente e di prendere posizione nei suoi confronti. Si veda anche in proposito la raccolta dei Rerum Italicarum Scriptores (“Scrittori di cose italiane”) di Lu261

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Vico

Giannone

dovico Antonio Muratori ( cap. 2, A1, p. 285) che, oltre a ricordare l’importanza della ragione nella pratica dell’esercizio poetico, si occupa delle istituzioni incaricate della conservazione e della promozione del sapere (fondamentale è da considerare in questo senso la sua esperienza di bibliotecario), con un impegno che vorrebbe veder applicato anche dalle accademie del suo tempo, invitate a unire le loro forze in un progetto comune (quasi si trattasse di una sorta di unificazione della Penisola sotto il segno di un profondo rinnovamento culturale). A un’autentica rifondazione degli studi, richiamati a quella che deve essere la profonda serietà dei loro compiti, contro l’abitudine invalsa delle vuote esercitazioni accademiche, è ispirata anche l’opera di Giambattista Vico ( cap. 2, A2, p. 289), che traduce sul piano filosofico, nella sua Scienza nuova, la necessità di una più profonda conoscenza storica, sul piano umano e antropologico. Appare qui evidente la distanza rispetto alle tradizionali concezioni storiografiche, che si occupavano soprattutto dei grandi avvenimenti, delle guerre e dei trattati diplomatici; l’interesse di Vico è rivolto agli usi e ai costumi delle antiche popolazioni, che occorre ricostruire con competenza filologica per comprendere il senso del divenire della storia. L’analisi critica del passato, e delle sue istituzioni giuridiche, guida Pietro Giannone ( cap. 2, A3, p. 295), nella Storia civile del Regno di Napoli, a una decisa affermazione dell’indipendenza del potere politico rispetto a quello religioso, contravvenendo decisamente a quelli che erano stati i dettami dell’ideologia controriformistica (si pensi a Della ragion di Stato di Botero). Di qui, nel Triregno, l’esigenza di un mutamento profondo della storia e dei rapporti sociali, da ricondurre ai valori fondamentali del cristianesimo, liberi da ingiustizie e da autoritarie imposizioni.

La trattatistica dell’Illuminismo francese L’Enciclopedia

La battaglia delle idee, che anima e agita la cultura a metà Settecento, ha il suo centro propulsore a Parigi, da dove si irradierà poi nei paesi europei. Iniziata nel 1751, l’Enciclopedia, diretta da Denis Diderot ( cap. 3, A1, p. 303) e d’Alembert, si

Léonard Defrance, A L’Egide de Minerve, 1781, olio su tavola, Digione, Musee des Beaux-Arts.

262

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari

Diderot e Voltaire

Montesquieu e Rousseau

propone non solo di raccogliere tutti i dati delle conoscenze acquisite, ma di incidere profondamente sul modo di pensare e sulla cultura del tempo, sia estirpando superstizioni e pregiudizi, sia promuovendo un ampio moto riformatore. Per rendersene conto, come vedremo, è sufficiente leggere la voce di Denis Diderot, Eclettismo ( cap. 3, T1, p. 304), che si esprime contro ogni forma di settarismo filosofico, a favore della possibilità di conciliare le diverse posizioni; le fa eco, con più violenta forza polemica, la voce Dogmi ( cap. 3, T3, p. 314), ricavata dal Dizionario filosofico di Voltaire ( cap. 3, A2, p. 312), contro il dogmatismo intransigente e fanatico. La lotta contro le prevaricazioni e le ingiustizie del potere per la difesa dei diritti dei cittadini trova un’ampia e stringente trattazione, sul piano giuridico e politico, nello Spirito delle leggi di Montesquieu ( cap. 3, A3, p. 321), mentre posizioni più oltranziste portano Jean Jacques Rousseau ( cap. 3, A4, p. 327), nel Discorso sull’origine e il fondamento dell’ineguaglianza fra gli uomini, a contestare dalle fondamenta i sistemi sociali esistenti.

La trattatistica dell’Illuminismo Italiano

Beccaria

Pietro Verri

Le Osservazioni sulla tortura

L’Illuminismo italiano è strettamente legato alla concretezza di quei problemi che presentavano nodi irrisolti nello sviluppo in senso “illuminato” della società, ostacolando la realizzazione di quel progresso sociale e civile auspicato nei progetti riformatori. Quale fosse l’atteggiamento nei confronti della legislazione vigente, per quanto riguarda in particolare i processi criminali, lo si vede bene se si legge la prefazione, aggiunta nella terza edizione, a Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria ( cap. 4, A1, p. 335), che intende liquidare i conti con la “barbarie” del passato, riferita in questo caso all’arbitraria accozzaglia e alla crudele irrazionalità delle leggi esistenti. Il richiamo alla ragione non riguarda solo i contenuti, ma determina anche l’impostazione formale dell’opera, ordinatamente articolata in capitoli che scandiscono i diversi momenti della trattazione. Proprio contro gli aspetti più strettamente teorici del trattato prenderà però posizione Pietro Verri ( cap. 4, A2, p. 339), che accuserà l’opera di Beccaria – non direttamente nominato, ma facilmente riconoscibile – di non aver ottenuto lo scopo prefissato, perché il carattere troppo “alto” e astratto delle argomentazioni non aveva ottenuto il consenso sufficiente per modificare le cose: «Fra i molti uomini d’ingegno e di cuore i quali hanno scritto contro la pratica criminale della tortura […] non ve n’è alcuno il quale abbia fatto colpo sull’animo dei giudici, e quindi oserei dire che poco o nessun effetto abbian essi prodotto». Così scrive Verri nell’introduzione alle sue Osservazioni sulla tortura, che, se toccano un argomento in parte coincidente con quello di Beccaria, se ne distinguono poi per la diversa impostazione. Per rendere con più concreta evidenza il suo discorso, Pietro Verri muove da un episodio particolare, il processo agli untori durante la peste milanese del 1630, e ne trascrive parte dei documenti, per mettere davanti agli occhi del lettore la crudeltà e l’assurdità della pratica criminale esercitata dai giudici contro degli innocenti. Siamo oramai vicini a una concezione più propriamente storicistica, che caratterizzerà fra breve l’impegno di Alessandro Manzoni e dei romantici milanesi.

Il romanzo A partire dal Settecento, e via via fino ai nostri giorni, il genere più importante e diffuso è stato quello del romanzo cosiddetto borghese. L’aggettivo è servito a meglio definire le caratteristiche di questo genere a partire dall’età moderna, per segnarne le distanze rispetto al romanzo cavalleresco e al romanzo barocco, destinati a un pubblico aristocratico. Così come noi lo intendiamo, il romanzo esprime i gusti e le mitologie della nuova classe, la borghesia, che, mentre conquista l’egemonia economica, intende anche affermare quella culturale, dando vita a una letteratura capace

In Inghilterra Il romanzo borghese

263

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Caratteristiche

Defoe e Swift

Richardson, Fielding e Sterne

Testi Fielding • Tom neonato: «creaturina sciagurata» o «cara, bella, magnifica creatura»? da Tom Jones

Video da Tom Jones

Voltaire

Montesquieu

Diderot

Rousseau

Il romanzo libertino

264

di esprimere i propri interessi ideologici e morali. Non a caso il romanzo nasce in Inghilterra, il paese dove per primo si compie la rivoluzione industriale e si pongono le fondamenta della narrativa successiva. Il romanzo non solo rifiuta le regole dei generi classici, ma si presenta come un genere che non ha regole, disposto a recepire gli apporti di altri generi. Quanto ai contenuti e alle ambientazioni utilizza gli elementi della realtà quotidiana, mentre i personaggi appartengono per lo più al ceto medio e lo stile corrisponde a un registro tendenzialmente colloquiale, vicino al parlato. Ma è importante ricordare come già nel Settecento venga fissata una serie di tipologie che avranno poi ampi e duraturi sviluppi: dal romanzo realistico, di costumi contemporanei, al romanzo fantastico o surreale, dalla forma epistolare a quella digressiva tipica del genere umoristico. Tra le personalità più rilevanti ricordiamo quella di Daniel Defoe ( cap. 6, A2, p. 373), autore di Moll Flanders, storia di una donna che con la sua spregiudicatezza giunge a farsi una rispettabile posizione sociale, e di Robinson Crusoe, con la nota vicenda del protagonista, che, dopo aver fatto naufragio su un’isola deserta, riesce non solo, con la sua tenacia, a sopravvivere ma anche a soddisfare le condizioni essenziali dell’esistenza. Significati più strettamente allegorici sono da attribuire ai Viaggi di Gulliver (Gulliver’s Travels) di Jonathan Swift ( cap. 6, A1, p. 369), che, nello straniamento operato dai diversi punti di vista, insinuano un’idea della relatività della condizione umana. Clarissa, di Samuel Richardson ( cap. 6, A3, p. 380), introduce il motivo fondamentale della fanciulla perseguitata dal suo seduttore, simboli della virtù e del vizio, del bene e del male, che, in perenne contrasto fra di loro, animeranno le vicende romanzesche anche nei secoli successivi. Carattere più avventuroso presenta il Tom Jones (1749) di Henry Fielding (1707-54), mentre a Laurence Sterne ( cap. 6, A4, p. 385) appartengono due testi fondamentali della narrativa umoristica, il Tristram Shandy e Il viaggio sentimentale (A sentimental journey through France and Italy), tradotto in italiano da Ugo Foscolo nel 1813. In Francia Gli illuministi francesi hanno fatto della scrittura lo strumento della loro battaglia ideologica, non solo per quanto riguarda la saggistica, dove trovano spazio i contenuti del loro impegno riformatore, ma anche cimentandosi in altri generi, e nel romanzo in particolare, che assume spesso significati filosofici, di opposizione e contestazione. Zadig e Candido (Candide) sono le opere più note di Voltaire ( cap. 3, A2, p. 312), mentre oramai dimenticate presso un pubblico più ampio sono le tragedie e i libri storici; in questi romanzi l’ambientazione assume un valore surreale, in cui le peripezie e i colpi di scena diventano una sorta di allegorica rappresentazione delle ingiustizie e delle ipocrisie sociali. Il romanzo epistolare di Montesquieu ( cap. 3, A3, p. 321), le Lettere persiane (Lettres persanes), mette in discussione le concezioni della realtà propria dell’uomo occidentale, ponendole a confronto con le idee (anch’esse non sempre accettabili) di un gran signore orientale in viaggio per l’Europa. Un taglio umoristico, affidato quasi interamente a una struttura dialogata, presenta Jacques il fatalista (Jacques le fataliste et son maître) di Denis Diderot ( cap. 3, A1, p. 303), che, nella Monaca, incentra il racconto sul problema della cosiddetta monacazione forzata, non di rado imposta alle giovani per salvaguardare l’integrità patrimoniale delle grandi casate nobiliari (è il motivo che, in una prospettiva completamente diversa, riprenderà Manzoni, narrando, nei Promessi sposi, la storia della Monaca di Monza). Il problema dell’educazione, per il quale si rivendica una libertà sottratta ai condizionamenti ambientali, assume forme narrative nell’Emilio (Émile) di Jean-Jacques Rousseau ( cap. 3, A4, p. 327), il cui romanzo più famoso, La nuova Eloisa (La nouvelle Héloise), appartiene ormai a un’altra stagione, quella preromantica (ce ne occuperemo più avanti). Al di fuori in senso stretto dall’ambito illuministico, ma partecipe di una comune temperie culturale, si possono collocare le opere, dai contenuti erotici e anticlericali,

Il contesto · Storia della lingua e fenomeni letterari

del cosiddetto romanzo libertino, come Il sofà (1745) di Crebillon Fils (1707-77) e Le relazioni pericolose (Les liaisons dangereuses, 1782) di Choderlos de Laclos (17411803), il cui protagonista, il visconte di Valmont, incarna la figura dello spregiudicato e cinico seduttore. Ma soprattutto andrà ricordato Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814), che, in romanzi come Justine e Juliette, ha inteso dimostrare la tesi secondo cui la natura è malvagia ma le sue leggi vanno seguite comunque. In Italia I nuovi valori della letteratura borghese, realistica e popolare, sono soprat-

Chiari

Seriman

tutto riconoscibili in Italia nel teatro di Carlo Goldoni ( cap. 7, p. 396), che si afferma in una società dinamica e aperta come quella veneziana. Non a caso allora l’autore settecentesco di romanzi che maggiormente si ricorda è Pietro Chiari (1712-85), che fu autore di teatro e avversario di Goldoni. Nella quarantina di romanzi da lui scritti si avverte l’influsso della narrativa europea (tradusse anche il Tom Jones di Fielding), rispetto alla quale, tuttavia, la sua opera rappresenta un fenomeno marginale e decisamente minore (ma si ricordi almeno L’uomo d’un altro mondo, del 1760, che risente dell’influsso esercitato da Swift e Montesquieu). Segnaliamo infine il tipografo Zaccaria Seriman (1708-84), autore dei Viaggi di Enrico Wanton alle terre incognite australi ed ai regni delle scimmie e dei cinocefali (“uomini dalla testa di cane”; 1748), satira, sulle orme di Swift e Voltaire, della società settecentesca. Decisamente neoclassici saranno invece i romanzi scritti in un linguaggio paludato (tutto l’opposto di quanto da lui precedentemente auspicato, cap. 5, T3, p. 359) da Alessandro Verri, ormai lontano dalle posizioni illuministiche della giovinezza (Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene, Le notti romane e La vita di Erostrato).

L’autobiografia e la memorialistica

Vico e Alfieri

Rousseau

Goldoni e Casanova

Se si può dire che nel Settecento nasca anche l’autobiografia moderna (un solo esempio ne abbiamo individuato per i secoli precedenti, la Vita di Benvenuto Cellini), questo è forse dovuto al fatto che l’individuo rivendica adesso una più spiccata indipendenza in quanto intellettuale, responsabile delle proprie scelte e dei propri successi. Si va così dall’Autobiografia di Gian Battista Vico ( cap. 2, A2, p. 289), dedicata, dopo gli anni dell’infanzia, al progresso e al riconoscimento dei suoi studi, alla Vita di Vittorio Alfieri ( cap. 9, p. 562), da cui risulta l’eccezionalità di un temperamento insofferente di freni e di limitazioni. Di grande interesse sono le Confessioni di Jean Jacques Rousseau ( cap. 3, A4, p. 327), per lo scavo condotto nelle dimensioni della coscienza, a coglierne le contraddizioni e le ambivalenze. Quando poi l’autobiografia si allarga a considerare più in generale le condizioni del proprio tempo si hanno le “memorie”, fra cui ricordiamo quelle, entrambe scritte in francese con il tito-

Auguste Leroux, Casanova duella con La Tour d’Auvergne, 1932, illustrazione da Mémoires de Casanova, Londra, Mary Evans Picture Library.

265

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Altri scritti autobiografici

lo Mémoires, di Carlo Goldoni ( cap. 7, p. 396), che ricostruiscono la storia delle sue esperienze teatrali, e di Giacomo Casanova (1725-98; note in italiano con il titolo di Storia della mia vita), che, oltre a soffermarsi sulle imprese del celebre avventuriero e seduttore, contengono suggestivi affreschi della vita settecentesca. Ricordiamo infine, fra gli scritti autobiografici, le Memorie inutili (1797-98) di Carlo Gozzi (1720-1806), che contengono vivaci rappresentazioni della vita veneziana del tempo; il Diario 1777-1781 (pubblicato postumo) di Giambattista Biffi (1736-1807), illuminista milanese che fece parte dell’Accademia dei Pugni e ci ha lasciato un importante carteggio con i fratelli Verri; postuma uscì anche la Vita scritta da lui medesimo di Pietro Giannone ( cap. 2, A3, p. 295), mentre già ottocentesche sono le avventurose Memorie (1823) di una figura tipicamente settecentesca come quella di Lorenzo Da Ponte (1749-1838), che fu il librettista di Mozart, per il quale scrisse Le nozze di Figaro (1786), Don Giovanni (1787; L’età del Barocco e della Nuova Scienza, cap. 4, Il Don Giovanni, p. 145) e Così fan tutte (1790).

La letteratura drammatica Alfieri e Goldoni

Gozzi e Chiari

La tragedia e la commedia toccano il vertice, nel Settecento, con le opere di Vittorio Alfieri e Carlo Goldoni. Se Alfieri ( cap. 9, p. 562) porterà avanti – a partire dagli anni Settanta – una sua operazione isolata, ispirata a un classicismo di tipo elitario e aristocratico, Goldoni ( cap. 7, p. 396) riesce a coinvolgere un pubblico popolare con una riforma del teatro comico che, facendo uso di un linguaggio comune (all’inizio anche dialettale), appare realisticamente attento a interpretare i problemi del presente e i gusti di un’emergente borghesia. Questa operazione, che comporta il ritorno al testo scritto dopo l’esperienza della commedia dell’arte, avviene non a caso a Venezia, dove si formano delle compagnie teatrali in cui l’autore dei testi è anche il capocomico, assumendo un ruolo professionale che, grazie all’affluenza del pubblico pagante, può consentirgli di vivere del proprio lavoro. Di qui la ricerca di un successo che, oltre alla diversità delle opinioni e delle poetiche teatrali, poté ispirare accese rivalità, come quella che oppose a Goldoni la ben diversa personalità di Carlo Gozzi (1720-1806), autore di “fiabe teatrali” (L’amore delle tre melarance, Re Cervo, Turandot, L’augellino belverde, ecc.) orientate verso esiti chiaramente fantastici. Emulo di Goldoni fu anche Pietro Chiari, con commedie come La scuola delle vedove, Il filosofo veneziano e La schiava cinese, concepite come risposta ad altrettanti testi teatrali goldoniani.

Facciamo il punto 1. Quale atteggiamento assumono i letterati italiani di fronte alla questione della lingua letteraria uni-

taria? 2. Nel dibattito sulla lingua prevalgono le posizioni tradizionaliste o innovatrici? 3. Qual è il ruolo dei dialetti, del latino, e delle lingue straniere nel panorama linguistico italiano? 4. Quali caratteristiche contraddistinguono la lirica del Settecento? 5. Individua le caratteristiche principali della trattatistica dell’Illuminismo francese e quelle della trattatisti-

ca dell’Illuminismo italiano; quali sono le analogie e quali le differenze? 6. Rifletti sulle peculiarità del romanzo inglese, soffermandoti sulle opere degli autori principali. 7. Quali sono le caratteristiche proprie del romanzo francese? Quali le peculiarità di quello italiano? 8. Indica quali autori si occupano di autobiografia e di memorialistica e in quali opere. 9. Quali sono le novità della letteratura drammatica del Settecento?

266

Ripasso visivo

L’ETÀ DELLA “RAGIONE” E DELL’ILLUMINISMO (1700-94) POLITICA, ECONOMIA E SOCIETÀ

NEL MONDO • si rafforza l’egemonia della Francia dove si consolida l’assolutismo con Luigi XIV • tramonta l’egemonia dell’Impero spagnolo • prende l’avvio nei paesi più sviluppati il fenomeno della Rivoluzione industriale • le colonie del Nord America dichiarano la loro indipendenza (1776) e danno vita agli Stati Uniti d’America (1787) • si accende la Rivoluzione francese (1789) contro l’assolutismo e i privilegi feudali • si afferma il ruolo sociale e politico della borghesia

• si registra una crescita delle attività commerciali e l’affermarsi del liberismo

IN ITALIA • a Milano, sotto il dominio degli Asburgo d’Austria, e nel Regno di Napoli, assegnato ai Borbone di Spagna, il processo di rinnovamento è guidato dai sovrani in collaborazione con gli intellettuali • aumenta il potere e il prestigio del Regno di Sardegna; diminuisce l’influenza dello Stato della Chiesa • si avverte la debolezza della classe imprenditoriale borghese, numericamente esigua

CULTURA E MENTALITÀ IN EUROPA • si diffonde una nuova concezione della cultura: - tutti gli aspetti della realtà devono essere sottoposti all’esame libero e critico della ragione - i princìpi razionali (i “lumi”) rappresentano lo strumento per combattere l’ignoranza, i pregiudizi e le superstizioni che impediscono il progresso umano • si affermano nuovi ideali in ambito civile, filosofico e religioso • aumenta l’importanza del giornalismo come mezzo per la diffusione di nuovi princìpi morali e filosofici • la globalità delle conoscenze umane viene raccolta nell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert • gli intellettuali progressisti collaborano con i sovrani assoluti per l’introduzione di riforme (assolutismo illuminato)

IN ITALIA • gli intellettuali aspirano ad affermare l’autonomia della cultura nei confronti del potere politico • gli intellettuali milanesi si riuniscono intorno alla rivista “Il Caffè”: - polemica contro la cultura accademica - proposta di una letteratura fatta di argomenti vivi e attuali - uso di un linguaggio immediato e aperto alle influenze esterne • nascono numerose accademie che si propongono di avviare una radicale modernizzazione dei costumi e delle istituzioni • i luoghi di produzione e diffusione culturale sono: - la corte e l’accademia - la stampa periodica - i salotti e le botteghe del caffè

• Repubblica dei letterati d’Italia

• Accademia dei Pugni

• Accademia

dell’Arcadia

• cosmopolitismo • filantropismo • sensismo • deismo

LINGUA E LETTERATURA

• si avvia una profonda riflessione sulla funzione politica e sociale della lingua comune • gli illuministi rifiutano la soluzione classicistica cruscante e propongono un nuovo modello linguistico basato su: - innovazione continua del lessico (influenze da parte delle lingue straniere e dei linguaggi tecnico-scientifici) - chiarezza della sintassi

• la lingua della prosa subisce

l’influenza da parte del francese usato dai “filosofi” illuministi • la lingua poetica continua a seguire il modello classicista e conserva il suo carattere elitario • i generi di maggior successo sono:

• prosa: trattatistica di

argomento letterario, giuridico, e politicoeconomico; storiografia; romanzo; autobiografia; memorialistica • poesia: lirica bucolica e pastorale (arcadica), poemetto in endecasillabi sciolti, epistola in versi, ode e sonetto • teatro: melodramma, tragedia, commedia borghese

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

In sintesi

L’ETÀ DELLA “RAGIONE” E DELL’ILLUMINISMO (1700-94) Verifica interattiva

LA STORIA POLITICA, L’ECONOMIA E IL DIRITTO Il Settecento è il secolo in cui si avviano i processi della modernità. Si consolidano i grandi stati europei (a eccezione della Spagna); in Italia conservano la loro indipendenza Venezia, il Piemonte e lo Stato Pontificio, mentre la Lombardia passa sotto l’influenza austriaca. La storia politica appare sempre più collegata a quella economica. In primo piano si colloca la crescita dell’Inghilterra, la nazione in cui per prima si compie la “Rivoluzione industriale”. La politica del liberismo consente la crescita del mercato e inaugura l’età del moderno capitalismo. Se in Inghilterra è già operante un regime parlamentare, una nuova concezione dei diritti dei cittadini si fa largo anche in Francia, ad opera dell’Illuminismo, che contesta i princìpi su cui si erano basati i regimi assolutistici. La reazione nei loro confronti esploderà violentemente, nel 1789, con la Rivoluzione francese.

L’ILLUMINISMO E LO SPIRITO ENCICLOPEDICO Se la visione del mondo barocca si era basata sull’instabilità e sulla precarietà dell’esperienza del reale, il nuovo secolo si fa promotore di un ritorno alla ragione, cercando di realizzare un nuovo senso dell’equilibrio e della misura. Più in generale si avverte la condanna delle frivolezze di una letteratura evasiva e disimpegnata, nel nome della serietà degli studi e della ricerca scientifica. L’affermarsi della ragione avrà il suo coronamento con l’Illuminismo, che, nato in Francia, si diffonde poi anche in Italia. La polemica degli illuministi nei confronti del passato risale sino al Medioevo, considerato un periodo di ignoranza e di barbare, le cui conseguenze sono durate sino al presente, incarnandosi nel dogmatismo religioso e nell’assolutismo monarchico. Se il “lume” della ragione deve essere la guida dei comportamenti umani, viene meno l’obbedienza a quel principio di autorità che si identificava con l’ipse dixit aristotelico. La ragione, al contrario, ha il suo fondamento nelle leggi della natura, secondo cui la vita degli individui deve essere ispirata ai princìpi di libertà, uguaglianza e fratellanza. L’elaborazione dell’ideologia illuministica è documentata dalla vasta impresa dell’Enciclopedia, diretta da Diderot con la collaborazione di d’Alembert, a cui presero parte i principali illuministi (Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Condillac). L’ampliamento degli orizzonti intellettuali porta al tempo stesso a una comprensione delle diversità, e quindi alla tolleranza di chi si sente cittadino del mondo (“cosmopolitismo”). L’idea democratica della convivenza umana si basa sulla filantropia, che, riferendosi anche

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alle condizioni dell’esistenza pratica, dà luogo alla ricerca dell’utile; sul piano personale viene elaborata una teoria del piacere, che ha il suo fondamento nella filosofia del sensismo. La condanna del dogmatismo porta a elaborare una concezione naturale della religione che prende il nome di deismo.

LE ACCADEMIE E I GIORNALI Se tutte le accademie italiane – dalla Crusca all’Arcadia – si caratterizzano come organismi ufficiali, ben diversa è la natura dell’Accademia dei Pugni, fondata a Milano nel 1761 da Pietro Verri, che riunì presso la sua abitazione un combattivo gruppo di amici, fautori delle nuove idee illuministiche. I progetti delle riforme maturate nell’ambito dell’Accademia dei Pugni trovarono il loro sbocco nella rivista “Il Caffè” (1764-66). Ma la patria del moderno giornalismo è l’Inghilterra, dove sorgono numerose testate; fra queste “The Review”, fondata da Daniel Defoe, “The Spectator” e “The Tatler” di Joseph Addison e di Richard Steele, che vengono incontro alle esigenze di una emergente pubblica opinione. Tra i giornali italiani ricordiamo quelli di Gasparo Gozzi (“La gazzetta veneta” e “L’osservatore veneto”, 1760-62) e, soprattutto, “La frusta letteraria” (1763-65), in cui Giuseppe Baretti esercitò la sua vena di irriducibile polemista.

LA CONDIZIONE DEGLI INTELLETTUALI Mentre perdura l’istituto del mecenatismo (è il caso di Pietro Metastasio), contro cui si scaglierà Vittorio Alfieri, la figura dello scrittore comincia a essere associata alla pratica di un lavoro che fiancheggia l’attività letteraria.

LA QUESTIONE DELLA LINGUA NEL SETTECENTO Nella prima parte del secolo rimane prevalente la soluzione puristica dell’Accademia della Crusca, alla quale si contrappone la proposta di un classicismo moderato per un uso più moderno della lingua (ne sono promotori Muratori e Gravina). Nel secondo Settecento si accentuano le tendenze innovatrici, con la soluzione di compromesso sostenuta da Cesarotti (la lingua è in continua trasformazione, ma la tradizione deve restare comunque un punto di riferimento) e con la posizione di rottura radicale degli intellettuali che si riuniscono intorno alla rivista “Il Caffè” (una lingua viva che accolga ogni tipo di cambiamento inteso a migliorarne la chiarezza). In generale, però, la situazione linguistica in Italia è ancora confusa: la maggior parte della popolazione è in grado di comprendere e usare soltanto il dialetto, mentre l’italiano resta una lingua prevalentemente scritta

(impiegata oralmente soltanto in occasioni ufficiali e solenni). La comparsa di nuovi mezzi di comunicazione (soprattutto i fogli periodici) favorisce un allargamento dell’area di impiego della lingua unitaria e del pubblico potenziale. Nel corso del Settecento l’italiano subisce influenze nel lessico e nella sintassi da parte del francese (lingua ufficiale della cultura illuministica e della diplomazia europea) e accoglie numerosi termini provenienti dalle scienze (chimica, botanica, fisica, medicina, economia ecc.). Il latino è ancora di norma usato nell’insegnamento universitario, mentre i dialetti continuano ad avere notevole importanza nella produzione letteraria (basti pensare alle commedie in veneziano di Goldoni).

FORME E GENERI DELLA LETTERATURA La lirica settecentesca, sviluppatasi nell’ambito dell’Accademia dell’Arcadia, nasce in aperta polemica nei confronti della poesia barocca. Tra i più significativi interpreti del gusto arcadico ricordiamo Paolo Rolli e Giambattista Felice Zappi, oltre a Pietro Metastasio, che ha legato il suo nome soprattutto alle fortune del melodramma. Lo stesso rifiuto dello stile barocco caratterizza la prosa, che, auspicando un ritorno alla ragione, trova espressione, nella trattatistica di Ludovico Antonio Muratori, come invito ad affrontare i problemi culturali e sociali alla luce di un concreto impegno riformatore. Nella Scienza nuova Giambattista Vico traccia le linee di una filosofia della storia intesa come costruzione dell’agire umano. Attenta alle ragioni giuridiche, per contestare le pretese del potere religioso sulla laicità dello Stato, è la Storia del regno di Napoli di Pietro Giannone, che nel Triregno auspicherà un profondo rinnovamento della società.

Attribuendo un significato rivoluzionario alla ragione, l’Illuminismo francese esprime l’esigenza profonda di un rinnovamento che nasce dalla critica nei confronti di ogni visione dogmatica e assolutistica. Fondamentali in questo senso, oltre alle voci dell’Enciclopedia (soprattutto numerose quelle di Diderot e d’Alembert) sono le opere di Voltaire, Montesquieu e Rousseau. Per quanto riguarda l’Illuminismo italiano, l’opera più nota e significativa, che ebbe un’immediata risonanza sul piano europeo, è il trattato Dei delitti e delle pene, con cui Cesare Beccaria prendeva posizione contro la pena di morte e la pratica della tortura. L’argomento verrà trattato anche nelle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri. Il romanzo moderno nasce invece in Inghilterra, dove si pongono le basi di una narrativa adatta soprattutto al nuovo pubblico borghese. Non solo il romanzo non obbedisce a regole precise, ma presenta per lo più gli ambienti della realtà quotidiana, i suoi personaggi appartengono al ceto medio e lo stile corrisponde a un registro vicino al parlato. Sin dal Settecento vengono fissate alcune tipologie – dal romanzo realistico a quello fantastico, dal romanzo epistolare a quello umoristico – di cui si fanno interpreti grandi narratori come Defoe e Swift, Richardson e Sterne. Praticato anche dagli illuministi in Francia, il romanzo presenta per lo più un aspetto allegorico e filosofico nelle opere di Voltaire, Montesquieu e Diderot. Numerose sono le autobiografie e le memorie composte nel Settecento, fra cui ricordiamo quelle di Vico, Rousseau, Alfieri, Goldoni, Casanova. La tragedia e la commedia sono rappresentate soprattutto dalle opere di Alfieri e Goldoni. Ma si ricordino anche le commedie di Pietro Chiari e le “fiabe teatrali” di Carlo Gozzi.

269

Capitolo 1

La lirica e il melodramma Forme e caratteri della poesia

L’Arcadia e il rifiuto del Barocco

Arte L’Arcadia e il paesaggio settecentesco

Un ideale classico e bucolico

Il carattere convenzionale

La lirica del Settecento nasce all’insegna dell’Arcadia, l’accademia che riunirà attorno a sé i maggiori letterati del secolo ( Il contesto, p. 256), orientando in una precisa direzione il gusto poetico. Il punto di partenza è la polemica nei confronti della poesia barocca, che trova spazio anche in alcuni trattati, fra cui quelli, citati nel capitolo seguente ( cap. 2, p. 284), di Crescimbeni, di Muratori e Gravina; ma già alla fine del secolo precedente il gesuita Tommaso Ceva (1648-1737) aveva definito la poesia «un sogno fatto alla presenza della ragione». L’auspicio era infatti quello di «sterminare il cattivo gusto» e di combattere la «barbarie dell’ultimo secolo», favorendo un ritorno alla ragione e alla natura, da intendere, in concreto, come rifiuto di tutti quegli artifici a cui si erano abbandonati i marinisti; artifici considerati adesso come innaturali, nel nome di una naturalezza che coincideva soprattutto con una ricerca di maggiore equilibrio e compostezza formale. In questo senso si proponeva di risalire a un ideale classico, che da un lato rivalutava la lezione petrarchesca, dall’altro si richiamava ad autori greci e latini come Teocrito e Virgilio (non il Virgilio dell’Eneide, bensì quello “pastorale” delle Bucoliche). Ma questo classicismo, se così si può chiamare, è assai lontano da quello rinascimentale, essendo soprattutto interpretato in chiave sentimentale, nel senso di un sentimentalismo affidato alla facilità e alla scorrevolezza dell’espressione, a una semplicità che appare tutt’altro che spontanea bensì ricercata e manierata, anche sul piano ritmico e lessicale. Non a caso la misura più rappresentativa del gusto arcadico è la canzonetta, che, composta da versi brevi (settenari e ottonari), assume le cadenze di una facile cantabilità (i testi erano spesso accompagnati dalla musica). L’Arcadia, a cui era già stata intitolata l’omonima opera quattrocentesca di Iacopo Sannazzaro, era infatti la regione della Grecia in cui veniva collocato, fin dall’antichità, lo scenario fittizio della poesia idillica, che occorreva far rivivere in forme semplici e piane, nella cornice di un paesaggio stilizzato e connotato con i tipici tratti del locus amoenus. Di qui il carattere convenzionale di questa poesia, in cui i poeti – in un gioco di travestimenti mondani – assumevano il nome di pastori,

Pietro Melchiorre Ferrari, Frugoni mentre declama ai pastori arcadi, 1762, olio su tela, Parma, Galleria Nazionale.

270

Capitolo 1· La lirica e il melodramma

Rolli, Zappi e Savioli

Altri poeti

Testi Meli • Sti silenzi, sta virdura da La buccolica

Parini e Alfieri

mentre le donne amate venivano cantate come se fossero ninfe dei boschi o pastorelle. Tra i più significativi interpreti del gusto arcadico ricordiamo Paolo Rolli ( A1, p. 272), Giambattista Felice Zappi ( A2, p. 275) e Pietro Metastasio ( A3, p. 276), che ha però legato il suo nome soprattutto alle fortune del melodramma. A questi si può aggiungere il nome di Ludovico Savioli (1729-1804), che ha esaltato, nei suoi Amori (1765), i rituali mondani della società aristocratica, celebrando quello stile di vita frivolo e fatuo che diventerà invece oggetto di graffiante parodia nel Giorno di Parini ( cap. 8, p. 511). Se questi sono i tratti dominanti della poesia del secolo, tanto da diventare stereotipati e ripetitivi, non manca un’evoluzione delle forme, ad esempio nei versi sciolti, privi cioè di rime e di schemi strofici, di Carlo Innocenzo Frugoni (1692-1768), mentre una più fresca e originale ispirazione è da riconoscere nell’uso dei dialetti: siciliano nei componimenti di Giovanni Meli (1740-1815) e milanese nei versi di Carl’Antonio Tanzi (1710-62). Considerate anticipatrici della sensibilità romantica sono le Visioni sacre e morali di Alfonso Varano (1705-88), caratterizzate da un cupo gusto scenografico, e le Poesie di Ossian antico poeta celtico (1763), che Melchiorre Cesarotti (1730-1808) tradusse dal poeta scozzese James Macpherson. A parte devono essere considerate le esperienze di Giuseppe Parini ( cap. 8, p. 486) e di Vittorio Alfieri ( cap. 9, p. 562), di cui ci occuperemo più diffusamente nei capitoli a loro dedicati: il primo, pur conservando nelle Odi le forme arcadiche, vi immette i nuovi contenuti dell’impegno illuministico; il secondo, nei sonetti, rielabora l’ispirazione petrarchesca in un senso drammatico, dando spazio a una conflittualità interiore estranea a ogni gusto puramente decorativo.

Visualizzare i concetti

La lirica: Barocco e Arcadia a confronto LIRICA BAROCCA

LIRICA ARCADICA

Originalità, intesa come ricerca di soluzioni espressive e di immagini inusitate

Principio ispiratore

“Buon gusto” e razionalità

Anticlassicismo: rifiuto della tradizione umanistico-rinascimentale

Rapporto con la tradizione

Classicismo: imitazione del modello petrarchesco secondo i canoni poetici umanistico-rinascimentali

Meraviglia e diletto: colpire il lettore con l’originalità e suscitare piacere

Fine della poesia

Funzione moralizzatrice della poesia, che filtra i sentimenti attraverso la lente della razionalità e propone una visione idealizzata della realtà

Estrema varietà tematica, ottenuta grazie all’ampliamento della materia poetabile fino a comprendere aspetti del tutto inusitati

Temi

La natura e il sentimento amoroso, spesso rappresentati nella cornice ideale del mondo pastorale

Concettismo: uso esasperato delle figure retoriche e in particolare della metafora, capace di caricare la parola di significati inaspettati

Stile

Linearità ed equilibrio sintattico; uso misurato delle figure retoriche; lessico selezionato, tratto dalla tradizione letteraria

Metri tradizionali e sperimentazione di nuove forme ad opera di Chiabrera, esponente del “classicismo barocco”

Metrica

Predilezione per il sonetto e per la canzonetta (inventata da Chiabrera), formata da versi brevi e caratterizzata dalla musicalità

271

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La riforma del melodramma Metastasio

La riforma del melodramma

A1 A Londra

Le poesie

Pietro Metastasio, si è detto, ha legato il suo nome soprattutto al melodramma, quella forma di spettacolo che, unendo il testo letterario alla musica (ma anche coinvolgendo altre componenti tipiche dell’esperienza teatrale), derivava dalla tradizione cinque-secentesca del dramma musicale, con particolare riguardo alla possibilità di musicare la favola pastorale. Nell’età barocca questo genere aveva adottato soluzioni sceniche basate su una complicata trama narrativa delle vicende cantate. Rispetto a questi precedenti un primo intervento riformatore è da attribuire ad Apostolo Zeno (1668-1750), nelle cui opere, di argomento storico e mitologico, diviene meno macchinosa la trama del libretto, riportato, grazie alla semplificazione della vicenda, alle classiche unità di tempo e di luogo desunte dalla tragedia del classicismo francese. Su questa linea si colloca l’ulteriore perfezionamento operato da Pietro Metastasio, che stabilì la netta supremazia del libretto sulla musica, portando alla sua massima espressione l’esperienza del melodramma settecentesco. Più che sull’effetto-sorpresa, Metastasio punta sul coinvolgimento emotivo e sentimentale, affidato soprattutto ai versi brevi delle “ariette”, mentre l’elemento discorsivo trova spazio nei “recitativi”, a conferma della ricerca di quell’equilibrio che anche Metastasio si è proposto di stabilire fra il sentimento e la ragione.

Paolo Rolli Nato a Roma nel 1687, fu allievo di Gian Vincenzo Gravina. Dal 1716 al 1744 visse in Inghilterra, dove fu precettore dei figli del re Giorgio II e si adoperò per far conoscere la cultura italiana, traducendo tra l’altro Boccaccio e le commedie di Ariosto, e la cultura classica, con la traduzione di Lucrezio e di Anacreonte, uno dei modelli riconosciuti della poesia arcadica; dall’inglese tradusse anche, in italiano, il poema di John Milton (1608-76) Il paradiso perduto. A Londra fondò l’Accademia Reale di Musica, che contribuì alle fortune del melodramma italiano; ma i libretti da lui composti non ottennero i riconoscimenti che ebbero quelli di Metastasio. La musicalità dei suoi versi è soprattutto da riconoscere, dopo una prima edizione delle Rime (1717), nelle Cantate e nelle Canzonette, che videro la luce dieci anni più tardi e sono caratterizzate da un particolare gusto pittorico del paesaggio. Nel 1753 l’intera opera è stata raccolta nei tre volumi dei Poetici componimenti. Nel 1744, stanco della vita londinese, si ritirò a Todi, dove morirà nel 1765; negli ultimi anni tradusse le tragedie religiose di Racine.

La vita e le opere

François Boucher, Pastorale o Giovane pastore in un paesaggio, 1740 circa, olio su tela, Collezione privata.

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Capitolo 1· La lirica e il melodramma

T1

Paolo Rolli

Temi chiave

«Solitario bosco ombroso» dai Poetici componimenti

• la ricerca della solitudine • il lamento dell’amante • un’attenta costruzione fonica

Il poeta lamenta l’abbandono da parte della donna amata.

> Metro: canzonetta composta da otto quartine di ottonari, a rima alternata secondo lo schema abab; sempre tronchi il secondo e quarto verso di ogni quartina.

Solitario bosco ombroso, a te viene afflitto cor1 per trovar qualche riposo fra i silenzi in quest’orror. 5

10

15

20

Ogni oggetto ch’altrui piace2, per me lieto più non è; ho perduta la mia pace, son io stesso in odio a me3. La mia Fille4, il mio bel foco5, dite, o piante, è forse qui? Ahi! La cerco in ogni loco6; e pur7 so ch’ella partì. Quante volte, o fronde grate8, la vostr’ombra ne9 coprì! Corso d’ore sì beate10 quanto rapido fuggì! Dite almeno, amiche fronde, se il mio ben11 più rivedrò; ah! Che12 l’eco mi risponde, e mi par che dica: No. Sento un dolce mormorio; un sospir forse sarà; un sospir dell’idol13 mio, che mi dice: Tornerà.

25

30

Ah! ch’è il suon del rio, che frange14 tra quei sassi il fresco umor; e non mormora, ma piange per pietà del mio dolor. Ma se torna, vano e tardo15 il ritorno, oh dei! sarà; ché pietoso il dolce sguardo16 sul mio cener17 piangerà.

1. afflitto cor: un cuore addolorato. 2. Ogni … piace: ogni cosa, tutto ciò che piace agli altri. 3. son … me: odio persino me stesso. 4. Fille: uno dei tipici nomi femminili (come

Lesbia, Nice, Dafni, ecc.), usati dai poeti dell’Arcadia secondo le convenzioni della poesia pastorale. 5. foco: fuoco, oggetto della passione amorosa.

6. loco: luogo. 7. e pur: e tuttavia, anche se. 8. grate: gradite, care. 9. ne: ci. 10. Corso … beate: tempo (scorrere delle ore) così felice. 11. ben: bene, nel senso di amore, donna amata. 12. Che: ecco che. 13. idol: dea, la donna adorata come una dea. 14. rio, che frange: il ruscello, che rompe la fresca corrente (umor). 15. vano e tardo: inutile e tardivo. 16. sguardo: occhi. 17. cener: sepolcro.

273

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo Il motivo della lontananza

Sviluppo convenzionale

> I contenuti

Il componimento riprende un antico motivo letterario, quello della lontananza della donna amata e del poeta che ritorna, ormai solo, ai luoghi che sono stati testimoni del loro amore. Si coglie un richiamo anche alla celebre canzone petrarchesca Chiare, fresche e dolci acque, ma la purezza del ricordo sembra qui negata, nella prima quartina, dall’«orror» (v. 4) del «bosco ombroso», in cui il poeta è venuto a cercare conforto al suo dolore. Se una simile ambientazione potrà suggerire a un poeta romantico sviluppi intensamente drammatici, nulla di tutto ciò accade nella poesia di Paolo Rolli. L’“orrore” prospettato ha un valore esagerato e forzato, come accade per la disperazione da cui nasce l’«odio» verso se stessi (v. 8), mentre freddo e inerte resta, nella quartina conclusiva, la ripresa del grande tema di amore e morte, che si stempera in uno sviluppo convenzionale, in linea con l’andamento didascalico che l’espressione del sentimento presenta in tutto il componimento; nello stesso modo nulla ha di drammatico il motivo del passare del tempo («Corso d’ore sì beate / quanto rapido fuggì!», vv. 15-16). Nel rovesciamento della tipologia del locus amoenus, che ormai più non è tale, restano in negativo gli elementi ornamentali che abitualmente lo caratterizzano: le «piante», le «fronde grate» e «amiche», l’«ombra», il «dolce mormorio» e il «fresco umor» del «rio».

> L’aspetto formale

La cantabilità della forma

Non è tuttavia sul piano dei significati che va cercato l’interesse di questo componimento, bensì su quello del significante. Poesia per musica, la composizione vive nella cantabilità della forma metrica, costituita dalla brevità dei versi, ottonari, e sottolineata dall’accento che cade sull’ultima sillaba tronca dei versi pari, imprimendo un ritmo rapido e cadenzato (i versi delle strofette sono divisi due a due dall’interpunzione). Come l’«eco» che «risponde» al verso 19, si ripercuote nel testo il serrato gioco delle rime, ora convergenti nel significato («grate» / «beate»), ora divergenti («rivedrò» / «No»), a cui vanno aggiunte le corrispondenze foniche racchiuse in molte parole (si vedano ad esempio, nella prima strofa, insieme con la sibilante /s/, i nessi delle liquide /l/ e soprattutto /r/ precedute spesso da altra consonante, nella sequenza «Solitario bosco ombroso, / a te viene afflitto cor / per trovar qualche riposo / fra i silenzi in quest’orror»). Ne risulta una grazia certo manierata, ma indubbiamente gradevole

Esercitare le competenze COMPRenDeRe

> 1. Riassumi il contenuto del componimento in circa 5 righe (250 caratteri). > 2. A quali interlocutori si rivolge il poeta? > 3. Ai versi 21-28 la realtà si confonde con l’immaginazione. Spiega l’equivoco in cui cade l’amante. AnALIzzARe

> 4. > 5.

Attraverso quali metafore il poeta allude all’amata? Individua nei versi i termini che possono essere ricondotti ai due opposti campi semantici del «riposo» (r. 3) e del «dolor» (r. 28). Stile

Lessico

APPROFOnDIRe e InTeRPReTARe

> 6.

Scrivere Chiarisci in un testo di circa 10 righe (500 caratteri) qual è la visione della natura proposta nella poesia di Rolli. > 7. esporre oralmente Dopo aver considerato con attenzione le scelte contenutistiche e stilistiche del poeta, svolgi oralmente (max 5 minuti) un commento sulle caratteristiche del pubblico a cui quest’ultimo si rivolge. Si tratta di lettori colti o culturalmente sprovveduti? È possibile che entrambe le categorie di lettori siano in grado di comprendere e apprezzare questo genere di poesia?

274

Capitolo 1· La lirica e il melodramma

A2 La vita Le Rime

Testi Zappi • Sognai sul far dell’alba dai Sonetti

T2

Giambattista Felice zappi La vita e le opere Giambattista Felice Zappi nacque a Imola nel 1667; studiò legge

a Bologna e poi a Roma esercitò la professione di avvocato. Fu tra i soci fondatori dell’Arcadia, dove prese il nome di Tirsi Leucasio; sposò la poetessa Faustina Maratti, con la quale aprì un salotto letterario molto frequentato. A Roma morì nel 1719. La raccolta definitiva delle sue Rime, insieme con quelle della moglie, uscì a Venezia nel 1723. Comprende canzoni encomiastiche (una è dedicata Luigi XIV di Francia, il Re Sole), a imitazione del poeta greco Pindaro (518-438 a.C.), e canzonette anacreontiche (ossia ispirate al poeta greco Anacreonte, del VI secolo a.C.), dove si nota l’influsso di Gabriello Chiabrera ( L’età del Barocco e della Nuova Scienza, cap. 1, A7, p. 44). Soprattutto in queste ultime domina il gusto arcadico di una poesia sentimentalmente languida, preziosa nella sua dimessa semplicità, cantabile e facilmente memorizzabile (Zappi ebbe anche fama di grande declamatore).

Giambattista Felice zappi

«Un cestellin di paglie un dì tessea»

Temi chiave

• il motivo amoroso • un’atmosfera semplice e chiara

dalle Rime Il dono di un piccolo cesto è l’esile trama su cui si svolge il motivo amoroso.

> Metro: sonetto, secondo lo schema ABAB, BABA, CDC, DCD.

4

Un cestellin di paglie un dì tessea1 Tirsi2, cantando appiè3 d’un verde alloro; dentro vi chiuse un bacio e poi dicea: Vanne in dono a colei per cui mi moro4.

8

Piacque l’opra ad Amor. Dentro al lavoro vezzi5 alla madre6 tolti anch’ei7 chiudea, e in un8 le punte di quei dardi9 d’oro, che scelti sol per le bell’alme10 avea.

11

Quando l’aprì la semplice Nigella11, il bacio del pastor corse non tardo12 a prender loco13 in sulla fronte bella.

14

Ogni vezzo si sparse al viso ond’ardo14; verso il ciglio15 volaron le quadrella16: e son quelle ch’ognor vibra col guardo17.

1. tessea: intesseva, intrecciava. 2. Tirsi: nome maschile tipico delle convenzioni pastorali adottate dai poeti dell’Arcadia. 3. appiè: ai piedi. 4. mi moro: muoio. 5. vezzi: preziosi ornamenti. 6. madre: Venere, madre del dio Cupido, Amore.

7. ei: egli. 8. in un: insieme. 9. dardi: le frecce con cui Amore colpiva il cuore di chi voleva far innamorare. 10. alme: anime. 11. Nigella: nome femminile legato alle convenzioni della poesia arcadica. 12. non tardo: non lento, cioè veloce, veloce-

mente (è la figura retorica della litote). 13. prender loco: prendere posto, posarsi. 14. ond’ardo: per il quale brucio (a causa della passione amorosa). 15. il ciglio: le ciglia, gli occhi. 16. quadrella: frecce. 17. ognor … guardo: sempre scaglia con lo sguardo.

275

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo La grazia arcadica

Il sonetto è un esempio particolarmente indicativo della grazia e della delicatezza che caratterizzano, in generale, la poesia degli Arcadi, a partire dal doppio diminutivo del primo verso («cestellin») che racchiude in filigrana lo svolgimento del motivo amoroso. Di stampo arcadico è il travestimento pastorale dell’innamorato, che sta accanto al «verde alloro» (v. 2), simbolo della poesia; l’affidamento del bacio al paniere in cui viene “rinchiuso” (v. 3) diventa inoltre il dono da cui sprigiona una situazione che, se fa ampio uso di una materia convenzionale, ne colloca gli elementi secondo un’esile ma in fondo originale combinazione: Amore, che vi aggiunge i «vezzi» sottratti a Venere insieme con le punte per così dire “selezionate” delle sue frecce d’oro; l’apertura del cestello, da cui metaforicamente fugge il bacio rinchiuso per posarsi «sulla fronte bella» (v. 11) della donna amata. Il poeta evita ogni profondità o complessità del sentimento, per risolverne gli esiti, grazie anche alla ripresa delle allitterazioni (soprattutto le liquide /r/ e /l/, anche raddoppiata), nella felice animazione della terzina finale, con i “vezzi” che illuminano il viso e le frecce amorose che lo sguardo sembra riflettere e proiettare davanti a sé. Il tutto in quell’atmosfera di semplicità e di limpidezza che trova il corrispettivo nella chiarezza della struttura compositiva, nettamente scandita nei momenti costituiti dalle singole strofe.

Esercitare le competenze COMPRenDeRe

> 1. Che cosa ha messo Tirsi nel «cestellin» che ha intrecciato? Che cosa vi ha aggiunto Amore? > 2. Che cosa è accaduto quando la «semplice Nigella» (v. 9) lo ha aperto? AnALIzzARe

> 3. > 4.

Individua nella seconda strofa la figura della personificazione. Analizza la poesia e sottolinea gli elementi che, a livello lessicale, appartengono alla tradizione pastorale e bucolica. Stile

Lessico

APPROFOnDIRe e InTeRPReTARe

> 5.

esporre oralmente Spiega oralmente (max 3 minuti) in che senso una poesia di questo tipo, modulata secondo le corde e i modi della poesia arcadica, può essere definita di tono lezioso e galante. > 6. Testi a confronto: scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) descrivi, a partire da questa poesia e facendo riferimento anche al componimento di Paolo Rolli, Solitario bosco ombroso ( T1, p. 273), le caratteristiche peculiari con cui i poeti arcadi descrivono la natura.

A3 Le prime opere

276

Pietro Metastasio Gli anni giovanili Nato a Roma nel 1698 da una famiglia popolana, crebbe sotto la protezione di Gian Vincenzo Gravina, che rimase impressionato dalle sue doti di improvvisatore, in grado di gareggiare con i più noti poeti contemporanei; lo seguì poi negli studi filosofici e giuridici, che lo porteranno a Napoli a far pratica legale. Ma l’interesse prevalente era quello della letteratura e Metastasio si fece ben presto conoscere per le sue opere; dopo una tragedia composta appena quattordicenne e un primo volume di Poesie (1717), scrisse idilli mitologici ed epici, odi, favole teatrali, canzonette arcadiche, in linea con il gusto dominante dell’epoca, che più di ogni altro Metastasio seppe assecondare.

Capitolo 1· La lirica e il melodramma

A Napoli intensificò la sua attività letteraria, caratterizzata da una musicalità che bene si adattava all’accompagnamento musicale, aprendogli così la via delle rappresentazioni teatrali. Importante fu, al riguardo, l’incontro con la cantante Marianna Benti Bulgarelli, detta la Romanina, che interpretò il suo primo melodramma, Didone abbandonata (1724), assicurandogli un clamoroso successo ( T3, p. 278). La via del melodramma per Metastasio era segnata e altri sei ne seguirono fino al 1730. È questa la prima fase della sua attività, utile, anche se non mancano incertezze e ingenuità, per mettere a punto gli strumenti e i meccanismi della più matura stagione successiva. Metastasio aveva così modo di partecipare intensamente alla vita sociale della nobiltà, di cui era diventato il poeta ufficiale: tra l’altro compose la favola teatrale Gli orti esperidi per il compleanno di Elisabetta Cristina, moglie dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo, e dedicò la serenata Endimione alla contessa Marianna Pignatelli d’Althan, che sarà l’artefice della chiamata di Metastasio a Vienna, nel 1730, per sostituire Apostolo Zeno nella carica di poeta cesareo alla corte imperiale.

Il melodramma Didone abbandonata

La maturità artistica

Testi Metastasio • La libertà dalle Rime • Dichiarazione d’amore • Amore e dolore: l’addio di Mégacle ad Aristea dall’Olimpiade • L’eroe dell’ideale s’incarna nella storia dall’Attilio Regolo

Le opere della maturità Il decennio che seguì è quello della piena maturità di

Metastasio, che scrisse Demetrio, Issipile, Olimpiade, La clemenza di Tito, Ciro riconosciuto, Zenobia, Temistocle e Attilio Regolo, composto nel 1740 in occasione della morte di Carlo VI. In queste opere portava a compimento quella riforma del melodramma che, semplificando i conflitti drammatici, sanzionava la superiorità del libretto sullo spartito musicale. Del libretto, in particolare, venivano resi più coerenti i rapporti fra i recitativi, caratterizzati da un’intonazione vocale vicina al parlato e funzionale all’azione scenica, e le arie, momenti lirici in cui domina la melodia. L’attività fu accompagnata da crescente fortuna presso il pubblico, appassionato di un genere che univa il fasto dello spettacolo alla grazia elegante e al languido sentimentalismo del testo; un genere che Metastasio, con la cantabilità dei suoi versi, seppe interpretare al più alto livello, venendo incontro ai gusti della elegante società settecentesca.

Jacopo Amigoni, Metastasio, la cantante Teresa Castellini, Farinelli, il pittore e un ragazzo in costume da ussaro, 1750-52, olio su tela, part., Melbourne, National Gallery of Victoria.

277

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo Gli ultimi anni

T3

Meno intensa e significativa è la produzione melodrammatica degli anni successivi, che vedono Metastasio impegnato anche nella composizione di poesie di vario genere, come canzonette secondo il gusto arcadico, che ebbero grande fortuna, e componimenti dedicati soprattutto alla nuova imperatrice, Maria Teresa (La libertà, I voti pubblici, La pubblica felicità), oppure opere di contenuto encomiastico, che, sebbene si aprissero a prospettive blandamente riformatrici, rientravano nell’attività di Metastasio come poeta di corte. Pur continuando a godere degli onori che la sua posizione gli riservava, gli ultimi anni passarono stancamente, fino alla morte che lo raggiunse a Vienna nel 1782. Da ultimo, venuta meno l’ispirazione, anche di fronte al cambiamento dei gusti del pubblico, Metastasio si occupò di problemi critici, commentando le poetiche di Orazio e di Aristotele, ma soprattutto difendendo la sua concezione del melodramma nelle Osservazioni sul teatro degli antichi, pubblicate postume.

Pietro Metastasio

Temi chiave

enea abbandona Didone

• la ripresa di un mito classico • il contrasto tra passione e dovere

da Didone abbandonata, atto I, scene XVII e XVIII Enea comunica a Didone che sta per partire da Cartagine.

> Metro: settenari ed endecasillabi alternati; nelle ariette finali delle scene, strofe rimate di settenari (vv. 514-525) e di senari (vv. 544-553).

Scena XVII Didone ed Enea didone

Enea, salvo già sei dalla crudel ferita. Per me serban gli dèi sì bella vita. enea

Oh Dio, regina! didone

460

Ancora forse della mia fede incerto stai? enea

No: più funeste assai son le sventure mie. Vuole il destino… didone

Chiari i tuoi sensi1 esponi. enea

Vuol… (mi sento morir) ch’io t’abbandoni.

278

1. sensi: pensieri.

Capitolo 1· La lirica e il melodramma didone

465

M’abbandoni! Perché? enea

Di Giove il cenno2, l’ombra del genitor , la patria, il Cielo, la promessa, il dover, l’onor, la fama alle sponde d’Italia oggi mi chiama. La mia lunga dimora4 pur troppo degli dèi mosse lo sdegno. 3

470

didone

E così fin ad ora, perfido, mi celasti il tuo disegno5? enea

Fu pietà. didone

475

480

485

Che pietà? Mendace6 il labbro fedeltà mi giurava, e intanto il cor pensava come lunge da me volgere il piede! A chi, misera me! darò più fede7? Vil rifiuto dell’onde8, io l’accolgo dal lido; io lo ristoro dalle ingiurie del mar; le navi e l’armi già disperse io gli rendo, e gli do loco9 nel mio cor, nel mio regno; e questo è poco. Di cento re per lui ricusando l’amor, gli sdegni irrìto: ecco poi la mercede10. A chi, misera me! darò più fede?

2. il cenno: il comando. 3. genitor: Anchise, che Enea salvò dalla rovina di Troia, portandolo sulle spalle. Secon-

do Virgilio (Eneide, canto VI) Enea lo incontrò poi nell’Ade, dove Anchise profetizzò la grandezza di Roma.

4. dimora: permanenza, soggiorno. 5. disegno: progetto. 6. Mendace: bugiardo. 7. fede: fiducia, credito. 8. rifiuto dell’onde: naufrago. 9. gli do loco: gli offro un posto. 10. mercede: ricompensa.

Pesare le parole Funeste (v. 461)

> Deriva dal latino fùnus-fùneris, “morte, rovina”, e significa > Dalla stessa radice provengono funerale, “cerimonia in “che reca morte, lutto” (es. quella di Paolo e Francesca nel canto V dell’Inferno è una passione funesta, che conduce i due amanti alla morte); più genericamente, il senso può essere “che produce danni gravi e irreparabili” (es. aver scelto quell’investimento è stato un errore funesto, che mi è costato gravi perdite). Sinonimo in questo senso: deleterio, dal greco deletérios, “nocivo, che danneggia”, imparentato con il latino delère, “distruggere” (es. il non aver pagato la multa ha avuto conseguenze deleterie, perché l’importo è poi triplicato). Il verbo funestare vale “affliggere con lutti o grandi dolori” (es. le feste sono state funestate dalla notizia di gravi disastri, a causa di frane e alluvioni).

onore di un defunto”, e funebre, “relativo ai morti” (es. l’orazione funebre per i caduti fu pronunciata dal ministro della Difesa), oppure in senso estensivo “triste, mesto, tetro” (es. dalla tua aria funebre deduco che sei stato bocciato all’esame). Ricorre anche la forma funereo, con gli stessi significati (es. dopo essere stato lasciato dalla moglie ha sempre un viso funereo). Sinonimo: lugubre, che deriva dal latino lugère, “piangere”, nel senso originario di “essere in lutto”, e significa “che richiama immagini di lutto e sventura” (es. quella casa in rovina ha un’aria lugubre, sembra abitata da fantasmi). Lutto propriamente viene dal participio passato di lugère, lùctum.

279

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

enea

490

Fin ch’io viva, o Didone, dolce memoria al mio pensier sarai; né partirei giammai, se per voler de’ numi11 io non dovessi consacrare il mio affanno all’impero latino12. didone

Veramente non hanno altra cura gli dèi che il tuo destino. enea

495

Io resterò, se vuoi che si renda spergiuro un infelice. didone

500

505

No, sarei debitrice dell’impero del mondo a’ figli tuoi. Va pur, segui il tuo fato13; cerca d’Italia il regno; all’onde, ai venti confida pur la speme14 tua. Ma senti: farà quell’onde istesse delle vendette mie ministre15 il Cielo; e, tardi allor pentito d’aver creduto all’elemento insano16, richiamerai la tua Didone in vano. enea

Se mi vedessi il core… didone

Lasciami, traditore. enea

510

Almen dal labbro mio con volto meno irato prendi l’ultimo addio. didone

Lasciami ingrato. enea

E pur con tanto sdegno non hai ragion di condannarmi. didone

Indegno! 515

280

Non ha ragione, ingrato, un core abbandonato da chi giuragli fé17?

11. de’ numi: degli dèi. 12. consacrare … latino: dedicare i miei sforzi alla creazione dell’Impero di Roma. 13. fato: destino. 14. speme: speranza. 15. ministre: esecutrici. 16. d’aver … insano: di esserti affidato alle insidie del mare. 17. giuragli fé: gli giura fedeltà, gli giura di essere fedele.

Capitolo 1· La lirica e il melodramma

520

525

Anime innamorate, se lo provaste mai, ditelo voi per me! Perfido! tu lo sai se in premio un tradimento io meritai da te. E qual sarà tormento, anime innamorate, se questo mio non è? (parte) Scena XVIII Enea solo.

530

535

540

545

550

E soffrirò che sia sì barbara mercede18 premio della tua fede, anima mia! Tanto amor, tanti doni… Ah! pria ch’io t’abbandoni, pèra19 l’Italia, il mondo; resti in oblio profondo la mia fama sepolta, vada in cenere Troia un’altra volta. Ah che dissi! Alle mie amorose follie, gran genitor20, perdona: io n’ho rossore. Non fu Enea che parlò, lo disse Amore. Si parta… E l’empio Moro21 stringerà il mio tesoro? No… Ma sarà frattanto al proprio genitor spergiuro il figlio? Padre, amor, gelosia, numi, consiglio! Se resto sul lido, se sciolgo le vele, infido, crudele mi sento chiamar. E intanto, confuso nel dubbio funesto, non parto, non resto, ma provo il martire22 che avrei nel partire, che avrei nel restar (parte).

18. sì … mercede: una ricompensa così disumana. 19. pèra: perisca. 20. gran genitor: Anchise. 21. l’empio Moro: Iarba, re dei Mori, che era giunto a Cartagine sotto mentite spoglie per ottenere la mano di Didone. 22. il martire: il martirio, la crudele sofferenza.

Augustin Cayot, La mort de Didon, 1711, scultura in marmo, Musée du Louvre.

281

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo

> I contenuti

La materia classica

Le risposte al destino

La tensione emotiva

È il momento culminante del melodramma, quando Enea comunica a Didone di doverla lasciare per ordine di Giove, che gli ingiunge di non contrastare il destino che lo attende, quello di sbarcare sulle coste del Lazio per dare origine alla grandezza di Roma. Non va dimenticato, anche ai fini di una valutazione del testo, che la Didone abbandonata, pur essendo il primo dramma di Metastasio, contiene già tutte quelle componenti che, oltre a decretarne il successo immediato, accompagneranno la produzione successiva dell’autore. Da segnalare, fin dall’inizio, la ricerca di un confronto con la materia classica, che, mentre corrisponde all’atteggiamento antibarocco delle poetiche arcadiche, non esita a cimentarsi con l’opera più celebrata della letteratura latina, l’Eneide virgiliana, e con quello che di quest’opera si può considerare l’episodio più noto. Ma il rapporto si pone in termini inversamente proporzionali: se l’indugio dell’eroe presso Didone era un semplice intermezzo amoroso in un poema interamente dedicato alle armi, qui diventa il centro focale dell’attenzione, scandendo i tempi dell’azione nel passaggio dall’amore corrisposto alla decisione da parte di Enea di abbandonare la donna amata. Il motivo dominante è quindi nelle risposte che i protagonisti forniscono all’incombere di un destino che divide l’animo di Enea fra la passione e il dovere, mentre Didone reagisce con la rabbia e il rancore di chi accusa di ingratitudine la persona a cui ha tutto sacrificato.

> L’aspetto formale

Non è certo difficile vedere un che di convenzionale nella riduzione per la scena di questi contrasti psicologici, ma quello che conta, per il poeta, è soprattutto tenere alta la tensione emotiva e passionale, che costituisce sin d’ora, e costituirà anche in seguito, la cifra dei successi metastasiani. Allo scopo concorre in larga misura la musica, che, a sua volta è chiamata a esaltare la cantabilità dei versi, in cui il passaggio ai soli settenari, con i quali si concludono, in evidente corrispondenza, le due scene antologizzate (vv. 514-525 e vv. 544-553), sembra scandire l’alternanza fra il racconto e la scorrevolezza ritmica dei lamentevoli indugi sentimentali.

Esercitare le competenze COMPRenDeRe

> 1. Quali figure e quali valori, oltre al destino, richiamano Enea ai propri doveri (vv. 466-470)? > 2. Riassumi il contenuto dei versi 473-485: che cosa racconta Didone di Enea? > 3. Riassumi il contenuto della scena XVIII. AnALIzzARe

> 4.

Stile Individua, nella scena XVII del dramma, i luoghi in cui emerge il sarcasmo e l’ironia di Didone nei confronti dell’amato. > 5. Stile Individua nelle ariette finali delle due scene (vv. 514-525 e vv. 544-553) anafore, antitesi e parallelismi. > 6. Lessico Con quali termini la regina apostrofa Enea? Quale sentimento sottolineano?

APPROFOnDIRe e InTeRPReTARe

> 7.

Scrivere Descrivi in un testo di circa 10 righe (500 caratteri) il personaggio di Enea così come emerge dai brani: conserva i tratti dell’eroe classico? > 8. esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) distingui quali sono le caratteristiche delle “arie” rispetto ai “recitativi”, a livello del contenuto, metrico e formale.

282

In sintesi

LA LIRICA e IL MeLODRAMMA Verifica interattiva

L’ARCADIA

MeTASTASIO e IL MeLODRAMMA

La lirica settecentesca si svolge in gran parte all’insegna dell’Accademia dell’Arcadia, che, sorta a Roma nel 1690 e ben presto diffusasi in tutta Italia, si era soprattutto preoccupata di combattere ed estirpare quello che veniva considerato il cattivo gusto della poesia barocca. Alla ricerca di effetti tecnicamente ricercati e sorprendenti si sostituisce il bisogno di una semplicità che si ispira alla tradizione petrarchesca, resa musicalmente scorrevole e manierata, grazie anche a quelle finzioni di un travestimento pastorale che si richiamano ai modi della poesia bucolica. Tra le forme predilette c’era quella del sonetto, che, nell’esempio proposto di Giambattista Felice Zappi (1667-1719), compone il delicato quadretto di una situazione amorosa che si risolve nell’aggraziata gestualità di un semplice e umile dono. Il motivo amoroso, che caratterizza la poesia degli arcadi nella convenzionalità delle sue maniere, assume una più scorrevole musicalità nei versi brevi della canzonetta, di cui il testo antologizzato di Paolo Rolli (1687-1765) rappresenta uno degli esempi più famosi.

Quella della canzonetta è una forma metrica praticata con successo anche da Pietro Metastasio (1698-1782), che dedicherà all’imperatrice Maria Teresa d’Austria componimenti di contenuto encomiastico; questi, pur aprendosi a tematiche blandamente riformatrici, rientravano nella sua attività di poeta di corte. Dopo aver partecipato alla vita della società aristocratica napoletana, nel 1730 Metastasio era stato chiamato a Vienna, dove aveva sostituito Apostolo Zeno come “poeta cesareo”, al servizio dell’imperatore. La sua fama è strettamente associata alle fortune del melodramma. Il successo della sua prima opera, Didone abbandonata (1724), gli aprì la strada di una prestigiosa carriera, consolidatasi con i melodrammi del primo decennio viennese. Stabilendo la netta supremazia del libretto sulla musica, Metastasio riformò il melodramma settecentesco, portandolo alla sua massima espressione. La musicalità dei suoi versi, sottolineando il conflitto delle passioni, veniva così a esaltare gli aspetti emotivi e sentimentali dell’azione drammatica.

Facciamo il punto 1. Quali sono le forme più diffuse della lirica del Settecento? Quali caratteristiche hanno? 2. Indica quali sono le caratteristiche principali dello stile nelle poesie di Rolli e di Zappi antologizzate in

questo capitolo. 3. Indica gli avvenimenti principali della vita di Metastasio. 4. Quali sono le opere principali di Metastasio? Quali le loro caratteristiche? 5. Quali caratteristiche presenta il melodramma di Metastasio? Perché ottiene un notevole successo di pubblico?

283

Capitolo 2

La trattatistica italiana del primo Settecento

I trattati sulla poesia

Muratori

Tiraboschi

Vico

Giannone

284

Nel Settecento perde vigore la trattatistica dialogica, che aveva avuto in Galileo il suo ultimo grande rappresentante. A essere praticato è soprattutto il trattato monologico, che si orienta nei modi e nelle forme di una riflessione razionale, lontana ormai dalle eccentricità della prosa barocca (quella, per intenderci, di un Tesauro). A marcare le distanze intervengono, già nel primo decennio del nuovo secolo, trattati sulla poesia come Della bellezza della volgar poesia (1702) di Giovanni Mario Crescimbeni (16631728), Della perfetta poesia (1706) di Ludovico Antonio Muratori ( A1, p. 285) e la Ragion poetica (1708) di Gian Vincenzo Gravina (1664-1718); ma del Crescimbeni andrà ricordata anche l’Istoria della volgar poesia (1698), prima trattazione sistematica di questo genere letterario. La novità rappresentata dalla trattatistica consiste nell’attenzione a un rinnovamento delle prospettive culturali, che sembra impegnare gli intellettuali in un comune progetto. Vengono così gettati i semi di quello spirito riformatore che si sarebbe ulteriormente sviluppato, nel volgere di pochi decenni, sotto l’impulso delle teorie illuministiche. Se ne fa interprete soprattutto, sul piano della concretezza dei problemi, Muratori, con la proposta alle accademie italiane di abbandonare il carattere ozioso delle vuote e inconcludenti esercitazioni. Motivo tipicamente preilluministico è quello affrontato nel trattatello Della pubblica felicità (1749), che auspica una conciliazione fra progetto riformatore e cattolicesimo, così come lo scritto Del governo della peste e delle maniere di guardarsene (1714) denuncia le superstizioni che portarono alla condanna degli untori durante la peste milanese del 1630, anticipando le posizioni di Pietro Verri ( cap. 4, A2, p. 339) e di Alessandro Manzoni. Questo nuovo sguardo portato sul presente era certo favorito da una nuova coscienza storica, quale poteva nascere dalle ricerche che avevano visto in prima fila lo stesso Muratori, con la monumentale raccolta delle testimonianze del passato affidata ai suoi Rerum italicarum scriptores. Frutto di ricerche erudite presentava anche la Storia delle letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi (1731-94), pubblicata in 9 volumi fra il 1772 e il 1782 che veniva a rappresentare il primo tentativo di un genere che avrebbe trovato la consacrazione, dopo l’Unità, ad opera di Francesco De Sanctis. Su un piano diverso, ben più complesso e problematico, si colloca la proposta di una nuova filosofia della storia, e del suo divenire, affidata ai Princìpi di scienza nuova da Giambattista Vico ( A2, p. 289), che ne ricerca i segni e le tracce nei tempi remoti delle antiche civiltà. Vico piacerà ai romantici per la sua rivalutazione del sentimento poetico e per il tentativo di ricostruire gli usi e i costumi delle popolazioni della penisola, contribuendo anch’egli a quella rivalutazione del passato necessaria per intendere il presente. Sia pure con finalità diverse, allo scopo concorre anche la Storia del regno di Napoli, con cui, attraverso un’attenta disamina delle fonti giuridiche, Pietro Giannone ( A3, p. 295) denunciava «gli abusi […] e le tante corruttele ed attentati» perpetrati dal potere temporale della Chiesa, esprimendosi a favore della laicità dello Stato. Non era, quello di Giannone, un sentimento antireligioso, bensì il desiderio di un ritorno

Capitolo 2 · La trattatistica italiana del primo Settecento

all’originaria missione spirituale del messaggio cristiano. Di qui, in un quadro della storia più generale, l’esigenza di un profondo rinnovamento del costume politico, come auspicherà nel Triregno.

A1 I trattati

Testi Muratori L’intelletto e la fantasia da Della perfetta poesia italiana •

Le ricerche storiche

Testi Muratori • Gli untori: quali prove della loro esistenza? da Del governo della peste e delle maniere di guardarsene

Ludovico Antonio Muratori La vita e le opere Nato a Vignola (cittadina in provincia di Modena) nel 1672 da una famiglia povera, studiò presso i gesuiti; ordinato sacerdote, nel 1695 fu trasferito a Milano come prefetto della biblioteca Ambrosiana, sino a quando il duca Rinaldo I lo richiamò a Modena per nominarlo bibliotecario e archivista di corte. Qui difese il suo signore contro le pretese del pontefice su Ferrara e sul territorio di Comacchio, scrivendo le Ragioni della Serenissima Casa d’Este (1714). Nella sua infaticabile attività di studioso, si occupò di numerose discipline. In ambito letterario, oltre a una raccolta di Rime (1699) di scarso valore poetico, scrisse i Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia (1703, T1, p. 286), in cui propose un profondo rinnovamento delle accademie esistenti, unificandole in un unico disegno che, contro la futilità degli interessi, ponesse al centro le discipline scientificamente e civilmente utili. L’opera più impegnativa è il trattato di estetica Della perfetta poesia italiana (1706), in cui propose un superamento della poetica barocca, pur senza rinunciare all’idea di un’originalità che tuttavia deve essere sottoposta a un controllo razionale e rifiutare gli elementi stravaganti. Uno stesso ideale di equilibrio è presente nelle Riflessioni sopra il buon gusto intorno le scienze e le arti (in due parti, 1708 e 1715). L’idea di affrontare i problemi sociali con «la scorta della ragione» guiderà anche Muratori a comporre il trattato Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni principi (1749), in cui, pronunciandosi a favore del dispotismo illuminato, cerca una mediazione tra cattolicesimo e nascente Illuminismo. Centrale resta l’interesse per la storia, che fa di Muratori il più grande erudito del suo tempo. A partire dal suo lavoro di bibliotecario, iniziò a raccogliere e a trascrivere una fondamentale documentazione di testi, arricchita con i viaggi da lui compiuti fra il 1714 e il 1716 e con le relazioni istituite con gli intellettuali di tutta Italia. Di qui nasceranno opere come le Antichità estensi (in due parti, uscite nel 1717 e nel 1740) e soprattutto i 26 volumi dei Rerum italicarum scriptores (“Scrittori di cose italiane”, 1723-38), che rappresentano la più importante raccolta mai messa insieme di cronache e di documenti di ogni genere, editi e inediti, relativi alla storia italiana a partire dall’alto Medioevo (a commento di questo materiale, ordinato cronologicamente, scrisse gli Annali d’Italia, in 12 volumi usciti tra il 1744 e il 1749, primo tentativo di una ricostruzione della storia d’Italia).

Carlo Perotti, Ritratto di Ludovico Antonio Muratori, 1756, olio su tavola, Milano, Biblioteca Ambrosiana.

285

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

T1

Ludovico Antonio Muratori

Per una «repubblica dei letterati»

Temi chiave

• la polemica contro le accademie • l’importanza della «filosofia naturale» • la creazione di una «repubblica dei letterati»

dai Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia Il brano prende in considerazione la situazione delle accademie italiane e ne propone un sostanziale rinnovamento.

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Ragion dunque vorrebbe che coteste adunanze1 fossero più utili e sode2 e richiederebbe la riputazion degli accademici e il bisogno3 delle lettere che quivi si trattassero materie più luminose4 e vi si facesse traffico ancor delle scienze5 e dell’arti erudite. Noi vorremmo pertanto le accademie non già sbandite6, ma migliorate; noi le brameremmo non solamente dilettevoli alle orecchie7, ma utili ancora agl’ingegni, sì8 di chi parla, come di chi ascolta. La pompa9 della sola poesia non ha altra virtù che quella de’ fiori, bastanti a ricrear la vista, ma non a pascer la fame10 de’ letterati veri e massimamente in questi tempi, che non son poetici al pari del secolo prossimo11 passato. Farebbesi12 perciò miglior uso delle nostre accademie quando in esse noi volessimo trattar seriamente e l’arti e le scienze, non già per mendicar plausi leggieri13 e per piacere al volgo degl’ignoranti, ma per profitto proprio14 e per benefizio delle lettere. E queste nel vero15 tacitamente si raccomandano agl’ingegni felici d’Italia e da loro cercano e in loro sperano avanzamento16 di gloria. Già in alcune di queste celebri adunanze con piacere noi rimiriamo17 coltivati gli studi della poetica18 e trattate19 le regole della lingua italiana con vantaggio certamente dell’una e dell’altra. Più gloriosa fatica hanno impreso20 altre accademie trattando l’erudizione ecclesiastica, la filosofia sperimentale21 e morale, la geografia ed altri importantissimi argomenti. Ma questo lodevole studio di pochi dovrebbe ormai abbracciarsi22 da tutti e svegliarsi23 una nobilissima gara fra le accademie italiane, il cui fine fosse l’accrescimento24 delle scienze e dell’arti e la gloria della nazione. […] Sarebbe questa un’unione, una repubblica, una lega25 di tutti i più riguardevoli26 letterati d’Italia, di qualunque condizione e grado e professori27 di qual si voglia28 arte liberale29 o scienza, il cui oggetto fosse la riformazione30 e l’accrescimento d’esse arti e scienze per benefizio della cattolica religione, per gloria dell’Italia, per profitto pubblico e privato. […]

1. adunanze: le riunioni delle accademie. 2. sode: concrete. 3. il bisogno: le particolari esigenze proprie. 4. luminose: importanti, in grado di “illumi­ nare” la mente. 5. vi si … scienze: ci fossero scambi e con­ fronti anche sugli argomenti scientifici. 6. sbandite: messe al bando, eliminate. 7. le brameremmo … orecchie: desidere­ remmo fortemente che trattassero argomenti non soltanto piacevoli da ascoltare (alle orecchie). 8. agl’ingegni, sì: alle menti, sia. 9. La pompa: lo sfoggio, il decoro formale. 10. pascer la fame: soddisfare le esigenze culturali, la fame intellettuale.

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11. prossimo: appena; si riferisce al Seicen­ to, con implicito riferimento alla poesia ba­ rocca, considerata negativamente come un esercizio ozioso e inutile. 12. Farebbesi: si farebbe. 13. leggieri: superficiali, inconsistenti. 14. profitto proprio: utilità personale. 15. nel vero: in verità. 16. avanzamento: aumento. 17. rimiriamo: osserviamo piacevolmente. 18. della poetica: sull’arte poetica, sulla poe­ sia. 19. trattate: discusse. 20. impreso: intrapreso. 21. sperimentale: basata sull’esperienza, se­ condo l’insegnamento di Galileo e dei suoi

seguaci. 22. abbracciarsi: essere abbracciato, nel sen­ so di essere praticato. 23. svegliarsi: far nascere. 24. l’accrescimento: l’incremento. 25. lega: associazione. 26. riguardevoli: ragguardevoli, importanti. 27. professori: esperti (nel senso che “pro­ fessano”, esercitano una disciplina). 28. qual si voglia: qualsiasi. 29. arte liberale: sin dal Medioevo così era­ no indicate le arti che richiedevano un im­ pegno intellettuale, a differenza delle “arti meccaniche”, che comportavano un lavoro manuale. 30. riformazione: riforma.

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Tanta è la copia31 degli studiosi delle lettere umane, della poesia, dell’eloquenza, che con uguale facilità noi avremo nella nostra lega persone d’ottimo gusto in essa e potremo correggere il pessimo altrui32. […] Nella filosofia naturale33 è tuttavia34 sterminata la messe a cui sono invitati35 i nostri ingegni. Tra la seccaggine36 e l’ostinata sofisticheria37 de’ vecchi peripatetici38 e la forse smoderata39 e sospetta audacia o novità de’ moderni, possono le menti acute ritrovar mille vie di giovare40 alla fisica, e alla verità, per la qual sola, e non per l’autorità de’ maestri, noi dobbiamo sempre combattere. Senza scrupolo, per così dir, di coscienza e senza offendere il tribunale del diritto giudizio41, non possono già ora sostenersi42 tutte le sentenze d’Aristotele, né adorarsi i difetti della sua scuola, figliuoli43 però la maggior parte non di lui, ma de’ suoi barbari comentatori. […] Già si son fatte solenni critiche e guerre alla dottrina44 delle vecchie e delle nuove scuole. L’effetto almeno in Italia ci fa vedere che non s’è profittato45 abbastanza, durando46 moltissimi abusi, errori e superfluità nelle cattedre filosofiche. Alla purgazion47 dunque di queste ha seriamente da intendere48 la nostra repubblica, screditando specialmente e perseguitando la sofistica49 e facendo in guisa50 che le italiche scuole non sieno più, come lo erano ne’ secoli barbari, battaglie di parole, ma modesti licei51 di sapienza e del vero. Per questa cagione52 ancora bramiamo53 che alla logica e alla metafisica si taglino molte penne54, acciocché55 non facciano inutile pompa di se stesse, vagando qua e là senza verun56 profitto, ma fedelmente e con pronta ubbidienza accompagnino la mente nostra allo scoprimento57 della verità. Riponiamo poscia le maggiori speranze della nostra gloria nella filosofia che appelliamo58 sperimentale59. L’attenta osservazione degli effetti e delle cagioni delle cose, i cimenti60 o vogliam dire gli esperimenti nuovi, il ritrovar nuove macchine e mezzi per giungere più da vicino a conoscere la fabbrica61, le virtù, l’origine, gli artifizi occulti62, la lega o inimicizia63 ed altre infinite qualità di tanti e sì vari corpi della natura, formanti il mondo terreno e celeste, moventisi64 o privi di moto: sono quegli studi che noi vorremmo principalmente coltivati da’ nostri filosofi e che possono, aiutati dal raziocinio65, porgere gran soccorso alla storia della natura. Qui dunque si debbono esercitar le nostre forze, qui procurar di far cammino perciocché66 le sole speculazioni67 dell’ingegno non son sempre bastevoli cannocchiali68 per raggiungere la verità delle cose fisiche.

31. copia: numero, quantità. 32. il pessimo altrui: il pessimo gusto degli altri. 33. naturale: della natura, che si occupa delle leggi della natura. 34. è tuttavia: continua a essere. 35. la messe … invitati: il raccolto (propria­ mente la mietitura) al quale sono invitati a partecipare. 36. seccaggine: aridità. 37. sofisticheria: la pedanteria, i cavilli. 38. peripatetici: i seguaci di Aristotele, che, secondo la tradizione, insegnava passeggian­ do sotto i colonnati della sua scuola, il Liceo. 39. smoderata: smodata. 40. giovare: essere utili. 41. diritto giudizio: la giustizia, che condu­ ce alla verità. 42. sostenersi: essere sostenute, accettate. 43. figliuoli: eredi (si riferisce a difetti, che per la maggior parte derivano dagli inter­ preti rozzi e ignoranti, i barbari comentatori).

44. dottrina: gli insegnamenti. 45. non s’è profittato: non si è tratto van­ taggio. 46. durando: in quanto perdurano. 47. purgazion: liberazione, eliminazione de­ gli errori. 48. ha … da intendere: deve seriamente tendere, mirare. 49. la sofistica: i ragionamenti fondati su sofismi, ossia pretestuosi e ingannevoli. 50. in guisa: in modo. 51. licei: scuole, in senso generale. 52. cagione: ragione, causa. 53. bramiamo: desideriamo ardentemente. 54. si taglino … penne: nel senso che la loro importanza venga molto ridimensio­ nata. 55. acciocché: affinché. 56. verun: alcun. 57. scoprimento: scoperta. 58. appelliamo: chiamiamo. 59. sperimentale: in quanto basata, secon­

do le indicazioni di Galileo, sull’osservazione e sulla sperimentazione. 60. i cimenti: le prove (ma si ricordi l’Accade­ mia del Cimento, fondata dagli allievi di Ga­ lileo L’età del Barocco e della Nuova Scienza, cap. 5, p. 180). 61. la fabbrica: la struttura, la conformazio­ ne (le virtù sono le qualità, le caratteristi­ che). 62. gli artifizi occulti: i meccanismi segreti. 63. la lega o inimicizia: la fusione o la sepa­ razione degli elementi, o anche l’attrazione o la repulsione dei corpi. 64. moventisi: che sono in movimento. 65. raziocinio: ragione, ragionamenti. 66. procurar … perciocché: cercare di an­ dare avanti, di procedere, perché. 67. speculazioni: indagini. 68. bastevoli cannocchiali: sufficienti stru­ menti (si noti l’uso metaforico di un termine che anche il questo caso conduce inevitabil­ mente al nome di Galileo).

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo La crisi delle accademie

La «filosofia naturale»

Contro gli aristotelici

La «repubblica dei letterati»

> Una polemica costruttiva

Muratori avverte il venir meno del ruolo delle vecchie accademie, le cui funzioni, ridotte a vuoto formalismo o a semplice sfoggio di inutili cognizioni, dovevano apparire, agli spiriti più aperti e criticamente consapevoli, come istituzioni anacronistiche, oramai fuori del tempo. La polemica nei loro confronti non si propone di eliminarle ma di migliorarle, inserendole in un programma di rinnovamento, che – come tutti quelli che hanno vita nel Settecento “riformatore” – si richiama alla “ragione” («Ragion dunque vorrebbe…», r. 1) e ha come scopo quello dell’“utile”. Di qui nasce il rifiuto delle frivole e inconcludenti esercitazioni, come quelle che riguardano i sofismi della «logica» o le astrazioni della «metafisica», mentre si propone il rafforzamento di quelle discipline che si occupano della concretezza dei problemi reali, come quella «filosofia naturale» o «sperimentale» che, collegandosi con tutta evidenza alla lezione di Galileo, si rivolge allo studio della natura e, favorendo gli sviluppi della scienza e delle sue applicazioni tecniche, consente di «raggiungere la verità delle cose fisiche» (r. 54). Nel fare ancora i conti con la tradizione aristotelica, Muratori riprende la polemica nei confronti di quei seguaci che tradiscono l’insegnamento del filosofo greco (così come aveva fatto Galileo, L’età del Barocco e della Nuova Scienza, cap. 5, T7, p. 180), considerandoli negativamente insieme con coloro che si spingono troppo in avanti con le loro congetture. Il banco di prova è costituito dal rispetto delle leggi della natura e delle esigenze della storia, con la profonda consapevolezza di quella serietà che riguarda sia la cultura umanistica sia quella scientifica e che, comprendendo le scienze, le lettere e le arti, acquista un più ricco spessore di significati.

> Un nuovo progetto culturale

Tuttavia secondo Muratori non occorre solo selezionare ciò che di meglio possono offrire le varie accademie, incanalandolo verso la creazione di un nuovo grande progetto culturale; se gli sforzi isolati rischiano di disperdersi, lasciando al massimo deboli tracce, diventa necessario coordinare le forze, creando dei collegamenti fra le iniziative più aperte e feconde per dare vita, sul piano nazionale, a una «repubblica» dei «letterati». Questa, secondo Muratori, avrebbe dovuto essere la risposta degli intellettuali alle debolezze di un paese politicamente diviso, privo di un centro unificatore capace di orientare – come accadeva per Parigi e le grandi capitali europee – le scelte e i progetti culturali.

Esercitare le competenze CoMPrendere

> 1. Riassumi le opinioni di Muratori sulle accademie del suo tempo, su come sono e come vorrebbe che fossero. > 2. Che cosa intende l’autore per «repubblica» dei «letterati»? Quale dovrebbe essere l’obiettivo di tale istituzione? > 3. Su quali valori lo scrittore ritiene importante si basino le scuole? > 4. Qual è l’opinione di Muratori sulla fisica? AnALizzAre

> 5. > 6.

Individua e spiega le metafore presenti nel testo. Quali caratteristiche presenta lo stile del brano? Prevale la paratassi o l’ipotassi? I periodo sono lunghi o brevi? Compaiono inversioni sintattiche? Stile Stile

APProfondire e inTerPreTAre

> 7.

Scrivere A partire dal brano, sottolinea in un testo scritto di circa 10 righe (500 caratteri) l’importanza e il ruolo svolto da Muratori con le sue opere per la nascita storica e culturale dell’identità nazionale del nostro paese.

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Capitolo 2 · La trattatistica italiana del primo Settecento

A2

Testi Vico • Elogio della scienza dal De nostri temporis studiorum ratione

De antiquissima Italorum sapientia

Testi Vico • All’origine dell’umanità dalla Scienza nuova

Il verum per factum

Il problema della conoscenza

Le fasi della storia

Giambattista Vico La vita e le opere Nato a Napoli nel 1668, da piccolo si fratturò il cranio per una rovinosa caduta; interruppe poi per tre anni gli studi, che porterà avanti in maniera disordinata e discontinua, occupandosi di grammatica, di filosofia e di diritto (si iscrisse da ultimo all’università, senza tuttavia frequentarla). Nel frattempo venne assunto come istitutore in una nobile famiglia calabrese, per rientrare poi nel 1695 a Napoli, dove partecipò attivamente all’intensa vita culturale della città. Si impose all’attenzione con due orazioni in latino, che gli valsero nel 1699 l’assegnazione della cattedra universitaria di eloquenza; solo l’ultima delle sette orazioni inaugurali, De nostri temporis studiorum ratione (“Del metodo degli studi del nostro tempo”), venne pubblicata. Sin dall’inizio Vico si pone il problema della conoscenza storica, come si vede nel primo libro di un’opera rimasta incompiuta, De antiquissima Italorum sapientia (“L’antichissima sapienza degli italiani”, 1710), in cui – esaminando alcune parole, ritenute rivelatrici del pensiero – attribuisce l’origine del linguaggio filosofico a un’antichissima popolazione italica. L’approfondirsi degli studi sul diritto lo spinse, nel 1723, a concorrere per una cattedra universitaria in quella disciplina, che però non riuscì a ottenere. La Scienza nuova La delusione che ne seguì lo indusse a ritirarsi sempre di più nella solitudine dei suoi studi e a occuparsi del suo capolavoro, i Princìpj di scienza nuova, uscito in una prima edizione nel 1725, rielaborato nel 1730 e in una successiva terza redazione, apparsa postuma lo stesso anno (1744) della sua morte. In quest’opera Vico sviluppa la sua originale concezione filosofica in alternativa a quella di Cartesio, che aveva fatto del pensiero (cogito, ergo sum, “penso, dunque sono”) il fondamento di ogni tipo di conoscenza, di sé e del mondo. Al razionalismo cartesiano sostituisce il principio del verum per factum, secondo cui al «vero» si può giungere solo attraverso il «fatto», nel senso che l’uomo può conoscere solo quello che fa, e quindi la conoscenza riguarda la storia, che è creazione umana, e non la natura, creata invece da Dio. Alla storia del passato, in cui l’uomo crea la civiltà, si giunge attraverso l’analisi delle parole, la filologia, grazie alla quale si ottiene la «coscienza del certo», mentre «la filosofia contempla la ragione, onde viene la coscienza del vero» ( T2, p. 290). La sintesi di queste due facoltà rappresenta una verità più viva e concreta rispetto alle astrazioni della matematica, consentendo di conoscere le istituzioni civili e giuridiche dei tempi antichi. Ma la storia è soprattutto sviluppo, in cui Vico individua tre fasi: la prima è quella dell’umanità primitiva, Ritratto di Giambattista Vico, storico, giurista e filosofo quando il mondo, dopo il diluvio uni(copia), 1804, olio su tela, Roma, Museo di Roma. versale, appare popolato da giganteschi

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

I «corsi» e i «ricorsi»

T2

«bestioni» che, con immagine potentemente suggestiva, vivono in una condizione quasi animalesca; in seguito, cominciando a incivilirsi, gli uomini «sentono con animo perturbato e commosso»; infine «riflettono con mente pura». Nella seconda fase prevale il sentimento, che, attraverso la fantasia, dà luogo alle corpose immagini poetiche dell’antichità; in una terza fase alla fantasia subentra la riflessione, che consente di dare una spiegazione filosofica delle cose. Questa dinamica, per Vico, tende a ripetersi, dando luogo a una vicenda di «corsi» e «ricorsi»; ma soprattutto lo schema delle età della storia si ripropone nell’età degli individui, che, dal prevalere della fantasia nell’infanzia, maturerà via via nella consapevolezza intellettuale. L’interesse per la filologia, applicata allo studio dei testi, doveva condurre Vico a pronunciarsi anche sui poeti: di qui l’ammirazione per Dante, in particolare per quanto riguarda le robuste creazioni fantastiche dell’Inferno; ma soprattutto interessante è il giudizio sui poemi omerici, che Vico (in quella che chiama «la discoverta [scoperta] del vero Omero») ritiene opera non di una singola personalità poetica ma creazioni collettive del popolo greco, in momenti successivi del suo sviluppo (più remota l’Iliade, più recente l’Odissea). Giambattista Vico

Temi chiave

Le «degnità» dalla Scienza nuova

• i compiti della filosofia • la conoscenza basata sull’esperienza • il rapporto tra fantasia e infanzia

Attraverso le «degnità», poste all’inizio dell’opera, è possibile ripercorrere il filo conduttore del sistema filosofico vichiano. Ne riportiamo le più significative.

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V. La filosofia, per giovar al gener umano, dee sollevar e reggere l’uomo caduto e debole, non convellergli la natura1 né abbandonarlo nella sua corrozione2. Questa degnità allontana dalla scuola di questa Scienza3 gli stoici4, i quali vogliono l’ammortimento5 de’ sensi, e gli epicurei6, che ne fanno regola, ed entrambi niegano la provvedenza, quelli faccendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso, e i secondi oppinando7 che muoiano l’anime umane coi corpi, i quali entrambi8 si dovrebbero dire «filosofi monastici9 o solitari». E10 vi ammette i filosofi politici11, e principalmente i platonici12, i quali convengono con tutti i legislatori in questi tre principali punti: che si dia provvedenza divina, che si debbano moderare l’umane passioni e farne umane virtù, e che l’anime umane sien immortali. […] X. La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l’autorità dell’umano arbitrio13, onde viene la coscienza del certo14.

1. convellergli la natura: fare violenza alla sua natura. 2. corrozione: corruzione, la condizione dell’uomo corrotto dal peccato originale. 3. scuola di questa Scienza: l’insegnamen­ to della Scienza nuova. 4. stoici: seguaci della scuola fondata da Zenone di Cizio nel IV secolo a.C.; credevano in una cosmologia di tipo panteistico (se­ condo cui ogni cosa è permeata da un dio immanente) e svilupparono una concezio­ ne etica basata sulla soppressione delle pas­ sioni e sull’esaltazione delle virtù.

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5. l’ammortimento: la mortificazione. 6. epicurei: seguaci del pensiero di Epicuro di Samo (342­270 a.C.); hanno una conce­ zione materialistica del mondo (che si ri­ chiama all’atomismo di Democrito) e un’eti­ ca basata sulla ricerca del piacere e sul­ l’eliminazione del dolore. 7. oppinando: credendo. 8. entrambi: sia gli stoici sia gli epicurei. 9. monastici: che vivono come dei monaci isolati dal mondo. 10. E: mentre, al contrario. 11. politici: che si occupano della cosa pub­

blica, dello Stato. 12. i platonici: pensatori ispirati dal pensie­ ro di Platone (428/27­348/47 a.C.) di cui ri­ prendono le idee di fondo, in particolare l’im­ mortalità dell’anima e la concezione della filosofia come mediazione tra la conoscenza intellegibile e sensibile. 13. l’autorità … arbitrio: l’efficacia delle scel­ te umane. 14. la coscienza del certo: la consapevolez­ za della realtà delle cose.

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Questa degnità per la seconda parte diffinisce i filologi essere tutti i gramatici, istorici, critici, che son occupati d’intorno alla cognizione delle lingue e de’ fatti de’ popoli, così in casa, come sono i costumi e le leggi, come fuori, quali sono le guerre, le paci, l’alleanze, i viaggi, i commerzi. Questa medesima degnità dimostra aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l’autorità de’ filologi, come i filologi che non curarono d’avverare le loro autorità con la ragion de’ filosofi; lo che se avessero fatto, sarebbero stati più utili alle repubbliche e ci avrebbero prevenuto nel meditar questa Scienza.

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XVI. Le tradizioni volgari15 devon avere avuto pubblici motivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempi. Questo sarà altro grande lavoro di questa Scienza: di ritruovarne i motivi del vero, il quale, col volger degli anni e col cangiare delle lingue e costumi, ci pervenne ricoverto di falso.

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XX. Se i poemi d’Omero sono storie civili degli antichi costumi greci, saranno due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia. Questa degnità ora qui si suppone: dentro16 sarà dimostrata di fatto. XXXVI. La fantasia è tanto più robusta quanto è più debole il raziocinio17. 30

XXXVII. Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate18 dare senso e passione, ed è proprietà de’ fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi19 come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologico-filosofica ne appruova20 che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti.

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LII. I fanciulli vagliono21 potentemente nell’imitare, perché osserviamo per lo più trastullarsi in assembrare22 ciò che son capaci d’apprendere. Questa degnità dimostra che ’l mondo fanciullo fu di nazioni poetiche, non essendo altro la poesia che imitazione. E questa degnità daranne il principio di ciò: che tutte l’arti del necessario, utile, comodo e ’n buona parte anco dell’umano piacere si ritruovarono ne’ secoli poetici innanzi di venir i filosofi, perché l’arti non sono altro ch’imitazioni della natura e poesie in un certo modo reali.

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LIII. Gli uomini prima sentono senz’avvertire23, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura. Questa degnità è ’l principio delle sentenze poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocini: onde queste più s’appressano al vero quanto più s’innalzano agli universali, e quelle sono più certe quanto più s’appropiano24 a’ particolari.

15. volgari: popolari. 16. dentro: nel corso dell’opera. Si riferisce alla Discoverta del vero Omero, nel III libro. 17. il raziocinio: la ragione, la capacità di ragionare.

18. insensate: fantastiche. 19. trastullandosi, favellarvi: mentre gio­ cano, parlare con loro. 20. ne appruova: ci conferma. 21. vagliono: valgono, sono bravi.

22. assembrare: imitare. 23. senz’avvertire: senza averne coscienza. 24. s’appropiano: si accostano, si riferi­ scono.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo Il «vero» e il «certo»

Il compito della filosofia La conoscenza

La fantasia

Tre sono i momenti fondamentali che queste «degnità» rappresentano, e che costituiscono i capisaldi del pensiero vichiano. In primo luogo c’è la distinzione fra il «vero», che riguarda la «ragione» e fa capo alla «filosofia», e il «certo», che si può comprendere attraverso la «filologia», intesa da Vico come scienza della storia, capace di ricostruire gli usi e i costumi del passato, rivelando gli errori delle false interpretazioni. La «scienza nuova», proposta da Vico, consiste nello stretto legame fra questi elementi, che non possono esistere separatamente ma si richiamano a vicenda. La filosofia deve rispettare la natura dell’uomo, aiutandolo a vincere le sue debolezze, a condizione però che si consideri l’uomo come un essere sociale, il cui destino si inserisce in una prospettiva provvidenziale. Alla base del pensiero di Vico è l’idea che si può conoscere solo ciò che si fa e quindi la conoscenza si basa sull’esperienza. Di qui l’importanza delle tradizioni popolari che, durando nei secoli, devono essere ricostruite e conosciute nella loro realtà, liberata dalle sovrapposizioni che si sono aggiunte nei tempi successivi. Così attraverso le opere attribuite a Omero è possibile conoscere la storia civile, i rapporti giuridici, la mentalità e gli «antichi costumi greci» (r. 26). Nella storia dell’umanità – prima che, con la nascita delle società, subentri la ragione – la fantasia è la prerogativa degli uomini antichi, che proprio per questo sono «sublimi poeti»; se alle età della storia («prima … dappoi … finalmente», rr. 43-44) corrispondono quelle dell’individuo, ne consegue che i fanciulli, in cui predomina la facoltà dell’immaginazione, sono naturalmente poeti. Si ricordi che il motivo del rapporto poesia-infanzia, così stabilito da Vico, eserciterà una profonda influenza sulla letteratura successiva, ad esempio su Giacomo Leopardi e su Cesare Pavese ( La voce del Novecento, p. 293). In modo insieme antitetico e complementare, rispetto alla fantasia, agisce la ragione, secondo il «principio delle sentenze poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocini» (rr. 45-47).

Esercitare le competenze CoMPrendere

> 1. Proponi una breve sintesi del contenuto di ogni «degnità». AnALizzAre

> 2. > 3.

Come definiresti lo stile della prosa di Vico? Motiva la tua risposta in base ai testi. Individua nelle «degnità» vocaboli e/o espressioni ricorrenti, e spiega se fanno riferimento a concetti chiave del pensiero di Vico. Stile

Lessico

APProfondire e inTerPreTAre

> 4.

esporre oralmente Perché Vico privilegia, nell’ambito dei suoi studi e riferimenti letterari, i poemi omerici? Rispondi oralmente (max 3 minuti) facendo riferimento all’impostazione filosofica dell’autore esplicitata nel suo profilo ( p. 289) e nell’Analisi del testo. > 5. Contesto: storia Delinea, anche con l’aiuto del docente di storia, il contesto storico, sociale e culturale dell’Italia meridionale all’epoca in cui visse e operò il filosofo.

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Capitolo 2 · La trattatistica italiana del primo Settecento

La voce del Novecento

La presenza di Vico nell’opera di Cesare Pavese Cesare Pavese (1908-50), uno dei più importanti scrittori italiani del Novecento, autore di romanzi come La casa in collina e La luna e i falò, ha fondato la sua poetica sul mito, trovando particolarmente congeniale la rappresentazione vichiana del mondo primitivo. I passi che seguono sono tratti dal diario, intitolato Il mestiere di vivere (1952).

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30 agosto (1938) Ciò che si trova di grande in Vico – oltre il noto – è quel carnale senso che la poesia nasce da tutta la vita storica; inseparabile da religione, politica, economia; “popolarescamente” vissuta da tutto un popolo prima di diventare mito stilizzato, forma mentale di tutta una cultura. In particolare, il senso che ci vuole una particolare disposizione (“logica poetica”) per farne. Ed è ancora in fondo la teoria che meglio rivive e spiega le epoche creatrici di poesia, il mistero per cui tutte le forze vive di una nazione sgorgano a un dato momento in miti e visioni. 3 giugno (1943) Formazione rustica […]. Piacciono i ruderi di Roma perché gerbidi1, perché papaveri e siepi secche sui colli ne fanno una cosa dell’infanzia – e anche la storia (Roma antica) e la preistoria (Vico, il sangue sparso sulla siepe o sul solco) s’adattano a questa rusticità, ne fanno un mondo intero e coerente dalla nascita alla morte. Il tuo è un classicismo rustico che facilmente diventa etnografia preistorica.

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5 novembre (1943) (Su Vico - 30 agosto ’38). Vico è il solo scrittore italiano che senta la vita rustica, fuori d’Arcadia. Le durezze, le ingenuità della sua frase dànno risalto a questo senso della realtà campagnola, villereccia. Il fatto stesso che ne tocca sempre di passaggio, in polemica, utilitariamente, è riprova di questa schiettezza. C. Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Einaudi, Torino 1952

1. gerbidi: terreni incolti.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo Infanzia e mondo contadino

Mito e poesia

Cesare Pavese ha concepito il mito come un ritorno all’infanzia e al mondo contadino, a una campagna arcaica, vista nelle sue forme rustiche e selvagge. Di qui la sua attenzione per Vico, che sente come particolarmente congeniale, proprio perché ha ricondotto la poesia alle origini dell’umanità, a quelle età primitive quando gli uomini, con le loro corpose fantasie, «sentono […] con animo perturbato e commosso»; per questo sono naturalmente poeti, come lo sono – per quanto riguarda le età dell’uomo – i bambini, che danno alle loro fervide fantasie il valore della realtà. L’infanzia rappresenta una condizione privilegiata, destinata a scomparire con il giungere della maturità, quando alla fantasia subentrerà la riflessione, così come, al mondo libero e disinibito della campagna, si sostituiranno i doveri e gli impegni di un’esistenza, come quella cittadina, non più autentica e spontanea. Secondo Pavese è stato Vico il primo a cogliere questo rapporto fra il mito e la poesia, rappresentando la «vita rustica» al di fuori di ogni convenzionalismo (il locus amoenus dell’Arcadia), con la concretezza di «un mondo intero e coerente». Una disposizione, questa, che conferma la storicità della poesia («inseparabile da religione, politica, economia», v. 2), il suo essere connaturata ai miti delle antiche popolazioni, divenuti poi patrimonio collettivo, «forma mentale di tutta una cultura (rr 3-4)».

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. Che cosa intende Pavese per «vita storica» (r. 2)? > 2. A che cosa si riferisce, a tuo parere, l’espressione «il sangue sparso sulla siepe o sul solco» (r. 12)? > 3. Spiega il significato dell’affermazione «Il fatto stesso che ne tocca sempre di passaggio, in polemica, utilitariamente, è riprova di questa schiettezza» (rr. 17-18).

ANALIZZARE

> 4.

Lessico Individua nel testo le occorrenze del sostantivo “senso” e spiegane l’accezione a seconda dei diversi contesti del discorso. > 5. Lessico Spiega, anche con l’aiuto del dizionario, il preciso significato del termine «etnografia» (r. 14), riconducendone l’accezione sia alle argomentazioni dell’autore, sia all’opera e al pensiero di Vico.

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 6. Esporre oralmente Rifletti in un’esposizione orale (max 3 minuti), anche mettendone in dubbio l’assunto, sul concetto di infanzia come «condizione privilegiata», così come si afferma dell’Analisi del testo, sia in riferimento alle età dell’uomo, sia in riferimento alle fasi della storia dei popoli.

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Capitolo 2 · La trattatistica italiana del primo Settecento

A3 L’Istoria civile del regno di Napoli

Le reazioni

Il Triregno

La cattura e la prigionia

Testi Giannone • «Non erano ladri, ma sbirri» dalla Vita scritta da lui medesimo

Pietro Giannone Nato a Ischitella (Foggia) nel 1676, studiò giurisprudenza, esercitando la professione di avvocato e partecipando al tempo stesso alla vivace vita culturale napoletana. Approfondendo gli studi storici, dopo venti anni di ricerche e di lavoro, pubblicò l’Istoria civile del regno di Napoli (1723), in cui si soffermò non tanto sulle battaglie e sugli avvenimenti politici, in obbedienza ai princìpi delle concezione storiografiche tradizionali, quanto sullo sviluppo interno degli ordinamenti dello Stato e delle sue istituzioni. La tesi dell’opera consisteva nella necessità dell’indipendenza del governo civile dalle ingerenze ecclesiastiche, con un’efficacia che andava al di là della situazione particolare per assumere significati politici più generali, in un senso, quanto alla laicità dello Stato, già illuminista. La violenza polemica della denuncia, a cui si aggiungeva un uso delle fonti talora arbitrario, fanno dell’Istoria un’opera militante, che determinò accese reazioni da parte della cultura cattolica, mentre altri videro in Giannone il coraggioso difensore delle libertà e dell’indipendenza dello Stato. Costretto ad abbandonare l’Italia, Giannone si rifugiò a Vienna presso l’imperatore Carlo VI; fu poi a Venezia e a Milano, prima di riparare a Ginevra, dove non volle aderire al Calvinismo, per non compromettere l’efficacia delle posizioni da lui sostenute. Su di esse tornò in alcuni opuscoli, riuniti e rifusi da ultimo nell’Apologia dell’“Istoria civile”, dove ebbe modo di approfondire, avanzando una serie di proposte pratiche, alcuni punti del suo programma. Le sue idee di fondo vennero ribadite nel Triregno (pubblicato postumo solo nel 1895), violento pamphlet contro la Chiesa e la sua degenerazione ( T3, p. 296). Il titolo allude alla tre fasi in cui Giannone ha distinto lo sviluppo della storia: il «regno terreno», che corrisponde al periodo ebraico; il «regno celeste», che riguarda il sorgere del Cristianesimo; il «regno papale», ancora in corso, nel quale la religione si è venuta corrompendo. Di qui, come soluzione proposta, la necessità di un ritorno alla purezza dello spirito evangelico. Non cessavano intanto le persecuzioni. Durante le celebrazioni delle feste pasquali del 1736, a cui Giannone volle partecipare per ribadire ufficialmente la propria fede di cattolico, fu chiamato in Piemonte e, tradito, venne arrestato, per essere rinchiuso nel castello di Miolans e poi in carcere a Torino. Sottoposto a pesanti pressioni perché firmasse un atto di abiura, gli fu promessa la libertà assieme a quella del figlio, anch’egli detenuto. La promessa non fu mantenuta e Giannone venne trasferito nel castello di Ceva, poi nuovamente a Torino, dove morì nel 1748. Durante la detenzione aveva composto anche un’autobiografia, la Vita scritta da lui medesimo. La vita e le opere

Pierre Giannone, iurisconsulte et avocat napolitain (Pietro Giannone, giureconsulto e avvocato napoletano), incisione di Jeremias Jakob Sedelmayr, XVIII secolo, Monza, Civica Raccolta di Incisioni Sercone Villa Reale.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

T3

Pietro Giannone

il «regno celeste» dal Triregno

Temi chiave

• il vero significato del messaggio cristiano • il richiamo alla fratellanza • la critica alla Chiesa e al suo potere temporale

Il «regno celeste», che Giannone vorrebbe veder realizzato sulla terra, è quello che, eliminando gli interessi economici, le ingiustizie e le guerre, dovrebbe corrispondere all’applicazione dei princìpi evangelici.

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Posto questo nuovo regno per1 ispirituale e celeste, certamente2 che i mezzi per conseguirlo dovranno essere tutti differenti da quelli che sono propri per la conquista di un regno temporale e sensibile3. Il regno promesso ad Abramo4 et semini eius5 essendo terreno, i mezzi, come si è veduto nel precedente libro, furono tutti terreni. Ma questo regno celeste è promesso a tutte le nazioni, non solo all’ebrea: da tutti potea conquistarsi; e poiché il fine di ambedue6 era diverso, diversi per conseguenza dovean essere i mezzi. Il primo regno non prometteva altro che mondane7 felicità, premii e castighi temporali, benedizioni e maledizioni che non oltrepassano i beni e i mali di questa mortal vita. I mezzi per conseguirlo furon perciò eserciti armati, sconfitte, sangue, uccisioni e debellar8 nemici. […] Per l’acquisto9 adunque di questo nuovo regno niente dovea curarsi10 di cose mondane e terrene, poiché tutto il premio era riserbato in cielo in un’altra vita. Non si richiedevano tanti riti, sacrifizi ed olocausti11, non tanto cerimonie esterne e precetti12, non circoncisione di carne13, ma di spirito, non riti e cerimonie esterne, non sacrifici cruenti di sangue, né olocausti di vittime; ma adorazioni interne14 all’unico e vero Iddio e dilezione15 e carità al prossimo. Niun16 altro vizio si pose Gesù Nazareno con maggior impeto

1. Posto … per: stabilito che questo nuovo regno sia. 2. certamente: è certo, è indubbio. 3. sensibile: legato alla realtà, ai sensi. 4. Abramo: il patriarca capostipite del popolo ebraico. 5. et semini eius: e al suo seme, alla sua discendenza. 6. di ambedue: dei due regni, quello celeste e quel­ lo terreno. 7. mondane: terrene, di questo mondo. 8. debellar: distruggere, annientare. 9. l’acquisto: la conquista. 10. niente … curarsi: non ci si doveva prendere assolutamente cura, non occorreva affatto preoccu­ parsi. 11. olocausti: è sinonimo di “sacrifici”. 12. precetti: comandamenti da osservare. 13. circoncisione di carne: è la rimozione del pre­ puzio del pene, rituale praticato dagli ebrei per mo­ tivi religiosi. 14. interne: interiori, non affidate a pratiche esterne. 15. dilezione: amore. 16. Niun: nessun.

Giotto di Bondone, San Francesco rinuncia ai beni terreni davanti al padre Bernardone e al vescovo Guido, 1298 circa, affresco, Assisi, Basilica superiore.

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Capitolo 2 · La trattatistica italiana del primo Settecento

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e fervore a biasimare quanto l’ipocrisia de’ scribi e farisei17, i quali, niente badando all’opere buone, tutti erano volti18 a’ sacrifici, a far delle lunghe orazioni19 e tutti intesi a simili apparenze, non curando di essere ma solo di apparire buoni. […] Chi volea dunque assicurare20 la sua entrata in questo regno, bisognava menare21 una vita tutta distaccata da’ beni ed affetti mondani, tutta illibata22 e non contaminata da colpa veruna23. Non dovea sgomentarsi per tanto rigore, poiché appresso Iddio24, il quale gli avrebbe somministrati25 aiuti sufficienti, non sarebbe stato tutto ciò impossibile. Gli apostoli e tutti gli altri che, abbandonando ogni cosa, lo seguirono, erano contenti di farlo e volentieri si spogliavano di tutto, poiché credevano che questo regno fra breve dovesse arrivare; onde26 si vide in progresso di tempo non pure27 abbandonavano parenti, beni e tutto, […] ma vennero a disprezzare sino i più duri tormenti28 e la morte istessa. Aspirandosi29 adunque a questo nuovo regno celeste, era mestieri30 praticare tutto l’opposto di ciò che si faceva nell’antica legge, quando nel primo regno le ricchezze e la dovizia31 era riputata per32 una delle benedizioni di Dio; ora riescono di ostacolo e d’impedimento all’acquisto di questo secondo33. Non si dovea affatto curare di onori e di beni terreni, anzi disprezzargli ed impoverirsi e tesaurizzare34 non in terra, ma in cielo. A’ suoi discepoli perciò non inculcava35 altro il loro Maestro che di vivere in povertà ed in mendicità […]. La signoria, la maggioranza36, il fasto, le grandezze e gli onori erano detestati, essendo noi peregrini37 di questo mondo. […] L’umiltà, la mitezza, l’ubbidienza, la soggezione38, il disprezzo di se medesimo eran all’incontro39 sempre commendate40 ed inculcate; la carità verso il prossimo era la base di questa nuova religione: che ciascuno dovesse amar l’altro, si dovesse sovvenire41 e vicendevolmente l’un soccorrere ed aiutare l’altro senza far differenza da servo a padrone, da ebreo a gentile42, da giudeo a samaritano43, da giusto a pubblicano44 o peccatore. Non riputar quei che non erano ebrei stranieri o inimici, come già, ma tutti da fratelli, e scambievolmente amarsi e sovvenirsi.

17. scribi e farisei: i farisei erano i seguaci di un’antica setta religiosa ebraica, caratteriz­ zata da una stretta osservanza formale della legge di Mosè; gli scribi, sempre nel giudai­ smo antico, erano interpreti della Bibbia, e nei Vangeli sono associati ai farisei come rappresentanti di una rigida ortodossia e di una difesa zelante della tradizione. Con essi Gesù Cristo si scontra più volte, accusandoli di ipocrisia per il loro formalismo. 18. volti: rivolti, dediti. 19. orazioni: preghiere. 20. assicurare: rendere sicura. 21. bisognava menare: doveva condurre. 22. illibata: pura, innocente. 23. veruna: alcuna.

24. appresso Iddio: presso Dio, con l’aiuto di Dio. 25. somministrati: forniti. 26. onde: sicché. 27. in progresso … pure: col passare del tempo che non solo. 28. tormenti: torture. 29. Aspirandosi: poiché si aspirava a, si desi­ derava di raggiungere. 30. era mestieri: era necessario, occorreva. 31. dovizia: abbondanza. 32. riputata per: considerata come. 33. secondo: sottinteso “regno”. 34. tesaurizzare: accumulare tesori, meriti. 35. inculcava: insegnava. 36. la maggioranza: la superiorità di grado,

di potere. 37. peregrini: pellegrini. 38. soggezione: sottomissione. 39. all’incontro: al contrario. 40. commendate: lodate, elogiate. 41. sovvenire: è sinonimo dei successivi soccorrere ed aiutare. 42. gentile: così era chiamato chi non era ebreo. 43. giudeo … samaritano: appartenenti a due regioni confinanti della Palestina, ostili fra di loro. 44. pubblicano: i pubblicani erano gli ebrei che riscuotevano le tasse a nome dell’Impe­ ro romano e venivano considerati negativa­ mente, come dei pubblici peccatori.

Analisi del testo La spiritualità del messaggio cristiano

Per sottolineare la distanza del presente rispetto agli autentici valori del Cristianesimo, Giannone pone l’accento sulla spiritualità del messaggio cristiano, che è riuscito a rovesciare i princìpi materialistici delle età precedenti. Se prima al centro dell’interesse erano le «ricchezze» e i beni mondani, considerati come «una delle benedizioni di Dio» (r. 30), ecco che, con il Cristianesimo, il valore più importante è quello della povertà, praticata al più alto livello da chi, per seguire Gesù Cristo, si è spogliato di tutto quanto possedeva (il discorso riguarda non solo gli apostoli, ma anche san Francesco e i suoi più fedeli seguaci). 297

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo Una religione interiore

La corruzione della Chiesa

Era, questa, la pienezza di una fede che, inducendo a «disprezzare sino i più duri tormenti e la morte istessa» (r. 27), attribuiva alla religione un significato soprattutto interiore, lontano dai rituali di inutili cerimonie e tutto rivolto alla carità e all’amore del prossimo; una religione che aveva insegnato a cacciare i mercanti dal tempio, secondo il racconto dei Vangeli, e a smascherare «l’ipocrisia de’ scribi e farisei» (r. 17), definiti da Cristo “sepolcri imbiancati”. Ma riprendere l’antico motivo della povertà serviva soprattutto a Giannone per stigmatizzarne la corruzione della Chiesa, la quale, venuta meno la speranza che il nuovo «regno fra breve dovesse arrivare» (rr. 25-26), si era sempre più allontanata dallo spirito evangelico per perseguire unicamente i fini di un potere temporale; quel potere sopraffattorio che, esteso ai governanti e alle classi politiche, consisteva unicamente nella crudele sequenza di «eserciti armati, sconfitte, sangue, uccisioni e debellar nemici» (rr. 9-10). Viene così ribadita, come bene supremo, quell’idea di fratellanza che, annullando le differenze, dovrebbe regolare gli stessi rapporti sociali.

Esercitare le competenze CoMPrendere

> 1. Quali sono le promesse del regno temporale e sensibile? > 2. Che cosa richiede il regno spirituale e celeste? Quale vita bisognava condurre per entrarvi a far parte? AnALizzAre

> 3.

Stile Quale figura retorica rintracci nella parte finale del brano «La signoria … sovvenirsi» (rr. 34-41) e a quale idea o concezione dà forza?

APProfondire e inTerPreTAre

> 4.

Scrivere Spiega in un testo scritto di circa 15 righe (750 caratteri) perché ciò che accomuna Muratori, Giannone e Vico, al di là delle rispettive posizioni, è la tendenza a ricostruire il passato secondo criteri e prospettive nuove, alla ricerca di risposte utili a spiegare il presente e orientare l’azione futura.

facciamo il punto 1. Qual è l’intento che accomuna i tre autori antologizzati in questo capitolo? 2. Quali sono le tematiche principali dell’opera Scienza nuova di Giambattista Vico? 3. Perché, secondo Giambattista Vico, la filologia è una scienza importante? Qual è il suo giudizio sui poe­

mi omerici? 4. Indica quali sono le opere storico­politiche di Ludovico Antonio Muratori e quali le loro caratteristiche principali. 5. Qual è la posizione di Ludovico Antonio Muratori nei confronti delle accademie? 6. Quali sono le linee essenziali di poetica che traccia Ludovico Antonio Muratori nel passo antologizzato in questo capitolo? 7. Indica quali sono le caratteristiche principali dell’Istoria civile del regno di Napoli e del Triregno di Pietro Giannone.

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In sintesi

LA TrATTATiSTiCA iTALiAnA deL PriMo SeTTeCenTo Verifica interattiva

MUrATori La trattatistica italiana del primo Settecento si caratterizza per quelle esigenze riformatrici che, pur essendo ancora il frutto di compromessi moderati, segnano un mutamento di prospettive rispetto al passato. Ci riferiamo, in particolare, a Ludovico Antonio Muratori (16721750), in cui convergono istanze e interessi molteplici, tutti volti a un rinnovamento degli studi. Il progetto di riforma delle accademie italiane affidato ai Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia (1703) auspica, insieme con l’idea di una unione nazionale, l’abbandono delle frivolezze e dei formalismi a favore degli studi di filosofia naturale, dove non è difficile riconoscere l’impronta della lezione di Galileo. Il riferimento alla ragione come elemento capace di equilibrare le suggestioni della fantasia compare sia nel trattato Della perfetta poesia italiana (1706), sia nelle Riflessioni sopra il buon gusto intorno le scienze e le arti (1708 e 1715). Contenuti preilluministici si possono riconoscere nel trattato Della pubblica felicità (1749), dove il problema del bene pubblico è affrontato alla luce delle convinzioni cattoliche dell’autore. Nella multiforme personalità di Muratori il rinnovamento del presente coesiste con l’esigenza di una profonda conoscenza del passato. Di qui l’infaticabile attività di ricerca che lo porta a mettere insieme i 26 volumi dei Rerum italicarum scriptores (1723-38), vastissimo repertorio di cronache e documenti della storia italiana a partire dall’alto Medioevo (con il commento degli Annali d’Italia, 1744-49).

ViCo Se Muratori si rivolge alla storia con l’interesse dell’erudito, Giambattista Vico (1668-1744) ne ricerca le leggi del divenire da un punto di vista filosofico. Nei suoi Prin-

cìpj di scienza nuova (1744 per l’edizione definitiva) Vico muove dalla concezione del verum per factum, secondo cui l’uomo può conoscere solo quello che fa. La vera conoscenza riguarda quindi la storia, che è creazione umana, e non la natura, creata invece da Dio. La possibilità della sua conoscenza è data dalla filologia, grazie alla quale si raggiunge la «conoscenza del certo», mentre «la filosofia contempla la ragione, onde viene la coscienza del vero». Le tre età in cui Vico divide la storia (dall’epoca primitiva a quella del sentimento e a quella della riflessione), corrispondono alle età dell’individuo, dalle fantasie infantili alla ragione dell’età adulta. Per l’interesse dimostrato nei confronti della poesia (l’amore per Dante, la «discoverta del vero Omero») e delle tradizioni dei popoli antichi Vico piacerà in modo particolare ai romantici, esercitando la sua influenza anche nel Novecento.

GiAnnone L’interesse per la storia, in Pietro Giannone (16761748), poggia su quei fondamenti giuridici che lo condurranno dopo venti anni di ricerche, nell’Istoria civile del regno di Napoli (1723), a contestare le pretese ecclesiastiche sul potere temporale dello Stato, pronunciandosi a favore della sua indipendenza e laicità. Per le violente reazioni suscitate, fu costretto ad abbandonare l’Italia, fino a quando, dopo diverse peregrinazioni, verrà rinchiuso in carcere a Torino, dove terminerà la sua vita. Nel Triregno aveva diviso la storia in tre fasi, corrispondenti al “regno terreno” (periodo ebraico), al “regno celeste” (il sorgere del cristianesimo) e al “regno papale”, caratterizzato dalla corruzione della Chiesa. Di qui la polemica rivendicazione di un ritorno alla purezza dello spirito evangelico.

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Capitolo 3

L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

Montesquieu

Rousseau

Una svolta decisiva, che inciderà nel tempo sul cambiamento stesso della mentalità dell’uomo occidentale, si ha con il delinearsi del pensiero illuministico, che dalla Francia si diffonderà ben presto in tutta Europa. Vengono così profondamente rinnovati i contenuti e le forme della comunicazione, che imposta su basi diverse il rapporto fra l’individuo e la società, nell’ottica dei diritti da riconoscere a ogni cittadino. Una pietra miliare, in questo senso, si deve considerare il trattato Lo spirito delle leggi di Montesquieu ( A3, p. 321), che formula i princìpi fondamentali di una moderna concezione del diritto, a cui si richiameranno poi, soprattutto per quanto riguarda la divisione dei poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario), le costituzioni richieste dai liberali e, prima ancora, le dichiarazioni dei diritti dell’uomo formulate, verso la fine del secolo, in America e in Francia ( Il contesto, La voce dei documenti, p. 254). A un’idea di governo democratico giungerà anche, nel trattato Il contratto sociale, Jean-Jacques Rousseau ( A4, p. 327), dopo aver sostenuto, nel Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini, la tesi ben più radicale secondo cui l’uomo nasce buono ed è la società che lo corrompe (da questa idea sulla felicità dello stato di natura deriverà, soprattutto nel Romanticismo, il cosiddetto mito del “buon selvaggio”). La maggiore considerazione in cui viene tenuto l’individuo riguarda anche il problema dell’educazione, su cui si sofferma l’Emilio o dell’educazione, una sorta di romanzo-saggio in cui Rousseau conduce al tempo stesso una vivace polemica nei confronti delle istituzioni sociali soffocanti e repressive.

Il “café Procope”, ritrovo degli illuministi francesi nel XVIII secolo (nei medaglioni, sono ritratti da destra in senso orario: D’Holbach, Piron, Voltaire, Rousseau, Le Kain, Marmontel, d’Alembert, Diderot, Gilbert e Buffon, incisione di E. Badoureau su disegno di M. Kretz, XIX secolo.

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Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo Dal trattato al saggio

Il Dizionario filosofico di Voltaire

La narrativa

Per quanto riguarda l’elaborazione e la trasmissione delle idee, lo stesso trattato, oltre a evitare la forma dialogica, tende a modificare i suoi statuti, cercando una maggiore scioltezza nella scrittura e una maggiore agilità nell’argomentazione, che, evitando gli appesantimenti della retorica classicistica, conservi una più stretta aderenza agli argomenti presi in esame. Pur non essendo possibile operare distinzioni troppo nette e precise, si passa dal trattato di classica derivazione alla moderna saggistica che, in molti casi, tende all’essenzialità e alla stringatezza del pamphlet, dell’opuscolo concepito con intenti polemici o satirici. Ma esiste anche una forma di saggistica più essenziale e incisiva, quella che – per usare un termine ben noto agli studenti – potremmo definire del saggio breve, come le voci scritte dai vari collaboratori dell’Enciclopedia (in particolare Diderot e d’Alembert), caratterizzate da una forte impronta laica e antidogmatica di matrice razionalistica ( Razionalismo, empirismo, materialismo). Su questo modello Voltaire ( A2, p. 312) comporrà a sua volta un Dizionario filosofico, che si può considerare una specie di summa del pensiero dell’autore e della stessa cultura illuministica più radicale. Ma nel quadro più generale delle ideologie progressiste, sensibili alle proposte riformatrici e interessate ormai al controllo della cosa pubblica, non andranno trascurati anche i primi importanti risultati dell’esperienza giornalistica, che porteranno un decisivo contributo alla diffusione e alla divulgazione del dibattito delle idee, in relazione al nascere di una opinione pubblica. Oltre che nella saggistica, di varia estensione e importanza, le tesi degli illuministi francesi, per diffondersi presso un pubblico più ampio, hanno trovato spazio in una narrativa ricca di elementi e di umori filosofici, che ora contesta, con i pregiudizi e i conformismi della mentalità corrente, le violenze e le sopraffazioni della storia, come in Candido o l’ottimismo di Voltaire e in Jacques il fatalista di Denis Diderot ( A1, p. 303), ora introduce punti di vista diversi e alternativi rispetto alla comune visione delle cose (le Lettere persiane di Montesquieu).

Microsaggio

Razionalismo, empirismo, materialismo

La ragione come strumento di conoscenza Politica, diritto, religione

La negazione della Rivelazione biblica

Dal metodo cartesiano al razionalismo moderno

L’ampliarsi del campo d’intervento della ragione In filosofia si definiscono “razionalistiche” quelle correnti di pensiero secondo le quali la realtà è fondamentalmente organizzata in modo logico e coerente. La ragione umana risulta perciò lo strumento di conoscenza più idoneo, poiché opera con modalità simili a quelle che presiedono all’organizzazione interna della realtà naturale. Il pensiero moderno si contraddistingue per l’ampliarsi dei campi della realtà in cui si riconosce come valida la sua applicazione. Lo dimostrano le riflessioni di Machiavelli sulla politica nel Cinquecento; l’opera del filosofo e giurista olandese Hugo Grotius (1583-1645) grazie alla quale prende forma il concetto moderno di diritto pubblico; il deismo sei-settecentesco con cui la riflessione sulla religione conosce sviluppi in termini decisamente laici ( Teismo e deismo, p. 313). A partire dal Seicento, e compiutamente nel Settecento, l’applicazione del criterio razionale a ogni campo della realtà si radicalizza: si arriva a negare ogni valore ai dogmi e alla Rivelazione biblica (resa superflua, o smentita su singoli punti capitali per la scienza, come nelle questioni astronomiche), giungendo a conclusioni che, escludendo la necessità di Dio, sconfinano nell’“ateismo”. La ragione umana può infatti essere considerata fondamento del tutto sufficiente del bene morale (come afferma il francese Pierre Bayle, 1647-1706), della giustizia e della felicità. Cartesio (15961650), a sua volta, intuì che l’applicazione del criterio razionale matematico-fisico (da lui posto a fondamento della realtà) alla vastità della realtà dell’universo avrebbe condotto a esiti sostanzialmente ateistici, motivo per

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

cui non palesò mai sino in fondo lo scopo della sua ricerca: l’individuazione, cioè, di un principio metodologico unificatore di ogni conoscenza. L’obiettivo di Cartesio fu poi portato a compimento dai suoi seguaci. Dopo Galileo e Cartesio, il razionalismo moderno punta alla spiegazione del mondo sulla base dei risultati raccolti dalle singole scienze della natura, liberando la ricerca scientifica dalla soggezione nei confronti del dogma religioso. Il razionalismo “storico” All’interno del razionalismo filosofico del XVI e XVII secolo è opportuno distinLa costruzione guere il razionalismo “storico”, propriamente detto, dall’empirismo. Il primo, di origine continentale – i cui di uno schema maggiori esponenti furono Cartesio e il tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) – si fonda sulla logico generale

costruzione di uno schema logico-razionale di portata generale a supporto dei risultati emergenti dall’osservazione scientifica, da applicare alle discipline che studiano la realtà concreta e materiale (come, ad esempio, la matematica e la fisica); dell’empirismo, di origine inglese, complementare e opposto al razionalismo, tratteremo tra poco. Cartesio pone l’accento sul metodo logico-analitico ispirato alle dimostraLe idee “innate” zioni matematiche. Tale metodo sarebbe in grado di risalire a quelle idee “evidenti di per sé”, che costituirebbero il fondamento più profondo, la struttura stessa della razionalità e quindi della realtà. Queste idee sarebbero “innate”, patrimonio originario dell’uomo. I filosofi inglesi L’empirismo: il ruolo dell’esperienza Pur concordando con le premesse logico-matematiche e con negano l’esistenza l’impostazione razionalistica dei pensatori continentali, i filosofi inglesi del Sei-Settecento rifiutano per lo più di idee “originarie”

L’elaborazione dei dati della realtà Locke Hume e la svolta scettica

l’esistenza di idee innate. Costoro credono infatti che quelle idee “originarie” siano anch’esse il prodotto di un processo di sedimentazione e associazione di astrazioni concettuali, operato dall’uomo sulle conoscenze acquisite dopo la nascita; a loro volta, queste conoscenze non sono altro che le acquisizioni derivanti dall’accumularsi dei dati della realtà esterna registrata dai sensi. Il fondamento della realtà naturale, che comprende anche l’uomo, andrebbe perciò ricercato nella natura stessa: nelle cose che l’uomo sperimenta. L’empirismo (dal greco empeiría, “esperienza”) fonda dunque il sapere sull’esperienza, mettendo a punto un metodo conoscitivo basato sull’elaborazione razionale dei dati tratti dall’osservazione della realtà concreta. La conoscenza scientifica si configura quindi come l’insieme delle certezze comprovate dalla verifica sperimentale delle ipotesi teoriche. L’empirismo trova il suo fondamento filosofico nel pensiero di John Locke (1632-1704), che basa la conoscenza umana sulle sensazioni esterne e sulla riflessione e associazione dei concetti derivanti da quelle esperienze. Con David Hume (1711-76), l’empirismo conosce poi una svolta scettica. Il filosofo infatti respinge persino la possibilità di trovare nell’esperienza pratica la prova della validità del modello logico-razionale postulato da Cartesio, o comunque di qualsiasi schema razionale (comune alla mente umana e alla natura) che identifichi astrattamente un principio o una struttura universale della realtà. Materialismo ed edonismo Materialismo indica la tendenza a ricercare nella materia la causa di ogni

Hobbes: il fenomeno. Con l’inglese Thomas Hobbes (1588-1679), il materialismo trova il suo fondamento come materialismo metodo scientifico: soltanto i concetti di corpo, materia e movimento sono da lui considerati idonei a fornicome metodo scientifico re una spiegazione accettabile e coerente dei fenomeni naturali. Il metodo da applicare allo studio della

Il piacere, guida del comportamento umano

L’elemento psichico

302

realtà fisica (la filosofia naturale) può essere trasferito all’esame della società umana (filosofia civile). In essa lo Stato appare come forma “artificiale” di socialità, nata per contemperare l’istinto alla sopravvivenza e il diritto alla sicurezza degli individui, uniti da un “contratto sociale” garantito dall’autorità di un governo che veglia sull’osservanza del patto costitutivo. Dal punto di vista morale, nel linguaggio comune, materialismo ed edonismo vengono assimilati, indicando entrambi una morale che fa del piacere il criterio e la guida del comportamento umano. Tipico del Settecento è il collegamento tra edonismo e materialismo, con l’instaurarsi di uno stretto rapporto tra realtà biologica ed esperienza psichica. L’edonismo del francese Claude-Adrien Helvétius (1715-71), che si esprime nel trattato Dello spirito (1758; condannato al rogo nel 1759), si collega così al materialismo psico-fisico di Paul Henry d’Holbach (1723-89) che propone un’interpretazione della vita psichica come effetto dell’azione combinata dei procedimenti fisico-chimici che presiedono alla vita biologica dell’organismo umano. Il materialismo trova poi nell’opera del medico Georges Cabanis (1757-1808) la sua conferma scientifica, nella dimostrazione della dipendenza delle attività psichiche dal sistema nervoso e da princìpi materiali che ne spiegano il funzionamento senza che sia necessario postulare l’esistenza di un’anima.

Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

A1 La direzione dell’Enciclopedia

Contro i pregiudizi

Il teatro

Opere narrative

Jacques il fatalista

Denis Diderot La vita e le opere filosofiche Nato nel 1713 a Langres, nel Nord-Est della Francia, da una famiglia della borghesia artigianale, si laureò in lettere nel 1732 a Parigi, dove svolse lavori precari. Esordì nel 1746 con dei Pensieri filosofici che furono condannati dalla censura, mentre per altri pamphlets subì l’arresto e il carcere. Intorno alla metà del secolo iniziò a elaborare il progetto dell’Enciclopedia ( Il contesto, p. 252), l’opera monumentale di cui sostenne il peso maggiore, non solo assumendone la direzione, ma seguendo il processo dell’intera sua realizzazione, con un lavoro che, oltre alla compilazione di numerose voci (oltre mille e cinquecento), si spingeva sino alla revisione dei testi e alla correzione delle bozze di stampa; al tempo stesso dovette superare non poche difficoltà, sia per le opposizioni esterne (dei gesuiti e del governo), sia per i contrasti nel gruppo dei collaboratori (con Voltaire, ad esempio, secondo cui l’opera assumeva posizioni troppo moderate). Nel 1751, insieme con d’Alembert, aveva intanto ricevuto, dall’imperatore Federico II di Prussia, la nomina a membro dell’Accademia di Berlino. Completata l’impresa, con l’uscita dell’ultimo volume nel 1772, Diderot poté dedicarsi completamente alla stesura delle opere che aveva abbozzato negli anni precedenti e intraprenderne di nuove. Alla base di questa intensa attività letteraria (in aggiunta a quelli editi, molti scritti verranno pubblicati dopo la morte, avvenuta nel 1784) è lo stesso pensiero che aveva presieduto alla concezione dell’Enciclopedia: combattere i pregiudizi, giudicando la realtà alla luce di quella filosofia «sperimentale», da lui definita «eclettica» ( T1, p. 304), che, basata sull’osservazione e sulla verifica della ragione, rifiutava ogni forma di chiusura sistematica, per aprire liberamente, con le nuove conoscenze, la strada del progresso. Il teatro e le opere narrative Appassionato di teatro (in gioventù era stato anche attore), scrisse opere che inaugurano il moderno dramma borghese, incentrato sui problemi della vita familiare, come Il figlio naturale (1757) e Il padre di famiglia (1758), occupandosi anche di questioni teoriche relative alla regia e alla mimica della rappresentazione; tra questi scritti si ricordi almeno Il paradosso dell’attore, dialogo pubblicato postumo, in cui sostiene che alla base della recitazione non ci deve essere l’immedesimazione emotiva nel personaggio ma l’apprendimento razionale di una specifica abilità tecnica. Allo stesso modo si può considerare un precursore della critica d’arte, con le recensioni che venne facendo alle opere esposte nei Salons, le mostre di arte figurativa che si tenevano annualmente a Parigi. Fra le opere narrative solo I gioielli indiscreti, scritti nel 1747, uscirono quando l’autore era ancora in vita; alla base è una divertente invenzione erotica, che dà vita a un racconto di vicende impostato come la raccolta delle Mille e una notte. Postumi videro la luce gli altri romanzi: Il nipote di Rameau, concepito come un dialogo filosofico-morale, e La monaca, che tocca un motivo molto diffuso nella letteratura successiva (lo riprenderà, con diverse motivazioni, anche Manzoni nei Promessi sposi), quello della giovane costretta dai parenti a prendere il velo, per non intaccare il patrimonio familiare. Ma il romanzo più moderno e originale è Jacques il fatalista e il suo padrone, che affronta, in maniera ironica e serio-comica, il problema del libero arbitrio, per rivelare l’assurdità dei sistemi filosofici assoluti, che pretendono di dare della realtà una visione unica (viene in mente la tesi di Pangloss, nel Candido di Voltaire, A2, p. 312). Ma l’originalità consiste soprattutto in una narrazione a pressoché esclusiva struttura dialogica, che si propone come esempio della libertà delle forme con cui il romanzo può rivestirsi ( T2, p. 308). Non a caso Diderot si rifà a Laurence Sterne ( cap. 6, A4, p. 385), offrendoci una campionatura di soluzioni umoristiche in cui l’elemento della riflessione è affidato a un dialogo, che, oltre a soffermarsi sui contenuti, discute, attraverso la voce del protagonista, le stesse soluzioni narrative, mettendo a nudo i meccanismi del racconto.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

T1

Denis Diderot

Temi chiave

L’eclettismo filosofico dall’Enciclopedia

• il rifiuto dei pregiudizi • la figura del libero pensatore • l’importanza della ricerca sperimentale che segue le leggi della natura

Per Diderot il rifiuto della metafisica e dei sistemi assoluti è alla base dell’eclettismo, inteso come una filosofia pratica a misura delle esigenze e delle esperienze dell’uomo.

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(Storia della filosofia antica e moderna). L’eclettico è un filosofo che, calpestando il pregiudizio, la tradizione, l’antichità, il consenso universale2, l’autorità, insomma tutto ciò che soggioga l’animo del volgo, osa pensare con la propria testa, risalire ai princìpi generali più chiari, esaminarli, discuterli, astenendosi dall’ammettere alcunché senza la prova dell’esperienza e della ragione; che, dopo aver vagliato tutte le filosofie in modo spregiudicato3 e imparziale, osa farsene una propria, privata e domestica; dico “una filosofia privata e domestica”, perché l’eclettico ambisce ad essere non tanto il precettore quanto il discepolo del genere umano, a riformare non tanto gli altri quanto se stesso, non tanto ad insegnare quanto a conoscere il vero. Non è uomo che pianti o semini; è uomo che raccoglie e setaccia4. Si godrebbe tranquillamente la mèsse raccolta, vivrebbe felice e morrebbe oscuro, se l’entusiasmo, la vanità, o forse un sentimento più nobile, non lo traessero fuori dal suo carattere. Il settario5 è un uomo che ha abbracciato la dottrina di un filosofo; l’eclettico invece è un uomo che non riconosce a nessuno la qualità di maestro; sicché, quando si dice che gli eclettici furono una setta filosofica, si mettono insieme due idee contraddittorie, a meno che non si voglia intendere per “setta” un certo numero di uomini che condividono un solo principio: il rifiuto di piegare il proprio giudizio dinanzi a chicchessia, la volontà di vedere con i propri occhi e di porre in dubbio una cosa vera, piuttosto che esporsi ad ammettere senz’esame una cosa falsa. […] L’eclettico non raccoglie a caso delle verità; non le lascia isolate; e meno ancora si ostina a sistemarle in un qualche piano determinato: quando ha esaminato ed ammesso un principio, la proposizione che subito segue, nella sua attenzione, o si riallaccia in modo evidente a quel principio, o non vi si riallaccia affatto, o gli è opposta. Nel primo caso la considera vera, nel secondo, sospende il giudizio finché nozioni intermedie fra la proposizione esaminata ed il principio ammesso non gli dimostrino o il legame o l’opposizione a tale principio: nell’ultimo caso la rifiuta come falsa. Ecco il metodo dell’eclettico. L’eclettismo, che fin dalla nascita del mondo fu la filosofia dei sani ingegni6, […] questa filosofia così saggia, restò sepolta nell’oblio fino alla fine del secolo XVI. Allora la natura, rimasta lungamente intorpidita e quasi esausta, fece uno sforzo e generò finalmente uomini fedeli alla più bella prerogativa umana, la libertà di pensiero; e si vide rinascere la filosofia eclettica con Giordano Bruno da Nola, Girolamo Cardano, Francesco Bacone da Verulamio, Tommaso Campanella, Renato Descartes, Tommaso Hobbes, Goffredo Guglielmo Leibniz, Cristiano Thomasius, Nicola Girolamo Gundlingius, Francesco Budée, Andrea Rudigerus, Gian Giacomo Syrbius, Giovanni Leclerc, Malebranche7, ecc.

1. eclettismo: l’eclettismo è propriamente quell’indirizzo filosofico che, in epoca ellenistico-romana (II-I secolo a.C.), si richiamava a dottrine di diverse scuole e orientamenti. 2. il consenso universale: l’opinione comune. 3. in mondo spregiudicato: senza pregiu-

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dizi, senza preconcetti. 4. setaccia: passa al vaglio, esamina le cose con molta attenzione. 5. settario: fazioso. 6. sani ingegni: le menti illuminate. 7. Giordano Bruno … Malebranche: filosofi che fra Cinque e Seicento hanno contri-

buito al rinnovamento della filosofia, basandola sullo studio della natura, sull’esperienza e sulla ragione, e hanno comunque segnato, secondo Diderot, una forte rottura rispetto al passato, opponendosi appunto alle ideologie dominanti.

Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

Non la finiremmo più, se qui cominciassimo ad esporre l’opera di questi grandi uomini, a seguire la storia del loro pensiero e ad annotare che fecero per il progresso della filosofia in generale e della filosofia eclettica moderna in particolare. D. Diderot-J.-B. d’Alembert, Enciclopedia o dizionario ragionatodelle scienze, delle arti e dei mestieri ordinati da Diderot e d’Alembert, a cura e trad. it. di P. Casini, Laterza, Bari 1968

Analisi del testo Il rifiuto delle verità assolute

L’esperienza e la ragione

Direttore e principale autore di voci dell’Enciclopedia, Diderot si occupò soprattutto di filosofia. La voce Eclettismo assume una fondamentale importanza nel progetto dell’opera, nella misura in cui intende sgomberare il campo da tutte quelle concezioni filosofiche che hanno sempre avuto la pretesa di presentare le loro verità come assolute. Il filosofo eclettico, per Diderot, rifiuta, con i pregiudizi tramandati dalla tradizione, ogni forma di autorità; la sua figura coincide con quella del libero pensatore che, dopo aver esaminato le diverse filosofie, sa formarsene una propria, subordinandola alle verifiche «dell’esperienza e della ragione» (appare evidente, in questa affermazione, la lezione sia di Galileo sia di Cartesio, sostenitore del carattere razionale della conoscenza). Per questo l’eclettico non ha nulla da insegnare, ma tutto da imparare; per usare una metafora ricavata dal lavoro dei campi, «Non è uomo che pianti o semini; è uomo che raccoglie e setaccia» (rr. 9-10); la sua potrebbe essere definita una filosofia aperta, che insegna a vivere in mezzo agli altri uomini rispettandone le idee e accettandone i costumi diversi. All’opposto si colloca la figura del «settario», che presume di poter imporre dall’alto le sue convinzioni, inculcandole in maniera dogmatica. L’eclettismo, definito la «filosofia dei sani ingegni» (r. 28), è rinato e ha avuto tra Cinque e Seicento i suoi campioni, nominati singolarmente e uniti tra di loro dalla «libertà di pensiero» (r. 31); pur nella diversità degli orientamenti, resta in comune un’indipendenza di giudizio che è stata alle base delle loro ricerche, contribuendo a quel «progresso delle conoscenze umane» che è il fine a cui tende la storia. Al di là delle distinzioni, resta la convinzione che la vera conoscenza – la conoscenza utile al prossimo, che non pretende di raggiungere la verità assoluta – sia quella garantita dalla ricerca sperimentale, condotta seguendo le leggi della natura e il lume della ragione.

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Spiega il senso dell’affermazione «l’eclettico ambisce ad essere non tanto il precettore quanto il discepolo del

genere umano» (rr. 7-8). > 2. Perché Diderot critica la definizione di «setta» (r. 16) attribuita comunemente agli eclettici? > 3. Riguardo il metodo adottato dall’eclettico, che cosa intende il filosofo con l’affermazione «non raccoglie a caso … in un qualche piano determinato» (rr. 20-21)? AnALIzzAre

> 4. Quali elementi presenti nella voce redatta dal Diderot rivelano un atteggiamento “pedagogico” nei confronti del lettore? Motiva la tua risposta. Stile Il testo presenta espressioni di tipo metaforico: evidenziane i casi più significativi.

> 5.

ApprofonDIre e InTerpreTAre

> 6.

Scrivere Perché Diderot ritiene che la natura prima del XVI secolo fosse «rimasta lungamente intorpidita e quasi esausta» (r. 30)? Motiva la tua risposta in un testo scritto di circa 10 righe (500 caratteri). > 7. esporre oralmente Soffermati con attenzione sui nomi citati dal filosofo alle righe 32-35 e in un’esposizione orale (max 8 minuti) illustra sinteticamente il pensiero e l’opera degli studiosi che conosci.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Microsaggio

Dall’Encyclopédie francese a Wikipedia Se già in età antica si possono registrare i primi tentativi di classificazione enciclopedica del sapere (si pensi ad esempio all’opera di Aristotele o alla ricca trattatistica medievale), è solo in epoca moderna, in particolar modo nel Settecento, che il progetto di un’organizzazione razionale dello scibile trova un più maturo e sistematico compimento. Fondamentale, in questo senso, è stata la ferrea battaglia che gli intellettuali illuministi, già debitori delle conquiste operate in campo scientifico dalla filosofia sperimentale secentesca, hanno condotto contro la mentalità e i costumi del proprio tempo, promuovendo la diffusione di quello spirito critico e laico su cui si fonda ancor oggi il nostro modo di pensare e Strumenti per il gioco della pallacorda e del biliardo, agire nel mondo. Di tutti gli scritti che tavola da L’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, 1771, incisione. videro la luce nell’età dei lumi, l’Encyclopédie francese (1751-72) rappresenta la più alta sintesi degli ideali dei philosophes, e ci fornisce una straordinaria testimonianza di un’epoca di profondo rinnovamento storico; come tale, è da considerarsi la prima e più importante iniziativa culturale dell’epoca moderna. L’Encyclopédie francese: la rivoluzione si compie (anche) sui libri Una delle più considerevoli eredità che l’Illuminismo ci ha lasciato è dunque l’Encyclopédie o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri. Inizialmente concepita come una traduzione e una rivisitazione della Cyclopaedia di Chambers, fu trasformata da Diderot e d’Alembert, grazie ai contributi dei più influenti intellettuali dell’epoca, nel più ambizioso tentativo di sistemazione organica del sapere fino ad allora mai realizzato. Nell’arco di un ventennio, tra il 1751 e il 1772, furono dati alle stampe 17 volumi di testo e 11 volumi di tavole, per un numero complessivo di 60.000 voci. Diritto, filosofia, economia, politica, scienza, arte, tecnica: ogni campo dello scibile è raccolto in quest’opera mastodontica, che se da un lato riflette un’esigenza di tipo classificatorio – enciclopedico, appunto – dall’altro dà voce a quella temperie culturale che sarebbe di lì a poco sfociata nei tumulti rivoluzionari di fine secolo. L’opera, a cui collaborarono, tra gli altri, Voltaire e Montesquieu, si proponeva come fine la divulgazione di un sapere critico libero dal dogmatismo e dall’oscurantismo imposti dalla cultura ufficiale. Non fu un caso che la realizzazione dell’Encyclopédie venne duramente osteggiata dall’Ancien Régime e dalla Chiesa, che impugnarono più volte l’arma della censura e della repressione pur di mettere a tacere il temperamento polemico che animava i philosophes e la loro battaglia culturale. Le enciclopedie moderne Lontano dalle fantasiose elaborazioni tipiche della cultura medievale, le enciclopedie moderne hanno fatto propria la lezione degli illuministi francesi, dotandosi di un criterio di ricerca e verifica delle fonti rigoroso e sistematico. Ma a differenza dell’Encyclopédie diderotiana, connotata ideologicamente e politicamente, le successive opere di divulgazione scientifica si sono sviluppate in direzione di una maggiore neutralità e imparzialità di sguardo. Tra le più note e prestigiose ricordiamo l’Enciclopedia Britannica, che dopo 244 anni di onorevoli edizioni cartacee dal 2012 viene pubblicata solamente in versione digitale, e la Treccani, da tempo preziosa acquisizione del patrimonio culturale nazionale.

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Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

Wikipedia: l’enciclopedia ai tempi del Web 2.0 Nata nel 2001 dalla lungimirante intuizione di Jimmy Wales e Larry Sanger, e disponibile in oltre 280 lingue, Wikipedia è attualmente l’enciclopedia più usata al mondo. A differenza dei suoi predecessori cartacei, si è strutturata come un’«enciclopedia libera», «collaborativa e gratuita»; gestita da una fondazione senza scopo di lucro, la Wikimedia Foundation, si sostiene grazie ai proventi di donatori individuali ed enti privati. In Wikipedia ogni utente può cercare, consultare, modificare e aggiungere nuovi contenuti. L’idea di un sapere libero e gratuito non è di per sé innovativa; e tuttavia, è solo grazie alle più recenti conquiste tecnologiche, dall’invenzione dell’elettronica alla diffusione capillare di Internet, che è stato possibile archiviare, modificare e creare informazioni in modo radicalmente nuovo. L’«enciclopedia libera» è un prodotto del cosiddetto Web 2.0, termine con il quale si indica la trasformazione della rete da semplice magazzino ipertestuale di dati a piattaforma di interazione e condivisione di un numero pressoché illimitato ed eterogeneo di informazioni. I social network e i blog sono due tra le più note applicazioni di questa nuova frontiera della comunicazione globale. Due modelli di divulgazione a confronto Con le sue centinaia di migliaia di voci e i suoi quasi 750 milioni di utenti registrati, Wikipedia si è imposta come la più vasta enciclopedia di tutti i tempi. Come imponente opera di classificazione e archiviazione del sapere, si situa su una linea di continuità ideale con l’Encyclopédie francese; diversi tuttavia sono i suoi princìpi fondanti. Su Wikipedia la veridicità delle informazioni non si basa infatti su un principio di autorità scientifica ma è il prodotto della collaborazione di ogni suo contributore che, come si legge sul sito, «è responsabile dei propri inserimenti». Wikimedia Foundation pertanto «non dà garanzie sulla validità dei contenuti» e «non può essere ritenuta responsabile di eventuali errori». Per cercare di evitare una deriva anarchica, Wikipedia si è dotata di un “codice di condotta” affinché non si faccia della piattaforma un uso indiscriminato (ad esempio inserendo punti di vista personali, notizie faziose o informazioni non verificabili). L’Encyclopedie francese, invece, è il prodotto del monumentale sforzo collettivo di alcuni tra i più brillanti uomini di cultura del Settecento. L’ambizioso tentativo di raccogliere, classificare e dare forma sistematica al sapere partiva dal presupposto che la conoscenza dovesse basarsi su un rigoroso metodo di interpretazione critica della realtà. La compilazione delle voci richiedeva una profonda preparazione e un’erudizione certamente non comuni. Una questione controversa Il dibattito è oggi più che mai aperto e vede schierati da una parte i sostenitori di un sapere creato, per così dire, dal basso, grazie al contributo indistinto di tutti, dall’altro i suoi detrattori, che ne criticano duramente l’impostazione asistematica. Di certo Wikipedia, in quanto «enciclopedia libera» e «collaborativa», realizza in massimo grado i princìpi di una condivisione democratica della conoscenza, ma elimina, con quello negativo, anche il lato positivo del principio di autorità, che ha rappresentato una delle più importanti conquiste del pensiero scientifico e filosofico moderno. E questo rimane, al di là di ogni possibile giudizio favorevole o contrario, un punto di indubitabile criticità su cui è bene continuare a misurarsi.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

T2

Denis Diderot

Temi chiave

«per caso» da Jacques il fatalista

• la predestinazione • il ruolo del caso nella vita • la relatività delle scelte del narratore

È il brano, in gran parte dialogico, che dà inizio al romanzo e registra l’incontro fra Jacques e il suo padrone.

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Come s’erano incontrati? Per caso, come tutti. Come si chiamavano? Che v’importa? Di dove venivano? Dal luogo più vicino. Dove andavano? Si sa forse dove si va? Che dicevano? Il padrone non diceva niente; e Jacques diceva che il suo capitano affermava tutto quanto ci accade quaggiù, di bene e di male, essere scritto lassù. il padrone È un gran detto questo. jacques Il mio capitano aggiungeva che ogni palla che parte da un fucile ha il suo indirizzo1. il padrone E aveva ragione... Dopo una corta pausa, Jacques esclamò: «Il diavolo si porti l’oste e la sua osteria!». il padrone Perché mandare al diavolo il prossimo? Non è da cristiano. jacques È che, mentre ch’io m’ubriaco del suo vinaccio, dimentico di condurre i nostri cavalli all’abbeveratoio. Mio padre se n’accorge; va in collera. Io crollo il capo; egli prende un bastone e me ne accarezza un po’ duramente le spalle. Passava un reggimento che andava al campo davanti a Fontenoy2, per dispetto, m’arruolo. Arriviamo; si dà battaglia. il padrone E tu ricevi la pallottola col tuo indirizzo. jacques L’avete indovinato; una fucilata al ginocchio; e Dio sa le buone e le cattive avventure provocate da questa fucilata. Esse si collegano strettamente, né più né meno che le maglie d’una catena d’orologio. Senza questa fucilata, ad esempio, credo che in vita mia non sarei mai stato né innamorato, né zoppo. il padrone Sei dunque stato innamorato? jacques Se lo sono stato! il padrone A causa d’una fucilata? jacques Per una fucilata. il padrone Non me ne hai fatto mai parola. jacques Lo credo bene. il padrone E perché? jacques È che ciò non poteva esser detto né più presto né più tardi. il padrone E il momento è venuto di apprender questi amori? jacques Chi lo sa? il padrone In ogni caso, intanto comincia... Jacques cominciò la storia dei suoi amori. Era il dopo pranzo: il tempo era afoso; il padrone s’addormentò. La notte li sorprese in mezzo ai campi; eccoli fuori strada. Ecco il padrone terribilmente in collera precipitarsi a gran colpi di frusta sul domestico, e il povero diavolo dire ad ogni frustata: «Anche questo era evidentemente scritto lassù...». Vedi, lettore, che sono sulla buona strada, e che dipenderebbe solo da me farti attendere un anno, due anni, tre anni, il racconto degli amori di Jacques, separandolo dal suo padrone e facendo loro, separatamente, correr tutte le avventure che a me piacesse. Chi mi impedirebbe di maritare il padrone e di farlo cornificare? d’imbarcar Jacques per le isole?

1. Il mio capitano … indirizzo: nel romanzo Tristram Shandy, Laurence Sterne ( cap. 6, A4, p. 385) attribuisce tale affermazione a Gugliel-

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mo I d’Inghilterra. 2.Fontenoy: è un villaggio belga, dove nel 1745 l’esercito francese sconfisse inglesi e austriaci.

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di condurvi il suo padrone? di ricondurli entrambi in Francia sulla stessa nave? Com’è facile far dei racconti! Ma se la caveranno l’uno e l’altro con una nottataccia, e tu con questa dilazione. L’alba apparve. Eccoli risaliti in groppa e proseguire il cammino. – E dove andavano? – Ecco la seconda volta che mi fate questa domanda, e la seconda volta che vi rispondo: Che v’importa? Se attacco l’argomento del loro viaggio, addio amori di Jacques... Camminarono per qualche tempo in silenzio. Quando ciascuno si fu un po’ rimesso della propria pena, il padrone disse al domestico: «Ebbene, Jacques, dove eravamo coi tuoi amori?». jacques Eravamo, credo alla rotta dell’esercito nemico. Si fugge, si è inseguiti, ciascuno non pensa che a sé. Io resto sul campo di battaglia, sepolto sotto il numero dei morti e dei feriti che fu prodigioso. L’indomani fui gettato, con una dozzina d’altri disgraziati, su una carretta, per essere condotto a uno dei nostri ospedali. Ah! signore, non credo che ci siano ferite più crudeli di quelle al ginocchio. il padrone Andiamo Jacques, tu scherzi. jacques Per Dio, nossignore, non scherzo! Ci son lì non so quante ossa, quanti tendini, e quante altre cose, che si chiamano non so come... Una specie di contadino che li seguiva, con una ragazza che portava in groppa, e che li aveva uditi, prese la parola e disse «Il signore ha ragione...». Non si sapeva a chi questo “il signore” fosse rivolto, ma fu preso a male da Jacques e dal suo padrone; e Jacques disse a questo interlocutore indiscreto: «Di che ti impicci?». «M’impiccio del mio mestiere; sono chirurgo, per servirvi, e vi dimostrerò...». La donna che portava in groppa gli diceva: «Signor dottore, andiamo per la nostra strada e lasciamo questi signori, a cui non piace che si dimostri loro». «No» le rispose il chirurgo «voglio dimostrar loro, e dimostrerò loro...». E nel voltarsi per dimostrare, spinge la sua compagna, le fa perdere l’equilibrio e la getta per terra, con un piede impigliato nella coda della sua giacca e con le sottane rovesciate sulla testa. Jacques scende, libera il piede di quella povera creatura e le abbassa le gonne. Non so se cominciò coll’abbassare le gonne o col liberare il piede; ma, a giudicar dalle grida lo stato di questa donna, essa s’era gravemente ferita. E il padrone di Jacques diceva al chirurgo: «Ecco che significa dimostrare». E il chirurgo: «Ecco cosa significa non volere che si dimostri!...». E Jacques alla donna caduta, o già rialzata: «Consolatevi, brava donna, non è colpa vostra, né colpa del dottore, né mia, né del mio padrone: era scritto lassù che oggi, su questa strada, a quest’ora, il dottore sarebbe un chiacchierone, io e il mio padrone saremmo due burberi, che voi avreste una contusione al capo e che vi si vedrebbe il deretano... ». Che cosa non diventerebbe nelle mie mani questa avventura, se mi prendesse la fantasia di spingervi alla disperazione! Darei importanza a questa donna, ne farei la nipote del curato d’un villaggio vicino; chiamerei alla riscossa i contadini di questo villaggio; mi preparerei combattimenti ed amori; poiché, insomma, la villanella era bella sotto i suoi panni. Jacques e il suo padrone se n’erano accorti; l’amore non ha atteso sempre un’occasione così seducente! Perché Jacques non s’innamorerebbe una seconda volta? Perché non sarebbe una seconda volta rivale, e perfino il rivale preferito, del suo padrone? – Questo caso s’era dunque già dato? – Sempre domande! Non volete proprio che Jacques continui il racconto dei suoi amori? Una buona volta per tutte, spiegatevi; vi farebbe, o non vi farebbe piacere? Se vi farà piacere, rimettiamo la villanella in groppa, dietro al suo accompagnatore, lasciandoli andare e torniamo ai nostri due viaggiatori. Questa volta fu Jacques che prese la parola e disse al suo padrone: «Ecco come va il mondo; voi che, in vita vostra, non siete mai stato ferito e non sapete cosa significa una fucilata al ginocchio, mi sostenete, a me che ho avuto il ginocchio fracassato e che zoppico da vent’anni...».

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Potresti aver ragione. Ma questo impertinente di chirurgo è causa di ciò che tu sei ancora su una carretta con i tuoi compagni, lontano dall’ospedale, lungi dalla guarigione e dall’innamorarti. jacques Checché vi piaccia pensare di ciò, il dolore del mio ginocchio era eccessivo; esso aumentava ancor più per la durezza della vettura, per il cattivo stato delle strade, ed a ogni sbalzo gettavo un grido acuto. il padrone Perché era scritto lassù che grideresti? jacques Certamente! Perdevo tutto il sangue, e sarei stato un uomo morto se la nostra carretta, l’ultima della fila, non si fosse fermata davanti a una capanna. Là io domando di scendere; mi si mette per terra. Una giovane, che stava ritta sulla porta della capanna, entrò ed uscì di nuovo quasi subito, con un bicchiere ed una bottiglia di vino. Bevvi in fretta un bicchiere o due. Le carrette che precedevano la nostra sfilarono. Ci si disponeva a gettarmi di nuovo fra i miei compagni quando, aggrappandomi con forza alle vesti di quella donna e a tutto ciò che mi stava intorno, protestai che non sarei risalito e che, morto per morto, preferivo che fosse nel luogo in cui mi trovavo piuttosto che due leghe più in là. Nel finire queste due ultime parole, caddi svenuto. All’uscir da questo stato, mi trovai spogliato e coricato in un letto, che occupava uno degli angoli della capanna, con intorno a me un contadino, il padrone del luogo, sua moglie, quella stessa che mi aveva soccorso, e alcuni bambini. La donna aveva inzuppato nell’aceto un lembo del grembiule e me ne strofinava il naso e le tempie. il padrone Ah! disgraziato! Ah birbante ... Infame, vedo dove vuoi arrivare. jacques Padron mio, credo che voi non vedete niente. il padrone Non è di questa donna che ti innamorerai? jacques E quand’anche mi fossi innamorato di lei, che ci sarebbe da ridire? Forse che si è padroni di innamorarsi o no? E se anche lo si è, si è padroni di agire come se non lo si fosse? Se ciò fosse stato scritto lassù, tutto quel che vi disponete di dirmi, io me lo sarei detto; mi fossi schiaffeggiato; mi fossi battuto la testa al muro; mi fossi strappato i capelli: sarebbe stato né più né meno, e il mio benefattore ugualmente cornificato. il padrone Ma ragionando a modo tuo, non c’è delitto che non si possa commettere senza rimorso! jacques Ciò che mi obiettate m’ha dato da pensare più di una volta; ma con tutto ciò, anche se mio malgrado, torno sempre al detto del mio capitano: “Tutto il bene e tutto il male che ci accade quaggiù è scritto lassù”. Conoscete, signori, qualche mezzo per cancellare questa scritta? Posso io non essere io? Ed essendo io, posso fare altrimenti da quel ch’io faccio? Posso io essere io e un altro? E dacché sono al mondo, c’è stato un solo istante in cui ciò non sia stato vero? Predicate quanto vi piace, le vostre ragioni saran forse buone; ma se è scritto in me o lassù ch’io le trovi cattive, che volete che ci faccia? il padrone Penso ad una cosa, se il tuo benefattore sarebbe stato cornificato perché era scritto lassù; o se ciò era scritto lassù, perché tu cornificheresti il tuo benefattore. jacques Le due cose erano scritte una accanto all’altra. Tutto è stato scritto insieme. È come un grande rotolo che si svolge a poco a poco ...

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Tu capisci, lettore, fin dove potrei spingere questa conversazione su un argomento di cui si è tanto parlato, tanto scritto da duemil’anni senza aver progredito d’un passo. Se non mi sei abbastanza grato di ciò che ti dico, di quel che non ti dico siimelo molto. Mentre i nostri due teologi disputavano senza intendersi, come può accadere in teologia, s’avvicinava la notte.

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D. Diderot, Jacques il fatalista e il suo padrone, trad. it. di G. Natoli, Mondadori, Milano 1965

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Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

Analisi del testo

> I personaggi e il narratore

La casualità

Ai modi con cui iniziano abitualmente i racconti si sostituiscono qui delle interrogative, che non hanno delle vere risposte; al principio di causalità si sostituisce la casualità di un incontro di cui, al di là di indicazioni del tutto generiche (quasi due semplici “etichette”: «Jacques» e il suo «padrone»), restano indeterminati i precedenti. La sola certezza, posseduta da un narratore che non si presenta certo come onnisciente, è data dal fatto che «Jacques diceva che il suo capitano affermava tutto quanto ci accade quaggiù, di bene e di male, essere scritto lassù» (rr. 3-4). La delega del racconto degli avvenimenti narrati viene così affidata al protagonista, mentre il narratore sembra avere solo il compito di coordinare l’andamento di un dialogo che costituisce la parte essenziale dell’opera.

> La struttura del testo

Un’opera umoristica

Il colloquio coi lettori

Un cantiere aperto

Un metaracconto

Ma i momenti del dialogo si presentano anche come digressioni, che – unificate dal motivo prima introdotto della predestinazione – danno luogo a una struttura irregolare e bizzarra, tipica delle opere umoristiche. Non a caso Jacques fa un’affermazione («ogni palla che parte da un fucile ha il suo indirizzo», rr. 6-7) ricavata da Sterne, che del genere umoristico si deve considerare l’indiscusso maestro ( cap. 6, A4, p. 385). La digressione imprime al racconto un andamento stravagante, continuamente interrotto e per così dire distratto (Diderot parla di «dilazione») da altri argomenti di conversazione, in un rapporto che avvicina il narratore al lettore. Si stabilisce così un colloquio dai toni familiari, estremamente significativo nel mettere a nudo il carattere relativo delle scelte compiute, che potevano essere differenti e cambiare quindi completamente le caratteristiche del racconto. L’affermazione secondo cui «dipenderebbe solo da me» (r. 35) ci fa capire come l’autore avrebbe potuto proseguire la narrazione in molti modi, del tutto diversi rispetto a quelli intrapresi (non mancano gli esempi di alcune possibilità, caratterizzati – come nell’incipit del romanzo e poi anche più avanti – dai punti interrogativi). Jacques il fatalista si presenta così come un’opera in costruzione (work in progress), una specie di cantiere aperto e in divenire (non manca l’immagine del mondo alla rovescia carnevalesco, quella delle «sottane rovesciate sulla testa», rr. 64-65), in cui i singoli momenti valgono come ipotesi accennate, abbozzate, e poi messe da parte, non concluse, con la scelta di un’operazione di rottura nei confronti del romanzo tradizionale, quello che rappresenta invece, con la coerenza realistica del verisimile, «combattimenti e amori» e scene di vita del «villaggio» (rr. 76-77). L’interesse riguarda piuttosto i meccanismi della narrazione, che escono allo scoperto ed emergono in primo piano, dando origine a un metaracconto, a un racconto su come si scrivono i racconti. Di qui il carattere irriverente dell’opera, che mentre contesta la forma-romanzo, irride le convinzioni metafisiche assolute, come quella della mancanza del libero arbitrio e della predestinazione. È un atteggiamento che riguarda da vicino la polemica antimetafisica dei filosofi illuministi e che Diderot condivide con il Voltaire di Candido ( T4, p. 317).

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Quali informazioni, oltre a quelle evidenziate nell’Analisi del testo, il brano fornisce al lettore sui protagonisti e sul contesto cui si riferisce il dialogo?

AnALIzzAre

> 2.

narratologia Individua nel testo tutti i riferimenti, oltre a quelli evidenziati nell’Analisi del testo, alla dimensione metanarrativa dell’opera.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

> 3.

Narratologia Quali altri personaggi, oltre a Jacques e al suo padrone, emergono dal work in progress del racconto? A quali tematiche si ricollega la loro presenza? > 4. Stile Individua nel testo, seppure in traduzione, le espressioni di tipo metaforico, spiegandone l’efficacia. > 5. Lessico Quali espressioni e/o vocaboli, seppure in traduzione, concorrono a determinare un abbassamento di tono? A quale dei due protagonisti del dialogo, e perché, prevalentemente si riferiscono?

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 6.

Esporre oralmente Perché Diderot rifiuta energicamente temi e modi della narrativa tradizionale ed in particolare di vestire i panni del narratore onnisciente? Come si collega questa scelta con gli atteggiamenti maturati in campo filosofico, con l’adozione dell’eclettismo ( T1, p. 304)? Rispondi oralmente (max 5 minuti).

A2

Le Lettere filosofiche

Testi Voltaire • Gli sviluppi della scienza come «filosofia sperimentale» dalle Lettere filosofiche

Il secolo di Luigi XIV

Voltaire La vita e le prime opere François-Marie Arouet (“Voltaire” dal 1718) nacque nel 1694 a Parigi, figlio di un magistrato; educato dai gesuiti, interruppe ben presto gli studi giuridici per dedicarsi alle lettere, ottenendo un buon successo con le tragedie Edipo (1718) e Marianna (1725). Per la lite con un esponente dell’aristocrazia fu rinchiuso nel carcere della Bastiglia; liberato, gli fu ingiunto di abbandonare Parigi. Per tre anni soggiornò a Londra, dove venne a contatto con gli ambienti liberali, maturando le sue convinzioni progressiste. Rientrato a Parigi fu nuovamente arrestato per la pubblicazione, nel 1734, delle Lettere filosofiche, dove difendeva ed elogiava i princìpi di libertà e tolleranza professati dal governo inglese, in aperto dissenso rispetto all’autoritarismo dei regimi assolutistici; interessato agli sviluppi del progresso scientifico, pubblicherà nel 1736 gli Elementi della filosofia di Newton. Riacquistata la libertà nel 1735, trascorse un decennio nel castello di Cirey, ospite dell’amica Madame de Châtelet, dedicandosi intensamente all’attività letteraria e agli studi storici; tra questi scrisse un testo fondamentale come Il secolo di Luigi XIV (1751), opera capitale della cultura illuministica, in cui prende posizione contro l’autoritarismo e l’intolleranza politico-religiosa. L’opera venne pubblicata a Berlino, dove Voltaire era stato accolto l’anno prima dal giovane re Federico II di Prussia, influenzato dalle nuove idee e sensibile ai programmi delle riforme. Abbandonato nel 1753 il rifugio berlinese e impeditogli di tornare a Parigi, si trasferì dapprima in Alsazia e poi alla periferia di Ginevra, per tornare infine in Francia, a Ferney, al confine con la Svizzera, in una tenuta dove visse dal 1758 al 1778, anno in cui morì poco dopo essere rientrato a Parigi, dove era stato accolto con grandi onori.

Jean-Antoine Houdon, Busto di François Marie Arouet de Voltaire, 1778, scultura in marmo, Parigi, Musée du Louvre.

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Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

Le opere filosofiche Polemista caustico e sferzante, Voltaire ha pubblicato diversi

Il Dizionario filosofico

Altre opere filosofiche

Candido o l’ottimismo

pamphlets a difesa delle sue radicali posizioni ideologiche e contro i nemici e i detrattori della filosofia illuministica. La più compiuta esposizione del suo pensiero è da cercare nel Dizionario filosofico tascabile ( T3, p. 314), che, pubblicato nel 1764, venne poi arricchito e ampliato nelle successive edizioni (in cui l’aggettivo «tascabile» venne eliminato). L’idea nacque a un pranzo dato da Federico II, in cui Voltaire si impegnò a pubblicare un libro che contenesse i princìpi della concezione illuministica, da portare con sé perché più maneggevole rispetto ai grossi tomi dell’Enciclopedia ( p. 252; ma di questa, pur avendo collaborato con una voce sul Gusto, Voltaire intendeva anche denunciare il carattere per lui eccessivamente cauto e moderato). Tra le opere filosofiche, oltre al Trattato della tolleranza (1763) e alle Idee repubblicane (1763), vanno ricordati La legge naturale (1756), sulla concezione del deismo ( Teismo e deismo), e il Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni (1756), in cui viene esposta la filosofia della storia propria dell’autore, che rifiuta ogni forma di dogmatismo e di provvidenzialismo, per mettere l’accento sulle cause umane che regolano la vicenda del progresso. I romanzi Ricordiamo infine La Pulzella (1755), parodia in versi delle imprese di Giovanna D’Arco, e soprattutto i romanzi Zadig (1748), Micromégas (1752), Candido o l’ottimismo (1759). L’impianto fantastico e avventuroso di queste opere, spinto sino all’assurdità delle situazioni e alle inverosimili tappe di frenetici viaggi intorno al mondo, rappresenta l’intelaiatura allegorica che consente all’autore di esprimere le proprie convinzioni filosofiche, contestando e ridicolizzando quelle degli avversari, oltre a colpire, più in generale, con i pregiudizi della mentalità corrente, le violenze e gli inganni del potere. Nel più noto di questi romanzi filosofici, Candido, la cui conclusione è divenuta proverbiale ( T4, p. 317), Voltaire irride quelle visioni ottimistiche della realtà che, sulla scorta del pensiero di Leibniz, ne davano un’interpretazione semplicistica, rifiutando una visione più complessa e problematica dei mali della società e delle crudeltà della storia.

Microsaggio

Teismo e deismo I due termini e i relativi concetti si diffondono in epoca illuministica, ma la distinzione attualmente in uso fu chiaramente stabilita solo dal grande filosofo Immanuel Kant nella sua opera fondamentale, Critica della ragion pura, del 1781. Siccome l’impiego dei termini può generare confusione, sarà opportuno fornire qualche chiarimento sulla base di tale distinzione. Con “teismo” si indica una religione basata sulla rivelazione divina, sulla fede in un Dio personale e trascendente che regola in modo provvidenziale le cose del mondo e su una serie di dogmi stabiliti dall’autorità religiosa. “Deismo” invece è una religione fondata sulla manifestazione naturale che la divinità fa di sé alla ragione dell’uomo. In altri ter-

mini, secondo questa concezione l’uomo può arrivare all’idea di Dio semplicemente attraverso la propria ragione, senza bisogno di una rivelazione dall’alto e di un’autorità che fissi dei dogmi a cui credere. Quindi le credenze di questa religione naturale sono poche e semplici, a differenza delle complesse dottrine delle religioni rivelate: Dio è solo l’Essere supremo, senza caratteristiche personali definite. Il deismo è una componente tipica della visione illuministica, che ricorre nelle opere dei maggiori esponenti di quella corrente culturale. Però una causa di confusione può essere il fatto che quello che noi oggi chiamiamo “deismo” è detto “teismo” da Voltaire nel Dizionario filosofico: occorre perciò fare attenzione nell’uso del termine.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

T3

Voltaire

Temi chiave

Contro il fanatismo dogmatico dal Dizionario filosofico

• un particolare giudizio universale • l’arroganza del potere dogmatico • la condanna dell’ipocrisia

Immaginando una sorta di giudizio universale, Voltaire condanna – alla luce del “deismo” – alcune personalità che, nel nome del loro fanatico dogmatismo, si sono rese responsabili di gravi colpe e delitti.

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Dogmi (Dogmes). Il 18 febbraio dell’anno 1763 dell’èra volgare, quando il sole stava per entrare nella costellazione dei Pesci, fui trasportato in cielo, come sanno tutti i miei amici. Non la giumenta Borac di Maometto mi prese in groppa; non il carro di fuoco di Elia mi rapì alla terra; non fui trasportato sull’elefante del siamese Sammonocodom, né sul cavallo di san Giorgio patrono dell’Inghilterra, e neppure sul porco di sant’Antonio1: debbo confessare che non ho idea di come feci quel viaggio. Potete immaginare come ero intontito. Ma faticherete a credere che vidi giudicare i morti2. E chi erano i giudici? Erano, se permettete, tutti coloro che han fatto del bene agli uomini: Confucio, Solone, Socrate, Tito, gli Antonini, Epitteto3, i grandi uomini che, avendo insegnato e praticato le virtù che Dio4 esige da noi, sembrano gli unici che hanno il diritto di pronunciare le sue sentenze. Non vi dirò su quali troni erano seduti, o quanti milioni di esseri celestiali erano prosternati davanti al creatore di tutti i mondi, o quale folla di abitanti di quegli innumerevoli globi comparve davanti ai giudici. Mi limiterò a esporre alcuni particolari molto interessanti che mi colpirono. Notai che ogni morto parlava in proprio favore, e faceva valere i suoi buoni sentimenti, aveva a fianco i testimoni delle proprie azioni. Per esempio, quando il cardinale di Lorena5 si vantò di aver fatto adottare alcune sue opinioni dal Concilio di Trento, e chiedeva la vita eterna in ricompensa della sua ortodossia, ecco apparire attorno a lui una ventina di cortigiane o gran dame, che portavano scritto sulla fronte il numero dei loro convegni intimi col cardinale; si vedevano anche comparire al suo fianco quelli che avevano attribuito a organizzare la Lega6: i complici, insomma, dei suoi misfatti. In faccia al cardinale di Lorena c’era Calvino7, che si vantava, nel suo rozzo gergo, di aver preso a calci l’idolo papale dopo che altri l’avevano rovesciato. «Ho scritto contro la pittura e la scultura», diceva; «ho dimostrato in tutta evidenza che le buone opere

1. Non la giumenta … sant’Antonio: allude a mezzi di trasporto e ad animali con cui figure legate a leggende o credenze delle varie religioni sono salite al cielo (fa eccezione il porco che, associato a sant’Antonio nell’iconografia popolare, non risulta che abbia avuto questa funzione). 2. giudicare i morti: allusione al Giudizio universale, quando Dio, secondo le parole del Credo, «verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti». 3. Confucio … Epitteto: il pensatore cinese Confucio (551-479 a.C.), il legislatore ateniese Solone (640 ca.-560 ca. a.C.), il filosofo ateniese Socrate (469-339 a.C.), l’imperatore

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romano Tito (39-81 d.C.), gli Antonini (in particolare Aurelio Antonino detto il Pio e Marco Aurelio, l’imperatore filosofo), che ressero l’impero romano dal 138 al 180, il filosofo greco Epitteto (50 ca.-138 ca.). Tutte persone che, secondo Voltaire, si prodigarono per il bene e il progresso dell’umanità. 4. Dio: inteso come “essere supremo”, secondo il significato proprio del deismo ( Teismo e deismo, p. 313). 5. cardinale di Lorena: Carlo di Lorena (1524-74), arcivescovo di Reims e vescovo di Metz, partecipò attivamente al Concilio di Trento, difendendo i diritti della Chiesa francese.

6. la Lega: la Lega cattolica, fondata nel 1576 con l’intento di estirpare definitivamente il protestantesimo dalla Francia 7. Calvino: Giovanni Calvino (Jean Cauvin, 1509-64) è stato dopo Lutero il massimo riformatore della religione cristiana. Fondatore a Ginevra della Chiesa da lui detta “calvinista”, ha esposto il suo pensiero nelle Istituzioni della religione cristiana (1536), in cui, oltre a condannare le manifestazioni artistiche, sostiene tra l’altro che non servono le buone opere per meritare la salvezza eterna ma questa dipende esclusivamente dall’imperscrutabile giudizio di Dio.

Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

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non servono a nulla, e ho provato che è cosa diabolica danzare il minuetto: su, cacciate via quel cardinale di Lorena e mettetemi al fianco di san Paolo». Mentre parlava, si vide comparire accanto a lui un rogo, e da quelle fiamme sorse uno spaventevole spettro che portava al collo una gorgiera8 spagnola mezzo bruciata, che si mise a gridare: «Mostro, mostro abominevole, trema! Riconosci in me quel Serveto9 che hai fatto morire col supplizio più crudele solo perché aveva osato disputare con te sulla maniera in cui tre persone possono fare una sola sostanza». Tutti i giudici allora sentenziarono che il cardinale di Lorena fosse precipitato nell’abisso, ma Calvino fosse punito ancor più duramente. Vidi una folla prodigiosa di morti che dicevano: «Ho creduto, ho creduto», ma sulla loro fronte c’era scritto; “Ho fatto questo, ho fatto quest’altro”, e venivano condannati. […] Vedevo arrivare da destra e da sinistra eserciti di fachiri, talapoini, bonzi10, monaci, bianchi neri e grigi, convinti che per far piacere all’Essere supremo bisogna cantare, o farsi frustare, o andare in giro nudi. E udii una voce terribile che domandava: «Come e quando avete fatto del bene agli uomini?». A quella voce seguì un cupo silenzio: nessuno osò rispondere, ed essi furono tutti avviati al manicomio dell’universo, una delle costruzioni più grandiose che si possano immaginare. Uno gridava: «Bisogna credere alla metamorfosi di Xaca»; un altro: «No, a quelle di Sammonocodom11». «Bacco fermò il sole e la luna!12» gridava un terzo. «Gli dèi risuscitarono Pelope13», diceva un altro. «Ecco la bolla In caena Domini»14, esclamava l’ultimo venuto. E l’usciere dei giudici gridava: «Al manicomio, al manicomio!». Sbrigate che furono queste cause, sentii promulgare questa sentenza: “in nome dell’eterno creatore, conservatore, remuneratore, vendicatore, misericordioso, ecc. ecc.: sia noto a tutti gli abitanti dei centomila milioni di miliardi di mondi che abbiamo voluto creare, che non giudicheremo mai nessuno dei detti abitanti per le sue stravaganti concezioni, ma unicamente per le sue azioni; tale è la nostra giustizia”. Confesso che fu la prima volta che sentii un editto siffatto: quelli che avevo letto prima sul granello di sabbia dove son nato, finivano invece con le parole: Tale è il nostro beneplacito15. Voltaire, Dizionario filosofico, trad. it. di A. Paszkowfsky, Orsa Maggiore editrice, Torriana (Forlì) 1993

8. gorgiera: collare di tela. 9. Serveto: lo spagnolo Michele Serveto (Miguel Servet, 1511-53), teologo e scienziato (scoprì la circolazione polmonare del sangue), combatté la dottrina della Trinità (ossia della presenza in Dio di tre persone uguali e distinte, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo), accettata sia dai cattolici sia dai protestanti. Perseguitato da entrambi, visse sotto falso nome, finché venne arrestato e condannato al rogo dai calvinisti ginevrini. 10. talapoini, bonzi: monaci orientali, sacerdoti buddisti. 11. metamorfosi ... Sammonocodom: Voltaire utilizza termini esotici (Xaca, Sammo-

nocodom) che è difficile stabilire se siano parole inventate o derivanti da qualche sua lettura. 12. Bacco ... luna!: in questa espressione c’è un intreccio tra la mitologia classica (Bacco) e un episodio biblico (quello in cui, per esaudire una preghiera di Giosuè, impegnato in combattimento, Dio avrebbe fermato il corso del Sole). 13. Pelope: nella mitologia greca è il figlio di Tantalo, che diede agli dèi da mangiare le carni del figlio per metterne alla prova l’onniscienza. Solo Demetra ne mangiò però una spalla; gli dèi infatti si accorsero dell’inganno e riportarono in vita il giovane Pelope male-

dicendo Tantalo e i suoi discendenti. 14. bolla … Domini: è la bolla papale pubblicata nel 1568 da Pio V, raccolta di provvedimenti sulla difesa della fede e la lotta alle eresie; viene considerata da Voltaire nelle sue Questions sur l’Encyclopédie (“Questioni sull’Enciclopedia”) un «capolavoro dell’insolenza e della follia». 15. Tale … beneplacito: questa formula appariva in calce agli editti pontifici; beneplacito significa approvazione, benestare (il termine deriva dal latino beneplacitum, “che è stato apprezzato, approvato”).

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo L’impostazione ironica

I grandi della storia

L’ipocrisia L’idea della giustizia

Il carattere tagliente della scrittura voltairiana trova qui un efficace esempio nell’impostazione ironica del passo, che, adottando i modi del racconto fantastico, immagina un’ascesa al cielo, in cui l’autore, trasportatovi senza sapere come (l’ironia riguarda analoghi racconti delle diverse credenze religiose), ha modo di assistere a una sorta di giudizio universale. A «giudicare i morti» (l’espressione è ricavata dal Credo) non è direttamente Dio, ma sono «i grandi uomini» che hanno «insegnato e praticato le virtù che Dio esige da noi» (rr. 9-10), ossia quei benefattori dell’umanità che sono riusciti a realizzare su questa terra gli ideali di filantropia tipici della concezione illuministica. Davanti a loro si presentano alcune delle personalità che (sia in campo cattolico sia in campo protestante) hanno legato il loro nome alla storia del passato, rivendicando i meriti delle azioni commesse nell’esercizio delle loro funzioni; ma le persone che erano a conoscenza della loro vita, venute a testimoniare, ne ribaltano il giudizio, mostrandone la falsità. In questo modo Voltaire smaschera l’arroganza e la crudeltà di un potere dogmatico che, ritenendo di essere l’unico depositario della verità, può commettere le peggiori colpe e ingiustizie. A essere messa sotto accusa è anche l’ipocrisia di chi separa le parole dai fatti, così come viene condannata una fede che, risolvendosi nella fuga dal mondo (come in certe religioni orientali e in certi ordini monastici), non è di utilità alcuna nei confronti del prossimo. Ne deriva l’idea di una giustizia divina che giudica non le «stravaganti concezioni» (quelle ritenute da Voltaire irrazionali, se non addirittura “folli”), ma le «azioni», ossia i comportamenti reali degli uomini; tutto l’opposto di tanti editti promulgati dalle autorità delle Chiese. La divinità coincide infatti per il deismo (che Voltaire però chiama “teismo”, sulla cui distinzione, Teismo e deismo, p. 313) con «quell’Essere supremo, benigno e potente, che ha formato tutti gli uomini estesi, vegetanti, dotati di sentimento, o di sentimento e ragione; egli perpetua la loro specie, punisce senza crudeltà i delitti e ricompensa con bontà le azioni virtuose» (così alla voce Teista del Dizionario filosofico).

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. È possibile evincere dal brano che l’esperienza di ascesa al cielo si è ormai conclusa ed è stata divulgata? Rispondi riportando i passi del testo significativi in tal senso.

AnALIzzAre

> 2.

Stile Individua nel brano, seppure in traduzione, i casi di enumerazione, e spiegane di volta in volta la funzione. > 3. Stile A che cosa si riferisce l’autore con l’espressione, qui in traduzione, «sul granello di sabbia dove son nato» (r. 55)? Di quale figura retorica si tratta e quale funzione assume?

ApprofonDIre e InTerpreTAre

> 4.

Scrivere Quali elementi del testo sembrano rimandare al motivo tradizionale (e in gran parte religioso) del viaggio nell’aldilà, e quali invece all’ambientazione – del tutto laica e terrena – del processo? Rispondi in un testo scritto di circa 15 righe (750 caratteri). > 5. esporre oralmente In un’esposizione orale (max 5 minuti) indica quali sono le ragioni storiche e culturali che inducono Voltaire a “condannare” alcuni personaggi in particolare. Rispondi avvalendoti anche delle informazioni fornite in nota.

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Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

T4

Voltaire

Temi chiave

«Bisogna coltivare il proprio giardino»

• l’alternanza di fortuna e sfortuna nella vita dell’uomo

• l’apprezzamento per un tipo di vita semplice • l’importanza di accettare il proprio dovere

da Candido, cap. XXX Il brano è tratto dal capitolo conclusivo, il XXX, del romanzo. I protagonisti si sono oramai stabiliti in una «masseria» sulle rive del Bosforo, lo stretto che separa a Sud l’Europa dall’Asia.

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Candide, Martin e Pangloss qualche volta discutevan di metafisica e di morale. Spesso passavano sotto le finestre della masseria barche cariche di effendì1, di pascià2, di cadì3 che portavano in esilio a Lemno, a Mitilene4, a Erzerum5. Si vedevan venire altri cadì, altri pascià, altri effendì che pigliavano il posto degli esiliati e che erano esiliati a loro volta. Si vedevan passare teste accuratamente impagliate6 da presentare alla Sublime Porta7. Tali spettacoli raddoppiavano le dissertazioni8; e quando non discutevano la noia era talmente intollerabile che un giorno la vecchia ardì dire: «Mi piacerebbe sapere cosa è peggio, se esser violentata cento volte dai pirati negri9, se avere una chiappa tagliata10, se passar per le verghe11 dei bulgari, se esser fustigato e impiccato in un autodafé12, se esser notomizzato, se remare sulle galere13, se insomma provar tutte le sciagure attraverso le quali siam passati tutti, oppure star qui a non far nulla». «È un gran problema» disse Candide. Quel discorso fece nascere nuove riflessioni, e Martin concluse che l’uomo è fatto per vivere nelle convulsioni dell’inquietudine o nel letargo della noia14. Candide non era d’accordo, ma non affermava nulla. Pangloss ammetteva di aver sempre e orrendamente patito; ma siccome una volta aveva sostenuto che tutto andava benissimo, lo sosteneva ancora senza tuttavia crederci. [...]

1. effendì: alte personalità turche. 2. pascià: dignitari turchi di rango superiore. 3. cadì: magistrati musulmani che esercitavano anche funzioni di governo. 4. Lemno … Mitilene: isole dell’Egeo. 5. Erzerum: capoluogo di una regione alle sorgenti del fiume Eufrate. 6. teste… impagliate: le teste mozzate dal boia che venivano riempite di paglia prima di essere trasportate.

7. Sublime Porta: il governo turco. 8. dissertazioni: discussioni (fra i protagonisti). 9. se esser … negri: allusione ad alcune delle disgrazie occorse ai protagonisti del romanzo. 10. chiappa tagliata: per essere mangiata dai soldati che, assediati, non potevano procurarsi altro cibo (cap. XII). 11. le verghe: le frustate; si fa cenno alle quattromila vergate inflitte a Pangloss (cap. II).

12. autodafé: esecuzione di una sentenza di condanna per eresia; si tratta di Pangloss che, impiccato, si risveglia urlando dopo il taglio di un anatomista che intendeva “notomizzarlo”, cioè sezionarlo (cap. XXVIII). 13. galere: imbarcazioni a remi. 14. convulsioni … noia: l’espressione ripete un giudizio del filosofo Blaise Pascal (162362) sulla condizione della vita umana.

L’opera

Candido o l’ottimismo di Voltaire Nel castello di Thunder-ten-tronckh il filosofo Pangloss ha impartito a Candido gli insegnamenti del filosofo Leibniz, secondo cui noi viviamo nel migliore dei mondi possibili e tutto ciò che accade è un bene per l’uomo. La sua fede non è intaccata dalle gravi disgrazie a cui vanno incontro i due protagonisti, in un susseguirsi di mirabolanti peripezie. Candido è cacciato dal castello dopo aver sedotto la figlia del proprietario, Cunegonda. Costretto ad arruolarsi nell’esercito bulgaro, fugge in Olanda, dove ritrova Pangloss, ormai ridotto in miseria. A Lisbona sopravvivono a un devastante terremoto, ma sono condannati dall’Inqui-

sizione. Riescono a salvarsi e Candido ritrova Cunegonda, finita nelle mani di un giudeo e del Grande Inquisitore, che ne hanno fatto la loro amante. La libera ma, sempre inseguito dall’Inquisizione, è costretto a fuggire. Dopo le più svariate traversie nel continente americano e nel favoloso paese dell’Eldorado ritorna in Europa, insieme con il saggio Martin, spostandosi a Parigi, Londra e Venezia, finché, insieme con altri personaggi via via incontrati, Candido ritrova a Costantinopoli Pangloss e Cunegonda, ormai diventata vecchia e brutta.

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C’era nei dintorni un dervì15 famosissimo, riputato il miglior filosofo di Turchia; andarono a consultarlo. Pangloss prese la parola e disse: «Maestro, veniamo a pregarti di dirci perché un animale strano come l’uomo è stato creato». «Di che ti impicci?» disse il dervì «forse che ti riguarda?» «Ma, reverendo padre» disse Candide «è orribile il male che c’è al mondo». «Cos’importa» disse il dervì «che ci sia male o bene? Quando Sua Altezza spedisce un vascello in Egitto, forse che s’inquieta se i topi che son sul vascello stanno bene o male?» «Cosa bisogna fare, allora?» disse Pangloss. «Tacere» disse il dervì. «Speravo» disse Pangloss «di ragionare un poco con te degli effetti e delle cause, del migliore dei mondi possibili, dell’origine del male, della natura dell’anima e dell’armonia prestabilita». A quelle parole il dervì gli sbatté la porta in faccia. Durante la conversazione si sparse la notizia che a Costantinopoli avevan strozzato due visir del banco16 e muftì17, e che avevano impalato vari loro amici. Quella catastrofe fece gran rumore per ogni dove durante qualche ora. Pangloss, Candide e Martin, tornando alla loro piccola masseria, incontrarono un buon vecchio che pigliava il fresco sulla porta di casa, sotto una pergola d’aranci. Pangloss, che non era meno curioso di quanto fosse ragionatore, gli domandò come si chiamava il muftì appena strozzato. «Non ne so nulla» disse il buon vecchio «non ho mai saputo il nome di nessun muftì né di nessun visir. Ignoro affatto il caso di cui parlate; suppongo che generalmente quelli che si immischiano nelle cose pubbliche a volte periscono miseramente, e che gli sta bene; ma non mi interesso mai di quello che fanno a Costantinopoli; mi contento di mandarci a vendere i frutti del giardino che coltivo». Detto questo, fece entrare gli stranieri in casa: due delle sue figlie e due figlioli presentaron loro varie qualità di sorbetti preparati in casa, caimac18 punteggiato di scorze di cedro candito, poi arance, limoni, melàngole19, ananassi, pistacchi, e caffè di Moka20 non mescolato col cattivo caffè di Batavia21 e delle isole. Dopo di che le due figliole del buon musulmano profumaron le barbe di Candide, di Pangloss e di Martin. «Dovete possedere» disse Candide al turco «una vasta e magnifica terra». «Non posseggo che venti jugeri22» rispose il turco; «li coltivo coi miei figli; il lavoro ci tien lontani tre grandi mali: la noia, il vizio e la miseria». Tornando alla masseria Candide fece grandi riflessioni sul discorso del turco. Disse a Pangloss e a Martin: «Quel buon vecchio mi pare si sia fatto una vita di gran lunga preferibile a quella dei sei re coi quali ebbimo l’onore di cenare23». «Le grandezze» disse Pangloss «sono assai pericolose, secondo riferiscono tutti i filosofi: perché insomma Eglon, re dei moabiti, fu assassinato da Aod; Assalone fu appeso per i capelli e trafitto da tre lance; il re Nadab, figlio di Geroboamo, fu ucciso da Baasa; il re Ela, da Zambri; Ocosia da Geo; Atalia da Gioad; i re Gioachino, Ieconia, Sedecia furon schiavi. Sapete come perirono Creso, Dario, Dionigi di Siracusa, Pirro, Perseo, Annibale, Giugurta, Ariovisto, Cesare, Pompeo, Nerone, Ottone, Vitellio, Domiziano, Riccardo II d’Inghilterra, Edoardo II, Enrico VI, Riccardo III, Maria Stuarda, Carlo I, i tre Enrichi di Francia, l’imperatore Enrico IV24. Sapete...».

15. dervì: derviscio, membro di una confraternita musulmana che conduce una vita ascetica. 16. visir del banco: ministri di corte. 17. muftì: giudici in materia di religione. 18. caimac: crema di latte. 19. melàngole: arance amare. 20. Moka: città araba da cui proveniva un caffè particolarmente pregiato. 21. Batavia: l’attuale Giacarta, capitale dell’ar-

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cipelago dell’Indonesia. 22. jugeri: lo “iugero” è un’antica unità di superficie agraria, corrispondente a circa un quarto di ettaro. 23. cenare: in una trattoria di Venezia (cap. XXVI). 24. Eglon … Enrico IV: governanti e regnanti della Bibbia e della storia antica e moderna, che fecero una brutta fine. La

cosiddetta guerra dei tre Enrichi fu combattuta in Francia, tra il 1585 e il 1589, nell’ambito delle lotte di religione, per la successione al regno di Francia fra Enrico di Guisa, Enrico di Navarra ed Enrico III di Valois; Enrico IV è l’imperatore del Sacro Romano Impero (1050-1106) costretto a umiliarsi a Canossa, nel 1077, perché il papa gli togliesse la scomunica.

Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

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«So anche» disse Candide «che bisogna coltivare il proprio giardino». «Hai ragione» disse Pangloss; «perché quando l’uomo fu posto nel giardino dell’Eden, ci fu posto ut operaretur eum, perché lo coltivasse25; il che dimostra che l’uomo non è fatto per il riposo». «Lavoriamo senza ragionare» disse Martin; «è l’unico modo di render la vita tollerabile». Tutta la minuscola compagnia condivise quel lodevole disegno; ciascuno si mise a esercitare i propri talenti. La poca terra fruttò molto. Cunégonde in verità era ben brutta, ma divenne un’ottima cuoca; Paquette26 ricamò; la vecchia badò alla biancheria. Persino fra Giroflée27 si rese utile; fu ottimo falegname e divenne addirittura galantuomo; e a volte Pangloss diceva a Candide: «Tutti gli eventi sono concatenati nel migliore dei mondi possibili; perché insomma, non t’avessero cacciato da un bel castello a pedate nel sedere per amore di madamigella Cunégonde, non fossi caduto nelle mani dell’Inquisizione, non avessi percorso l’America a piedi, non avessi dato un bel colpo di spada al barone28, non avessi perduto tutte le pecore29 del buon paese di Eldorado, non saresti qui a mangiar cedro candito e pistacchi...». «Ben detto» rispose Candide «ma dobbiamo coltivare il nostro orto». Voltaire, Candido, trad. it. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 1974

25. ut … coltivasse: Genesi, II, 15. 26. Paquette: la cameriera sedotta da Pangloss e ritrovata da Candido, prostituta, a Venezia (cap. XXIV). 27. fra Giroflée: il frate che si era convertito all’islamismo (cap. XXX). 28. al barone: il fratello di Cunegonda affrontato e ferito in duello da Candido perché si era rifiutato di concedergli in moglie la sorella (cap. XV).

29. le pecore: cariche d’oro e di pietre preziose che erano state offerte in dono a Candido nell’immaginario paese di Eldorado (cap. XVIII).

Jean Huber, Voltaire mentre pianta alberi, terzo quarto del XVIII secolo, olio su tela, part., San Pietroburgo, Hermitage.

Analisi del testo Le miserie e le crudeltà della storia

Una realtà senza spiegazioni

Alla conclusione dell’opera si tirano le somme delle esperienze vissute dai protagonisti, che ovunque sono andati incontro a pericoli e sofferenze. Anche alla fine, nella sistemazione in una «masseria» sulle sponde del Bosforo, passano davanti a loro le miserie e le crudeltà della storia, che non risparmia neppure i più alti governanti e dignitari, nelle alterne vicissitudini delle fortune e delle sventure. Di qui le discussioni «di metafisica e di morale», che si alternano a periodi di una noia mortale, vista anch’essa come uno dei mali che affliggono l’umanità. A questo proposito nascono altre questioni, in cui Pangloss continua a sostenere che si vive sempre nel migliore dei mondi possibili, anche se ormai più non ci crede. Di fronte a una realtà che non ha spiegazioni si decide di consultare «il miglior filosofo di Turchia», ponendo a lui la domanda sul perché l’uomo, questo «animale strano», sia «stato creato» (r. 20). Sono le domande ultime sul destino dell’uomo e sul significato della vita stessa, insieme con quella della presenza del male nel mondo. A questo problema, misterioso e indecifrabile, nessuna filosofia sa dare una risposta, tant’è che il saggio «dervì» finirà per congedarli, sbattendo loro la porta in faccia. Non senza aver prima lasciato intendere che, se c’è un creatore, questi si interessa alle sue creature non più di quanto «Sua Altezza» si preoccupa «se i topi che son sul vascello stanno bene o male» (r. 24). Inutile, quindi, addentrarsi in una «metafisica» che non è in grado di decifrare il mistero dell’essere. 319

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo La saggezza di una scelta di vita

Il messaggio finale

Una lezione più utile deriva invece dal «buon vecchio che pigliava il fresco sulla porta di casa» (rr. 33-34). La sua non è una sapienza filosofica ma la saggezza di chi, senza voler sapere nulla dei potenti che si scannano fra di loro, si accontenta della sua povera esistenza, trovando in essa la gioia di un ambiente sereno e confortevole, in una famiglia pronta alla più cordiale ospitalità. L’apprezzamento di questo tipo di vita da parte di Candido e le osservazioni di Pangloss sui gravi pericoli a cui sono andati incontro i grandi della storia conducono il primo ad affermare che «bisogna coltivare il proprio giardino» (r. 61); da un lato viene proposto l’ideale del lavoro («l’uomo non è fatto per il riposo», rr. 63-64), come conseguenza della creazione («quando l’uomo fu posto nel giardino dell’Eden», r. 62); dall’altro si sostiene che lavorare «senza ragionare … è l’unico modo per render la vita tollerabile» (r. 65). Il messaggio finale non è così semplicistico come potrebbe a prima vista sembrare e, soprattutto, non va confuso con quello di una banale conclusione borghese. C’è una correlazione dialettica fra l’ideologia del lavoro – con l’accontentarsi di quello che si ha e accettare la realtà del presente, senza abbandonarsi a sogni e illusioni – e il rifiuto di «ragionare», che non significa certo la negazione del pensiero, ma la condanna delle filosofie dogmatiche, basate su sistemi assoluti, come quella del filosofo tedesco Wilhelm Leibniz (1646-1716), da cui era derivato l’ottimismo incrollabile di Pangloss. Così la fiducia nel lavoro non è subordinata alla ricchezza individuale ma rientra nella sfera illuministica dell’“utile”, oltre a contribuire all’educazione civile e sociale (fra Giroflée «divenne addirittura galantuomo», r. 69); in questo senso va inteso non come un’adesione acritica alla realtà ma, secondo l’invito delle parole finali di Candido, come responsabile accettazione del dovere da compiere.

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Quali sono i tre grandi mali dell’uomo secondo il vecchio turco? Come si possono combattere? AnALIzzAre

> 2. Dividi il brano in sequenze e indica per ognuna di esse se il contenuto è prevalentemente descrittivo o di

riflessione filosofica. Nella struttura generale del capitolo viene privilegiato uno dei due aspetti? Quale? Stile Nel testo, seppure in traduzione, è presente l’ironia che spesso caratterizza la scrittura di Voltaire? Se sì, rintracciane uno o più esempi significativi. > 4. Stile Individua nel brano, seppure in traduzione, i casi di enumerazione, e spiegane l’efficacia sul piano espressivo e contenutistico.

> 3.

ApprofonDIre e InTerpreTAre

> 5.

Scrivere Rifletti, avvalendoti delle note, sul discorso di Pangloss alle righe 53-60: perché i casi da lui citati fanno riferimento a contesti così diversi? Motiva la tua risposta in un testo di circa 10 righe (500 caratteri). > 6. Testi a confronto: esporre oralmente Nel 1756 il filosofo Immanuel Kant pubblica tre scritti sui terremoti: il 1° novembre 1755 la catastrofe si era abbattuta su Lisbona, la stessa cui Voltaire fa riferimento in Candido. […] allorché gli uomini costruiscono le città su terreni saturi di sostanze infiammabili, prima o dopo tutta la magnificenza dei loro palazzi cadrà in rovina a motivo delle scosse telluriche. Ma dovremmo, forse, essere perciò insofferenti dei propositi della Provvidenza? Dunque non sarebbe stato meglio ritenere necessario che sulla terra si verificassero di tanto in tanto dei terremoti, ma non che vi costruissimo splendidi edifici? Gli abitanti del Perù vivono in abitazioni che sono in muratura solo per una certa altezza, mentre il rimanente è costruito di canne. L’uomo deve imparare a conformarsi alla natura, ma egli vuole che essa si conformi a lui. […] Se le cose stanno così, come del resto non possiamo negare, non dovremmo riprometterci le conseguenze più favorevoli da questo fuoco sotterraneo che assicura in ogni tempo un calore moderato alla terra nella stagione in cui il sole ci sottrae il suo, e che è in grado di favorire la crescita delle piante e l’economia del regno della natura? E alla vista di una sì grande utilità, come può lo svantaggio che deriva al genere umano dallo scatenarsi ora di questo ora di quella calamità impedirci di manifestare la gratitudine di cui siamo debitori alla Provvidenza per tutte le sue disposizioni?

I. Kant, Scritti sui terremoti, trad. it. di P. Manganaro, Cooperativa editrice, Salerno 1984

Dopo aver letto il passo kantiano, in un’esposizione orale (max 5 minuti) individua in esso spunti di riflessione che possano essere ricondotti al brano di Voltaire analizzato.

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Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

A3 I viaggi

Le Cause della grandezza dei romani

Lo spirito delle leggi

Le Lettere persiane

Testi Montesquieu • Amore, libertà e violenza dalle Lettere persiane

Charles-Louis de Montesquieu La vita e le opere Charles-Louis de Secondat, barone di la Brède e di Montesquieu, nacque a La Brède, presso Bordeaux, nel 1689. Dopo gli studi di diritto, prese parte dal 1714 alla vita politica cittadina, entrando poi a far parte dell’Accademia di Bordeaux. Del 1721 è la pubblicazione del romanzo epistolare Lettere persiane, che ebbe immediatamente uno straordinario successo (ci furono, tra l’altro una dozzina di imitazioni). Trasferitosi a Parigi, dove venne accolto nell’Accademia di Francia, frequentò l’ambiente della corte e i circoli intellettuali. Tra il 1728 e il 1731 fu impegnato in una serie di viaggi, che lo portarono in Austria, Ungheria, Italia, Germania, Olanda e Inghilterra, dove ebbe modo di riflettere e di raccogliere preziose informazioni sui diversi sistemi di vita e di governo. Soprattutto lo influenzò la realtà della situazione inglese, che gli offriva l’esempio europeo più avanzato di organizzazione politica. Al ritorno in patria si ristabilì nella tenuta familiare di La Brède, da cui non si mosse fino alla morte, che lo raggiunse, ormai cieco, nel 1755. A questi anni risalgono le opere di maggior impegno. Nel 1743 escono le Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza, dove i mutamenti della storia vengono indagati con esclusiva attenzione alle ragioni umane che determinano i progressi e le crisi delle civiltà; nella fattispecie alle istituzioni repubblicane dell’antica Roma, in opposizione al regime imperiale, sono da attribuire le cause della sua potenza. Lo spirito delle leggi e le Lettere persiane Del 1748 è Lo spirito delle leggi, opera che

ebbe una vasta risonanza europea, ponendosi all’origine delle trasformazioni in senso moderno e democratico sia dei sistemi giuridici (evidente sarà anche l’influsso esercitato sul trattato Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, cap. 4, A1, p. 335) sia delle forme di governo. Studiando e confrontando tra loro le leggi e le istituzioni dei vari popoli, Montesquieu ne mostra le differenze dovute alle diverse condizioni storiche, economiche e ambientali, per sottolineare le esigenze di giustizia, di uguaglianza e di libertà che devono essere sostenute dalle legislazioni. Ne emerge l’idea di una monarchia costituzionale che si regge sulla separazione dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), condizione, questa, che sarà alla base del liberalismo moderno ( T5, p. 322). Da segnalare anche, in quest’opera, la chiarezza dello stile, essenziale e mordente, che ricorda l’abilità e le suggestioni della scrittura nelle giovanili Lettere persiane. Un romanzo, quest’ultimo, che contiene una satira brillante e incisiva nei confronti della vita parigina e occidentale in senso lato, a opera di un signore persiano, Usbeck, che, viaggiando per l’Europa, ha modo di paragonare gli usi e i costumi dei diversi paesi, osservati in una prospettiva straniante che riesce a coglierne incongruenze e contraddizioni, rifiutando ogni idea di una presunta superiorità ideologica e culturale ( T6, p. 325). Ma il discorso non è a senso unico e non manca, alla fine, una condanna della schiavitù in cui sono tenute le donne nel mondo musulmano, che si ribellano al loro sultano, mentre la favorita, prima di suicidarsi, scriverà a Usbeck una lettera che contiene un’appassionata difesa della libertà. Ritratto di Charles de Montesquieu, 1730 circa, olio su tela da un’incisione di Jacques Antoine Dessiers, Versailles, Musée National du Château.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

L e t t e r a t u r a e Diritto

T5

Charles-Louis de Montesquieu

Le leggi, le forme del diritto, la divisione dei poteri dal Saggio che si occupa delle leggi naturali e della distinzione fra il giusto e l’ingiusto (brano A) da Lo spirito delle leggi (brani B e C)

Testo e realtà Il documento, esemplare dello spirito illuminista, è incentrato sugli elementi fondanti la civiltà contemporanea: l’utilità delle leggi, il diritto nelle sue diverse forme, la separazione dei poteri nel governo.

I passi che seguono toccano punti nodali del pensiero di Montesquieu, per quanto riguarda la funzione delle leggi e la definizione dei poteri dello Stato.

A Al di fuori della società, l’uomo gode di una libertà che può essergli solamente di

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peso: se essa gli dà il privilegio di fare tutto ciò che vuole, lascia però al tempo stesso agli altri il diritto di resistergli. Nella società, invece, ognuno si serve della libertà nella maniera in cui questa gli è necessaria per condurre una vita comoda e tranquilla. Il mio e il tuo hanno limiti fissi, e l’uomo usufruisce in pace del proprio diritto particolare. Nella prima situazione, i beni e la vita di ognuno non sono affatto sicuri, e per difendersi si dispone soltanto delle proprie forze. Nella seconda situazione, l’individuo è protetto da tutti, e il tentativo di interferire nei suoi affari diventa pericoloso per chiunque volesse intraprenderlo. Dove non c’è conoscenza né disciplina, ognuno possiede soltanto ciò che la propria esperienza può procurargli. Nella società l’individuo utilizza invece la capacità e l’industria1 degli altri: il commercio lo educa, fornendogli sempre nuovi lumi2. Infine, al di fuori della società esistono solamente la noia e la ferocia: il timore non mi abbandona mai, e tutto mi manca – l’aiuto come la consolazione. Nella società vige invece la raffinatezza dei costumi: io trovo amici che mi soccorrono nel bisogno, che alleviano i miei mali e che mi consolano nella miseria […]. Ma la società presuppone come propria base e come proprio fondamento le leggi. B Considerati come abitanti di un pianeta così grande da rendere necessaria la sussistenza3 di popoli diversi, gli uomini sono vincolati a4 leggi nel rapporto reciproco di questi popoli: esse costituiscono il diritto delle genti5. Considerati come individui che vivono in una società la quale deve essere mantenuta6, essi sono vincolati a leggi nel rapporto che intercorre tra governanti e governati: esse formano il diritto politico7. Essi hanno ancora altre leggi nel rapporto reciproco di tutti i cittadini: esse costituiscono il diritto civile. Il diritto delle genti è naturalmente fondato sul principio che le diverse nazioni debbono recare l’una all’altra il maggior bene possibile in tempo di pace, e il minor male possibile in tempo di guerra – senza nuocere ai loro autentici interessi. […] La legge, in generale, è la ragione umana in quanto questa governa tutti i popoli della terra; e le leggi politiche e civili di ogni nazione debbono essere i casi particolari a cui si applica questa ragione umana.

1. l’industria: l’operosità. 2. lumi: termine comune nel linguaggio dell’Illuminismo, la cosiddetta “età dei lumi”; indica qui, più in particolare, le conquiste della civiltà.

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3. la sussistenza: l’esistenza. 4. vincolati a: legati, obbligati. 5. diritto delle genti: adesso parleremmo di “diritto internazionale”, che regola i rapporti fra i vari Stati.

6. mantenuta: conservata, nei suoi ordinamenti e nelle sue istituzioni. 7. diritto politico: il diritto pubblico, penale.

Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

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Esse devono essere talmente specifiche del popolo per il quale sono state stabilite, che è puramente fortuito che le leggi di una nazione possano andar bene anche per un’altra. È necessario che esse si riferiscano alla natura e al principio del governo che è stabilito o che si vuole stabilire – sia che lo costituiscano, come fanno le leggi politiche, sia che lo mantengano, come fanno le leggi civili. Esse devono essere relative alla struttura fisica del paese, al clima rigido o caldo o temperato, alla qualità del terreno, alla sua posizione ed estensione, al genere di vita dei popoli – coltivatori, cacciatori o pastori; esse devono riferirsi al grado di libertà compatibile con la costituzione; ed inoltre alla religione degli abitanti, alle loro inclinazioni, alle loro ricchezze, al loro numero, al loro commercio, ai loro costumi, alle loro maniere. Infine, esse hanno rapporti reciproci; ed inoltre sono in rapporto con la propria origine, con lo scopo del legislatore, con l’ordine di cose sulle quali sono state fondate. Occorre quindi considerarle da tutte queste prospettive […]. Questi rapporti formano, presi insieme, ciò che si chiama lo spirito delle leggi. C

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In ogni stato esistono tre specie di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, ed il potere giudiziario esecutivo delle cose che dipendono dal diritto civile8. In virtù del primo potere, il principe o il magistrato stabilisce le leggi per un certo periodo di tempo o per sempre, correggendo o abrogando quelle che sono già stabilite. In virtù del secondo, egli fa la pace o la guerra, manda o riceve ambasciate, impone la sicurezza, previene le invasioni. In virtù del terzo, egli punisce i delitti, oppure giudica le dispute tra privati cittadini. Quest’ultimo verrà chiamato potere di giudicare, e l’altro verrà chiamato semplicemente potere esecutivo dello stato. La libertà politica consiste, per un cittadino, nella tranquillità di spirito derivante dall’opinione che ognuno ha della propria sicurezza; per avere questa libertà occorre che il governo sia disposto in modo tale che un cittadino non possa temere un altro cittadino. Allorché il potere legislativo è riunito al potere esecutivo, nella stessa persona o nello stesso corpo di magistrati, non esiste libertà: infatti si può temere sempre che il monarca o il senato faccia leggi tiranniche, per eseguirle in modo tirannico. Non c’è libertà neppure quando il potere di giudicare non è separato dal potere legislativo e dal potere esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini risulterebbe arbitrario: infatti il giudice sarebbe legislatore. Se esso fosse unito al potere esecutivo, il giudice avrebbe la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di notabili9 o di nobili o di popolo, esercitasse insieme questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le deliberazioni10 pubbliche, e quello di giudicare i delitti o le contese tra privati […] […] Se il corpo legislativo rimanesse per qualche tempo senza venir riunito, non vi sarebbe più libertà. Infatti accadrebbe una di queste due cose: o non vi sarebbe più alcuna deliberazione legislativa, e lo stato cadrebbe nell’anarchia11, oppure queste deliberazioni sarebbero prese dal potere esecutivo, e questo diverrebbe allora assoluto. La scienza della società (Montesquieu), in Gli illuministi francesi, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1966

8. delle cose … civile: è quello che verrà chiamato poco dopo il potere di giudicare, ossia il potere giudiziario.

9. notabili: persone ricche e potenti. 10. deliberazioni: decisioni, delibere. 11. anarchia: condizione confusa e caotica,

dovuta all’assenza di leggi e di chi dovrebbe farle rispettare.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo La libertà e le leggi

Il benessere

Le forme del diritto

La divisione dei poteri

Al centro delle riflessioni di Montesquieu è il problema della libertà degli individui, che si può conquistare, nella vita sociale, a condizione che venga assicurata e protetta dalle leggi. Se queste mancano vengono meno i confini fra «il tuo e il mio», regnano la forza e l’arbitrio, la convivenza civile si trasforma in anarchia, dove ognuno deve difendersi dagli altri e può a sua volta offenderli. Il bisogno della libertà, e delle leggi che servono a garantirla, non si basa su princìpi astratti, ma parte dalla concezione – tipicamente illuministica – dell’“utile” che ne deriva e che consente di «condurre una vita comoda e tranquilla» (r. 4). Il benessere materiale si fonda sulla collaborazione, dal momento che, in una società bene ordinata, ogni individuo può utilizzare «la capacità e l’industria degli altri: il commercio lo educa, fornendogli sempre nuovi lumi» (rr. 11-12). La supremazia della ragione (i «lumi») tiene conto anche del progresso economico; a questo si collegano l’ingentilimento e «la raffinatezza dei costumi», che favoriscono la filantropia, l’amore per il prossimo («io trovo amici che mi soccorrono nel bisogno, che alleviano i miei mali e che mi consolano nella miseria», rr. 14-15) Il secondo brano svolge considerazioni giuridiche più tecniche, in quanto si riferiscono alle diverse forme del diritto: «il diritto delle genti»; «il diritto politico» (che riguarda le leggi dello Stato) e quello che ancora adesso chiamiamo «il diritto civile». Senza entrare nel merito delle singole distinzioni, va segnalata l’identificazione della «ragione umana» con la «legge», che non è solo la «base» e il «fondamento» di ogni società civile, ma deve regolare i rapporti fra «tutti i popoli della terra» (si nota qui l’ideale illuministico del cosmopolitismo, che ripudia la guerra e vede nell’umanità una sorta di patria comune). L’ultimo punto riguarda la distinzione dei poteri che consentono e regolano il funzionamento dello Stato. La loro separazione rappresenta un fondamentale principio di garanzia nelle moderne democrazie e nelle loro costituzioni, in quanto consente di eliminare quelle concentrazioni del potere che, nei governi assoluti, rendono possibile ogni arbitrio e limitazione delle libertà (il modello di riferimento era costituito dalla monarchia costituzionale inglese). Montesquieu spiega bene i rischi che ne potrebbero derivare, mentre la divisione dei poteri garantisce la loro indipendenza e la funzione di reciproco controllo, per evitare gli eccessi.

Nicolas Lancret, Seduta della Corte tenuta al Parlamento il 22 febbraio 1723, in occasione della maggiore età di Luigi XV, 1723, circa, olio su tela, part., Parigi, Musée du Louvre.

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Sintetizza il concetto di libertà emerso dal brano A. > 2. Fornisci, in base al brano B, le definizioni di «diritto delle genti», «diritto politico», «diritto civile». > 3. Perché Montesquieu afferma, in riferimento al «potere legislativo», al «potere esecutivo delle cose che dipen-

dono dal diritto delle genti» e al «potere giudiziario esecutivo delle cose che dipendono dal diritto civile» (rr. 4446), che «Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di notabili o di nobili o di popolo, esercitasse insieme questi tre poteri» (rr. 64-65)? Rispondi in base al brano C.

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Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo AnALIzzAre

> 4.

Stile Definisci lo stile dei brani considerando, seppure in traduzione, il rapporto tra forma e contenuto, e le finalità dell’opera a cui essi appartengono.

ApprofonDIre e InTerpreTAre

> 5.

Scrivere In un testo di circa 15 righe (750 caratteri) individua nelle affermazioni di Montesquieu sulla distribuzione dei poteri alcuni princìpi e valori caratteristici della mentalità illuministica e spiega per quale motivo essi rappresentano un cambiamento radicale rispetto alla cultura precedente. > 6. Competenze digitali Avvalendoti delle moderne tecnologie (ad esempio fotocamera, videocamera ecc.), realizza nel tuo istituto una serie di interviste ai tuoi compagni sul tema “Gli articoli della Costituzione Italiana”, verificandone la conoscenza da parte dei tuoi coetanei. In un secondo tempo, provvederai ad effettuare un montaggio dei diversi contributi realizzando così un servizio di tipo giornalistico, che correderai di introduzione e conclusione.

per IL reCUpero

> 7. Spiega, con l’eventuale aiuto di un dizionario, il significato dei seguenti termini appartenenti al linguaggio politico: «potere» (r. 44), «diritto» (r. 23), «legge» (r. 3), «libertà» (r. 53), «tirannico» (r. 58).

T6

Charles-Louis de Montesquieu

Le dispute sulla religione

• l’opposizione al dogmatismo e

da Lettere persiane

• l’importanza di considerare la

I contrasti fra le diverse credenze religiose rischiano di far perdere di vista, secondo Montesquieu, la vera natura dell’amore di Dio.

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Temi chiave al fanatismo

realtà da diversi punti di vista

• la critica all’ipocrisia

Vedo qui gente che disputa all’infinito sulla religione; ma mi pare che nello stesso tempo gareggi a chi l’osserverà meno. Non soltanto non sono perciò migliori cristiani, ma neppure migliori cittadini, che è quel che più mi colpisce. In qualunque religione si viva, il rispetto delle leggi, l’amore del prossimo, la pietà1 verso i genitori, sono sempre i primi atti di religione. E invero, il primo scopo di un uomo religioso non deve forse essere quello di piacere alla divinità che ha stabilito la religione che professa? Ma il miglior prezzo per riescirci è senza dubbio l’osservanza delle regole della società e dei doveri dell’umanità; poiché qualunque religione si segua, dal momento che se ne ammette una, è necessario ammettere che Dio ami gli uomini, se stabilisce una religione per renderli felici, e che se egli li ama si è sicuri di piacergli amandoli a nostra volta, cioè praticando nei loro confronti tutti i doveri della carità e dell’umanità, e non violando le leggi sotto le quali vivono. In questo modo si è molto più sicuri di piacere a Dio che non osservando questa o quella cerimonia: perché le cerimonie non sono buone in se stesse bensì solo in quanto si suppone che Dio le abbia comandate. Ma ciò è materia di infinite discussioni; ci si può facilmente sbagliare, perché bisogna scegliere le cerimonie di una religione tra quelle di duemila. Un tale rivolgeva a Dio questa quotidiana preghiera: – Signore, io non capisco nulla nelle dispute incessanti che si fanno su di Voi. Vorrei servirvi secondo la vostra volontà; ma ogni uomo che consulto vuole che vi serva secondo la sua. Quando voglio pregarvi, non so in quale lingua devo farlo. Né so in che posizione mi devo mettere: uno dice che vi devo pregare in piedi; l’altro vuole che resti seduto; un terzo esige che il mio corpo si regga sulle ginocchia. E non è tutto: c’è chi pretende che mi devo lavare tutte le

1. la pietà: reverenza (latino pietas).

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

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mattine con l’acqua fredda2; altri sostengono che mi guarderete con orrore se non mi faccio tagliare un pezzettino di carne3. L’altro giorno in un caravanserraglio4 mi capitò di mangiare un coniglio. Tre uomini che si trovavano là vicino mi fecero tremare: tutti e tre sostennero che vi avevo gravemente offeso: uno perché questo animale era immondo (a), l’altro perché era stato soffocato (b); il terzo perché non era un pesce (c). Un bramino5 che passava e che chiamai come giudice sentenziò: – Hanno torto, perché non pare che abbiate ucciso voi stesso l’animale. – Anzi, è proprio così, – risposi. – Ah! avete commesso un’azione abominevole, che Dio non vi perdonerà mai, – tuonò con voce severa. – Come potete sapere se l’anima di vostro padre non era passata in questa bestia6? Tutte queste cose, signore, mi gettano in un imbarazzo indicibile: non posso muovere la testa senza essere minacciato di offendervi; tuttavia vorrei piacervi e spendere a questo fine la vita che ho ricevuto da voi. Non so se sbaglio, ma credo che il miglior modo per riuscirvi sia vivere da buon cittadino nella società in cui mi avete fatto nascere, e da buon padre nella famiglia che mi avete concessa. Parigi, il giorno 8 della luna di Sciabban, 1713. (a) Un ebreo. (b) Un turco. (c) Un armeno7. Ch.-L. de Montesquieu, Lettere persiane, trad. it. di G. Alfieri, Rizzoli, Milano 1984

2. c’è chi … fredda: i musulmani. 3. tagliare … carne: circoncidere. 4. caravanserraglio: stazione di posta, edificio con un ampio cortile chiuso da un porticato adibito alla sosta delle carovane. 5. bramino: sacerdote di Brahma, la prima

persona della Trimurti (con Vishnu e Sihva), divinità indiana. 6. l’anima … bestia: allude alla credenza nella metempsicosi, ossia nella trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro. 7. Un armeno: non risulta che nella religio-

ne praticata dagli armeni ci siano proibizioni di questo genere. Forse si riferisce all’uso cristiano dell’astenersi di mangiare carne il venerdì, come commemorazione della crocefissione di Cristo.

Analisi del testo Il rifiuto del dogmatismo

I punti di vista

Le ragioni dell’“altro”

La critica dell’ipocrisia

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Il rifiuto del dogmatismo e del fanatismo ( T3, p. 314 di Voltaire) nasce dalla considerazione e dalla comprensione di ciò che è diverso e lontano dalle nostre abitudini e dalla nostra mentalità. Questo principio è alla base delle Lettere persiane, in cui differenti concezioni di vita – quelle, diciamo così, orientali e occidentali – si mettono reciprocamente in discussione, impedendo di giungere a conclusioni assolute e unilaterali. Il confronto nasce qui dal giudizio che le tre religioni monoteistiche (l’ebraismo, il cristianesimo, l’islamismo) esprimono nei confronti di uno stesso comportamento. Le differenze profonde lasciano intendere la possibilità di considerare la realtà da diversi punti di vista, senza che sia possibile stabilire la superiorità di uno di questi rispetto agli altri. Sul piano religioso gli illuministi penseranno di risolvere la questione proponendo, con il deismo ( Teismo e deismo, p. 313), un’idea di religiosità universale e non dogmatica; ma soprattutto l’atteggiamento presente in questa specie di apologo, se interpretato in senso moralmente costruttivo e propositivo, porta a comprendere le ragioni dell’“altro”, quelle idee di tolleranza e di fratellanza che dell’Illuminismo sono state la grande e fondamentale conquista, quanto al rispetto degli inalienabili diritti dell’uomo ( Il contesto, La voce dei documenti, p. 254). Accanto a queste indicazioni è possibile cogliere un forte elemento di critica, che riguarda il mancato rispetto dei princìpi religiosi professati da parte di quella «gente che disputa all’infinito sulla religione», ma «nello stesso tempo gareggi a chi l’osserverà meno» (rr. 1-2). È l’ipocrisia di coloro che si limitano a partecipare a «questa o quella cerimonia» (rr. 13-14), mentre si è «molto più sicuri di piacere a Dio», che ama gli uomini, «amandoli a nostra volta», «praticando […] tutti i doveri della carità e dell’umanità, e non violando le leggi sotto le quali vivono» (rr. 11-12).

Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Riassumi, anche in modo schematico, il contenuto del brano, prestando particolare attenzione ai vari passaggi del discorso.

AnALIzzAre

> 2. Quali elementi del testo, seppure in traduzione, evidenziano il graduale distacco del viaggiatore persiano

dalle credenze religiose della sua patria? > 3. Alle righe 24-31 viene raccontato, da parte di un tale che rivolge la sua preghiera a Dio, l’episodio del «coniglio»: quale idea suggeriscono al lettore i “punti” («a», «b», «c») che sintetizzano le accuse che gli vengono attribuite? ApprofonDIre e InTerpreTAre

> 4.

Contesto: storia Ricostruisci, in riferimento al contesto storico francese precedente al periodo dell’Illuminismo, il quadro complessivo delle dispute e delle guerre di religione, e delle ripercussioni che esse ebbero in tutta Europa. pASSATo e preSenTe La religiosità laica della cittadinanza

> 5. Le riflessioni di Montesquieu, oggi di sorprendente e straordinaria attualità, inducono a considerare usi e

costumi del contesto multietnico, multiculturale e interreligioso della società della globalizzazione in una prospettiva diversa: la lezione della tolleranza, alla base del pensiero dei philosophes, sembra a sua volta generare l’osservanza di princìpi laici fondati su un’ampia accezione di cittadinanza, alla base di ogni convivenza civile. Prendendo spunto dal brano analizzato e dalle varie fonti di informazione a tua disposizione anche in rete, discuti il tema in classe con l’insegnante e i compagni.

A4

Jean-Jacques rousseau JeanJacques Rousseau nacque nel 1712 in una famiglia calvinista a Ginevra, figlio di un modesto artigiano che, costretto a fuggire per una rissa, lo affidò a uno zio, da cui si allontanò a sedici anni per recarsi in Savoia e poi a Torino, ospite di Madame de Warens, che, dopo averlo convinto a convertirsi al cattolicesimo, diventerà la sua amante. Abbandonata la sua protettrice, si trasferì a Lione e poi, nel 1742, a Parigi, dove esercitò diversi mestieri, tra cui quello di copista di testi musicali (un interesse da cui nacque nel 1743 una Dissertazione sulla musica moderna). Riconvertitosi al calvinismo, convisse con una cucitrice, Thérèse Lavasseur, da cui ebbe cinque figli, che mise all’orfanotrofio; nel 1748 conobbe Madame d’Epinay, che sarà la sua nuova amante. La vita e le prime opere

Allan Ramsay, Ritratto di Rousseau in costume armeno, 1766, olio su tela, Edimburgo, National Galleries of Scotland.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo L’amicizia con gli enciclopedisti

Il Discorso sull’origine dell’ineguaglianza

La rottura con Diderot, Voltaire e d’Alembert

La nuova Eloisa

Emilio

Il contratto sociale

Le Confessioni

Elementi preromantici

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Dopo aver stretto rapporti di amicizia con Diderot e Condillac, frequentò il gruppo dell’Enciclopedia, per la quale scrisse gli articoli sulla musica. Nel 1750 vinse un concorso bandito dall’accademia di Digione con il Discorso sulle scienze e sulle arti che suscitò polemiche, in quanto negava che queste fossero un fattore di civiltà e di progresso dei costumi. Nel 1755 pubblicò ancora sull’Enciclopedia l’articolo dedicato all’Economia politica e in volume una delle sue opere più significative, il Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini ( T7, p. 329), in cui si pronunciava contro la proprietà privata, alla base di quella civiltà che, secondo lui, ha corrotto gli uomini, destinati invece dalla natura a essere liberi. Avveniva intanto la rottura con Diderot e gli illuministi, che lo portò a polemizzare con Voltaire, a cui indirizzava la Lettera sulla provvidenza (1756), e con d’Alembert, a cui si rivolgeva con la Lettera sugli spettacoli (1758). In seguito si ritirò in campagna presso Montmorency, sino a quando, perseguitato per le sue opere, evitò di essere arrestato fuggendo in Inghilterra, dove venne ospitato dal filosofo Hume (1766). Incrinatosi ben presto anche questo rapporto, Rousseau tornò in Francia, continuando a scrivere e a copiare testi di musica per vivere (nel 1767 era intanto uscito un suo Dizionario di musica). Per un’improvvisa malattia morì nel 1778. Le ultime opere Agli ultimi vent’anni della sua vita è dedicata la stesura delle opere che, insieme con il già ricordato Discorso sull’origine dell’ineguaglianza, meglio rappresentano la sua attività di pensatore e di artista, divisa fra la fede illuministica nella ragione e una forte propensione per l’espressione dei sentimenti, che fa di lui uno dei precursori della imminente sensibilità romantica. A un gusto ormai preromantico si può infatti ricondurre il romanzo epistolare La nuova Eloisa (1760; più esattamente Giulia, o la nuova Eloisa), storia di una passione contrastata e infelice fra il precettore Saint-Preux e la sua allieva Julie d’Étanges, costretta dal padre a sposare un uomo che non ama. Divenuta madre, Julie morirà dopo aver salvato uno dei due figli che era caduto nel lago, chiedendo a Saint Preux di occuparsi della loro educazione. È una tematica, questa, che stava particolarmente a cuore a Rousseau, che le dedicherà un lungo trattato pedagogico in forma narrativa, Emilio, o dell’educazione (1762), che mira a favorire la libera maturazione dell’individuo all’interno della società; una società che, pur essendo destinata alla corruzione e lontana dalla vita felice della natura, deve tendere comunque a migliorare le proprie istituzioni, per rendere più vivibile la condizione dell’uomo. In questo senso, nel Contratto sociale, pubblicato nel medesimo anno dell’Emilio, Rousseau si schiererà a favore di una forma di governo democratico, rispettoso dei diritti dei cittadini. Nel 1764 iniziava la stesura delle Confessioni, testo cardine della moderna autobiografia. L’essersi soffermato sui particolari all’apparenza più insignificanti della propria vita, che poté sembrare un limite dell’opera, servì a Rousseau per scandagliarne anche le componenti più scomode e oscure, in uno scavo profondo che, indagando le manifestazioni del sentimento, metteva a nudo, attraverso la memoria, le ragioni dell’io. Sono questi gli stati d’animo che Rousseau lascerà in eredità ai romantici, insieme con quell’amore per la natura che ispirerà il gusto paesaggistico delle Fantasticherie del viaggiatore solitario, divise in una serie di “passeggiate” (la decima rimarrà incompiuta per il sopraggiungere della morte) in cui si alternano la confessione e la riflessione. Non vanno dimenticati infine, per la propensione a guardare dentro di sé e a redigere il bilancio della propria esistenza, i dialoghi pubblicati con il titolo Rousseau giudice di Jean-Jacques. Tutte queste opere uscirono postume.

Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

T7

Jean-Jacques rousseau

Dal “buon selvaggio” alla proprietà privata dal Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini

Temi chiave

• la proprietà privata come origine delle disuguaglianze e discordie civili

• la contrapposizione tra natura incontaminata e felice e città corrotta

• l’idea di una società di uguali

Rousseau enuncia qui la tesi secondo cui la nascita della proprietà privata è la causa dei mali e delle ingiustizie che hanno afflitto la società.

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Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i piuoli1 e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno! Ma è molto verosimile che allora le cose fossero già arrivate a tal punto, da non poter più durare com’erano: poiché questa idea di proprietà, dipendente da molte altre idee anteriori, che non sono potute nascere che una dopo l’altra, non si formò d’un tratto nello spirito umano: bisognò fare molti progressi, acquistare molta industria e molti lumi2, trasmetterli e aumentarli di generazione in generazione, prima di arrivare a questo ultimo termine3 dello stato di natura. Riprendiamo dunque le cose più da lontano, e cerchiamo di riunire sotto una sola visione questa lenta successione di avvenimenti e di conoscenze nel loro ordine più naturale. Il primo sentimento dell’uomo fu quello della sua esistenza; la sua prima cura, quella della sua conservazione. I prodotti della terra gli fornivano tutti i soccorsi necessari; l’istinto lo trasse a farne uso. Poiché la fame e altri appetiti4 gli facevano sperimentare volta a volta diverse maniere di vita, ve ne fu una che lo invitò a perpetuare la sua specie; e questo cieco impulso, sprovvisto di ogni sentimento del cuore, non produsse che un patto puramente animale: soddisfatto il bisogno, i due sessi non si riconoscevano più, e il figlio stesso non era più nulla per la madre, non appena potesse far senza di lei. Tale fu la condizione dell’uomo nascente; tale fu la vita di un animale limitato dapprima alle pure sensazioni, che approfittava appena dei doni che gli offriva la natura, lungi dal pensare a strapparle nulla. Ma ben presto si presentarono difficoltà; bisognò imparare a vincerle: l’altezza degli alberi che gl’impediva di arrivare ai loro frutti, la concorrenza degli animali che cercavano di nutrirsene, la ferocia di quelli che minacciavano la sua vita, tutto l’obbligò a darsi agli esercizi del corpo; bisognò rendersi agile, rapido alla corsa, vigoroso nel combattimento. Le armi naturali, che sono i rami d’albero e le pietre, si trovarono subito sotto la sua mano. Imparò a superare gli ostacoli della natura, a combattere all’occorrenza gli altri animali, a disputare la sua sussistenza agli stessi uomini, o a indennizzarsi5 di ciò che doveva cedere al più forte. Man mano che il genere umano si estese, le fatiche si moltiplicarono con gli uomini. La differenza dei terreni, dei climi, delle stagioni, poté costringerli a introdurne nella loro maniera di vivere. Annate sterili, inverni lunghi e rudi, estati ardenti, che consumano tutto, li costrinsero a nuove industriosità. Lungo il mare e i fiumi inventarono la lenza6 e l’amo, e divennero pescatori e mangiatori di pesce. Nelle foreste si fecero archi e frecce,

1. piuoli: pezzi di legno, conficcati nel terreno, per segnare i confini delle proprietà. 2. molta … lumi: molta pratica e molte conoscenze.

3. termine: punto d’arrivo, stadio di sviluppo (il termine era propriamente la pietra che segnava il confine). 4. appetiti: desideri, voglie.

5. indennizzarsi: ripagarsi. 6. lenza: il filo della canna da pesca.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

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e divennero cacciatori e guerrieri. Nei paesi freddi si coprirono delle pelli delle bestie che avevano uccise. Il fulmine, un vulcano, o qualche caso fortunato fece conoscere loro il fuoco, nuovo soccorso contro il rigore dell’inverno: impararono a conservare questo elemento, poi a riprodurlo, e infine a preparare con esso le carni, che prima divoravano crude. […] Appena gli uomini ebbero cominciato ad apprezzarsi a vicenda, e l’idea della stima fu formata nel loro spirito, ognuno pretese d’avervi diritto, e non fu più possibile mancarne impunemente verso nessuno. Quindi nacquero i primi doveri della civiltà, anche fra i selvaggi; e quindi ogni torto volontario diventò un oltraggio, perché col male risultante dall’ingiuria, l’offeso vedeva il disprezzo della sua persona, spesso più insopportabile che il male stesso. Così, punendo ognuno le attestazioni di disprezzo in modo proporzionato alla stima che faceva di se stesso, le vendette divennero terribili, e gli uomini sanguinari e crudeli. Ecco precisamente il grado cui eran giunti i più fra i popoli selvaggi a noi noti; e solo per non aver abbastanza distinte le idee e rilevato come questi popoli fossero già lontani dal primo stato di natura, parecchi si sono affrettati a conchiudere che l’uomo sia di natura crudele ed abbia bisogno di civiltà per addolcirsi; mentre non v’è essere più dolce di lui nel suo stato primitivo, quando, posto da natura ad uguale distanza dalla stupidità dei bruti e dall’intelligenza funesta dell’uomo civile, e limitato ugualmente dall’istinto e dalla ragione a difendersi dal male che lo minacci, è trattenuto dalla pietà naturale7 dal far lui stesso male ad alcuno, senz’esservi affatto incline, neanche dopo averne ricevuto. Giacché, secondo l’assioma del saggio Locke, non potrebbe esservi ingiuria ove non è proprietà8. Ma bisogna notare che la società iniziata e le relazioni già stabilite fra gli uomini esigevano in loro qualità diverse da quelle che essi tenevano dalla loro costituzione primitiva9; cominciando la moralità a introdursi nelle azione umane, ed essendo ognuno, prima delle leggi, solo giudice e vendicatore delle offese da lui ricevute, la bontà conveniente al puro stato di natura non era più quella che conveniva alla società nascente; bisognava che le punizioni diventassero più severe, a misura che le occasioni d’offesa diventavan più frequenti e toccava al terrore della vendetta di tener luogo del freno delle leggi. Così, per quanto gli uomini fossero divenuti meno tolleranti, e la pietà naturale avesse già sofferto qualche alterazione, questo periodo dello sviluppo delle facoltà umane, tenendo un giusto mezzo fra l’indolenza dello stato primitivo e la petulante10 attività del nostro amor proprio, dovette esser l’epoca più felice e durevole. Più ci si pensa, più si trova che questo stato era il meno soggetto a rivoluzioni11, il migliore per l’uomo, che ha dovuto uscirne solo per qualche funesto caso, che per l’utilità comune12 non avrebbe dovuto mai sopravvivere. L’esempio dei selvaggi, che son stati quasi sempre trovati a questo punto, sembra confermare che il genere umano era fatto per rimanervi sempre; che questo stato è la vera giovinezza del mondo; e che tutti i progressi ulteriori son stati, in apparenza, tanti passi verso la perfezione dell’individuo, e in realtà verso la decrepitezza della specie. Fin che gli uomini si contentarono delle loro capanne rustiche, fin che si limitarono a cucirsi gli abiti di pelli con spine di piante e di pesce, a ornarsi di piume e di conchiglie, a dipingersi il corpo di diversi colori, a perfezionare o abbellire i loro archi e le

7. pietà naturale: compassione verso i propri simili. 8. l’assioma … proprietà: la citazione è tratta dai Due trattati sul governo (1690) del filo-

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sofo inglese John Locke (1632-1704). 9. tenevano … primitiva: avevano nel loro primitivo assetto sociale. 10. petulante: insistente.

11. rivoluzioni: rivolgimenti, mutamenti radicali. 12. l’utilità comune: il bene comune, di tutti.

Capitolo 3 · L’Illuminismo francese: la trattatistica e il romanzo

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loro frecce, a tagliar con pietre taglienti qualche canotto da pesca o qualche rozzo strumento musicale; in una parola, finché non si volsero che ad opere che uno solo poteva fare, e ad arti che non avevan bisogno del concorso di parecchie mani, vissero liberi, sani, buoni e felici, per quanto potevan esser tali di loro natura, e continuarono a goder fra loro delle dolcezze di relazioni indipendenti: ma dal momento che un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, e s’avvide che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, la proprietà s’introdusse, il lavoro diventò necessario, e le vaste foreste si mutarono in campagne ridenti, che bisognò bagnar col sudore degli uomini, e in cui ben presto si vide la schiavitù e la miseria germogliare e crescere con le messi. J.-J. Rousseau, Discorsi e contratto sociale, a cura e trad. it. di R. Mondolfo, Cappelli, Bologna 1924

Analisi del testo

La società corruttrice

Il “buon selvaggio”

La particolare posizione presentata dal pensiero politico di Rousseau giunge, nel Trattato sull’origine dell’ineguaglianza, a conclusioni radicali, lontane per molti versi dalla linea portante dell’ideologia illuministica, attenta solo al miglioramento delle condizioni civili e sociali attraverso moderate riforme. Per Rousseau, al contrario, a corrompere la natura umana è proprio il progresso della società, a partire dalla nascita della proprietà privata, emblematicamente sottolineata dai danni provocati dal «primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio» (r. 1). Di qui sono nati tutti i mali che hanno afflitto l’umanità, i contrasti che hanno diviso sia gli individui sia gli stati, le differenze di classe con le gravi ingiustizie sociali, le prevaricazioni e le oppressioni esercitate dal potere dei più forti. Se nel Contratto sociale Rousseau supererà questa drastica conclusione, sarà proprio la concezione espressa nel Trattato sull’origine dell’ineguaglianza a influenzare le esperienze del successivo Romanticismo, che ha visto in Rousseau un precursore: ci riferiamo al cosiddetto mito del “buon selvaggio”, opposto alla condizione degradata dell’uomo civilizzato, così come la natura incontaminata e felice, quasi una sorta di Eden, di paradiso terrestre, verrà contrapposta a una città considerata come l’ambiente di una vita artificiale e inautentica.

Antiporta e frontespizio della prima edizione del Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini di Rousseau, incisione di Charles Joseph Dominique Eisen, Amsterdam 1755, Marc Michel Rey.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Il significato politico

Così «l’esempio dei selvaggi» dimostra quella che, per Rousseau, è stata «vera giovinezza del mondo; e che tutti i progressi ulteriori son stati, in apparenza, tanti passi verso la perfezione dell’individuo, e in realtà verso la decrepitezza della specie» (rr. 74-76). Al di là delle influenze letterarie, va ricordato che la posizione di Rousseau presenta anche un significato politico, in quanto propone l’idea di una società di uguali, fondata sulla comunanza dei beni; a riprendere la tesi di Rousseau sarà infatti, nell’Ottocento, il cosiddetto socialismo utopista di Pierre-Joseph Proudhon (1809-65), secondo cui «la proprietà è un furto».

Esercitare le competenze CoMprenDere

> 1. Delinea il rapporto fra uomo e natura, così come si configura nella prima parte del brano (rr. 1-40). > 2. Indica quali sono i rapporti reciproci fra gli uomini, così come si configurano nella seconda parte del brano (rr. 41-89).

AnALIzzAre

> 3.

Stile Individua nel testo l’attenzione per i particolari concreti che sembra qui caratterizzare, seppure in traduzione, la prosa di Rousseau: a quali ambiti è maggiormente riferita? > 4. Lessico Individua nel testo, seppure in traduzione, i vocaboli e/o le espressioni tipici dei repertori lessicali del diritto e dell’economia. > 5. Lingua In quali punti del testo il filosofo presenta, seppure in traduzione, il discorso diretto? Con quale efficacia sul piano espressivo e in relazione a quali contenuti?

ApprofonDIre e InTerpreTAre

> 6.

esporre oralmente Le divergenze di posizione e di pensiero fra Rousseau e Diderot, Voltaire e d’Alembert non impediscono di osservare che diversi spunti di riflessione offerti dal brano analizzato accomunano il filosofo ad alcuni degli illuministi presentati in antologia. Individua tali elementi tematici e commentali in un’esposizione orale (max 5 minuti).

facciamo il punto 1. Qual è lo scopo principale dell’Enciclopedia? Da chi è diretta? 2. Quali elementi (temi, personaggi, tecnica narrativa) caratterizzano il romanzo filosofico francese del

Settecento? 3. Per quali aspetti gli autori francesi antologizzati in questo percorso sono intellettuali illuministi? 4. Oltre al lavoro per l’Enciclopedia Denis Diderot ha svolto un’intensa attività letteraria; quali sono le sue opere principali e quali caratteristiche presentano? 5. Indica le caratteristiche principali delle opere filosofiche di Voltaire. 6. Perché lo Spirito delle leggi di Charles-Louis de Montesquieu è un’opera fondamentale per il moderno diritto? 7. Sintetizza come è cambiato nel corso degli anni il rapporto tra Jean-Jacques Rousseau e il “gruppo dell’Enciclopedia”.

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In sintesi

L’ILLUMInISMo frAnCeSe: LA TrATTATISTICA e IL roMAnzo Verifica interattiva

DIDeroT

MonTeSQUIeU

Il primo grande movimento di idee, con cui si inaugura la storia intellettuale della modernità, è rappresentato in Francia dall’Illuminismo, che trova la sua più alta espressione nei numerosi volumi dell’Enciclopedia. A dirigerla e a occuparsene fu soprattutto Denis Diderot (171384), che, oltre a seguirne le fasi dell’esecuzione e a battersi contro le difficoltà incontrate, scrisse oltre 1.500 voci, dando all’opera il suo orientamento di fondo. Centrale nel suo pensiero è la concezione di un eclettismo filosofico che rifiuta i sistemi assoluti per cercare nei vari orientamenti ciò che resta di buono e di valido, ai fini di un miglioramento delle condizioni di vita degli uomini e contro ogni forma di dogmatismo. I Pensieri filosofici (1746) con cui esordì vennero condannati dalla censura e, per altri scritti, Diderot subì anche il carcere. Si occupò inoltre di teatro e nel Paradosso dell’attore espose una sua particolare teoria della recitazione. Importanti sono i suoi romanzi, di cui uno solo venne da lui pubblicato, I gioielli indiscreti (1747); postumi videro la luce Il nipote di Rameau, La monaca e Jacques il fatalista, interessante esempio di scrittura umoristica.

Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755), viaggiò a lungo in diversi paesi europei dove raccolse preziose informazioni sulle condizioni di vita e sui sistemi di governo. Tornato in patria pubblicò nel 1743 le Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza, in cui l’attenzione riguarda le cause storiche che condizionano i progressi e le crisi delle civiltà, anteponendo le istituzioni della Roma repubblicana a quelle della Roma imperiale. Di capitale importanza si rivelò il trattato Lo spirito delle leggi (1748), che ebbe una immediata risonanza europea, ponendo le basi di una moderna concezione del diritto. Montesquieu insiste sulle esigenze di giustizia e libertà che devono essere alla base dei rapporti sociali. Ne risulta l’idea di una separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), che sono alla base della democrazia. Il romanzo epistolare Lettere persiane prende spunto dal viaggio in Europa del protagonista, Usbeck, per mettere in discussione il sistema di vita e di valori della società.

VoLTAIre

Jean-Jacques Rousseau (1712-78) è una complessa figura di intellettuale che, pur rientrando nell’ambito del razionalismo illuminista, soprattutto con il romanzo La nuova Eloisa anticipa la sensibilità preromantica. Trasferitosi da Ginevra, dove era nato, a Parigi, si occupò di musica e venne in contatto con gli ambienti dell’Enciclopedia, a cui prestò la sua collaborazione. Suscita polemiche un suo Discorso sulle scienze e sulle arti (1750), in cui nega che queste siano state un fattore di progresso, introducendo quegli elementi di critica sociale che diventeranno più radicali nel Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini (1755), dove la proprietà privata è vista come il fondamento di una civiltà che ha corrotto gli uomini, destinati dalla natura a vivere liberi. Dopo la rottura con Diderot e gli illuministi, ripara a Londra per non essere arrestato. Rientrato in Francia pubblicherà nel 1760 La nuova Eloisa e nel 1762 un trattato pedagogico in forma narrativa, Emilio o dell’educazione, che mette l’accento sulla libera maturazione della personalità dell’individuo; segue, nel medesimo anno, Il contratto sociale, con cui si pronuncia a favore del governo democratico. Nel 1764 inizia a scrivere le Confessioni, esempio fondamentale di una moderna autobiografia.

Voltaire, pseudonimo di François-Marie Arouet (16941778), è il più noto e rappresentativo intellettuale dell’Illuminismo, per la vivacità e la radicalità delle sue posizioni, che lo portarono a dissentire con Diderot per l’atteggiamento da lui ritenuto troppo moderato nella conduzione dell’Enciclopedia. Dopo un soggiorno a Londra, venne arrestato per la pubblicazione, nel 1734, delle Lettere filosofiche, in cui elogia la tolleranza del governo inglese, in aperto dissenso rispetto ai regimi assolutistici. L’interesse per la scienze e per lo sviluppo scientifico è alla base degli Elementi della filosofia di Newton (1736), mentre Il secolo di Luigi XIV (1751) prende posizione contro l’autoritarismo e l’intolleranza politico-religiosa. L’opera fu pubblicata nel 1751 a Berlino, dove Voltaire era stato accolto da Federico II di Prussica. Qui ebbe l’idea del Dizionario filosofico che, via via aumentato, contiene la sintesi più significativa del suo pensiero, avverso a ogni forma di dogmatismo e di fanatismo. Tra le altre opere filosofiche ricordiamo il Trattato della tolleranza (1763) e La legge naturale (1756), sulla concezione del deismo. Molto noti anche i romanzi Zadig, Micromégas e soprattutto Candido, rappresentazione allegorico-fantastica dei mali e delle crudeltà della storia.

roUSSeAU

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Capitolo 4

La trattatistica dell’Illuminismo italiano

Beccaria

Pietro Verri

Antonio Perego, Riunione dell’Accademia Letteraria dei Pugni, 1766, olio su tela, Collezione Sormani Andreani, Milano. Seduti al tavolo di sinistra si riconoscono Alessandro Verri (scrive) e Cesare Beccaria (legge); al tavolo di destra, in giacca blu, Pietro Verri.

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Uno stretto rapporto dell’Illuminismo italiano con quello francese si stabilisce a Milano, soprattutto nel piccolo gruppo che fa capo all’Accademia dei Pugni ( Il contesto, Le accademie, p. 256). Non a caso Cesare Beccaria ( A1, p. 335) verrà invitato a Parigi, dove riceverà un’accoglienza trionfale, dopo avere pubblicato il trattato Dei delitti e delle pene, che ebbe una immediata risonanza europea. Nata dalle discussioni del gruppo milanese, l’opera colpiva al cuore l’assurda e barbara pratica della giustizia ancora imperante ( T1, p. 336), pronunciandosi nettamente contro la tortura e la pena di morte. Il problema veniva affrontato sul piano giuridico ma anche su quello dell’“utile”, dal momento che la crudeltà delle pene, oltre a impedire la riabilitazione del colpevole, non giovava certo a una società civile ben ordinata, contraria a ogni eccesso. L’argomento verrà ripreso, nelle Osservazioni sulla tortura, da Pietro Verri ( A2, p. 339), che ne proporrà una trattazione meno teorica e più storicamente documentata, riferita cioè all’assurdo processo intentato contro gli “untori” durante la peste del 1630. Rispetto all’Illuminismo francese si può dire, in generale, che l’Illuminismo italiano sia maggiormente legato alla soluzione di quei problemi pratici, di tipo soprattutto giuridico ed economico, che si frapponevano come ostacoli al miglioramento delle condizioni civili e sociali, sbarrando la strada all’auspicato progresso. Sono queste, in gran parte, le tematiche riformatrici affrontate sulla rivista “Il Caffè”, in cui assume un particolare rilievo la personalità di Pietro Verri, che, nelle Meditazioni sull’economia politica, si faceva fautore di un moderato liberismo economico.

Capitolo 4 · La trattatistica dell’Illuminismo italiano Carli e Vasco

Gli illuministi napoletani

Testi Filangieri • Educazione privata, educazione pubblica dalla Scienza della legislazione

A1 La rottura con la famiglia

Il gruppo degli illuministi

Dei delitti e delle pene

Testi Beccaria La necessità di riformare il sistema legislativo • Contro la tortura e la pena di morte, verso un governo “illuminato” dello Stato da Dei delitti e delle pene •

Il successo e l’invito a Parigi

A Milano soggiornarono anche, entrando in contatto con gli ambienti illuministi, l’istriano Gian Rinaldo Carli (1720-95), autore del trattato Dell’origine e del commercio delle monete (1751) e collaboratore del “Caffè”, e il piemontese Giambattista Vasco (1733-96), perseguitato per le sue idee liberali, autore dell’opera Della moneta (1772) e, in francese, della Memoria sulle cause della mendicità e sui mezzi per sopprimerla (1788). Particolarmente vivace è anche la situazione dell’Illuminismo napoletano, che, ricollegandosi alla lezione di Vico e di Giannone, affronta importanti questioni di tipo economico e giuridico-politico. Autore di numerose opere filosofiche, scientifiche e morali, Antonio Genovesi (1713-69) scrisse anche le Lezioni di commercio ossia d’economia civile, ricavate dal suo insegnamento presso la prima cattedra europea di economia, istituita a Napoli nel 1754, mentre l’abate Ferdinando Galiani (1728-87), che soggiornò per un decennio a Parigi, pubblicò nel 1751 il trattato Della moneta e nel 1770 i Dialoghi sopra il commercio dei grani. Si collegano alla tradizione partenopea degli studi giuridici, oltre a risentire dell’influsso di Montesquieu, sia Gaetano Filangieri (1752-88), che compose un trattato sulla Scienza della legislazione, sia Francesco Mario Pagano (1748-99), che fu professore di diritto criminale all’università di Napoli; autore di Saggi politici, venne condannato a morte e giustiziato nella feroce repressione che pose fine alla breve esperienza della Repubblica partenopea, di cui aveva contribuito a scrivere la Costituzione.

Cesare Beccaria La vita e le opere Nato a Milano nel 1738 da una nobile famiglia, studiò a Parma nel collegio dei gesuiti e frequentò l’università a Pavia, laureandosi in legge. Insofferente della vita condotta dalla classe sociale a cui apparteneva e di una cultura ormai anacronistica e antiquata, troncò nel 1760 i rapporti con la famiglia sposando, contro la volontà dei genitori, Teresa Blasco, da cui ebbe quattro figli (tra questi Giulia, che sarà la madre di Alessandro Manzoni); nello stesso anno, come dirà, si “convertiva” alle idee illuministiche, suggestionato in particolare dalla lettura delle Lettere persiane di Montesquieu ( cap. 3, A3, p. 321). Si legava così al gruppo degli intellettuali milanesi, tra cui spiccano i fratelli Verri ( A2, p. 339 e cap. 5, A1, p. 359), dando vita con loro all’Accademia dei Pugni e alla rivista “Il Caffè”, dove pubblicò cinque articoli. Nell’abitazione di Pietro Verri scrisse un’opera strettamente legata all’attualità della situazione economica (Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano nell’anno 1762, 1762), ma soprattutto, con l’aiuto degli amici (si è pensato anche a una più stretta e decisiva collaborazione), compose il suo capolavoro, Dei delitti e delle pene (1764), che proponeva una fondamentale riforma dei processi criminali, condannando la pratica divenuta abituale della tortura e la pena di morte ( T1, p. 336). L’ideale filantropico dell’Illuminismo si incontrava con le sue proposte riformatrici, rese efficaci dalla chiarezza di un’argomentazione che univa, stilisticamente, la precisione del discorso teorico e tecnico alle sollecitazioni umanitarie. L’opera, violentemente attaccata dalla cultura reazionaria, venne difesa dai fratelli Verri e provocò un importante intervento dello stesso Beccaria, premesso alla terza edizione dell’opera. Conosciuto ben presto anche all’estero, Dei delitti e delle pene venne discusso e ammirato nella cerchia degli illuministi francesi, che invitarono Beccaria a Parigi. Recatosi con Alessandro Verri nella capitale francese, dove ebbe un’accoglienza trionfale, il suo temperamento riservato e, a detta di chi lo conobbe, piuttosto indolente gli fece tuttavia anticipare il ritorno a Milano, lasciando il compagno e urtandosi poi anche con il fratello Pietro, che lo accusò di non avere mai riconosciuto il ruolo da essi avuto nell’ideazione e nell’elaborazione dell’ormai celebre trattato.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo La cattedra di Economia pubblica

Rientrato a Milano, si interessò ai problemi letterari, pubblicando nel 1770 le Ricerche intorno alla natura dello stile, per occuparsi poi, come aveva fatto all’inizio, di problemi economici, quando il governo austriaco creò per lui la cattedra di Economia pubblica all’università. Accettando questo incarico, Beccaria rifiutò la proposta, che gli era giunta da Caterina II, imperatrice della Russia, di recarsi a Pietroburgo per occuparsi della riforma del codice penale. Nel 1769 iniziò le sue lezioni universitarie, che furono molto frequentate; nel medesimo anno venne pubblicata la Prolusione, mentre le lezioni uscirono postume nel 1804. Nel 1771 ebbe anche un incarico amministrativo, che svolse in modo coscienzioso e diligente. Non pubblicò più nulla, anche se restano molte sue carte, contenenti abbozzi e progetti di opere varie. A Milano morì nel 1794.

L e t t e r a t u r a e Diritto

T1

Cesare Beccaria

L’utilità delle pene è la negazione della loro crudeltà da Dei delitti e delle pene, capp. I, XVI e XXVIII

Testo e realtà Partendo dalla considerazione sull’utilità delle pene per far rispettare le leggi, l’autore nega l’efficacia della tortura e della pena di morte.

I passi che seguono riguardano tre momenti essenziali del trattato Dei delitti e delle pene.

Le leggi sono le condizioni, colle quali gli uomini indipendenti1 ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il re­ stante2 con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni di libertà sacrifi­ cate al bene di ciascheduno3 forma la sovranità4 di una nazione, ed il sovrano è il legitti­ mo depositario ed amministratore5 di quelle; ma non bastava il formare questo deposito, bisognava difenderlo dalle private usurpazioni6 di ciascun uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione, ma usurparsi ancora quella degli altri. Vi7 volevano de’ motivi sensibili8 che bastassero a distogliere il dispo­ tico9 animo di ciascun uomo dal risommergere nell’antico caos10 le leggi della società. Questi motivi sensibili sono le pene stabilite contro agl’infrattori delle leggi11. A

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Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale 12

1. indipendenti: liberi, in quanto non dipendevano ancora da nessuno. 2. il restante: la rimanente parte (di quella libertà a cui avevano parzialmente rinunciato). 3. ciascheduno: ciascuno, ognuno. 4. sovranità: l’autorità e i diritti di una “nazione” indipendente e “sovrana” (si noti come il principio di libertà e di indipendenza, prima sottratto al singolo individuo, venga invece attribuito alla nazione). 5. depositario ed amministratore: nel senso

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che “custodisce” e “amministra”, regola la “libertà” dei cittadini (subito dopo si usa il termine deposito, per così dire il serbatoio dove sono “depositate” le libertà garantite dalle leggi). 6. usurpazioni: l’appropriarsi in maniera illegittima (vedi poi usurparsi) di ciò che appartiene ad altri. 7. Vi: ci. 8. sensibili: evidenti e concreti, quindi efficaci. 9. dispotico: prepotente, in quanto ricorre all’esercizio brutale della forza sottratta a

ogni legge (ma si ricordi anche che il “dispotismo” è la caratteristica dei poteri assoluti). 10. caos: indica qui propriamente la condizione primitiva e selvaggia degli uomini, prima che si riunissero in società, stabilendo le regole della convivenza, del vivere civile. 11. infrattori delle leggi: coloro che infrangono le leggi. 12. reo: qui nel senso di imputato.

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metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia13, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato. Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli14 la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà15 ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la16 stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inuti­ le è la confessione del reo; se è incerto, e’ non devesi17 tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo di più, ch’egli è un voler confondere tutt’i rapporti18 l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo19 della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre20 di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti. Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione21 che bastano a rimuovere22 gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scie­ glier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso23 possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua24 sostitui­ ta alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato25; aggiungo che ha di più: moltissimi risguardano26 la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna l’uomo al di là della tomba; chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di27 miseria, ma né il fanatismo né la vanità stanno28 fra i ceppi29 o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo30, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli31 comincia. L’animo nostro resiste più alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed all’incessante32 noia […]. Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella pena di schiavitù perpetua33 un sol delitto dà moltis­ simi e durevoli esempi34 […]. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di più, ma questi sono stesi35 sopra tutta la vita, e quella36 esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre; perché il primo consi­ dera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spet­ tatori, che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice. C

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13. purgazione d’infamia: espiazione della colpa, come se dovesse essere liberato da essa e purificato (metafisica perché si tratta di una concezione religiosa, che va oltre la realtà delle cose, come abbiamo appena visto, sensibili). 14. toglierli: togliergli. 15. la podestà: il potere. 16. la: quella. 17. e’ non devesi: non si deve (e’ sta per “egli” – come si vede anche più avanti – ed è pleonastico). 18. i rapporti: le relazioni umane, che legano l’individuo alla società. 19. il crociuolo: il “crogiolo” è propriamente il recipiente in cui si fondono i metalli e si compiono reazioni chimiche ad alta temperatura:

indica qui, metaforicamente, la “fusione” degli elementi da cui si può ricavare la verità. 20. fibre: nervi. 21. intensione: intensità. 22. rimuovere: allontanare, distogliere. 23. avvantaggioso: vantaggioso. 24. pena … perpetua: il carcere a vita, l’ergastolo. 25. determinato: deciso, propenso (a commettere un delitto). 26. risguardano: guardano, sanno affrontare. 27. sortir di: uscire dalla. 28. stanno: si trovano. 29. ceppi: i ferri con cui si bloccavano i piedi dei prigionieri. 30. giogo: è propriamente l’arnese di legno

che si mette sul collo dei buoi per attaccarli al carro; indica qui la condizione di chi è in carcere, privato della propria libertà. 31. gli: li. 32. incessante: continua, che non ha e non dà tregua. 33. di schiavitù perpetua: dell’ergastolo. 34. esempi: l’esempio della pena, che serve a distogliere altri dal commettere un reato, agisce episodicamente e per un breve periodo in caso di condanna a morte, mentre dura negli anni nel caso di chi venga detenuto per un lungo periodo di tempo. 35. stesi: distesi, diffusi. 36. e quella: mentre quella (sottinteso “la morte”).

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo Le pene e il rispetto delle leggi

L’inutilità della tortura

La pena di morte

> L’utilità delle pene

Nel primo dei passi prescelti Beccaria si sofferma sull’origine delle pene come condizione necessaria per far rispettare le leggi, che sono il fondamento della vita regolata di ogni forma di società (in questo senso si richiama a riflessioni già sviluppate da Montesquieu, cap. 3, T6, p. 325); attraverso queste considerazioni, viene così a contestare tutte le forme di potere assoluto, dal momento che chi governa è solo il rappresentante dei cittadini, che gli hanno delegato il compito di far rispettare le leggi. Sottolinea poi il valore della ricerca illuministica dell’“utile”, prima di affrontare il problema del «fine delle pene», il cui scopo non è quello di «tormentare ed affliggere un essere sensibile» ma quello di tendere alla riabilitazione del colpevole, commisurando la durezza della pena alla gravità del reato commesso.

> La mancanza di ragioni per la sussistenza della tortura

Proprio a partire da queste premesse (che conservano sino in fondo la loro indiscutibile validità) Beccaria sostiene l’inutilità della tortura, discutendo le ragioni che ne giustificherebbero l’uso; ragioni insussistenti, dal momento che, se il delitto non è provato, non si può torturare un innocente, in quanto – ed è questo un altro fondamentale diritto della civiltà giuridica – «Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata» (rr. 17-19). Il dolore inflitto a un essere umano, inoltre, non può valere come criterio per accertare la verità; non solo, ma può facilmente accadere che, per la diversa capacità di sopportare le sofferenze fisiche, il colpevole risulti innocente, e viceversa.

> L’inutilità della pena di morte

Pur segnalando la «crudeltà» della tortura e rifiutando il barbaro «diritto della forza», Beccaria non imposta su queste basi le sue argomentazioni (sarà invece Pietro Verri a mettere in primo piano le sofferenze e lo strazio degli individui processati), ma, anche per quanto riguarda «la pena di morte», parte dal presupposto fondamentale della sua opera, quello dell’utilità delle leggi per salvaguardare i diritti dei cittadini e giovare alla sicurezza dello Stato. Dopo aver sostenuto che la pena di morte è del tutto inutile e ingiustificata, in quanto non risponde a nessuno degli obiettivi che deve porsi il legislatore, Beccaria riprende qui il discorso sulla corrispondenza fra la gravità del reato e la durezza della pena, affermando – anche attraverso acute osservazioni di tipo psicologico sul carattere degli individui – che il carcere a vita è più temibile della condanna capitale, e può quindi maggiormente distogliere dal commettere il delitto, oltre a rappresentare l’esempio di una punizione più continua e duratura.

L’interrogatorio e la tortura di Robert-François Damien detto Roberto il Diavolo nel 1757, XVIII secolo, incisione, Versailles, Musée et Domaine National de Versailles et de Trianon.

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Capitolo 4 · La trattatistica dell’Illuminismo italiano

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Quando e perché gli uomini hanno deciso di istituire le leggi? In che senso hanno sacrificato, in tal modo, parte della loro libertà? > 2. Quale deve essere la funzione del sovrano, secondo Beccaria? Che cosa garantisce tale figura? > 3. Qual è, secondo l’autore, la funzione delle pene? > 4. Quali sono i motivi per cui, nella maggior parte delle nazioni, si ricorre alla tortura? > 5. Quando una pena risulta giusta? Perché, secondo Beccaria, l’ergastolo è sufficiente a far desistere un individuo dal commettere delitti? > 6. Per quale motivo la «pena di schiavitù […] spaventa più chi la vede che chi la soffre» (r. 46)? AnALizzAre

> 7. Stile Spiega la seguente metafora: «il dolore divenga il crociuolo della verità» (r. 26). > 8. Stile Individua nel brano C perifrasi, metafore e metonimie riferite all’ambito della carcerazione. Approfondire e inTerpreTAre

> 9.

Scrivere Commenta in un testo di circa 10 righe (500 caratteri) il seguente passo di Cesare Beccaria: «Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente?».

A2 L’Accademia dei Pugni e “Il Caffè”

Le opere economiche

pietro Verri La vita e le opere Nato a Milano nel 1728 in una nobile famiglia, si rifiutò di seguire gli studi di giurisprudenza, come avrebbe voluto il padre, per occuparsi soprattutto di problemi filosofici ed economici. Ma fondamentale doveva rivelarsi il ruolo di animatore della cultura milanese, che lo vide in primo piano nella diffusione delle idee illuministiche, al centro di quel gruppo di giovani che intendevano tagliare i ponti con le vecchie generazioni: fu infatti il principale artefice della fondazione dell’Accademia dei Pugni e del periodico “Il Caffè”, a cui – oltre a segnarne l’indirizzo – collaborò intensamente, con articoli dedicati ai più svariati argomenti, dall’innesto del vaiolo (argomento di una celebre poesia di Parini) al commercio, dall’agricoltura alla condanna del lusso (in polemica con un’aristocrazia parassitaria ormai in decadenza). Dopo il viaggio a Parigi del fratello e di Beccaria (con il quale nacquero da ultimo dei dissapori), che portò alla fine di quella esperienza, Pietro Verri intraprese una brillante carriera amministrativa, diventando consigliere del governo austriaco a Milano e cercando di mettere in pratica quei progetti di rinnovamento che animavano le ultime correnti filosofiche. Dopo la proposta di un’ardita riforma fiscale, scrisse nel 1763 il Dialogo sul disordine delle monete nello stato di Milano e nel 1769 le Riflessioni sulle leggi vincolanti il commercio dei grani, pubblicate solo nel 1796. L’interesse preminente per i problemi economici portò alla pubblicazione nel 1771 della sua opera più impegnativa, le Meditazioni sull’economia politica, dove propose come sistema ideale di governo l’assolutismo illuminato, basato sul rispetto delle leggi (in seguito propenderà per una forma di monarchia costituzionale). Messo da parte nel 1772, si

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo Le opere filosofiche

Testi Verri • L’uomo che osserva le nubi dal Discorso sull’indole del piacere e del dolore • Untori, peste e ignoranza dalle Osservazioni sulla tortura

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ritirò a vita privata fino alla morte (1797), approfondendo i suoi studi filosofici. Nacquero così, dopo le Meditazioni sulla felicità (1763), il Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773) e i Ricordi alla figlia (1777), che, alla ricerca dell’utilità pubblica, perseguita nelle opere economiche, accompagnavano le riflessioni sul piacere individuale, sulla base del filone sensistico del pensiero illuminista. Pubblicò ancora, oltre a opere minori, i primi due volumi di una Storia di Milano (1783 e 1785), mentre postume uscirono nel 1804 le Osservazioni sulla tortura ( T2, p. 340 e T3, p. 344), in cui, in implicita polemica con il carattere giudicato troppo teorico dell’opera Dei delitti e delle pene di Beccaria, ricostruì il processo agli untori durante la peste del 1630, sulla base di un’accurata documentazione storica.

pietro Verri

Temi chiave

«Come sia nato il processo» dalle Osservazioni sulla tortura, cap. III

• la polemica implicita nei confronti di Beccaria

• la scelta di riportare un episodio storico

• princìpi disumani che negano la Le Osservazioni sulla tortura hanno come argomento centrale il ragione processo contro gli “untori”, cioè contro coloro che vennero accusati di “ungere” i muri e le porte con sostanze velenose, di origine diabolica, per propagare il contagio, durante la peste che infuriò su Milano e sul Nord dell’Italia nel 1630. Il processo, in cui si passa immediatamente alla tortura, ha origine dalle assurde testimonianze qui registrate.

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Mentre la pestilenza infieriva più che mai dopo la processione già detta1, la mattina del giorno 21 giugno 1630 una vedova per nome2 Catterina Troccazzani Rosa, che alloggiava nel corritore3 che attraversa la vedra de’ Cittadini, vide dalla finestra Guglielmo Piazza che dal Carrobbio4 entrò nella contrada e, accostato al muro dalla parte dritta, entrando pas­ sò sotto il corritore, indi giunto alla Casa di San Simone ossia al termine della Casa Crivelli che allora aveva una pianta grande di lauro ritornò indietro. Lo stesso fu osservato da altra donna per nome Ottavia Persici Boni. La prima di queste donne disse nell’esame5 che il Piazza a luogo a luogo tirava6 con le mani dietro al muro l’altra dice che alla muraglia7 del giardino Crivelli haveva una carta in mano sopra la qual mise la mano dritta che mi pareva che volesse scrivere, e poi vidi che levata la mano dalla carta la fregò sopra la muraglia. Attestano che ciò accadde alle ore otto, che era di giorno fatto, e che pioveva. Le due donne sparsero nel vicinato immediatamente il sussurro8 d’aver veduto chi faceva le unzioni9 malefiche10 le quali in processo poi la Troccazzani Rosa disse aveva veduto colui a fare certi atti attorno alle muraglie che non mi piacciono niente. La vociferazione immedia­ tamente si divulgò da una bocca all’altra, come risulta dal processo, si ricercò11 se le muraglie fossero sporche e si osservò che all’altezza d’un braccio12 e mezzo da terra

1. processione già detta: nel precedente capitolo Verri si era soffermato sulla processione organizzata, pur controvoglia, dal cardinale Federigo Borromeo e criticata anche da Manzoni (nel cap. XXXII dei Promessi sposi), perché l’affollamento aveva propagato il contagio. 2. per nome: dal nome, chiamata. 3. corritore: «il ponte che passava sopra il canale (la Vedra, o Vetera)» (Carnazzi), da cui prende il nome il quartiere, nei pressi di Porta Ticinese. 4. Carrobbio: «lo slargo in cui si raccoglieva-

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no diverse vie (voce lombarda, dal latino quadrivium). Qui indica propriamente il crocicchio, che ancora oggi si chiama così, sito al termine dell’attuale via Torino, nelle vicinanze di quella che oggi è denominata Piazza della Vetra. Mentre la Vetra dei Cittadini di allora corrisponde alla via attualmente intitolata allo sventurato Gian Giacomo Mora» (Carnazzi). 5. nell’esame: durante l’interrogatorio. 6. a luogo … tirava: di lungo in lungo strisciava.

7. alla muraglia: al muro. 8. il sussurro: la voce (poi vociferazione). 9.faceva le unzioni: ungeva (le unzioni si sarebbero fatte con una sorta di unguento velenoso, capace di propagare il contagio della peste). 10. malefiche: diaboliche. 11. si ricercò: si andò a vedere, si verificò. 12. braccio: unità di misura che corrisponde a circa 70 centimetri (un braccio e mezzo equivale quindi a circa un metro).

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v’era del grasso giallo e ciò singolarmente13 sotto la porta del Tradati, e vicino all’uscio del Barbiere Mora14. Si abrucciò paglia al luogo delle unzioni, si scrostò la muraglia, fu tutto il quartiere in iscompiglio. Prescindasi15 dalla impossibilità del delitto. Niente è più naturale che il passeggiare vicino al muro, allorché piove in una città come la nostra, dove si resta al coperto dalla pioggia. Un delitto così atroce non si commette di chiaro giorno nel mentre che i vicini dalle finestre possono osservare; niente è più facile che lo sporcare quante muraglie piace col favore della notte. Su di questa vociferazione16 il giorno seguente si portò il Capitano di Giustizia17 sul luogo, esaminò18 le due nominate donne e, quantunque né esse dicessero di aver osservato che il muro sia rimaso sporco dove il Piazza pose le mani, né i siti19 ne’ quali s’era osservato l’unto giallo corrispondessero ai luoghi toccati, nondimeno si decretò la prigionia del Commissario della Sanità20 Guglielmo Piazza. Se lo sgraziato21 Guglielmo Piazza avesse commesso un delitto di tanta atrocità era ben naturale che, attento all’effetto che ne poteva nascere e istrutto del rumore22 di tutto il vicinato del giorno precedente non meno che della solenne visita che il giorno 22 vi fece ai luoghi pubblici sulla strada il Capitano di Giustizia, si sarebbe dato a una immediata fuga. Gli sgherri23 lo trovarono alla porta del Presidente della Sanità da cui dipendeva e lo fecero prigione24. Visitossi immediatamente la casa del Commissario Piazza e dal processo risulta che non vi si trovarono né ampolle né vasi, né unti, né denaro, né cosa alcuna che desse sospetto contro di lui. Appena condotto in carcere Guglielmo Piazza fu immediatamente interrogato dal Giu­ dice, e dopo le prime interrogazioni venne a chiedergli se conosceva i Deputati della Parrocchia25, al che rispose che non li conosceva. Interrogato se sapesse che sieno state unte le muraglie disse che non lo sapeva. Queste due risposte si giudicarono bugie e inverosimiglianze. Su queste bugie e inverosimiglianze fu posto ai tormenti26. L’infelice protestava d’aver detta la verità, invocava Dio, invocava San Carlo27; esclamava, urlava dallo spasimo, chiedeva un sorso d’acqua per ristoro, finalmente per far cessare lo stra­ zio disse Mi facci lasciar giù che dirò quello che so. Fu posto a terra e allora nuovamente interrogato rispose Io non so niente V.S.28 mi facci dare un poco d’acqua, su di che nuova­ mente fu alzato e tormentato e dopo una lunghissima tortura nella quale si voleva che nominasse i Deputatati egli esclamando sempre Ah Signore ah San Carlo se lo sapessi lo direi, poi disperato dal martirio29 gridava Ammazzatemi, ammazzatemi, e insistendo il giudice a chiedergli che si risolva ormai di dire la verità per qual causa neghi di conoscere i Deputati della Parrocchia e di sapere che siano state unte le muraglie rispose quell’infelice La verità l’ho detta, io non so niente, se l’avessi saputo l’avria30 detto, se mi vogliono ammazzare che mi ammazzino, e gemendo e urlando da uomo posto all’agonia31 persisté sempre nello stesso detto sin che submissa voce32 ripeteva di aver detta la verità, e perdute le forze cessò di esclamare onde fu calato e riposto in carcere. […] Venne riferito al Senato33 l’esame fatto e il risultato dei tormenti dati a quell’infelice: decretò il Senato che il Presidente della Sanità, il Capitano di Giustizia, assistendovi

13. singolarmente: in particolare. 14. Mora: Gian Giacomo Mora, che verrà accusato di tenere in casa il veleno. 15. Prescindasi: si prescinda da, non si tenga conto di. 16. Su … vociferazione: sulla base di queste voci. 17. Capitano di Giustizia: il capo, il comandante delle guardie. 18. esaminò: interrogò. 19. siti: posti, luoghi. 20. Commissario della Sanità: incaricato

di occuparsi dei problemi sanitari, dipendente del Tribunale di Sanità, organo preposto alla tutela della salute pubblica. 21. sgraziato: disgraziato, sventurato. 22. istrutto del rumore: istruito, reso accorto dalle voci, dal trambusto. 23. sgherri: guardie, sbirri. 24. prigione: prigioniero. 25. Deputati della Parrocchia: «i gentiluomini nominati presso ogni parrocchia dal Tribunale della Sanità perché verificassero l’esecuzione delle sue ordinanze» (Carnazzi).

26. posto ai tormenti: sottoposto a tortura. 27. San Carlo: san Carlo Borromeo (153478), arcivescovo di Milano. 28. V. S.: Vostra Signoria. 29. dal martirio: per i tormenti subìti. 30. l’avria: l’avrei. 31. posto all’agonia: condotto quasi in fin di vita. 32. submissa voce: con voce sommessa, a bassa voce (locuzione latina). 33. Senato: l’organo collegiale del governo cittadino.

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anche il Fiscale34 Tornielli, dovessero nuovamente tormentare il Piazza acri tortura cum ligatura canubis et interpollatis vicibus arbitrio35 ec. ed è da notarsi che vi si aggiugne abraso prius dicto Guglielmo, et vestibus curiæ induto, propinata etiam si ita videbitur præfatis Præsidi et Capitaneo potione expurgante36 e ciò perché in que’ tempi credevasi che o ne’ capelli e peli ovvero nel vestito o persino negl’intestini trangugiandolo potesse avere un amuleto o patto col demonio, onde rasandolo, spogliandolo e purgandolo ne venisse disarma­ to37. Nel 1630 quasi tutta l’Europa era involta in queste tenebre superstiziose. Fa commovere tutta l’umanità la scena della seconda tortura col canape38 che dislocan­ do39 le mani le faceva ripiegare sul braccio, mentre l’osso dell’omero40 si dislocava dalla sua cavità. Guglielmo Piazza esclamava mentre s’apparecchiava il nuovo supplizio. Mi ammazzino che l’avrò a caro perché la verità l’ho detta poi mentre si cominciava il crudelissi­ mo slogamento delle giunture diceva che mi ammazzino che son qui. Poi aummentandosi lo strazio gridava Oh Dio mi41 sono assassinato non so niente, e se sapessi qualche cosa non sarei stato sin adesso42 a dirlo. Continuava a crescere per gradi43 il martirio, sempre s’insta­ va44 e dal Presidente della Sanità e dal Capitano di Giustizia perché rispondesse su i45 deputati della Parrocchia sulla scienza d’essere state46 unte le muraglie. Gridava lo sfor­ tunato Guglielmo Non so niente; fatemi tagliar via la mano, ammazzatemi pure Oh Dio mi, oh Dio mi! Sempre istavano i Giudici, sempre più incrudelivano ed egli rispondeva escla­ mando e gridando Ah Signore sono assassinato! Ah Dio mi son morto! Fa ribrezzo il seguire questa atroce scena! A replicate istanze47 replicava sempre lo stesso protestando48 di

34. il Fiscale: l’“avvocato fiscale”, che difendeva gli interessi dello Stato (una sorta di precursore del nostro Pubblico Ministero). 35. acri … arbitrio: con aspra tortura, con la legatura della corda di canapa ( nota 38) e con alcune pause intervallate, a discrezione degli esecutori. 36. abraso … expurgante: dopo aver rasato il detto Guglielmo e dopo avergli fatto indossare abiti del tribunale, e dopo avergli fatto ingerire, se così sarà ritenuto opportuno dai suddetti Presidente e Capitano, una pozione purgativa. 37. disarmato: privato, liberato.

Luigi Pellegrino Scaramuccia, Federico Borromeo visita gli appestati al Lazzaretto, 1670, olio su tela, Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

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38. canape: la ruvida corda di “canapa” con cui il torturato veniva legato. Spiega Carnazzi: «la tortura a cui è sottoposto il Piazza è quella della corda, o della “colla”. All’imputato si legavano le mani dietro la schiena, poi da quel punto lo si attaccava a una fune sospesa a una carrucola. Lo si sollevava da terra e lo si lasciava ricadere più volte: erano questi i famigerati “tratti di corda”». 39. dislocando: slogando, facendo uscire le giunture dal loro posto. 40. dell’omero: che va dalla spalla al gomito. 41. mi: mio.

42. non ... adesso: non avrei aspettato fino ad ora. 43. per gradi: gradatamente. 44. s’instava: si insisteva (da parte di); più avanti istavano. 45. su i: per quanto riguarda i, a proposito dei. 46. sulla scienza … state: sui modi e sui preparati con cui erano state. 47. A replicate istanze: alle domande ripetute. 48. protestando: continuando ad affermare, ribadendo.

Capitolo 4 · La trattatistica dell’Illuminismo italiano

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aver detta la verità e i giudici nuovamente volevano che dicesse la verità, egli rispose che volete che dica? Se gli avessero suggerito una immaginaria accusa egli si sarebbe accusato; ma non poteva avere nemmeno la risorsa di inventare i nomi di persone che non cono­ sceva. Esclamava oh che assassinamento! e finalmente dopo una tortura durante la quale si scrissero sei facciate di processo, persistendo egli anche con voce debole e sommessa a dire Non so niente, la verità l’ho già detta ah che non so niente! dopo un lunghissimo e cru­ delissimo martirio fu ricondotto in Carcere.

Analisi del testo

> Un’impostazione narrativa, non saggistica

L’utile

Un episodio storico

Il taglio narrativo

L’assurdità delle accuse

La rinuncia alla ragione

Nell’introduzione alle Osservazioni sulla tortura Pietro Verri sottolinea il fatto che le opere precedenti scritte sull’argomento non hanno ottenuto alcun effetto, dal momento che la tortura è ancora una pratica normalmente adottata; ne è responsabile il carattere eccessivamente teorico e astratto di questi libri, che finisce per perdere ogni efficacia nelle sue capacità di convincere la pubblica opinione e i governanti (implicita, anche se non dichiarata, è la presa di posizione polemica nei confronti dell’opera famosa di Beccaria). L’opera letteraria deve proporsi come obiettivo il raggiungimento dell’“utile”, modificando concretamente le condizioni della realtà. Di qui la scelta della storicità dell’episodio, che, abbandonando il taglio teorico dell’impostazione saggistica, sembra anticipare l’interesse per la storia che sarà poi di Manzoni (non diversamente di quanto accadrà nei Promessi sposi, il capitolo precedente era stato dedicato al diffondersi della peste e agli inutili se non dannosi provvedimenti presi per combatterla) e che costituisce anche qui lo sfondo della vicenda. L’argomento prescelto presenta inoltre un taglio tipicamente narrativo, come presentazione diretta delle cose accadute, a partire dalle indicazioni cronologiche («la mattina del giorno 21 giugno 1630», rr. 1-2) e dall’ambiente in cui si è sviluppata la vicenda (la strada di un quartiere popolare milanese), fino alla presentazione dei primi personaggi destinati a comparire sulla scena; personaggi le cui parole, tratte dagli atti del processo e inserite nel contesto narrativo, conferiscono al racconto una particolare immediatezza ed evidenza. Rapido è poi il passaggio all’incriminazione di Guglielmo Piazza e alle torture a cui viene sottoposto.

> L’insensatezza di un processo e la crudeltà delle pene inflitte

Sin dall’inizio Verri sottolinea l’«impossibilità del delitto» (r. 20), mostrando non solo l’assurdità delle imputazioni, ma l’inesistenza di ogni elemento che potesse costituire anche solo il pretesto di una prova. E tuttavia l’assurdo della costruzione offre lo spunto (o, meglio, fornisce il pretesto) per convincere l’imputato affinché confessi una verità che non può confessare, per il semplice fatto che non esiste: «A replicate istanze replicava sempre lo stesso protestando di aver detto la verità e i giudici nuovamente volevano che dicesse la verità» (rr. 76-77); fino al tragico paradosso che «non poteva avere nemmeno la risorsa di inventare i nomi di persone che non conosceva» (rr. 79-80). Il grande pittore Francisco Goya (1746-1828) dirà che «il sonno della ragione genera mostri»; ed è proprio la rinuncia alla “ragione” che si trasforma qui in un’aberrante e sadica crudeltà, esercitata senza esitazione nel nome di princìpi così distorti da divenire disumani, oltre a negare quella giustizia che pretendevano invece di seguire. Nel raccontare l’episodio, il narratore sembra quasi inorridire di fronte a questo «lunghissimo e crudelissimo martirio» (rr. 82-83), subìto per di più da una vittima innocente senza conoscerne le ragioni. La drammaticità della scena è aumentata dall’inserimento, nel tessuto del racconto, delle parole del torturato, che, traducendo direttamente le sofferenze del corpo straziato, rendono più intensa ed efficace la raffigurazione. 343

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Chi diffonde il «sussurro» delle «unzioni malefiche» (rr. 12-13)? > 2. Quali sono le azioni compiute dal presunto untore? > 3. Con quali argomenti l’autore mostra l’inconsistenza delle imputazioni? > 4. Quale sorte tocca all’imputato? Quali sono le sue reazioni? > 5. Perché l’imputato viene rasato, spogliato e purgato (r. 62) ? AnALizzAre

> 6.

Stile Distingui nel brano le parti narrative nelle quali l’autore riporta i fatti, da quelle argomentative, in cui commenta ed analizza l’accaduto.

Approfondire e inTerpreTAre

> 7.

Testi a confronto Confronta il testo di Verri, dalle Osservazioni sulla tortura, con quello di Beccaria, Dei delitti e delle pene ( T1, p. 336), rilevandone somiglianze e differenze.

T3

pietro Verri

Temi chiave

L’esecuzione e la “colonna infame”

• la crudeltà disumana del potere pubblico

• il fanatismo

dalle Osservazioni sulla tortura, cap. VII È il momento finale della tragica vicenda dei condannati, quando i corpi straziati vengono ancora martoriati e condotti su un carro per le vie di Milano.

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Dalla scena orribile che ho descritta si vede l’atroce fanatismo del giudice di circondur­ re1 con sottigliezza un povero uomo che non capiva i raggiri criminali, e portarlo alle estreme angosce d’onde2 l’infelice si sarebbe sottratto con mille accuse contro se mede­ simo se per disgrazia gli si fosse presentato alla mente il modo per calunniarsi. Colla stessa inumanità si prodigò la tortura a molti innocenti, in somma tutto fu una vera scena di orrore. È noto il crudele genere di supplizio che soffrirono il Barbiere Gian Giacomo Mora (di cui la casa fu distrutta per alzarvi la Colonna infame3), Guglielmo Piazza, Gerolamo Migliavacca coltellinajo che si chiamava il foresè, Francesco Manzone, Catterina Rozzana e moltissimi altri, questi condotti su di un carro, tenagliati4 in più parti, eb­ bero, strada facendo tagliata la mano, poi, rotte le ossa delle braccia e gambe, s’intralciarono5 vivi sulle ruote e vi si lasciarono agonizanti per ben sei ore al termine delle quali furono per fine6 dal carnefice scannati, indi bruciati e le ceneri gettate nel fiume7. La iscrizione posta al luogo della casa distrutta del Mora così dice8 Qui dove si trova Questo spiazzo

15 1. circondurre: ingannare, circuire, quasi “conducendolo” a confessare un reato che non aveva commesso. 2. d’onde: da cui. 3. Colonna infame: così chiamata perché avrebbe dovuto testimoniare di fronte ai

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sorgeva un tempo la barberia

posteri l’“infamia” dei condannati. 4. tenagliati: l’“attanagliamento” consisteva nello strappare le carni con tenaglie roventi. 5. s’intralciarono: vennero intrecciati. 6. per fine: alla fine.

7. fiume: il Naviglio, che allora attraversava a cielo aperto Milano. 8. così dice: l’iscrizione è in latino; noi ne diamo la traduzione italiana di Giulio Carnazzi. 9. barberia: negozio da barbiere.

Capitolo 4 · La trattatistica dell’Illuminismo italiano di

giovanni giacomo mora guglielmo piazza

il Quale, fatto con

pubblico commissario di sanità e con altri una congiura mentre infuriava un’atroce epidemia di peste

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sparsi in vari luoghi unti micidiali il

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sospinse moltissimi a cruda morte; senato ordinò che entrambi costoro, giudicati nemici della patria, posti su un alto carro, torturati prima con una tenaglia rovente e amputati della mano destra fossero sottoposti alla tortura della ruota

e dopo essere rimasti intrecciati alla ruota per sei ore fossero scannati e Quindi arsi

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e perché non restasse alcun segno di così scellerati uomini confiscati i loro beni,

le loro ceneri fossero gettate nel fiume.

affinché di Questo evento restasse imperitura memoria ordinò che Questa casa, officina del delitto, 35

fosse rasa al suolo e non più riedificata in futuro, e che si erigesse una colonna da dirsi infame. lungi di Qui, lungi dunQue

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o buoni cittadini affinché il suolo funesto e infame non vi contamini.

1° agosto 1630.

Descrizione della esecuzione di giustizia fatta in Milano contro alcuni li quali hanno composto e sparso gli unti pestiferi, XVII secolo, incisione.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo

> Una barbarie disumana

Una «scena d’orrore»

Ragione e fanatismo

Il passo registra, attraverso brevi indicazioni, un crescendo di disumana barbarie, quando i corpi dei condannati vengono «condotti su di un carro» (r. 9) che attraversa la città, subendo così, con le ultime crudeli mutilazioni («tenagliati», «tagliata la mano», «rotte le ossa delle braccia e gambe»), l’oltraggio della pubblica esposizione, in un crescendo di sofferenze inimmaginabili al termine del quale «furono per fine dal carnefice scannati, indi bruciati e le ceneri gettate nel fiume» (rr. 12-13). È, come sottolinea Verri, una «vera scena d’orrore», puntualmente ricordata dall’iscrizione incisa sulla colonna innalzata nel «luogo della casa distrutta del Mora» (r. 13); una colonna definita “infame” dalle autorità, perché avrebbe dovuto ricordare per sempre a tutti l’“infamia” di chi era stato giudicato colpevole per aver diffuso il contagio. Anche solo registrando questi eventi, Verri denuncia l’assurda e ingiustificata crudeltà di un potere pubblico che, in nome di folli e superstiziosi pregiudizi, non solo nega ma rovescia la verità. Il compito di ristabilirla, rivendicando i “lumi” della ragione rispetto alle tenebre del fanatismo, ritorce il marchio dell’infamia contro gli stessi giudici-carnefici, mostrando al tempo stesso, per i nuovi tempi, la necessità di abbandonare per sempre la pratica della tortura.

> La tortura oggi

pASSATo e preSenTe

Si tratta, per noi, di una conclusione ovvia, su cui sembrerebbe ormai inutile soffermarsi; ma occorre ancora riflettere dal momento che, se la tortura è scomparsa ufficialmente in tutte le legislazioni, i dati forniti da Amnesty International ci fanno sapere che essa è ancora praticata, di fatto, in numerosi paesi del mondo (ben 79 nel 2014).

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Riassumi in circa 5 righe il supplizio cui vengono destinati «gli untori», dopo essere stati torturati. > 2. Quali ultime pene sono inflitte agli imputati? AnALizzAre

> 3.

Lessico Individua e sottolinea gli aggettivi qualificativi utilizzati dall’autore all’inizio del brano: a quale campo semantico appartengono?

Approfondire e inTerpreTAre

> 4.

Scrivere Partendo dal brano, riassumi in max 10 righe (500 caratteri) l’ideologia e gli interessi di natura sociale e culturale che guidarono l’azione di Pietro Verri e degli illuministi lombardi riuniti attorno al Caffè. pASSATo e preSenTe La tortura oggi

> 5. Dopo aver letto il passo che segue, estratto da un articolo pubblicato sul sito http://www.amnesty.it, discuti dell’argomento con i compagni e l’insegnante.

La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, ratificata dal nostro paese nel 1988, prevede che ogni stato si adoperi per perseguire penalmente quegli atti di tortura delineati all’art. 1 della Convenzione stessa. Sono passati oltre 25 anni, ma in Italia il reato di tortura continua a essere un miraggio. […] Dopo il fallito tentativo della XVI legislatura, è stata positiva la presentazione di nuovi disegni di legge, poi confluiti in un testo unificato, sul reato di tortura. La discussione al Senato, iniziata il 22 luglio 2013 in seno alla commissione Giustizia, si è conclusa con l’approvazione del testo […]. È essenziale che il reato di tortura venga introdotto nel codice penale italiano quanto prima e nel massimo rispetto degli standard internazionali, garantendo in questo modo la copertura nazionale della violazione e contribuendo alla prevenzione della tortura e dei maltrattamenti. Pertanto occorre approvare tempestivamente la legge che introduce il reato di tortura in Italia e che questa soddisfi tutti gli standard internazionali che il nostro paese si è più volte impegnato a osservare.

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Capitolo 4 · La trattatistica dell’Illuminismo italiano

La voce del Novecento

il rogo di una strega nella Chimera di Vassalli Sebastiano Vassalli (1941-2015) è autore di romanzi che hanno avuto largo successo, tra cui La notte delle comete (1984) e Cuore di Pietra (1996). Nella Chimera (1990), romanzo vincitore dei premi Strega e Campiello, la protagonista, Antonia, abbandonata dalla madre e adottata da due contadini, diventa crescendo una bellissima giovane. Per questo attira su di sé l’attenzione e l’invidia della gente, che trasforma una serie di episodi irrilevanti (tra cui il ritratto che le fa un pittore, raffigurandola nelle forme della Vergine) in altrettanti indizi che vengono ad aggravare i sospetti di stregoneria concepiti nei suoi confronti. Un sacerdote fanatico, don Terensio, la denuncia al Sant’Uffizio. Tra le accuse dell’inquisitore ci sono il «carattere innaturale della bellezza di Antonia» e l’aver cacciato il diavolo nel corpo di un povero «scemo», Biagio. Condannata, viene bruciata viva sul rogo.

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C’era folla dappertutto. Ovunque l’occhio arrivava, fino all’argine del Sesia1 e sui tetti delle case, sugli alberi, sul campanile, si vedeva gente: centinaia, migliaia di perso­ ne e tutti si scalmanavano, si sbracciavano, nonostante il caldo afoso gli inzuppasse i panni di sudore; tutti correvano in qua e in là, s’adocchiavano tra maschi e femmine, masticavano semi di zucca o mangiavano grosse fette d’anguria, tutti facevano baccano con le raganelle2 o con i barattoli. Tutti festeggiavano quel giorno di felicità, in cui la bassa3 si liberava d’una strega che era la causa dei bambini che morivano, e della piog­ gia che non veniva, e del caldo, e dell’estate che non si decideva a finire… «Maledetta strega! Devi bruciare! A morte! Al rogo!» S’era fatto tardi. Il sole rosso, fermo sull’argine del Sesia, accendeva l’orizzonte e vi si ri­ fletteva […] in un tramonto melodrammatico4 e teatrale come solo in Italia sono i tramon­ ti di settembre: ricco di colori squillanti, di scenari pittoreschi, di abissi di luce, di malin­ conia e di poesia. Mastro Bernardo5, però, tra le sue perfezioni non aveva quella d’essere un contemplatore di tramonti; o, se anche l’aveva, non avrebbe potuto esercitarla quella sera, per mancanza di tempo. Staccò di sella una borsa di cuoio da flebotomo (aiutante chirurgo) in cui teneva alcuni ferri e alcune cose della sua arte6; prese la strega per un braccio e un po’ la spinse un po’ la guidò fino in cima al dosso7, dove i cavalieri di San Giovanni Decollato8, in brache nere e mantelletta bianca con la croce, presidiavano il 1. Sesia: affluente di sinistra del Po, che nasce dal Monte Rosa e scorre tra le province di Novara e Vercelli. 2. le raganelle: strumento musicale in legno, che, agitando una manovella, emette suoni simili a quelli della rana. 3. la bassa: la cosiddetta Bassa pa-

dana, la zona di pianura attraversata dal Po. 4. melodrammatico: esagerato e artificioso, come gli effetti prodotti dallo spettacolo del melodramma. 5. Mastro Bernardo: il boia. 6. arte: nel senso di mestiere. 7. dosso: nome locale con cui, nel

Novarese, sono chiamati i piccoli rilievi collinari. 8. cavalieri … Decollato: congregazione votata al culto di san Giovanni Battista, fatto decapitare da Erode Antipa per istigazione, secondo i Vangeli, di Salomé.

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patibolo; si fermò là sotto. Accanto a lui, pallidissima, con gli occhi spalancati, Antonia guardava attorno e non vedeva niente, sentiva soltanto il cuore che le rimbombava nel petto e le faceva pulsare il sangue sulle tempie, fino dentro le orecchie: bum, bum, bum… «Prima di compiere questo ufficio, – disse il boia, inchinandosi davanti alla ragazza, – a cui mi hanno delegato la volontà di Dio e la giustizia degli uomini, ti chiedo umilmen­ te di perdonarmi». Le labbra di Antonia si mossero, ma lei non disse nulla. Si sentì in­ vece dal paese la voce di don Teresio che stava uscendo di chiesa con la processione e aveva incominciato a cantare, anzi per meglio dire: a gridare, le litanie della Madonna; si sentì e poi si vide la folla straripante dei fedeli che muovevano dalle case verso il dosso, attraverso i campi. Infine, si vide la processione che usciva dal paese, sulla strada del dosso. Don Teresio, ormai allo stremo delle forze per le energie profuse in quella lunghissima giornata, veniva avanti gridando, come s’è detto, barcollando e portando la croce: che era un fatto quasi prodigioso, considerato il peso della croce e l’apparente gracilità dell’uomo. […] Mastro Bernardo infilò ad Antonia, dalla testa, un saio rosso con due grandi croci bian­ che, una sul petto ed una sulla schiena. Avrebbe anche dovuto tagliarle i capelli e met­ terle in testa un cappuccio senza buchi; ma non c’era più tempo per quelle formalità e comunque si trattava di dettagli che potevano essere tralasciati, per lo meno in Italia: dove la preparazione della strega per il rogo non seguiva regole precise come in Spa­ gna, ma variava a seconda delle circostanze, dei luoghi e dell’arbitrio del boia. Prese un flacone di vetro dalla borsa, ne versò il contenuto in un bicchiere, sussurrò a Antonia: «Presto, bevi! Servirà a stordirti». Le tenne ferma la mano mentre lei beveva. Allora il frate che aveva viaggiato con la strega si fece avanti brandendo il crocefisso e la gente sui dossi e attorno ai dossi gli tributò un applauso fragoroso, molte grida d’incoraggia­ mento: «Fuori il Diavolo!» «Vogliamo vedere il diavolo che viene fuori dalla strega!», ed altre simili sciocchezze, che non vale la pena di riferire. Mentre la processione continuava a uscire dal villaggio, don Teresio veniva avan­ ti gridando nel crepuscolo e la folla ogni volta gli rispondeva, con la forza di un tuono: «Ora pro nobis». «Turris eburnea!» («Torre d’avorio!») «Foederis arca!» («Arca dell’allean­ za!») «Ianua coeli!» («Porta del cielo!») Il frate alzò il crocefisso sopra le ul­ time braci del tramonto, rivolgen­ dolo verso Antonia. Le gridò: «In­ ginocchiati! Chiedigli perdono!» Lei rimase immobile per qualche istante, forse anche stordita da ciò che aveva bevuto: poi fece l’atto di abbracciare il frate, che la respinse.

Francisco Goya, La congiura delle streghe, 1798, olio su tela, Madrid, Museo Lazaro Galdiano.

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Barcollò come ubriaca. Allora il boia le bendò gli occhi con un fazzoletto nero e l’ac­ compagnò sotto la scala del patibolo, dove c’era Bartolone. Tutta la scena ormai era perfettamente illuminata e visibile a distanza perché i cavalieri di San Giovanni Decol­ lato, disposti tutt’attorno, facevano luce con le loro torce. Bartolone afferrò Antonia per le ascelle, la tirò su come se fosse stata senza peso, la legò al palo: per le braccia, per le caviglie, perfino per la vita. Diede fuoco alla legna, tornò giù. Proprio in quel momento la processione stava arrivando ai piedi del dosso, la risposta della folla a don Teresio sembrava un vento di tempesta: «Ora pro nobis». «Speculum justitiae!», gridava il prete, più forte che poteva («Specchio di giustizia!») «Consolatrix afflictorum!» («Consolatrice degli afflitti!») «Causa nostrae letitiae!» («Origi­ ne della nostra gioia!») Ci fu un gran fumo e poi tutte le voci tacquero mentre il fumo incominciava a diradar­ si, tutti gli occhi si fissarono oltre il fumo, dove c’era la strega. Le fiamme crepitarono alte, la notte diventò chiara come il giorno, le lingue di fuoco si unirono in un’unica vampata che salì nel cielo non ancora buio, altissima: addirittura più alta – dissero poi gli abitanti di Zardino e dei paesi attorno – di quell’albera9 che era vissuta mille anni su quel dosso, e che ormai non c’era più. Si videro i capelli della strega che svanivano nella luce e la sua bocca che s’apriva in un grido senza suono. La veste rossa si dissolse, il corpo si scurì e si raggrinzì, gli occhi diventarono bianchi, Antonia non fu più. Esplose il giubilo della folla: i tamburi, le raganelle, le trombe, le collane di barattoli quasi non si sentivano, sopraffatti com’erano dal frastuono di migliaia di voci che gridavano la gioia irripetibile di quel momento e di quell’ora: «Evviva! Evviva!» Esplosero i fuochi d’arti­ ficio: da Borgo Vercelli a Biandrate10 e ancora più su, per almeno dieci miglia lungo il corso del Sesia questa sponda del fiume, la ripa milanese, s’illuminò di cascate, di razzi, di girandole, di artifici di luci, e di colori che si riverberarono sulle acque e sui borghi della bassa; che si videro dal Monferrato, e dal Biellese, e dalla ripa del Ticino. Allora, finalmente, incominciò la festa. S. Vassalli, La chimera, Einaudi, Torino 1990

9. albera: variante con inflessione dialettale di albero.

10. Borgo Vercelli … Biandrate: comuni rispettivamente in provincia di

Vercelli e di Novara.

Analisi del testo

> La crudele morte di un’innocente

Un processo per stregoneria

La condanna al rogo

Con La chimera (1990) Sebastiano Vassalli scrive un romanzo storico ambientato in un passato lontano, in quel Seicento che già aveva rappresentato lo sfondo dei Promessi sposi manzoniani; anche l’argomento – un processo per stregoneria, con la condanna di una innocente – ricorda il processo contro gli untori, a cui, oltre a Pietro Verri, anche Manzoni aveva fatto riferimento nel suo romanzo, esaminando poi ampiamente i fatti accaduti nella Storia della colonna infame. A differenza dei suoi predecessori, tuttavia, Vassalli non ha alcuna fiducia, di tipo religioso o sociale, nel miglioramento delle sorti dell’umanità, sicché alla fine del racconto resta solo «il nulla» (è questo il titolo del capitolo conclusivo del romanzo), ad avvolgere e a cancellare il destino degli uomini e le vicende alterne, ma in fondo per Vassalli sempre uguali, della storia. Quelle che abbiamo riportato sono le pagine conclusive della storia di Antonia, condannata come strega e bruciata sul rogo. Ma già prima di morire la povera vittima non esisteva più, completamente cancellata dalla faccia della terra per colpa di una decisione disumana, che, prima di ridurre in cenere il corpo, le aveva distrutto l’anima, privandola di ogni 349

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

forza, di ogni residuo di personalità, e facendo di una creatura umana una cosa inerte, un involucro vuoto. Come quello che, nell’ossimoro del «grido senza suono» (r. 80), si consuma rapidamente nella morte: «Si videro i capelli della strega che svanivano nella luce e la sua bocca che s’apriva in un grido senza suono. La veste rossa si dissolse, il corpo si scurì e si raggrinzì, gli occhi diventarono bianchi, Antonia non fu più» (rr. 79-81). L’abilità del narratore si rivela proprio nella scelta di questa soluzione espressiva: non una parola esce dalla bocca di Antonia, non un gesto tradisce le sue atroci sofferenze.

> Lo “spettacolo” della morte: il compiacimento della comunità

La folla

PASSATO E PRESENTE

I protagonisti della terribile giornata sono gli “altri”, coloro che assistono e partecipano a questa via crucis (la “via della croce”, percorsa da Cristo per salire al Calvario), da cui la vittima designata non può attendersi nessuna forma di riscatto o di redenzione. Al mutismo di Antonia si contrappongono infatti le urla della gente, che aspetta impaziente di dare sfogo ai suoi sadici piaceri. La morte di una persona diventa «spettacolo», per trasformarsi infine in una «festa» sfrenata; una festa che non è espressione di vita e di gioia ma una “festa crudele”, quella delle masse fanatiche che rivelano in questo modo i loro peggiori istinti. A differenza di Verri, Vassalli sottolinea anche gli istinti cruenti e perversi che legano la folla agli spettacoli di terrore e di morte, a conferma della convinzione che gli uomini non possono cambiare e che il presente non è poi così diverso dal passato, se è vero che «non erano gente sanguinaria, né malvagia. Al contrario, erano tutti brava gente: la stessa brava gente laboriosa che nel nostro secolo ventesimo affolla gli stadi, guarda la televisione, va a votare quando ci sono le elezioni, e, se c’è da fare giustizia sommaria di qualcuno, la fa senza bruciarlo, ma la fa; perché quel rito è antico come il mondo e durerà finché ci sarà il mondo».

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. Descrivi la folla che banchetta e si prepara all’evento: che cosa attende? > 2. Quali colpe vengono attribuite ad Antonia? > 3. Descrivi i comportamenti e le reazioni della ragazza. > 4. «Antonia non fu più» (r. 81), scrive il narratore: che cosa fa la folla? ANALIZZARE

> 5. Che cosa intende il narratore, quando scrive: «la risposta della folla a don Teresio sembrava un vento di tempesta» (rr. 69-70)?

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 6.

Scrivere Commenta in un testo di circa 10 righe (500 caratteri) quanto scritto nell’Analisi del testo, a proposito del tono melanconico rassegnato che si intravede dietro la scrittura dell’autore: «Vassalli non ha alcuna fiducia, di tipo religioso o sociale, nel miglioramento delle sorti dell’umanità, sicché alla fine del racconto resta solo “il nulla” (è questo il titolo del capitolo conclusivo del romanzo), ad avvolgere e a cancellare il destino degli uomini e le vicende alterne, ma in fondo per Vassalli sempre uguali, della storia». PASSATO E PRESENTE La morte come spettacolo

> 7. Quando oggi la morte diventa “spettacolo”? Rifletti su episodi di cronaca o vicende in cui si eccede nella spettacolarizzazione e avvia una discussione in classe con il docente e i compagni.

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In sintesi

LA TrATTATiSTiCA deLL’iLLUminiSmo iTALiAno Verifica interattiva

CeSAre BeCCAriA

pieTro Verri

Diffusosi in Italia dalla Francia, l’Illuminismo italiano ebbe un centro particolarmente attivo a Milano, grazie anche alla politica di Maria Teresa d’Austria, favorevole ai programmi riformatori. La personalità più nota è quella di Cesare Beccaria (1738-94), che, nato in una famiglia della nobiltà milanese, si “convertì” all’Illuminismo dopo aver letto le Lettere persiane di Montesquieu. Collegatosi con il gruppo dell’Accademia di Pugni e della rivista “Il Caffè”, scrisse un’opera di argomento economico, Del disordine e de’ rimedi delle monete nello stato di Milano nell’anno 1762, e, grazie anche alla collaborazione con gli amici, compose il suo capolavoro, Dei delitti e delle pene (1764). Nell’opera Beccaria auspicava una radicale riforma del processo criminale, che ponesse fine alla pratica della tortura e della pena di morte, di cui dimostrava, con lucida chiarezza argomentativa, l’inutilità e l’assurdità. L’opera subì violenti attacchi ma ebbe anche entusiastiche adesioni; invitato a Parigi, dove si recò con Alessandro Verri, fu accolto in maniera trionfale come uno dei massimi esponenti del movimento illuministico. Ma Beccaria, stanco della vita parigina, rientrò ben presto a Milano, rifiutando poi l’invito, da parte dell’imperatrice Caterina di Russia, di recarsi a Pietroburgo per collaborare alla riforma del sistema giudiziario.

Nato a Milano, Pietro Verri (1728-97) lasciò gli studi di giurisprudenza per occuparsi di problemi economici e filosofici. Animatore della vita culturale milanese, fu tra i fondatori dell’Accademia dei Pugni e della rivista “Il Caffè”, dove ebbe modo di dibattere le nuove idee delle riforme illuministiche. Intraprese poi una brillante carriera amministrativa, diventando consigliere del governo austriaco, per cui propose un’ardita riforma fiscale. Dopo essersi occupato del sistema monetario e del commercio del grano, pubblicò nel 1771 le importanti Meditazioni sull’economia politica, in cui sostenne come ideale di governo il dispotismo illuminato, propendendo poi per una forma di monarchia costituzionale. Ritiratosi a vita privata, approfondì i suoi interessi filosofici; pubblicò le Meditazioni sulla felicità (1763) e il Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773) in cui esaminava il problema della felicità individuale a partire dalla concezione illuministica del Sensismo. Dopo i Ricordi alla figlia (1777), uscirono, nel 1783 e nel 1785, due volumi di una Storia di Milano. Postume, nel 1804, vedranno la luce le Osservazioni sulla tortura, che, rispetto all’opera di Beccaria, affrontano il problema non da un punto di vista teorico, ma lo raffigurano storicamente, con drammatica immediatezza, nel processo contro gli untori durante la peste del 1630.

facciamo il punto 1. Quali caratteristiche hanno in comune le opere di trattatistica dell’Illuminismo italiano? In quali città

operano gli autori di tali trattati? 2. Riassumi i tratti salienti della vita di Cesare Beccaria. 3. Dopo aver presentato brevemente l’opera di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene, indica quali risonanze ebbe tale scritto in Italia e in Europa. 4. Quali sono le accuse che Pietro Verri rivolge, seppur implicitamente, all’opera di Cesare Beccaria? A quale episodio storico fa riferimento per sostenere le sue tesi?

351

Capitolo 5

Il giornalismo

Una forma breve

Una scrittura sciolta e brillante

A1

L’esperienza giornalistica

352

Se l’articolo di giornale non corrisponde in senso stretto a un genere letterario ben definito (ne abbiamo infatti parlato nel capitolo dedicato alle istituzioni culturali, Il contesto, p. 256), l’agilità della scrittura e i contenuti innovatori, spesso legati all’attualità e a un rapporto diretto con i lettori, ne fanno una forma breve particolarmente duttile e variabile, dove – soprattutto nel XVIII secolo – non è difficile individuare aperture illuministiche o comunque di tipo progressista. Queste riguardano sia il compito di vigilare sulle scelte delle istituzioni, sia l’intento educativo di orientare i gusti e di correggere i costumi di una nascente pubblica opinione, contribuendo alla formazione di una mentalità più libera e consapevole. I brani che seguono sono indicativi del nuovo orientamento culturale, a partire dal testo di Addison ( T1, p. 353), che si sofferma con una scrittura sciolta e brillante sulla funzione del moderno giornalista. Più legato a un progetto operativo, maturato nell’ambiente dell’Accademia dei Pugni, è il passo di Pietro Verri ( T2, p. 355), che – dopo essenziali indicazioni programmatiche – assume un vivace piglio narrativo. Sulla lingua come essenziale strumento di comunicazione, libero da condizionamenti normativi e retorici, si pronuncia il fratello di Pietro, Alessandro Verri ( A2, p. 359), nel nome di una immediatezza e naturalezza di rappresentazione che, per Giuseppe Baretti ( A3, p. 363), deve riguardare anche la letteratura.

Joseph Addison Nato ad Amesbury (Wiltshire) nel 1672, figlio di un ecclesiastico, compì studi umanistici, proponendosi poi di intraprendere la carriera diplomatica. Con questa intenzione, che comportava l’apprendimento delle lingue e la conoscenza di usi e costumi, viaggiò per quattro anni, tra il 1699 e il 1703, in vari paesi europei. Fu anche in Italia, su cui darà giudizi pesantemente negativi nei Remarks on Several Parts of Italy (“Osservazioni su varie parti d’Italia”, 1705), mostrando un atteggiamento anticattolico peraltro temperato dal suo amore per la classicità. Militando nel partito dei whig (“liberali”), ebbe importanti incarichi politici, tra cui la nomina a sottosegretario di Stato (1706) e a membro del parlamento (1708-19). Nel contempo Addison portava avanti un’attività letteraria che, esercitata su più fronti (dalla poesia al teatro), non ha dato risultati di rilievo. Più congeniale gli fu l’esperienza giornalistica, esercitata dapprima con la collaborazione al “Tatler” (“Il chiacchierone”, 1709-11), dell’amico Richard Steele, e subito dopo con la fondazione e la direzione dello “Spectator” (“Lo spettatore”, 1711-12), che diventerà un modello in questo genere. Qui Addison ebbe mondo di rivelare, con l’intento di correggere e riformare la cultura e i costumi, la sua sottile vena umoristica, esercitata attraverso uno stile accattivante e colloquiale nella rappresentazione di episodi e figure umane legate all’attualità politica e alla quotidianità.

La vita e le opere

Capitolo 5 · Il giornalismo

T1

Joseph Addison

Temi chiave

Una nuova figura: il giornalista da “Lo spettatore”

• i compiti del giornalista • l’indipendenza del giornalista

Nell’articolo di apertura dello “Spectator” Addison espone gli intendimenti che l’hanno indotto a dare vita al giornale.

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Alla morte di mio padre mi decisi di viaggiare all’estero, sicché abbandonai l’università, con la riputazione d’individuo bizzarro e indecifrabile, assai pieno di dottrina, se soltanto avessi voluto farne mostra. Una sete insaziabile di sapere mi spinse per tutti i paesi d’Europa, in cui ci fosse alcunché di nuovo o di strano da vedere. […] Ho passato gli ultimi anni in questa città1, dove frequentemente mi si vede nei luoghi più pubblici, benché non vi sia più d’una mezza dozzina dei miei amici scelti che mi conosca. […] Così vivo nel mondo piuttosto come uno spettatore dell’umanità, che come una creatura di codesta specie, e in tal modo mi son fatto statista, soldato, mercante e artigiano contemplativo, senza mai impicciarmi d’alcuna attività pratica nella vita. Sono versatissimo nella teoria dell’esser marito o padre, e posso discernere gli errori nell’economia, nell’operosità e nella ricreazione degli altri, meglio di coloro che vi sono impegnati; come gli astanti scoprono mende [difetti] che possono facilmente sfuggire a coloro che sono nel gioco. Non ho mai abbracciato con foga alcun partito, e son risoluto ad osservare una precisa neutralità tra i Whigs e i Tories2, a meno che io non sia costretto a prender posizione dalle ostilità dell’una o dell’altra parte. In breve, in ogni aspetto della mia vita ho agito come un osservatore, e tal carattere intendo conservare in questo giornale. […] Sovente i miei amici mi han detto che è un peccato che tante utili scoperte che io ho fatto debbano trovarsi in possesso d’un uomo silenzioso. Per codesta ragione dunque pubblicherò una facciata di pensieri ogni mattina, a beneficio dei miei contemporanei; e se in qualche modo potrò contribuire alla ricreazione o al miglioramento del paese in cui vivo, lo lascerò, quando ne sarò chiamato fuori, con la segreta soddisfazione di pensare che non sarò vissuto invano. […] Dopo essermi addentrato in questi particolari circa me stesso, darò nell’articolo di domani un ragguaglio di quei signori che con me collaborano a quest’opera; poiché, come ho già annunziato sopra, un piano di essa è tracciato e concertato, come lo sono le cose importanti, in un club. Tuttavia, siccome gli amici mi hanno impegnato a mettermi in prima fila, coloro che intendono corrispondere con me possono indirizzare le loro lettere a: “Lo Spettatore” da Buckley’s in Little Britain3. Ché debbo anche informare il lettore che, sebbene il nostro club si riunisca solo il martedì e il giovedì, abbiamo nominato un comitato che sieda ogni notte, per l’esame di quanti scritti possano contribuire al progresso del bene pubblico. J. Addison, Lo Spettatore, a cura di M. Praz, Einaudi, Torino 1982

1. questa città: Londra. 2. i Whigs e i Tories: i Tories erano favorevoli alla monarchia e alla chiesa e sostenevano

Interno di una Coffee House londinese, 1668, disegno su carta, Londra, British Museum.

l’economia basata sulla proprietà fondiaria; i Whigs rappresentavano la resistenza al sovrano e alle ingerenze religiose, i valori della

città e gli interessi delle attività commerciali. 3. Buckley’s … Britain: la sede del giornale, nella strada londinese chiamata Little Britain.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo La figura del giornalista

La sua indipendenza

Il rapporto con il pubblico

Le ragioni per cui il giornalismo si può considerare una delle manifestazioni che meglio rappresentano lo spirito illuministico della cultura settecentesca trovano una loro sintetica formulazione nell’introduzione allo “Spettatore”, in cui Joseph Addison definisce le caratteristiche di una nuova figura professionale, quella del giornalista. La sua cultura, intanto, non coincide completamente con quella tradizionale di una formazione universitaria, ma, pur essendo ricca di «dottrina» (r. 2), è animata da una curiosità che, se può farlo apparire eccentrico e stravagante, trova il suo arricchimento nei viaggi, per una «sete insaziabile di sapere» che lo porta in «tutti i paesi d’Europa» (rr. 3-4) per cercare di conoscere le novità. Così, tornato nella propria città, il giornalista diventa un osservatore quasi anonimo di quanto accade intorno a sé, uno «spettatore dell’umanità» (r. 7), nella posizione privilegiata di chi, dall’esterno, guarda e giudica i fatti, gli interessi e le passioni di coloro che lo circondano, senza lasciarsi condizionare da interessi di parte. La stessa equidistanza dai partiti politici non vuole essere un’affermazione di disimpegno, ma sottolinea il fatto che il giornalista deve conservare, in relazione ai fatti, un’indipendenza di giudizio che lo porta a rispondere e a impegnare la propria responsabilità solo di fronte ai suoi lettori. È a loro, «a beneficio dei» suoi «contemporanei» (r. 19), che il giornalista intende comunicare le «tante utili scoperte» da lui fatte, per «contribuire alla ricreazione o al miglioramento del paese in cui vivo» (r. 20). Si profila così, fra le righe, il formarsi di quella pubblica opinione che, bisognosa di essere messa al corrente di quanto accade nella vita pubblica, stabilisce un patto di reciproca necessità fra l’emittente e il destinatario del messaggio giornalistico. L’importanza del progetto non può però basarsi esclusivamente su un’iniziativa individuale, che rischierebbe di essere soggettiva, ma richiede una base più solida, come quella del «club», di un gruppo, anche ristretto, animato da una comunanza di impegni e di intenti. Essenziale, infine, è l’immediatezza, la rapidità della comunicazione, che richiede l’intervento assiduo e tempestivo del giornalista, la sua presenza – potremmo dire – nel cuore della notizia.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Quale posizione politica dichiara di assumere Addison? > 2. Quali requisiti l’autore intende conferire al giornale di cui parla nel brano? > 3. Quali finalità assume il progetto giornalistico di Addison? AnALizzAre

> 4.

Stile

In quali aspetti formali il brano si pone già come esempio significativo di stile giornalistico?

Approfondire e inTerpreTAre

> 5. Contesto: storia Quali particolari caratteristiche presenta il contesto socio-culturale inglese tali da favorire esperienze “pionieristiche” come quelle di Addison? Nel rispondere, considera anche i giudizi negativi espressi da quest’ultimo riguardo la situazione italiana del tempo. per iL reCUpero

> 6. Spiega il significato delle parole chiave (di seguito riportate in ordine alfabetico) del lessico del giornalismo

della carta stampata: articolo, cadenza, catenaccio, fondo, giornale, mensile, occhiello, periodico, quotidiano, settimanale, sommario, strillo, taglio, titolo, testata. pASSATo e preSenTe Siamo tutti giornalisti?

> 7. Oggi la diffusione delle nuove tecnologie sembra incoraggiare la professione giornalistica anche presso coloro che, da semplici cittadini, “osservano” con attenzione – come predicava Addison – il mondo che li circonda: social network, blog, video pubblicati sui canali del web e altro costituiscono la prova dell’esigenza di “testimoniare” la realtà, anche da un punto di vista personale e privato. Discuti l’argomento in classe con l’insegnante e i compagni, provando a individuare criticamente nel fenomeno i lati positivi ma anche gli eventuali (e pericolosi) effetti di “deriva”.

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Capitolo 5 · Il giornalismo

Pietro Verri

T2

Capitolo 4, A2, p. 339

pietro Verri

Temi chiave

«Cos’è questo “Caffè?”» dal “Caffé” È l’intervento programmatico con cui il periodico “Il Caffè” inizia le pubblicazioni.

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• la tolleranza e la disponibilità cortese dell’intellettuale

• il cosmopolitismo • la critica al conformismo

Cos’è questo “Caffè”? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorni. Cosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno eglino1 scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoi. E sin a quando fate voi conto di continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno spaccio2. Se il pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne farà un tomo3 di mole discreta: se poi il pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine4 vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d’una aggradevole5 occupazione per noi, il fine di far quel bene, che possiamo alla nostra patria, il fine di spargere delle utili cognizioni6 fra i nostri cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e Steele, e Swift, e Addison, e Pope7, ed altri. Ma perché chiamate questi fogli “Il Caffè”? Ve lo dirò; ma andiamo a capo. Un Greco originario di Citera, isoletta riposta fra la Morea e Candia8, mal soffrendo l’avvilimento e la schiavitù, in cui i Greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani9 hanno conquistata quella contrada, e conservando un animo antico10 malgrado l’educazione e gli esempi, son già tre anni11 che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse città commercianti12, da noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e molto si trattenne in Mocha13, dove cambiò parte delle sue merci in caffè

1. eglino: essi (pleonastico). 2. Insin … spaccio: sino a quando, finché avranno smercio, cioè avranno un mercato, saranno venduti. 3. tomo: volume, nel senso che si potranno rilegare insieme. 4. fine: scopo. 5. aggradevole: gradevole, piacevole. 6. cognizioni: nozioni, conoscenze. 7. Steele … Pope: Richard Steele (16721729) e Joseph Addison ( A1, p. 352) sono

considerati i padri del giornalismo moderno ( Il contesto, p. 257); su Jonathan Swift, cap. 6, A4, p. 385; Alexander Pope (1688-1744) è autore del poemetto Il ricciolo rapito (1712), tradotto anche in Italia. 8. Citera … Candia: Citera è un’isola dell’Egeo, situata tra la penisola del Peloponneso (la Morea) e l’isola di Creta (Candia, dal nome del suo capoluogo). 9. gli Ottomani: i Turchi, che tra Quattro e Cinquecento avevano conquistato l’intera

penisola balcanica. 10. antico: fiero e orgoglioso, come quello dei suoi antenati, gli antichi Greci. 11. son … anni: tre anni fa. 12. commercianti: commerciali; sono gli scali del Levante, i porti del Mediterraneo orientale. 13. Mocha: Moka, città yemenita sullo coste del Mar Rosso, luogo di esportazione di una qualità di caffè particolarmente pregiata.

pesare le parole Disparatissime (r. 2)

> Disparato viene dal latino disparàre, composto di dis- e

paràre, “appaiare” (par, “pari”), quindi vuol dire letteralmente “non appaiato”, perciò “nettamente separato, estremamente diverso, che non presenta alcuna somiglianza con altro” (es. viaggiando si possono osservare i costumi più disparati dei vari popoli). È evidente la parentela con separare, sempre da paràre ma composto

con se(d), “via da”. Tramite la radice par è imparentato anche con dispari, in matematica ciò che non è divisibile per due, e per estensione “diseguale, differente” (es. i due allievi sono dispari per preparazione e impegno). Sempre da par con in- negativo deriva impari, “inferiore per forza, valore, qualità” (es. attaccammo i nemici con forze impari e fummo sconfitti).

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

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del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito14 di stabilirsi in Italia, e da Livorno15 sen venne in Milano, dove son già tre mesi che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un caffè che merita il nome veramente di caffè; caffè vero verissimo di Levante, e profumato col legno d’aloe16, che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plombeo17 della terra bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria sempre tepida e profumata che consola: la notte18 è illuminata, cosicché brilla in ogni parte l’iride19 negli specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti e in mezzo alla bottega; in essa bottega chi vuol leggere trova sempre i fogli di novelle20 politiche, e quei di Colonia, e quei di Sciaffusa21, e quei di Lugano, e vari altri; in essa bottega chi vuol leggere trova per suo uso e il Giornale Enciclopedico, e l’Estratto della Letteratura Europea22, e simili buone raccolte di novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano romani, fiorentini, genovesi, o lombardi, ora sieno tutti presso a poco europei; in essa bottega v’è di più un buon atlante, che decide le questioni che nascono nelle nuove politiche; in essa bottega per fine23 si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo accadere, e tutt’i discorsi che vi ascolto degni da registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine vari, così li dò alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di caffè. Il nostro Greco adunque (il quale per parentesi24 si chiama Demetrio) […] ride quando vede qualche lampo25 di ridicolo, ma porta sempre in fronte un onorato carattere di quella sicurezza che un uomo ha di sé quando ha ubbidito alle leggi. L’abito orientale, ch’ei veste, gli dà una maestosa decenza26 al portamento, cosicché lo credereste di condizion signorile anziché il padrone d’una bottega di caffè; e convien27 dire, che vi sia realmente una intrinseca perfezione nel vestito asiatico in paragone del nostro, poiché laddove i fanciulli in Costantinopoli non cessano mai di dileggiare noi Franchi28, qui da noi, non so se per timore, o per riverenza, non si vede che osino render la pariglia ai Levantini29. Gli Europei che si stabiliscono in quelle contrade vestono quasi tutti l’abito o armeno, o greco, o talare30 in qualunque modo, né se ne trovano male, anzi rimpatriando risentono il tormento del nostro abito con maggior energia, in vece che31 nessun di essi, stabilendosi fra di noi nelle città dove il commercio li porta, può risolversi a32 fare altrettanto.

14. il partito: la decisione. 15. Livorno: porto allora particolarmente attivo, scalo per le rotte mediterranee. 16. legno d’aloe: sostanza aromatica. 17. plombeo: grigio, nel senso di indolente, inoperoso (grave: serio, posato). 18. la notte: di notte. 19. l’iride: la rifrazione dei colori continuamente variabili allo sguardo. 20. fogli di novelle: giornali con le notizie. 21. Sciaffusa: città e cantone della Svizzera, famoso per le cascate sul Reno. 22. Giornale … Europea: il primo (175693), pubblicato a Liegi, fu portavoce delle idee illuministiche; il secondo (1758-69), pubblicato a Berna in lingua italiana, era un

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periodico di informazione scientifico-letteraria. 23. per fine: infine. 24. per parentesi: tra parentesi, per inciso. 25. lampo: barlume. 26. decenza: decoro. 27. convien: si deve, bisogna. 28. Franchi: occidentali (propriamente francesi, dal nome medievale). 29. render … Levantini: usare lo stesso trattamento, ricambiare il dileggio, la derisione nei confronti degli orientali. 30. talare: sacerdotale, cioè lungo sino ai piedi. 31. in vece che: mentre invece. 32. risolversi a: decidersi di.

Anonimo francese, Godendosi un caffè, inizio del XVIII secolo, olio su tela, Istanbul (Turchia), Pera Museum.

Capitolo 5 · Il giornalismo

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Noi cambiam di mode ogni vent’anni, e vedremmo la più ridicola incostanza del mondo se ci si presentasse una collezione degli abiti europei da soli quattro secoli a questa parte: i ritratti antichi ce ne fanno fede, sembra che andiamo ciecamente provandoci con ripetuti tentativi per trovare una volta la forma dell’involto33 in cui deve rinchiudersi il corpo umano, ch’è pur sempre lo stesso; e quel ch’è più si è che, malgrado tutte le nostre instabilità, e malgrado la sicurezza in cui siamo, che da qui a vent’anni chi si vestisse come facciamo ora noi sarebbe ridicolo, pure crediamo ridicole le ragioni medesime che ci dimostrano l’irragionevolezza del nostro vestito. Gli Orientali in vece tagliano gli abiti loro sulla stessa forma su cui li tagliavano i loro antenati alcuni secoli fa, poiché quando si sta bene non v’è ragione per variare; l’abito loro perfine34 è più elegante, più pittoresco, più sano, più comodo del nostro. Su quest’argomento io scriverei volentieri molte pagine, se non vedessi che si scriverebbero inutilmente. E sapete perché le scriverei? perché io nato, allevato in Italia non ho mai potuto naturalizzarmi col35 mio vestito; e quando devo ogni mattina soffrire che mi si sudici il capo colla pomata, che mi si tormenti con cinquecento e non so quanti colpi di pettine, che mi s’infarini36, e mi si riempian gli occhi, gli orecchi, il naso e la bocca di polve; quando vedo rinchiudere i miei capelli entro un sacco37 che mi pende sulle spalle, quando mi sento cingere il collo, i fianchi, le braccia, le ginocchia, i piedi da tanti tormentosi vincoli, e che fatto tutto ciò al minimo soffio d’aria la sento farsi strada sino alla pelle e intirizzarmi nell’inverno; e devo portar meco un pezzo inutile di panno, che si chiama cappello, benché non sia un cappello; e devo portar meco una spada, quand’anche38 vado dove son sicuro da ogni oltraggio, né ho idea di farne; non so contenermi che non esclami39: «Oh ragionevoli, oh felici sartori, berettieri40, e uomini dell’Asia, ridete di noi che avete ben ragione di ridere!».

33. involto: involucro (nel senso dell’abbigliamento). 34. perfine: insomma. 35. naturalizzarmi col: abituarmi al. 36. mi s’infarini: con la cipria (più avanti polve). Sono qui vivacemente ripercorsi i

momenti salienti della toeletta e dell’abbigliamento degli appartenenti ai ceti sociali elevati (un’analoga “cerimonia” è descritta da Parini nel Mattino, cap. 8, p. 486). 37. un sacco: è la reticella in cui si raccoglievano i capelli.

38. quand’anche: anche se. 39. contenermi … esclami: trattenermi dall’esclamare. 40. sartori, berrettieri: sarti, cappellai.

Analisi del testo Il carattere della rivista

Il significato del titolo

> Le finalità della rivista

Attraverso delle brevi domande e delle succinte risposte, Pietro Verri intende illustrare il carattere della rivista, con un pragmatismo che, senza nulla concedere a una ricerca di abbellimenti, ne indica direttamente lo scopo in quello della «pubblica utilità», insistendo sulla necessità di interessare i lettori, anche «divertendoli», con «il fine di far quel bene, che possiamo alla nostra patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri cittadini» (rr. 10-11; senza dimenticare l’omaggio ai padri del giornalismo inglese, considerati come dei veri e propri modelli).

> il caffè come luogo di scambio culturale

Dalla dichiarazione di intenti si passa alla rappresentazione del luogo scelto per dare il titolo alla rivista, quel caffè che, sostituendosi alle consuetudini formalistiche e burocratiche delle accademie tradizionali, viene scelto per esemplificare il significato e il valore della battaglia illuministica. Se le accademie sono luoghi chiusi, dove si richiede il rispetto di determinate convenzioni, il caffè è il luogo della libera partecipazione, che non comporta obblighi di sorta, sia che si voglia dare vita a incontri e discussioni, sia che si preferisca rimanere da soli, a riflettere o a leggere. 357

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo L’ideale cosmopolita

La luce

Il taglio narrativo Le diversità

Nel caffè si trovano infatti i giornali e le gazzette che provengono dai paesi europei, assicurando quella circolazione delle conoscenze ritenuta essenziale per la diffusione dei lumi. È la netta affermazione dell’ideale cosmopolita, il quale fa sì che «gli uomini che in prima erano romani, fiorentini, genovesi, o lombardi, ora sieno tutti presso a poco europei» (rr. 32-33). Non a caso, allora, l’elemento distintivo del caffè in questione è quello di una luce che rischiara ogni cosa, vincendo le tenebre della «notte». Caratteristiche del locale sono «ricchezza ed eleganza», a completare, con i «comodi sedili» e «un’aria sempre tepida e profumata che consola» (rr. 26-27), quell’idea del benessere e delle comodità che diventano uno scopo della vita. A questo ideale, insieme rassicurante e stimolante, la bevanda del caffè offre simbolicamente il suo contributo energetico, tanto che «chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plombeo della terra bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole» (rr. 22-24; si noti l’uso dell’ultimo aggettivo).

> Una realtà cosmopolita

Ma l’efficacia del testo consiste anche nel taglio narrativo, che, evitando ogni astratta impostazione teorica, presenta la situazione come una realtà esistente, illustrandola con la storia di un protagonista che, dalla Grecia, si è trasferito a Milano per aprire la sua bottega del caffè. Siamo, anche in questo caso, in presenza di un’apertura nei confronti delle “diversità” che, rifiutando ogni idea di superiorità delle proprie convinzioni (strada, questa, che può facilmente scadere in forme di razzismo), riconosce pari dignità alle altre culture, in grado a loro volta di fornire utili insegnamenti. È l’atteggiamento che sta alla base delle Lettere persiane di Montesquieu ( cap. 3, A3, p. 321); il problema si riferisce qui al confronto fra diversi modi di vestirsi, contrapponendo la razionalità dei costumi orientali all’inutile sfoggio degli abiti occidentali (non manca un’implicita polemica sul lusso delle classi più elevate, motivo assai diffuso nella letteratura settecentesca).

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Estrapola dal brano, e sintetizza, la vicenda del «Greco originario di Citera» (r. 14). > 2. Riassumi le considerazioni dell’autore sulla questione dell’abbigliamento in Europa e in Oriente (rr. 41-79), spiegandone la rilevanza nell’ambito dell’intero scritto.

AnALizzAre

> 3.

Stile Spiega l’efficacia sul piano espressivo, e in relazione al contenuto del brano, della fittizia intervista iniziale (rr. 1-13). > 4. Stile Perché nell’Analisi del testo si parla di «taglio narrativo» a proposito dell’impostazione dello scritto? > 5. Lessico Quali vocaboli e/o espressioni concorrono a determinare il tono colloquiale del brano? Rispondi attraverso esempi significativi ricavati dal testo.

Approfondire e inTerpreTAre

> 6.

esporre oralmente Quali eventi e fenomeni, relativi al contesto storico e sociale italiano, concorrono a determinare l’affermazione di una cultura sempre più antiaccademica? Perché Milano è fra le città più interessate a tali spinte innovative? Rispondi in un’esposizione orale (max 5 minuti).

SCriTTUrA CreATiVA

> 7. Esamina la descrizione della bottega del greco Demetrio, ed elabora il testo per una breve rappresentazione teatrale, ambientata nel caffè, che risponda a quanto affermato da Verri nel brano analizzato. Scegli un titolo per il tuo scritto e non superare 80 righe (4000 caratteri).

per iL reCUpero

> 8. Fornisci una definizione dettagliata della rivista “Il Caffè” usando le informazioni risultanti dalla fittizia intervista iniziale (rr. 1-13).

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Capitolo 5 · Il giornalismo

A2

Alessandro Verri Alessandro Verri nacque a Milano nel 1741; fratello minore di Pietro, condivise con lui la battaglia in favore delle idee illuministiche che arrivavano dalla Francia, risultando tra i fondatori dell’Accademia dei Pugni e del “Caffè”. Su questo periodico pubblicò una trentina di articoli, fra cui ebbe vasta risonanza quello relativo alla «rinunzia» al vocabolario della Crusca ( T3). Nel 1762 scrisse una difesa del libro Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, con il quale si recò nel 1766 a Parigi, intrattenendo di lì una fitta corrispondenza con il fratello, fondamentale per capire le ragioni dell’impegno intellettuale e culturale dell’Illuminismo lombardo. Rimasto da solo nella capitale francese, quando Beccaria decise improvvisamente di tornare in patria, passò poi a Londra e rientrò da ultimo in Italia, per fermarsi definitivamente a Roma, dove morì nel 1816. A Roma subì le suggestioni dell’antichità classica, che impressero una svolta alla sua attività letteraria, inducendolo ad abbandonare le posizioni precedenti; nascono di qui i romanzi Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene (1780), Le notti romane al sepolcro degli Scipioni (1792) e la Vita di Erostrato (del 1793, edito nel 1815), in cui le gloriose vicende del passato vengono narrate in un complesso e paludato stile classicheggiante, tutto l’opposto delle tesi un tempo sostenute sul “Caffè”. Appassionato di teatro e autore di opere teatrali poco significative, tradusse nel 1777 l’Amleto di Shakespeare. La vita e le opere

La vita

I romanzi

T3

Alessandro Verri

Temi chiave

rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca

• la rivendicazione del diritto a formulare nuove norme per una nuova lingua

• la polemica contro i cruscanti e i “pedanti”

da “Il Caffè” L’articolo, pubblicato sul “Caffè” nel 1764, costituisce il primo contributo di Alessandro Verri alla rivista e assume una particolare importanza, in quanto rappresenta l’ideale linguistico degli illuministi milanesi.

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Cum sit1 che gli autori del «Caffè» siano estremamente2 portati a preferire le idee alle parole, ed essendo inimicissimi d’ogni laccio3 ingiusto che imporre si voglia all’onesta4 libertà de’ loro pensieri e della ragion loro, perciò sono venuti in parere5 di fare nelle forme6 solenne rinunzia alla pretesa purezza della toscana favella7, e ciò per le seguenti ragioni. 1. Perché se Petrarca, se Dante, se Boccaccio, se Casa8 e gli altri testi di lingua hanno avuto la facoltà d’inventar parole nuove e buone, così pretendiamo che tale libertà convenga ancora9 a noi: conciossiaché10 abbiamo due braccia, due gambe, un corpo, ed una testa fra due spalle com’eglino11 l’ebbero. […]

1. Cum … sit: siccome sono, essendo (Cum sit è formula notarile). 2. estremamente: assolutamente. 3. laccio: vincolo, impaccio. 4. onesta: onorevole e ragionevole. 5. sono … parere: sono giunti alla decisione. Anche questa è una formula usata negli atti

giuridici. 6. nelle forme: formalmente, secondo le dovute modalità. 7. toscana favella: la lingua toscana, o più propriamente il fiorentino scritto degli autori trecenteschi, su cui si basava il Vocabolario della Crusca.

8. Casa: Giovanni Della Casa (1503-56), poeta petrarchista e autore del celebre Galateo. 9. ancora: anche. 10. conciossiaché: poiché, dal momento che (termine arcaico e toscaneggiante, usato con intento parodico). 11. eglino: essi.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

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2. Perché, sino a che non sarà dimostrato che una lingua sia giunta all’ultima sua perfezione12 ella è un’ingiusta schiavitù il pretendere che non s’osi arricchirla e migliorarla. 3. Perché nessuna legge ci obbliga a venerare gli oracoli13 della Crusca, ed a scrivere o parlare soltanto con quelle parole che si stimò bene di racchiudervi.

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4. Perché se italianizzando le parole francesi, tedesche, inglesi, turche, greche, arabe, sclavone14, noi potremo rendere meglio le nostre idee, non ci asterremo dal farlo per timore o del Casa, o del Crescimbeni, o del Villani15, o di tant’altri che non hanno mai pensato di erigersi in tiranni delle menti del decimo ottavo secolo, e che risorgendo sarebbero stupitissimi in ritrovarsi tanto celebri, buon grado la16 volontaria servitù di que’ mediocri ingegni che nelle opere più grandi si scandalizzano di un c o d’un t di più o di meno, di un accento grave in vece di un acuto. Intorno a che17 abbiamo preso in seria considerazione che se il mondo fosse sempre stato regolato dai grammatici, sarebbero stati depressi in maniera18 gl’ingegni e le scienze che non avremmo tuttora né case, né morbide coltri19, né carrozze, né quant’altri beni mai ci procacciò l’industria e le meditazioni20 degli uomini; ed a proposito di carrozze egli21 è bene il riflettere che se le cognizioni umane dovessero stare ne’ limiti strettissimi che gli assegnano i grammatici, sapremmo bensì che carrozza va scritto con due erre, ma andremmo tuttora a piedi. 5. Consideriamo ch’ella è cosa ragionevole che le parole servano alle idee, ma non le idee alle parole, onde22 noi vogliamo prendere il buono quand’anche fosse ai confini dell’universo, e se dall’inda23 o dall’americana lingua ci si fornisse qualche vocabolo ch’esprimesse un’idea nostra meglio che con la lingua italiana noi lo adopereremo, sempre però con quel giudizio che non muta a24 capriccio la lingua, ma l’arricchisce e la fa migliore. […] 6. Porteremo questa nostra indipendente libertà sulle squallide pianure del dispotico regno ortografico25, e conformeremo26 le sue leggi alla ragione dove ci parrà che sia inutile il replicare27 le consonanti o l’accentar le vocali, e tutte quelle regole che il capriccioso pedantismo28 ha introdotte e consagrate29, noi non le rispetteremo in modo alcuno. Inoltre considerando noi che le cose utili a sapersi son molte e che la vita è breve, abbiamo consagrato il prezioso tempo all’acquisto delle idee30, ponendo nel numero delle secondarie31 cognizioni la pura favella32, del che siamo tanto lontani d’arrossirne che ne facciamo amende honorable33 avanti a tutti gli amatori de’ riboboli34 noiosissimi dell’infinitamente noioso Malmantile35, i quali sparsi qua e là come gioielli nelle lombarde cicalate36 sono proprio il grottesco37 delle belle lettere.

12. all’ultima sua perfezione: all’ultimo stadio del suo sviluppo. 13. oracoli: i profeti, che si ritenevano depositari della verità. 14. sclavone: slave 15. Crescimbeni … Villani: Giovanni Mario Crescimbeni (1663-1728), uno dei fondatori dell’Accademia d’Arcadia ( Il contesto, p. 256) e Giovanni Villani (1280 ca.-1348), autore della Cronica, considerati, con Della Casa, esponenti di una concezione puristica o comunque arcaica, ormai superata, della lingua letteraria. 16. buon grado la: grazie alla. 17. Intorno a che: a questo proposito, partendo da questa constatazione. 18. depressi in maniera: scoraggiati, mortificati a tal punto.

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19. coltri: coperte. 20. ci procacciò … meditazioni: ci procurarono l’operosità e le ricerche intellettuali. 21. egli: pleonastico (come ella all’inizio del paragrafo successivo). 22. onde: dalle quali. 23. inda: indiana. 24. muta a: cambia, modifica per. 25. dispotico … ortografico: il tirannico dominio (regno, in quanto sottopone i “sudditi” ai vincoli di leggi immodificabili e assolute) dell’ortografia. 26. conformeremo: adatteremo. 27. replicare: raddoppiare. 28. pedantismo: pedanteria. 29. consagrate: consacrate, considerate come una cosa sacra. 30. all’acquisto delle idee: alla conoscen-

za, all’acquisizione di utili cognizioni. 31. secondarie: meno importanti. 32. la pura favella: la lingua pura, la purezza della lingua (favella). 33. amende honorable: onorevole ammenda, atto di scusa (francese). 34. riboboli: parole o modi di dire fortemente espressivi e caratterizzanti, tipici dei toscani e in particolare dei fiorentini. 35. Malmantile: poema eroicomico di Lorenzo Lippi (1606-65), contenente motti e locuzioni fiorentine commentate, nell’edizione del 1750, da alcuni soci dell’Accademia della Crusca. 36. cicalate: discorsi o scritti su argomenti inconsueti, in uso anche nelle accademie. 37. sono … grottesco: rappresentato il carattere grottesco, ridicolo.

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7. Protestiamo38 che useremo ne’ fogli nostri di quella lingua che s’intende39 dagli uomini colti da Reggio di Calabria sino alle Alpi; tali sono i confini che vi fissiamo, con ampia facoltà di volar talora di là dal mare e dai monti a prendere il buono in ogni dove. A tali risoluzioni ci siamo noi indotti perché gelosissimi di quella poca libertà che rimane all’uomo socievole40 dopo tante leggi, tanti doveri, tante catene ond’è caricato; e se dobbiamo sotto pena dell’inesorabile ridicolo vestirci a mo’41 degli altri, parlare ben spesso42 a mo’ degli altri, vivere a mo’ degli altri, far tante cose a mo’ degli altri, vogliamo, intendiamo, protestiamo di scrivere e pensare con tutta quella libertà che non offende que’ principi che veneriamo43. […] Per ultimo diamo amplissima permissione44 ad ogni genere di viventi, dagli insetti alle balene, di pronunciare il loro buono o cattivo parere su i nostri scritti. Diamo licenza in ogni miglior modo45 di censurarli, di sorridere, di sbadigliare in leggendoli46, di ritrovarli pieni di chimere47, di stravaganze, ed anche inutili, ridicoli, insulsi in qualsivoglia maniera. I quali sentimenti siccome ci rincrescerebbe assaissimo qualora nascessero nel cuore de’ filosofi, i soli suffragi de’ quali desideriamo48; così saremo contentissimi, e l’avremo per un isquisito elogio49 se sortiranno dalle garrule50 bocche degli antifilosofi.

38. Protestiamo: dichiariamo apertamente, con forza. 39. s’intende: viene compresa. 40. socievole: che vive nella società. 41. a mo’: al modo, come. 42. ben spesso: assai spesso. 43. che veneriamo: in cui crediamo, che rite-

niamo giusti e sacrosanti. 44. permissione: permesso, concessione (più avanti licenza). 45. in ogni miglior modo: in qualunque modo sembri più opportuno (latinismo tipico del linguaggio giuridico). 46. in leggendoli: mentre li leggono.

47. chimere: fantasie assurde. 48. i soli … desideriamo: i soli di cui desideriamo avere l’approvazione, i pareri favorevoli. 49. l’avremo … elogio: lo considereremo uno squisito elogio. 50. se … garrule: se usciranno (il soggetto è i sentimenti) dalle ciarliere, pettegole.

Analisi del testo

> L’importanza di arricchire la lingua

Polemica con la Crusca

Le parole nuove e le parole straniere

Il brano ha un valore esemplare sia per quanto riguarda la funzione del giornalismo del tempo, chiamato a intervenire su questioni di fondamentale importanza culturale, sia per la capacità di affrontare nel senso della modernità un problema come quello della lingua, decisivo per le esigenze di una comunicazione che si vuole rinnovata sia nei contenuti sia nella forma. Di qui la polemica, con il conseguente rifiuto, nei confronti di quell’idea della lingua che il Vocabolario della Crusca rappresentava, e che si basava su un ideale retorico fondato sugli scrittori classici del Trecento; un ideale che, preoccupandosi soprattutto dello stile, contrastava con l’esigenza di un’immediatezza dell’espressione, capace di mettere direttamente il lettore in contatto con la sostanza delle cose. Alessandro Verri rivendica quindi «la facoltà d’inventar parole nuove e buone» (r. 7), così come fecero i classici nei tempi loro; la lingua non è un organismo oramai compiuto o imbalsamato, ma può e deve essere arricchita e migliorata. In una realtà cosmopolita, in cui le idee circolano sempre più rapidamente a livello europeo, è necessario accogliere, italianizzandole, anche le parole straniere, senza perdere il proprio tempo dietro a quei formalismi retorici e grammaticali, considerati come contrari allo sviluppo della scienza e del progresso: «se il mondo fosse sempre stato regolato dai grammatici, sarebbero stati depressi in maniera gl’ingegni e le scienze che non avremmo tuttora né case, né morbide coltri, né carrozze, né quant’altri beni mai ci procacciò l’industria e le meditazioni degli uomini» (rr. 21-24); un’affermazione al limite paradossale, che si avvale anche dell’ironia: «ed a proposito di carrozze egli è bene il riflettere che se le cognizioni umane dovessero stare ne’ limiti strettissimi che gli assegnano i grammatici, sapremmo bensì che carrozza va scritto con due erre, ma andremmo tuttora a piedi» (rr. 24-26). 361

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

> L’“utile” come principale scopo della lingua Le parole e le idee

Non sfugge il taglio “leggero” e antiaccademico dell’argomentazione, che pone in primo piano il concetto dell’“utile”, dei vantaggi che si possono ottenere attraverso “l’industria e la meditazione degli uomini”. Di qui si giunge al principio fondamentale, basato sulla ragionevolezza («ella è cosa ragionevole»), secondo cui «le parole servano alle idee, ma non le idee alle parole» (rr. 27-28). La rivendicazione di «questa nostra indipendente libertà» esige infatti di conformare «le sue leggi alla ragione» (r. 33), con l’unica preoccupazione di creare uno strumento di comunicazione che renda comprensibile il messaggio «dagli uomini colti da Reggio di Calabria sino alle Alpi» (rr. 41-42), consentendo alla libera circolazione delle idee innovatrici di imprimere un movimento unitario al progetto del rinnovamento culturale. Alessandro Verri non esclude le critiche e non rinuncia al confronto, anzi lo chiede; a condizione che esso coinvolga i veri «filosofi», e non quegli «antifilosofi» che sono i difensori della vecchia cultura (rr. 56-57).

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Proponi una breve sintesi per ogni punto in cui si articola lo scritto. AnALizzAre

> 2.

Stile Nell’articolo Alessandro Verri fa spesso ricorso all’ironia per argomentare le sue teorie o confutare quelle degli altri. Indica i punti, oltre a quelli segnalati nell’Analisi del testo, in cui è presente questo procedimento. > 3. Lessico Analizza i vocaboli e/o le espressioni con cui l’autore indica le rigide regole imposte dai pedanti. > 4. Lessico Individua nel testo l’area semantica relativa al concetto di “ragione”, spiegando per ogni vocabolo e/o espressione la precisa accezione.

Approfondire e inTerpreTAre

> 5.

Scrivere Perché Verri alla riga 6 cita Petrarca, Dante e Boccaccio a proposito della questione della lingua? Motiva la tua risposta in un testo di circa 5 righe (250 caratteri). > 6. esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) analizza il brano dal punto di vista del lessico e giudica se nella pratica è stato rispettato con coerenza il modello linguistico proposto.

per iL poTenziAmenTo

> 7. Nel 1953 Carlo Emilio Gadda scrisse Norme per la redazione di un testo radiofonico per la RAI, prima dell’av-

vento della televisione: si tratta di un vero e proprio “regolamento” che disciplina la scrittura dei testi da trasmettere attraverso la radio per un pubblico divenuto ampio ed eterogeneo. Ne riportiamo un passo. Il tono accademico o dottrinale è da escludere […]. Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di “persone singole”, di mònadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di “pochi intimi”. Seduto solo nella propria poltrona, dopo aver inscritto in bilancio la profittevole mezz’ora e la nobile fatica dell’ascolto, egli dispone di tutta la sua segreta suscettibilità per potersi irritare del tono inopportuno onde l’apparecchio radio lo catechizza. È bene perciò che la voce, e quindi il testo affidatole, si astenga da tutti quei modi che abbiano a suscitare l’idea di una allocuzione compiaciuta, di un insegnamento impartito, di una predica, di un messaggio dall’alto. L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante. Il radiocollaboratore non deve presentarsi al radioascolatore in qualità di maestro, di pedagogo e tanto meno di giudice o di profeta, ma in qualità di informatore, di gradevole interlocutore, di amico. I suoi meriti e la sua competenza specifica sono sottintesi, o per meglio dire sono già stati enunciati dal nome, dalla “firma”. Il pubblico, e quindi i singoli ascoltatori, già sa, già sanno che la Radio italiana invita ai microfoni i “grandi” e le “grandi”, vale a dire i competenti. All’atto di redigere il testo di un parlato radiofonico si dovrà dunque evitare in ogni modo che nel radioascoltatore si manifesti il cosiddetto “complesso di inferiorità culturale”, cioè quello stato di ansia, di irritazione, di dispetto che coglie chiunque si senta condannare come ignorante dalla consapevolezza, dalla finezza, dalla sapienza

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Capitolo 5 · Il giornalismo

altrui. Questo “complesso” determina una soluzione di continuità nel colloquio tra il dicitore e l’ascoltatore, crea una zona di vuoto, un “fading” spirituale nella recezione. C. E. Gadda, Norme per la redazione di un testo radiofonico, in Saggi giornali favole, vol. I, Garzanti, Milano 1991

Dopo aver letto attentamente il brano, sintetizzane il contenuto ed elabora un commento riguardo la presunta validità, nel contesto odierno e in riferimento ai nuovi mezzi di comunicazione di massa, delle norme esposte da Gadda. pASSATo e preSenTe Una lingua in perenne metamorfosi

> 8. Quanti e quali neologismi immette nel circuito della comunicazione odierna il giornalismo? Prendendo

spunto dalle tesi di Verri riguardo la libertà di inventare parole nuove o adattare all’italiano quelle delle lingue straniere, effettua insieme all’insegnante e ai compagni una ricognizione collettiva sui diversi casi in tal senso proposti di recente dal mondo dell’informazione, soprattutto considerando il mondo del web.

A3 Le polemiche letterarie

I viaggi

Giuseppe Baretti La vita e le opere Nato a Torino nel 1719, mostrò fin dall’inizio un carattere indocile, abbandonando a sedici anni la casa paterna, per intraprendere una serie di viaggi e di spostamenti che lo portarono in diverse città del Nord Italia, soprattutto a Milano e Venezia, dove partecipò alla vita culturale, dedicandosi alla poesia satirica e traducendo le tragedie di Pierre Corneille ( L’età del Barocco e della Nuova Scienza, cap. 4, p. 131), da cui prese lo spunto per sottolineare la supremazia del teatro francese su quello italiano. A Venezia ebbe una violenta polemica letteraria, a cui ne seguì un’altra a Torino (i suoi scritti vennero sequestrati), dove era rientrato nel 1749. Dopo la pubblicazione delle sue Poesie piacevoli (1750), convinto che in Italia non avrebbe potuto esprimere le proprie opinioni, si recò a Londra, dove intrattenne rapporti di amicizia con il poeta e critico letterario Samuel Johnson (1709-84), che lo introdusse nel Library Club, nel cuore del mondo letterario londinese. In inglese, lingua che imparò perfettamente, scrisse alcune opere sulla letteratura italiana, pubblicando anche, nel 1760, il suo Dictionary of the English and Italian languages. In quel medesimo anno lasciava l’Inghilterra per viaggiare in Portogallo, Spagna e Francia, rivelando il suo temperamento di intellettuale cosmopolita. Dall’esperienza di questi viaggi e dalle impressioni ricavate nacquero le Lettere familiari a’ suoi tre fratelli (1762), interessanti per le notazioni di costume, per la rappresentazione dei luoghi e delle figure umane, oltre che godibili per uno stile personale sciolto e incisivo. Joshua Reynolds, Ritratto di Giuseppe Baretti, 1773, olio su tela, Collezione privata.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo “La frusta letteraria”

Testi Baretti • Aristarco Scannabue e i suoi scimmiotti dalla “Frusta letteraria”

Gli ultimi anni

T4

Ma il nome di Baretti è soprattutto legato alla “Frusta letteraria”, il periodico quindicinale che uscì tra il 1763 e il 1765, fino a quando le autorità veneziane ne proibirono la pubblicazione. Con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue firmò quasi tutti gli articoli pubblicati, caratterizzati da un’aggressiva vena polemica, che andava oltre le circostanze del giudizio critico. L’intento era quello di armarsi di una «metaforica frusta, e di menarla rabbiosamente addosso a tutti questi moderni goffi e sciagurati, che vanno tuttodì scarabocchiando commedie impure, tragedie balorde, critiche puerili, romanzi bislacchi, dissertazioni frivole, e prose e poesie d’ogni generazione, che non hanno in sé il minimo sugo, la minime sostanza, la minimissima qualità da renderle o dilettose o giovevoli ai reggitori, ed alla patria». Rientrato a Londra, città a lui congeniale per la libertà di cui poteva godere, vi rimase sino alla fine della sua vita (1789), a parte due viaggi, uno in Belgio, Francia e Spagna (da questo ricavò una nuova serie di lettere, scritte questa volta in inglese), l’altro in Italia. Ottenuta una pensione dal re d’Inghilterra, pubblicò ancora in inglese altre opere, oltre a curare l’edizione di Tutte l’opere di Niccolò Machiavelli, per la quale scrisse un’interessante introduzione.

Giuseppe Baretti

Temi chiave

Uno stile «semplice, chiaro, veloce e animatissimo»

• la superiorità della prosa di Cellini • la spontaneità della scrittura

da “La frusta letteraria” La pubblicazione della Vita di Benvenuto Cellini, rimasta inedita per due secoli, offre a Baretti l’occasione per pronunciarsi a favore di una lingua letteraria spontanea e “naturale”, lontana da ogni elaborata costruzione sintattica e retorica.

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Una delle cose che sovente mi desta maraviglia non meno che stizza nel legger l’opere de’ tanti nostri moderni scrittori in prosa, è il vedere come non pochi d’essi sanno talvolta profondamente pensare, ma quasi nessuno sa esprimere i suoi pensieri con uno stile naturale e piano e corrente. Eppure il formarsi un buono stile in prosa è una faccenda di così poco momento1, che se gli scrittori nostri non facessero punto di studio intorno alla2 scelta delle loro espressioni, io son certo che i loro stili riuscirebbero molto migliori che non3 riescono. Volete una prova, leggitori, che la cosa sarebbe appunto come io la dico? Confrontate soltanto lo stile del già nominato Benvenuto Cellini4, che era un uomo ignorantissimo, con lo stile dell’abate Antonio Genovesi5, che è uomo sopra molti milioni d’uomini scienziato6. Voi troverete che quello del Cellini è semplice, chiaro, veloce e animatissimo; e quello del Genovesi intralciato, languido7, stiracchiato e scuro. E perché questo? Perché il Cellini pensava unicamente a dire le cose che aveva in mente, e il Genovesi non solo pensa a dire le cose che ha in mente, ma pensa anche a dirle piuttosto in questo che in quel modo. E questa scelta fra due o più espressioni, quasi tutti gli scrittori la vogliono fare, anzi s’avvezzano8 a farla quando cominciano ad esercitare il mestiero di scrittori e quando non sono ancora atti a9 riflettere che i modi di dire qualunque cosa, per piccola ed insignificante ch’ella sia, sono

1. momento: importanza. 2. non … intorno alla: non si preoccupassero affatto della. 3. che non: di quanto. 4. Benvenuto Cellini: Cellini (1500-71), uno

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dei più importanti artisti dell’Italia del Cinquecento, è stato scultore, orafo, scrittore, argentiere. 5. Antonio Genovesi: tra i più importanti esponenti dell’Illuminismo napoletano.

6. sopra … scienziato: uomo di scienza, di cultura, superiore a milioni di altri uomini. 7. intralciato, languido: contorto, fiacco. 8. s’avvezzano: si abituano. 9. atti a: capaci di.

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moltissimi, massime10 nella nostra lingua tanto copiosa11 di vocaboli e di frasi. Ma se, invece d’andare alternamente accettando e rigettando un’espressione, s’avvezzassero di buonora12 a scrivere quel che vien viene, e lasciassero in tanta malora di guardare coll’occhio della mente13 questo o quell’altro autore, lo stile di cui si prefissero d’imitare prima di accingersi a scrivere, presto vedrebbero che il formarsi uno stile buono non è quella gran montagna da inghiottire che i retori balordi e i grammaticuzzi assicurano, e presto vedrebbero come la natura sa al primo cenno correre in aiuto di chi la chiama, senza farsi chiamare due volte; come corse ad aiutare quel Cellini che sempre la invocò divotamente, e che, quantunque ignorante e plebeo, pure fu da lei reso il meglio maestro di stile che s’abbia l’Italia. La natura fu che al Cellini insegnò a mettere il nominativo innanzi al verbo, e dietro al verbo l’accusativo, o qualunque altro caso gli occorreva per rendere il suo discorso grammaticale e secondo l’indole del parlar fiorentino; la qual indole gli metteva poi nello stile tutte le altre parti del discorso ne’ luoghi loro, o prima o dopo alcuna di quelle tre principali14, senza fargli fare la minima fatica. I giovani dunque che si risolvono a farla da scrittori in prosa (ché della prosa io parlo adesso, e non della poesia), si lascino dare questo buon consiglio del vecchio Aristarco, cioè notino a voler loro15 le tante bellezze di stile, di cui tanti pretendono che abbondino il Boccaccio, e il Casa16 e il Firenzuola17, e tant’altri famosi scrittori de’ buoni secoli18; ma si persuadano che chi si studierà d’imitare alcuno di quelli, e di porre i piedi sulle loro vestigia19, riuscirà senza fallo20 uno scrittore di cattivo stile. Noi dobbiamo da quegli scrittori imparare i vocaboli, e ragunarsene21 in mente quante migliaia possiamo, colle debite discriminazioni fra i più usati e i meno usati, fra i moderni e gli obsoleti22, fra i prosaici e i poetici, e noi dobbiamo da quegli scrittori imparare a distinguere tra le frasi native e le frasi forestiere, e a ben ravvisare quel totale di esse che si chiama indole o genio23 della lingua toscana. Queste sono le due sole cose (parlo relativamente allo stile) che noi dobbiamo imparare da que’ barbuti patrassi24. Quando entrambe saranno ben bene imparate, buttiamo via e Boccaccio, e Casa, e Firenzuola, e ogn’altro scrittore de’ buoni secoli, e scriviamo (come dissi) quel che vien viene, sempre stando saldi a quel negozio del nominativo, del verbo e dell’accusativo o altro caso, senza rigiri25 artifiziosi, senza nominativi dopo i verbi, senza accusativi dinanzi ai verbi, e sopra tutti senza verbi in punta a’ periodi quando la necessità nol chiegga assolutamente […].

10. massime: massimamente, soprattutto. 11. copiosa: ricca. 12. di buonora: presto, fin dall’inizio. 13. lasciassero … mente: smettessero in quel brutto momento (formalmente in antitesi con malora) di fissare la loro attenzione su. 14. quelle … principali: soggetto, predicato e complementi. 15. a voler loro: a loro piacimento, secondo il loro gusto. 16. Casa: Giovanni Della Casa (1503-56) è

autore del manuale di belle maniere Galateo overo de’ costumi (scritto probabilmente dopo il 1551, ma pubblicato postumo nel 1558), che ebbe grande successo. 17. Firenzuola: scrittore toscano nato a Firenze nel 1493 e morto a Prato nel 1543. 18. buoni secoli: dal Tre al Cinquecento, in cui matura l’uso del volgare fiorentino come lingua letteraria. 19. porre … vestigia: seguire le loro tracce, le loro orme, imitandoli pedissequamente.

20. senza fallo: immancabilmente. 21. ragunarsene: radunarne, raccoglierne. 22. obsoleti: passati in disuso, non più usati normalmente. 23. indole o genio: carattere naturale. 24. barbuti patrassi: antichi precursori, antenati (espressione scherzosa, forse dal latino patres, “padri”). 25. rigiri: complicati giri di parole.

Analisi del testo

La naturalezza dello stile

Il grande orafo e scultore Benvenuto Cellini scrisse negli ultimi anni della sua vita un’autobiografia (la prima autobiografia moderna, potremmo dire, della nostra letteratura), che, rimasta inedita sino al 1728, ottenne dopo la pubblicazione un grande successo (ad apprezzarla fu, tra gli altri, Wolfgang Goethe). Le ragioni dell’apprezzamento sono in parte quelle che inducono qui Baretti a tesserne l’elogio, per la naturalezza di uno stile che si 365

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La sintassi della frase Non esistono regole

serva della lingua come espressione diretta del pensiero, senza cercare soluzioni difficili e complicate. Occorre semplicemente, viene a dire Baretti, seguire l’ordine normale nella successione dei membri del periodo, che prevede al primo posto il soggetto, seguito dal verbo e dai complementi. È questo l’insegnamento della «natura» e, su questa base, Baretti afferma la superiorità di Cellini, che, «quantunque ignorante e plebeo, pure fu da lei reso il meglio maestro di stile che s’abbia l’Italia» (rr. 27-28). Così, rispetto a quello di un illustre contemporaneo come Antonio Genovesi, lo stile «del Cellini è semplice, chiaro, veloce e animatissimo; e quello del Genovesi intralciato, languido, stiracchiato e scuro» (rr. 10-11). L’interesse di Baretti si sofferma unicamente sulla struttura sintattica della frase, considerata nelle sue componenti elementari; è a questo livello che non si devono imitare i classici, mentre essi possono ancora essere utili sul piano lessicale, come serbatoio di quelle parole di cui abbonda la lingua italiana. Anche qui, però, non ci sono regole e occorre seguire le proprie propensioni, quelle che ci suggerisce la natura, elevata a unico criterio di valore e di giudizio. Formulato in questi termini il discorso potrebbe sembrare semplicistico, se non fosse giustificato dalla perentoria idea di un richiamo a quella spontaneità che, qualche decennio più tardi, verrà rivendicata dagli scrittori del Romanticismo; obiettivo della polemica sono infatti «i retori balordi e i grammaticuzzi», coloro per i quali la forma imprigiona il pensiero, rendendolo contorto e oscuro.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. A quale tesi di Baretti funge da sostegno l’esempio costituito dalla prosa di Cellini? Rispondi in base al testo. AnALizzAre

> 2.

Stile Quali elementi del testo evidenziano l’intento da parte dell’autore di avere un rapporto diretto con il destinatario? Motiva la tua risposta. > 3. Lessico Quali espressioni non edificanti l’autore attribuisce ai «retori balordi» e ai «grammaticuzzi» (r. 24)? > 4. Perché l’autore parla di «nominativo», di «accusativo» e di «qualunque altro caso» (rr. 28-29) adottando una terminologia tipica della grammatica latina? Rispondi considerando la formazione culturale degli intellettuali del tempo.

Approfondire e inTerpreTAre

> 5.

Scrivere Come giustifichi, alla luce delle considerazioni scaturite dal brano analizzato, l’interesse di Baretti per Machiavelli, del quale curò l’edizione di tutte le opere? Nel rispondere in un testo di circa 15 righe (750 caratteri), considera l’atteggiamento nei confronti della tradizione e dei modelli del passato da parte degli illuministi italiani presenti in antologia.

per iL poTenziAmenTo

> 6. esporre oralmente L’esperienza del viaggio e del soggiorno in Paesi diversi da quello di origine caratterizza, oltre alla vita di Baretti, anche quella di altri intellettuali italiani e stranieri del suo tempo: quali? Nel rispondere oralmente (max 5 minuti), evidenzia l’importanza che tale elemento comune assume nell’ambito della cultura dell’età dei Lumi.

facciamo il punto 1. Quali aspetti tipici dell’Illuminismo si ritrovano nel giornalismo del Settecento? 2. Secondo Joseph Addison quali sono i compiti principali del giornalista? 3. Quali caratteristiche Pietro Verri attribuisce al “Caffè”, tanto da intitolare così la sua rivista? 4. Sintetizza le teorie di Alessandro Verri sulla lingua più adatta all’espressione giornalistica. 5. Secondo Alessandro Baretti, quali caratteristiche deve avere la lingua della prosa?

366

In sintesi

iL GiornALiSmo Verifica interattiva

Uno dei prodotti culturali più significativi della modernità è senza dubbio il giornale, che viene incontro ai bisogni di una pubblica opinione desiderosa di essere informata sui fatti della vita politica e culturale. Non a caso la fortuna del giornalismo inizia, nel Settecento, con la crescita dell’importanza della borghesia, che si avvia a diventare la classe egemone nella nuova realtà della società industriale. Per questo la funzione e lo statuto del giornale vengono a definirsi in Inghilterra, assumendo un ruolo preciso di controllo rispetto alla cosa pubblica, come bisogno di una partecipazione concreta da parte dei cittadini.

JoSeph AddiSon Sono le intenzioni espresse da Joseph Addison (16721719), che, nel dare vita a “The spectator” (“Lo spettatore”), modello a cui si ispireranno, anche in Italia, molte testate, delinea la figura del giornalista, uomo di cultura non accademica ma fondata sulla ricchezza delle esperienze maturate attraverso la conoscenza diretta. La molla che ne determina l’attività è quella della curiosità, che lo porta a osservare di nascosto i fatti e le passioni degli uomini per cogliere le notizie da comunicare senza lasciarsi condizionare da interessi di parte. L’equidistanza dai partiti e l’indipendenza di giudizio rendono il giornalista unicamente responsabile nei confronti dei suoi lettori.

pieTro Verri Alla funzione di controllo si accompagna una funzione propositiva, che fa del giornale lo strumento adatto per la diffusione delle idee progressiste. Con l’intento di diffondere i valori dell’Illuminismo, Pietro Verri – dopo aver dato vita all’Accademia dei Pugni – fa nascere a Milano “Il Caffè”, introducendone il programma con un discorso che presenta non pochi motivi di interesse. Il luogo in cui si gusta il caffè, bevanda energetica che proviene dall’Oriente (come orientale è il proprietario del locale), è aperto agli incontri e ai confronti, consentendo un’assoluta libertà di comportamenti. L’illuminazione, che brilla

nel buio della notte, è la metafora di quei “lumi” della ragione che consentono metaforicamente di vincere le tenebre della superstizione e dell’ignoranza. La possibilità di informarsi è garantita dai giornali che vi si trovano, nella prospettiva di quel cosmopolitismo che guarda con interesse anche a ciò che è diverso nelle altre civiltà.

ALeSSAndro Verri Il fratello minore di Pietro Verri, Alessandro (1741-1816), partecipò alla fondazione dell’Accademia dei Pugni e del “Caffè”, sul quale pubblicò una trentina di articoli. Particolare importanza ebbe quello intitolato Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca, in cui interviene nella questione della lingua in aperta polemica nei confronti delle concezioni puristiche e a difesa della lingua dell’uso, che deve farsi strumento di comunicazione immediato, senza fronzoli retorici che ne complichino il messaggio (di qui la proposta di accogliere anche le parole straniere italianizzate). Queste posizioni, legate alle fiducie illuministiche della giovinezza, verranno poi smentite nell’età matura, nei romanzi da lui scritti con uno stile classicistico ampolloso e ridondante.

GiUSeppe BAreTTi Il torinese Giuseppe Baretti (1719-89) fondò nel 1763 una rivista quindicinale, “La frusta letteraria”, in cui, fin dalla scelta del titolo, manifestava l’intenzione di combattere contro le cattive abitudini dei letterati. Queste, secondo il suo giudizio, consistevano soprattutto nell’esercizio retorico di uno stile ritenuto artefatto e innaturale, non solo per la scelta delle parole, ma per la stessa costruzione sintattica, resa complicata e contorta. Allo stile dei contemporanei egli anteponeva così quello della cinquecentesca Vita di Benvenuto Cellini, in cui l’ordine delle parole assecondava lo sviluppo naturale del pensiero. Instancabile viaggiatore, Baretti ha rappresentato la figura tipicamente illuministica dell’intellettuale cosmopolita, scegliendo non a caso Londra, la città più libera d’Europa, come patria ideale della sua esistenza.

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Capitolo 6

Il romanzo inglese

Defoe

Swift

Le pagine che abbiamo scelto per esemplificare alcuni modi e caratteri della storia del romanzo inglese nel secolo XVIII rivelano una loro particolare vitalità, aperta verso le prospettive future di questo genere letterario, sul piano delle forme e su quello dei contenuti. I testi di Daniel Defoe ( A2, p. 373), che fu insieme commerciante intraprendente e avventuriero, rivelano aspetti fondamentali della concezione della realtà tipica della borghesia, sia per quanto riguarda il significato del matrimonio come cardine dell’istituto familiare (Moll Flanders, T3, p. 378), sia per l’idea dell’individuo che sa costruirsi il proprio destino, dando origine a quello che sarà il mito del self-made man, dell’uomo che si è fatto da sé (Robinson Crusoe, T2, p. 374). Una sorta di favola allegorica, condotta sul registro del fantastico, sono I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift ( A1, p. 369), che, mutando in maniera straniante le proporzioni del

Visualizzare i concetti

I caratteri del romanzo inglese del Settecento preCedenti Letterari

ConteSto di produzione

autori

pubbLiCo

Linguaggio

FinaLità

temi

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Il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes

L’Inghilterra del Settecento, caratterizzata da un grande dinamismo economico e dalla presenza di una forte borghesia, che affida all’intellettuale il compito di elaborare modelli culturali ed etici coerenti con i nuovi princìpi dell’Illuminismo Intellettuali fortemente integrati nella società civile e impegnati in attività pubbliche come il giornalismo, la politica, la magistratura Il vasto pubblico rappresentato dal “popolo” della borghesia Linguaggio accessibile a un pubblico di media cultura, vicino a quello realmente parlato dalla borghesia Rappresentare la realtà per migliorarla, sottoponendo i costumi contemporanei a un’analisi critica e veicolando valori morali ispirati alla solidarietà e all’onestà Temi legati alla visione della realtà, all’etica e ai rapporti sociali

intreCCi e ambientazioni

Intrecci avventurosi, in grado di avvincere il vasto pubblico. Ambientazioni e vicende verosimili e realistiche, ispirate spesso a fatti di cronaca; fanno eccezione I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, la cui ambientazione fantastica e allegorica rinvia comunque alla concreta realtà contemporanea

narratori

Accanto alla forma tradizionale del racconto svolto da un narratore esterno onnisciente compare in alcuni romanzi la narrazione di tipo autodiegetico

Capitolo 6 · Il romanzo inglese

Richardson

Sterne

Le forme

A1 I viaggi di Gulliver: una satira feroce

Testi Swift Gulliver tra i Lillipuziani • Gulliver tra i saggi Cavalli e i bestiali «yahoo» da I viaggi di Gulliver •

reale, rivelano la necessità di sapersi districare fra diverse prospettive di valutazione e di giudizio. In Clarissa, di Samuel Richardson ( A3, p. 380) si è potuto vedere l’archetipo, il modello del “romanzo della seduzione”, in cui la protagonista, una povera fanciulla del popolo pura e innocente, viene insidiata da un aristocratico libertino, Lovelace, che esercita nei suoi confronti la violenza che gli è consentita dal potere della classe nobiliare a cui appartiene (non diversa sarà la situazione dei Promessi sposi, anche se Don Rodrigo, a differenza di Lovelace, non riuscirà nell’intento). Modelli del genere umoristico sono i romanzi di Laurence Sterne ( A4, p. 385), in cui le digressioni prevalgono nettamente sulla trama, ridotta a pretesto di commenti e impressioni, che si susseguono sotto forma di una continua divagazione. Anche le forme usate introducono delle tipologie che influiranno sugli sviluppi della narrativa successiva, venendo a identificare dei sottogeneri precisi: dal romanzo realistico, che attinge dalla cronaca o dalla storia la materia del racconto, soffermandosi sulle relazioni fra i personaggi e la società, al romanzo fantastico, le cui situazioni si sviluppano in un mondo inverosimile e irreale; dalla forma epistolare, nella quale la trama si ricava dalle lettere che si scambiano i protagonisti e che più direttamente sembrano rivelare con maggior immediatezza i più riposti segreti dell’animo umano, alla struttura umoristica delle opere sterniane, che seguono percorsi imprevedibili e bizzarri.

Jonathan Swift La vita e le opere Nato a Dublino, in Irlanda, nel 1667, da genitori inglesi, si stabilì poi a Londra, dove prese gli ordini religiosi e partecipò attivamente alla vita politica e culturale, rivelando, in alcuni pamphlets, doti non comuni di polemista. Tornato a Dublino nel 1714, difese i diritti degli irlandesi contro l’oppressione esercitata nei loro confronti dall’Inghilterra, prima che iniziasse quel processo di decadenza fisica e di alienazione mentale che tormentò gli ultimi anni della sua vita. Il suo pensiero è comunque caratterizzato da un profondo pessimismo sulla natura dell’uomo, che si osserva anche nella sua opera più nota, I viaggi di Gulliver, scritti nel 1713 e pubblicati nel 1726 ( T1, p. 370). Il romanzo è costruito come una serie di viaggi affrontati dal protagonista, che viene a contatto con realtà di mondi non solo imprevisti ma del tutto irreali, che mettono alla prova l’identità dell’individuo, nel senso che questi non è più la misura delle cose, ma si trova immerso in situazioni in cui le proporzioni dei rapporti appaiono alterate e stravolte. Nel loro impianto insieme avventuroso e fantastico, I viaggi di Gulliver sono un romanzo allegorico che, anche attraverso il continuo ribaltamento delle prospettive, mette in discussione le certezze e i facili ottimismi della società contemporanea, di cui, demistificando le mode e le convinzioni, si denunciano ferocemente le storture e i pregiudizi.

Sawrey Gilpin, Gulliver prende congedo dalla terra degli Houyhnhnms, 1769, olio su tela, Yale (USA), Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Proprio eliminando questa fondamentale componente riflessiva e ideologica, la riduzione dell’opera, spesso limitata alle due prime parti, ha avuto una straordinaria fortuna come libro per ragazzi, grazie all’avvincente varietà degli elementi fantastici e meravigliosi. Ma ciò nulla toglie al fatto che l’opera, nella sua forma originale, si presenti con la forza corrosiva di una tremenda critica sociale.

T1

Jonathan Swift

temi chiave

relatività delle esperienze umane

• l’inversione dei punti di vista • la relatività dei giudizi • le influenze dell’ambiente

sull’evoluzione dell’individuo

da I viaggi di Gulliver, parte II Dopo aver fatto naufragio Gulliver si trova nella terra dei “giganti”, dove viene raccolto in un campo di grano da un contadino, che lo porta a casa con sé dalla sua famiglia. Le esperienze vissute da Gulliver, a contatto con le opposte realtà dei Lillipuziani e dei “giganti”, lo inducono a sviluppare interessanti considerazioni sulla percezione delle cose e sulla natura delle conoscenze umane.

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Sul finire del pranzo, entrò una balia con un bambino di un anno in braccio, il quale mi scorse immediatamente, e per avermi come giocattolo cominciò, secondo la consueta eloquenza1 dei bambini, a strillare così forte, che lo si sarebbe potuto udire dal London-Bridge a Chelsea2. La madre per compiacergli mi sollevò e accostò al bimbo, il quale subito mi afferrò per la vita e si portò la mia testa in bocca; ma, una volta in essa, diedi un urlo tale che il piccino fu spaventato e mi lasciò cadere; ed io mi sarei infallibilmente rotto il collo se la madre non avesse tenuto aperto il grembiule sotto di me. La balia per chetare il bimbo si valse d’un sonaglio3, una specie di recipiente pieno di grosse pietre e legato con una gomena4 alla cintola del bambino: ma fu tutto inutile, talché la donna fu costretta ad adoperare l’estremo rimedio: attaccarselo al petto. Confesso che nulla mai mi fece più schifo di quelle mostruose poppe, che non saprei a che cosa paragonare per consentire al lettore di formarsi un’idea della loro mole, forma,

1. eloquenza: qua nel senso di capacità di persuasione, che i bambini esercitano attraverso il pianto e il lamento. 2. dal London-Bridge a Chelsea: dal famo-

so ponte sul Tamigi sino al quartiere di Chelsea, dalla parte opposta della città. 3. sonaglio: oggetto che produce suoni. 4. gomena: fune, corda di grandi dimensio-

ni, usata di solito per l’attracco, l’ormeggio delle navi (così appare a Gulliver quella che è una semplice cordicella).

L’opera

i viaggi di gulliver di Jonathan Swift Approdato per un naufragio sull’Isola di Lilliput, dove tutto è ridotto a un dodicesimo delle dimensioni a cui siamo abituati, Gulliver diventa un eroe nazionale ma, accusato di tradimento, è costretto a fuggire. Giungerà poi in un paese dove le posizioni, risultando inversamente proporzionali, lo trasformano in un nano che vive in mezzo a dei giganti. Un nuovo viaggio lo condurrà in un’isola fluttuante abitata da scienziati e inventori, espressione di un’astratta razionalità che non riesce a controllare la realtà, mentre i grandi uomini del passato gli appariranno privi di ogni dignità e rispettabilità, così come l’attaccamento alla vita verrà disprezzato nel mondo degli “Immortali”, ai quali

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non è consentito né di morire né di conservare l’eterna giovinezza. Finirà infine nel paese degli yahoo, esseri mostruosi e brutali, simili agli uomini, dominati dagli intelligenti e saggi “Cavalli”, sostenitori di un società caratterizzata da un ideale di giustizia e di pace. Discorrendo con loro, Gulliver sente ribadire l’insensatezza dei valori e dei comportamenti dell’umanità (c’è, tra l’altro, la condanna dell’assurdità della guerra), che corrisponde alla concezione radicalmente pessimistica e negativa dell’autore, nei confronti della società e di tutte le sue istituzioni. Tornato in patria, disgustato anche dalla famiglia, trascorrerà i suoi giorni in una stalla, a parlare con i cavalli.

Capitolo 6 · Il romanzo inglese

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colore. Sporgevano sei piedi5, e la loro circonferenza ne misurava almeno sedici. Un capezzolo era press’a poco la metà della mia testa, e capezzoli e mammelle erano screziati6 di tante macchie, pustole e lentiggini, che nulla poteva vedersi di più nauseabondo. Avevo agio7 di osservarla da vicino, ché s’era messa a sedere per potere più comodamente allattare, mentre io ero sulla tavola ritto in piedi. Questo mi fece pensare alle belle carnagioni delle nostre signore inglesi, le quali ci sembrano così formose8 solo perché hanno la stessa nostra dimensione, e i difetti della loro pelle non si possono vedere se non con una lente d’ingrandimento; la quale poi, infatti, ci rivela che l’epidermide più liscia e più candida è, in realtà, scabra9, ruvida e di brutto colore. Mi ricordo che, quando ero a Lilliput, la carnagione di quei minuscoli esseri mi sembrava la più bella del mondo; e parlando intorno a questo argomento con un dotto del paese, mio intimo amico, mi sentii dire che il mio volto appariva più bello e più liscio quando egli mi guardava dal suolo che non quando poteva prenderne visione da vicino tutte le volte che lo sollevavo e reggevo sulla mia mano e me lo accostavo alla faccia. Questa allora, egli confessava, appariva, le prime volte almeno, proprio ripugnante. Aggiungeva che era in grado di scoprire grossi fori nella mia pelle; che gli sterpi10 della mia barba erano dieci volte più forti delle setole di un cinghiale; che la mia carnagione era di colori diversi, tutti assolutamente sgradevoli. Eppure, modestia a parte, ho lo stesso bello incarnato11 della massima parte dei miei connazionali e, nonostante i molti viaggi, sono assai poco abbronzato12. D’altra parte, a proposito delle dame di corte lillipuziane, quell’amico mi diceva che una aveva una pelle lentigginosa, un’altra la bocca troppo larga, una terza il naso troppo grosso; tutti difetti che io non ero capace di scernere13. Confesso14 che queste mie riflessioni sono di per loro evidenti; eppure ho dovuto farle per evitare che il lettore avesse a credere realmente deformi quelle enormi creature: anzi, per rendere loro giustizia, debbo dire che sono una razza avvenente: segnatamente15 le linee del volto del mio padrone, nonostante fosse un semplice campagnuolo, quando le osservavo dall’altezza di sessanta piedi, apparivano assai bene proporzionate. J. Swift, Opere, a cura e trad. it. di M. D’Amico, Mondadori, Milano 1983

5. piedi: il piede è l’unità di misura anglosassone che corrisponde alla terza parte circa di un metro. 6. screziati: cosparsi, in modo da creare effetti variopinti. 7. agio: comodità. 8. formose: belle (latinismo). 9. scabra: irregolare al tatto, ruvida. 10. sterpi: peli (che apparivano come sterpi, arbusti rinsecchiti).

11. incarnato: colorito. 12. sono … abbronzato: in passato l’essere abbronzati era considerato poco fine, in quanto l’abbronzatura apparteneva ai contadini e a chi lavorava all’aperto. 13. scernere: distinguere. 14. Confesso: riconosco, ammetto. 15. segnatamente: in modo particolare.

Gulliver a Brobdingnag fa un esercizio con una pagliuzza, cromolitografia su disegno di Frédéric Théodore Lix (1830-1897), tratta da Voyages de Gulliver, Garnier Frères, Parigi 1924.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo La duplice esperienza di Gulliver

Il rovesciamento delle prospettive

Il passo congiunge i due momenti – antitetici ma complementari – dell’esperienza di Gulliver, che si trova adesso nel paese dei “giganti”, creature smisurate al punto che la sua testa può entrare nella bocca di un bambino di un anno e tutto il corpo cadere poi a precipizio nel grembiule aperto della madre. Il seno della donna, che allatta il bimbo, produce nel protagonista un’impressione disgustosa, per la sua dimensione mostruosamente enorme, ma soprattutto per le imperfezioni e i difetti che, osservati così da vicino, deturpano la pelle. Sorge spontaneo il confronto con la pelle liscia e bella delle «signore inglesi» (r. 18), che non regge tuttavia a una successiva considerazione, quella secondo cui «una lente di ingrandimento» rivelerebbe che «l’epidermide più liscia e più candida è, in realtà, scabra, ruvida e di brutto colore» (rr. 20-21). La risposta viene dal ricordo di quando Gulliver si trovava a Lilliput, dove le proporzioni apparivano capovolte: era lui, in quel caso, a essere oggetto di un’osservazione straniata, mentre i Lillipuziani, che fra di loro distinguevano benissimo le differenze dell’aspetto, gli sembravano tutti uguali. Il discorso riguarda il punto di vista dal quale la realtà può essere osservata, quel considerare le questioni sotto diversi aspetti che deve indurre alla cautela e a non pronunciare giudizi affrettati. L’idea che le cose possono essere viste, per così dire, da vicino e da lontano può indurre a una riflessione sul carattere relativo delle conoscenze umane, che conduce il lettore, nelle ultime righe, a un’idea già illuministica di tolleranza, o meglio a un’accettazione delle diversità, dal momento che non ci sono creature «realmente deformi» (r. 36), emarginate o condannate perché diverse, lontane dalla nostra mentalità e dai nostri costumi.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. In quale occasione al protagonista tornano alla mente le «belle carnagioni delle […] signore inglesi» (r. 18) sue conterranee? > 2. Per quale motivo Gulliver appare ripugnante al suo dotto amico lillipuziano? > 3. Quali difetti ravvisa il lillipuziano nelle dame della propria corte? Come appaiono invece a Gulliver? anaLizzare

> 4. Individua i passi in cui si fa riferimento in modo diretto al lettore e spiega quale atteggiamento assume l’au-

tore nei confronti del suo pubblico. > 5. Quali aspetti del testo provocano il sorriso del lettore? Quali sono i procedimenti comici impiegati? > 6. Stile A proposito del bimbo che piange e urla, Swift scrive che «lo si sarebbe potuto udire dal London Bridge a Chelsea» (rr. 3-4): quale figura rintracci nell’espressione? approFondire e interpretare

> 7.

Scrivere A partire dal brano letto sottolinea e rifletti sulla componente fantastica e la dimensione ironica e demistificante del romanzo in un testo di circa 10 righe (500 caratteri). > 8. esporre oralmente L’ironia dell’autore si sofferma a considerare le fattezze umane attraverso un punto di vista che appare continuamente “rovesciato”: quali luoghi comuni vengono messi in crisi nel brano? Rispondi oralmente (max 3 minuti).

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Capitolo 6 · Il romanzo inglese

A2 Un’esistenza avventurosa

L’attività giornalistica

La peste di Londra

Robinson Crusoe

Testi Defoe • Come salvai la pelle da Robinson Crusoe

Moll Flanders

Testi Defoe • I miei due (o tre) mariti da Moll Flanders

Altri romanzi

daniel defoe Nato a Londra nel 1660, Defoe condusse un’esistenza particolarmente movimentata e avventurosa, che lo vide impegnato in diverse occupazioni e mestieri: avviato alla carriera ecclesiastica, la abbandonò ben presto per dedicarsi al commercio, viaggiando in tutta Europa, prima di fare bancarotta; riuscì a risollevarsi impiantando una fabbrica di mattoni, che andò in rovina a causa della condanna alla gogna che gli fu inflitta per aver pubblicato un opuscolo politico infamante (scrisse, per l’occasione, l’Inno alla gogna); destreggiandosi, anche con le armi della diffamazione e del ricatto, ora pro ora contro i due partiti dei conservatori e dei progressisti, fu giornalista e collaborò a ventisei testate, oltre a fondare (1704) e dirigere la “Review” (“Rivista”), che redasse per nove anni pressoché da solo. Sono oltre cinquecento le pubblicazioni da lui composte, fra cui soprattutto scritti di argomento politico, sociale ed economico. La morte lo raggiunse nel 1731 in una camera d’affitto, dove si era rifugiato per sfuggire ai creditori.

La vita

Tra le opere più significative è da ricordare il Diario dell’anno della peste (1722) più noto con il titolo La peste di Londra, potente rappresentazione dell’epidemia che colpì la capitale inglese nel 1664-65. Ma la sua fama è soprattutto legata all’attività di romanziere, che ne fa il più accreditato precursore della grande fortuna del romanzo realistico borghese. Al fatto di cronaca di un marinaio inglese che, unico sopravvissuto a un naufragio, rimase per anni su un’isola deserta al largo delle coste sudamericane è ispirato il Robinson Crusoe (1719). Riprendendo questo spunto iniziale, Defoe dà vita a un protagonista la cui vicenda diventa rappresentativa della condizione e delle aspirazioni dell’uomo contemporaneo, che, grazie alle virtù della sagacia e dell’intraprendenza, sa costruire le ragioni della propria fortuna. Naufragato anch’egli su un’isola, Robinson raccoglie dal relitto della nave, prima che questa si inabissi, ciò che può essergli utile per realizzare quelle essenziali condizioni di vita che gli consentiranno di ripristinare, alla base, quei valori del lavoro, della sicurezza personale e della proprietà ( T2, p. 374), che costituiscono i capisaldi simbolici dell’economia e dell’etica borghesi. Di qui il significato emblematico che assume la vicenda, in cui non mancano elementi di ambiguità: il rapporto con un selvaggio, chiamato Venerdì, che il protagonista libererà dai cannibali, facendone insieme il servitore e l’allievo fedele, può infatti suggerire un rimando a quel motivo del colonialismo che consiste nel dominio dei bianchi sugli indigeni (non si dimentichi allora che, sulla nave naufragata, Robinson si stava recando ad acquistare degli schiavi da utilizzare nella sua azienda). Se Robinson Crusoe ci mostra alcune delle molle che caratterizzano, alla base, i princìpi dell’ideologia borghese, la protagonista di Moll Flanders (1722), prototipo del romanzo di costumi contemporaneo, rappresenta una spregiudicatezza che reagisce all’inferiorità della condizione femminile con un comportamento che non conosce scrupoli e ostacoli ( T3, p. 378). Altri romanzi sono Il capitano Singleton (1720) e, soprattutto degno di nota, Rossana, o l’amante fortunata (1724), la cui protagonista, abbandonata dal marito, si lascia andare a una vita dissoluta e criminale che rompe decisamente i ponti con le regole della vita civile; si pentirà alla fine, anche se il suo pentimento non cancella le suggestioni di quel mondo di avventurieri e di malfattori che Defoe ben conosceva. Le opere

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

T2

daniel defoe

temi chiave

il significato della casa da Robinson Crusoe

• il valore di una casa • la vittoria della ragione sul caso • il self-made man

Dopo essere naufragato su un’isola deserta e avere asportato dalla nave tutti gli attrezzi che potevano essergli utili, Robinson provvede a costruirsi un’abitazione, che gli assicuri qualche comodità e lo ponga al riparo dai pericoli.

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Tutti i miei pensieri erano ora rivolti a mettermi al sicuro dai selvaggi (se ne fossero comparsi) o dalle bestie feroci, se ce n’erano nell’isola; e riflettei a lungo sul come riuscirvi, e sul tipo di abitazione da costruire, se scavare una grotta nel terreno, o fabbricarmi una baracca; e, a farla breve, decisi di fare l’una e l’altra e forse sarà opportuno darne una descrizione. Mi accorsi ben presto che il luogo in cui mi trovavo non era adatto a una abitazione, specialmente perché era un terreno basso e paludoso, vicino al mare e mi pareva poco salubre, e, soprattutto, perché non c’era acqua dolce nelle vicinanze: per cui, decisi di cercare un punto più sano e più conveniente. Pensai a parecchie cose che, nella mia situazione, mi avrebbero fatto comodo: primo, posizione salubre e acqua dolce, come ho detto or ora; secondo, riparo dal calore del sole; terzo, protezione da animali famelici1, bestie o uomini che fossero; quarto, vista sul mare, perché, nel caso che Dio mi avesse mandato una nave di passaggio, non avrei voluto lasciarmi sfuggire l’occasione di mettermi in salvo; speranza a cui non volevo ancora rinunciare. Cercando il luogo adatto, trovai un piccolo ripiano sul fianco di un colle; da quel piccolo ripiano, si levava una parete scoscesa e diritta come il muro di una casa, per cui nessuno avrebbe potuto darmi addosso dalla vetta; da un lato di quella parete di roccia, c’era una cavità rientrante come una porta o l’ingresso di una grotta; ma, in realtà, non era né una grotta né un passaggio nella roccia. Sul lato pianeggiante, proprio davanti a quella cavità, decisi di piantare la tenda.

1. famelici: affamati.

L’opera

robinson Crusoe di Daniel Defoe Figlio di un ricco commerciante, il protagonista fugge di casa e, a diciannove anni, s’imbarca (nel 1651) in cerca di avventure. Il destino lo accontenta: a seguito di un primo naufragio è catturato da un pirata turco; riesce a liberarsi dopo due anni di prigionia. In Brasile fa fortuna come piantatore. Durante la traversata verso la Guinea, dove intende comprar schiavi per l’azienda (affidata, in sua assenza, a un socio) la nave naufraga; Robinson, unico superstite, trova riparo su un’isoletta deserta alle foci dell’Orinoco. Con gli attrezzi e i materiali recuperati dal relitto e una buona dose d’ingegno e forza d’animo, Robinson si procura i mezzi per la sussistenza: la capanna, la palizzata difensiva, il recinto per l’allevamento degli animali domestici e il campo in cui semina i pochi chicchi di frumento ritrovati sul relitto. La prolungata solitudine favorisce profonde me-

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ditazioni religiose sul significato della vita che egli annota su un diario. Robinson raggiunge negli anni una sostanziale serenità, violata all’improvviso dalla comparsa di orme umane sulla spiaggia. Entra due volte in contatto con cannibali che minacciano la sua sicurezza; al secondo incontro (è il 1685), riesce a strappare loro un giovane selvaggio che essi intendevano uccidere. L’uomo, battezzato col nome di Venerdì, diviene suo schiavo, allievo e amico. L’anno successivo, una nave approda sull’isola: tre ufficiali vengono sbarcati dai marinai ammutinati. Robinson li aiuta a riconquistare il controllo della nave. Rientrato a Lisbona, dopo ventisette anni di permanenza sull’isola, scopre di esser ricco grazie all’abilità e all’onestà del socio a cui aveva affidato l’azienda. Ritorna alcuni anni più tardi sull’isola per impiantarvi una popolosa colonia.

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[…] Portai nella tenda tutte le provviste e tutto quello che si sarebbe potuto guastare con l’umidità e quindi, avendo messo al coperto tutte le mie proprietà, chiusi l’ingresso che era stato aperto fino allora e in seguito passai e ripassai sempre, come ho detto, dalla scaletta. Fatto questo, cominciai a scavare la roccia e, trasportando tutta la terra e le pietre scavate attraverso la tenda, le ammucchiai al di qua della palizzata, a mo’ di terrapieno2, in modo da rialzare il livello del terreno di un piede3 e mezzo, e così, dietro la tenda, mi feci una grotta, che serviva da cantina alla mia casa. […] Sistemata ormai la mia dimora, mi accorsi che era assolutamente necessario trovare un posto dove accendere il fuoco e procurarmi del combustibile; a suo tempo e luogo racconterò per filo e per segno come provvidi a questo e anche come ingrandii la grotta e quali perfezionamenti vi aggiunsi. Ma prima bisogna che parli un po’ di me e dei miei pensieri sulla vita che, come potete immaginare, non erano pochi. […] Cominciai quindi seriamente a esaminare la mia situazione e lo stato in cui ero ridotto; e misi per iscritto il riassunto della mia posizione, non tanto per lasciarlo a chi sarebbe venuto dopo di me, perché non c’erano molte probabilità ch’io avessi degli eredi, quanto per liberare la mia mente dal pensiero ossessionante che la opprimeva; e, poiché la ragione cominciava a essere padrona del mio scoraggiamento, cercai di consolarmi alla meglio, opponendo il bene al male, per poter distinguere il mio caso da altri peggiori; e trascrissi con molta imparzialità, come il dare e l’avere in un libro mastro4, le consolazioni di cui godevo, di fronte alle miserie che soffrivo, nella maniera seguente. MALE Mi trovo gettato su un’orribile isola deserta, privo di qualsiasi speranza di salvezza:

BENE Ma sono vivo, invece di essere morto annegato, come tutto l’equipaggio della nave.

Sono stato diviso dal mondo intero e prescelto, per così dire, per una vita di infelicità.

Ma sono anche stato prescelto fra l’equipaggio della nave per essere salvato dalla morte e Colui5 che miracolosamente mi ha salvato dalla morte può anche liberarmi da questo stato. 2. terrapieno: accumulo di terreno. 3. piede: unità di misura che corrisponde circa alla terza parte di un metro. 4. libro mastro: è un registro di contabilità dove sono riportate due colonne, una del “dare” e una dell’“avere”. 5. Colui: Dio.

Robinson Crusoe costruisce la sua prima capanna, cromolitografia di E. Guillon, Collezione privata.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Sono separato dall’umanità, solitario, bandito dalla società dei miei simili.

Ma non mi trovo, morente di fame, in un luogo sterile che non mi offra nessuna possibilità di nutrimento.

Non ho vesti per coprirmi.

Ma vivo in un clima caldo, e, se anche avessi abiti, non li potrei portare.

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Sono indifeso e non ho mezzi per resistere agli attacchi degli uomini e delle bestie.

Ma sono stato gettato in un’isola dove non vedo bestie feroci che mi possano fare del male, come vidi sulla costa dell’Africa; che sarebbe di me se avessi fatto naufragio su quelle coste?

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Non c’è un’anima con cui possa parlare e che mi possa confortare.

Ma Dio, miracolosamente, ha mandato vicino a riva la nave, da cui ho potuto ricavare tutto il necessario per i miei bisogni e tutto ciò che mi aiuterà a supplirvi6 finché vivrò.

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Ho già detto come portassi tutti i miei beni entro il recinto e nella grotta che avevo scavato alle mie spalle. Ma debbo anche dire che, sulle prime, non era che un mucchio di oggetti alla rinfusa, e siccome erano in disordine, occupavano tutto lo spazio disponibile; e non avevo nemmeno il posto per rigirarmi; perciò, mi misi a ingrandire la grotta e a estendere gli scavi; era una qualità di terreno friabile e sabbioso che si prestava bene al lavoro […]. Così […] mi trovai ad avere […] abbastanza spazio per mettere le mie provviste. Poi mi accinsi a fabbricare alcuni oggetti di prima necessità di cui sentivo di più la mancanza: specialmente una seggiola e un tavolo; senza i quali non avrei potuto godere quei pochi comodi che avevo al mondo; senza un tavolo, non potevo scrivere o mangiare o fare diverse altre cose con piacere. Perciò mi misi al lavoro; e qui debbo osservare che, come la ragione è la sostanza e l’origine della matematica, così, definendo e calcolando tutto con la ragione, e giudicando le cose nel modo più conforme alla logica, chiunque può, col tempo, diventare padrone di qualunque mestiere. Non avevo mai preso in mano un arnese in vita mia, eppure, col tempo, con la fatica, con l’ingegnosità e con la diligenza, mi accorsi che non c’era nulla di cui avessi bisogno che non avrei potuto fare. […] Comunque, riuscii a fabbricarmi una seggiola e un tavolo, prima di tutto, come ho già detto, e lo feci con i pezzi di tavola più corti che avevo portato sulla zattera dalla nave. Ma dopo aver fabbricato qualche asse, col sistema descritto poco fa, feci delle grandi scaffalature della larghezza di un piede e mezzo e le misi una sull’altra per tutta la lunghezza della grotta, per mettervi tutti i miei utensili, chiodi e ferramenta; in una parola, per mettere al suo posto, divisa e lontana dal resto, in modo da poterci arrivare facilmente; e piantai nella parete di roccia dei pioli di legno per appendervi i fucili e tutto quello che poteva stare appeso. A chi l’avesse potuta vedere, la mia grotta sarebbe parsa un emporio di tutte le cose necessarie; avevo tutto a portata di mano ed era per me un gran piacere vedere tutti i miei beni in bell’ordine e constatare che le mie scorte erano così abbondanti. D. Defoe, Robinson Crusoe, trad. it. di O. Previtali, Oscar Mondadori, Milano 2003

6. supplirvi: provvedervi.

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Capitolo 6 · Il romanzo inglese

Analisi del testo

Il simbolo della casa

L’ideale borghese

Fortunato nella sventura, Robinson si accinge a vivere un’esperienza che acquista, per la sua doppia valenza, un valore altamente emblematico. La sua può essere considerata una morte civile, da cui nasce, tuttavia, quello che potremmo definire il mito di una rifondazione. Il punto di partenza è rappresentato dal pensiero della casa, di cui Robinson inizia la costruzione, calcolando con precisione le misure e la funzionalità, soprattutto l’efficienza nel proteggere dai pericoli. È la rivincita della razionalità contro l’ostilità della sorte, e non è un caso se proprio la casa, sebbene costruita in maniera rudimentale su un’isola disabitata e remota, sia il simbolo più concreto e tangibile, destinato ad avere una ininterrotta fortuna narrativa, dei valori del mondo borghese: la casa come sede degli affetti familiari, come protezione e riparo, come nucleo sociale ed economico, ma anche come chiusura egoistica, gelosa custode della proprietà e del patrimonio. È evidente che la complessità di questi significati non è ancora riconoscibile nell’opera di Defoe; si tratta, qui, di un inizio, che tuttavia presenta il valore di un archetipo, di una sorta di modello capace di portare la civiltà in mezzo alla natura incontaminata e selvaggia. La soluzione è opposta a quella auspicata da Rousseau ( cap. 3, T8, p. 329), secondo cui l’uomo viene corrotto dalla società in cui vive. Robinson, al contrario, rappresenta l’ideale dell’uomo borghese, con la sua intraprendenza, le sue capacità costruttive e organizzative; incarna l’ideale del self-made man, dell’uomo che sa farsi da sé e realizzare i suoi progetti, superando gli ostacoli con l’energia e la costanza. In questo senso va considerato anche il motivo della ragione, che induce il protagonista a tracciare un lucido bilancio della sua esperienza; un bilancio al quale non è estranea la pratica commerciale del registro dei conti, in cui sono segnate le entrate e le uscite («come il dare e l’avere in un libro mastro», r. 39). Non stupisce quindi che il richiamo alla ragione si accompagni alla soddisfazione per l’«ordine» e l’“abbondanza” (r. 9).

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Da quali elementi Robinson deduce che il luogo in cui si trova non è adatto ad un’abitazione? > 2. Quali caratteristiche, secondo il naufrago, deve possedere il luogo in cui costruire la sua casa? > 3. Perché Robinson decide di mettere per iscritto la sua esperienza? AnAlizzAre

> 4.

Stile Spiega la seguente similitudine utilizzata da Robinson che, in riferimento alla valutazione dei suoi casi, afferma di averli considerati «come il dare e l’avere in un libro mastro» (r. 39). > 5. lingua Analizza le righe 1-9, evidenziando la struttura argomentativa del testo: prevale la paratassi o l’ipotassi?

Approfondire e interpretAre

> 6.

Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) soffermati a considerare e descrivi il rapporto tra l’uomo e la natura che emerge dalla lettura del brano e dal romanzo. pASSAto e preSente la possibilità di padroneggiare ogni mestiere

> 7. Ti senti di sottoscrivere, oggi, ciò che afferma Robinson nel brano quando scrive: «come la ragione è la so-

stanza e l’origine della matematica, così, definendo e calcolando tutto con la ragione, e giudicando le cose nel modo più conforme alla logica, chiunque può, col tempo, diventare padrone di qualunque mestiere» (rr. 74-77)? Commenta l’affermazione in un dibattito in classe con il docente e i compagni.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

T3

daniel defoe

amore e matrimonio da Moll Flanders

temi chiave

• l’avidità di guadagno della borghesia • il matrimonio considerato come un contratto

Ladra e prostituta, diventata moglie del proprietario di una piantagione in Virginia (compare qui il mito della colonizzazione), poi deportata come criminale e ancora incarcerata, Moll Flanders cerca soprattutto la sua realizzazione in un matrimonio che ne soddisfi le aspirazioni, assicurandole la sicurezza economica e il riconoscimento di una stabile promozione sociale. Il brano che segue sviluppa, dal punto di vista femminile, alcune considerazioni in proposito.

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A lui bastò ottenerla in moglie. Quanto a quel che lei1 possedeva, lei gli disse chiaro che, come lui conosceva la sua condizione, così era giusto che lei conoscesse quella di lui; e benchè fino a quel momento lui fosse della condizione di lei informato soltanto per sentito dire, tuttavia le aveva fatto così appassionate dichiarazioni che non poteva domandarle altro che la sua mano, e tutto il resto si sarebbe aggiustato come si usa fra gente che si ama. Insomma, lui non potè trovar modo di farle più nemmeno una domanda sul suo patrimonio, e lei di questo si giovò accortamente, poiché investì parte di quel che aveva, senza dirne niente a lui, in titoli, sui quali lui non poteva metter mano, e si limitò a farlo più che contento con il resto. La verità è che lei stava molto bene, in fondo. Aveva, cioè, circa millequattrocento sterline in contanti, che dette a lui. Tutto l’altro lo tirò fuori dopo qualche tempo, come un suo provento personale, e lui dovette accettar la cosa come un grandissimo favore, perché quel denaro, se pure non poteva mettervi sopra le mani, serviva però ad alleviargli il peso delle spese personali di lei. Devo aggiungere che, grazie a quel sistema, quel signore non solo diventò il più umile dei corteggiatori, prima del matrimonio, ma anche il più devoto dei mariti, dopo. Non posso qui far altro che mettere in guardia le donne di collocarsi al di sotto del normale stato di moglie, che è già di per sé, mi si consenta di ammetterlo, piuttosto basso; in guardia, voglio dire, dal collocarsi al di sotto del proprio stato e preparare le future umiliazioni accettando in anticipo di essere offese dagli uomini, cosa di cui confesso che non vedo la necessità. Questo racconto può servire, dunque, a far capire alle donne che il vantaggio non è tutto dall’altra parte, come pensano gli uomini. È vero che gli uomini non hanno rispetto a noi che l’imbarazzo della scelta, è vero che certe donne si avviliscono, si danno per nulla, sono una conquista facilissima e non sanno nemmeno aspettare di essere chieste; ma se l’uomo trova una moglie che per così dire, vale qualcosa, si può accorgere che non è facile da metter sotto. […] Nulla è più certo del fatto che la donna, con l’uomo, ci guadagna sempre a star sulle sue e a far sapere ai suoi pretesi spasimanti che non è disposta a farsi prendere in giro e che non ha paura di dire di no. […] Al contrario, la donna ha diecimila volte più ragione di essere prudente e ritrosa, quanto più grande è il rischio di essere ingannata; volessero le donne tener conto di ciò, e recitar la parte di donne prudenti, scoprirebbero qualunque trappola che vien loro tesa; sono pochi, insomma, gli uomini la cui vita oggi riveli una vera personalità; se le donne indagheranno anche poco, faran presto a distinguere fra gli uomini e a regolarsi. […] Nessun uomo di buon senso apprezzerà meno una donna perché costei non si concede al primo assalto, o perché non accetta la proposta senza indagar sul fisico e sul morale. 1. lei: l’amica di cui sta parlando la protagonista.

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[…] Mi contenterei che il mio sesso si comportasse meglio in queste occasioni, le quali fra le tante della vita sono quelle che, secondo me ci danno oggi il cruccio più grave. È solo mancanza di coraggio, è solo paura di non maritarsi più, di finire nella spaventosa condizione della zitella, sulla quale avrei tutta una storia da raccontare. È questa, per me, la trappola in cui le donne cadono. Ma se riuscissero una volta a vincere quella paura e a regalarsi saggiamente, troverebbero certo che è più facile scongiurare quel pericolo col puntar i piedi, nell’occasione così essenziale per la loro felicità, anziché col buttarsi via come fanno sempre. Se non si sposeranno in fretta come potrebbero in altro modo ottenere, avranno però il vantaggio di sposarsi meglio. Ci si sposa sempre troppo presto quando ci si piglia un cattivo marito, e non ci si sposa mai troppo tardi quando se ne piglia uno buono. In altre parole, non c’è donna che sapendoci fare non arrivi prima o poi, se non è deforme e se non è malfamata, a maritarsi tranquillamente; ma la donna che si butta a precipizio è perduta, mille contro una. Ma vengo ora al caso mio, che era in quel tempo abbastanza bellino. La condizione nella quale mi trovavo faceva sì che una richiesta di matrimonio da parte di un buon marito fosse per me la cosa più necessaria al mondo ma io mi accorsi presto che il modo migliore non era quello di esser di bocca facile e tener giù il prezzo. Presto si venne a sapere che la vedova non possedeva nulla, e questo fu il peggio che si potesse dir di me perché cominciai a esser messa in disparte ogni volta che si parlava di matrimonio. Io ero ben educata, bella, intelligente, garbata e simpatica; ma tutte le qualità che, a torto o a ragione, io attribuivo a me stessa non servivano a nulla senza la moneta che ora valeva molto più della virtù. La vedova non ha soldi, dicevano. Decisi perciò che, data la situazione in cui ero, mi era assolutamente indispensabile cambiare posizione sociale e fare una nuova apparizione in un posto dove non mi conoscessero, e addirittura presentarmi con un altro nome se era il caso. D. Defoe, Moll Flanders, trad. it. di G. Trevisani, Garzanti, Milano 1965

Analisi del testo La spregiudicatezza borghese

Il matrimonio come un contratto

La protagonista incarna, nel bene e nel male, la spregiudicatezza della nuova classe borghese, con la sua sete di guadagno e di possesso, con i suoi valori e i suoi pregiudizi. Il passo proposto riguarda, in particolare, l’istituto del matrimonio, e quindi la concezione della famiglia in quanto cardine del tessuto sociale. Vi si confrontano due punti di vista, quello femminile (le osservazioni fanno capo all’io narrante della protagonista) e, di riflesso, quello maschile, in un rapporto fra i sessi che, in vista del matrimonio, ritiene di dover mettere in atto particolari strategie. In questa prospettiva il matrimonio è presentato come una sorta di contratto, dal quale occorre ricavare i maggiori vantaggi. Mogli e mariti diventano così delle controparti, in un gioco che nulla ha da vedere con la spontaneità dei sentimenti, ma si basa sui sotterfugi di un reciproco inganno, su una rivalità che esclude ogni autentica comunione di intenti. Così le schermaglie preliminari, che vedono la donna in condizione di inferiorità, si basano su calcoli precisi, che le consigliano di non cedere subito ai desideri dell’uomo ma di “farsi desiderare”, mostrando soprattutto di avere i denari della dote, e non solo di essere «ben educata, bella, intelligente, garbata e simpatica» (r. 56), tutti meriti, questi, che non sono considerati sufficienti. Il passo demistifica così le tradizionali concezioni idealistiche del matrimonio come incontro di due anime innamorate, per ridurlo alla cruda realtà di un accordo basato su fondamenti esclusivamente economici. 379

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Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Riassumi il caso “dell’amica” cui accenna la voce narrante. > 2. Come viene considerata dalla protagonista la condizione di moglie? Di che cosa sono capaci le donne, a tal proposito? Come deve comportarsi invece una donna che “sa il fatto suo”? > 3. Qual è la trappola in cui cade più comunemente il sesso femminile? anaLizzare

> 4.

narratologia

Descrivi le caratteristiche del narratore.

approFondire e interpretare

> 5.

Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) delinea un ritratto dell’eroina, così come appare dal brano: quali sono i suoi valori, quali gli obiettivi? > 6. testi a confronto Istituisci un confronto tra i due protagonisti dei romanzi di Defoe, Robinson Crusoe ( T2, p. 374) e Moll Flanders, sulla base del loro spirito di intraprendenza e della determinazione a perseguire il proprio benessere.

per iL potenziamento

> 7. Personaggio atipico e controverso, Moll Flanders è una donna abile ed astuta, che riesce a trarre vantaggio

dalle situazioni più diverse, libera da pregiudizi risulta vincente all’interno di una società borghese e capitalistica che vede nel denaro la sola forma di realizzazione. A partire dall’analisi di questo personaggio, individua, anche in altri contesti storico-sociali, compresi quelli della contemporaneità, altre figure femminili il cui comportamento appare “fuori dalle righe”.

A3 Pamela

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Samuel richardson Nato a Mackworth, nella contea del Derbyshire, nel 1689 da un falegname, trovò lavoro come apprendista tipografo, divenendo poi, a Londra, un noto e agiato stampatore. Attento a cogliere i conflitti fra i princìpi morali e i sentimenti dell’animo femminile, esordì tardi nel mondo delle lettere, pubblicando nel 1740 la prima parte (la seconda uscì nel 1742) del romanzo epistolare Pamela, o la virtù premiata, che ottenne rapidamente uno straordinario successo in tutta Europa (Carlo Goldoni, ad esempio, ne ricavò una riduzione teatrale, cap. 7, p. 396). Pamela è la storia di una semplice cameriera che sa resistere ai tentativi di seduzione del suo aristocratico padrone, riuscendo infine a farsi sposare. L’interesse dimostrato dal pubblico borghese nasceva dalla dinamica di promozione sociale impressa alla vicenda di una giovane povera, la cui apparente ingenuità nascondeva le astuzie di un comportamento ambizioso. La scelta del romanzo epistolare (nel 1739 Richardson aveva ricevuto l’incarico di preparare una raccolta di lettere, da usare come modelli di scrittura) nasceva anche dal fatto che la lettera consentiva di esprimere più compiutamente i turbamenti interiori e le motivazioni psicologiche dell’agire dei personaggi, dando l’illusione che il racconto si basasse direttamente sulle esperienze vissute. Sono questi gli elementi che caratterizzano anche il secondo e più significativo romanzo di Richardson, Clarissa, o storia di una giovane donna (1747-48), che, se ebbe allora minor fortuna del precedente, ha conservato nel tempo una più profonda e duratura influenza. Se Pamela si può definire la commedia della seduzione, per il lieto fine che la conclude, Clarissa è stata invece definita una tragedia della seduzione, perché conduce alla morte della protagonista ( T4, p. 381). Anche questo romanzo si basa su un antagonismo di classe: Clarissa è la ragazza borghese, che difende nella verginità il bene supremo della sua condizione; Lovelace, che la desidera, è il libertino aristocratico, spregiudicato e ricco di tutto il fascino che gli deriva dalla sua origine nobiliare. Clarissa, che – pur amando Lovelace e affidandosi alla sua protezione – non intende La vita e le opere

Capitolo 6 · Il romanzo inglese

concedersi prima del matrimonio, verrà alla fine narcotizzata e violentata. Esempio sublime di quella virtù che solo l’inganno e la violenza, contro ogni volontà, sono riusciti a piegare, morirà serenamente, circondata dall’affetto e dall’ammirazione di tutti i conoscenti, trionfando così moralmente sul suo persecutore. Con quello della seduzione, Clarissa impostava così il grande tema della fanciulla perseguitata e del suo persecutore, che avrà poi una ininterrotta fortuna narrativa (lo riprenderà anche Manzoni, peraltro con esiti molto diversi, nei Promessi sposi).

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Samuel richardson

temi chiave

La fine edificante dell’eroina

• la commozione per la morte

da Clarissa, lettera 481

• la superiorità spirituale

della protagonista della protagonista

• un comportamento edificante Il passo – che narra gli ultimi momenti della vita di Clarissa – riproduce gran parte di una lettera scritta da Belford all’amico e compagno Lovelace, che, colpevole della violenza usata nei confronti della giovane, verrà alla fine ucciso in duello dal colonnello Morden. LETTERA 481 Il signor Belford a Robert Lovelace, Esq.1 Giovedì notte

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Tanto vale che provi a scrivere; poiché, se andassi a letto, non dormirei. In vita mia non ho mai avuto un simile carico di dolore sull’animo, come per la dipartita di questa donna ammirevole; la cui anima ora esulta nelle regioni della luce2. Potrà farti piacere conoscere i particolari della sua felice uscita3. Cercherò di procedere; poiché tutto è silenzio e immobilità; la famiglia si è ritirata; ma nessuno di loro, e meno di tutti quel suo povero cugino4, oso dire, a riposare. Alle quattro, come accennavo nella mia ultima, mi hanno chiamato giù; e poiché solevi apprezzare le mie descrizioni, ti darò la dolorosa scena che mi si è presentata quando mi sono avvicinato al letto. Il colonnello è stato il primo a richiamare la mia attenzione, inginocchiato a un lato del letto, con la destra della signora in ambo le sue5, che il suo viso copriva, bagnandola con le sue lacrime; anche se ella aveva consolato lui, come in seguito le donne gli hanno detto, con termini elevati6 ma con voce rotta. All’altro lato del letto sedeva la buona vedova7; il viso sopraffatto dalle lacrime, il capo appoggiato contro la testiera del letto nell’atteggiamento più sconsolato; e voltando il viso verso di me, non appena mi ha visto: Oh, signor Belford, ha esclamato, con le mani giunte – la cara signora8 – e un profondo singhiozzo non le ha permesso di dire altro. La signora Smith, con le dita serrate e gli occhi al cielo, come implorando aiuto dall’unica Forza9 in grado di darlo, era in ginocchio ai piedi del letto, con le lacrime che a grosse gocce le scivolavano lungo le guance. L’infermiera era in ginocchio fra la vedova e la signora Smith, le braccia tese. In una mano teneva un inutile cordiale10, che proprio allora aveva offerto alla sua padrona morente; aveva il viso gonfio di pianto (benché avvezza a scene come questa) e ha volto gli occhi verso di me, come richiamata dagli altri a unirsi nel cordoglio impotente; un nuovo fiume11 prorompendo da loro quando mi sono avvicinato al letto.

1. Esq.: esquire, titolo di nobiluomo appartenente all’aristocrazia fondiaria. 2. nelle regioni della luce: in cielo. 3. uscita: morte.

4. cugino: il colonnello Morden. 5. ambo le sue: entrambe le sue mani. 6. termini elevati: nobili parole. 7. la buona vedova: la signora Norton.

8. la cara signora: Clarissa. 9. Forza: Dio. 10. cordiale: bevanda tonica, stimolante. 11. fiume: di lacrime.

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La cameriera della casa, col viso sulle braccia conserte mentre era in piedi appoggiata al rivestimento della parete, esprimeva il suo dolore in modo più udibile di tutti gli altri. La signora aveva taciuto per qualche minuto, e priva della favella12 come gli altri hanno creduto, muovendo le labbra senza pronunciare parole; con una mano, come ho detto, fra quelle del cugino. Ma quando la signora Lovick al mio avvicinarmi ha pronunciato il mio nome, Oh! signor Belford, ha detto con frasi rotte; e con voce fioca e introversa13, ma nondimeno assai distinta – Ora! Ora! (Benedico Iddio per la sua mercé14 verso una povera creatura), presto tutto sarà finito – Pochi – pochissimi momenti – metteranno fine a questa lotta – e io sarò felice! Consolatevi, signore – voltando il capo al colonnello – Consolate mio cugino – vedete! questa riprovevole15 gentilezza – Non mi vuole augurare di essere felice – così presto! Qui si è arrestata per due o tre minuti, guardandolo intenta: poi riprendendo: Mio carissimo cugino, ha detto, consolatevi – Che cos’è la morte se non il destino comune? Le spoglie mortali possono sembrare in travaglio16 – ma questo è tutto! Non è così difficile morire, come credevo che fosse! La preparazione è il difficile – Benedico Iddio, ho avuto tempo per questo – il resto è peggio per gli astanti che per me! Io sono tutta beata speranza – la speranza stessa. Aveva l’aspetto di quello che diceva, con un dolce sorriso che le irradiava il viso. Dopo un breve silenzio: Ancora una volta, mio caro cugino, ha detto, ma ancora con accenti rotti, ricordatemi con ogni deferenza17 a mio padre e a mia madre – qui si è fermata. E poi continuando – a mia sorella, a mio fratello, ai miei zii – e ditegli che li benedico col mio respiro del commiato18 – per tutta la loro bontà verso di me – anche per il loro dispiacere, li benedico – Felicissimo mi è stato il mio castigo qui! felice davvero! È rimasta in silenzio per qualche momento, alzando gli occhi e la mano che il cugino non teneva fra le sue. Poi: O morte, ha detto, dov’è il tuo morso!19 (Le parole che ricordo di aver sentito leggere nell’Ufficio Funebre per mio zio e per il povero Belton). E dopo una pausa – È bene per me che io sia stata afflitta!20 – Parole della Scrittura, immagino. Poi voltandosi verso noialtri che eravamo persi in un dolore muto – Oh, cari, cari gentiluomini, ha detto, voi non sapete quali anticipazioni – quali assicurazioni. E qui di nuovo si è fermata, e ha alzato gli occhi, come in preda a un grato rapimento, con un dolce sorriso. Poi voltando il capo verso di me – Voi non mancate, signore, di dire al vostro amico21 che lo perdono! E prego Iddio di perdonarlo! Facendo di nuovo una pausa, e alzando gli occhi come per pregare Lui di farlo – Sappia con quanta felicità muoio – E che gli auguro che la sua ultima ora sia come la mia. Di nuovo ha taciuto per qualche momento: e poi riprendendo – La vista mi viene meno! Le vostre voci soltanto – (poiché entrambi approvavamo la

12. favella: parola. 13. introversa: come se parlasse rivolta a se stessa, fra sé e sé. 14. mercé: pietà. 15. riprovevole: da biasimare, che merita disapprovazione. 16. in travaglio: in sofferenza, sofferenti.

17. deferenza: rispetto. 18. commiato: distacco, congedo. 19. O morte … morso!: dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi, 15,55 20. È bene… afflitta!: dai Salmi, 119, 71. 21. al vostro amico: a Lovelace.

Edouard Louis Dubufe, Lovelace rapisce Clarissa Harlowe, 1867, olio su tela, San Pietroburgo, Museo de l’Ermitage.

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sua disposizione cristiana, la sua disposizione divina, seppure con accenti rotti come i suoi); e la voce del dolore è uguale in tutti. Non è la mano del signor Morden questa? premendo una delle sue con quella che egli aveva appena lasciata. Qual è quella del signor Belford? tendendo l’altra. Io le ho dato la mia. Dio Onnipotente vi benedica entrambi, ha detto, e vi faccia entrambi – nella vostra ultima ora – poiché dovete giungere a questo – felici come lo sono io. Ha fatto di nuovo una pausa, col respiro che le si accorciava; e dopo qualche minuto: E ora, mio carissimo cugino, datemi la vostra mano – più vicino – ancora più vicino – tirandola a sé; e l’ha premuta con le labbra moribonde – Dio vi protegga, caro, caro signore – e ancora una volta, ricevete i miei migliori e più riconoscenti ringraziamenti – e dite alla mia cara signorina Howe22 – e non mancate di vedere, e di dire alla mia ottima signora Norton – lei sarà un giorno, non ne dubito, per quanto ora umile nelle fortune terrene, una santa in cielo – Dite a entrambe, che le ricordo con grate benedizioni nei miei ultimi momenti! E pregate Iddio di dar loro felicità qui per molti, molti anni, per il bene dei loro amici e innamorati; e una corona celeste dopo; e tali assicurazioni di questa quali ne ho ora io, attraverso i meriti del mio beato Redentore, che tutto soddisfano. La sua dolce voce e le frasi spezzate mi sembrano riempire ancora le mie orecchie, e non usciranno mai dalla mia memoria. Dopo un breve silenzio, con accento più rotto e debole – E voi, signor Belford, premendomi la mano, possa Iddio preservarvi e darvi coscienza di tutti i vostri errori – Voi vedete in me come tutto finisce – possiate voi essere – E ha sprofondato la testa sul cuscino, venendo meno, e ritirando le mani dalle nostre. Lì per lì abbiamo pensato che se ne fosse andata; e ognuno ha dato sfogo a una violenta esplosione di dolore. Ma ben presto dando ella segni di vita che ritornava, la nostra attenzione è stata impegnata un’altra volta; e io l’ho pregata, quando si fosse un po’ ripresa, di completare la benedizione a mio favore, interrotta a metà. Ella ha agitato la mano verso noi due, e ha piegato il capo sei volte distinte, come abbiamo ricostruito in seguito, come distinguendo ogni persona presente; senza dimenticare l’infermiera e la cameriera; quest’ultima essendosi avvicinata al letto, piangendo, come premendo per l’ultima benedizione della divina signora; e ha parlato inceppandosi e fra sé – Benedico – benedico – benedico – tutti voi – e ora – e ora (alzando le mani quasi senza vita per l’ultima volta) – vieni – Oh, vieni – benedetto Signore – gesù! E con queste parole, le ultime pronunciate solo per metà, è spirata: un tale sorriso, una così incantevole serenità diffondendosi sul suo dolce viso nell’istante, che è sembrata manifestare già l’inizio della sua eterna felicità. […] È dipartita esattamente 40 minuti dopo le 6, come dal suo orologio sul tavolino. E così è morta, nel fiore della sua giovinezza e bellezza, la signorina clarissa harlowe: che, considerata la sua tenera età, non si è lasciata dietro chi le fosse superiore per esteso sapere23, e guardinga prudenza; né suo pari quanto a immacolata virtù, esemplare pietà, dolcezza di maniere, discreta generosità, e autentica carità cristiana: e tutte queste doti innescate dalla più graziosa modestia e umiltà; e tuttavia in ogni occasione appropriata manifestando una nobile presenza d’animo e vera magnanimità: così che si può dire sia stata non solo un ornamento del suo sesso, ma della natura umana. Una penna migliore della mia può renderle più piena giustizia – La tua, voglio dire, o Lovelace! Poiché tu ben sai quanto ella sia stata eccelsa nelle grazie tanto dell’animo quanto della persona, naturali e acquisite, tutto quello che è donna. E tu puoi anche

22. signorina Howe: la più intima amica di Clarissa.

23. esteso sapere: vasta sapienza.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

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spiegare meglio di tutti le cause della sua morte immatura, attraverso quelle calamità che in un così breve spazio di tempo dalla più alta vetta della felicità (con tutti che in certo modo l’adoravano) l’hanno portata a un’uscita così felice per lei stessa, se non fosse stata così precoce, così deplorevole da tutti coloro che hanno avuto l’onore della sua conoscenza. Questo compito, dunque, lo lascio a te: ma adesso non posso scrivere oltre, solo che sono solidale con ogni parte della tua afflizione, tranne (e tuttavia è crudele dirlo) con quella che nasce dalla tua colpa. S. Richardson, Clarissa, trad. it. di M. D’Amico, Frassinelli, Milano 1996

Analisi del testo Sul letto di morte

La vergine salvifica

La morte di Clarissa raccoglie esemplarmente le fila di una narrazione in cui le lettere avevano scandagliato i più riposti segreti del «cuore umano», come ebbe a scrivere Diderot, nel suo Elogio di Richardson. Attorno al letto della moribonda sono qui riunite le figure di alcuni conoscenti, in una scena che ha una forte impostazione pittorica, quasi l’interno di una stanza in cui i personaggi sono accomunati, nelle pose e nei gesti, dalle espressioni di un dolore straziante. Veniva così potenziato, nei confronti del lettore, l’effetto di commozione e di partecipazione al destino della giovane, che si abbandona serenamente e quasi con gioia alla volontà divina («– Pochi – pochissimi momenti – metteranno fine a questa lotta – e io sarò felice!», rr. 33-34), perdonando a chi le ha fatto del male («Voi non mancate, signore, di dire al vostro amico che lo perdono!», rr. 57-58) e raggiungendo nell’aldilà un amore più grande e perfetto di quello che per lei era stato irrealizzabile in vita. Ma proprio con la sua fine Clarissa mostra tutta la sua superiorità spirituale nei confronti di chi l’ha ingannata e fatta soffrire; la sua morte è paragonabile a quella di una santa, che è andata incontro al martirio per difendere e riaffermare i valori della morale borghese, negati dallo spregiudicato cinismo della classe aristocratica. Il suo destino diventa così, per le giovani del tempo, l’esempio di un comportamento degno di essere ammirato e seguìto, grazie all’esercizio sublime di quella virtù per cui «si può dire» che Clarissa «sia stata non solo un ornamento del suo sesso, ma della natura umana» (rr. 108-109). Insieme con quello della “fanciulla perseguitata” Clarissa incarna così il ruolo della “vergine salvifica”, in quanto il suo comportamento edificante, trionfando sulle forze del male, si fa mediatore della grazia e della salvezza nei confronti di coloro che la circondano.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. A quale colpa del destinatario allude il narratore sul finire della lettera? > 2. Riassumi il contenuto del testo in circa 10 righe (500 caratteri). anaLizzare

> 3. Il narratore insiste nella descrizione del luogo in cui si svolge la vicenda? In che modo descrive i personaggi? Si sofferma sulle fattezze fisiche o sugli atteggiamenti?

> 4. Vengono inserite affermazioni pronunciate dai personaggi? Se sì, da quali? > 5. Il narratore esprime dei giudizi? Fa delle anticipazioni? approFondire e interpretare

> 6.

Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) spiega in che senso e perché è possibile indicare in Clarissa “la prima eroina romantica”. > 7. testi a confronto Metti a confronto la figura edificante di Clarissa Harlowe, al centro del brano, con la cinica e pragmatica figura di Moll Flanders ( T3, p. 378) di Daniel Defoe.

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Capitolo 6 · Il romanzo inglese

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Il Viaggio sentimentale

Laurence Sterne La vita e le opere Nato nel 1713 a Tipperary, in Irlanda, dove il padre era distaccato come ufficiale, studiò a Cambridge logica formale ma si occupò soprattutto di letteratura, abbandonando gli studi; intraprese poi la carriera ecclesiastica (nel 1738 ottenne il grado di vicario), interessandosi anche dei problemi della vita politica. Un pamphlet politico, la Storia di un buon pastrano (1759), segnò il suo esordio letterario, che si svolgerà all’insegna di una scrittura irregolare e bizzarra. Tra il 1762 e il 1765 viaggiò in Francia e in Italia, dove venne a contatto con i centri della cultura illuministica (conobbe, tra gli altri, Alessandro Verri). Di qui ricavò il Viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia, pubblicato nel 1768 poco prima della morte, avvenuta a Londra nel medesimo anno; l’opera verrà tradotta in italiano da Ugo Foscolo e uscirà nel 1813. Si ricordino infine le Lettere di Yorick a Elisa, in cui Sterne riprende il nome del buffone dell’Amleto shakespeariano, già usato nel Viaggio sentimentale.

L’opera più originale e innovatrice, in cui si deve riconoscere il capolavoro assoluto della letteratura umoristica, è la Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, edita in nove volumi tra il 1760 e il 1767. La mole dell’opera, incompiuta, è inversamente proporzionale rispetto alla vicenda, che si arresta alla fanciullezza del protagonista, soffermandosi invece sulle esperienze di coloro – soprattutto il padre e lo zio – che gli sono stati vicini. Accanto ai fatti (la «vita») compaiono le divagazioni (le «opinioni»), che occupano lo spazio maggiore e più significativo della rappresentazione. Come scriverà Pirandello nel saggio sull’Umorismo (1908), le opere umoristiche, di cui il romanzo di Sterne deve essere considerato il modello più alto, sono «scomposte, interrotte, intramezzate di continue digressioni»; nella struttura narrativa la digressione prevale nettamente sulla trama, che finisce per avere un valore accessorio e per così dire strumentale, quasi un pretesto da cui nascono, a grappolo, impressioni e osservazioni, che finiscono per diventare la componente narrativa più rilevante ( T5, p. 386). Se nel romanzo di impianto storico o realistico la trama è l’elemento di coesione fondamentale, a cui risultano strettamente funzionali le digressioni, nelle opere umoristiche accade esattamente il contrario; così, se nella logica delle opere tradizionali, organicamente costruite, prevale il principio della causalità dei rapporti fra le componenti narrative, qui domina invece la casualità, che si basa sull’imprevisto e sull’inatteso. Siamo in presenza di una struttura divagante, in cui – per usare una terminologia narratologica – il “tempo del discorso” prevale nettamente sul “tempo della storia”. Un altro elemento caratterizzante, che si collega strettamente a quanto si è detto, è dato dal continuo colloquio che il narratore intrattiene con il lettore, chiamato in causa per stabilire una sorta di connivenza confidenziale, sotto il segno del buon senso e della ragionevolezza. Ne risulta un atteggiamento che esclude ogni posa o atteggiamento eroico e si traduce piuttosto in una sorta di coinvolgimento ironico, che, mentre avvicina il racconto, ne svela i meccanismi compositivi, dando vita a un metaromanzo, ossia a un romanzo in cui si mettono a nudo i procedimenti e gli artifici della costruzione narrativa. Ecco allora che il narratore omodiegetico, che cioè racconta in prima persona, avverte direttamente il lettore per fargli sapere come intende condurre il racconto, comunicandogli ad esempio quando interrompe una vicenda e quando la riprenderà, o quando fa uso di flash back, di analessi, di prolessi o di qualsiasi altro espediente narrativo.

Tristram Shandy Testi Sterne • Una domanda imbarazzante da Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo

Un’opera umoristica

Le digressioni

Il colloquio coi lettori

Un metaromanzo

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

T5

Laurence Sterne

temi chiave

La tecnica delle digressioni da Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, libro I, capp. XIV e XXII; libro VI, cap. XL

• le riflessioni sul procedimento narrativo

• l’andamento irregolare del racconto

Le pagine che seguono rappresentano tre esempi del procedimento narrativo di Sterne, basato sulle divagazioni e sulle digressioni. a

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Se uno storiografo potesse tirar dritto per la sua strada come un mulattiere nel condurre il suo mulo, mettiamo, da Roma a Loreto1, tutto d’un fiato, senza mai volgere il capo o svoltare a destra o a sinistra, potrebbe azzardare di predire con la precisione di un’ora quando arriverà alla mèta. Ma la cosa è, moralmente parlando, impossibile: perché, per poco spirito che un uomo abbia, non potrà evitare di accompagnarsi a questo e a quello nel cammino, e di fare cinquanta deviazioni, e ci saranno sempre, ad allettarne2 lo sguardo, paesaggi e prospettive che non potrà far a meno di fermarsi a guardare. Inoltre avrà varie Versioni da conciliare3, Aneddoti da raccogliere, Iscrizioni da decifrare, Apologhi da intesservi4, Tradizioni da vagliare, Personaggi da evocare, Panegirici5 da attaccare a questa porta, Pasquinate6 da incollare a quell’altra. Tutte cose da cui l’uomo e il suo mulo sono assolutamente esenti. Insomma, vi sono archivi da consultare tutti i momenti, e registri, atti, documenti, e genealogie7 interminabili, che lo storico è tenuto a leggere per debito8 di giustizia. E dovrà spesso fermarsi o tornare sui suoi passi. In breve, non è mai finita. Io, per esempio, sono sei settimane che mi son messo all’opera e, pur affrettandomi al massimo, non sono ancora nato9. Ho appena potuto dirvi quando avvenne il fatto, ma non come. Così anche il lettore può vedere che siamo molto lontani dal compimento dell’opera. Confesso che al principio non avevo minimamente potuto prevedere tanti impedimenti, i quali, me ne convinco solo adesso, sono destinati ad aumentare piuttosto che a diminuire. Ed è da questo che mi è venuta l’idea, che sono fermamente risoluto a seguire, cioè, di non aver fretta, ma di procedere con calma, scrivendo e pubblicando non più di due volumi della mia vita ogni anno. Se mi sarà concesso di lavorare in pace e mi riuscirà di ottenere dal mio editore un contratto ragionevole, continuerò a scrivere finché vivrò. b

Questa lunga digressione, nella quale sono stato trascinato accidentalmente, come in tutte le altre, del resto, eccetto una, è un capolavoro di bravura digressiva10. Il suo pregio, che temo sia sfuggito al lettore, non per mancanza di penetrazione in lui, ma perché è un’eccellenza che raramente si ricerca, o ci si aspetta di trovare nelle digressioni, consiste in questo. Sebbene le mie digressioni siano tutte belle, come potete osserva-

1. Loreto: città delle Marche, famosa per il suo santuario. 2. allettarne: rallegrarne. 3. Versioni da conciliare: fatti da coordinare. 4. Apologhi da intesservi: raccontini edificanti da intrecciare.

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5. Panegirici: elogi. 6. Pasquinate: scritti satirici, propriamente quelli che venivano attaccati, nella Roma dei papi (dal XVI al XIX secolo) al torso di una statua chiamata Pasquino, non si sa per quali ragioni, dal popolo.

7. genealogie: elenchi dei discendenti. 8. debito: dovere. 9. non … nato: nel senso che non ha ancora parlato della sua nascita. 10. bravura digressiva: abilità nel costruire le disgressioni.

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re, ed io salti di palo in frasca non meno lungo né meno spesso di ogni altro scrittore di Gran Bretagna, pure ho cura di disporre le cose in modo che l’azione principale non ristagni11 mentre io mi occupo d’altro. Per esempio, stavo appunto per tracciarvi a grandi linee il profilo del bizzarrissimo carattere di mio zio Tobia12, quand’ecco apparire la zia Dina e il suo cocchiere, che ci condussero a vagare lontano per milioni di miglia nel cuore del sistema planetario. Nonostante tutto ciò, vi accorgerete che nel frattempo anche il ritratto di mio zio Tobia è proceduto con tocchi delicati. Non le linee maestre, sarebbe stato impossibile, ma alcuni tratti familiari e sfumature son venuti in luce con discrete pennellate qua e là, così che voi ora conoscete lo zio Tobia meglio di prima. Questa geniale condotta fa della mia opera un genere a sé. Vi sono introdotti e conciliati due movimenti, sinora giudicati contrastanti. In una parola, la mia opera è digressiva e, nello stesso tempo, anche progressiva13. Questa, signore, è una storia ben diversa da quella del movimento della terra, la quale, girando attorno al suo asse, ci dà il giorno, e, progredendo nella sua orbita ellittica, ci dà l’anno, con quella varietà e avvicendarsi di stagioni di cui noi godiamo; sebbene io debba confessare che me ne dette l’idea; come credo che da piccoli barlumi d’ispirazione come questo sono nati tutti i nostri progressi e scoperte. Incontestabilmente le digressioni sono il sole, la vita, l’anima della lettura. Sopprimetele in questo libro, e tanto varrebbe che sopprimeste l’opera intera: un freddo e interminabile inverno scenderebbe su ogni pagina. […] Tutta l’abilità, naturalmente, consiste nel modo come si cucinano e si apparecchiano le digressioni; tutto sta nel saperle usare con vantaggio non solo del lettore, ma anche dell’autore, il quale, povero diavolo, è in una situazione da far davvero pietà: se avvia una digressione, da quel momento, ho osservato, tutta l’opera resta bloccata, e se procede con l’azione principale, addio digressione. Questo è lavoro ingrato. Ma, vedete, io ho sin da principio costruito l’opera principale e le parti accessorie con tali raccordi, e ho organato14 e accoppiato i movimenti digressivo e progressivo in modo tale, una ruota ingranata con l’altra, che il moto generale di tutta la macchina è stato mantenuto. E, quel che più conta, lo sarà per quarant’anni ancora, se piacerà a Colui ch’è fonte di salute15, di concedermi vita e buon umore per tanto tempo. C

Adesso posso dire di essere quasi avviato nel mio lavoro; e con l’aiuto di una dieta vegetale e un po’ di semi freddi16 non dubito che potrò proseguire la storia di mio zio Tobia, e la mia, in linea passabilmente retta. Ecco

11. ristagni: rallenti, si arresti. 12. zio Tobia: ingenuo e mite, è il personaggio di maggiore spicco del romanzo. 13. progressiva: nel senso che riesce ugual-

mente a procedere, ad andare avanti. 14. organato: organizzato, sviluppato in maniera organica. 15. Colui … salute: Dio, Fonte di salvezza.

16. semi freddi: semi delle cucurbitacee (zucche, meloni, ecc.), usati per proteggere e decongestionare le mucose.

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Sono le quattro linee lungo le quali mi sono mosso durante il primo, secondo, terzo e quarto volume. Nel quinto sono stato molto bravo, perché ho tracciato precisamente la linea seguente

Dalla quale risulta17 che, salvo per la curva segnata con A, al qual punto feci una gita in Navarra18, e la curva frastagliata B, rappresentante la breve passeggiata che, quando fui là, feci con la signora de Baussière e il suo paggio, non mi concessi il minimo capriccio digressivo, finché i diavoli di Monsignor Della Casa19 non mi menarono per il giro che vedete segnato con D; quanto alle c c c c c, non sono che parentesi, entrate ed uscite, episodi normalissimi nella vita dei grandi ministri di stato; e, se le paragonate con quello che altri ha fatto, o con le stesse mie trasgressioni alle lettere A B D, svaniscono in niente. In quest’ultimo volume sono stato ancora più bravo, perché dalla fine dell’episodio di Le Fever al principio delle campagne di mio zio Tobia, non mi sono quasi mai allontanato d’un passo dal mio cammino. Se ho fatto tali progressi, non è impossibile […] che io raggiunga l’eccellenza di andare in linea retta, così: L’ho tracciata quanto più dritta ho saputo fare con l’ausilio di una riga (presa in prestito espressamente per questo scopo), non deviando né a destra né a sinistra. «Questa linea retta, il cammino che i cristiani devono seguire», dicono i teologi. «Il simbolo della rettitudine morale», dice Cicerone20. «La linea migliore!» dicono i piantatori di cavoli, ossia «la linea più breve,» come dice Archimede21, «che possa essere tracciata da un dato punto ad un altro». Mi auguro che le signore qui presenti vorranno prendere a cuore questa cosa quando si faranno il vestito del prossimo compleanno. Che viaggio! L. Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy, trad. it. di A. Meo, Milano, Mondadori 1974

17. risulta: le curve corrispondono a episodi a cui si accenna qui di seguito. 18. Navarra: provincia della Spagna, a SudEst dei Pirenei. Questo e i rimandi che seguono si riferiscono a digressioni precedenti, dalle più ampie (contrassegnate con le

lettere A, B e D) alle più brevi, semplici parentesi, indicate con la lettera minuscola c. 19. Della Casa: Giovanni Della Casa (150356), autore del Galateo. 20. Cicerone: Marco Tullio Cicerone (106 a.C. - 43 a.C.), il famoso oratore, scrittore, fi-

losofo e uomo politico romano. 21. Archimede: Archimede di Siracusa (287 a.C.-212 a.C.), il più celebre scienziato dell’antichità.

Analisi del testo I princìpi della poetica

Le digressioni

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Proprio perché si frammenta in una miriade di episodi e di argomentazioni, non è facile nel Tristram Shandy scegliere segmenti della trama che abbiano un risalto preminente. Abbiamo quindi scelto alcuni luoghi in cui Sterne enuncia i princìpi della sua poetica, senza peraltro abbandonare l’andamento narrativo che gli è congeniale. Questo consiste nel coinvolgimento del lettore attraverso un continuo gioco di divagazioni, che si sovrappongono alla nuda esposizione dei fatti. Il brano A è una digressione sulle digressioni che l’autore dissemina nella sua opera, tanto da farne l’elemento principale. Questa caratteristica viene illustrata non in modo teorico ma con un linguaggio figurato, che sceglie l’immagine del viaggio, particolarmente congeniale all’autore, per indicarci le caratteristiche compositive del testo. La linea diritta è

Capitolo 6 · Il romanzo inglese

L’andamento zigzagante

La casualità

La rappresentazione grafica

quella del romanzo tradizionale, in cui i fatti si susseguono ordinatamente uno dopo l’altro, secondo una progressione cronologica fondata sulle leggi della consecutività e della consequenzialità. Nel Tristram Shandy, al contrario, il racconto procede in maniera discontinua e per così dire zigzagante, continuamente distratto da pretesti e occasioni di ogni genere. Di qui il procedere lento e sempre differito della narrazione, tanto che il narratore dice di essere appena riuscito a dare la notizia della sua nascita, prospettando un’amplissima estensione dell’opera. Il brano B approfondisce il discorso sulla digressione, di cui si sottolinea il carattere di accidentale casualità («Questa lunga digressione, nella quale sono stato trascinato accidentalmente, come in tutte le altre», rr. 30-31), ma anche l’abilità con cui il narratore sa inserirla nel contesto dell’opera. Si tratta di una sorta di ammiccamento ironico che – oltre a riferirsi alla bravura dell’autore – sottolinea l’originale novità della costruzione del racconto. Il brano C riprende queste considerazioni e le traduce sul piano della grafica, accentuando l’elemento di irregolarità e bizzarria che assumono le forme del racconto, non senza un’ironica osservazione sulla “retta via”, che indica metaforicamente la via del bene e della ragione.

Esercitare le competenze Comprendere

> 1. Riassumi in circa 5 righe (250 caratteri) l’esempio dello storiografo, riportato all’inizio del brano. > 2. Che cosa dichiara l’io scrivente, il narratore, di se stesso? Quali informazioni fornisce di natura meta-narrativa? In

che modo intende procedere nella narrazione? > 3. Qual è il pregio delle “sue digressioni” all’interno dell’opera, secondo il narratore? Quali “movimenti” trovano un’insolita conciliazione all’interno della sua scrittura? > 4. Come sono rese, graficamente, la narrazione progressiva e quella digressiva? anaLizzare

> 5. > 6.

Sottolinea tutti i riferimenti diretti che la voce narrante rivolge al lettore. Rifletti su quanto afferma il narratore: «Io per esempio … non sono ancora nato» (rr. 20-22). Qual è il rapporto temporale tra tempo della storia e tempo del racconto? > 7. Stile Individua e specifica i paragoni impliciti ed espliciti, presi dalla realtà e riferiti sia al metodo digressivo che progressivo. narratologia narratologia

approFondire e interpretare

> 8.

esporre oralmente A partire da quanto leggiamo nelle prime pagine del romanzo e facendo riferimento a quanto detto nell’Analisi del testo, poni in evidenza in un’esposizione orale (max 3 minuti) le novità del romanzo di Sterne.

SCrittura CreatiVa

> 9. Scrivi, alla maniera di Sterne, un testo in cui narri un evento della tua vita utilizzando la tecnica della digressione, rinviando la conclusione dell’azione principale attraverso l’inserimento di episodi accessori.

Facciamo il punto 1. Quali temi vengono trattati nel romanzo inglese del Settecento? Quali caratteristiche presentano i personaggi principali? 2. Quali sono i maggiori sottogeneri del romanzo del Settecento? 3. Per quali ragioni I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift si può considerare un romanzo allegorico? 4. Elenca le caratteristiche principali dei romanzi di Daniel Defoe Robinson Crusoe e Moll Flanders, sottolineando analogie e differenze tra le due opere. 5. Descrivi il personaggio Clarissa di Samuel Richardson, evidenziandone le peculiarità rispetto agli altri protagonisti dei romanzi antologizzati in questo capitolo. 6. Quali caratteristiche fanno di Tristam Shandy di Laurence Sterne un capolavoro della letteratura umoristica?

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

In sintesi

IL romanzo IngLese Verifica interattiva

Il romanzo è il nuovo genere letterario che meglio interpreta le esigenze culturali di quel ceto sociale, la borghesia, che sta salendo alla ribalta della storia. Non stupisce quindi che, per il rapido maturare di una coscienza di classe, sul piano dei valori economici e morali, il romanzo nasca in Inghilterra, al di fuori di quelle regole che, nelle culture umanistiche e classicistiche, avevano rigorosamente definito i generi tradizionali. Se il romanzo non obbedisce a regole prestabilite, la libertà delle sue forme tende a organizzarsi attorno ad alcune tipologie che già compaiono in questa sua prima fase di sviluppo.

SWiFt Al centro del romanzo di Jonathan Swift (1667-1745), I viaggi di Gulliver, è il motivo del viaggio che mette il protagonista a contatto con realtà abnormi e irreali, come quelle di creature piccolissime, nel paese di Lilliput, o di uomini giganteschi. Ne deriva la costruzione allegorica di un romanzo che, mettendo a confronto posizioni antitetiche e diverse, sottolinea la relatività dei punti di vista da cui la realtà può essere osservata e giudicata. Al tempo stesso la permanenza nell’isola degli scienziati o quella nel paese dei brutali Yahoo, dominati dai saggi Cavalli, fautori della pace, consentono di condurre una satira violenta nei confronti della società contemporanea, che rivela il radicale pessimismo e la sfiducia nel progresso da parte dell’autore.

deFoe Spregiudicata figura di avventuriero, Daniel Defoe (1660-1731) ha legato il suo nome ai primordi del giornalismo (nel 1704 fonda “The Review”) e alle origini del romanzo, pubblicando, nel volgere di pochi anni (1719-1724), Robinson Crusoe, Il capitano Singleton, Moll Flanders e Rossana, o l’amante fortunata. Il più noto è Robinson Crusoe che, prendendo spunto da un episodio di cronaca, immagina che il protagonista, fortunosamente scampato a un naufragio, approdi su un’isola deserta, dove, con l’intelligenza e la tenacia, riuscirà a costruire le condizioni per soddisfare i bisogni elementari dell’esistenza. L’inizio avventuroso si trasforma così in una sorta di “rifondazione” che pone al centro il motivo della casa, simbolo della tranquillità e della sicurezza borghese. Vicino ai modi del romanzo realistico, che si basa sulla rappresentazione dei costumi contemporanei, è Moll Flanders, storia delle peripezie di una donna che vede nel matrimonio il punto d’arrivo delle sue aspirazioni a un’agiata sistemazione economica e sociale.

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riCHardSon I valori del mondo borghese, riferiti alla condizione femminile, sono bene esemplificati dai romanzi di Samuel Richardson (1689-1761), Pamela, o la virtù premiata (1740 e 1742) e Clarissa, o storia di una giovane donna (1747-48). Giovane cameriera, Pamela resiste ai tentativi di seduzione da parte del suo padrone, che potrà averla solo prendendola in sposa. Il matrimonio appare così come il premio di una virtù, quella della castità femminile, su cui si basa una lotta fra i sessi, che è anche una distinzione sociale, fra una giovane povera, di estrazione borghese, e il ricco seduttore, che interpreta il ruolo dell’aristocratico libertino. Un’analoga dialettica è riconoscibile in Clarissa, che al lieto fine di Pamela contrappone un finale tragico, in cui l’eroina, non volendo cedere alle pretese di Lovelace, viene da lui narcotizzata e violentata, trovando poi nella morte la consacrazione e il simbolico premio per le sofferenze suv bite. Oltre a introdurre il motivo della fanciulla perseguitata, i romanzi sono anche un modello per il genere epistolare, che trova nella lettera lo strumento più adatto per registrare anche i più minuti trasalimenti dell’animo umano.

Sterne Sin dalla prima opera, la Storia di un buon pastrano (1759), Laurence Sterne (1713-68) rivelò le sue doti di scrittore eccentrico e bizzarro. Sono le caratteristiche che si troveranno anche nelle opere successive, fino al Viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia, che, pubblicato poco prima della morte, verrà tradotto in italiano da Ugo Foscolo (1813). Il suo capolavoro è rappresentato dalla Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, uscito in nove volumi tra il 1760 e il 1767, in cui si deve riconoscere il modello indiscusso di quella scrittura umoristica che sarà studiata e definita in un apposito saggio da Pirandello (L’umorismo, 1908). Se, come dice Pirandello, le opere umoristiche sono «scomposte, interrotte, intramezzate di continue digressioni», il Tristram Shandy è in grado di presentarne un campionario inesauribile, che giunge, quanto a infrazione degli schemi tradizionali, all’uso di particolari accorgimenti grafici e agli spazi occupati dai puntini di sospensione. La digressione non solo prevale sulla trama ma diventa, per così dire, la struttura portante dell’opera, grazie al continuo inserimento di spunti aneddotici, di impressioni e osservazioni, che, mentre stabiliscono con il lettore un rapporto di immediatezza colloquiale, danno luogo a un metaromanzo, ossia a un romanzo che mette a nudo i meccanismi di costruzione dell’opera.

Competenze attivate

Prova di competenza SimuLazione di eSperienza reaLe

• Imparare a imparare attraverso • metodi e strategie riferiti a contesti

nuovi e reali • Collaborare e partecipare per un

progetto comune e un risultato finale • Consolidare le competenze digitali

per l’apprendimento e la comunicazione di saperi • Consolidare le competenze di cittadinanza

Area tematica > “diversamente” figlia, moglie, madre: modelli educativi

e pregiudizi nell’età dell’illuminismo

Risultato atteso > ideazione di un format per una trasmissione televisiva di argomento culturale (su diritti civili e pari opportunità) Fasi di lavoro Prima fase Introduzione – propedeutica alla lettura – all’autrice (Dacia Maraini, Fiesole, 1936) e all’opera (La lunga vita di Marianna Ucrìa, Rizzoli, Milano 1990) a cura del docente, anche con l’ausilio delle risorse della rete, attraverso:

• un sintetico profilo biografico e letterario della scrittrice, Premio Campiello nel 1990 con il romanzo proposto in questa sede e Premio Strega nel 1999 con Buio, e di nuovo Premio Campiello alla carriera nel 2012. Personaggio di rilievo nel panorama letterario del secondo Novecento – compagna dello scrittore Alberto Moravia e amica di Pier Paolo Pasolini – Maraini, ancora attiva nella pubblicistica (“Il Corriere della Sera”) e presente nei dibattiti su questioni di attualità, ha scritto anche racconti, opere teatrali, poesie, narrazioni autobiografiche e saggi, tradotti in tutto il mondo;

• la trattazione di tematiche sottese al romanzo anche attraverso interviste e/o interventi pubblici dell’autrice presenti in rete (ad es. quelli riferiti al tema, di scottante attualità, della violenza sulle donne).

Seconda fase Lettura in classe, da parte del docente, dei passi proposti ( documenti). Una delle finalità della simulazione è anche quella di considerare con attenzione il contesto del romanzo, ricostruendo così l’ambito storico, sociale e culturale cui la scrittrice ha fatto riferimento, ovvero la società chiusa e patriarcale della Sicilia del Settecento in cui viene collocata la progressiva emancipazione di una donna sordomuta, vittima di uno stupro subito in età infantile. Terza fase In un dibattito in classe, guidato dal docente, gli studenti sono chiamati a focalizzare l’attenzione e a confrontarsi sui temi fondamentali scaturiti dalla lettura dei passi, ovvero:

• è possibile definire con il termine “emancipazione”, in senso umano e culturale, la condizione a cui approda la donna protagonista del romanzo?

• quali eventi hanno determinato, nella vicenda narrativa, la progressiva consapevolezza di sé della donna? • la disabilità (intesa come “diversa abilità”) ha determinato in lei una effettiva condizione di inferiorità? Tale condizione le ha impedito di vivere un’esistenza analoga a quella di una cosiddetta persona “normodotata”?

Inoltre gli studenti sono invitati ad effettuare collegamenti con il contesto attuale, risultato di un lungo percorso di emancipazione non solo in termini di appartenenza di genere (uomo/donna), ma anche in termini di diritti riconosciuti ai cosiddetti “diversamente abili” (sarebbe opportuno, in tal caso, fare riferimento alle principali “battaglie” degli scorsi decenni per i diritti negati alle donne, o all’iter legislativo da cui è scaturita la fondamentale Legge quadro del 5 febbraio 1992 n. 104), non trascurando il fatto che l’esperienza di scrittura della Maraini è appunto collocata, sul piano cronologico, in tale contesto. Quarta fase In seguito al dibattito, il docente chiederà agli studenti di suddividersi in piccoli gruppi di opinione e di lavoro (3-4 persone al massimo) invitati successivamente a concordare, a conclusione della fase, su una precisa suddivisione di compiti e di mansioni. Tutti i gruppi vengono informati del fatto che uno degli obiettivi del lavoro è quello di effettuare un confronto alla fine del percorso, preferibilmente attraverso una modalità “collettiva” e partecipata di esposizione orale, per giungere al risultato atteso in modo condiviso.

391

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Consegne per i lavori di gruppo Focus sui testi:

• analisi dei passi proposti e individuazione degli elementi testuali riferiti direttamente sia alla tematica sia al

contesto storico, sociale e culturale che ancora attestano non soltanto un rigido rispetto delle differenze di genere, ma l’affermarsi di pregiudizi alla base di modelli educativi e di comportamento;

• analisi dei passi proposti e individuazione degli elementi testuali riferiti al comportamento della protagonista,

che tende a configurarsi come “eroina” di un riscatto personale e di una vera e propria emancipazione dalla condizione doppiamente subalterna, a causa della menomazione, di donna del suo tempo.

Focus sul contesto:

• Quali eventi epocali o culturali fanno da sfondo alla narrazione? Quali opere letterarie dell’epoca – l’età dell’Illuminismo – propongono figure di donna destinate ad emanciparsi attraverso un confronto con l’ambiente di origine e la società?

Dalla lettura integrale del romanzo della Maraini emerge quanto segue:

• Marianna, la protagonista, malgrado le origini nobiliari, è vittima di una condizione di inferiorità più grave rispetto a quella di altre donne della sua epoca: è sordomuta ed è stata violentata, da bambina, da un familiare;

• malgrado la menomazione, e malgrado il trauma infantile subito, Marianna riesce a costruire il proprio percorso personale di consapevolezza di sé e di emancipazione.

Le immagini: selezionare dipinti dell’epoca per la realizzazione di una galleria di ritratti femminili che attestino i ruoli familiari e sociali della donna nel Settecento, con particolare riferimento, se possibile, anche al contesto della Sicilia, terra in cui è ambientato il romanzo. Oppure, in alternativa o in aggiunta, selezionare fotogrammi o spezzoni dal film La lunga vita di Marianna Ucrìa (1997) di Roberto Faenza. Le musiche: selezionare musiche e/o canzoni d’epoca, con particolare riferimento, se possibile, anche al contesto della Sicilia, terra in cui è ambientato il romanzo. Dal laboratorio al risultato atteso:

• predisposizione di “scalette” per gli interventi orali redatte in base al lavoro svolto; • ipotesi delle componenti del format con relativa documentazione e archiviazione di materiali didattici da collocare anche su piattaforma e/o ambiente digitale gestito dal docente e dalla classe;

• montaggio delle immagini selezionate in PowerPoint e visualizzazione su LIM o altro supporto. Quinta fase ideazione del format In seguito al confronto fra i vari gruppi di lavoro, il docente coordinerà la fase di ideazione del format, che avverrà attraverso una progettazione condivisa del cosiddetto “numero 0” del programma televisivo. Quest’ultimo dovrà prevedere, in sostanza, l’uso dei materiali raccolti e/o elaborati dagli studenti attraverso lo studio delle varie componenti di una puntata, come ad esempio di seguito riportato, e la conseguente definizione di una “scaletta” delle varie fasi della messa in onda:

• target: pubblico, orario messa in onda ecc.; • ambiente: studio televisivo; • definizione scenografia di sfondo; • conduzione: giornalista o altri; • presenza di uno o più ospiti; • intervento di uno o più attori per la lettura dei passi del romanzo; • messa in onda di filmati; • ascolto di brani musicali (anche come sottofondo); • testi (per interviste del conduttore o interventi degli ospiti).

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Capitolo 6 · Il romanzo inglese

Testo di riferimento > Dacia Maraini, La lunga vita di Marianna Ucrìa, Rizzoli, Milano 2014) guida alla lettura Il romanzo, che appartiene al genere storico, presenta il contesto dell’epoca attraverso descrizioni accurate di luoghi e scenari, usi e costumi, superstizioni e credenze popolari, ricorrendo spesso al dialetto soprattutto per rendere più efficacemente i dialoghi fra i vari personaggi. Nella Palermo della prima metà del Settecento, distante dai grandi cambiamenti politici e culturali che si stanno verificando in Europa ma non del tutto estranea ad essi grazie alla timida penetrazione della cultura illuminista, Marianna è la figlia sordomuta del duca Signoretto Ucrìa di Fontanasalsa. La sua condizione sembrerebbe scaturita da un’esperienza infantile: per questo all’età di sette anni viene condotta dal padre ad assistere ad una pubblica impiccagione, affinché la reazione emotiva al terribile spettacolo la “guarisca” dall’antico trauma. Ma non accade nulla e la bambina, presto adolescente, impara a comunicare anche con gli altri familiari – la madre e cinque tra fratelli e sorelle – attraverso biglietti scritti di suo pugno. A soli tredici anni, Marianna viene data in moglie all’anziano zio Pietro Ucrìa di Campo Spagnolo, fratello della madre, che si scoprirà essere stato colui che l’aveva

stuprata da bambina, determinando il suo stato: la famiglia della giovane, infatti, nel rispetto delle usanze dell’epoca che volevano le figlie dell’aristocrazia spose oppure monache, aveva preferito sorvolare sulle circostanze del misfatto per consentirle di maritarsi malgrado la sua menomazione. E sebbene la sua vita sia da considerarsi, da quel momento, simile a quella di altre sue coetanee (gravidanze, lutti, fra cui quello per la morte di un figlio, matrimoni e monacazioni delle componenti femminili della famiglia, scandali e carriere laiche ed ecclesiastiche per i componenti maschili, la vedovanza), Marianna maturerà soprattutto attraverso la sua particolare condizione e le letture consentite dalla biblioteca di cui dispone nella sua agiata dimora di Bagheria, luogo in cui preferisce soggiornare. La raggiunta consapevolezza di sé, scaturita anche dall’esperienza di una grave malattia e da un’intensa passione amorosa (per l’umile Saro), indurrà la donna, ormai cinquantenne, a viaggiare (scampando ad un naufragio insieme alla serva Fila, sua protetta) e a cercare, a Napoli e infine a Roma, libertà e felicità lontano dall’isola in cui era nata e cresciuta.

Documenti >

> 1. Una figlia “diversa”

Nella conchiglia dell’orecchio, ora silenziosa, conserva qualche brandello di voce familiare: quella gorgogliante, rauca, della signora madre, quella acuta della cuoca Innocenza, quella sonora, bonaria del signor padre che pure ogni tanto si impuntava e si scheggiava sgradevolmente. Forse aveva anche imparato a parlare. Ma quanti anni aveva? quattro o cinque? una bambina ritardata, silenziosa e assorta che tutti avevano la tendenza a dimenticare in qualche angolo per poi ricordarsene tutto d’un tratto e venirla a rimproverare di essersi nascosta. Un giorno, senza una ragione, era ammutolita. Il silenzio si era impadronito di lei come una malattia o forse come una vocazione. Non sentire più la voce festosa del signor padre le era sembrato tristissimo. Ma poi ci aveva fatto l’abitudine. Ora prova un senso di allegrezza nel guardarlo parlare senza afferrarne le parole, quasi una maliziosa soddisfazione. «Tu sei nata così, sordomuta» le aveva scritto una volta il padre sul quaderno e lei si era dovuta convincere di essersi inventata quelle voci lontane (p. 18).

> 2. Una moglie “diversa”

«Ora hai tredici anni approfitto per dirtelo che ti devi maritari che ti avimu trovato uno zito per te perché non ti fazzu monachella come è destino di tua sorela Fiametta.» La ragazzina rilegge le parole frettolose della madre che scrive ignorando le doppie, mescolando il dialetto con l’italiano, usando una grafìa zoppicante e piena di ondeggiamenti. Un marito? ma perché? pensava che mutilata com’è, le fosse interdetto il matrimonio. E poi ha appena tredici anni. […] «Alla mutola un marito?», scrive Marianna appoggiandosi su un gomito e macchiando nella confusione il lenzuolo d’inchiostro. «Il signor padre tutto fici per farti parlari portandoti cu iddu perfino alla Vicaria che ti giovava lo scantu ma non parlasti perché sei una testa di balata, non hai volontà… tua sorella Fiammetta si sposa con Cristo, Agata è promessa col figgiu del principe di Torre Mosca, tu hai il dovere di accettare lu zitu che ti indichiamo perché ti vogliamo bene e perciò non ti lasciamo niescere dalla familia per questo ti diamo allo zio Pietro Ucrìa di Campo Spagnolo, barone della Scannatura, di Bosco Grande e di Fiume Mendola, conte della Sala di Paruta, marchese di Sollazzi e di Taya. Che poi oltre a essere mio fratello è pure cugino di tuo padre e ti vuole bene e in lui solo ci puoi trovare un ricetto all’anima.»

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Marianna legge accigliata non facendo più caso agli errori di ortografia della madre né alle parole in dialetto gettate lì a manciate. Rilegge soprattutto le ultime righe: quindi il fidanzato, lo «zitu», sarebbe lo zio Pietro? quell’uomo triste, ingrugnato, sempre vestito di rosso che in famiglia chiamano «il gambero»? «Non mi marito», scrive rabbiosa dietro il foglio ancora umido delle parole della madre. La duchessa Maria torna paziente allo scrittoio, la fronte cosparsa di goccioline di sudore: che fatica le fa fare questa figlia mutola: non vuole capire che è un impiccio e basta. «Nessuno ti prende attia Mariannina mia. E per il convento ci vuole la dote, lo sai. Già stiamo preparando i soldi per Fiammetta, costa caro. Lo zio Pietro ti prende senza niente perché ti vuole bene e tutte le sue terre seriano le tue, intendisti?» Ora la signora madre ha posato la penna e le parla fitto fitto come se lei potesse sentirla, accarezzandole con un gesto distratto i capelli bagnati di aceto. Infine strappa la penna dalle mani della figlia che sta per scrivere qualcosa e traccia rapida, con orgoglio, queste parole: «In contanti e subito quindicimila scudi» (pp. 33-35).

> 3. Una madre “diversa”

Nessuno si aspettava che il terzo figlio, anzi la terza figlia nascesse così presto, quasi un mese in anticipo e con i piedi in avanti come un vitello frettoloso. La levatrice aveva sudato tanto che i capelli le si erano incollati al cranio come se avesse preso una secchiata d’acqua in testa. Marianna aveva seguito i movimenti delle mani di lei come se non le avesse mai viste. […] Intanto Innocenza passava delle pezzuole bagnate nell’essenza di bergamotto sulla bocca e sul ventre teso della puerpera. Niesci niesci cosa fitenti ca lu cumanna Diu ’nniputenti. Marianna conosceva le formule e le leggeva sulle labbra della levatrice. Sapeva che stava per essere raggiunta dai suoi pensieri ma non aveva fatto niente per scansarli. Forse allevieranno il dolore, si era detta e aveva chiuso gli occhi per concentrarsi (p. 43). […] Aveva partorito due figlie con facilità. Questa era la terza volta e aveva rifatto una figlia. Il signor marito zio non era contento anche se gentilmente le aveva risparmiato le critiche. Marianna sapeva che finché non avesse partorito il maschio avrebbe dovuto continuare a tentare. Temeva di vedersi gettare addosso uno di quei biglietti lapidari di cui già aveva una collezione, del tipo «E lu masculu, quando vi decidete?» (p. 47). […] Lu «masculu» è arrivato come voleva il signor marito zio, si chiama Mariano. […] Il fatto è che tutti lo tengono in palmo di mano come un gioiello prezioso e a pochi mesi ha già capito che le sue voglie saranno comunque soddisfatte (p. 51).

> 4. La biblioteca

Fuori è buio. Il silenzio avvolge Marianna, sterile e assoluto. Fra le sue mani un libro d’amore. Le parole, dice lo scrittore, vengono raccolte dagli occhi come grappoli di una vigna sospesa, vengono spremuti dal pensiero che gira come una ruota di mulino e poi, in forma liquida si spargono e scorrono felici per le vene. È questa la divina vendemmia della letteratura? […] Quante ore ha trascorso in quella biblioteca, imparando a cavare l’oro dalle pietre, setacciando e pulendo per giorni e giorni, gli occhi a mollo nelle acque torbide della letteratura. Che ne ha ricavato? qualche granello di ruvido bitorzoluto sapere. Da un libro all’altro, da una pagina all’altra. Centinaia di storie d’amore, di allegria, di disperazione, di morte, di godimenti, di assassinii, di incontri, di addii. E lei sempre lì seduta su quella poltrona dal centrino ricamato e consunto dietro la testa. […] Questi erano i libri della biblioteca di villa Ucrìa quando l’ha ereditata Marianna. Ma da quando la frequenta assiduamente i libri sono raddoppiati. Da principio la scusa era lo studio dell’inglese e del francese. E quindi vocabolari, grammatiche, compendii. Poi, qualche libro di viaggi con disegni di mondi lontani e infine, con sempre più ardimento, romanzi moderni, libri di storia, di filosofia. […] Queste letture che si protraggono fino a notte fonda sono prostranti ma anche dense di piaceri. Marianna non riesce mai a decidersi ad andare a letto. E se non fosse per la sete che quasi sempre la strappa alla lettura continuerebbe fino a giorno. Uscire da un libro è come uscire dal meglio di sé. Passare dagli archi soffici e ariosi della mente alle goffaggini di un corpo accattone sempre in cerca di qualcosa è comunque una resa. Lasciare persone note e care per ritrovare una se stessa che non ama, chiusa in una contabilità ridicola di giornate che si sommano a giornate come fossero indistinguibili (pp. 143-145).

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Capitolo 6 · Il romanzo inglese

> 5. La verità

Eppure qualcosa la trattiene, una domanda che le stuzzica la mano. Prende la penna, ne mordicchia la punta, poi scrive rapida al suo solito. «Carlo1, ditemi, voi ricordate che io abbia mai parlato?» «No, Marianna.» Nessuna esitazione. Un no che chiude il discorso. Un punto esclamativo, uno svolazzo. «Eppure io ricordo di avere udito con queste orecchie dei suoni che poi ho perduto.» «Non ne so niente sorella.» E con questo il colloquio è concluso. Lui fa per alzarsi e congedarla ma lei non accenna a muoversi. Le dita tormentano ancora la penna, si macchiano di inchiostro. «C’è altro?» scrive lui chinandosi sul taccuino della sorella. «La signora madre una volta mi disse che non sempre sono stata mutola e priva di udito.» […] «E dopo, sì dopo, quando Marianna era guarita, si era visto che non parlava più, come se, zac, le avessero tagliato la lingua… il signor padre con le sue ubbie2, il suo amore esasperato per quella figlia… cercando di fare meglio ha fatto peggio… una bambina al patibolo, come poteva venirgli in mente una simile baggianata!... per regalarla poi a tredici anni a quello stesso zio che l’aveva violata quando ne aveva cinque… uno “scimunitazzu” il signor padre Signoretto… pensando che il mal fatto era pur suo, tanto valeva che gliela dava in sposa… La piccola testa ha cancellato ogni cosa… non sa… e forse è meglio così, lasciamola nell’ignoranza, povera mutola… farebbe meglio a prendere un bicchiere di laudano3 e mettersi a dormire… non ha pazienza lui con le persone sorde, né con quelle che si legano con le proprie mani, né con quelle che si regalano a Dio con tanta dabbenaggine… e non sarà lui a rinverdirle la memoria mutilata… dopo tutto si tratta di un segreto di famiglia, un segreto che neanche la signora madre conosceva… un affare fra uomini, un delitto forse, ma ormai espiato, sepolto… a che serve infierire?» (pp. 240-243).

1. Carlo: è il fratello di Marianna, abate: il suo silenzio la indurrà a rievocare la violenza subita e le conseguenze dell’accaduto, all’origine del suo mutismo. 2. ubbie: credenze infondate, fissazioni. 3. laudano: composto usato un tempo come calmante per dolori.

> 6. “Diversamente” donna

Marianna gustava la libertà: il passato era una coda che aveva raggomitolato sotto le gonne e solo a momenti si faceva sentire. Il futuro era una nebulosa dentro a cui si intravvedevano delle luci da giostra. E lei stava lì, mezza volpe e mezza sirena, per una volta priva di gravami di testa, in compagnia di gente che se ne infischiava della sua sordità e le parlava allegramente contorcendosi in smorfie generose e irresistibili (p. 295). […] Tornare ai figli, alla villa, a Saro, alle chimere, o rimanere? scappare da quelle forme troppo note che costituiscono la sua costanza o dare retta a quelle alette che le sono spuntate dai due lati delle caviglie? (p. 305) […] Il sottrarsi al futuro che le sta apparecchiando la sorte non sarà una sfida troppo grossa per le sue forze? questa voglia di conoscere gente diversa, questa voglia di girovagare, non sarà una superbia inutile, un poco frivola e perversa? Dove andrà a casarsi che ogni casa le pare troppo radicata e prevedibile? Le piacerebbe mettersela sulle spalle come una chiocciola e andare senza sapere dove. Dimenticare la pienezza di un abbraccio desiderato non sarà facile. […] «È disdicevole per una signora girare da una locanda all’altra, da una città all’altra senza pace, senza rimedio», direbbe il signor figlio Mariano e avrebbe forse ragione. Quel correre, quel vagare, quel patire ogni fermata, ogni attesa, non sarà un avvertimento di fine? entrare nell’acqua del fiume1, prima con la punta delle scarpe, poi con le caviglie e infine con le ginocchia, con il petto, con la gola. L’acqua non è fredda. Non sarebbe difficile farsi inghiottire da quel turbinio di correnti odorose di foglie marce. Ma la voglia di riprendere il cammino è più forte. Marianna ferma lo sguardo sulle acque giallognole, gorgoglianti e interroga i suoi silenzi. Ma la risposta che ne riceve è ancora una domanda. Ed è muta (pp. 306-307).

1. fiume: si tratta del fiume Tevere.

395

Capitolo 7

Carlo Goldoni Goldoni e l’Illuminismo Goldoni non fu propriamente un illuminista, ma visse in quel contesto storico e ne assorbì inevitabilmente le tendenze di fondo. Della sua epoca si riconosce in lui un forte senso della socialità fra gli uomini, l’ideale di una società laboriosa e pacifica, in cui centrale è il cittadino leale e onesto, che si realizza nella famiglia e nell’attività produttiva, sollecito del bene comune. Inoltre caratterizza la sua visione la fiducia in una convivenza umana libera e aperta, ispirata agli ideali della «ragione» e della «natura»: di qui la sua polemica garbata ma pungente contro ogni chiusura retriva e autoritaria nel costume, che mortifichi la realizzazione della persona nella vita familiare e collettiva, e l’antipatia per la superbia prepotente dei nobili e per la loro vita oziosa e parassitaria; anche se la polemica è 396

aliena da ogni radicalismo rivoluzionario (che peraltro sarebbe stato anacronistico nella sua età, prima della Rivoluzione francese) e punta al contrario a una composizione equilibrata dei conflitti fra i vari ceti.

Alla virtù ho sempre posto in confronto il vizio, colla sua pena o col suo disinganno, e in questa guisa non ho abbandonato lo scopo finale della Commedia, e ho consolato gli animi de’ spettatori (All’illustrissimo Signor Giuseppe Smith, premessa al Filosofo inglese)

Videolezione d’autore

nico e che al tempo stesso riflettano realisticamente la società contemporanea.

I due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro (Prefazione alla prima raccolta delle Commedie, 1750)

Individualità concrete e ambienti sociali A tal fine rifiuta i tipi umani astratti e fissi, cari al teatro classico e alla Commedia dell’Arte (l’avaro, il geloso, il bugiardo, il fanfarone…), e cerca di riprodurre individualità concrete, inconfondibili e irripetibili, colte nella complessità delle loro sfumature e necessariamente radicate in un preciso ambiente sociale. In questo Goldoni rispecchia perfettamente la visione borghese moderna e anticipa il realismo che sarà proprio del secolo successivo, di un Manzoni o di un Verga (anche se non ha la percezione della tragicità insita nel quotidiano, che farà la grandezza di quegli scrittori, e resta limitato a una visione fondamentalmente idillica). Le sue commedie La riforma della commedia spiccano nella letteratura classicheggiante del Questa visione fondamentalmente borghese Settecento arcadico per il loro rapporto immeispira la svolta impressa da Goldoni al teatro diato con la realtà, che le rende affini al teatro italiano, le cui conseguenze arrivano sino ad borghese allora affermatosi in Europa. oggi (non è un caso che le sue commedie siano ancora continuamente rappresentate, con diverLa lingua timento degli spettatori). Goldoni non era un puro letterato ma un autentico uomo di teatro, Volendo ritrarre la realtà quotidiana, attraverso che conosceva bene umori e bisogni del pubbli- il dialogo di personaggi colti dal vivo, Goldoni non co, così come conosceva dall’interno i meccani- poteva certo usare la lingua letteraria tradizionale, smi della scena e il mondo degli attori: la sua dal lessico aulico e dalla sintassi complessa. Anriforma della commedia, quindi, non è solo che se in Italia non si era ancora affermata una un’operazione condotta su un genere letterario, lingua unitaria dell’uso comune, lo scrittore sperima incide proprio sullo spettacolo. La sua non è menta nei suoi dialoghi un linguaggio più libero, un’ispirazione libresca, ma i princìpi a cui in- che tende a dare l’impressione del parlato. Questo tende rifarsi sono il «Mondo» e il «Teatro», cioè gli riesce perfettamente quando impiega il natio la realtà vissuta e la scena viva; vuole scrivere e veneziano, una lingua veramente viva, ricca di corappresentare testi che funzionino sul palcosce- lore, duttile nelle sue infinite sfumature. 397

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

1 I primi anni

La vocazione teatrale

La vita Videolezione

Le varie esperienze giovanili

Carlo Goldoni nacque a Venezia nel 1707 da una famiglia di condizione borghese. Il padre, medico di professione, era uno spirito irrequieto, sempre in movimento tra diverse città italiane, in cerca di una sistemazione economica. Il ragazzo lo seguì a Perugia, dove compì i primi studi presso i gesuiti; poi fu inviato a Rimini per affrontare gli studi superiori, ma di lì fuggì sulla barca di una compagnia di comici per raggiungere la madre a Chioggia. Fra il 1723 e il 1725 studiò legge all’Università di Pavia e fu ospite del prestigioso collegio Ghislieri, ma ne fu cacciato in seguito a una satira da lui composta sulle donne della città. Seguirono anni inquieti, di continui spostamenti e avventure amorose. Ripresi gli studi di legge, si impiegò come coadiutore aggiunto alla cancelleria criminale di Chioggia (esperienza che gli fornirà la materia per uno dei suoi capolavori, le Baruffe chiozzotte), poi come coadiutore alla cancelleria di Feltre (1729-30). La morte del padre, nel 1731, lo mise dinanzi alla necessità di provvedere alla madre. Affrettò il conseguimento della laurea in Legge a Padova, e si avviò alla professione di avvocato. Nel frattempo però aveva preso corpo quella prepotente vocazione teatrale che si era preannunciata in lui sin dai primi anni, e che era stata coltivata con assidue letture della letteratura teatrale italiana e straniera e con frequenti contatti con il mondo della scena. In una delle sue peregrinazioni conobbe a Verona, nel 1734, il capocomico Giuseppe Imer, e grazie a lui ottenne l’incarico di scrivere i testi per il teatro veneziano di San Samuele. In questa prima fase della sua produzione per il teatro affrontò vari generi: tragicommedie, melodrammi, intermezzi (brevi spettacoli da recitarsi tra un atto e l’altro). È questa una produzione scarsamente originale. Ma Goldoni si provò presto anche nel genere comico, che gli era più congeniale, e, in polemica con la Commedia dell’Arte che ancora dominava le scene, avviò una radicale “riforma” del teatro comico, che portò avanti con

Goldoni e il suo tempo

Linea del tempo

Momolo cortesan

Nasce a Venezia da una famiglia borghese

Studia a Perugia e a Rimini: di qui fugge a Chioggia con una compagnia di comici

Studia legge a Pavia; in seguito lavora alle cancellerie criminali di Chioggia e di Feltre

Muore il padre. Si laurea a Padova e intraprende l’avvocatura

1720

Pace di UtrechtRastadt: gli Asburgo controllano il Ducato di Milano, il Regno di Napoli e la Sardegna

398

Avvia la “riforma” del teatro comico Inizia a lavorare per l’impresario Imer

Si stabilisce a Pisa, dove frequenta l’Arcadia

Teatro San Samuele

Periodo giovanile

1707 1713

La donna di Garbo

1731

1734

1738 1745

La dinastia spagnola dei Borbone prende il controllo del Regno di Napoli e della Sicilia

Abbandona l’avvocatura e inizia a lavorare per la compagnia Medebac

Teatro

1748

Politica di riforme nel milanese (Asburgo) e nel napoletano (Borboni)

Capitolo 7 · Carlo Goldoni

La professione di “poeta di teatro”

prudente gradualità ( Una riforma graduale, p. 408). Dalla sua attività di scrittore per il teatro non ricavava però ancora di che vivere. Le sue condizioni economiche erano alquanto precarie, tanto che nel 1743 dovette fuggire da Venezia a causa dei debiti. Tra il 1745 e il 1748 si stabilì a Pisa, dove riprese la professione forense e dove entrò nella locale “colonia” dell’Arcadia. Non smise però la sua produzione di testi per il teatro, né i contatti con il mondo della scena. Conosciuto a Livorno il capocomico Girolamo Medebac, fu da questi convinto a impiegarsi come “poeta di teatro” presso la sua compagnia, con un contratto stabile, che prevedeva la stesura di otto commedie all’anno, e dietro un certo compenso fisso, abbastanza soddisfacente. Così Goldoni lasciò definitivamente l’avvocatura e divenne scrittore di teatro per professione.

L’attività di scrittore per il teatro: la compagnia Medebac Una nuova figura d’intellettuale

Goldoni scrive per il mercato

È questo un dato sociologico molto importante. Nel panorama degli intellettuali del Settecento Goldoni rappresenta una figura nuova: in un’età in cui gli scrittori o fanno parte dei ceti privilegiati (nobiltà e alto clero) che vivono delle loro rendite, oppure sono al loro servizio, godendo della protezione di un grande signore che funge da mecenate, Goldoni è lo scrittore che vive dei proventi della sua professione intellettuale, di ciò che guadagna scrivendo. In questo anticipa la figura dello scrittore quale si imporrà nella società borghese a partire dall’Ottocento. Non solo, ma Goldoni non scrive più esclusivamente per un pubblico di letterati, come era proprio degli intellettuali del suo tempo, bensì per il mercato. Il teatro è un’impresa commerciale: agli spettacoli il pubblico, proveniente dai vari strati sociali, accede a pagamento, quindi il proprietario della sala (che è in genere un nobile) e il capocomico ne ricavano un utile. Essi investono denaro nel teatro, e vogliono ricavarne denaro: lo spettacolo di conseguenza deve incontrare i gusti del pubblico pagante, deve aver successo e attirare molti spettatori. Lo scrivere commedie deve dunque obbedire alle leggi del mercato: e a questo obbligo Goldoni si adattò sempre con grande disponibilità, cercando di compiacere i gusti e le richieste del pubblico, producendo delle “merci” che si “vendessero” bene. Anche in

Sior Todero brontolon Baruffe chiozzotte

La locandiera “Trilogia persiana”

Scrive sedici commedie

“Sfida” con Pietro Chiari

Sant’Angelo

1751 In Francia inizia ad essere pubblicata l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert

Mémoires

Il ventaglio I Rusteghi Testi della maturità

Passa a lavorare per l’impresario Vendramin

Le bourru bienfaisant

Polemica con Carlo Gozzi. Periodo di crisi

Si traferisce a Parigi, dove dirige la Comédie italienne

È assunto L’Assemblea come maestro Legislativa d’italiano revoca alla corte la sua francese pensione

Teatro San Luca

1753

1754-58

Muore, mentre l’Assemblea Legislativa gli riconosce il diritto alla pensione

Parigi

1759-62 1762 1764-66

1776

Pubblicazione Dichiarazione di della rivista indipendenza milanese delle colonie “Il Caffè” inglesi d’America

1789

1793

Rivoluzione francese

399

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La produzione per la compagnia Medebac

Le polemiche con Chiari

questo lo scrittore anticipa una condizione che sarà propria dell’età successiva. E si può facilmente capire perché: il teatro era allora in Italia (specialmente a Venezia, in cui gli spettacoli erano molto più diffusi che nelle altre città italiane) l’unico campo culturale in cui già esistesse un mercato vero e proprio, quindi presentava condizioni che erano in certo modo in anticipo sugli altri settori, e prefigurava realtà a venire. Nulla del genere poteva riscontrarsi nel campo strettamente letterario, poiché i libri avevano una circolazione estremamente limitata, all’interno di una cerchia ristretta di “addetti ai lavori”, quindi non esisteva (se non in misura trascurabile) la figura dello scrittore che si rivolgesse al mercato per ricavarne un lucro. Solo nel secolo successivo il libro comincerà a divenire anch’esso una “merce” di larga diffusione. Goldoni lavorò per la compagnia Medebac, che recitava al teatro Sant’Angelo, dal 1748 al 1753, scrivendo un numero elevato di commedie, in cui continuò a perseguire con tenacia la sua riforma, vincendo progressivamente le resistenze del pubblico, degli attori, dell’impresario. Dopo l’insuccesso di una commedia, al fine di stimolare nuovamente l’interesse del pubblico, Goldoni prese con gli spettatori l’impegno di scrivere per la stagione successiva, quella del 1750-51, ben sedici commedie nuove, e riuscì nell’impresa con un tour de force che ha dello straordinario, e che getta luce sulla sua qualità non solo di artista fecondo (alcuni di questi testi, come La bottega del caffè, sono pregevoli), ma anche, come si diceva, di produttore di merci per il mercato. Il mercato implica concorrenza: e Goldoni dovette affrontare quella del suo rivale Pietro Chiari, uno scrittore spregiudicato e disinvolto che, per ottenere successo, ricorreva a tutti i mezzi e praticava tutti i generi di commedie. La “sfida” con Chiari durò a lungo, appassionando il pubblico e suscitando fiere polemiche, che provocarono addirittura l’intervento della censura.

Carta interattiva

I luoghi e la vita di Goldoni PARIGI

1 VENEZIA

Nasce nel 1707 da una famiglia borghese.

2 PERUGIA Si trasferisce presto con il padre dapprima a Perugia, dove si forma in una scuola gesuita, poi a Rimini, dove studia presso i domenicani. Fuggito da Rimini con una compagnia di comici raggiunge la madre a Chioggia.

PAVIA

3 PADOVA Fra il 1723 e il 1725 studia legge all’Università di Pavia. Dopo la morte del padre (1731) consegue la laurea in Legge e si avvia alla professione di avvocato.

400

7 PARIGI Nel 1762 accetta l’invito a recarsi a Parigi per dirigere la Comédie italienne. È assunto a corte come maestro di italiano, ottenendo una modesta pensione, che gli viene sospesa nel 1792 dall’Assemblea Legislativa: sopravvive pochi mesi in miseria e muore nel 1793.

6 VENEZIA Nel 1748 torna a Venezia, dove il capocomico Medebac lo convince a impiegarsi come “poeta di teatro” presso la sua compagnia al teatro Sant’Angelo (1748-53). Nel 1753 passa al teatro San Luca, di proprietà del nobile Francesco Vendramin.

PAD VER OVA VENEZIA ONA CHIOGGIA

PISA

RIMINI

PERUGIA 4 VERONA Nel 1734 conosce il capocomico Giuseppe Imer che lo incarica di scrivere i testi per il teatro veneziano di San Samuele.

5 PISA Tra il 1745 e il 1748 si stabilisce a Pisa, dove riprende la professione forense, dopo essere fuggito da Venezia (1743) a causa dei debiti, e dove entra nella locale “colonia” dell’Arcadia.

Capitolo 7 · Carlo Goldoni

Dal teatro San Luca a Parigi Il periodo del teatro San Luca

Le polemiche con Carlo Gozzi

A Parigi

2

Con la compagnia Medebac però Goldoni entrò in attrito, soprattutto per questioni economiche. Nel 1753 passò allora al teatro San Luca, di proprietà del nobile Francesco Vendramin. Seguì un periodo difficile, in cui, anche per vincere la concorrenza di Chiari, Goldoni tentò vie diverse dalla commedia realistica ( Dalla “maschera” al “carattere”, p. 412) sino allora perseguita, sperimentando tematiche esotiche e avventurose ( La seconda fase: incertezze e soluzioni eclettiche, p. 418). All’ultimo periodo di attività per il San Luca (1759-62) appartengono però alcuni dei suoi testi più maturi, come vedremo. Intanto intorno alla commedia goldoniana si infittivano le polemiche, soprattutto ad opera di Carlo Gozzi, un letterato aristocratico e conservatore che avversava la “riforma”, proponendo un teatro fiabesco e fantastico, che conservava aspetti della vecchia Commedia dell’Arte e che incontrò largo favore negli spettatori. Amareggiato per il successo dell’avversario, che sembrava sottrargli il suo pubblico affezionato, e forse spinto da quella intima irrequietezza che sempre lo aveva tormentato, al di là del carattere apparentemente tranquillo e bonario, Goldoni accettò nel 1762 l’invito a recarsi a Parigi per dirigere la Comédie italienne (anche con la speranza di una più sicura sistemazione economica). Qui però lo scrittore trovò ancora in piena voga i canovacci e le maschere della Commedia dell’Arte, e dovette ricominciare dal principio a lottare per la sua riforma. Il pubblico parigino, abituato ai lazzi (brevi scenette improvvisate, di tipo mimico, inserite in un testo teatrale) dei comici, dimostrò freddezza per le novità di Goldoni (anche a causa della lingua, la cui perfetta conoscenza era indispensabile per cogliere le sfumature di una commedia che delineasse caratteri e ambienti, e non si limitasse a una sequela di buffonerie). Perciò Goldoni dovette adattarsi a tornare agli scenari che da tempo aveva abbandonato. Nel 1771, tuttavia, ottenne un buon successo con una commedia scritta in francese, Le bourru bienfaisant (“Il burbero benefico”), in cui riprendeva il modello di Molière. Entrato nelle grazie della corte, fu assunto come maestro di italiano delle principesse reali, ottenendo una modesta pensione. Scoppiata la Rivoluzione, tutto il mondo in cui era vissuto fu sconvolto dalle radici. Nel 1792 l’Assemblea Legislativa sospese anche la sua pensione, in quanto concessa dal re: lo scrittore sopravvisse pochi mesi, in miseria, e morì nel febbraio del 1793, proprio il giorno in cui l’Assemblea, decretando la restituzione dei suoi emolumenti, riconosceva nelle sue commedie «un presagio della caduta del dispotismo».

La visione del mondo: Goldoni e l’Illuminismo Goldoni e il clima culturale del suo tempo

L’Illuminismo a Venezia

Goldoni non fu certo un illuminista militante, come lo furono a Milano un Pietro Verri ( cap. 4, A2, p. 339) o un Cesare Beccaria ( cap. 4, A1, p. 335), e neanche uno scrittore impegnato nella battaglia civile in nome dei nuovi princìpi riformatori, come lo fu Giuseppe Parini ( cap. 8, p. 486). D’altronde l’ambiente veneziano era ben diverso da quello milanese. È vero che nei primi decenni del secolo penetra a Venezia la cultura europea più moderna e illuminata: i ceti burocratici e borghesi, attraverso i contatti diplomatici e commerciali con i paesi stranieri, vengono a conoscenza delle idee più innovatrici e introducono in patria i primi saggi di una filosofia dei “lumi”, ed anche i nobili, attraverso i viaggi (che in questo secolo cosmopolita per eccellenza sono frequentissimi), divengono il tramite di un aggiornamento culturale. A Venezia inoltre è intensa la produzione libraria, che diffonde le opere più importanti della nuova “filosofia”, così come 401

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Goldoni e le idee della «media civiltà illuministica»

molto viva è la pubblicistica: tra il 1710 e il 1762 nascono ben 27 periodici, che informano tra l’altro sui libri editi in Francia, in Inghilterra, in Olanda, in Germania. Il pensiero innovatore viene così assorbito da ampi strati della società civile (anche se queste idee non danno vita a un’autentica azione riformatrice, data la chiusura conservatrice dell’oligarchia veneziana). Goldoni, pur non essendo uomo di vasta cultura, risentì del clima generale attraverso gli intensi contatti con la realtà del suo tempo stabiliti durante i suoi frequenti viaggi in Italia e attraverso l’amicizia con personalità straniere presenti a Venezia, che gli permise di conoscere realtà europee più avanzate, di cui sentì fortemente il fascino. Ad assorbire le idee nuove era d’altronde disposto dalla sua appartenenza al ceto borghese, di cui condivideva i princìpi e i valori fondamentali: in fondo la filosofia dei “lumi” era la rielaborazione a livello concettuale più elevato della visione della vita del borghese attivo ed aperto. In Goldoni si possono dunque riconoscere le componenti di quella «media civiltà illuministica», come ben ha messo in luce in un suo saggio Walter Binni (da cui ricaviamo qui molte indicazioni), di quella mentalità diffusa nei ceti medi che avevano assimilato, adattandole al loro orizzonte mentale e alle loro esigenze, le idee dominanti, mettendole in pratica in forme prudenti e al tempo stesso concrete.

Motivi “illuministici” in Goldoni

Il senso della socialità

La simpatia per l’«uomo dabbene» e l’antipatia per i nobili

L’ammirazione per l’Inghilterra e l’Olanda

402

Innanzitutto vi è in Goldoni un’adesione alla vita nella sua esclusiva dimensione mondana, un’estraneità ad ogni ansia di trascendente. Di qui deriva l’antipatia per ogni forma di metafisica e l’esaltazione di una filosofia pratica, fondata sul “buon senso”, che si misuri con i problemi concreti della vita civile, avendo come fine il bene comune. Goldoni ha fortissimo il senso della socialità, dei rapporti che legano gli uomini in una collettività. Tutto ciò che può compromettere questo sereno e produttivo vivere sociale, come l’ipocrisia e la menzogna, è respinto da lui in quanto dannoso e riprovevole. Il rispetto della sincerità, la trasparenza dei comportamenti, la fedeltà agli impegni presi sono i tipici valori di una civiltà borghese e mercantile, che è la società in cui Goldoni si forma. Questa centralità della figura dell’«uomo dabbene», del cittadino «onorato», leale, onesto, attivo, è legata alla fiducia in una convivenza umana libera, aperta, ispirata agli ideali della «ragione» e della «natura». Di qui nasce l’antipatia per la superbia e la prepotenza dei nobili, per la loro ostentazione vacua dei titoli, per il loro puntiglio feudale e per il loro ozio parassitario (di cui vedremo esempi eloquenti leggendo La locandiera, T2, p. 426). Questa borghese antipatia per il privilegio porta Goldoni a vagheggiare un’uguaglianza primitiva degli uomini, al di là delle gerarchie sociali stabilite. Tali spunti egualitari sono però, naturalmente, miti poetici, vagheggiamenti utopici di una realtà ideale, non pretendono certo di essere applicati alla lettera nella realtà: l’egualitarismo giacobino della Rivoluzione francese era ancora ben di là da venire, con le sue forme di radicalismo violento e autoritario. La mentalità di Goldoni è prudentemente riformatrice: lo scrittore rispetta l’ordine gerarchico delle classi e auspica una tranquilla convivenza tra i vari ceti, ciascuno con la sua fisionomia specifica, le sue diverse virtù, la sua diversa funzione nel corpo sociale. Per questo Goldoni ammira le società mercantili del Nord, dove i borghesi partecipano alla vita politica accanto ai nobili, e le idoleggia come la sede di tutte le virtù morali e civili, dell’onestà, dell’apertura mentale, della mancanza di pregiudizi. Anche questa disposizione cosmopolita è un tratto che collega Goldoni alle idee dominanti della «media civiltà illuministica». L’ideale di vita che traspare da questa ammirazione per l’Inghilterra e l’Olanda è quello di una civiltà laboriosa e pacifica, in cui si afferma un nuovo tipo di eroe, non più quello aristocratico della civiltà classica, che si distingueva essenzialmente per le sue virtù guerriere, ma l’uomo onesto che si realizza nella sfera della sua attività produttiva, sollecito del bene della sua famiglia ma anche del benessere e del progresso della sua città.

Capitolo 7 · Carlo Goldoni La città

La critica dell’autoritarismo retrivo

L’ottimismo

Il giudizio degli illuministi

La dimensione della vita cittadina è quella in cui meglio si può affermare questa pacata, fattiva socievolezza dell’uomo: la città è la sede delle più varie attività, dei traffici, degli scambi, della civile e garbata conversazione, ma anche dei momenti di divertimento e di gioia collettiva, degli spettacoli, delle feste. Questa visione ispirata ad un’aperta socievolezza induce Goldoni a vedere negativamente ogni chiusura retriva, che mortifichi la libera espansione della personalità nei suoi rapporti con gli altri, con la vita sociale. Per questo, in commedie come I rusteghi o il Sior Todero brontolon, presenta in una luce critica i padri di famiglia autoritari, che opprimono mogli e figli imponendo loro un costume di vita soffocante nella sua tetra angustia. Agli occhi di Goldoni un simile comportamento è un attentato contro la «natura» e la «ragione», che esigono che l’individuo possa esprimere liberamente se stesso, al di fuori di ogni vincolo assurdo e insensato. Anche qui Goldoni non è certo un sovvertitore dei costumi: come sempre auspica l’instaurarsi di un ragionevole equilibrio tra le esigenze dell’individuo e quelle della famiglia, in obbedienza alla legge della rispettabilità sociale, come si può cogliere nella conclusione delle due commedie citate. In questo ottimismo sulla possibilità di comporre in equilibrio i conflitti fra ceti e individui si riflette l’ottimismo che è proprio di tutto il secolo illuministico. La controprova della sintonia fra Goldoni e la visione media dell’età illuministica è il giudizio positivo che del suo teatro diedero gli illuministi stessi. Voltaire lo elogiò come «pittore della Natura»; sul “Caffè” Pietro Verri scorgeva nelle sue commedie «un fondo di virtù vera, d’umanità, di benevolenza, d’amor del dovere». Come ha osservato Petronio, questi elogi non erano genericamente moralistici, «ma significavano riconoscere in Goldoni un compagno nella lotta per una nuova etica sostanzialmente “borghese”». Mappa interattiva

Visualizzare i concetti

Le radici storico-culturali della commedia goldoniana Interesse per l’individuo colto nella sua concretezza

Arcadia

CoMMeDIe DI GoLDonI

Esaltazione dei valori borghesi etica

Lingua naturale e spontanea

realismo innovazione espressiva

Semplicità e razionalità espressive

Civiltà borghese

Attenzione al rapporto tra individuo e società

ideologia

Disinteresse per il trascendente ed esaltazione di una filosofia pratica

Ottimismo sulla possibilità di risolvere i conflitti sociali con gli strumenti della ragione

Condanna dei privilegi nobiliari e delle ingiustizie sociali

Razionalismo illuministico

403

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

3 Il rifiuto della Commedia dell’Arte

La riforma della commedia Il declino della Commedia dell’Arte

Videolezione

Quando Goldoni intraprese la sua attività di scrittore per il teatro la scena comica era ancora dominata dalla Commedia dell’Arte, che aveva trionfato nell’età barocca, ed in cui gli attori impersonavano le maschere tradizionali (Pantalone, il Dottore, Brighella, Arlecchino), improvvisando le battute senza seguire un testo interamente scritto, ma solo sulla base di un sommario canovaccio che indicava le azioni dell’intrigo. Nei confronti di questo tipo di teatro Goldoni assunse atteggiamenti fortemente polemici. Come egli stesso ebbe poi modo di spiegare in vari scritti di carattere teorico (quali la prefazione alla prima edizione delle commedie, «Mondo» e «Teatro» nella poetica di Goldoni, T1, p. 410, e più tardi i Mémoires), i motivi del suo rifiuto erano: la volgarità buffonesca a cui era scaduta la comicità, la rigidezza stereotipata a cui si erano ridotti i tipi umani rappresentati dalle maschere, la ripetitività della recitazione degli attori, che riproducevano sempre gli stessi lazzi, le stesse azioni mimiche e le stesse battute convenzionali, perfettamente prevedibili dal pubblico, la costruzione sgangherata e incoerente degli intrecci avventurosi e sentimentali e la loro assoluta inverosimiglianza. Effettivamente, dopo la splendida stagione vissuta nel secolo precedente, la Commedia dell’Arte era in decadenza e mostrava segni di involuzione e inaridimento nella ripetizione ormai stanca di certi schemi. Tuttavia, a ben vedere, la critica di Goldoni non si appuntava tanto su queste degenerazioni, quanto sulla Commedia dell’Arte in sé, sul suo impianto stesso, sulla visione del reale che esso presupponeva.

«Mondo» e «Teatro» Il gusto arcadico e la riforma della commedia

Una riforma a diretto contatto con il teatro

Arte La Venezia di Goldoni

Il bisogno di una riforma si originava nel clima della cultura arcadica e razionalistica, alla quale ripugnava quanto di stravaganza e di bizzarria barocca era ancora presente nella Commedia dell’Arte, e che aspirava alla semplicità, all’ordine razionale, al buon gusto e alla naturalezza. Goldoni, come tutti gli intellettuali del suo tempo, si era formato in quel clima, e non poteva non risentirne (anche se la sua cultura era tutto sommato limitata). Il razionalismo arcadico aveva già ispirato prima di Goldoni tentativi di riforma da parte di alcuni scrittori toscani, Giovan Battista Fagiuoli, Iacopo Angelo Nelli, Girolamo Gigli, ma i loro tentativi si collocavano in un ambito puramente letterario ed erano rimasti confinati nel chiuso delle accademie, senza incidere veramente nella realtà della scena e dello spettacolo. Goldoni al contrario non era un puro letterato: era un autentico uomo di teatro, che viveva e lavorava a contatto diretto con il pubblico e ne conosceva perfettamente gli umori e i bisogni, così come conosceva dall’interno i meccanismi e le esigenze della scena. In questo era favorito dal fatto di vivere a Venezia, una città che era una vera capitale europea del teatro, tanto radicata e diffusa vi era la civiltà dello spettacolo, tanto numerose erano le sale teatrali e le compagnie che vi operavano. Carlo Goldoni fonda la nuova Commedia superando lo stile della vecchia Commedia dell’arte, 1805, incisione per HD Symonds, Londra, Mary Evans Picture Library.

404

Capitolo 7 · Carlo Goldoni

Le direttrici fondamentali della riforma

La sua “riforma” non è quindi solo la riforma di un genere letterario, in obbedienza al gusto del razionalismo arcadico e in ripresa di una tradizione illustre, classica e rinascimentale, ma un’operazione di ambito più vasto, che mira a incidere soprattutto sullo spettacolo, nei suoi rapporti con la vita sociale. Come Goldoni stesso proclama con grande lucidità nella prefazione alla prima edizione delle sue commedie (1750, presso Bettinelli, T1), nella sua riforma non si è tanto ispirato a precettistiche e a modelli libreschi, poiché i due «libri» su cui ha studiato sono il «Mondo» e il «Teatro», cioè la realtà vissuta e la scena viva, lo spettacolo. In tal modo Goldoni sintetizza perfettamente le due direttrici fondamentali della sua riforma: da un lato vuole produrre testi che piacciano al pubblico, che possano vivere autenticamente sulle scene, tenendo presente lo specifico linguaggio dello spettacolo, dall’altro egli aspira ad una commedia che sia «verisimile», che rifletta realisticamente la società contemporanea, i caratteri umani che vi si muovono, i problemi che vi si agitano.

Dalla “maschera” al “carattere” Il superamento dei tipi fissi

La ricerca dell’individuale concreto e la visione borghese

Il contesto veneziano

Per questo egli ritiene che non siano più utilizzabili le maschere tradizionali. La sua commedia «verisimile», ispirata alla «Natura», vuole rappresentare dei caratteri colti nella loro individualità, irripetibili e inconfondibili, in tutta la complessità e mutevolezza delle loro sfumature psicologiche e comportamentali, come quelli che agiscono nella realtà vissuta. Le maschere invece costituiscono dei tipi fissi, che nascono dall’astrazione dei tratti comuni ad una varietà di individui concreti, come appunto il vecchio avaro e libidinoso (Pantalone), il dotto borioso (il Dottore), il servo sciocco (Arlecchino), il servo astuto (Brighella). Tra la “maschera” e il “carattere” vi è la stessa distanza che separa la maschera (l’oggetto materiale indossato dall’attore) e il volto: questo è infinitamente vario da uomo a uomo, e infinitamente mutevole nelle sue espressioni che traducono i moti interiori, quella invece è sempre identica, irrigidita nella materia che la compone. Goldoni afferma che i caratteri sono in numero finito in quanto al genere (l’avaro, il geloso, il bugiardo ecc.), ma sono infiniti nelle specie, nel senso che ci sono infiniti modi di essere avari, gelosi, bugiardi, a seconda degli individui e degli ambienti sociali. In uno dei suoi testi più maturi, I rusteghi, arriverà a rappresentare ben quattro varianti diverse di uno stesso carattere, quello dell’uomo «rustico», scontroso e ruvido. Questa ricerca dell’individualità concreta, nella sua dimensione personale irripetibile, è un aspetto caratterizzante il nuovo gusto che nasce dall’imporsi della civiltà borghese moderna, in contrapposizione alla tendenza ad una tipicità astratta che era propria dell’arte classica antica e rinascimentale. L’arte classica rappresentava delle categorie di individui, quella borghese moderna delle individualità singole. In questo si esprime l’individualismo che, in unione con l’aderenza al concreto, è proprio dello spirito borghese. La capacità di cogliere l’individuale concreto sarà un tratto tipico della letteratura realistica del secolo successivo (come vedremo a suo luogo: ma basti solo pensare ai personaggi dei Promessi sposi): anche per questo aspetto Goldoni anticipa tendenze della letteratura a venire. Il carattere così “borghese” della visione goldoniana è indubbiamente ascrivibile (sia pur senza meccanici determinismi) alla sua condizione sociale, alla sua provenienza dal ceto medio e alla sua stessa collocazione professionale (di avvocato prima, e poi di “poeta di teatro”, che si guadagna da vivere con il suo lavoro). Ma non sarebbe comprensibile senza il contesto di Venezia, in cui, a differenza di altre zone d’Italia più arretrate, grazie alle antiche tradizioni mercantili si era affermata da tempo una solida e prospera classe borghese, con una coscienza di sé ed un sistema di valori fortemente delineati (anche se tale borghesia non aspirava ad imporre il suo dominio politico, ma si accontentava di rivendicare la propria visione della vita diversa da quella nobiliare, fondata sulla laboriosità attiva e sulla rispettabilità, anziché sull’ozio e sullo sperpero). La nascita di una commedia realistica, intesa a mettere in scena “caratteri” tratti dalla vita vissuta 405

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

e problemi del costume contemporaneo, è favorita dalla presenza a Venezia di un vasto pubblico borghese, che si compiace al veder rappresentare se stesso, la propria psicologia, i propri princìpi etici sulle tavole del palcoscenico.

Il rapporto tra caratteri e ambienti: la commedia borghese Caratteri e ambienti sociali

Commedie “di carattere” e “d’ambiente”

La novità di Goldoni nella letteratura settecentesca

Goldoni e il «genere serio» dell’Illuminismo europeo

406

I “caratteri” goldoniani non sono però individualità tra loro isolate, collocate su uno sfondo neutro e astratto: essi sono sempre radicati in un contesto sociale molto concreto e precisamente delineato, che incide in modo profondo sulla loro conformazione psicologica. Secondo Goldoni i sentimenti, i vizi, le virtù degli individui assumono una diversa fisionomia a seconda dell’ambiente sociale in cui essi si sono formati e vivono. Egli stesso, nella prefazione ad una commedia, La donna prudente, lo afferma in modo molto chiaro. La gelosia, egli sostiene, è una passione comune a tutti gli uomini, ma si manifesta in modi diversi nei vari ceti sociali. L’uomo di bassa condizione, se è geloso della moglie, non ha difficoltà a rivelarlo, mentre il nobile, in nome delle convenzioni del suo ambiente, si vergogna a manifestare la sua debolezza ed è costretto a celarla. Per questo le commedie goldoniane, se sono fitte di caratteri individuali sapientemente tratteggiati, ricostruiscono anche ambienti sociali colti in tutte le loro componenti, nei modi di pensare, di comportarsi, di esprimersi. Si sogliono in genere distinguere nella produzione di Goldoni le commedie di “carattere”, intese a delineare una figura, e le commedie “d’ambiente”, intese a descrivere un particolare settore della vita sociale. Ma è una distinzione convenzionale e astratta: sempre le commedie goldoniane sono al tempo stesso di carattere e d’ambiente, in quanto i due poli non possono mai venire isolati; sempre un carattere evoca intorno a sé un determinato ambiente, e sempre un ambiente dà vita dal suo seno a caratteri individuali. Le differenze sono quantitative, non qualitative, nel senso che in un testo può avere uno spicco maggiore o minore ora il carattere ora l’ambiente (potremo verificarlo nella lettura della Locandiera, che è classificata come commedia “di carattere”, dato il rilievo che vi possiede la figura di Mirandolina, ma che è allo stesso tempo una acuta pittura di ambienti sociali). Anche questo rapporto dinamico tra individuo e ambiente, che Goldoni sa cogliere con estrema penetrazione, è un tratto che anticipa il realismo della letteratura del secolo successivo. Basti pensare, di nuovo, ai Promessi sposi: le individualità così nettamente delineate di Renzo e di Lucia sarebbero impensabili al di fuori del loro contesto sociale, il villaggio sulle rive del lago di Lecco, l’ambiente dei filatori di seta e dei contadini. Le commedie goldoniane spiccano dunque con singolare rilievo sullo sfondo della letteratura arcadica del Settecento, classicheggiante, aulica o aristocraticamente aggraziata e frivola, chiusa in una dimensione esclusivamente libresca, e propongono un rapporto più vivo e immediato con la realtà, che viene colta nei suoi aspetti comuni e quotidiani e resa con un linguaggio agile e colloquiale ( La lingua, p. 421). La loro rappresentazione della realtà manca però della profondità che sarà propria del realismo ottocentesco, di un Manzoni, di un Verga. Goldoni in genere si ferma alla superficie colorita dei fenomeni e non riesce a cogliere la tragicità dei grandi conflitti che si agitano nelle coscienze o che lacerano il tessuto sociale. Oltre ad avere questo valore anticipatore rispetto alla letteratura ottocentesca, la commedia goldoniana presenta forti affinità con la commedia borghese che nasce nel clima dell’Illuminismo europeo, in particolare, come ha mostrato Giuseppe Petronio, con il «genere serio» teorizzato e praticato dal grande illuminista francese Denis Diderot ( cap. 3, A1, p. 303). Era una commedia che si collocava in posizione mediana tra la vecchia tragedia e la vecchia commedia, ed in cui c’era posto non più solo per le virtù eroiche e sublimi ma anche per le virtù modeste, praticate quotidianamente dagli uomini comuni dei ceti medi. In queste opere, «nella medietà di soggetto e di tono» si rispecchiava «la vita reale, fuori della stilizzazione eroica della tragedia, della stilizzazione farsesca della commedia a soggetto» (Petronio).

Capitolo 7 · Carlo Goldoni

Il significato del distacco dalla Commedia dell’Arte

Il rifiuto dell’improvvisazione

Tutto ciò induce a una considerazione complessiva: Goldoni tendeva a presentare la sua nuova commedia come una restaurazione del teatro in tutta la sua dignità contro una forma degenerata e volgare, la Commedia dell’Arte; ma è chiaro che per noi, nella prospettiva storica che abbiamo delineato, questo schema interpretativo non può più essere accettabile. È evidente che la Commedia dell’Arte non può essere considerata il “negativo” e quella goldoniana il “positivo”, che finalmente trionfa sconfiggendo cattivo gusto e volgarità. Non è che la “nuova” commedia sia “migliore” di quella precedente: si tratta solo di due tipi diversi di teatro, rispondenti a due diverse civiltà, l’uno a quella barocca, l’altro a quella del razionalismo illuministico e del realismo borghese. Da quanto è emerso finora si può comprendere perché l’improvvisazione della vecchia Commedia dell’Arte non fosse più praticabile da Goldoni. Gli attori non improvvisavano dal nulla, in ogni recita, battute e testi: la loro improvvisazione era resa possibile dal fatto che essi si basavano su elementi fissi, ricorrenti: i canovacci, con le loro vicende meccanicamente ripetute, i lazzi, i generici, quei repertori di tirate che venivano recitate identiche in determinate situazioni. Solo su questa base, all’interno di convenzioni minutamente e rigidamente fissate, l’attore poteva poi improvvisare. La sua bravura poteva dare origine a soluzioni straordinarie, ma proprio queste convenzioni, irrigidendo il reale entro schemi fissi, rendevano impossibile rappresentare le infinite sfumature dei caratteri e degli ambienti del «Mondo», a cui Goldoni si voleva ispirare. Ripetiamo che non si tratta di differenze di “valore” artistico, ma di due modi storicamente determinati e diversi di intendere il teatro e di rapportarsi alla realtà: il modulo della Commedia dell’Arte era fatto per ottenere altri effetti, ma non era adatto alla rappresentazione realistica del vissuto, alla quale Goldoni mirava. La perfetta fusione di «Mondo» e «Teatro» a cui egli aspirava vi era impossibile, ed il «Teatro», nella sua dimensione di spettacolo, autonoma dalla realtà oggettiva, aveva il sopravvento. La ricchezza di sfumature della realtà vissuta poteva essere colta solo se lo scrittore stendeva preventivamente il copione per intero, se ogni minimo aspetto della vicenda da rappresentare era preordinato con cura, e se l’attore era costretto a imparare fedelmente a memoria ciò che il “poeta di teatro” aveva scritto.

Giuseppe De Albertis, Intermezzo, XVIII secolo, olio su tela, Milano, Museo Teatrale alla Scala.

407

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Una riforma graduale Gli ostacoli della riforma: gli attori

Il pubblico

Nel condurre la sua battaglia per la nuova commedia Goldoni incontrò inevitabilmente ostacoli e difficoltà. Innanzitutto da parte degli attori, che, essendo abituati a recitare “all’improvviso” e con le maschere, e avendo sviluppato in tale campo un’eccellente professionalità (con Goldoni lavoravano attori bravissimi come l’“Arlecchino” Sacchi e i “Pantaloni” Golinetti e D’Arbes), si trovavano a disagio nel mutare radicalmente moduli di recitazione e nel dover imparare a memoria la parte. Goldoni seppe tuttavia sfruttare abilmente proprio la professionalità degli attori: più volte, in vari testi, egli afferma di aver modellato il “carattere” della commedia che stava scrivendo sulle peculiari possibilità espressive dell’attore, addirittura sulla sua particolare psicologia. Così riuscì a trasformare quello che era un ostacolo esterno in uno stimolo per la sua creazione. Anche il pubblico a tutta prima restò sconcertato dalle commedie “realistiche” di Goldoni, in cui non ritrovava più gli intrighi complicati che lo avvincevano, le maschere a cui era tanto affezionato ed i lazzi che lo divertivano. Di conseguenza gli stessi impresari guardavano con sospetto le innovazioni goldoniane, poiché temevano di perdere il favore del pubblico, e quindi il profitto dei loro investimenti. Goldoni, conformemente al suo carattere, non si lanciò in una rivoluzione radicale con atteggiamenti di rottura, polemici e provocatori, ma adottò una tattica prudente e graduale, che gli consentì di

Visualizzare i concetti

La Commedia dell’Arte e quella goldoniana a confronto CoMMeDIA DeLL’ArTe

Cultura barocca: gusto per la stravaganza e per l’artificio

Cultura arcadica e razionalismo settecentesco: aspirazione alla semplicità e alla naturalezza

Canovaccio in forma narrativa, che dà indicazioni sommarie sull’intreccio

Copione che presenta informazioni essenziali sulla messa in scena e tutte le battute che gli attori dovranno recitare

Improvvisata sulla base di un canovaccio

Recitazione delle battute del copione, memorizzate dall’attore

Intrecci

Stereotipati e ripetitivi, incentrati su vicende avventurose o sentimentali e sviluppati con scarsa attenzione alla coerenza e alla verisimiglianza

Vicende lineari, verisimili e coerenti nel loro svolgimento, ispirate ai sentimenti e alle situazioni della vita quotidiana

Personaggi

Maschere tradizionali, che incarnano tipi fissi e stereotipati

Caratteri rappresentati nella varietà di sfumature che li connotano come individui unici e irripetibili

Comicità

Buffonesca e volgare, basata sui lazzi, adatta a un pubblico popolare

Misurata e caratterizzata dal buon gusto, adatta ad un pubblico borghese

Lingua

Plurilinguismo giocato sullo scontro tra dialetti diversi; forzatura del linguaggio in chiave espressionistica

Unilinguismo basato sull’uso di un unico dialetto o della lingua italiana; il linguaggio riproduce con naturalezza la conversazione ordinaria

Divertimento

Intento moralistico: correggere i vizi e proporre modelli positivi di virtù

Sfondo culturale Testo teatrale

Recitazione

Finalità

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CoMMeDIA “rIforMATA” DI GoLDonI

Capitolo 7 · Carlo Goldoni

vincere a poco a poco tutte le resistenze, sia degli attori e degli impresari sia del pubblico. Bisogna anche tener presente che l’idea della nuova commedia non era in lui così chiara sin dall’esordio, ma andò precisandosi a poco a poco attraverso una serie di tentativi e di esperimenti, con battute d’arresto e ritorni indietro a recuperare forme superate. L’idea di un percorso coerente e lineare, in nome di una prepotente “vocazione” che lo guidava e lo sosteneva fermamente a ogni passo senza mai farlo deflettere, è solo una ricostruzione a posteriori, che risale soprattutto ai Mémoires, redatti nella tarda vecchiaia.

L’accrescimento delle parti scritte, l’eliminazione delle maschere e le opposizioni alla riforma Le tappe della riforma

Lo stimolo del pubblico

Un ostacolo politico: l’oligarchia conservatrice

Goldoni cominciò con lo stendere per intero solo la parte del protagonista, lasciando all’improvvisazione tradizionale tutto il resto. La prima commedia così strutturata fu il Momolo cortesan (1738), più tardi rimaneggiata e riscritta col titolo di L’uomo di mondo. Solo cinque anni dopo, nel 1743, l’autore arrivò a comporre una commedia in cui tutte le parti erano scritte, La donna di garbo. Venivano nel frattempo ancora conservate le maschere, ma, con sottile abilità, esse venivano trasformate dall’interno, in modo che sotto la maschera cominciava a delinearsi un carattere individuale. Esemplare fu la trasformazione subita da Pantalone, che assunse i tratti inconfondibili del mercante veneziano, con la sua peculiare concezione della vita e la sua salda moralità. In tal modo il pubblico era rassicurato dal trovarsi di fronte la maschera ben nota e amata, e poteva assimilare senza scosse i nuovi contenuti che la commedia veicolava. Al termine di questo processo di mutazione anche le maschere vennero eliminate, e sulla scena si ritrovarono solo personaggi individuali. Grazie a questa accorta gradualità nell’applicare la riforma il pubblico si abituò a veder rappresentati in scena aspetti e problemi della sua vita quotidiana, addirittura figure caratteristiche della realtà cittadina, facilmente riconoscibili. Il pubblico borghese ritrovava in questi spettacoli i propri valori e la propria concezione della vita, fondata sulla ragione, sul buon senso, sulla fedeltà alla natura, quindi veniva a costituire non un ostacolo per lo scrittore, ma uno stimolo: proprio lo scrivere per questo pubblico induceva Goldoni ad approfondire certe tendenze realistiche, ad affrontare certe questioni di costume. Come nota Franco Fido, «i borghesi veneziani costituirono la condizione necessaria della riforma del Goldoni, assolvendo rispetto alle sue commedie il duplice ufficio di ispiratori e di destinatari, di protagonisti e di pubblico». Perciò molte commedie goldoniane ebbero un lusinghiero successo ed ottennero numerose repliche, assicurando all’autore larga fama (anche se i gusti del pubblico erano mutevoli, e potevano anche indirizzarsi verso altre tendenze, mettendo in difficoltà Goldoni, La seconda fase: incertezze e soluzioni eclettiche, p. 418). Un altro ostacolo all’affermarsi del suo teatro realistico, che spesso aveva intenti di critica sociale e rappresentava vizi comuni delle varie classi, in particolare della nobiltà, Goldoni lo trovò nella situazione politica della Repubblica di Venezia. L’oligarchia nobiliare al potere, man mano che avanzava la decadenza della Serenissima, si chiudeva sempre più gelosamente a difendere l’assetto vigente, guardando con sospetto ogni fermento innovatore e ogni spunto critico. Per questo, se Goldoni voleva rappresentare criticamente in scena i vizi della nobiltà, era costretto ad ambientare le sue commedie in altre città, Firenze, Napoli, Palermo, in modo da evitare ogni sospetto che le sue critiche potessero indirizzarsi alla nobiltà veneziana. Ne abbiamo un esempio proprio nel testo che riportiamo, La locandiera ( T2, p. 426), in cui è ravvisabile una critica tagliente a certi costumi nobiliari, la superbia sprezzante e l’autoritarismo, l’attaccamento alle vane forme esteriori, l’ostentazione della ricchezza, ma in cui gli aristocratici rappresentati sono rispettivamente un cavaliere pisano, un marchese romagnolo e un conte napoletano. 409

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi interattiva

T1

«Mondo» e «Teatro» nella poetica di Goldoni dalla Prefazione dell’autore alla prima raccolta delle commedie

Temi chiave

• il teatro come rappresentazione della realtà • la critica al classicismo accademico e alla Commedia dell’Arte

• una letteratura rivolta a un pubblico borghese, non specialistico

• un linguaggio ispirato alla lingua parlata,

Riportiamo i passi essenziali della prefazione premessa dialettale da Goldoni alla prima edizione delle sue commedie, • uno stile naturale, non accademico presso Bettinelli, nel 1750. Goldoni, che due anni prima, nel 1748, ha cominciato a lavorare per il teatro Sant’Angelo scrivendo i testi per la compagnia Medebac, ha ormai decisamente intrapreso la via della “riforma”. Il testo è un documento prezioso della poetica dell’autore e della sua concezione della commedia.

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Bisogna confessare, che gli uomini tutti traggono fin dalla nascita un certo particolar loro Genio, che gli spigne1 più ad uno che ad un altro genere di professione e di studio, al qual2 chi si appiglia, suole riuscirvi con mirabile facilità. Io certamente mi sono sentito rapire quasi per una interna insuperabile forza agli studi Teatrali sin dalla più tenera mia giovinezza. Cadendomi fra le mani Commedie o Drammi, io vi trovava le mie delizie; e mi sovviene, che sul solo esemplare3 di quelle del Cicognini4 in età di ott’anni in circa, una Commedia, qual ella si fosse, composi, prima d’averne veduto rappresentar alcuna in sulle Scene […]. Crebbe in me vieppiù questo genio, quando cominciai ad andare spesso a’ Teatri; né mai mi abbandonò esso ne’ vari miei giri per diverse Città dell’Italia, dove m’è convenuto successivamente passare, o a cagione di studio, o di seguir mio Padre secondo le differenti direzioni della medica sua professione. In Perugia, in Rimini, in Milano, in Pavia, in mezzo alla disgustosa occupazione di quelle applicazioni, che a viva forza mi si volevan far gustare, come la Medicina prima, e poi la Giurisprudenza, si andò sempre in qualche maniera sfogando il mio trasporto per la Drammatica Poesia, or con Dialoghi, or con Commedie, or con rappresentar nelle nobili Accademie un qualche Teatral Personaggio. Finalmente ritornato in Venezia mia Patria, fui obbligato a darmi all’esercizio del Foro, per provvedere, mancato di vita mio Padre, alla mia sussistenza, dopo d’essere stato già in Padova onorato della laurea Dottorale, e di aver qualche tempo servito nelle assessorie di alcuni ragguardevoli Reggimenti5 di questa Serenissima Repubblica in Terraferma. Ma chiamavami al Teatro il mio Genio, e con ripugnanza penosa adempiva i doveri d’ogni altro, comecché onorevolissimo Uffizio6. In fatti, se mai in altro tempo applicai con diletto e con osservazion diligente alle Drammatiche Composizioni che su que’ famosi Teatri rappresentavansi, certamente fu in questo. Dimodoché, sebbene da’ miei principi formar potessi un non infelice presagio dell’avvenire nella profession nobilissima dell’Avvocato in quel celebre Foro, pure rapito dalla violenta mia inclinazione, mi tolsi alla Patria7, risoluto di abbandonarmi affatto a quella interna forza, che mi voleva tutto alla Drammatica Poesia. Scorse molte Italiane Città, intento ad apprendere i vari usi e costumi, che pur diversi fioriscono ne’ vari Domini di questa nostra deliziosa parte d’Europa, fermatomi finalmente in Milano, colà principiai a compor di proposito per servigio degli Italiani Teatri. Tutto ciò ho voluto riferir ingenuamente colla sola mira di far rilevare il vero e sodo stimolo ch’ebbi per darmi intieramente a questo genere di studio. Altro non fu esso certa-

1. spigne: spinge. 2. al qual: riferito a genere. 3. sul solo esemplare: sul solo modello. 4. Cicognini: Giacinto Andrea Cicognini (Firenze 1606-Venezia 1660), autore di drammi e

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commedie, fu uno dei maggiori esponenti del teatro di gusto spagnoleggiante in Italia. Gli sono attribuiti circa cinquanta lavori teatrali. 5. assessorie … Reggimenti: allude agli incarichi di coadiutore alle cancellerie criminali

di Chioggia e di Feltre. 6. Uffizio: impiego, professione. 7. Patria: Venezia.

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mente se non se la invincibil forza del Genio mio pel Teatro, alla quale non ho potuto far fronte. Non è perciò maraviglia se in tutti i miei viaggi, le mie dimore, in tutti gli accidenti della mia vita, in tutte le mie osservazioni, e fin ne’ miei passatempi medesimi, tenendo sempre rivolto l’animo e fisso a questa sorta di applicazione, m’abbia fatta un’abbondante provvisione di materia atta a lavorarsi pel Teatro, la quale riconoscer debbo come una inesausta miniera d’argomenti per le Teatrali mie Composizioni; ed ecco come insensibilmente mi sono andato impegnando nella presente mia professione di Scrittor di Commedie. E per verità come mai lusingar alcuno, senza di questo particolar Genio dalla Natura stessa donato, di poter riuscire fecondo e felice Inventore e Scrittor di Commedie? […] Ora fu in me questo Genio medesimo, che rendendomi osservator attentissimo delle Commedie, che sui vari Teatri d’Italia da diciotto o venti anni in qua rappresentavansi, me ne fece conoscere e compiangere il gusto corrotto, comprendendo nel tempo stesso, che non poco utile ne sarebbe potuto derivare al Pubblico, e non iscarsa lode a chi vi riuscisse, se qualche talento animato dallo spirito comico tentasse di rialzare l’abbattuto Teatro Italiano. Questa lusinga di gloria finì di determinarmi all’impresa. Era in fatti corrotto a segno8 da più di un secolo nella nostra Italia il Comico Teatro, che si era reso abominevole oggetto di disprezzo alle Oltramontane Nazioni. Non correvano sulle pubbliche Scene se non sconce Arlecchinate9, laidi e scandalosi amoreggiamenti, e motteggi; favole10 mal inventate, e peggio condotte, senza costume, senza ordine, le quali, anziché correggere il vizio, come pur è il primario, antico e più nobile oggetto della Commedia, lo fomentavano, e riscuotendo le risa dalla ignorante plebe, dalla gioventù scapestrata, e dalle genti più scostumate, noia poi facevano ed ira alle persone dotte e dabbene, le quali se frequentavan talvolta un così cattivo Teatro, e vi erano strascinate dall’ozio, molto ben si guardavano dal condurvi la famigliuola innocente, affinché il cuore non ne fosse guastato […]. Molti però negli ultimi tempi si sono ingegnati di regolar il Teatro, e di ricondurvi il buon gusto. Alcuni si son provati di farlo col produrre in iscena Commedie dallo Spagnuolo o dal Francese tradotte. Ma la semplice traduzione non poteva far colpo in Italia. I gusti delle Nazioni son differenti, come ne son differenti i costumi e i linguaggi. E perciò i mercenari11 Comici nostri, sentendo con lor pregiudizio12 l’effetto di questa verità, si diedero ad alterarle, e recitandole all’improvviso13, le sfiguraron per modo, che più non si conobbero per Opere di que’ celebri Poeti, come sono Lopez di Vega14 e il Molière15, che di là da’ Monti, dove miglior gusto fioriva, le avevan felicemente composte. Lo stesso crudel governo16 hanno fatto delle Commedie di Plauto e di Terenzio17; né la risparmiarono a tutte le altre antiche o moderne Commedie ch’eran nate, o che andavan nascendo nell’Italia medesima, e specialmente a quelle della pulitissima Scuola Fiorentina18, che andavan loro cadendo tra mano. Intanto i Dotti fremevano: il Popolo s’infastidiva: tutti d’accordo esclamavano contra le cattive Commedie, e la maggior parte non aveva idea delle buone. […] Io frattanto ne piangea fra me stesso, ma non avea ancora acquistati lumi sufficienti per tentarne il risorgimento. Aveva per verità di quando in quando osservato, che nelle stesse cattive Commedie eravi qualche cosa ch’eccitava l’applauso comune e l’appro-

8. a segno: a tal punto. 9. Arlecchinate: si riferisce agli scenari della Commedia dell’Arte, in cui aveva una parte rilevante la maschera di Arlecchino. 10. favole: intrecci. 11. mercenari: che recitano per ricavarne un lucro, quindi dipendono dal favore del pubblico pagante. 12. pregiudizio: danno. 13. all’improvviso: improvvisando sulla sce­

na, secondo le consuetudini della Commedia dell’Arte. 14. Lopez di Vega: Felix Lope de Vega (1562-1635), autore drammatico spagnolo. 15. Molière: L’età del Barocco e della Nuova Scienza, cap. 4, A4, p. 137. 16. governo: trattamento. 17. Plauto … Terenzio: i due massimi autori di commedie latini. Tito Maccio Plauto, vissuto tra il III e il II secolo a.C., fu autore dell’Anfi­

trione, dell’Aulularia, dello Pseudolo (di lui ci sono pervenute intere venti commedie); Publio Terenzio Afro, II secolo a.C., fu autore della Suocera, dei Fratelli, del Punitore di se stesso (di lui abbiamo sei commedie complete). 18. Scuola Fiorentina: si riferisce essenzialmente a Giovan Battista Fagiuoli (1660-1742), uno dei letterati che nell’ambito della cultura arcadica avviarono la riforma della commedia.

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vazion de’ migliori, e mi accorsi che ciò per lo più accadeva all’occasione d’alcuni gravi ragionamenti19 ed istruttivi, d’alcun dilicato scherzo20, d’un accidente ben collocato, di una qualche viva pennellata21, di alcun osservabil carattere, o di una dilicata critica di qualche moderno correggibil costume: ma più di tutto mi accertai che, sopra del maraviglioso, la vince nel cuor dell’uomo il semplice e il naturale. Al barlume di queste scoperte mi diedi immediate22 a comporre alcune Commedie. Ma prima di poter farne delle passabili o delle buone, anch’io ne feci delle cattive. Quando si studia sul libro della Natura e del Mondo, e su quello della sperienza, non si può per verità divenire Maestro tutto d’un colpo; ma egli è ben certo che non vi si diviene giammai, se non si studiano codesti libri. Ne composi alcune alla maniera Spagnuola, cioè a dire Commedie d’intreccio e d’inviluppo23; ed ebbero qualche insolita buona riuscita per un certoché di metodico e di regolato, che le distingueva dalle ordinarie, e una cert’aria di naturalezza, che in esse scoprivasi. Fra le altre mi sovviene averne una data al Teatro intitolata: Cento e quattro accidenti in una notte, che per varie sere successivamente replicata, riuscì anche dall’universale compatita24. Non ne restai però interamente contento. Mi provai a farne una di carattere, intitolata il Momolo Cortigiano. Piacque essa estremamente, e fu tante volte replicata con istraordinario concorso25, che fui allora tentato di crederla perfetta Commedia […]. Ma conobbi di poi quanto migliori Commedie si potessero scrivere. Tuttavia presi da essa coraggio; ed avvedutomi che le Commedie di carattere più sicuramente di tutte le altre colpivano, composi il Momolo sulla Brenta, e l’altro due volte fallito, alle quali venne pur fatta una cortesissima accoglienza. Pensai allora, che se tanto eran riuscite Commedie nelle quali era vestito de’ suoi convenienti costumi, parole e sali26 il solo principal Personaggio, lasciati in libertà gli altri di parlar a soggetto, dacché procedeva ch’elle riuscivano ineguali e di pericolosa condotta, pensai, dico, che agevolmente si avrebbe potuto render la Commedia migliore, più sicura e di ancor più felice riuscita, scrivendo la parte di tutti i Personaggi, introducendovi vari caratteri, e tutti lavorandoli al tornio della Natura, e sul gusto del Paese nel quale dovean recitarsi le mie Commedie. Nell’anno adunque 1742, seguendo questo pensamento, diedi alle Scene la Donna di garbo, la qual io chiamo mia prima Commedia, e che prima delle altre comparirà in questa raccolta, giacché in fatti è la prima ch’io abbia interamente scritta. Ritrovò essa, dappertutto ove fu rappresentata, e principalmente in Venezia e in Firenze, ottimi giudici del buono, una gentilissima accoglienza; benché molte di quelle grazie per avventura le manchino, che a mio parere adornan le altre posteriormente fatte, dappoi che abbandonata affatto ogni altra professione, come quella di Avvocato Civile e Criminale, che in Pisa allora esercitava, mi son tutto consagrato alla Comica Poesia scrivendo a profitto dell’onoratissimo Girolamo Medabach, il quale alla testa di valorosi Comici va da’ più celebri Teatri d’Italia spargendo ne’ popoli, col mezzo di costumate Commedie, l’istruzione e il diletto. I due Gemelli Veneziani, l’Uomo Prudente, la Vedova Scaltra, furono in seguito tre fortunatissime Commedie, e dopo di esse la Putta Onorata, la Buona Moglie, il Cavaliere e la Dama, l’Avvocato, e la Suocera e la Nuora, replicate con indicibile applauso moltissime sere in varie Città, fecero molto ben l’interesse del benemerito sudetto Comico, e ricolmarono me di consolazione, dandomi a conoscere che non affatto inutili sono state le mie applicazioni per ricondurre sul Teatro Italiano il buon costume e ’l buon gusto della Commedia. Mi va poi di giorno in giorno raffermando in questa opinione la fortuna che incontrano comunemente le altre Opere mie, che in questo genere si van recitando, secondo ch’io le vo componendo.

19. ragionamenti: discorsi. 20. dilicato scherzo: scherzo non grossolano. 21. viva pennellata: nel ritrarre la realtà del costume, o qualche carattere. 22. immediate: immediatamente.

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23. d’inviluppo: dall’intreccio complicato e romanzesco. 24. dall’universale compatita: accettata da tutti. 25. concorso: di pubblico.

26. vestito … sali: il carattere era delineato compiutamente in quanto le battute erano interamente scritte in precedenza; sali, latinismo, vale “spirito”.

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Non mi vanterò io già d’essermi condotto a questo segno27, qualunque ei si sia, di miglior senso, col mezzo di un assiduo metodico studio sull’Opere o precettive28, o esemplari29 in questo genere de’ migliori antichi e recenti Scrittori e Poeti, o Greci, o Latini, o Francesi, o Italiani, o d’altre egualmente colte Nazioni; ma dirò con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettura de’ più venerabili e celebri Autori, da’ quali, come da ottimi Maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo30 e il Teatro. Il primo mi mostra tanti e poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed istruttive Commedie: mi rappresenta i segni31, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m’informa de’ correnti costumi: m’instruisce de’ vizi e de’ difetti che son più comuni del nostro secolo e della nostra Nazione, i quali meritano la disapprovazione o la derisione de’ Saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa Persona i mezzi coi quali la Virtù a codeste corruttele resiste, ond’io da questo libro raccolgo, rivolgendolo sempre, o meditandovi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto è assolutamente necessario che si sappia da chi vuole con qualche lode esercitare questa mia professione. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro32, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si debban rappresentar sulle Scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel libro del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli33 per dar loro il maggiore rilievo, e quali sien quelle tinte, che più li rendon grati34 agli occhi dilicati degli spettatori. Imparo in somma dal Teatro a distinguere ciò ch’è più atto a far impressione sugli animi, a destar la maraviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico nell’uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella Commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ’l ridicolo che trovasi in chi continuamente si pratica35, in modo però che non urti troppo offendendo. Ho appreso pur dal Teatro, e lo apprendo tuttavia36 all’occasione delle mie stesse Commedie, il gusto particolare della nostra Nazione, per cui precisamente io debbo scrivere, diverso in ben molte cose da quello dell’altre. Ho osservato alle volte riscuotere grandissimi

27. condotto … segno: giunto a questo li­ vello. 28. precettive: precettistiche, cioè quelle opere teoriche, come la Poetica di Aristotele, che impartivano precetti per la composizione di determinati generi letterari. 29. esemplari: modelli. 30. Mondo: noi diremmo “la realtà”. 31. segni: gli indizi da cui si manifestano.

32. libro del Teatro: continua la metafora iniziale: l’esperienza diretta del teatro è il libro su cui Goldoni ha studiato. 33. ombreggiarli: col chiaroscuro (è una

metafora ricavata dal disegno). 34. grati: graditi. 35. si pratica: si frequenta. 36. tuttavia: tuttora.

Pietro Longhi (scuola di), Attori sul palcoscenico durante il Carnevale in piazza san Marco a Venezia, XVIII secolo, olio su tela, part., Venezia, Casa Goldoni.

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encomi alcune coserelle da me prima avute in niun conto, altre riportarne pochissima lode, e talvolta eziandio37 qualche critica, dalle quali non ordinario applauso io avea sperato; per la qual cosa ho imparato, volendo render utili le mie Commedie, a regolar talvolta il mio gusto su quello dell’universale38, a cui deggio principalmente servire, senza darmi pensiero delle dicerie di alcuni o ignoranti, o indiscreti e difficili, i quali pretendono di dar la legge al gusto di tutto un Popolo, di tutta una Nazione, e forse anche di tutto il Mondo e di tutti i secoli colla lor sola testa, non riflettendo che, in certe particolarità non integranti, i gusti possono impunemente cambiarsi, e convien lasciar padrone il Popolo egualmente che delle mode del vestire e de’ linguaggi. Per questo, quando alcuni adoratori d’ogni antichità esigono indiscretamente da me, sull’esempio de’ Greci e Romani Comici, o l’unità scrupolosa del luogo39, o che più di quattro Personaggi non parlino in una medesima scena, o somiglianti stiticità40, io loro in cose che così poco rilevano all’essenzial bellezza della Commedia, altro non oppongo che l’autorità del da tanti secoli approvato uso contrario41. Moltissime son quelle cose nelle antiche Commedie, massimamente Greche, ed in particolare in quelle di Aristofane42, quando elle recitavansi sopra Palchi mobili come le nostre Burlette43, le quali assaissimo a que’ tempi piacevano, e riuscirebbono intollerabili ai nostri: e però io stimo che, più scrupolosamente che ad alcuni precetti di Aristotele o di Orazio44, convenga servire alle leggi del Popolo in uno spettacolo destinato all’istruzion sua per mezzo del suo divertimento e diletto. Coloro che amano tutto all’antica, ed odiano le novità, assolutamente parmi che si potrebbono paragonare a que’ Medici, che non volessero nelle febbri periodiche far uso della chinchina45 per questa sola ragione, che Ippocrate o Galeno46 non l’hanno adoperata. Ecco quanto ho io appreso da’ miei due gran libri, Mondo e Teatro. Le mie Commedie sono principalmente regolate, o almeno ho creduto di regolarle, co’ precetti che in essi due libri ho trovati scritti: libri, per altro, che soli certamente furono studiati dagli stessi primi Autori di tal genere di Poesia, e che daranno sempre a chicchessia le vere lezioni di quest’Arte. La natura è una universale e sicura maestra a chi l’osserva. […] Trattati di Poetica, Tragedie, Drammi, Commedie d’ogni sorta ne ho lette anch’io in quantità, ma dopo d’avermi già formato il mio particolare sistema, o mentre me lo andava formando dietro ai lumi che mi somministravano i miei due sovrallodati gran libri, Mondo e Teatro; e solamente dopo mi sono avveduto d’essermi in gran parte conformato a’ più essenziali precetti dell’Arte raccomandati dai gran Maestri, ed eseguiti dagli eccellenti Poeti, senza aver di proposito studiati né gli uni, né gli altri; a guisa di quel Medico, che trovata talora dal caso e dalla sperienza una salutevole medicina, applicandovi poi la ragione dell’Arte47, la conosce regolare e metodica. […] Quanto alla Lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi e voci Lombarde48, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre49, principalmente nelle Lombarde Città dovevano rappresentarsi le mie Commedie. Ad alcuni idiotismi50 Veneziani, ed a quelle di esse che ho scritte apposta per Venezia mia Patria, sarò in necessità di aggiungere qualche noterella, per far sentire le grazie di quel vezzoso

37. eziandio: persino. 38. universale: il gusto generale. 39. l’unità … del luogo: era una delle leggi essenziali che il classicismo rinascimentale, sul fondamento della Poetica di Aristotele, aveva imposto alla tragedia e alla commedia. 40. stiticità: pedanterie meschine. 41. io loro … contrario: in cose che hanno così poco a che fare con la bellezza essenziale della commedia, a questi critici io non oppon­ go altro che l’autorità dell’uso contrario, ap­ provato da tanti secoli. Alle precettistiche

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astratte, cioè, Goldoni contrappone l’uso vivo. 42. Aristofane: commediografo greco del V secolo a.C., rappresentante della Commedia Antica. 43. Burlette: le farse dei comici dell’Arte. 44. Orazio: si riferisce all’Arte poetica, che divenne una sorta di bibbia del classicismo, da cui si ricavavano precetti sulla composizione delle opere letterarie. 45. chinchina: chinino, rimedio per la malaria. 46. Ippocrate … Galeno: famosi medici del-

l’antichità. 47. la ragione dell’Arte: i criteri metodologici della scienza medica (ma Arte vale propriamente “professione”: la medicina era considerata allora un mestiere, non una scienza). 48. Lombarde: derivate dalle parlate dell’Italia settentrionale. 49. ad intelligenza … concorre: in modo da essere comprese anche dalle classi più bas­ se che accorrono ad assistere agli spettacoli. 50. idiotismi: termini di uso locale.

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dialetto a chi non ha tutta la pratica. Il Dottore51 che recitando parla in Lingua Bolognese, parla qui nella volgare Italiana. Lo stile poi l’ho voluto qual si conviene alla Commedia, vale a dir semplice, naturale, non accademico od elevato. Questa è la grand’Arte del Comico Poeta, di attaccarsi in tutto alla Natura, e non iscostarsene giammai. I sentimenti debbon esser veri, naturali, non ricercati, e le espressioni a portata di tutti.

51. Il Dottore: maschera della Commedia dell’Arte, che rappresenta un dotto uomo di legge bolognese.

Analisi del testo

> Una dichiarazione di poetica

«Mondo» e «Teatro»

Valore innovatore di Goldoni nella letteratura settecentesca

La critica alle precettistiche del classicismo

In questo testo Goldoni ripercorre essenzialmente l’itinerario che lo ha condotto alla riforma della commedia, prendendo le mosse dalla sua prepotente vocazione teatrale, manifestatasi sin dalla prima giovinezza, tracciando un quadro polemico della Commedia dell’Arte e ricostruendo le tappe del proprio percorso. A questo punto si colloca una dichiarazione di poetica di capitale importanza. Goldoni afferma di non essersi formato sullo studio metodico delle precettistiche e dei modelli classici, ma di aver studiato soprattutto su due «libri», il «Mondo» e il «Teatro»: di essersi cioè ispirato all’osservazione diretta della realtà, di aver tratto da essa gli argomenti per i suoi intrecci e i caratteri da rappresentare, e di aver costruito i suoi copioni tenendo ben presenti le esigenze del teatro vero, quello che si fa sulle scene, non moduli astratti ricavati solo dai libri. Nel panorama della letteratura settecentesca, ancora dominata da un gusto classicistico spesso pervaso di pedanteria, Goldoni si stacca con un rilievo prepotente, come figura di scrittore fortemente innovatore. Non è più il tipo del puro “letterato”, esclusivamente libresco, chiuso in maniera miope nel suo ristretto mondo letterario, come sono tanti scrittori dell’Arcadia, ma è uomo di teatro, immerso in un’attività culturale viva, che deve fare i conti direttamente con un pubblico vasto ed eterogeneo, composto non solo di letterati, ma di persone comuni provenienti dai più diversi ceti, a cui la scena deve parlare immediatamente, suscitando emozioni e interessi. Di qui deriva l’esigenza di produrre testi che si ispirino alla realtà vissuta, quella in cui è inserito il pubblico, non a quella fittizia consegnata ai libri della tradizione classica, e di organizzare il suo messaggio teatrale in modo che abbia una diretta forza comunicativa. Così, sotto la spinta di esigenze immediate di comunicazione, Goldoni conduce la critica più corrosiva alle precettistiche ormai aride e paralizzanti del classicismo accademico. In questa critica egli, anche se non è un teorico o un “filosofo”, ma obbedisce solo a un istinto, ad un gusto di naturalezza e di razionale aderenza al reale, si trova molto vicino alle tesi degli illuministi, anzi anticipa di anni le posizioni che saranno del “Caffè”, nella sua polemica contro ogni pedantismo. Non solo, ma con Goldoni vediamo delinearsi l’immagine di una letteratura nuova, più aderente agli interessi di un pubblico non specialistico, anzi, di un pubblico “borghese”. Perciò Goldoni apre la strada a quella svolta culturale che sarà poi prodotta dalla letteratura del secolo successivo, che in nome della fedeltà al “vero” ripudierà le sterili precettistiche del classicismo. Curiosamente, la generazione romantica non seppe cogliere questo valore di Goldoni: per un pieno riconoscimento occorrerà aspettare, già dopo l’Unità, De Sanctis.

> I riflessi sul piano formale Il rifiuto del purismo linguistico

Goldoni è ben consapevole che questa nuova impostazione letteraria non può non riflettersi al livello formale, nel linguaggio e nello stile. Per questo rifiuta ogni forma di “purismo”, cioè di ossequio a un ideale di lingua “pura” consacrato dai modelli classici, e, poiché sa di doversi rivolgere ad un pubblico reale, non arretra dinanzi all’uso di voci della lingua 415

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

parlata, anche con coloriture locali, padane («Lombarde»), arrivando sino all’uso del dialetto veneziano, di cui sottolinea le «grazie». Anche lo stile, poiché la commedia deve essere «naturale» e aderente alla realtà, non deve essere accademico ed elevato, ma conforme alla «Natura», semplice e spontaneo.

Esercitare le competenze

Laboratorio interattivo

CoMPrenDere

> 1. Quali informazioni fornisce il brano riguardo la giovinezza di Goldoni prima dell’approdo al teatro? > 2. Quali caratteristiche presentava, stando alle affermazioni di Goldoni, il teatro italiano agli inizi della sua carriera? A che tipo di pubblico si rivolgeva?

> 3. Sintetizza le riflessioni riferite da Goldoni agli ambiti del «Mondo» e del «Teatro» (rr. 126-170). > 4. A quali «scoperte» si riferisce l’autore alla riga 80? AnALIzzAre

> 5. > 6.

Quale figura retorica è presente alle righe 167-169? Con quali vocaboli e/o espressioni Goldoni definisce il pubblico dei teatri? Proponi una campionatura significativa ricavata dal testo. Stile

Lessico

APProfonDIre e InTerPreTAre

> 7.

Scrivere A partire dal brano analizzato (rr. 59-71; 157-167), delinea in un testo di circa 10 righe (500 caratteri) il rapporto di Goldoni con la tradizione della commedia presso gli autori stranieri e il mondo classico. > 8. esporre oralmente Alle righe 183-193 Goldoni affronta fondamentali questioni di lingua e di stile, riguardo il genere comico, in rapporto al tema della “comunicazione”: come si raccorda la posizione del commediografo ad analoghe trattazioni di altri intellettuali dell’età dei Lumi? Rispondi oralmente (max 8 minuti), delineando un ideale percorso di autori e testi trattati in antologia. > 9. Contesto: storia Individua nel brano analizzato i riferimenti al contesto culturale veneziano, spiegandone la vitalità e l’importanza nell’ambito dell’intera penisola.

4 La società veneziana

I nobili

La celebrazione del mercante veneziano

416

L’itinerario della commedia goldoniana La prima fase: la celebrazione del mercante In realtà il «Mondo» che si riflette nella commedia goldoniana è essenzialmente la società veneziana contemporanea. Se Goldoni è l’interprete di una più generale visione “borghese” della realtà, egli vi perviene attraverso l’analisi di un campione particolare e ristretto, quello spaccato di società che egli ha sotto gli occhi quotidianamente a Venezia (anche se i suoi numerosi spostamenti in varie città italiane e i contatti con personalità di paesi stranieri avevano allargato il suo orizzonte mentale, consentendogli di arricchire le sue conoscenze con dati provenienti da diverse situazioni sociali). Venezia è una repubblica oligarchica in cui il potere è in mano ad una ristretta cerchia di famiglie nobili, che lo esercitano in senso fortemente conservatore, ma possiede anche un solido ceto borghese, formatosi nella lunga tradizione mercantile della Repubblica, e che, almeno nella prima parte del secolo, gode di notevole floridezza economica. Degli ideali e degli interessi di questo ceto Goldoni è il consapevole interprete e il celebratore. Nella prima fase della sua commedia, dagli esordi ancora incerti sui confini degli scenari della Commedia dell’Arte, come il Momolo cortesan (1738) e La bancarotta (1741), per tutto il periodo in cui lavora per la compagnia Medebac al teatro Sant’Angelo, il mercante veneziano ha un rilievo centrale nei suoi copioni. Il mercante, che si presenta ancora sotto la maschera di Pantalone ma assume già una sua concreta

Capitolo 7 · Carlo Goldoni

La critica alla nobiltà

L’orientamento riformistico di Goldoni

L’evoluzione formale della commedia

fisionomia individuale, è una figura positiva, portatrice di tutta una serie di valori: schiettezza, puntualità e rispetto degli impegni, buon senso e concretezza nel valutare le cose, moralità ineccepibile e forte attaccamento alla famiglia, laboriosità e senso dell’economia, culto della reputazione, del buon nome, dell’onorabilità. Goldoni definisce «il ceto de’ Mercadanti» come «il profitto e il decoro delle nazioni». In questa celebrazione del mercante si manifesta anche una contrapposizione polemica alla nobiltà, in testi come La putta onorata (1748-49), La buona moglie (1749), La famiglia dell’antiquario (1749), Il cavaliere e la dama (1749). Il senso della contrapposizione è ben espresso in questa battuta rivolta da un mercante ad un nobile in quest’ultima commedia: «La mercatura è una professione industriosa, che è sempre stata ed è anco al dì d’oggi esercitata da cavalieri di rango molto più di lei. La mercatura è utile al mondo, necessaria al commercio delle nazioni, e a chi l’esercita onoratamente, come fo io, non si dice uomo plebeo; ma più plebeo è quegli che per avere ereditato un titolo e poche terre, consuma i giorni nell’ozio e crede che gli sia lecito di calpestare tutti e di viver di prepotenza. L’uomo vile è quello che non sa conoscere i suoi doveri, e che volendo a forza d’ingiustizie incensata la sua superbia, fa altrui conoscere che è nato nobile per accidente, e meritava di nascer plebeo». La nobiltà è colpita dalla critica goldoniana in quanto superba e prepotente, oziosa, dissipatrice e parassitaria, inutile al corpo sociale, attaccata ai suoi titoli vuoti che non garantiscono il valore autentico dell’individuo. Goldoni non è tuttavia da scambiare per un rivoluzionario ante litteram, per un anticipatore della violenta opposizione antinobiliare che si manifesterà durante la Rivoluzione francese nell’egualitarismo giacobino (e sarebbe del tutto anacronistico supporlo): seguendo le linee che sono proprie dell’Illuminismo moderato del suo tempo, vorrebbe piuttosto «smuovere i nobili dall’inerzia» e «riportarli alla dignità di una vita attiva, ricordando loro la funzione sociale degli antenati» (Fido). Egli ritiene che i nobili abbiano il dovere di partecipare alla vita economica del loro paese, contribuendo così alla pubblica felicità. Ed anche in questo Goldoni è in linea con la mentalità diffusa, soprattutto nei settori più aperti della classe dirigente veneziana. Goldoni non mette dunque in discussione le gerarchie sociali esistenti, ma le accetta pienamente. In questo riflette le posizioni della borghesia veneziana: come ha scritto perfettamente Mario Baratto ( Goldoni e la crisi della borghesia veneziana, p. 474), il mercante tende «a definirsi in una polemica diversità dalla classe aristocratica, ma non in contrasto con essa nell’“ordine” sociale»; mira semplicemente alla riuscita individuale nel suo campo, il lavoro, la famiglia, la reputazione, ma non vuole trasformare l’ordine esistente, elaborare una nuova, organica civiltà; non vuole imporre una sua egemonia nello Stato, ma al massimo affermare un’egemonia etica, far trionfare la sua moralità e i suoi valori. In questo periodo, che coincide con il lavoro per la compagnia Medebac, come Goldoni conserva aspetti esterni della Commedia dell’Arte, quali le maschere, così, inizialmente, cala i nuovi contenuti realistici in intrecci ancora tradizionali. Ma gradatamente la macchinosità dell’intreccio scompare, lasciando il posto a vicende più lineari, che si adattano con più naturalezza ai casi della realtà quotidiana, evitando complicazioni e imprevisti artificiosi: nascono così commedie che sembrano “fatte di nulla”, in cui si succedono casi di persone comuni, mosse dai sentimenti più usuali, conversazioni che si possono sentire nella vita familiare di tutti i giorni. Parallelamente la struttura della commedia si fa policentrica, corale. Tutti i personaggi divengono importanti, nella rete di rapporti che li legano e che mettono in rilievo la diversa fisionomia degli individui. È questa la fase in cui meglio emerge la volontà goldoniana di costruire un «genere serio» paragonabile a quello dell’Illuminismo europeo ( Il rapporto tra caratteri e ambienti: la commedia borghese, p. 406), una sorta di dramma borghese, non esente dall’intento moralistico ed edificante di “correggere” i vizi della società attraverso una moderata comicità e di proporre modelli positivi di virtù. 417

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La seconda fase: incertezze e soluzioni eclettiche Tra disorientamento e difficoltà

Le commedie esotiche

I caratteri asociali

Il popolo veneziano

La seconda fase della commedia goldoniana, che va dal 1753 al 1758, ed è segnata dal passaggio al teatro San Luca, è più eclettica e incerta, e rivela un disorientamento, per certi versi persino un ritorno indietro. Goldoni si trova di fronte a varie difficoltà: una sala molto più vasta, meno adatta alla rappresentazione della vita quotidiana e di interni familiari, attori meno noti e meno bravi, un impresario non facile da trattare come il nobile Vendramin, le polemiche sempre più aspre con i suoi avversari, come Chiari. Ma la difficoltà maggiore è la volubilità del pubblico che, dopo aver accolto con favore il «ragionevole» e il «verisimile» della commedia riformata, sembra tornare a preferire un teatro più fantasioso, come le commedie esotiche e avventurose di Pietro Chiari e le fiabe di Carlo Gozzi, che sollecitano il suo gusto per l’evasione. Perciò Goldoni, per non lasciarsi sfuggire il successo, deve inseguire questi umori mutevoli sperimentando generi vari, passando dalla prosa ai versi quando la voga lo impone, e scrivendo testi romanzeschi ambientati in paesi esotici, come la cosiddetta “trilogia persiana” (La sposa persiana, 1753; Ircana in Iulfa, 1755; Ircana in Ispaan, 1756). Nelle commedie “di carattere”, che pur continua a scrivere, all’esaltazione della figura positiva del mercante, guardato con affettuosa e bonaria simpatia, Goldoni preferisce sostituire una galleria «di personaggi tarati, infermi, maniaci, in preda ai tic più impensati», ritratti con un impegno satirico duro e sarcastico, «le cui follie si accumulano commedia dopo commedia come segni inequivocabili di una grande nevrosi di una società in decadenza» (Baratto). Sono eloquenti già solo i titoli: I puntigli domestici, La donna vendicativa, La donna di testa debole, Il vecchio bizzarro, La donna stravagante, Lo spirito di contraddizione, La donna bizzarra. Tutti questi personaggi non hanno quella qualità della «socievolezza» che Goldoni tanto ammira nei mercanti, tendono a rifiutare i rapporti col prossimo, astenendosi dalla vita sociale. In questi personaggi nevrastenici e misantropi sembrano proiettarsi le sofferenze di Goldoni stesso, colpito in questo periodo da crisi nervose. In questa fase si collocano però anche varie commedie di ambiente popolare, Le massère (1755), Il campiello (1756), Le morbinose (1758). Si tratta di commedie corali, in cui l’azione nasce da esili pretesti, equivoci, chiacchiere, pettegolezzi. Il popolo veneziano è portato in scena sulla base di un’osservazione diretta e attenta dei suoi comportamenti e del suo linguaggio, ed è ritratto con scoperta simpatia per la sua vitalità spontanea. Questa attenzione al popolo anticipa quello che sarà pochi anni dopo uno dei testi più rilevanti di Goldoni, Le baruffe chiozzotte.

I testi più maturi

La crisi della borghesia veneziana

418

La crisi anche psicologica degli anni 1753-57 trova sfogo in un viaggio a Roma. Al suo ritorno a Venezia Goldoni si scrolla di dosso incertezze e malinconie e torna con rinnovato entusiasmo alla sua commedia “nuova”. Tra il 1759 e il 1762 si collocano così alcuni dei testi più maturi, in cui Goldoni torna con occhio mutato a considerare il suo oggetto di indagine preferito, la borghesia veneziana. La seconda metà del secolo vede una grave crisi di questo ceto. La perdita dei possedimenti d’oltremare aveva dato un duro colpo ai commerci della Serenissima, e induceva a orientarsi verso le attività agricole, dietro lo schermo di una politica protezionistica, di alte tariffe doganali. Di conseguenza il mercante perde il suo slancio energico, tende a ripiegarsi su se stesso, ad evitare rischi e imprese e a chiudersi nel più tranquillo investimento terriero (senza peraltro impostare uno sfruttamento delle risorse agricole nella direzione di una moderna organizzazione capitalistica). Al dinamismo succede l’inerzia, all’orgo-

Capitolo 7 · Carlo Goldoni

Una diversa interpretazione

La riscoperta del popolo

gliosa affermazione della propria visione della vita la difesa gretta del proprio interesse. Quelle che erano virtù della borghesia si trasformano in vizi, il senso dell’economia diventa avarizia, la rigorosa difesa della reputazione diviene superbia, la puntualità diviene ostinazione. Goldoni coglie con lucidità questi processi, come possiamo desumere da questa battuta di un personaggio del Sior Todero brontolon: «All’avarizia i ghe dise economia, alla superbia i ghe dise punto d’onor, e all’ustinazion parola, pontualità». A Goldoni viene meno la base sociale del suo ottimismo. Così dopo aver innalzato, un decennio prima, il suo elogio alla figura del mercante, ora la guarda con occhio più critico e più severo: al Pantalone aperto e illuminato, che contrappone il suo pacato buon senso ai puntigli oziosi e alle convenzioni assurde della nobiltà, si sostituisce il «rustego», chiuso nel proprio ambiente familiare, attaccato al proprio meschino tornaconto, grettamente conservatore, lodatore del passato, ottusamente autoritario e incapace di aprirsi alle esigenze dei tempi. Con questa figura asociale si scontrano invece i giovani e le donne, portatori di un’idea più aperta di socialità, che rivendicano il diritto a una vita più libera e gioiosa, svincolata dalla cappa oppressiva dell’ambiente familiare. Esemplari di questa tendenza sono I rusteghi (1760) e Sior Todero brontolon (1762), due testi impostati proprio su questo conflitto tra donne e giovani da un lato e vecchi retrivi dall’altro. Nella Casa nova (1760) e nella “trilogia” della villeggiatura (Le smanie della villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura, 1761) Goldoni punta invece la sua critica sul difetto opposto alla grettezza dei «rusteghi», l’eccesso di ostentazione sociale della borghesia, la smania di apparire ad ogni costo, al di sopra delle proprie possibilità e anche a prezzo della rovina. Di questa svolta della commedia goldoniana Giuseppe Petronio (1986) ha però offerto un’interpretazione diversa da quella di Mario Baratto ( Goldoni e la crisi della borghesia veneziana, p. 474) e Franco Fido, che abbiamo sin qui seguito: la svolta non rifletterebbe una crisi involutiva della borghesia veneziana, che non sussisterebbe (ma Petronio trascura il contraccolpo sui commerci derivante della decadenza dell’“impero” veneziano); semplicemente, nella sua prima fase, quella della celebrazione del mercante, Goldoni rappresenterebbe, in termini astratti, un’immagine ideologica della borghesia, quale dovrebbe essere, in questa seconda fase invece coglierebbe la realtà qual è, con i suoi difetti e i suoi limiti, vale a dire il permanere di un mondo vecchio e retrogrado in contrasto con le idee moderne. Ci sarebbe dunque un passaggio dall’utopia alla realtà, una presa d’atto della distanza della borghesia veneziana reale dall’ideale del mercante, quale Goldoni idoleggiava sul modello della borghesia inglese ed olandese. Comunque sia, da questo mondo così asfittico e opprimente Goldoni sembra voler uscire con la riscoperta del poGiacomo Mantegazza, Scena dalla commedia La casa polo: del 1762 sono le Baruffe chioznova, 1888, incisione, Milano, Biblioteca Braidense. zotte ( T3, p. 470), in cui rappresenta la 419

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La visione idillica del popolo

vita dei pescatori di Chioggia (utilizzando l’esperienza diretta da lui fatta in gioventù, quando era aiuto coadiutore alla cancelleria criminale di quella città). Il popolo agli occhi dello scrittore conserva quella vitalità, quella spontaneità dei sentimenti, quella capacità di relazioni sociali che la borghesia veneziana, ripiegata su se stessa, sembra avere perdute; non solo, ma nel popolo sembrano sopravvivere allo stato genuino quei valori fondamentali che nella borghesia si sono come atrofizzati o rovesciati di segno, la schiettezza, la laboriosità, il senso della famiglia e dell’onore. Questa rappresentazione dal vivo della realtà popolare è qualcosa di nuovo nel panorama della letteratura del secolo, impregnata di classicismo aristocratico, e anticipa quella riscoperta del popolo come soggetto letterario che sarà propria del realismo romantico e verista (Manzoni, Verga). C’è da dire però che Goldoni resta ancora al di qua di quell’autentica rivoluzione che sarà operata nel secolo successivo: la sua rappresentazione del popolo non arriva a cogliere la durezza disumana della condizione dei ceti subalterni e i conflitti che la dilacerano. Goldoni mette in scena solo schermaglie sentimentali, ripicche, futili pettegolezzi, e li guarda dall’alto con divertita bonomia e sorridente paternalismo. Pur nella vivezza e autenticità dei dettagli, colti e resi attraverso una conoscenza diretta e un acuto spirito di osservazione, il mondo delle Baruffe è ancora sostanzialmente idillico: a Goldoni sfugge quella “tragicità” del quotidiano, inserita nel corso della storia, che sarà messa in evidenza dai Promessi sposi e dai Malavoglia, opere che esprimono tutt’altra stagione culturale e una diversa visione della realtà.

La fase parigina

Il congedo da Venezia e il periodo parigino

Tra gli altri motivi che spinsero Goldoni a lasciare Venezia e a trasferirsi a Parigi, e che abbiamo già elencati, si aggiunse forse anche questa delusione da lui patita nei suoi più autentici convincimenti, quest’insofferenza per un ambiente divenuto chiuso e soffocante, non più animato da quella «socievolezza» che per lui era il valore più alto. Il congedo da Venezia e dal suo pubblico è costituito da Una delle ultime sere di carnovale (1762), una commedia “a chiave”, autobiografica, in cui con la figura di Anzoleto, disegnatore di ricami in partenza per la Russia, Goldoni allude in modo trasparente a se stesso. Si è già detto delle amarezze che attendevano Goldoni a Parigi e della necessità per lui di tornare indietro a recuperare gli scenari della Commedia dell’Arte, a cui il pubblico francese era rimasto affezionato. I testi da lui scritti in questo periodo, poiché l’approfondimento psicologico e sociale della commedia “di carattere” è precluso, puntano ad una costruzione calibratissima dell’intreccio. Ne è un esempio Il ventaglio (1765), dove la trama è del tutto evanescente e conta solo il sapiente meccanismo dell’azione, che si fonda su una serie fittissima di equivoci, fraintendimenti e scambi di persona derivanti dal passaggio di mano in mano dell’oggetto del titolo, che vengono a comporsi in un elegante balletto.

Frontespizio delle Mémoires de Monsieur Goldoni, pour servir à l’histoire de sa vie, et à celle de son thèatre, edizione Parigi, 1787, Venezia, Biblioteca Marciana.

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Capitolo 7 · Carlo Goldoni

I Mémoires

Gli spunti comici

Le Memorie italiane

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Al “carattere” lo scrittore torna con Le bourru bienfaisant (“Il burbero benefico”, 1771, scritta in francese). Ma il protagonista è ben lontano dai «rusteghi» e dal «sior Todero brontolon»: non esiste più alcun nesso organico tra l’individuo e l’ambiente sociale, il carattere è isolato allo stato puro. Gli anni della vecchiaia sono occupati dalla stesura dei Mémoires (1783-87). Si tratta di un’autobiografia, redatta in francese, che però non è tanto la ricostruzione delle vicende di una vita, quanto delle tappe di una vocazione e di una carriera teatrali. Il teatro per Goldoni era l’interesse e la passione dominante, che riempiva quasi interamente la sua vita: era naturale perciò che la ricapitolazione della propria esistenza si risolvesse principalmente nella ricostruzione dei suoi rapporti con il teatro. Goldoni segue minutamente l’affermazione della sua vocazione di scrittore comico, dalle avide e appassionate letture infantili al primo incontro con il mondo teatrale nella fuga da Rimini a Chioggia sulla barca degli attori, alle prime prove come “poeta di teatro”, alla battaglia condotta per il rinnovamento della commedia. Nella ricostruzione a posteriori della vecchiaia la riforma della commedia appare come un percorso rettilineo e coerente. Noi oggi sappiamo che non fu così, e possiamo anche cogliere errori nelle date e nelle ricostruzioni dei fatti: i Mémoires restano tuttavia un documento prezioso per la comprensione di tutta un’esperienza. Il libro talora si appesantisce di lunghi elenchi e riassunti di commedie, ma contiene anche molti spunti narrativi vivaci. Goldoni rievoca con arguzia e con il distacco ironico del vecchio le vicende della sua gioventù, le peregrinazioni di città in città, le scapestrataggini, le avventure amorose (senza peraltro mai indulgere a particolari piccanti, anzi sfumando o tacendo molti aspetti, specie dei suoi rapporti con le attrici, che non furono precisamente platonici). Spiccano anche alcuni ritratti di personaggi, delineati con una vivacità in cui è sempre stata riconosciuta la sua abilità di uomo di teatro, e che danno vita a vere e proprie scene di commedia: l’incontro giovanile con il musicista Vivaldi, a cui Goldoni dà prova della sua bravura e rapidità nel sistemare un testo da musicare, o quello avvenuto a Parigi con il famoso e “rustico” Rousseau, oppure ancora il ritratto del fratello militare, fanfarone e buono a nulla, e tante altre figurine schizzate in pochi tratti. Ma appaiono saporose soprattutto le notazioni sull’ambiente dei comici, di cui sono messi in rilievo i meriti professionali ma anche i tratti psicologici, i capricci, le rivalità, i puntigli. Un’opera autobiografica vengono a comporre anche le prefazioni premesse da Goldoni ai 17 volumi delle Opere nell’edizione Pasquali, iniziata nel 1761 e proseguita sino al 1778, in cui lo scrittore racconta le vicende della sua vita, prevalentemente in rapporto al suo teatro, sino al 1743. Queste prefazioni vengono definite usualmente Memorie italiane.

La lingua Opere come le commedie goldoniane, che volevano ritrarre dal vivo la realtà quotidiana, i personaggi e i fatti comuni, e che dalla scena parlavano direttamente a un pubblico vasto e socialmente eterogeneo, composto non solo di letterati, non potevano certo usare la lingua della tradizione letteraria, una lingua libresca, irrigidita nel suo lessico aulico e nella sua sintassi complessa e latineggiante: per rendere il dialogo delle situazioni reali della vita dovevano ricorrere alla lingua della conversazione quotidiana. Cosa che non era affatto facile: data la secolare frammentazione politica della penisola non esisteva in Italia una lingua unitaria d’uso quotidiano. La “lingua italiana” era in realtà uno strumento essenzialmente letterario, impiegato nella comunicazione scritta o ufficiale: le lingue dell’uso erano i dialetti. L’italiano (o “toscano”, 421

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La convenzionalità dell’italiano “parlato” Una lingua non libresca

I residui dialettali

Il dialetto veneziano

Il dialetto in Goldoni e nella Commedia dell’Arte

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come allora si diceva comunemente) era usato nella conversazione quotidiana quasi esclusivamente quando dovessero comunicare tra loro persone di diversa provenienza regionale, che non si sarebbero ben comprese parlando i rispettivi dialetti. Questo italiano “parlato” era perciò una lingua inevitabilmente convenzionale, povera e intessuta di frasi fatte. L’italiano delle commedie goldoniane “in lingua” riflette questo stato di cose. È facile perciò rimproverare ad esso la povertà e la convenzionalità, la piattezza, la mancanza di duttilità, di rilievo, di colore. Però occorre egualmente tener presente l’importanza rivestita dalla sperimentazione, in opere che pure aspiravano a una dignità letteraria (Goldoni curò a più riprese la pubblicazione dei suoi testi, rivedendoli e limandoli), di una lingua non libresca, che tendeva a riprodurre in qualche modo l’uso vivo. La lingua di Goldoni comunque rivela consistenti residui dialettali, provenienti non solo dalla “lingua madre” dell’autore, il veneziano, ma anche da altre parlate settentrionali. Goldoni stesso ne era perfettamente consapevole, come testimonia la prefazione alla prima edizione delle sue commedie, del 1750: «Quanto alla lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi e voci Lombarde [cioè dell’Italia settentrionale], giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre, principalmente nelle Lombarde Città dovevano rappresentarsi le mie Commedie». La struttura interna dialettale dell’italiano di Goldoni è rivelata soprattutto, come ha mostrato in un suo fondamentale studio Gianfranco Folena, dalla sintassi prevalentemente paratattica, fondata sulla coordinazione, che allinea in parallelo le varie frasi ignorando i più complessi legami di subordinazione. Al contrario, a causa degli influssi esercitati dal latino sul toscano letterario sin dal Duecento, la lingua letteraria prediligeva l’ipotassi, cioè le ampie architetture di subordinate. Quando poi Goldoni si rivolge più direttamente al pubblico della sua città usa il dialetto veneziano. In tal caso ci troviamo davvero di fronte ad una lingua viva, duttile nelle infinite varietà delle sue sfumature, ricca di colore. La lingua veneziana possedeva poi quella grazia e mollezza musicale che era particolarmente adatta a rendere il mondo goldoniano, sostanzialmente sereno, per lo meno nelle sue forme esteriori, fatte di mondana piacevolezza, di levità giocosa, di garbato umorismo (anche se, al di sotto di questa superficie, esiste un fondo più duro, sgradevole, che è meno facile da cogliere, ma che gli interpreti più avvertiti oggi tendono a portare alla luce: si veda a proposito l’analisi della Locandiera, T2, Analisi del testo, p. 457). Il dialetto di Goldoni è cosa ben diversa da quello della Commedia dell’Arte: là era usato in chiave espressionistica, per forzature grottesche e violentemente caricaturali; Goldoni invece lo impiega in chiave realistico-mimetica, per riprodurre con perfetta naturalezza la conversazione quotidiana (sia pure con quella stilizzazione che è propria della letteratura, e che la distingue dalla semplice registrazione fotografica, o al magnetofono, della realtà). Inoltre l’uso dialettale dei comici dell’Arte era fondamentalmente plurilinguistico: proprio al fine di caricare l’espressività del linguaggio erano giocate l’una contro l’altra varie parlate dialettali, per mettere in caricatura determinati caratteri regionali, divenuti convenzionali (il bergamasco rozzo montanaro, il bolognese dotto e borioso, il napoletano esibizionista e fanfarone). In Goldoni non c’è scontro di dialetti, ma un rigoroso unilinguismo. Ciò non vuol dire che il suo dialetto veneziano sia una lingua monocorde. Proprio per i suoi intenti realistici Goldoni è attento a cogliere e a riprodurre le sfumature che differenziano le parlate dei vari strati sociali: si ha così un veneziano più popolare, quello delle classi umili e della piccola borghesia artigiana e bottegaia, ricco di modi di dire idiomatici, di espressioni colorite e pittoresche, e un veneziano più colto e depurato, che è proprio delle classi superiori. La conquista di questa lingua così viva è graduale, e procede di pari passo con la “riforma” della commedia: nei primi testi il dialetto è più generico e astratto, poi, man mano che le doti dello scrittore si fanno più sicure, diviene sempre più ricco e variegato.

Capitolo 7 · Carlo Goldoni

Interpretazioni critiche

Franco Fido I titoli delle commedie goldoniane Il critico affronta un problema che non ha ricevuto precedentemente l’attenzione che meritava, i criteri che guidano Goldoni nella scelta dei titoli delle sue opere teatrali. Da questo studio sistematico Fido ricava preziose indicazioni sulla fisionomia generale del teatro goldoniano. Riportiamo del saggio un campione esemplificativo.

Goldoni non era un titolografo particolarmente brillante o spericolato: ciò non toglie che fosse sempre scrupoloso e attento, consapevole delle varie funzioni di un titolo. […] 5

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Franco Fido ha dedicato a Goldoni vari studi: in questo volume illustra aspetti in genere poco considerati del teatro goldoniano, quali i titoli, i proverbi nelle commedie, i rapporti con le arti visive nel Settecento, che consentono prospettive nuove di lettura delle opere.

La linea maestra della titolografia comica del Settecento è quella, segnata da Molière e Regnard1, del vizio eponimo2, con titoli che sono modelli di moralismo classico, centrati sul difetto dominante del protagonista. Di Goldoni abbiamo, in questa vasta categoria, aggettivi sostantivati come L’avaro, Il prodigo, Il bugiardo, o deverbali3 che suggeriscono già un’idea del tipo di azione che troveremo nella commedia, L’adulatore, Il raggiratore, Il giuocatore, Il frappatore, qualche volta con una punta di maggiore originalità (e quindi un maggior tasso di incuriosimento per il pubblico), come L’amante di sé medesimo, o L’apatista, cui però si accoppia prudentemente come sottotitolo-chiarimento o sia l’indifferente. Altrettanto classico e anche più frequente è il nesso nome comune di persona + attributo o complemento di qualità, del tipo L’uomo prudente, L’uomo di mondo, Il cavaliere di buon gusto, Il vero amico, La serva amorosa, La cameriera brillante, La vedova spiritosa, La vedova scaltra, La dama prudente, ecc. Se ho chiamato moralistico o molieresco il tipo L’avaro, potrei invece chiamare il tipo L’uomo prudente illuministico o diderotiano4, per il suo ottimismo programmatico sia al livello dell’enunciazione – fiducia nella possibilità di illustrare la specie attraverso l’esibizione dell’esemplare positivo – sia al livello dell’enunciato – soluzione edificante e vittoria del bene sulle eventuali ambiguità della favola. Casi particolari all’interno di questo gruppo sono quello in cui l’aggettivo possiede una carica predicativa, come Il ricco insidiato o L’erede fortunata o La finta ammalata, e quello in cui fra sostantivo e aggettivo si manifesta una certa dissonanza, un nesso inaspettato, come Il poeta fanatico, Il servitore di due padroni, fino all’ossimoro appena suggerito, L’avventuriero onorato, o già più palese, Il burbero di buon cuore, o del tutto scoperto L’avaro fastoso. Comunque, il sottogruppo più notevole in questa seconda categoria, che conferma l’interesse dei titoli come reagenti intertestuali5, è costituito dalla serie La donna di garbo, La donna di maneggio, La donna di governo, La donna forte, La donna volubile, La donna bizzarra, La donna stravagante, La donna di testa debole, La donna vendicativa, La donna sola. Da un lato, specialmente all’altezza del costume patrizio o altoborghese, l’autore registra l’emergere di personaggi femminili provvisti di iniziativa, temperamento, autorità;

1. Molière … Regnard: su Molière, L’età del Barocco e della Nuova Scienza, cap. 4, A4, p. 137. Jean-François Regnard (1655-1709), commediografo francese, fu creatore di intrecci di vivace e spregiudicata comicità.

2. vizio eponimo: il vizio che dà il nome all’opera. 3. deverbali: sostantivi che derivano da verbi (esempio: “giocatore” da “giocare”). 4. diderotiano: su Diderot, cap. 3, A1,

p. 303. 5. reagenti intertestuali: i titoli acquistano significato in rapporto a titoli di altre commedie. 6. misoginia: avversione per le donne.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

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dall’altro, per un riflesso che combina prudenza piccolo-borghese e misoginia6 tradizionale, egli affida ai titoli l’indicazione dei rischi e del prezzo che il personaggio femminile è spesso chiamato a pagare per questo suo nuovo statuto sociale e teatrale. Quasi a contenimento e correttivo dell’inquietudine convogliata dalle donne bizzarre, stravaganti e vendicative, al centro dell’orizzonte drammaturgico goldoniano troviamo i titoli di relazione di parentela: Il padre di famiglia, Il padre per amore, La buona madre, La madre amorosa, La buona moglie, La moglie saggia, La sposa sagace, La figlia obbediente, Il tutore, La pupilla, con qualche variante verso l’astratto, che rispetto al tipo medio goldoniano potremmo chiamare marivaudiana7, quale L’amor paterno o sia la serva riconoscente, o La buona famiglia. Per questi titoli valgono le osservazioni già fatte per il tipo Il vero amico o La serva amorosa, con in più quella ovvia della centralità della famiglia come valore borghese, luogo privilegiato dell’assiologia della Riforma8. […] Può sorprendere, di contro all’abbondanza di titoli familiari, la relativa scarsità di quelli che designano condizioni sociali o professionali: La castalda, La locandiera, Il feudatario, I mercatanti, Le massere, Le donne de casa soa. Ma coi plurali degli ultimi titoli che ho ricordato ci avviamo verso la zona più originale della titolistica goldoniana, lungo una linea che va dalla persona, all’occupazione che ne assicura la socialità, all’ambiente, alla mentalità del gruppo. F. Fido, I titoli delle commedie, in Le inquietudini di Goldoni. Saggi e letture, Costa & Nolan, Genova 1995

7. marivaudiana: da Pierre de Marivaux (1688-1763), autore francese di romanzi e di commedie caratterizzate da acute analisi e

giochi raffinati intorno a sottili casi sentimentali. 8. assiologia della Riforma: il sistema di

valori a cui fa riferimento la riforma goldoniana, e che ha al centro la famiglia.

Esercitare le competenze CoMPrenDere

> 1. Quali sono le soluzioni più comunemente adottate dai commediografi del Settecento per l’attribuzione dei titoli alle loro opere? > 2. Cosa si intende nel brano per “variante marivaudiana”? Riporta qualche esempio di titolo ascrivibile a questa tipologia. > 3. Cosa indicano “i plurali” degli ultimi titoli? AnALIzzAre

> 4. Individua quale fra i titoli di Goldoni è considerato dal critico “moralistico o molieresco” e spiegane il motivo. > 5. Analizza in base a quali caratteristiche, nel saggio, il titolo L’uomo prudente è definito di tipo “illuministico o diderotiano”.

APProfonDIre e InTerPreTAre

> 6.

Scrivere Spiega in circa 10 righe (500 caratteri) l’affermazione del critico a proposito della «centralità della famiglia come valore borghese, luogo privilegiato dell’assiologia della Riforma» in Goldoni. > 7. esporre oralmente Chiarisci in un’esposizione orale (max 2 minuti), la concezione della figura femminile che emerge dall’analisi dei titoli delle commedie goldoniane.

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L’ArTe InConTrA LA LeTTerATUrA

Immagine interattiva Longhi e la società veneziana del Settecento

Venezia tra teatro e realtà: Goldoni e Longhi Al suo coetaneo e conterraneo Pietro Falca, meglio noto come Pietro Longhi (1702-85), Carlo Goldoni dedica un sonetto: «Longhi, tu che la mia musa sorella / chiami del tuo pennel che cerca il vero», nel quale l’affinità tra scrittura goldoniana e pittura longhiana è sancita nel nome della ricerca del vero. I due artisti furono osservatori e interpreti acuti delle trasformazioni della società veneziana del loro tempo: se nel teatro di Goldoni le maschere della Commedia dell’Arte cedevano il passo a personaggi e situazioni che indagavano con ironia la vita della città, nei quadri di Longhi gli eroi della mitologia e della storia lasciavano posto alla rappresentazione della Venezia del tempo, gremita di gente povera e ricca, nobile e miseranda, locale e forestiera: una città nella quale a pochi metri da un palazzo sfarzoso si accalcavano edifici pericolanti, insalubri e sovraffollati. L’interesse per la narrazione del vero, di matrice illuminista, accomuna Goldoni e Longhi, rendendoli partecipi di una cultura di respiro europeo. Pietro Longhi, Colloquio tra baute, 1750-60, olio su tela, part., Venezia, Ca’ Rezzonico - Museo del Settecento veneziano.

Come nel teatro di Goldoni, che si rifaceva – innovandoli integralmente – ai modelli del teatro d’arte cinquecentesco, anche nella pittura di Longhi tradizione e novità convivono. Dopo una formazione veneziana, Pietro Longhi conobbe a Bologna l’opera di Giuseppe Maria Crespi (1665-1747), maestro della pittura di genere, sul cui esempio inizia dalla fine degli anni Trenta a descrivere la vita dei ceti poveri. A partire da allora, Longhi si dedicherà in modo pressoché esclusivo a quella pittura di costume che, narrando in piccole tele la vita dei Veneziani fuori e dentro i palazzi, gli darà grande notorietà. La novità del genere praticato e la maestria pittorica assicurano al pittore un successo straordinario. Nel Colloquio tra baute, le tipiche maschere veneziane, indossate da persone abbigliate con eleganza, si confondono in una folla di popolani, di borghesi e di stranieri (come l’uomo barbuto vestito all’orientale in secondo piano): il venditore di frutti con il cane sembra essere un elemento “in dialetto” inserito a mezzo di un raffinato discorso. Raffinate e maestose sono pure le architetture sullo sfondo che potrebbero essere, allo stesso tempo, uno scorcio vero di Venezia oppure delle scenografie approntate per la messa in scena di una commedia, dove a ciascuno è assegnata una parte ben riconoscibile. Essendo fondata sull’indeterminatezza del confine tra realtà e finzione, l’impressione generata dal concorso di questi elementi nel quadro produce a sua volta un effetto tipicamente teatrale.

Esercitare le competenze STABILIre neSSI TrA LeTTerATUrA e ArTI VISIVe

> 1. Fornisci una descrizione dettagliata della “scena” proposta dal dipinto. > 2. Immagina di utilizzare la rappresentazione pittorica per il manifesto di una rappresentazione teatrale goldoniana: a quale commedia faresti riferimento? Motiva la tua risposta.

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Incontro con l’Opera

6 Un capolavoro destinato al palcoscenico

Goldoni guarda in modo critico alla protagonista

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La locandiera Videolezione

Nell’abbondantissima produzione delle commedie goldoniane La locandiera spicca, offrendosi come il capolavoro dello scrittore veneziano. È anche un testo che è sempre stato amato dalle compagnie teatrali e dal pubblico. Ne sono state proposte nel tempo infinite messe in scena, che ne hanno dato interpretazioni anche molto lontane fra loro: e questo è un segno indubitabile della ricchezza e della vitalità di un’opera destinata al palcoscenico. Ne offriremo una lettura ispirata ad alcune interpretazioni critiche più recenti che, tenendo anche presenti importanti rappresentazioni teatrali, hanno modificato profondamente una certa immagine fissata dalla tradizione e proprio per questo hanno il pregio di consentire la messa in luce di aspetti prima ignorati. Dando alle stampe la commedia, Goldoni premette una prefazione, L’autore a chi legge, in cui insiste sul fatto che nella vicenda di Mirandolina ha voluto dare un esempio della «barbara crudeltà» e dell’«ingiurioso disprezzo» con cui le seduttrici «si burlano dei miserabili che hanno vinti». Il suo fine è dunque «mettere in orrore la schiavitù che si procurano gli sciagurati e rendere odioso il carattere delle incantatrici Sirene». Per questo ritiene che fra tutte le commedie da lui composte La locandiera sia «la più morale, la più utile, la più istruttiva». Queste dichiarazioni rispondono evidentemente all’intento di compiacere il moralismo benpensante del pubblico, e con ogni probabilità nascono anche dal moralismo dello stesso autore, un atteggiamento che appare ormai lontano dal nostro modo di accostarci alle opere letterarie; tuttavia le parole citate possono egualmente essere un’utile chiave di lettura del testo, perché testimoniano come Goldoni non guardi con simpatia e compiacimento la sua protagonista, proponendo l’esaltazione dell’“eterno femminino” che in lei si incarna, della grazia e del fascino femminile, come spesso si è interpretato, ma voglia presentarla in una luce critica, persino con una certa durezza. Tenendo presente questa indicazione preliminare, si può passare alla lettura del testo.

La locandiera La commedia fu rappresentata nel gennaio 1753 al teatro Sant’Angelo dalla compagnia Medebac. Il copione era già pronto nella prima metà di dicembre, e si può presumere che fosse stato steso fra ottobre e novembre 1752. La parte di Mirandolina era sostenuta da Maddalena Marliani, un’attrice per la quale Goldoni nutriva una simpatia probabilmente non platonica. Il testo era costruito esattamente sulla misura dell’attrice, secondo un’abitudine consueta di Goldoni.

Capitolo 7 · Carlo Goldoni

PERSONAGGI il cavaliere di ripafratta il marchese di forlipopoli il conte d’albafiorita mirandolina

ortensia dejanira

locandiera

comiche

fabrizio

cameriere di locanda Servitore del Cavaliere Servitore del Conte La scena si rappresenta in Firenze nella locanda di Mirandolina.

ATTO PRIMO SCENA I Sala di locanda. Il Marchese di Forlipopoli ed il Conte d’Albafiorita

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Fra voi e me vi è qualche differenza. conte Sulla locanda1 tanto vale il vostro denaro, quanto vale il mio. marchese Ma se la locandiera usa a me delle distinzioni2, mi si convengono più che a voi. conte Per qual ragione? marchese Io sono il marchese di Forlipopoli. conte Ed io sono il conte d’Albafiorita. marchese Sì, conte! Contea comprata. conte Io ho comprata la contea, quando voi avete venduto il marchesato. marchese Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto. conte Chi ve lo perde il rispetto? Voi siete quello, che con troppa libertà parlando… marchese Io sono in questa locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono rispettare una giovane che piace a me. conte Oh, questa è bella! Voi mi vorreste impedire ch’io amassi Mirandolina? Perché credete ch’io sia in Firenze? Perché credete ch’io sia in questa locanda? marchese Oh bene. Voi non farete niente. conte Io no, e voi sì? marchese Io sì, e voi no. Io son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione. conte Mirandolina ha bisogno di denari, e non di protezione. marchese Denari?… non ne mancano. conte Io spendo uno zecchino3 il giorno, signor Marchese, e la regalo4 continuamente. marchese Ed io quel che fo non lo dico. conte Voi non lo dite, ma già si sa. marchese Non si sa tutto. conte Sì, caro signor Marchese, si sa. I camerieri lo dicono. Tre paoletti5 il giorno. marchese A proposito di camerieri; vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio, mi piace poco. Parmi che la locandiera lo guardi assai di buon occhio.

1. Sulla locanda: nella locanda. 2. distinzioni: cortesie particolari. 3. zecchino: moneta d’oro veneziana.

4. la regalo: le faccio regali. 5. Tre paoletti: il paolo, moneta d’argento fatta coniare da papa Paolo III, valeva circa

tre lire venete, quindi molto meno dello zecchino.

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conte

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Può essere che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono sei mesi che è morto il di lei padre. Sola una giovane alla testa di una locanda si troverà imbrogliata. Per me, se si marita, le ho promesso trecento scudi6. marchese Se si mariterà, io sono il suo protettore, e farò io… E so io quello che farò. conte Venite qui: facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno. marchese Quel ch’io faccio, lo faccio segretamente, e non me ne vanto. Son chi sono. Chi è di là? (chiama) conte (Spiantato! Povero e superbo!) (da sé) SCENA II Fabrizio e detti fabrizio

Mi comandi, signore. (al Marchese) Signore? Chi ti ha insegnato la creanza? fabrizio La perdoni. conte Ditemi: come sta la padroncina? (a Fabrizio) fabrizio Sta bene, illustrissimo7. marchese È alzata dal letto? fabrizio Illustrissimo sì. marchese Asino. fabrizio Perché, illustrissimo signore? marchese Che cos’è questo illustrissimo? fabrizio È il titolo che ho dato anche a quell’altro cavaliere. marchese Tra lui e me vi è qualche differenza. conte Sentite? (a Fabrizio) fabrizio (Dice la verità. Ci è differenza: me ne accorgo nei conti8.) (piano al Conte) marchese Di’ alla padrona che venga da me, che le ho da parlare. fabrizio Eccellenza sì. Ho fallato9 questa volta? marchese Va bene. Sono tre mesi che lo sai; ma sei un impertinente. fabrizio Come comanda, Eccellenza. conte Vuoi vedere la differenza che passa fra il Marchese e me? marchese Che vorreste dire? conte Tieni. Ti dono uno zecchino. Fa che anch’egli te ne doni un altro. fabrizio Grazie, illustrissimo. (al Conte) Eccellenza… (al Marchese) marchese Non getto il mio, come i pazzi. Vattene. fabrizio Illustrissimo signore, il cielo la benedica. (al Conte) Eccellenza (Rifinito10. Fuor del suo paese non vogliono esser11 titoli per farsi stimare, vogliono esser quattrini.) (da sé, parte) marchese

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SCENA III Il Marchese ed il Conte Voi credete di soverchiarmi12 con i regali, ma non farete niente. Il mio grado val più di tutte le vostre monete.

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6. scudi: moneta veneziana; valeva all’epoca circa tredici lire venete. 7. illustrissimo: titolo che spettava ai borghesi; ai nobili si dava dell’Eccellenza. Per questo il marchese, nella sua superbia nobi-

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liare, subito dopo si infuria al sentirsi così appellare dal cameriere. 8. me ne … conti: perché il marchese spiantato non paga. 9. Ho fallato: ho sbagliato.

10. Rifinito: spiantato. 11. vogliono esser: occorrono. 12. soverchiarmi: vincermi, sopraffarmi.

Capitolo 7 · Carlo Goldoni conte

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Io non apprezzo quel che vale, ma quello che si può spendere. marchese Spendete pure a rotta di collo. Mirandolina non fa stima di voi. conte Con tutta la vostra gran nobiltà, credete voi di essere da lei stimato? Vogliono esser denari. marchese Che denari? Vuol esser protezione. Esser buono in un incontro di far un piacere13. conte Sì, esser buoni in un incontro di prestar cento doppie14. marchese Farsi portar rispetto bisogna. conte Quando non mancano denari, tutti rispettano. marchese Voi non sapete quel che vi dite. conte L’intendo meglio di voi. SCENA IV Il Cavaliere di Ripafratta dalla sua camera, e detti Amici, che cos’è questo romore? Vi è qualche dissensione15 fra di voi altri? conte Si disputava sopra un bellissimo punto. marchese Il Conte disputa meco sul merito16 della nobiltà. (ironico) conte Io non levo il merito alla nobiltà: ma sostengo, che per cavarsi dei capricci, vogliono esser denari. cavaliere Veramente, Marchese mio… marchese Orsù, parliamo d’altro. cavaliere Perché siete venuti a simil contesa? conte Per un motivo il più ridicolo della terra. marchese Sì, bravo! il Conte mette tutto in ridicolo. conte Il signor Marchese ama la nostra locandiera. Io l’amo ancor più di lui. Egli pretende corrispondenza17, come un tributo alla sua nobiltà. Io la spero, come una ricompensa alle mie attenzioni. Pare a voi che la questione non sia ridicola? marchese Bisogna sapere con quanto impegno io la proteggo. conte Egli la protegge, ed io spendo. (al Cavaliere) cavaliere In verità non si può contendere per ragione alcuna che lo meriti meno. Una donna vi altera? vi scompone? Una donna? che cosa mai mi convien sentire? Una donna? Io certamente non vi è pericolo che per le donne abbia che dir con nessuno. Non le ho cavaliere

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13. Esser … piacere: essere capace, all’oc­ correnza, di fare un piacere. 14. doppie: monete d’oro che a Venezia va-

levano 37 lire. 15. dissensione: dissenso, contrasto. 16. merito: importanza.

17. corrispondenza: di essere corrisposto.

Pesare le parole Impegno (atto I, scena IV, r. 87)

> Deriva dal latino pìgnus-pìgnoris, “pegno, segno di garanzia per qualche cosa” (es. le ha donato un anello come pegno del suo amore). Impegno vale “obbligo, promessa” (es. ho preso l’impegno di finire il lavoro in pochi giorni e lo rispetterò), oppure “incombenza, briga” (es. sono pieno di impegni e non ho un minuto libero), o ancora “impiego diligente delle proprie doti e delle proprie forze nel fare qualcosa” (es. il ragazzo studia con impegno e ottiene ottimi risultati); in campo culturale indica un’attiva partecipazione ai problemi sociali e politici da parte degli intellettuali (es. nell’immediato dopoguerra

era ritenuto essenziale l’impegno degli scrittori); impegnata è un’opera in cui vengono affrontati tali problemi (es. I promessi sposi si possono ritenere un romanzo impegnato). Impegnare è letteralmente “dare in pegno qualcosa” (es. essendo ridotto in miseria è stato costretto a impegnare i gioielli di famiglia), e in senso più metaforico “vincolare con promesse, incarichi, o simili” (es. l’attore è impegnato con quella compagnia per tutto l’anno). Nella forma riflessiva, impegnarsi è “contrarre un obbligo, sforzandosi di ottenere i fini prestabiliti” (es. il fisco deve impegnarsi nella lotta contro l’evasione).

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mai amate, non le ho mai stimate, e ho sempre creduto che sia la donna per l’uomo una infermità insopportabile. marchese In quanto a questo poi, Mirandolina ha un merito estraordinario. conte Sin qua il signor Marchese ha ragione. La nostra padroncina della locanda è veramente amabile. marchese Quando l’amo io, potete credere che in lei vi sia qualche cosa di grande. cavaliere In verità mi fate ridere. Che mai può avere di stravagante18 costei, che non sia comune all’altre donne? marchese Ha un tratto19 nobile, che incatena. conte È bella, parla bene, veste con pulizia, è di un ottimo gusto. cavaliere Tutte cose che non vagliono un fico. Sono tre giorni ch’io sono in questa locanda, e non mi ha fatto specie veruna20. conte Guardatela, e forse ci troverete del buono. cavaliere Eh, pazzia! L’ho veduta benissimo. È una donna come l’altre. marchese Non è come l’altre, ha qualche cosa di più. Io che ho praticate le prime dame, non ho trovato una donna che sappia unire, come questa, la gentilezza e il decoro. conte Cospetto di bacco! Io son sempre stato solito trattar donne: ne conosco li difetti ed il loro debole. Pure con costei, non ostante il mio lungo corteggio21 e le tante spese per essa fatte, non ho potuto toccarle un dito. cavaliere Arte, arte sopraffina. Poveri gonzi! Le credete, eh? A me non la farebbe. Donne? Alla larga tutte quante elle sono. conte Non siete mai stato innamorato? cavaliere Mai, né mai lo sarò. Hanno fatto il diavolo per darmi moglie, né mai l’ho voluta. marchese Ma siete unico della vostra casa: non volete pensare alla successione? cavaliere Ci ho pensato più volte, ma quando considero che per aver figliuoli mi converrebbe soffrire22 una donna, mi passa subito la volontà. conte Che volete voi fare delle vostre ricchezze? cavaliere Godermi quel poco che ho con i miei amici. marchese Bravo, cavaliere, bravo; ci goderemo. conte E alle donne non volete dar nulla? cavaliere Niente affatto. A me non ne mangiano23 sicuramente. conte Ecco la nostra padrona. Guardatela, se non è adorabile. cavaliere Oh la bella cosa! Per me stimo più di lei quattro volte un bravo cane da caccia. marchese Se non la stimate voi, la stimo io. cavaliere Ve la lascio, se fosse più bella di Venere.

SCENA V Mirandolina e detti mirandolina

M’inchino a questi cavalieri. Chi mi domanda di lor signori? Io vi domando, ma non qui. mirandolina Dove mi vuole, Eccellenza? marchese Nella mia camera. mirandolina Nella sua camera? Se ha bisogno di qualche cosa, verrà il cameriere a servirla. marchese (Che dite di quel contegno?) (al Cavaliere) marchese

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18. stravagante: straordinario. 19. tratto: modo di fare.

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20. specie veruna: nessuna impressione. 21. corteggio: corteggiamento.

22. soffrire: sopportare. 23. non ne mangiano: sottinteso “di denari”.

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(Quello che voi chiamate contegno, io lo chiamerei temerità, impertinenza.) (al Marchese) conte Cara Mirandolina, io vi parlerò in pubblico, non vi darò l’incomodo di venire nella mia camera. Osservate questi orecchini. Vi piacciono? mirandolina Belli. conte Sono diamanti, sapete? mirandolina Oh, li conosco. Me ne intendo anch’io dei diamanti. conte E sono al vostro comando. cavaliere (Caro amico, voi li buttate via.) (piano al Conte) mirandolina Perché mi vuol ella donare quegli orecchini? marchese Veramente sarebbe un gran regalo! Ella ne ha de’ più belli al doppio. conte Questi sono legati24 alla moda. Vi prego riceverli per amor mio. cavaliere (Oh che pazzo!) (da sé) mirandolina No, davvero, signore… conte Se non li prendete, mi disgustate25. mirandolina Non so che dire… mi preme tenermi amici gli avventori della mia locanda. Per non disgustare il signor Conte, li prenderò. cavaliere (Oh che forca!26) (da sé) conte (Che dite di quella prontezza di spirito?) (al Cavaliere) cavaliere (Bella prontezza! Ve li mangia, e non vi ringrazia nemmeno.) (al Conte) marchese Veramente, signor Conte, vi siete acquistato un gran merito. Regalare una donna in pubblico, per vanità! Mirandolina, vi ho da parlare a quattr’occhi, fra voi e me: son cavaliere. mirandolina (Che arsura!27 Non gliene cascano28.) (da sé) Se altro non mi comandano, io me n’anderò. cavaliere Ehi! padrona. La biancheria che mi avete dato, non mi gusta. Se non ne avete di meglio, mi provvederò. (con disprezzo) mirandolina Signore, ve ne sarà di meglio. Sarà servita, ma mi pare che la potrebbe chiedere con un poco di gentilezza. cavaliere Dove spendo il mio denaro, non ho bisogno di far complimenti. conte Compatitelo. Egli è nemico capitale delle donne. (a Mirandolina) cavaliere Eh, che non ho bisogno d’essere da lei compatito.

24. legati: si riferisce all’incastonatura della pietra preziosa. 25. mi disgustate: mi offendete.

26. che forca!: che malandrina! (letteralmente: che arnese da forca!). 27. Che arsura!: che taccagneria!

28. Non … cascano: non perde certo per stra­ da i denari per l’abbondanza.

Pesare le parole Mi disgustate (atto I, scena V, r. 148)

> Qui il verbo disgustare è usato nel senso di “offendere”,

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che oggi non è più in uso. Il significato attuale di disgusto è, in senso fisico, “nausea, ripugnanza” (es. ho smesso di fumare e provo ormai disgusto per le sigarette), in senso figurato “ripulsione morale, insofferenza, avversione” (es. gli evasori fiscali mi provocano rabbia e disgusto). Di conseguenza per noi disgustare è o “nauseare” fisicamente o “provocare fastidio, noia, insofferenza, ripugnanza” in senso psicologico (es. solo il sentir parlare quel losco individuo mi disgusta). Sinonimi: ripugnare, dal latino re- e pugnàre, “combattere”, quindi “provare una forte avversione, essere contrario, respingere qualcosa” (es. veder battere gli

animali mi ripugna); nauseare, dal latino nàuseam, a sua volta dal greco nausía, “mal di mare” (náus, “nave”; es. le tue continue menzogne mi hanno nauseato); infastidire, da in- e fastìdium (collegato con taedium, “noia”), “senso di molestia, disagio” (es. le loro chiacchiere insulse mi infastidiscono); stomacare, da stòmachum, “stomaco”, quindi in origine “sensazione fisica di nausea, di peso allo stomaco” (es. la volgarità di certa televisione commerciale mi ha stomacato); seccare, dal latino sìccum, “secco”, in senso figurato “arrecare fastidio, importunare” (es. ho troncato i rapporti con lui, ma continua a seccarmi con le sue continue telefonate).

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

mirandolina

Povere donne! che cosa le hanno fatto? Perché così crudele con noi, signor Cavaliere? cavaliere Basta così. Con me non vi prendete maggior confidenza. Cambiatemi la biancheria. La manderò a prender pel29 servitore. Amici, vi sono schiavo30. (parte) [Uscito il Cavaliere, continua la gara tra il Marchese e il Conte per la conquista di Mirandolina. Fabrizio annuncia l’arrivo di un gioielliere e il Conte lo segue. Il Marchese chiede in sposa Mirandolina.]

SCENA IX Mirandolina sola

Testi Atto I, scene VI-VIII da La locandiera

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Uh, che mai ha detto! L’eccellentissimo signor marchese Arsura31 mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l’arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s’innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono32 di sposarmi a dirittura. E questo signor cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? è una cosa che mi muove la bile terribilmente. È nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l’abbia trovata? Con questi per l’appunto mi ci metto di picca33.

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29. pel: dal. 30. schiavo: formula di saluto (sopravvissuta nell’odierno “ciao”).

31. marchese Arsura: attribuisce come soprannome al marchese la sua taccagneria. 32. mi esibiscono: si offrono.

33. di picca: di puntiglio.

Pesare le parole Mi esibiscono (atto I, scena IX, r. 174)

> Qui significa “mi offrono di (sposarmi)”. Per noi oggi il

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senso più comune di esibire è “mostrare, esporre” (es. alla richiesta dei poliziotti esibì i documenti), o, con una sfumatura negativa, nella forma riflessiva, “farsi notare, mettersi in mostra, dare spettacolo” (es. si è esibito in una scenata di gelosia davanti a tutti). Nel linguaggio dello spettacolo, “offrire una rappresentazione, un concerto” o simili (es. la compagnia si esibirà in una messa in scena dell’Amleto; il trapezista si esibì in un triplo salto mortale). L’etimologia è dal latino exhibère, composto di ex-, “fuori”, ed habère, “avere”, quindi “produrre fuori”. Esibizione è la prestazione di un attore, di un cantante, di un concertista ecc. (es. l’esibizione del pianista è stata stupefacente). È quella che in inglese si dice performance (con l’accento sulla o, mentre ormai in Italia si sente sempre accentato sulla prima e, come se ritrarre l’accento facesse più “inglese”). Esibizionismo è la tendenza ossessiva a far mostra di sé (es. durante la cena ha dato prova del suo esibizionismo raccontando di continuo barzellette stupide); nel linguaggio medico può indicare anche la tendenza patologica ad esibire gli organi sessuali.

Di picca

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(atto I, scena IX, r. 180)

Qui mi ci metto di picca significa “mi metto di puntiglio”. Picca viene dal francese pique, da piquer, “pungere, punzecchiare”: il nesso è che chi si ostina in qualche cosa lo fa per “pungere” un altro, per colpirlo, ferirlo. Nell’italiano è termine desueto, mentre è in uso il derivato ripicca, “di-

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spetto fatto in risposta a un dispetto ricevuto” (es. si è offeso perché non lo abbiamo invitato, e per ripicca non vuole più restituirci i cd che gli abbiamo prestato). È usato anche il verso piccarsi, “pretendere con presunzione” (es. si picca di essere un grande conoscitore di vini, mentre non ne capisce nulla), oppure “impermalirsi, risentirsi” (es. quando gli ho fatto osservare le sue contraddizioni è rimasto piccato). Piccante vuol dire “dal sapore pungente” (es. la salsa con il peperoncino per me è troppo piccante). Puntiglio deriva dallo spagnolo puntillo, diminutivo di punto, “punto d’onore”: è l’ostinazione di chi sostiene una posizione solo per orgoglio o partito preso (es. non vuole vendere la casa al cognato solo per puntiglio, perché non vuol far vedere che ha bisogno di soldi). Collegato a puntiglio è il verbo impuntarsi, “rifiutarsi di andare avanti puntando i piedi per terra”, in senso fisico detto soprattutto di animali (es. l’asino si è impuntato e non c’è stato verso di smuoverlo); in senso figurato equivale a “ostinarsi con puntiglio” (es. si è impuntato nel non voler riconoscere l’errore commesso). Dispetto è un’azione compiuta con l’intento di molestare, irritare, dispiacere (es. per farmi dispetto ha rovesciato l’immondizia davanti alla mia porta). Deriva dal latino despìcere, composto di de-, “dall’alto”, e spècere, “guardare”, quindi “guardare dall’alto, disprezzare” (chi fa un dispetto disprezza l’altro, è mosso da malevolenza, che gli fa vedere l’altro come un essere non degno di rispetto, spregevole). Altra accezione è “irritazione, invidia, stizza” (es. è un invidioso che prova dispetto per i miei successi).

Capitolo 7 · Carlo Goldoni

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Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.

SCENA X Fabrizio e detta fabrizio

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Ehi padrona. mirandolina Che cosa c’è? fabrizio Quel forestiere che è alloggiato nella camera di mezzo, grida della biancheria; dice che è ordinaria, e che non la vuole. mirandolina Lo so, lo so. Lo ha detto anche a me, e lo voglio servire. fabrizio Benissimo. Venitemi dunque a metter fuori la roba, che gliela possa portare. mirandolina Andate, andate, gliela porterò io. fabrizio Voi gliela volete portare? mirandolina Sì, io. fabrizio Bisogna che vi prema molto questo forestiere. mirandolina Tutti mi premono. Badate a voi. fabrizio (Già me n’avvedo. Non faremo niente. Ella mi lusinga; ma non faremo niente.) (da sé) mirandolina (Povero sciocco! Ha delle pretensioni! Voglio tenerlo in isperanza, perché mi serva con fedeltà.) (da sé) fabrizio Si è sempre costumato, che i forestieri li serva io. mirandolina Voi con i forestieri siete un poco troppo ruvido. fabrizio E voi siete un poco troppo gentile. mirandolina So quel che fo, non ho bisogno di correttori. fabrizio Bene, bene. Provvedetevi di cameriere.

Alessandro Milesi, La padrona della locanda, Mirandolina, 1919, olio su tela, Collezione privata.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

mirandolina

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fabrizio

Perché, signor Fabrizio? è disgustato di me? Vi ricordate voi che cosa ha detto a noi due vostro padre, prima ch’egli mo-

risse? mirandolina

Sì: quando mi vorrò maritare, mi ricorderò di quel che ha detto mio

padre. Ma io son delicato di pelle34, certe cose non le posso soffrire. mirandolina Ma che credi tu ch’io mi sia? Una frasca35? Una civetta? Una pazza? Mi maraviglio di te. Che voglio fare io dei forestieri che vanno e vengono? Se li tratto bene, lo fo per mio interesse, per tener in credito la mia locanda. De’ regali non ne ho bisogno. Per far all’amore? Uno mi basta: e questo non mi manca; e so chi merita, e so quello che mi conviene. E quando vorrò maritarmi… mi ricorderò di mio padre. E chi mi averà servito bene, non potrà lagnarsi di me. Son grata. Conosco il merito… Ma io non son conosciuta. Basta, Fabrizio, intendetemi, se potete. (parte) fabrizio Chi può intenderla, è bravo davvero. Ora pare che la mi voglia, ora che la non mi voglia. Dice che non è una frasca, ma vuol far a suo modo. Non so che dire. Staremo a vedere. Ella mi piace, le voglio bene, accomoderei con essa i miei interessi per tutto il tempo di vita mia. Ah! bisognerà chiuder un occhio, e lasciar correre qualche cosa. Finalmente i forestieri vanno e vengono. Io resto sempre. Il meglio sarà sempre per me. (parte) fabrizio

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SCENA XI Camera del Cavaliere. Il Cavaliere ed un servitore servitore

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Illustrissimo, hanno portato questa lettera. cavaliere Portami la cioccolata. (il servitore parte. Il Cavaliere apre la lettera) siena, primo gennaio 1753. (Chi scrive?) Orazio Taccagni. Amico carissimo. La tenera amicizia che a voi mi lega, mi rende sollecito ad avvisarvi essere necessario il vostro ritorno in patria. È morto il conte Manna… (Povero cavaliere! Me ne dispiace). Ha lasciato la sua unica figlia nubile erede di centocinquanta mila scudi. Tutti gli amici vostri vorrebbero che toccasse a voi una tal fortuna, e vanno maneggiando… Non s’affatichino per me, che non ne voglio saper nulla. Lo sanno pure ch’io non voglio donne per i piedi. E questo mio caro amico, che lo sa più d’ogni altro, mi secca peggio di tutti. (straccia la lettera) Che importa a me di centocinquanta mila scudi? Finché son solo, mi basta meno. Se fossi accompagnato36, non mi basterebbe assai più. Moglie a me! Piuttosto una febbre quartana37.

34. delicato di pelle: suscettibile. 35. Una frasca: una donna leggera.

36. accompagnato: da una moglie. 37. febbre quartana: febbre che ricorre

ogni quattro giorni (malaria).

Pesare le parole Maneggiando (atto I, scena XI, r. 234)

> Come è evidente, deriva da mano. Qui è usato nel senso di “manovrare, trafficare occultamente, con astuzia”, che è ancora in uso, così come il sostantivo maneggio (es. non mi piacciono i suoi maneggi per ingraziarsi il capo ufficio). Maneggione di conseguenza vuol dire “intrigante, faccendiere” (es. è un maneggione, sempre in cerca di affari poco puliti). I sensi più comuni di maneggiare sono però “trattare con le mani”, per vari scopi (es. è un oggetto fragile, da maneggiare con cura), “saper usare

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qualcosa con particolare abilità” (es. è un bravo pittore, uno che sa maneggiare il pennello), in senso figurato “amministrare” (es. come banchiere maneggia enormi somme di denaro). Maneggio, oltre al senso sopra ricordato, può avere un senso neutro, “atto del maneggiare” (es. è un bravo schermitore, abile nel maneggio della spada), oppure “amministrazione” (es. il maneggio degli affari è tutta la sua vita). Maneggio è poi il luogo dove si tengono cavalli e ci si addestra nell’equitazione.

Capitolo 7 · Carlo Goldoni [Arriva il Marchese e chiede un prestito di venti zecchini al Cavaliere che, però, gliene dà soltanto uno.]

SCENA XV Mirandolina colla biancheria, e detto

Testi Atto I, scene XII-XIV da La locandiera

mirandolina

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Permette, illustrissimo? (entrando con qualche soggezione) Che cosa volete? (con asprezza) mirandolina Ecco qui della biancheria migliore. (s’avanza un poco) cavaliere Bene. Mettetela lì. (accenna il tavolino) mirandolina La supplico almeno degnarsi vedere se è di suo genio38. cavaliere Che roba è? mirandolina Le lenzuola sono di rensa39. (s’avanza ancor più) cavaliere Rensa? mirandolina Sì signore, di dieci paoli al braccio. Osservi. cavaliere Non pretendevo tanto. Bastavami qualche cosa meglio di quel che mi avete dato. mirandolina Questa biancheria l’ho fatta per personaggi di merito: per quelli che la sanno conoscere; e in verità, illustrissimo, la do per esser lei40, ad un altro non la darei. cavaliere Per esser lei! Solito complimento. mirandolina Osservi il servizio di tavola. cavaliere Oh! Queste tele di Fiandra41, quando si lavano, perdono assai. Non vi è bisogno che le insudiciate per me. mirandolina Per un cavaliere della sua qualità, non guardo a queste piccole cose. Di queste salviette ne ho parecchie, e le serberò per V. S. illustrissima. cavaliere

38. di suo genio: di suo gusto. 39. rensa: tela bianca molto raffinata, così chiamata perché prodotta nella città france-

se di Reims. 40. per esser lei: perché è lei. 41. tele di Fiandra: tessuto pregiato, che pro-

veniva dai Paesi Bassi.

Pesare le parole Soggezione (atto I, scena XV, r. 239) > Deriva

>

dal latino subiectiònem, “sottomissione”, dal verbo subìcere, “sottoporre”, da sub- e iàcere, “gettare”, cioè alla lettera “gettare sotto”. In italiano soggezione conserva il significato etimologico (es. dobbiamo liberarci da ogni soggezione alla volontà altrui), ma più comune è il senso “riguardo timoroso, rispetto misto a imbarazzo che si prova a trovarsi in ambienti insoliti o dinanzi a persone importanti o autorevoli” (es. gli allievi provavano soggezione a trovarsi dinanzi al Presidente della Repubblica). Dalla stessa radice provengono vari termini. Soggetto, come aggettivo, vale “sottomesso, sottoposto al potere o all’autorità altrui, a un obbligo” (es. l’Italia è stata per secoli soggetta a potenze straniere; è in libertà vigilata e soggetto all’obbligo di firma in commissariato), oppure “sottoposto a un’azione” (il territorio di quel Comune è soggetto ad alluvioni); detto di persona, indica chi soffre di un certo disturbo (es. è soggetto a continue crisi di emicrania). Come sostantivo può equivalere ad “argomento, tema” (es. il famoso regista non ha voluto rivelare il soggetto del suo prossimo film); recitare a soggetto vuol dire “improvvisare” (es.

i comici dell’Arte recitavano a soggetto); in senso filosofico è l’io in quanto pensante, in contrapposizione all’oggetto pensato (es. nella letteratura del Novecento si verifica una crisi del soggetto, per cui l’io si disgrega); in grammatica è la persona o la cosa che fa o subisce l’azione espressa dal verbo, o si trova nella condizione indicata da esso (es. nel fare l’analisi logica della frase occorre individuare innanzitutto il predicato verbale e il soggetto); nel linguaggio familiare, con sfumatura spesso ironica o spregiativa, vale “personaggio, tipo” (es. quel tuo amico è un bel soggetto, sta attento che può fregarti). Soggettivo è ciò che deriva dal modo particolare di pensare, sentire, giudicare dell’individuo (es. le opinioni soggettive in materia di bellezza possono essere molto varie). Soggettivismo in filosofia è la dottrina secondo cui i criteri di verità sono determinati dagli orientamenti del soggetto (es. le tue teorie peccano di eccessivo soggettivismo, non sono facili da accettare). La soggettiva nel linguaggio cinematografico è l’inquadratura ripresa dal punto di vista del personaggio, che quindi fa vedere ciò che egli vede e come lo vede.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

(Non si può però negare, che costei non sia una donna obbligante42.) (da sé) mirandolin a (Veramente ha una faccia burbera da non piacergli le donne.) (da sé) cavaliere Date la mia biancheria al mio cameriere, o ponetela lì, in qualche luogo. Non vi è bisogno che v’incomodiate per questo. mirandolina Oh, io non m’incomodo mai, quando servo cavaliere di sì alto merito. cavaliere Bene, bene, non occorr’altro. (Costei vorrebbe adularmi. Donne! Tutte così.) (da sé) mirandolina La metterò nell’arcova43. cavaliere Sì, dove volete. (con serietà) mirandolina (Oh! vi è del duro. Ho paura di non far niente.) (da sé; va a riporre la biancheria) cavaliere (I gonzi sentono queste belle parole, credono a chi le dice, e cascano.) (da sé) mirandolina A pranzo, che cosa comanda? (ritornando senza la biancheria) cavaliere Mangerò quello che vi sarà. mirandolina Vorrei pur sapere il suo genio44. Se le piace una cosa più dell’altra, lo dica con libertà. cavaliere Se vorrò qualche cosa, lo dirò al cameriere. mirandolina Ma in queste cose gli uomini non hanno l’attenzione e la pazienza che abbiamo noi altre donne. Se le piacesse qualche intingoletto, qualche salsetta, favorisca di dirlo a me. cavaliere Vi ringrazio: ma né anche per questo verso vi riuscirà di far con me quello che avete fatto col Conte e col Marchese. mirandolina Che dice della debolezza di quei due cavalieri? Vengono alla locanda per alloggiare, e pretendono poi di voler far all’amore colla locandiera. Abbiamo altro in testa noi, che dar retta alle loro ciarle. Cerchiamo di fare il nostro interesse; se diamo loro delle buone parole45, lo facciamo per tenerli a bottega46; e poi, io principalmente, quando vedo che si lusingano, rido come una pazza. cavaliere Brava! Mi piace la vostra sincerità. mirandolina Oh! non ho altro di buono, che la sincerità. cavaliere Ma però, con chi vi fa la corte, sapete fingere. mirandolina Io fingere? Guardimi il cielo. Domandi un poco a quei due signori che fanno gli spasimati per me, se ho mai dato loro un segno d’affetto. Se ho mai scherzato con loro in maniera che si potessero lusingare con fondamento. Non li strapazzo, perché il mio interesse non lo vuole, ma poco meno. Questi uomini effeminati47 non li posso vecavaliere

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42. obbligante: gentile. 43. arcova: luogo della camera, separato da un arco e da cortine, dove si trovava il letto.

44.il suo genio: il suo gusto, che cosa preferisce. 45. diamo … parole: siamo gentili. 46. tenerli a bottega: indurli a restare nella

locanda. 47. effeminati: donnaioli.

Pesare le parole Strapazzo (atto I, scena XV, r. 290)

> Il verbo stapazzare deriva da pazzo, dal latino patièntem,

“sofferente” (in senso medico) più stra- (latino extra-, “fuori”): quindi letteralmente è “agire da pazzo” su qualcun altro all’esterno, mentre impazzare, composto con in-, “dentro”, si riferisce all’interno, cioè “comportarsi da pazzo”. Nel senso corrente strapazzare vuol dire “maltrattare” (es. è un capo autoritario, che strapazza continuamente i suoi dipendenti), oppure “adoperare senza riguardo, sciupare” (es., in senso materiale, strapazza i vestiti sino a ridurli a degli stracci; in senso metaforico, quell’attore cane ha strapazzato il testo di Shakespeare),

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oppure ancora “affaticare eccessivamente, sottoporre a gravi fatiche” (es. si è strapazzato troppo con il lavoro e si è rovinato la salute). Strapazzo si collega a quest’ultimo significato, è cioè “l’atto di strapazzarsi”, “l’affaticamento eccessivo” (es. dopo una vita di strapazzi si è finalmente dato una calmata). La locuzione da strapazzo vuol dire “di poco prezzo ma resistente, tale da potersi usare senza riguardo” (es. i jeans originariamente erano pantaloni da strapazzo, usati per i lavori pesanti), o, in senso figurato, “di poco valore” (es. è un pittore da strapazzo, i cui quadri non valgono nulla).

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dere. Sì come abborrisco anche le donne, che corrono dietro agli uomini. Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto; non son bella, ma ho avute delle buone occasioni: eppure non ho mai voluto maritarmi, perché stimo infinitamente la mia libertà. cavaliere Oh sì, la libertà è un gran tesoro. mirandolina E tanti la perdono scioccamente. cavaliere So ben io quel che faccio. Alla larga. mirandolina Ha moglie V. S. illustrissima? cavaliere Il cielo me ne liberi. Non voglio donne. mirandolina Bravissimo. Si conservi sempre così. Le donne, signore… Basta, a me non tocca a dirne male. cavaliere Voi siete per altro la prima donna, ch’io senta parlar così. mirandolina Le dirò: noi altre locandiere vediamo e sentiamo delle cose assai; e in verità compatisco quegli uomini che hanno paura del nostro sesso. cavaliere (È curiosa costei.) (da sé) mirandolina Con permissione di V. S. illustrissima. (finge voler partire) cavaliere Avete premura di partire? mirandolina Non vorrei esserle importuna. cavaliere No, mi fate piacere; mi divertite. mirandolina Vede, signore? Così fo con gli altri. Mi trattengo qualche momento; sono piuttosto allegra, dico delle barzellette per divertirli, ed essi subito credono… Se la m’intende, e mi fanno i cascamorti. cavaliere Questo accade, perché avete buona maniera. mirandolina Troppa bontà, illustrissimo. (con una riverenza) cavaliere Ed essi s’innamorano. mirandolina Guardi che debolezza! Innamorarsi subito di una donna! cavaliere Questa io non l’ho mai potuta capire. mirandolina Bella fortezza! Bella virilità! cavaliere Debolezze! Miserie umane! mirandolina Questo è il vero pensare degli uomini. Signor Cavaliere, mi porga la mano. cavaliere Perché volete ch’io vi porga la mano? mirandolina Favorisca; si degni; osservi, sono pulita. cavaliere Ecco la mano. mirandolina Questa è la prima volta, che ho l’onore d’aver per la mano un uomo, che pensa veramente da uomo. cavaliere Via, basta così. (ritira la mano) mirandolina Ecco. Se io avessi preso per la mano uno di que’ due signori sguaiati48 avrebbe tosto creduto ch’io spasimassi per lui. Sarebbe andato in deliquio. Non darei loro una semplice libertà49, per tutto l’oro del mondo. Non sanno vivere. Oh benedetto il conversare alla libera! senza attacchi, senza malizia, senza tante ridicole scioccherie. Illustrissimo perdoni la mia impertinenza. Dove posso servirla, mi comandi con autorità50, e avrò per lei quell’attenzione, che non ho mai avuto per alcuna persona di questo mondo. cavaliere Per qual motivo avete tanta parzialità per me? mirandolina Perché, oltre il suo merito, oltre la sua condizione, sono almeno sicura che con lei posso trattare con libertà, senza sospetto che voglia fare cattivo uso delle mie attenzioni, e che mi tenga in qualità di serva, senza tormentarmi con pretensioni ridicole, con caricature affettate. cavaliere (Che diavolo ha costei di stravagante, ch’io non capisco!) (da sé)

48. sguaiati: senza decoro. 49. una semplice libertà: una minima con­

fidenza. 50. con autorità: senza riguardi.

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(Il satiro51 si anderà a poco a poco addomesticando.) (da sé) cavaliere Orsù, se avete da badare alle cose vostre, non restate per me. mirandolina Sì signore, vado ad attendere alle faccende di casa. Queste sono i miei amori, i miei passatempi. Se comanderà qualche cosa, manderò il cameriere. cavaliere Bene… Se qualche volta verrete anche voi, vi vedrò volentieri. mirandolina Io veramente non vado mai nelle camere dei forestieri, ma da lei ci verrò qualche volta. cavaliere Da me… Perché? mirandolina Perché, illustrissimo signore, ella mi piace assaissimo. cavaliere Vi piaccio io? mirandolina Mi piace, perché non è effeminato, perché non è di quelli che s’innamorano. (Mi caschi il naso, se avanti domani non l’innamoro52.) (da sé, parte) mirandolina

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SCENA XVI Il Cavaliere solo cavaliere

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Eh! So io quel che fo. Colle donne? Alla larga. Costei sarebbe una di quelle che potrebbero farmi cascare più delle altre. Quella verità, quella scioltezza di dire, è cosa poco comune. Ha un non so che di estraordinario; ma non per questo mi lascierei innamorare. Per un poco di divertimento, mi fermerei più tosto con questa che con un’altra. Ma per far all’amore? Per perdere la libertà? Non vi è pericolo. Pazzi, pazzi quelli che s’innamorano delle donne. (parte)

[Arrivano due attrici, Ortensia e Dejanira, che si fingono nobildonne. Riescono a ingannare Fabrizio ma non Mirandolina, con cui però stabiliscono una buona intesa, sulla base di una comune schiettezza popolare.]

SCENA XXI Il Marchese e dette

Testi Atto I, scene XVII-XX da La locandiera

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È permesso? Si può entrare? ortensia Per me è padrone. marchese Servo di lor signore. dejanira Serva umilissima. ortensia La riverisco divotamente. marchese Sono forestiere? (a Mirandolina) mirandolina Eccellenza sì. Sono venute ad onorare la mia locanda. ortensia (È un’Eccellenza! Capperi!) (da sé) dejanira (Già Ortensia lo vorrà per sé). (da sé) marchese E chi sono queste signore? (a Mirandolina) mirandolina Questa è la baronessa Ortensia del Poggio, e questa la contessa Dejanira dal Sole. marchese Oh compitissime dame! ortensia E ella chi è, signore? marchese Io sono il marchese di Forlipopoli. dejanira (La locandiera vuol seguitare a far la commedia.) (da sé) ortensia Godo aver l’onore di conoscere un cavaliere così compito.

51. satiro: uomo selvatico. Nella mitologia classica era un essere mezzo uomo e mezzo

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caprone che viveva nei boschi. 52. l’innamoro: lo faccio innamorare.

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Se vi potessi servire, comandatemi. Ho piacere che siate venute ad alloggiare in questa locanda. Troverete una padrona di garbo. mirandolina Questo cavaliere è pieno di bontà. Mi onora della sua protezione. marchese Sì, certamente. Io la proteggo, e proteggo tutti quelli che vengono nella sua locanda; e se vi occorre nulla, comandate. ortensia Occorrendo, mi prevarrò delle sue finezze53. marchese Anche voi, signora Contessa, fate capitale di me54. dejanira Potrò ben chiamarmi felice, se avrò l’alto onore di essere annoverata nel ruolo delle sue umilissime serve. mirandolina (Ha detto un concetto da commedia55.) (ad Ortensia) ortensia (Il titolo di contessa l’ha posta in soggezione.) (a Mirandolina) (Il Marchese tira fuori di tasca un bel fazzoletto di seta, lo spiega, e finge volersi asciugar la fronte) mirandolina Un gran fazzoletto, signor Marchese! marchese Ah! Che ne dite? È bello? Sono di buon gusto io? (a Mirandolina) mirandolina Certamente è di ottimo gusto. marchese Ne avete più veduti di così belli? (ad Ortensia) ortensia È superbo. Non ho veduto il compagno56. (Se me lo donasse, lo prenderei.) (da sé) marchese Questo viene da Londra. (a Dejanira) dejanira È bello, mi piace assai. marchese Son di buon gusto io? dejanira (E non dice a’ vostri comandi57) (da sé) marchese M’impegno58 che il Conte non sa spendere. Getta via il denaro, e non compra mai una galanteria di buon gusto. mirandolina Il signor Marchese conosce, distingue, sa, vede, intende. marchese (piega il fazzoletto con attenzione) Bisogna piegarlo bene, acciò non si guasti. Questa sorta di roba bisogna custodirla con attenzione. Tenete. (lo presenta a Mirandolina) mirandolina Vuole ch’io lo faccia mettere nella sua camera? marchese No. Mettetelo nella vostra. mirandolina Perché… nella mia? marchese Perché… ve lo dono. mirandolina Oh, Eccellenza, perdoni… marchese Tant’è. Ve lo dono. mirandolina Ma io non voglio… marchese Non mi fate andar in collera. mirandolina Oh, in quanto a questo poi, il signor Marchese lo sa, io non voglio disgustar nessuno. Acciò non vada in collera, lo prenderò. dejanira (Oh che bel lazzo!59) (ad Ortensia) ortensia (E poi dicono delle commedianti!) (a Dejanira) marchese Ah! Che dite? Un fazzoletto di quella sorta, l’ho donato alla mia padrona di casa. (ad Ortensia) ortensia È un cavaliere generoso. marchese Sempre così. mirandolina (Questo è il primo regalo che mi ha fatto, e non so come abbia avuto questo fazzoletto.) (da sé)

53. mi prevarrò … finezze: approfitterò del­ le sue cortesie. 54. fate … me: contate su di me. 55. concetto … commedia: ha usato il lin­

guaggio fiorito che è abituale nelle commedie ( rr. 379 e 381-382). 56. il compagno: uno simile. 57. a’… comandi: a vostra disposizione.

58. M’impegno: giuro. 59. che bel lazzo!: che bella scena.

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Signor Marchese, se ne trovano di quei fazzoletti in Firenze? Avrei volontà d’averne uno compagno. marchese Compagno di questo sarà difficile; ma vedremo. mirandolina (Brava la signora Contessina.) (da sé) ortensia Signor Marchese, voi che siete pratico della città, fatemi il piacere di mandarmi un bravo calzolaro, perché ho bisogno di scarpe. marchese Sì, vi manderò il mio. mirandolina (Tutte alla vita; ma non ce n’è uno per la rabbia60.) (da sé) ortensia Caro signor Marchese, favorirà tenerci un poco di compagnia. dejanira Favorirà a pranzo con noi. marchese Sì, volentieri. (Ehi Mirandolina, non abbiate gelosia, son vostro, già lo sapete.) mirandolina (S’accomodi pure; ho piacere che si diverta.) (al Marchese) ortensia Voi sarete la nostra conversazione. dejanira Non conosciamo nessuno. Non abbiamo altri che voi. marchese Oh care le mie damine! Vi servirò di cuore. SCENA XXII Il Conte e detti conte

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Mirandolina, io cercava di voi. Son qui con queste dame. conte Dame? M’inchino umilmente. ortensia Serva divota. (Questo è un guasco più badial61 di quell’altro.) (piano a Dejanira) dejanira (Ma io non sono buona per miccheggiare62.) (piano ad Ortensia) marchese (Ehi! Mostrate al Conte il fazzoletto.) (piano a Mirandolina) mirandolina Osservi, signor Conte, il bel regalo che mi ha fatto il signor Marchese. (mostra il fazzoletto al Conte) conte Oh, me ne rallegro! Bravo, signor Marchese. marchese Eh niente, niente. Bagattelle. Riponetelo via; non voglio che lo diciate. Quel che fo, non s’ha da sapere. mirandolina (Non s’ha da sapere, e me lo fa mostrare. La superbia contrasta con la povertà.) (da sé) conte Con licenza di queste dame, vorrei dirvi una parola. (a Mirandolina) ortensia S’accomodi con libertà. marchese Quel fazzoletto in tasca lo manderete a male63. (a Mirandolina) mirandolina Eh, lo riporrò nella bambagia, perché non si ammacchi! conte Osservate questo piccolo gioiello di diamanti. (a Mirandolina) mirandolina Bello assai. conte È compagno degli orecchini che vi ho donato. (Ortensia e Dejanira osservano, e parlano piano fra loro) mirandolina Certo è compagno, ma è ancora più bello. marchese (Sia maledetto il Conte, i suoi diamanti, i suoi denari, e il suo diavolo che se lo porti.) (da sé) conte Ora, perché abbiate il fornimento compagno64, ecco ch’io vi dono il gioiello. (a Mirandolina) mirandolina

60. Tutte … rabbia: «tutte e due addosso a lui: ma non ha l’ombra di un quattrino» (Ortolani); ma la battuta, in linguaggio gergale, è di difficile interpretazione.

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61. guasco … badial: nobile più ricco (sempre gergo degli attori). 62. miccheggiare: scroccare soldi o regali (altra espressione gergale).

63. lo … male: lo rovinerete. 64. fornimento compagno: gioiello che ac­ compagna gli orecchini.

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mirandolina

Non lo prendo assolutamente. conte Non mi farete questa mala creanza. mirandolina Oh! delle male creanze non ne faccio mai. Per non disgustarla, lo prenderò. (Ortensia e Dejanira parlano come sopra, osservando la generosità del Conte) mirandolina Ah! Che ne dice, signor Marchese? Questo gioiello non lo è galante65? marchese Nel suo genere il fazzoletto è più di buon gusto. conte Sì, ma da genere a genere vi è una bella distanza. marchese Bella cosa! Vantarsi in pubblico di una grande spesa. conte Sì, sì, voi fate i vostri regali in segreto. mirandolina (Posso ben dire con verità questa volta, che fra due litiganti il terzo gode.) (da sé) marchese E così, damine mie, sarò a pranzo con voi. ortensia Quest’altro signore chi è? (al Conte) conte Sono il conte d’Albafiorita, per obbedirvi. dejanira Capperi! È una famiglia illustre, io la conosco. (anch’ella s’accosta al Conte) conte Sono a’ vostri comandi. (a Dejanira) ortensia È qui alloggiato? (al Conte) conte Sì, signora. dejanira Si trattiene molto? (al Conte) conte Credo di sì. marchese Signore mie, sarete stanche di stare in piedi, volete ch’io vi serva66 nella vostra camera? ortensia Obbligatissima. (con disprezzo) Di che paese è, signor Conte? conte Napolitano. ortensia Oh! Siamo mezzi patriotti. Io sono palermitana. dejanira Io son romana; ma sono stata a Napoli, e appunto per un mio interesse desiderava parlare con un cavaliere napolitano. conte Vi servirò, signore. Siete sole? Non avete uomini? marchese Ci sono io, signore: e non hanno bisogno di voi. ortensia Siamo sole, signor Conte. Poi vi diremo il perché. conte Mirandolina. mirandolina Signore. conte Fate preparare nella mia camera per tre. Vi degnerete di favorirmi? (ad Ortensia e Dejanira) ortensia Riceveremo le vostre finezze. marchese Ma io sono stato invitato da queste dame. conte Esse sono padrone di servirsi come comandano, ma alla mia piccola tavola in più di tre non ci si sta.

65. galante: elegante, grazioso. 66. vi serva: vi accompagni e mi metta a vo­

stra disposizione (forma corrente di cortesia nel linguaggio della buona società).

Pesare le parole Creanza (atto I, scena XXII, r. 461)

> Deriva dallo spagnolo crianza, da criar, “allevare bene”. > Sinonimi: Indica le buone maniere, il comportamento educato (es. non parlare a voce troppo alta è segno di buona creanza); screanzato, con s- negativo, è chi è privo di buona creanza, maleducato (che alla lettera vuol dire “educato male”: es. quello screanzato è passato davanti a tutti nella fila).

cortesia, gentilezza, termini che fanno entrambi riferimento alla nobiltà, di sangue o d’animo; cortesia era il comportamento di chi viveva a corte, e quindi conosceva le regole del comportamento corretto; gentilezza è la qualità di chi è gentile, cioè appunto nell’italiano antico “nobile” [dal latino gèntem, “la (buona) stirpe”].

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Vorrei veder anche questa… ortensia Andiamo, andiamo, signor Conte. Il signor Marchese ci favorirà un’altra volta. (parte) dejanira Signor Marchese, se trova il fazzoletto, mi raccomando. (parte) marchese Conte, Conte, voi me la pagherete. conte Di che vi lagnate? marchese Son chi sono, e non si tratta così. Basta… Colei vorrebbe un fazzoletto? Un fazzoletto di quella sorta? Non l’avrà. Mirandolina, tenetelo caro. Fazzoletti di quella sorta non se ne trovano. Dei diamanti se ne trovano, ma dei fazzoleti di quella sorta non se ne trovano. (parte) mirandolina (Oh che bel pazzo!) (da sé) conte Cara Mirandolina, avrete voi dispiacere ch’io serva queste due dame? mirandolina Niente affatto, signore. conte Lo faccio per voi. Lo faccio per accrescer utile ed avventori alla vostra locanda; per altro io son vostro, è vostro il mio cuore, e vostre sono le mie ricchezze, delle quali disponetene liberamente, che io vi faccio padrona. (parte) SCENA XXIII Mirandolina sola mirandolina

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Con tutte le sue ricchezze, con tutti li suoi regali, non arriverà mai ad innamorarmi; e molto meno lo farà il Marchese colla sua ridicola protezione. Se dovessi attaccarmi67 ad uno di questi due, certamente lo farei con quello che spende di più. Ma non mi preme né dell’uno, né dell’altro. Sono in impegno d’innamorar il cavaliere di Ripafratta, e non darei un tal piacere per un gioiello il doppio più grande di questo. Mi proverò; non so se avrò l’abilità che hanno quelle due brave comiche, ma mi proverò. Il Conte ed il Marchese, frattanto che con quelle si vanno trattenendo, mi lasceranno in pace; e potrò a mio bell’agio trattar col Cavaliere. Possibile ch’ei non ceda? Chi è quello che possa resistere ad una donna, quando le dà tempo di poter far uso dell’arte sua? Chi fugge non può temer d’esser vinto, ma chi si ferma, chi ascolta, e se ne compiace, deve o presto o tardi a suo dispetto cadere. (parte)

67. attaccarmi: fare un matrimonio di interesse, o stabilire una relazione.

ATTO SECONDO [Il Cavaliere è nella sua camera. Arriva il suo servitore e gli prepara la tavola. Il Cavaliere inizia a mangiare.]

SCENA IV Mirandolina con un tondo in mano, ed il servitore, e detto

Testi Atto II, scene I-III da La locandiera

mirandolina cavaliere servitore cavaliere

1. tondo: piatto.

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È permesso? Chi è di là? Comandi. Leva là quel tondo1 di mano.

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mirandolina

Perdoni. Lasci ch’io abbia l’onore di metterlo in tavola colle mie mani. (mette in tavola la vivanda) cavaliere Questo non è offizio vostro. mirandolina Oh signore, chi son io? Una qualche signora? Sono una serva di chi favorisce venire alla mia locanda. cavaliere (Che umiltà!) (da sé) mirandolina In verità, non avrei difficoltà di servire in tavola tutti, ma non lo faccio per certi riguardi: non so s’ella mi capisca. Da lei vengo senza scrupoli, con franchezza. cavaliere Vi ringrazio. Che vivanda è questa? mirandolina Egli è un intingoletto fatto colle mie mani. cavaliere Sarà buono. Quando lo avete fatto voi, sarà buono. mirandolina Oh! troppa bontà, Signore. Io non so far niente di bene; ma bramerei saper fare, per dar nel genio2 ad un cavalier sì compito. cavaliere (Domani a Livorno.) (da sé) Se avete che fare, non istate a disagio per me. mirandolina Niente, signore: la casa è ben provveduta di cuochi e servitori. Avrei piacer di sentire, se quel piatto le dà nel genio. cavaliere Volentieri, subito. (lo assaggia) Buono, prezioso. Oh che sapore! Non conosco che cosa sia. mirandolina Eh, io signore, ho de’ secreti particolari. Queste mani sanno far delle belle cose! cavaliere Dammi da bere. (al servitore, con qualche passione) mirandolina Dietro3 questo piatto, signore, bisogna beverlo buono. cavaliere Dammi del vino di Borgogna4. (al servitore) mirandolina Bravissimo. Il vino di Borgogna è prezioso. Secondo me, per pasteggiare è il miglior vino che si possa bere. (Il servitore presenta la bottiglia in tavola, con un bicchiere) cavaliere Voi siete di buon gusto in tutto. mirandolina In verità, che poche volte m’inganno. cavaliere Eppure questa volta voi v’ingannate. mirandolina In che, signore? cavaliere In credere ch’io meriti d’essere da voi distinto5. mirandolina Eh, signor Cavaliere… (sospirando) cavaliere Che cosa c’è? Che cosa sono questi sospiri? (alterato) mirandolina Le dirò: delle attenzioni ne uso a tutti, e mi rattristo quando penso che non vi sono che ingrati. cavaliere Io non vi sarò ingrato. (con placidezza) mirandolina Con lei non pretendo di acquistar merito, facendo unicamente il mio dovere. cavaliere No, no, conosco benissimo… Non sono cotanto rozzo quanto voi mi credete. Di me non avrete a dolervi. (versa il vino nel bicchiere) mirandolina Ma… signore… io non l’intendo. cavaliere Alla vostra salute. (beve) mirandolina Obbligatissima; mi onora troppo. cavaliere Questo vino è prezioso. mirandolina Il Borgogna è la mia passione. cavaliere Se volete, siete padrona. (le offerisce il vino) mirandolina Oh! Grazie, signore.

2. dar nel genio: compiacere i gusti. 3. Dietro: dopo.

4. vino di Borgogna: vino francese molto pregiato.

5. distinto: fatto oggetto di attenzioni parti­ colari.

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Avete pranzato? mirandolina Illustrissimo sì. cavaliere Ne volete un bicchierino? mirandolina Io non merito queste grazie. cavaliere Davvero, ve lo do volentieri. mirandolina Non so che dire. Riceverò le sue finezze. cavaliere Porta un bicchiere. (al servitore) mirandolina No, no, se mi permette; prenderò questo. (prende il bicchiere del Cavaliere) cavaliere Oibò. Me ne sono servito io. mirandolina Beverò le sue bellezze. (ridendo) (Il servitore mette l’altro bicchiere nella sottocoppa) cavaliere Eh galeotta6! (versa il vino) mirandolina Ma è qualche tempo che ho mangiato: ho timore che mi faccia male. cavaliere Non vi è pericolo. mirandolina Se mi favorisse un bocconcino di pane… cavaliere Volentieri. Tenete. (le dà un pezzo di pane) (Mirandolina col bicchiere in una mano, e nell’altra il pane, mostra di stare a disagio, e non saper come fare la zuppa) cavaliere Voi state in disagio. Volete sedere? mirandolina Oh! Non son degna di tanto, signore. cavaliere Via via, siamo soli. Portale una sedia. (al servitore) servitore (Il mio padrone vuol morire: non ha mai fatto altrettanto.) (da sé, va a prendere la sedia) mirandolina Se lo sapessero il signor Conte ed il signor Marchese, povera me! cavaliere Perché? mirandolina Cento volte mi hanno voluto obbligare a bere qualche cosa, o a mangiare, e non ho mai voluto farlo. cavaliere Via, accomodatevi. mirandolina Per obbedirla. (siede, e fa la zuppa nel vino) cavaliere Senti. (al servitore, piano) (Non lo dire a nessuno, che la padrona sia stata a sedere alla mia tavola.) servitore (Non dubiti.) (piano) (Questa novità mi sorprende.) (da sé) mirandolina Alla salute di tutto quello che dà piacere al signor Cavaliere. cavaliere Vi ringrazio, padroncina garbata. mirandolina Di questo brindisi alle donne non ne tocca. cavaliere No? perché? mirandolina Perché so che le donne non le può vedere. cavaliere È vero, non le ho mai potute vedere. mirandolina Si conservi sempre così. cavaliere Non vorrei… (si guarda dal servitore) mirandolina Che cosa, signore? cavaliere Sentite. (le parla nell’orecchio) (Non vorrei che voi mi faceste mutar natura.) mirandolina Io, signore? Come? cavaliere Va via. (al servitore) servitore Comanda in tavola? cavaliere Fammi cucinare due uova, e quando son cotte, portale. servitore Come le comanda le uova?

6. galeotta: ammaliatrice.

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Come vuoi, spicciati. servitore Ho inteso. (Il padrone si va riscaldando.) (da sé, parte) cavaliere Mirandolina, voi siete una garbata giovine. mirandolina Oh signore, mi burla. cavaliere Sentite. Voglio dirvi una cosa vera, verissima, che ritornerà in vostra gloria. mirandolina La sentirò volentieri. cavaliere Voi siete la prima donna di questo mondo, con cui ho avuto la sofferenza7 di trattar con piacere. mirandolina Le dirò, signor Cavaliere: non già ch’io meriti niente, ma alle volte si danno questi sangui8 che s’incontrano. Questa simpatia, questo genio9, si dà anche fra persone che non si conoscono. Anch’io provo per lei quello che non ho sentito per alcun altro. cavaliere Ho paura che voi mi vogliate far perdere la mia quiete. mirandolina Oh via, signor cavaliere, se è un uomo savio, operi da suo pari. Non dia nelle debolezze degli altri. In verità, se me n’accorgo, qui non ci vengo più. Anch’io mi sento un non so che di dentro, che non ho più sentito; ma non voglio impazzire per uomini, e molto meno per uno che ha in odio le donne; e che forse forse per provarmi, e poi burlarsi di me, viene ora con un discorso nuovo a tentarmi. Signor Cavaliere, mi favorisca un altro poco di Borgogna. cavaliere Eh! Basta… (versa il vino in un bicchiere) mirandolina (Sta lì lì per cadere.) (da sé) cavaliere Tenete. (le dà il bicchiere col vino) mirandolina Obbligatissima. Ma ella non beve? cavaliere Sì, beverò. (Sarebbe meglio che io mi ubbriacassi. Un diavolo scaccerebbe l’altro.) (da sé, versa il vino nel suo bicchiere) mirandolina Signor Cavaliere. (con vezzo) cavaliere Che c’è? mirandolina Tocchi. (gli fa toccare il bicchiere col suo) Che vivano i buoni amici. cavaliere Che vivano. (un poco languente) mirandolina Viva… chi si vuol bene… senza malizia tocchi. cavaliere Evviva… [Arriva il Marchese mentre Mirandolina prosegue nella sua azione di seduzione del Cavaliere.]

SCENA VI

Testi Atto II, scena V da La locandiera

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Il servitore colle ova, e detti cavaliere

Un bicchierino al Marchese. (al servitore) marchese Non tanto piccolo il bicchierino. Il Borgogna non è liquore. Per giudicarne bisogna beverne a sufficienza. servitore Ecco le ova. (vuol metterle in tavola) cavaliere Non voglio altro. marchese Che vivanda è quella? cavaliere Ova. marchese Non mi piacciono. (il servitore le porta via) mirandolina Signor Marchese, con licenza del signor Cavaliere, senta quell’intingoletto fatto colle mie mani.

7. sofferenza: pazienza.

8. sangui: caratteri.

9. genio: andare a genio.

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marchese

Oh sì. Ehi. Una sedia. (il servitore gli reca una sedia e mette il bicchiere sulla sottocoppa) Una forchetta. cavaliere Via, recagli una posata. (il servitore la va a prendere) mirandolina Signor Cavaliere, ora sto meglio. Me n’anderò. (s’alza) marchese Fatemi il piacere, restate ancora un poco. mirandolina Ma signore, ho da attendere10 a’ fatti miei; e poi il signor Cavaliere… marchese Vi contentate ch’ella resti ancora un poco? (al Cavaliere) cavaliere Che volete da lei? marchese Voglio farvi sentire un bicchierino di vin di Cipro, che, da che siete al mondo, non avrete sentito il compagno. E ho piacere che Mirandolina lo senta, e dica il suo parere. cavaliere Via, per compiacere il signor Marchese, restate. (a Mirandolina) mirandolina Il signor Marchese mi dispenserà. marchese Non volete sentirlo? mirandolina Un’altra volta, Eccellenza. cavaliere Via, restate. mirandolina Me lo comanda? (al Cavaliere) cavaliere Vi dico che restiate. mirandolina Obbedisco. (siede) cavaliere (Mi obbliga sempre più.) (da sé) marchese Oh che roba! Oh che intingolo! Oh che odore! Oh che sapore! (mangiando) cavaliere (Il Marchese avrà gelosia, che siate vicina a me.) (piano a Mirandolina) mirandolina (Non m’importa di lui né poco, né molto.) (piano al Cavaliere) cavaliere (Siete anche voi nemica degli uomini?) (piano a Mirandolina) mirandolina (Come ella lo è delle donne.) (come sopra) cavaliere (Queste mie nemiche si vanno vendicando di me.) (come sopra) mirandolina (Come, signore?) (come sopra) cavaliere (Eh! furba! Voi vedrete benissimo…) (come sopra) marchese Amico, alla vostra salute. (beve il vino di Borgogna) cavaliere Ebbene? Come vi pare? marchese Con vostra buona grazia, non val niente. Sentite il mio vin di Cipro. cavaliere Ma dov’è questo vino di Cipro? marchese L’ho qui, l’ho portato con me, voglio che ce lo godiamo: ma! è di quello. Eccolo. (tira fuori una bottiglia assai piccola) mirandolina Per quel che vedo, signor Marchese, non vuole che il suo vino ci vada alla testa. marchese Questo? Si beve a gocce, come lo spirito di melissa11. Ehi? Li bicchierini. (apre la bottiglia) servitore (Porta de’ bicchierini da vino di Cipro) marchese Eh, son troppo grandi. Non ne avete di più piccoli? (copre la bottiglia colla mano) cavaliere Porta quei da rosolio. (al servitore) mirandolina Io credo che basterebbe odorarlo. marchese Uh caro! Ha un odor che consola. (lo annasa) servitore (Porta tre bicchierini sulla sottocoppa) marchese (Versa pian piano, e non empie li bicchierini, poi lo dispensa al Cavaliere, a Miran-

10. attendere: badare. 11. spirito di melissa: distillato di melissa,

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pianta erbacea medicinale, dalle cui foglie si estrae un’essenza considerata efficace rime-

dio contro gli svenimenti.

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dolina, e l’altro per sé, turando bene la bottiglia) Che nettare! Che ambrosia! Che manna distillata! (bevendo) cavaliere (Che vi pare di questa porcheria?) (a Mirandolina, piano) mirandolina (Lavature di fiaschi.) (al Cavaliere, piano) marchese Ah! Che dite? (al Cavaliere) cavaliere Buono, prezioso. marchese Ah! Mirandolina, vi piace? mirandolina Per me, signore, non posso dissimulare; non mi piace, lo trovo cattivo, e non posso dir che sia buono. Lodo chi sa fingere. Ma chi sa fingere in una cosa, saprà fingere nell’altre ancora. cavaliere (Costei mi dà un rimprovero; non capisco il perché.) (da sé) marchese Mirandolina, voi di questa sorte di vini non ve ne intendete. Vi compatisco. Veramente il fazzoletto che vi ho donato, l’avete conosciuto12 e vi è piaciuto, ma il vin di Cipro non lo conoscete. (finisce di bere) mirandolina (Sente come si vanta?) (al Cavaliere, piano) cavaliere (Io non farei così.) (a Mirandolina, piano) mirandolina (Il di lei vanto sta nel disprezzare le donne.) (come sopra) cavaliere (E il vostro nel vincere tutti gli uomini.) (come sopra) mirandolina (Tutti no.) (con vezzo al Cavaliere, piano) cavaliere (Tutti sì.) (con qualche passione, piano a Mirandolina) marchese Ehi? Tre bicchierini politi. (al servitore, il quale glieli porta sopra una sottocoppa) mirandolina Per me non ne voglio più. marchese No, no, non dubitate: non faccio per voi. (mette del vino di Cipro nei tre bicchierini) Galantuomo, con licenza del vostro padrone, andate dal conte d’Albafiorita, e ditegli per parte mia, forte, che tutti sentano, che lo prego di assaggiare un poco del mio vino di Cipro. servitore Sarà servita. (Questo non li ubbriaca certo.) (da sé, parte) cavaliere Marchese, voi siete assai generoso. marchese Io? Domandatelo a Mirandolina. mirandolina Oh certamente! marchese L’ha veduto il fazzoletto il Cavaliere? (a Mirandolina) mirandolina Non lo ha ancora veduto. marchese Lo vedrete. (al Cavaliere) Questo poco di balsamo me lo salvo per questa sera. (ripone la bottiglia con un dito di vino avanzato) mirandolina Badi che non gli faccia male, signor Marchese. marchese Eh! Sapete che cosa mi fa male? (a Mirandolina) mirandolina Che cosa? marchese I vostri begli occhi. mirandolina Davvero? marchese Cavaliere mio, io sono innamorato di costei perdutamente. cavaliere Me ne dispiace. marchese Voi non avete mai provato amor per le donne. Oh, se lo provaste, compatireste ancora me. cavaliere Sì, vi compatisco. marchese E son geloso come una bestia. La lascio stare vicino a voi, perché so chi siete; per altro13 non lo soffrirei14 per centomila doppie. cavaliere (Costui principia a seccarmi.) (da sé)

12. l’avete conosciuto: ne avete apprezzato il valore.

13. per altro: con un altro. 14. soffrirei: tollererei.

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[Il Conte manda in dono al Marchese una preziosa bottiglia di vino delle Canarie. Il Marchese interpreta il gesto come un tentativo di svalutarlo agli occhi di Mirandolina e se ne va adirato. Il Cavaliere rimprovera Mirandolina di fare impazzire gli uomini. La locandiera vuole andarsene, mentre il Cavaliere cerca di trattenerla con un ultimo brindisi. Mirandolina brinda e si allontana.]

SCENA IX Il Cavaliere ed il servitore Testi Atto II, scene VII-VIII da La locandiera

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cavaliere

Bravissima, venite qui: sentite. Ah malandrina! Se n’è fuggita. Se n’è fuggita, e mi ha lasciato cento diavoli che mi tormentano. servitore Comanda le frutta in tavola? (al Cavaliere) cavaliere Va al diavolo ancor tu. (il servitore parte) Bevo il vin; cogli occhi poi, faccio quel che fate voi? Che brindisi misterioso è questo? Ah maledetta, ti conosco. Mi vuoi abbattere, mi vuoi assassinare. Ma lo fa con tanta grazia! Ma sa così ben insinuarsi… Diavolo, diavolo, me la farai tu vedere?15 No, anderò a Livorno. Costei non la voglio più rivedere. Che non mi venga più tra i piedi. Maledettissime donne! Dove vi sono donne, lo giuro, non vi anderò mai più. (parte) [Giungono Ortensia e Dejanira che, avendo fallito col Conte, tentano invano di sedurre il Cavaliere. Questi, per resistere alla passione per Mirandolina che lo sta prendendo, decide di partire e chiede il conto.]

SCENA XVI Il Cavaliere solo Testi Atto II, scene X-XV da La locandiera

cavaliere

Tutti sono invaghiti di Mirandolina. Non è maraviglia, se ancor io principiava a sentirmi accendere. Ma anderò via; supererò questa incognita forza… Che vedo? Mirandolina? Che vuole da me? Ha un foglio in mano. Mi porterà il conto. Che cosa ho da fare? Convien soffrire16 quest’ultimo assalto. Già da qui a due ore io parto. SCENA XVII Mirandolina con un foglio in mano, e detto

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mirandolina

Signore. (mestamente) Che c’è, Mirandolina? mirandolina Perdoni. (stando indietro) cavaliere Venite avanti. mirandolina Ha domandato il suo conto; l’ho servita. (mestamente) cavaliere Date qui. mirandolina Eccolo. (si asciuga gli occhi col grembiale, nel dargli il conto) cavaliere Che avete? Piangete? mirandolina Niente, signore, mi è andato del fumo negli occhi. cavaliere Del fumo negli occhi? Eh! basta… quanto importa il conto? (legge) Venti paoli? In quattro giorni un trattamento sì generoso: venti paoli? mirandolina Quello è il suo conto. cavaliere E i due piatti particolari che mi avete dato questa mattina, non ci sono nel conto? mirandolina Perdoni. Quel ch’io dono, non lo metto in conto. cavaliere Me li avete voi regalati? mirandolina Perdoni la libertà. Gradisca per un atto di… (si copre, mostrando di piangere) cavaliere

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15. me la … vedere?: saprai davvero vincermi?

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16. soffrire: affrontare, sopportare.

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Ma che avete? mirandolina Non so se sia il fumo, o qualche flussione di occhi17. cavaliere Non vorrei che aveste patito, cucinando per me quelle due preziose vivande. mirandolina Se fosse per questo, lo soffrirei18… volentieri… (mostra trattenersi di piangere) cavaliere (Eh, se non vado via!) (da sé) Orsù, tenete. Queste sono due coppie. Godetele per amor mio… e compatitemi… (s’imbroglia) mirandolina (senza parlare, cade come svenuta sopra una sedia) cavaliere Mirandolina. Ahimè! Mirandolina. È svenuta. Che fosse innamorata di me? Ma così presto? E perché no? Non sono io innamorato di lei? Cara Mirandolina… Cara? Io cara ad una donna? Ma se è svenuta per me. Oh, come tu sei bella! Avessi qualche cosa per farla rinvenire. Io che non pratico donne, non ho spiriti, non ho ampolle. Chi è di là? Vi è nessuno? Presto… Anderò io. Poverina! Che tu sia benedetta! (parte, e poi ritorna) mirandolina Ora poi è caduto affatto19. Molte sono le nostre armi, colle quali si vincono gli uomini. Ma quando sono ostinati, il colpo di riserva sicurissimo è uno svenimento. Torna, torna. (si mette come sopra) cavaliere (torna con un vaso d’acqua) Eccomi, eccomi. E non è ancor rivenuta. Ah, certamente costei mi ama. (la spruzza, ed ella si va movendo) Animo, animo. Son qui, cara. Non partirò più per ora. SCENA XVIII Il servitore colla spada e cappello, e detti

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servitore

Ecco la spada ed il cappello. (al Cavaliere) Va via. (al servitore, con ira) servitore I bauli… cavaliere Va via, che tu sia maledetto. servitore Mirandolina… cavaliere Va, che ti spacco la testa. (lo minaccia col vaso; il servitore parte) E non rinviene ancora? La fronte le suda. Via, cara Mirandolina, fatevi coraggio, aprite gli occhi. Parlatemi con libertà. cavaliere

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SCENA XIX Il Marchese ed il Conte, e detti marchese

Cavaliere? Amico? cavaliere (Oh maledetti!) (va smaniando) marchese Mirandolina. mirandolina Oimè! (s’alza) marchese Io l’ho fatta rinvenire. conte Mi rallegro, signor Cavaliere. marchese Bravo quel signore, che non può vedere le donne. cavaliere Che impertinenza? conte Siete caduto? cavaliere Andate al diavolo quanti siete. (getta il vaso in terra, e lo rompe verso il Conte ed il Marchese, e parte furiosamente) conte Il Cavaliere è diventato pazzo. (parte) conte

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17. flussione … occhi: infiammazione agli occhi, che provoca abbondante lacrimazione.

18. soffrirei: sopporterei. 19. affatto: del tutto.

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marchese

Di questo affronto voglio soddisfazione. (parte) mirandolina L’impresa è fatta. Il di lui cuore è in fuoco, in fiamma, in cenere. Restami solo, per compiere la mia vittoria, che si renda pubblico il mio trionfo, a scorno degli uomini presuntuosi, e ad onore del nostro sesso. (parte)

ATTO TERZO Testi Atto III, scene I-V da La locandiera

[L’atto si apre con una schermaglia tra Mirandolina e Fabrizio, che è a sua volta innamorato di lei. Nel frattempo il Cavaliere, tramite il suo servitore, fa recapitare alla locandiera una boccetta d’oro piena di spirito di melissa, un rimedio contro gli svenimenti; Mirandolina beve un po’ di melissa, ma rifiuta il dono della boccetta. Allora il Cavaliere si presenta per convincerla ad accettare il dono, ma Mirandolina lo tratta con sufficienza e chiama Fabrizio, con cui ostenta familiarità mista a dolcezza.]

SCENA VI Il Cavaliere e Mirandolina cavaliere

Gran finezze, signora, al suo cameriere! E per questo, che cosa vorrebbe dire? cavaliere Si vede che ne siete invaghita. mirandolina Io innamorata di un cameriere? Mi fa un bel complimento, signore; non sono di sì cattivo gusto io. Quando volessi amare, non getterei il mio tempo sì malamente. (stirando) cavaliere Voi meritereste l’amore di un re. mirandolina Del re di spade, o del re di coppe1? (stirando) cavaliere Parliamo sul serio, Mirandolina, e lasciamo gli scherzi. mirandolina Parli pure, che io l’ascolto. (stirando) cavaliere Non potreste per un poco lasciar di stirare? mirandolina Oh perdoni! Mi preme allestire questa biancheria per domani. cavaliere Vi preme dunque quella biancheria più di me? mirandolina Sicuro. (stirando) cavaliere E ancora lo confermate? mirandolina Certo. Perché di questa biancheria me ne ho da servire, e di lei non posso far capitale di niente2. (stirando) cavaliere Anzi potete dispor di me con autorità. mirandolina Eh, che ella non può vedere le donne. cavaliere Non mi tormentate più. Vi siete vendicata abbastanza. Stimo voi, stimo le donne che sono della vostra sorte3, se pur ve ne sono. Vi stimo, vi amo, e vi domando pietà. mirandolina Sì signore, glielo diremo. (stirando in fretta, si fa cadere un manicotto4) cavaliere (leva di terra il manicotto, e glielo dà) Credetemi… mirandolina Non s’incomodi. cavaliere Voi meritate di esser servita. mirandolina Ah, ah, ah. (ride forte) cavaliere Ridete? mirandolina Rido, perché mi burla. cavaliere Mirandolina, non posso più. mirandolina Le vien male? cavaliere Sì, mi sento mancare. mirandolina

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1. re … coppe: figure delle carte da gioco. 2. di lei … niente: lei non mi è utile in nulla.

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3. sono … sorte: sono simili a voi. 4. manicotto: polsino.

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Tenga il suo spirito di melissa. (gli getta con disprezzo la boccetta) cavaliere Non mi trattate con tanta asprezza. Credetemi, vi amo, ve lo giuro. (vuol prenderle la mano, ed ella col ferro lo scotta) Aimè! mirandolina Perdoni: non l’ho fatto apposta. cavaliere Pazienza! Questo è niente. Mi avete fatto una scottatura più grande. mirandolina Dove, signore? cavaliere Nel cuore. mirandolina Fabrizio. (chiama ridendo) cavaliere Per carità, non chiamate colui. mirandolina Ma se ho bisogno dell’altro ferro. cavaliere Aspettate… (ma no…) chiamerò il mio servitore. mirandolina Eh! Fabrizio… (vuol chiamar Fabrizio) cavaliere Giuro al cielo, se viene colui, gli spacco la testa. mirandolina Oh questa è bella! Non mi potrò servire della mia gente? cavaliere Chiamate un altro; colui non lo posso vedere. mirandolina Mi pare ch’ella si avanzi un poco troppo5, signor Cavaliere. (si scosta dal tavolino col ferro in mano) cavaliere Compatitemi… son fuor di me. mirandolina Anderò io in cucina, e sarà contento. cavaliere No, cara, fermatevi. mirandolina È una cosa curiosa questa. (passeggiando) cavaliere Compatitemi. (le va dietro) mirandolina Non posso chiamar chi voglio? (passeggia) cavaliere Lo confesso. Ho gelosia di colui. (le va dietro) mirandolina (Mi vien dietro come un cagnolino.) (da sé, passeggiando) cavaliere Questa è la prima volta ch’io provo che cosa sia amore. mirandolina Nessuno mi ha mai comandato. (camminando) cavaliere Non intendo di comandarvi: vi prego. (la segue) mirandolina Che cosa vuole da me? (voltandosi con alterezza) cavaliere Amore, compassione, pietà. mirandolina Un uomo che stamattina non poteva veder le donne, oggi chiede amore e pietà. Non gli abbado, non può essere, non gli credo. (Crepa, schiatta, impara a disprezzar le donne.) (da sé, parte)

SCENA VII Cavaliere solo 65

Testi Atto III, scene VIII-XII da La locandiera

Oh maledetto il punto, in cui ho principiato a mirar6 costei! Son caduto nel laccio, e non vi è più rimedio.

cavaliere

[Entra il Marchese che pretenderebbe di sfidare il Cavaliere per l’affronto subìto (atto secondo, scena XIX), ma questi, dopo averlo messo in ridicolo, se ne va. Il Marchese, rimasto solo, vede la boccetta d’oro che Mirandolina aveva buttato nella cesta della roba da stirare, e crede che sia un metallo dorato privo di valore. Entra l’attrice Dejanira e capisce subito che la boccetta è preziosa. Spinta dalla consueta avidità, convince il Marchese, che continua a crederla una contessa, a regalargliela. Il Marchese apprende poi dal servitore del Cavaliere che si tratta di un oggetto d’oro autentico.

5. ch’ella … troppo: vada un po’ troppo ol­ tre.

6. principiato a mirar: cominciato a guar­ dare, a interessarmi di.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Arriva il Conte e propone al Marchese di lasciare la locanda insieme con lui. Questi è tentato di seguirlo ma si rende conto di dover recuperare la boccetta.]

SCENA XIII Camera con tre porte. Mirandolina sola Oh meschina me! Sono nel brutto impegno! Se il Cavaliere mi arriva7, sto fresca. Si è indiavolato maledettamente. Non vorrei che il diavolo lo tentasse di venir qui. Voglio chiudere questa porta. (serra la porta da dove è venuta) Ora principio quasi a pentirmi di quel che ho fatto. È vero che mi sono assai divertita nel farmi correre dietro a tal segno un superbo, un disprezzator delle donne; ma ora che il satiro8 è sulle furie, vedo in pericolo la mia riputazione e la mia vita medesima. Qui mi convien risolvere qualche cosa di grande9. Son sola, non ho nessuno dal cuore che mi difenda. Non ci sarebbe altri che quel buon uomo di Fabrizio, che in un tal caso mi potesse giovare. Gli prometterò di sposarlo… Ma… prometti, prometti, si stancherà di credermi… Sarebbe quasi meglio ch’io lo sposassi davvero. Finalmente con un tal matrimonio posso sperar di mettere al coperto10 il mio interesse e la mia riputazione, senza pregiudicare alla mia libertà.

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SCENA XIV Il Cavaliere di dentro, e detta; poi Fabrizio. Il Cavaliere batte per di dentro alla porta mirandolina

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Battono a questa porta: chi sarà mai? (s’accosta) Mirandolina. (di dentro) mirandolina (L’amico è qui.) (da sé) cavaliere Mirandolina, apritemi. (come sopra) mirandolina (Aprirgli? Non sono sì gonza.) Che comanda, signor Cavaliere? cavaliere Apritemi. (di dentro) mirandolina Favorisca andare nella sua camera, e mi aspetti, che or ora sono da lei. cavaliere Perché non volete aprirmi? (come sopra) mirandolina Arrivano de’ forestieri. Mi faccia questa grazia, vada, che or ora sono da lei. cavaliere Vado: se non venite, povera voi. (parte) mirandolina Se non venite, povera voi! Povera me, se vi andassi. La cosa va sempre peggio. Rimediamoci, se si può. È andato via? (guarda dal buco della chiave) Sì, sì, è andato. Mi aspetta in camera, ma non vi vado. Ehi? Fabrizio. (ad un’altra porta) Sarebbe bella che ora Fabrizio si vendicasse di me, e non volesse… Oh, non vi è pericolo. Ho io certe manierine, certe smorfiette, che bisogna che caschino, se fossero11 di macigno. Fabrizio. (chiama ad un’altra porta) fabrizio Avete chiamato? mirandolina Venite qui; voglio farvi una confidenza. fabrizio Son qui. mirandolina Sappiate che il cavaliere di Ripafratta si è scoperto12 innamorato di me. fabrizio Eh, me ne son accorto. mirandolina Sì? Ve ne siete accorto? Io in verità non me ne sono mai avveduta. fabrizio Povera semplice13! Non ve ne siete accorta! Non avete veduto, quando stiravate col ferro, le smorfie che vi faceva? La gelosia che aveva di me? cavaliere

7. mi arriva: mi raggiunge. 8. satiro: uomo selvatico, scontroso. 9. risolvere … grande: prendere una risolu­

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zione decisiva. 10. mettere al coperto: salvare. 11. se fossero: anche se fossero.

12. si è scoperto: si è dichiarato. 13. semplice: ingenua.

Capitolo 7 · Carlo Goldoni mirandolina

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Io che opero senza malizia, prendo le cose con indifferenza. Basta; ora mi ha dette certe parole, che in verità, Fabrizio, mi hanno fatto arrossire. fabrizio Vedete: questo vuol dire perché14 siete una giovane sola, senza padre, senza madre, senza nessuno. Se foste maritata, non andrebbe così. mirandolina Orsù, capisco che dite bene: ho pensato di maritarmi. fabrizio Ricordatevi di vostro padre. mirandolina Sì, me ne ricordo.

SCENA XV Il Cavaliere di dentro e detti. Il Cavaliere batte alla porta dove era prima 110

mirandolina

Picchiano. (a Fabrizio) Chi è che picchia? (forte verso la porta) cavaliere Apritemi. (di dentro) mirandolina Il Cavaliere. (a Fabrizio) fabrizio Che cosa vuole? (s’accosta per aprirgli) mirandolina Aspettate ch’io parta15. fabrizio Di che avete timore? mirandolina Caro Fabrizio, non so, ho paura della mia onestà16. (parte) fabrizio Non dubitate, io vi difenderò. cavaliere Apritemi, giuro al cielo. (di dentro) fabrizio Che comanda, signore? Che strepiti sono questi? In una locanda onorata non si fa così. cavaliere Apri questa porta. (si sente che la sforza) fabrizio Cospetto del diavolo! Non vorrei precipitare17. Uomini, chi è di là? Non ci è nessuno? fabrizio

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SCENA XVI Il Marchese ed il Conte dalla porta di mezzo, e detti 125

conte

Che c’è? (sulla porta) Che rumore è questo? (sulla porta) fabrizio Signori, li prego: il signor cavaliere di Ripafratta vuole sforzar quella porta. (piano, che il Cavaliere non senta) cavaliere Aprimi, o la getto abbasso. (di dentro) marchese Che sia diventato pazzo? Andiamo via. (al Conte) conte Apritegli. (a Fabrizio) Ho volontà per appunto di parlar con lui. fabrizio Aprirò; ma le supplico… conte Non dubitate. Siamo qui noi. marchese (Se vedo niente niente, me la colgo18) (da sé) (Fabrizio apre, ed entra il Cavaliere) cavaliere Giuro al cielo, dov’è? fabrizio Chi cerca, signore? marchese

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14. vuol dire perché: dipende dal fatto che. 15. parta: mi allontani. 16. ho paura … onestà: ha paura che la

sua onestà corra dei rischi, cioè che il cavaliere le usi violenza. 17. precipitare: commettere uno sproposito.

18. me la colgo: scappo.

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Mirandolina dov’è? fabrizio Io non lo so. marchese (L’ha con Mirandolina. Non è niente.) (da sé) cavaliere Scellerata, la troverò. (s’incammina, e scopre il Conte e il Marchese) conte Con chi l’avete? (al Cavaliere) marchese Cavaliere, noi siamo amici. cavaliere (Oimé! Non vorrei per tutto l’oro del mondo che nota fosse questa mia debolezza19.) (da sé) fabrizio Che cosa vuole, signore, dalla padrona? cavaliere A te non devo rendere questi conti. Quando comando, voglio esser servito. Pago i miei denari per questo, e giuro al cielo, ella avrà che fare con me. fabrizio V. S. paga i suoi denari per essere servito nelle cose lecite e oneste: ma non ha poi da pretendere, la mi perdoni, che una donna onorata… cavaliere Che dici tu? Che sai tu? Tu non entri20 ne’ fatti miei. So io quel che ho ordinato a colei. fabrizio Le ha ordinato di venire nella sua camera. cavaliere Va via, briccone, che ti rompo il cranio. fabrizio Mi maraviglio di lei. marchese Zitto. (a Fabrizio) conte Andate via. (a Fabrizio) cavaliere Vattene via di qui. (a Fabrizio) fabrizio Dico, signore… (riscaldandosi) marchese Via. conte Via. (lo cacciano via) fabrizio (Corpo di bacco! Ho proprio voglia di precipitare.) (da sé, parte) [Tra i tre sorge una disputa perché il Cavaliere non vuole ammettere di essersi innamorato. Il Conte e il Cavaliere iniziano a duellare.]

SCENA XVIII Mirandolina, Fabrizio e detti

Testi Atto III, scena XVII da La locandiera

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Alto, alto, padroni. mirandolina Alto, signori miei, alto. cavaliere (Ah maledetta!) (vedendo Mirandolina) mirandolina Povera me! Colle spade? marchese Vedete? per causa vostra. mirandolina Come per causa mia? conte Eccolo lì il signor Cavaliere. È innamorato di voi. cavaliere Io innamorato? Non è vero; mentite. mirandolina Il signor Cavaliere innamorato di me? Oh no, signor Conte, ella s’inganna. Posso assicurarla, che certamente s’inganna. conte Eh, che siete voi pur d’accordo… marchese Si sa, si vede… cavaliere Che si sa? Che si vede? (alterato, verso il Marchese) marchese Dico, che quando è, si sa… Quando non è, non si vede.

19. debolezza: l’amore per Mirandolina, che può essere tradito dalle sue smanie.

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20. Tu non entri: non hai niente a che fare, non ti devi impicciare.

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Il signor Cavaliere innamorato di me? Egli lo nega, e negandolo in presenza mia, mi mortifica, mi avvilisce, e mi fa conoscere la sua costanza e la mia debolezza. Confesso il vero, che se riuscito mi fosse d’innamorarlo, avrei creduto di fare la maggior prodezza del mondo. Un uomo che non può vedere le donne, che le disprezza, che le ha in mal concetto, non si può sperare d’innamorarlo. Signori miei, io sono una donna schietta e sincera: quando devo dir, dico, e non posso celare la verità. Ho tentato d’innamorare il signor Cavaliere, ma non ho fatto niente21. È vero, signore? Ho fatto, ho fatto, e non ho fatto niente. (al Cavaliere) cavaliere (Ah! Non posso parlare.) (da sé) conte Lo vedete? Si confonde. (a Mirandolina) marchese Non ha coraggio di dir di no. (a Mirandolina) cavaliere Voi non sapete quel che vi dite. (al Marchese, irato) marchese E sempre l’avete con me. (al Cavaliere, dolcemente) mirandolina Oh, il signor Cavaliere non s’innamora. Conosce l’arte22. Sa la furberia delle donne: alle parole non crede; delle lagrime non si fida. Degli svenimenti poi se ne ride. cavaliere Sono dunque finte le lagrime delle donne, sono mendaci gli svenimenti? mirandolina Come! Non lo sa, o finge di non saperlo? cavaliere Giuro al cielo! Una tal finzione meriterebbe uno stile23 nel cuore. mirandolina Signor Cavaliere, non si riscaldi, perché questi signori diranno ch’è innamorato davvero. conte Sì, lo è, non lo può nascondere. marchese Si vede negli occhi24. cavaliere No, non lo sono. (irato al Marchese) marchese E sempre con me. mirandolina No signore, non è innamorato. Lo dico, lo sostengo, e son pronta a provarlo. cavaliere (Non posso più.) (da sé) Conte, ad altro tempo mi troverete provveduto di spada. (getta via la mezza spada del Marchese) marchese Ehi! la guardia25 costa denari. (la prende di terra) mirandolina Si fermi, signor Cavaliere, qui ci va della sua riputazione. Questi signori credono ch’ella sia innamorato; bisogna disingannarli. cavaliere Non vi è questo bisogno. mirandolina Oh sì, signore. Si trattenga un momento. cavaliere (Che far intende costei?) (da sé) mirandolina Signori, il più certo segno d’amore è quello della gelosia, e chi non sente la gelosia, certamente non ama. Se il signor Cavaliere mi amasse, non potrebbe soffrire26 ch’io fossi d’un altro, ma egli lo soffrirà, e vedranno… cavaliere Di chi volete voi essere? mirandolina Di quello a cui mi ha destinato mio padre. fabrizio Parlate forse di me? (a Mirandolina) mirandolina Sì, caro Fabrizio, a voi in presenza di questi cavalieri vo’ dar la mano di sposa. cavaliere (Oimé! Con colui? non ho cuor di soffrirlo.) (da sé, smaniando) conte (Se sposa Fabrizio, non ama il Cavaliere.) (da sé) Sì, sposatevi, e vi prometto trecento scudi.

21. non … niente: non sono riuscita a nulla. 22. l’arte: gli artifici di seduzione delle donne.

23. stile: pugnale. 24. Si … occhi: glielo si legge negli occhi. 25. la guardia: parte dell’elsa della spada

che protegge l’impugnatura; poteva essere di metallo prezioso e finemente cesellata. 26. soffrire: tollerare.

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Mirandolina, è meglio un uovo oggi, che una gallina domani. Sposatevi ora, e vi do subito dodici zecchini. mirandolina Grazie, signori, non ho bisogno di dote. Sono una povera donna senza grazia, senza brio, incapace d’innamorar persone di merito. Ma Fabrizio mi vuole bene, ed io in questo punto alla presenza loro lo sposo… cavaliere Sì, maledetta, sposati a chi tu vuoi. So che tu m’ingannasti, so che trionfi dentro di te medesima d’avermi avvilito, e vedo sin dove vuoi cimentare27 la mia tolleranza. Meriteresti che io pagassi gl’inganni tuoi con un pugnale nel seno; meriteresti ch’io ti strappassi il cuore, e lo recassi in mostra alle femmine lusinghiere, alle femmine ingannatrici. Ma ciò sarebbe un doppiamente avvilirmi. Fuggo dagli occhi tuoi: maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni; tu mi hai fatto conoscere qual infausto potere abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a costo mio28 imparare, che per vincerlo non basta, no, disprezzarlo, ma ci conviene fuggirlo. (parte)

SCENA XIX Mirandolina, il Conte, il Marchese e Fabrizio conte

Dica ora di non essere innamorato. Se mi dà un’altra mentita, da cavaliere lo sfido. mirandolina Zitto, signori, zitto. È andato via, e se non torna, e se la cosa passa così, posso dire di essere fortunata. Pur troppo, poverino, mi è riuscito d’innamorarlo, e mi son messa ad un brutto rischio. Non ne vo’ saper altro. Fabrizio, vien qui caro, dammi la mano. fabrizio La mano? Piano un poco, signora. Vi dilettate di innamorar la gente in questa maniera, e credete ch’io vi voglia sposare? mirandolina Eh via, pazzo29! È stato uno scherzo, una bizzarria, un puntiglio. Ero fanciulla, non avevo nessuno che mi comandasse. Quando sarò maritata, so io quel che farò. fabrizio Che cosa farete? marchese

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SCENA ULTIMA Il servitore del Cavaliere e detti servitore

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Signora padrona, prima di partire son venuto a riverirvi. Andate via? servitore Sì. Il Padrone va alla Posta30. Fa attaccare: mi aspetta colla roba, e ce ne andiamo a Livorno. mirandolina Compatite31, se non vi ho fatto… servitore Non ho tempo da trattenermi. Vi ringrazio, e vi riverisco. (parte) mirandolina Grazie al cielo, è partito. Mi resta qualche rimorso; certamente è partito con poco gusto. Di questi spassi non me ne cavo mai più32. conte Mirandolina, fanciulla o maritata che siate, sarò lo stesso per voi. marchese Fate pur capitale della33 mia protezione. mirandolina

27. cimentare: mettere alla prova. 28. a costo mio: a mie spese. 29. pazzo: sciocco.

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30. Posta: la stazione di posta, dove si trova il cambio di cavalli per le carrozze. 31. Compatite: scusate.

32. Di questi … più: di questi divertimenti non me ne prendo mai più. 33. Fate pur capitale della: contate pure sulla.

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Signori miei, ora che mi marito, non voglio protettori, non voglio spasimati , non voglio regali. Sinora mi sono divertita, e ho fatto male, e mi sono arrischiata troppo, e non lo voglio fare mai più. Questi è mio marito… fabrizio Ma piano, signora… mirandolina Che piano! Che cosa c’è? Che difficoltà ci sono? Andiamo. Datemi quella mano. fabrizio Vorrei che facessimo prima i nostri patti. mirandolina Che patti? Il patto è questo: o dammi la mano, o vattene al tuo paese. fabrizio Vi darò la mano… ma poi… mirandolina Ma poi, sì, caro, sarà tutta tua; non dubitare di me, ti amerò sempre, sarai l’anima mia. fabrizio Tenete, cara, non posso più. (le dà la mano) mirandolina (Anche questa è fatta.) (da sé) conte Mirandolina, voi siete una gran donna, voi avete l’abilità di condur gli uomini dove volete. marchese Certamente la vostra maniera obbliga infinitamente. mirandolina Se è vero ch’io possa sperar grazie da lor signori, una ne chiedo loro per ultimo. conte Dite pure. marchese Parlate. fabrizio (Che cosa mai adesso domanderà?) (da sé) mirandolina Le supplico per atto di grazia, a provvedersi d’un’altra locanda. fabrizio (Brava; ora vedo che la mi vuol bene.) (da sé) conte Sì, vi capisco e vi lodo. Me n’anderò, ma dovunque io sia, assicuratevi35 della mia stima. marchese Ditemi: avete voi perduta una boccettina d’oro? mirandolina Sì signore. marchese Eccola qui. L’ho io ritrovata, e ve la rendo. Partirò per compiacervi, ma in ogni luogo fate pur capitale della mia protezione. mirandolina Queste espressioni36 mi saran care, nei limiti della convenienza e dell’onestà. Cambiando stato37, voglio cambiar costume; e lor signori ancora profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della locandiera. 34

34. spasimati: spasimanti. 35. assicuratevi: siate sicura.

36. espressioni: offerte. 37. Cambiando stato: da nubile a sposata.

Analisi del testo

> La realizzazione dei princìpi della riforma

Le tracce della Commedia dell’Arte

Per questa guida alla lettura della Locandiera è opportuno partire da alcuni rilievi di carattere generale. Innanzitutto si può osservare come nella commedia (che è del 1753) si siano perfettamente realizzate le direttrici della riforma goldoniana. È vero che vi si possono cogliere ancora le tracce della vecchia Commedia dell’Arte: a livello dei personaggi, Mirandolina conserva legami con la figura della “servetta” maliziosa e piccante, che era un ruolo tipico di quel teatro (e difatti la parte era recitata da Maddalena Marliani, specializzata appunto nel ruolo di “servetta”); Fabrizio, a sua volta, rimanda alle figure dei servi della 457

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

I caratteri

Commedia dell’Arte, in particolare alla maschera di Brighella (anche nel suo caso l’attore che lo impersonava era specializzato a sostenere il ruolo di quella maschera); pure al livello dell’azione scenica si possono rinvenire espedienti che rimandano alla Commedia dell’Arte: ad esempio, come ha notato Guido Davico Bonino, il finto svenimento di Mirandolina (Atto II, scena XVII, r. 268), che era uno dei lazzi ricorrenti di quel tipo di spettacolo; così il duello, che vede contrapposti il Cavaliere e il Conte (Atto III, scena XVII). Tuttavia proprio la presenza di questi tenui legami fa risaltare la distanza che separa la scrittura drammatica goldoniana dagli scenari della Commedia dell’Arte. Mirandolina non è più un “ruolo” o una “maschera” fissa e stereotipata, ma un “carattere”, nella multiforme varietà di sfumature che lo connotano come individuo irripetibile. Lo stesso vale per gli altri personaggi, che sono tutti caratteri perfettamente individuati e inconfondibili.

> Caratteri e ambiente sociale

Un campione della società

La nobiltà decaduta

L’alterigia nobiliare

Mirandolina

Fabrizio

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La commedia goldoniana non si limita però a delineare psicologie individuali in tutta la ricchezza delle loro sfaccettature: le colloca anche in un preciso contesto sociale. La locandiera offre infatti uno spaccato della società contemporanea, colta in tutte le sue articolazioni. La locanda, dove si incontrano personaggi delle più varie classi, si pone dunque come luogo emblematico per eccellenza di questo campione stratificato di società. I vari personaggi sono tutti rappresentativi dei fondamentali ceti (il referente, è ovvio, è la società veneta, anche se, per ragioni di opportunità, Goldoni ambienta l’azione a Firenze). Ce ne accorgiamo subito dalla scena d’apertura, in cui il Marchese di Forlipopoli e il Conte di Albafiorita esemplificano le due varianti tipiche della società aristocratica del tempo, la nobiltà di sangue ormai decaduta e spiantata e la nobiltà di recente acquisto. La prima resta attaccata solo alle vacue apparenze del suo stato e pretende ancora, pur non avendone più i mezzi materiali, di esercitare le antiche funzioni (la «protezione» continuamente offerta a Mirandolina), di godere degli antichi privilegi (il Marchese ritiene atto dovuto l’amore di Mirandolina per lui), di sfoggiare il lusso tradizionalmente connesso alla sua condizione (il misero dono del fazzoletto, Atto I, scena XXI). Per contro il Conte di Albafiorita ha le caratteristiche inconfondibili dell’arricchito che, non potendo contare sul prestigio del sangue, cerca una rivalsa nell’ostentazione continua e smaccata della ricchezza. Ma anche il Cavaliere di Ripafratta non è solo il tipo psicologico del misogino burbero e scontroso: il personaggio è socialmente individuato da tutta una serie di comportamenti che rivelano la sua alterigia nobiliare, il suo disprezzo autoritario per i subalterni, che vengono da lui brutalmente ridotti al rango di cose e di strumenti, la sua convinzione che tutto gli sia dovuto in quanto è nobile. Lo rivela subito il suo contegno verso la locandiera a proposito della biancheria (Atto I, scena V, rr. 159-169): la ruvidezza sprezzante e sgarbata è sì una sorta di “lezione” impartita ai due spasimanti di Mirandolina per insegnare loro come vanno trattate le donne, ma è anche una “lezione” di contegno aristocratico, che vuole insegnare a due nobili a non abbassarsi troppo dinanzi ad una popolana, ad esigere con durezza ciò che dai subalterni è dovuto («Dove spendo il mio denaro non ho bisogno di far complimenti»). Così, anche quando ha ceduto alla seduzione di Mirandolina ed è disperatamente innamorato, continua a darle ordini, a trattarla «con imperio». Una fisionomia sociale ben definita possiede anche Mirandolina: la padrona di locanda accorta, attenta ai suoi interessi, abile ed energica nella conduzione del suo esercizio, rimanda al tipo del “mercante”, un tipo che, come sappiamo ( La prima fase: la celebrazione del mercante, p. 416), ha un rilievo centrale nella stratificazione della società veneziana e occupa un posto egualmente importante nelle commedie di Goldoni (ma sulla protagonista dovremo tornare più ampiamente). Il cameriere Fabrizio, a sua volta, non è solo una figura di contorno, un mero supporto all’azione, ma ha una sua connotazione sociale ben individuata: è il proletario inurbatosi dalla campagna (lo apprendiamo dal finale della commedia, in cui Mirandolina minaccia di rimandarlo al suo paese se non si adatta a sposarla senza porre condizioni, Atto III, scena ultima, r. 266), che aspira al salto di classe. È innamorato sinceramente della padrona ma, in un impasto di sentimenti autentici e di calcolo, mira anche ai propri interessi,

Capitolo 7 · Carlo Goldoni Le due attrici

a sistemarsi, sposando la donna amata e passando da servitore a padrone di locanda. Restano ancora le due attrici che, data la loro professione, non sono collocabili in alcuna classe sociale precisa. Tuttavia anche nel loro caso sono resi i tratti della categoria professionale, nel contegno, nelle maniere, persino nel linguaggio, che riproduce puntualmente il gergo delle compagnie di comici (che Goldoni, conoscendo l’ambiente dall’interno, si compiace manifestamente di citare, fornendo le opportune spiegazioni in nota).

> L’osservazione pungente della realtà sociale

Una nuova immagine di Goldoni

Questo campione di società che si muove tra le scene della commedia, ristretto ma esauriente, testimonia come il teatro di Goldoni punti alla fedele riproduzione della realtà sociale contemporanea e tragga il suo alimento vitale soprattutto dal «Mondo», per usare l’espressione cara a Goldoni stesso ( T1, p. 410), cioè dall’osservazione diretta e attenta della realtà vissuta. Uno schema interpretativo ormai consacrato da una lunga tradizione ha fissato Goldoni nell’immagine dell’uomo sereno e ottimista, che guarda il reale con bonomia un tantino superficiale, delineando nelle sue commedie un mondo tutto grazia e leggerezza settecentesche. La critica più recente al contrario ha messo in luce un’immagine meno univoca, più complessa: in effetti la rappresentazione di un campione di società offerta da questo testo rivela nel commediografo non solo un occhio acuto ma, al di là della comicità fine e tutta godibile, una ferma disposizione critica nei confronti dei costumi sociali, animata non tanto da un’indulgente bonarietà, quanto da una capacità di osservazione pungente, da una notevole “cattiveria” di rappresentazione. Questo discorso ha in primo luogo ragion d’essere per figure come il Marchese, il Conte, il Cavaliere, i cui tratti, per quanto suscitino il riso, sono delineati senza indulgenza.

> Mirandolina: l’attaccamento all’interesse materiale

Testo critico R. Alonge

L’interesse materiale

Mirandolina si vende metaforicamente

Ma se il discorso vale per le figure in fondo “minori”, vale a maggior ragione per la protagonista assoluta della commedia, Mirandolina. Come si è accennato, la tradizione critica si è compiaciuta a esaltare la grazia di questo personaggio, il suo garbo malizioso tutto “settecentesco”. Ma ad una lettura più attenta Mirandolina si rivela ben diversa, come hanno messo in evidenza alcuni interpreti quali Mario Baratto (1979), Guido Davico Bonino (1983) e Roberto Alonge (1991). Innanzitutto ciò che connota Mirandolina è l’attaccamento all’interesse materiale: lungi dall’essere un’amabile, garbata “sirena”, tutta civetterie e deliziose mossette, è una persona scaltra e calcolatrice, una profittatrice sfrontata sino al cinismo. In questo rivela le caratteristiche tipiche del suo ceto: la «locandiera» (e si noti come il titolo insista sulla qualificazione professionale e sociale, non sul nome della protagonista) in quanto “vende” un servizio appartiene al ceto mercantile, e se di esso presenta le caratteristiche positive, laboriosità, senso pratico, fermezza di carattere, possiede in maggior misura quelle negative. Mirandolina specula sulla sua bellezza e sul suo fascino per attrarre nobili clienti nella sua locanda, ma non solo, con questi mezzi fa anche loro accettare un trattamento alberghiero che si intuisce alquanto scadente (la biancheria piena di buchi, la «carnaccia di bue» imbadita a tavola…), ricavandone così un notevole profitto. Per raggiungere tale obiettivo arriva a vendersi, per così dire, “all’incanto”. Si veda la scena in cui il Marchese e il Conte si contendono i suoi favori, ed ella finisce per accettare il ricco dono degli orecchini di brillanti (Atto I, scena V); scena che si ripete con schemi analoghi con il fazzoletto di seta del Marchese (Atto I, scena XXI), con il secondo gioiello del Conte (Atto I, scena XXII) e con la boccetta d’oro del Cavaliere (Atto III, scena II). Però con estrema scaltrezza, facendo un uso tutto strumentale della sua bellezza, Mirandolina gioca sul limite che separa l’onorabilità e la reputazione della commerciante piccolo borghese dalla degradazione della prostituta: si fa comperare in pubblico, ma solo metaforicamente, si vende psicologicamente, non fisicamente (Alonge); e proprio attraverso questo ambiguo offrirsi senza concedersi ottiene il massimo del profitto, in quanto i nobili spasimanti affollano la sua locanda, stabilendovisi a tempo indeterminato. 459

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo Gli a parte e il vero volto di Mirandolina

Questo suo cinismo calcolatore si rivela appieno negli a parte: quando parla direttamente ai suoi interlocutori Mirandolina è sempre educata e garbata ed usa un linguaggio di impeccabile, ossequiosa proprietà; ma quando parla fra sé manifesta la sua vera natura, la sua sostanziale volgarità di piccola borghese attaccata al denaro («Che arsura! Non gliene cascano», dice ad esempio del Marchese spiantato, nella scena V del primo atto; ma si veda, nella scena IX dello stesso atto, il suo primo monologo, tutto infiorato di espressioni gergali e termini crudi, «Mi piace l’arrosto e del fumo non so che farne», «tutti mi fanno i cascamorti»). Ciò rivela come tutto il suo contegno si regga sulla finzione e la dissimulazione, accortamente manovrate per il raggiungimento dei suoi fini.

> narcisismo e smania di dominio Le motivazioni dell’impresa

La rivalsa sociale

Il narcisismo sfrenato

L’ossessione del dominio sugli altri

Un «don Giovanni in gonnella»

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Mirandolina tuttavia non si riduce a questo cinismo interessato. Non è un personaggio semplice, facilmente catalogabile, come può indurre a pensare la limpida scrittura di Goldoni, è al contrario una figura complessa, ricca di sfumature. Ciò vale innanzitutto per le motivazioni dell’impresa che costituisce la trama della commedia: che cosa la spinge a fare innamorare il Cavaliere? Sembra tutto chiaro, l’orgoglio offeso della donna, la ripicca, la volontà di vendicarsi dello spregiatore delle donne e vendicare così anche il suo sesso ingiuriato. Ma le cose non sono così lineari. Alla rivalsa “sessista” (per usare un vocabolo d’attualità) si associa anche una rivalsa “classista”, sociale. La donna di umile condizione, la piccolissima borghese, è abituata, grazie ai privilegi concessi dal suo fascino, a trattare con familiarità, alla pari, con i nobili. L’alterigia tracotante del Cavaliere, che la vuole degradare ad una condizione servile (si ricordi l’episodio della biancheria da cambiare, in cui il nobile impartisce alla locandiera ordini con brutale altezzosità, come se fosse una sua serva), ferisce il suo orgoglio, stimola il suo spirito di rivalsa. Per questo vuole punire e umiliare pubblicamente il membro della classe superiore. Ma ci sono implicazioni più profonde. Come Mirandolina stessa confessa nel suo primo monologo (Atto I, scena IX, rr. 182-183), «Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata»: il tratto forse più rilevante della sua personalità è uno sfrenato narcisismo, che trova soddisfazione nel sentirsi solleticato da una corte di innamorati adoranti. Il contegno del misogino la ferisce in questo punto delicato. Quindi il proposito di vendicare tutto il suo sesso è una copertura, un alibi: Mirandolina vuole affermare essenzialmente se stessa, la propria prepotente individualità. Ma parlare di narcisismo non dice ancora tutto. Il dominio esercitato sugli uomini appaga il suo narcisismo perché in lei c’è una sorta di “ossessione del potere” sugli altri, del comando (Alonge). L’omaggio che strappa ai suoi nobili spasimanti, con il corollario dei ricchi doni, è l’omaggio rituale al suo potere incontrastato. Lo stesso vale per i subalterni: il legame con il domestico Fabrizio è ambiguo (probabilmente cela anche un legame sessuale, come si può dedurre da alcuni indizi), ma nei suoi confronti Mirandolina è sempre “la padrona”, che comanda e vuole essere ubbidita senza discussioni. Fabrizio è uno strumento nelle mani di Mirandolina, che la donna si ripromette di usare a suo comodo e a suo esclusivo vantaggio. Perciò la molla segreta che la spinge a sedurre il Cavaliere, più che l’orgoglio femminile, è questa smania dell’esercizio del potere, che non tollera che alcuno vi si sottragga. L’emergere di questa zona segreta della personalità di Mirandolina dissolve lo schema interpretativo che l’ha fissata nell’immagine di affascinante incarnazione dell’“eterno femminino”. Baratto ha potuto parlare, per il suo caso, di una «frigidità da intellettuale», di un «puntiglio da don Giovanni in gonnella, più teso alla conquista che interessato al possesso». In effetti Mirandolina non è interessata all’altro sesso in quanto tale: gli uomini sono degradati a puri oggetti dell’esercizio del dominio. Baratto ha colto anzi in lei una segreta avversione per gli uomini, che è simmetrica all’odio per le donne nel Cavaliere. Ciò rivela in Mirandolina anche una sostanziale aridità sentimentale. Lei stessa, nel monologo citato, proclama: «Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno». Questa aridità è mascherata con l’alibi della sua «libertà» da difendere gelosamente.

Capitolo 7 · Carlo Goldoni

> Mirandolina “attrice” La seduzione e la recita

La funzione delle commedianti

Un altro tratto che caratterizza Mirandolina, e che è uno degli strumenti principali del suo dominio, è, come si è accennato, la sua straordinaria abilità a fingere. Nella sua impresa di seduzione mette in atto una recita di sottilissima sapienza “teatrale”. Per questo da parte di vari critici si è potuto parlare, per la sua finzione, di una sorta di “teatro nel teatro”, di una commedia recitata da Mirandolina all’interno della commedia. In questa luce assume significato l’introduzione delle due commedianti, Ortensia e Dejanira, che potrebbero sembrare un semplice riempitivo comico, una presenza marginale. I due personaggi hanno invece una funzione essenziale perché valgono a sottolineare, per affinità e contrasto, il motivo della “commedia”, della “recita” di Mirandolina. Ortensia e Dejanira sono infatti due pessime commedianti: la loro recitazione è forzata e manierata, impiega formule trite, gesti convenzionali, un linguaggio artificioso fiorito di formule concettose e barocche. Sembra quasi che Goldoni abbia voluto con esse presentare in una luce critica quella Commedia dell’Arte contro cui si indirizza la sua riforma, che ha dato vita a commedie come La locandiera stessa. La presenza di questi due personaggi, quindi, vale quasi come un’implicita dichiarazione di poetica, calata nella struttura drammatica. Per contro, Mirandolina fornisce l’esempio di un’attrice perfetta, secondo il gusto goldoniano, “naturale”, spontanea.

> Trionfo e sconfitta di Mirandolina

Il rischio di perdere l’onore Il matrimonio

La sconfitta della “volontà di potenza”

Nel finale l’impresa di Mirandolina raggiunge perfettamente il suo obiettivo: non solo il Cavaliere si innamora perdutamente, ma è costretto anche a confessare in pubblico il suo cedimento, con sua somma vergogna. Si è parlato quindi di un “trionfo di Mirandolina” nell’atto III. A ben vedere, però, anche qui le cose non sono così semplici. Vincitrice nel suo proposito di umiliare la misoginia e l’alterigia di un nobile, Mirandolina è sconfitta su un altro terreno (come ha ben mostrato anche in questo caso Alonge). L’abile seduttrice ha rischiato troppo, ha spinto il gioco troppo oltre ed esso le è sfuggito di mano. Il Cavaliere, folle d’amore e di gelosia, perde il controllo di sé e sta per fare uno sproposito, uno scandalo, sta per usarle addirittura violenza. Mirandolina rischia di perdere la sua onorabilità e la sua reputazione, che sono valori irrinunciabili per il borghese, il mercante. Con il suo onore, anche quello dell’“azienda”, la locanda, sarebbe irrimediabilmente compromesso, con inevitabili ripercussioni economiche. Allora Mirandolina è costretta a rinunciare alla tanto amata «libertà» e ad accettare il matrimonio con Fabrizio, se vuole salvare l’onorabilità e trovare l’indispensabile protezione maschile, l’unica che la può preservare dai pericoli che ha appena corso. Il matrimonio segna anche la fine del “sistema” della locandiera, comporta un cambiamento di vita, di «costume»: Mirandolina congeda i nobili spasimanti, rinuncia ai ricchi regali e alla soddisfazione del suo narcisismo che viene dal loro corteggiamento; la locandiera promette di non «cavarsi» mai più «di questi spassi» (il «divertimento» alle spalle del Cavaliere) e di restare solo nei limiti della «convenienza» e dell’«onestà». Nella sua ultima battuta Mirandolina si propone persino come esempio negativo che può salvare gli amanti incauti dalle insidie di qualche seduttrice: «E quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della locandiera». Può sembrare che questo finale sia un puro ossequio alla convenzione edificante che esige dalla commedia una “lezione” morale, ma in realtà esso sanziona la sconfitta di Mirandolina, della sua “volontà di potenza” che riduce le persone a strumenti del suo gusto del dominio. A Mirandolina resta solo un ambito in cui esercitare il potere: il marito-subalterno. Fabrizio prima di acconsentire al matrimonio vorrebbe far patti chiari (evidentemente esige la promessa di una fedeltà totale), ma Mirandolina tronca brutalmente le sue richieste ristabilendo in modo inequivocabile i rapporti di potere: «Che patti? Il patto è questo: o dammi la mano, o vattene al tuo paese» (Atto III, r. 266); salvo poi ricorrere alle sue arti per blandire il futuro marito e tenerlo asservito a sé: «Ma poi, sì, caro, sarò tutta tua; non dubitare di me, ti amerò sempre, sarai l’anima mia». Mirandolina alterna sapientemente brutale autoritarismo padronale e carezzevoli lusinghe. E ancora una volta l’a parte rivela 461

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Un ritratto critico

il suo fondo di volgare cinismo: «(Anche questa è fatta)». Mirandolina non ha cambiato «costume»: semplicemente ha smesso il gioco rischioso con il mondo aristocratico e si accontenta di saziare la sua libido di potere nel più sicuro ambito familiare. Come si vede, Mirandolina è un personaggio complesso, con numerose sfaccettature. Se anche possiamo ipotizzare che Goldoni per certi aspetti ammiri la sua lucida abilità e la sua energica decisione, resta sostanzialmente un personaggio presentato in una luce negativa. Lungi dall’esaltare la grazia civettuola e la briosa e garbata malizia della donna, Goldoni traccia un ritratto critico di un “carattere” che è anche un tipo sociale, quello del borghese interessato, calcolatore, privo di scrupoli nella sua ricerca del profitto e nella sua smania di affermarsi. L’elegante divertimento, pieno di deliziosa “grazia” settecentesca, rivela un fondo più duro, sgradevole e impietoso. Nella prospettiva di fiducioso ottimismo che pervade le commedie goldoniane di questo periodo, La locandiera inserisce una nota più disillusa e amara, più pessimistica. La critica dei lati negativi del borghese sembra già anticipare quella che circa un decennio dopo caratterizzerà le commedie più mature di Goldoni, I rusteghi, il Sior Todero brontolon.

Esercitare le competenze CoMPrenDere

> 1. Sintetizza, anche schematicamente, il succedersi degli eventi accaduti rispettivamente nell’Atto Primo e nell’Atto Secondo.

AnALIzzAre

> 2. Quale importanza assumono gli oggetti nella commedia? Rifletti ad esempio sulla funzione di oggetti come i gioielli, il fazzoletto di «rensa», la boccetta d’oro, i vini, la spada spezzata.

> 3. Quanto tempo occupa la vicenda? In quali spazi si svolge? Qual è l’azione intorno alla quale ruota la comme-

dia? Le tre unità aristoteliche sono rispettate? Lessico Individua nel testo esempi significativi di vocaboli e/o espressioni riferiti al tema del “denaro”. Lingua Delinea, avvalendoti anche delle note al testo, i registri linguistici impiegati da Goldoni nella commedia.

> 4. > 5.

APProfonDIre e InTerPreTAre

> 6.

esporre oralmente In un’esposizione orale (max 3 minuti) verifica in questa commedia la fedeltà ai princìpi di semplicità, naturalezza, buon gusto dichiarati da Goldoni nella Prefazione alla prima raccolta delle sue commedie ( T1, p. 410) in polemica con i modi della Commedia dell’Arte. > 7. Competenze digitali Realizza un’originale versione per immagini fotografiche della Locandiera, cimentandoti con i tuoi compagni nella libera “interpretazione” dei personaggi e delle scene della commedia (anche con l’ausilio di costumi, trucco, scenografie o altro), ed effettuando un montaggio degli “scatti” relativi alle scene fondamentali della rappresentazione teatrale.

SCrITTUrA CreATIVA

> 8. Immagina una Mirandolina della nostra epoca, e scrivi il soggetto di un film ispirato all’attualizzazione della commedia goldoniana. Scegli anche un titolo per l’elaborato, che non dovrà superare 80 righe (4000 caratteri).

Per IL reCUPero

> 9. Analizza le seguenti espressioni presenti nel Primo Atto e fornisci, per ciascuna di esse, una nota esplicativa. a) «è una cosa che mi muove la bile terribilmente» (r. 178); b) «Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati» (r. 186); c) «Si è sempre costumato, che i forestieri li serva io» (r. 204); d) «accomoderei con essa i miei interessi per tutto il tempo di vita mia» (rr. 224-225).

Per IL PoTenzIAMenTo

> 10. La “locanda”, intesa nella sua accezione più ampia di luogo di passaggio per individui di diversa provenienza e appartenenti a diverse classi sociali, è presente nella letteratura di ogni tempo: come taverna medievale o come bar della nostra epoca, da sempre ha affascinato poeti, narratori, autori di teatro e sceneggiatori che l’hanno trasformata in un’ideale metafora dell’incontro e del confronto fra le più svariate esperienze di vita. Avvalendoti anche del materiale presente in rete, effettua un percorso di ricerca e documentazione su tale “luogo letterario”.

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Capitolo 7 · Carlo Goldoni

La voce del Novecento

Echi nel tempo Goldoni, il “teatro nel teatro” e Pirandello

La donna incantatrice d’uomini in Goldoni e Pirandello Luigi Pirandello (1867-1936), narratore e drammaturgo, dedica il romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore (nella prima edizione Si gira, 1915) al mondo del cinema. Il protagonista-narratore del romanzo lavora come operatore in una casa cinematografica. Vi incontra fra le attrici una donna da lui conosciuta anni prima, Varia Nestoroff, di origine russa e dal torbido passato. Costei aveva sedotto un giovane pittore ingenuo e idealista, Giorgio Mirelli, facendolo follemente innamorare di sé, ma gli si era negata e si era fatta trovare tra le braccia di un suo amico, Aldo Nuti. Il pittore si era ucciso. Il Nuti l’ha seguita sin nella casa cinematografica, ma la Nestoroff lo conduce alla disperazione, giocando con i suoi sentimenti e amoreggiando con un attore. Alla fine Nuti, durante le riprese di un film in cui doveva sparare a una tigre, la uccide, e viene sbranato dalla belva. Serafino gira impassibile la scena, ma resta muto per il trauma. Riportiamo il passo in cui è presentata Varia Nestoroff.

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Il caso di vedere gli uomini ridursi peggio d’una bestia, è dovuto accadere molto di frequente a Varia Nestoroff. Eppure ella non li ha uccisi. Cacciatrice, come voi siete cacciatore. Uno solo, per lei, si è ucciso, con le sue mani: Giorgio Mirelli; ma non per lei solamente. La belva, intanto, che fa male per un bisogno della sua natura, non è – che si sappia – infelice. La Nestoroff, come per tanti segni si può argomentare, è infelicissima. Non gode della sua malvagità, pure con tanto calcolo e con tanta freddezza esercitata. Se dicessi apertamente questo ch’io penso di lei a’ miei compagni operatori, agli attori, alle attrici della Casa, tutti sospetterebbero subito che mi sia anch’io innamorato della Nestoroff. Non mi curo di questo sospetto. La Nestoroff ha per me, come tutti i suo compagni d’arte, un’avversione quasi istintiva. Non la ricambio affatto perché con lei io non vivo, se non quando sono a servizio della mia macchinetta, e allora, girando la manovella, io sono quale debbo essere, cioè perfettamente impassibile. Non posso né odiare né amare la Nestoroff, come non posso odiare né amare nessuno. Sono una mano che gira la manovella. Quando poi, alla fine, sono reintegrato, cioè quando per me il supplizio d’esser soltanto una mano finisce, e posso riacquistare tutto il mio corpo, e meravigliarmi d’avere ancora su le spalle una testa, e riabbandonarmi a quello sciagurato superfluo1 che è pure in me e di cui per quasi tutto il giorno la mia professione mi condanna a esser privo; allora… eh, allora gli 1. superfluo: così Serafino chiama i sentimenti, di cui deve spogliarsi

quando si riduce a un’appendice della macchina da presa, di cui deve

solo girare la manovella.

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affetti, i ricordi2 che mi si ridestano dentro, non sono tali certo, che possano persuadermi ad amare questa donna. Fui amico di Giorgio Mirelli e tra le più care rimembranze della mia vita è la dolce casa di campagna presso Sorrento, ove ancor vivono e soffrono nonna Rosa e la povera Duccella. Io studio. Séguito a studiare, perché questa è forse la mia più forte passione: nutrí nella miseria e sostenne i miei sogni, ed è il solo conforto che io mi abbia, ora che essi sono finiti così miseramente3. Studio, dunque, senza passione, ma intentamente questa donna, che se pur mostra di capire quello che fa e il perché lo fa, non ha però in sé affatto quella «sistemazione» tranquilla di concetti, d’affetti, di diritti e di doveri, d’opinioni e d’abitudini, ch’io odio negli altri. Ella non sa di certo, che il male che può fare agli altri; e lo fa, ripeto, per calcolo e con freddezza. Questo, nella stima degli altri, di tutti i «sistemati», la esclude da ogni scusa. Ma credo che non sappia darsene alcuna, ella medesima, del male che pur sa d’aver fatto. Ha in sé qualche cosa, questa donna, che gli altri non riescono a comprendere, perché bene non lo comprende neppure lei stessa. Si indovina però dalle violente espressioni che assume, senza volerlo, senza saperlo, nelle parti che le sono assegnate. Ella sola le prende sul serio, e tanto più quanto più sono illogiche e strampalate, grottescamente eroiche e contraddittorie. e non c’è verso di tenerla in freno, di farle attenuare la violenza di quelle espressioni. Manda a monte ella sola più pellicole, che non tutti gli altri attori delle quattro compagnie presi insieme. Già esce dal campo4 ogni volta; quando per caso non ne esce, è così scomposta la sua azione, così stranamente alterata e contraffatta la sua figura, che nella sala di prova quasi tutte le scene a cui ella ha preso parte, resultano inaccettabili e da rifare. Qualunque altra attrice, che non avesse goduto e non godesse come lei la benevolenza del magnanimo commendator Borgalli5, sarebbe stata già da un pezzo licenziata. – Là là là… – esclama invece il magnanimo commendatore, senza inquietarsi, vedendo sfilar su lo schermo della sala di prova quelle immagini da ossessa, – là là là… ma via… ma no… ma com’è possibile?… oh Dio, che orrore… via via via… […] Invano Polacco6 protesta d’avere spiegato bene alla Nestoroff tutta intera la parte. Il commendator Borgalli sa che la colpa non è del Polacco; tant’è vero, che gli ha dato un’altra prima attrice, la Sgrelli, per non fargli andare a monte tutti i films affidati alla sua compagnia. Ma la Nestoroff protesta dal canto suo, se Polacco si serve soltanto della Sgrelli o più della Sgrelli che di lei, vera prima attrice della compagnia. I maligni dicono che lo fa per rovinare il Polacco, e il Polacco stesso crede così e lo va dicendo. Non è vero: non c’è altra rovina, qua, che di pellicole; e la Nestoroff è veramente disperata di ciò che le avviene; ripeto, senza volerlo e senza saperlo. Resta ella stessa sbalordita e quasi atterrita delle apparizioni della propria immagine su lo schermo, così alterata e scomposta. Vede lì una, che è lei, ma che ella non conosce. Vorrebbe non riconoscersi in quella; ma almeno conoscerla. Forse da anni e anni e anni, a traverso tutte le avventure misteriose della sua vita, ella va inseguendo questa ossessa che è in lei e che le sfugge, per trattenerla, per domandarle che cosa voglia, perché soffra, che cosa ella dovrebbe fare per ammansarla, per placarla, per darle pace. 2. affetti … ricordi: Serafino era stato amico del pittore suicidatosi a causa della Nestoroff. Ne ricorda ancora con profondo affetto la nonna e la sorella, Duccella. 3. finiti … miseramente: Serafino,

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che è un uomo colto e amante della filosofia, si è ridotto a lavorare come operatore per sfuggire alla miseria. 4. campo: il campo delimitato delle riprese. Si tenga presente che allora la cinepresa era fissa, quindi gli attori

dovevano muoversi entro spazi ben precisi per non uscire dal campo. 5. Borgalli: il padrone della casa cinematografica. 6. Polacco: il regista.

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Nessuno, che non abbia gli occhi velati da una passione contraria e l’abbia vista uscire dalla sala di prova dopo l’apparizione di quelle sue immagini, può aver più dubbi su ciò. Ella è veramente tragica: spaventata e rapita, con negli occhi quello stupor tenebroso che si scorge negli agonizzanti, e a stento riesce a frenare il fremito convulso di tutta la persona. So la risposta che mi si darebbe, se lo facessi notare a qualcuno: – Ma è la rabbia! freme di rabbia! È la rabbia, sì, ma non quella che tutti suppongono, cioè per un film andato a male. Una rabbia fredda, più fredda d’una lama, è veramente l’arma di questa donna contro tutti i suoi nemici. Ora, Cocò Polacco non è per lei un nemico. Se fosse, ella non fremerebbe così: freddissimamente si vendicherebbe di lui. Nemici per lei diventano tutti gli uomini, a cui ella s’accosta, perché la ajutino ad arrestare ciò che di lei sfugge: lei stessa, sì, ma quale vive e soffre, per così dire, di là da sé stessa. Ebbene, nessuno si è mai curato di questo, che a lei più di tutto preme; tutti, invece, rimangono abbagliati del suo corpo elegantissimo, e non vogliono avere altro, né saper altro di lei. E allora ella li punisce con fredda rabbia, là dove s’appuntano le loro brame; ed esaspera prima queste brame con la più perfida arte, perché più grande sia poi la sua vendetta. Si vendica, facendo getto, improvvisamente e freddamente, del suo corpo a chi meno essi si aspetterebbero: così, là, per mostrar loro in quanto dispregio tenga ciò che essi soprattutto pregiano di lei. Non credo che possano spiegarsi in altro modo certi subitanei cangiamenti nelle sue relazioni amorose, che appajono a tutti, a prima giunta, inesplicabili, perché nessuno può negare ch’ella con essi non abbia fatto il suo danno. Se non che gli altri, ripensandoci e considerando da una parte la qualità di coloro con cui ella prima s’era messa, e dall’altra quella di coloro a cui d’improvviso s’è gettata, dicono che questo dipende perché ella coi primi non poteva stare, non poteva respirare; mentre a questi altri si sentiva attratta da un’affinità «canagliesca»; e quel getto di sé improvviso e inopinato lo spiegano come lo sbalzo di chi, a lungo soffocato, voglia prendere alfine, dove può, una boccata d’aria. E se fosse proprio il contrario? Se per respirare, per aver quell’ajuto ch’io ho detto più su, ella si fosse accostata ai primi, e invece d’averne quel respiro, quell’ajuto che sperava, nessun respiro e nessun ajuto avesse avuto da loro, ma anzi un dispetto e una nausea più forti, perché accresciuti ed esacerbati dal disinganno, e anche da quel certo sprezzo che sente per i bisogni dell’anima altrui chi non vede e non cura se non la propria ANIMA, così, tutta in lettere majuscole? Nessuno lo sa; ma di queste «canagliate» possono essere ben capaci coloro che più si stimano da sé e son dagli altri stimati superiori. E allora… allora meglio la canaglia che si dà per tale, che se ti attrista, non ti delude; e che può avere, come spesso ha, qualche lato buono e, di tratto in tratto, certe ingenuità, che tanto più ti rallegrano e ti rinfrescano, quanto meno in loro te le aspetti.

Analisi del testo

> Il tema della donna incantatrice dall’antichità al Novecento

Dall’antichità al Rinascimento

Nella Locandiera Mirandolina, come sottolinea con insistenza Goldoni nella prefazione alla commedia, rappresenta la figura dell’«incantatrice Sirena», della donna che con le sue sottili arti di seduzione affascina e irretisce gli uomini e, giocando cinicamente con i loro sentimenti, li piega alla sua volontà, facendoli soffrire. È un tema che si può veder percorrere tutta la letteratura, dalla Bibbia e dai classici antichi al Medioevo cristiano, sino alle maghe incantatrici dei poemi rinascimentali, Alcina nell’Orlando furioso e Armida 465

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo Dal Romanticismo al Novecento

nella Gerusalemme liberata. In età romantica, ai primi dell’Ottocento, il mito letterario della donna fatale acquista nuovo vigore e si circonda di inquietanti atmosfere. Ma l’età in cui la presenza di quella figura diviene ossessiva, popolando la letteratura, il teatro, le arti figurative di donne perfide e insidiose, causa di lutti e di rovine per gli uomini, è il periodo tra fine Ottocento e primo Novecento. Lo scrittore in cui la donna fatale assume un ruolo preponderante è Gabriele d’Annunzio, ma il personaggio compare persino in Giovanni Pascoli, in uno dei Poemi conviviali, Anticlo, dove è incarnata da Elena di Troia.

> Lo scavo psicologico di Pirandello

Lo studio impassibile del personaggio L’emergere del fondo oscuro della donna

Il «vedersi vivere»

Gli uomini come nemici

L’età dell’esplorazione del profondo

Si direbbe che un tributo al mito venga pagato anche da Pirandello, con la figura di Varia Nestoroff nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Nel passo che riportiamo si scorge uno sforzo di scavo nei labirinti psicologici del personaggio. La Nestoroff non possiede il complesso di norme morali, di princìpi, opinioni, abitudini che regolano la vita delle persone “normali”: per questo costoro non riescono a trovare scusanti per i suoi comportamenti e li condannano duramente. Serafino odia questi benpensanti, che si fissano in un rigido sistema di regole, per cui non pronuncia condanne nei confronti della donna, si limita a studiarla con impassibile freddezza. Capisce che anche la Nestoroff non cerca di scusare il male che compie, perché non riesce lei stessa a comprendere ciò che cela in sé. Questo fondo oscuro emerge dalla sua recitazione. Prende troppo sul serio le parti strampalate che deve interpretare nei film, le esagera all’inverosimile, in forme violente sino a diventare grottesche. È come un’«ossessa», posseduta da una forza interna inesplicabile. La recita fa dunque emergere, contro la sua stessa volontà, un fondo violentemente irrazionale che si cela in lei. Poi, vedendosi sullo schermo, resta atterrita a scoprire una che ha il suo aspetto ma che non conosce. Affiora qui il motivo caro a Pirandello del «vedersi vivere» dall’esterno, che induce a perdere la percezione della propria identità, con un senso di smarrimento e di angoscia. Serafino, nel suo sforzo di penetrare il segreto della donna, interpreta il tormento che da anni la spinge alle sue avventure come un tentativo di inseguire questa ossessa, per trattenerla, capire che cosa voglia, darle pace. Gli uomini diventano per lei dei nemici. Li cerca perché la aiutino a fermare ciò che lei insegue e le sfugge, la vera essenza di lei stessa, e li odia tutti perché nessuno di essi si cura di porgerle tale aiuto, tesi come sono a cercare soltanto il suo bel corpo. E lei quel corpo lo getta letteralmente via, per mostrare quanto disprezzi ciò che essi amano in lei. Per questo passa continuamente, all’improvviso, da un uomo all’altro. Si lega a uomini più elevati spiritualmente per cercar quell’aiuto, ma ne prova poi nausea perché avverte che costoro, che tanto curano la loro «anima», la loro vita spirituale, in realtà non si curano dei bisogni delle anime altrui. Allora preferisce darsi a delle canaglie, che non nascondono di esserlo, e che possono rivelare qualche lato buono. Come si vede, questo personaggio di donna fatale pirandelliano, oltre a essere ben più torbido e inquietante della «Sirena» goldoniana, appare infinitamente più complesso psicologicamente. È il frutto di un’età che si è avventurata ben più in là nell’esplorazione dei recessi profondi e oscuri della psiche, sia attraverso l’indagine letteraria sia attraverso gli studi scientifici (nel 1915 la psicoanalisi aveva già prodotto molti dei suoi frutti più rilevanti, ed era tutta l’atmosfera del tempo, su scala europea, a tendere in quella direzione).

> Il livello parodico e critico

La parodia di d’Annunzio

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Ma se si prende in considerazione il complesso del romanzo, nella rappresentazione del personaggio si possono riconoscere due livelli diversi: uno è appunto lo scavo psicologico su cui ci siamo soffermati, che consente allo scrittore di introdurre le tematiche dell’identità; a un altro livello però la figura della divoratrice d’uomini appare presentata in una luce straniante, parodistica e critica. La parodia è chiaramente rivolta a colpire Gabriele d’Annunzio e il dannunzianesimo, che amavano particolarmente il mito della donna fatale,

Capitolo 7 · Carlo Goldoni

La critica al cinema dannunziano

come si è osservato, e che dominavano nella cultura del tempo. Un indizio inequivocabile ce lo conferma. La Nestoroff porta un cappello a forma di elmetto alato: ebbene, esso rimanda a identici cappelli di due perverse incantatrici di d’Annunzio, Elena Comnena della tragedia La gloria (1899) e Isabella Inghirami del romanzo Forse che sì forse che no (del 1910, solo cinque anni prima del romanzo pirandelliano). Ma più specificamente l’oggetto della critica di Pirandello è il cliché della donna fatale che, nell’atmosfera del dannunzianesimo imperante, veniva continuamente riprodotto dal cinema di quegli anni, e veniva incarnato da dive dal grande successo. Lo scrittore, in nome dell’arte autentica, polemizza così contro le forme involgarite e degradate della nascente cultura di massa, che col cinema assumeva ormai una dimensione industriale e godeva di larga diffusione.

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. Come si pone Serafino, l’io narrante, nei confronti di Varia Nestoroff? > 2. Quale tipo di «rabbia» (r. 71) attribuisce Serafino alla donna? > 3. Delinea l’ambiente del cinema con le sue caratteristiche così come emerge dal brano. ANALIZZARE

> 4. > 5.

Delinea, fatta eccezione per Serafino e Varia Nestoroff, i ruoli dei vari personaggi citati nel brano. Analizza, in relazione al contenuto, la presenza nel testo di vocaboli e/o espressioni in corsivo: perché l’autore ha optato per tale resa grafica? > 6. Lessico Individua nel brano e analizza vocaboli e/o espressioni riferiti sia allo «scavo psicologico», sia alla «luce straniante, parodistica e critica» attraverso cui, come evidenzia l’Analisi del testo, viene presentata la figura della Nestoroff. > 7. Lingua Individua nel testo la frequenza di proposizioni esclamative ed interrogative spiegandone la funzione. Narratologia Lessico

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 8.

Video da La Locandiera

Esporre oralmente Quali elementi di affinità presentano la locanda settecentesca e il set cinematografico, i luoghi in cui le donne incantatrici d’uomini di Goldoni e Pirandello esercitano il loro fascino? Rispondi oralmente (max 5 minuti). > 9. Altri linguaggi: teatro L’edizione della Locandiera diretta da Giancarlo Cobelli per l’inaugurazione del Teatro Goldoni di Venezia nell’aprile 1979 esiste in forma video, in quanto lo stesso regista ne curò nel 1986 un allestimento televisivo per la RAI con il cast originale nella sua quasi interezza: nel ruolo di Mirandolina Carla Gravina, in quello del Cavaliere Pino Micol. Dopo aver preso visione dello spezzone, rispondi alle domande. a) Quale stato d’animo manifesta visibilmente il Cavaliere nei confronti della donna e parlando fra sé e sé? Con quale modalità di recitazione? b) Come esplica la protagonista le sue abilità di seduttrice? Rispondi prestando attenzione alle movenze dell’attrice, al suo tono di voce, al suo gioco di sguardi con l’interlocutore.

Fotogramma dall’allestimento televisivo della Loandiera.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Letteratura e CINeMa Video

La locandiera di Franco Enriquez e Valeria Moriconi Lo spettacolo Nel 1965 il regista Franco Enriquez mette in scena La locandiera di Carlo

Goldoni insieme a tre suoi collaboratori storici: gli attori Valeria Moriconi e Glauco Mauri, il pittore Emanuele Luzzati, che disegna costumi e scenografie. Lo spettacolo è prodotto dal Teatro Stabile di Torino e riscuote un grande successo, culminato l’anno successivo nella realizzazione per la RAI di una sua versione televisiva, diretta dallo stesso Enriquez.

La lettura di Visconti Lo spettacolo cerca innanzitutto il coinvolgimento e il divertimento del pubblico. A questo scopo fa leva sulla comicità dei dialoghi, mentre mette da parte la riflessione goldoniana sulle classi sociali, che tanta importanza aveva avuto nelle rappresentazioni teatrali dei due decenni precedenti. Luchino Visconti ad esempio, autore nel 1952 di una celebre messa in scena della Locandiera, scavava il testo per far emergere la crudeltà dei rapporti intrattenuti dalla cinica Mirandolina con i prepotenti e sovreccitati ospiti della locanda, desiderosi di possederla. Questa lettura, oltre a scandalizzare alcuni importanti critici dell’epoca, spiazzò gli spettatori: spingeva infatti a guardare oltre la trama per riflettere a fondo sulla brutalità dei rapporti di classe. La messa in ombra degli aspetti più inquietanti dell’opera di Goldoni da parte di Enriquez, e quindi il ritorno alle atmosfere allegre e rassicuranti che avevano dominato le letture ottocentesche e della prima metà del Novecento, è pertanto strettamente legata alla ricerca del piacere del pubblico.

Glauco Mauri (a sinistra) interpreta il ruolo del Marchese di Forlipopoli facendo emer­ gere efficacemente la vanità patetica del nobile decaduto.

Mirandolina e Fabrizio ridono gioiosi dopo essersi promessi amore eterno. Visconti proponeva una lettura molto diversa del­ l’ultima scena: nel suo spettacolo la padro­ na vedeva nel matrimonio un mero strat­ agemma per continuare a sfruttare il servo senza doverlo pagare e difatti, invece di abbracciarlo, lo ricacciava subito in stireria.

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La scelta degli attori Anche la distribuzione delle parti avviene secondo criteri molto diversi nei due spettacoli. Enriquez segue un modello legato al linguaggio naturalistico della televisione e del cinema, quello del physique du rôle, che lo porta a scegliere degli interpreti non solo bravi, ma anche vicini nell’età e nell’aspetto ai personaggi del testo rappresentato, così da favorire l’immedesimazione dello spettatore. Visconti al contrario, seguendo una pratica caratteristica del teatro italiano dell’Ottocento e del primo Novecento, metteva in secondo piano la vicinanza fisica e anagrafica al personaggio: il ruolo della ancor giovane Mirandolina, ad esempio, veniva affidato alla quarantaquattrenne Rina Morelli, attrice bravissima ma certamente lontana nell’aspetto dalla locandiera descritta da Goldoni. Mirandolina Il perno attorno a cui ruota lo spettacolo di Enriquez è costituito dalla presenza della bella Valeria Moriconi, abile interprete di una Mirandolina decisamente positiva. La spregiudicatezza della furba imprenditrice viene infatti sfumata e lascia il posto all’orgoglio e alla forza della donna che è riuscita ad affermare la propria individualità e indipendenza in un mondo ancora profondamente patriarcale. È quindi il tipo di recitazione dell’attrice a garantire il lieto fine: quando intima a Fabrizio di accettare la sua proposta di matrimonio o di andarsene al suo paese (vedi la scena ultima della commedia, p. 456) il suo volto è cupo, rattristato, mentre la sua voce è rotta dal timore di essere rifiutata. Dietro alla proposta di Mirandolina, sembra dirci Valeria Moriconi, non vi è davvero il calcolo, ma un sincero sentimento d’amore.

Esercitare le competenze STABILIre neSSI TrA LeTTerATUrA e CIneMA

> 1. Quali espressioni degli attori, nella prima immagine, ne sottolineano il rispettivo ruolo sulla scena? > 2. Nella seconda immagine Fabrizio compare in primo piano: anche nell’originale goldoniano il personaggio riveste la medesima importanza, soprattutto nel finale?

> 3. Ritieni che la versione di Visconti, meno gioiosa e più “problematica” rispetto a quella di Enriquez, riveli elementi di riflessione irrinunciabili rispetto alle intenzioni di Goldoni? Rispondi in base a quanto appreso dalla scheda.

7 La trama

Testo critico F. Fido

La visione borghese del mondo popolare

Le baruffe chiozzotte La vicenda della commedia Le baruffe chiozzotte (1762) si svolge a Chioggia, in un ambiente di pescatori. Mentre gli uomini sono in mare, scoppia un litigio fra le donne di due famiglie, per colpa di un giovane barcaiolo, Toffolo, che ha fatto la corte a due ragazze contemporaneamente, suscitando fra loro invidie e gelosie; di qui scaturirà poi il litigio più grave tra Toffolo e i due fidanzati delle ragazze, Titta Nane e Beppo, che coinvolgerà di nuovo tutte le donne, per risolversi poi alla fine in una pacificazione generale, grazie anche all’intervento della giustizia, rappresentata dal giovane coadiutore del Cancelliere. La commedia tratta un tema lieve, un litigio nato da futilissimi motivi, che si allarga a coinvolgere numerosi personaggi con sviluppi spassosi. Goldoni osserva divertito il piccolo mondo dei pescatori chioggiotti e delle loro donne, che egli ben conosce avendo in gioventù esercitato la funzione di coadiutore del Cancelliere proprio a Chioggia (e difatti inserisce nella vicenda un alter ego attraverso la figura del coadiutore). Il suo è lo sguardo del borghese, che contempla quel mondo popolare dall’alto della sua collocazione sociale e della sua superiore cultura, ma si compiace di disegnare macchiette caratteristiche e colorite, ciascuna con dei tratti colti direttamente dal vivo. A ciò contribuisce anche la riproduzione del dialetto chioggiotto, con la vivacità e la spontaneità dei modi del parlato. 469

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L e t t e r a t u r a e Società

T3

Lo sfruttamento dei pescatori da Le baruffe chiozzotte, Atto Primo, Scene V e VI Il sorridente mondo subalterno di Goldoni non è percorso da tensioni o agitato da rivendicazioni, ma lascia trapelare problematiche serie e istanze sociali destinate a futuri sviluppi letterari. Riportiamo un breve passo iniziale della commedia, con l’arrivo dei pescatori.

Testo e realtà Il sorridente mondo subalterno di Goldoni non è percorso da tensioni o agitato da rivendicazioni, ma lascia trapelare problematiche serie e istanze sociali destinate a futuri sviluppi letterari.

SCENA V Veduta del canale con varie barche pescareccie, fra le quali la tartana1 di paron Toni. Paron Fortunato, Beppo, Titta Nane e altri uomini nella tartana, e paron Toni in terra, poi paron Vicenzo. toni

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Via, da bravi, a bel belo, mettè in terra quel pesse. vicenzo Ben vegnuo, paron Toni. toni Schiao2, paron Vicenzo. vicenzo Com’ela andada? toni Eh! no se podemo descontentare. vicenzo Cossa gh’aveu in tartana? toni Gh’avemo un puoco de tutto, gh’avemo3. vicenzo Me dareu quattro cai de sfoggi? toni Pare sí. vicenzo Me dareu quattro cai de barboni? toni Pare sí. vicenzo Bòseghe ghe n’aveu?

1. tartana: grossa barca da carico e da pesca.

2. Schiao: è un saluto amichevole, da cui deriva il nostro ciao.

3. Gh’avemo … gh’avemo: la ripetizione è tipica del parlato popolare.

scena v Su, da bravi, in fretta, mettete a terra quel pesce. vicenzo Benvenuto, padron Toni. toni Schiavo, padron Vincenzo. vicenzo Com’è andata? toni Eh! non possiamo lamentarci. vicenzo Cosa avete nella tartana? toni Abbiamo un poco di tutto, abbiamo. vicenzo Mi dareste quattro ceste di sogliole? toni Sì, compare. vicenzo Mi dareste quattro ceste di triglie? toni Sì, compare. vicenzo Cefali ne avete? toni Madre di diana! Ne abbiamo di così grandi che sembrano, con buon rispetto, lingue di manzo, sembrano. toni

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Mare de diana4! ghe n’avemo de cussí grande che le pare, co buò respetto, lengue de manzo le pare. vicenzo E rombi? toni Ghe n’aemo sié, ghe n’aemo, co è el fondi d’una barila. vicenzo Se porlo veder sto pesse? toni Andè in tartana, che xe paron Fortunato; avanti che lo spartimo, fevelo mostrare. vicenzo Anderò a vede se se podemo giustare. toni Andè a pian. Oe, deghe man a paron Vicenzo. vicenzo (Gran boni omeni che xe i pescaori!) (va in tartana). toni Magari lo podessimo vende tutto a bordo el pesse, che lo venderia volentiera. Se andemo in man de sti bazariotti, no i vuol dar gnente; i vuol tutto per lori. Nu altri, poverazzi, andemo a rischiare la vita in mare, e sti marcanti col bareton de veludo5 i se fa ricchi co le nostre fadighe. beppo (scende di tartana con due canestri) Oe, fradello? toni Coss’è, Beppe? Cossa vustu? beppo Se ve contentessi6, voria mandar a donare sto cao de barboni al Lustrissimo7. toni Per cossa mo ghe li vustu donare? beppo No savè che l’ha da essere mio compare8? toni Ben! mandegheli, se ti ghe li vuol mandare. Ma cossa credistu? Che in t’un, bisogno che ti gh’ avessi, el se moverave gnanca da la cariega? Col te vederà, el te metterà una man sulla spala: Bravo, Beppe, te ringrazio, comàndeme. Ma se ti ghe disi: Lustrissimo, me premeria sto servizio; nol s’arecorda piú dei barboni: nol te gh’ha gnanca in mente; nol te cognosse piú né per compare, né per prossimo, né per gnente a sto mondo. toni

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4. Mare de diana: è evidentemente un’imprecazione attenuata, per “madre di Dio”. 5. bareton de veludo: Goldoni stesso in una nota spiega che il berretto di velluto è segno di distinzione sociale e di agiatezza,

mentre i pescatori portano in testa un cappellaccio o un berretto di lana. 6. ve contentessi: si noti che il fratello maggiore si rivolge al minore col tu, mentre questi usa il voi in segno di rispetto.

7. Lustrissimo: un personaggio eminente e autorevole della città. 8. compare: spiega Goldoni che si intende “testimone”, quando si sposerà.

E rombi? Ne abbiamo sei, ne abbiamo, grandi come il fondo di un barile. vicenzo Lo si può vedere, questo pesce? toni Andate sulla tartana, che c’è padron Fortunato, prima che lo dividano, fatevelo mostrare. vicenzo Andrò a vedere se ci possiamo aggiustare. toni Andate pure. Oè, date una mano a padron Vicenzo. vicenzo (Gran bravi uomini che sono i pescatori!) (va in tartana). toni Magari lo potessimo vendere tutto a bordo il pesce, che lo venderei volentieri. Se andiamo in mano a questi pescivendoli, non vogliono dare niente; vogliono tutto per loro. Noialtri, poveracci, andiamo a rischiare la vita in mare, e ’sti mercanti col berretto di velluto diventano ricchi con le nostre fatiche. beppo (scende di tartana con due canestri) Oè, fratello? toni Cosa c’è Beppo? Cosa vuoi? beppo Se siete d’accordo, vorrei mandare questa cesta di triglie in dono all’Illustrissimo. toni Per cosa gliele vuoi donare? beppo Non sapete che deve essere mio compare? toni Bene! Mandagliele, se gliele vuoi mandare. Ma cosa credi? Che al momento in cui avessi bisogno, si muoverebbe dalla sedia? Quando ti vedrà, ti metterà una mano sulla spalla: Bravo, Beppe, ti ringrazio, comandami. Ma se gli dici: Illustrissimo, mi premerebbe questo servizio, non si ricorda più delle triglie: non si ricorda neanche di te; non ti conosce più né per compare, né per prossimo, né per niente a questo mondo. vicenzo toni

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beppo

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Cossa voleu che fazze? Per sta volta lassè che ghe li mande. toni Mi no te digo che no ti li mandi. beppo Chiò, Menola9. Porta sti barboni a sior cavaliere; dighe che ghe lo mando mi sto presente. Il putto parte. […]

SCENA VI Pasqua, Lucietta e detti. Paron10! (a Toni). toni Oh muggiere! lucietta Fradelo! (a Toni). toni Bondí, Lucietta. lucietta Bondí, Beppe. beppo Stastu ben, sorela? lucietta Mi sí. E ti? beppo Ben, ben. E vu, cugnà, steu ben? pasqua Sí, fio. Aveu fatto bon viazo? (a Toni). toni Cossa parleu de viazo? Co semo in terra, no se recordemo piú de quel che s’ha passao in mare. Co se pesca, se fa bon viazo, e co se chiapa, no se ghe pensa a rischiar la vita. Avemo portà del pesse, e semo allegri, e semo tutti contenti. pasqua

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9. Menola: è il soprannome di un giovane garzone. L’autore spiega che designa un pesce piccolo e poco pregiato.

10. Paron: si noti che la moglie alla lettera chiama il marito “padrone”: segno della sottomissione della donna all’uomo.

Cosa volete che faccia? Per questa volta lasciate che glieli mandi. Non ti dico che non glieli mandi. beppo Prendi, Menola. Porta queste triglie al signor cavaliere, digli che glielo mando io questo dono. il ragazzo si allontana. beppo toni

scena vi Marito! (a Toni). toni Oh, moglie! lucietta Fratello! (a Toni). toni Buondì, Lucietta. lucietta Buondì, Beppe. beppo Stai bene, sorella? lucietta Io sì, e tu? beppo Bene, bene. E voi, cognata, state bene? pasqua Sì, figlio. Avete fatto buon viaggio? (a Toni) toni Cosa parlate di viaggio? Quando siamo a terra, non ci ricordiamo più di quello che si è passato in mare. Quando si pesca, si fa buon viaggio, e quando si trova molto pesce, non ci si pensa a rischiar la vita. Abbiamo portato del pesce, e siamo allegri, e siamo tutti contenti. pasqua

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Analisi del testo

> Il tema sociale

La rabbia del pescatore contro gli sfruttatori

L’idillio e il comico

Il popolo in Manzoni e Verga

La protezione dei potenti

Nonostante l’impianto generale della commedia sia giocato su tonalità comiche, in queste scene lo scrittore inserisce motivi più seri, perché intende fornire un breve quadro delle condizioni sociali di quei pescatori. La pesca è stata abbondante ed essi potrebbero ricavarne buoni guadagni, se non dovessero passare attraverso i mercanti, che comprano il pesce appena giunto in porto per poi rivenderlo, intascandosi la parte maggiore del profitto e lasciando poco ai pescatori. Emerge allora dalle parole di «paron Toni» la rabbia di chi fatica e rischia la vita in mare, per poi vedersi portare via gran parte del frutto del proprio lavoro da chi se ne sta tranquillo e sicuro in terra ferma, e può godersi una vita agiata (di cui è segno l’abito elegante, compendiato in sineddoche dal «bareton de veludo», su cui si concentra tutto il risentimento del pescatore). Ma questa rabbia e questo risentimento sono poi facilmente superati: la gioia di tornare a casa con una buona pesca e di rivedere la famiglia fa subito dimenticare le fatiche e i rischi del lavoro. Nel mondo goldoniani non sono possibili conflitti davvero seri e profondi, che vadano alla radice dei problemi sociali: in specie dell’ambito popolare viene data una rappresentazione sostanzialmente idillica e comica, che sembra risentire ancora della classica “divisione degli stili”, l’impostazione che riservava il tragico e il sublime solo ai livelli alti della società. Si può cogliere qui la distanza che separa la rappresentazione del popolo in Goldoni da quella che sarà di Manzoni e di Verga, nei cui romanzi anche gli strati inferiori della società hanno diritto a una rappresentazione seria e tragica. Non solo, la vicenda di questa commedia goldoniana è avulsa da ogni contesto storico, il mondo popolare appare immobile e fuori del tempo, mentre i drammi di Renzo e Lucia o della famiglia Malavoglia sono organicamente inseriti in una dimensione storica, e anche da questo ricavano la loro profondità.

> I pescatori e le classi elevate

Il secondo aspetto del quadro sociale che si profila da queste scene è il rapporto dei pescatori con le classi superiori. Beppo manda una cesta di pesce a un «Lustrissimo», un personaggio importante della città, nella speranza di godere del suo favore e del suo appoggio. Si delinea la sopravvivenza di un costume ancora semifeudale, tipico della società dell’Ancien régime, in cui le classi subalterne non hanno piena autonomia di diritti ma devono sempre cercare la protezione dei potenti. Spicca però la visione disincantata del fratello più anziano, Toni, che in base alla sua esperienza di vita disillude Beppo sull’eventualità che al momento del bisogno il «sior cavaliere» si ricordi del dono ricevuto e di chi glielo ha mandato.

Chioggia, canale con il mercato del pesce, 1890-1900, fotografia, Londra, Mary Evans Picture Library.

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Esercitare le competenze CoMPrenDere

> 1. Perché Beppo afferma di voler mandare in dono dei pesci al «Lustrissimo»? Rispondi in base al testo. > 2. Perché Toni, al suo ritorno, apostrofa piuttosto duramente Pasqua? AnALIzzAre

> 3. Emerge dal passo, seppure nella sua brevità, una caratterizzazione dei singoli personaggi? Se sì, quale? > 4. Stile Attraverso quale figura retorica viene descritto il pesce appena pescato dai pescatori soddisfatti? > 5. Lessico Individua nel testo originale vocaboli e/o espressioni che, a tuo parere, evidenziano maggiore immediatezza e vivacità, tipica del parlato popolare rispetto alla traduzione in italiano.

APProfonDIre e InTerPreTAre

> 6.

Audio

esporre oralmente In riferimento al testo analizzato e alla questione della lingua in Goldoni ( La lingua, p. 421), delinea in un’esposizione orale (max 5 minuti) il rapporto fra italiano e dialetto nella produzione dell’autore. > 7. Altri linguaggi: musica Il cantautore italiano Pierangelo Bertoli è autore e interprete della canzone Pescatore (inclusa nell’album Certi momenti, 1980) concepita come duetto fra una voce maschile e una femminile: tema centrale del testo (del paroliere Marco Negri) è il mestiere condotto sul mare, con la sua fatica e i suoi pericoli, e le preoccupazioni di chi attende a casa, in preghiera. Quali analogie presenta con lo stesso argomento affrontato nel brano goldoniano?

Copertina dell’album Certi momenti.

Interpretazioni critiche

Mario Baratto Goldoni e la crisi della borghesia veneziana In questa pagina di Goldoni, il critico analizza i testi della piena maturità, intorno al 1760, vedendovi la rappresentazione di una crisi involutiva della borghesia veneziana, segnata dall’impoverimento del mercante: la borghesia mercantile appare incapace di divenire classe egemonica.

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Mario Baratto in questo saggio, che nel 1957 ha segnato una svolta importante nella storia della critica goldoniana ricostruisce la poetica che sta alla base delle commedie dello scrittore (il rapporto «Mondo»/«Teatro») in relazione alle condizioni storiche della società veneziana del Settecento. Si tratta quindi di un tipo di critica sociologica.

All’immobilità dell’ordine politico sembra rispondere l’inerzia di un ordine economico. La borghesia veneziana, scissa in gruppi di «ricchi» e in una vasta categoria di «piccoli», sta esaurendo la sua forza sociale. È un’induzione permessa dal testo goldoniano, dalla sensibilità della sua «registrazione». Vien meno, al Goldoni, la base sociale del suo ottimismo […]. L’impoverimento del «tipo» sociale del mercante,

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il graduale abbandono del commercio, sono visibili almeno dal 1753. Il Pantalone de La Cameriera Brillante (1753), «incocalio» di fronte ad Argentina1, era stato preparato dal Pantalone de La Castalda (1751): l’uno e l’altro «tendono» a rifugiarsi «in villa», a contentarsi di un tranquillo investimento terriero, e non hanno nemmeno l’energia dell’affittuario Pantalone de Il Feudatario (1752), pur sottoposto alla nobiltà feudale. Nel 1755, ne Il Geloso Avaro, Pantalone è oggetto di un’improvvisa, violenta se pur infelice, caricatura: è l’opposto de L’Uomo Prudente, ne nega le qualità sostanziali. E se ne I Mercatanti (1753) resiste, pur tra gravi difficoltà, la fiducia nel commercio, essa è già precaria ne La Buona Famiglia (1755). Commedie che suggeriscono, da punti opposti (la campagna, il commercio), un tema di duplice «debolezza» nella figura del mercante […]. La borghesia mercantile si rivela incapace di divenire classe consapevole di sé, egemonica: l’indicazione data dal reale è più forte, nel Goldoni, di qualsiasi «mito» ideologico2. Sembra non restino, al borghese, che il gusto di una gretta solitudine o la ridicola ambizione di scimmiottare la moda dei nobili: anche quando non giunge agli estremi, il contrasto tra vecchi e giovani, tra mariti e mogli, svela segrete incrinature nella vita della borghesia veneta. E soprattutto un’insufficienza storica, l’inettitudine non solo ad elaborare una propria cultura, ma ad assumere i modi di quella «filosofia civile, discreta e sociabile3» che il Goldoni le proponeva, già nel 1753, ne Il Filosofo Inglese. Ecco invece la prefazione a I Rusteghi: «Noi intendiamo in Venezia per uomo Rustego un uomo aspro, zotico, nemico della civiltà, della cultura e del conversare». […] Le virtù del vecchio borghese sono ora soltanto negative […]: a Pantalone si sostituisce il rustego, tipo sociale sempre più chiaramente negativo. «Non vi è niente di più fastidioso, di molesto alla Società, di un uomo che brontola sempre», osserva il Goldoni nella Prefazione al Sior Todero: e chiarisce: «non è il mio Todero carattere immaginario. Pur troppo vi sono al mondo di quelli che lo somigliano». Si svela una deficienza innegabile: non a caso gli ultimi capolavori sono di ambiente veneziano. Il rustego è il tipo sociale dell’invecchiato mercante veneziano, del borghese «mancato»4. M. Baratto, «Mondo» e «Teatro» nella poetica di Goldoni, in Tre studi sul teatro (Ruzante, Aretino, Goldoni), Neri Pozza, Vicenza 1964 (1a ed. del saggio 1957)

1. «incocalio» … Argentina: ammaliato, stre­ gato dalla cameriera Argentina. 2. «mito» ideologico: il mito del mercante quale Goldoni aveva costruito nella prima

fase del suo teatro, in cui esso era visto come portatore di tutta una serie di valori positivi. 3. sociabile: socievole.

4. borghese «mancato»: in quanto non è riuscito a divenire egemonico, come Baratto sostiene poco prima.

Esercitare le competenze CoMPrenDere

> 1. Quali sono le caratteristiche della società veneziana del Settecento, a livello politico, sociale ed economico, descritte all’inizio del brano?

> 2. In che modo la condizione storica veneziana è “registrata” ed emerge nei testi di Goldoni? AnALIzzAre

> 3. Spiega in che senso «il contrasto tra vecchi e giovani, tra mariti e mogli, svela segrete incrinature nella borghesia veneta», ne mette in luce un’inettitudine, un’«insufficienza storica» (rr. 21-23).

> 4. Perché «a Pantalone si sostituisce il rustego» (rr. 28-29)? Quale diverso atteggiamento di fronte alla vita caratterizza i due personaggi?

> 5. Secondo il critico, «il rustego è il tipo […] del borghese mancato» (rr. 33-34)? Quali tratti borghesi il personaggio non riesce a incarnare?

APProfonDIre e InTerPreTAre

> 6. Chiarisci in che modo, nei primi testi, Goldoni esalta la figura del mercante e i valori contrapponendoli a quelli della nobiltà.

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Che Cosa Ci diCono anCora oggi i ClassiCi

Goldoni PerSonAGGI e AMBIenTI ConCreTI La durata di un successo Le commedie di Goldoni vengono oggi frequentemente messe in scena: segno inequivocabile che sono testi vivi, che ci parlano ancora direttamente. A spiegare la durata di tale successo non bastano la leggerezza giocosa, il garbato umorismo, la piacevolezza di quelle opere: ci sono evidentemente ragioni più profonde. Lo spettatore si trova di fronte non a tipi umani astratti, rigidamente stereotipati e convenzionali, ma a personaggi dall’individualità concreta, inconfondibile, dalla grande varietà di sfumature. Goldoni li ritrae con perfetta naturalezza grazie a un’acuta capacità di osservazione della realtà vissuta del suo tempo. Anche gli ambienti balzano in piena evidenza e sono ricreati in modo vivido nei loro tratti caratteristici. Un mondo già borghese Quello di Goldoni era già un mondo sostanzialmente borghese, quindi anche a distanza di tre secoli i caratteri delle sue commedie possono rimanere attuali: lo spettatore può trovare in essi tratti psicologici e comportamentali ancora riconoscibili nelle persone che incontra nella sua vita quotidiana.

I VALorI SoCIALI Inoltre il teatro goldoniano, attraverso quelle figure e le loro vicende, propone valori ancora fondamentali per la convivenza civile oggi. Il forte senso della socialità Lo scrittore ha un forte senso della socialità, cioè dei rapporti che legano le persone nella vita sociale, quindi rappresenta in una luce negativa tutto ciò che può danneggiarli e comprometterli: l’ipocrisia, la menzogna, la superbia e la prepotenza di chi gode di privilegi, l’ostentazione sfacciata del lusso e del potere, l’ozio e il parassitismo. Viceversa esalta ciò che rinsalda la socialità e la rende stabile e durevole:

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la trasparenza nei comportamenti, la fedeltà agli impegni, la serietà, la lealtà, l’onestà, la vita attiva e produttiva, l’attenzione al bene collettivo, che deve sempre essere anteposto a quello personale. La pace Il presupposto necessario di questa feconda socialità è la pace: a differenza di tanta letteratura che nei secoli ha esaltato le virtù guerriere e l’eroismo bellico, il mondo raffigurato da Goldoni è essenzialmente pacifico, perché lo scrittore è convinto che solo così si possa preservare una vita sociale che garantisca la sopravvivenza di quei valori, mentre i conflitti armati li distruggerebbero inesorabilmente. E noi, che abbiamo conosciuto gli orrori della Seconda Guerra mondiale e vediamo costantemente gli altri orrori delle tante guerre sparse oggi per il mondo, siamo ben consapevoli del valore inestimabile della pace.

L’APerTUrA MenTALe Presupposti di una sana socialità, per Goldoni, devono essere anche l’apertura mentale e la mancanza di pregiudizi, altri valori oggi ritenuti fondamentali. La libera affermazione dell’individuo Per lo scrittore la «natura» e la «ragione» esigono che l’individuo possa esprimere liberamente se stesso, contro ogni vincolo assurdo che venga da una tradizione anchilosata. Per questo nelle sue commedie presenta negativamente, con giudizi severi, ogni chiusura retriva, autoritaria, che, specie all’interno della famiglia, mortifichi il diritto alla vita e alla felicità dei giovani e delle donne (cioè coloro che la società patriarcale teneva sottomessi a rigide regole repressive). I rusteghi e il tradizionalismo autoritario Eloquente a tal proposito è una commedia come I rusteghi, dove vengono messi in caricatura dei padri e dei mariti eccessivamente autoritari, che tolgono ogni libertà a mogli e figli, e che alla fine vengono clamorosamente beffati e sconfitti. L’equilibrio tra individuo e collettività Però tra le esigenze dell’individuo e quelle della collettività per Goldoni deve sempre crearsi un perfetto equilibrio, senza che le une prevarichino sulle altre.

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L’eGUAGLIAnzA La convivenza pacifica fra i ceti Sempre la natura e la ragione, per lo scrittore, esigono una fondamentale eguaglianza di diritti fra gli uomini, che non deve essere impedita dal dominio di una classe sull’altra. Il mercante o l’artigiano che lavorano sodo e producono hanno secondo lui, per i loro meriti personali, la stessa dignità di chi possiede un sangue nobile per nascita (anche se Goldoni, che è lontanissimo dall’essere un rivoluzionario, depreca i conflitti che potrebbero nascere dalla rivendicazione dei propri diritti da parte degli strati inferiori e auspica una tranquilla convivenza fra i vari ceti, ciascuno con la sua funzione nel corpo sociale). In tutti questi princìpi che informano il teatro goldoniano, come si è indicato in precedenza, si riconoscono i lineamenti della civiltà illuministica: ebbene, nonostante le tante trasformazioni avvenute fra il Settecento e oggi, essa è ancora alle fondamenta della nostra civiltà attuale e del nostro modo di concepire i rapporti sociali, specie per quanto riguarda il principio dell’eguaglianza, e questo spiega perchè possiamo sentire Goldoni tanto vicino.

PrInCìPI ILLUMInISTICI Il cosmopolitismo Illuministica è anche la dimensione cosmopolita del suo teatro, l’apertura e la curiosità verso altre forme di civiltà presenti in Europa, specie verso paesi più avanzati come Inghilterra e Olanda: e questo trova particolare rispondenza con la mentalità di chi, come noi, vive ormai in una dimensione globale. Oggi sono continui e su scala mondiale gli scambi di prodotti, tecniche, idee, libri, film, trasmissioni televisive, i viaggi e il turismo internazionale sono un fenomeno di massa, tanti giovani vanno a studiare all’estero con il programma “Erasmus” o si spostano in altri paesi per lavorare (spesso però, purtroppo, per una “fuga dei cervelli”, perché in patria non hanno modo di inserirsi in modo confacente nel mondo del lavoro).

progresso non è lineare e irreversibile, ma può avere battute d’arresto o addirittura segnare passi indietro (come dimostra la crisi economica in corso).

LA LInGUA Il teatro goldoniano vive sui palcoscenici attuali anche grazie alla sua lingua. La lingua ardua di Alfieri Le tragedie di Vittorio Alfieri (scrittore di statura certo superiore a quella di Goldoni) difficilmente possono essere messe in scena oggi nella loro veste integrale, perché il linguaggio tragico alfieriano, con il suo lessico aulico e le dure inversioni nell’ordine naturale della parole, suona ostico e a volte incomprensibile per gli spettatori non dotati di una cultura letteraria specialistica. La lingua scorrevole di Goldoni La lingua di Goldoni invece è quella della conversazione quotidiana, e, fatta salva una certa inevitabile patina arcaica, è piana, limpida, scorrevole. Anche il veneziano di alcune commedie è per gran parte comprensibile a un pubblico di altre regioni, e presenta il vantaggio di essere ricco di colore, duttile nella varietà delle sue sfumature espressive, piacevole all’orecchio nella sua musicalità, dotato di una naturale vivacità comica. A sinistra: Leon Bakst, Battista, figurino per una commedia di Carlo Goldoni, 1917, Baltimora (MD, uSA), Evergreen House Foundation. Sotto: Anatoli Afanasyevich Arapov, Venezia, bozzetto per la Locandiera di Carlo Goldoni, 1927, gouache e pastello su cartone, Mosca, Galleria Statale Tretyakov.

La fiducia nel progresso Illuministica ancora è la fiducia goldoniana in un progresso illimitato, che anche noi non possiamo fare a meno di auspicare. Certo che non riusciamo più a condividere l’ottimismo di un secolo come il Settecento, che vedeva solo gli albori del progresso moderno: tre secoli di storia ci hanno insegnanto a scorgere i limiti di quel progresso, il prezzo a volte terribile che è costato (basti pensare al colonialismo, allo sfruttamento e all’alienazione del lavoro, all’inquinamento globale, e così via), e soprattutto ormai sappiamo che il

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facciamo il punto L’eSPerIenzA DI VITA

1. Goldoni viaggiò molto nella sua vita: quest’esperienza è in qualche modo presente nel teatro goldoniano? 2. Venezia e Parigi: che cosa rappresentano per Goldoni? 3. Come visse Goldoni l’esperienza della Rivoluzione francese? LA forMAzIone

4. Quali motivi culturali ed etici portarono Goldoni a rifiutare la Commedia dell’Arte? 5. C’è una sorta di debito di Goldoni verso il teatro comico classico? 6. Come giudica Goldoni le esperienze teatrali dei rivali Chiari e Gozzi? IL MoDeLLo D’InTeLLeTTUALe

7. Come si colloca Goldoni rispetto all’esperienza arcadica e a quella illuministica? 8. Come si spiega la marcata attenzione di Goldoni per il mondo borghese? L’ATTIVITà TeATrALe

9. Prendendo in considerazione il T1 («Mondo» e «Teatro» nella poetica di Goldoni) rifletti su tutte le criti-

che che Goldoni rivolge alla Commedia dell’Arte. 10. Verifica quali nuovi ruoli la riforma di Goldoni proponga agli autori del testo drammatico, agli attori, agli impresari, al pubblico. Rifletti anche sulle diverse posizioni delle categorie sopra citate rispetto alla riforma goldoniana. 11. Nelle didascalie che accompagnano le varie commedie è possibile individuare delle indicazioni di regia? Ossia Goldoni dà suggerimenti sulla scenografia, sulla recitazione degli attori, sull’interpretazione del testo? Ci sono dei momenti in cui l’autore riflette sul teatro all’interno del teatro stesso? 12. Come vengono rappresentati i rapporti tra le diverse classi sociali nelle commedie di Goldoni? Ad esempio c’è conflittualità, emulazione, indifferenza tra esse? 13. Borghesia, aristocrazia e popolo quali valori positivi detengono? Quali negativi? 14. Esamina quale evoluzione subisce la figura del mercante all’interno della produzione di Goldoni. 15. Esamina le caratteristiche della figura femminile in Goldoni. Ad esempio è calcolatrice e/o sprovveduta? Come riesce a risolvere situazioni complesse? Rivela una visione del mondo più aperta o più chiusa rispetto a quella degli uomini che la circondano? 16. Esamina la lingua che Goldoni usa nelle sue commedie. Ad esempio è una lingua “alta” o quotidiana ed antiaccademica? Goldoni ricorre all’uso dei dialetti? 17. Quali sono le diverse fasi all’interno della produzione teatrale goldoniana?

478

Ripasso visivo

CArLo GoLDonI (1707-93) Mappe interattive

Ripasso interattivo

eLeMenTI BIoGrAfICI

• Nasce a Venezia da una famiglia borghese nel 1707 • Studia a Perugia e a Rimini da dove fugge per raggiungere la madre a Chioggia con una compagnia di comici; laureatosi in Legge inizia la carriera di avvocatura che abbandona per dedicarsi all’attività di scrittore di teatro

• Lavora con la compagnia di Medebac dal 1748 al 1753, poi passa al teatro San Luca

• Nel 1762 accetta l’invito a recarsi a Parigi per dirigere la Comédie italienne; viene poi assunto a corte come maestro di italiano • Muore a Parigi nel febbraio del 1793

PoeTICA e PenSIero

• Condivide e apprezza i princìpi e i valori del ceto

borghese veneziano (onestà e lealtà, tolleranza, senso civico, laboriosità, socievolezza) ma nell’ultima fase della sua produzione li sottopone a dura critica ed esalta i pregi e le virtù dei ceti popolari • Conduce una critica tagliente dei costumi nobiliari • È polemico nei confronti di alcune caratteristiche della Commedia dell’Arte • Promuove una nuova concezione del teatro che abbia un contatto diretto con la realtà quotidiana

• Intraprende una radicale riforma del teatro comico: la

recitazione degli attori si deve basare su un testo scritto; i personaggi devono essere unici e rappresentati nella loro individualità; contesto, azioni e avvenimenti devono essere verosimili e credibili • La lingua italiana si ispira al modello della conversazione, ma è caratterizzata da una certa convenzionalità • Il dialetto veneziano è impiegato in chiave realisticomimetica e si differenzia in numerosi registri

PrInCIPALI oPere SCrITTI AUToBIoGrAfICI

CoMMeDIe Commedie della prima fase (1738-52) • celebrazione della figura del mercante in contrapposizione polemica alla nobiltà (La putta onorata, La famiglia dell’antiquario) La locandiera Commedie della seconda fase (1753-58) • testi romanzeschi e avventurosi con ambientazioni esotiche (La sposa persiana) • commedie “di carattere” basate su personaggi nevrotici e asociali

• Mémoires (vicende

(I puntigli domestici, Il vecchio bizzarro, La donna stravagante) • commedie di ambiente popolare (Il campiello) Commedie della maturità (1758-71) • descrizione disillusa di vizi e difetti della borghesia veneziana e del conflitto tra i giovani liberi e i vecchi retrivi (I rusteghi, Le smanie della villeggiatura) • esaltazione della spontaneità, della vitalità e dell’intraprendenza dei ceti popolari (Le baruffe chiozzotte) • risvolti autobiografici (Una delle ultime sere di Carnovale)

legate alla carriera professionale e all’ambiente teatrale con ritratti divertenti di personaggi famosi)

La Locandiera Temi

• Osservazione pungente della realtà • Critica della nobiltà dissipata, superba e oziosa • Cinismo e desiderio di rivalsa sociale

finalità dell’opera

• L’opera ha un intento morale e istruttivo, per dare un esempio della «barbara crudeltà» con cui le seduttrici «si burlano dei miserabili che hanno vinti»

Lingua e stile

• Personaggi caratterizzati sul piano linguistico-espressivo

• Uso dell’italiano “parlato” con alcuni residui dialettali

• Sintassi prevalentemente paratattica 479

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

In sintesi

CArLo GoLDonI (1707-93) Verifica interattiva

Tra i massimi esponenti della drammaturgia sul versante della commedia, Goldoni rappresenta un nuovo tipo d’intellettuale, che preannuncia per molti aspetti la figura dello scrittore destinata a imporsi nella società borghese dell’Ottocento: è un autore che vive esclusivamente dei proventi della professione intellettuale e che scrive per il “mercato”, adattando le proprie scelte artistiche ai gusti degli spettatori. Il teatro è infatti l’unico settore della cultura italiana in cui esista già nel Settecento un vero e proprio mercato, particolarmente vivace a Venezia, dove Goldoni si forma e svolge gran parte della sua attività.

L’ILLUMInISMo DI GoLDonI A Venezia l’assimilazione degli ideali illuministi rimane circoscritta all’ambito teorico, senza trasformarsi in concreta azione riformista a livello politico e amministrativo. In tale contesto Goldoni fa propri i principali aspetti della visione illuminista diffusa nei ceti medi borghesi: il pragmatismo, il senso della socialità come valore, la polemica contro i vizi della nobiltà, gli spunti egualitari. Tuttavia egli non auspica un cambiamento radicale della società, un sovvertimento dell’ordine costituito, bensì una proficua collaborazione tra i ceti che favorisca un progresso senza scosse, ispirato ai princìpi della Ragione.

LA rIforMA DeLLA CoMMeDIA Nella seconda metà del Settecento il panorama teatrale italiano era ancora dominato dalla Commedia dell’Arte: gli attori impersonavano maschere tradizionali, corrispondenti a tipi fissi, improvvisando le battute sulla base di un canovaccio che dava indicazioni sommarie dell’intreccio. Nei confronti di questa forma teatrale, divenuta ripetitiva e volgare, Goldoni assume un atteggiamento polemico, coerente con il clima della cultura arcadica e razionalista, che aspira all’ordine, al buon gusto e alla naturalezza contro le stravaganze del Barocco. Nella sua “riforma” della commedia Goldoni non si rifà tuttavia a modelli astratti e libreschi, com’è tipico invece del classicismo settecentesco, bensì al «Mondo» e al «Teatro»: egli intende proporre opere che incontrino il favore del pubblico e che riproducano verisimilmente la società contemporanea. I tipi fissi e le maschere tradizionali della Commedia dell’Arte sono sostituiti da caratteri individuali, che hanno la complessità psicologica delle persone reali e sono posti in relazione con un preciso ambiente sociale; gli intrecci si fanno più lineari, coerenti e verisimili, rispecchiando la realtà concreta e quotidiana; gli attori sono chiamati a memorizzare e a recitare sulla scena le battute del testo scritto dall’autore; alla comicità volgare e buffonesca si preferiscono toni più composti. Tali cambiamenti trovano inizialmente forti resistenze da parte degli attori, ancora legati alla tecnica dell’improvvisazione, da

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parte del pubblico, abituato a un diverso tipo di spettacolo e di comicità, e da parte degli impresari, poco propensi ad affrontare imprese rischiose. Per queste ragioni Goldoni attua la sua riforma gradualmente: inizia con la stesura delle battute del protagonista (1738), dopo alcuni anni passa a scrivere quelle di tutti i personaggi (1743) e conserva a lungo le maschere della Commedia dell’Arte, trasformandole da tipi fissi in caratteri prima di eliminarle completamente.

L’ITInerArIo DeLLA CoMMeDIA GoLDonIAnA Al centro della commedia goldoniana si trova la società veneziana contemporanea, che, pur essendo governata da un’oligarchia nobiliare e conservatrice, aveva visto lo sviluppo di un solido ceto mercantile e borghese. Goldoni si fa interprete dei valori e della visione della realtà di questa classe sociale, a cui egli stesso appartiene, esaltando nella prima fase della sua produzione (fino al 1752) la figura del mercante economo, onesto e laborioso contro quella del nobile dissipatore, superbo e ozioso. A questa fase di intensa creatività, durante la quale è attuata la “riforma”, ne segue una di crisi (1753-58), provocata dalle critiche degli avversari e dai mutati gusti del pubblico, che preferisce commedie avventurose d’ambientazione esotica. Goldoni asseconda in parte le nuove esigenze “di mercato”, scrivendo testi romanzeschi; continua tuttavia a scrivere commedie “di carattere”, incentrate ora su personaggi nevrotici e asociali, nei quali sembrano riflettersi le difficoltà psicologiche dell’autore. Superata la crisi, Goldoni torna, nella produzione della maturità (1758-62), a ritrarre la borghesia veneziana, ma con occhio più critico, mettendone in luce l’attaccamento all’interesse economico, la ristrettezza di vedute, oppure l’ostentazione, la smania d’apparire; con maggiore simpatia sono invece considerati i ceti subalterni, di cui si esaltano la socialità, la vitalità, l’intraprendenza. Con il trasferimento a Parigi, di fronte a un pubblico ancora fermo agli scenari della Commedia dell’Arte, Goldoni è costretto a rinunciare alle soluzioni più moderne del suo repertorio per privilegiare intrecci complicati, basati sullo schema dell’equivoco.

GLI SCrITTI AUToBIoGrAfICI Nell’ultima fase della sua vita Goldoni si dedica alla composizione di un’opera autobiografica in francese, i Mémoires, in cui ripercorre le tappe della propria vocazione e della propria carriera teatrale. Si tratta di una fonte preziosa per la conoscenza dell’ambiente teatrale e della poetica dell’autore. Di analogo contenuto sono le cosiddette Memorie italiane, ossia l’insieme delle prefazioni premesse dall’autore all’edizione delle sue Opere.

LA LInGUA L’adesione alla realtà condiziona la lingua goldoniana, che riflette quella della conversazione quotidiana. Una certa piattezza e convenzionalità, tipica dell’italiano “parlato” (ri-

servato nella realtà alla comunicazione ufficiale o tra persone di diversa provenienza), caratterizza le commedie “in lingua”, mentre maggiore vivacità e colore ha il dialetto utilizzato nelle opere destinate al pubblico veneziano.

Bibliografia La critica

` EDIZIONI DEllE OPERE Per la ricerca nel web

Opere complete di C. Goldoni, a cura di G. Ortolani, E. Maddalena e C. Musatti, 40 voll., Municipio di Venezia, Venezia 1907-60 • Tutte le opere, a cura di G. Ortolani, 14 voll., Mondadori, Milano 1935-56.

` EDIZIONI ANTOlOGIchE

Opere, a cura di F. Zampieri, Ricciardi, Milano-Napoli 1954 • Commedie, a cura di G. Petronio, 2 voll., Rizzoli, Milano 1958 • Commedie, a cura di E. Vittorini, 4 voll., Einaudi, Torino 1966 • Opere, a cura di G. Folena - N. Mangini, Mursia, Milano 1969 • I capolavori di Carlo Goldoni, a cura di G. Ortolani - P. Gibellini, con un saggio di G. Folena, 4 voll., Mondadori, Milano 1970 • Commedie, a cura di N. Mangini, 3 voll., utet, Torino 1971 • Commedie, a cura di G. Davico Bonino, 2 voll., Garzanti, Milano 1972 • Commedie, a cura di K. Ringger, 4 voll., Einaudi, Torino 1972 • Commedie, a cura di M. Pieri, 3 voll., Einaudi, Torino 1992 • I capolavori, a cura di G. Antonucci, 5 voll., Newton Compton, Roma 1992 • Memorie, trad. it. di E. Levi, Einaudi, Torino 1967 • Memorie, trad. it. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 1985.

` EDIZIONI SINGOlE

Numerose le edizioni di singole commedie, in collane scolastiche ed economiche edite da Einaudi, Mondadori, Rizzoli, Mursia.

` STORIA DEllA cRITIcA G. Petronio, Goldoni, Palumbo, Palermo 1958 • F. ZamPieri, Carlo Goldoni, in I classici italiani nella storia della critica, La Nuova Italia, Firenze 1961 • AA.VV., Il punto su Goldoni, a cura di G. Petronio, Laterza, Roma-Bari 1986. ` BIBlIOGRAfIA GENERAlE Bibliografia goldoniana (1908-

1957), a cura di N. Mangini, Istituto per la Collaborazione Culturale, Venezia-Roma 1961, periodicamente aggiornata dal 1968 nella rivista «Studi goldoniani».

` BIOGRAfIE

G. ortolani, Della vita e dell’arte di Carlo Goldoni, Istituto Veneto di Arti Grafiche, Venezia 1907 • H. C. CHatField-taylor, Goldoni. A biography, Duffield and C., New York 1913 (con il titolo Goldoni, ridotto e tradotto, con prefazione di E. Maddalena, Laterza, Bari 1927).

` STUDI cRITIcI

a. momiGliano, Studi goldoniani, composti tra il 1904 e il 1936, a cura di V. Branca, Istituto per la Collaborazione Culturale, Venezia-Roma 1959 • S. d’amiCo, Storia del teatro drammatico, vol. II, Bulzoni, Roma 1982 (1940) • m. BerenGo, La società veneta alla fine del Settecento, Sansoni, Firenze 1956 • G. Folena, Il linguaggio del Goldoni: dall’improvviso al concertato (1957) e L’esperienza linguistica del Goldoni (1958), ora in L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Einaudi, Torino 1983 • m. Baratto, Tre studi sul teatro (Ruzante, Aretino, Goldoni), Neri-Pozza, Vicenza 1964 • W. Binni, Carlo Goldoni, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Cecchi - N. Sapegno, Il Settecento, Garzanti, Milano 1968 • l. ZorZi, Venezia: la Repubblica a teatro, in Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Einaudi, Torino 1977 • G. niCaStro, Carlo Goldoni, in La letteratura italiana. Storia e testi, Il Settecento. L’Arcadia e l’età delle riforme, vol. VI, tomo II, Laterza, Roma-Bari 1974 • S. Ferrone, Carlo Goldoni. Vita, opere, critica, messinscena, Sansoni, Firenze 1975 (2a ed. riveduta e ampliata, 1990) •

W. Binni, La misura umana del Goldoni, in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura italiana del Settecento, La Nuova Italia, Firenze 1976 • F. Fido, Guida a Goldoni. Teatro e società nel Settecento, Einaudi, Torino 1977 • B. anGlani, Goldoni: il mercato, la scena, l’utopia, Liguori, Napoli 1983 • F. Fido, Da Venezia all’Europa. Prospettive sull’ultimo Goldoni, Bulzoni, Roma 1984 • m. Baratto, La letteratura teatrale del Settecento in Italia. Studi e letture su Carlo Goldoni, Neri-Pozza, Vicenza 1985 • P. d. SteWart, Goldoni fra letteratura e teatro, Olschki, Firenze 1989 • l. ZorZi, L’attore, la commedia, il drammaturgo, Einaudi, Torino 1990 • r. teSSari, La drammaturgia da Eschilo a Goldoni, Laterza, Roma-Bari 1993 • F. anGelini, Vita di Goldoni, Laterza, Roma-Bari 1993 • id., «La locandiera» di Carlo Goldoni, in Letteratura italiana. Le opere, vol. II, Dal Cinquecento al Settecento, Einaudi, Torino 1993 • F. Fido, Le inquietudini di Goldoni. Saggi e letture, Costa & Nolan, Genova 1995 • r. teSSari, Teatro e spettacolo nel Settecento, Laterza, Roma-Bari 1995 • aa.VV., Carlo Goldoni. 1793-1993, Atti del convegno del bicentenario, a cura di C. Alberti e G. Pizzamiglio, Regione del Veneto, Venezia 1995 • r. alonGe, Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese, Garzanti, Milano 2004 • F. Fido, L’avvocato di buon gusto: nuovi studi goldoniani, Longo, Ravenna 2008 • a. SPranZi, La “Locandiera” di Carlo Goldoni: una magnifica denigrazione della femminilità, Unicopli, Milano 2010 • r. alonGe, Goldoni il libertino: eros, violenza, morte, Laterza, Roma 2010 • S. Ferrone, La vita e il teatro di Carlo Goldoni, Marsilio, Venezia 2011.

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PALESTRA DI ALLENAMENTO

PRIMA PROVA TIPOLOGIA A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

T4

Le smanie per la villeggiatura da Le smanie per la villeggiatura, Atto Secondo, Scena I Nella cosiddetta Trilogia della villeggiatura (Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura, 1761) Goldoni mette in scena l’abitudine borghese di trascorrere periodi di vacanza in campagna (la “villa”), durante i quali consolidare relazioni sociali ma soprattutto ostentare le proprie possibilità economiche. Nella prima delle tre commedie, da cui è tratta la scena qui presentata, vengono descritti i frenetici preparativi per la partenza.

ATTO SECONDO SCENA PRIMA Camera di Leonardo1 Vittoria e Paolo2 Via, via, non istate più a taroccare3. Lasciate, che le donne finiscano di fare quel che hanno da fare, e piuttosto v’aiuterò a terminare il baule per mio fratello. paolo Non so, che dire. Siamo tanti in casa, e pare ch’io solo abbia da fare ogni cosa. vittoria Presto, presto. Facciamo, che quando torna il signor Leonardo, trovi tutte le cose fatte. Ora son contentissima, a mezzogiorno avrò in casa il mio abito nuovo. paolo Gliel’ha poi finito il sarto? vittoria Sì, l’ha finito; ma da colui non mi servo più. paolo E perché, signora? Lo ha fatto male? vittoria No, per dir la verità, è riuscito bellissimo. Mi sta bene, è un abito di buon gusto, che forse forse farà la prima figura, e farà crepar qualcheduno d’invidia. paolo E perché dunque è sdegnata col sarto? vittoria Perché mi ha fatto un’impertinenza. Ha voluto i danari subito per la stoffa e per la fattura4. paolo Perdoni, non mi par che abbia gran torto. Mi ha detto più volte che ha un conto lungo, e che voleva esser saldato. vittoria E bene, doveva aggiungere alla lunga polizza5 anche questo conto, e sarebbe stato pagato di tutto. paolo E quando sarebbe stato pagato? vittoria

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1. Leonardo: protagonista della commedia, è un borghese vacuo e sfaccendato, sommerso dai debiti, preoccupato unicamente di non sfigurare in società. 2. Vittoria e Paolo: Vittoria, sorella di

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Leonardo, è una ragazza frivola e superficiale, ossessionata dalla volontà di apparire “alla moda”. Paolo, il cameriere di Leonardo, è uomo di modesta condizione sociale ma caratterizzato da buon senso e da una concreta saggezza.

3. taroccare: brontolare. 4. la fattura: il confezionamento dell’abito. 5. polizza: biglietto, documento che attesta un credito. È sinonimo di conto.

Nuovo esame di Stato

20

vittoria

Al ritorno della villeggiatura. Crede ella di ritornar di campagna con dei quattrini? vittoria È facilissimo. In campagna si gioca. Io sono piuttosto fortunata nel gioco, e probabilmente l’avrei pagato senza sagrificare quel poco che mio fratello mi passa per il mio vestito. paolo A buon conto quest’abito è pagato, e non ci ha più da pensare. vittoria Sì, ma sono restata senza quattrini. paolo Che importa? Ella non ne ha per ora da spendere. vittoria E come ho da far a giocare? paolo Ai giochetti si può perder poco. vittoria Oh! io non gioco a giochetti. Non ci ho piacere, non vo applicare6. In città gioco qualche volta per compiacenza; ma in campagna il mio divertimento, la mia passione, è il faraone7. paolo Per quest’anno le converrà aver pazienza. vittoria Oh, questo poi, no. Vo’ giocare, perché mi piace giocare. Vo’ giocare, perché ho bisogno di vincere, ed è necessario che io giochi, per non far dire di me la conversazione8. In ogni caso io mi fido, io mi comprometto di voi9. paolo Di me? vittoria Sì, di voi. Sarebbe gran cosa, che mi anticipaste qualche danaro, a conto del mio vestiario dell’anno venturo10? paolo Perdoni. Mi pare che ella lo abbia intaccato della metà almeno. vittoria Che importa? Quando l’ho avuto, l’ho avuto. Io non credo, che vi farete pregare per questo. paolo Per me la servirei volentieri, ma non ne ho. È vero che quantunque io non abbia che il titolo, ed il salario di cameriere, ho l’onor di servire il padrone da fattore e da mastro di casa11. Ma la cassa ch’io tengo è così ristretta, che non arrivo mai a poter pagare quello che alla giornata si spende; e per dirle la verità, sono indietro anch’io di sei mesi del mio onorario. vittoria Lo dirò a mio fratello, e mi darà egli il bisogno12. paolo Signora, si accerti13 che ora è più che mai in ristrettezze grandissime, e non si lusinghi14, perché non le può dar niente. vittoria Ci sarà del grano in campagna. paolo Non ci sarà nemmeno il bisogno per fare il pane che occorre. vittoria L’uva non sarà venduta. paolo È venduta anche l’uva. vittoria Anche l’uva? paolo E se andiamo di questo passo, signora... vittoria Non sarà così di mio zio. paolo Oh! quello ha il grano, il vino e i danari. vittoria E non possiamo noi prevalerci di qualche cosa? paolo Non signora. Hanno fatto le divisioni. Ciascheduno conosce il suo. Sono separate le fattorie. Non vi è niente da sperare da quella parte. paolo

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6. non vo applicare: non mi ci voglio dedicare. 7. faraone: gioco d’azzardo con le carte, molto diffuso nel XVIII secolo, consistente nel puntare somme di denaro sulla carta che di volta in volta viene scoperta dal mazziere.

8. per ... conversazione: perché non si sparli di me. 9. mi comprometto di voi: vengo a un compromesso con voi. 10. mi anticipaste ... venturo: Vittoria, in quanto donna, non dispone liberamente di denaro, che le viene ammini-

strato proprio dal cameriere Paolo (cfr. nota seguente). 11. mastro di casa: amministratore delle proprietà e del patrimonio familiare. 12. il bisogno: il necessario. 13. si accerti: stia certa, sappia. 14. non si lusinghi: non s’illuda.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Mio fratello dunque va in precipizio15. paolo Se non ci rimedia. vittoria E come avrebbe da rimediarci? paolo Regolar le spese. Cambiar sistema di vivere. Abbandonar soprattutto la villeggiatura. vittoria Abbandonar la villeggiatura? Si vede bene che siete un uomo da niente. Ristringa le spese in casa. Scemi la tavola in città, minori la servitù16; le dia meno salario. Si vesta con meno sfarzo, risparmi quel che getta in Livorno. Ma la villeggiatura si deve fare, e ha da essere da par nostro, grandiosa secondo il solito, e colla solita proprietà. paolo Crede ella, che possa durar lungo tempo? vittoria Che duri fin che io ci sono. La mia dote è in deposito, e spero che non tarderò a maritarmi. paolo E intanto?... vittoria E intanto terminiamo il baule. paolo Ecco il padrone. vittoria Non gli diciamo niente per ora. Non lo mettiamo in melanconia. Ho piacere che sia di buon animo, che si parta con allegria. Terminiamo di empir il baule. (Si affrettano tutti e due a riporre il baule) vittoria

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15. in precipizio: in bancarotta. 16. Scemi … servitù: Riduca le spese per il vitto in città, diminuisca il numero dei domestici.

COMPRENSIONE E ANALISI > 1. Riassumi la scena proposta in max. 10 righe.

> 2. Individua e chiarisci i numerosi riferimenti al denaro presenti nel testo. > 3. Riconosci, tra le battute di Vittoria, quelle che permettono di identificarla come una borghese attenta solo alle apparenze.

> 4. Spiega il diverso significato nel quale Paolo e Vittoria usano l’avverbio «intanto» (rr. 75-76). Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda in modo organico le risposte agli spunti proposti. GUIDA ALL’INTERPRETAZIONE Partendo dalla scena tratta dalle Smanie per la villeggiatura di Goldoni, scrivi un commento che non superi le cinque colonne di metà di foglio protocollo (circa 3500 caratteri): prendi in considerazione tutti gli elementi del testo che ti sembrino significativi ed elabora un discorso coerente e organizzato. Puoi condurre la tua riflessione analizzando alcuni tra i seguenti aspetti: – l’uso del “lei” e del “voi” presente nelle battute dei due personaggi nel rivolgersi l’uno all’altra; – la saggia oculatezza del domestico Paolo contrapposta all’irresponsabile sconsideratezza della borghese Vittoria; – gli “oggetti di scena”, presenti o a cui si fa riferimento, così importanti nel teatro goldoniano per il loro valore realistico e insieme simbolico. Sostieni le tue affermazioni con esempi tratti dal testo.

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Nuovo esame di Stato

Mantenendo il collegamento con il testo che hai analizzato e in riferimento alle tue conoscenze ed esperienze, prosegui il tuo commento scegliendo tra i seguenti spunti: – la funzione mimetica, critica e pedagogica del teatro secondo Goldoni, anche considerando quanto l’autore stesso scrive proprio nella prefazione alle Smanie per la villeggiatura: I personaggi principali [...] sono di quell’ordine di persone che ho voluto prendere precisamente di mira; cioè di un rango civile, non nobile e non ricco; poiché i nobili e ricchi sono autorizzati dal grado e dalla fortuna a fare qualche cosa di più degli altri. L’ambizione de’ piccioli vuol figurare coi grandi, e questo è il ridicolo ch’io ho cercato di porre in veduta, per correggerlo, se fia possibile.

– la rappresentazione delle classi sociali nella letteratura e nell’arte del Settecento; – il lungo e accidentato percorso che ha portato alla conquista dei diritti delle donne non ha tuttavia raggiunto risultati né stabili né uniformi: in numerosi contesti geografici e/o culturali la donna vive ancora in condizioni di inferiorità, subendo anzi spesso discriminazioni e violenze. Approfondisci il tema facendo eventualmente riferimento ad alcuni esempi.

PALESTRA DI ALLENAMENTO

PRIMA PROVA TIPOLOGIA C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Ambito artistico e letterario argomento

L’attualità del teatro

Nella Venezia del Settecento, in cui Goldoni visse e rappresentò le sue opere, il genere teatrale era molto apprezzato e rispecchiava i gusti della società. Qual è il ruolo del teatro nel panorama culturale odierno? Pensi che le rappresentazioni dal vivo siano una forma di espressione artistica ancora attuale oppure ritieni che siano altri generi d’arte a raccontare meglio l’età contemporanea? Puoi articolare la struttura della tua riflessione in paragrafi opportunamente titolati e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima in una sintesi coerente il contenuto.

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Capitolo 8

Giuseppe Parini Le prime odi e la battaglia illuministica Parini offre la figura dell’intellettuale impegnato nella battaglia civile, inteso a combattere aberrazioni e storture in nome del progresso e della ragione, a diffondere idee nuove che migliorino la vita associata: una figura che appare in linea con le tendenze della contemporanea civiltà illuministica. Le opere che riflettono il suo impegno sono innanzitutto le Odi degli anni Cinquanta e Sessanta. Gli argomenti in esse trattati sono di stringente attualità, come il problema dell’igiene e della salubrità dell’aria cittadina, l’educazione dei giovani, le scoperte della scienza quali l’invenzione del vaccino contro il vaiolo, la miseria diffusa nei ceti inferiori e la criminalità. Sono testi animati dalla fiducia di poter trasformare la realtà con la diffusione dei «lumi», delle idee vere e giuste. 486

Nell’affrontare simili argomenti Parini ricorre a un linguaggio in parte innovativo, capace di suscitare immagini fortemente sensibili, visive, sonore, olfattive, però non porta fino in fondo una rivoluzione della lingua poetica, poiché resta prevalente in lui la preoccupazione di legittimare la presenza in poesia di una materia prosaica con gli strumenti della tradizione classica, il lessico aulico, la sintassi complessa, la ricchezza di figure retoriche.

Va per negletta via ognor l’util cercando la calda fantasia, che sol felice è quando l’utile unir può al vanto di lusinghevol canto. (La salubrità dell’aria,  vv. 127-132)

esso esercita sul poeta con la sua eleganza e raffinatezza. Ma proprio questa ambiguità fra sdegno moralistico e vagheggiamento sensuale finisce per costituire l’aspetto più accattivante dell’opera, che altrimenti rischierebbe di apparire monotona, arida e scostante. L’ambiguità si trasferisce nelle scelte stilistiche: il linguaggio eletto e prezioso usato per trattare argomenti banali e mediocri dovrebbe avere una funzione corrosiva, come veicolo di ironia, attraverso lo stridore che viene a crearsi con la piattezza della realtà rappresentata, invece vale proprio a rivelare il compiacimento del poeta per l’eleganza degli ambienti aristocratici.

Quali al Mattino, quai dopo il Mezzodì, quali la Sera esser debban tue cure apprenderai, se in mezzo a gli ozii tuoi ozio ti resta pur di tender gli orecchi a’ versi miei. (Il Mattino, vv. 11-15)

L’ultimo Parini Il Mattino e il Mezzogiorno Le prime due parti del poemetto il Giorno, il Mattino e il Mezzogiorno, pubblicate rispettivamente nel 1763 e nel 1765, si collegano alla battaglia civile delle prime Odi, mettendo in luce polemicamente gli aspetti negativi della classe nobiliare, la sua vita oziosa e improduttiva e la sua immoralità. Lo strumento della satira è principalmente l’ironia: il poeta finge di celebrare iperbolicamente la vita frivola e vuota dell’aristocrazia, ma proprio in tal modo ne fa emergere in piena luce tutta la negatività. Il poeta però è ben lontano dall’auspicare l’eliminazione di quella classe: il fine della sua satira è educare la nobiltà, indicarle la via del ricupero dell’originaria funzione positiva nella società. Non manca in questa rappresentazione una sottile ambiguità: l’indugio nel descrivere minutamente il mondo nobiliare tradisce il fascino che

Nelle ultime odi affiorano delusione e disaffezione per l’impegno militante e si può rilevare un allontanamento dalle finalità civili. Scompaiono la trattazione di argomenti attuali e gli atteggiamenti polemici, sostituiti da temi encomiastici o galanti, o vi prevale la celebrazione della poesia e dei valori umanistici. Ne risentono gli aspetti formali, che evolvono verso il Neoclassicismo, cioè verso il culto dell’armonia, della serenità, di una compostezza di linee levigata e persino gelida. A queste mutate tendenze si ispirano anche le due ultime parti del Giorno, il Vespro e la Notte: la polemica antinobiliare si fa estremamente più sfumata, l’ironia meno mordace, e si afferma l’osservazione della commedia mondana, ora divertita, ora segnata dalla malinconia per il fluire del tempo che fa svanire gioventù e bellezza. Traspare da queste ultime parti del poemetto il senso del fallimento del programma riformatore dell’Illuminismo, un clima di sfiducia e di ripiegamento. 487

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

1

L’ordinazione sacerdotale

L’Accademia dei Trasformati

L’attività di precettore

La vita Il precettore Giuseppe Parino (che preferì più tardi modificare il proprio cognome in Parini) nacque il 23 maggio 1729 a Bosisio, in Brianza, da una famiglia di modeste condizioni (il padre era un piccolo commerciante di seta). Dopo i primi studi, a dieci anni fu condotto a Milano presso la prozia Anna Maria Lattuada, che, morendo poco dopo, nel marzo 1740, gli lasciò una piccola rendita annua, a condizione che divenisse sacerdote: così il giovane, pur senza vocazione, intraprese la carriera ecclesiastica (era in effetti questa l’unica via attraverso cui, allora, i ragazzi poveri potevano accedere agli studi). Nel 1754 fu ordinato sacerdote. Nel frattempo, nel 1752, a ventitré anni, aveva pubblicato una raccolta di liriche, Alcune poesie di Ripano Eupilino (Ripano era l’anagramma di Parino, Eupili il nome latino del lago di Pusiano, presso cui il poeta era nato), che contribuirono a farlo conoscere negli ambienti letterari e gli valsero l’ammissione all’Accademia dei Trasformati. Era questo uno dei centri più importanti della cultura milanese, in cui conveniva la nobiltà più aperta alle nuove istanze illuministiche, con posizioni però moderate, aliene dagli atteggiamenti polemici ed eversivi dell’Accademia dei Pugni ( Il contesto, p. 256) dei fratelli Verri e di Cesare Beccaria ( cap. 4, p. 335); posizioni che si riflettevano anche in campo letterario, in quanto i Trasformati erano fautori di una conciliazione tra le esigenze di una cultura moderna, civilmente impegnata, e la tradizione classica. Il giovane Parini incontrò così un ambiente culturale che rispondeva perfettamente ai suoi orientamenti ideologici e letterari. Nello stesso 1754 entrò al servizio del duca Gabrio Serbelloni, come precettore dei figli (anche questa era una condizione tipica dei preti poveri del tempo, che non avevano altri mezzi per vivere). Il giovane intellettuale proveniente dai ceti inferiori era in certa misura inserito nell’ambiente nobiliare, sia pure in una posizione subalterna, e, dall’osservatorio del palazzo Serbelloni, poteva conoscere dall’interno il mondo dell’aristocrazia milanese, che di lì a poco avrebbe rappresentato satiricamente nel Giorno. Casa

Parini e il suo tempo Alcune poesie di Ripano Eupilino

La vita rustica La salubrità dell’aria

Intraprende la carriera ecclesiastica Nasce a Bosisio da una famiglia di modeste condizioni

Si trasferisce a Milano presso la zia

È ammesso all’Accademia dei Trasformati

È ordinato sacerdote; entra al servizio del duca Serbelloni come precettore

Periodo giovanile

1729 1734 1739

Il Mattino Il Mezzogiorno

Al servizio della nobiltà milanese

1740 1751 In Francia inizia ad essere pubblicata l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert

488

Si licenzia da casa Serbelloni e passa al servizio di Carlo Imbonati

1754

1762

1763

Politica di riforme nel milanese (Maria Teresa d’Asburgo) e nel napoletano (Borboni)

1764-66

Pubblicazione della rivista milanese “Il Caffè”

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

Serbelloni era un ambiente culturale molto vivo: la duchessa Maria Vittoria, che di fatto era separata dal marito ed aveva una relazione con Pietro Verri, era una donna colta, che seguiva con interesse la cultura illuministica francese. Tuttavia il giovane abate di umili origini e di idee avanzate, convinto assertore del principio di uguaglianza, doveva nutrire un senso di fastidio e di risentimento per quel mondo nobiliare superbo dei suoi privilegi. In seguito a una discussione con la duchessa (aveva preso le difese della figlia del maestro di musica Sammartini, dalla nobildonna trattata troppo bruscamente), nel 1762 si licenziò da casa Serbelloni, e l’anno dopo divenne precettore di Carlo Imbonati, il giovane figlio del conte Giovanni Maria (colui che aveva riportato in vita l’Accademia dei Trasformati), conservando l’incarico fino al 1768.

L’intellettuale al servizio dello Stato riformatore Il Mattino e il Mezzogiorno

Gli incarichi ufficiali

L’incontro con gli artisti neoclassici

Nel frattempo, oltre ad alcune odi di argomento civile, aveva pubblicato due poemetti satirici contro la nobiltà oziosa e improduttiva, il Mattino (1763) e il Mezzogiorno (1765), che, per quanto usciti anonimi, furono subito riconosciuti per suoi e gli valsero grande prestigio. Il governo austriaco della Lombardia, impegnato nelle riforme promosse dall’assolutismo illuminato dell’imperatrice Maria Teresa (le quali, tra l’altro, tendevano a colpire i privilegi feudali della nobiltà), vedeva con favore gli intellettuali di orientamento avanzato e tendeva ad offrire loro incarichi di responsabilità. Così il conte di Firmian, governatore di Milano, nel 1768 affidò a Parini la direzione della semiufficiale “Gazzetta di Milano”, poi l’anno successivo lo chiamò alla cattedra di “belle lettere” nelle Scuole Palatine (le scuole pubbliche istituite da Maria Teresa). Nel 1773 tali scuole si trasferirono nel palazzo di Brera, già proprietà del disciolto Ordine dei gesuiti, e nel 1776 ad esse si aggregò l’Accademia di Belle Arti. Parini si trovò così a contatto con artisti quali il pittore Andrea Appiani e l’architetto Giuseppe Piermarini, che seguivano il nuovo orientamento neoclassico, ispirato a criteri di armonia, perfetta proporzione, «nobile semplicità» e «calma grandezza», secondo i princìpi enunciati dallo storico dell’arte antica Johann Joachim Winckelmann (1717-68). Questa

La musica La laurea

La caduta

Alla Musa Il Vespro e la Notte

Assume la direzione della “Gazzetta di Milano”. È chiamato a ricoprire la cattedra di “belle lettere” nelle Scuole Palatine

Frequenta gli artisti neoclassici attivi all’Accademia di Belle Arti

Deluso dalla politica di Giuseppe II, rinuncia all’attività intellettuale militante

È nominato sovrintendente delle scuole di Brera

Collabora per breve tempo con la Municipalità

Al servizio dello Stato

1768

1776

1780

1789 1791

Giuseppe II, succeduto a Maria Teresa, attua una politica riformista ma autoritaria

Rivoluzione francese

Muore

Il ritiro

1796 I francesi conquistano Milano

1799 Gli austriaci tornano a Milano

489

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

vicinanza agli artisti neoclassici fu decisiva per gli orientamenti poetici della sua ultima stagione, come meglio vedremo più avanti ( Le ultime odi, p. 545). Oltre alla cattedra Parini ebbe vari altri incarichi ufficiali, sinché nel 1791 fu nominato sovrintendente nelle scuole di Brera. Parini veniva così a coincidere, al pari di Pietro Verri e Cesare Beccaria, con la figura tipica dell’intellettuale illuminista milanese, che era direttamente al servizio dello Stato riformatore ed assumeva incarichi ufficiali nell’amministrazione.

La delusione della Rivoluzione francese e gli ultimi anni Le riforme di Giuseppe II

I dissidi con i nuovi governanti

Come gli altri intellettuali progressisti milanesi Parini subì però il trauma delle riforme radicali del successore di Maria Teresa, Giuseppe II, che, in nome di un’astratta furia razionalistica, sconvolse tutta una serie di istituzioni, imponendo direttive autoritarie sull’organizzazione della cultura ( L’ultimo Parini: la delusione storica, p. 516). Il poeta, ferito e deluso nelle sue più profonde convinzioni, si ripiegò su se stesso e si allontanò dall’attività intellettuale militante. Scoppiata la Rivoluzione francese nel 1789, in un primo tempo, come altri intellettuali riformatori, la vide con favore e speranza, come realizzazione dei princìpi illuministici di libertà ed eguaglianza, ma poi, dopo gli eccessi autoritari e sanguinari del Terrore, assunse posizioni sempre più negative. Con l’ingresso dei francesi a Milano nel 1796 fu chiamato a far parte della Municipalità, in una commissione che si occupava della religione e dell’istruzione pubblica. Ben presto però sorse un dissidio tra la commissione e l’indirizzo generale della Municipalità, e Parini fu allontanato. Il poeta allora, ormai vecchio e di malferma salute, si ritirò in un isolamento sdegnoso. Quando nel 1799 gli austriaci tornarono a Milano, scatenando la repressione contro chi si era compromesso con il governo rivoluzionario, Parini per il suo prestigio fu rispettato. Morì pochi mesi dopo, il 15 agosto. Poche ore prima della morte scrisse un sonetto, Predaro i Filistei l’arca di Dio, in cui, con immagini bibliche, lodava Dio di aver restituito Milano all’Austria, ma ammoniva anche i vincitori a non compiere nuove rapine e nuovi scempi, dopo quelli perpetrati dai francesi.

I luoghi e la vita di Parini 1 BOSISIO Nasce a Bosisio, in Brianza, il 23 maggio 1729, da una famiglia di modeste condizioni.

2 MILANO

BOSISIO

MILANO

490

Dal 1739 è a Milano, dove trascorrerà tutta la sua esistenza. Nel 1752 la prima raccolta di liriche gli vale l’ammissione all’Accademia dei Trasformati. Dal 1754 (anno in cui è ordinato sacerdote) al 1768 svolge l’attività di precettore. Dal 1768 ricopre incarichi ufficiali per conto del governo austriaco. Con l’ingresso dei francesi in città nel 1796, è chiamato a far parte della Municipalità. Muore il 15 agosto 1799.

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

2 Gli intellettuali illuministi e le riforme di Maria Teresa

Parini e gli illuministi La ricerca della «pubblica felicità» Già dalle linee sommarie di questo ritratto biografico emerge la figura di un intellettuale impegnato nella battaglia civile, teso a combattere, in nome del progresso e della ragione, aberrazioni e storture che affliggono la realtà contemporanea, a diffondere idee nuove che migliorino la vita sociale e giovino al bene comune, alla «pubblica felicità», come allora si diceva. L’opera letteraria di Parini, per lo meno nella sua prima fase, negli anni Sessanta, appare quindi in sintonia con il clima riformistico instaurato dall’assolutismo illuminato di Maria Teresa d’Austria. Come si è visto, tutto il movimento illuministico lombardo risponde con favore alla politica del governo austriaco, e gli intellettuali più innovatori e di maggior prestigio, come Pietro Verri e Cesare Beccaria, si impegnano in prima persona, assumendo cariche di grande responsabilità nell’amministrazione dello Stato. Parini, professore e poi sovrintendente nelle scuole pubbliche, membro di varie commissioni governative, può a buon diritto essere collocato nell’ambito di questa intellettualità avanzata, illuministica e riformatrice, che collabora con il potere. Tuttavia i suoi rapporti con l’Illuminismo in generale e con gli ambienti illuministici lombardi in particolare, se esaminati più da vicino, non appaiono così lineari, e necessitano di un’analisi più dettagliata, che metta in luce le peculiari posizioni del poeta all’interno del più vasto movimento riformatore.

L’atteggiamento verso l’Illuminismo francese Parini e l’irreligiosità dell’Illuminismo francese

L’egualitarismo e l’umanitarismo

Problematico è innanzitutto il suo atteggiamento verso l’Illuminismo francese, nei confronti cioè di pensatori di punta come Voltaire e Rousseau. Parini ne respinge con forza le posizioni antireligiose ed edonistiche, di cui parla in termini molto duri in un fondamentale passo del Mezzogiorno ( T5, p. 533). È vero che, in obbedienza al clima culturale del secolo della ragione e dei Lumi, è ostile a ogni forma di fanatismo religioso, giudica negativamente la Controriforma, ritiene empie le guerre di religione, bolla come intollerabile barbarie i roghi di ebrei e di eretici, si scaglia contro l’oscurantismo degli ecclesiastici che «s’oppongono allo avanzamento delle umane cognizioni»; per certi aspetti, nella sua esaltazione di una religiosità intima contro le ipocrite pratiche esteriori e nella sua convinzione dei fondamenti naturali del cristianesimo è persino vicino al deismo illuministico (si legge nell’ode L’educazione: «È d’uopo, Achille, alzare / ne l’alma il primo altare»). Tuttavia crede profondamente nella religione, sia come indispensabile freno allo scatenarsi delle passioni umane e come principio di un’ordinata convivenza civile, sia, in senso metafisico, come rivelazione del significato ultimo dell’esistenza umana e come garanzia di salvezza. Perciò ritiene che le teorie libertine dei philosophes siano estremamente pericolose per la convivenza sociale degli uomini e per la salute della loro anima, e pronuncia contro di esse un’aspra condanna, giudicando stolto l’atteggiamento di chi guarda la religione con sprezzante superiorità dall’alto delle conoscenze scientifiche. D’altro canto, però, se respinge indignato le posizioni antireligiose dell’Illuminismo francese, di esso accoglie con favore i princìpi egualitari: crede nell’eguaglianza originaria e naturale di tutti gli uomini, nella necessità di riconoscere a ogni individuo, a prescindere dalla classe sociale in cui è collocato, una pari dignità umana. A queste idee egualitarie si connette un altro aspetto tipicamente illuministico, l’umanitarismo, l’amore per l’umanità in quanto tale, lo sdegno per tutto ciò che offende l’uomo e provoca in lui umiliazione e sofferenza, la convinzione che dovere fondamentale di ogni uomo è la solidarietà per i suoi simili, unita all’impegno per alleviare miserie e patimenti. 491

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Le posizioni verso la nobiltà La critica della nobiltà: ozio e corruzione

Il Dialogo sopra la nobiltà

La rieducazione della nobiltà

Da questo nucleo di idee e sentimenti scaturiscono le posizioni di Parini nei confronti della nobiltà, quelle posizioni che danno vita alla satira del Giorno. Il poeta critica duramente la classe aristocratica in quanto è oziosa, vuota e improduttiva: innanzitutto sul piano economico, poiché si accontenta di sperperare le ricchezze che derivano dalle sue rendite, cioè dal lavoro altrui, invece di adoperarsi ad accrescere la ricchezza comune; poi sul piano intellettuale, poiché i nobili non dedicano il loro ozio a coltivare studi che servano all’avanzamento della cultura e della scienza; infine sul piano civile, poiché nella loro vita vacua, tutta protesa ad una frivola ricerca del piacere, non si curano di ricoprire cariche e magistrature che siano utili al bene pubblico. Eloquente è la lapidaria definizione del «giovin signore» data nel proemio del Vespro: colui «che da tutti servito a nullo serve», dove è sferzante il sarcasmo implicito nel verbo “servire”, che il nobile intenderà nel senso di “essere servo”, ma che il poeta chiaramente intende nel senso di “essere utile”. Questo ozio si accompagna poi all’immoralità dei costumi: Parini si scaglia soprattutto contro l’uso del “cavalier servente”, che non è altro se non una legalizzazione dell’adulterio, che distrugge uno dei valori ai suoi occhi più sacri, indispensabili alla convivenza civile e alla moralità pubblica, la famiglia. In un primo tempo Parini è più reciso nella condanna dell’aristocrazia. Nel Dialogo sopra la nobiltà (1757), che si svolge tra due defunti, un poeta di origine plebea e un nobile, lo scrittore sottolinea come essa abbia avuto origine dalla violenza e dalla rapina (tesi ripresa anche nella favola del Piacere del Mezzogiorno). Tuttavia Parini riconosce che in epoche passate la nobiltà aveva avuto una funzione sociale: difendere la patria in guerra, rivestire le magistrature e amministrare la cosa pubblica, occuparsi di incrementare la proprietà e migliorare le colture, dedicarsi agli studi. Tali funzioni venivano in certo qual modo a cancellarne il peccato d’origine e a legittimarne i privilegi. Ciò che muove il suo sdegno è la decadenza attuale della classe aristocratica, il fatto che essa abbia abbandonato queste attività utili. Si può capire allora come Parini, anche nel momento della più fervida battaglia illuministica, non sia ostile alla nobiltà in sé, ma solo alla sua degenerazione, e non auspichi affatto l’eliminazione di quella classe, ma al contrario proponga una forma di rieducazione che la riporti ad assumere il ruolo sociale che le compete e che un tempo possedeva. Socialmente e politicamente Parini è quindi un moderato riformista, lontano dalle posizioni ben più duramente critiche di un Pietro Verri (e va da sé che non ha nulla a che vedere con quelle posizioni che si svilupperanno con la Rivoluzione francese e con il Terrore, e che porteranno alla ghigliottina e alle stragi indiscriminate dei nobili); anzi, nella sua polemica antinobiliare si trova perfettamente allineato con la politica del governo illuminato di Maria Teresa, che combatte il perdurare dei privilegi feudali e punta ad una rigenerazione dell’aristocrazia, ad un suo reinserimento produttivo nel corpo sociale. Più tardi, quando Parini abbandonerà la militanza illuministica attiva, le sue posizioni moderate si faranno ancora più evidenti. Nella revisione del Mattino inserirà così l’episodio dei ritratti degli antenati, che mira proprio a sottolineare la funzione civilmente utile che la nobiltà possedeva nelle epoche passate.

I dissensi dall’Illuminismo lombardo Parini e gli intellettuali del “Caffè”: il cosmopolitismo

492

Anche rispetto al gruppo illuministico lombardo che faceva capo al “Caffè” e all’Accademia dei Pugni numerosi erano i punti di dissenso o addirittura di radicale e aperto contrasto. Innanzitutto Parini non condivideva, sul piano filosofico e culturale, il cosmopolitismo di quegli intellettuali, ferventi ammiratori degli illuministi francesi: che cosa egli pensasse dei philosophes lo sappiamo. Alle preoccupazioni di carattere morale si aggiungeva anche il timore che l’assorbimento entusiasti-

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

La fedeltà di Parini alla tradizione classica

co e indiscriminato della cultura francese snaturasse i caratteri originari della cultura italiana e compromettesse la purezza della lingua con l’introduzione massiccia di francesismi. Sul piano letterario e linguistico gli uomini del “Caffè” avevano idee decisamente eversive, respingevano il classicismo tradizionale, accademico e retorico, in nome di una letteratura di «cose», non di «parole», di una letteratura tutta immediatamente asservita all’utile, alla diffusione dei «lumi», che pertanto doveva bandire ogni purismo ancora ispirato ai princìpi della Crusca ( la Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca di Alessandro Verri, cap. 5, T3, p. 359) ed essere pienamente libera nello scegliere le parole che fossero più adatte ad esprimere i concetti, senza curarsi se fossero toscane o straniere, consacrate o no dalla tradizione. Parini invece era rigorosamente fedele ad un’idea classica della letteratura ed era animato da un vero e proprio culto della dignità formale e dei modelli antichi, perciò le posizioni polemiche ed eversive del gruppo dei Pugni gli apparivano assolutamente inaccettabili, addirittura blasfeme.

La critica alla letteratura utilitaristica Gli illuministi e la scienza

Parini contrario alla riduzione utilitaristica della letteratura

L’utile e il bello

Proprio del gruppo del “Caffè”, unitamente ad una concezione utilitaristica della letteratura, era anche il culto della scienza: si riteneva che dalla diffusione delle cognizioni scientifiche moderne, della chimica, della biologia, della fisica, scaturissero il progresso e il miglioramento della vita sociale, che da esse potessero essere dissolte tutte le idee aberranti e oscurantiste, ereditate dal passato, capaci di rendere schiavo l’uomo, e che ne potesse derivare infallibilmente la pubblica felicità. L’entusiasmo per la scienza è un tratto tipico della cultura settecentesca, ed ispira tanta letteratura intesa alla piacevole divulgazione delle nuove dottrine. Anche Parini apprezza le scoperte scientifiche ed è convinto che siano fonte di progresso e di benessere per l’umanità (dedica ad esempio un’ode a celebrare l’inoculazione dei germi del vaiolo che assicura l’immunizzazione dalla terribile malattia), ma è urtato dal fatto che la scienza sia diventata una moda, una mania frivola di salotti aristocratici e di dame oziose (sferzante è infatti nei confronti del «giovin signore» che a tavola discetta pretenziosamente di «calcolo», di «massa» e di «inversa ragion» per destare l’ammirazione della sua dama). Non solo, ma è ostile ad una riduzione totale della letteratura a veicolo di cognizioni utili, in vista di fini esclusivamente pratici. Anch’egli è convinto che la letteratura debba essere utile: lo afferma nel Discorso sopra la poesia (1768), uno dei documenti più importanti della sua poetica, dove sostiene che anche la poesia deve essere illuminata dallo «spirito filosofico», che con la luce della verità dissipa «le dense tenebre de’ pregiudizi» e «perviene a ristabilire nel loro trono il buon senso e la ragione»; ma la dichiarazione più sintetica e incisiva si trova nell’ultima strofa della Salubrità dell’aria (1759): «Va per negletta via / ognor l’util cercando / la calda fantasia, / che sol felice è quando / l’utile unir può al vanto / di lusinghevol canto» ( T1, vv. 127-132, p. 503). In tal modo Parini riprende il classico precetto oraziano che invita a «mescolare l’utile al dolce», riempiendolo di un nuovo significato illuministico, in quanto intende l’utile non solo in senso astrattamente morale, ma come diffusione dei “lumi”, come strumento di una battaglia per risolvere concreti problemi della realtà contemporanea (nell’ode citata, ad esempio, il problema dell’igiene cittadina). Tuttavia l’«utile» per lui non può mai andar disgiunto dal «lusinghevol canto», la poesia concepita secondo il senso altissimo della dignità formale che è proprio dei classici. La totale riduzione utilitaristica della poesia, trasformata in semplice veicolo di cognizioni scientifiche a fini pratici, incontra dunque la sua ferma ostilità. Parini resta fedele alla tradizionale concezione umanistica, che vede nelle lettere il valore supremo, in cui risiedono l’essenza stessa dell’uomo e la sua dignità, perciò è convinto che il bello poetico debba conservare la sua autonomia. 493

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

L’interesse per le teorie fisiocratiche L’agricoltura fonte di ricchezza e moralità

Un ultimo terreno di scontro con gli illuministi lombardi è quello economico. Il gruppo del “Caffè” era fervente propugnatore del commercio e dell’industria, e riteneva che solo il loro sviluppo potesse garantire il progresso, la ricchezza e il benessere comuni. Parini invece era vicino alle teorie della scuola fisiocratica ( I fisiocratici, p. 507), che vedeva nell’agricoltura l’origine della ricchezza delle nazioni e della moralità pubblica, in quanto fonte di una vita semplice, sana e felice, a contatto con la natura; pertanto il poeta guardava con preoccupazione e ostilità l’estendersi incontrollato dei commerci, che poteva incrementare il lusso e quindi la corruzione dei costumi, provocando la decadenza della civiltà. A parte che su queste posizioni agivano potentemente anche i modelli letterari, in quanto la letteratura latina era piena di deprecazioni moralistiche contro l’avidità di guadagno dei mercanti ed amava esaltare la sanità morale della vita agricola, Parini si rivela ideologicamente molto più moderato degli illuministi del “Caffè” (e, ancora una volta, più vicino alle direttive del governo austriaco, che in Lombardia puntava a incentivare le colture agricole, più che gli scambi commerciali). Effettivamente il commercio, con il presupposto indispensabile della produzione industriale, era il fattore dirompente che poteva condurre ad una rapida trasformazione della società, ad una modernizzazione in tutti i campi, come insegnava l’esempio dell’Inghilterra contemporanea, a cui gli illuministi lombardi guardavano con grande interesse. Il commercio e l’industria portavano alla ribalta classi nuove, più dinamiche e intraprendenti, e creavano una nuova mentalità in ogni campo, nel vivere sociale come nella cultura. Se si pensa invece che in Lombardia la maggior parte delle proprietà agricole era nelle mani della nobiltà e della Chiesa, si può capire come le lodi dell’agricoltura innalzate da Parini, come ha osservato Norbert Jonard, si risolvessero oggettivamente in un appoggio alle forze sociali più conservatrici. Sfuggiva a Parini il senso della battaglia combattuta da Verri e Beccaria a favore della nascita di una nuova società in cui la borghesia fosse il centro propulsore e innovatore.

Parini, riformista moderato

Le divergenze ideologiche con gli illuministi

Da tutto quanto si è visto si può concludere che Parini a buon diritto merita d’essere ascritto alla cultura riformatrice lombarda, ma che bisogna stare attenti a non confonderlo con le tendenze più radicali e innovatrici dell’Illuminismo: il poeta di Bosisio si colloca nell’ala più moderata dello schieramento progressista, cioè vicino al gruppo dell’Accademia dei Trasformati. Si può capire allora come i rapporti poco cordiali con Pietro Verri e il gruppo del “Caffè” non scaturissero solo da fattori personali, ma rispecchiassero reali, oggettive divergenze di orientamento ideologico. Se Parini era in disaccordo con gli illuministi, anche questi lo sentivano lontano da loro, troppo moderato, troppo “letterato” e tradizionalista nei gusti e nelle idee. Significativo è il giudizio che Pietro Verri diede del Mezzogiorno sul “Caffè”: secondo lui la descrizione pariniana del mondo nobiliare, lungi dal suscitare riprovazione e sdegno, ispirava nel lettore una forma di consenso, «il desiderio di poter fare altrettanto». Può sembrare un’osservazione limitata, su un aspetto molto particolare, ma in realtà, concentrandosi su un nodo centrale come il rapporto

Federigo Andreotti, La lezione di musica, fine XIX secolo, olio su tela, Collezione privata.

494

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

con la nobiltà, fa comprendere il giudizio generale degli illuministi milanesi sul moderatismo di Parini. Solo negli ultimi anni le posizioni si avvicinarono, ma per così dire in negativo, nella comune delusione per le riforme di Giuseppe II, e poi per le degenerazioni della Rivoluzione francese.

3

L’ode

Le edizioni delle Odi pariniane

I tre gruppi di odi

Testi L’educazione dalle Odi

Le prime odi e la battaglia illuministica Cronologia ed edizioni delle odi La prima raccolta di versi, Alcune poesie di Ripano Eupilino (1752), ci rivela un Parini ancora immerso nel clima dell’Arcadia primo-settecentesca, isolato dalle correnti della cultura contemporanea, rigorosamente fedele ad un’idea tradizionale di letteratura e ai modelli classici. Le prime manifestazioni della battaglia per il rinnovamento civile da lui condotta, che dà origine anche a consistenti innovazioni formali, sono alcune odi degli anni Cinquanta-Sessanta, unitamente alle prime due parti del Giorno. L’ode era un genere lirico già introdotto dall’Arcadia, riprendendo modelli della poesia greca e latina, come gli antichi lirici e Orazio. A differenza della canzonetta, che trattava argomenti tenui e frivoli, l’ode assumeva contenuti elevati e toni più solenni. La forma metrica però non era molto diversa, in quanto constava di versi per lo più brevi, in genere settenari, secondo varie combinazioni strofiche. Sull’arco della sua lunga carriera poetica Parini scrisse parecchie odi (senza contare un numero considerevole di altri componimenti poetici, in genere d’occasione), spesso leggendole nelle sedute dell’Accademia dei Trasformati, e stampandone alcune separatamente in fogli volanti o raccolte collettive (come il volume Rime degli Arcadi del 1780). Solo nel 1791 un fedele discepolo, Agostino Gambarelli, pubblicò una prima raccolta organica di ventidue odi, con l’approvazione del poeta. Più tardi, nel 1795, uscì una nuova edizione che comprendeva, oltre a queste, altre tre odi composte dopo il 1791. Un’altra raccolta delle odi è contenuta nella prima edizione delle Opere di Giuseppe Parini, allestita nel 1802 da un ammiratore del poeta, Francesco Reina. Le odi possono essere divise cronologicamente in tre gruppi, che presentano fisionomie sensibilmente diverse tra loro per le tematiche come per le soluzioni espressive. Quello più folto va dal 1756 al 1769, e comprende i testi maggiormente legati alla battaglia illuministica, La vita rustica (1756), La salubrità dell’aria (1759), L’impostura (1760-64), L’educazione (1764), L’innesto del vaiuolo (1765), Il bisogno (1766), La musica (1769). Dopo il 1769 si ha una lunga pausa: per trovare altre odi bisogna arrivare al 1777, con La laurea e Le nozze. Dopo un’altra lunga interruzione si colloca un ultimo gruppo di odi, non più civilmente impegnate e battagliere ma ispirate ad un composto e armonico classicismo: La recita dei versi (1783), La caduta (1785), La tempesta (1786), In morte del maestro Sacchini (1786), Il pericolo (1787), La magistratura (1788), Il dono (1790), La gratitudine (1791), Il messaggio (1793), A Silvia, o del vestire alla ghigliottina (1795), Alla Musa (1795).

Le odi “illuministiche”

Le odi legate all’impegno civile

Il primo gruppo ha una fisionomia abbastanza omogenea e contiene odi che, come le prime due parti del Giorno, risalenti agli stessi anni, riflettono una più diretta militanza illuministica e sono animate da atteggiamenti più battaglieri, da un più risentito e fervido impegno civile. Gli argomenti sono costituiti da problemi di stringente attualità, spesso molto pratici e concreti, vivi nel dibattito dei contemporanei, proprio i problemi che la cultura illuministica, tesa al miglioramento della convivenza civile, poneva al centro della propria attenzione; tant’è vero che non di rado i temi delle odi 495

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La vita rustica

L’impostura L’educazione

L’innesto del vaiuolo

Il bisogno

L’evirazione

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pariniane sono affrontati, nello stesso periodo, anche da articoli del “Caffè” o da altri scritti degli illuministi milanesi. Nella Vita rustica, accanto alla tradizionale visione idillica della campagna come sede di una vita quieta e serena e come garanzia di una perfetta tranquillità dell’animo, che rimanda ancora decisamente al clima arcadico, si coglie già una visione nuova del lavoro dei contadini, inteso come attività produttiva e socialmente utile, da cui nascono benessere e prosperità, secondo le teorie fisiocratiche. La stessa visione della campagna come mondo laborioso e sano, in contrapposizione al mondo cittadino malsano e corrotto dall’avidità di lucro, torna nella Salubrità dell’aria ( T1, p. 499). Al centro dell’ode vi è il problema ecologico, per usare un’espressione moderna, cioè il problema dell’igiene e della salute pubblica, compromesse da chi, per ragioni speculative, circonda la città di risaie e marcite ( T1, nota 21, p. 503) che ammorbano l’aria, e dalla noncuranza di chi lascia fermentare il letame o getta acque putride per le strade. Nell’Impostura il poeta si scaglia contro ogni forma di ipocrisia e di finzione, delineando una serie di macchiette e di figurine di impostori con un’ironia che è vicina a quella del Giorno. Nell’Educazione viene affrontato un problema centrale della cultura illuministica, quello dell’istruzione: il rinnovamento della società e del costume infatti non poteva non passare in primo luogo attraverso l’educazione, che doveva formare l’uomo nuovo, ispirare una nuova mentalità e nuovi comportamenti. Più specificamente, Parini si indirizza alla formazione del ceto dirigente, offrendo i suoi precetti pedagogici alla nobiltà, che vuole rigenerare e riportare all’antica funzione sociale ormai perduta. Al centro vi è un’idea di formazione ancora tutta umanistica, fondata su un’armonia tra il fisico e lo spirituale, ma si colgono anche tre princìpi schiettamente illuministici: la ragione che deve regolare e guidare i sentimenti piegandoli ai suoi fini, senza peraltro soffocarli, l’idea che la vera nobiltà non è quella della nascita ma quella interiore dell’individuo, la fiducia che il mondo possa essere cambiato con la diffusione dei precetti illuminati. L’innesto del vaiuolo, riferendosi agli esperimenti, a quel tempo in corso, intesi a inoculare i germi della pericolosa malattia in modo da determinare un’immunizzazione, esalta la scienza moderna contro ogni forma di pregiudizio e di oscurantismo, come fattore essenziale non solo dell’incremento delle conoscenze teoriche, ma anche del rinnovamento dell’umanità e del progresso delle sue condizioni di vita. Il dottor Gianmaria Bicetti, a cui l’ode è dedicata, diventa così «il simbolo del nuovo filosofo, del saggio che imperturbato lotta contro sofismi e ipocrisie, contro superstizioni ed errori, e, aprendo le menti al vero e all’utile, fa più bella e più umana la vita» (Petronio); il medico, lo scienziato, diviene il nuovo eroe della civiltà illuministica, modesto e benefico. Nel Bisogno, in consonanza con i princìpi più illuminati della giurisprudenza contemporanea, quali quelli proclamati da Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene, Parini afferma che sono il bisogno e la miseria a determinare la maggior parte dei delitti, e quindi occorre non tanto punirli, quanto prevenirli, lottando contro la povertà. Alla base dell’ode sta un altro motivo tipico dell’Illuminismo, il filantropismo, un senso di pietà solidale per gli uomini e le loro sofferenze, l’affermazione dei diritti naturali che ciascuno di essi possiede, anche il più misero e diseredato, e vi è il vagheggiamento, anch’esso tutto illuministico, di una società solidalmente umana, sorretta da un patto sociale universalmente rispettato, che rimanda alle teorie contrattualistiche allora di moda sull’origine della società (si pensi al Contratto sociale di Rousseau, 1762). Infine L’evirazione o La musica (l’ode è nota con entrambi i titoli) si scaglia contro il costume di evirare i giovani cantori per mantenere loro le voci di soprano. Anche qui vi è lo sdegno per una pratica barbara e incivile, tutto pervaso da quell’umanitarismo che si è visto nel Bisogno. Ma Parini non si arresta alla denuncia moralistica astratta, indaga le precise cause sociali del fenomeno per trovare il modo di eliminarlo; e le individua nel capriccioso egoismo dei potenti, pronti a mutilare l’uomo e a negare la sua dignità pur di soddisfare la loro ricerca del piacere (i cantori evirati godevano di enorme

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

Problemi attuali e fiducia illuministica

successo nella società elegante, e per la loro bravura erano idolatrati come divi). Come indica chiaramente la semplice rassegna degli argomenti, sono odi di battaglia, che affrontano problemi attuali e largamente discussi nella società del tempo, e sono animate dalla fiducia di poter mutare la realtà con la diffusione delle idee vere e giuste, di risolvere i problemi introducendo miglioramenti concreti nella vita dell’uomo, creando un vivere civile più umano, ordinato e felice. Vi è anche il senso alacre e baldanzoso di partecipare ad un moto di idee comune e pieno di energie, la consapevolezza di rivolgersi a un pubblico solidale, pronto ad accogliere suggerimenti e insegnamenti.

Le novità formali di ispirazione sensistica Argomenti prosaici e dignità formale

La poetica del sensismo

Espressioni ardite e realistiche

Nell’affrontare argomenti di così stringente attualità, così concreti e a volte persino prosaici (la speculazione e l’aria ammorbata della città, i procedimenti della scienza medica, la miseria e i crimini della plebe, il successo dei divi della scena canora), a Parini si presentava il problema non facile di conciliarli con la dignità formale che, secondo il gusto classico a cui il poeta era fedele, doveva competere alla poesia. L’arditezza innovatrice della materia suggerisce a Parini alcuni ardimenti linguistici, come l’uso moderato di un lessico ricavato dalle scienze moderne, in obbedienza a quel gusto scientifico che al tempo era largamente diffuso: possiamo così trovare in odi come La salubrità dell’aria termini quali «polmoni», «atomi», «sali». Una soluzione alle esigenze di novità espressiva viene però trovata da Parini essenzialmente con l’adesione alla poetica del sensismo. Tale teoria risaliva al filosofo inglese John Locke (1632-1704) ed in Italia era stata diffusa soprattutto dagli scritti di Etienne de Condillac (1714-80), quali il Trattato delle sensazioni (1754), venendo a costituire la base della riflessione sull’arte degli illuministi del “Caffè”. Secondo il sensismo tutta la vita spirituale dell’uomo ha origine dalle sensazioni fisiche attraverso cui egli entra in contatto con la realtà esterna. I suoi sentimenti fondamentali sono perciò il piacere e il dolore. Il piacere nasce dalla varietà e dalla vivezza delle sensazioni, che arricchiscono la vitalità della nostra anima. Anche l’arte contribuisce a stimolare tale vitalità interiore, destando in noi forti sensazioni, attraverso le idee e i sentimenti accessori che si accompagnano a quelli principali del discorso. Di qui deriva, secondo la poetica del sensismo, la ricerca della parola precisa, icastica, cioè capace di suscitare immagini e sensazioni molto vivide. In altri termini, per stimolare la sensibilità, accrescendo il movimento alacre della vita interiore, la parola deve essere energica e realistica, cioè suscitare chiara e netta l’immagine dell’oggetto materiale, sollevando intorno ad esso una folla di sensazioni accessorie. Come si vede, è una poetica che va in direzione contraria a quella del razionalismo arcadico, che puntava invece alla parola classicamente generica e vaga. Per rendere l’audace novità dei suoi argomenti di attualità Parini utilizza in larga misura espressioni vivacemente realistiche, ricche di forza sensibile, capaci di suscitare immagini intensamente visive, plastiche, tattili, foniche, olfattive. La prima prova del nuovo linguaggio, dopo la convenzionalità ancora un po’ sbiadita della prima ode, La vita rustica, si trova nella Salubrità dell’aria, che è un po’ il “manifesto” della nuova poetica illuministica e sensistica di Parini: incontriamo così espressioni ardite, colme di urgenza fisica, come «polmon capace», «dorsi molli», «triste oziose acque» e «fetido limo», «languenti cultori», «crescente pane», «baldanzosi fianchi delle ardite villane», a cui «l’aere vivo e schietto» fa «ondeggiare» il petto, il volto «fra bruno e rubicondo» dei contadini, gli «atomi» irraggiati tutt’intorno dalle erbe aromatiche che «pungon le nari» con «soavi e cari sensi», il «fimo» (il letame) che «alto fermenta» e ammorba l’«aria lenta» di «sali malvagi», gli «aliti corrotti» delle carogne di animali, le «vaganti latrine», la città che «beve l’aura molesta». Bastano questi esempi per far capire come la poesia pariniana, se accostata agli argomenti convenzionali e triti e all’insipida genericità di linguaggio della poesia arcadica corrente, spicchi per la robusta concretezza dei temi trattati, ma anche per la novità e la forza delle scelte espressive. 497

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

L’eredità classica

La legittimazione dell’impoetico con il linguaggio classico

Moderatismo ideologico e moderatismo stilistico

Parini non ha però il coraggio di condurre veramente fino in fondo una rivoluzione del linguaggio poetico, pienamente commisurata alla novità dei contenuti: pesa sempre su di lui l’eredità retorica del letterato tradizionale, per cui, accanto alle espressioni di pungente originalità suggerite dalla poetica sensistica, si trova sempre nelle sue odi la preoccupazione di legittimare le materie impoetiche sublimandole attraverso il linguaggio consacrato dalla tradizione classica. Di conseguenza, se deve parlare di acque putride versate dalle finestre delle case popolari, deve ricorrere a espressioni elette e auliche come: «Quivi i lari plebei / da le spregiate crete / d’umor fracidi e rei / versan fonti indiscrete» ( T1, vv. 97-100, p. 503), utilizzando procedimenti illustri come perifrasi e metonimie («spregiate crete») o aggettivi esornativi con il compito di innalzare il tono e conferire dignità all’oggetto («fonti indiscrete»); oppure, se deve alludere agli editti che minacciano pene a chi inquina, deve far uso della personificazione mitologica di «Temi», la divinità della giustizia. La cura di sistemare una materia di dubbia poeticità in composte e dignitose forme classiche si rivela anche nella sintassi, che mira alla complessità del periodare latino e presenta continuamente quelle inversioni che sono proprie della frase degli antichi, in particolare di Orazio, che di Parini è il modello per eccellenza: ad esempio «alta di monti schiena», con l’inserimento del complemento di specificazione tra aggettivo e sostantivo, o «Ben larga ancor natura / fu a la città superba / di cielo e d’aria pura». Le scelte stilistiche del poeta sono perfettamente rispondenti alle sue posizioni ideologiche: come Parini è moderatamente riformatore in campo sociale e politico, proponendosi di rinnovare gradatamente senza distruggere, così in poesia introduce importanti innovazioni, ma senza scardinare il sistema letterario tradizionale, anzi, avendo cura di conservarne intatti gli elementi caratterizzanti.

Giovanni Migliara, Le colonne di San Lorenzo a Milano con particolari fantastici, 1816 circa, olio su tela, Torino, Galleria Sabauda.

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Capitolo 8 · Giuseppe Parini

L e t t e r a t u r a e Ambiente

Analisi interattiva

T1

La salubrità dell’aria Testo e realtà

dalle Odi

Gli interessi privati, finalizzati al lucro,

L’ode fu letta da Parini all’Accademia dei Trasformati nel 1759, il disprezzo delle leggi e della salute pubblica, insieme all’inettitudine in una seduta pubblica che aveva come tema “l’aria”. L’argodegli amministratori, hanno reso l’aria mento richiama una grida del Maestrato della Sanità (oggi di Milano irrespirabile: questo lamenta diremmo l’Assessorato all’igiene) del 30 aprile 1756, che vieParini e l’eco delle sue parole suona di sorprendente attualità. tava di versare per la strada acque putride e di gettarvi carogne di animali, ed imponeva di chiudere le cisterne che raccoglievano i liquami dei pozzi neri. Fu pubblicata solo nel 1791, nella raccolta delle Odi messa insieme da Agostino Gambarelli, con l’approvazione del poeta. Questa redazione presenta però numerose e cospicue varianti rispetto al testo originario, di cui ci sono pervenuti i manoscritti.

> Metro: strofe di sei settenari piani; rime: ababcc.

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Oh beato terreno del vago Èupili1 mio, ecco al fin nel tuo seno2 m’accogli; e del natio aere mi circondi; e il petto avido inondi! Già nel polmon capace urta sé stesso e scende quest’etere vivace che gli egri3 spirti accende, e le forze rintegra, e l’animo rallegra. Però ch’austro scortese4 qui suoi vapor non mena: e guarda il bel paese alta di monti schiena, cui sormontar non vale borea con rigid’ale5. Né qui giaccion paludi che dall’impuro letto mandino a i capi ignudi nuvol di morbi infetto6: e il meriggio a’ bei colli asciuga i dorsi molli.

versi 1-6 O terra beata del mio bel (vago) lago di Pusiano, ecco infine mi accogli in te (nel tuo seno); e mi circondi con la tua aria natia; e riempi (inondi) il mio petto desideroso (avido, di respirarla)!

1. Èupili: l’antico nome latino del lago di Pusiano, nei cui pressi, a Bosisio, nacque Parini. 2. nel tuo seno: Parini finge di essere ritornato sulle sponde del lago natio, proveniente da Milano.

versi 7-12 Finalmente (Già) quest’aria vivificatrice (etere vivace) che ridà vita (accende) agli spiriti malati (egri) entra prepotentemente (urta … scende) nei miei polmoni e rinnova le forze, e rallegra l’animo. 3. egri: latinismo. La causa del malessere è l’aria mefitica respirata a Milano. versi 13-18 Perché qui il nocivo (scortese) vento di scirocco (austro) non porta la sua aria umida (vapor): e un’alta catena di monti, che borea non è capace di oltrepassare con le sue ali ghiacciate (rigid’ale), protegge (guarda) il bel territorio (di Bosisio). 4. scortese: perché ritenuto tradizionalmente nocivo per la salute. 5. guarda ... ale: schiena è soggetto: si tratta della dorsale alpina e prealpina; borea è un vento freddo del nord; il vento è personificato in forma di creatura alata. versi 19-24 Né qui si estendono paludi che dal loro letto contaminato (impuro) mandino alle teste non protette (degli uomini) esalazioni ammorbanti (nuvol … infetto): e il sole meridiano (meriggio) asciuga i dorsi umidi (molli) ai bei colli. 6. nuvol ... infetto: la malaria era molto diffusa nelle zone paludose.

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Pèra colui che primo a le triste, oziose acque e al fetido limo la mia cittade espose; e per lucro7 ebbe a vile la salute civile. Certo colui del fiume di Stige8 ora s’impaccia tra l’orribil bitume, onde alzando la faccia bestemmia il fango e l’acque che radunar gli piacque. Mira dipinti in viso di mortali pallori entro al mal nato riso i languenti cultori; e trema, o cittadino, che a te il soffri vicino.

versi 25-30 Possa morire (Pèra) colui che per primo espose la mia città (Milano) alle acque stagnanti (oziose) e al fango maleodorante (fetido limo), e per il profitto (per lucro) non tenne in alcun conto (ebbe a vile) la salute dei cittadini. 7. per lucro: il guadagno ricavato dalla coltivazione del riso. Intorno a Milano si estende-

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versi 37-42 Guarda (Mira) (o lettore) i coltivatori malati (languenti cultori) che recano dipinto sul volto il pallore della malattia mortale, mentre si dedicano alla coltivazione del riso che cresce con loro danno e a fini di lucro (mal nato); e trema, abitante di Milano, che sopporti che il riso sia coltivato nelle vicinanze della città (il soffri vicino).

vano risaie immerse in acque stagnanti. versi 31-36 Certamente colui (che ha inquinato) ora è immerso (s’impaccia) nella fanghiglia putrida (orribil bitume) del fiume Stige, da cui (onde), alzando la faccia, ora insulta il fango e le acque che (per lucro) si è compiaciuto di radunare.

Pesare le parole Innocente (v. 44) >

8. Stige: nella Commedia dantesca è un corso d’acqua che si allarga in una vasta palude.

Io de’ miei colli ameni nel bel clima innocente9 passerò i dì sereni tra la beata gente che di fatiche onusta10 è vegeta e robusta.

Deriva dal latino in- negativo e nocèntem, participio presente di nocère, “nuocere”, quindi alla lettera vuol dire “che non nuoce, non fa del male”. Da Parini è qui usato nel senso di “puro, incontaminato”. Il senso corrente attuale è invece “privo di colpa” (es. l’imputato continua a proclamarsi innocente nonostante le prove a suo carico), oppure “che non conosce il male perché è privo di esperienza e di malizia” (es. è vecchio ma innocente come un bambino dinanzi alle brutture della vita). L’innocenza, oltre alla qualità di chi non è colpevole, può indicare infatti ingenuità, candore (es. il fatto che non si sia accorto delle porcherie di famiglia rivela la sua innocenza e il suo candore); l’età dell’innocenza nell’opinione comune è l’infanzia. Innocentista è chi, in un processo, sostiene l’innocenza dell’imputato prima della sentenza (es. riguardo al processo in cui è imputato il noto uomo politico è innocentista a oltranza).

Onusta

>

versi 43-48 Io passerò giorni sereni nel bel clima incontaminato (innocente) dei miei piacevoli colli, tra la gente felice che, pur essendo carica (onusta) di fatiche, gode di buona salute ed è robusta. 9. innocente: salutare (letteralmente: non nocivo). 10. onusta: latinismo.

(v. 47)

Onusto proviene dal latino ònus, “peso”, quindi significa “caricato di un peso”, letteralmente o figuratamente, ed è voce del linguaggio colto e letterario (es. il campione si è ritirato dall’attività agonistica onusto di gloria). Dalla stessa radice deriva onere, “obbligo gravoso” (es. con le manovre del governo sono aumentati gli oneri fiscali; mi sono preso gli onori ma anche gli oneri di quella carica; tocca all’accusa l’onere della prova in un processo); è voce anch’essa del linguaggio colto, come l’aggettivo oneroso, “pesante, gravoso” (es. le spese per mantenere la casa in campagna sono molto onerose). Una nave oneraria è una nave da carico, destinata a trasportare merci.

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Qui con la mente sgombra, di pure linfe asterso, sotto ad una fresc’ombra celebrerò col verso i villan vispi e sciolti sparsi per li ricolti; e i membri non mai stanchi dietro al crescente pane11; e i baldanzosi fianchi de le ardite villane12; e il bel volto giocondo fra il bruno e il rubicondo; dicendo: – Oh fortunate genti, che in dolci tempre quest’aura respirate,

versi 49-54 (Stando) qui con la mente libera, deterso (asterso) con acque (linfe) pure, sotto una fresca ombra celebrerò in versi i contadini vivaci e agili (vispi e sciolti) sparsi per i campi coltivati (ricolti); versi 55-60 e le membra mai stanche (di lavorare) per far crescere il grano (da cui si ricaverà il pane); e i fianchi baldanzosi delle

contadine dal contegno franco e schietto (ardite); e il (loro) bel volto allegro, fra il bruno (dei capelli) e il rosso (rubicondo, della carnagione); 11. pane: in luogo di “grano” è una metonimia (l’effetto per la causa). Il poeta contrappone la coltura del riso, che è nociva perché le risaie sono immerse nell’acqua e perché è

praticata solo per fini speculativi, a quella del grano, che invece è sana e fornisce un alimento fondamentale per la vita, base dell’alimentazione di tutti. 12. ardite villane: la connotazione di robustezza deriva dalle oneste e naturali fatiche cui la popolazione dei campi si dedica. versi 61-66 dicendo: – Oh popolazioni fortunate, che in un clima mite (in dolci tempre) respirate quest’aria ventilata (rotta) e sempre purificata da venti che soffiano veloci (fuggitivi) e da ruscelli limpidi!

Pesare le parole

Asterso

>

(v. 50)

È il participio passato di astergere, dal latino abstergère, composto di abs-, “via da”, e tergère, “pulire”: significa infatti “lavare delicatamente, pulire”; è voce colta e ormai poco in uso: è più usato un altro composto della stessa radice, detergere (es. dopo la partita si deterse il copioso sudore della fronte), specie nei derivati, come detersivo, che designa una sostanza di uso comunissimo (es. i detersivi sono colpevoli dell’inquinamento delle acque) o detergente (es. per togliere il trucco occorre usare latte detergente). Esiste anche la forma non composta, tergere, specie nel senso di “rendere nitido, purificare” (es. dopo una giornata di vento che spazza lo smog il cielo appare terso). Dalla stessa radice proviene tergicristallo, che pulisce il parabrezza delle auto.

Baldanzosi

>

>

(v. 57)

Baldanzoso è chi mostra baldanza, “sicurezza nelle proprie forze, ardimento, fierezza, disinvoltura, franchezza, intrepidezza, spigliatezza, spavalderia”. Deriva da una voce germanica, bald, “ardito”, attraverso l’antico francese baud (di qui i cognomi di chi scrive queste note e del noto presentatore Pippo Baudo, dove però la velarizzazione in /u/ della /l/ deriva da un fenomeno delle parlate siciliane). Vediamo le etimologie dei sinonimi di baldanza: ardimento (o ardire), “audacia, coraggio”, da un’antica voce germanica, hardjan, “rendere duro”, dalla stessa radice viene anche l’inglese hard (es. nell’attraversare l’Atlanti-

>

co con una barchetta ha mostrato grande ardimento); fierezza, dal latino fèrum, “feroce” (es. dinanzi alle accuse ingiuste che gli venivano rivolte ha mostrato ammirevole fierezza); disinvoltura, dallo spagnolo desenvuelto, alla lettera “non impacciato”, a sua volta dal latino invòlvere, “avvolgere” (chi è avvolto da qualcosa si muove a fatica): è la qualità di chi è privo di impaccio, timidezza, indecisione (es. il ministro ha affrontato con disinvoltura le domande imbarazzanti della conferenza stampa); franchezza, dalla voce germanica frank, “libero”, quindi “essere libero da soggezione” (es. l’accusato ha affrontato con franchezza l’interrogatorio del giudice); intrepidezza, dal latino in- negativo e trèpidum, “timoroso, pieno di apprensione”: è l’atteggiamento di chi affronta senza timore rischi e prove difficili (es. l’intrepidezza dimostrata dai pompieri durante l’incendio è stata eroica); spigliatezza, è la qualità di chi è spigliato, cioè privo di impaccio, da pigliare più s- negativo, quindi il contrario di impigliato, “afferrato e trattenuto da qualcosa che impedisce i movimenti” (es. in pubblico parla con una spigliatezza che affascina); spavalderia, di etimologia discussa, forse dalla radice del latino pàvidum, “pauroso”, con la s- negativa e il suffisso peggiorativo -aldo: è l’atteggiamento di chi è troppo sicuro di sé, sino alla sfrontatezza (es. i bulli che tormentano i compagni mostrano spavalderia per nascondere la loro insicurezza). Dalla stessa radice di baldanza proviene baldoria, “festa allegra e rumorosa” (es. dopo aver vinto alla lotteria ha fatto baldoria con gli amici).

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rotta e purgata sempre da venti fuggitivi e da limpidi rivi! Ben larga ancor natura fu a la città superba13 di cielo e d’aria pura: ma chi i bei doni or serba fra il lusso e l’avarizia e la stolta14 pigrizia?

conserverà anche in Foscolo, che la chiamerà «minima Babilonia». 14. stolta: perché consente che venga contaminato un bene prezioso come l’aria.

Ahi! non bastò che intorno putridi stagni avesse; anzi a turbarne il giorno sotto a le mura stesse trasse gli scelerati rivi a marcir su i prati15.

versi 73-78 Ahimé, non bastò che (Milano) avesse intorno le putride distese d’acqua delle risaie (putridi stagni); a contaminare l’aria (il giorno) la città condusse le acque nocive (scelerati rivi) a marcire sui prati. 15. scelerati ... prati: le “marcite” erano prati periodicamente allagati perché dessero raccolti di fieno più abbondanti. In realtà “marcite” non deriva da “marcio” bensì da “marzo”.

E la comun salute sacrificossi al pasto d’ambiziose mute16, che poi con crudo fasto calchin per l’ampie strade il popolo che cade17.

versi 79-84 E la salute pubblica fu sacrificata per nutrire pariglie di cavalli (mute), in cui si manifestava l’ambizione dei loro padroni (ambiziose), che poi con crudele ostentazione di lusso (crudo fasto) calpestano per le ampie strade cittadine i popolani che cadono. 16. E la comun ... mute: avere carrozze con ricchi equipaggi era segno tangibile di nobiltà e ricchezza, perciò le famiglie più altolocate ne facevano ostentazione. Le marcite fornivano appunto il fieno per nutrire questi cavalli. 17. che poi ... cade: le carrozze dei nobili nelle loro corse sfrenate non si curavano di travolgere chi andava a piedi, la plebe. È un motivo polemico che ritorna nel Giorno.

A voi il timo e il croco e la menta selvaggia l’aere per ogni loco de’ vari atomi18 irraggia, che con soavi e cari sensi pungon le nari. Ma al piè de’ gran palagi là il fimo alto fermenta; e di sali malvagi ammorba l’aria lenta, che a stagnar si rimase tra le sublimi19 case.

versi 67-72 La natura fu generosa dispensatrice di cielo terso ed aria pura per Milano: ma chi (tra i milanesi) custodisce adesso i doni generosi (della natura), fra il lusso e l’avidità

versi 85-90 A voi (abitanti della campagna) il timo e il croco e la menta selvaggia spargono (irraggia) per ogni luogo nell’aria gli atomi (dei loro profumi), che colpiscono (pungon) le narici con dolci e gradevoli (soavi e cari) sensazioni (sensi). 18. atomi: si noti l’uso del termine scientifico.

di guadagno (avarizia) e la stolta inerzia (pigrizia)? 13. città superba: Milano, così definita per antonomasia; tale connotazione negativa si

versi 91-96 Invece (in città) ai piedi dei grandi palazzi nobiliari fermentano alti mucchi di letame (fimo) e ammorbano di esalazioni nocive (sali malvagi) l’aria immobile (lenta), che rimase a ristagnare tra gli edifici altissimi (sublimi). 19. sublimi: latinismo.

Pesare le parole Purgata (v. 64)

> Purgare viene dal latino purgàre, da pùrum, “puro”, con

il suffisso -ig (nel latino arcaico infatti era purigàre); significa “liberare da impurità, sudiciume” (es. la nevicata ha purgato l’aria della città dalle polveri sottili); in senso fisiologico è “somministrare una purga” (es. dopo quella mangiata enorme la mamma dovrebbe purgarti); un’opera purgata è quella in cui sono state eliminate scon-

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cezze (es. nell’età della Controriforma fu allestita un’edizione purgata del Decameron). Purgarsi vuole anche dire “purificarsi da colpe e peccati”, donde Purgatorio, secondo la dottrina cattolica il luogo in cui le anime dei morti senza peccati mortali soffrono delle pene per espiare le loro colpe prima di salire al Paradiso.

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Quivi i lari plebei da le spregiate crete d’umor fracidi e rei versan fonti indiscrete20, onde il vapor s’aggira, e col fiato s’inspira. Spenti animai, ridotti per le frequenti vie, de gli aliti corrotti empion l’estivo die21: spettacolo deforme del cittadin su l’orme! Né a pena cadde il sole che vaganti latrine con spalancate gole lustran22 ogni confine de la città, che desta beve l’aura molesta. Gridan23 le leggi, è vero; e Temi24 bieco guata: ma sol di sé pensiero ha l’inerzia privata. Stolto! e mirar non vuoi ne’ comun danni i tuoi? – Ma dove, ahi corro, e vago, lontano da le belle colline e dal bel lago e da le villanelle a cui sì vivo e schietto aere ondeggiar fa il petto? Va per negletta via ognor l’util cercando la calda fantasia, che sol felice è quando l’utile unir può al vanto di lusinghevol canto.

versi 97-102 Qui le case dei poveri (lari plebei) rovesciano getti sgradevoli (fonti indiscrete) di liquidi corrotti e impuri (fracidi e rei) dagli umili vasi da notte di terracotta (spregiate crete), cosicché (onde) la puzza (vapor) si diffonde e viene respirata. 20. Quivi i lari ... indiscrete: non esistendo la rete fognaria le deiezioni umane venivano riversate dalle finestre nelle strade, senza rispetto (per questo sono dette indiscrete) per i cittadini. I Lari nel mondo romano erano gli dei protettori della casa: qui per metonimia il termine indica le case stesse.

La creta è il materiale poco pregiato con cui si fabbricavano i vasi usati dai poveri: è un’altra metonimia. L’aggettivo spregiate si riferisce non solo alla materia dei vasi da notte, ma anche al loro uso. versi 103-108 Animali morti (Spenti), abbandonati in mezzo alle vie affollate (frequenti), riempiono le giornate (die) estive di esalazioni ammorbanti (aliti corrotti): spettacolo ripugnante (deforme) lungo il cammino (orme) dei cittadini! 21. Spenti ... die: nelle calde giornate estive

le epidemie causate dalle carogne putrescenti hanno più facilità a diffondersi. versi 109-114 Non appena il sole tramonta i carri adibiti al trasporto dei liquami (vaganti latrine) con le loro aperture (gole) spalancate percorrono (lustran) ogni zona della città, che, quando si sveglia, respira l’aria nociva (aura molesta). 22. lustran: richiama la cerimonia latina della purificazione dei campi, quindi assume qui un valore antifrastico e ironico. versi 115-120 È vero che leggi lo vietano e la giustizia (Temi) guarda minacciosa (i trasgressori): ma la pigrizia e l’individualismo inducono soltanto al perseguimento dei privati interessi (sol … pensiero). Stolto (cittadino)! Non vuoi riconoscere nel danno comune il tuo (personale danno)? – 23. Gridan: le leggi allora erano chiamate “gride”. Si conosce una legge, del 1756, che regolamentava l’uso delle “navazze” stercorarie. 24. Temi: dea della giustizia. versi 121-126 Ahimè, ma dove corro e divago, allontanandomi dalle belle colline e dal bel lago e dalle contadinelle (villanelle) a cui l’aria così viva e pura fa ondeggiare il petto (mentre la inspirano)? versi 127-132 La (mia) calda fantasia va per una via trascurata (negletta) (dagli altri poeti), sempre proponendosi fini utili, ed è felice solo quando può unire l’utilità al pregio di un canto esteticamente piacevole (lusinghevol).

503

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo

> L’opposizione campagna-città

Non è più la campagna arcadica

Echi nel tempo Il motivo della città inquinata nella letteratura moderna

La città

Le precise responsabilità economiche

Il testo è costruito sull’opposizione tra la campagna e la città, che ne costituiscono rispettivamente il polo positivo e quello negativo: pertanto si alternano con studiato equilibrio immagini positive della campagna e negative della città. Le prime quattro strofe presentano un elogio della campagna. Già da esse si può cogliere la novità tematica dell’ode: non compare più la campagna arcadica, leziosa e agghindata quanto generica, in obbedienza al topos classico del «luogo ameno», ma una campagna concreta, studiata con lo spirito scientifico del geografo e dell’igienista, in armonia con il gusto per le scienze che è proprio dell’età illuministica. Il poeta indugia innanzitutto sugli effetti fisiologici dell’aria salubre, poi analizza, con la minuzia dell’esperto, la configurazione fisica del territorio e le sue conseguenze climatiche. Con stacco netto, a queste immagini serene e sane si contrappone poi l’immagine della città. La negatività dell’ambiente cittadino si compendia in dati sensisticamente molto concreti, fisici: le acque stagnanti delle risaie, il fango fetido, gli effetti nocivi che ne derivano sulla salute dei coltivatori, che sono pallidi e languenti. Non solo, ma il poeta individua responsabilità precise di ordine sociale ed economico, quelle degli speculatori che per avidità di profitto estendono la coltivazione del riso sino alle porte della città, senza curarsi della salute dei cittadini e dei lavoratori. Emergono già di qui in piena evidenza i caratteri dell’impegno civile e illuministico della poesia pariniana, che si concentra su problemi specifici della vita sociale contemporanea, nella fiducia di poter eliminare storture e aberrazioni attraverso lo strumento critico della ragione e la diffusione dei “lumi”, avendo come fine il miglioramento delle condizioni della collettività.

> «Mal nato riso» e «crescente pane» Le posizioni dei fisiocratici

A questo punto, dall’ottava strofa, si innesta nuovamente il contrasto con la campagna: il poeta costruisce una puntuale contrapposizione tra i coltivatori del riso pallidi e malaticci da un lato e i contadini brianzoli che, pur sottoposti alla dura fatica dei campi, sono vegeti e robusti. Questa contrapposizione non è solo un elegante motivo letterario: il discorso si inserisce in un preciso dibattito culturale: Parini si rivela vicino alle posizioni dei fisiocratici ( p. 507), che individuavano nella coltivazione della terra la vera fonte di ricchezza delle nazioni e celebravano un’agricoltura naturale contrapposta a una speculativa, parassitaria, intesa solo al profitto mercantile.

Bernardo Bellotto, Veduta della Gazzada (Varese), 1740 circa, olio su tela, Milano, Pinacoteca di Brera.

504

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

> Il filtro letterario L’idealizzazione della vita contadina

Le convenzioni bucoliche

E tuttavia, a ben vedere, è pur sempre una campagna colta attraverso un filtro letterario: ne è la spia l’esclamazione «Oh fortunate / genti» (vv. 61-62), che richiama un passo famoso delle Georgiche di Virgilio, «O sin troppo fortunati i contadini, se conoscessero i loro vantaggi» (libro II, vv. 458-459). Per quanto si affermi il motivo del lavoro produttivo contro l’ozio pastorale arcadico, i contadini pariniani sono pur sempre idealizzati. E non mancano consistenti residui di una visione idillica: il poeta è sì il celebratore del lavoro e della vita attiva e sana, ma l’immagine che egli propone di sé è sempre quella del letterato che cerca nella campagna un luogo di evasione, la garanzia di una vita lontana dalle angosce della società e della storia. La figura del poeta disteso «sotto ad una fresc’ombra», con la «mente sgombra», mentre canta i villani intenti al lavoro, rientra pienamente nelle convenzioni della poesia bucolica: si pensi al pastore Titiro della prima egloga di Virgilio, «disteso sotto l’ampia volta di un faggio», mentre si esercita a suonare il suo silvestre zufolo. Parini è certo un intellettuale nuovo, inserito nella battaglia illuministica, ma in lui resta pur sempre il residuo del vecchio letterato italiano.

> Innocenza e colpa La campagna e l’Eden

La città «superba» e trasgressiva

Una spia significativa è anche l’aggettivo «innocente» riferito al clima della Brianza (v. 44). Questa innocenza richiama la condizione originaria dell’uomo prima del peccato originale: la campagna è quindi associata (più o meno consciamente) all’Eden, al paradiso terrestre, ed evoca un mito di beatitudine e di serenità sgombra di ogni affanno. Meno convenzionale è invece la raffigurazione della città, che dal verso 67 si oppone di nuovo, in immediata contiguità, al quadro sereno della campagna. Anche qui un aggettivo appare denso di risonanze e fornisce un indizio prezioso: la città «superba» (v. 68). Questa «superbia» si contrappone evidentemente all’«innocenza» edenica della campagna ed evoca l’impresa folle della torre di Babele con cui gli uomini vollero sfidare il cielo, attirandosi la collera di Dio.

> La città immonda Le cause sociali dei mali della città

I particolari crudi

Al di là di questi elementi mitico-simbolici, la rappresentazione della città a partire dal v. 67 riprende la polemica circostanziata e concreta che già era stata annunciata all’inizio. Anche qui Parini individua precise cause sociali ai mali della città e responsabilità che nascono da ben determinati interessi: le marcite sotto le mura di Milano rispondono al bisogno di fornire fieno agli equipaggi lussuosi delle casate aristocratiche. Qui, alla polemica contro il lusso, si associa il motivo, ripreso poi nel Mattino, del disprezzo della vita umana da parte dei nobili che, nelle loro corse in carrozza per la città, non si curano di travolgere i plebei. Dopo questa mossa risentita, che riflette lo sdegno civile e lo spirito umanitario del poeta, la rappresentazione della città si sofferma su tutta una serie di particolari estremamente crudi: letame, liquami, carogne. Il poeta denuncia come alla base di tutto questo stia l’inerzia dei cittadini, la noncuranza del bene pubblico. Dietro lo sdegno di Parini si coglie dunque un motivo tipico della cultura illuministica, il senso del “patto sociale” che deve unire gli uomini in società, vincolandoli al rispetto degli altri, in vista dell’interesse comune.

> Una dichiarazione di poetica L’«utile»

Il «lusinghevol canto»

Le ultime due strofe, ponendosi come una sorta di congedo, offrono una fondamentale dichiarazione di poetica, che vale a illuminare i princìpi seguiti da Parini in questa fase della sua produzione. Il poeta è ben consapevole della novità del suo esperimento («Va per negletta via [...] la calda fantasia»). La novità consiste nel perseguire l’«utile», nell’affidare alla poesia il compito di diffondere i “lumi”. Con questo, Parini si oppone a una poesia intesa come vuoto esercizio letterario e formale e si collega apertamente con la cultura riformatrice contemporanea. L’«utile» tuttavia non è il fine esclusivo; la poesia non è da Parini degradata a puro supporto di un’operazione pratica, ma possiede una sua irrinunciabile autonomia: l’«utile» deve andare unito al «lusinghevol canto». 505

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

È il principio classico, oraziano, della mescolanza dell’utile e del diletto come fine della poesia, ma quello che può apparire un disusato luogo comune si carica di un senso nuovo, nel contesto culturale in cui si colloca Parini, quello illuministico. Il diletto del canto «lusinghevol» è da intendere in primo luogo in accezione sensistica: la poesia deve procurare piacere sollecitando sensazioni vive ed effetti intensi, in modo da scuotere l’animo dall’inerzia e da garantirgli sempre un’alacre vitalità. A questo si unisce poi il significato classicistico: il canto è «lusinghevol» perché formalmente perfetto, rifinito con perizia secondo le norme del buon gusto e le regole letterarie.

> La costruzione stilistica Le materie prosaiche

Il linguaggio aulico

Questa dichiarazione di poetica finale è illuminante ad intendere la costruzione stilistica dell’ode. Nel suo slancio polemico e riformatore, finalizzato alla ricerca dell’«utile», Parini, come si è visto, ha il coraggio di affrontare materie prosaiche, come quelle economiche, o addirittura particolari crudi e sgradevoli: tutti argomenti che il gusto classico, fondato sul principio di una rigorosa separazione degli stili e di un’idealizzazione sublimante della realtà, respingeva come indegni di essere trattati in versi, per lo meno nel genere lirico illustre. Ma queste realtà crude e basse sono sempre evocate da Parini con un linguaggio aulico e prezioso. Attraverso questo linguaggio le materie impoetiche ottengono il lasciapassare per entrare nello spazio della poesia. Al tempo stesso però, subendo questo processo, quelle realtà vengono private di gran parte della loro carica dirompente. Si può verificare direttamente, qui, quanto si era preannunciato: Parini, letterariamente come politicamente, non è un rivoluzionario, non vuole scardinare gli istituti vigenti, ma riformarli dall’interno, conservandone l’essenza.

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. Completa la tabella seguente assegnando un titolo a ogni sequenza in cui è stata suddivisa l’Ode. Versi

Titolo della sequenza

1-24

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

25-42

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

43-66

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67-120

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

121-132

...........................................................................................................................................................................................................................................................................

> 2. Per quale fine la città di Milano fu “circondata” di risaie? A spese di chi? Quale pena Parini riserva a colui che per primo espose la città ai miasmi delle acque stagnanti? > 3. Quali altri elementi o abitudini concorrono a rendere irrespirabile l’aria della città? ANALIZZARE

> 4. > 5. > 6.

«Utile» è una parola chiave dell’ultima strofa: quali figure retoriche le danno risalto? Analizza i versi 13-18 e individua le numerose figure di posizione e di significato utilizzate dal poeta. Lessico Illustra la modalità con cui Parini dà una forma classica a una materia considerata impoetica secondo i canoni dell’epoca, prendendo come esempio i versi 91-114: quali termini denotano realtà crude e realistiche? Si possono osservare latinismi lessicali e sintattici? Stile Stile

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 7. Scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) esamina le due strofe in cui Parini fa riferimento all’attività poetica (vv. 49-54 e 127-132): quali diversi “tipi“ di poesia sono evocati? A quali diversi ambienti e tradizioni culturali sono riconducibili? In che misura lo stile dell’ode rispecchia questa “ambivalenza culturale”? > 8. Esporre oralmente Elenca in un’esposizione orale (max 3 minuti) le caratteristiche dell’ambiente rurale e di quello cittadino delineate nel componimento e poste in contrapposizione.

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Capitolo 8 · Giuseppe Parini

> 9. Video da Le quattro volte

Altri linguaggi: cinema Le quattro volte (2010) è un film di Michelangelo Frammartino ambientato sui monti della Calabria, e racconta con sorprendente efficacia e delicatezza il rapporto dell’uomo con la natura. Dopo aver guardato il trailer, rispondi alle domande. a) Che cosa significano le parole pronunciate dalla voce fuori campo: «Abbiamo noi quattro vite successive, incastrate l’una dentro l’altra…»? b) Quale rapporto con la natura e con l’ambiente viene descritto nel film? Qual è invece il rapporto che l’uomo detiene oggi con la natura e il territorio? c) Che cosa simboleggia, a tuo avviso, l’albero della cuccagna?

Fotogramma dal film Le quattro volte. PASSATO E PRESENTE L’inquinamento ai nostri giorni

> 10. Nella poesia si affrontano alcuni temi di grande attualità, tra cui la tutela dell’ambiente e della salute pubblica. Con la partecipazione dei compagni di classe, rifletti sui problemi ambientali che riguardano il luogo in cui vivi e proponi alcune soluzioni.

Microsaggio

I fisiocratici

Lavoro produttivo e sterile

La natura benevola

Solo l’agricoltura è fonte di ricchezza

Poiché abbiamo sottolineato l’affinità tra le concezioni di Parini e quelle dei fisiocratici, sarà opportuno fornire su questi ultimi qualche informazione più ampia. Si tratta di una corrente di pensiero economico che si sviluppa in Francia nel corso del Settecento ed ha come rappresentanti principali François Quesnay (16941774) e Robert-Jacques Turgot (1727-81). Punto di partenza della loro riflessione è la distinzione del lavoro in due categorie, quello produttivo e quello sterile. Per i due economisti produttivo è solo il lavoro che può creare un’eccedenza, cioè qualche cosa in più di ciò che esso impiega per avere la possibilità di produrre; tutti gli altri sono considerati sterili. Per questo essi definiscono come «produttivo» un particolare ramo della produzione, l’agricoltura: solo in essa si può facilmente cogliere la differenza tra beni prodotti e beni consumati per la produzione, perché la somma tra il vitto necessario per sostentare il lavoratore ed i semi utilizzati è in media inferiore alla quantità del raccolto che si ricava dalla terra. Questa eccedenza viene considerata dai fisiocratici come un dono della natura stessa, benefica e provvidenziale, le cui leggi regolano allo stesso modo i fenomeni fisici e quelli sociali, mirando al bene dell’umanità. Da questa concezione della natura deriva il nome della corrente, che rimanda ai termini greci phýsis, natura, e krátos, potere. I coltivatori della terra sono dunque per i fisiocratici la sola classe veramente produttiva. Ciò che i contadini producono serve non solo a soddisfare i loro bisogni, ma anche quelli dei proprietari delle terre che incamerano le rendite, quelli del re, dei funzionari, della Chiesa, che a loro volta dipendono dalle entrate dei proprietari fondiari, ed infine quelli degli artigiani e dei mercanti, considerati classe sterile: tutti costoro dipendono dai mezzi di sussistenza che i lavoratori della terra riescono a produrre in eccedenza rispetto a ciò che serve a soddisfare il loro bisogno. Solo l’agricoltura è quindi ritenuta dai fisiocratici la fonte della ricchezza. Le altre attività, come l’industria e il commercio, non creano ricchezze, si limitano a scambiarle. Le concezioni fisiocratiche si oppongono pertanto a quelle del mercantilismo, secondo il quale la ricchezza nasceva non dalla produzione dei beni, ma dallo scambio.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La voce del Novecento

L’insalubrità dell’aria nella Milano raccontata da Andrea De Carlo Il romanzo Due di due, uscito nel 1989, è stato uno dei maggiori best-sellers degli anni Novanta. È la storia di due giovani, fra il ’68 e gli anni Ottanta, della loro violenta insofferenza verso la famiglia, la scuola, la società. Il simbolo materiale di tutto ciò che provoca la loro rivolta è la città di Milano dove sono nati, con la sua aria inquinata e irrespirabile, con il frastuono del suo traffico. Uno dei due, nel suo radicale rifiuto, finirà per autodistruggersi, l’altro invece troverà la salvezza lontano dalla città, andando a vivere in un casale in Umbria, dove si dedicherà a coltivazioni biologiche.

5

10

15

20

Abbiamo attraversato la città verso nord per i viali già pieni di traffico pesante. Le macchine e i camion si avventavano con furia dissennata tra gli argini grigi delle facciate, si lasciavano dietro onde laceranti di rumore, scie di gas irrespirabili. I passanti lungo i marciapiedi sembravano fantasmi dall’andatura incerta, i loro vestiti e le loro facce avevano lo stesso colore dello scenario in cui erano costretti a vivere. Erano più di cinque anni che non ci tornavo1: appena sceso dal treno e uscito nel piazzale davanti alla Stazione Centrale mi è sembrato di rientrare dritto in un incubo vecchissimo ma ancora vivo. Sono andato a piedi con la mia borsa lungo un viale percorso da fiumi di mezzi meccanici che grattavano e laceravano e centrifugavano l’aria, se la vomitavano alle spalle ancora più difficile da respirare. Il marciapiede era sporco di chiazze d’olio e polvere nerastra ed escrementi di cane e catarro umano; ingombro di macchine parcheggiate a cavallo e di sghembo e di muso fino ai muri degli edifici in modo da costringermi a scendere nel viale ogni pochi passi. Faceva un freddo viscido e malato; i pochi alberi visibili erano stati capitozzati2 nella maniera più barbara, lasciati come poveri pali viventi a separare due corsi di traffico. Poi in centro vicino a casa di mia madre guardavo le vetrine traboccanti delle boutiques e le salumerie e i negozi di primizie e le gioiellerie e le agenzie di viaggio; le facce dei residenti abbronzate da weekend in montagna e quelle cadaveriche dei passanti sospinti dall’angoscia; i ragazzotti e le ragazzotte imbertucciati3 nei loro abiti firmati, i bambini senza colore trascinati per mano tra i tubi di scappamento, e mi è venuto un vero terrore all’idea che i miei figli potessero esser costretti a vivere in un posto come quello. A. De Carlo, Due di due, Mondadori, Milano 1989

1. non ci tornavo: a Milano. A raccontare è dei due protagonisti quello che si è stabilito in un casale in

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Umbria. 2. capitozzati: potati. 3. imbertucciati: imbacuccati. Ma il

termine sembra accostare gli umani a delle bertucce, trasformarli in animali ridicoli.

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

Analisi del testo La deformazione espressionistica

Un inferno senza via d’uscita

Il tempo immobile di un incubo

Le realtà disgustose

La malattia e la morte

La facciata della società consumistica

L’inquinamento nell’ode pariniana

L’inquinamento nelle città moderne

> Il primo passo

Lungo il romanzo si susseguono immagini della città moderna come queste, immerse in un’atmosfera allucinata, da incubo. Nel primo passo meritano attenzione gli aggettivi, i sostantivi, i verbi adoperati: essi non sono puramente descrittivi ma appaiono portatori di una violenta carica polemica, che determina una deformazione espressionistica della realtà. La «furia dissennata» con cui auto e camion «si avventano» per le strade vuole evocare l’idea di una follia collettiva che domina i comportamenti degli abitanti e toglie ogni senso alla vita, trasformandola in una sarabanda assurda; il grigio delle facciate dà l’impressione di uno squallore che spegne ogni vitalità; la metafora degli «argini» attribuita alle file delle case rende l’idea di una costrizione, che obbliga a un percorso da cui non ci si può allontanare, come il corso di un fiume; i passanti ridotti a «fantasmi», il grigio delle loro facce e dei loro vestiti confermano la sensazione di un’assenza di vita, o meglio suscitano l’immagine di anime dannate che si aggirano in un inferno senza via d’uscita.

> Il secondo passo

Nel secondo passo la parola chiave compare nelle prime righe, «incubo». I due aggettivi, «vecchissimo» e «ancora vivo», rendono la sensazione di un tempo immobile, che imprigiona senza scampo, come è proprio del tempo degli incubi (o forse di un’eternità infernale). Le metafore attribuite al rumore dei motori, «grattavano», «laceravano», «centrifugavano», suscitano l’impressione di una violenza esercitata sull’aria, trasformata come in un corpo vivo che venga crudelmente smembrato. «Vomitavano» vuole invece evocare un’impressione di disgusto, su cui poi insistono le immagini di sporcizia, le «chiazze d’olio», la «polvere nerastra», gli «escrementi di cane», il «catarro umano». Il freddo non è tonificante, ma «viscido e malato», come se fosse l’emanazione esterna della malattia che corrode dall’interno tutta quella realtà. Infine gli alberi crudelmente potati danno l’idea della mutilazione e della morte, che corona l’intero quadro. A contrasto con questo scenario desolato e angoscioso si presentano le immagini della società dei consumi e della sua opulenza, ma sono immagini di vitalità false, di pura facciata, incapaci di nascondere la malattia intima che mina quel tipo di civiltà, e la falsità è tradita dalle «facce cadaveriche» dei passanti spinti dall’«angoscia», dai bambini «senza colore» (ma anche le facce abbronzate da week-end in montagna sono solo ingannevole apparenza).

> Civiltà agricola e civiltà industriale

Il problema ecologico prospettato dalla Salubrità dell’aria di Parini corrisponde a una civiltà ancora pre-industriale, agricola: l’inquinamento atmosferico è dato dai miasmi delle acque stagnanti delle risaie e delle marcite che ammorbano la città, dal letame che fermenta ai piedi dei palazzi, dai liquami che scorrono per le vie, dalle fogne a cielo aperto. Il problema si pone in termini ben diversi con l’avvento della civiltà industriale, quando l’aria delle città è inquinata dai fumi delle fabbriche e dalle emissioni delle automobili, a cui si aggiunge l’inquinamento acustico, non meno pericoloso. Le immagini della Milano moderna offerte da De Carlo, filtrate attraverso un senso violento di ripulsa verso la civiltà moderna, chiudono in qualche modo il circolo aperto dalla Milano settecentesca dell’ode pariniana. L’accostamento può offrire allo studente di oggi lo spunto per molte riflessioni.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. Perché il narratore viene preso da “vero terrore”? Cosa teme di più? ANALIZZARE

> 2.

Stile Individua nei testi le numerose metafore, che descrivono la città con la sua aria irrespirabile, l’ambiente sudicio e inquinato e il frastuono del traffico. > 3. Stile Un’altra figura retorica contribuisce a rendere al meglio il senso di disgusto e di oppressione provato dal protagonista ed è quella dell’enumerazione, che diviene anche climax. Individua tali occorrenze. > 4. Stile Riconosci nei brani le seguenti figure retoriche: antitesi, personificazione, similitudine, ossimoro.

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 5.

Testi a confronto: scrivere Istituisci in un testo scritto di un massimo di 10 righe (500 caratteri) un confronto tra la Milano di Parini e quella di De Carlo. L’inquinamento della città, ti sembra sia dovuto alle stesse cause, «il lusso e l’avarizia/e la stolta pigrizia» ( T1, vv. 71-72)? > 6. Competenze digitali Improvvisati reporter e prova a fotografare all’interno della tua città situazioni simili a quelle descritte nel brano: il traffico, le vetrine, i diversi passanti. Trasforma il tutto in una presentazione in PowerPoint, utilizzando il testo di De Carlo come didascalia. Oppure, all’opposto, traendo spunto dal testo di Parini, fotografa situazioni e paesaggi ameni.

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Incontro con l’Opera Il Giorno

4

Il disegno del Giorno

Il genere didascalico

La descrizione di una giornata tipo del nobile

I caratteri del poemetto: il Mattino e il Mezzogiorno

Negli stessi anni in cui componeva le odi “illuministiche” Parini lavorò ad un poema in endecasillabi sciolti che mirava a rappresentare satiricamente l’aristocrazia del tempo: l’opera si collegava quindi all’impegno civile e illuministico delle prime odi, rispecchiando lo stesso atteggiamento battagliero e polemico. Il poema aveva per argomento la descrizione della giornata di un «giovin signore» della nobiltà milanese e nel progetto originario doveva articolarsi in tre parti, il Mattino, il Mezzogiorno e la Sera. Le prime due parti furono pubblicate rispettivamente nel 1763 e nel 1765, mentre la Sera, che era stata promessa all’editore per il 1767, non venne terminata. Più tardi si sdoppiò a sua volta in due parti, il Vespro e la Notte, alle quali Parini continuò a lavorare sino ai suoi ultimi anni, senza però portarle a compimento. Nel frattempo continuava a rivedere e a correggere il Mattino e il Mezzogiorno, ma anche qui senza terminare il lavoro e senza arrivare a una nuova edizione, per cui ci restano solo delle redazioni manoscritte, che peraltro presentano cospicue varianti rispetto alla prima stampa. Il Giorno rientra esteriormente nel genere della poesia didascalica, che vantava illustri modelli nella letteratura classica ed era particolarmente diffusa nell’ambito della cultura illuministica, che aveva fatto dell’insegnamento e della divulgazione un vero e proprio abito mentale. Il poeta, presentandosi come «precettor d’amabil rito», afferma di voler insegnare al «giovin signore» come riempire piacevolmente i vari momenti della sua giornata, vincendo la noia che lo affligge. L’impianto del poema, quindi, più che narrativo è descrittivo: non viene individuata una particolare vicenda, ma viene descritta una giornata tipo dell’aristocrazia, presentando tutte le varie possibilità che al giovane si offrono per occupare il suo tempo. Nel Mattino il nobile viene colto nel momento in cui si corica, all’alba, dopo una notte trascorsa a teatro o al tavolo da gioco; vengono quindi descritti il suo risveglio a mattina inoltrata, la colazione, la lunga e laboriosa toeletta, con un indugio minuzioso su tutti gli oggetti che lo circondano. Alla fine il «giovin signore» è pronto per uscire e recarsi a trovare la sua dama. Uno dei motivi centrali della rappresentazione pariniana è infatti il fenomeno del cicisbeismo, per cui ogni donna sposata aveva il diritto (a volte persino sancito nel contratto nuziale) ad un “cavalier servente” che l’accompagnasse costantemente in luogo del marito (a sua volta impegnato in un uguale compito con un’altra dama). Il rapporto doveva consistere, in teoria, in un puro “servizio” della donna, secondo una concezione che risaliva ancora all’amor cortese dell’età feudale, ma di fatto si risolveva in una forma di adulterio, che veniva così socialmente legittimato. Nel Mezzogiorno il «giovin signore» viene seguito in visita alla dama, con tutte le schermaglie amorose che ne derivano, poi durante il pranzo, in cui si intrecciano conversazioni sugli argomenti più vari, tra cui anche i temi filosofici alla moda, quale il pensiero dei nuovi philosophes d’oltralpe. Infine la coppia, nel tardo pomeriggio, si reca al “corso”, cioè al passeggio delle carrozze, dove si ritrova tutta la nobiltà cittadina. 511

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Gli strumenti della satira

La satira del mondo aristocratico e l’ironia

Il tempo banale e vuoto

Lo spazio chiuso

L’impianto didascalico, derivante dagli insegnamenti che il «precettore» impartisce al suo pupillo sul modo di occupare il tempo, è più sensibile nella prima parte, mentre sfuma nella seconda, dove, alla tavola della dama, compaiono varie altre figure, e l’andamento si fa più direttamente descrittivo. Comunque la struttura didascalico-descrittiva non è che un pretesto, che serve a veicolare la satira del mondo aristocratico. Infatti tutto il discorso del «precettore» è impostato in chiave ironica e si fonda sulla figura dell’antifrasi, secondo la quale viene affermato il contrario di ciò che si vuole fare intendere. Il «precettore» finge di accettare il punto di vista del «giovin signore» e del suo mondo, di condividerne i gusti e i giudizi, perciò la vita futile e vuota della nobiltà viene celebrata in termini iperbolici, come la vita eccezionale e superiore di veri e propri «semidei terreni», e i gesti più banali, come sbadigliare o bere una tazza di caffè, divengono eventi portentosi, degni di essere cantati in termini alati e sublimi; in realtà la vera essenza di quel mondo, cioè la sua vacuità frivola e insulsa, traspare inequivocabilmente dietro l’ironica enfasi celebrativa, e alle spalle della figura melliflua e servile del «precettore» si delinea chiaramente quella del poeta, con il suo atteggiamento di ferma, sdegnata condanna. Anzi, proprio l’eccesso della celebrazione, con la sproporzione evidente che crea nei confronti dell’oggetto, la cui meschinità ridicola è perfettamente visibile, vale a mettere in rilievo tutta la negatività del mondo nobiliare rappresentato. L’antifrasi ironica diviene così lo strumento critico più corrosivo nei confronti di una società oziosa e inutile. La critica pariniana si vale però anche di altri strumenti, come ad esempio di un particolare trattamento del tempo e dello spazio. Innanzitutto non viene scelta una giornata particolare, che si segnali per qualche accadimento di rilievo, degno di essere ricordato, ma una giornata tipo, eguale a infinite altre; e già questo basta a dare il senso di una vita banale, dove non succede mai nulla di importante. Inoltre il tempo in cui si collocano gli eventi descritti è piuttosto breve, poche ore, dal risveglio del «giovin signore» a giorno inoltrato sino al tramonto, eppure, alla lettura, si ha l’impressione di un tempo lunghissimo: l’effetto è creato dall’indugio descrittivo estremamente lento, dall’osservazione per così dire al microscopio di quella realtà, che dilata a dismisura il tempo reale. Oltre ad essere un tempo apparentemente lungo è anche un tempo vuoto, in cui si ripetono meccanicamente, monotonamente i medesimi gesti, le medesime parole. L’impostazione stessa del tempo narrativo (più propriamente bisognerebbe parlare di rapporto tra tempo della storia e tempo del discorso, tra tempo occupato dagli eventi raccontati e tempo impiegato per raccontarli) vale così a rendere il senso di un mondo vacuo, privo di senso, dominato solo dalla noia. E la noia infatti è uno dei temi centrali, proposto sin dall’apertura del poemetto, poiché il «precettore» si offre di insegnare al «giovin signore» «Come ingannar questi noiosi e lenti / giorni di vita cui sì lungo tedio / e fastidio insoffribile accompagna». Un effetto analogo ottiene la rappresentazione dello spazio. Si tratta di uno spazio ristretto, quasi sempre chiuso: la scena è prima all’interno del palazzo del «giovin signore», in seguito si sposta in quello della dama (anche il Vespro e la Notte si svolgeranno poi prevalentemente in interni). Unica apertura è la scena del passeggio sul “corso”, ma solo apparentemente: anche lì lo spazio è limitato, e per di più gran parte dell’azione si svolge nel chiuso delle carrozze. La ristrettezza dello spazio rende l’impressione di una chiusura asfittica e, insieme al tempo lunghissimo e vuoto, dà il senso di un mondo morto, ormai privo di energie vitali.

La pluralità di piani Nella descrizione della giornata del «giovin signore» si inseriscono però, in alcuni punti, altri piani di realtà, che hanno il compito di aprire altre prospettive. Alla nobil512

Capitolo 8 · Giuseppe Parini La nobiltà del passato

Le classi popolari

tà oziosa ed effeminata del presente viene contrapposta talora quella rude del passato, che, lungi dall’adagiarsi nelle mollezze, si gettava ferocemente nella battaglia (si veda ad esempio il paragone tra il «giovin signore» avvolto da una nuvola di cipria nella sua toeletta ed il guerriero immerso tra il fumo dei cannoni e la polvere del campo). Anche qui scatta il meccanismo ironico, in quanto il «precettore» finge di provare orrore per quella barbarica ferocia e di esaltare le pacifiche operazioni della nobiltà d’oggi, ma è chiaro che l’atteggiamento del poeta è del tutto opposto ed è inteso a celebrare la nobiltà guerriera che sapeva affrontare la morte in battaglia per difendere i concittadini e salvare la patria (anche se, in questa fase del suo percorso, Parini non idealizza affatto la nobiltà del passato, anzi, ne riconosce le origini brigantesche e rapaci, come risulta dal Dialogo sopra la nobiltà e dai versi di chiusura della favola del Piacere). La raffigurazione della vita nobiliare del presente è quindi il piano dominante dell’opera, ma non l’unico: in esso, a tratti, si aprono prospettive temporali diverse che ne spezzano la levigata superficie, apparentemente splendida ma in realtà soffocante. Ma nel presente stesso si apre un altro piano di rappresentazione: quello delle classi popolari. All’ozio vano e corrotto dei nobili, subito in apertura del Mattino si contrappone la vita operosa e sana del contadino e dell’artigiano ( T2, p. 510), che si dedicano ad attività utili alla collettività umana e si ispirano a valori fondamentali come il culto della famiglia, che la nobiltà ignora o stravolge. Oppure col fasto e con lo sperpero nobiliari contrasta il quadro della miseria popolare: sono gli indifesi plebei che per strada vengono travolti dalle ruote della carrozza aristocratica lanciata a folle corsa, è il servo messo sulla strada e costretto a chiedere l’elemosina con la sua famiglia per aver dato un calcio alla cagnetta della dama che l’aveva morso ( T5, p. 533), è la folla di mendicanti affamati che si accalca intorno al palazzo patrizio per respirare almeno il profumo dei cibi squisiti che da esso emana all’ora del pranzo. La nobiltà, chiusa nel suo spazio inviolabile, crede di essere l’unica realtà esistente ed ignora ciò che vi è al di fuori dei confini del suo ambiente ristretto. Il «precettore», adottando il punto di vista del «giovin signore», sembra corroborare questo convincimento, ma poi, richiamando l’immagine del popolo lavoratore e quella dei miseri affamati, rompe quella fatua illusione, facendo sentire, al di là del mondo insulso e frivolo dei nobili, l’urgere di un’altra realtà, ben più seria e drammatica, che suscita il suo sdegno civile e la sua partecipazione umanitaria.

Le «favole»

Le origini dei costumi sociali Amore e Imene

La favola del Piacere

L’inserzione di questi due piani (la nobiltà del passato e le classi inferiori) ha l’effetto di rompere la continuità di una rappresentazione che non solo dà il senso del vuoto soffocante del mondo aristocratico, ma rischia di essere monotona e soffocante essa stessa. Al medesimo fine tende l’inserimento delle cosiddette «favole», brevi racconti di carattere mitologico, trattati con squisita grazia rococò ma pieni di ironica malizia, che servono a illustrare le origini di certi costumi sociali. Tra di esse è significativa la favola di Amore e Imene, che spiega le origini del cicisbeismo: Amore e Imene, figli di Venere, un tempo andavano d’accordo e univano i corpi e le anime degli uomini nello stesso tempo. Poi, in seguito alla ribellione di Amore, ebbero dalla madre compiti diversi: Imene, dio del matrimonio, regnò sulle anime durante il giorno, Amore invece regnò sui corpi durante la notte. La favola allude al fatto che nella società nobiliare il matrimonio si riduce a pura facciata esteriore, mentre l’amore è riservato esclusivamente ai rapporti adulteri tra il cavalier servente e la dama. Parimenti la favola del Piacere illustra l’origine della diseguaglianza tra gli uomini. 513

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

L’ambiguità verso il mondo nobiliare

L’educazione dell’aristocrazia

L’ambiguità

L’indugio sensuale sugli oggetti

La condanna della nobiltà che emerge dal poema appare quindi dura e inequivocabile. Tuttavia, come si è già anticipato, l’intento dell’opera non è certo spingere all’eliminazione della classe privilegiata (d’altronde nel 1763 posizioni del genere non erano neppure pensabili: la Rivoluzione francese e il Terrore erano ben al di là da venire). Il poeta mira semmai, con la sua opera, a “educare” l’aristocrazia, a indicarle la via di una rigenerazione, di un ricupero dell’originaria funzione positiva che essa possedeva nella società. L’ideale di Parini è una nobiltà che legittimi la sua posizione privilegiata facendo fruttare le proprie terre ed accrescendo la prosperità comune, anziché dissipare il tempo nell’ozio, e che al tempo stesso assuma una posizione attiva nella cultura e nell’amministrazione pubblica. Parini, in nome della sua visione illuministica e dei suoi convincimenti cristiani, crede fermamente nel principio di eguaglianza, crede nella dignità naturale che è propria di ogni uomo a prescindere dalla sua collocazione di classe, ma non arriva a prospettare uno sconvolgimento della gerarchia sociale esistente (come sarà poi per l’egualitarismo giacobino). Se l’atteggiamento del poeta verso il mondo nobiliare, sia pur dietro il velo dell’ironia (anzi, proprio grazie ad esso) è di condanna, è tuttavia ravvisabile in esso una sottile ambiguità. Parini indugia minuziosamente sugli aspetti della realtà aristocratica, riempie i suoi versi della descrizione di una serie interminabile di oggetti preziosi, vini, cibi, stoffe, mobili, ninnoli, strumenti di toeletta, segue con microscopica precisione i gesti, gli sguardi, le intonazioni dei suoi eroi. Ma se tutto questo, attraverso l’artificio della celebrazione ironica e antifrastica, dovrebbe dare il senso della futilità vuota di quell’ambiente sociale e dovrebbe caricarsi di un segno fortemente negativo, in realtà dal discorso traspare una sorta di compiacimento sensuale del poeta che, nelle sue squisite descrizioni, sembra accarezzare gli oggetti, come se fosse affascinato dall’eleganza, dalla grazia, dalla raffinatezza di quel mondo.

Il fascino rococò Rosalba Carriera, Caterina Sagredo Barbarigo, 1735-40 circa, pastello su carta, Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister.

Caterina Sagredo Barbarigo era considerata una delle donne più belle di Venezia. La raffinata educazione e i viaggi per il mondo l’avevano resa particolarmente colta e il suo salotto veneziano era noto per l’alto livello intellettuale degli ospiti. In questo dipinto appare molto elegante e alla moda. Il cappello a tricorno di panno scuro forma con i capelli, sapientemente arricciati, uno sfondo ideale per gli splendidi orecchini di perle e mette in risalto l’incarnato pallido e perfetto. L’inclinazione della testa conferisce al personaggio un’aria appena altezzosa, mitigata però dal sorriso e dallo sguardo lievemente complice. A ritrarla è Rosalba Carriera, la prima donna ammessa all’Accademia di San Luca e, sostanzialmente, la pittrice più famosa del Settecento. Al di là della piacevolezza e della grazia, che decretarono l’immediato successo della sua produzione, ciò che rende unici i suoi ritratti sono il disegno solido e sicuro; la capacità di scavare nella psicologia dei personaggi e il sapiente uso dei pastelli, quei “colori secchi” inventati due secoli prima ma utilizzati fino ad allora solo per schizzi e studi preparatori. L’adozione di questa tecnica per le opere d’arte, invece, permise a Rosalba sia di tradurre con grandi effetti di leggerezza lo spirito frivolo e svaporato del Rococò, sia soprattutto di ottenere straordinari effetti di luce e di rendere con estrema sensibilità i più sottili mutamenti dell’animo umano.

514

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

Edonismo e moralismo: la molteplicità di piani

Anche i rituali della società nobiliare, che suscitano peraltro la sua riprovazione morale, sono rappresentati con una grazia lieve, che ricorda il gusto figurativo dominante nei quadri, negli affreschi, negli arazzi del tempo, il gusto rococò, manierato sino alla leziosità nell’armonia delle linee e dei colori. Questa sensualità era frutto della cultura dell’epoca, intrisa di galanteria e di edonismo, e Parini non poteva non risentirne. Ma questo edonismo sottile entra inevitabilmente in contrasto con il severo impianto moralistico della satira di costume. La critica ha spesso stigmatizzato questa contraddizione interna dell’opera, vedendovi la fonte di una disomogeneità e di una mancanza di unità: ma, ad una lettura sgombra di pregiudizi, non si può dire che essa appaia un fattore veramente negativo, che comprometta irreparabilmente la validità dell’insieme: anzi, proprio l’ambiguità sottile tra sdegno morale e vagheggiamento sensuoso, tra severità razionale e compiaciuta eleganza, moltiplicando i piani, finisce per costituire il fascino dell’opera, che altrimenti, nel suo impianto descrittivo, rischierebbe di essere ripetitiva e monotona, e nella sua serietà moralistica potrebbe risultare eccessivamente arcigna, arida e scostante.

Le scelte stilistiche

Il linguaggio aulico

Edonismo e moralismo a livello del linguaggio

L’impressione di un accarezzamento sensuale degli oggetti, di un vagheggiamento affascinato dell’eleganza del mondo nobiliare nasce anche dalle scelte stilistiche di Parini. Il problema che gli si proponeva era lo stesso che si presentava quasi contemporaneamente nelle odi, sia pure nell’ambito di un genere diverso, satirico e didascalico anziché lirico: trasferire in poesia una materia contemporanea e realistica, dettata dall’impegno civile e polemico, salvando al tempo stesso la dignità letteraria, a cui un cultore dei classici come Parini non avrebbe mai potuto rinunciare. Il poeta quindi, pur trattando di argomenti mediocri (la colazione del nobile, la sua toeletta, i cibi, i discorsi futili), utilizza un linguaggio eletto, prezioso, aulico, attinto sapientemente dalla tradizione più illustre. Se deve menzionare il caffè, ad esempio, usa una perifrasi amplissima, che occupa ben quattro versi: «la nettarea bevanda ove abbronzato / fuma et arde il legume a te d’Aleppo / giunto, e da Moca che di mille navi / popolata mai sempre insuperbisce» ( T3, vv. 140-143, p. 527), dove a dare solennità alla frase contribuisce il giro sinuoso della sintassi, insieme all’uso calibrato degli enjambements e all’esibizione di peregrina erudizione geografica; se deve parlare della vanga e della zappa del contadino le nobilita richiamando Cerere e Pale, dee dell’agricoltura e della pastorizia: «poi sul collo recando i sacri arnesi / che prima ritrovâr Cerere e Pale» ( T2, vv. 40-41, p. 521). Parimenti usa di continuo l’aggettivo in funzione esornativa, che innalza l’oggetto a cui si accompagna: «patetico gioco», «pruriginosi cibi», «licor lieti», «papaveri tenaci», «cimmeria nebbia», «nettarea bevanda». In tal modo materie prosaiche, impoetiche secondo i canoni classici, vengono legittimate a entrare nel regno della poesia. È vero che questa eleganza preziosa è generalmente finalizzata all’ironia, all’artificio di celebrare antifrasticamente ciò di cui si vuol far risaltare la meschinità. E tuttavia, in ultima analisi, l’uso del linguaggio aulico non è del tutto parodico: comunque Parini non potrebbe menzionare quegli oggetti che con quei termini, con quelle perifrasi. La preziosità eletta del linguaggio, che dovrebbe avere una funzione corrosiva in attrito con la mediocrità della realtà rappresentata, finisce per assumere un valore autonomo, o addirittura finisce per tradire il segreto compiacimento del poeta per l’eleganza e la grazia del mondo nobiliare. Anche a livello formale si apre dunque l’ambiguità tra edonismo e moralismo. Ma non è affatto detto, come si è appena osservato, che questa ambiguità costituisca un difetto dell’opera, perché vale a rendere più ricco e mosso l’impianto espressivo, come rende più mobili i piani e le prospettive della visione del reale. 515

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

L’ultimo Parini: la delusione storica Le riforme di Giuseppe II Autoritarismo e predilezione per le scienze

Il disaccordo di Parini e l’allontanamento dalla militanza civile

Come si è visto, negli anni Sessanta, conducendo la sua battaglia civile attraverso le odi e il Giorno, Parini, insieme con tutta la cultura illuministica lombarda, era in accordo con la politica riformatrice dell’assolutismo illuminato di Maria Teresa. Negli anni Settanta le riforme del successore Giuseppe II, ben più astrattamente radicali, suscitarono invece nel poeta e negli altri illuministi un netto disaccordo e determinarono un senso di delusione e di disaffezione per l’impegno militante. Ciò che provocava la reazione negativa della migliore intellettualità milanese era innanzitutto l’autoritarismo del sovrano, che, in nome di astratti princìpi razionalistici, voleva regolare dall’alto ogni aspetto della vita amministrativa, civile e culturale, soffocando ogni autonomia e ogni iniziativa individuale; in secondo luogo, nel campo particolare della cultura e dell’istruzione, era l’impulso dato soprattutto allo sviluppo delle scienze, a detrimento delle discipline umanistiche. Il progresso scientifico, che pure era uno dei motivi più cari all’opinione pubblica del tempo, era imposto dall’alto, secondo una concezione “dirigistica” che ignorava come ogni forma di progresso non potesse che scaturire dalle forze spontaneamente fermentanti nel corpo sociale. L’autoritarismo di questa politica scontentò persino intellettuali come Pietro Verri, il più aperto ad accogliere riforme e innovazioni anche ardite, fervente celebratore del progresso scientifico, che ben si rendeva conto di come l’imposizione dall’alto di una determinata linea culturale non potesse che soffocare e spegnere le energie vive della società. Se le riforme di Giuseppe II suscitavano reazioni del genere in Pietro Verri, a maggior ragione dovevano urtare Parini, politicamente assai più moderato, e soprattutto profondamente legato, per la sua formazione classica, alla tradizione umanistica, al culto delle lettere e del bello poetico. Il poeta non poteva in alcun modo accettare il primato concesso alle scienze e l’asservimento totale della letteratura a fini utilitaristici. Di conseguenza negli anni Settanta-Ottanta, trovandosi in disaccordo con la linea politica del governo, egli si andò sempre più allontanando dal perseguimento di finalità civili attraverso la scrittura letteraria. L’evoluzione è rispecchiata dal Vespro e dalla Notte e dalle ultime odi ( p. 545).

Parini e il Neoclassicismo

Il ritorno alla compostezza dell’arte greca

Le cause della svolta neoclassica in Parini

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Il diverso atteggiamento del poeta si riflette naturalmente sugli aspetti formali. Il classicismo di origine arcadica che informava la scrittura pariniana si evolve verso il Neoclassicismo. Era questo un gusto che si andava diffondendo nel secondo Settecento, sotto la suggestione delle scoperte archeologiche di Ercolano e Pompei, che riproponevano all’attenzione le forme armoniche e nitide dell’arte antica. Al fascino di questi modelli si affiancavano le teorie di Johann Joachim Winckelmann, studioso tedesco dell’arte antica a lungo attivo in Italia, le cui opere, subito tradotte, influenzarono profondamente la contemporanea cultura italiana. Entusiasta della classicità, Winckelmann vedeva realizzato nell’arte greca il bello ideale, fatto di armonica perfezione di forme, lontano dalla realtà contingente e caratterizzato soprattutto da una «nobile semplicità» e da una «calma grandezza», dall’assenza di ogni moto passionale troppo violento. Queste teorie erano particolarmente seguite negli ambienti artistici milanesi, tra i pittori e gli architetti attivi nell’Accademia di Belle Arti di Brera. Parini, insegnante di lettere proprio all’Accademia, operava fianco a fianco di questi artisti e ne condivideva i gusti, collaborando con essi nella stesura di progetti per scenari teatrali e decorazioni di palazzi. È a questo gusto neoclassico, le cui componenti sono nitidezza e semplicità di linee, armonia, serenità, calma compostezza, che si ispirano le soluzioni formali dell’ultimo Parini. Di questa svolta neoclassica della poesia pariniana sono state proposte diverse interpretazioni. Secondo Petronio essa è il frutto diretto della delusione patita da Parini in conseguenza della politica di Giuseppe II e del distacco dall’attiva militan-

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

za intellettuale, che lo induce a rifugiarsi in un mondo di forme ideali; per Binni invece nasce da una maturazione interiore del poeta, dal raggiungimento di uno stato d’animo più equilibrato e armonico, che lo porta a contemplare la realtà con superiore serenità e pacatezza, e che si trova quindi in naturale accordo con il gusto neoclassico. A noi sembra che sia più valida la prima interpretazione e che l’approdo all’armonia neoclassica per Parini sia una forma di fuga dalla storia e di rifugio dai suoi traumi (come poi avverrà per la generazione successiva, dopo le delusioni della Rivoluzione e dell’età napoleonica, come potremo verificare nell’esperienza foscoliana).

Il Vespro e la Notte

I frammenti del Vespro e della Notte

Testi Commedia mondana e malinconia esistenziale • La sfilata degli imbecilli dalla Notte •

Come si è preannunciato il diverso atteggiamento del poeta verso il reale e il suo diverso gusto si riflettono nelle due ultime parti del Giorno, il Vespro e la Notte, così come nelle correzioni apportate negli ultimi anni al Mattino e al Mezzogiorno. La decisione di scindere in due parti il terzo dei poemetti progettati, la Sera, risale probabilmente al decennio Settanta-Ottanta, ma il poeta vi lavorò a lungo senza portare a compimento l’opera, sicché il Vespro e la Notte si presentano frammentari e incompiuti. Del Vespro restano 517 versi, che però comprendono ampi squarci della parte finale del Mezzogiorno, cioè l’episodio del passeggio sul corso, che il poeta intendeva qui trasferire. Della Notte invece rimangono un lungo frammento di 673 versi, risalente agli anni 1792-96, ed altri frammenti desumibili da manoscritti precedenti. Nel Vespro il «precettore» (che però ha quasi del tutto smesso di impartire precetti di comportamento mondano al suo pupillo e si è trasformato in semplice narratore e descrittore) accompagna il «giovin signore» e la sua dama, dopo il corso, in visita ad un amico malato (ma essi si limitano a lasciare il biglietto da visita) e ad un’amica che ha appena avuto un attacco di nervi, suscitando nel bel mondo infiniti pettegolezzi. Nella Notte i due amanti si recano poi ad un ricevimento serale in casa di un’anziana dama. Qui essi non sono più al centro dell’attenzione del narratore: il suo obiettivo passa minutamente in rassegna i vari personaggi che popolano il salone, indugiando particolarmente su una serie di «imbecilli» e sulle loro sciocche manie (suonare la tromba, far schioccare la frusta, disfare pazientemente preziosi arazzi, trasformandoli in matasse di fili minuti); descrive poi i tavoli da gioco, dove spiccano le figure di due amanti ormai anziani, che nelle carte hanno trovato il modo di riempire il vuoto e la noia della loro relazione, da cui la passione è ormai svanita.

La sfiducia nelle istanze riformistiche La polemica antinobiliare si fa più sfumata

In queste due ultime parti del Giorno, in consonanza con il mutato atteggiamento del poeta verso il reale, la polemica antinobiliare si fa più tenue e sfumata. Non vi è un vero e proprio mutamento di indirizzo ideologico, e di conseguenza permane immutata la condanna di una classe oziosa e improduttiva; resta parimenti l’impianto ironico, che mira a far risaltare il vuoto e la fatuità di quell’ambiente attraverso la sua antifrastica celebrazione; tuttavia l’ironia perde le punte più risentite dello sdegno morale e il sorriso si fa meno mordace. Non compaiono più mosse come la deprecazione delle stragi dei conquistadores in Perù e in Messico ( T3, vv. 144-157, p.  527) o quadri di forte denuncia sociale come quello dei passanti plebei travolti dalla carrozza del «giovin signore», che segna le vie cittadine di una lunga striscia di sangue, o del servo ridotto sul lastrico per un calcio sferrato alla cagnetta della dama ( T5, p. 533). La crudeltà rappresentativa e il dramma sociale lasciano ampiamente luogo alla commedia mondana, alla satira di costume che si appunta sui passatempi insulsi degli aristocratici oziosi, sulle schermaglie amorose tra il «giovin signore» e la sua dama o tra i due amanti ormai attempati. Si introducono così note nuove, come la malinconia, il senso dell’inarrestabile declinare dell’età, dello svanire della 517

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La scomparsa della volontà pedagogica

Un senso di vuoto e di morte

bellezza e della forza vitale: la denuncia sociale si stempera in una tematica esistenziale, l’aspro spirito polemico cede ad un atteggiamento di pensosa contemplazione, quasi priva di acrimonia, e semmai pervasa di pietà. Parallelamente all’attenuarsi della polemica civile si rafforza il vagheggiamento affascinato del lusso, della grazia, dell’eleganza, degli aspetti esteriormente splendidi, degli oggetti preziosi del mondo aristocratico, atteggiamento che si traduce nello squisito lavoro di cesello del verso pariniano (come testimonia la descrizione della notte moderna splendente di luci o quella dei gelati, colma di sensuale compiacimento). Venendo a mancare una forte spinta politica e civile, sembra anche scomparire, dal Vespro e dalla Notte, la volontà pedagogica e correttiva, il proposito di educare e rigenerare una classe in decadenza, riportandola alla sua antica dignità e all’originaria funzione sociale. Traspare da questi versi il senso del fallimento del programma illuministico e riformistico, un clima di sfiducia e di ripiegamento. E d’altronde, quando Parini li scriveva, era già intervenuta la Rivoluzione francese a segnare la fine del mondo nobiliare. La leggerezza mondana di questi episodi è quindi più apparente che reale. Le macchiette sciocche, le schermaglie frivole, anche se osservate con sorridente arguzia, trasmettono un senso di vuoto, di noia irrimediabile, del ripetersi stanco di un meccanismo ormai privo di senso. Come ha giustamente osservato Giuseppe Savoca, la nobiltà appare un mondo ormai svuotato al suo interno, una sfilata di fantasmi che nulla può richiamare in vita. Quindi anche se soggettivamente l’atteggiamento del poeta è meno polemico e meno aspro, oggettivamente, a causa di questo senso di vuoto e di morte che aleggia sulla scena, la rappresentazione della vita nobiliare risulta più desolata che non nelle prime due parti, e quindi, per un certo aspetto, ancora più crudele.

Gli aspetti neoclassici L’accentuarsi del classicismo

Le correzioni al Mattino e al Mezzogiorno

Le due diverse redazioni del poema

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Il corrispettivo formale di queste tendenze è l’accentuarsi del classicismo in direzione neoclassica, come avviene contemporaneamente nelle ultime odi: scompaiono nel Vespro e nella Notte le arditezze linguistiche, l’uso di immagini che colpiscono fortemente i sensi secondo la poetica sensistica, le note più vivacemente realistiche, e si accentua la ricerca di compostezza, di equilibrio, di levigata armonia. Nella stessa direzione vanno le correzioni apportate dal poeta al Mattino e al Mezzogiorno, con un lavorio assiduo e interminabile, protrattosi negli anni sino alla sua morte. Esse in generale sono orientate verso «una resa classicistica più omogenea e più rispondente ai canoni neoclassici della proprietà, della chiarezza, dell’uniformità» (Savoca). Innanzitutto la sintassi ricerca una maggiore fluidità nelle formule di passaggio; ma lo scrupolo di revisione si esercita soprattutto sul lessico. Si avverte nel poeta la volontà di smorzare lo scontro tra il linguaggio classicistico e vocaboli più realistici, di ispirazione sensistica. Così ad esempio l’epiteto sprezzante di «stallone ignobil de la razza umana» attribuito al marito della dama (le cui prerogative maritali sono ridotte alla pura funzione riproduttiva, visto che il cuore della moglie è tutto per il suo cicisbeo), diviene semplicemente «ignobil fabbro», con un’immagine più composta ma anche più sbiadita, meno incisiva. Nella stessa direzione va la correzione del verso famoso del Mattino 1763, «come dannato è a far l’umile vulgo», riferito al contadino che, stremato dalla fatica, va a coricarsi sul suo povero giaciglio al calar del sole ( T2, v. 60, p. 522). Nel rifacimento il verso suona: «qual nei tuguri suoi / entro a rigide coltri il vulgo vile», dove va perduto il crudo termine «dannato», con il suo sapore di sdegnata denuncia sociale. La conclusione a cui porta tutta l’analisi delle varianti condotta dalla critica recente è quindi la necessità di distinguere nettamente le due versioni del Giorno, da un lato il Mattino e il Mezzogiorno nelle stampe originarie del 1763 e del 1765, dall’altro

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

i loro rifacimenti più i frammenti del Vespro e della Notte. Le due redazioni sono il prodotto di due momenti diversi della poesia pariniana e testimoniano due diversi atteggiamenti ideologici e di gusto, il battagliero e fiducioso illuminismo giovanile, con le sue arditezze stilistiche di provenienza sensistica, e il più distaccato e deluso neoclassicismo della maturità.

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I caratteri del Giorno MATERIA

La giornata tipica di un esponente della nobiltà contemporanea, presentata attraverso gli insegnamenti che un «precettore» impartisce a un «giovin signore»

GENERE

Poema narrativo-descrittivo, con un’impostazione didascalica sfruttata a fini satirici

STRUTTURA

Articolazione in quattro sezioni, corrispondenti alle diverse parti del giorno: il Mattino, il Mezzogiorno, il Vespro e la Notte

NARRATORE

Interno: la voce narrante è quella del precettore

NARRATARIO

È il «giovin signore», a cui il narratore si rivolge espressamente

FOCALIZZAZIONE

PERSONAGGI

La narrazione è svolta prevalentemente dal punto di vista del narratore interno, diametralmente opposto a quello dell’autore; da questa impostazione scaturisce una costante ironia: gli atteggiamenti consigliati e i “valori” celebrati dalla voce narrante sono proprio quelli che Parini intende criticare Appartengono generalmente alla nobiltà contemporanea (il «giovin signore», protagonista del poema, e i personaggi del suo ambiente), bollata dal poeta come oziosa e superficiale; ad essi si contrappongono talora la nobiltà del passato, più attiva ed energica, e i ceti inferiori, portatori di valori positivi, come l’operosità e il senso della famiglia

TEMPO

Il tempo della storia coincide con l’arco di una giornata, dal mattino alla notte, con aperture verso il passato storico (la rievocazione dell’antica nobiltà) e mitico (le «favole»). Il tempo del discorso è rallentato dall’indugio sulla descrizione di dettagli futili, a rimarcare il senso di una vita inutile, dominata dalla noia

SPAZIO

È circoscritto alla città in cui è ambientata la vicenda; l’azione si svolge prevalentemente in spazi chiusi (i palazzi, la carrozza), che restituiscono l’impressione di un mondo chiuso in se stesso

METRICA

LINGUAGGIO

Endecasillabi sciolti, cioè non raggruppati in strofe e privi di rime

Aulico e sostenuto, sintatticamente complesso e caratterizzato da un uso continuo di aggettivi in funzione esornativa, allo scopo di sublimare i riferimenti a oggetti banali

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

T2

Il «giovin signore» inizia la sua giornata dal Mattino, vv. 1-124 Riportiamo i versi iniziali del Mattino. Seguiamo il testo della prima edizione del poemetto, uscita nel 1763, perché in essa la veste formale documenta in modo più evidente lo spirito da cui nasce l’opera, legata al clima della battaglia illuministica, mentre le correzioni più tarde sono ormai espressione di una visione e di un atteggiamento molto diversi.

Temi chiave

• la contrapposizione tra le classi lavoratrici e l’inutile aristocrazia

• la vacuità del giovane rampollo,

incapace di intraprendere qualunque attività • l’ironia e il ricorso all’iperbole • l’atteggiamento ambiguo verso il mondo nobiliare, tra condanna e segreta attrazione

> Metro: endecasillabi sciolti.

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Giovin Signore, o a te scenda per lungo di magnanimi lombi ordine il sangue purissimo celeste1, o in te del sangue emendino il difetto i compri onori e le adunate in terra o in mar ricchezze dal genitor frugale2 in pochi lustri, me Precettor d’amabil Rito3 ascolta. Come ingannar4 questi noiosi e lenti giorni di vita cui5 sì lungo tedio, e fastidio insoffribile accompagna, or io t’insegnerò. Quali al Mattino, quai dopo il Mezzodì, quali la Sera6 esser debban tue cure apprenderai, se in mezzo a gli ozii tuoi ozio ti resta pur di tender gli orecchi a’ versi miei.

versi 1-7 O giovane Signore, sia che a te il sangue purissimo, divino (celeste) discenda da una lunga serie di nobili antenati, sia che il titolo nobiliare acquistato (compri onori) e le ricchezze messe insieme in pochi lustri dal padre parsimonioso (frugale) con l’agricoltura o il commercio (in terra o in mar) correggano la mancanza di nobiltà di sangue (emendino il difetto), ascolta me, che ti insegnerò le amabili costumanze della moda (Precettor … Rito). 1. o a te ... celeste: lungo va unito con ordine (iperbato, che imita le inversioni della frase latina); lombi sta propriamente per “reni” (che sono effettivamente il filtro del sangue): si può notare come all’aulicità pre-

ziosa del linguaggio si unisca il gusto per la precisione scientifica, fisiologica, che è proprio della poetica sensistica. 2. frugale: è un elogio ironico, e lascia intendere invece che il padre del «giovin signore» è stato piuttosto avaro, e magari speculatore senza scrupoli. 3. d’amabil Rito: cioè che per la nobiltà sono sacre come un rito religioso. Il senso generale dell’ampio e solenne periodo iniziale è: «Giovin signore, ascolta i miei insegnamenti sia che tu provenga dall’antica nobiltà di sangue sia che il tuo titolo sia stato acquistato di recente col denaro». Il destinatario del «precettore» è un nobile-tipo.

versi 8-15 Adesso io ti insegnerò come ingannare questi (tuoi) giorni di vita noiosi e lenti, che (cui) una continua noia e un fastidio insopportabile accompagnano. Imparerai quali debbano essere le tue occupazioni (cure) al mattino, al pomeriggio, e quali la sera, se tra i tuoi ozii ti resta ancora l’ozio (necessario) per ascoltare (tender … orecchi) i miei versi. 4. Come ingannar: la reggente è io t’insegnerò (v. 11). 5. cui : è complemento oggetto. 6. Mattino … Sera: è evidente l’allusione alle tre parti in cui originariamente Parini intendeva dividere il poemetto, Mattino, Mezzogiorno e Sera.

Pesare le parole Emendino (v. 4)

> Emendare deriva dal latino emendàre, composto di ex-

negativo e mèndae, “errori”, cioè letteralmente “togliere gli errori”. È voce del linguaggio colto e come il termine latino significa “correggere, privare di errori o difetti” (es. bisogna emendarsi dei propri difetti per essere accettati dagli altri; occorre emendare il testo dei tanti errori

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che contiene prima di pubblicarlo). Un emendamento, nel linguaggio politico, è una modifica a un testo di legge sottoposto da un partito all’assemblea parlamentare (es. l’opposizione ha proposto numerosi emendamenti al disegno di legge sulla riforma della giustizia).

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Già l’are7 a Vener sacre e al giocatore Mercurio ne le Gallie e in Albïone devotamente hai visitate, e porti pur anco i segni del tuo zelo impressi8: ora è tempo di posa. In vano Marte9 a sé t’invita; ché ben folle è quegli che a rischio de la vita onor si merca10, e tu naturalmente il sangue aborri. Né i mesti de la Dea Pallade studii11 ti son meno odïosi: avverso ad essi ti feron troppo i queruli ricinti ove l’arti migliori e le scïenze cangiate in mostri e in vane orride larve, fan le capaci volte echeggiar sempre di giovanili strida12. Or primamente odi quali il Mattino a te soavi cure debba guidar con facil mano. Sorge il Mattino in compagnia dell’Alba innanzi al Sol che di poi grande appare su l’estremo orizzonte a render lieti gli animali e le piante e i campi e l’onde. Allora il buon villan sorge dal caro letto cui la fedel sposa e i minori suoi figlioletti intiepidir la notte13; poi sul collo recando i sacri14 arnesi che prima ritrovâr Cerere e Pale15, va col bue lento innanzi al campo, e scuote Pietro Longhi, Il solletico, 1755 circa, olio su tela, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.

versi 16-23 Già hai visitato in Francia (Gallie) e in Inghilterra (Albïone) le case di piacere e le case da gioco, e porti ancora impressi i segni della tua dissolutezza: adesso è tempo di riposo (posa). Invano la vita militare (Marte) ti invita a sé; perché è ben pazzo colui che si acquista (si merca) onore rischiando la vita, e naturalmente tu aborri il sangue. 7. are: ironicamente bordelli e bische sono presentati come gli “altari” della religione a cui il nobile è devoto, quella del piacere ozioso. Il grand tour nelle capitali europee era un momento essenziale della formazione dei giovani aristocratici (si pensi anche ai viaggi del giovane Alfieri, cap. 9, T3, p. 597): ma per il signore non è stato che l’occasione per spregevoli godimenti. 8. e porti ... impressi: può alludere al pallore, ma, più maliziosamente, può riferirsi ai segni di una malattia venerea. 9. Marte: dio della guerra. 10. ben folle ... merca: secondo la consueta tecnica ironica, il «precettore» finge di condividere le idee del «giovin signore», in realtà ne sottolinea la vigliaccheria, e propone

implicitamente a contrasto un ideale di eroismo guerriero. versi 24-32 Né ti sono meno odiosi gli studi, che arrecano tristezza (mesti): ti resero avverso agli studi le scuole, risonanti dei pianti dei fanciulli (queruli ricinti), dove le arti più nobili e le scienze, trasformate in mostri e in vani e orribili fantasmi (larve), fanno echeggiare sempre le ampie aule delle strida degli scolari. Adesso innanzitutto ascolta (odi) quali piacevoli occupazioni ti porterà gradevolmente (con facil mano) il mattino. 11. Dea … studii: Pallade Atena era la dea protettrice degli studi. 12. avverso ... strida: qui Parini, dalla sua prospettiva illuministica, polemizza contro i sistemi pedagogici del suo tempo, che terrorizzavano gli studenti con mezzi repressivi e con la loro impostazione pedantesca rendevano vuote e inutili le materie insegnate. Ironicamente, però, il poeta attribuisce queste nobili motivazioni al rifiuto del «giovin signore», che nasce invece solo da pigrizia.

versi 33-45 Il mattino sorge accompagnato dall’alba prima del sole, che poi appare grande sull’orizzonte più lontano (estremo) a rallegrare gli animali e le piante e i campi e le acque (onde). Allora il bravo contadino (buon villan) si alza dal caro letto che la sposa fedele e i figli più piccoli gli hanno intiepidito durante la notte; poi, portando sul collo gli attrezzi agricoli, che furono inventati da Cerere e da Pale, va al campo con il bue (che gli cammina) lentamente davanti, e lungo il piccolo sentiero scuote dai rami curvi le gocce di rugiada (rugiadoso umor), che, come gemme, rifrangono i raggi del sole nascente. 13. Allora ... notte: l’immagine evoca l’idea della famiglia come garante degli affetti e delle virtù del popolo. 14. sacri: perché, secondo il mito classico, furono donati agli uomini dalle divinità, ma soprattutto perché il lavoro dei campi per Parini ha una dignità sacrale. 15. Cerere e Pale: rispettivamente dea dell’agricoltura e dea della pastorizia.

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lungo il picciol sentier da’ curvi rami il rugiadoso umor che, quasi gemma, i nascenti del Sol raggi rifrange16. Allora sorge il fabbro, e la sonante17 officina riapre, e all’opre torna l’altro dì non perfette, o se di chiave ardua e ferrati ingegni all’inquïeto ricco l’arche assecura, o se d’argento e d’oro incider vuol gioielli e vasi per ornamento a nuove spose o a mense. Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo, qual istrice pungente, irti i capegli18 al suon di mie parole? Ah non è questo, Signore, il tuo mattin. Tu col cadente sol non sedesti a parca mensa, e al lume dell’incerto crepuscolo non gisti ieri a corcarti in male agiate piume, come dannato19 è a far l’umile vulgo20. A voi, celeste prole, a voi, concilio di Semidei terreni21, altro concesse

16. quasi ... rifrange: altra forte inversione alla latina. versi 46-52 Allora il fabbro si alza, e riapre l’officina risonante (dei colpi di martello sull’incudine), e torna ai lavori non terminati il giorno precedente (opre … perfette), sia che costruisca una chiave difficile da contraffare (ardua) o congegni di ferro (ferrati ingegni) per rendere sicure le casseforti al ricco che ha sempre paura di venire derubato (inquïeto), sia che voglia incidere gioielli d’argento e d’oro e vasi ornamentali per spose novelle o tavole imbandite (mense).

17. sonante: è un epiteto esornativo di sapore classico: sulla figura del fabbro si sovrappone quella mitologica di Vulcano nella sua officina, cantata da Omero e Virgilio. L’aggettivo assume una funzione nobilitante. versi 53-60 Ma come? Tu inorridisci, e mostri i capelli irti come gli aculei di un istrice al suono delle mie parole? Ah, non è questo, Signore, il tuo mattino. Tu non ti sedesti a una sobria mensa al tramonto del sole (come il contadino) e non andasti (gisti) ieri, alla luce incerta del crepuscolo, a coricarti su uno scomodo giaciglio (male … piume), come è

Pesare le parole Umor (v. 44) >

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condannato a fare il basso popolo (umile vulgo). 18. e mostri ... capegli: il «giovin signore» inorridisce al sentire che qualcuno si alza all’alba. 19. dannato: è ambivalente: dalla prospettiva del signore il contadino è giustamente condannato a quella vita, perché è una sorta di animale, indegno di una condizione migliore; per il poeta invece quella condanna è infame e oltraggia l’umanità. 20. male … vulgo: è un ossimoro, e a sua volta piume è una metonimia (al posto dell’oggetto, la materia di cui è fatto). Il precettore qui adotta la prospettiva del nobile, per il quale un letto non può essere che di piume: così viene messa in risalto la sua incapacità di comprendere le sofferenze della povera gente.

Viene dal latino umòrem, da umère, “essere umido”. Indica genericamente una sostanza liquida (es. dal ramo spezzato cola un umore vischioso). Dalla stessa radice provengono umidità, “presenza di vapore acqueo nell’atmosfera” (es. vicino al fiume c’è un’umidità che penetra nelle ossa), e umettare, voce dotta, “umidificare in superficie” (es. quando è nervoso si umetta continuamente le labbra con la lingua; bisogna umettare il francobollo per attaccarlo). Nella medicina antica si riteneva che fossero quattro gli umori, i liquidi biologici fondamentali del corpo umano, sangue, bile, flegma e linfa. Dalla prevalenza dell’uno o dell’altro di essi si facevano discendere le specificità del carattere, sanguigno, bilioso, flemmatico, linfatico. Si pensava che gli umori determinassero anche gli stati d’animo temporanei: di qui deriva ancora il nostro senso di umore come “disposizione d’animo”, allegria, tristezza, eccitazione ecc. (es. con tutte le disgrazie che gli sono capitate è sempre di umore nero); di qui anche i termini buonumore e malumore (es. sentire musica alle-

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gra mi mette di buonumore; leggere di prima mattina le notizie catastrofiche del giornale mi mette di malumore per tutta la giornata). Umorale è chi è soggetto facilmente a cambiamenti d’umore, si fa trascinare senza controllo (es. è un tipo umorale, con cui è difficile trattare perché non si sa mai come prenderlo). Sempre connesso con la teoria degli umori è il termine umorismo, proveniente dall’inglese, dove humour aveva originariamente il senso di “brio, spirito”. Nel parlare comune l’umorismo è un modo di vedere la realtà mettendone in risalto gli aspetti insoliti, bizzarri e divertenti, l’essere inclini a scherzare su tutto con una certa finezza di spirito (es. è meglio prendere le cose con umorismo, per sdrammatizzare; tutti ammirano l’umorismo con cui sa rispondere agli avversari che lo attaccano).

Rifrange

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versi 61-76 A voi, figli degli dèi celesti, a voi, consesso di semidei viventi sulla terra, Giove benevolo concesse altro (destino): e a me spetta (convien) condurvi con altri accorgimenti (arti) e leggi per una strada diversa (novo calle, da quella dei comuni mortali). Tu, tra le feste e il teatro dell’opera (canore scene) e il gioco che suscita forti emozioni (patetico), protraesti la notte ben oltre l’ora in cui il contadino si corica; e infine stanco, sulla carrozza dorata (aureo cocchio), agitasti per un largo tratto intorno la quieta aria notturna con il fragore delle ruote rese calde

(v. 45)

Rifrangere viene dal latino re- e fràngere, “rompere”. Indica il processo della rifrazione, per il quale un raggio di luce, passando da un mezzo a un altro di diversa intensi-

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Giove benigno: e con altr’arti e leggi per novo calle a me convien guidarvi. Tu tra le veglie e le canore scene e il patetico gioco oltre più assai producesti la notte; e stanco alfine in aureo cocchio, col fragor di calde precipitose rote e il calpestìo di volanti corsier, lunge agitasti il queto aere notturno, e le tenèbre con fiaccole superbe22 intorno apristi, siccome allor che il Siculo terreno dall’uno all’altro mar rimbombar féo Pluto col carro a cui splendeano innanzi le tede de le Furie anguicrinite23. Così tornasti a la magion; ma quivi a novi studii ti attendea la mensa24 cui ricoprìen pruriginosi cibi e licor lieti di Francesi colli, o d’Ispani, o di Toschi, o l’Ongarese bottiglia a cui di verde edera Bacco25 concedette corona, e disse: Siedi de le mense reina. Alfine il Sonno ti sprimacciò le morbide coltrìci di propria mano, ove, te accolto, il fido servo calò le seriche cortine26: e a te soavemente i lumi chiuse il gallo che li suole aprire altrui.

dall’attrito col terreno nella corsa precipitosa e col calpestio dei veloci (volanti) cavalli, e rischiarasti le tenebre intorno con le fiaccole levate in alto, come quando Plutone fece

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21. concilio ... terreni: vale a dire i nobili. 22. fiaccole superbe: erano tenute in alto dai lacché che precedevano la carrozza; ma l’aggettivo superbe allude anche al fatto che il corteo di fiaccole è segno della condizione privilegiata del nobile, di cui egli va superbo. 23. siccome ... anguicrinite: si riferisce all’episodio mitico di Proserpina, rapita da Plutone mentre si trovava in Sicilia e trasportata negli Inferi.

rimbombare il terreno della Sicilia dall’uno all’altro mare col carro, preceduto dalle fiaccole (tede) delle Furie, che avevano serpi in luogo di capelli (anguicrinite).

tà, varia la sua direzione (per questo un bastone immerso parzialmente nell’acqua sembra rotto). Sul fenomeno della rifrazione sono basate le lenti correttive della vista, che convergono o divergono i raggi, a seconda che siano biconvesse o biconcave; in tal modo correggono il cristallino, la lente naturale dell’occhio, che, in caso di difetti, o concentra l’immagine prima della retina (miopia) o dopo di essa (presbiopia), e fanno sì che l’immagine si formi sulla retina per dare la visione nitida. Passando attraverso un prisma trasparente la luce si scompone invece nei sette colori dell’iride: così avviene con le gocce di rugiada menzionate qui da Parini. È il fenomeno che dà origine all’arcobaleno. Da fràngere composto con in- deriva infrangere, “spezzare in molte parti (es. il vaso cadendo si è infranto in mille pezzi); per cui infrangibile è l’oggetto che non si rompe (es. è bene portare lenti infrangibili per evitare danni agli occhi in caso di urto e rottura degli occhiali). Il verbo infrangere è usato anche figuratamente (es. infrangere un patto è un atto da condannare). L’infrazione è la violazione di una norma (es. posteggiare in seconda

versi 77-89 Così tornasti al (tuo) palazzo (magione); ma qui a nuove occupazioni (studii) ti attendeva la tavola, che ricoprivano cibi stuzzicanti (pruriginosi) e vini pregiati (licor lieti) dei colli francesi, spagnoli e toscani, o la bottiglia dell’ungherese tokai, a cui Bacco ha concesso una corona di verde edera, proclamandola regina delle mense. Infine il dio Sonno ti sistemò (sprimacciò) le morbide coperte (coltrìci) con le proprie mani, sulle quali, dopo averti accolto, il servo fedele (fido) abbassò le tende di seta (seriche cortine): e ti chiuse dolcemente gli occhi (lumi) il gallo, che (invece) è solito aprire quelli degli altri. 24. ti attendea la mensa: il signore deve ancora cenare. 25. Bacco: dio del vino. 26. seriche cortine: si tratta di un letto a baldacchino.

fila è una grave infrazione del codice della strada, oltre che segno di inciviltà e maleducazione). In senso materiale è una rottura (es. cadendo si è procurato un’infrazione al femore).

Perfette

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(v. 48)

Deriva dal participio passato del latino perfìcere (perpiù fàcere, “fare”), “portare a termine, compiere”. Qui infatti è usato nel senso latino; in senso estensivo vale “totale, completo” (es. regnava in casa un silenzio perfetto), oppure “privo di difetti, di errori” (es. l’esecuzione dei Notturni di Chopin è stata perfetta). Può essere usato ironicamente (es. è un asino perfetto). Perfettibile è ciò che può essere migliorato (es. l’uomo è un essere perfettibile, date certe condizioni). Perfezionare infatti è “rendere migliore” (es. il tuo progetto è interessante ma è ancora da perfezionare). Il perfezionismo è l’atteggiamento di chi opera mirando sempre alla perfezione (es. il tuo perfezionismo è ammirevole, ma a volte può suscitare fastidio).

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Dritto è perciò, che a te gli stanchi sensi non sciolga da’ papaveri tenaci27 Morfeo28 prima, che già grande il giorno tenti di penetrar fra gli spiragli de le dorate imposte, e la parete pingano a stento in alcun lato i raggi del Sol ch’eccelso a te pende sul capo. Or qui principio le leggiadre cure denno aver del tuo giorno; e quinci io debbo sciorre il mio legno29; e co’ precetti miei te ad alte imprese ammaestrar cantando. Già i valletti gentili udîr lo squillo del vicino metal cui da lontano scosse tua man col propagato moto30; e accorser pronti a spalancar gli opposti schermi a la luce31, e rigidi osservâro che con tua pena non osasse Febo entrar diretto a saettarti i lumi. Ergiti or tu alcun poco, e sì ti appoggia alli origlieri i quai lenti gradando all’omero ti fan molle sostegno. Poi coll’indice destro, lieve lieve sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua quel che riman de la Cimmeria nebbia32; e de’ labbri formando un picciol arco, dolce a vedersi, tacito sbadiglia33. Oh se te in sì gentile atto mirasse il duro capitan qualor tra l’armi, sgangherando le labbra, innalza un grido lacerator di ben costrutti orecchi, onde a le squadre varii moti impone; se te mirasse allor, certo vergogna avrìa di sé, più che Minerva il giorno che, di flauto sonando, al fonte scorse il turpe aspetto de le guance enfiate34.

versi 90-100 È giusto perciò che Morfeo non ti risvegli dal tuo profondo sopore (papaveri tenaci) prima, che il giorno già pieno (grande) tenti di penetrare tra le fessure delle imposte dorate, e i raggi del sole, che ti pende già alto (eccelso) sul capo, si disegnino (pingano) a stento (filtrando tra le imposte) da qualche parte sulla parete. Di qui (Or qui) (dal momento del risveglio) devono avere inizio le leggiadre occupazioni della tua giornata; e di qui i o debbo partire (sciorre … legno); e devo ammaestrarti a nobili (alte) imprese con i miei insegnamenti (precetti), attraverso la poesia (cantando). 27. papaveri tenaci: metonimia; dai papaveri si ricava l’oppio, che ha proprietà soporifere.

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28. Morfeo: dio del sonno. 29. e quinci ... legno: Parini usa la consueta metafora della creazione poetica come nave che intraprende il suo viaggio per mare (vedi ad esempio Dante, Purgatorio, I, vv. 1-3: «Per correr migliori acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno»). versi 101-110 Già i camerieri premurosi hanno udito lo squillo del campanello (metal) a loro vicino, che però il signore ha scosso di lontano (col propagato moto) (mediante un lungo cordone); e accorsero pronti a spalancare le imposte, schermi opposti alla luce, e con scrupolo meticoloso badarono che il sole (Febo) non osasse entrare direttamente a colpirti gli occhi, provocandoti fasti-

dio. Adesso tu sollevati leggermente, e così appòggiati ai cuscini (origlieri), che digradando dolcemente offrono un molle sostegno alle tue spalle (omero). 30. propagato moto: è una formula che rivela il gusto scientifico della poetica sensistica. 31. gli opposti ... luce: altro iperbato. versi 111-124 Poi scorrendo leggero leggero con l’indice destro sugli occhi, leva di lì quel che rimane della nebbia del sonno (Cimmeria); e formando con le labbra un piccolo arco, delicato a vedersi, sbadiglia silenziosamente (tacito). Oh se ti vedesse in un atteggiamento così aggraziato il rozzo (duro) capitano, quando, nel mezzo della battaglia, spalancando (sgangherando) la bocca leva un grido che potrebbe squarciare le orecchie più resistenti (ben costrutti), mediante il quale dà ordine di compiere vari movimenti alle sue truppe (squadre); se ti vedesse in questo momento, certo avrebbe vergogna di sé, più di quanta (ne ebbe) Minerva il giorno che, suonando il flauto, vide (riflesso) nella fonte l’orribile (turpe) aspetto delle (sue) guance gonfie (enfiate). 32. Cimmeria nebbia: secondo il mito, il Sonno abitava nel paese dei Cimmeri, sempre immerso nella nebbia. 33. tacito sbadiglia: il signore è bene educato. 34. più che ... enfiate: secondo un mito raccontato da Ovidio (Fasti, VI, vv. 699 e ss.), Minerva fu schernita dagli altri dei mentre suonava il flauto: allora, specchiatasi in una fonte, e vistasi deturpata dalle guance gonfie, provò vergogna e gettò via lo strumento.

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

Analisi del testo

> Il proemio

Il «giovin signore» rifiuta le armi e gli studi

Nel proemio (vv. 1-32) il poeta si presenta come amabile precettore, che intende insegnare all’aristocratico allievo il modo di riempire i giorni vuoti e noiosi della sua vita. Il giovane infatti è ormai sazio di bordelli e case da gioco e respinge con orrore l’idea di dedicarsi alle armi o agli studi, trincerandosi dietro alibi pacifisti o dietro la critica contro la durezza retrograda delle scuole. Questo preambolo, dietro il velo dell’ironia, è inteso a colpire la corruzione e l’inutilità della classe aristocratica, la sua incapacità di intraprendere quelle occupazioni, quali appunto le armi o gli studi, che dovrebbero esserle proprie e che le assicurerebbero ancora una funzione nella società.

> L’idealizzazione del contadino e dell’artigiano Il contadino e il fabbro portatori di valori positivi

Il contrasto implicito con il «giovin signore»

Dopo il proemio l’esposizione vera e propria comincia con la descrizione del risveglio del contadino e dell’artigiano, giocata a contrasto con quello del nobile. Il contadino appare portatore di una serie di valori positivi, gli affetti familiari, la moralità, la laboriosità (si faccia attenzione agli aggettivi, «buon villan», «caro letto», «fedel sposa», e alla funzione nobilitante del richiamo mitologico a Cerere e Pale). Al lavoratore dei campi si affianca poi il lavoratore di città, il fabbro, con analoga funzione. Si crea così un implicito, forte contrasto con la figura del «giovin signore», che è ozioso e inutile alla società e per di più, in quanto cavalier servente, stravolge i sacri valori della famiglia. Importante è anche la descrizione del paesaggio lieto e luminoso della campagna, che sottolinea come il contadino conduca una vita sana e vicina alla natura, in opposizione all’artificiosità corrotta del mondo nobiliare. Nella contrapposizione tra la dignità del lavoro e la vita frivola della nobiltà si esprime l’egualitarismo di radice illuministica proprio di Parini, che nega validità al privilegio aristocratico ed esalta il valore del singolo individuo, conquistato con la sua operosità utile al corpo sociale.

> L’ironia sul «giovin signore»

Ironia e antifrasi

La funzione del linguaggio aulico

Subito dopo entra in scena il «giovin signore», e si presenta con una fisionomia comica (i capelli irti «qual istrice pungente», v. 54) che stride con le immagini di alta dignità del contadino e del fabbro. L’ironia, qui appena accennata, si manifesta pienamente con la descrizione del rientro a casa del giovane dopo i divertimenti serali, poi del suo risveglio a tarda ora il giorno successivo. Per capire il senso dell’episodio, e più in generale il significato della poesia di Parini, è indispensabile mettere in luce i meccanismi su cui si basa il procedimento ironico. L’ironia pariniana si fonda essenzialmente sulla figura dell’antifrasi, che consiste nell’affermare il contrario di ciò che si vuol fare intendere. Qui il poeta mira a mettere in luce la vacuità insulsa, la pochezza ridicola del nobile, ma non lo fa direttamente: finge di essere colmo di ammirazione per lui e di volerlo celebrare con immagini iperboliche, ma proprio la sproporzione che si crea tra l’immagine usata e l’oggetto vale a mettere in rilievo tutta la negatività di quest’ultimo. Così avviene quando il poeta paragona la carrozza del «giovin signore» che attraversa fragorosamente le vie notturne con il carro di Plutone preceduto dalle «tede de le Furie anguicrinite» (v. 76): l’immagine aulica e grandiosa per contrasto fa risaltare la reale meschinità di quella corsa inutile, dopo una giornata vuota trascorsa nell’ozio. Parini usa qui il procedimento di nominare realtà prosaiche attraverso il linguaggio sublime del classicismo, lo stesso che usava all’inizio per il contadino e il fabbro; ma l’effetto è rovesciato: invece di innalzare quelle realtà, l’espressione solenne, determinando uno sfasamento rispetto ad esse, ne svela impietosamente tutta la bassezza. 525

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

> L’ambiguità del rapporto col mondo nobiliare L’indugio sensuale sulle cose

Ma poi il gioco si complica. Se il poeta con il suo severo moralismo sferza il vuoto e la corruzione del mondo nobiliare, in realtà quel mondo di raffinatezza, di grazia e bellezza esercita su di lui, al di là dello sdegno, un irresistibile fascino. Lo rivela il modo di vagheggiare gli oggetti che popolano quegli ambienti, l’indugio minuzioso e sensuale sulle cose, i vini squisiti, le vivande «pruriginose», le «seriche cortine», le «dorate imposte». Appare qui in piena luce quell’ambiguità di fondo nell’atteggiamento del poeta verso il mondo nobiliare, tra condanna e segreta attrazione, che si è indicata nel discorso introduttivo al Giorno.

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. Riassumi i versi 65-89 in cui Parini descrive le abitudini del nobile allievo. ANALIZZARE

> 2. Illustra il meccanismo su cui si basa, nei versi 97-100, il procedimento dell’ironia. > 3. Stile Svolgi l’analisi stilistica dei versi 101-115, individuando i termini aulici, le perifrasi, gli aggettivi esornativi,

i riferimenti al mito. Quale funzione hanno queste scelte espressive? Stile Illustra e spiega il paragone contenuto nei versi 114-122. Lessico Nei versi 8-15 si può osservare un’insistenza sul motivo della noia; rintraccia tutte le parole che appartengono a questo campo semantico e le figure retoriche che le mettono in risalto.

> 4. > 5.

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 6.

Scrivere Descrivi in un testo scritto (max 500 caratteri) quali sono i valori su cui si fonda l’esistenza del «buon villan» (vv. 33-52), spiegando in che modo si contrappongono a quelli del «giovin signore». > 7. Altri linguaggi: arte L’opera dal titolo Il Tète a Tète appartiene al ciclo di dipinti Il matrimonio alla moda, realizzato dal pittore inglese William Hogarth (1697-1764) e rappresenta un’ironica requisitoria contro i matrimoni di convenienza, così normali in quel tempo. Lo sguardo dell’artista si sofferma in modo caricaturale, come in Parini, sui vizi e le contraddizioni di una classe sociale che si avvia ormai al tramonto. Poni a confronto l’ironia utilizzata da Parini nel descrivere la nobiltà settecentesca con quella di Hogarth, rilevando somiglianze e differenze.

William Hogarth, Il Tête à Tête, 1743 circa, olio su tela, Londra, National Gallery.

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T3

La colazione del «giovin signore» dal Mattino, vv. 125-157 Il passo segue immediatamente il racconto del risveglio del «giovin signore» ( T2, p. 520).

Temi chiave

• l’esaltazione antifrastica del colonialismo che ha favorito l’importazione di tè e caffè per la classe aristocratica • l’umanitarismo di Parini che critica gli spargimenti di sangue nelle terre coloniali • il ricorso ad un narratore inattendibile per attuare la denuncia

> Metro: endecasillabi sciolti. 125

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Ma già il ben pettinato entrar di nuovo tuo damigello1 i’ veggo; egli a te chiede quale oggi più de le bevande usate2 sorbir3 ti piaccia in prezïosa tazza: indiche4 merci son tazze e bevande; scegli qual più desìi. S’oggi ti giova5 porger dolci allo stomaco fomenti6, sì che con legge il natural calore v’arda temprato, e al digerir ti vaglia7, scegli il brun cioccolatte, onde tributo ti dà il Guatimalese e il Caribbèo ch’a di barbare penne avvolto il crine8: ma, se noiosa ipocondrìa9 t’opprime, o troppo intorno a le vezzose membra adipe10 cresce, de’ tuoi labbri onora la nettarea bevanda ove abbronzato fuma et arde il legume a te d’Aleppo giunto, e da Moca che di mille navi popolata mai sempre insuperbisce11. Certo fu d’uopo che dal prisco seggio uscisse un regno, e con ardite vele fra straniere procelle e novi mostri e teme e rischi ed inumane fami superasse i confin, per lunga etade invïolati ancora12; e ben fu dritto se Cortes e Pizzarro umano sangue non istimâr quel ch’oltre l’Oceàno scorrea le umane membra, onde tonando e fulminando, alfin spietatamente balzaron giù da’ loro aviti troni Re Messicani e generosi Incassi; poiché nuove così venner delizie, o gemma de gli eroi, al tuo palato13!

1. il ben ... damigello: il tuo cameriere ben pettinato. 2. usate: consuete. 3. sorbir: bere. 4. indiche: provenienti dall’India, preziose. 5. ti giova: gradisci. 6. dolci … fomenti: piacevoli stimoli.

7. sì che … ti vaglia: così che il calore naturale vi arda regolato con giusta misura, e ti aiuti a digerire. 8. onde … crine: di cui ti fanno tributo gli abitanti del Guatemala e dei Caraibi, che hanno capelli avvolti di piume, secondo il costume barbarico. Il cacao proveniva dall’America latina.

9. ipocondrìa: malinconia, depressione nervosa. 10. troppo ... adipe: troppo grasso. 11. de’ tuoi ... insuperbisce: onora, accostandovi le labbra, la bevanda divina (nettarea), in cui tostato (abbronzato) fuma caldissimo il seme (legume) giunto a te da Aleppo e da Moka, che va superba delle mille navi che sempre popolano il suo porto. Il nettare era la sostanza che donava l’immortalità agli dei. Aleppo in Siria e Moka in Arabia erano i porti da cui proveniva il caffè destinato all’Europa. 12. Certo ... ancora: certo fu necessario che la Spagna uscisse dai suoi antichi territori (prisco seggio), e con navi ardite, fra tempeste in mari stranieri, mostri mai prima veduti, paure (teme), pericoli e privazioni inumane, superasse i confini, da tanto tempo rimasti inviolati. Si riferisce alle imprese di Colombo e degli altri navigatori, che scoprirono il nuovo continente varcando le colonne d’Ercole, confine rimasto inviolato dopo l’impresa di Ulisse. 13. e ben ... palato: e fu giusto che Pizarro e Cortes non ritenessero sangue umano quello che scorreva nelle membra umane oltre oceano, per cui, a colpi di arma da fuoco (tonando e fulminando), rovesciarono dai loro antichi troni i re messicani e gli Incas valorosi, perché così poterono giungere nuove delizie al tuo palato, o gemma degli eroi. I conquistadores spagnoli Hernán Cortés e Francisco Pizzarro ai primi del Cinquecento conquistarono rispettivamente il Messico (territorio degli Atzechi) e il Perù, sterminando con ferocia inaudita gli abitanti.

527

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Competenze attivate

Analisi attiva

• Leggere, comprendere ed interpretare

testi letterari: poesia • Produrre testi di vario tipo in relazione

ai differenti scopi comunicativi

COMPRENDERE > Una colazione esclusiva

storicità della letteratura

Al risveglio del «giovin signore» deve essere preparata la colazione. Il cameriere si presenta per offrirgli due delizie: cioccolata in tazza o caffè. Si tratta di bevande che provengono da terre lontane, servite in tazze preziose. Il precettore ricorda che tali esotici cibi sono il frutto di ardite esplorazioni e guerre di conquista: del tutto giustificati appaiono ai suoi occhi i rischi e gli spargimenti di sangue della colonizzazione, se il loro risultato è di compiacere il palato del giovane aristocratico.

> 1. Scrivi la parafrasi dei versi 125-130 (fino a «desìi»).

ANALIZZARE > Il narratore inattendibile

> 4. Individua

Anche in questi versi si assiste a una celebrazione incondizionata della vita nobiliare, ma è evidente al lettore che la voce che racconta è quella di un narratore inattendibile. Questo narratore assume il punto di vista del suo personaggio, adotta la sua visione della realtà, fa propri i suoi metri di giudizio, lo asseconda in tutto, approva ciò che egli ama e condanna ciò che egli detesta. Tutta l’impostazione del meccanismo narrativo ci fa capire però che non dobbiamo prestargli fede: quando ad esempio il «precettore» celebra come fatti di straordinaria importanza la scelta del caffè o della cioccolata per colazione, l’esagerazione mette in rilievo proprio la banalità meschina del nobile e dei suoi gesti quotidiani.

> L’autore implicito e la realtà dei fatti

Ciò che fa capire come il narratore sia inattendibile è l’oggettività stessa dei fatti narrati e descritti, che sono tutto il contrario di come il «precettore» li presenta. Dietro alla sua figura è come se si profilasse un’altra figura, che ci fa segno di non prestargli fede e ci indica la realtà effettuale: è l’autore stesso, che non parla direttamente, ma è come implicito nella costruzione del discorso. Si determina così una complicità tra autore implicito e lettore, alle spalle del narratore e del suo personaggio: il «precettore» asseconda il suo allievo e la sua maniera di vedere le cose, ma il lettore, grazie all’autore implicito, è in grado di ricostruire la vera realtà dei fatti.

APPROFONDIRE E INTERPRETARE > Lo sdegno umanitario

Affermare che Cortés e Pizzarro abbatterono regni interi per assicurare le delizie del caffè e del cioccolato al «giovin signore» può sembrare un’affermazione da intendere a rovescio, impiegata per mettere in ridicolo il nobile. Ma in realtà qui l’iperbole contiene una tragica e vergognosa verità: tutto sommato è vero che la conquista delle terre d’oltremare rispondeva anche all’esigenza di fornire merci preziose al consumo dei ceti privilegiati europei. La sproporzione tra la futilità dei piaceri aristocratici e il sangue umano versato non suscita più il riso pungente, ma lo sdegno del poeta. Emerge qui l’umanitarismo di Parini, che s’indigna al pensiero che la vita umana possa essere stata tanto disprezzata. Qui l’ironia non è più fine e moderata, ma diviene sarcasmo feroce.

528

• Dimostrare consapevolezza della

> 2. Per quale ragione il «giovin signore» potrebbe gradire la cioccolata? Per quali invece potrebbe preferire il caffè?

> 3. Riassumi in non più di 10 righe (500 caratterri) il contenuto dei versi 144-157. e trascrivi un’espressione del testo da cui traspaia l’ammirazione esagerata (e perciò antifrastica) del precettore per il «giovin signore».

> 5. Rintraccia tutti i vocaboli appartenenti all’area semantica del piacere e del bello: quale costume di vita essi contribuiscono a rappresentare? > 6. Analizza il rapporto tra tempo della storia e tempo del discorso: il ritmo della narrazione è veloce o lento? Quale idea della vita nobiliare suggerisce questa scelta?

> 7. Individua nel testo un fatto oggettivo e indica: a) come lo presenta il narratore; b) come è effettivamente accaduto nella realtà.

> 8. Spiega perché nei versi seguenti si può identificare un procedimento iperbolico e che cosa si propone di dimostrare il narratore. Quale fu invece la realtà dei fatti? «Certo fu d’uopo che dal prisco seggio / uscisse un regno, e con ardite vele / fra straniere procelle e novi mostri / e teme e rischi ed inumane fami / superasse i confin, per lunga etade / invïolati ancora […]» (vv. 144-149).

> 9. Quale funzione ha la ripetizione dell’aggettivo «umano» ai versi 150 e 152? > 10.

Rifletti sulle radici ideologiche e culturali dell’umanitarismo che emerge dal testo.

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

T4

La favola del Piacere

Temi chiave

• l’origine e la natura della

dal Mezzogiorno, vv. 250-338

diseguaglianza tra gli uomini

Il celebre passo si inserisce nel momento in cui i convitati si siedono alla mensa imbandita. Il «precettore» afferma che, per questa «prole alta di numi», il pasto non è un’operazione spregevole: infatti i nobili non sono spinti al cibo dal bisogno, ma solo dalla Voluttà.

• la vera origine della nobiltà • l’ironia come strumento di interpretazione del mondo

> Metro: endecasillabi sciolti.

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versi 250-264 Forse non è vero; ma si dice (è fama) che un tempo gli uomini erano uguali e plebe e nobiltà erano parole sconosciute. Una forza naturale eguale (istinto medesmo) in tutti gli uomini li spingeva a soddisfare i bisogni elementari, il cibo, il bere, il sesso (accoppiarsi ... sessi), il sonno, in eguale maniera: e (agli uomini, nello stato di natura) non era concessa alcuna facoltà di deliberare (consiglio) e di scegliere gli oggetti che dovevano soddisfare i loro bisogni, i luoghi e i tempi. Gli antenati (primi padri) dei nobili (tuo sangue) e quelli della plebe disprezzata, o Signore, si incontravano insieme (bevendo) allo stesso fiume, (cibandosi) degli stessi frutti, (dormendo) sotto la stessa ombra. Le stesse grotte (antri), la stessa nuda terra offrivano

Forse vero non è; ma un giorno è fama che fûr gli uomini eguali, e ignoti nomi fûr plebe e nobiltade. Al cibo, al bere, all’accoppiarsi d’ambo i sessi, al sonno un istinto medesmo, un’egual forza sospingeva gli umani: e niun consiglio, niuna scelta d’obbietti o lochi o tempi era lor conceduta1. A un rivo stesso, a un medesimo frutto, a una stess’ombra convenivano insieme i primi padri del tuo sangue, o Signore, e i primi padri de la plebe spregiata. I medesm’antri il medesimo suolo offrieno loro il riposo e l’albergo; e a le lor membra i medesmi animai le irsute vesti. Sol’una cura a tutti era comune di sfuggire il dolore, e ignota cosa era il desire2 agli uman petti ancora. L’uniforme degli uomini sembianza spiacque a’ celesti; e a varïar la terra fu spedito il Piacer. Quale già i numi d’Ilio su i campi, tal l’amico genio3, lieve lieve per l’aere labendo, s’avvicina a la terra; e questa ride

loro riposo e rifugio (albergo); e alle loro membra i medesimi animali (offrivano) vesti ricavate dalle irsute pelli (vesti). 1. e niun ... conceduta: cioè ad esempio mangiavano ciò che trovavano e quando avevano fame. versi 265-278 Sfuggire al dolore era la sola preoccupazione (cura) comune a tutti, e il cuore degli uomini non conosceva ancora il desiderio (desire). L’aspetto (sembianza) uniforme degli uomini, che erano tutti uguali tra loro, spiacque agli dei (celesti); e a rendere varia (varïar) la terra fu inviato il Piacere. Come gli dei (scendevano) sul campo di battaglia durante la guerra di Troia (Quale ... campi), il benevolo essere divino (l’amico genio),

scivolando (labendo) leggero (lieve lieve) per l’aria, si avvicina alla terra; e questa sorride in un modo ancora sconosciuto. Il Piacere (Ei) si muove, e l’aria tiepida proveniente dal ruscello che precipita a valle (cadente rivo) e dai colli profumati (clivi odorosi) gli accarezza (blandisce) le membra aggraziate (vaghe) e scivola dolcemente (lenemente sdrucciola) sull’armonioso (gentile) tondeggiare delle sue forme. 2. desire: gli uomini primitivi ignoravano ancora il desiderio delle cose piacevoli poiché erano mossi come meccanicamente dall’istinto a soddisfare il bisogno, come gli animali. 3. genio: i geni nella mitologia classica erano divinità minori.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

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di riso ancor non conosciuto. Ei move, e l’aura estiva del cadente rivo e dei clivi odorosi a lui blandisce le vaghe membra, e lenemente sdrucciola sul tondeggiar dei muscoli gentile. Gli s’aggiran dintorno i Vezzi e i Giochi4, e come ambrosia5 le lusinghe scorrongli da le fraghe del labbro: e da le luci socchiuse, languidette, umide fuori di tremulo fulgore escon scintille, ond’arde l’aere che scendendo ei varca6. Alfin sul dorso tuo sentisti, o Terra, sua prim’orma stamparsi; e tosto un lento fremere soavissimo si sparse di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte di natura le viscere commosse: come nell’arsa state il tuono s’ode che di lontano mormorando viene; e col profondo suon di monte in monte sorge; e la valle e la foresta intorno mugon7 del fragoroso alto rimbombo, finché poi cade la feconda pioggia che gli uomini e le fere e i fiori e l’erbe ravviva, riconforta, allegra e abbella8. Oh beati tra gli altri, oh cari al cielo viventi, a cui con miglior man Titano formò gli organi illustri, e meglio tese, e di fluido agilissimo inondolli9!

versi 279-289 I Vezzi e i Giochi gli girano intorno, e parole carezzevoli (lusinghe), dolci come l’ambrosia, scorrono fuori dalle sue labbra rosse come fragole (fraghe): e dagli occhi (luci) socchiusi, languidi escono fuori scintille

umide dalla luminosità (fulgore) tremolante, dalle quali (ond’) è infiammata l’aria che egli attraversa (varca) scendendo. Infine sulla tua superficie (dorso), o Terra, sentisti imprimersi la sua impronta; e subito un lento dolcissimo

Pesare le parole Blandisce (v. 276) >

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Blandire proviene dal latino blandìri, e significa letteralmente “carezzare”: è il senso presente in questo passo, oggi disusato e letterario; più in uso è il senso figurato “lusingare” (es. ha cercato di blandire il padre per ammorbidirlo e per ottenere il permesso di rientrare tardi); meno in uso è il senso di “lenire” (es. ho tentato di blandire il suo dolore ricordandogli le gioie del passato); blandire le passioni, i vizi, vuol dire “assecondarli, incrementarli” (es. bisogna contrastare, non blandire il vizio del fumo). Blandizie è un allettamento, una lusinga (es. il politico ha pronunciato un discorso pieno di blandizie per accattivarsi l’elettorato). Blando è ciò che si manifesta o agisce in modo lieve, con delicatezza (es. per la sua marachella ha ricevuto solo una blanda punizione; è un rimedio blando, che attenua ma non toglie il dolore).

Lenemente

>

fremito si diffuse di cosa in cosa; e sempre più crescendo, scosse (commosse) tutte le viscere della natura: 4. Vezzi ... Giochi: sono personificati come divinità minori che fanno da corteo al Piacere. 5. ambrosia: il cibo degli dèi. 6. da le luci ... varca: cioè le parole e gli sguardi del Piacere spirano seduzione, un fluido amoroso che pervade tutta la natura. versi 290-297 come nell’estate riarsa (arsa state) si ode il tuono che giunge da lontano mormorando; e con il suono grave (profondo) si leva di monte in monte; e la valle e il bosco intorno muggiscono (mugon), fino a quando cade poi la pioggia fecondatrice che rivitalizza (ravviva), dà sollievo (dalla calura), rallegra e abbellisce gli uomini, gli animali (fere), i fiori e le piante. 7. mugon: cioè riecheggiano il rimbombo del tuono. 8. abbella: perché ridà vita e freschezza alla vegetazione. versi 298-304 O felici e cari al cielo fra tutti gli altri (esseri viventi), (voi) a cui il titano Prometeo formò in modo più perfetto gli organi dei sensi (illustri), li tese come corde di uno strumento sensibile al minimo tocco (meglio) e li inondò di un fluido mobilissimo (agilissimo)! Voi sentiste lo stimolo mai provato in precedenza (ignoto solletico) del divino Piacere che sucita le sensazioni piacevoli (celeste motore) (in alcuni uomini). In voi ben presto fermentarono e nacquero i desideri. 9. Oh beati ... inondolli: secondo il mito Prometeo plasmò i primi uomini. Tra gli uomini primitivi alcuni erano nati con organi più sensibili: questi furono più pronti a gustare il piacere e da essi ebbe origine la nobiltà. Sul senso dell’apologo pariniano si rimanda all’Analisi del testo.

(v. 277)

Vuol dire “dolcemente, soavemente” e deriva dal latino lènem, “lieve, soave”. In italiano lene è voce dotta e solo letteraria (es. spira un venticello lene); più usato è il verbo lenire, per quanto sempre voce colta, nel senso di “mitigare, alleviare, calmare, placare” (es. una parola amichevole può lenire le tue angosce). Lenimento è l’atto di lenire, e lenitivo è un calmante (es. quando hai questi accessi di tosse devi prendere un lenitivo). In linguistica la lenizione è la trasformazione di una consonante da sorda a sonora, che nelle lingue neolatine si verifica abitualmente tra due vocali, e a volte giunge sino alla scomparsa (es. il latino làcum dà in italiano lago, amìcum dà in spagnolo amigo, in francese ami, con la caduta, oltre che della consonante velare /c/, anche della desinenza -um).

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

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Voi l’ignoto solletico sentiste del celeste motore. In voi ben tosto le voglie fermentâr10, nacque il desìo. Voi primieri scopriste il buono, il meglio; e con foga dolcissima correste a possederli. Allor quel de’ due sessi, che necessario in prima era soltanto, d’amabile e di bello il nome ottenne. Al giudizio di Paride voi deste il primo esempio: tra feminei volti a distinguer s’apprese11; e voi sentiste primamente le grazie12. A voi tra mille sapor fur noti i più soavi: allora fu il vin preposto all’onda; e il vin s’elesse figlio de’ tralci più riarsi e posti a più fervido sol, ne’ più sublimi colli dove più zolfo il suolo impingua13. Così l’uom si divise: e fu il Signore dai volgari distinto, a cui nel seno troppo languîr l’ebeti fibre, inette a rimbalzar sotto i soavi colpi de la nova cagione onde fûr tocche14: e quasi bovi, al suol curvati, ancora dinanzi al pungol del bisogno andâro; e tra la servitude e la viltade e ’l travaglio e l’inopia a viver nati, ebber nome di plebe. Or tu, Signore, che feltrato per mille invitte reni sangue racchiudi15, poiché in altra etade arte, forza o fortuna i padri tuoi grandi rendette16, poiché il tempo alfine lor divisi tesori in te raccolse17, del tuo senso gioisci, a te dai numi concessa parte: e l’umil vulgo intanto, dell’industria donato, ora ministri a te i piaceri tuoi, nato a recarli su la mensa real, non a gioirne18.

10. le voglie fermentâr: si ricordi che gli uomini prima ignoravano il desiderio, spinti solo dal bisogno istintivo. versi 305-318 Voi per primi (primieri) scopriste il buono, il meglio; e con dolcissima foga vi affrettaste a ottenerli. Allora il sesso femminile, che prima era soltanto necessario (per la procreazione), fu ritenuto bello e desiderabile (d’amabile ... ottenne). Voi per primi deste l’esempio a quello che sarebbe poi divenuto il giudizio di Paride, (poiché) imparaste a distinguere, fra vari volti femminili, quale fosse il più bello; e voi per primi avvertiste il fascino della grazia fem-

minile. Voi riconosceste, tra mille sapori, quelli più piacevoli (soavi): allora il vino fu preferito all’acqua pura (fu ... onda); e si scelse il vino proveniente dalle viti (tralci) più esposte al caldo sole (riarsi), sui colli più alti (sublimi), dove lo zolfo rende più fertile il suolo (impingua). 11. Al giudizio ... s’apprese: Paride secondo il mito fu chiamato a giudicare quale dea, tra Afrodite, Era e Pallade, fosse la più bella. 12. e voi ... grazie: o anche della bellezza in assoluto, attraverso le manifestazioni sensibili della bellezza femminile. 13. e il vin ... impingua: si scelsero insomma i vini più pregiati.

versi 319-328 Così l’uomo si divise: e il Signore fu distinto dai plebei (volgari), a cui nel petto (seno) rimasero troppo inerti le insensibili fibre nervose (ebeti), incapaci di reagire dietro i dolci stimoli del Piacere (la nova cagione) da cui (onde) erano state toccate: e come buoi, curvi a terra sotto il peso della fatica, continuarono a muoversi solo sotto lo stimolo (pungol) del bisogno; e nati a vivere tra la schiavitù, le umiliazioni (viltade), la fatica (travaglio) e la miseria (inopia), furono chiamati plebe. 14. a cui ... tocche: torna anche qui un compiaciuto uso del linguaggio scientifico. versi 328-338 Ora tu, Signore, che racchiudi nelle vene sangue filtrato attraverso mille reni di antenati nobili che non si sono mai piegati a servire (invitte), poiché in tempi antichi (altra etade) l’abilità, la violenza o il caso resero nobili i tuoi antenati, poiché il tempo ha raccolto nelle tue mani ricchezze che prima erano divise fra varie famiglie (lor ... tesori), rallegrati di avere i sensi più pronti a godere i piaceri, che è il ruolo (parte) a te concesso dagli dèi: e intanto l’umile volgo, che in sorte ha invece avuto il lavoro (dell’industria donato), ora fornisca (ministri) a te la materia dei tuoi piaceri, (poiché) è nato a servirli alla mensa regale, non a goderne. 15. che feltrato ... racchiudi: il sangue del signore è cioè purissimo. 16. poiché ... rendette: qui Parini, uscendo dall’antifrasi ironica, denuncia la vera origine della nobiltà: non una diversa conformazione biologica, ma appunto il fatto che nel passato alcuni individui si conquistarono posizioni di privilegio e di dominio sugli altri con la destrezza, la forza, oppure grazie alla fortuna. Una tesi simile si trovava anche nel Dialogo sopra la nobiltà, dove si sosteneva il carattere predatorio della nobiltà delle origini. 17. poiché ... raccolse: il signore ha cioè ereditato fortune da vari parenti (e queste fortune, a loro volta, erano anch’esse magari frutto di varie eredità). 18. e l’umil ... gioirne: il popolo col suo lavoro produce i beni di cui gode la nobiltà, ma non è destinato ad averne parte.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo

> Il tema filosofico dell’eguaglianza

L’eguaglianza originaria degli uomini

L’interpretazione letterale e quella ironica

Il valore ironico della «favola»

L’excursus affronta in chiave mitologica e fiabesca un tema filosofico che era al centro dei dibattiti del secolo illuministico, l’origine della diseguaglianza tra gli uomini. Pochi anni prima (1754) Rousseau aveva scritto proprio su tale tema un discorso che aveva avuto vasta risonanza ( cap. 3, T4, p. 529). La causa della distinzione fra le classi è indicata qui da Parini in un dato biologico, fisiologico: la maggiore o minore sensibilità degli organi del senso negli uomini, il fatto cioè che per natura alcuni in quel campo siano meglio dotati di altri: mentre in un’età remota non vi era distinzione fra plebe e nobiltà e tutti gli uomini erano soggetti solo al bisogno, con l’arrivo sulla terra del Piacere coloro che avevano organi più sensibili furono in grado di provare i suoi stimoli e di gustare le cose belle e piacevoli, dando origine alla nobiltà, quelli che avevano organi più ottusi continuarono a obbedire solo al bisogno, dando origine alla plebe.

> Il conflitto delle interpretazioni

Sul modo di interpretare questa «favola» sono sorte numerose discussioni fra i critici: alcuni, come Fubini e Petronio, sono convinti che essa rispecchi il pensiero effettivo di Parini, in rispondenza alle sue concezioni sensistiche; altri invece, come Savoca, sostengono che va letta in senso ironico. Noi riteniamo che sia più fondata questa seconda ipotesi, in base a varie considerazioni: 1. tutto il poemetto è impostato in chiave ironica, per cui ogni affermazione va intesa in realtà in senso contrario; non si vede perché proprio qui il gioco di Parini debba interrompersi; 2. presupporre una diseguaglianza originaria nella costituzione fisiologica degli uomini, prodotta dalla natura stessa, verrebbe a negare dalle fondamenta proprio il principio della loro eguaglianza naturale, in cui Parini crede fermamente, come dimostrano molti luoghi della sua opera (tra cui il passo sui philosophes francesi, T6, p. 537); 3. già nel Dialogo sopra la nobiltà era confutata la pretesa nobiliare che da un dato fisiologico, il sangue «purissimo», derivasse uno spirito più pronto; 4. se le differenze di classe avessero un fondamento naturale, biologico, la colpa delle diseguaglianze sociali non potrebbe essere imputata ai nobili e verrebbe a cadere la principale motivazione della polemica pariniana; 5. in realtà, terminata la favola vera e propria, Parini indica la causa autentica della diseguaglianza: «in altra etade / arte, forza o fortuna i padri tuoi / grandi rendette» (vv. 330-332): quindi non un dato fisiologico, il possesso di organi più sensibili, ha assicurato ai nobili il privilegio, ma l’astuzia, l’abilità, la forza, la fortuna di alcuni individui in tempi passati. Si può quindi concludere con ragionevole certezza che l’affermazione contenuta nella «favola» non è condivisa da Parini ed è da intendere in chiave ironica. Indicare la ragione della diseguaglianza tra gli uomini nella capacità posseduta da una classe di gustare i piaceri più raffinati è una motivazione molto frivola e insulsa, che si rivela chiaramente come la giustificazione del privilegio addotta dai nobili stessi. Parini, col suo procedimento consueto, finge di condividere il punto di vista aristocratico e, estremizzandolo nelle forme del mito, lo ridicolizza, ne mette in luce tutta la risibile vacuità. Anzi, l’invito finale al «giovin signore» a gioire del fatto di possedere una sensibilità più raffinata suona come sarcasmo sferzante.

> Le variazioni tonali L’umanità animalesca

L’idillio classicistico

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L’episodio non ha un’impostazione di tono e di stile unitaria, ma presenta forti variazioni al suo interno. Si possono individuare quattro momenti: 1. La descrizione dello stato di natura. È un motivo caro alla cultura settecentesca, ma Parini non lo affronta tanto con un abbandono idillico, quanto con un atteggiamento di affascinata ammirazione per un’umanità primigenia, agli albori del suo percorso, che vive in condizioni ancora prossime a quelle animalesche. La rappresentazione fa pensare più che altro a Vico, o alla descrizione degli uomini primitivi nel libro V del De rerum natura di Lucrezio. 2. La raffigurazione del Piacere è impostata invece nella chiave di un classicismo aggraziato e voluttuoso sino alla leziosità, che sembra risentire dell’arte pompeiana proprio allora divenuta di moda in seguito agli scavi archeologici. Anche il paesaggio che circonda il genio sa di

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

Il linguaggio scientifico

L’indignazione morale

idillio arcadico (l’«aura estiva», il «cadente rivo», i «clivi odorosi»), così come la similitudine del temporale è un pezzo di puro virtuosismo letterario, tutto sommato gratuito. La componente letteraria, legata alla tradizione del classicismo, si associa sempre in Parini all’impegno concettuale nella battaglia illuministica. 3. La descrizione delle reazioni degli uomini alle sollecitazioni del Piacere rivela quel gusto per il linguaggio scientifico, quel compiacimento ad insistere sulle realtà materiali e fisiologiche che sono propri della cultura sensistica («di fluido agilissimo inondolli», v. 301; «languîr l’ebeti fibre, inette / a rimbalzar sotto i soavi colpi», vv. 321-322). 4. Infine la rappresentazione della plebe condannata a vivere tra la fatica e la miseria, abbrutita al livello degli animali, e l’immagine del «giovin signore» che gioisce mentre i plebei lavorano a produrre il cibo e a servirglielo sulla mensa, acquistano risonanze profonde dall’indignazione morale del poeta.

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. Dividi il testo in sequenze e assegna loro un titolo. ANALIZZARE

> 2.

Stile Descrivi la sintassi dei versi 268-297, in cui è rappresentato il Piacere: è semplice o complessa? Rilevi la presenza di iperbati e inversioni? Noti un uso insistito dell’aggettivazione? Qual è l’effetto complessivo? > 3. Lessico Rileva e spiega il senso del ricorrere, ai versi 250-267, di aggettivi quali: «eguale», «medesimo», «stesso».

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 4.

Scrivere In un testo scritto (max 500 caratteri) illustra la concezione dello “stato di natura” e spiega le ragioni culturali per cui questo tema acquista particolare rilievo nella riflessione filosofica e letteraria del Settecento.

PER IL RECUPERO

> 5. Perchè e da chi fu spedito il Piacere sulla terra? Cosa accadde agli uomini? Quali sono le cause che producono la divisione tra nobili e plebei?

> 6. Terminata la favola, quale diversa motivazione fornisce il poeta per spiegare l’origine della disuguaglianza sociale?

T5

La «vergine cuccia» dal Mezzogiorno, vv. 497-556 Il passo qui riportato si colloca nel momento del pranzo. Tra i vari convitati siede alla tavola della dama il vegetariano che non mangia carne per pietà verso gli animali.

Temi chiave

• il mondo frivolo ma cinico e crudele dell’aristocrazia del tempo

• il contrasto tra ottica nobiliare e realtà oggettiva

• lo sdegno del poeta

> Metro: endecasillabi sciolti.

Audio

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Qual anima è volgar la sua pietade all’uom riserbi; e facile ribrezzo déstino in lei del suo simìle i danni, i bisogni e le piaghe. Il cor di lui sdegna comune affetto1; e i dolci moti a più lontano limite sospinge. – Pèra colui che prima osò la mano armata alzar su l’innocente agnella e sul placido bue: né il truculento cor gli piegàro i teneri belati,

versi 497-502 L’anima volgare riservi la sua pietà per l’uomo, e destino in lei facile commozione (ribrezzo) i danni, i bisogni, le sofferenze (piaghe) dei suoi simili. Il cuore del vegetariano disdegna sentimenti così comuni (comune affetto) e rivolge la sua squisita sensibilità verso oggetti più preziosi (a più … limite). 1. comune affetto: come la pietà per gli altri uomini. versi 503-509 Possa morire (Pèra) colui che per la prima volta osò alzare la mano armata per uccidere l’agnello innocente e il placido bue; e non piegarono il suo cuore crudele (tru-

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né i pietosi mugiti, né le molli lingue, lambenti tortuosamente la man che il loro fato, ahimè! stringea2. – Tal ei parla, o Signore; e sorge intanto, al suo pietoso favellar, dagli occhi de la tua dama3 dolce lagrimetta, pari a le stille tremule, brillanti, che a la nova stagion gemendo vanno dai palmiti di Bacco, entro commossi al tiepido spirar de le prim’aure fecondatrici. Or le sovviene il giorno, ahi fero giorno! allor che la sua bella vergine cuccia de le Grazie alunna, giovenilmente vezzeggiando, il piede villan del servo con l’eburneo dente segnò di lieve nota: ed egli audace con sacrilego piè lanciolla4 e quella tre volte rotolò; tre volte scosse gli scompigliati peli, e da le molli nari soffiò la polvere rodente. Indi, i gemiti alzando: Aita5, aita, parea dicesse; e da le aurate volte a lei l’impietosita Eco rispose6: e dagl’infimi chiostri7 i mesti servi asceser tutti; e da le somme stanze le damigelle pallide, tremanti, precipitâro. Accorse ognuno; il volto fu spruzzato d’essenze8 a la tua dama; ella rinvenne alfin: l’ira, il dolore l’agitavano ancor; fulminei sguardi gettò sul servo, e con languida voce chiamò tre volte la sua cuccia: e questa al sen le corse; in suo tenor9 vendetta chieder sembrolle: e tu vendetta avesti, vergine cuccia de le Grazie alunna. L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo udì la sua condanna. A lui non valse

culento) i teneri belati, i muggiti che suscitavano pietà, né le molli lingue (degli animali) che leccavano tutto intorno (lambenti tortuosamente) la mano che, ahimè! stringeva il loro destino (fato)! 2. il loro ... stringea: cioè stava per ucciderli. versi 510-517 Così egli dice, o Signore: e intanto, mentre egli (il vegetariano) parla compassionevolmente (pietoso favellar), dagli occhi della tua dama spunta una tenera lacrimuccia, simile alle gocce tremule, luccicanti, che a primavera (nova stagion) trasudano (gemendo vanno) dai tralci della vite (palmiti di Bacco), smossi (commossi) al loro interno dal tiepido soffio dei venti primaverili (prim’aure), che fecondano la natura. 3. la tua dama: la dama di cui il «giovin signore» è il cavalier servente, e nella cui casa si svolge il pranzo. versi 517-526 Ora (la dama) ricorda il giorno, ahimè giorno terribile! quando (allor che) la sua cuccioletta, così bella da sembrare allevata dalle Grazie (de le … alunna), giocando (vezzeggiando) come fanno i piccoli (giovenilmente) morse il piede villano di un servo, lasciandovi il segno leggero dei suoi denti bianchi come l’avorio (eburneo); ed egli sfrontato (audace) le diede un calcio con il suo piede sacrilego, facendola volare lontano (lanciolla) e quella per tre volte ruzzolò; per tre volte agitò i peli arruffati, e dalle delicate (molli) narici soffiò la polvere irritante (rodente). 4. Or le sovviene ... lanciolla: la prospettiva della dama umanizza l’animale, attribuendogli caratteri infantili. Il fatto poi che un inferiore osi prendere a calci la cagnetta amata è per la padrona un vero e proprio sacrilegio. versi 527-541 Quindi, emettendo (alzando) i guaiti, (la cagnetta) sembrava dire: Aiuto, aiuto; e dalle volte dorate del salone Eco impietosita le rispose: e dalle stanze inferiori (infimi chiostri) salirono tutti i servi rattristati; e dalle stanze dei piani superiori (somme) si precipitarono le damigelle pallide e tremanti. Tutti accorsero; il volto della tua dama fu spruzzato di essenze (profumate); ed ella infine rinvenne: la rabbia e il dolore l’agitavano ancora; gettò sguardi fulminanti sul servo, e con voce languida chiamò tre

Pesare le parole Volgar (v. 497)

> Deriva dal latino vùlgum, “popolo”. Può conservare in ita-

liano il senso originario di “proprio del popolo” (es. sono superstizioni volgari, diffuse nel popolo meno colto); così latino volgare viene detto quello che era parlato dal popolo, in contrapposizione alla lingua letteraria degli scrittori, e dal quale sono derivate le lingue neolatine. Nel Medioevo il volgare era la lingua parlata comunemente, distinta dal latino che era usato solo dai dotti. Volgarizzamento perciò è la traduzione in volgare di un testo latino (es. i Fioretti di san Francesco sono il volgarizzamento di un testo latino precedente). Volgarizzare può voler dire “rendere accessi-

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>

bile a tutti una disciplina” (es. è opportuno e utile volgarizzare le scoperte scientifiche); dalla stessa radice di vùlgum derivano divulgare, divulgazione (es. la televisione può assumere un compito prezioso di divulgazione). Il senso più comune di volgare è però quello spregiativo, “privo di finezza e distinzione, rozzo, che ignora le buone maniere” (es. è un uomo volgare, che usa un linguaggio pieno di parolacce e fa spesso gesti osceni). L’avverbio volgarmente conserva invece un senso vicino a quello originario e significa “comunemente” (es. come si dice volgarmente, “chi va piano va sano e va lontano”).

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merito quadrilustre; a lui non valse zelo d’arcani ufici10; in van per11 lui fu pregato e promesso; ei nudo andonne, dell’assisa spogliato ond’era un giorno venerabile al vulgo. In van novello signor sperò; ché le pietose dame inorridîro, e del misfatto atroce odiâr l’autore12. Il misero si giacque, con la squallida prole e con la nuda consorte a lato su la via spargendo al passeggiere inutile lamento: e tu, vergine cuccia, idol placato da le vittime umane13, isti superba14.

volte la sua cagnetta: e questa le corse in braccio (al sen); col suo modo animalesco di esprimersi (in suo tenor) le sembrò che chiedesse vendetta: e tu ottenesti vendetta, giovane cagnetta allevata dalle Grazie. 5. Aita: ma la parola vuole riprodurre onomatopeicamente i guaiti della cagnetta. 6. da le aurate ... rispose: i guaiti della cagnetta riecheggiano cioè per le volte dorate del salone; ma il fatto è amplificato in chiave mitologica: è come se la ninfa Eco le rispondesse impietosita (Eco era stata trasformata in pura voce da Giunone). La trasfigurazione

mitologica della realtà era tipica del gusto classicistico del tempo, ma qui, riferita ad un oggetto così ridicolo, assume valore ironico. 7. infimi chiostri: dove si trova la servitù. 8. il volto … essenze: per farla rinvenire. 9. in suo tenor: cioè con quel suo correre a rifugiarsi spaventata tra le braccia della padrona. versi 542-556 Il servo malvagio tremò; con gli occhi a terra, ascoltò la sua condanna. Non gli valse nulla l’aver servito fedelmente per vent’anni (quadrilustre), non gli valse lo zelo dimostrato nell’eseguire incarichi riservati (ar-

cani ufici), invano da parte sua (per) fu pregato e promesso (di non commettere più atti del genere); se ne andò nudo, spogliato della livrea (assisa), grazie alla quale (ond’) appariva oggetto di ammirazione e di rispetto (venerabile) agli occhi del popolo. Sperò invano (di trovare) un nuovo padrone (signor); perché le dame, pietose, inorridirono (per il calcio sferrato alla cagnetta), e detestarono l’autore dell’atroce misfatto (rifiutando di assumerlo). L’infelice (misero) fu costretto a chiedere inutilmente l’elemosina per la strada (spargendo … lamento), con a fianco i figli macilenti per la fame e la moglie ricoperta a malapena di stracci: e tu, giovane cagnetta, idolo placato da sacrifici umani, andasti superba. 10. arcani ufici: come ad esempio portare messaggi della dama ai suoi amanti. 11. per: ricalca il par francese, che introduce il complemento d’agente. 12. le pietose ... autore: la“pietà”delle dame si rivolge solo verso l’animale, non verso l’uomo. 13. idol ... umane: come le antiche divinità. 14. superba: perché ha ottenuto la sua vendetta.

Pesare le parole Squallida (v. 552)

> Viene dal latino squàlidum, “sudicio, rozzo”; indica ciò che si trova in uno stato di abbandono, di miseria, di assoluta mancanza di ciò che può dare conforto, tale da infondere tristezza (es. quei poveretti abitano in un alloggio squalli-

do, buio e quasi privo di mobili; conduce una vita squallida, monotona, priva di ogni divertimento). Detto di persona, “pallido, smunto, emaciato”: è il senso che ricorre in questo passo pariniano, ma oggi è ormai poco usato.

Analisi del testo

> Il punto di vista nobiliare

Il contrasto tra ottica nobiliare e realtà oggettiva

Come ha opportunamente osservato Petronio, il racconto dell’episodio del calcio alla cagnetta è inizialmente condotto dal punto di vista della dama. È il procedimento abituale dell’ironia pariniana, quello di assumere l’ottica del mondo rappresentato per meglio farne emergere, grazie al contrasto che si determina con la realtà oggettiva, tutta la negatività. Nella prospettiva della dama il fatto viene presentato in modo estremamente parziale, con una smaccata simpatia per la cagnetta e con una totale incomprensione per l’uomo, accompagnata da astio e da disprezzo. Innanzitutto un episodio in sé insignificante nel ricordo della nobildonna si trasforma in una terribile sventura («ahi fero giorno!»), che suscita ancora turbamento. La cagnetta poi, in una luce mitologica ispirata al lezioso classicismo arcadico, diviene una creatura quasi divinizzata, «alunna» delle Grazie. Il morso al servo viene minimizzato: è uno scherzo fanciullesco («giovenilmente vezzeggiando», v. 520), e i denti preziosi d’avorio lasciano solo un trascurabile segno («segnò di lieve nota», v. 522); viceversa il servo che le sferra un calcio è addirittura «sacrilego» e il suo piede è definito «villano», quasi a significare che un morso di quell’esserino caro alle Grazie è una sorta di privilegio. 535

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La duplice prospettiva

Dalla commedia al dramma

I gemiti dell’animaletto sono presentati, attraverso lo sdegno e il raccapriccio della dama, mediante un’amplificazione iperbolica che ingigantisce la portata del fatto banale: la ninfa Eco in persona le risponde dalle volte dorate delle sale nobiliari. Il particolare che segue (i servi che salgono mesti dal basso, le cameriere che si precipitano pallide e tremanti dalle stanze superiori) è abilmente caricato di una doppia valenza: vista dall’ottica della dama la servitù appare partecipe della sciagura e afflitta dal misfatto perpetrato ai danni della preziosa cagnetta, ma l’immagine lascia facilmente intuire la realtà: i servi sono angosciati perché sanno quali terribili conseguenze il gesto avrà per il loro compagno. Grazie a questa duplicità di prospettive quella che sinora era una commedia comincia a diventare un dramma, e la narrazione acquista improvvisamente una diversa serietà. Così è anche per l’immagine della cagnetta che correndo in braccio alla padrona sembra chiedere vendetta: il particolare grazioso visto con gli occhi della dama suscita tenerezza, ma in realtà assume una colorazione inquietante, il vezzoso e innocente animaletto si tramuta in una sorta di divinità offesa e spietata che chiede vendetta. Anche qui la rappresentazione è ambivalente, sospesa tra la fatuità dell’evento in sé e le conseguenze tragiche che si attende ne scaturiscano.

> Il punto di vista dell’autore

Sdegno e commozione umanitaria

Il significato della tecnica narrativa

La frase «e tu vendetta avesti, / vergine cuccia de le Grazie alunna» (vv. 540-541), che è della voce narrante, è carica anch’essa di questa ambivalenza: da un lato apparentemente sposa l’ottica frivola della dama, esprimendo compiacimento per la punizione esemplare inflitta all’«empio», dall’altro invece vibra di sdegno morale per la disumanità della padrona nei confronti del servo. Di qui in avanti la prospettiva del racconto cambia: Parini non racconta più dal punto di vista della dama ma, quasi scopertamente, dal proprio. Il tono si fa serio, drammatico, colmo della commozione umanitaria del poeta, che rappresenta l’infelice sorte riservata al domestico, licenziato senza la possibilità di trovar lavoro altrove perché le altre dame «pietose» (e mai come qui l’ambivalenza ironica del linguaggio, determinando uno stridore estremo con la realtà effettiva, assume una feroce carica demistificatoria) respingono inorridite l’autore del misfatto. L’episodio si chiude con l’immagine della cagnetta, che da vezzosa alunna delle Grazie quale era all’inizio si trasforma in un sinistro idolo placato dalle vittime umane: qui il poeta quasi non usa più ironia, ma lascia erompere scopertamente il suo sdegno. Dall’analisi risulta l’abilissima tecnica narrativa con cui è montato l’episodio. Ma non si tratta solo di virtuosismo esteriore: con il suo gioco sottile tra il punto di vista della dama e quello del poeta la narrazione riesce a fare emergere con corrosiva acutezza come quel mondo frivolo e insulso celi in realtà un fondo di cinismo crudele.

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. A che cosa è paragonata la «lagrimetta» della donna, che scende sul suo volto alle parole del vegetariano? > 2. Quale ricordo suscitano in lei le parole del commensale (vv. 517-541)? ANALIZZARE

> 3. In quale parte del racconto si può notare il riecheggiamento dei modi espressivi e delle situazioni narrative tipiche

dell’epica eroica d’argomento guerresco che compaiono nell’ultima parte del brano (vv. 542 e ss.)? > 4. Lessico Analizza il lessico dei versi 517-526, soffermandoti sugli aggettivi: quali campi semantici antitetici si delineano? APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 5. Scrivere Rifletti in un testo scritto di un massimo di 15 righe (max 750 caratteri) sulle modalità, realistiche o idealizzate, con cui Parini rappresenta le classi popolari, facendo riferimento a questo brano e agli altri a te eventualmente noti. PASSATO E PRESENTE Il divario sociale oggi

> 6. Prendendo spunto da questo brano, rifletti sulla disparità sociale che Parini delinea nel Giorno tra i membri della nobiltà e le persone di condizione umile e fornisci alcune considerazioni personali. Nelle società moderne il divario tra le diverse classi secondo te è ancora così profondo?

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Capitolo 8 · Giuseppe Parini

T6

Il «giovin signore» legge gli illuministi

Temi chiave

• la lettura dei filosofi illuministi come moda aristocratica

• il rifiuto delle posizioni antireligiose • l’adesione ai princìpi dell’egualitarismo

dal Mezzogiorno, vv. 940-1020

Quando il pranzo volge alla fine si intrecciano conversazioni sugli argomenti più vari, la politica e la guerra, la letteratura e la filosofia. Il «giovin signore» ha modo così di far sfoggio della sua cultura raccogliticcia e malamente orecchiata.

> Metro: endecasillabi sciolti. 940

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Cotesto ancor di rammentar fia tempo i novi sofi che la Gallia e l’Alpe1, esecrando, persegue; e dir qual arse de’ volumi infelici e andò macchiato d’infame nota: e quale asilo appresti filosofia al morbido Aristippo del secol nostro2; e qual ne appresti al novo Dïogene, dell’auro spregiatore e della opinïone de’ mortali3. Lor volumi famosi a te verranno, da le fiamme fuggendo a gran giornate, per calle obliquo4 e compri a gran tesoro: o, da cortese man prestati, fiéno lungo ornamento a lo tuo speglio innanzi5. Poiché scorsi gli avrai pochi momenti, specchiandoti e a la man garrendo indotta del parrucchier6; poiché t’avran la sera concilïato il facil sonno7, allora a la toilette passeran di quella che comuni ha con te studi e liceo8, ove togato in cattedra elegante siede interprete Amor9. Ma fia la mensa

versi 940-948 Codesto (tra le conversazioni che si intrecciano alla fine del pranzo) sarà (fia) anche il momento di ricordare i nuovi filosofi francesi, gli illuministi (novi sofi), che la Francia (Gallia) e la Svizzera (Alpe) condannano e perseguitano; e dire quale dei libri infausti fu bruciato, e fu colpito dalla condanna della censura (andò ... nota): ed (è il momento di ricordare) quale rifugio procuri la sua fama di filosofo all’edonista Aristippo del nostro tempo (morbido ... nostro); e quale al nuovo

Diogene, che disprezza i beni materiali (auro) e le opinioni correnti degli uomini (mortali). 1. Gallia ... Alpe: la Svizzera era patria di Rousseau, nato a Ginevra, la Francia di Voltaire. 2. e quale ... nostro: Voltaire è paragonato ad Aristippo di Cirene, filosofo greco che sosteneva teorie edonistiche, e che per questo viene definito morbido. Si allude a Ferney, dove Voltaire trovò sicuro rifugio dal 1760. 3. e qual ... mortali: Rousseau è paragonato a Diogene, il filosofo antico. Nel 1762, do-

po aver pubblicato il Contratto sociale, si rifugiò a Motiers-Travers, presso Neuchâtel. versi 949-963 Le loro opere famose giungeranno nelle tue mani (o Signore), sfuggendo al rogo molto rapidamente (a gran giornate), per vie clandestine (per calle obliquo) e comprate a caro prezzo (gran tesoro): o prestate da qualche amico gentile, faranno (fiéno) bella figura (lungo ornamento) davanti allo specchio (della toilette). Dopo che (Poiché) li avrai sfogliati velocemente (scorsi ... momenti) mentre ti specchi e mentre rimproveri (garrendo) la mano inesperta (indotta) del parrucchiere; dopo che la sera ti avranno conciliato il sonno (che giunge) facilmente, allora passeranno alla toilette della tua dama, che ha comuni con te studi e scuole (liceo), dove con la toga siede elegantemente in cattedra in qualità d’insegnante (interprete) Amore. Ma le conversazioni a tavola (mensa) sono l’occasione più adatta (favorevol loco) per esibire il frutto glorioso di così brevi studi. 4. Lor volumi ... obliquo: poiché leggere i philosophes è di gran moda, il signore cerca di procurarsi subito i loro libri che, essendo proibiti, circolano clandestinamente. 5. e compri ... innanzi: il signore non è mosso da veri interessi culturali, per cui tiene i libri famosi solo per farne sfoggio esteriore e per sfogliarli distrattamente nei momenti di ozio. 6. man ... parrucchier: che non lo pettina cioè in modo soddisfacente, o gli tira i capelli. 7. poiché ... sonno: il «giovin signore» legge i libri degli illuministi la sera a letto, e siccome sono opere poco amene, gli conciliano il sonno. 8. comuni ... liceo: nel senso che la dama è ignorante quanto il «giovin signore». 9. ove ... Amor: essi sono cioè esperti solo nelle arti galanti, nelle schermaglie amorose

Pesare le parole Garrendo (v. 955) > Garrire

viene dal latino garrìre, voce onomatopeica che si riferisce al verso aspro e stridulo di alcuni animali, specialmente uccelli (es. le rondini sfrecciano nel cielo garrendo). Nella lingua letteraria indica lo sventolare delle bandiere, con riferimento al rumore da esse

prodotto (es. durante la cerimonia le bandiere garrivano al vento). Sempre nell’uso letterario può voler dire “ciarlare in modo fastidioso”, o “gridare con voce aspra”. Nella forma transitiva, nell’uso arcaico e letterario, vale “rimproverare”, ed è il senso qui ricorrente.

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il favorevol loco, ove al sol esca de’ brevi studi10 il glorïoso frutto. Qui ti segnalerai co’ novi sofi, schernendo il fren che i creduli maggiori atto solo stimâr l’impeto folle a vincer de’ mortali, a stringer forte nodo fra questi, e a sollevar lor speme con penne11 oltre natura alto volanti12. Chi por freno oserà d’almo Signore a la mente od al cor?13 Paventi il vulgo oltre natura: il debole prudente rispetti il vulgo; e quei, cui dona il vulgo titol di saggio, mediti romito il ver celato; e alfin cada adorando la sacra nebbia che lo avvolge intorno14. Ma il mio Signor, com’aquila sublime, dietro ai sofi novelli il volo spieghi. Perché più generoso il volo sia, voli senz’ale ancor; né degni ’l tergo affaticar con penne15. Applauda intanto tutta la mensa al tuo poggiare ardito. Te con lo sguardo e con l’orecchio beva la dama dalle tue labbra rapita;

(questa è la scuola dove siede togato in cattedra Amore). 10. brevi studi: l’aggettivo brevi sembra suonare come un elogio e suggerire che al signore e alla dama basta pochissimo tempo per assimilare le teorie dei filosofi; in realtà allude ironicamente alla superficialità di quelle letture. versi 964-976 Qui ti segnalerai con i nuovi filosofi schernendo la religione, il freno che i

creduli antenati (maggiori) ritennero il solo capace di dominare le folli passioni (impeto folle) degli uomini, di stringere fra loro il vincolo sociale (forte nodo), e di innalzare la loro speranza ad una realtà sovrannaturale, alla vita eterna. Chi oserà porre freni all’intelletto (mente) e alle passioni (cor) di un illustre aristocratico? Solo il volgo ignorante abbia paura (Paventi) dell’aldilà (oltre natura): chi è

prudente e poco audace segua le superstizioni del popolo; e colui, a cui il volgo dà il nome di saggio, mediti solitario (romito) le verità nascoste (ver celato); e alfine muoia adorando il sacro mistero che lo avvolge. 11. penne: ali. 12. Qui ... volanti: Parini attribuisce alla religione tre funzioni essenziali: una morale, disciplinare gli appetiti umani; una sociale, legare tra loro gli uomini con vincoli di solidarietà; ed una metafisica, indurli a guardare al di là della sfera naturale, a Dio e alla salvezza. 13. Chi ... cor?: i nobili si ritengono cioè superiori alla morale comune: per questo sprezzano la religione e cercano autorizzazione alla loro immoralità nelle teorie degli illuministi, che sottopongono a critica le credenze religiose tradizionali. 14. e quei ... intorno: muoia cioè senza essere riuscito a penetrare il mistero. Secondo i nobili libertini la religione è buona solo per il volgo superstizioso, per gli animi paurosi e per i sapienti solitari, che si isolano dalla realtà dedicandosi alla meditazione, ma non riescono egualmente a sapere nulla della sfera soprannaturale. versi 977-982 Ma il mio signore, ardito come un’aquila che voli in alto (sublime), osi seguire i nuovi filosofi nelle loro rivoluzionarie teorie (dietro ... spieghi). Affinché il volo sia più coraggioso (generoso), voli anche senza avere le ali; né si degni di affaticare la sua schiena (tergo) con le penne. Applaudano intanto i commensali al tuo volo (poggiare) audace. 15. Perché ... penne: metaforicamente le ali rappresentano il sapere: vale a dire che il signore si lancia a seguire le teorie filosofiche degli illuministi senza avere la necessaria cultura. Ironicamente ciò è presentato come prova di coraggio, ma in realtà il giudizio mette in rilievo la superficialità e la sconsideratezza del nobile. versi 983-992 La tua dama, rapita, beva con gli occhi e con gli orecchi i discorsi che escono dalle tue labbra; pieghi sovente il capo con un grazioso (vezzosa) cenno d’approvazione: e ripeta con la sua bocca amorevole (i concetti da te enunciati) il «calcolo» e la «massa» e l’«inversa ragione». Amore, divenuto maestro, ora non odia più il linguaggio Jean Francois de Troy, La lettura da Molière, 1730 circa, olio su tela, Collezione privata.

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con cenno approvator vezzosa il capo pieghi sovente: e il «calcolo» e la «massa» e l’«inversa ragion»16 sonino ancora su la bocca amorosa. Or più non odia delle scole il sermone Amor maestro17; ma l’accademia e i portici passeggia de’ filosofi al fianco18, e con la molle mano accarezza le cadenti barbe. Ma guàrdati, o Signor, guàrdati, oh Dio! dal tossico mortal19 che fuora esala dai volumi famosi; e occulto poi sa, per le luci penetrato all’alma, gir serpendo nei cori; e con fallace lusinghevole stil corromper tenta il generoso de le stirpi orgoglio che ti scevra dal vulgo20. Udrai da quelli, che ciascun de’ mortali all’altro è pari; che caro a la natura e caro al cielo è non meno di te colui che regge i tuoi destrieri e quei ch’ara i tuoi campi;

erudito (delle scole il sermone); ma passeggia al fianco dei filosofi per l’accademia e per i portici, e con la mano delicata (molle) accarezza le loro lunghe (cadenti) barbe. 16. il «calcolo» ... la «massa» ... l’«inversa ragion»: sono le formule del linguaggio scientifico di moda al tempo. 17. Or più ... maestro: non vi è più incompatibilità tra la galanteria mondana e i severi studi, poiché anche le dame, anziché occu-

parsi solo di faccende sentimentali, si dedicano alla filosofia e alla scienza. 18. ma ... fianco: l’accademia era la scuola di Platone, mentre i portici sono quelli del Liceo, la scuola di Aristotele, dove il filosofo insegnava ai discepoli passeggiando (da perípatos, passeggio, deriva il nome di “scuola peripatetica”).

che fuoriesce dai famosi libri (degli illuministi); e che di nascosto (occulto) penetrato attraverso gli occhi (luci) nell’anima, va insinuandosi (gir serpendo) nei cuori; e con uno stile allettante ma ingannevole (fallace) tenta di corrompere l’orgogliosa coscienza della superiorità nobiliare (generoso ... stirpi) che ti distingue dal volgo. Dai libri degli illuministi (da quelli) apprenderai che ogni uomo è uguale all’altro; che il tuo cocchiere (colui ... destrieri) e il contadino che coltiva i tuoi campi è caro alla natura e al cielo non meno di quanto lo sei tu; e che la tua compassione e il tuo rispetto dovrebbero scendere avvilendosi (vilmente) fino a costoro. 19. tossico mortal: sono le teorie egualitarie contenute nei libri degli illuministi. 20. e con fallace ... vulgo: le teorie egualitarie rischiano di insinuare nella mente dei nobili il dubbio sulla propria superiorità sociale; il fatto è presentato come deleterio dal «precettore», ma come sempre l’affermazione è antifrastica e va intesa a rovescio: Parini auspica che anche i nobili siano conquistati al principio dell’eguaglianza.

versi 993-1006 Ma guardati, o Signore, guardati, oddio! dal veleno (tossico) mortale

versi 1007-1011 Folli sogni di un pazzo (infermo)! Lascia perdere (Intatti lascia)

Pesare le parole Vezzosa (v. 985)

tempo a svegliarmi presto per andare al lavoro). Un vezzo può essere un monile, una collana (es. intorno al collo portava un prezioso vezzo di perle). Al plurale vezzi, come si è visto sopra, può indicare atti o parole pieni di fascino, di grazia (es. con i suoi vezzi è capace di conquistare chiunque), ma può equivalere anche a “moine, smancerie”, con un senso più negativo (es. non sopporto più i suoi vezzi ipocriti). Un vezzeggiativo in grammatica è la forma alterata di un nome o di un aggettivo mediante il suffisso -uccio, a designare un oggetto che suscita simpatia, tenerezza (es. con quel vestito la bimba è proprio caruccia; vieni, tesoruccio della mamma).

> Vezzoso

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è chi ha molti vezzi, cioè è dotato di bellezza, grazia, leggiadria (es. è una vezzosa fanciulla, che attira l’ammirazione generale). Leggiadria viene dall’antico provenzale leujairia, “leggerezza, levità”, dal latino lèvis, “lieve, leggero”: è interessante questa identificazione della grazia con la leggerezza, come dire che la pesantezza è sgraziata. Con una sfumatura peggiorativa, vezzoso può anche equivalere a lezioso (es. non le si addicono quei gesti vezzosi, che sanno di artificio; fa la vezzosa con tutti). Vezzo viene dal latino vìtium, “difetto”, quindi originariamente il senso del termine era negativo. Questo senso è rimasto in parte nell’accezione che indica un modo abituale e caratteristico di parlare o di muoversi (es. ha il vezzo di intercalare sempre “diciamo” nei suoi discorsi; ha il vezzo di grattarsi un orecchio quando è in imbarazzo). Un senso oggi meno usato è “gesto o parola che dimostra affetto e tenerezza” (es. la madre faceva mille vezzi al neonato), mentre pienamente in uso è il verbo derivato vezzeggiare, “colmare di segni di tenerezza” (es. il bambino vezzeggiava l’adorato cagnolino). Avvezzare vuol dire invece “abituare”, anche nella forma riflessiva, ed è voce del linguaggio colto (es. bisogna avvezzare il gatto a non farsi le unghie sul divano; mi sono avvezzato da

Scevra

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>

(v. 1000)

Scevro è legato con il verbo sceverare, “distinguere, disgiungere, separare”, dal latino parlato exseperàre, usato per la forma classica separàre, “dividere”; scevro quindi vuol dire letteralmente “separato da”, e per estensione “privo, esente” (es. si proclama scevro di ogni colpa; è un testo scevro di errori). Esente viene dal latino exèmptum, da exìmere, “mettere da parte”. Oltre che “privo” può significare “dispensato da un dovere, da un obbligo” (es. è esente dal pagamento delle tasse chi ha un reddito inferiore a una certa cifra).

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

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e che la tua pietade e il tuo rispetto dovrien fino a costor scender vilmente. Folli sogni d’infermo! Intatti lascia così strani consigli; e sol ne apprendi quel che la dolce voluttà rinfranca, quel che scioglie i desiri, e quel che nutre la libertà magnanima21. Tu questo reca solo a la mensa: e sol da questo cerca plausi ed onor. Così dell’api l’industrïoso popolo, ronzando, gira di fiore in fior, di prato in prato; e i dissimili sughi raccogliendo, tesoreggia nell’arnie: un giorno poi ne van colme le pàtere dorate sopra l’ara de’ numi22; e d’ogn’intorno ribocca la fragrante alma dolcezza23.

questi consigli così assurdi; e apprendi solo ciò (le dottrine edonistiche), che ti conforta ad abbandonarti ai piaceri sensuali (dolce voluttà), ciò che autorizza a lasciar liberi i desideri e ciò che alimenta il tuo nobile li-

bertinaggio (libertà magnanima). 21. e sol ... magnanima: il libertinaggio è detto ironicamente “magnanimo” perché i nobili ritenevano che fosse segno della loro superiorità spirituale il potersi abbandonare

senza freni ad ogni eccesso. versi 1011-1020 Porta solo questi argomenti nelle conversazioni che si tengono a tavola: e solo attraverso questi cerca approvazione (plausi) e onore. Così (come) il laborioso popolo delle api, ronzando, gira di fiore in fiore, di prato in prato; e, raccogliendo i vari (dissimili) succhi dei fiori (sughi), li custodisce (tesoreggia) nelle arnie: un giorno poi ne sono ripiene le coppe (pàtere) dorate sopra l’altare degli dei; e il profumo dolce dello squisito miele (fragrante ... dolcezza) trabocca (ribocca) tutt’intorno. 22. sopra ... numi: nel mondo antico il miele era offerto agli dei durante i sacrifici. 23. un giorno ... dolcezza: nell’ironica similitudine il «giovin signore», che raccoglie dai libri dei filosofi solo le teorie che gli fanno comodo, è paragonato alle api che distillano un miele profumato dai succhi raccolti da diversi fiori. La similitudine è un topos ricorrente della poesia classica (vedi ad esempio Lucrezio, De rerum natura, III, v. 11: «Floriferis ut apes in saltibus omnia libant», come sulle balze fiorite le api suggono ogni tipo di fiori).

Analisi del testo Perché la nobiltà legge i philosophes

La critica alla religione come giustificazione del libertinaggio

L’orrore per le teorie sull’uguaglianza

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Il passo è interessante perché ci indica come la filosofia illuministica fosse penetrata in quella stessa classe aristocratica che era oggetto della sua battaglia. Il giovin signore infatti legge Voltaire e Rousseau: ma la satira di Parini mette impietosamente in luce come la nobilità si rivolga a quelle letture non spinta da un autentico interesse culturale, bensì solo da una superficiale curiosità suggerita dalla moda e sollecitata dall’aura di scandalo e di proibito che circondava quegli scritti, condannati e perseguitati dalle autorità. Non solo, ma il «giovin signore» non legge veramente i libri dei filosofi, si limita a sfogliarli distrattamente mentre il parrucchiere lo pettina o prima di addormentarsi, per poi passarli alla sua dama, che è mossa da motivazioni altrettanto frivole. La lettura è infatti finalizzata esclusivamente a scopi mondani, a far sfoggio di una cultura alla moda e quindi a brillare nelle conversazioni che si svolgono in società. Sin qui la satira di Parini si appunta sul consueto bersaglio, la vacuità frivola di una classe oziosa e inutile, incapace di ogni occupazione seria. Ma ciò che suscita la più profonda indignazione del poeta è che il «giovin signore» dalle teorie illuministiche malamente orecchiate prende solo ciò che può fargli comodo per giustificare il suo comportamento libertino: la critica alla religione. Emergono dalla polemica pariniana la corruzione di una classe che si ritiene superiore ad ogni legge morale e il cinismo opportunistico di chi è pronto a farsi schermo anche delle teorie d’avanguardia, che oggettivamente vanno contro ai suoi interessi, pur di trovare un’autorizzazione a continuare la sua vita immorale. Nonostante ciò il «giovin signore» può seguire gli illuministi solo fino a un certo punto: se apprezza le loro teorie ateistiche e edonistiche, aborre e disprezza invece le teorie sull’eguaglianza di tutti gli uomini, che possono minare i suoi privilegi. Il passo è però interessante anche perché permette di ricostruire le posizioni di Parini stesso nei confronti degli illuministi francesi. Tenendo presente che il discorso del poeta è sempre ironico, e che l’ironia consiste nell’affermare il contrario di ciò che si vuol fare intendere, per

Capitolo 8 · Giuseppe Parini Parini respinge la critica della religione...

... e approva le teorie sull’uguaglianza

ricavare tali posizioni basta rovesciare quelle del «giovin signore»: Parini aborre ciò che il nobile apprezza, e apprezza ciò che questi aborre. Il poeta ritiene estremamente pericolosa la critica illuministica alla religione perché può compromettere le sue funzioni fondamentali: fornire il freno morale che disciplini le passioni degli uomini, costituire il legame che li stringe in comunità, prospettare la speranza di una salvezza ultraterrena. Come si vede a Parini interessa non solo il messaggio della religione in sé, nel suo significato metafisico, ma anche la sua efficacia nella società. Viceversa egli condivide le teorie illuministiche sulla fondamentale eguaglianza degli uomini, sul rispetto che ogni uomo deve all’altro uomo, prescindendo dalla collocazione sociale. L’atteggiamento di Parini verso il pensiero illuministico non è quindi univoco: ne accoglie alcuni aspetti ma ne respinge altri, che ritiene inaccettabili dalla sua coscienza. Si può vedere come le posizioni di Parini siano molto più moderate di quelle dei filosofi francesi, più legate a concezioni tradizionali.

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. In quali luoghi e momenti il «giovin signore» si dedica alla lettura dei nuovi filosofi? E dove fa sfoggio del «glorioso frutto» di tanta lettura? > 2. Che cosa, per mezzo della nuova filosofia, il nobile schernisce? Qual è il ruolo, all’opposto, che i «creduli maggiori», i nobili antenati, assegnavano alla religione? > 3. Riassumi in un massimo di 5 righe (250 caratteri) in che cosa consiste il «tossico mortal». ANALIZZARE

> 4. > 5.

Individua e spiega le metafore presenti ai versi 964-969. Analizza la seguente espressione: «a la man garrendo indotta / del parrucchier». A quale campo semantico rinvia il termine «garrendo»? A chi, metaforicamente, è associato il «giovin signore» mentre si lamenta per il lavoro del parrucchiere? Stile

Lessico

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 6.

Video da Le nozze di Figaro

Testi a confronto Istituisci un confronto tra la posizione qui espressa sull’uguaglianza degli uomini con quella presente nella Favola del Piacere ( T4, p. 529). > 7. Altri linguaggi: musica In una delle arie più celebri delle Nozze di Figaro (1786) di Mozart, dal titolo Non più andrai farfallone amoroso, è ritratto un giovane paggio, Cherubino, un «cavalier servente» che dispensa i suoi servigi a più di qualche dama, personaggio che è bersaglio polemico di una società che basa i suoi rapporti sull’ambiguità e l’ipocrisia. Per aver suscitato la gelosia del padrone di casa dovrà partire per Siviglia come ufficiale di reggimento. Dopo aver letto il passo del libretto riportato di seguito, rispondi alla domanda.

Non più andrai, farfallone amoroso, notte e giorno d’intorno girando; delle belle turbando il riposo Narcisetto, Adoncino d’amor. Non più avrai questi bei pennacchini, quel cappello leggero e galante, quella chioma, quell’aria brillante, quel vermiglio donnesco color Copertina del DVD Le nozze di Figaro (2012). […] Individua le metafore riferite al cicisbeo: quanto appare simile nel costume e nelle abitudini al personaggio descritto da Parini nel Giorno?

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La voce del Novecento

Un «giovin signore» del XX secolo nel racconto di Arbasino Il romanzo L’anonimo lombardo, scritto nel 1955 e pubblicato nel 1959, recupera la forma espistolare, ma attraverso le lettere a un amico il narratore anonimo (donde il titolo) espone anche i princìpi che guidano la composizione del romanzo stesso: si ha così insieme la narrazione e il commento su di essa. Nel passo che riportiamo, al centro si colloca il ritratto di un giovane, con cui il narratore ha una relazione omosessuale.

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È persino troppo facile dire che i suoi “problemi centrali” sono la scelta di una cravatta, ma neanche, i dolci, le chiacchiere, i film a colori. Mi sono accorto che non fa assolutamente niente. E neanche esce molto, sta in casa a leggere giornali illustrati con la radio accesa, fuma, ha degli amici e delle signore, con loro si trova per giocare a carte, e vanno avanti con lunghissime canaste; vedi, lui disprezza il lavoro e vive giorno per giorno senza scopo, io concepivo una esistenza feconda e operosa, una esistenza comune serena…* io ho sempre spento la luce uscendo da ogni stanza, ho sempre mangiato fino alla fine tutto quello che si trovava nel piatto. Ora fra le nostre convinzioni che constatiamo opposte voglio segnalarti il suo falso concetto della “signorilità.” Immagina tu che Roberto parte dal presupposto che il maximum1 della raffinatezza sia rinnovare continuamente i vestiti e i mobili di casa, e, in ogni occasione, spendere per spendere, con indifferenza ostentata. Se io insisto sul contrario afferma sdegnato che è un alibi capzioso per mascherare la mia avarizia. Sostiene fino in fondo questo atteggiamento di fronte al denaro, con l’ostinazione di un ripicco tenta di spronarmi a gettare il mio nei modi più scemi con l’intento di “mettermi alla prova” o di “correggermi.” […] Il suo concetto di “signorilità” si riassume in un formalismo irritante di visite e biglietti e mazzi di fiori; è bene simboleggiato nelle decine di mille lire che butta via per una massa di Xmas cards2 cretini a Natale, * E qui lasciami falsare deliberatamente la realtà, quella esistenza serena e tutto il resto che ti sto raccontando, con me non sarebbe possibile neanche un giorno, con me si sta sempre sulla corda perché io stesso sono un febbricitante, un inquietissmo alla ricerca di un ubi consistam impossibile, sempre in polemica contro la società o la famiglia in cui non si è stati liberi di scegliere la parte di interlocutore, l’abisso dentro di me non riuscirò mai a inventariarlo completamente, e i “mostri” che evoco adesso sono generati non dal “sonno della ragione,” ma da un febbrile implacabile inesorabile surménage della medesima. 1. maximum: massimo. 2. Xmas cards: in inglese biglietti d’auguri natalizi (Xmas è l’abbreviazione di Christmas).

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Capitolo 8 · Giuseppe Parini

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nei ragalini comprati anche per le conoscenze più insignificanti. Se gli faccio osservare che è solo un aspetto recente della imitazione di tante mode americane, in ogni campo, Roberto non lo ammette; se gli indico più sostanziosi esempi, i “signori” di razza, di vecchio stampo, di stampo vero, e gli mostro come diversamente si comportino, Roberto li liquida senza un dubbio come gli stravaganti isolati. […] Roberto disprezza la sua città con tutti gli abitanti, li definisce “goffi” oppure “cretini”, e aveva cominciato a entusiasmarsi per Milano, pigliandola a esempio, ma adesso la trova sempre più cafona e non gli piace più, Roma non sa, ma la considera con sospetto, tutta l’Italia in blocco, lo stesso, Parigi non la prende in esame, ma penserà che sia una specie di cimitero, l’America certo è un suo ideale, però quell’America delle riviste lucide3, di certi film colorati come caramelle. La sua patria vera sono certe stoffe e certi mobili,** sono splendenti frigoriferi, automobili fuoriserie, sci d’acqua, oggetti inutilissimi “per la casa” presentati avvolti nella cellophane con nastri rametti nappette4 e fiocchi. Se gli venisse il sospetto che sono cose “sorpassate” rinnegherebbe sur le champ5 casa e famiglia, di cui ora parla con esagerata commozione. L’avrà visto fare al cinema. ** Che quest’anno sono considerati raffinatissimi, e a partire dall’anno prossimo dateranno terribilmente. A. Arbasino, L’anonimo lombardo, Milano, Feltrinelli 1959

3. lucide: su carta lucida, patinata. 4. nappette: fiocchetti.

5. sur le champ: alla lettera “sul campo”; noi diremmo “sui due piedi”.

Analisi del testo

> La tradizione satirica lombarda

Il culto di Arbasino per Gadda

Alberto Arbasino (nato nel 1930) si collega a tutta una tradizione satirica tipicamente lombarda, che da Parini discende, attraverso il poeta dialettale Carlo Porta (17751821) e lo “scapigliato” Carlo Dossi (1849-1910), al grande Carlo Emilio Gadda (1893-1973). Verso questo scrittore Arbasino nutre un vero e proprio culto, tanto da annoverarsi, per usare una sua espressione, fra i «nipotini dell’ingegnere» e da citarlo ripetutamente nelle pagine di questo romanzo (insieme peraltro a Parini e Manzoni). Gadda ci ha lasciato impareggiabili quadri satirici della società lombarda, ed Arbasino lo vuole in qualche modo emulare.

> Affinità con il «giovin signore» di Parini I tratti corrispondenti col «giovin signore»

Il feticismo degli oggetti costosi

Il ritratto che l’anonimo narratore traccia di Roberto è quello di un giovane provinciale ricco, ozioso, schiavo delle moda. È in qualche modo l’equivalente novecentesco del «giovin signore» di Parini, abbassato di un gradino nella scala sociale, come esigono i tempi, dalla nobiltà alla borghesia. L’influenza del modello pariniano su questo ritratto è innegabile. I tratti corrispondenti sono: la vita oziosa e inutile, il disprezzo per ogni attività, gli interessi futili, l’assenza di cultura e di buone letture, il tempo sprecato in frivole frequentazioni mondane, la ripetizione convinta di riti sociali e di formalità vuote (come visite, bigliettini, mazzi di fiori), lo sperpero di denaro nei modi più stupidi. Del «giovin signore» il personaggio riproduce anche il feticismo degli oggetti costosi, simboli di privilegio sociale, di cui lo scrittore aggiorna il catalogo adeguandolo alla civiltà moderna (frigoriferi, auto fuoriserie, sci d’acqua, oggetti per la casa, stoffe, mobili). 543

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

> Lo snobismo

Il falso concetto di “signorilità”

L’ammirazione per il modello americano

Ma questo «giovin signore» novecentesco si distacca da quello settecentesco per un aspetto importante: mentre quello pariniano è un aristocratico, fa effettivamente parte di una ristretta élite privilegiata di «semidei terreni», il giovane di Arbasino è solo uno snob, cioè uno che vorrebbe adeguarsi a presunti modelli di vita nobiliare, ma perché non ne fa parte, è costretto ad ammirarli dall’esterno. E difatti il narratore, che parla dalla prospettiva dei valori borghesi (mira a un’esistenza «feconda e operosa», è contrario allo sperpero) e ha l’occhio acuto dell’intellettuale, sottolinea il falso concetto di “signorilità” del giovane; questi, per parte sua, non riesce a capire, e infatti definisce i veri signori, i «signori di razza», come degli «stravaganti isolati». Altri segni del suo snobismo provinciale sono il disprezzo per la propria città (che poi in un eccesso di ostentazione si allarga persino alle grandi capitali, Milano, Roma, Parigi), la sua cieca ammirazione per il modello americano, peraltro di un’America fasulla, conosciuta solo attraverso riviste patinate e film hollywoodiani «colorati come caramelle». Questo culto di tutto ciò che è americano era tipico dell’Italia degli anni Cinquanta, indizio di una sudditanza culturale ai modelli imposti dal cinema di Hollywood. Ne è un bell’esempio, ma a livello non borghese bensì popolare, il film Un americano a Roma di Stefano Vanzina (Steno), del 1954, interpretato da Alberto Sordi.

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. Quali sono i “problemi centrali” di Roberto, il personaggio descritto nella lettera? > 2. Che cosa fa nella vita questo «giovin signore» del XX secolo? Come trascorre il suo tempo? > 3. Quale rapporto ha con il denaro? E in che modo considera la sua città? Qual è il luogo ideale in cui vorrebbe vivere?

ANALIZZARE

> 4. Analizza e metti in evidenza le caratteristiche, antitetiche rispetto al personaggio descritto, dell’autore della lettera, così come emerge dal dettato del testo. > 5. Sottolinea gli elementi e gli indizi che permettono di collocare la vicenda in un tempo determinato, il XX secolo appunto. > 6. Stile Definisci il tono della lettera: grave e sostenuto o ironico e demistificante? APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 7.

Testi a confronto Istituisci un confronto tra i modi e lo stile di vita del «giovin signore» di Parini e quello di Arbasino: che cosa li accomuna, nonostante il tempo che intercorre tra loro?

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Capitolo 8 · Giuseppe Parini

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Poesia d’occasione: La laurea

La celebrazione della dignità del poeta

Testi La caduta dalle Odi

Le odi galanti

A Silvia

Le ultime odi L’abbandono dei temi civili L’evoluzione dell’ultimo Parini si riflette forse ancora più chiaramente sulla seconda fase delle sue odi. Innanzitutto è significativo il lungo silenzio che segue l’ultima ode illuministicamente impegnata, La musica, del 1769: per trovare una nuova ode, La laurea, bisogna attendere sino al 1777. Poiché le prime odi erano state tutte suggerite da problemi attuali, vivi nel dibattito contemporaneo, il distacco maturato nei confronti della politica riformatrice del governo sembra aver privato per lungo tempo il poeta dello stimolo a scrivere e della materia da trattare. La laurea poi, dedicata a celebrare una giovane che si era laureata in Legge, pur ancora permeata di princìpi illuministici, quali la rivendicazione dei diritti della donna, è già lontana dagli atteggiamenti polemici delle odi precedenti e si riduce sostanzialmente nei limiti della poesia encomiastica d’occasione. Il distacco si accentua con le odi successive. La recita dei versi, del 1783, difende la dignità del poeta contro l’uso di leggere versi a mensa, tra la disattenzione generale; vi si trova una definizione della poesia che è densa di significato, in riferimento alla nuova direzione intrapresa dalla poetica pariniana: «Orecchio ama placato / la musa e mente arguta e cor gentile»: vi si coglie un’immagine ben diversa da quella del poeta inteso a perseguire l’«utile», quale veniva proposta nella Salubrità dell’aria. La caduta, del 1785, riprende il tema della dignità del poeta ed è una vibrante autoapologia del Parini, che si presenta come modello di poeta indipendente, che non vuol piegarsi a servilismi cortigiani e per questo è pronto ad affrontare la povertà, pago solo della sua coscienza incontaminata. Il pericolo (1787), Il dono (1790), Il messaggio (1793) sono odi galanti, in cui balenano immagini sensualmente vagheggiate della bellezza femminile, fissata in linee di scultorea perfezione ma anche ammorbidita da una grazia tutta settecentesca. A Silvia, o del vestire alla ghigliottina (1795) esprime lo sdegno del poeta per la ferocia della Rivoluzione francese e il suo timore per il diffondersi della corruzione tra le donne, che devono essere per lui le custodi dei più alti valori morali. Alla Musa (1795) è ancora una definizione della poesia, che per Parini deve nascere da un animo sereno e sgombro di bassi desideri, nutrito di elevate idealità.

Visualizzare i concetti

Il retroterra culturale di Parini Illuminismo

Cristianesimo

Scuola fisiocratica

Egualitarismo e polemica antinobiliare; umanitarismo; fiducia nel progresso scientifico; concezione della letteratura come impegno civile Rifiuto degli atteggiamenti antireligiosi dell’Illuminismo francese Concezione economica secondo cui l’agricoltura è la sola fonte di ricchezza per le nazioni

Classicismo

Culto della dignità formale e dei modelli classici: rifiuto di una concezione esclusivamente utilitaristica della letteratura

Sensismo

Ricerca di un lessico preciso e realistico, capace di suscitare l’immagine vivida dell’oggetto rappresentato (anni 1750-70)

Neoclassicismo

IDEOLOGIA DI PARINI

POETICA DI PARINI

Uniformità lessicale; armonia, semplicità e compostezza espressive (ultima produzione)

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

L’autocelebrazione in forme neoclassiche I temi più universali

L’abbandono delle arditezze linguistiche

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Come si può scorgere dalla semplice rassegna degli argomenti, il poeta non affronta più concreti temi civili e sociali, non combatte più storture ed errori connessi con un determinato momento storico, al fine di diffondere i “lumi” tra i concittadini e di cooperare a creare un vivere civile più razionale, ma affronta temi più universali; non si è spenta la sua tensione morale, ma è una tensione meno legata ad un contesto contingente ed è rivolta all’educazione dell’uomo in generale, di tutti tempi e di tutti i luoghi. Sembra venire meno la fiducia nella possibilità di trasformare il mondo; il poeta si apparta, si chiude aristocraticamente in se stesso, sdegnoso verso una realtà vile e meschina, e si concentra nella contemplazione di sé, nella propria autocelebrazione, proponendosi come anima superiore, depositaria dei più nobili valori morali e del bello disinteressato ( Interpretazioni critiche, p. 552). Scompaiono così le mosse arditamente polemiche, per far posto ad un atteggiamento più composto e sereno, a sentimenti più calmi e olimpici, ispirati ad una distaccata saggezza. Già nelle prime odi Parini calava una materia di incandescente attualità, a volte persino refrattaria alla poesia (si pensi solo alle «vaganti latrine» che ammorbano la città nella Salubrità dell’aria), in forme rigorosamente classiche. Ma, accanto al classicismo, si faceva sentire la poetica sensistica, che suggeriva immagini più ardite, spesso ispirate alla scienza, e un lessico nuovo, inteso a suscitare forti sensazioni, in accordo con il realismo della materia. Ora queste arditezze scompaiono: le forme si fanno ancora più composte e nobili, depurate di ogni riferimento realistico. Trionfano decisamente il nitore, la compostezza, l’armonia che sono le caratteristiche del Neoclassicismo.

Alla Musa

Temi chiave

• la superiorità della poesia su ogni altra

dalle Odi

attività umana

• la funzione educatrice della poesia L’ode fu composta nella primavera del 1795 per il mar• il culto del decoro, dell’eleganza e del bello chese Febo D’Adda, che era stato allievo del poeta ed era poeta egli stesso. Il giovane, sposato da poco e prossimo a diventare padre, stava trascurando la poesia per la famiglia. Parini lo invita a conciliare i due affetti, che non sono fra loro contrastanti, e coglie l’occasione per esprimere la propria concezione della poesia. > Metro: strofa saffica, composta da tre endecasillabi e da un quinario di chiusura, con rime ABAb; è così chiamata

perché coi metri italiani riproduce la strofa usata dall’antica poetessa greca Saffo, che scrisse in dialetto eolico nel VII-VI secolo a.C.

Te il mercadante che col ciglio asciutto fugge i figli e la moglie ovunque il chiama dura avarizia nel remoto flutto, Musa, non ama1. 5

Né quei cui l’alma ambiziosa rode fulgida cura, onde salir più agogna; e la molto fra il dì temuta frode torbido sogna.

versi 1-8 Il mercante, che senza lacrime si allontana dai figli e dalla moglie dovunque lo chiami la spietata avidità in mari lontani (nel remoto flutto), non ama te, o Musa. Né (ti ama, o Musa) colui al quale un desiderio

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smodato di potere (fulgida cura) tormenta l’animo ambizioso, per cui (onde) smania di salire più in alto; e nei sonni inquieti sogna gli inganni che ha temuto nel corso della giornata (da parte dei rivali).

1. Te ... non ama: Te è complemento oggetto, enfaticamente anticipato, retto da non ama (v. 4). Il soggetto è il mercadante. A sua volta il è oggetto di chiama, il soggetto è dura avarizia. Il mercante che non si commuove nel separarsi dalla famiglia perché è dominato solo dall’avidità di guadagno occupa il primo posto nell’elenco di coloro che non amano la Musa, l’ispiratrice della poesia, cioè che non si accostano ad essa con la dedizione richiesta da un’arte che educa al bello e al buono.

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

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Né giovane, che pari a tauro irrompa ove a la cieca più Venere piace: né donna, che d’amanti osi gran pompa spiegar procace2. Sai tu, vergine dea, chi la parola modulata da te gusta od imìta; onde ingenuo3 piacer sgorga, e consola l’umana vita4? Colui cui diede il ciel placido senso e puri affetti e semplice costume; che, di sé pago e dell’avito censo, più non presume5;

versi 17-24 (Ama la poesia) colui al quale il cielo ha dato sensi tranquilli (placido), puri sentimenti (affetti) e semplici abitudini (costume); che, soddisfatto di sé e di quanto ha ottenuto dagli antenati (avito censo), non esige di più (più ... presume); (apprezza la poesia) colui che spesso si sottrae (s’invola) all’ozio faticoso della nobiltà (grandi) e al frastuono cittadino (urbano clamor), e vive dove la natura sparge benefiche (blandi) influenze, sui colli o sulle rive dei fiumi; 5. Colui ... presume: vengono elencate le virtù opposte ai tre vizi delle prime strofe, avidità, ambizione e lussuria. 6. faticoso ozio: è un ossimoro: i nobili vivono oziando, ma il loro ozio è egualmente faticoso per la continua ricerca dei piaceri.

che spesso al faticoso ozio6 de’ grandi e all’urbano clamor s’invola, e vive ove spande natura influssi blandi o in colli o in rive; 25

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e in stuol d’amici numerato e casto, tra parco e delicato al desco asside; e la splendida turba e il vano fasto lieto deride; che ai buoni, ovunque sia, dona favore; e cerca il vero; e il bello7 ama innocente; e passa l’età sua tranquilla, il core sano e la mente8.

versi 9-16 (E non ti ama, o Musa) neppure il giovane, che come un toro (tauro) si getta dove alla cieca passione (Venere) piace maggiormente (trascinarlo): né la donna che sfacciata (procace) osi esibire gran quantità di amanti. Sai tu, vergine dea, chi è in grado di apprezzare (gusta) e imitare la parola poetica da te armoniosamente modulata; da cui nasce un piacere puro (ingenuo) e consola la vita umana?

2. Né giovane ... procace: quindi le passioni che ostacolano la Musa sono l’avidità, l’ambizione, la lussuria, perché non consentono quell’animo sereno e pacato che solo può permettere di creare e gustare la poesia. 3. ingenuo: cioè non generato da interessi. 4. Sai tu ... vita: alla poesia sono attribuite due funzioni: procurare piacere disinteressato e consolare dagli affanni.

Pesare le parole Procace (v. 12) >

Viene dal latino procàri, “domandare, esigere”, da pròcus, “pretendente alla mano di una donna” (si ricordino i Proci dell’Odissea, che vogliono sposare Penelope ritenendo Odisseo morto); vuol dire “provocante, sfrontato” (es. è una donna procace, che attira gli sguardi di tutti). Il nesso con l’etimologia è evidente: chi è procace “chiede” di essere guardato, ammirato, desiderato.

Ingenuo

>

versi 25-32 e siede ad una tavola (desco) dove vengono servite portate sobrie ma raffinate (parco e delicato), in un gruppo (stuol) di amici scelto e di buoni costumi (numerato e casto), e lieto deride i conviti affollati e sfarzosi (splendida turba) e il lusso inutile; (ama la poesia colui) che dà il suo favore ai buoni, in qualsiasi circostanza; e cerca la verità; e ama la bellezza disinteressata (innocente); e trascorre tranquilla la sua vita (età), sano di cuore e di mente. 7. ai buoni ... il vero ... il bello: sono i tre valori che la poesia, secondo Parini, deve perseguire ad ogni costo: il bene, la verità, la bellezza disinteressata (innocente). 8. e passa ... mente: cioè con sentimenti e pensieri puri, non corrotti. Il core e la mente sono complementi di relazione.

(v. 15)

Deriva dal latino ingènuum, dalla radice del verbo gìgnere, “generare”, dalla quale proviene anche gèntem, “stirpe”. In relazione con l’origine, la parola latina può avere vari sensi: “indigeno, nato entro una certa stirpe”, “nato libero”, poi per estensione “nato da una buona stirpe”, cioè “nobile”, e per estensione “leale, onesto, sincero”. Nell’ode pariniana ha un senso vicino a quelli latini, “puro”, segno del classicismo di Parini, che indulge ai latinismi. Nella lingua attuale vuol dire “candido, inesperto” (es. è così ingenuo da credere a tutte le promesse di quell’uomo politico). Come sostantivo, un ingenuo, è chi è pronto a credere e ad accettare tutto (es. siccome è un ingenuo tutti se ne approfittano).

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Dunque per che quella9 sì grata un giorno del giovin cui diè nome il dio di Delo cetra si tace; e le fa lenta intorno polvere velo? Ben mi sovvien, quando, modesto il ciglio10, ei già scendendo a me, giudice fea me de’ suoi carmi: e a me chiedea consiglio: e lode avea11. Ma or non più. Chi sa? Simìle a rosa tutta fresca e vermiglia al sol che nasce, tutto forse di lui l’eletta sposa12 l’animo pasce13.

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E di bellezza, di virtù, di raro amor, di grazie, di pudor natìo l’occupa sì, ch’ei cede ogni già caro studio all’oblio. Musa, mentr’ella il vago crine annoda, a lei t’appressa; e con vezzoso dito a lei premi l’orecchio; e dille: e t’oda anco il marito14: – Giovinetta crudel15; per che mi togli tutto il mio D’Adda, e di mie cure il pregio, e la speme concetta, e i dolci orgogli d’alunno egregio? Costui di me16, de’ geni miei si accese pria che di te. Codeste forme infanti erano ancor, quando vaghezza il prese de’ nostri canti. Ei t’era ignoto ancor, quando a me piacque. Io di mia man per l’ombra e per la lieve aura de’ lauri l’avviai, vêr l’acque che, al par di neve

versi 33-40 Dunque perché quella cetra del giovane che porta il nome di Apollo (dio di Delo), un giorno a lui così gradita, tace; e si forma intorno ad essa un velo di polvere accumulatosi lentamente? Ben mi ricordo quando, con atteggiamento rispettoso (modesto il ciglio), abbassandosi al mio livello (scendendo a me), mi rendeva giudice dei suoi versi: e a me chiedeva consigli: e ne riceveva lodi. 9. quella: va riferito a cetra, v. 35 (è un iperbato). La cetra nella classicità era lo strumento con cui si accompagnavano i versi; quindi qui è da intendere per metonimia come poesia. Il giovane e promettente discepolo, che porta lo stesso nome di Apollo, dio della poesia venerato nell’isola di Delo, cioè Febo,

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non scrive più versi. 10. modesto il ciglio: complemento di relazione, letteralmente “con gli occhi bassi”. 11. Ben ... avea: il discepolo, un marchese D’Adda, chiedendo umilmente il giudizio del maestro si abbassava di condizione sociale. Il poliptoto a me ... me ... a me rende il compiacimento meravigliato del maestro, che è onorato al vedersi assegnato il compito di giudicare i versi del nobile allievo. versi 41-48 Ma adesso non più. Chi sa? La nobile (eletta) sposa, simile alla rosa tutta fresca e rossa che sboccia al sole, forse ne soddisfa pienamente (pasce) l’animo. Ed egli è tanto preso dalla bellezza, dalla virtù, dall’amore prezioso, dalla grazia, dall’innato (natìo) pudore, che egli trascura ogni

occupazione più cara. 12. eletta sposa: letteralmente scelta; è la contessa Leopoldina Kewenhüller. 13. pasce: letteralmente significa “nutre”. versi 49-56 Musa, mentre ella annoda i bei capelli (vago crine), avvicinati (t’appressa) a lei, e con leggiadro (vezzoso) dito premi il suo orecchio; e dille, in modo che ti ascolti anche il marito: – Giovinetta crudele; perché mi togli il mio D’Adda, lui che era il premio sperato per le attenzioni prodigategli e le speranze (speme) che avevo concepite (concetta) in lui, e l’orgoglio per un discepolo tanto straordinario? 14. Musa ... marito: Parini immagina di recuperare alla poesia il discepolo che la trascura attraverso la mediazione della giovane sposa, avvicinata direttamente dalla Musa, cioè dalla poesia in persona. 15. crudel: la giovane sposa di Febo D’Adda è definita crudel perché sottrae il marito alla poesia. versi 57-68 Egli s’innamorò di me, delle mie virtù (geni) prima che di te. E queste (tue) forme erano ancora quelle di una bambina (infanti), quando lo prese il desiderio di dedicarsi alla poesia (nostri canti). Egli ti era ancora sconosciuto, quando (già) piaceva a me. Io l’avviai con le mie mani per l’ombra e per l’aria leggera che passa tra gli allori, verso (vêr) le acque dalle spume bianche come la neve che fece scaturire dalla profonda fonte di Aganippe (alto ... Aganippe) il bel cavallo alato (Pegaso): per cui (onde) io sollevo fra gli dei (celesti) e rendo immortale chi beve dalle acque di quella fonte (onde). 16. Costui di me: cioè si innamorò della poesia. 17. Io ... l’ale: l’alloro era tradizionalmente

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bianche le spume, scaturir dall’alto fece Aganippe il bel destrier che ha l’ale17: onde chi beve io tra i celesti esalto e fo immortale18. Io con le nostre il volsi arti divine al decente, al gentile, al raro, al bello: fin che tu stessa gli apparisti al fine caro modello19. E se nobil per lui fiamma fu desta nel tuo petto non conscio20: e s’ei nodria nobil fiamma per te, sol opra è questa del cielo e mia21. Ecco già l’ale il nono mese or scioglie da che sua fosti, e già, deh! ti sia salvo22, te chiaramente in fra le madri accoglie il giovin alvo. Lascia che a me23 solo un momento ei torni; e novo entro al tuo cor sorgere affetto, e novo sentirai da i versi adorni piover diletto24:

simbolo della poesia; così la fonte Aganippe, situata sul monte Elicona, che era sacra alle Muse. Le immagini vogliono dire che la Musa ha avviato personalmente l’allievo alla poesia. La fonte Aganippe secondo il mito classico fu fatta scaturire dallo zoccolo di Pegaso. Notare che in latino la parola fonte è maschile: qui Parini nel suo classicismo a oltranza conserva anche in italiano il genere latino. 18. onde ... immortale: ossia, fuor di metafora, chi si dedica alla poesia. versi 69-72 Io con la mia arte divina l’ho educato (il volsi) al culto di ciò che è decoroso, che implica una misurata eleganza (al

decente), a ciò che è nobile, raro e bello: finché tu stessa alla fine gli apparisti quale amato modello. 19. caro modello: sottinteso “di tutti questi valori appena elencati”; il giovane, educato dalla Musa a raffinati ideali estetici, vide nella giovane sposa una vivente esemplificazione di tutte le virtù apprese attraverso la poesia. versi 73-76 E se una nobile passione (fiamma) per lui fu destata nel tuo cuore ancora ignaro (non conscio) (dell’amore): e se egli nutriva (nodria) una nobile passione per te, questo è opera solo del cielo e mia. 20. non conscio: ignaro dell’amore perché

troppo giovane. 21. sol ... mia: il cielo e la poesia hanno infuso cioè nella loro indole nobili inclinazioni. versi 77-84 Ecco già sta per concludersi (l’ale ... scioglie) il nono mese da che fosti sua, e già, il giovane grembo (giovin alvo) ti accoglie nobilmente (chiaramente) fra le madri, che tutto possa risolversi felicemente (deh! ... salvo). Lascia che ritorni da me solo un momento; e anche tu proverai dentro di te un nuovo sentimento e sentirai provenire dai suoi versi eleganti (adorni) uno sconosciuto piacere (novo ... diletto). 22. ti sia salvo: è formula augurale, risalente all’espressione latina salvum tibi sit, da riferire a giovin alvo, al ventre in cui giace il bambino; la Musa allude alla prossima maternità della contessa. 23. a me: alla Musa, che equivale, alla poesia. 24. novo ... diletto: novo va unito, per iperbato, ad affetto.

Pesare le parole Esalto (v. 67)

> Esaltare deriva dal latino ex- e àltum, “alto”, e letteral- > Sinonimi: mente significa “levare verso l’alto, innalzare”, che è il senso che il verbo possiede in questa ode. Il senso oggi più comune è “magnificare con lodi” (es. la poesia epica esalta le imprese degli eroi), oppure “rendere entusiasta” (es. il discorso dell’oratore esaltò la folla, che lo applaudì freneticamente). Esaltato, participio passato sostantivato, è chi ha idee avventate, impulsi eccessivi e incontrollati (es. è un esaltato, che è arrivato a compiere gesti folli). L’esaltazione infatti è uno stato di anormale eccitazione, che può giungere sino al fanatismo (es. è un delitto compiuto in uno stato di esaltazione pericolosa).

entusiasmare, dal greco enthousiasmós, dal verbo enthousiázein, “essere ispirato, avere il dio in sé”: indica un’esaltazione dell’animo che induce a sentire e ad agire con un’intensità particolare (es. la vittoria della nazionale ai mondiali di calcio ha entusiasmato tutti); eccitare, dal latino excitàre, alla lettera “muovere” (citàre) “fuori” (ex-), cioè “mettere fuori di sé, porre in uno stato di agitazione” (es. caffè e tè contengono sostanze che eccitano; ascoltarlo cantare è un’esperienza eccitante); può essere sinonimo di suscitare, che proviene dalla stessa radice, con sub- al posto di ex- (es. è riuscito a suscitare l’interesse di una platea annoiata).

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però ch’ io stessa, il gomito posando di tua seggiola al dorso, a lui col suono de la soave25 andrò tibia spirando facile tono: onde, rapito, ei canterà che sposo già felice il rendesti, e amante amato; e tosto il renderai dal grembo ascoso padre beato. Scenderà in tanto dall’eterea mole26 Giuno27, che i preghi de le incinte ascolta; e vergin io de la Memoria prole28, nel velo29 avvolta, uscirò co’ bei carmi; e andrò gentile dono a farne al Parini, italo cigno30, che, ai buoni amico, alto31 disdegna il vile volgo maligno32.

versi 85-92 Perché io stessa, posando il gomito allo schienale della tua sedia, gli ispirerò col suono del dolce flauto (soave ... tibia) una spontanea melodia (facile tono): per cui egli, rapito, canterà che lo rendesti uno sposo già felice, e un amante amato; e presto dal grembo nel quale si cela il figlio (ascoso) lo renderai padre 25. soave: va unito a tibia (iperbato alla latina). versi 93-100 Giunone, che ascolta le preghiere delle donne incinte, scenderà intanto dal monte Olimpo (eterea mole); e io, vergine figlia della Memoria, avvolta nel velo, uscirò cantando belle poesie; e andrò a portarle in dono a Parini, poeta (cigno) italiano, che, amico delle persone di animo retto ed elevato (buoni), disprezza profondamente (alto) la gente volgare e malvagia. 26. eterea mole: sede degli dei, alto sino al

cielo (eterea deriva dal greco aithér, cielo). 27. Giuno: si tratta di Giunone Lucina, presso i Romani protettrice delle partorienti. 28. de la Memoria prole: per i Greci le Muse erano infatti figlie di Giove e di Mnemosine o Memoria. 29. nel velo: simboleggia il distacco della poesia dalle realtà più crude della vita e dalle passioni più violente. Una funzione analoga possiede il velo delle Grazie nell’omonimo poema di Foscolo. 30. Parini ... cigno: secondo la leggenda, il cigno prima di morire emetteva suoni armoniosi: di qui per metonimia il significato di poeta. 31. alto: avverbio. 32. ai buoni ... maligno: Parini qui traduce quasi letteralmente l’espressione di Orazio «malignum spernere vulgus» (disprezzare il volgo maligno: Odi, II, XVI, v. 40).

La musa Polymnia, I-II secolo d.C. (parte inferiore) completata (busto e testa) da Agostino Penna, 1780-84, scultura in marmo greco e in marmo di Carrara, Parigi, Musée du Louvre.

Analisi del testo

> L’abbandono della battaglia civile

Un atteggiamento più schivo e pacato

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È l’ultima ode di Parini e rispecchia esemplarmente il diverso clima dell’estrema fase della sua produzione rispetto alla fase illuministica tra il 1756 e il 1769. Abbandonata la militanza civile, sono venuti meno lo slancio polemico e l’indignazione che inducevano il poeta a scagliarsi contro gli aspetti più aberranti della realtà contemporanea. Come ha ben messo in rilievo Petronio, Parini ora si rifugia in se stesso, lontano dal «vile / volgo maligno» (vv. 99-100), in un atteggiamento più schivo e più pacato. Al tentativo di trasformare il mondo si sostituisce la contemplazione di se stesso, la volontà di costruire di sé un’immagine ideale ed esemplare di poeta. La poesia non è più legata a una destinazione pratica, didascalica, moralistica, satirica, ma si propone solo come fonte di disinteressato godimento, di nobile sublimazione. La poesia per Parini conserva pur sempre una funzione morale (dice la Musa del giovane d’Adda: «Io con le nostre il volsi arti divine / al decente, al gentile, al raro, al bello», vv. 69-70),

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

Un’esaltazione della poesia

Il gusto neoclassico

Testo critico G. Savoca

Una ricerca di nitore e compostezza

Le armoniche architetture

ma la sua efficacia non è più rivolta verso aspetti particolari e concreti della società, a colpire vizi o a proporre virtù propri di un determinato momento storico e di un dato ambiente (si pensi alla polemica contro la speculazione nella Salubrità dell’aria, T1, p. 00), offre solo insegnamenti universali, validi per tutti gli uomini in tutti i tempi. L’ode diviene così un’esaltazione del valore della poesia, intesa come l’attività più alta, quella in cui si realizzano le facoltà più nobili dell’uomo; un’esaltazione in cui si compendia tutta l’eredità della tradizione umanistica, di cui Parini si è nutrito. L’abbandono del battagliero impegno civile si risolve in un ideale di vita fatto di serenità, armonia, misura. Solo da una simile disposizione d’animo per Parini può nascere quella poesia nobilmente educatrice.

> Le forme del discorso poetico

Questo ideale etico di tranquillità e di serena armonia si riflette anche nelle forme del discorso poetico: ne deriva quel gusto che è stato definito neoclassico e che trionferà nei decenni successivi, con Monti e soprattutto con Foscolo. Delle due componenti fondamentali della poesia pariniana, quella illuministica tesa all’«utile» e all’impegno civile e quella letteraria classicheggiante, che negli anni della battaglia riformatrice erano state compresenti, in un equilibrio talvolta difficile, ora prevale decisamente la seconda. Non si trovano più in quest’ode le immagini crude e incisive di un tempo (si pensi alle «vaganti latrine» che ammorbano le vie della città nella Salubrità dell’aria), né quelle espressioni ricche di originalità con cui venivano assunte in poesia le realtà più dimesse e quotidiane e venivano offerte immagini di forte urgenza fisica, secondo la poetica sensistica («fetido limo», «polmon capace», l’aria che irraggia i «vari atomi» delle erbe aromatiche, i «sali malvagi»). Trionfa una ricerca di nitore, di compostezza, di immobile e marmorea perfezione. Il quadretto della Musa che rivolge il suo sermone alla giovane sposa mentre questa «il vago crine annoda», e che poggia il gomito sul dorso della seggiola ispirando il giovane poeta col suono del flauto, è risolto in una nitidezza di linee da bassorilievo antico, e ricorda in questo la contemporanea pittura neoclassica, che spesso ama delineare forme di una levigatezza che sembra rivaleggiare con la scultura. Così come di un Neoclassicismo impeccabile è l’immagine mitologica vivida e luminosa del cavallo alato Pegaso che fa scaturire le acque della fonte Aganippe, bianche nelle loro spume come la neve. Si può vedere qui un esempio dell’influenza esercitata dagli artisti neoclassici sul Parini professore all’Accademia di Brera, a cui si accennava. Il gusto classicistico delle immagini si riflette inevitabilmente sul livello dell’espressione. Nella metrica innanzitutto, che riproduce uno dei metri più preziosi della lirica classica, la strofa saffica, largamente impiegata, oltre che dalla poetessa greca Saffo, dal latino Orazio. Ma soprattutto la costruzione dell’ode rispecchia il gusto delle simmetriche, armoniche architetture che è proprio del classicismo.

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. Chi sono coloro che non amano la poesia? > 2. Descrivi le caratteristiche di colui che, all’opposto, la ama. > 3. In che modo e perché è mutato il comportamento dell’allievo Febo d’Adda? > 4. A partire dal verso 49 il poeta si rivolge alla Musa: quale richiesta le rivolge? ANALIZZARE

> 5. Stile Individua e sottolinea gli elementi posti in antitesi nei versi 1-32. > 6. Stile Analizza la sintassi del componimento: è semplice o complessa? Prevale la paratassi o l’ipotassi? > 7. Stile Individua la presenza di inversioni, iperbati e anastrofi ai versi 1-16. > 8. Lessico Distingui nel testo e proponi alcuni esempi di lessico aulico e prezioso. APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 9.

Scrivere A partire da questo componimento riassumi in un massimo di 10 righe (500 caratteri) le caratteristiche e i princìpi di poetica di Parini.

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Interpretazioni critiche

Walter Binni Il Neoclassicismo dell’ultimo Parini In queste pagine il critico collega l’approdo di Parini ad un gusto neoclassico, che si verifica nell’ultima fase della sua produzione (il Vespro e la Notte, le odi più tarde), con una maturazione interiore che porta il poeta ad assumere un atteggiamento più sereno ed equilibrato verso la vita.

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Dopo la pubblicazione della Storia del Winckelmann1 (tradotta proprio a Milano nel 1779) i princìpi del Winckelmann e del Mengs2 [...] si erano diffusi rapidamente nell’Italia settentrionale e quando nel 1776 fu aperta a Milano l’Accademia di belle arti di Brera, il Parini, quale professore di eloquenza e belle lettere, vi si trovò a diretto contatto con artisti neoclassici come Traballesi, Franchi, Albertoli, Knoller, Piermarini, Appiani. E con molti di loro collaborò come scrittore di progetti per teloni di teatro (quello della Scala del 1778, o del teatro di Novara), per soffitti, per decorazioni nel Palazzo Reale (l’Apoteosi di Giasone e l’Aurora dello Knoller, il Giove tonante del Monticelli, i Riposi di Giove, Amore e Psiche, il Trionfo di Igea del Traballesi) e in altri palazzi in cui il gusto neoclassico faceva la sua prova integrale di grandiosità, corretta, specie nella pittura, da quegli elementi di grazia che non mancano certo nello stesso Winckelmann. [...] E così una prova esterna alla poesia, ma assai importante, della nuova direzione del gusto pariniano posteriore alle prime Odi e alle due prime parti del Giorno, è costituita da quei soggetti per teloni, quadri e decorazioni che vanno sotto il nome di «programmi di belle arti» e rappresentano l’adesione del Parini al canone neoclassico del letterato che prepara soggetti per il pittore e più generalmente alle tendenze del neoclassicismo figurativo negli ideali di proporzione e ordine, di semplificazione essenziale, di centralità delle figure umane divinizzate, della serenità. [...] Nel sogno winckelmanniano (così mosso da una tensione romantica ad un assurdo regno di perfezione e da un’estetica passione per la bellezza virile per cui lo stesso Cristo è immaginato come «il più avvenente tra i figli degli uomini») un mondo di eroismo e di bellezza presuppone e richiede, nella sua espressione contemplativa e senza turbamento [...], un’essenziale condizione di pace, di tranquillità [...]. Ebbene, insieme all’esemplarità greca3 (più Pindaro, Anacreonte, Omero che Orazio e Virgilio e totale rifiuto dei moderni non classicisti) e al gusto del figurativo e della funzione essenziale della mitologia e di un essenziale «travestimento» greco, è nel principio della «tranquillità» e della decorosa semplicità, del sublime tanto più grande quanto più semplice ed unitario, che il Parini «maggiore» utilizza la lezione del neoclassicismo winckelmanniano e arricchisce e rinforza la tendenza più alta del proprio animo [...]. Senza nessun abbandono del saldo dovere verso la città umana, dell’umanesimo illuministico nella sua pratica concretezza del riformismo «lombardo», il Parini denuncia sempre

1. Storia ... Winckelmann: Johann Joachim Winckelmann (1717-68), archeologo e storico dell’arte tedesco a lungo attivo in Italia, autore della Storia dell’arte nell’antichi-

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Walter Binni (1913-97) è l’autore del saggio su Parini e il Neoclassicismo inserito in un volume dedicato al Settecento, in cui vengono studiate le varie forme assunte dal classicismo nel corso del secolo, sino alle nuove prospettive offerte dall’età napoleonica. Binni segue il metodo della critica idealistica, che indaga la poesia solo in relazione ai processi interiori dello scrittore, senza collegarla a fattori esterni, sociali.

tà (1764), fu il massimo teorico del Neoclassicismo. 2. Mengs: Anton Raphaël Mengs (1728-79), pittore boemo, è considerato con Winckel-

mann il massimo teorico dell’arte neoclassica. 3. esemplarità greca: il Neoclassicismo cercava i suoi modelli essenzialmente nell’arte e nella poesia greche.

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più nella sua poetica matura l’esigenza di una visione della vita più serena, di un tono magnanimo e superiore che si incontra e si convalida con le offerte del gusto neoclassico. La funzione alta della poesia come espressione di bellezza-verità, il decoro estetico e morale, scaturisce così dal medio equilibrio umano raggiunto dal Parini più maturo e corrisponde agli ideali estetici più profondi del neoclassicismo settecentesco pur dentro i suoi margini sfumati di estetismo, di compiacimento idillico, di residui di grazia rococò4. Una chiarezza interiore, una luminosità più calma e costante, una pacata saggezza di fronte allo spirito frizzante e vigorosamente polemico del periodo precedente (e pur non esclude ed anzi meglio spiega la severità di spietata analisi morale di A Silvia) corrispondono, in questo Parini che vede con maggior distacco e maggior padronanza la materia della sua esperienza, ad una linea costruttiva ampia e meno minutamente rilevata, entro cui si distendono immagini e motivi in colori poco intensi e pur morbidi, in musica meno brillante, persino a volte in una impressione di minor vigore e di minore urgenza vitale. L’armonia che risulta dalla visione più ferma della vita (da sensazione istintiva e costruzione civile) è letterariamente adeguata in una poetica coerente alla migliore suggestione della condizione etico-estetica del neoclassicismo ed anzi si può ben dire che nella nostra letteratura quella poetica si realizza, al di là del fanatico entusiasmo del Winckelmann, in maniera esemplare e tale da potersi considerare un momento fondamentale nella storia di quel gusto, nella sua applicazione in sede letteraria. La condizione del «cor gentile» e dell’«orecchio placato»5 diventa la base sentimentale e poetica delle ultime Odi. W. Binni La poesia del Parini e il Neoclassicismo, in Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento, La Nuova Italia, Firenze 1963 (1ª ed. del saggio 1951)

4. rococò: tendenza stilistica affermatasi in Francia nel primo Settecento e diffusasi poi in tutta l’Europa, che, come reazione all’artificiosità ampollosa del Barocco,

punta alla semplicità e alla misura, indulgendo però ad una grazia manierata e leziosa. Il termine deriva originariamente dalle arti figurative, ma in seguito è stato

esteso alla letteratura. 5. «cor ... placato»: citazione dall’ode La recita dei versi (1783), vv. 37-38.

Giuseppe Petronio La delusione storica di Parini In queste pagine Petronio, mettendo in relazione l’opera pariniana con le vicende della storia politica e sociale del tempo, individua nella fase neoclassica il riflesso di una delusione nata in seguito alle riforme troppo radicali di Giuseppe II negli anni Ottanta, che determinarono nel poeta uno stato d’animo più stanco e disilluso, e lo indussero ad abbandonare la militanza civile e la polemica illuministica e a ripiegarsi su una concezione più distaccata del bello e su uno squisito lavoro di cesello letterario. Nelle pagine che precedono viene delineata l’opposizione di tutta la cultura milanese alle riforme giuseppine; in questo passo il critico si concentra più specificamente sulla reazione di Parini.

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Giuseppe Petronio (1909-2003) è stato uno dei rappresentanti più significativi della critica di orientamento marxista in Italia. Il suo metodo lo porta a individuare sempre le radici della produzione letteraria nei fenomeni sociali e materiali, collocati entro i processi del divenire storico. Questo metodo risalta con evidenza nel volume su Parini.

Tutto, così, contribuiva ad allontanare l’uomo e il poeta dai temi e dai toni della sua prima lirica teresiana1: il processo della cultura milanese che si faceva sempre più scientifica, sempre più tecnica, sempre più pratica, lontana da quell’ideale di equilibrio tra «utile» e «lusinghevol canto»2 che il Parini aveva lungamente

1. prima … teresiana: le prime odi, vicine al riformismo di Maria Teresa. 2. «utile … canto»: citazione dall’ultima strofa della Salubrità dell’aria ( T1, vv. 131-132, p. 503).

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perseguito; il processo storico dello stato lombardo, che pareva concedere troppo a ispirazioni eversive, lontane da quel moderato illuminismo che il Parini aveva sognato e cantato; la lezione di grandi e di piccoli [...] che la politica aveva travolti; l’esempio di amici o di avversari, che si rinchiudevano tutti nel proprio guscio e disertavano le riunioni della Patriottica per attendere solo al loro lavoro paziente di amministratori; il senso di solitudine che sentiva crescere intorno a sé, quella particolare malinconica solitudine dell’uomo che non capisce più il corso dei tempi e ne ha un senso di gelo. Ce n’è abbastanza, mi pare, per capire come al di là delle ragioni di letteratura e di gusto – fossero ragioni strutturali, di fondo, della società del suo tempo a fare così lenta e stanca e incompiuta la continuazione del Vespro e della Notte, così diverse le ultime odi. [...] Il neoclassicismo – se vogliamo chiamarlo così – del Vespro e della Notte, o, più precisamente, il formalismo compiaciuto e inappuntabile di quei due poemetti non fu la sola soluzione che si offrisse al Parini, non fu nemmeno la sola che egli tentasse nei suoi ultimi anni; potrebbe anzi dirsi che sia stata la soluzione più ovvia ma meno feconda, quella più ricca di compromessi e di equivoci. Era, in fondo, una soluzione che gli veniva suggerita, od imposta, dallo schema stesso del Giorno, quale il poeta in anni lontani lo aveva immaginato e svolto nelle prime due parti. Il poema ormai, era quello, con quella invenzione, quella struttura, quei personaggi, quel tono; e il Parini poteva lasciarlo da parte, un troncone che testimoniasse uno stato d’animo antico, non recuperabile più. Ché se invece voleva, come volle, proseguire il lavoro, venuto meno l’ardore polemico che una volta lo aveva sorretto, sbollita l’indignazione civile e morale di fronte all’ozio ignavo dei grandi, non gli restava più che fare quello che fece: cesellare stampe di costume e di vita, sostituire alla satira sociale la satira di costume, disegnare smalti e cammei di un vivere raffinato e galante, farsi, in un certo senso, davvero, senza più ironie, o solo con blande ironie, quel precettore di amabil rito che aveva detto di essere. Ma Parini non era Savioli3, e possedeva una ricchezza di vita interiore e di fermenti umani quale pochi – pochi almeno di quelli che scrivevano in versi – possedevano in quegli ultimi due decenni del Settecento italiano; e perciò, accanto ai versi laboriosi delle ultime parti del Giorno, nacquero, ad una ad una, tra l’83 circa e il ’95, una dozzina di odi, tra le cose più grandi del poeta e del tempo [...]. A prima vista, la poetica è quella di una volta, la poetica, che già era stata di Orazio, dell’utile mescolato al dolce, dell’armonia tra l’utile e il canto lusinghevole; ma solo a prima vista, ché, ancora una volta, le stesse parole hanno assunto un nuovo valore. Lì utile indicava utilità sociale, educazione dei propri concittadini a correggere alcuni difetti e a sviluppare alcune virtù, sì da migliorare concretamente quella società in quel particolare momento storico; qui utile indica invece una educazione dello spirito e del gusto valida per tutti gli uomini e per tutti i tempi, a superare vizi o a coltivare virtù che non sono caratteristici di una società e di un determinato momento storico, ma appartengono all’uomo. E lì il discorso si rivolgeva a tutti i propri concittadini, in una fiducia illuministica nella possibilità di trasformare il mondo; qui si rivolge ad uno stuolo “numerato e casto” di spiriti congeniali, in uno scostarsi sprezzante dal “vile volgo maligno”. Queste odi, dunque, sono ancora morali, ma di una moralità aristocratica e schiva, che si rinchiude in se stessa e si esalta nella contemplazione di sé o di altri pochi simili a sé; per cui anche il discorso si fa, naturalmente, sempre più aristocratico dal punto di vista formale, esaltandosi in un classicismo di lingua e di stile dalla fattura impeccabile ma senza fermenti, chiudendo un’età non aprendone un’altra, come ambivano a fare i versi meno perfetti ma più ricchi di umori di certe odi di prima. G. Petronio, Parini e l’Illuminismo lombardo, Feltrinelli, Milano 1961

3. Savioli: Ludovico Savioli (1729-1804), poeta arcade in cui comincia a manifestarsi il nuovo gusto neoclassico, mescolato alla grazia rococò (tendenza stilistica affermatasi in Francia nel primo Settecento e diffusasi poi in tutta l’Europa, che, come reazione all’artificiosità

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ampollosa del Barocco, punta alla semplicità e alla misura, indulgendo però ad una grazia manierata e leziosa. Il termine deriva originariamente dalle arti figurative, ma in seguito è stato esteso alla letteratura). È autore degli Amori (1765), ventiquattro canzonette in cui

con squisita arte di miniaturista o cesellatore dipinge quadretti di vita settecentesca, impreziosendoli con rimandi mitologici che, nella nitidezza delle linee, richiamano le pitture di Ercolano, da poco scoperte e riprodotte su tavole che avevano avuto larga diffusione.

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. Dopo aver letto il saggio di Binni, rispondi alle domande.

a) Seguendo quali princìpi di poetica il Parini «maggiore» utilizza la lezione del Neoclassicismo di Winckelmann, assecondando e rinforzando una propria esigenza interiore di una visione più serena ed equilibrata della vita? b) Secondo il critico, l’adesione alle istanze del Neoclassicismo comporta, da parte di Parini, un netto distacco dagli ideali etico-civili? > 2. Leggi ora lo scritto di Petronio e rispondi alle domande. a) Quali sono le condizioni storico-culturali che hanno prodotto in Parini una delusione storica e un ripiegamento su un’arte esclusivamente formale, quella neoclassica del Vespro e della Notte? b) Quali elementi, secondo il critico, vengono meno nei due ultimi poemetti, rispetto al Mattino e al Mezzogiorno? Quale tipo di satira si sostituisce in essi alla satira sociale? ANALIZZARE

> 3. Soffermati ad analizzare, insieme con Petronio, le caratteristiche delle nuove odi di gusto neoclassico, in un confronto con le precedenti, rispetto: a) al concetto di “utile”; b) al pubblico cui sono rivolte; c) alla componente morale.

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 4.

Scrivere Rintraccia nell’ode Alla Musa i temi e lo stile che caratterizzano l’ultima fase della poesia di Parini e descrivili in un testo di circa 10 righe (500 caratteri).

Facciamo il punto L’ESPERIENZA DI VITA

1. In quale misura l’esperienza personale di Parini come precettore in casa Serbelloni (1754-62) e poi in

casa Imbonati (1763-68) si ritrova nella produzione di Parini? 2. Traccia un breve ritratto di Parini nelle vesti del funzionario che ricoprì cariche importanti all’interno dell’amministrazione prima austriaca e poi francese nella Milano di fine Settecento. LA FORMAZIONE

3. Verifica come all’interno della produzione di Parini confluiscano elementi derivanti dal classicismo,

dall’esperienza arcadica e da quella sensistica. 4. Verifica quali aspetti dell’Illuminismo vengano accettati e condivisi da Parini e quali vengano respinti e rifiutati (vedi ad esempio La salubrità dell’aria, T1, p. 499). Stabilisci un confronto tra Parini e gli illuministi del “Caffè”. IL MODELLO D’INTELLETTUALE

5. Quale modello d’intellettuale Parini propone nelle sue opere? Vedi ad esempio La salubrità dell’aria, T1, p. 499, e i brani antologizzati dal Giorno,

TT2-3-4-5-6, pp. 520 e ss.

LE OPERE

6. Quali scelte stilistiche caratterizzano la produzione pariniana? Rifletti sul lessico impiegato, sull’uso del-

le figure retoriche, sui modelli letterari seguiti. 7. Le Odi di Parini possono essere definite “poesia d’occasione”, in quanto nascono tutte a seguito di sollecitazioni derivanti da particolari contingenze. La definizione, oggi intesa in senso negativo, mantiene la connotazione dispregiativa anche per la produzione di Parini? 8. In quale modo temi “moderni” (ad esempio nella Salubrità dell’aria, T1, p. 499, le pessime condizioni igieniche della città) vengono trattati da Parini, tipico poeta civile? 9. Quale immagine della nobiltà emerge dalla produzione pariniana? Quale ruolo le viene assegnato?

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Che Cosa Ci diCono anCora oggi i ClassiCi

Parini L’IMPEGNO CIVILE DI PARINI La stagione dell’impegno postbellico Quello che rende Parini ancora vicino a noi è la sua attività di intellettuale impegnato nella battaglia civile per migliorare le condizioni della società. C’è stata più recentemente una stagione in cui questa figura di intellettuale era in primo piano: gli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, in cui l’Italia usciva da un pesante regime dittatoriale e totalitario che aveva obbligato gli scrittori a chiudersi nella dimensione soggettiva e privata o li aveva condannati al silenzio; era anche un periodo in cui il paese, distrutto materialmemte e moralmente, affrontava il difficile compito della ricostruzione. Scrittori e problemi della società Gli intellettuali si sentirono allora investiti dalla responsabilità di dare il loro contributo a questo essenziale processo di rinnovamento. Quella stagione si è presto esaurita, ma gli scrittori sino ad oggi non hanno mai interrotto i legami con la società ed hanno sentito il bisogno di dare il loro contributo ogni volta che si sono presentati i problemi più scottanti: quelli dei diritti civili, o quelli ecologici, o della manipolazione delle coscienze da parte dei media, o quelli delle mafie, del terrorismo, della corruzione, o tanti altri ancora. Per questo un poeta come Parini, che non si chiude nella torre d’avorio della letteratura ma si misura con le questioni più urgenti del suo tempo, ci appare una figura attuale, capace di parlarci ancora direttamente.

L’ATTUALITÀ DEI TEMI L’inquinamento dell’aria Ciò avviene soprattutto per la qualità di certi temi da lui affrontati, a cui siamo oggi particolarmente sensibili. In primo luogo quello ecologico, l’inquinamento dell’aria cittadina, che Parini affronta nell’ode La salubrità dell’aria. Certo nel Settecento il problema si poneva in termini diversi, in quanto l’inquinamento nasceva da acque stagnanti e malsane che circondavano la città, dalla scarsa igiene determinata da mucchi di letame fermentanti per le strade o dalla presenza di carogne di animali, o dalle fogne a cielo aperto, mentre per noi, che viviamo dopo la

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rivoluzione industriale, deriva dai fumi nocivi delle fabbriche, dalle emissioni di gas e polveri del traffico cittadino e dal riscaldamento delle case. E tuttavia le mosse polemiche di Parini in nome dell’aria pura, dell’igiene e della tutela della salute dei cittadini non posono non colpirci singolarmente. L’educazione dei giovani Altro problema presente nelle Odi pariniane che risulta sempre attuale è quello della formazione dei giovani, affrontato nell’Educazione. Il discorso di Parini è indirizzato ai membri della classe dominante, cioè allora l’aristocrazia, ma molti dei suoi precetti, ispirati da una visione schiettamente illuministica, si possono per vari aspetti adattare ancora oggi alla formazione del cittadino che deve inserirsi responsabilmente nella comunità civile: il valore della persona che nasce solo dalle doti individuali e non dalle origini di classe, il senso della giustizia e della solidarietà sociale, il controllo razionale degli impulsi, la sincerità e il ripudio della menzogna, dell’ipocrisia e della dissimulazione, la fedeltà e la lealtà nell’amicizia e negli affetti. Miseria e criminalità Attuale è anche il problema toccato da un’ode come Il bisogno, dove si individuano le cause di molti delitti nella miseria e nella fame, che spingono a delinquere. È un dato che possiamo verificare ancora oggi, specie se si guarda ai reati scaturiti dalle condizioni delle masse di immigrati, che affrontano pericoli e disagi per cercare una vita più degna e poi, arrivati nei paesi europei, purtroppo in molti casi non trovano altra possibilità di sopravvivenza che divenire manovalanza della criminalità, soprattutto per lo spaccio di droga o per il controllo della prostituzione. Capire le cause non vuol dire giustificare i crimini, ma è la condizione indispensabile per cercare di porvi rimedio. Le conquiste della scienza Un’ode come L’innesto del vaiuolo celebra le conquiste della scienza, più esattamente nel campo medico, con la scoperta del vaccino contro il vaiolo, le cui epidemie mietevano allora un numero ingente di vittime. Anche noi oggi guardiamo con ammirazione a tali conquiste della medicina, capaci di sconfiggere malattie che da sempre hanno semi-

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

nato sofferenze e morte e di prolungare le aspettative di vita dell’umanità. In particolare, siamo in attesa di un vaccino che sconfigga un flagello come l’aids, che miete vittime soprattutto nei paesi africani. Il divismo Oggi per fortuna è da tempo scomparso l’uso, ancora in vigore nel Settecento, di evirare i cantori prima della pubertà per conservare loro la pura voce da soprano; però la satira condotta nell’ode La musica contro l’ammirazione entusiastica di cui questi cantori erano fatti oggetto può farci pensare al culto divistico che oggi circonda certi cantanti, con manifestazioni di fanatismo delirante, con inseguimenti e assedi del divo del momento e collezionismo feticistico di suoi cimeli. L’eguaglianza Altri temi che percorrono l’opera pariniana possiamo oggi sentire attuali. Il poeta celebra il principio di eguaglianza, della pari dignità di tutti gli uomini, a prescindere dalle loro origini sociali, eguaglianza non solo di diritto, affermato in astratto, ma di reali opportunità che la rendano operante nella realtà concreta. L’interpretazione ironica del Settecento europeo nell’installazione dell’artista anglo-nigeriano Yinka Shonibare per la mostra Contemporary Art and the Baroque, Toronto, Museum of Contemporary Art, 6 febbraio 2014.

L’istruzione femminile Nell’ode La laurea afferma il diritto della donna ad accedere ai gradi più elevati degli studi, obiettivo oggi raggiunto nei paesi più avanzati (anche se in tanti altri settori si è lontani da un’effettiva parità), ma che resta purtroppo lontano in vari paesi, in cui le donne sono ancora escluse dall’istruzione: basti ricordare il caso della giovanissima pakistana Malala, che i talebani cercarono di uccidere perché paladina dell’istruzione femminile. La solidarietà Parini inoltre propugna la solidarietà verso gli altri e l’impegno ad alleviare miserie e sofferenze, impegno che oggi si manifesta in tante associazioni di volontariato, nei missionari, nei medici che si recano ad esercitare la loro attività nei paesi africani o asiatici più disagiati, nei cooperanti che vanno ad aiutare le popolazioni in paesi martoriati dalla guerra, mettendo spesso a rischio la vita. L’indipendenza dell’intellettuale Il poeta ancora rivendica l’indipendenza dell’intellettuale, che non deve piegarsi a servilismi verso il potere per ottenere vantaggi economici, stipendi d’oro, cariche, riconoscimenti pubblici e premi, ma deve restare saldamente fedele alle proprie idee ed esprimerle in piena libertà.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Il ripudio del fanatismo In Parini si trova, accanto all’esaltazione della fede come fattore di elevazione spirituale del singolo e di coesione della società, il fermo ripudio di ogni fanatismo religioso, in nome della ragione e del rispetto dell’umanità: ed è questo un tema di stringente attualità oggi, quando vediamo gli atroci effetti del fanatismo e del fondamentalismo, che inducono a guerre sanguinose o a intollerabili atti di crudeltà e barbarie, come decapitazioni, bambini trasformati in kamikaze, eccidi di massa, riduzioni in schiavitù. Ma il fanatismo è pericoloso in tanti altri modi, nel creare intolleranza ed emarginazione del diverso, nel bloccare le libere manifestazioni del pensiero, e anche le nostre società occidentali, delle cui istituzioni democratiche siamo così orgogliosi, non ne vanno di certo esenti. Le élites privilegiate Si potrebbe dire che la satira del Giorno, per quanto gustosa e penetrante, non è più attuale perché non esiste più un’aristocrazia come classe egemone, simile a quella settecentesca raffigurata da Parini. Tuttavia non mancano anche oggi élites privilegiate che conducono una vita dorata nei ritrovi esclusivi e nelle località mondane più eleganti: è il cosiddetto jet set internazionale, quello che compare regolarmente sulle riviste di gossip, come si dice oggi (ma il vocabolo significa banalmente “pettegolezzo”, e l’anglismo non vale a nobilitare né la parola né la cosa).

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Leggendo i versi del poemetto pariniano, dinanzi alla vita vuota e frivola del «giovin signore» il pensiero corre agevolmente a questi «signori» più o meno «giovini» (con rispettive «signore»).

LA LINGUA Linguaggio prezioso e ironia Il linguaggio poetico di Parini nelle Odi e nel Giorno, un linguaggio aulico, prezioso e classicheggiante, è certamente lontano da noi, non solo ovviamente dalla lingua parlata tutti i giorni ma anche dalla lingua della letteratura attuale. È inevitabile allora che negli studenti nasca un senso di distanza e di estraneità, che deriva anche dalle difficoltà di comprensione. Ma una volta che, grazie alle spiegazioni dell’insegnante e all’ausilio dei manuali, si sia superato questo ostacolo e si sia acquisita una certa familiarità con i testi, specie per quanto riguarda il Giorno si potrà gustare quella lingua poetica come strumento di ironia graffiante e corrosiva, che proprio grazie alla sua preziosità crea un contrasto stridente con la mediocrità e la banalità della materia trattata, la vita oziosa e inutile della nobiltà.

Fotogramma dal film La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, Italia, 2013.

Ripasso visivo

GIUSEPPE PARINI (1729-99) ELEMENTI BIOGRAFICI

• Nasce a Bosisio nel 1729 da una famiglia di modeste condizioni • Intraprende la carriera ecclesiastica a Milano e muove i primi passi nel campo della poesia • Precettore presso nobili famiglie milanesi, entra in contatto con il mondo dell’aristocrazia • Interpreta il ruolo dell’intellettuale impegnato nelle battaglie civili e collabora con la politica riformista del governo austriaco

• La delusione politica seguita alla svolta autoritaria di Giuseppe II e alla Rivoluzione francese lo allontana dagli incarichi ufficiali

• Muore a Milano 1799 POETICA E PENSIERO

• Dell’Illuminismo condivide gli ideali di egualitarismo

e la polemica antinobiliare, la fiducia nel progresso e l’idea della letteratura come impegno civile, ma ne rifiuta l’atteggiamento antireligioso • Sostiene le teorie fisiocratiche, condannando il mercantilismo • Fedele a un ideale di poesia civile, Parini tenta di conciliare tematiche di attualità politica, economica e

sociale con la tradizione classica; aderisce inoltre alla poetica del sensismo, che ricerca la parola capace di evocare sensazioni e immagini vivide • Convinto del fallimento del programma illuministico e, dunque, del ruolo didascalico della poesia, nell’ultima produzione aderisce agli esiti del Neoclassicismo (esaltazione del bello ideale e della perfezione formale)

PRINCIPALI OPERE POESIA DIDASCALICA

ODI Illuministiche • La vita rustica • La salubrità dell’aria • L’impostura • L’educazione • L’innesto del vaiuolo • Il bisogno • La musica Encomiastiche e d’occasione • La laurea • Le nozze

LA STRUTTURA

• Quattro poemetti in

endecasillabi sciolti intitolati Mattino, Mezzogiorno, Vespro, Notte (gli ultimi due sono incompleti)

Neoclassiche

• La recita dei versi • La caduta • La tempesta • In morte del maestro

• Il Giorno

PROSA SAGGISTICA

• Dialogo sopra la nobiltà

• Discorso sopra la poesia

Sacchini

• Il pericolo • La magistratura • Il dono • La gratitudine • Il messaggio • A Silvia • Alla Musa

LA REALTÀ RAPPRESENTATA

• La giornata di un

«giovin signore», di cui sono rappresentati i passatempi e le abitudini

Il GIorNo

I TEMI PRINCIPALI

• La condanna della

vacuità e della corruzione dell’aristocrazia, al confronto con la nobiltà del passato e con le classi popolari

LA LINGUA E LO STILE

• Il discorso è condotto in chiave ironica e satirica, attraverso l’uso di un linguaggio colto e prezioso

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

In sintesi

GIUSEPPE PARINI (1729-99) Verifica interattiva

Nato da una famiglia di modesta condizione e costretto ad abbracciare la carriera ecclesiastica per completare gli studi, Parini lavora a lungo come precettore presso nobili famiglie milanesi, per poi passare al servizio del governo “illuminato” austriaco, assumendo incarichi ufficiali. Egli rappresenta dunque la tipica figura dell’intellettuale progressista, impegnato in prima persona nella battaglia civile, nella lotta, in nome della ragione, contro le storture che affliggono la realtà contemporanea. Tale istanza si concilia tuttavia con un culto della dignità formale e dei modelli classici, che fa di Parini un esponente atipico dell’Illuminismo milanese e uno dei precursori del Neoclassicismo.

PARINI E GLI ILLUMINISTI Nei confronti dell’Illuminismo francese Parini esprime un atteggiamento ambivalente. Pur condividendone i princìpi egualitari, il filantropismo, la polemica contro i privilegi nobiliari, la condanna di ogni fanatismo, egli ne respinge le posizioni più radicali in campo religioso e sociale: contro l’ateismo illuminista, egli esprime la convinzione che il cristianesimo possa costituire il fondamento di un’ordinata convivenza civile e rivelare il senso ultimo dell’esistenza; quanto alla critica nei confronti dell’aristocrazia, essa non deve tendere, secondo Parini, all’eliminazione di quella classe, ma a un suo reinserimento produttivo nel corpo sociale. Anche rispetto all’Illuminismo lombardo che fa capo al “Caffè” e all’Accademia dei Pugni sono numerosi i punti di dissenso: Parini ne rifiuta sia il cosmopolitismo culturale, sostenendo la necessità di difendere la cultura e la lingua italiane dalle influenze francesi, sia la concezione esclusivamente utilitaristica della cultura, essendo convinto assertore di una letteratura che unisca «l’utile» al «lusinghevol canto». In ambito economico, inoltre, Parini appare vicino alle posizioni dei fisiocratici, che vedevano nell’agricoltura, anziché nel commercio e nell’industria, l’unica attività veramente produttiva, capace di creare ricchezza.

LE PRIME ODI Ancora legato ai modi dell’Arcadia nella sua prima raccolta, Alcune poesie di Ripano Eupilino, Parini dà vita a un nuovo tipo di poesia, impegnata nella battaglia per il rinnovamento civile, nelle sue prime odi, risalenti agli anni 1756-69. Gli argomenti sono strettamente legati all’attualità: la contrapposizione tra città e campagna, l’igiene pubblica, la scienza, l’educazione, le cause della criminalità ecc. Seguendo la poetica del sensismo, Parini ricerca pertanto un lessico energico e concreto, capace di suscitare immagini e sensazioni molto vivide contro l’astratta genericità del linguaggio arcadico. Il poeta si sforza d’altro canto di restare fedele alla tradizione e a questo fine utilizza con frequenza procedimenti espressivi, che innalzano il tono e conferiscono dignità poetica alla materia.

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IL GIorNo: IL MattINo E IL MezzoGIorNo… Allo stesso periodo delle prime odi risalgono le due parti iniziali del poema in endecasillabi sciolti Il Giorno: il Mattino (1763) e il Mezzogiorno (1765). L’opera, che rientra apparentemente nel genere didascalico, descrive una giornata “qualsiasi” di un giovane aristocratico milanese per voce di un precettore, che insegna al protagonista come trascorrere piacevolmente il tempo. Tutto il discorso del precettore è impostato in chiave ironica, poiché i suoi ammaestramenti e la sua esaltazione iperbolica dei costumi di vita aristocratici fanno emergere per antifrasi l’immoralità e la vuota superficialità di quest’ultima. La raffigurazione della nobiltà contemporanea è il piano dominante dell’opera, ma non è l’unico; marginalmente compaiono infatti riferimenti all’aristocrazia del passato, più attiva e coraggiosa, e alle classi popolari, portatrici di valori positivi. Al severo moralismo della satira si contrappone la grazia leziosa e sensuale con cui oggetti e gesti sono descritti: essa concorre a stigmatizzare la futilità dell’ambiente rappresentato, ma nello stesso tempo corrisponde al gusto rococò tipico dell’epoca. Una certa ambiguità tra edonismo e moralismo si determina anche a livello formale, poiché la mediocrità della materia è sublimata da un linguaggio prezioso e aulico.

… IL Vespro E LA Notte Secondo il progetto originario, il Giorno doveva comprendere una terza sezione, dal titolo la Sera, che venne però sdoppiata successivamente in due parti, il Vespro e la Notte, rimaste entrambe incompiute. In esse si riflette la delusione di Parini, che a partire dagli anni Settanta-Ottanta si allontana dall’impegno civile trovandosi in disaccordo con la linea autoritaria adottata dal governo austriaco nell’attuazione del programma riformistico. L’aspro spirito polemico e la fiducia nella possibilità di “educare” la nobiltà lasciano infatti spazio ad un atteggiamento di penosa contemplazione di un mondo vuoto e morente. Il corrispettivo formale di questa tendenza è l’evoluzione dalla poetica sensistica a quella neoclassica, caratterizzata dall’uniformità lessicale, e da una serena e distaccata armonia espressiva.

LE ULTIME ODI Il senso del fallimento del programma illuministico si riflette ancor più chiaramente nel secondo e nel terzo gruppo di odi, composte rispettivamente nel 1777 e nel 1783-95. Il poeta rinuncia infatti ad intervenire sui concreti problemi civili e sociali per concentrarsi su temi universali, affrontati con distaccata saggezza, secondo i dettami della poetica neoclassica.

Capitolo 8 · Giuseppe Parini

Bibliografia La critica

` EdIzIONI dELLE OpErE Per la ricerca nel web

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` EdIzIONI cOMMENTATE Poesie e prose, con appendice di poeti satirici e didascalici del Settecento, a cura di L. Caretti, Ricciardi, Milano-Napoli 1951 • Opere, a cura di G. Petronio, Rizzoli, Milano 1957 • Opere, a cura di G. M. Zuradelli, utet, Torino 1961. Il giorno, a cura di R. Amaturo, Feltrinelli, Milano 1966 • Opere, a cura di E. Bonora, Mursia, Milano 1967 • Il giorno. Le odi, a cura di A. Calzolari, Garzanti, Milano 1976 • Il giorno, Le odi, Dialogo sopra la nobiltà, Rizzoli, Milano 1978 • Il giorno, a cura di E. Bonora, Rusconi, Milano 1984.

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` SugLI ASpETTI LINguISTIcI M. FuBini, Elementi scientifici nel lessico poetico del Parini (1969), ora in Saggi e ricordi, Ricciardi, Milano-Napoli 1971.

561

Capitolo 9

Vittorio Alfieri Passionalità e tensione all’infinito Nella figura di Alfieri si coglie una svolta determinante della cultura italiana del Set­ tecento. Solo una generazione lo separa da Goldoni e Parini, ma se essi riflettono so­ stanzialmente la civiltà illuministica, Alfieri si colloca ormai in un’altra dimensione stori­ ca, già in germe romantica. La sua formazio­ ne intellettuale risente ancora per certi aspetti dell’Illuminismo, ma nei confronti della cultura settecentesca egli prova nel complesso una forte insofferenza: ha orrore del freddo razionalismo, perché ritiene che

soffochi la violenza emotiva e passionale, in cui per lui consiste l’essenza dell’uomo, ed è convinto che spenga l’immaginazione, da cui solo può nascere la poesia; esalta quindi la passionalità condotta all’estremo, ha il culto della vita intensa, fervida di moti spontanei. Non solo, ma se l’Illuminismo sottopone a critica la religione, Alfieri, pur non aderen­ do ad alcuna fede, è mosso da un fondamen­ tale spirito religioso, da un’oscura tensione verso l’infinito, da un bisogno di assoluto, e subisce il fascino dell’ignoto, dinanzi a cui l’uomo resta perpetuamente inquieto.

Tirannide e libertà

Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli. (Lettera a Calzabigi, 1783) 562

La sua avversione alla tirannide e il suo culto della libertà più che assumere una connotazione politica hanno la loro radice in un groviglio di im­ pulsi profondi: è il suo esasperato individualismo

Videolezione d’autore

bertà è un’ansia di affermazione assoluta di sé al di là di ogni limite. Lo scontro tra l’io e la realtà ester­ na, il rifugio in un mondo a parte creato da un’esa­ sperata soggettività fanno già intravedere il clima che connoterà la stagione del Romanticismo.

La poetica tragica Queste tensioni nutrono la scrittura tragica di Alfieri. Per il poeta la tragedia deve scaturire da un veemente slancio passionale, dal calore di un con­ tenuto sentimentale ardentemente vissuto. Il mec­ canismo tragico deve tradurre questo slancio nella tensione incalzante dell’azione, che precipiti sen­ za indugi verso la catastrofe finale. Anche lo stile deve essere rapido ed essenziale, per esprimere il calore passionale del nucleo drammatico, e deve risultare duro, aspro, antimusicale per rendere i conflitti fra i personaggi (anche se non è accetta­ bile che la carica passionale rimanga scomposta, ma è necessario che sia disciplinata da rigorose forme classiche, come le unità aristoteliche).

Base e molla della tirannide ella è la sola paura. E da prima, io distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, sì nella cagione che negli effetti: la paura dell’oppresso, e la paura dell’oppressore. (Della tirannide, libro I)

eroico che lo porta a scontrarsi con la situazione storica in cui vive, l’età dell’assolutismo, ma egli è in urto anche con le nascenti forze borghesi, di cui respinge la mentalità utilitaristica e razionale. Di qui nascono uno sradicamento dal suo tempo e un senso di solitudine, che sono da lui sentiti come segno di superiorità spirituale, di grandezza. Per cui il suo odio per la tirannide non è la critica di una forma specifica di governo, ma il rifiuto di ogni forma di potere, in astratto, e il suo culto della li­

Al far tragedie il primo sapere richiesto, si è il forte sentire; il qual non s’impara. Restavami da imparare (e non era certo poco) l’arte di fare agli altri sentire quello che mi parea di sentir io. (Vita, cap. II)

Tensione eroica e pessimismo Nei personaggi tragici alfieriani si proietta il sogno di grandezza sovrumana, lo slancio tita­ nico di affermazione dell’io, l’aspirazione a un’infinita libertà che connotano l’orientamento spirituale dell’autore; ma contemporaneamente nelle tragedie si profila l’impossibilità di affer­ mare quella grandezza, per i limiti della miseria umana, e quindi si impone l’inevitabilità della sconfitta, che dà vita a una concezione pessimi­ stica, a un amaro sentimento della vita. La ten­ sione eroica e il pessimismo desolato che la cor­ rode costituiscono le due direttrici su cui si muove tutta la produzione tragica alfieriana. 563

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

1

L’infanzia e gli studi

I viaggi

Irrequietudine e scontentezza

La vita Videolezione

I viaggi e le irrequietudini giovanili

Vittorio Alfieri nacque ad Asti il 16 gennaio 1749, da una famiglia della ricca nobiltà terriera. Nella tipologia dell’intellettuale del Settecento rappresenta dunque la figura dello scrittore che, grazie alle cospicue rendite, può dedicare tutto il suo otium alla letteratura. Della nascita nobile infatti Alfieri si compiaceva, perché, garantendogli l’indipendenza economica, gli consentiva di non essere subordinato a nessuno e di potersi mantenere libero e incontaminato da ogni forma di servitù. Sin dagli anni dell’infanzia si rivelò in lui una tendenza alla malinconia e alla solitudine, unita però ad una volontà forte e caparbia, che si manifestava in impeti ribelli. Nel 1758, a nove anni, fu mandato a compiere gli studi presso la Reale Accademia di Torino, dove convenivano molti giovani della nobiltà piemontese, che aveva radicate tradizioni mili­ tari, e ne uscì col grado di portainsegna. Più tardi diede giudizi durissimi sulla forma­ zione che vi aveva ricevuta, arida e pedantesca, ispirata a modelli culturali del tutto antiquati. Amò così insistere sulla totale ignoranza in cui quel periodo di «ineducazio­ ne» lo aveva lasciato. Uscito dall’Accademia, seguendo un costume diffuso tra i giovani aristocratici del tem­ po, quello del grand tour, compì numerosi viaggi per l’Italia e l’Europa, che si protras­ sero per ben cinque anni, dal 1767 al 1772. Visitò prima le principali città italiane, poi si recò a Parigi, in Inghilterra, in Olanda, infine, in un terzo viaggio, toccò l’Austria, la Prussia, la Danimarca, la Svezia, la Russia, ancora l’Olanda e l’Inghilterra. L’uso dei viaggi, per la nobiltà europea, si inseriva nello spirito cosmopolita e nell’ansia di cono­ scenza che erano propri dell’età dei Lumi. Ma i viaggi di Alfieri non rientravano in questo spirito illuministico: il giovane non si spostava indotto dalla curiosità di vedere, di conoscere luoghi, costumi, linguaggi, mentalità, di accumulare esperienze, ma come spinto da una smania febbrile di movimento, da un’irrequietezza continua, inappagabi­

Alfieri e il suo tempo

Inizia un lungo viaggio per l’Italia e per l’Europa Nasce ad Asti da una nobile famiglia

Linea del tempo

Ritorna a Torino, dove conduce una vita oziosa. È tra i fondatori di una società letteraria

Studia presso la Reale Accademia di Torino

Inizia a leggere gli illuministi francesi

Filippo Polinice Antigone

1764-66 1767

In Francia inizia ad essere pubblicata l’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert

564

Pubblicazione della rivista milanese “Il Caffè”

1772

Saul

Antigone

Inizia a comporre tragedie

In Piemonte: gli anni della formazione

1749 1751

Della tirannide

Soggiorna in Toscana e si lega a Louise Stolberg

Rinuncia ai suoi beni per affrancarsi dalla monarchia sabauda

Periodo toscano

1775

1776

1778

Dichiarazione di indipendenza delle colonie inglesi d’America

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

le, che non gli consentiva di fermarsi in alcun luogo, ed era perpetuamente accompa­ gnata da un senso di scontentezza, di noia, di vuoto, da una cupa malinconia. Egli stesso, nella sua autobiografia, narra che, non appena era giunto alla meta verso la quale si era proteso con ansia, provava il bisogno irresistibile di fuggire verso un altro luogo, e, giunto alla nuova meta, si abbandonava allo stesso impulso di fuga senza fine. Questa scontentezza, questa inquietudine non avevano cause precise, definibili: era come se il giovane inseguisse qualcosa di ignoto e di inafferrabile che gli sfuggisse continuamente dinanzi, o come se col moto incessante volesse stordirsi per non perce­ pire il vuoto che avvertiva dentro di sé. Si delinea così, già negli anni giovanili, il profilo di un animo tormentato, proteso verso qualcosa di grande che non ha ancora un volto definito. Più tardi infatti lo scrit­ tore stesso, nella Vita, interpreterà questa scontentezza come il bisogno di trovare un fine sublime intorno a cui ordinare tutta l’esistenza, e l’irrequietezza come percezione dolorosa del vuoto di una vita che non riesce ancora a intravedere questo fine totaliz­ zante. Esso sarà poi identificato da Alfieri con la vocazione poetica, destinata a riem­ pire tutto il resto della sua vita.

L’esperienza dell’assolutismo

L’odio per la tirannide monarchica

Anche se lo scrittore proclama nella Vita che questi viaggi, compiuti con un simile stato d’animo, non gli avevano permesso di acquisire vere conoscenze, aveva in realtà potuto accumulare una concreta esperienza delle condizioni politiche e sociali dell’Europa contemporanea. È l’Europa dell’assolutismo, e nel giovane appassionato, inquieto e ribelle la «tirannide» monarchica provoca reazioni esasperatamente ne­ gative. Quasi nulla di ciò che vede gli piace, per lo più prova insofferenza, sdegno, re­ pulsione. A Parigi si irrita per il «contegno giovesco» (cioè simile a quello del dio Giove, sovrano dell’Olimpo e di tutti gli dei) del re; a Vienna si indigna a vedere Meta­ stasio, poeta di corte, fare la «genuflessioncella d’uso» alla sovrana, e rifiuta di cono­ scerlo; a Berlino prova orrore per «l’universal caserma prussiana»; a Pietroburgo non

Sofonisba Mirra

Inizia a scrivere la Vita scritta da esso

Misogallo

Commedie

Del principe e delle lettere

Soggiorna in Francia

Fugge da Parigi, inorridito dagli eccessi rivoluzionari. Si stabilisce a Firenze

Saluta con entusiasmo la Rivoluzione francese

Periodo francese

1785

1789 Rivoluzione francese

Vive in sdegnosa solitudine

Muore a Firenze

Periodo fiorentino

1790

1792

Arresto del re di Francia e istituzione della Repubblica giacobina

1797 Conquiste di Napoleone in Italia

Trattato di Campoformio: i francesi cedono il Veneto agli austriaci

1799

1803

Colpo di Stato di Napoleone

565

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

I paesaggi orridi e solitari

vuole conoscere Caterina II, mosso da «odio purissimo della tirannide in astratto». Una reazione più positiva suscitano in lui i paesi dove sussistono maggiori libertà civili, l’Inghilterra, l’Olanda. Ma ciò che lo affascina sono soprattutto i paesaggi desolati e orridi, selvaggi e maestosi, le selve della Scandinavia, col loro «vasto indefinibile silenzio» che gli ispira «idee fantastiche, malinconiche ed anche grandiose», i «deser­ ti dell’Arragona», che gli suggeriscono «imagini e terribili, e liete e miste, e pazze»: in questi paesaggi egli proietta già romanticamente il suo io.

A Torino: vita oziosa e inizio dell’attività letteraria Una vita da «giovin signore»

La lettura degli illuministi e di Plutarco

Primi tentativi di scrittura

Ritornato a Torino, la sua insofferenza per ogni legame e gerarchia gli impedisce di dedicarsi alle attività politiche e militari che erano proprie della nobiltà sabauda. Con­ duce quindi la vita oziosa di un «giovin signore», chiuso in una solitudine inerte che ingigantisce la sua scontentezza e la sua inquietudine e sollecita un oscuro bisogno di uscire da quella dissipazione opprimente. La depressione è ulteriormente accresciu­ ta da un «tristo amore», una relazione con la marchesa Gabriella Turinetti di Prié, che dal giovane è sentita come un giogo avvilente, causa di «infinite angosce, vergogne, dolori», ma da cui egli non riesce a liberarsi. L’unica attività che gli si offre è quella letteraria. Dopo gli anni di vuoto intellettuale dell’Accademia, già nel 1768 aveva cominciato a leggere, dedicandosi soprattutto agli illuministi francesi, Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Helvétius, che costituiranno poi la base della sua cultura, dando fondamenti filosofici alla sua istintiva avversione antitirannica. Un momento essenziale era stata anche la lettura di Plutarco, storico greco autore di una serie di biografie di uomini illustri greci e romani, che aveva solle­ vato in lui «un trasporto di grida, di pianti e di furori», precisando nel suo animo l’o­ scura ansia di magnanima grandezza che urgeva sin dall’adolescenza. A Torino Alfieri fonda nel 1772, con alcuni amici, una sorta di società letteraria, per cui scrive alcune «cose facete miste di filosofia e di impertinenza», come l’Esquisse du jugement universel (“Schizzo del giudizio universale”, 1773), satira della società nobiliare ispirata ai modi di Voltaire, stesa in francese (che è la lingua che Alfieri parla e in cui scrive abitualmente, come era allora proprio della nobiltà piemontese). Nel 1774 inizia, sempre in francese, un Journal (“Diario”, poi proseguito nel 1777 in ita­ liano), dove si rispecchia il momento più acuto e disperato della sua crisi.

La “conversione” letteraria

La scoperta della vocazione poetica

Lo studio dei classici e della lingua italiana

566

Nel 1775 Alfieri colloca la svolta fondamentale, l’illuminazione destinata a dare un senso alla sua vita, la sua «conversione», come lo scrittore la chiama usando una termi­ nologia religiosa. L’anno prima, spinto da un impulso non ben definito, aveva abbozzato una tragedia, Antonio e Cleopatra, dimenticandola subito dopo. Ritornatogli in mano il manoscritto per caso, egli scopre la somiglianza tra la propria relazione con la Turi­ netti, da cui scaturisce il suo tetro avvilimento, e quella tra Antonio e Cleopatra, e si rende conto di come proiettare i propri sentimenti nella poesia costituisca l’unico mezzo per trovare un superamento dei propri tormenti, una catarsi. La tragedia, portata a termine, viene rappresentata al teatro Carignano di Torino nel giugno del 1775, ottenendo grande successo. In questo episodio Alfieri scorge il primo manifestarsi della sua vocazione di poeta tragico. Da quel momento ritiene di aver trovato lo scopo capace di riempire la sua vita vuota e di darle un senso, placando la sua oscura inquietudine. Dello stesso anno è la prima stesura di altre due tragedie, Filippo e Polinice, e di lì in avanti tutta la sua esistenza sarà dedicata alla letteratura. Data l’insufficienza dei suoi primi studi, gli è però indispensabile munirsi dell’adegua­ to bagaglio culturale: con volontà caparbia si immerge nella lettura dei classici latini e italiani (il greco lo imparerà solo in anni più tardi), si applica allo studio della lingua italiana per impadronirsi di un linguaggio adatto alle tragedie che intende scrivere, e

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

giura di non proferire più una sola parola di francese. Per meglio far proprio l’italiano tra il 1776 e il 1780 soggiorna a lungo in Toscana, a Pisa, a Siena, a Firenze. Qui conosce Louise Stolberg, contessa di Albany, moglie dell’anziano Charles Edward Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra, e trova in lei il «degno amore» che, insieme con la poesia, può dare equilibrio alla sua vita. Nel 1778, per «spiemontizzarsi» defi­ nitivamente e per recidere ogni legame con il re di Sardegna, che esercitava un control­ lo oppressivo sulla nobiltà sabauda, rinuncia a tutti i suoi beni in favore della sorel­ la, in cambio di una rendita vitalizia. Nel frattempo dalla sua fervida attività di scrittore nascono una dopo l’altra le sue tra­ gedie. Nel 1783 ne inizia a Siena una prima edizione, mentre una seconda sarà portata a termine a Parigi fra il 1787 e il 1789, presso la prestigiosa stamperia dei fratelli Di­ dot. A Parigi infatti, con la contessa, soggiorna a lungo tra il 1785 e il 1792. Lo scoppio della Rivoluzione eccita il suo spirito antitirannico e lo induce a salutare con un’ode la presa della Bastiglia (Parigi sbastigliato). Ma presto gli sviluppi del processo rivo­ luzionario suscitano in lui riprovazione e disgusto, per quella che egli ritiene una falsa libertà che maschera una nuova tirannide borghese e per l’insolenza violenta della plebe. Nel 1792, dopo l’assalto alle Tuileries, fugge da Parigi con la Stolberg e viene a stabilirsi a Firenze, dove vive i suoi ultimi anni in una sdegnosa solitudine, animato da un odio sempre più feroce contro i francesi, che si sono ormai impadroniti dell’Italia con le campagne napoleoniche. A Firenze muore l’8 ottobre 1803.

La Rivoluzione francese

Carta interattiva

I luoghi e la vita di Alfieri SAN PIETROBURGO

STOCCOLMA 1 ASTI Nasce ad Asti il 16 gennaio 1749, da una famiglia della ricca nobiltà terriera.

7 FIRENZE

COPENAGHEN

LONDRA AMSTERDAM

2 TORINO

BERLINO

EUROPA DEL NORD

PARIGI

Nel 1758 è mandato a compiere gli studi presso la Reale Accademia di Torino.

VIENNA TORINO

3 EUROPA DEL NORD

Terminati gli studi, tra il 1767 e il 1772 viaggia prima in Italia, poi in Europa: è a Parigi, in Inghilterra, Olanda, Austria, Prussia, Danimarca, Svezia, Russia. Un terzo viaggio lo conduce ancora in Olanda e Inghilterra.

Trascorre in solitudine gli ultimi anni. Muore nel 1803.

ASTI FIRENZE PISA SIENA

4 TORINO

Rientrato a Torino, nel 1772 fonda con alcuni amici una sorta di società letteraria e inizia la stesura di alcune tragedie: la prima, Antonio e Cleopatra, viene rappresentata al teatro Carignano.

6 PARIGI

Con la contessa d’Albany, tra il 1785 e il 1792 soggiorna a lungo nella capitale francese; qui assiste allo scoppio della Rivoluzione. Deluso dallo sviluppo degli eventi rivoluzionari, nel 1792 rientra a Firenze.

5 PISA, SIENA,

FIRENZE Tra il 1776 e il 1780 soggiorna a Pisa, Siena e Firenze per studiare la lingua italiana. A Firenze conosce Louise Stolberg, contessa di Albany, e trova in lei il «degno amore».

567

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

2 Le basi illuministiche

Il rifiuto della scienza

La passionalità sfrenata

Il senso dell’infinito e del mistero

I rapporti con l’Illuminismo L’insofferenza verso il razionalismo scientifico

Mappa attiva Alfieri e gli illuministi francesi

Le basi della formazione intellettuale di Alfieri sono ancora decisamente illuministi­ che, sensistiche, materialistiche: gli autori che egli aveva letto nella sua giovinezza, tra il 1768 e il 1769, Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Helvétius, continuano anche in seguito a determinare il suo orizzonte mentale. Egli non arriva a superare teoreticamen­ te quelle posizioni, approdando ad una diversa prospettiva ideologica, anche perché non possiede una solida cultura filosofica e neppure un’attitudine ad una rigorosa ri­ flessione in tal senso. Ma, nei confronti di quella cultura del secolo, che tutto sommato resta anche la sua cultura, prova una sorda, confusa insofferenza. Innanzitutto gli ripugna il culto della scienza, ha orrore per l’«evidenza gelida e matematica», per i «gelati filosofisti, che da null’altro son mossi, fuorché del due e due son quattro». Il freddo razionalismo scientifico per lui soffoca il «forte sentire», quella violenza emotiva e passionale in cui egli ritiene consista la vera essenza dell’uomo, e spegne anche il fervore dell’immaginazione, da cui solo può nascere la poesia, la manifestazione più alta di quell’essenza. L’Illuminismo, nella forma della filosofia sensistica e di quella rousseauiana, aveva anch’esso rivalutato l’importanza del mondo passionale, degli impulsi spontanei e primigeni, che l’eccesso di civilizzazione finisce per inaridire e cancellare, e aveva celebrato il culto della «natura». Ma la filosofia dei “lumi” mirava ad un’equilibrata regolamentazione razionale della vita passionale ed affidava alla ragione un’ineliminabile funzione di guida e direzione degli impulsi pro­ fondi. Alfieri invece si ribella decisamente a questo controllo razionale, a questa paca­ ta misura, ed esalta la dismisura, la passionalità sfrenata, senza limiti, condotta all’estremo, in un culto della vita intensa e fervida di moti spontanei, che innalza l’uo­ mo al di sopra della sua stessa natura: «ché Dio chiamo io l’uomo vivissimamente sentente». L’Illuminismo, sulla base della razionalità scientifica, sottoponeva a critica implacabile e corrosiva la religione tradizionale, approdando in certi casi ad un vago deismo, ed in altri a posizioni decisamente atee e materialistiche. Alfieri, pur non avendo una fede positiva, respinge tali posizioni ed è mosso da un fondamentale spirito religioso, che si manifesta in un’oscura tensione verso l’infinito, in un bisogno di assoluto. Quindi l’orgoglio illuministico per le scoperte scientifiche, viste come inizio di un radioso fu­ turo di progresso per l’umanità (si pensi al Parini dell’Innesto del vaiuolo), gli è del tutto estraneo: egli ha piuttosto il senso dell’ignoto, del mistero che avvolge le ragioni profonde dell’essere, dinanzi a cui l’uomo non può che restare scontento e perpetua­ mente inquieto. Ne discende anche il fatto che, mentre l’Illuminismo è pervaso da un ottimismo fiducioso nelle sorti dell’uomo, la visione di Alfieri insiste invece sulla mise­ ria e impotenza umane.

Il rifiuto del progresso economico e dei “lumi” Il rifiuto dello spirito borghese

568

Se il progresso scientifico lo lascia freddo e scettico, tanto meno lo alletta il progres­ so economico, lo sviluppo delle attività produttive, industriali e commerciali, su cui tanto insistono pensatori e scrittori contemporanei. Nel suo aristocratico rifiuto dello spirito borghese teso all’utile e all’interesse materiale, egli vede nello sviluppo economico solo l’incentivo al moltiplicarsi di una massa di gente meschina e arida, incapace di alti ideali e forti passioni. Così resta freddo all’idea della diffusione dei “lumi”, altro motivo conduttore della civiltà settecentesca: l’estensione della cul­ tura gli pare inutile a mutare gli schiavi in uomini liberi. La trasformazione per lui può avvenire solo grazie alle passioni, all’entusiasmo; al contrario i “lumi” non hanno altro effetto che raffreddare gli animi e spegnere l’anelito all’azione.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Di conseguenza altri temi centrali dell’Illuminismo lo trovano ostile: al cosmopolitismo contrappone lo sdegnoso isolamento della propria individualità, che si sente stranie­ ra in ogni luogo (oppure, negli ultimi anni, l’esaltazione dei valori nazionali); al filan­ tropismo, rivolto a mitigare le sofferenze degli umili, oppone il culto di un’umanità eroica, che spregia il vile gregge di uomini comuni e di schiavi che compone la mag­ gioranza dell’umanità.

3 La matrice illuministica

Le idee politiche L’individualismo alfieriano Anche le idee politiche di Alfieri (l’avversione contro la tirannide e il culto della libertà) possiedono una matrice illuministica, traggono spunto dalla lettura di Monte­ squieu, Voltaire, Rousseau. Ma anche in questo caso lo scrittore si stacca nettamente dalla cultura dei “lumi”, collocandosi su posizioni del tutto peculiari e personali. La lettura dei philosophes non ha in realtà altra funzione che consentirgli di portare alla luce e di organizzare formalmente un groviglio di impulsi profondi, viscerali, le cui radici sono anteriori ad ogni sistemazione razionale e ideologica. L’esasperato individualismo e l’egocentrismo, che sono propri del carattere del giovane Alfieri, lo in­ ducono a scontrarsi con la situazione storica e politica in cui vive, producendo un’av­ versione e un’insofferenza insanabili. È innanzitutto l’ambiente in cui nasce e si forma a suscitare il suo radicale rifiuto: il Piemonte sabaudo, caratterizzato da un assoluti­ smo paternalistico che esercita un rigido controllo su tutte le forme di vita associata, da un’aristocrazia devota e ligia alla corona, legata alle cariche militari e burocratiche, da una situazione economica e culturale arretrata, stagnante, priva di dinamicità e di iniziative.

L’odio contro la tirannide e il potere Lo scontro con l’ancien régime

Il rifiuto dell’alternativa borghese

Il rifiuto del potere in astratto

Da questo ambiente angusto e soffocante il giovane Alfieri fugge, vagando per cinque anni tra i vari paesi europei, ma ovunque, puntualmente, si scontra con il clima oppri­ mente dell’assolutismo monarchico. In quel mondo dell’ancien régime, in cui si poteva­ no già cogliere i segni del prossimo crollo, si muovevano pur tuttavia forze nuove, de­ stinate a offrire di lì a pochi anni un’alternativa radicale, a costruire un mondo nuovo: le forze borghesi, armate del loro dinamismo economico e di una cultura moderna, spregiudicata, lucida. Ma Alfieri, nel suo aristocratico individualismo, sprezzante nei confronti della mentalità pratica, utilitaristica e razionale della borghesia, perso dietro sterminati sogni di grandezza eroica ricavati dalle sue letture plutarchiane, non può identificarsi con quelle forze e tanto meno accogliere i loro concreti programmi politici. Insomma, Alfieri si trova in urto sia con ciò che esiste, l’assolutismo, sia con ciò che è destinato a sostituirlo, l’assetto borghese: di qui uno sradicamento dal suo tempo, uno spaesamento totale, un senso di solitudine che, lungi dall’essere sentito come limitazione e condanna, è rovesciato dal giovane in privilegio, in segno di una condizione di spirituale superiorità. Nascendo da questo stato d’animo e da questa condizione di sradicamento totale, si può capire come le posizioni politiche di Alfieri avessero alla base non un ponderato nucleo di princìpi filosofici, ma appunto un groppo viscerale di avversioni e reazioni emotive. Ciò spiega la fisionomia peculiare che assumono le sue idee. L’odio contro la ti­ rannide, che è il punto centrale di tutta la sua riflessione, non è la critica di una forma particolare di governo, colto nella sua specificità storica e giuridica (monarchia dispo­ tica, illuminata o costituzionale, oligarchia nobiliare...), ma il rifiuto del potere in sé, 569

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

in assoluto e in astratto, in quanto ogni forma di potere è iniqua e oppressiva, pos­ sedendo una «facoltà illimitata di nuocere». Per questo Alfieri non ha da contrapporre a quell’idolo polemico alcuna concreta alternativa politica, alcuna proposta di ordina­ mento migliore effettivamente praticabile.

La libertà astratta

L’espressione di un individualismo eroico

Anche il concetto di libertà, che egli esalta contro la tirannide, non possiede precise connotazioni politiche, economiche, giuridiche (libertà di pensiero, di parola, di stam­ pa, di associazione, di commercio...), non prende corpo in un progetto definito di Stato, ma resta astratto e indeterminato, pura petizione di principio; «esso è piuttosto espres­ sione di un esasperato individualismo eroico radicalmente antisociale, è ansia di totale realizzazione di sé, di integrale e illimitata affermazione del proprio io: è la libertà del grand’uomo e del superuomo, una libertà riservata all’aristocrazia dello spirito, ed in quanto tale, se pure ha un riflesso politico, non ha, sostanzialmente, una autentica ispi­ razione politica» (Masiello, 1964). La riprova di questa astrattezza dell’ideale di libertà, che non può coincidere con nessuna forma definita di ordinamento politico, è che Alfieri si entusiasma per le rivo­ luzioni del suo tempo nel loro primo slancio insurrezionale che distrugge il vecchio ordine dispotico, ma appena esse si assestano in un ordine nuovo assume atteggiamen­ ti disillusi e sdegnosi. Così per celebrare la rivoluzione americana scrive quattro odi (L’America libera), ma poi, rendendosi conto che la spinta rivoluzionaria non era scaturita da un amore purissimo e ideale per la libertà, ma da ragioni materiali ed eco­ nomiche – la lotta contro dazi gravosi che impacciavano il commercio – ripiega in una quinta ode su più amare riflessioni; parimenti nel 1789 saluta la presa della Bastiglia con un’ode, Parigi sbastigliato, salvo poi scagliarsi con toni veementi contro le forme concrete assunte dal potere rivoluzionario, che egli bolla come nuova e più infa­ me tirannide.

Titanismo e pessimismo Quindi, come ha ben mostrato Na­ talino Sapegno in un fondamentale studio del 1949 (da cui in queste pa­ gine abbiamo ricavato molti suggeri­ menti), nel pensiero di Alfieri non si scontrano propriamente due concetti politici, tirannide e libertà, ma due entità mitiche e fantastiche, en­ trambe proiezioni di forze che nasco­ no in definitiva all’interno di Alfieri stesso: da un lato un bisogno di affermazione totale dell’io, al di là di ogni limite e di ogni vincolo ester­ no, dall’altro la percezione di forze oscure che, nell’io stesso, si op­ pongono a questa espansione, la minano e la corrodono.

Nanine Vallain, Allegoria della Libertà, 1793-94, olio su tela, Vizille (Francia), Musée de la Revolution Française.

570

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri Il titanismo alfieriano

Già nelle opere propriamente politiche si delinea dunque il titanismo alfieriano, un’an­ sia di infinita grandezza e di infinita libertà che si scontra con tutto ciò che la limita e l’o­ stacola ( Il titanismo, p. 579). In quest’immagine di un io gigantesco, che vuole spezzare ogni limite, si proietta miticamente la stessa condizione storica di Alfieri: il suo conflitto con una realtà politica e sociale mediocre, l’estraneità al suo secolo, lo sradicamento, la solitudine sprezzante e sdegnosa, l’inquietudine, la malinconia, ma anche la volontà tesa verso un ideale di grandezza eroica quasi sovrumana. È quell’immagine che poi sarà accolta dalle generazioni successive. In effetti lo scontro titanico tra l’io e la realtà esterna, il rifiuto del reale e il rifugio in un mondo a parte creato da un’esasperata soggettività col­ locano già Alfieri al di fuori della cultura razionalistica e sensistica dell’Illuminismo e fanno presentire il clima che connoterà la stagione romantica.

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Autori a confronto ILLumInIsTI frAncesI

Scienza

Religione

Rapporto uomo-realtà

Economia

Politica

Cultura

Illuministi francesi, Parini e Alfieri PArInI

ALfIerI

Esaltano il razionalismo e la scienza, ritenendoli fattori di progresso

Condivide la fiducia illuministica nelle scoperte scientifiche, ma critica l’atteggiamento superficiale con cui questi temi sono spesso dibattuti

Rifiuta il razionalismo scientifico, esaltando la dimensione irrazionale e passionale dell’uomo

Sottopongono la religione tradizionale a una critica serrata, approdando a posizioni atee o deiste

Pur criticando il fanatismo religioso, è convinto che il cristianesimo disveli il senso ultimo della vita e indichi i valori su cui si fonda la convivenza civile

Pur non avendo una fede positiva, è mosso da uno spirito religioso che si manifesta in un’oscura tensione verso l’infinito

Esprimono un fiducioso ottimismo nelle possibilità dell’uomo di migliorare la propria condizione grazie al progresso

Condivide, soprattutto nella prima fase della sua produzione, la fiducia nel progresso

La sua visione è pervasa dal pessimismo e dal senso d’impotenza dell’uomo di fronte alla realtà

Sostengono la necessità di incrementare le attività industriali e commerciali, fonte di ricchezza per lo Stato

Considera l’agricoltura l’unica vera fonte di ricchezza, secondo le teorie della scuola fisiocratica

Vede nello sviluppo dei commerci e dell’industria l’incentivo al moltiplicarsi di una classe, la borghesia, meschina e incapace di alti ideali

Sono favorevoli a forme di governo repubblicane che sanciscano la fine della monarchia e dei privilegi aristocratici

Esprime un pensiero moderato: non mira alla cancellazione radicale dell’ancien régime, ma a riforme che garantiscano maggiore equità sociale

Dopo aver auspicato inizialmente la fine dell’ancien régime, lo rimpiange negli anni della maturità, non riconoscendosi nel nuovo assetto borghese

Il valore della cultura risiede nella sua utilità ai fini del progresso umano

Rifiuta la concezione puramente utilitaristica della cultura, ritenendo che essa debba avere come scopo anche il bello

Concepisce la cultura come espressione di un alto sentire e non come strumento di divulgazione della conoscenza

571

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Il senso di impotenza

4

Contro l’assolutismo illuminato

Contro la nobiltà, l’esercito, il clero

La segreta ammirazione per il tiranno

572

In questa tensione dell’io è però implicita l’inevitabilità della sconfitta, l’impossibilità di affermare totalmente la grandezza al di là di ogni limite. Il limite con cui l’io si scontra non è solo esterno, ma è già al suo interno. Il «tiranno» non è solo la trasfigurazione mitica di una condizione storica oppressiva, ma anche, in ultima analisi, la proiezione di un limite che Alfieri trova in se stesso, e che rende impossibile la grandezza: tormenti, angosce, in­ cubi che minano la saldezza della volontà e fiaccano l’ansia eroica. Al sogno titanico di grandezza magnanima si accompagna sempre la consapevolezza pessimistica dell’effettiva miseria e insufficienza umana. Ma titanismo e pessimismo non sono propriamente tendenze opposte che si scontrino na­ scendo da diverse matrici culturali: in realtà non sono che due facce della stessa medaglia. Proprio la tensione esasperata della volontà oltre i limiti umani si accompagna inevitabil­ mente con la coscienza della propria impossibilità e genera un senso di sconfitta e di impotenza, finisce per rovesciarsi in un ripiegamento angosciato e sgomento. Non solo, ma la volontà di infinita affermazione dell’io reca con sé il senso di una trasgressione, che si manifesta come oscuro senso di colpa, come il peso di una maledizione. Sono in germe, in queste posizioni alfieriane, i grandi eroi delle tragedie, come Saul, che proietta nel «ti­ ranno» che lo sovrasta, Dio, i suoi tormenti interiori. Come si vede, la riflessione di Alfieri su libertà e tirannide, più che fondare un sistema coerente di pensiero, rispecchia il con­ flitto che è alla base delle sue tragedie.

Le opere politiche Della tirannide

Videolezione

Ricostruite nel loro complesso le concezioni alfieriane, è ora opportuno esaminare più da vicino le singole opere politiche, individuando anche la linea dell’involuzione ideologi­ ca che le percorre, sull’arco temporale che va dagli anni giovanili all’ultimo periodo di attività dello scrittore. La prima è il breve trattato Della tirannide, steso di getto nel 1777, quindi in concomitanza con gli inizi della produzione tragica, e tutto pervaso di un fremente impeto passionale. Inizialmente Alfieri si preoccupa di definire la tirannide, identificandola con ogni tipo di monarchia che ponga il sovrano al di sopra delle leggi, e conduce una critica veemente contro l’ideale settecentesco del dispotismo illuminato e riformatore: le tirannidi moderate, a suo avviso, velando la brutalità del potere, tendono ad addormentare i popoli; quindi sono preferibili quelle estreme e oppressive perché, con i loro intollerabili abusi, suscitano il gesto eroico dell’uomo libero, provocando così l’insurrezione del popolo e portando, attraverso la violenza, alla conquista della liber­ tà (la definizione di un nuovo ordine è rimandata ad un futuro libro Della repubblica, che però non sarà mai steso). Lo scrittore passa poi a esaminare le basi su cui si appoggia il potere tirannico, e le indivi­ dua nella nobiltà, docile strumento nelle mani del despota, nella casta militare, median­ te cui i sudditi sono oppressi e viene soffocata ogni possibilità di ribellione, e nella casta sacerdotale, che educa a servire con cieca obbedienza. Alfieri affronta inoltre il modo di comportarsi dell’uomo libero sotto la tirannide: per non farsi contaminare dalla generale servitù, questi potrà ritirarsi dalla vita sociale, chiudendosi nella più totale solitudine, po­ trà ricorrere al gesto eroico del suicidio, oppure potrà uccidere il tiranno (andando anche in questo caso incontro alla morte). Nel discorso alfieriano si delineano due figure gigantesche, il «tiranno» e il «liber’uomo», in fondo molto simili fra loro, in quanto entrambe tese all’affermazione assoluta della loro individualità superiore, al di là e contro ogni limite; per questo, oltre che nei confronti dell’uomo libero, si può cogliere una segreta ammirazione da parte di Alfieri anche nei

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

La penna, surrogato della spada

confronti del tiranno, che, sia pure nella sua negatività, viene a incarnare l’affermazione di una volontà possente, assoluta, illimitata, ed assume una statura superumana. A suo modo, anche il tiranno è un uomo libero, in quanto la sua volontà non conosce vincoli. Nel tratteggiare lo scontro tra le due figure eroiche complementari, il trattato rivela uno schema interno molto simile a quello delle tragedie, che vanno nascendo negli stessi anni. Da un punto di vista più strettamente politico, nella sua critica all’assolutismo illuminato e al riformismo, nel suo acceso livore antimonarchico, nella sua violenta requisitoria con­ tro la nobiltà, contro il clero e contro l’esercito, nel vagheggiamento della catarsi prodotta dall’insurrezione popolare, Della tirannide rappresenta il momento più radicale e rivoluzionario della riflessione politica alfieriana, un momento tipicamente giovani­ le. Nella dedica Alla libertà lo scrittore afferma che abbandonerebbe volentieri la penna per la spada, cioè per l’azione diretta. Tuttavia è consapevole del fatto che i «tristi tempi» negano ogni possibilità d’azione, quindi guarda allo scrivere come ad una solu­ zione di ripiego, come ad un surrogato dell’agire e ad uno strumento di battaglia.

Il Panegirico di Plinio a Traiano e Della virtù sconosciuta L’attenuazione dell’impeto passionale

Nelle opere più tarde questo impeto rivoluzionario e questo impegno attivo si affievoli­ scono notevolmente. Nel Panegirico di Plinio a Traiano (1785), Alfieri vagheggia un principe che spontaneamente deponga il potere, facendo dono della libertà ai cittadini e guadagnandosi così eterna gloria. Nel dialogo Della virtù sconosciuta (1786), dedicato alla memoria dell’amico senese Francesco Gori Gandellini, sviluppa un tema toccato nella Tirannide, la necessità per l’uomo libero, al fine di non essere contaminato dalla servitù dominante, di ritirarsi in sdegnosa solitudine. Qui però non compaiono più gli at­ teggiamenti combattivi e infiammati che caratterizzavano il trattato giovanile: l’eroismo è rinuncia, scelta volontaria dell’oscurità, non azione.

Del principe e delle lettere

La superiorità dello scrivere sull’agire

Questo ripiegamento, come ha ben sottolineato Masiello, emerge in pieno rilievo nell’opera politica più impegnativa di questo secondo periodo, i tre libri Del principe e delle lettere, ideati sin dal 1778 ma compiuti solo nel 1786, e dedicati ad esamina­ re il rapporto tra lo scrittore ed il potere assoluto. Mentre nella Tirannide Alfie­ ri celebrava la superiorità dell’agire sullo scrivere e presentava la letteratura come ri­ piego, con un amaro rimpianto per l’azione impossibile, ora invece proclama la superiorità assoluta dello scrivere su ogni altra forma di attività. Lo «scrivere» sostituisce totalmente il «fare», non è più un debole surrogato, né vi è più rimpianto per l’azione negata. Il poeta incarna l’ideale di un’assoluta indipendenza, si sottrae ad ogni funzione sociale e si dedica esclusivamente alla poesia, che è la suprema realizzazione dell’essenza umana. Solo nelle lettere si manifesta quindi la libertà, la dignità eroica dell’individuo. La poe­ sia è superiore all’azione perché «il dire altamente alte cose, è un farle in gran parte». Maggiore grandezza si richiede a inventare e a descrivere una cosa che non a eseguirla. Omero è più grande di Achille, perché questi, pur avendo compiuto azioni sublimi, non sarebbe stato capace di dare perenne fama a se stesso, mentre questa fama gli è assicu­ rata dal poeta; e il poeta, per cantare l’eroe, deve essere eroe egli stesso. Come si vede, l’idea del diretto impegno e il vagheggiamento dell’azione sono abbandonati e sono sostituiti dalla celebrazione di un’astensione totale dalla prassi contaminatrice, dalla difesa di un atteggiamento puramente contemplativo. In tal modo Alfieri ricupe­ ra di fatto la figura tradizionale dell’intellettuale quale era stata fissata dalla civiltà umanistica, il letterato separato dalla realtà e chiuso nella dimensione esclusiva del pensare e dello scrivere, nella quale soltanto può trovare la sua piena realizzazione. È vero che Alfieri assegna pur sempre al letterato una funzione di guida e di illuminazione, ma è un’azione destinata alle generazioni future, in forma di profezia, non 573

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo L’affievolirsi dello slancio rivoluzionario

rivolta immediatamente ai contemporanei, per esortarli e sollecitarne le coscienze. L’o­ pera rivela dunque come lo slancio generoso e fervidamente rivoluzionario degli anni giovanili sia ormai sostanzialmente rientrato. Questo ritrarsi e chiudersi nell’esclusiva fede letteraria si riflette anche nel ridimensio­ namento di alcuni temi fondamentali che avevano caratterizzato la fase giovanile. Nella Tirannide lo scrittore scagliava una violenta requisitoria contro l’aristocrazia e la casta sacerdotale, considerate come pilastri del dispotismo monarchico; ora invece esalta la naturale superiorità dei nobili, la cui missione è farsi promotori di libertà e di virtù, e rivaluta la religione come ispiratrice di magnanimità e di alto sentire, che si manifestano nei santi, da venerare come «uomini sommi e sublimi».

Alfieri e la rivoluzione francese: il Misogallo La crisi ideologica

Il Misogallo

Odio antirivoluzionario e idee reazionarie

Il senso della nazione

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Come osserva sempre Masiello, è la Rivoluzione francese, nel suo rivelarsi sempre più chiaramente come rivoluzione borghese, a far precipitare la crisi ideologica di Al­ fieri: nello scontro con la realtà effettuale si ridimensionano gli astratti entusiasmi giovanili e vengono alla luce i caratteri aristocratici del suo libertarismo. In un primo tempo, come si è visto, Alfieri aveva guardato con simpatia alla rivoluzione come affer­ mazione di libertà, ma poi, dinanzi al precisarsi di concrete rivendicazioni sociali ed economiche, dinanzi all’avanzata di ceti emergenti e al definirsi del nuovo assetto po­ litico, che doveva fare i conti con la durezza della realtà, si chiude in un atteggiamento di acredine esasperata, ritenendo che quei rivoluzionari borghesi contaminino con la loro bassa avidità di potere e ricchezze il purissimo ideale di libertà, e che alla libertà vera, che può essere solo di pochi spiriti privilegiati, ne sostituiscano una falsa, sotto cui si cela in realtà una tirannide peggiore di quella monarchica. Questa violenta reazione alle tendenze della storia contemporanea si manifesta in scritti che, pur non essendo espressamente politici come quelli finora illustrati, pos­ siedono una forte valenza politica e quindi possono legittimamente essere esaminati qui, ad illustrare l’ultima fase del percorso ideologico alfieriano. Il più significativo è il Misogallo (1793­99), un’opera dall’impianto curioso, che mescola insieme prosa e versi. Come rivela eloquentemente il titolo (miséin in greco significa “odiare”, e i Gal­ li stanno a indicare i francesi), essa esprime un odio furibondo contro la Francia, che in realtà è odio contro la Rivoluzione, contro i princìpi illuministici e lo spirito borghese che essa sta diffondendo in Europa. In questo atteggiamento di ripulsa emer­ gono posizioni che vengono addirittura a collimare con la reazione monarchica e legit­ timistica alla Rivoluzione: Alfieri difende i privilegi della casta nobiliare, soprat­ tutto il diritto di proprietà, ribadisce il ruolo inevitabilmente subalterno del terzo stato, respinge con sdegno ogni turbamento dell’ordine sociale e dei rapporti econo­ mici e di potere, riserva solo ai nobili il pieno godimento dei diritti politici e l’esercizio del potere; giunge persino ad esultare per le vittorie degli austro­russi nel 1799, in quanto «difensori dell’ordine e delle proprietà», e a rivalutare la tirannide monarchica come male minore rispetto a quella borghese e plebea. Quest’odio contro la «tirannide» francese acuisce però, d’altra parte, il suo senso patriot­ tico e lo porta ad auspicare che proprio l’avversione contro la Francia e il suo dominio politico e culturale possa spingere il popolo italiano ad assumere una coscienza naziona­ le, a difendere la propria individualità e la propria libertà; ciò lo induce ad esprimere la speranza che un giorno l’Italia risorga «virtuosa, magnanima, libera e una». L’opera, quindi, oltre a quello polemico, assume anche un carattere profetico, e il poeta indossa le vesti del vate di una rinascita italiana. Sono atteggiamenti del genere che consacreranno il mito di Alfieri presso le successive generazioni risorgimentali. Ed ef­ fettivamente, dal punto di vista storico, il Misogallo è importante perché comincia a delinearsi in esso un fatto culturale nuovo, l’idea di nazione, che, in antitesi al cosmo­ politismo illuministico, sarà una delle componenti essenziali della visione romantica.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

T1

Vivere e morire sotto la tirannide

Temi chiave

• l’impossibilità di rovesciare la tirannide • la necessità in un regime tirannico di astenersi dalla politica e isolarsi

• l’attività intellettuale come surrogato dell’azione • il disprezzo per le masse • il mito del tiranno e dell’uomo libero

da Della tirannide, libro III, capp. III e IV In questi due capitoli si affronta il problema del rapporto fra l’uomo libero e la tirannide.

Cap. III Come si possa vivere nella tirannide.

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Io dunque parlerò a quei pochissimi che, degni di nascere in libero governo fra uomini, si trovano sempre dalla ingiusta fortuna, direi balestrati in mezzo ai turpissimi armenti di coloro che nessuna delle umane facoltà esercitando, nessuno dei dritti dell’uomo conoscendo, o serbandone, si vanno pure usurpando di uomini il nome1. E, dovendo io pur dimostrare a que’ pochissimi, in qual modo si possa vivere quasi uomo2 nella tirannide, sommamente mi duole che io dovrò dar loro dei precetti pur troppo ancora contrari alla libera loro e magnanima natura. Oh, quanto più volentieri, nato io in altri tempi e governi, m’ingegnerei di dar (non coi detti, ma coi fatti bensì) gli esempi del viver libero! Ma poiché vano è del tutto dolersi dei mali che sono o paiono privi d’un presente rimedio3, facciasi come nelle insanabili piaghe, a cui non si cerca oramai guarigione, ma solamente un qualche sollievo. Dico pertanto che allorché l’uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi si trova capace di sentirne tutto il peso, ma per mancanza di proprie ed altrui forze vi si trova a un tempo stesso incapace di scuoterlo, dèe allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto star sempre lontano dal tiranno4, da’ suoi satelliti5, dagli infami suoi

1. si trovano ... nome: si trovano sempre sbalestrati dalla sorte ingiusta in mezzo alle ignobili greggi di coloro che, pur non esercitando nessuna delle facoltà umane, pur non conoscendo o non conservando nessuno dei diritti dell’uomo, usurpano tuttavia il nome di uomini (che non meritano).

2. quasi uomo: lo scrittore dà per scontato che è impossibile vivere da uomo interamente degno di questo nome sotto una tirannide. 3. mali ... rimedio: alle tirannidi presenti Alfieri non scorge possibilità di alternative. 4. allorché ... tiranno: quando l’uomo che vive sotto la tirannide, grazie alla propria intel-

Pesare le parole Balestrati (r. 2) >

Oggi è in uso la forma sbalestrati, composta con s-. Il termine deriva da balestra, arma composta da un arco fissato a croce su un manico (difatti in inglese si dice crossbow, “arco a croce”), per lanciare frecce; a sua volta balestra proviene dal latino ballìstam, macchina militare per scagliare proiettili (dal greco bállein, “lanciare”). Sbalestrare generalmente significa “gettare, scagliare” (es. la barca era sbalestrata qua e là dalle onde; siamo stati sbalestrati da un ufficio all’altro del ministero). Altro senso è “mandare in una sede lontana” (es. gli operai, a causa del trasferimento della fabbrica, furono sbalestrati in una zona disagevole, difficile da raggiungere).

Satelliti

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ligenza, si trova capace di avvertirne tutto il peso, ma per mancanza di proprie forze o di aiuti esterni si trova incapace di scuoterlo, un tale uomo, come primo e fondamentale principio, deve sempre stare lontano dal tiranno. 5. satelliti: quelli che lo attorniano e lo spalleggiano.

(r. 15)

Deriva dal latino satèllitem, “guardia del corpo”. Può avere come qui un senso spregiativo, “chi è al fianco di una persona potente, stando ai suoi servizi e tributandogli totale obbedienza, anche come strumento di azioni disoneste, o di soprusi e ingiustizie” (es. l’onorevole girava sempre circondato dai suoi satelliti; il boss mafioso aveva sempre attorno un nugolo di satelliti). In astronomia è un corpo che ruota intorno a un pianeta (es. la Luna è il satellite della Terra). Oggi orbitano intorno alla Terra molti satelliti artificiali, a scopo di osservazione scientifica, di indicazioni meteorologiche, di telecomunicazioni, di spionaggio. Uno Stato satellite è quello che è soggetto politicamente a un altro: alcuni Stati dell’Est europeo erano detti satelliti dell’Unione sovietica, prima della sua dissoluzione, nel dicembre 1991.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

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onori, dalle inique sue cariche6, dai vizi, lusinghe e corruzioni sue, dalle mura, terreno ed aria persino che egli respira, e che lo circondano. In questa sola severa total lontananza, non che troppo, non mai esagerata abbastanza; in questa sola lontananza ricerchi un tal uomo non tanto la propria sicurezza, quanto la intera stima di se medesimo e la purità della propria fama7, entrambe sempre, o più o meno contaminate allorché l’uomo in qualunque modo si avvicina alla pestilenziale atmosfera delle corti. Debitamente così, ed in tempo, allontanatosi l’uomo da esse, sentendosi egli purissimo, verrà ad estimare se stesso ancor più che se fosse nato libero in giusto governo; poiché liber’uomo egli ha saputo pur farsi in uno servile8. Se costui, oltre ciò, non si trova nella funesta necessità di doversi servilmente procacciare il vitto9, poiché la nobile fiamma di gloria non è spenta affatto nel di lui cuore dalla perversità dei suoi tempi, non potendo egli assolutamente acquistare la gloria del fare, ricerchi con ansietà, bollore ed ostinazione, quella del pensare, del dire e dello scrivere10. Ma, come pensare e dire e scrivere potrà egli in un mostruoso governo, in cui l’una sola di queste tre cose diventa un capitale delitto11? pensare, per proprio sollievo, e per ritrovare in questo giusto orgoglio di chi pensa un compenso alla umiliazion di chi serve; dire ai pochissimi avverati12 buoni, e come tali degnissimi di compassione, di amicizia e di conoscere pienamente il vero; scrivere finalmente, per proprio sfogo, da prima; ma, dove sublimi riuscissero poi gli scritti, ogni cosa allora sacrificare alla lodevole gloria di giovar veramente a tutti od ai più, col pubblicare gli scritti. L’uomo che in tal modo vive nella tirannide, e degno così manifestasi di non vi essere nato, sarà da quasi tutti i suoi conservi13 o sommamente sprezzato ovvero odiatissimo: sprezzato da quelli che, per non aver idea nessuna di vera virtù, stoltamente credono da meno di loro chiunque vive lontano dal tiranno e dai grandi; cioè da ogni vizio, viltà e corruzione; odiato da quegli altri che, avendo malgrado loro l’idea del retto e del bene, per esecrabile viltà d’animo e reità di costumi, sfacciatamente seguono il peggio14. Ma e quello sprezzo di una gente per se stessa disprezzabilissima sarà convincente prova che un tal uomo è veramente stimabile; e l’odio di questi altri, per se stessi odiosissimi, indubitabil prova sarà che egli merita e l’amore e la stima dei buoni. Quindi non dèe egli punto curare né lo sprezzo né l’odio.

6. onori ... cariche: gli onori e le cariche che il tiranno assicura, che sono infamanti per l’uomo libero, perché hanno come prezzo l’asservimento. 7. non tanto ... fama: l’uomo libero deve star lontano dalle corti non tanto per non correre pericoli, quanto per conservarsi puro dalla contaminazione della tirannide e per mantenere intatta la stima di se medesimo. 8. liber’uomo ... servile: ha pur saputo rendersi uomo libero in un governo servile, che rende schiavi. 9. servilmente ... vitto: non ha bisogno di

guadagnarsi da vivere perché vive di rendita, quindi non deve piegarsi a servire il tiranno. La condizione di liber’uomo implica un’aristocrazia non solo spirituale ma anche materiale, di classe. 10. gloria ... scrivere: l’uomo libero non può conquistarsi la gloria con l’azione, perché nella tirannide non vi è possibilità di agire; dovrà quindi accontentarsi della gloria che nasce dall’attività intellettuale. 11. capitale delitto: la tirannide non consente la libertà di pensiero e di espressione, anzi la considera un delitto da perseguire con la massima pena.

12. avverati: provati. 13. conservi: compagni di schiavitù, la maggioranza di coloro che si adattano alla tirannide. 14. sprezzato ... peggio: disprezzato (sprezzato) da quelli che, non avendo alcuna idea dell’autentica virtù, credono stupidamente inferiore a loro chiunque vive lontano dal tiranno e dai nobili della sua corte, cioè da ogni vizio, viltà e corruzione; odiato da quegli altri che, pur avendo loro malgrado l’idea del giusto e del bene, sfacciatamente seguono il peggio per esecrabile viltà d’animo e disonestà (reità) di costumi.

Pesare le parole Avverati (r. 31)

> Avverare è qui usato nel senso di “provare per vero”; è

ormai in disuso, sostituito da verificare, “accertare l’esistenza, la verità, l’esattezza di qualche cosa” (es. le indicazioni del pentito furono accuratamente verificate dalla polizia). La forma riflessiva avverarsi significa “compiersi,

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realizzarsi” (es. nessuna delle previsioni per il futuro formulate all’inizio dell’anno dai “maghi” si è avverata). Verificarsi vuol dire comunemente “avvenire” (es. si sono verificati alcuni fatti inquietanti).

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

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Ma, se questo sprezzo e quest’odio degli schiavi si propaga fino al padrone, quel vero e solo uomo, che ne merita il nome e i doveri ne compie, per via dello sprezzo può essere sommamente avvilito nella tirannide; e per via dell’odio può esservi ridotto a manifesto e inevitabil pericolo15. Questo libricciuolo non è scritto per codardi16. Coloro che con una condotta di mezzo fra la viltà e la prudenza non se ne possono vivere sicuri, venendo pur ricercati nella loro oscura e tacita dimora dall’inquirente autorità del tiranno, arditamente si mostrino tali ch’ei sono; e basti per loro discolpa di poter dire che non hanno essi ricercati i pericoli, ma che, trovatili, non debbono né vogliono né sanno sfuggirgli17.

Cap. IV Come si debba morire nella tirannide. 55

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Benché la più verace gloria, cioè quella di farsi utile con alte imprese alla patria ed ai concittadini, non possa aver luogo in chi, nato nella tirannide, inoperoso per forza ci vive18, nessuno tuttavia può contendere a chi ne avesse il nobile ed ardente desiderio, la gloria di morire da libero, abbenché pur nato servo19. Questa gloria, quantunque ella paia inutile ad altrui, riesce nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio, e come rarissima [...]. E siccome, là dove ci è patria e libertà, la virtù in sommo grado sta nel difenderla e morire per essa, così nella immobilmente radicata tirannide non vi può essere maggior gloria che di generosamente morire per non viver servo. parmi adunque che, nei nostri scellerati governi, i pochissimi uomini virtuosi e pensanti vi debbano vivere da prudenti, finché la prudenza non degenera in viltà: e morire da forti, ogni qual volta la fortuna o la ragione a ciò li costringa. Un cotal poco verrà aumentata così, con una libera e chiara morte, la trapassata obbrobriosa vita servile20.

15. se questo ... pericolo: se a disprezzare e a odiare non sono solo i sudditi, ma anche il tiranno, l’uomo libero, che è il solo a meritare il nome di uomo e a rispettarne i doveri, per colpa del disprezzo può essere umiliato e per colpa dell’odio può correre gravi pericoli (cioè può essere perseguitato, incarcerato, ucciso).

16. Questo ... codardi: cioè gli insegnamenti del trattato sono indirizzati solo a chi sa anche affrontare i pericoli pur di mantenersi libero e incontaminato. 17. Coloro ... sfuggirgli: coloro che, pur avendo scelto, per viltà o prudenza, una condotta cauta, vengono egualmente colpiti dal-

le persecuzioni del tiranno, abbiano il coraggio di dichiararsi quali sono; per discolparsi della loro condotta poco eroica potranno dire che, anche se non hanno sfidato i pericoli, una volta colpiti dalla persecuzione hanno saputo affrontarla a viso aperto. 18. la più verace ... ci vive: ribadisce che sotto la tirannide è impossibile compiere grandi imprese, perché l’oppressione condanna all’inerzia. 19. nessuno ... servo: nessuno tuttavia può impedire la gloria di morire da uomo libero a chi ne avesse il nobile ed ardente desiderio, benché sia nato schiavo. 20. Un cotal ... servile: verrà così un poco nobilitata, con una libera e gloriosa morte, la vergognosa vita da schiavo del passato.

Vincenzo Camuccini, Morte di Giulio Cesare, 1798, olio su tela, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo L’impossibilità di mutare la situazione

L’astensione e l’isolamento

L’attività intellettuale come surrogato dell’azione

Il conflitto con gli uomini comuni

Lo scontro con il «tiranno»

I miti centrali della tragedia

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> Pessimismo sull’azione e attività intellettuale

Il fondamento delle considerazioni alfieriane è un assoluto pessimismo, che non consente di scorgere rimedi e alternative alla realtà presente e quindi prospetta, in chi rifiuta la ti­ rannide, un’impotenza totale a modificare la situazione di fatto. Come si vede, lo scrittore intende riferirsi ad una realtà storicamente determinata, quella in cui egli vive, l’assoluti­ smo monarchico dell’ancien régime settecentesco. Tuttavia non vi è alcun preciso riferi­ mento storico, alcuna analisi di un concreto regime politico: il conflitto uomo libero­tiran­ no si proietta su uno sfondo astratto, atemporale, dove sembrano scontrarsi non forze politiche ben definite, ma entità metafisiche, fantasmi della mente del poeta. Poiché la tirannide si presenta come realtà definitivamente data, inattaccabile, e qualun­ que azione intesa a modificarla appare impossibile e vana, l’unica forma di libertà possi­ bile consiste nel non compromettersi con essa, nel mantenersi incontaminati; e per rag­ giungere questo fine non resta che astenersi da ogni partecipazione, ritirarsi in una sdegnosa solitudine. Il carattere totalitario della tirannide non consente che questo tipo di libertà “in negativo”, non una libertà “in positivo”, che si esplichi nell’agire civile capace di incidere sulla realtà. Il bisogno di azione impossibile è compensato dall’attività intellettuale, «pensare», «dire» e «scrivere». L’attività intellettuale si offre come surrogato dell’azione. Nella dedica «alla libertà», anteposta al trattato, lo scrittore afferma che per nessun altro motivo scrive, se non perché i suoi «tristi tempi» gli vietano di «fare». Anche qui il risultato è soprattutto lo sfogo dell’ira magnanima del «liber’uomo». Ma il pessimismo ferreo sembra attenuarsi un poco là dove Alfieri ammette che scritti «sublimi», venendo pubblicati, possono «giovare veramente a tutti od ai più». Lo scrittore affronta qui un nodo problematico centrale, che lo interessa da vicino, la collocazione e la funzione dell’intellettuale nella società dell’as­ solutismo. La sua visione oscilla tra un senso di impotenza totale e la fiducia che la parola pubblicata possa avere almeno un’incidenza morale, tra la concezione della letteratura come sfogo privatissimo, che resta chiuso nell’ambito del solo soggetto, e una forma di azione civile delle lettere. Azione che però, come possiamo desumere da altri luoghi delle opere alfieriane, non è indirizzata a smuovere gli animi nell’immediato, ma a parlare ai posteri, in una sorta di profezia intesa a preparare i destini futuri.

> Individualismo aristocratico e titanismo

Questa posizione di sdegnoso isolamento porta necessariamente al conflitto con la massa degli uomini comuni, che si adattano perfettamente alla tirannide, per ottusità o per astuzia interessata. Verso gli uomini comuni Alfieri ostenta un atteggiamento sprezzante, li chiama «turpissimi armenti», che usurpano il nome di uomini, «schiavi». La libertà interiore nei regimi tirannici è privilegio di pochi individui superiori, dal forte sentire e dall’animo grande. Si manifesta qui in piena evidenza l’esasperato individualismo aristocratico che caratterizza le posizioni politiche (o forse sarebbe più esatto dire “impolitiche”) di Alfieri. Il corollario indispensabile di questo individualismo è l’atteggiamento titanico ( Il titanismo, p. 579). La ricerca di purezza incontaminata porta necessariamente il «liber’uomo» a scontrarsi col tiranno: ebbene, la sua magnanimità si rivela proprio nella capacità di sfida­ re il potere che opprime, anche a costo della morte. È nel saper accettare la morte che, come Alfieri teorizza nel capitolo IV, si manifesta veramente la grandezza dell’uomo libero. Solo con la morte ci si può liberare dalla contaminazione dell’esser nati schiavi di un tiran­ no. Il nulla è la vera realizzazione di un’idea di libertà totalmente negativa. Questi due capitoli mettono perfettamente in evidenza quanto si osservava, come il giovani­ le trattato non sia propriamente una riflessione politica che affronti problemi della realtà contemporanea, ma sia piuttosto uno sfogo passionale e fantastico, che dai dati reali prende semplicemente l’avvio per poi elaborare i miti centrali che nutrono e nutriranno ancora in seguito la produzione tragica di Alfieri: il mito del «tiranno» e quello dell’«uomo libero».

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Esercitare le competenze cOmPrenDere

> 1. A chi si rivolge Alfieri nel brano? Qual è la sua intenzione? > 2. Qual è il «primo fondamentale precetto» che lo scrittore sente di poter dare a chi vive in un regime tirannico? > 3. Quali alternative ha l’uomo libero che vive nella tirannide, quando gli viene preclusa la possibilità di agire? AnALIZZAre

> 4. > 5.

Individua le metafore presenti nel testo e spiegane la funzione. Rintraccia nel brano le ricorrenze del termine «gloria» e chiarisci il significato che esso assume nella riflessione di Alfieri. stile

Lessico

APPrOfOnDIre e InTerPreTAre

> 6.

scrivere In un testo di circa 10 righe (500 caratteri) rifletti sul genere letterario dell’opera, stando ai dati che emergono dal brano antologizzato (la finalità dichiarata e l’impostazione del discorso). Si può definire il Della tirannide un trattato di scienza politica, basato su una rigorosa analisi della realtà? In che cosa quest’opera si differenzia, ad esempio, dal Principe di Machiavelli? > 7. Testi a confronto La seguente affermazione di Guicciardini (Ricordi, 220) va nella direzione opposta rispetto all’atteggiamento proposto da Alfieri:

Credo sia uficio di buoni cittadini, quando la patria viene in mano di tiranni, cercare d’avere luogo con loro per poter persuadere el bene e detestare el male; e certo è interesse della città che in qualunque tempo gli uomini da bene abbino autorità. E ancora che gli ignoranti e passionati di Firenze l’abbino sempre intesa altrimenti, si accorgerebbono quanto pestifero sarebbe el governo de’ Medici se non avessi intorno altri che pazzi e cattivi.

Secondo te gli uomini che vivono sotto un regime autoritario devono isolarsi e astenersi il più possibile dalla partecipazione alla vita pubblica, oppure devono collaborare con il potere per cercare di limitarne gli effetti negativi? Quale altra posizione possono assumere? Confronta la tua opinione con quella dei compagni di classe.

microsaggio

Il titanismo Origine del termine

La ribellione, l’ansia di grandezza e di libertà

Gli eroi di Tasso

Il titanismo è un atteggiamento tipico del Romanticismo, ma fa già la sua piena comparsa a fine Settecento, in certe tendenze della cultura preromantica. Il termine deriva dalla mitologia greca: i Titani erano dei giganti, figli di Urano e di Gea, che avevano osato ribellarsi a Zeus, dando la scalata all’Olimpo; tra di essi Prometeo, per portare agli uomini il fuoco, cioè la civiltà, sfidò il divieto del re degli dei e per questo atto temerario fu punito con una terribile pena: fu incatenato alle rocce del Caucaso, mentre un’aquila gli rodeva il fegato. Con riferimento ai ribelli del mito, “titanismo” fu chiamato un atteggiamento di ribellione e di sfida ad ogni forma di autorità e di potere oppressivo che gravi sugli uomini: Dio, il destino, la tirannide regale, la legge, le convenzioni sociali. È una ribellione che nasce da uno smisurato orgoglio, da un’ansia di sovrumana grandezza e di infinita libertà, che non tollera limiti o costrizioni di sorta; una rivolta generosa, che non parte da un calcolo delle forze e delle probabilità di vittoria, ma osa sfidare la potenza oppressiva anche se sa di essere votata ineluttabilmente alla sconfitta. Proprio per questo però la sfida appare più eroica, e lo sconfitto nella magnanima impresa ne ricava un alone di nobile grandezza. Il “titano” è vinto materialmente, ma non domato spiritualmente, e, se pur prostrato dalla soverchiante potenza oppressiva, conserva egualmente il suo contegno di sfida, senza mai piegarsi. Atteggiamenti del genere cominciano a preannunciarsi in alcuni personaggi della Gerusalemme liberata di Tasso, come Argante e Solimano, che, nel loro sconfinato orgoglio, confidando solo nelle loro forze, si ergono sprezzanti a sfidare la potenza di Dio (non è un caso che Tasso sia stato poi particolarmente

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Il Satana di Milton Il masnadiere di Schiller

Il titanismo alfieriano

Foscolo

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amato dai romantici). Un atteggiamento simile si ripresenta nel Seicento col Paradiso perduto di John Milton (1667), dove Satana conserva anche nella sconfitta l’orgoglio della titanica impresa tentata nel ribellarsi a Dio e appare «maestoso sia pur nella rovina», circondato dal fascino maledetto della sua colpa. Il Satana di Milton esercita una forte suggestione nell’età romantica, a partire sin dal giovane Friedrich Schiller che nel 1781, nel clima inquieto dello Sturm und Drang, dedica una tragedia, I masnadieri, alla figura di un grande ribelle sconfitto. L’eroe schilleriano, Karl Moor, giovane di aristocratica famiglia nella Germania settecentesca, è un individuo eccezionale, insofferente di ogni limite e convenzione sociale, animato da un generoso sdegno contro l’oppressione tirannica dei principi assoluti e contro la servile meschinità della borghesia che lo circonda; perciò sceglie la violazione radicale della legge, la vita del brigante e la pratica estrema del male, come unico mezzo per soddisfare la sua ansia di infinita grandezza e libertà: «La legge non ha mai prodotto un grand’uomo, ma la libertà cova e fa schiudere i colossi e i grandi eventi»; «il mio spirito è assetato di azione, il mio petto di libertà. Assassini, banditi! con queste parole, ecco, ho posto sotto i piedi la legge» (traduzione di Barbara Allason e Maria Donatella Ponti). La rivolta contro la legge sociale si allarga poi, in un processo necessario, in obbedienza al mito di Satana, ad una sfida metafisica contro l’autorità stessa di Dio: Karl, attraverso la scelta dell’illegalità e del delitto, vuol rivaleggiare con Dio come giustiziere in terra, sostituendosi alla sua provvidenza, regalando il bottino delle sue ruberie ai miseri, riparando torti e soprusi dei signori feudali, punendo ministri rapaci ed inquisitori crudeli. Proprio qui però scopre la vanità del suo titanico disegno: la sua è solo una disperata negazione, che lo costringe a sterminare persone inermi e deboli, vecchi, malati e fanciulli, come nell’episodio in cui incendia una città per liberare un suo fedele seguace condannato alla forca. Misurando la sua sconfitta, Karl Moor sente anche il peso della colpa, che lo trasforma in una creatura maledetta, respinta dall’ordine del creato e dallo stesso ordine sociale («Il mondo tutto una famiglia, e lassù un padre. Non padre per me [...]. Io solo sono ripudiato, io solo cacciato dalle fila dei puri, solo a me è negato il dolce nome di figlio»; trad. cit.). Ma anche se il suo sogno di libertà e di grandezza si rivela impossibile, non per questo l’eroe perde la sua magnanimità, anzi proprio l’inevitabile sconfitta a cui è destinata la sua temeraria impresa accresce il fascino che emana dalla sua figura, come avviene nel suo archetipo, il Satana di Milton; e la grandezza eroica da lui conservata anche nella rovina è confermata dal suo andare volontariamente incontro alla morte. In Alfieri si possono riscontrare atteggiamenti titanici che, sia pure in perfetta autonomia, sono collocabili accanto a quelli sin qui esaminati. Vi è in lui un senso orgoglioso della propria eccezionalità spirituale, in contrapposizione ad un’umanità mediocre e vile di schiavi, una tensione ad una grandezza sovrumana, un’ansia di affermazione assoluta del proprio io, che si traduce in insofferenza per ogni costrizione, in avversione esasperata nei confronti dell’oppressivo assolutismo dei suoi tempi. Per questo nel trattato Della tirannide e in molte tragedie lo scrittore traccia le linee di una figura eroica che generosamente si erge a sfidare la potenza avversa, anche a prezzo della vita. La sfida è tanto più magnanima in quanto votata a sicura sconfitta, poiché il potere tirannico è invincibile; ma l’eroe, anche se vinto, non è mai domato interiormente, ed affronta senza esitazione il sacrificio e la morte pur di affermare la sua scelta di libertà e la sua incontaminata purezza. Atteggiamenti titanici analoghi compariranno ancora in scrittori del primo Ottocento, che saranno profondamente suggestionati dall’esempio alfieriano. Foscolo, con il protagonista autobiografico delle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802), traccia il ritratto di un vero e proprio eroe alfieriano, smanioso di grandezza e libertà, insofferente della viltà dei tempi, ma inesorabilmente schiacciato dalla potenza superiore dell’oppressione tirannica e indotto a scegliere la morte come suprema sfida e rivendicazione della propria purezza. Il titanismo ricorre anche nel giovane Leopardi che, nella canzone Ad Angelo Mai (1820), tributa omaggio proprio ad Alfieri, raffigurandolo come «Allobrogo feroce», «indegno» di sua «codarda età», a cui dal cielo è venuta «maschia virtù», non dalla sua «stanca e arida terra», e che «privato, inerme (memorando ardimento)» ha osato muovere «guerra a’ tiranni». Titanico è anche il contegno del Leopardi più tardo che, in Amore e Morte (1832), afferma di essere pronto ad affrontare la morte «erta la fronte, armato, / e renitente al fato», e che nella Ginestra (1836) prospetta una titanica lotta dell’umanità intera, stretta in una solidale unità, contro la natura nemica e persecutrice degli uomini.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

L e t t e r a t u r a e Società

T2

Libertà dell’intellettuale e condizionamento economico Testo e realtà da Del principe e delle lettere, libro II, cap. I

Né cortigiano, né professionista delle lettere, la figura di scrittore propugnata da Alfieri è aristocratica e distante dai tratti che assumerà in futuro tale ruolo.

Il tema centrale del trattato è l’indipendenza dell’intellettuale dal potere, nell’età dell’assolutismo monarchico. Le pagine che riportiamo affrontano un aspetto del problema di grandissima rilevanza, in un periodo in cui si andava delineando la figura dello scrittore borghese che vive dei guadagni della propria professione intellettuale: l’indipendenza della scrittura letteraria dalle necessità economiche.

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Lo scrivere, è una necessità di bisogno1 in molti; e questi per lo più non possono essere veramente scrittori, né io li reputo tali: lo scrivere è una necessità di sfogo2 in alcuni: e questa, ben diretta, modificata, e affatto scevra di ogni altro bisogno3, può spingere l’uomo ad essere quasi che un Dio. Spessissimo però accade (pur troppo!) che i sommi ingegni nascono necessitosi4 di pane. Né io certamente imprendo5 qui a fare l’apologia dei ricchi; i quali anzi, per lo più nascono di assai meno robusta natura, così di corpo, come d’ingegno: vorrei bensì persuadere e convincere gli scrittori tutti, che non possono essi ottenere gloria verace con fama intatta e durevole, né quindi mai cagionare utilità vera e massima nei loro lettori, se il loro scrivere non riesce alto, veridico, libero, e interamente sciolto da ogni secondo meschino fine. parlando io dunque ai grandi ingegni (ma ai soli e pochi grandissimi) che per ingiustizia di fortuna si trovano esser nati poveri, dico loro; che se vengono a conoscere se stessi in tempo, debbono da prima, ove sia possibile, con qualunque altra arte migliorare la sorte, per poi potersi, per mezzo della indipendenza, valere del loro ingegno liberamente. E di ciò gli scongiuro, per quel sommo utile, che dai loro scritti ne può ridondare6 agli uomini tutti: e per quella purissima gloria, che ad essi ne dee ridondare. Ma, se non possono assolutamente procedere nel modo su divisato7, li consiglio a desistersi dalla impresa dello scrivere, e a cercare altri mezzi per campare; che tutti, in ogni tempo e governo, riescono a ciò più atti che non il mestier delle lettere8. In una parola in somma, io dico; che all’ingegno dee bensì la ricchezza servire, ma non mai alla ricchezza l’ingegno9. Se il più nobile, se il più elevato, il più sacro, e quasi divino ufficio10 tra gli uomini si è quello di voler loro procacciare dei lumi11, dilettare la loro mente, infiammarli di amore di vera virtù, e di nobile gara in ben fare; ardirà egli mai eleggersi12 ad una così importante impresa colui, che per necessità vien costretto ad essere, o a farsi vile13? in molte e in quasi tutte le democrazie, sono esclusi dai voti14 i nulla tenenti: i Greci liberi proibivano ai servi l’esercitare perfino la pittura: e all’esercizio di una così nobile arte, quale è lo scrivere, in una repubblica così augusta, quale esser dee quella delle sacre lettere,

1. necessità di bisogno: molti scrivono cioè per ricavare il necessario per vivere. 2. necessità di sfogo: altri scrivono solo per esprimere se stessi, il proprio sentire. 3. scevra ... bisogno: liberata da ogni necessità materiale. 4. necessitosi: bisognosi. 5. imprendo: inizio. 6. ridondare: derivare.

7. divisato: indicato. 8. tutti ... lettere: tutti gli altri mezzi, in ogni epoca e sotto ogni forma di governo, sono più adatti a procurare da vivere che non il mestiere delle lettere. 9. all’ingegno ... l’ingegno: la ricchezza deve servire all’ingegno (procurandogli le condizioni perché possa manifestarsi), mai l’ingegno deve servire alla ricchezza (l’uso dell’ingegno non de-

ve cioè mai servire a conquistare la ricchezza). 10. ufficio: compito. 11. lumi: conoscenze (è un termine tipico del linguaggio illuministico). 12. eleggersi: scegliersi. 13. farsi vile: dedicarsi al guadagno è da Alfieri ritenuto degradante; vile è nel senso latino, privo di valore, spregevole. 14. dai voti: dal diritto di voto.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

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si ammetteranno i desideranti, i domandanti, o gli abbisognosi d’altro, che di schietta e sublime gloria? non credo ingiusta una tale esclusione; ed i fatti mel15 provano. O i grandissimi scrittori erano agiati per se stessi; o erano contenti della loro povertà; o, se da ciò sono stati diversi, essi sono stati meno grandi di tutto quel più, che a loro è toccato di fare per migliorar la propria fortuna. E chi togliesse a Virgilio le doti16 d’augusto e dei Cesari; all’ariosto e al Tasso le Estensi17; e a tanti altri scrittori le adulazioni tutte, o i timidi loro riguardi, non accrescerebbe egli di gran fatto la gloria agli autori, e ai lettori di gran lunga la luce18, il diletto, e l’utilità? [...] Quell’uomo privato, che potrà in se stesso riunire la indipendenza tutta del principe (ma più nobile assai, e più legittima, col non obbedire che a moderate e savie leggi) e riunire in sé la educazione del cittadino, l’ingegno, i costumi, la conoscenza degli uomini, l’amor del retto e del vero; quegli, a uguale capacità, avanzerà19 di gran lunga quanti altri ottimi scrittori ne siano in altre circostanze mai stati. In somma, io non posso nel cuore di un vero scrittore dar adito ad altro timore, che a quello di non far bene abbastanza; né ad altro sperare, che a quello di riuscire utile altrui, e glorioso a se stesso. ammettendo un tale principio, si esamini se il sublime scrittore nel principato potrà mai essere un ente vissuto fra i chiostri20; un segretario di cardinale; un membro accademico; un signor di corte; un abate aspirante a beneficî; un padre, o figlio, o marito; un legista; un lettore21 di università; un estensore di fogli periodici vendibili22; un militare; un finanziere; un cavalier servente; o qualunque altr’uomo in somma, che per le sue serve circostanze sia costretto a temere altro che la vergogna del male scrivere23, o a desiderare altro che il pregio e la fama della eccellenza. Rimanendo per se stessa esclusa da quest’arte una così immensa turba di non-uomini, a pochissimi uomini mi rimane a parlare. a quelli dunque che letterati veri ardiscono e possono farsi, dico, che senza scapito massimo dell’arte, non possono essi lasciarsi proteggere da chi che sia24. Ed ella è cosa certa pur troppo, che se essi faranno interamente il severissimo loro dovere, di professar sempre e dire con energia la verità, non dureranno25 fatica veruna per sottrarsi da ogni protezione: tolta però sempre quella del pubblico illuminato26, quando perverrà ad esserlo; protezione, la sola, che onoratamente si possa e bramare e ricevere.

15. mel: me lo. 16. le doti: i beni a lui assegnati, grazie al favore di Augusto. 17. le Estensi: sottinteso “le doti”. 18. la luce: sinonimo di “lumi” ( nota 11). 19. avanzerà: supererà. 20. ente ... chiostri: una persona vissuta nel chiostro, un monaco.

21. lettore: docente. 22. un estensore ... vendibili: un giornalista. 23. o qualunque ... scrivere: il vero scrittore deve temere solo la vergogna di scrivere male; tutti quelli elencati prima invece sono schiavi di altre necessità, non possono dedicarsi in piena libertà all’attività intellettuale. 24. senza scapito ... sia: non possono cerca-

re la protezione di qualcuno, senza arrecare danno gravissimo all’arte, perché perdono la loro libertà, che dell’arte è la condizione essenziale. 25. dureranno: sosterranno. 26. pubblico illuminato: il pubblico capace di intendere la vera arte, che è libera e disinteressata.

Analisi del testo

> Gli scrittori non liberi

Il rifiuto dell’intellettuale cortigiano...

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Il passo affronta il problema della libertà dell’intellettuale da condizionamenti esterni. I più dannosi secondo Alfieri sono quelli imposti dal potere oppure dalla necessità di gua­ dagnarsi da vivere. Egli respinge la figura dell’intellettuale cortigiano, che è costretto a ingraziarsi il signore da cui dipende, quindi non è libero né nei suoi comportamenti quoti­ diani né in ciò che scrive, e arriva a dire che grandi poeti come Virgilio o Tasso sarebbero

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri ... e dell’intellettuale di professione

«Il pregio e la fama dell’eccellenza» come unici fini

stati più grandi se non avessero dovuto dipendere da Augusto o dagli Estensi; respinge però anche la figura dell’intellettuale che deve lavorare per vivere e afferma addirittura che un grande ingegno, se non riesce ad ottenere l’indipendenza economica, è bene che rinun­ ci a scrivere e cerchi altri mezzi «per campare».

> L’ideale di scrittore

Il suo ideale è lo scrittore che opera «sciolto da ogni secondo meschino fine»: il vero scrit­ tore deve avere come fine soltanto «il pregio e la fama della eccellenza», e può raggiunger­ lo fornendo conoscenze («lumi») agli uomini, dilettandoli, infiammandoli alla virtù, tutte attività sublimi a cui non può dedicarsi chi per necessità è costretto a degradarsi perse­ guendo un guadagno (facendosi «vile», cioè di poco valore, spregevole).

> un ideale aristocratico Alfieri, intellettuale aristocratico

Il pericolo di una letteratura ridotta a merce

Ne consegue che grande scrittore può essere solo chi è del tutto libero da necessità econo­ miche, non è costretto a divenire cortigiano o a praticare qualche professione (Alfieri fa di esse un elenco molto puntiglioso alle righe 43­49, con un tono sprezzante, gratificando coloro che le praticano con l’epiteto di «non­uomini», r. 50). Come si vede, queste pagine del trattato propugnano un ideale di scrittore estremamente aristocratico, che viene a coin­ cidere con la condizione di Alfieri stesso: veramente libero è solo lo scrittore nobile di nascita, che può vivere di cospicue rendite e dedicarsi così interamente all’attività intellet­ tuale, senza essere disturbato da meschine esigenze pratiche. È un tipo di intellettuale che già nel Settecento andava esaurendosi, e che nel secolo successivo finirà gradatamente per scomparire, con il prevalere appunto di scrittori che per vivere praticano varie professioni (il professore, il giornalista, l’avvocato...), oppure che mirano a trarre sostentamento solo dai proventi della loro produzione letteraria: Zola, nel 1880, arriverà ad esaltare i diritti d’autore che consentono allo scrittore autentica libertà di espressione. Si profilerà però, e di questo Zola non terrà abbastanza conto, il pericolo della riduzione della letteratura a merce, col conseguente condizio­ namento del mercato sulla produ­ zione di chi scrive. Si può notare che Alfieri non pren­ de in considerazione la possibilità che l’intellettuale tragga guadagni da ciò che scrive: nel suo tempo era in effetti una condizione anco­ ra al di là da venire (se si eccettua una figura come quella del “poeta di teatro”, rappresentata esem­ plarmente da Goldoni, cap. 7, p. 396). Né il tragediografo scorge ancora la presenza di un pubblico così «illuminato» da poter soste­ nere lo scrittore ideale da lui va­ gheggiato, anche se non esclude che si potrà formare in futuro.

Pietro Longhi, La lezione di geografia, XVIII secolo, olio su tela, Padova, Musei Civici agli Eremitani.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Esercitare le competenze cOmPrenDere

> 1. Quale atteggiamento dell’autore nei confronti degli scrittori non indipendenti economicamente emerge dal brano? Rispondi facendo esplicito e diretto riferimento al testo.

> 2. Per quale motivo si fa cenno ai costumi dei greci? > 3. Quale idea del pubblico di lettori emerge dal brano? Rispondi facendo esplicito e diretto riferimento al testo. AnALIZZAre

> 4.

stile Quali figure retoriche si possono riconoscere nelle espressioni «che all’ingegno […] l’ingegno (r. 20) e «non-uomini» (r. 50)? In che cosa consistono? > 5. Lingua Individua nel testo gli aggettivi qualificativi di grado superlativo (relativo e assoluto): quale funzione hanno sul piano espressivo e in relazione al contenuto?

APPrOfOnDIre e InTerPreTAre

> 6.

esporre oralmente Confronta la posizione dell’autore emersa dal brano con le concezioni, riguardo il tema proposto, espresse e/o incarnate personalmente da Parini e dagli scrittori illuministi (max 8 minuti).

Per IL recuPerO

> 7. Analizza i vocaboli riportati nella tabella e indica, per ciascuno di essi, uno o più sinonimi che li possano sostituire nel brano. riga

Vocabolo

sinonimi

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apologia

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ingegno

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meschino

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schietta

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riguardi

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diletto

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scapito

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> 8. Esamina le seguenti proposizioni subordinate e indica il loro valore:

a) «per poi potersi, per mezzo della indipendenza, valere del loro ingegno liberamente» (rr. 14-15); b) «se non possono assolutamente procedere nel modo su divisato» (rr. 16-17); c) «di voler loro procacciare dei lumi» (r. 22); d) «che potrà in se stesso riunire la indipendenza tutta del principe» (rr. 36-37); e) «Ammettendo un tale principio» (r. 43); f) «se il sublime scrittore nel principato potrà mai essere un ente» (rr. 43-44). PAssATO e PresenTe Il diritto d’autore: democratico o antidemocratico?

> 9. La libertà con cui oggi qualsiasi utente della rete usufruisce indebitamente e illegalmente di contenuti

culturali (anche di altissimo livello) invita a riflettere sul significato del diritto d’autore, che garantisce proventi economici a scrittori e artisti. Dopo esserti documentato sulla legislazione vigente in materia, affronta la tematica in una discussione in classe con l’insegnante e i compagni, riflettendo anche sulle considerazioni scaturite dall’analisi del brano alfieriano.

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Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Interpretazioni critiche

natalino sapegno Alfieri politico Secondo Sapegno il poeta, maturato in un ambiente nobiliare fra i più arretrati politicamente e intellettualmente come quello sabaudo, non riesce mai a legare la sua attività con le esigenze della società europea contemporanea ed appare perciò come uno sradicato, un solitario. Le sue posizioni sono quelle tipiche di un radicalismo intellettuale caratterizzato da individualismo, rivoluzionarismo astratto e protesta meramente verbale. Più che politica, la sua è “antipolitica”: i temi ricavati dal pensiero illuministico sono trasformati in idoli astratti e sublimi e perdono ogni efficacia sul terreno pratico.

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Natalino Sapegno offre un significativo esempio di critica “sociologica”. In queste pagine fondamentali il complesso delle posizioni ideologiche espresse da Alfieri viene collegato con la collocazione sociale dello scrittore e con il contesto in cui vive.

L’Alfieri è fra tutti i letterati italiani della seconda metà del Settecento, il più «sradicato», quello che ha più scarsi e malsicuri appigli con la sostanza della storia e della cultura contemporanea. [...] Maturato in un ambiente nobiliare fra i più arretrati politicamente e intellettualmente della penisola, non giunge mai a legare la sua attività con le esigenze di progresso della società europea contemporanea nei suoi centri di più attiva e feconda fermentazione. [...] Il dilettantismo aristocratico, che sfiora, senza approfondirli e senza vagliarli alla prova di una situazione reale, i temi della problematica europea del ’700; la presenza di un tem­ peramento orgoglioso e ribelle e al tempo stesso schivo e scontroso, scarsamente proclive ai contatti umani; la fedeltà infine aspramente e volitivamente conquistata a una tradizione letteraria, che è fra tutte la più «chiusa» e la più povera di radici popolari, si alleano in lui a costituire il prototipo di un radicalismo intellettuale esemplarmente coerente nei suoi li­ miti e ben definito nei suoi termini di estremo individualismo, di rivoluzionarismo astratto e di protesta meramente verbale. [...] È su questo terreno di cultura astratta che sorge e si sviluppa quella che fu chiamata l’an­ tipolitica alfieriana; quel suo modo singolare di accogliere ed elaborare talune parziali ri­ sultanze della civiltà illuministica, di riprenderne ed isolarne taluni motivi – libertà, pole­ mica antitirannica, governo di popolo – elevandoli a quel grado di estrema purezza che li trasforma in idoli astratti e sublimi e al tempo stesso toglie ad essi ogni efficacia sul terreno pratico. Alla concezione fortemente politica, e cioè obbiettiva positiva problematica, degli illuministi Alfieri contrappone la sua dialettica astratta fino all’assurdo di tirannide e liber­ tà, in cui i due termini finiscono col confondersi e far tutt’uno; alla cauta e prudente rifles­ sione dei «gelati filosofanti»1, la prepotenza del suo sentimento; al loro ottimismo operante e articolato nella realtà, il suo eroico quanto infecondo pessimismo. Potrà così esaltarsi nella consapevolezza della sua fiera coerenza; concedersi l’illusione di una guerra combat­ tuta in ogni tempo con il medesimo ardore, senza patteggiamenti e compromessi, contro ogni specie di tiranni. Di fatto la sua posizione è fin dal principio inconsapevolmente rea­ zionaria. L’ignoranza e il rifiuto di ogni distinzione gli impediscono di scorgere nel proces­ so reale le istanze veramente e concretamente progressive; più tardi la sua fedeltà, genero­ sa e commovente fin che si vuole, a un ideale purissimo ed inattuabile e la sua inettitudine

1. «gelati filosofanti»: si riferisce ad un’espressione usata da Alfieri in una lettera a Teresa Mocenni Regoli del 10 dicembe 1796; la formula esatta è però «gelati filosofisti».

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

a rendersi conto delle contingenze e delle dure necessità di una lotta senza quartiere lo condurranno addirittura ad avversarle2. N. Sapegno, Alfieri politico, in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Laterza, Bari 19663 (il saggio era comparso originariamente su “Società” nel 1949) 2. ad avversarle: allude all’ostilità di Alfieri per la Rivoluzione francese e i suoi sviluppi.

Esercitare le competenze cOmPrenDere

> 1. Spiega perché, secondo Sapegno, Alfieri è «fra tutti i letterati italiani della seconda metà del Settecento, il più “sradicato”» (r. 1).

> 2. Come giunge il critico ad affermare che la posizione di Alfieri è «inconsapevolmente reazionaria» (rr. 2728)?

AnALIZZAre

> 3. Verifica nel testo l’occorrenza del concetto di “astrattezza”, e spiegane l’importanza nell’ambito della interpretazione del critico e della produzione di Alfieri rappresentata dai brani in antologia. > 4. Lessico Spiega il preciso significato dei termini «dilettantismo» e «radicalismo» (rr. 7 e 12). APPrOfOnDIre e InTerPreTAre

> 5.

esporre oralmente In quale testo presente in antologia è possibile, a tuo parere, osservare meglio lo “sradicamento” di Alfieri? Motiva la tua risposta (max 5 minuti). > 6. contesto: storia Spiega perché, secondo il critico, i motivi che Alfieri riprende e isola – «libertà, polemica antitirannica, governo di popolo» (rr. 17-18) – sono tipici della civiltà illuministica.

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L’aspra critica alla borghesia

La polemica antilluministica

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Le Satire e le Commedie L’acre polemica contro la realtà contemporanea compare anche nelle Satire, scritte in terzine tra il 1786 e il 1797, con l’impiego di una forma aspra, dura e bizzarra. Rispetto alla Tirannide si sente anche qui un radicale mutamento di indirizzo. Tornano certi temi della riflessione giovanile, ma rovesciati di segno. Nei Grandi il poeta ri­ prende la polemica antiaristocratica, ma la indirizza solo su aspetti marginali, la frivo­ lezza e l’ozio, e per contro ribadisce la naturale supremazia della classe nobiliare e la sua funzione di guida nella società. La plebe e La sesquiplebe (cioè la borghesia, che è plebe «una volta e mezzo») sono una requisitoria durissima contro la «gente nuova», la borghesia emergente, a cui Alfieri non riconosce alcun diritto se non quello di restare al proprio posto e di obbedire, e contro il principio di sovranità popolare e il sistema democratico rappresentativo. L’acre polemica aggredisce anche i princìpi fondamentali della cultura illuministi­ co­borghese: nell’Antireligioneria il poeta difende ad oltranza la religione contro

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Le commedie “politiche”

La sconfitta dell’ideale eroico

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La tragedia e il titanismo

la critica voltairiana, affermando la necessaria funzione consolatrice delle credenze religiose nella vita dell’uomo e la loro importanza nella conservazione dell’ordine sociale. Nella Filantropineria condanna gli ideali umanitari dell’Illuminismo, irridendo l’egualitarismo e la pretesa di estendere i diritti umani e civili a settori infimi dell’umanità. Nel Commercio scaglia una violenta requisitoria contro lo spirito mercantile, in nome di un ideale di aristocratica magnanimità. Insomma, nelle Satire si manifesta la radicale opposizione di Alfieri allo spirito del secolo, ai suoi orienta­ menti democratici, egualitari, filantropici, progressisti. La delusione e la crisi degli ideali si esprimono ancora più radicalmente nelle sei Commedie (1800­03). Qui si assiste al rovesciamento totale dell’antico ideale eroico, poi­ ché vengono impietosamente messe a nudo le autentiche motivazioni dell’agire umano, ambizione, egoismo, vanità, interesse materiale, che si mascherano die­ tro generosi e disinteressati princìpi. Nascono così le quattro commedie “politiche”, L’uno, I pochi, I troppi, L’antidoto, che sono una satira allegorica delle varie forme di governo, rispettivamente quello monarchico, quello oligarchico e quello democratico, a cui si contrappone infine l’«antidoto», una forma alternativa che per Alfieri deve essere un governo misto che contemperi tutte e tre le altre forme. Tuttavia lo scrittore esclude sempre la plebe dalla vita politica e la relega ad una condizione di sudditanza, in quanto l’elaborazione delle leggi spetta esclusivamente all’aristocrazia. Nella Finestrina la satira si fa morale, ed è rivolta a denunciare la matrice autentica dell’operosità umana in tutti i settori, saggiata su un campionario di umanità che com­ prende re, eroi, fondatori di religioni, filosofi, letterati, tutti mossi da vanità e da inte­ ressi meschini, come permette di verificare la «finestrina» del titolo, aperta sul loro animo. È questo l’estremo approdo del pessimismo alfieriano, che infligge la sconfitta definitiva all’ideale eroico che si era espresso nelle tragedie. Le commedie sono testi mediocri, che rivelano un poeta ormai stanco, chiuso in un’a­ mara, scontrosa cupezza. Più felice è forse Il divorzio, una satira del cicisbeismo, collocata in ambienti borghesi e nella società contemporanea, che offre qualche vivace battuta comica e sarcastica, ma presenta anch’essa gli accenti aspri delle altre comme­ die, «caratteristici della scontentezza, dell’ira, dell’irrisione alfieriana delle debolezze umane» (Binni).

La poetica tragica Le ragioni della scelta tragica Come si è visto tracciando il profilo biografico, nell’assiduo, rigoroso impegno della scrittura tragica, sentito quasi come una forma di esercizio ascetico, Alfieri trova la catarsi della sua oscura inquietudine, individua lo scopo che può dare un senso alla sua vita, incessantemente protesa verso qualcosa di ignoto e per questo dominata da un senso di vuoto, di noia, di scontentezza. A scegliere la forma tragica come espressione del suo mondo interiore il poeta è indotto da vari motivi. Poiché tradizionalmente la tragedia rappresentava figure umane eroiche ed eccezionali in forme di vertiginosa sublimità, essa appariva il genere poetico più adatto ad esprimere il titanismo alfieriano, la tensione verso una grandezza senza limiti, verso un infinito potenziamen­ to dell’io: nel costruire i suoi eroi, figure monumentali, dall’eccezionale statura, il poe­ ta dava sfogo alle sue aspirazioni, proiettava se medesimo. 587

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Gli scritti teorici

Ma lo stesso cimentarsi col genere tragico costituiva agli occhi di Alfieri un segno di grandezza. Secondo un’opinione diffusa nel mondo letterario del tempo, la tragedia non aveva ancora trovato nella cultura italiana una realizzazione soddisfacente: si ri­ teneva che mancasse all’Italia un grande poeta tragico, degno degli antichi e all’altez­ za della tragedia classica francese, che nel secolo precedente aveva dato i capolavori di Corneille e di Racine. La tragedia era anche considerata il genere più sublime e più difficile, che esigeva eccezionale altezza e vigore di ispirazione e perfetto domi­ nio degli strumenti espressivi. Entrambi questi motivi costituivano come una sfida per Alfieri, che in quel campo così arduo e ancora tutto aperto scorgeva l’occasione adatta per l’affermazione di sé, per esprimere il senso orgoglioso della sua origi­ nalità e grandezza e per soddisfare il proprio ardente bisogno di gloria ( Il teatro per immagini, p. 659). I princìpi che lo ispiravano nel lavoro di composizione delle tragedie furono enunciati da Alfieri in vari scritti: la Risposta dell’autore (1783) ad una lettera sulle prime quattro tragedie inviatagli da Ranieri de’ Calzabigi, poeta e autore di libretti per melo­ dramma, le Note in risposta a una lettera di Melchiorre Cesarotti sul terzo volume della prima edizione delle tragedie (1785), il Parere dell’autore, pubblicato nel 1789 nell’ultimo volume dell’edizione definitiva delle tragedie per i tipi di Didot, ed infine la Vita, iniziata nel 1790, che è essenzialmente la storia della sua vocazione alla poesia tragica. Sulla scorta di questi testi possiamo ricostruire l’idea alfieriana della tragedia.

La struttura della tragedia alfieriana La polemica contro la tragedia francese

Calore passionale e tensione incalzante

Lo stile conciso

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Nella consapevolezza della sua prepotente originalità, Alfieri si colloca in posizione polemica nei confronti della grande tragedia classica francese, che costi­ tuiva ancora il modello più prestigioso a livello europeo (anche se il modello shake­ speariano, proprio in questi decenni di fine Settecento, cominciava a suscitare forte interesse). Ai tragici francesi lo scrittore rimprovera le eccessive lungaggini che ral­ lentano l’azione raffreddando l’interesse, il patetismo sentimentale, gli artificiosi espedienti romanzeschi dell’intreccio, l’andamento monotono e cantilenante dei versi alessandrini a rima baciata. Secondo Alfieri alla base dell’ispirazione poetica vi deve essere un veemente slancio passionale, il calore di un contenuto sentimentale ardentemente vissuto. Il mec­ canismo tragico deve recare l’impronta di questo calore, che si manifesta nel dinami­ smo dell’azione, nella tensione incalzante che precipita verso la catastrofe, senza mai essere interrotta da indugi e rallentamenti, che determinerebbero cadute di interesse, freddezza e noia. Per questo il congegno drammatico deve bandire ogni elemento superfluo, in modo da costituire un tutto unico e compatto dall’inizio alla fine; deve cioè evitare i personaggi secondari, che sono puri riempitivi, non indispensabili all’e­ conomia dell’azione, e concentrarsi solo su un numero limitatissimo di personaggi prin­ cipali, quelli tra cui si crea veramente il conflitto tragico. La rapidità incalzante della struttura si traduce anche nello stile, che deve essere egualmente rapido, conciso, essenziale, capace quindi di esprimere tutto il calore pas­ sionale del nucleo drammatico. Le battute sono in prevalenza brevi, abbondano le pa­ role monosillabiche. Questa ricerca di estrema concisione porta Alfieri a compiere veri prodigi, che sembrano quasi nascere da una scommessa con se stesso, come con­ centrare una serie di battute fondamentali in un unico endecasillabo. Nell’Antigone il tiranno Creonte vuole sapere dall’eroina se accetta di sposare Emone suo figlio o se preferisce la morte: «Creonte: Scegliesti? Antigone: Ho scelto. Creonte: Emon? Antigone: Morte. Creonte: L’avrai». Lo stile tragico, per Alfieri, deve distinguersi nettamente da quello lirico e da quello epico: questi tendono al canto, mentre la tragedia esprime conflitti fra indivi-

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Lo stile aspro e antimusicale

dualità, idee e passioni, quindi non può “cantare”. Per questo Alfieri mira ad uno stile che sia diametralmente opposto a quello melodioso della tragedia francese (ed è sottinteso un rifiuto sprezzante della facile cantabilità del melodramma metastasia­ no). Per evitare la cantilena, che per lui è indizio di una caduta di tensione passiona­ le e quindi di freddezza, di languidezza, il poeta punta su uno stile duro, aspro, antimusicale. Gli strumenti che impiega a tal fine sono: le continue variazioni di ritmo, per cui mai due versi successivi devono presentarsi con gli stessi accenti, la presenza conti­ nua di pause e di fratture al loro interno, inversioni ardite nella costruzione sintattica, enjambements fortemente inarcati, intesi anch’essi a spezzare il ritmo, suoni aspri, con duri scontri di consonanti. Un bell’esempio di questo verso spezzato ed aspro è offerto da Alfieri stesso nella Risposta al Calzabigi: «I’ lo tengo io finora / quel, che non vuoi tu, trono» (Antigone, atto III, vv. 42­43). L’ordine comune delle parole è violentemente sconvolto, con la separazione dell’aggettivo «quel» e del so­ stantivo «trono» mediante l’inserzione della relativa, e al tempo stesso il verso viene ad essere rotto da due pause molto forti, dopo «quel» e dopo «tu». L’ordine più sem­ plice e naturale è scartato dal poeta perché troppo fiacco e cantabile: Quel trono che non vuoi. Inoltre la durezza antimusicale è data anche dal prevalere di parole monosillabiche (ben otto su undici), che contribuiscono anch’esse all’andamento frantu­ mato, poco fluido.

La disciplina classica

L’ossequio verso le regole

«Ideare», «stendere» e «verseggiare»

Testo interattivo La poetica tragica di Alfieri: «ideare», «stendere», «verseggiare» dalla Vita scritta da esso

Come si sarà già potuto intuire, la violenta carica passionale che costituisce il nu­ cleo profondo della tragedia alfieriana, e che rimanda ad un ambito culturale e ad una sensibilità già romantici, non si esprime però in forme egualmente romantiche, cioè scomposte, irregolari, torbidamente caotiche o indefinite. Al contrario Alfieri mira sempre a disciplinare quei contenuti in forme rigorosamente classiche, ossequiose verso le norme acquisite dalla tradizione. Per questo, a differenza dei contem­ poranei poeti dello Sturm und Drang tedesco e dei giovani Goethe e Schiller, che guardano a Shakespeare e alla sua rivoluzionaria struttura tragica, Alfieri rispetta puntualmente le tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e d’azione: le sue tragedie si svolgono di norma su un arco temporale che non supera le ventiquattro ore, hanno una scena fissa ed un’azione unitaria, costruita intorno ad un unico nucleo drammatico. Non si tratta però di un’adesione estrinseca alle regole, meramente retorica e formale; la scelta risponde ad esigenze autentiche e sentite, nel poeta: innanzitutto quella di dar ordine e disciplina al suo mondo interiore tormentato e magmatico, che solo nelle forme classiche può trovare una sorta di catarsi; è questo un motivo che ricorre fre­ quentemente nei suoi scritti ( T5, p. 635); d’altro lato l’unità rigorosa dell’azione e la brevità dell’arco temporale sono perfettamente in armonia con la necessità di una struttura tragica tesa, rapida e incalzante, che, come abbiamo notato, è il punto centrale della poetica alfieriana. Il bisogno di disciplina si manifesta nel modo stesso di lavorare che è proprio di Alfie­ ri. Nella Vita egli spiega che l’elaborazione di ogni tragedia si articola in tre momenti fondamentali, tre «respiri»: «ideare», «stendere», «verseggiare». La prima fase consi­ ste nell’ideare il soggetto della tragedia, nel distribuirlo schematicamente, in forma riassuntiva, in atti e in scene e nel fissare il numero dei personaggi, seguendo l’«entu­ siasmo» dell’ispirazione, il «tumulto di pensieri e affetti» suscitato dall’argomento; la seconda nello scrivere per intero i dialoghi in prosa, obbedendo sempre all’impeto e senza selezionare minimamente i materiali; «verseggiare» significa infine stendere i dialoghi in versi (Alfieri usa l’endecasillabo sciolto, che con lui si afferma come 589

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Impulsi irrazionali e disciplina formale

il verso tragico per eccellenza), ma anche selezionare con «riposato intelletto» i mate­ riali in un primo tempo buttati giù con impeto. Vi possono essere anche varie verseggia­ ture successive, e in ciascuna di queste stesure il poeta porta a compimento un minu­ zioso, accuratissimo lavoro di lima, mutando parole, costrutti, ordine sintattico, ritmo. Come si vede, la creazione è originariamente un processo spontaneo, che trae alimento dalle componenti più irrazionali (le prime due fasi), ma poi quel contenuto magmatico deve disciplinarsi in una forma rigorosa. Entrambe le condizioni sono per il poeta ne­ cessarie: la tragedia non può nascere, o nasce morta, se non vi è quell’«entusiasmo», quel «bollore» iniziale (che il successivo lavoro letterario non giunge affatto a spegne­ re); ma egualmente non può esistere se non trova la sua perfetta organizzazione formale. Da un lato Alfieri è tributario di tutta una tradizione, risalente a Platone, che vede la creazione poetica come un fatto irrazionale, una sorta di invasamento e di furore, dall’altro fa riferimento alla tradizione aristotelica e oraziana del classicismo, che con­ cepisce la poesia come controllo razionale dell’ispirazione attraverso rigorosi strumenti tecnici dell’espressione.

Testo tragico e rappresentazione

Le rappresentazioni private

Il rifiuto del teatro contemporaneo

L’utopia di un teatro civile

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Da quanto si è visto sulla tensione incalzante della tragedia, che non deve avere mo­ menti di fiacchezza e deve sempre incatenare l’attenzione, si può desumere come Al­ fieri non pensasse di scrivere testi destinati alla semplice lettura “mentale”, ma li con­ cepisse come autentici testi drammatici da recitarsi dinanzi ad un uditorio. Costantemente, nelle pagine dei suoi scritti teorici, egli insiste sul modo in cui una parola, una frase dovrebbe essere pronunciata dagli interpreti, sugli effetti che dovreb­ be avere sugli spettatori. Tuttavia Alfieri non fece di norma recitare le sue tragedie nei teatri pubblici e le destinò solo a rappresentazioni private, tra gruppi di amici aristocratici. L’Antigone ad esempio, come lo scrittore narra nella Vita, fu rappresen­ tata a Roma il 20 novembre 1782 nel palazzo del duca Grimaldi da «un’eletta compa­ gnia di dilettanti signori», tra cui il poeta stesso, che impersonava il tiranno Creonte. Analoga rappresentazione organizzò per il Saul negli ultimi anni fiorentini, sostenendo egli stesso la parte del protagonista. Questa scelta “privata” nasceva da un rifiuto sprezzante del teatro contemporaneo, ritenuto frivolo e volgare, degli attori dell’epoca, giudicati del tutto incapaci di sostenere degnamente le parti dei suoi eroi, ed infine del pubblico comune, conside­ rato insensibile e mediocre. D’altronde egli scriveva tragedie, il genere drammatico più sublime e arduo, anche al fine di escludere il pubblico borghese che affollava allora i teatri per assistere a commedie serie o giocose (il pubblico, per intendersi, che tanto amava Goldoni, e a cui il commediografo veneziano mirava a piacere: questo diverso atteggiamento verso il pubblico da parte dei due autori basta da solo a far capire l’abis­ so che divide le loro due concezioni del teatro, della letteratura, della realtà in genera­ le). Questa degradazione del teatro egli la collega con i presenti regimi tirannici: per lui un teatro degno di questo nome può vivere solo in un regime libero, col soste­ gno di un popolo parimenti libero, animato da nobili virtù civili, come erano un tempo il popolo greco e quello romano. Disdegnoso del teatro contemporaneo, espressione di una realtà invilita e indegna, Al­ fieri si rivolge utopisticamente ad un teatro futuro, in un’Italia «rinata» e divenuta na­ zione, in cui vi sia autentica vita sociale, sorretta da magnanime virtù pubbliche. Al teatro tragico egli assegna allora un’alta funzione civile: a teatro, afferma nella rispo­ sta al Calzabigi, gli uomini devono imparare «ad esser liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti di ogni violenza, amanti della patria, conoscitori dei propri diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti e magnanimi». Come si vede, nella con­ cezione del teatro si trasferiscono integralmente le concezioni politiche di Alfieri.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

7 Il titanismo

Il pessimismo

Filippo: il «tiranno»

Polinice: l’ansia di grandezza

L’evoluzione del sistema tragico Le prime tragedie: tensione eroica e pessimismo

Video Le tragedie di Alfieri sulla scena italiana

Nelle prime tragedie, risalenti al 1775­77, si proietta il sogno di grandezza sovrumana, lo slancio titanico di affermazione dell’io al di là di ogni limite e ostacolo, che connota l’orientamento spirituale del giovane Alfieri (nel momento in cui si rivela la sua vocazione tragica il poeta ha appena ventisei anni), e che trae alimento soprattutto dalla lettura di Plutarco e dall’ammirazione per i suoi eroi dalla statura eccezionale. Ma contemporaneamente, già nel primo sistema tragico, come ha notato Vitilio Masiel­ lo (alle cui indicazioni ci rifacciamo in questo paragrafo), si profila lo scontro con una realtà ostile che soffoca quello slancio e si manifesta in un amaro sentimento del vivere, in una concezione pessimistica e scettica dell’uomo, che insiste sulla sua miseria, sulla sua insufficienza e impotenza e che corrode intimamente l’ideale eroico. La tensione eroica e il pessimismo desolato che la corrode costituiranno le due direttri­ ci su cui si muoverà tutta la produzione tragica alfieriana, in varie forme e combinazio­ ni, con la prevalenza dell’una o dell’altra a seconda dei momenti. Nel Filippo (ideato e steso nel 1775, versificato più volte in seguito) sotto le vesti del sovrano spagnolo del Cinquecento Filippo II compare per la prima volta il mito del «tiranno», quale sarà subito dopo delineato nel trattato Della tirannide ( T1, p. 575), immagine polemica di un potere che esercita una feroce, mostruosa oppressione. Ma, sotto la schematizzazione politica di questa polemica, emergono significati più profondi: nella sua volontà di imporre il suo incontrastato dominio, anche a costo di uccidere il figlio Carlo che gli si oppone, Filippo è la prima incarnazione tragica dell’individualismo alfieriano, del suo bisogno di grandezza sovrumana insofferente di ogni limite. L’esercizio della tirannide appare come totale affermazione dell’io, e si rivela come uno dei modi di essere del titanismo alfieriano. Con il Polinice (ideato nello stesso 1775) la scelta del mito classico libera l’ispirazione alfieriana dalle esteriori motivazioni politiche, lasciando a nudo il significato simbolico e metafisico. Nei due fratelli rivali, Eteo­ cle e Polinice, nati dall’incesto di Edipo con la propria madre, l’ambi­ zione di regno diviene brama di grandezza, individualismo esclusivo e sfrenato che non tollera osta­ coli dinanzi a sé, esasperata religione dell’io. Ma al tempo stesso vi è un senso oscuro e tragico del fato che grava sulla stirpe colpevole di Edipo e si manifesta come legge di do­ lore e di oppressione, che condanna all’infelicità. La coscienza di questo ineluttabile destino di dolore è affida­ ta ad Antigone, sorella dei due rivali. Antonio Canova, Donna piangente, XVIII secolo, olio su tela, Bassano del Grappa, Museo Civico.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo Antigone: la negatività del vivere

Agamennone: la debolezza umana

Oreste: ossessioni e incubi

Virginia: la virtù romana

La successiva Antigone (ideata e stesa nel 1776) costituisce un ideale secondo mo­ mento della stessa tragedia. Vi viene approfondito il tema del fato come simbolo di un’assurda negatività del vivere. Antigone è la vittima predestinata e consapevole. In lei si manifesta una diversa vocazione all’eroico, non l’individualistica affermazione di sé, ma il rifiuto sdegnoso di una realtà che contamina, il ristabilimento, attraver­ so la scelta della morte, della propria assoluta purezza. Se nelle prime tre tragedie predomina in varie forme la volontà eroica, nell’Agamennone (1776­77) affiora invece in piena luce il motivo dell’umana debolezza. Cen­ trale nella tragedia è il personaggio di Clitennestra, la moglie adultera di Agamennone che fa uccidere il marito dall’amante Egisto. Clitennestra appare smarrita e debole, in balìa delle sue passioni, incapace di dominarsi. La forza ostile che fiacca la volontà dell’eroina non è al di fuori di lei, ma all’interno della sua coscienza. Con questo per­ sonaggio l’individualismo titanico di Alfieri mostra le sue prime crepe e si rivela come egli sia non solo il poeta dell’io eroico e il celebratore di superuomini, ma presenti un fondo di sfiduciato pessimismo. Tragedia gemella dell’Agamennone è l’Oreste, che fu ideata e stesa contemporanea­ mente e che riprende lo stesso mito. Anche Oreste, il figlio di Agamennone a cui tocca di vendicare il padre, non afferma la sua libera, sicura volontà, ma è vittima di una forza interiore che lo trascina quasi inconsapevolmente al delitto e al matricidio, in un crescendo di ossessioni, incubi e deliri. Questa prima crisi dell’individualismo eroico è superata con la Virginia (1777). L’ideo­ logia eroica assume qui vesti decisamente politiche e si proietta nei personaggi di una mitizzata Roma classica. L’azione è un’appassionata celebrazione della virtù romana, delle libertà politiche e civili dell’antica repubblica. Il personaggio centrale, Icilio, che si scontra con il tiranno Appio Claudio per difendere l’amata Virginia da questi insidiata, è il primo degli «eroi di libertà» alfieriani. Il travaglio pessimistico che corrode l’ideale eroico trova qui il superamento in una positiva fede politica: non vi sono, negli eroi, perplessità, angosce, tormenti; essi vanno dritti al loro scopo, senza deflettere un istante. La conclusione inoltre, al di là della morte eroica di Icilio e di Virginia, reca un messaggio di speranza, in quanto fa intravedere la sollevazione del popolo che rovescerà il tiranno e ristabilirà la libertà repubblicana.

una fase di sperimentazione La Congiura de’ Pazzi: la disfatta della virtù eroica

Don Garzia, Maria Stuarda, Rosmunda, Ottavia

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Con la Virginia si conclude una prima fase della produzione tragica alfieriana. Dopo di essa si apre un periodo di sperimentazioni, in cui il poeta si impegna in un lavoro di scavo e di revisione dei suoi miti. Con la Congiura de’ Pazzi (1777­78), ambientata nella Firenze di Lorenzo de’ Medici, Alfieri abbandona il mito classico, assumendo una materia moderna, rinascimentale. È anche questa una «tragedia di libertà», ma, se nella Virginia la virtù dell’eroe trionfava, qui va incontro alla disfatta. Là la morte di Icilio scatenava l’insurrezione popolare, qui il suicidio di Raimondo, che si oppone alla tirannide di Lorenzo il Magnifico, è il suicidio del vinto, atto di protesta magnanimo ma disperato e sterile. Il trionfo della virtù eroica era possibile nella Roma antica, una stagione privilegiata ma conclusa e ormai remota, non nelle condizioni storiche moder­ ne, in cui dominano inerzia e viltà: lo slancio libertario si infrange contro i limiti della realtà storica. Meno interessanti sono le successive Don Garzia (1776­78), Maria Stuarda (1778­79) e Rosmunda (1779­80), di ispirazione più letteraria, che presentano intrecci comples­ si ed un gusto dell’intrigo romanzesco, insieme ad una sensibilità patetica, elegiaca e melodrammatica. Con l’Ottavia (1779­80) Alfieri ritorna al mondo classico, ma si allenta la tensione eroica che era propria del primo ciclo. L’eroina che si oppone al tiranno Nerone, la moglie Ottavia da lui fatta uccidere, non ha più la statura titanica dei

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Pietà e commozione

Timoleone: l’estrema astrazione

Merope

primi personaggi alfieriani, è una creatura fragile e debole che, nelle intenzioni dell’autore (esplicitate nel Parere sulla tragedia) non vuole più suscitare «l’ammirazio­ ne che si deve ai forti» ma le «lacrime». Compaiono dunque nella tragedia alfieriana temi nuovi, l’intenerita contemplazione della debolezza umana, la pietà, la commozione. Nel Timoleone (1779­80) il poeta riprende nuovamente la tematica politica della li­ bertà, cercando nell’eroe ricavato da Plutarco una compensazione alla sconfitta subìta dalla sua ansia eroica. In Timoleone, che uccide il fratello Timofane tiranno di Sparta per ridare la libertà alla patria, si proietta un puro e astratto ideale, collocato in un sopramondo di sublime perfezione, remoto dalla realtà. Più che due uomini, nella tragedia si scontrano due enti astratti, la volontà di assoluto dominio rappresenta­ ta da Timofane e quella di assoluta libertà rappresentata da Timoleone. Questa astra­ zione estrema è il sintomo dell’esaurirsi della tensione titanica alfieriana, e rivela che siamo ormai alla vigilia della crisi del Saul. Con la Merope (1782), incentrata su un’e­ roina infelice, Alfieri torna ai temi patetici ed elegiaci. Quando questi temi non sa­ ranno più isolati, ma scaturiranno dall’interno dello slancio titanico stesso, come rifles­ si del suo fallimento, nascerà il Saul.

La crisi definitiva dell’individualismo eroico Saul

Mirra

Nel Saul ( T3, p. 597) l’esasperato individualismo alfieriano e il vagheggiamento di una titanica, superumana grandezza eroica entrano definitivamente in crisi. Il vecchio re d’Israele, alla vigilia dello scontro decisivo con i nemici Filistei, sente tutto il peso dell’umana insufficienza e debolezza, che si proietta nell’oscura maledizione divi­ na che egli sente gravare su di sé e prende forma negli incubi, nelle angosce, nelle os­ sessioni che lo tormentano, nella tetra malinconia che lo priva della volontà e delle forze, e lo conduce a veri e propri deliri di follia. Con il Saul Alfieri giunge alla consapevolezza della reale miseria della condizione umana, che sin dalla prima fase della sua produzione tragica urgeva al fondo della sua tensione eroica. Il titano orgoglioso scopre la sua intima debolezza, il suo destino di sconfitta. È questa una svolta essenziale del sistema tragico alfieriano. Dopo il Saul il poeta tace per due anni. Sono anni tormentosi, segnati da sofferenze e delusioni, da un senso di disgusto dell’esistenza, da uno stato d’animo di funerea depressione (acuito particolarmente dalla lontananza forzata della donna amata). Questo nuovo orientamento della poetica tragica di Alfieri trova la sua massima espres­ sione nella Mirra (1784­86, T4, p. 619), che, con il Saul, costituisce il vertice della produzione tragica del poeta. L’eroina nutre una passione incestuosa per il proprio padre Ciniro. Il conflitto tragico è dato dalla lotta di Mirra contro l’urgere irrefrenabile della passione colpevole, una lotta vana e disperata, perché la passione corrode a poco a poco la resistenza della volontà e la stessa vita dell’eroina, portandola alla morte. Dopo la celebrazione della magnanimità indomita, in questa tragedia Alfieri effonde la sua pietà per l’infelice sorte degli uomini, simboleggiata da Mirra, innocente e colpevo­ le, vittima di un “qualcosa” che si sviluppa dentro di lei e di cui non è responsabile, ma da cui è contaminata e distrutta. Con quest’opera tocca il punto conclusivo la crisi dell’individualismo eroico che già era presente sin dalla prima fase della produzione tragica alfieriana ed aveva percorso tut­ ti i suoi sviluppi successivi. La Mirra quindi, pur nella sua diversità dalle altre trage­ die, che rivela un nuovo orientamento della sensibilità alfieriana, si colloca pur sempre su una linea di svolgimento coerente e unitaria.

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Incontro con l’Opera Saul

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L’eroe lacerato

Maledizione e senso di colpa

La sfida a Dio

I masnadieri di Schiller

Inquietudine ribelle e assolutismo

L’eroe abnorme

Videolezione

Saul rappresenta una figura di eroe del tutto nuova, originalissima nell’ambito della tradizione tragica antica e moderna: non è l’eroe monolitico nella sua forza e nella sua fermezza, ma un eroe intimamente lacerato e perplesso. Ne è ben consapevole lo stesso poeta, che nel Parere sulla tragedia scrive: «In questa tragedia l’autore ha sviluppa­ ta, o spinta assai più oltre che nell’altre sue, quella perplessità del cuore umano, così ma­ gica per l’effetto; per cui un uomo appassionato di due passioni fra loro contrarie, a vicen­ da vuole e disvuole una cosa stessa». Saul è intimamente diviso perché è un eroe “maledetto” su cui grava il peso di un’oscura colpa, che lo isola dagli uomini comu­ ni, che genera in lui conflitti e tormenti angosciosi e lo vota a una sconfitta totale, senza via di scampo. Per un aspetto si ripresenta in Saul la fisionomia di tanti altri tiranni delle precedenti tragedie alfieriane, Filippo, Eteocle, Lorenzo de’ Medici: un orgoglio luciferino, una smania di conquistare un potere illimitato, di affermare totalmente la propria volontà imperiosa, la propria individualità eccezionale al di là di ogni limite e ostacolo. Ma la no­ vità di Saul consiste nel fatto che questa volontà titanica si scontra con un limite invalica­ bile, la superiore volontà di Dio. L’affermazione della propria grandezza si trasforma in una sfida a Dio, alla sua legge ordinatrice del mondo, e scatena la terribile collera della divinità, che grava inesorabile sull’eroe, destinandolo alla sconfitta. Questo motivo del luciferino peccato d’orgoglio di una personalità titanica, che scon­ ta tutta la terribilità della sua colpa nella disfatta e nella maledizione, non è isolato nella cultura europea di questi anni: si presenta, in forme diverse ma per certi aspetti affini, nel dramma giovanile di Friedrich Schiller, I masnadieri (1781), che è quasi contemporaneo al Saul ( Il titanismo, p. 579). In eroi titanici e ribelli all’ordine metafisico del mondo, come lo schilleriano Karl Moor e l’alfieriano Saul, si proietta l’inquietudine preromantica di questa stagione culturale, ma più in particolare l’inquietudine ribelle dei due giovani scrittori (non si dimentichi che quando scrive il Saul Alfieri ha solo trentatré anni), in oppo­ sizione all’atmosfera stagnante e soffocante dell’Europa dell’assolutismo, di un ancien régime ormai in decomposizione, ed in antitesi al secolo dei Lumi, «niente poetico, e tanto ragionatore» (sono parole del Parere sul Saul), che spegne ogni slancio passionale.

Lo scontro con il trascendente La novità dello scontro con il trascendente

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Lo scontro dell’eroe con la dimensione trascendente costituisce la novità clamorosa del Saul rispetto alla precedente produzione alfieriana, in cui dominano solo conflitti tra in­ dividui e volontà, su un piano di rigorosa immanenza, e rispetto alla stessa tradizione tragica del secolo. Giustamente Vitilio Masiello (1964) ha messo in rilievo come senza la presenza incombente della realtà ultraterrena non sussisterebbe la tragedia di Saul. Ma ciò non significa che nel testo vi sia un’autentica dimensione religiosa. Figlio del secolo e della cul­ tura dei Lumi, formatosi nell’ambito del sensismo, Alfieri non sente la tematica del tra­ scendente. Ciò però non toglie nulla alla tragicità del conflitto tra Saul e Dio. Perché sus­ sista questo conflitto non è necessario che la presenza di Dio sia una realtà oggettiva nel mondo della tragedia, sentita come tale e partecipata dall’autore: basta che sia sentita

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Dio non è che funzione dell’animo di Saul

soggettivamente da Saul. Il senso del divino, se non si può dire parte essenziale dello spirito di Alfieri, lo è comunque dell’animo del personaggio. Dimostra di esserne ben consapevole Alfieri stesso quando, sempre nel Parere, afferma: «Per chi anche non ammettesse questa mano di Dio vendicatrice aggravata sovr’esso, basterà l’osservare, che Saùl credendo d’essersi meritata l’ira di Dio, per questa sola sua opinione fortemente concepita e creduta, potea egli benissimo cadere in questo stato di turbazione, che lo rende non meno degno di pietà che di meraviglia». Il vero conflitto di Saul non è quindi uno scontro con la potenza trascendente di Dio, ma è tutto dentro di lui; quello che Saul chiama Dio non è che una funzione del suo animo, una parte di lui, l’obiettivazione di un aspetto fondamentale della sua anima lacerata: la proiezione del fondo oscuro della sua psiche, del terribile senso di colpa, scaturito dalla sua smisura­ ta volontà di potenza, che lo porta a travolgere e a calpestare senza pietà ogni ostacolo che gli si para innanzi, a far soffrire i figli e ad allontanarli da sé, a scacciare l’amato David, a seminare morte e distruzione. In conseguenza del senso di colpa, la tensione titanica va necessariamente incontro alla sconfitta e si rovescia nel suo opposto: la forza dominatrice e orgogliosa si trasforma in un senso angoscioso e smarrito di insufficienza, di impotenza, di precarietà, di sfiducia. Come ha ben mostrato Masiello, il Saul sull’arco della produzione tragica alfieriana segna la crisi dell’individualismo eroico e titanico, della tensione magnanima, e la scoperta dei limiti della condizione umana.

L’interiorizzarsi del conflitto tragico

Il conflitto tra forze del profondo

Testo critico E. Raimondi

Per questo il conflitto tragico, che tradizionalmente opponeva l’eroe a forze esterne (la volontà degli altri uomini, la società, il Fato...), qui si interiorizza: la tragedia si svolge tutta entro la psiche dell’eroe. È questa una nozione del tragico profondamente nuo­ va, moderna: il conflitto che nasce dallo scontro di forze che si agitano nel profondo. La tragedia, nel suo tortuoso svolgimento, è soprattutto l’esplorazione di questa zona buia, in cui si urtano forze contrastanti e non componibili, smania di affermazione titani­ ca e senso di colpa, tensione eroica e senso angoscioso della propria miseria, volontà di potenza e spinte autodistruttive, amore e odio, barbarica ferocia e tenera pietà, impulsi omicidi e ansia di purezza e di pace. Come ha ben visto Ezio Raimondi (1985), il Saul è l’interpretazione «di una crisi di identità, di una scissione dell’Io [...]. Il personaggio alfieriano comincia a scoprirsi come personaggio scisso, è, in una sorta di situazione sublimata, un caso di nevrosi [...]. L’Alfieri si rende conto che ci sono delle forze oscu­ re, che la notte è dentro all’uomo, che distruzioni operano al suo interno». La tragedia alfieriana scopre una zona inedita dell’anima, oscura e ignorata: la sua straordinaria originalità consiste nel portare «la torcia al fondo della caverna» (per ricorrere alla felice immagine usata da Denis Diderot nel 1762 a proposito dei romanzi di Richardson). Questo fondo oscuro affiora alla coscienza soprattutto nella mirabile prima scena del se­ condo atto, in cui il vecchio re, appena comparso in scena, in un momento di abbandono confida ad Abner la sua «vita orribile», il suo male di esistere, il continuo oscillare tra stati d’animo opposti, l’impazienza e l’inquietudine senza nome che sempre lo tormentano,

L’opera

saul di Vittorio Alfieri La vicenda narrata nel Saul si ispira al Primo libro di Samuele del Vecchio testamento. La tragedia si svolge nel campo dell’esercito di Israele alla vigilia della battaglia contro i nemici Filistei. Ritorna David, che ha sposato la figlia di Saul, Micol, e che era stato cacciato dal re per una ingiusta gelosia di potere. David riesce a riconquistare la fiducia di Saul, dimostrandogli la sua fedeltà, e viene posto a capo dell’esercito. Ma risorgo-

no nel vecchio re le ossessioni che lo tormentano: continua a vedere nel genero un pericoloso traditore, che insidia il suo potere regale, e ne invidia la forza giovanile. In preda ai suoi deliri, fa sterminare i sacerdoti, accusandoli di tramare contro di lui, e ordina di uccidere anche David, che è costretto di nuovo a fuggire. Nella battaglia che segue l’esercito di Israele è sconfitto e Saul, dopo essersi reso conto dei suoi tragici errori, si dà la morte.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Il rapporto con David

Testo critico G. Getto

L’ambivalenza verso David

la malattia della volontà, l’insofferenza di se stesso, il senso di impotenza e di fine, le os­ sessioni, le manie, i sospetti continui, gli incubi. Sono questi tormenti che fiaccano il tita­ nismo di Saul, destinando alla sconfitta irreparabile la sua tensione superumana. Questa interiorizzazione del conflitto si manifesta anche nel rapporto con David, che, accanto allo scontro con Dio, costituisce l’altro tema dominante che percorre tutta la trage­ dia. Anche qui il conflitto è tutto dentro Saul, perché il vecchio re non viene in urto col David reale, che gli è devoto e fedele, ma con un David immaginario, un fantasma creato dalle sue ossessioni, che lo assilla angosciosamente. C’è quindi nella tragedia un David in sé, l’eroe esemplare, e c’è il David costruito dalla follia di Saul, l’antagonista, l’ostacolo contro cui urta la smania di potenza del titano sconfitto. Come il Dio tremendo e irato, anche questo David è una proiezione della zona oscura dell’anima di Saul. Anzi, tra i due fantasmi vi è uno stretto legame, perché nel favore che, nel delirio del vecchio re, Dio concede a David consacrandolo al trono prendono corpo la maledizione di Saul e l’ira di­ vina nei suoi confronti, che lo destinano alla sconfitta e all’annientamento. Ma in realtà questo “fantasma” di David non è che Saul stesso: in esso il re vecchio e stan­ co proietta l’immagine di sé giovane, forte, sicuro, in armonia con Dio. Per questo Saul ha un atteggiamento ambivalente verso David, fatto di amore e di odio: lo ama in quan­ to vede nel giovane guerriero se stesso, ma lo odia perché rappresenta ciò che non è più né mai potrà più essere, e quindi erige questa parte perduta di sé come potenza esterna male­ fica e ostile che lo minaccia, che gli vuole sottrarre il potere a cui è attaccato con tutte le sue forze. Lottando contro Dio e contro David, Saul lotta contro una parte di sé, alienata e contrapposta al suo io. La rivalità con David non è dunque il consueto conflitto tra «tiran­ no» ed «eroe di libertà», tra due individualità possenti e di statura egualmente gigantesca: nello scontro si proietta solo la frattura interiore del vecchio re.

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Composizione e caratteri del Saul crOnOLOGIA DeLLA TrAGeDIA sTruTTurA

Cinque atti

meTrIcA

I versi sono per lo più endecasillabi sciolti (fanno eccezione i canti di David, in metri diversi)

InTreccIO

David, esule per volontà del re Saul, fa ritorno presso il suo sovrano per aiutarlo nella guerra contro i Filistei. Saul lo accoglie inizialmente con benevolenza, grazie all’intercessione dei figli Gionata e Micol (moglie di David). Il consigliere Abner fomenta tuttavia la naturale diffidenza del sovrano, inducendolo a vedere in David e nella casta sacerdotale pericolosi avversari. Saul decide dunque di eliminare David e fa uccidere il sacerdote Achimelech, sopraggiunto nell’accampamento. Mentre David fugge, i filistei attaccano a sorpresa nella notte: braccato dai nemici, Saul si dà la morte

TemPO

La vicenda si svolge nell’arco di un giorno, dalla notte in cui David arriva al campo israelita a quella successiva

LuOGO

Accampamento israelita, sulla pianura di Gelboè

sIsTemA DeI PersOnAGGI

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Composta nel 1782 e pubblicata a Parigi nel 1789; fu recitata da Alfieri stesso, nella parte di Saul, a Firenze nel 1793 e a Pisa nel 1795

David, i due figli di Saul (Micol, moglie di David, e Gionata) e il sacerdote Achimelech sono portatori di valori positivi quali la lealtà, il coraggio, la religiosità. Essi tentano invano di ricondurre alla ragione il sovrano, reso folle dalla smania di potere; ad essi si contrappone il cattivo consigliere Abner, che alimenta l’ira e la gelosia di Saul. Quest’ultimo, protagonista del dramma, si contraddistingue per la sua solitudine: abbandonato da Dio e agitato da un oscuro senso di colpa, egli non riconosce i suoi veri “aiutanti” e li osteggia, accelerando la propria rovina

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri Un grande monologo

T3

La tragedia si presenta quindi, nelle sue linee essenziali, come un grande monologo. Saul non parla mai veramente con gli altri, parla solo con se stesso: quando è in scena, i personaggi con cui entra in relazione non sono che proiezioni delle sue ossessioni. Alla vita drammatica in sé degli altri personaggi sono lasciate solo le zone marginali. Ciò non vuol dire, come per lungo tempo si è ripetuto, che il Saul sia un testo essenzialmente lirico, non tragico; non vi è solo l’effusione di un’individualità, vi è effettivamente conflitto dramma­ tico tra forze diverse: solo che queste forze sono tutte interne all’animo del protagonista.

I conflitti interiori di saul dal Saul personaggi

Saul abner Gionata achimelech Micol Soldati israeliti David Soldati filistei Scena, il campo degli israeliti, in Gelboè aTTO pRIMO

Testi Atto I dal Saul

[David, genero di Saul e un tempo da lui molto amato, è stato costretto all’esilio per l’ira ingiusta del vecchio re contro di lui. Alla vigilia della battaglia decisiva contro i Filistei ritorna al campo di Israele, deciso a combattere a fianco di Saul. Lo accolgono amorevolmente la moglie Micol, figlia di Saul, e il di lei fratello Gionata, che si propongono di preparare gradualmente il padre al suo ritorno.]

aTTO SECONDO SCENa I Saul, Abner saul

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Bell’alba è questa. In sanguinoso ammanto1 oggi non sorge il sole; un dì felice prometter parmi. – Oh miei trascorsi tempi2! Deh! dove sete or voi? Mai non si alzava Saùl nel campo da’ tappeti suoi3, che vincitor la sera ricorcarsi certo non fosse. abner

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Ed or, perché diffidi, o re? Tu forse non fiaccasti or dianzi4 la filistea baldanza5? a questa pugna6 quanto più tardi viensi, abner tel dice, tanto ne avrai più intera e nobil palma7.

1. In ... ammanto: avvolto di vapori rossastri. 2. Oh ... tempi: il sorgere dell’alba suscita nel protagonista il rimpianto del passato. 3. da’ tappeti suoi: dal suo giaciglio. Nella tenda dell’accampamento militare un cumulo di tappeti fungeva da letto. 4. dianzi: poco fa. 5. filistea baldanza: la baldanza dei nemici, i Filistei; Saul aveva avuto la meglio su di loro nel corso di precedenti battaglie. 6. pugna: battaglia. 7. palma: vittoria.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

saul

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abner, oh! quanto in rimirar le umane cose, diverso ha giovinezza il guardo8 dalla canuta età9! Quand’io con fermo braccio la salda noderosa antenna, ch’or reggo appena, palleggiava10; io pure mal dubitar sapea11... Ma, non ho sola perduta omai la giovinezza... ah! meco fosse pur anco12 la invincibil destra d’Iddio possente13! ... o meco fosse almeno David, mio prode! ... abner

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E chi siam noi? Senz’esso più non si vince or forse? ah! non più mai snudar vorrei, s’io ciò credessi, il brando14, che15 per trafigger me. David, ch’è prima, sola cagion d’ogni sventura tua... saul

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ah! no: deriva ogni sventura mia da più terribil fonte... E che? celarmi l’orror vorresti del mio stato? ah! s’io padre non fossi, come il son, pur troppo! Di cari figli, ... or la vittoria e il regno, e la vita vorrei? precipitoso già mi sarei fra gl’inimici ferri16 scagliato io, da gran tempo: avrei già tronca17 così la vita orribile ch’io vivo. Quanti anni or son, che sul mio labro il riso non fu visto spuntare? I figli miei, ch’amo pur tanto, le più volte all’ira muovonmi il cor, se mi accarezzan ... Fero18, impazïente, torbido, adirato sempre; a me stesso incresco19 ognora, e altrui; bramo in pace far guerra, in guerra pace20: entro ogni nappo, ascoso tosco io bevo21; scorgo un nemico in ogni amico; i molli tappeti assiri, ispidi dumi22 al fianco mi sono; angoscia il breve sonno; i sogni terror. Che più? chi ’l crederia? spavento m’è la tromba di guerra; alto23 spavento è la tromba a Saùl. Vedi, se è fatta vedova24 omai di suo splendor la casa di Saùl; vedi, se omai Dio sta meco25.

8. il guardo: lo sguardo, il modo di vedere le cose. 9. canuta età: vecchiaia. 10. la salda ... palleggiava: maneggiavo la solida lancia di legno nodoso, che ora riesco appena a reggere.

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11. mal ... sapea: non dubitavo. 12. pur anco: ancora. 13. invincibil ... possente: il favore (destra) di Dio possente, perché per Saul, come è proprio della Bibbia, Dio è anche Sabaoth, colui che assiste in battaglia, il Dio degli eserciti.

14. brando: spada. 15. che: se non. 16. inimici ferri: armi nemiche. 17. tronca: troncato. 18. Fero: feroce. 19. incresco: riesco sgradito. 20. in pace ... pace: il chiasmo rende la conflittualità del carattere di Saul. 21. entro ... bevo: in ogni tazza (nappo) bevo un nascosto veleno (tosco). Saul vive cioè in un continuo sospetto di essere avvelenato. 22. dumi: spine, dal latino dumus, cespuglio spinoso. 23. alto: profondo. 24. vedova: priva. 25. se ... meco: se Dio sta con me, ironico.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

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E tu, tu stesso, (ah! ben lo sai) talora a me, qual sei, caldo verace amico, guerrier, congiunto26, e forte duce, e usbergo27 di mia gloria tu sembri; e talor, vile uom menzogner di corte, invido28, astuto nemico traditore... abner

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Or, che in te stesso appien tu sei, Saulle, al tuo pensiero, deh, tu richiama ogni passata cosa! Ogni tumulto del tuo cor (nol vedi?) dalla magion di que’ profeti tanti, di Rama egli esce29. a te chi ardiva primo dir che diviso eri da Dio? l’audace, torbido, accorto, ambizïoso vecchio, Samuél30 sacerdote; a cui fean31 eco le sue ipocrite turbe32. a te sul capo ei lampeggiar vedea con livid’ occhio33 il regal serto34, ch’ei credea già suo. Già sul bianco suo crin35 posato quasi ei sel tenea; quand’ecco, alto, concorde voler del popol d’Israello al vento spersi ha suoi voti36, e un re guerriero37 ha scelto. Questo, sol questo, è il tuo delitto. Ei quindi d’appellarti cessò d’Iddio l’eletto, tosto ch’esser tu ligio a lui cessasti38. Da pria ciò solo a te sturbava il senno39: coll’inspirato40 suo parlar compieva David poi l’opra. In armi egli era prode, nol niego io, no; ma servo appieno ei sempre di Samuello; e più all’altar che al campo41

26. congiunto: parente; Abner era figlio di Ner, zio di Saul, quindi cugino di quest’ultimo. 27. usbergo: corazza (dal tedesco Halsberg, difesa del collo); qui metaforicamente vale “difesa”.

28. invido: invidioso. 29. Ogni ... esce: ogni tua angoscia (non te ne rendi conto?) deriva (esce) dal tempio (magion) di quei tanti profeti (che risiedono) a Rama (città della Giudea).

30. Samuél: il profeta Samuele, si narra nella Bibbia, condannò Saul per essersi allontanato dalla giustizia divina. 31. fean: facevano. 32. ipocrite turbe: le schiere dei sacerdoti, su cui a Rama il profeta Samuele esercitava la sua autorità; sono dette ipocrite perché i sacerdoti, dietro la loro dignità sacrale, celano invece intrighi e maneggi politici, al fine di imporre il loro dominio. 33. livid’ occhio: sguardo livido, invidioso e risentito. 34. serto: corona. 35. crin: chioma. 36. al vento ... voti: ha vanificato i suoi desideri, auspici. 37. re guerriero: Abner si riferisce ovviamente a Saul, che era un condottiero. 38. Ei ... cessasti: da quando tu smettesti di essergli obbediente, Samuele non ti chiamò più “l’eletto di Dio”. 39. sturbava il senno: turbava la tua mente, ti conduceva alla follia. 40. inspirato: ispirato da Dio; il senso della frase è ironico. 41. campo: di battaglia.

Pesare le parole Sturbava (atto II, scena I, v. 75)

> È una forma disusata: oggi è comune turbare o disturba-

>

re, dal latino dis- e turbàre, da tùrbam, “disordine, confusione, scompiglio, tumulto, agitazione”. Turbare è “agitare qualcosa privandola di limpidezza, o serenità, tranquillità” (es. il mare si turbò per l’improvviso intensificarsi del vento); figuratamente, “guastare, impedire, molestare” (es. gli schiamazzi del pubblico hanno turbato il regolare andamento del processo), o “rendere inquieto, confuso, preoccupato” (es. è turbato dalle incertezze sul futuro provocate dalla crisi economica). Dalla stessa radice proviene torbido, detto materialmente di liquido privo di limpidezza (es. le acque del fiume sono

torbide per l’inquinamento), in senso figurato “poco sereno, inquieto” (es. lo agitano pensieri torbidi; viviamo in tempi torbidi). Affine è turbolento, figuratamente detto di persona pronta a suscitare disordini, indisciplinato, ribelle (es. è un ragazzo turbolento, difficile da domare). Ma è imparentato anche turbine, “movimento vorticoso dell’aria” (es. un turbine sollevò la sabbia della spiaggia), ricorrente pure in senso figurato (es. un turbine di pensieri contrastanti mi sconvolse la mente). Altri termini provenienti dalla stessa radice sono turbina, “macchina motrice rotante”, e turbo, che in parole composte della terminologia tecnica indica la turbina, come in turbocompressore.

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propenso assai: guerrier di braccio egli era, ma di cor sacerdote. Il ver dispoglia d’ogni mentito fregio; il ver conosci42. Io del tuo sangue nasco; ogni tuo lustro43 è d’abner lustro: ma non può innalzarsi David, no mai, s’ei pria Saùl non calca44. saul

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David?... Io l’odio... Ma la propria45 figlia gli ho pur data in consorte... ah! tu non sai. – La voce46 stessa, la sovrana47 voce, che giovanetto mi chiamò più notti, quand’io, privato48, oscuro49, e lungi tanto stava dal trono e da ogni suo pensiero; or, da più notti, quella voce istessa fatta è tremenda, e mi respinge, e tuona in suon di tempestosa onda mugghiante50: «Esci51 Saùl; esci Saulle...». Il sacro venerabile aspetto del profeta, che in sogno io vidi già, pria ch’ei mi avesse manifestato che voleami Dio re d’Israèl; quel Samuèle, in sogno, ora in tutt’altro aspetto io lo riveggo. Io, da profonda cupa orribil valle, lui su raggiante monte assiso miro52: sta genuflesso Davide a’ suoi piedi: il santo veglio53 sul capo gli spande l’unguento del Signor54; con l’altra mano, che lunga lunga ben cento gran cubiti55 fino al mio capo estendesi, ei mi strappa la corona dal crine; e al crin di David cingerla vuol: ma, il crederesti? David pietoso in atto56 a lui si prostra, e niega riceverla; ed accenna, e piange, e grida, che a me sul capo ei la riponga... – Oh vista! Oh David mio! tu dunque obbedïente ancor mi sei? genero ancora? e figlio? e mio suddito fido? e amico?... Oh rabbia! Tormi57 dal capo la corona mia? Tu che tant’osi, iniquo vecchio58, trema... Chi sei?... Chi n’ebbe anco il pensiero, pera59... – ahi lasso60 me! ch’io già vaneggio! ...

42. Il ver ... conosci: separa la verità dalle apparenze intrise di menzogna (mentito fregio), ascolta la verità. 43. lustro: gloria. 44. calca: opprime. 45. propria: mia. 46. voce: la voce di Dio. 47. sovrana: sacra. 48. privato: comune cittadino.

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49. oscuro: sconosciuto. 50. mugghiante: fragorosa. 51. Esci: abbandona il trono. 52. lui ... miro: lo contemplo seduto su un monte che irradia luce. 53. veglio: vecchio. 54. gli spande ... Signor: è il rito di consacrazione dei re di Israele. 55. cubiti: il cubito era un’unità di misura

Salvator Rosa, Lo spettro di Samuele appare a Saul, 1668, olio su tela, Parigi, Musée du Louvre.

corrispondente alla lunghezza dell’avambraccio, circa mezzo metro. 56. pietoso in atto: con atteggiamento pio. 57. Tormi: togliermi. 58. iniquo vecchio: vecchio malvagio, riferito a Samuele. 59. pera: perisca, muoia. 60. lasso: infelice.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri abner

pera, 120

David sol pera: e svaniran con esso, sogni, sventure, visïon, terrori. SCENa II

Testi Atto II, scena II dal Saul

[Entrano Micol e Gionata. Inizia una schermaglia tra loro e Abner, nemico di David per invidia di potere. Saul è incerto e tormentato. La scena si chiude con una battuta di Abner, rivolta a Saul, che termina così: «Or vieni; e te convinci / che nulla è in David…»]

SCENa III David, Saul, Abner, Gionata, Micol david

La innocenza tranne. saul

Che veggio? micol

Oh ciel! gionata

Che festi?61 abner

audace... gionata

ah! padre... micol

padre, ei m’è sposo; e tu mel desti. saul

Oh vista! david

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Saùl, mio re, tu questo capo chiedi; già da gran tempo il cerchi; ecco, io tel reco; troncalo, è tuo. saul

Che ascolto?... Oh David,... David! Un Iddio parla in te: qui mi t’adduce62 oggi un Iddio... david

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Sì, re; quei ch’è sol Dio; quei, che già in Ela63 me timido ancora inesperto garzon64 spingeva a fronte di quel superbo gigantesco orgoglio del fier Goliatte tutto aspro di ferro: quel Dio, che poi su l’armi tue tremende65 a vittoria vittoria accumulava: e che, in sue mire imperscrutabil sempre66,

61. Che festi?: che cosa facesti? 62. mi t’adduce: mi conduce a te. 63. in Ela: la battaglia tra Israeliti e Filistei in cui David uccise il gigante Golia. 64. garzon: giovinetto. 65. tremende: che spargevano terrore. 66. in sue … sempre: nei suoi piani sempre imperscrutabili.

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dell’oscuro mio braccio a lucid’67 opre valer si volle: or sì, quel Dio mi adduce a te, con la vittoria. Or, qual più vuoi guerriero o duce68, se son io da tanto, abbimi. a terra pria cada il nemico: sfumino al soffio aquilonar69 le nubi, che al soglio70 tuo s’ammassano dintorno: men pagherai poscia, o Saùl, con morte. Né un passo allora, né un pensier costarti il mio morir dovrà. Tu, re, dirai: David sia spento: e ucciderammi tosto abner. – Non brando io cingerò né scudo; nella reggia del mio pieno71 signore a me disdice ogni arme, ove72 non sia pazïenza, umiltade, amor, preghiere, ed innocenza. Io deggio, se il vuol Dio, perir qual figlio tuo, non qual nemico. anco il figliuol di quel primiero padre del popol nostro, in sul gran monte il sangue era presto a donar73; né un motto74, o un cenno fea, che non fosse obbedïenza: in alto già l’una man pendea per trucidarlo, mentre ei del padre l’altra man baciava. – Diemmi l’esser75 Saùl; Saùl mel toglie: per lui s’udia76 il mio nome, ei lo disperde: ei mi fea grande, ei mi fa nulla. saul

Oh! quale dagli occhi antichi miei caligin folta quel dir mi squarcia! Oh qual nel cor mi suona!... – David, tu prode78 parli, e prode fosti; ma, di superbia cieco, osasti poscia me dispregiar; sovra di me innalzarti; furar mie laudi, e ti vestir mia luce79. E s’anco io re non t’era, in guerrier nuovo, spregio conviensi di guerrier canuto?80 Tu, magnanimo in tutto, in ciò non l’eri. Di te cantavan d’Israèl le figlie: «Davidde, il forte, che i suoi mille abbatte; Saùl, suoi cento». ah! mi offendesti, o David, nel più vivo del cor. Che non dicevi? «Saùl, ne’ suoi verdi anni, altro che81 i mille, le migliaia abbatteva: egli è il guerriero ei mi creò82». 77

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67. lucid’: gloriose. 68. guerriero o duce: semplice soldato o comandante. 69. soffio aquilonar: vento del nord. 70. soglio: trono.

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71. pieno: assoluto. 72. ove: che. 73. il figliuol ... donar: Isacco, figlio di Abramo (capostipite del popolo di Israele) era pronto (presto) a dare la vita, quando Dio, per metterlo alla prova, impose ad Abramo

di sacrificare il suo unico erede. 74. motto: parola. 75. Diemmi l’esser: mi diede la mia condizione. 76. s’udia: era stato reso noto. 77. antichi: vecchi. 78. prode: da valoroso. 79. furar ... luce: rubare i miei meriti e rivestirti della mia gloria. 80. in guerrier ... canuto?: è convenaente in un giovane guerriero il disprezzo per un guerriero anziano? 81. altro che: molto di più che. 82. mi creò: mi ha reso grande col suo esempio.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri david

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Ben io ’l dicea; ma questi83, che del tuo orecchio già tenea le chiavi84, dicea più forte: «Egli è possente troppo David: di tutti in bocca, in cor di molti85; se non l’uccidi tu, Saùl, chi ’l frena?» – Con minor arte86, e verità più assai, abner, al re che87 non dicevi? «ah! David troppo è miglior di me; quindi io lo abborro; quindi lo invidio, e temo; e spento88 io ’l voglio». abner 89

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Fellone ; e il dì che di soppiatto andavi co’ tuoi90 profeti a susurrar consigli; quando al tuo re segreti lacci91 infami tendevi; e quando a’ Filistei nel grembo ti ricovravi; e fra nemici impuri profani dì traendo92, ascose a un tempo pratiche ognor fra noi serbavi93: or questo, il dissi io forse? o il festi tu? Da prima, chi più di me del signor nostro in core ti pose? a farti genero, chi ’l mosse? abner fu solo... micol

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Io fui: Davide in sposo, io dal padre l’ottenni; io il volli; io, presa94 di sue virtudi. Egli95 il sospir mio primo, il mio pensier nascoso; ei la mia speme era; ei sol, la mia vita. In basso stato anco travolto, in povertà ridotto, sempre al mio cor giovato96 avria più David, ch’ogni alto re cui l’orïente adori. saul

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Ma tu, David, negar, combatter puoi d’abner le accuse? Or, di’: non ricovrasti97 tra’ Filistei? nel popol mio d’iniqua ribellïone i semi non spandesti? La vita stessa del tuo re, del tuo secondo padre, insidïata forse non l’hai più volte? david

Ecco; or per me risponda questo, già lembo del regal tuo manto. Conoscil tu? prendi; il raffronta98. saul

Dammi. Che veggio? è mio; nol niego... Onde l’hai tolto?...

83. questi: Abner. 84. che ... chiavi: l’intera espressione è un calco delle parole pronunciate da Pier della Vigna in Dante, Inferno, XIII, vv. 58 e ss.: «Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federico». 85. di tutti ... molti: sulla bocca di tutti, amato da molti. 86. arte: astuzia. 87. che: perché. 88. spento: morto. 89. Fellone: traditore. 90. tuoi: sottintende un’intesa, una complicità. I profeti sono i sacerdoti di Samuele. 91. lacci: insidie. 92. profani ... traendo: vivendo empiamente, tra i Filistei idolatri. 93. ascose ... serbavi: continuavi a tessere segreti intrighi tra noi. 94. presa: conquistata. 95. Egli: sottinteso “fu”. 96. giovato: piaciuto. 97. ricovrasti: ti rifugiasti. 98. il raffronta: confrontalo.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

david

305

310

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325

330

Di dosso a te, dal manto tuo, con questo mio brando, io stesso, io lo spiccai. – Sovvienti d’Engadda99? Là, dove tu me proscritto100 barbaramente perseguivi a morte; là, trafugato101 senza alcun compagno nella caverna, che dal fonte ha nome, io m’era: ivi, tu solo, ogni tuo prode102 lasciato in guardia alla scoscesa porta103, su molli104 coltri in placida quïete chiudevi al sonno gli occhi ... Oh ciel! tu, pieno l’alma105 di sangue e di rancor, dormivi? Vedi, se Iddio possente a scherno prende disegni106 umani! ucciderti a mia posta107, e me salvar potea per altra uscita: io il potea; quel tuo lembo assai tel prova. Tu re, tu grande, tu superbo, in mezzo a stuol d’armati; eccoti in man del vile giovin proscritto... abner, il prode, ov’era, dov’era allor? Così tua vita ei guarda108? Serve al suo re così? Vedi, in cui posto hai tua fidanza109; e in chi rivolto hai l’ira. – Or, sei tu pago? Or l’evidente segno non hai, Saùl, del cor110, della innocenza, e della fede111 mia? non l’evidente segno del poco amor, della maligna invida rabbia, e della guardia112 infida di questo abner?... saul

Mio figlio, hai vinto; ... hai vinto. abner, tu mira; ed ammutisci. micol

Oh gioia! david

Oh padre! ...

99. Engadda: regione della Giudea vicino alla fonte del Giordano. 100. proscritto: esiliato. 101. trafugato: rifugiato. 102. ogni tuo prode: l’insieme dei soldati che ti seguono. 103. alla scoscesa porta: l’ingresso della caverna. 104. molli: morbide. 105. pieno l’alma: con l’anima ricolma; si tratta di un complemento di relazione o alla greca. 106. disegni: progetti. 107. a mia posta: a mio piacimento. 108. guarda: protegge. 109. in cui ... fidanza: in chi hai riposto la tua fiducia. 110. cor: sentimenti. 111. fede: fedeltà. 112. guardia: sorveglianza.

Pesare le parole Spiccai (atto II, scena III, v. 305)

> Spiccare è ricalcato sul contrario appiccare, “attaccare

una cosa a un’altra”, nato dalla fusione di appendere e picca, “palo aguzzo” (e legato a impiccare, “appendere per la gola”); perciò spiccare ha come significato originario “staccare una cosa attaccata a un’altra”, che è il senso qui ricorrente (es. con un colpo di scure il boia spiccò la testa del condannato dal busto). Nella terminologia giudiziaria spiccare significa “emettere un provvedimento” (es. il giudice spiccò un mandato di cattura contro il boss mafioso latitante). Altro senso è “compiere un movimento brusco staccandosi da terra” (es. spiccò un balzo scavalcando l’ostacolo). Usato intransitivamente spiccare vale “apparire distintamente, risaltare”

604

>

(es. spicca tra la folla per la sua alta statura; spicca nella classe per intelligenza). Spiccato significa “marcato, molto evidente” (es. parla con uno spiccato accento dialettale). Risaltare deriva da re- e saltàre, letteralmente “saltare fuori” (es. la scritta bianca risalta molto sul fondo nero). Dalla stessa radice proviene risultare, “derivare come conseguenza” (es. dal loro disaccordo risultarono molti danni), “apparire chiaro, evidente” (es. risulta dai registri che non avete pagato la fornitura), “rivelarsi, dimostrarsi” (es. le vostre preoccupazioni risultarono infondate). Il risultato è l’esito, l’effetto, la conseguenza (es. il risultato delle elezioni conferma la forza del partito).

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri gionata

Oh dì felice! micol

Oh sposo! ... saul

335

Il giorno, sì, di letizia e di vittoria, è questo. Te duce io voglio oggi alla pugna: il soffra113 abner; ch’io ’l vo’114. Gara fra voi non altra, che in più nemici esterminare, insorga115. Gionata, al fianco al tuo fratel d’amore combatterai: mallevador116 mi è David della tua vita; e della sua tu il sei. gionata

340

Duce Davìd, mallevadore è Iddio117. micol

Dio mi ti rende; ei salveratti ... saul

345

Or, basta. Nel padiglion118, pria della pugna, o figlio, vieni un tal poco a ristorarti. Il lungo duol119 dell’assenza la tua sposa amata rattempreratti120: intanto di sua mano ella ti mesca, e ti ministri a mensa121. Deh! figlia, (il puoi tu sola) ammenda122 in parte del genitor gli involontari errori.

113. il soffra: lo sopporti con rassegnazione. 114. ’l vo’: lo voglio.

115. Gara ... insorga: non sorga fra voi altra gara, che nello sterminare più nemici.

116. mallevador: garante. 117. Duce ... Iddio: David è il comandante, garante della vita può esserlo solo Dio. 118. padiglion: tenda. 119. duol: dolore. 120. rattempreratti: ti tempererà, ti mitigherà. 121. ti mesca ... mensa: ti versi da bere e ti serva a tavola. 122. ammenda: ripara.

aTTO TERZO

Testi Atto III, scene I-III dal Saul

[Abner espone a David il piano da lui predisposto per la battaglia contro i Filistei. David lo approva e, generosamente, lascia ad Abner il centro dello schieramento, riconoscendo il suo valore di capitano. Si propone poi, dopo la vittoria, di allontanarsi di nuovo da Saul, perché per lui non vi potrà mai esser pace al suo fianco: teme infatti che una sua nuova gloria possa risvegliare il rancore invidioso del re. Saul nel frattempo ha già cambiato umore ed è tornato preda dei suoi sospetti ossessivi di tradimento.]

SCENa IV Saul, Gionata, Micol, David gionata

140

Deh! vieni, amato padre; a’ tuoi pensieri dà tregua un poco: or l’aura aperta e pura ti fia ristoro; vieni: alquanto siedi tra i figli tuoi.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

saul

... Che mi si dice? micol

ah! padre!... saul 1

145

150

Chi sete voi?... Chi d’aura aperta e pura qui favellò2? Questa? è caligin densa; tenebre sono; ombra di morte3... Oh! Mira4; più mi t’accosta; il vedi? il sol dintorno cinto ha di sangue ghirlanda funesta5... Odi tu canto di sinistri augelli6? Lugùbre un pianto sull’aere si spande, che me percuote, e a lagrimar mi sforza... Ma che? Voi pur, voi pur piangete?... gionata

155

O sommo Dio d’Israello, or la tua faccia hai tolta7 dal re Saùl così? lui, già tuo servo, lasci or così dell’avversario8 in mano? micol

padre, hai la figlia tua diletta al fianco: se lieto sei, lieta è pur ella; e piange, se piangi tu... Ma, di che pianger ora? Gioia tornò. saul

160

David, vuoi dire. ah!... David... Deh! perché non mi abbraccia anch’ei co’ figli? david

Oh padre!... addietro or mi tenea temenza9 di non t’esser molesto. ah! nel mio core perché legger non puoi? son sempre io teco10. saul

Tu ... di Saulle ... ami la casa dunque? david

165

S’io l’amo? Oh ciel! degli occhi miei pupilla Gionata egli è; per te, periglio al mondo non conosco, né curo: e la mia sposa, dica, se il può, ch’io nol potrei, di quanto, di quale amore io l’amo... saul

Eppur, te stesso 170 1. sete: siete. 2. favellò: parlò.

606

stimi tu molto... 3. caligin ... tenebre ... morte: climax ascendente.

4. Mira: guarda. 5. il sol ... funesta: il sole è circondato da una funesta corona di vapori rosso sangue. Il particolare richiama per contrasto l’alba serena dell’atto II, scena I, in cui agli occhi di Saul il sole non sorge in «sanguinoso ammanto», ed è segno del mutato animo dell’eroe. 6. sinistri augelli: uccelli di cattivo augurio. 7. la tua ... tolta: hai distolto lo sguardo, hai abbandonato. 8. avversario: demonio, calco del dantesco «antico avversaro», Purgatorio, XI, v. 20. 9. temenza: timore. 10. teco: con te.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri david

Io, me stimare?... In campo non vil soldato, e tuo genero in corte mi tengo; e innanzi a Dio, nulla mi estimo. saul

175

Ma, sempre a me d’Iddio tu parli; eppure, ben tu il sai, da gran tempo, hammi partito11 da Dio l’astuta ira crudel tremenda12 de’ sacerdoti. ad oltraggiarmi, il nomi13? david

180

a dargli gloria, io ’l nomo. ah! perché credi ch’ei più non sia con te? Con chi nol vuole, non sta: ma, a chi l’invoca, a chi riposto tutto ha se stesso in lui, manca egli mai? Ei sul soglio chiamotti; ei vi ti tiene: sei suo, se in lui, ma se in lui sol, ti affidi. saul

185

Chi dal ciel parla?... avviluppato in bianca stola è costui che il sacro labro or schiude?14 Vediamlo... Eh! no: tu sei guerriero, e il brando cingi: or t’inoltra; appressati; ch’io veggia, se Samuèle o David mi favella. – Qual brando è questo? ei non è già lo stesso ch’io di mia man ti diedi... david

190

195

È questo il brando, cui mi acquistò la povera mia fionda15. Brando, che in Ela a me pendea tagliente sul capo; agli occhi orribil lampo io ’l vidi balenarmi di morte, in man del fero16 Goliàt gigante: ei lo stringea: ma stavvi rappreso pur, non già il mio sangue, il suo. saul

200

Non fu quel ferro, quella sacra cosa, appeso in Nobbe al tabernacol santo17? Non fu nell’Efod18 mistico ravvolto, e così tolto a ogni profana vista? Consecrato in eterno al Signor primo?... david

Vero è; ma... saul

Dunque, onde19 l’hai tu? Chi ardiva dartelo? chi?... 11. partito: diviso. 12. astuta ... crudel tremenda: altro climax

ascendente. 13. il nomi: lo nomini.

14. Avviluppato ... schiude?: è avvolto nella bianca stola (dei sacerdoti) costui che parla come loro? 15. È questo ... fionda: è questa la spada che la mia povera fionda mi fece conquistare. Si tratta della spada che David sottrasse al gigante Golia dopo averlo abbattuto ad Ela con un colpo di fionda. 16. fero: feroce. 17. appeso ... santo: Nob era un villaggio presso Gerusalemme, in cui David si era rifugiato all’inizio del suo esilio e dove Achimelech, il grande sacerdote, gli aveva dato la spada di Golia, che era appesa all’arca santa (tabernacol). 18. Efod: tunica indossata dai sacerdoti ebrei per officiare le cerimonie religiose, in cui venivano avvolti anche oggetti votivi. 19. onde: da chi.

607

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

david

205

210

Dirotti. Io fuggitivo, inerme in Nob giungea: perché fuggissi, tu il sai. piena ogni via di trista20 gente, io, senza ferro21, a ciascun passo stava tra le fauci di morte. Umìl la fronte prosternai là nel tabernacol, dove scende d’Iddio lo spirto: ivi, quest’arme, (cui s’uom mortal rïadattarsi al fianco potea, quell’uno esser potea ben David) la chiesi io stesso al sacerdote. saul

Ed egli?... david

Diemmela. saul

Ed era? david

achimelèch. saul

215

Fellone. Vil traditore... Ov’è l’altare?... oh rabbia!... ahi tutti iniqui! traditori tutti!... D’Iddio nemici; a lui ministri, voi?... Negr’22 alme in bianco ammanto... Ov’è la scure?... Ov’è l’altar? si atterri... Ov’è l’offerta?23 Svenarla io voglio... micol

ah padre! gionata

220

Oh ciel! che fai? Ove corri? che parli?24... Or, deh! ti placa: non havvi altar; non vittima: rispetta nei sacerdoti Iddio, che sempre t’ode. saul

Chi mi rattien?... Chi di seder mi sforza?... Chi a me resiste? gionata

padre... 20. trista: malvagia. 21. ferro: spada. 22. Negr’: in antitesi al bianco dei mantelli sta per “infami”, in opposizione all’apparen-

608

za di purezza e devozione. 23. Ov’è ... offerta?: in preda al delirio, Saul interpreta il gesto di Achimelech come un sacrilegio; per questo vuole abbattere (si at-

terri) l’altare profanato e riconsacrarlo mediante un sacrificio a Dio, uccidendo personalmente la vittima (offerta). 24. che parli?: che dici?

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri david

225

ah! tu il soccorri, alto25 Iddio d’Israèle: a te si prostra, te ne scongiura il servo tuo. saul

230

235

La pace mi è tolta; il sole, il regno, i figli, l’alma tutto mi è tolto!... ahi Saùl infelice! Chi te consola? al brancolar26 tuo cieco, chi è scorta, o appoggio?... I figli tuoi, son muti, duri son, crudi27... Del vecchio cadente sol si brama la morte: altro nel core non sta dei figli, che il fatal diadema28, che il canuto tuo capo intorno cinge. Su strappatelo, su: spiccate a un tempo da questo omai putrido29 tronco il capo tremolante del padre... ahi fero stato30! Meglio è la morte. Io voglio morte... micol

Oh padre!... Noi vogliam tutti la tua vita: a morte ognun di noi, per te sottrarne31, andrebbe... gionata

240

Or, poiché in pianto il tuo furor già stemprasi32 deh! la tua voce, a ricomporlo in calma, muovi, o fratello. In dolce oblìo l’hai ratto33 già tante volte coi celesti carmi. micol

245

ah! sì; tu il vedi, all’alitante34 petto manca il respiro; il già feroce sguardo nuota in lagrime: or tempo è di prestargli l’opra tua. david

Deh! per me, gli parli Iddio. –

Testi Atto III, scene IV-V dal Saul

25. alto: potente. 26. al brancolar: può essere riferito tanto alla vista quanto alle capacità intellettive di Saul. 27. crudi: crudeli. 28. diadema: corona. 29. putrido: a causa della vecchiaia. 30. fero stato: condizione orribile. 31. per te sottrarne: per sottrarti ad essa (la morte). 32. stemprasi: si scioglie. 33. ratto: rapito. 34. alitante: anelante.

[Fine scena IV - scena V: Per placare il delirio di Saul, David intona il suo canto, come era già solito fare un tempo. Dapprima un canto guerriero sveglia Saul dal suo torpore e lo riporta ai fervidi anni della sua giovinezza. David passa poi a un canto idillico, di pace, e Saul si abbandona alla dolcezza che lo invade. Rinasce però in lui il sospetto che il giovane lo voglia rendere vile tra gli ozi domestici: David riprende allora il canto guerriero, ma incautamente menziona anche se stesso a fianco del re, e Saul, ripreso dalla sua folle furia invidiosa, ordina di ucciderlo. David è costretto a fuggire. I figli a stento trattengono il vecchio re e lo riportano nella tenda.]

609

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

aTTO QUaRTO

Testi Atto IV dal Saul

[Saul torna in sé, ma resta in lui un’invincibile invidia verso David, la sua forza e la sua giovinezza. Gionata cerca di convincere Saul sulla fedeltà di David, ma il re è sempre dominato dal timore che egli voglia togliergli il regno. Gionata afferma di essere pronto a lasciare a David la successione, ma il re è convinto che se David avrà lo scetttro sterminerà tutta la sua stirpe, spinto da insaziabile sete di potere. Viene tratto dinanzi al re il sommo sacerdote Achimelech. Saul lo accusa di aver dato asilo a David fuggiasco e accusa i sacerdoti tutti di tramare contro di lui. Il sacerdote evoca la maledizione che pesa su Saul, annunciandogli come sicure la sconfitta e la morte. Furibondo Saul lo fa uccidere e ordina lo sterminio di tutti i sacerdoti. Ripudia anche i figli, ritenendoli traditori, e ordina di uccidere anche David. Si appresta poi ad affrontare da solo la battaglia, perché solo di se stesso ritiene di poter non avere timore.]

aTTO QUINTO Testi Atto V, scene I-II dal Saul

[Scene I-II: David, costretto a fuggire, convince Micol a restare accanto al padre per confortarlo nei suoi tormenti. Intanto si comincia a udire il fragore della battaglia, che i nemici hanno scatenato prima del sorgere del giorno.]

SCENa III Saul, Micol saul

Analisi interattiva

120

Ombra adirata, e tremenda1, deh! cessa: lasciami, deh!... Vedi: a’ tuoi piè mi prostro... ahi! dove fuggo?... – ove mi ascondo? O fera2 ombra terribil, placati... Ma è sorda ai miei preghi; e m’incalza?... apriti, o terra, vivo m’inghiotti... ah! pur che il truce sguardo non mi saetti della orribil ombra3... micol

125

Da chi fuggir? niun ti persegue. O padre, me tu non vedi? me più non conosci? saul

130

O sommo, o santo sacerdote, or vuoi ch’io qui mi arresti? o Samuèl, già vero padre mio, tu l’imponi? ecco, mi atterro al tuo sovran comando4. a questo capo già di tua man tu la corona hai cinta; tu il fregiasti5; ogni fregio or tu gli spoglia; calcalo or tu6. Ma,... la infuocata spada d’Iddio tremenda, che già già mi veggo

1. Ombra ... tremenda: l’ombra di Samuele, che Saul nel delirio vede incombere su di sé irata e minacciosa. 2. fera: crudele. 3. pur che ... ombra: è per lui preferibile essere inghiottito dalla terra che affrontare lo sguardo del terribile spettro che lo colpisce come una saetta. 4. mi atterro ... comando: mi umilio, mi prostro dinanzi al tuo potere sacerdotale. 5. fregiasti: adornasti (della corona). 6. calcalo ... tu: indossalo tu.

Pesare le parole Fregiasti (atto V, scena III, v. 131)

> Fregiare significa “ornare con fregi”. Fregio viene dal lati-

no (opus) phrygium, “lavoro frigio”, perché tipico e originario della Frigia, regione dell’Asia Minore: era una fascia ornamentale degli edifici, decorata a rilievo con figure o

610

motivi geometrici. In senso figurato fregiare equivale a “decorare, adornare, abbellire” (es. ha il petto fregiato di medaglie; ha fregiato il suo nome della gloria di scoperte utili per l’umanità).

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

135

pender sul ciglio,... o tu che il puoi, la svolgi7 non da me, no, ma da’ miei figli. I figli, del mio fallir8 sono innocenti... micol

Oh stato, cui non fu il pari mai!9 – Dal ver disgiunto, padre, è il tuo sguardo: a me ti volgi... saul

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Oh gioia!... pace hai sul volto? O fero veglio10, alquanto miei preghi accetti? io da’ tuoi piè non sorgo11, se tu i miei figli alla crudel vendetta pria non togli. – Che parli?... Oh voce! «T’era David pur figlio; e il perseguisti, e morto pur lo volevi». Oh! che mi apponi?... arresta... sospendi12 or, deh!... Davidde ov’è? si cerchi. Ei rieda13; a posta sua14 mi uccida, e regni: sol che a’ miei figli usi pietade, ei regni... – Ma, inesorabil stai? Di sangue hai l’occhio15; foco il brando e la man; dalle ampie nari torbida fiamma spiri, e in me l’avventi... Già tocco16 m’ha; già m’arde: ahi! dove fuggo?... per questa parte io scamperò. micol

Né fia, ch’io rattener ti possa, né ritrarti al vero17? ah! m’odi: or sei... saul

155

160

165

Ma no; che il passo di là mi serra un gran fiume di sangue. Oh vista atroce! sovra ambe le rive, di recenti cadaveri gran fasci ammonticati stanno: ah! tutto è morte colà: qui dunque io fuggirò... Che veggo? Chi sete or voi? – «D’achimelèch siam figli. achimelèch son io. Muori, Saulle, muori». – Quai grida? ah! lo ravviso: ei gronda di fresco sangue, e il mio sangue ei si beve. Ma chi da tergo, oh! chi pel crin mi afferra? Tu, Samuél? – Che disse? che in brev’ora seco tutti saremo18? Io solo, io solo teco sarò; ma i figli... – Ove son io? – Tutte spariro ad un istante l’ombre19. Che dissi? Ove son io? Che fo? Chi sei?

7. la svolgi: allontanala. 8. del mio fallir: delle mie colpe. 9. Oh stato ... mai!: Saul non si è mai trovato

prima in una simile condizione delirante. 10. fero veglio: vecchio crudele, sempre riferito a Samuele.

11. non sorgo: non mi alzo. 12. che mi ... sospendi: che cosa mi rimproveri (apponi)? Fermati (arresta), cessa di accusarmi. 13. rieda: ritorni. 14. a posta sua: come vuole. 15. Di sangue ... occhio: hai gli occhi iniettati di sangue. 16. tocco: toccato. 17. ritrarti ... vero: ricondurti alla realtà. 18. seco ... saremo: saremo tutti morti. 19. Ove ... ombre: Saul ora ritorna in sé.

611

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

170

Qual fragor odo? ah! di battaglia parmi: pur non aggiorna20 ancor: sì, di battaglia fragore egli è. L’elmo, lo scudo, l’asta, tosto or via, mi si rechi: or tosto l’arme, l’arme del re. Morir vogl’io, ma in campo. micol

175

padre, che fai? Ti acqueta... alla tua figlia... saul

L’armi vogl’io; che figlia? Or, mi obbedisci. L’asta, l’elmo, lo scudo; ecco i miei figli. micol

Io non ti lascio, ah! no... saul

180

Squillan più forte, le trombe? Ivi si vada: a me il mio brando basta solo. – Tu, scostati, mi lascia; obbedisci. Là corro: ivi si alberga21 morte, ch’io cerco.

SCENa IV Saul, Micol, Abner, con pochi soldati fuggitivi abner

Oh re infelice!... Or dove, deh! dove corri? Orribil notte è questa. saul

Ma, perché la battaglia...? abner

185

Di repente22, il nemico ci assale: appien sconfitti siam noi... saul

Sconfitti? E tu fellon23, tu vivi? abner

190

Io? per salvarti vivo. Or or qui forse Filiste inonda24: il fero impeto primo forza è schivare: aggiornerà frattanto. Te più all’erta25 quassù, fra i pochi miei, trarrò... saul

Ch’io viva, ove il mio popol cade? micol

Deh! vieni... Oimè! cresce il fragor: s’inoltra26...

612

20. non aggiorna: non fa ancora giorno. 21. si alberga: si trova. 22. Di repente: di sorpresa. 23. fellon: traditore. 24. Filiste inonda: l’esercito dei Filistei irrompe. 25. all’erta: al sicuro, più in alto. 26. s’inoltra: s’avanza.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri saul

Gionata,... e i figli miei,... fuggono anch’essi? Mi abbandonano?... abner

195

Oh cielo!... I figli tuoi,... No, non fuggiro... ahi miseri!... saul

T’intendo: morti or cadono tutti... micol

Oimè!... I fratelli?... abner

ah! più figli non hai. saul

200

– Ch’altro mi avanza27?... Tu sola omai, ma non a me, rimani. – o da gran tempo in cor già tutto ho fermo28 e giunta è l’ora. – abner, l’estremo è questo de’ miei comandi. Or la mia figlia scorgi in securtà29. micol

No, padre; a te dintorno mi avvinghierò: contro a donzella il ferro non vibrerà il nemico. saul

205

210

Oh figlia!... Or, taci: non far ch’io pianga. Vinto re non piange. abner, salvala, va’: ma, se pur mai ella cadesse infra nemiche mani, deh! non dir, no, che di Saulle è figlia; tosto di’ lor, ch’ella è di David sposa; rispetteranla. Va’; vola...

27. mi avanza: mi resta. 28. fermo: stabilito. 29. scorgi ... securtà: conduci in un luogo sicuro.

Pesare le parole Scorgi (atto V, scena IV, v. 201)

> Scorgere proviene dal latino excorrìgere, “guidare, accom-

pagnare con l’occhio”, da ex- e corrìgere, “correggere, mettere sulla giusta via”. Il senso che qui ricorre, “scortare, guidare, accompagnare”, è disusato; il senso corrente oggi è “riuscire a vedere, discernere, riconoscere” (es. ho scorto da lontano il mio amico che mi veniva incontro). Scortare, “accompagnare per proteggere, per difendere”, deriva dal participio passato di scorgere, scorto (es. l’auto del presidente è scortata da agenti motociclisti). La scorta è l’insieme delle persone che scortano qualcuno (es. il giudice

impegnato in indagini di mafia è sempre accompagnato dalla scorta), ma vuol anche dire “provvista di beni accantonata per essere usata in caso di necessità” (es. ho fatto scorta di viveri nel caso che la villa resti isolata dalla neve); in generale è tutto ciò che si tiene per casi imprevisti (es. le auto devono avere la ruota di scorta in caso di foratura); scorte sono anche le riserve di materiali necessari alla produzione, o di prodotti finiti accantonati da un’azienda in attesa di essere utilizzati (es. le scorte di pezzi di ricambio per quel modello di auto stanno finendo).

613

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

abner

S’io nulla valgo30, fia salva, il giuro; ma ad un tempo te pur... micol

Deh!... padre... Io non ti vo’, non voglio lasciarti... saul

215

Io voglio: e ancora il re son io. Ma già si appressan l’armi: abner, deh! vola: teco, anco a forza, s’è mestier31, la traggi. micol

padre!... e per sempre?...

SCENa V saul

220

225

Oh figli miei!… – Fui padre. – Eccoti solo, o re; non un ti resta dei tanti amici, o servi tuoi. – Sei paga, d’inesorabil Dio terribil ira? – Ma, tu mi resti, o brando32: all’ultim’uopo, fido ministro33, or vieni. – Ecco già gli urli dell’insolente vincitor: sul ciglio già lor fiaccole ardenti balenarmi veggo, e le spade a mille ... – Empia Filiste, me troverai, ma almen da re, qui ... morto. –

30. S’io ... valgo: se io valgo qualcosa. 31. s’è mestier: se è necessario. 32. brando: spada. 33. all’ultim’uopo ... ministro: fedele strumento (ministro) per l’ultimo compito (darsi la morte).

Nell’atto ch’ei cade trafitto su la propria spada, soprarrivano in folla i filistei vittoriosi con fiaccole incendiarie, e brandi insanguinati. Mentre costoro corrono con alte grida verso Saul, cade il sipario.

Analisi del testo

> Lo sviluppo dell’intreccio sull’asse sintagmatico

Il percorso tortuoso di Saul

614

Le ambivalenze e le lacerazioni che costituiscono il conflitto tragico di Saul si riflettono nello sviluppo dell’intreccio lungo l’asse sintagmatico. Tutti gli altri personaggi sono so­ stanzialmente statici e, sia pure nelle differenti sfumature dei loro stati d’animo, si presen­ tano identici per tutto lo svolgimento della tragedia. Ciò vale soprattutto per David che, nella sua esemplare perfezione, si muove lungo l’intreccio seguendo una linea rigorosa­ mente retta. Il percorso di Saul invece traccia una linea tortuosa, segnata da alti e bassi, svolte brusche e improvvisi ritorni, slanci di ribellione titanica e smarriti accasciamenti, lucidità e delirio, nostalgie idilliche ed empiti di eroismo guerriero, tenerezza e ferocia sanguinaria. È un diagramma che possiamo ricostruire sulla scorta dell’esauriente analisi di Masiello.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

> L’eroe tormentato e diviso La coscienza della propria debolezza

Il nuovo eroe tragico

Con la prima scena del secondo atto si entra nel cuore della tragedia del protagonista. Nella calma dell’alba, che sembra promettere tregua ai suoi tormenti e consentirgli una pausa di lucidità, Saul, rimpiangendo le forze della giovinezza che l’hanno abbandonato, rivela la coscienza della propria debolezza e impotenza. Emerge anche dalle sue parole la causa della sua decadenza, l’ira di Dio, il senso pauroso della punizione che lo sovrasta. Da questa maledizione che sente pesare su di sé deriva il suo male di vivere, che egli ana­ lizza con impietosa lucidità: «Fero, / impazïente, torbido, adirato / sempre; a me stesso incresco ognora, e altrui...». Saul confessa l’inquietudine e la scontentezza perpetua, i so­ spetti ossessivi che gli fanno scorgere nemici in ogni amico, l’insonnia angosciosa, gli in­ cubi terrificanti, la paura al sentire la tromba di guerra. Già in queste sue prime parole si delinea perfettamente la fisionomia del nuovo eroe tragi­ co alfieriano, così lontano da quella «umanità eroica e superumana, eretta orgogliosamen­ te contro il limite, salda e sicura nella sua lotta titanica e nella sua volontà inconcussa [inamovibile] di potenza o di libertà», che si manifestava nelle prime tragedie (Masiello): un eroe tormentato e diviso, vinto e smarrito, gravato dal peso della sua umana miseria e insufficienza, con la volontà ormai scissa e in sé contraddittoria, che lo destina alla scon­ fitta e alla catastrofe.

> Ossessioni e deliri L’angoscia di perdere il potere

Prostrazione e bisogno di conforto

Chiuso nelle sue ossessioni, il vecchio re non presta orecchio alle argomentazioni “machia­ velliche” di Abner, che cerca rozzamente di ricondurre il dramma del conflitto con Dio a dimensioni esclusivamente politiche, all’ostilità dei sacerdoti e di David. Le parole del consigliere, sia pur non raccolte, suscitano echi profondi in Saul, evocano il fondo oscuro dei suoi tormenti, l’angoscia di perdere il trono, il potere illimitato verso cui si protende ancora con tutte le sue forze. Sentendosi minacciati, l’orgoglio regale e la sete di dominio insorgono gelosi e violenti. Le angosce del re si trasformano così in incubi e deliri, in cui incombe la figura del sacerdote Samuele che lo priva della corona per deporla sulla testa di David. L’impeto di ribellione e di rabbia («Oh rabbia! / Tormi dal capo la corona mia? / Tu che tant’osi, iniquo vecchio, trema... / Chi sei?... Chi n’ebbe anco il pensiero, pera...») sembra riportare in vita la forza titanica di un tempo. Ma subito si accampa la consapevo­ lezza della propria reale impotenza, del fatto che questi slanci sono solo il vaneggiare di un folle («Ahi lasso me! ch’io già vaneggio»). In questa grande scena, una delle più potenti dell’intera tragedia, sono già in germe le li­ nee dei suoi sviluppi futuri, soprattutto l’esplosione di furore crudele che porterà all’ucci­ sione dei sacerdoti nel quarto atto. Alla crisi di furore e alla prostrazione che segue il lampo di ribellione, succede ancora il rimpianto di un passato di serenità, un bisogno di pace e di conforto. Questo stato d’animo intenerito e placato prepara la riconciliazione con David, che si verifica nella scena III. Quando il giovane gli compare dinanzi, Saul è già tutto disposto al perdono. Ma da questa pace provvisoria e precaria, in cui è sempre impli­ cito il senso della propria impotenza (David è infatti salutato come salvatore nell’imminen­ za di una battaglia già data come perduta), si scatenerà nell’atto seguente l’ultima, dispe­ rata ribellione del titano sconfitto.

> La gelosia verso David

L’antagonismo con David

Nel terzo atto si verifica un processo inverso rispetto al secondo: prima Saul era passato dalla consapevolezza della propria insufficienza ad uno scoramento tetro e disperato, e di qui ad un bisogno struggente di conforto; ora, al suo rientro in scena, appare di nuovo preda di un accasciamento, di una disperazione carica di sinistri presagi (si vede cinto di un’«om­ bra di morte», scorge intorno al sole «di sangue ghirlanda funesta», in contrapposizione all’alba serena del secondo atto, in cui il sole non sorgeva «in sanguinoso ammanto»); ma in questo stato d’animo cova un risentimento profondo, la gelosia nei confronti di David, 615

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La crisi di follia

Nuovi incubi e deliri

Immagine interattiva Il gesto tragico alfieriano in un dipinto neoclassico

Il manifestarsi di un nuovo eroismo

La catarsi finale

Video La morte di Saul

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sentito sempre come antagonista, colui che costituisce una minaccia per il potere regale, con la sua giovinezza, la sua forza, il favore divino. L’esasperazione esplode furibonda e in­ contenibile quando Saul vede nella spada data a David dai sacerdoti la prova di una congiu­ ra contro di lui. Il particolare della spada può sembrare insignificante, ingigantito solo dalla follia del re, ma in realtà per lui acquista un valore simbolico: appare come il segno di un’investitura divina a David, sancisce la condanna che frustra ogni speranza di Saul. La crisi di folle furore che segue non è però un cambiamento repentino, ha le sue radici e motivazioni proprio nella situazione finale dell’atto precedente: la presenza di David può allontanare la sconfitta materiale e costituisce pertanto occasione di conforto, ma d’altro lato acuisce nel vecchio re il senso della propria insufficienza e debolezza di fronte al com­ pito eroico, lo spinge a reagire in qualche modo. Da questo scatenarsi della rivalità con David l’azione ha una svolta decisiva, e precipita verso la catastrofe. Dopo l’episodio della spada David appare a Saul come il successore predestinato, il favorito di Dio e della casta sacerdotale. Per cui, con una sorta di coerenza nel delirio ossessivo, al re non resta che un estremo, disperato tentativo per ritardare la sconfitta e il crollo: eliminare con David lo strumento della condanna divina, restaurare col terrore e la ferocia la propria autorità re­ gale minacciata, sterminare i sacerdoti. Con la sua folle crudeltà Saul cerca solo di soffo­ care il sentimento angoscioso della propria impotenza; stordendosi con la violenza cerca di surrogare la fiducia in se stesso e nelle proprie forze, che ormai gli è venuta a mancare.

> L’accettazione eroica della morte

Quando Saul rientra in scena nel quinto atto è di nuovo in preda a incubi e deliri, in cui riaffiorano i terrori che egli cercava di soffocare con la ferocia sanguinaria, e si sfoga l’an­ goscia per le proprie colpe, per la maledizione divina che lo perseguita. Ritornano nei suoi discorsi le immagini della profezia di Achimelech (la spada infuocata e vendicatrice di Dio), a dimostrare quanto quelle parole fossero penetrate intimamente in Saul, sconvolgen­ dolo sin nel profondo. Del titano orgoglioso, disposto ad una lotta spietata pur di conserva­ re il potere, non è rimasto più nulla. È restato a nudo solo l’uomo, con il suo amore per i figli, che tornano ossessivamente nel suo farneticare. Saul si desta dal delirio nel pieno fragore della battaglia. La sconfitta è ormai segnata, al re è negata anche la morte in combattimento. Allora, dinanzi alla catastrofe definitiva, Saul si trasforma. Di fronte al supremo paragone della morte, scompare l’angoscia paralizzante della sua debolezza e miseria umana, che lo ha angustiato per tutto il corso della tragedia. Si ma­ nifesta in lui un nuovo eroismo, nell’accettazione dignitosa e ferma del proprio destino. È questa l’unica vera dignità eroica consentita all’uomo nel pessimismo alfieriano, data la ne­ cessaria sconfitta a cui va incontro ogni tensione titanica. In questa accettazione della morte si celebra la superiorità dell’eroe sugli eventi, sulla negatività ineliminabile della sua sorte. Nella sua ultima battuta, «Sei paga, / d’inesorabil Dio terribil ira?», che ha suscitato tanto numerose e divergenti interpretazioni, non si può cogliere un atteggiamento di sarcasmo e di spregio o di ribellione, una forma di bestemmia titanica dell’eroe sconfitto ma non do­ mato che ancora sfida la potenza che lo ha prostrato, e nemmeno un omaggio rassegnato e una preghiera a Dio, una finale riconciliazione con il divino, ma vi è solo la suprema sere­ nità di chi sa accettare con dignità la sconfitta. E solo nell’accettazione del suo destino, nella scelta volontaria della morte, Saul raggiunge quella regale grandezza che in vita gli era negata, quella volontà libera e consapevole che era offuscata dalle sue ossessioni e dai suoi incubi. L’eroe “maledetto”, oscuro e tormentato, trova nel finale della tragedia una sua catarsi. Ma si tratta pur sempre di una catarsi pessimistica: Saul si uccide «dopo aver toc­ cato il fondo della disperazione, quando ha acquistato coscienza definitiva dell’ineluttabi­ lità di quel destino, quando tutte le sue illusioni sono definitivamente cadute, travolte dalla sconfitta» (Masiello).

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Esercitare le competenze

Laboratorio interattivo

cOmPrenDere

> 1. Che cosa lamenta di aver perduto Saul, oltre alla giovinezza? (vv. 17-21). > 2. Riassumi il ritratto che il re fa di se stesso ai versi 35-48. > 3. Qual è il sogno di Saul ? (vv. 86-119). Quale ruolo ha avuto il profeta Samuele nell’ascesa di Saul al potere? > 4. In che modo Abner rassicura il sovrano, dopo il sogno? > 5. A chi attribuisce David la follia del re? Chi lo svia con falsi consigli? Riassumi brevemente il pensiero dell’eroe, espresso ai versi 268-275.

> 6. Quale prova fornisce il giovane genero di Saul riguardo la sua fedeltà al re? (vv. 304-330). > 7. Quale compito affida Saul ad Abner prima di trafiggersi? AnALIZZAre

> 8.

stile Analizza la struttura metrica e sintattica delle prime battute dell’atto II, scena I (vv. 1-21): compaiono delle rime? I periodi e le proposizioni sono per lo più ampi o brevi? La struttura sintattica tende a coincidere con l’articolazione del discorso in versi? Gli enjambements sono rari o frequenti? Nel complesso, il discorso poetico risulta melodioso e caratterizzato da un ritmo ricorrente oppure “antimusicale”? > 9. stile Svolgi l’analisi retorica dei versi finali della tragedia (atto V, scena V).

APPrOfOnDIre e InTerPreTAre

> 10.

scrivere In uno scritto di circa 15 righe (750 caratteri) sottolinea le novità rappresentate dal Saul all’interno del sistema tragico di Alfieri. > 11. Altri linguaggi: arte A Firenze Alfieri amava intrattenersi a recitare di fronte a un pubblico di pochi amici, in casa propria, ed il Saul era il suo personaggio preferito. Quasi certamente in una di queste manifestazioni fu presente anche il pittore francese Xavier Fabre, che oltre a ritrarre il poeta, dedicò alla sua opera maggiore il dipinto dal titolo Visione di Saul (1803). Dopo averlo osservato con attenzione e dopo aver riletto l’atto V del dramma, individua: a) l’identità dei singoli personaggi rappresentati; b) i versi che, quasi come una didascalia, ne descrivono i gesti e le azioni.

François-Xavier Fabre, Visione di Saul (Saul, atto V), 1803, olio su tela, part., Montpellier, Musée Fabre.

617

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

9 La trama ispirata al mito greco

Un dramma psicologico

Il compimento della poetica tragica

Mirra L’argomento è ricavato dal mito greco, ma la tragedia si svolge in realtà in un interno familiare, in un ambiente che potremmo dire “borghese”. La vicenda si incentra tutta sul segreto che si cela nell’eroina, Mirra. Figlia di Ciniro, re di Cipro, ha scelto di sposare Perèo, figlio del re dell’Epiro, giovane nobile e generoso d’animo, però è consumata fisicamente e psicologicamente da un intimo, misterioso tormento, che la fa orribilmente soffrire. Il padre, la madre Cecri, Perèo stesso sono disposti ad annullare le nozze, pensando che forse l’infeli­ cità di Mirra derivi dalla mancanza d’amore per il promesso sposo, ma al contrario la giovane è ferma nel proposito di sposarlo, e dopo le nozze intende lasciare subito la casa paterna. Tuttavia durante il rito nuziale Mirra cade in preda al delirio e crede di vedere intorno a sé le Erinni, le terribili dee persecutrici dei colpevoli. Perèo la scioglie dalla promessa e si allontana. Il padre, che prima era dolce e comprensivo dinanzi alle sofferenze della figlia, diviene ora duro e severo, e Mirra arriva a implorare da lui la morte (come già aveva fatto con la nutrice Euriclea, sua confidente). La madre cerca di consolarla, ma Mirra la respinge, perché vederla accresce il suo tormento: è angosciata all’idea di averla sempre davanti agli occhi, indicandola come sola ed eterna causa della sua sventura. Si definisce «empia» e invoca anche dalla madre la morte, finché è ancora innocente. Perèo, per l’impossibilità di avere Mirra che ama disperatamente, si è ucciso, e Ciniro ad ogni costo vuole sapere dalle labbra di Mirra l’orribile segreto che è nascosto nei suoi tor­ menti. Gli si spezza il cuore a mostrarsi irato e severo, aggiungendo così un altro motivo alle sofferenze della figlia, ma è necessario che le nasconda il suo affetto per forzarla ad aprirsi. Difatti si rivolge a lei con durezza, le annuncia il suicidio di Perèo, attribuendone a lei la responsabilità. E, nelle ultime scene della tragedia, il mistero si chiarisce, perché il padre intuisce la passione incestuosa della figlia. Ma l’eroina, travolta dalla vergogna, si uccide. Come si vede, Mirra è una tragedia lontana dalla tematica politica ed eroica che occupa tanta parte del teatro alfieriano, tratta una materia tutta psicologica, una materia scabro­ sa, difficile da affrontare. La novità straordinaria dell’opera è che al centro non presenta più il titano, con la sua febbre di grandezza e la lotta contro i limiti che la ostacolano, ma un’umanità più semplice, in cui si mescolano nobiltà spirituale e debolezza ed in cui si rivela la miseria universale del vivere. Non vi è più lo scontro della volontà dell’eroe con il mondo esterno, ma il conflitto si trasferisce nel profondo della coscienza, tra la passione sconvolgente, che nulla può soffocare, e la legge morale che l’eroina accetta senza residui. La tragedia si interiorizza, l’eroe non è più una figura gigantesca e monolitica, ma intimamente contrastata e perplessa. È una tendenza che già si era affermata nel Saul, ma pur sempre all’interno di un per­ sonaggio eccezionale, spinto da aneliti titanici. Qui invece il conflitto si svolge entro un campione di umanità comune, minore, in un’atmosfera familia­ re di sentimenti semplici, estra­ nea ad ogni ansia eroica. Alfieri gioca su trapassi psicologici complessi, toccandoli con estre­ ma delicatezza e sobria discre­ zione, accennando e alludendo più che affrontando direttamen­ te la questione. Gli attori Galatea Ranzi (Mirra), Remo Girone (Ciniro) e Anita Bartolucci (Cecri) nella Mirra di Vittorio Alfieri con la regia di Luca Ronconi per il Teatro Stabile di Torino, 1988.

618

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

T4

Il segreto di mirra

Temi chiave

da Mirra Riportiamo le ultime scene della tragedia (atto V, scene II-IV).

• il senso di colpa • l’interiorizzazione del conflitto • la miseria universale del vivere

aTTO QUINTO SCENa SECONDa Ciniro, Mirra ciniro

40

– Mirra, che nulla tu il mio onor curassi, creduto io mai, no, non l’avrei; convinto me n’hai (pur troppo!) in questo dì fatale a tutti noi: ma, che ai comandi espressi, e replicati del tuo padre, or tarda all’obbedir tu sii, più nuovo ancora questo a me giunge. mirra

45

… Del mio viver sei signor, tu solo… Io de’ miei gravi,… e tanti falli… la pena… a te chiedeva,… io stessa,… or dianzi,… qui… – presente era la madre;… deh! perché allor… non mi uccidevi?… ciniro

50

55

È tempo, tempo ormai, sì, di cangiar modi, o Mirra. Disperate parole indarno muovi; e disperati, e in un tremanti, sguardi al suolo affissi indarno. assai ben chiara in mezzo al dolor tuo traluce l’onta; rea ti senti tu stessa. Il tuo più grave fallo, è il tacer col padre tuo: lo sdegno quindi appien tu ne merti; e che in me cessi l’immenso amor, che all’unica mia figlia io già portai. – Ma che? tu piangi? e tremi? e inorridisci?… e taci? – a te fia dunque l’ira del padre insopportabil pena? mirra

60

ah!… peggior… d’ogni morte… ciniro

Odimi. – al mondo favola hai fatto i genitori tuoi, quanto te stessa, coll’infausto fine che alle da te volute nozze hai posto.

619

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

65

Già l’oltraggio tuo crudo i giorni ha tronchi del misero perèo… mirra

Che ascolto? Oh cielo! ciniro

70

75

perèo, sì, muore; e tu lo uccidi. Uscito del nostro aspetto appena, alle sue stanze solo, e sepolto in un muto dolore, ei si ritrae: null’uomo osa seguirlo. Io, (lasso me!) tardo pur troppo io giungo… Dal proprio acciaro trafitto, ei giacea entro un mare di sangue: a me gli sguardi pregni di pianto e di morte inalzava;… e, fra i singulti estremi, dal suo labro usciva ancor di Mirra il nome. – Ingrata… mirra

Deh! più non dirmi… Io sola, io degna sono, di morte… E ancor respiro?… ciniro

80

85

90

95

Il duolo orrendo dell’infelice padre di perèo, io che son padre ed infelice, io solo sentir lo posso: io ’l so, quanto esser debba lo sdegno in lui, l’odio, il desio di farne aspra su noi giusta vendetta. – Io quindi, non dal terror dell’armi sue, ma mosso dalla pietà del giovinetto estinto, voglio, qual de’ padre ingannato e offeso, da te sapere (e ad ogni costo io ’l voglio) la cagion vera di sì orribil danno. – Mirra, invan me l’ascondi1: ah! ti tradisce ogni tuo menom’atto2. – Il parlar rotto; lo impallidire, e l’arrossire; il muto sospirar grave; il consumarsi a lento fuoco il tuo corpo; e il sogguardar tremante; e il confonderti incerta; e il vergognarti, che mai da te non si scompagna: … ah! tutto, sì tutto in te mel dice, e invan tu il nieghi; … son figlie in te le furie tue… d’amore. mirra

Io? … d’amor? … Deh! nol3 credere… T’inganni.

1. me l’ascondi: me lo nascondi.

620

2. menom’atto: minimo atto.

3. nol: non lo.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri ciniro

100

piú il nieghi tu, più ne son io convinto. E certo in un son io4 (pur troppo!) omai, ch’esser non puote altro che oscura fiamma, quella cui tanto ascondi5. mirra

Oimè! … che pensi? … Non vuoi col brando6 uccidermi; … e coi detti… mi uccidi intanto… ciniro

105

110

E dirmi pur non l’osi, che amor non senti? E dirmelo, e giurarlo anco ardiresti, io ti terria7 spergiura. – Ma, chi mai degno è del tuo cor, se averlo non potea pur l’incomparabil, vero, caldo amator, perèo? – Ma, il turbamento cotanto è in te; … tale il tremor; sì fera8 la vergogna; e in terribile vicenda, ti si scolpiscon sì forte sul volto; che indarno il labro negheria9… mirra

Vuoi dunque… farmi… al tuo aspetto… morir… di vergogna? … E tu sei padre? ciniro

115

120

125

130

E avvelenar tu i giorni, troncarli vuoi, di un genitor che t’ama più che se stesso, con l’inutil, crudo, ostinato silenzio? – ancor son padre: scaccia il timor; qual ch’ella sia tua fiamma, (pur ch’io potessi vederti felice!) capace io son d’ogni inaudito sforzo per te, se la mi sveli. Ho visto, e veggo tuttor, (misera figlia!) il generoso contrasto orribil, che ti strazia il core infra l’amore, e il dover tuo. Già troppo festi, immolando al tuo dover te stessa: ma, più di te possente, amor nol volle. La passïon puossi escusare; ha forza più assai di noi; ma il non svelarla al padre, che tel comanda, e ten scongiura, indegna d’ogni scusa ti rende.

4. son io: sottinteso “convinto”. 5. cui … ascondi: che tanto nascondi. 6. brando: spada.

7. terria: riterrei. 8. fera: terribile. 9. indarno … negheria: invano il labbro lo

negherebbe.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

mirra

– O Morte, Morte, cui tanto invoco, al mio dolor tu sorda sempre sarai? … ciniro

135

Deh! figlia, acqueta alquanto, l’animo acqueta: se non vuoi sdegnato contra te più vedermi, io già nol sono più quasi omai; purché tu a me favelli. parlami deh! come a fratello. anch’io conobbi amor per prova: il nome… mirra

140

Oh cielo! … amo, sì; poiché a dirtelo mi sforzi; io disperatamente amo, ed indarno. Ma, qual ne sia l’oggetto, né tu mai, né persona il saprà: lo ignora ei stesso… ed a me quasi io ’l niego. ciniro

145

150

155

Ed io saperlo e deggio, e voglio. Né a te stessa cruda esser tu puoi, che a un tempo assai nol sii più ai genitori che ti adoran sola. Deh! parla; deh! – Già, di crucciato padre, vedi ch’io torno e supplice e piangente: morir non puoi, senza pur trarci in tomba. – Qual ch’ei sia colui ch’ami, io ’l vo’ far tuo. Stolto orgoglio di re strappar non puote il vero amor di padre dal mio petto. Il tuo amor, la tua destra, il regno mio, cangiar ben ponno ogni persona umìle in alta e grande: e, ancor che umìl, son certo, che indegno al tutto esser non può l’uom ch’ami. Te ne scongiuro, parla: io ti vo’ salva, ad ogni costo mio. mirra

160

Salva?… Che pensi? … Questo stesso tuo dir mia morte affretta… Lascia, deh! lascia, per pietà, ch’io tosto da te… per sempre… il piè… ritragga… ciniro

O figlia unica amata; oh! che di’ tu? Deh! vieni Frederic Leighton, Studio di testa femminile, XIX secolo, olio su tela, Collezione privata.

622

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

165

fra le paterne braccia. – Oh cielo! in atto di forsennata or mi respingi? Il padre dunque abborrisci? e di sì vile fiamma ardi, che temi… mirra

ah! non è vile; … è iniqua la mia fiamma; né mai… ciniro

Che parli? iniqua, ove primiero il genitor tuo stesso non la condanna, ella non fia: la svela. mirra

170

Raccapricciar d’orror vedresti il padre, se la sapesse… Ciniro… ciniro

Che ascolto! mirra

Che dico? … ahi lassa! … non so quel ch’io dica… Non provo amor… Non creder, no… Deh! lascia, te ne scongiuro per l’ultima volta, lasciami il piè ritrarre. ciniro

175

Ingrata: omai col disperarmi co’ tuoi modi, e farti del mio dolore gioco, omai per sempre perduto hai tu l’amor del padre. mirra

180

Oh dura, fera orribil minaccia! … Or, nel mio estremo sospir, che già si appressa,… alle tante altre furie mie l’odio crudo aggiungerassi del genitor? …10 Da te morire io lungi? … Oh madre mia felice! … almen concesso a lei sarà… di morire… al tuo fianco… ciniro

185

Che vuoi tu dirmi? … Oh! qual terribil lampo, da questi accenti!… Empia, tu forse?11 …

10. alle tante … genitor?: ai tanti altri miei tormenti si aggiungerà l’odio crudele di mio padre?

11. Empia … forse?: dal cenno alla madre, ritenuta fortunata perché potrà morire al fianco del suo sposo, Ciniro ha finalmente

capito che è lui l’oggetto della passione di Mirra.

623

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

mirra

Oh cielo! che dissi io mai?… Me misera! … Ove sono? Ove mi ascondo? … Ove morir? – Ma il brando tuo mi varrà… ciniro

Figlia… Oh! che festi? il ferro… 12 mirra

190

Ecco,… or… tel13 rendo… almen la destra io ratta14 ebbi al par che la lingua. ciniro

… Io… di spavento,… e d’orror pieno, e d’ira,… e di pietade,… immobil resto. mirra

195

Oh Ciniro!… Mi vedi… presso al morire… Io vendicarti… seppi,… e punir me… Tu stesso, a viva forza, l’orrido arcano15… dal cor… mi strappasti… ma, poiché sol colla mia vita… egli esce… dal labro mio,… men rea16… mi moro… ciniro

Oh giorno! Oh delitto! … Oh dolore! – a chi il mio pianto? … mirra

200

Deh! più non pianger;… ch’io nol merto17… ah! sfuggi mia vista infame;… e a Cecri… ognor… nascondi18…

205

padre infelice! … E ad ingoiarmi il suolo non si spalanca? … alla morente iniqua donna appressarmi io non ardisco;… eppure, abbandonar la svenata19 mia figlia non posso…

ciniro

12. ferro: spada. 13. tel: te lo. 14. ratta: rapida.

624

15. orrido arcano: orribile segreto. 16. men rea: meno colpevole. 17. nol merto: non lo merito.

18. nascondi: si riferisce al segreto della passione incestuosa. 19. svenata: uccisa.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

SCENa TERZa Cecri, Euricléa20, Ciniro, Mirra cecri

al suon d’un mortal pianto… ciniro

Oh cielo! non t’inoltrar… cecri

presso alla figlia… mirra

Oh voce!21 euricléa

ahi vista! nel suo sangue a terra giace Mirra? … cecri

La figlia? … ciniro

arretrati… cecri

210

Svenata! … Come? da chi? … Vederla vo’… ciniro

Ti arretra… Inorridisci… Vieni… Ella… trafitta, di propria man, s’è col mio brando… cecri

E lasci così tua figlia?… ah! la vogl’io… ciniro

215

più figlia non c’è costei. D’infame orrendo amore ardeva ella per… Ciniro… cecri

Che ascolto? – Oh delitto! … 20. Euricléa: è la nutrice e confidente di Mirra, che le è affezionata come a una madre.

21. Oh voce!: Mirra morente ha il terrore che la madre venga a sapere il suo segreto.

625

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

ciniro

Deh! vieni: andiam, ten priego, a morir d’onta22 e di dolore altrove. cecri

Empia… – Oh mia figlia! … ciniro

ah! vieni… cecri

ahi sventurata! … Né più abbracciarla io mai? …a

SCENa QUaRTa Mirra, Euriclèa mirra

220

Quand’io… tel… chiesi,… darmi… allora,… Euriclèa, dovevi il ferro… io moriva… innocente;… empia23… ora… muoio… a

viene strascinata fuori da Ciniro

22. onta: vergogna. 23. innocente … empia: innocente perché

nessuno sapeva il segreto della sua passione; ora si sente empia perché esso è stato

svelato, coprendola di vergogna.

Analisi del testo

> La passione incestuosa

La passione incestuosa

I sensi di colpa

Una materia tutta psicologica

626

In queste ultime scene finalmente si rivela la ragione segreta del tormento che affligge Mirra: è una passione incestuosa per il padre (istillata dalla dea Venere, per vendetta di un oltraggio ricevuto, come narra il mito greco, che Alfieri attinge da Ovidio). Mir­ ra lotta con tutte le sue forze contro questa passione, l’avverte come una potenza igno­ ta e invincibile che la domina contro la sua volontà, e se ne sente contaminata, cerca invano di eliminarla dalla sua coscienza, di liberarsene, sposando Perèo e allontanan­ dosi dal padre, ma invano. Nelle Erinni che crede di scorgere nel suo delirio è come se prendessero corpo fuori di lei i suoi insostenibili sensi di colpa.

> L’ironia tragica

Ciniro, con l’intuito del padre che ama profondamente la figlia, da tutta una serie di inequivocabili segni fisici ha capito che la misteriosa ragione della sofferenza di Mir­ ra è una passione d’amore, ma è lontanissimo dall’immaginare chi ne sia l’oggetto. Colta di sorpresa, nel terrore di veder svelato il suo segreto, l’eroina tenta di negare, ma lo sforzo non vale dinanzi allo sguardo acuto del genitore. Ciniro, confermandosi

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

L’inconsapevolezza del padre

Emozione e pietà

Il rifiuto dell’abbraccio paterno

La madre rivale

Il suicidio di Mirra

Il conflitto tragico del padre

personaggio di alto sentire, si dimostra aperto nello scusare la passione finché non ne conosce l’oggetto, sapendo che la sua potenza è troppo superiore alle forze umane. Si innesca così il meccanismo dell’ironia tragica, che si incentra sull’inconsapevolez­ za del personaggio, ignaro del carattere incestuoso ed empio di quel sentimento che sta giustificando. Il lettore e lo spettatore, che conoscono il mito, sanno ciò che il personaggio non sa, possono misurare l’abisso tra le parole del padre e la realtà, e questo genera quella reazione di intensa emozione e di pietà che è il fine della poesia tragica (come già aveva teorizzato Aristotele).

> La rivelazione del segreto

Forzata dalle parole del padre, così aperto alle confidenze ma anche così deciso nell’incalzarla con le sue domande, Mirra confessa di amare, ma rifiuta di rivelare quale sia l’oggetto del suo sentimento, visto che vorrebbe negarlo addirittura a se stessa. Ogni apertura di Ciniro, disposto ad accettare anche le nozze della figlia con una per­ sona di umili condizioni, trova sempre dinanzi a sé un muro da parte di lei, che arriva persino a respingere l’abbraccio paterno. Ma anche qui il lettore/spettatore capisce bene il motivo, l’orrore della giovane dinanzi al contatto fisico con l’uomo per cui pro­ va la sua insana passione e da cui è separata da un invalicabile tabù. La durezza della reazione di Ciniro fa balenare a Mirra la minaccia di perdere per sempre l’affetto paterno, e questo apre la prima breccia nella sua resistenza: il segreto così ostinatamente celato affiora in quel cenno alla madre, che sarà felice di poter morire a fianco del marito, dove è chiaro che Cecri è vista non come madre ma come rivale e da cui risulta una forma di invidia per l’amore legittimo che lei può nutrire per il suo sposo. Al che come in un lampo la verità si fa strada in Ciniro, che però non osa formulare fino in fondo la frase rivelatrice, bloccato dall’orrore. Al veder svelato il suo segreto, a Mirra non resta altro scampo che la morte, quella morte che da tempo invo­ cava. Con quel gesto l’eroina intende vendicare l’onore del padre e punire se stessa per la propria empietà: in realtà è innocente, perché è vittima di una maledizione di­ vina che l’ha colpita dall’esterno, senza la partecipazione della sua volontà, ma il solo provare in sé quella passione la fa sentire contaminata dalla colpa. Si apre anche il conflitto tragico del padre, che da un lato, vinto dall’orrore della rive­ lazione, non osa nemmeno avvicinarsi alla persona «iniqua», dall’altro non può non provare il naturale sentimento paterno di pietà per la figlia morente. Ma finisce per prevalere il primo impulso, e Ciniro ripudia Mirra come figlia, trascinando con sé anche la moglie, a morire lontano di vergogna e di dolore. Nelle ultime parole di Mirra risuona il rimpianto di non aver potuto trovare la morte prima che si svelasse il segre­ to, perché allora sarebbe morta innocente, mentre ora muore coperta di vergogna e infamia.

> La fine dell’individualismo eroico La miseria della condizione umana

Queste ultime parole, nella volontà di punizione che implicano, come sottolinea Ma­ siello rivelano la coscienza di una sconfitta, di un fallimento che la volontà non ha saputo evitare. La morte di Mirra non è un atto di liberazione eroica, di ribellione e di protesta, come in tanti protagonisti alfieriani di tragedie di libertà. Le parole di Mirra, nel vano rimpianto dell’innocenza perduta, nella desolazione dell’attuale empietà, in­ dicano la coscienza della miseria della condizione umana, di un destino ineluttabile di fallimento e di disfatta, e segnano il definitivo tracollo dell’individualismo eroico di Alfieri, al termine del suo percorso di poeta tragico.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Esercitare le competenze cOmPrenDere

> 1. In quali circostanze muore Perèo? Come reagisce Mirra alla notizia? Rispondi facendo riferimento al testo. > 2. Quali elementi rivelano a Ciniro, per sua stessa ammissione, che Mirra nasconde un segreto? AnALIZZAre

> 3.

stile Ricava dal testo uno o più esempi significativi della versificazione proposta da Alfieri per la tragedia ( La struttura della tragedia alfieriana, p. 588). > 4. stile Quale funzione hanno le reticenze di Mirra? Rispondi dopo averne individuato la frequenza e la concentrazione. > 5. Lessico Quali vocaboli e/o espressioni fanno riferimento all’amore inteso nella sua accezione passionale? Proponi una campionatura significativa ricavata dal testo.

APPrOfOnDIre e InTerPreTAre

> 6.

esporre oralmente La figura del padre e del sovrano è al centro della riflessione alfieriana: poni a confronto i personaggi di Saul ( T3, p. 597) e di Ciniro ciascuno in riferimento ai contesti a cui appartengono (max 8 minuti).

scrITTurA creATIVA

> 7. In base al contesto delineato dalla tragedia alfieriana, immagina lo stato d’animo di Perèo in procinto di darsi

la morte, e scrivi il testo della sua ultima lettera a Mirra in cui il giovane rivela di aver compreso i veri motivi del comportamento anomalo e angosciato della promessa sposa. Non superare le 40 righe (2000 caratteri).

Interpretazioni critiche

Vitilio masiello Il teatro alfieriano, esperienza anomala nella cultura del Settecento Il critico colloca la tragedia alfieriana entro le coordinate della cultura settecentesca, in particolare la “tragedia classica”, osservando come, pur essendo tributario della cultura del suo secolo, Alfieri si atteggi nei confronti di essa in termini di rifiuto e di rivolta. Il poeta usa lo stesso linguaggio della cultura contemporanea, ma in accezione diversa. Si colloca dunque al di qua, o forse al di là del suo momento storico, su un’onda più lunga, come accade talora ad esperienze intellettuali disomogenee e sfasate rispetto al proprio contesto, e perciò capaci di maggior distanza critica dal presente.

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Vitilio Masiello già nel 1964 aveva dedicato alla tragedia alfieriana un volume complessivo, L’ideologia tragica di Vittorio Alfieri. In questo articolo riprende e approfondisce le tesi di fondo del libro, cioè la ricostruzione del percorso che conduce alla crisi dell’individualismo eroico.

Il teatro tragico alfieriano si istituisce, in sé e per sé, nella cultura del Settecento, come segno di contraddizione: come un’esperienza anomala – perfino paradossale – priva, si di­ rebbe, di retroterra e di prospettiva. Senza passato e senza futuro. [...] L’esperienza alfieriana appare del tutto incommensurabile con la drammaturgia sette­ centesca e con le linee di tendenza che ne emergono: un corpo estraneo, anacronistico perfino.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

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Certo: non c’è quasi tragedia dell’Alfieri di cui non sia possibile individuare la fonte nel repertorio della tragédie classique1. La stessa poetica esplicita, così come viene formulata dall’Alfieri nella Lettera a Ranieri de’ Calzabigi, o nei Pareri sulle tragedie, discende, per essenzializzazione e scarnificazione, da modelli classicistici francesi, fra Racine2 e Voltaire. Eppure, a comparare la tragédie classique del Settecento francese col teatro alfieriano, è difficile immaginare forme ed esiti più divaricati: a partire dagli impianti statutari3, dall’i­ dea stessa di tragicità che sottende i due diversi modelli. Nella tragédie classique, e nei suoi massimi esponenti settecenteschi, Crébillon4 e Voltaire, l’orizzonte della concezione tragica è delimitato dall’ideale della bienséance5, che modella e imbriglia le passioni eroiche dell’età classica in una misura di compostezza e di decoro caratteristici di una cultura e civiltà razionalistiche. [...] Che ha da fare tutto questo con la «dismisura» – con la concentrazione parossistica di pas­ sioni collidenti su una scena desertica – propria del teatro alfieriano? Anche le procedure di «destorificazione» di miti, vicende e personaggi (classici e non), che caratterizzano i due modelli, operano in direzioni inverse: nel caso della tragédie classique, in direzione di una «attualizzazione» (meglio di un travestimento contemporaneo) di miti e vicende del passato; nel caso dell’Alfieri nella direzione opposta: cioè in termini di proie­ zione mitica – assoluta, atemporale, ontologica – di vicende storicamente significative e connotate. In questo senso, Filippo II (della tragedia omonima) e Don Garzia e Raimondo (della Congiura dei Pazzi) e Rosmunda perdono i loro connotati specifici e le loro peculiarità storiche; risalgono a ritroso la storia per attingere la dimensione archetipica del mito: simboli e in­ carnazioni di una condizione dell’essere che ha portata ontologica, atemporale; e dunque valenza metastorica6, pur se portata ad emergenza da una fase, da un ciclo specifico della storia umana. […] Dunque col modello classicistico in voga – con cui pure ha evidenti legami – il teatro alfie­ riano non si può identificare, tanti sono i mutamenti sostanziali introdotti dall’Alfieri. V. Masiello, L’epicedio dell’individualismo eroico (coordinate per una rilettura del teatro tragico alfieriano), in “L’ombra d’Argo”, II, 1985, n. 5­6

1. tragédie classique: la tragedia classicheggiante francese. 2. Racine: L’età del Barocco e della Nuova Scienza, cap. 4, p. 132.

3. impianti statutari: i “codici” che regolano il genere tragico. 4. Crébillon: Prosper de Crébillon padre (1674-1762), autore francese di tragedie, ri-

vale di Voltaire. 5. bienséance: buona creanza, convenienza. 6. metastorica: che si colloca al di fuori di qualunque determinato momento storico.

Esercitare le competenze cOmPrenDere

> 1. Attraverso quale confronto Masiello avvalora la tesi secondo cui il teatro alfieriano – «Senza passato e sen-

za futuro» (r. 3) – rappresenta un’anomalia nel panorama culturale del XVIII secolo? > 2. In che cosa consiste, secondo il critico, la «“destorificazione”» (r. 21) messa in atto da Alfieri in certa sua produzione tragica? AnALIZZAre

> 3.

Lessico Spiega, anche con l’ausilio del dizionario, la formazione e la precisa accezione del termine «“dismisura”» (r. 19).

APPrOfOnDIre e InTerPreTAre

> 4. esporre oralmente Ritieni che le tragedie proposte in antologia, oltre a quelle citate dal critico, facciano riferimento a precise vicende e personaggi storici in una dimensione mitica e atemporale? Motiva la tua risposta in un’esposizione orale (max 5 minuti).

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dialoghi immaginari

Alfieri e Goldoni moderatore Voi siete senza dubbio i maggiori autori teatrali del Settecento. Ma vi siete espressi in due forme diverse, quella tragica e quella comica. Avevate in mente due tipi di pubblico diversi?

Alfieri Certamente. Per quanto mi riguarda, ho scritto le mie opere per un pubblico colto e raffinato, ma soprattutto di nobili sentimenti e di grandi ideali. Parlerei di un pubblico aristocrati­ co, se non fosse che oggi molti – troppi! – aristo­ cratici sono rozzi e ignoranti, insensibili alle forti passioni. Aristocratico nello spirito e nei senti­ menti elevati, voglio dire. Per il resto non mi curo affatto di un pubblico composto da gente comune, che non è neppure in grado di capire i miei testi quando vengono rappresentati. Goldoni La mia concezione del pubblico è ben diversa. Ma prima di tutto devo dire che io non appartengo a una famiglia di antica origine aristocratica come Alfieri; sono figlio di un medico, appartengo cioè a quella classe media che, soprattutto a Venezia, si sta adesso affermando. È questo il pubblico privilegiato a cui rivolgo le mie commedie, opere che le persone hanno mostrato di apprezzare, perché presento personaggi e situazioni vicini ai loro interessi, in cui facilmente possono riconoscersi. moderatore Immagino quindi che usiate stili e modalità espressive diverse.

Alfieri Proprio perché è una forma aristocratica, la tragedia deve usare un linguaggio sublime, che riecheggi l’imperiosa classicità dei grandi tragici del passato. Non però le lungaggini della tragedia classica 630

francese del secolo scorso, quella di Racine e Corneille, con il loro verso lunghissimo (quello che chiamano “alessandrino”, e che noi chiamiamo “martelliano”) e con tutti gli indugi di un lungo periodare. Che noia sorbirsi quelle lunghe tiritere, in cui la tensione tragica scompare, annacquandosi in un chiacchiericcio banale. La parola deve essere vibrata e scattante, assumere un andamento pronto e deciso, come se fosse l’equivalente della stessa azione. Lo sapete che in un solo endecasillabo sono riuscito a inserire ben cinque frasi? L’ho fatto nell’Antigone, quando il tiranno Creonte chiede alla protagonista se preferisce sposare suo figlio o morire. Ve lo ricordate? «“Scegliesti?” “Ho scelto” “Emon?” “Morte” “L’avrai”». Goldoni Non vedo perché scaldarsi tanto, quando nella realtà le cose hanno uno svolgimento più tranquillo, riposato e disteso. Facciamo parlare anche gli attori di teatro come parlano i comuni mortali, con un linguaggio che si può definire “realistico”, in quanto corrisponde ad argomenti riconducibili all’esistenza quotidiana, con le sue occupazioni e i suoi problemi. Non per questo penso che le mie commedie siano meno importanti delle tragedie di Alfieri. Di sicuro, e questo lo credo fermamente, sono più moderne, in quanto corrispondono ai nuovi bisogni culturali espressi dal pubblico, che si vanno sempre più affermando. moderatore Dietro a queste sue scelte, che sono certamente innovatrici rispetto alla tradizione letteraria dominante, c’è quindi una precisa consapevolezza critica, al’idea di una poetica teatrale diversa rispetto al passato.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Goldoni Come lei sa (sembra volutamente ignorare Alfieri), io ho condotto a termine una vera e propria riforma teatrale. Rispetto alla Commedia dell’Arte, ho dato importanza al testo scritto, occupandomi del teatro come forma di spettacolo. Ho dovuto conquistare i favori del pubblico, battendo la concorrenza di un mio collega piuttosto invidioso e malevolo, Pietro Chiari. Non potevo certo ignorare gli aspetti pratici e organizzativi, tanto che, definendomi “poeta di teatro” intendevo riferirmi a tutti gli aspetti della rappresentazione teatrale. moderatore Si può dire che lei ha cominciato a fare i conti con l’affermarsi di una forma di nuova industria, quella teatrale?

Goldoni Certamente. Il teatro è anche un prodotto culturale, che deve permettere di vivere non solo all’autore ma anche ai capocomici e a tutti gli attori della compagnia. Un’organizzazione così complessa richiede un impresario che sappia gestire anche gli aspetti economici. moderatore Quindi il successo dipende dai biglietti che vengono venduti. E la vendita è legata alla capacità di catturare l’interesse della gente. Che relazione c’è con gli argomenti trattati?

Goldoni Io ho iniziato utilizzando ancora le maschere, per non contraddire troppo le abitudini degli spettatori. Ma il pubblico deve anche essere educato. Per questo ho poi introdotto tematiche nuove, calandole all’interno di realtà sociali quotidiane, legate agli interessi della borghesia. Se avete visto la rappresentazione della Locandiera – ma su questa mia commedia vorrei tornare più avanti –, vi renderete facilmente conto di cosa voglio dire.

moderatore Mentre Goldoni parlava, lei, Alfieri, è stato zitto. Ma aveva un’aria crucciata, quasi sdegnosa. Erano gli occhi a parlare...

Alfieri Sì, faccio fatica ad ascoltare discorsi come questi. A me non importa nulla di questo nuovo tipo di pubblico, così come, del resto, diffido degli attori e di tutti gli apparati scenici. Preferisco rappresentare le mie opere nei palazzi nobiliari, per pochi spettatori selezionati; io stesso ho interpretato i miei personaggi, perché sono convinto di essere il migliore interprete di ciò che io (calca la voce sul pronome personale e lo ripete), io ho scritto. Nessun altro potrebbe esprimere meglio il fuoco della passione da cui mi sentivo invaso quando versificavo le mie tragedie. Altro che impresari e compagnie! Capaci solo di tradire quei valori alti, sublimi – di indipendenza, di libertà, di odio per la tirannide – che solo il grande scrittore, lo scrittore tragico, sa concepire, e che si rifiuta di asservire ai più bassi interessi della plebe. La mia è stata anche un’ispirazione lirica, tanto che ho voluto quasi raffigurarmi nel sonetto Uom di sensi, e di cor, libero nato: «Conscio a sé di se stesso, uom tal non degna / l’ira esalar che pura in cor gli ferve; / ma il sol suo aspetto a non servire insegna». Goldoni È facile parlare così quando si è nati in una famiglia nobile e ricca, si è potuto viaggiare per tutta l’Europa con un servitore al seguito e seduto comodamente su lussuose carrozze, senza essere incalzati dal bisogno economico. Io, come ho detto, ho dovuto fare una lunga gavetta. E certi lussi non me li sarei mai potuti permettere. moderatore Avete chiarito alla perfezione la natura delle vostre opere e la vostra posizione di intellettuali. Ma voglio ancora tentare, con Alfieri, una provocazione. I grandi protagonisti

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

delle tragedie alfieriane – metti Saul, o Mirra – non sono solo dei personaggi d’eccezione, eroi nel senso classico del termine, ma vivono complessi problemi psicologici e familiari, che sembrano molto più attuali. È come se, al di sotto della vicenda rappresentata, ci fosse qualcosa di non espresso, qualcosa che l’autore non può o non vuole dire...

Alfieri Forse, ripensandoci bene, la tanto conclamata superiorità dei miei eroi (ma anche quella che io sento in me) esprime anche una mancanza e una insoddisfazione profonda, quella che mi ha spinto a compiere dei viaggi forsennati, come se dovessi fuggire dagli altri o da me stesso. Come ho scritto nella mia Vita, ho avuto un’infanzia troppo repressa, che mi ha spinto alla ribellione. moderatore (a Goldoni) Tornando alla Locandiera, Mirandolina è invece un personaggio di modesta estrazione sociale, ma, incarnando i nuovi valori dell’operosità e dell’intraprendenza, riesce a piegare, e anche a irridere, la presunzione e l’arroganza di chi vorrebbe conquistarne i favori.

Goldoni Sì, Mirandolina si è fatta da sé e, con l’intelligenza e il coraggio, ha saputo costruire il proprio destino. Non ha nulla a che vedere con un’eroina tragica come Mirra, ma per me è ugualmente un’eroina, l’eroina non meno grande di una società che si sta trasformando. Il mio è stato anche un discorso politico, che voleva rappresentare l’esaurirsi di un intero sistema

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sociale, ormai del tutto inutile e improduttivo; non a caso i due spasimanti rappresentano le condizioni diverse ma complementari di una nobiltà al tracollo: la vecchia nobiltà, quella del sangue, e la nuova, di chi ha comprato con i soldi il titolo nobiliare. Entrambi credono di avere ancora quegli assurdi diritti e privilegi che ormai non esistono più, e così non fanno altro che coprirsi di ridicolo. È un motivo che già Parini ha affrontato nel Giorno; ma a differenza di Parini, che non propone alternative, io ho rappresentato anche la realtà dinamica di una diversa società, con i suoi valori e le sue aspirazioni. Certo non mi illudo che tutto sia positivo; la ricchezza non deve essere separata da un senso profondo del dovere e dell’onestà, che forse adesso vengono trascurati. La stessa Mirandolina, a ben vedere, agisce solo per il suo tornaconto personale, senza tanti scrupoli. moderatore In quello che lei dice sui mutamenti sociali si avverte il riflesso delle idee illuministiche, che credo abbiano avuto anche su Alfieri una qualche influenza.

Alfieri Sì, ma soltanto per quanto riguarda l’idea della “libertà”, di cui ho parlato in due miei trattati, Della tirannide e Del principe e delle lettere. Della “uguaglianza” e della “fraternità”, assunte poi anch’esse come parole d’ordine dai rivoluzionari, non sapevo proprio cosa farmene. Per questo ho esultato quando c’è stata la Presa della Bastiglia, ma poi la Rivoluzione francese mi ha ben presto deluso. Uno scrittore come me non può avere compagni di strada. Deve stare da solo con se stesso. (Mentre il pubblico applaude, si alza e se ne va senza salutare nessuno; Goldoni, sorridente, ringrazia invece i presenti).

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

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La scrittura autobiografica: la Vita scritta da esso Il racconto di una vocazione poetica

La stesura della Vita

La ricostruzione di una vocazione poetica

La concentrazione sull’io, il soggettivismo esasperato, il culto dell’intensa passio­ nalità, del «forte sentire», spingono inevitabilmente Alfieri alla scrittura autobiografica. L’impulso si era manifestato sin dai giovanili Giornali, stesi tra il 1774 e il 1777, prima in francese e poi in italiano, testimonianza diretta della crisi da cui do­ veva scaturire la svolta fondamentale della sua vita, la dedizione alla tragedia. Con­ dotta a termine la sua fatica con i due Bruti e la stampa definitiva delle tragedie, a Parigi nel 1790 Alfieri iniziò a scrivere la Vita; vi ritornò poi sopra e la rielaborò profondamente a Firenze fra il 1798 e il 1803, anno della sua morte. Nel 1797 iniziò anche la stesura di una Parte seconda dedicata agli avvenimenti dal 1790 al 1803. La Parte prima è divisa in quattro «epoche», Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità; la Parte seconda non è che una «continuazione della quarta epoca», se­ condo la definizione dello scrittore stesso. Alfieri non è spinto a ricuperare il passato dalla magia della memoria che annulla il tempo, dal fascino della rievocazione di una stagione privilegiata, l’infanzia, come avverrà poi in tanta scrittura autobiografica otto e novecentesca (a partire già da Leo­ pardi); il suo intento è ricostruire il delinearsi di una vocazione poetica, vista come il centro intorno a cui un’intera esistenza si organizza, acquistando senso e valore. Il poeta ripercorre la sua vita alla luce dell’opera tragica e la presenta tutta incessantemente protesa a raggiungere quella meta. Lo schema su cui il racconto è costruito ricorda irresistibilmente la storia di una con­ versione religiosa: prima vi è l’inquietudine oscura dell’animo, proteso verso un og­ getto che è ancora ignoto, poi il momento centrale della rivelazione, dell’illuminazio­ ne, a cui si ispira tutto il corso dell’esistenza successiva, in un esercizio rigoroso di ascesi, in una dedizione totale ad una missione. Basta sostituire alla parola “Dio”, che è propria delle conversioni religiose, la parola “poesia”, e lo schema coincide perfettamente. D’altronde è lo scrittore stesso ad usare il termine «conversione» a proposito della scoperta della propria vocazione tragica. Alfieri ha un vero e proprio culto religioso della poesia: la scrittura poetica non è solo esercizio tecnico, reto­ rico, come era allora abituale per la massa dei letterati, ma è la realizzazione suprema dell’essere, un qualcosa in cui, per continuare la metafora religiosa, si mette in gioco “la salute dell’anima”, il valore stesso della propria esistenza. Questa identificazione tra vita e poesia, questo culto mistico dell’attività poetica, è un’altra componen­ te che colloca l’esperienza interiore di Alfieri già in un clima romantico.

La tensione eroica L’ideale di magnanimità sublime

Insieme al maturarsi della vocazione tragica il racconto alfieriano segue anche il progressivo formarsi di una personalità eroica, il protendersi verso un ideale di magnanimità sublime. I due percorsi in fondo si identificano: la suprema realizzazione dell’eroico, per Alfieri, è appunto la figura del poeta, come si può leggere nel trattato Del principe e delle lettere, scritto quattro anni prima della Vita ( T2, p. 581). Per questo la narrazione si concentra in modo quasi esclusivo sul protagonista. Non vi è posto nell’autobiografia alfieriana per la ricostruzione di ambienti, costumi, mac­ chiette, aneddoti, come nel bonario impianto dei Mémoires goldoniani: l’io del poeta e lo svolgimento della sua vita interiore hanno un rilievo preponderante. 633

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Lo scrittore sente in sé con orgoglio e commozione la presenza di una sublimità di sentire che lo distacca dagli altri uomini, lo isola in una feroce solitudine, lo mette in conflitto con un mondo mediocre e banale. I germi di questa sublimità eroica sono colti nelle cupe malinconie della fanciullezza solitaria e scontrosa, nell’insoffe­ renza ostinata dell’adolescente per l’ottusa piattezza della vita dell’Accademia mili­ tare e per gli studi pedanteschi, nell’irrequietezza ribelle degli anni giovanili, negli sdegni generosi e nell’«odio purissimo della tirannide in astratto», nelle accensioni passionali furibonde. Ma queste forze latenti, sparse, frantumate e inconsapevoli, acquistano un senso, una direzione e un fine solo quando sono indirizzate alla scrittura delle tragedie, disciplinate dallo studio assiduo, e l’urgenza passionale si placa identificando il suo oggetto nel «degno amore» per la Stolberg. Da questo mo­ mento il poeta trova il suo autentico se stesso, la sua immagine scissa e tormentata sembra ricomporsi e raggiungere un equilibrio.

L’impossibilità dell’eroico La consapevolezza della miseria umana

Il distacco dall’io narrato

Sappiamo però, dalla lettura delle tragedie, che la tensione sublime ed eroica di Alfieri è sempre accompagnata da un amaro e scettico pessimismo, da una lucida consapevolezza dell’effettiva miseria e insufficienza dell’uomo, che corrode ogni slancio magnanimo. L’ansia titanica di grandezza si scontra sempre con il limite uma­ no e reca già in sé il senso di una sconfitta inevitabile. Quest’intima conflittuali­ tà dà vita alle principali figure tragiche di Alfieri, come Saul. Nella Vita la consape­ volezza del limite è presente, ma non in chiave tragica: piuttosto lo scrittore contempla a distanza se stesso, le proprie debolezze, gli accidenti esterni che com­ promettono la sublimità eroica. Tra l’io narrante e l’io narrato si stabilisce un rapporto complesso: a volte, nei momenti di massima tensione, le due prospettive coincidono, e l’Alfieri che scrive si identifica pienamente con quel se stesso che è stato protagonista degli avvenimenti narrati; in altri casi invece le due prospettive si disgiungono e l’io narrante contempla il comportamento dell’io narrato con distacco e con ironia, sottolineando le sue incoerenze, le sue piccole miserie: l’avarizia, la passione per i cavalli, la cura vanitosa e futile per l’abbigliamento e per l’aspetto esteriore, gli scatti d’ira incontrollati, i puntigli caparbi che finiscono per essere ridi­ coli. In un’opera che vuole essere il ritratto di una vocazione eroica c’è una sottile, amara consapevolezza dell’impossibilità dell’eroico. La Vita, dunque, sembra riflettere quel disinganno che caratterizza l’ultimo Alfieri e che si manifesta cruda­ mente nelle opere più tarde, quali le Satire e le Commedie.

Lo stile Una forma colloquiale ma incisiva

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Lo stile della Vita è lontano dalle pesantezze classicheggianti di tanta prosa del tempo. Lo scrittore stesso, nell’introduzione, afferma di aver voluto «lasciar fare alla penna» e di non essersi voluto scostare dalla «spontanea e triviale naturalezza» di un’opera «dettata dal cuore e non dall’ingegno». È perciò uno stile converse­ vole, ma non appare mai piatto: il ritmo del discorso è nervoso e incalzante, il linguaggio è conciso ed essenziale ed è costantemente insaporito dall’immissione di termini inusuali, in genere curiosi e personalissimi neologismi («spiemontizzarsi», «filosofessa», «scimiotigri»: avremo modo di esaminarli più da vicino nelle analisi dei testi).

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

T5

Odio antitirannico e fascino del paesaggio nordico

• la presa di distanza dalle intemperanze

dalla Vita scritta da esso, epoca terza, capp. VIII e IX

• il disprezzo per la passività dei popoli

Il passo descrive il secondo viaggio europeo di Alfieri (176970), attraverso Austria, Prussia, Danimarca, Svezia, Russia. Il giovane ha vent’anni.

• la corrispondenza tra la natura

Temi chiave giovanili

• letterato cortigiano e «libero scrittore» • il rifiuto di ogni militarismo e dell’assolutismo illuminato tiranneggiati

selvaggia e l’io del poeta

Cap. VIII Secondo viaggio, per la Germania, la Danimarca e la Svezia.

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per la via di Milano e Venezia, due città ch’io volli rivedere; poi per Trento, Inspruck1, augusta, e Monaco, mi rendei2 a Vienna, pochissimo trattenendomi in tutti i suddetti luoghi. Vienna mi parve avere gran parte delle picciolezze di Torino, senza averne il bello della località. Mi vi trattenni tutta l’estate, e non vi imparai nulla. Dimezzai il soggiorno, facendo nel luglio una scorsa fino a Buda3, per aver veduta una parte dell’Ungheria. Ridivenuto oziosissimo, altro non faceva che andare attorno qua e là nelle diverse compagnie; ma sempre ben armato contro le insidie d’amore. E mi era a questa difesa un fidissimo usbergo4 il praticare il rimedio commendato da Catone5. Io avrei in quel soggiorno di Vienna potuto facilmente conoscere e praticare il celebre poeta Metastasio6, nella di cui casa ogni giorno il nostro ministro, il degnissimo conte di Canale7, passava di molte ore la sera in compagnia scelta di altri pochi letterati, dove si leggeva seralmente alcuno squarcio di classici o greci, o latini, o italiani. E quell’ottimo vecchio conte di Canale, che mi affezionava8, e moltissimo compativa i miei perditempi, mi propose più volte d’introdurmivi. Ma io, oltre all’essere di natura ritrosa, era anche tutto ingolfato nel francese, e sprezzava ogni libro ed autore italiano. Onde quell’adunanza di letterati di libri classici mi parea dover essere una fastidiosa brigata di pedanti. Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio a Schoenbrunn9 nei giardini imperiali fare a Maria Teresa10 la genuflessioncella di uso, con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando11, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta all’autorità despotica da me sì caldamente abborrita12. In tal guisa io andava a poco a poco assumendo il carattere di un salvatico pensatore; e queste disparate13 accoppiandosi poi con le passioni naturali all’età di vent’anni e le loro conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai originale e risibile.

1. Inspruck: Innsbruck. 2. mi rendei: giunsi. 3. Buda: l’antica città ungherese che nel 1873 fu unita a Pest, dando origine a Budapest. 4. usbergo: protezione (letteralmente “corazza”). 5. il rimedio ... Catone: Orazio, nella satira II del libro I, vv. 31-35, attribuisce a Catone questa sentenza: «Non appena la torbida lussuria gonfia le loro vene, è giusto che i giovani entrino qui [nei bordelli], e non insidiino le mogli altrui». 6. Metastasio: cap. 1, A3, p. 276.

7. il nostro ... Canale: l’ambasciatore del Regno sabaudo alla corte asburgica, Luigi Girolamo Malabaila, conte di Canale. 8. mi affezionava: aveva dell’affetto per me. 9. Schoenbrunn: la reggia imperiale. 10. Maria Teresa: l’imperatrice (1717-80). 11. giovenilmente plutarchizzando: nella mia infatuazione giovanile mi atteggiavo come un eroe plutarchiano. Plutarco di Cheronea, scrittore greco vissuto tra il I e il II secolo dopo Cristo, fu famoso soprattutto per le Vite parallele, una serie di biografie di grandi personaggi greci e romani ordinate a coppie, con un paragone finale (ad esempio la vita di

Alessandro viene accostata a quella di Cesare). Le biografie plutarchiane presentano personaggi dal forte carattere, magnanimi e amanti della libertà, che fornirono modelli eroici per secoli, sino all’età romantica. 12. con una Musa ... abborrita: con un poeta che affittava o vendeva la sua ispirazione alla tirannide, che io detestavo ardentemente. Nel suo bisogno di assoluta indipendenza, Alfieri disprezza l’intellettuale cortigiano, che si mette al servizio dei principi rinunciando così alla sua libertà di ispirazione e alla sua dignità. 13. disparate: passioni non proprie della mia età.

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proseguii nel settembre il mio viaggio verso praga e Dresda, dove mi trattenni da un mese14; indi a Berlino, dove dimorai altrettanto. all’entrare negli stati del gran Federico15, che mi parvero la continuazione di un solo corpo di guardia16, mi sentii raddoppiare e triplicare l’orrore per quell’infame mestier militare, infamissima e sola base dell’autorità arbitraria17, che sempre è il necessario frutto di tante migliaia di assoldati satelliti18. Fui presentato al re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di maraviglia né di rispetto, ma d’indegnazione bensì e di rabbia: moti che si andavano in me ogni giorno afforzando e moltiplicando alla vista di quelle tante e poi tante diverse cose che non istanno come dovrebbero stare, e che essendo false si usurpano pure la faccia e la fama di vere19. Il conte di Finch, ministro del re, il quale mi presentava, mi domandò perché io, essendo pure in servizio del mio re20, non avessi quel giorno indossato l’uniforme. Risposigli: perché in quella corte mi parea ve ne fossero degli uniformi abbastanza. Il re mi disse quelle quattro solite parole di uso; io l’osservai profondamente, ficcandogli rispettosamente gli occhi21 negli occhi; e ringraziai il cielo di non mi aver fatto nascer suo schiavo. Uscii da quella universal caserma22 prussiana verso il mezzo novembre, abborrendola quanto bisognava. partito alla volta di amburgo, dopo tre giorni di dimora, ne ripartii per la Danimarca. Giunto a Copenhaguen ai primi di decembre, quel paese mi piacque bastantemente, perché mostrava una certa somiglianza coll’Olanda; ed anche v’era una certa attività, commercio, ed industria, come non si sogliono vedere nei governi pretti monarchici23: cose

14. da un mese: circa un mese. 15. gran Federico: Federico II, detto il Grande, re di Prussia dal 1740. Fu tra i sovrani “illuminati” e riformatori. 16. corpo di guardia: Federico II organizzò in modo ferreo la macchina militare prussiana. Il suo Stato risente di questa rigida disciplina militare. 17. base ... arbitraria: come Alfieri teorizza anche nel trattato Della tirannide, l’esercito è uno dei pilastri su cui si sostiene l’autorità del monarca assoluto; arbitraria perché non trova alcun limite al suo arbitrio, non deve ren-

Peder Balke, Capo Nord, 1853, olio su tela, Collezione privata.

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dere conto a nessuno. 18. assoldati satelliti: guardie del corpo che ricevono la paga militare (“soldo”). Il vocabolo latineggiante ha qui un valore spregiativo: vuol dire che quegli sgherri stanno a fianco del sovrano per motivi opportunistici di interesse e gli tributano servile obbedienza, essendo pronti a qualsiasi infamia. 19. false ... vere: la fama di sovrano illuminato, che per Alfieri non corrisponde al vero e maschera solo un bieco dispotismo, come rivela la militarizzazione dello Stato.

20. in servizio ... re: Alfieri aveva ancora il grado di ufficiale dell’esercito sabaudo. 21. ficcandogli ... occhi: lo scrittore si rappresenta qui nelle vesti di «liber’uomo», che manifesta la sua fiera indipendenza di fronte al tiranno. 22. universal caserma: come ha già detto in precedenza, lo Stato prussiano gli sembra tutto una caserma, tanto è modellato sulla disciplina militare. 23. governi ... monarchici: monarchie assolute.

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tutte, dalle quali ne ridonda un certo ben essere universale, che a primo aspetto previene chi arriva, e fa un tacito elogio di chi vi comanda: cose tutte, di cui neppur una se ne vede negli Stati prussiani; benché il gran Federico vi comandasse alle lettere e alle arti e alla prosperità, di fiorire sotto all’uggia sua24. Onde la principal ragione per cui non mi dispiacea Copenhaguen si era il non esser Berlino né prussia: paese, di cui niun altro mi ha lasciato una più spiacevole e dolorosa impressione, ancorché vi siano, in Berlino massimamente, molte cose belle e grandiose in architettura. Ma quei perpetui soldati, non li posso neppur ora, tanti anni dopo, ingoiare senza sentirmi rinnovare lo stesso furore che la loro vista mi cagionava in quel punto. [...] Quando gl’incomodi25 mi permetteano d’andar fuori, uno dei maggiori miei divertimenti in quel clima boreale era l’andare in slitta; velocità poetica26, che molto mi agitava e dilettava la non men celere fantasia. Verso il fin di marzo partii per la Svezia; e benché io trovassi il passo del Sund27 affatto libero dai ghiacci, indi la Scania28 libera dalla neve; tosto ch’ebbi oltrepassato la città di Norkoping, ritrovai di bel nuovo un ferocissimo inverno, e tante braccia di neve, e tutti i laghi rappresi29, a segno che non potendo più proseguir colle ruote, fui costretto di smontare il legno30 e adattarlo come ivi s’usa sopra due slitte; e così arrivai a Stockolm. La novità di quello spettacolo, e la greggia31 maestosa natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi trasportavano, e benché non avessi mai letto l’Ossian32, molte di quelle sue imagini mi si destavano ruvidamente scolpite, e quali le ritrovai poi descritte allorché più anni dopo lo lessi studiando i ben architettati versi del celebre Cesarotti33. La Svezia locale34, ed anche i suoi abitatori d’ogni classe, mi andavano molto a genio; o sia perché io mi diletto molto più degli estremi, o altro sia ch’io non saprei dire; ma fatto si è, che s’io mi eleggessi35 di vivere nel settentrione, preferirei quella estrema parte a tutte l’altre a me cognite36. La forma del governo della Svezia, rimestata ed equilibrata in un certo tal qual modo che pure una semilibertà vi trasparisce, mi destò qualche curiosità di conoscerla a fondo. Ma incapace poi di ogni seria e continuata applicazione, non la studiai che alla grossa. Ne intesi pure abbastanza per formarne nel mio capino un’idea; che stante la povertà delle quattro classi votanti37, e l’estrema corruzione della classe dei nobili e di quella dei cittadini, donde nasceano le venali influenze dei due corruttori paganti, la Russia e la Francia, non vi potea allignare né concordia fra gli ordini38, né efficacità di determinazioni, né giusta e durevole libertà. Continuai il divertimento della slitta con furore, per quelle cupe selvone, e su quei lagoni crostati, fino oltre ai venti di aprile; ed allora in soli quattro giorni con una rapidità incredibile seguiva il dimoiare39 d’ogni qualunque gelo, attesa la lunga permanenza del sole su l’orizzonte, e l’efficacia dei venti marittimi; e allo sparir delle nevi accatastate forse in dieci strati l’una su l’altra, compariva la fresca verdura: spettacolo veramente bizzarro, e che mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo far versi.

24. vi comandasse ... sua: il dirigismo dall’alto del sovrano riformatore “impone” alla cultura e all’economia di fiorire, ma in realtà quelle attività non possono svilupparsi a comando, e soprattutto sotto la cappa oppressiva (uggia) dell’autoritarismo monarchico. La densa espressione alfieriana sottolinea la contraddizione intima dell’assolutismo illuminato. 25. gl’incomodi: il giovane soffre di una malattia venerea. 26. velocità poetica: la velocità è poetica

perché gli stimola la fantasia. 27. Sund: lo stretto che separa l’isola di Seeland dalla Svezia meridionale. 28. Scania: la parte meridionale della Svezia. 29. rappresi: gelati. 30. il legno: la carrozza. 31. greggia: selvaggia. 32. Ossian: i Poemi di Ossian sono frammenti di canti gaelici tradotti e profondamente rielaborati dallo scozzese James Macpherson, che li attribuì a un bardo leg-

gendario, Ossian, vissuto nel III secolo d.C., e li pubblicò con enorme successo a partire dal 1760. 33. Cesarotti: Melchiorre Cesarotti tradusse i Poemi di Ossian nel 1763. 34. La Svezia locale: i luoghi della Svezia. 35. mi eleggessi: scegliessi. 36. cognite: note. 37. quattro ... votanti: avevano diritto di voto i nobili, il clero, i borghesi e i contadini. 38. ordini: classi. 39. dimoiare: sciogliersi.

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Cap. IX Proseguimento di viaggi, Russia, Prussia di bel nuovo, Spa40, Olanda e Inghilterra.

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Io sempre incalzato dalla smania dell’andare, benché mi trovassi assai bene in Stockolm, volli partirne verso il mezzo di maggio per la Finlandia alla volta di pietroborgo. Nel fin d’aprile aveva fatto un giretto sino ad Upsala, famosa Università, e cammin facendo aveva visitate alcune cave del ferro, dove vidi varie cose curiosissime; ma avendole poco osservate, e molto meno notate, fu come se non le avessi mai vedute. Giunto a Grisselhamna, porticello della Svezia su la spiaggia orientale, posto a rimpetto dell’entrata del golfo di Botnia, trovai da capo l’inverno, dietro cui pareva ch’io avessi appostato41 di correre. Era gelato gran parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta (che per cinque isolette si varca quest’entratura del suddetto golfo) attesa l’immobilità totale dell’acque, riusciva per allora impossibile ad ogni specie di barca. Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre giorni, finché spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là, e far crich, come dice il poeta nostro42; quindi a poco a poco a disgiungersi in tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza dischiudevano a chi si fosse arrischiato d’intromettervi una barcuccia. Ed in fatti il giorno dopo approdò a Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a cui doveva approdar io, la prima; e disseci il pescatore che si passerebbe, ma con qualche stento. Io subito volli tentare, benché avendo una barca assai più spaziosa di quella peschereccia, poiché in essa vi trasportava la carrozza, l’ostacolo veniva ad essere maggiore; ma però assai minore il pericolo, poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea più robustamente far fronte un legno grosso che non un piccolo. E così per l’appunto accadde. Quelle tante galleggianti isolette rendevano stranissimo l’aspetto di quell’orrido mare che parea piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che non un volume di acque: ma il vento essendo, la Dio mercé, tenuissimo, le percosse di quei tavoloni nella mia barca riuscivano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro gran copia43 e mobilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti alla mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il solco; e subito altri ed altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarci nel continente. Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l’ascia; castigatrice d’ogni insolente. più d’una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scuri si andavano partendo44, e staccando dalle pareti del legno, tanto che desser luogo ai remi e alla prora; poi risaltati noi dentro coll’impulso della risorta nave, si andavano cacciando dalla via quegli insistenti accompagnatori; e in tal modo si navigò il tragitto primo di sette miglia svezzesi45 in dieci e più ore. La novità di un tal viaggio mi divertì moltissimo; ma forse troppo fastidiosamente sminuzzandolo io nel raccontarlo, non avrò egualmente divertito il lettore. La descrizione di cosa insolita per gl’Italiani, mi vi ha indotto. Fatto in tal guisa il primo tragitto, gli altri sei passi molti più brevi, ed oltre ciò oramai fatti più liberi dai ghiacci, riuscirono assai più facili. Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d’Europa che mi siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi di esser fuor del globo.

40. Spa: località termale nelle Ardenne, in Francia. 41. appostato: deciso.

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42. crich ... nostro: il termine onomatopeico “cricchi” è usato da Dante a proposito del lago gelato di Cocito (Inferno, XXXII, v. 30).

43. copia: abbondanza. 44. si andavano partendo: venivano spaccati. 45. svezzesi: svedesi.

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Sbarcato per l’ultima volta in abo, capitale della Finlandia svezzese, continuai per ottime strade e con velocissimi cavalli il mio viaggio sino a pietroborgo, dove giunsi verso gli ultimi di maggio; e non saprei dire se di giorno vi giungessi o di notte; perché sendo in quella stagione annullate quasi le tenebre della notte in quel clima tanto boreale, e ritrovandomi assai stanco del non aver per più notti riposato se non disagiatamente in carrozza, mi si era talmente confuso il capo, ed entrata una tal noia del veder sempre quella trista luce, ch’io non sapea più né qual dì della settimana, né qual ora del giorno, né in qual parte del mondo mi fossi in quel punto; tanto più che i costumi, abiti, e barbe dei Moscoviti46 mi rappresentavano assai più Tartari che non Europei. Io aveva letta la storia di pietro il Grande nel Voltaire47; mi era trovato nell’accademia di Torino con vari moscoviti, ed avea udito magnificare assai quella nascente nazione. Onde, queste cose tutte, ingrandite poi anche dalla mia fantasia che sempre mi andava accattando48 nuovi disinganni, mi tenevano al mio arrivo in pietroborgo in una certa straordinaria palpitazione dall’aspettativa. Ma, oimé, che appena io posi il piede in quell’asiatico accampamento di allineate trabacche49, ricordandomi allora di Roma, di Genova, di Venezia, e di Firenze, mi posi a ridere. E da quant’altro poi ho visto in quel paese, ho sempre più ricevuta la conferma di quella prima impressione; e ne ho riportato la preziosa notizia ch’egli non meritava d’esser visto. E tanto mi vi andò a contragenio ogni cosa (fuorché le barbe e i cavalli), che in quasi sei settimane ch’io stetti fra quei barbari mascherati da Europei, ch’io non vi volli conoscere chi che sia, neppure rivedervi due o tre giovani dei primi del paese, con cui era stato in accademia a Torino, e neppure mi volli far presentare a quella famosa autocratrice Caterina Seconda50: ed in fine neppure vidi materialmente il viso di codesta regnante, che tanto ha stancata a’ giorni nostri la fama. Esaminatomi poi dopo, per ritrovare il vero perché di una così inutilmente selvaggia condotta, mi son ben convinto in me stesso che ciò fu una mera intolleranza di inflessibil carattere, ed un odio purissimo della tirannide in astratto, appiccicato poi sopra una persona giustamente tacciata del più orrendo delitto, la mandataria e proditoria uccisione dell’inerme marito51. E mi ricordava benissimo di aver udito narrare, che tra i molti pretesti addotti dai difensori di un tal delitto, si adduceva anche questo: che Caterina Seconda nel subentrare

46. Moscoviti: il termine designa i russi in generale. 47. Pietro ... Voltaire: Voltaire aveva scritto una Storia dell’impero di Russia sotto Pietro il Grande (1759-63). Lo zar Pietro I (1689-1725) aveva avviato la costruzione di uno Stato

assoluto moderno in Russia, promuovendo anche l’ occidentalizzazione del paese. 48. accattando: procurando. 49. trabacche: baracche di legno. 50. autocratrice Caterina Seconda: fu imperatrice di Russia dal 1762 al 1796.

51. mandataria ... marito: nel 1762 Caterina aveva ordito una congiura contro il marito Pietro III, deponendolo e chiudendolo in carcere; qui lo zar poco dopo morì, probabilmente fatto uccidere dalla moglie.

Pesare le parole Accattando (r. 139)

> Accattare viene dal latino parlato adcaptàre, composto > Sinonimo: mendicante, dal latino mendìcum, da mènda ad- e captàre, verbo frequentativo di càpere, “prendere”. Significa “cercare di ottenere, chiedendo con insistenza” (es. è in miseria e cerca sempre di accattare denaro dai parenti), o “andare in cerca”, con un senso spregiativo (es. va sempre accattando idee dagli altri, perché di proprie non ne ha). Sono usi del linguaggio colto, un po’ prezioso; il senso più comune oggi è “chiedere l’elemosina” (es. ha perso tutto con la crisi ed è costretto ad accattare per strada); donde accattone, chi va mendicando abitualmente per le strade, e accattonaggio.

dum, “difetto, mancanza” (es. le strade oggi sono piene di mendicanti). Mendicare, in senso figurato, significa “procurarsi a stento, con preghiere insistenti, accettando anche umiliazioni” (es. è brutto dover mendicare un aiuto da chi ti disprezza; nella sua solitudine mendicava inutilmente un po’ d’amore). Elemosina proviene dal greco eleemosýne, da elémon, “che ha pietà” (éleos): è l’atto di soccorrere materialmente chi si trova in povertà estrema (es. la Chiesa prescrive di dare l’elemosina ai bisognosi).

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all’impero, voleva, oltre i tanti altri danni fatti dal marito allo Stato, risarcire anche in parte i diritti dell’umanità lesa sì crudelmente dalla schiavitù universale e totale del popolo in Russia, col dare una giusta costituzione. Ora, trovandoli io in una servitù così intera dopo cinque o sei anni di regno di codesta Clitennestra filosofessa52; e vedendo la maledetta genìa soldatesca sedersi sul trono di pietroborgo più forse ancora che su quel di Berlino; questa fu senza dubbio la ragione che mi fe’ pur tanto dispregiare quei popoli, e sì furiosamente abborrirne gli scellerati reggitori. Spiaciutami dunque ogni moscoviteria53, non volli altrimenti portarmi a Mosca, come avea disegnato di fare, e mi sapea mill’anni54 di rientrare in Europa. partii nel finir di giugno, alla volta di Riga per Narva, e Rewel55; nei di cui piani arenosi ignudi ed orribili scontai largamente i diletti che mi aveano dati le epiche selve immense della Svezia scoscesa. proseguii per Konisberga56 e Danzica57; questa città, fin allora libera e ricca, in quell’anno per l’appunto cominciava ad essere straziata dal mal vicino despota prussiano, che già vi avea intrusi a viva forza i suoi vili sgherri. Onde io bestemmiando e Russi e prussi, e quanti altri sotto mentita58 faccia di uomini si lasciano più che bruti malmenare in tal guisa dai loro tiranni; e sforzatamente seminando il mio nome, età, qualità, e carattere, ed intenzioni (che tutte queste cose in ogni villaggiuzzo ti son domandate da un sergente all’entrare, al trapassare, allo stare, e all’uscire59), mi ritrovai finalmente esser giunto una seconda volta in Berlino, dopo circa un mese di viaggio, il più spiacevole, tedioso e oppressivo di quanti mai se ne possano fare; inclusive lo scendere all’orco60, che più buio e sgradito ed inospito non può esser mai. passando per Zorendorff61, visitai il campo di battaglia tra’ Russi e prussiani, dove tante migliaia dell’uno e dell’altro armento62 rimasero liberate dal loro giogo lasciandovi l’ossa. Le fosse sepolcrali vastissime, vi erano manifestamente accennate dalla folta e verdissima bellezza del grano, il quale nel rimanente terreno arido per sé stesso ed ingrato vi era cresciuto e misero e rado. Dovei fare allora una trista ma pur troppo certa riflessione; che gli schiavi son veramente nati a far concio63. Tutte queste prussianerie mi faceano sempre più e conoscere e desiderare la beata Inghilterra64. Mi sgabellai65 dunque in tre giorni di questa mia berlinata seconda66; né per altra ragione mi vi trattenni che per riposarmivi un poco di un sì disagiato viaggio. partii sul finir di luglio per Magdebourg, Brunswich, Gottinga, Cassel e Francfort. Nell’entrare in Gottinga, città come tutti sanno di Università fioritissima, mi abbattei in un asinello ch’io moltissimo festeggiai per non averne più visti da circa un anno dacché m’era

52. Clitennestra filosofessa: nel mito antico Clitennestra aveva fatto uccidere il marito Agamennone al ritorno dalla guerra di Troia; Caterina di Russia è chiamata Clitennestra perché anch’essa assassina del marito; è poi detta filosofessa perché amica dei “filosofi” illuministi, in particolare di Diderot, che invitò a Pietroburgo nel 1772. L’accoppiamento dei due epiteti suona evidentemente spregiativo. Anche in questo caso, come per Federico II di Prussia, lo sdegno di Alfieri nasce al constatare come il riformismo illuminato dei sovrani mascheri in realtà un dispotismo oppressivo. 53. moscoviteria: altro termine sprezzante coniato da Alfieri: indica tutto ciò che è russo. 54. mi sapea ... anni: non vedevo l’ora. 55. Riga ... Rewel: Riga è in Lettonia, Narva e Rewel (oggi Tallinn) in Estonia. 56. Konisberga: Königsberg, nella Prussia orientale (oggi Kaliningrad, in territorio russo).

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57. Danzica: porto sul mar Baltico, era una città libera sotto la protezione del re di Polonia. Dopo la prima spartizione della Polonia tra Russia, Prussia e Austria (1772) passò sotto l’influenza prussiana, e fu annessa interamente alla Prussia nel 1793. Oggi si trova in Polonia. 58. mentita: chi si lascia tiranneggiare non merita il nome di uomo, è peggio delle bestie (bruti). 59. sforzatamente ... uscire: in Prussia i viaggiatori stranieri sono sottoposti a un rigido controllo poliziesco; ciò urta il fiero senso di libertà del giovane Alfieri e rafforza il suo odio per la tirannide militare prussiana. 60. all’orco: all’inferno. 61. Zorendorff: a Zorndorf, nel Brandeburgo (oggi territorio polacco) fu combattuta nel 1758 una delle più sanguinose battaglie della guerra dei Sette Anni fra Russi e Prus-

siani. 62. armento: i soldati sono paragonati a mandrie di buoi perché si fanno opprimere dai loro tiranni senza reagire. Farsi massacrare in battaglia, nota con feroce sarcasmo Alfieri, per loro è l’unico modo per liberarsi dall’oppressione. 63. concio: concime. 64. beata Inghilterra: Alfieri ammira l’Inghilterra per la libertà civile che vi regna. La monarchia inglese infatti non era assoluta, ma controllata dal Parlamento, e i cittadini godevano di diritti inalienabili sanciti dalla legge. 65. Mi sgabellai: indica il liberarsi di qualche cosa di fastidioso o di odioso. 66. berlinata seconda: un’altra delle pittoresche espressioni coniate da Alfieri per esprimere il suo disdegno sprezzante.

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ingolfato nel settentrione estremo dove quell’animale non può né generare, né campare. Di codesto incontro di un asino italiano67 con un asinello tedesco in una così famosa Università, ne avrei fatto allora una qualche lieta e bizzarra poesia se la lingua e la penna avessero in me potuto servire alla mente, ma la mia impotenza scrittoria era ogni dì più assoluta. Mi contentai dunque di fantasticarvi su fra me stesso, e passai così una festevolissima giornata, soletto sempre, con me e il mio asino68. E le giornate festive per me eran rare, passandomele io di continuo solo solissimo, per lo più anche senza leggere né far nulla, e senza mai schiuder bocca.

67. asino italiano: nella Vita Alfieri insiste molto sulla propria giovanile ignoranza.

68. con me ... asino: continuando a fantasticare sul parallelo con l’asino.

Analisi del testo

> Le posizioni politiche

Distacco e complicità

Letterato cortigiano e «libero scrittore» L’esecrazione per il militarismo e per l’assolutismo illuminato

L’interesse del passo, giustamente famoso, risiede in primo luogo nel fatto che ci consen­ te di ricostruire le posizioni politiche del giovane Alfieri (e, attraverso di esse, anche dell’Alfieri più tardo che scrive queste pagine). Il narratore, che racconta ormai in un’età matura, ostenta un ironico distacco nei confronti delle proprie ire e impazienze giovanili (eloquente è il modo in cui giudica la reazione alla «genuflessioncella» di Metastasio), però non riesce a dissimulare una certa complicità, quasi una forma di ammirazione per quelle manifestazioni di un animo libero e fiero. Al di là dei mutamenti ideologici, verifi­ catisi soprattutto in conseguenza della Rivoluzione francese ( Le idee politiche, p. 569, e Le opere politiche, p. 572), l’insofferenza antitirannica e il culto della libertà restano an­ che nell’Alfieri maturo delle costanti ineliminabili. Lo scrittore può prendere le distanze dall’astrattezza delle sue posizioni giovanili, che nascono da un partito preso ideologico anziché da un’approfondita riflessione sull’esperienza, ma non si esime dal riconoscersi un «inflessibil carattere» e un’assoluta purezza di motivazioni. Dall’episodio di Metastasio emerge il disprezzo del giovane, infatuato degli ideali plutar­ chiani di grandezza magnanima e libertà incontaminata, per il letterato cortigiano asser­ vito al potere. Alfieri rifiuta recisamente questa figura di intellettuale, ancora dominante nel Settecento, e ad essa contrappone un’idea antitetica di «libero scrittore», indipenden­ te nelle idee perché indipendente sul piano materiale. Nell’episodio berlinese si coglie invece l’esecrazione per il militarismo, visto come pilastro indispensabile dell’autorità arbitraria del monarca assoluto, che si regge solo in quanto appoggiato da migliaia di «assoldati satelliti». L’avversione per il potere assoluto coinvolge anche le sue forme “il­ luminate”, come quelle di Federico II. L’assurdità, l’intima contraddittorietà dell’assolu­ tismo illuminato è compendiata da Alfieri in una definizione felicemente sintetica e sar­ castica: negli Stati prussiani sono assenti attività culturali, commerci, industrie, «benché il gran Federico vi comandasse alle lettere e alle arti e alla prosperità, di fiorire sotto all’uggia sua», frase che mette in rilievo come la vita culturale ed economica possa fiori­ re solo per impulso spontaneo e libero delle forze di un popolo, e come “comandare” ad essa di svilupparsi sia una contraddizione in termini, che ha come unico effetto di farla intristire e spegnerla. L’ultima manifestazione di odio antitirannico si registra nei con­ fronti di Caterina II di Russia, dietro le cui pretese di sovrana “illuminata” Alfieri rivela la «servitù intera» in cui il popolo russo è ancora tenuto. Emerge anche l’avversione per ogni concezione “machiavellicamente” realistica della politica, nel rifiuto di giustificare l’orrendo delitto di cui l’imperatrice si è macchiata per salire al trono, l’uccisione a tra­ dimento del marito. 641

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo Il disprezzo per la passività dei popoli tiranneggiati

La natura maestosa e selvaggia

La corrispondenza tra il paesaggio e l’io

I princìpi classicistici

Se insistita è la manifestazione dell’odio per la «tirannide in astratto», simmetrico ad esso è il disprezzo per il gregge vile che sopporta la tirannide senza ribellarsi: per questo Alfieri dichiara di spregiare i popoli russo e prussiano, perché si sottomettono passiva­ mente ai loro «scellerati reggitori». Il disprezzo si manifesta crudamente dinanzi alle fosse comuni della battaglia di Zorendorff: come si vede, al dispotismo monarchico, per cui prova una spontanea, pre­razionale repulsione, Alfieri (giovane e maturo) non con­ trappone concezioni democratiche ed egualitarie, ma un esasperato aristocraticismo in­ dividualistico, che lo induce a guardare le masse assoggettate e inerti dall’alto della sua incontaminata purezza di privilegiato. Con questo si dimostra come sia difficile se non impossibile far rientrare le posizioni astratte, mitico­sentimentali e letterarie di Alfieri nelle categorie del giudizio politico odierno, stabilire se le sue idee siano progressiste o reazionarie. Certo, egli chiude la riflessione citando con ammirazione la libera Inghilter­ ra: ma non si dimentichi il suo aristocratico disdegno per lo spirito mercantile ed affari­ stico di quella nazione.

> Il paesaggio nordico

Il secondo motivo di interesse del passo è costituito dalle notazioni paesistiche. Alfieri è affascinato dal paesaggio nordico, dalla natura maestosa e selvaggia, aspra e orrida. È un paesaggio antitetico rispetto a quello arcadico, agghindato sino alla leziosaggine, che esprime la visione del classicismo razionalistico (ad esempio Solitario bosco ombroso di Paolo Rolli, cap. 1, T2, p. 273). Il giovane Alfieri, come osserva il maturo narratore, pur senza aver letto i Poemi di Ossian, spontaneamente si intona a quel gusto nordico, in cui è in germe il futuro Romanticismo. Si manifesta anche un altro aspetto già tipicamente romantico, la corrispondenza tra il paesaggio e l’io che lo contempla: quelle distese orride e cupe di selve e di ghiacci si armonizzano con un atteggiamento titanico, solitario, passionalmente tempestoso ed aspro; il vasto, indefinibile silenzio di quelle lande nordiche asseconda la tendenza alla fantasticheria malinconica e grandiosa, che induce a fuggire dal reale e a rifugiarsi, in contrapposizione ad esso, in un mondo alternativo del tutto immaginario. In questa fuga dal reale sollecitata dalla vastità indefinita degli spazi e dall’assenza di suoni si coglie già la tensione romantica verso l’infinito: sono in germe, in queste visioni paesistiche alfieriane, gli «interminati spazi» e i «sovrumani silenzi» dell’Infinito di Leopardi, in cui il cuore per poco non «si spaura», ma l’io «s’annega» e «naufraga» dolcemente (e non a caso Leopardi sarà fortemente suggestionato dalla lettura della Vita di Alfieri). In questo tipo di bellezza grandiosa e solitaria Alfieri identifica il «poetico». Ma si noti­ no bene le riflessioni che l’esotico spazio nordico suscita nello scrittore: lo spettacolo delle nevi che si sciolgono lasciando intravedere la «fresca verdura» gli sarebbe riuscito «poetico» se avesse saputo «far versi». In queste pagine della Vita dedicate ai viaggi giovanili e alle sue emozioni dinanzi al paesaggio, Alfieri insiste più volte sul fatto che le impressioni fortissime che pur egli sentiva non erano in grado di trovare espressione poetica perché gli mancava la disciplina letteraria, indispensabile per tradurre in parole i contenuti grezzi dell’animo. È questo un principio basilare del classicismo: se la sen­ sibilità di Alfieri è già embrionalmente romantica, si colloca pur sempre ancora entro le coordinate di una cultura classicheggiante.

> Il linguaggio

Degno di attenzione è ancora il linguaggio impiegato dallo scrittore. Non è la lingua au­ lica e solennemente intonata dei suoi trattati politici, ispirata ai modelli illustri, ma una lingua più agile, ricca di originalissime coloriture espressive, che si allontana dall’idea­ le puristico dominante sin dal Rinascimento nella prosa classicistica italiana. Lo stesso

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Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Le forzature espressive

Gli ingredienti stilistici

Alfieri, nell’introduzione all’opera, afferma di essersi proposto, quanto allo stile, «di lasciar fare alla penna, e di pochissimo lasciarlo scostarsi da quella triviale e spontanea naturalezza [...] che sola può convenire a così umile tema». In realtà si tratta di una pro­ sa calibratissima, le cui componenti sono tutte accuratamente studiate e che, più che alla volontà di rendere un tono spontaneamente colloquiale, risponde all’intento di for­ zare espressivamente il linguaggio, allontanandolo da una medietà neutra verso tonalità più intense e vivide. Questa forzatura stilistica è diretta espressione di un carattere fiero e risentito, teso da una volontà di distinguersi per una singolarità fuori del comune, che rivela verso la re­ altà un atteggiamento fortemente passionale. Difatti le increspature espressive compaio­ no puntualmente dove si manifestano le reazioni più intense dello scrittore nei confronti degli oggetti dell’esperienza, cioè sia nei giudizi sprezzanti e taglienti sull’odiata tiran­ nide e sull’«armento» dei sudditi, sia, al contrario, nei momenti di affascinata contem­ plazione della natura selvaggia e grandiosa. In entrambi i casi gli ingredienti stilistici usati da Alfieri sono gli stessi: diminutivi e accrescitivi, neologismi, termini preziosi usati sarcasticamente, metafore ardite e inconsuete. Passiamoli rapidamente in rasse­ gna. Nell’episodio del servilismo cortigiano di Metastasio troviamo: «genuflessioncella» (diminutivo ironicamente sprezzante), «giovenilmente plutarchizzando» (neologismo), «Musa appigionata» (metafora ardita che accoppia una realtà sublime ad una prosaica); a proposito del dispotismo di Federico II: «assoldati satelliti» (latinismo sprezzante), «universal caserma prussiana» (metafora ardita), «fiorire sotto all’uggia sua» (metafora che incorpora un’antitesi, in quanto l’«uggia», che evoca l’idea dell’intristire, è incom­ patibile con il «fiorire»); nelle descrizioni dei paesaggi nordici: «cupe selvone», «lagoni crostati» (accrescitivi inconsueti, che esprimono stupore ed emozione per le proporzioni immense del paesaggio); a proposito di Caterina di Russia: «autocratrice» (femminile inconsueto da “autocrate”), «Clitennestra filosofessa» (accoppiamento ardito di un ri­ mando mitologico classico e di un femminile inusuale, in funzione spregiativa e sarca­ stica, a svelare la falsità dei pretesi orientamenti illuminati della sovrana), «moscovite­ ria» (neologismo sprezzante, a cui fanno ancora riscontro «prussianerie», «berlinata seconda»).

Esercitare le competenze cOmPrenDere

> 1. Riassumi, di volta in volta, i giudizi di Alfieri sulle diverse forme di governo e i diversi sovrani. > 2. Quale atteggiamento mostra il poeta nei confronti del sentimento amoroso? > 3. Che cosa pensa dei libri e degli autori italiani? E come considera il gruppo di letterati che legge i classici a casa di Metastasio?

AnALIZZAre

> 4.

Lessico Ricerca alle righe 54-89 e 126-135 tutti i termini e le espressioni che fanno riferimento ai sentimenti, alle emozioni e agli stati d’animo dell’autore. Quali di essi hanno una connotazione negativa?

APPrOfOnDIre e InTerPreTAre

> 5.

scrivere A partire dal brano, delinea un ritratto di Alfieri evidenziando nel suo comportamento e nella sua personalità quegli elementi di inquietudine, senso di inappagamento, forte sentire e disillusione, tipici di un’epoca come quella preromantica di cui egli si mostra precursore. Rispondi in circa 15 righe (750 caratteri). > 6. competenze digitali Ricostruisci, in una mappa interattiva nella quale compaiano le città e gli Stati menzionati nel testo, il percorso di Alfieri attraverso l’Europa e l’Asia, facendo riferimento con opportune immagini alle descrizioni presenti nel brano.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La voce del Novecento

Gli «astratti furori» in Conversazione in Sicilia di Vittorini Sono le righe iniziali del romanzo. Elio Vittorini (1908-66) è stato uno dei più importanti scrittori italiani del secondo Novecento, oltre che romanziere anche saggista, attivo promotore di cultura, fondatore di collane editoriali e di riviste (“Il Politecnico”, 1945; “Il Menabò”, con Italo Calvino, 1959). Nel secondo dopoguerra fu il capofila della cosiddetta “letteratura dell’“impegno”. Il romanzo è la storia di un viaggio compiuto dal protagonista, nel clima plumbeo degli ultimi anni del fascismo, per ritrovare la Sicilia della sua infanzia, dove scopre una realtà di miseria e sofferenza, quella che Vittorini chiama «il mondo offeso», cioè l’offesa all’umanità prodotta dall’oppressione.

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Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali1, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete. Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso; e uscire a vedere gli amici, gli altri, o restare in casa era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa esser felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo entro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe. E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, Bompiani, Milano 1941

1. massacri… giornali: il riferimento è alla guerra di Spagna del 193639, dove il fascismo italiano inviò

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truppe per sostenere la rivolta dell’esercito, guidato dal futuro dittatore Francisco Franco, contro la repubbli-

ca governata dalle forze di sinistra in seguito a legittime elezioni.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Analisi del testo L’insofferenza per il regime fascista L’impossibilità dell’azione

L’odio alfieriano per il dispotismo

> La rivolta impotente

I «furori» del protagonista sono «astratti» perché da un lato egli è spinto da un senso di rivolta contro il regime fascista, che soffoca ogni libertà e scatena massacri, però dall’al­ tro la cappa incombente del totalitarismo, che sembra indistruttibile, cancella ogni spe­ ranza e impedisce ogni tentativo di tradurre in azione quel rifiuto, di trovare un obiettivo concreto contro cui lottare, e quindi genera un senso di inerzia e di rassegnata impotenza. Da questo vicolo cieco della storia deriva in lui l’impulso a un viaggio come all’indietro nel tempo, in una Sicilia arcaica e mitica, alla ricerca delle proprie radici profonde e delle ragioni di una vita più autentica e umana. Questi furori possono ricordare il “plutarcheggiare” del giovane Alfieri contro l’«autorità dispotica» da lui così «caldamente abborrita». Anche i furori alfieriani hanno un carattere astratto (il termine ricorre, in effetti: «mi esageravo talmente il vero in astratto»), cioè sca­ turiscono da pure posizioni di principio ricavate dai libri, e non hanno modo di trasformar­ si in azione concreta.

> Totalitarismo fascista e assolutismo settecentesco La rivolta chiusa nella soggettività

La Rivoluzione francese La guerra e la Resistenza

Se il personaggio di Vittorini (molto autobiografico) ha di fronte a sé il monolito apparen­ temente inscalfibile del totalitarismo fascista, Alfieri si scontra con l’assolutismo dell’Antico Regime europeo, che anch’esso non lascia intravedere spiragli per poter agire al fine di modificarlo o abbatterlo. In entrambi i casi il rifiuto e la rivolta sono condannati a resta­ re chiusi entro la soggettività impotente dei giovani intellettuali. E se in Vittorini l’impo­ tenza si traduce in inerzia, poi nel viaggio a ritroso nel tempo, in Alfieri si trasforma in smania di evasione, con i febbrili viaggi nello spazio attraverso tutta l’Europa. Questi furori astratti degli intellettuali nel Settecento troveranno poi una massa d’urto nelle forze popolari, con la Rivoluzione francese che finirà per abbattere la monarchia; mentre nel Novecento in Italia il regime fascista comincerà a sgretolarsi solo a causa delle sconfitte militari nella sciagurata guerra intrapresa a fianco della Germania nazista, poi in seguito all’invasione delle truppe alleate e alla lotta partigiana. Allora i furori non saranno più astratti e si potrà cedere la parola alle armi.

Esercitare le competenze cOmPrenDere

> 1. Quale stato d’animo viene delineato nel brano? > 2. Spiega se il protagonista, nel definire il proprio stato d’animo, fornisce al lettore informazioni circa il contesto reale della narrazione.

AnALIZZAre

> 3. > 4.

Individua le figure di ripetizione, spiegandone l’efficacia in relazione al contenuto. Si può parlare di valore simbolico attribuito ad alcuni elementi, come ad esempio le «scarpe» (rr. 7-9, 24)? Motiva la tua risposta. > 5. Lessico Individua nel brano, spiegandone la funzione, i termini che ricorrono in evidente opposizione fra loro. stile stile

APPrOfOnDIre e InTerPreTAre

> 6.

contesto: storia Effettua una ricognizione – anche sotto forma di approfondimento e/o percorso di ricerca e documentazione – sulle forme di assolutismo dell’Antico Regime nell’epoca in cui vive e opera Alfieri. PAssATO e PresenTe I furori della nostra epoca

> 7. Contro chi o che cosa noi potremmo riferire oggi i nostri astratti furori? Nei confronti di quale situazione

siamo consapevoli di essere in uno stato di «quiete nella non speranza» (r. 11)? Rifletti sul tema posto dal brano analizzato e confrontati in classe con l’insegnante e i compagni prestando attenzione non soltanto ai “mali” da cui è attualmente afflitto il mondo, ma anche alle cosiddette “sfide” del terzo millennio.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

T6

«Bollore» fantastico e disciplina formale dalla Vita scritta da esso, epoca seconda, cap. V Questo breve passo, che illustra gli effetti che la musica provoca sull’animo dello scrittore, è molto importante per capire la sua sensibilità artistica e per collocarla storicamente.

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Temi chiave

• la capacità della musica di suscitare sentimenti e sensazioni

• la necessità di un solido bagaglio

culturale per rendere in poesia le emozioni provocate dai suoni

Nelle vacanze di quell’anno di filosofia1, mi toccò di andare per la prima volta al Teatro di Carignano, dove si davano le opere buffe. [...] Il brio, e la varietà di quella divina musica mi fece una profondissima impressione, lasciandomi per così dire un solco di armonia negli orecchi e nella imaginativa, ed agitandomi ogni più interna fibra, a tal segno che per più settimane io rimasi immerso in una malinconia straordinaria ma non dispiacevole; dalla quale mi ridondava2 una totale svogliatezza e nausea per quei miei soliti studi, ma nel tempo stesso un singolarissimo bollore d’idee fantastiche, dietro alle quali avrei potuto far dei versi se avessi saputo farli, ed esprimere dei vivissimi affetti, se non fossi stato ignoto a me stesso ed a chi dicea di educarmi3. E fu questa la prima volta che un tale effetto cagionato in me dalla musica, mi si fece osservare, e mi restò lungamente impresso nella memoria, perch’egli fu assai maggiore d’ogni altro sentito prima. Ma andandomi poi ricordando dei miei carnovali4, e di quelle poche recite dell’opera seria ch’io aveva sentite, e paragonandone gli effetti a quelli che ancora provo tuttavia, quando divezzatomi5 dal teatro ci ritorno dopo un certo intervallo, ritrovo sempre non vi essere il più potente e indomabile agitatore dell’anima, cuore, ed intelletto mio, di quel che lo siano i suoni tutti, e specialmente le voci di contralto e di donna. Nessuna cosa mi desta più affetti, e più vari, e terribili. E quasi tutte le mie tragedie sono state ideate da me o nell’atto del sentir musica, o poche ore dopo.

1. anno di filosofia: sta frequentando l’Accademia militare. Nell’ordinamento degli studi del tempo la filosofia era l’ultimo ciclo.

2. ridondava: derivava. 3. chi ... educarmi: i suoi insegnanti, che Alfieri disprezza per la loro pochezza e pedanteria.

4. miei carnovali: era consentito agli allievi recarsi a teatro solo in occasione del carnevale. 5. divezzatomi: disabituatomi.

Analisi del testo Poesia e impulso passionale

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> La potenza ispiratrice della musica

L’impressione provocata dalla musica sull’animo alfieriano è simile a quella che nasce dalla vista di paesaggi solitari e sterminati, come nel racconto dei viaggi nelle regioni nor­ diche ( T5, p. 635). È un’esperienza che lo agita in «ogni più intima fibra», immergendolo poi per lungo tempo «in una malinconia straordinaria ma non dispiacevole». Da essa sca­ turisce «un singolarissimo bollore di idee fantastiche», che potrebbe essere fonte di ispi­ razioni poetiche: la musica, agendo in profondità sull’animo sensibile, ha una straordinaria forza di ispirazione. Per Alfieri la poesia nasce dall’intensa passionalità, e per lui non vi è «più potente e indominabile agitatore dell’animo, cuore e intelletto» di quanto sia la mu­ sica, nulla desta in lui «più affetti, e più vari, e terribili». Ne deriva anche un’insofferenza per la realtà comune e banale, se accostata alle sublimi vette a cui può arrivare tale slancio passionale suscitato dai suoni.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

La musica e le fantasie indeterminate

> Il romanticismo e la musica

Questo atteggiamento alfieriano anticipa quello che sarà lo stato d’animo romantico nei confronti della musica, anzi si può dire che rientra già in quell’atmosfera culturale. La sensibilità romantica privilegia la musica sulle altre arti perché è la più indefinita e sugge­ stiva, quella che può suscitare fantasie più vaste e indeterminate, strappando l’anima dai suoi limiti contingenti di spazio e di tempo ed elevandola all’assoluto, in una sorta quasi di estasi mistica.

> Ispirazione e mezzi espressivi

Poesia e «divina follia»

Sensibilità romantica e cultura classicistica

Però Alfieri osserva che l’ispirazione suscitata in lui dalla musica non trova modo di espri­ mersi in forma poetica, a causa della mancanza del bagaglio culturale necessario per com­ porre versi. È un concetto molto indicativo, che lo scrittore ripete più volte nel corso della sua autobiografia. Nella sua concezione dell’ispirazione poetica come «bollore fantastico» e sfrenato impulso passionale si può riconoscere una concezione della poesia come «divina follia» che risale a Platone (effettivamente in altro scritto Alfieri arriva a definirla «pazzia») e che riaffiora periodicamente nella successiva storia della cultura occidentale. È una concezione che vede le origini della creazione poetica nell’irrazionale, in una zona profonda e oscura della psiche, collocata al di là del chiaro dominio della ragione. Sarà poi portata alle estreme conseguenze dal Romanticismo, in opposizione alle poetiche razionalistiche del classici­ smo, che fanno riferimento ad Aristotele e ad Orazio e pongono invece l’accento sull’aspet­ to tecnico e normativo della scrittura letteraria. Anche per questo aspetto Alfieri anticipa la cultura romantica. Ma lo scrittore si affretta sempre puntigliosamente a precisare che quel contenuto emotivo grezzo e scomposto non basta a fare poesia, e che sono indispensabili una rigorosa disci­ plina formale e il possesso di precisi mezzi tecnici per poter dare espressione alle forze che emergono dal profondo: la sensibilità già romantica di Alfieri si colloca pur sempre entro le coordinate della cultura classicistica, ancora dominante nel Settecento.

Esercitare le competenze cOmPrenDere

> 1. Quale precisa vicenda autobiografica è rievocata nel brano? Su quali conseguenze lo scrittore si sofferma? Quale confronto svolge con il presente?

AnALIZZAre

> 2. Come si configura l’io narrante nel racconto di sé? Fornisce un’immagine idealizzata o realistica? Motiva la tua

risposta in base al testo. > 3. Lessico Individua nel testo vocaboli e/o espressioni relativi alla sfera dei sentimenti. > 4. Lingua Analizza la struttura sintattica del passo «Ma andandomi … e di donna» (rr. 12-17), spiegando la funzione delle proposizioni subordinate in rapporto alla principale, e verificandone l’efficacia sul piano espressivo. APPrOfOnDIre e InTerPreTAre

> 5.

esporre oralmente Nel brano Alfieri precisa che tutte le sue tragedie «sono state ideate» sotto l’influsso della musica (r. 18): a quale momento della composizione letteraria fa riferimento il verbo «ideare»? Rispondi oralmente (max 3 minuti).

scrITTurA creATIVA

> 6. Sulle note di un brano musicale a tua scelta – classico, jazz, rock, pop o altro – prova a lasciarti trasportare

dalle emozioni e scrivi in prosa o in versi ciò che l’immaginazione detta al tuo animo. Scegli un titolo per il tuo elaborato e non superare le 50 righe (2500 caratteri).

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

La voce del Novecento

L’incanto sconosciuto della musica nelle pagine di Proust In Dalla parte di Swann (1913), primo volume della vasta opera di Marcel Proust (1871-1922) Alla ricerca del tempo perduto, vengono descritte le sottili sensazioni provocate nel personaggio di Charles Swann, uomo colto e raffinato, dall’ascolto di una sonata (attribuita nel romanzo a un immaginario compositore, Vinteuil). Lo colpisce soprattutto una «piccola frase» musicale ricorrente. Da quel momento riudirla provocherà sempre in lui un incanto sconosciuto, che si identifica col fascino su di lui esercitato dalla donna che ama, Odette de Crécy.

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Ma la piccola frase, appena egli la udiva, sapeva render libero in lui lo spazio che le era necessario, mutare le proporzioni della sua anima; vi era riservato un margine a un godimento che neanch’esso corrispondeva ad alcun oggetto esteriore, e che tuttavia, invece d’essere puramente individuale come quello dell’amore, soggiogava Swann come una realtà superiore alle cose concrete. Quella sete d’un incanto sconosciuto, la piccola frase la risvegliava in lui, ma senza portargli nulla di definito per saziarla. Di modo che quelle regioni dell’anima di Swann, ove la piccola frase aveva cancellato la cura degli interessi materiali, le considerazioni umane e valevoli per tutti, essa le aveva lasciate vuote e bianche, ed egli era libero di scrivervi il nome di Odette. […] A vedere il volto di Swann mentre ascoltava la frase, pareva stesse aspirando un anestetico che desse maggiore ampiezza al suo respiro. E il piacere che gli dava la musica, e che presto sarebbe divenuto per lui una vera necessità, somigliava infatti in quei momenti al piacere che avrebbe provato nello sperimentare dei profumi, nell’entrare in contatto con un mondo per il quale non siamo stati creati, che ci sembra senza forma perché i nostri occhi non lo percepiscono, senza significato perché sfugge alla nostra intelligenza, e al quale non giungiamo se non attraverso un solo senso1. Grande riposo, misterioso rinnovellamento per Swann […] sentirsi trasformato in una creatura estranea all’umanità, cieca, priva di facoltà logiche, quasi un fantastico liocorno2, una creatura chimerica, atta a percepire il mondo solo attraverso l’udito. E, come nella piccola frase cercava intanto un senso dove la sua intelligenza non poteva scendere, quale strana ebbrezza provava nello spogliare la sua anima più interiore di tutti i soccorsi del ragionamento e farla passare sola nel colatoio3, nel filtro oscuro del suono! M. Proust, La strada di Swann, trad. it di N. Ginzburg, Einaudi, Torino 1957

1. un solo senso: l’udito, attraverso i suoni musicali. 2. liocorno: l’unicorno, il favoloso cavallo con un corno sulla fronte.

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3. colatoio: arnese attraverso cui si cola un liquido, per liberarlo delle impurità.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Analisi del testo Sensibilità romantica e Novecento Musica e «voluttà»

Una realtà superiore La «strana ebbrezza» dei sensi

Si è visto nell’analisi del brano «Bollore» fantastico e disciplina formale ( T6, p. 646) come l’atteggiamento di Alfieri verso la musica anticipi la sensibilità romantica. Questo modo di accostarsi alla musica perdura e si accentua nella seconda metà dell’Ottocento, nell’epoca decadente, prolungandosi sino al Novecento. Ne ricono­ sciamo ancora le linee essenziali in uno scrittore novecentesco come Proust. L’ascolto della «piccola frase» suscita nel personaggio «voluttà particolari», mai pri­ ma immaginate, qualcosa di ignoto, un «incanto sconosciuto», che solo la musica può far provare. Al tempo stesso il desiderio suscitato appare infinito, senza che nulla di definito possa mai saziarlo. La musica strappa l’anima dagli interessi materiali e contingenti, elevandola a una realtà superiore, ad un mondo per il quale l’uomo non è stato creato, al quale non si può giungere attraverso l’intelligenza e la logica, ma solo attraverso la suggestione oscura e misteriosa dei sensi, che danno una «strana ebbrezza».

Esercitare le competenze COMPRENDERE

> 1. In che cosa consiste l’«incanto sconosciuto» (rr. 5-6)? Che cosa determina in Swann? Rispondi in base al

testo. > 2. È possibile definire l’ascolto della musica da parte del protagonista un’esperienza sensoriale? Rispondi in base al testo. > 3. Quale ruolo assumono le «facoltà logiche» e il «ragionamento» (rr. 18-22) nella “metamorfosi” di Swann? ANALIZZARE

> 4.

Narratologia Come si configura la posizione del narratore nel brano? Rispondi attraverso esempi significativi ricavati dal testo. > 5. Stile Quale figura retorica è presente nel passo «Di modo che … il nome di Odette» (rr. 7-10)? Nel rispondere, considera con attenzione la presenza della forma «scrivervi».

APPROFONDIRE E INTERPRETARE

> 6.

Video

Competenze digitali In seguito ad un percorso di ricerca e documentazione, realizza un prodotto multimediale effettuando un montaggio, corredato di immagini d’epoca, di brani musicali in voga al tempo di Alfieri e al tempo di Proust. > 7. Altri linguaggi: musica In occasione della caduta del muro di Berlino (16 novembre 1989) il più grande violoncellista del secolo, il russo (naturalizzato statunitense) Mstislav Rostropovich, suonò davanti ai cittadini che festeggiavano l’evento. Dopo aver preso visione dello spezzone, rispondi alle domande. a) Quale scenario fa da cornice all’esecuzione del musicista? Quale effetto determina nello spettatore tale ambientazione, inusuale per un concerto? b) Che cosa rappresenta la musica suonata dal vivo in un contesto del genere? Considera l’importanza dell’evento storico, ed esprimi il tuo parere personale.

Rostropovich suona di fronte al muro di Berlino l’11 novembre 1989.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

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Il distacco dal petrarchismo settecentesco

Un linguaggio aspro

Le Rime La reinterpretazione del modello petrarchesco Carattere fortemente autobiografico hanno anche le Rime. Esse nascono infatti come sfogo legato a particolari occasioni sentimentali, a luoghi e vicende concrete, e questa loro qualità di “diario” o “libro segreto” è segnalata anche dal fatto che ogni componimento reca di norma l’indicazione di una data e di un luogo. Si tratta pre­ valentemente di sonetti, scritti lungo tutto l’arco dell’esistenza del poeta. L’autore pub­ blicò nel 1789 una raccolta delle rime composte sino a quel momento (viene in genere designata come Prima parte); una Seconda parte, comprendente quelle scritte in seguito, uscì postuma nel 1804. Il modello petrarchesco è evidente, nelle situazioni sentimentali come nel ricorre­ re di parole, formule e frasi tratte dal Canzoniere. Ma Alfieri è lontanissimo dal petrar­ chismo settecentesco, che nel cantore di Laura vedeva essenzialmente, nella prospetti­ va del classicismo arcadico, un esempio di regolarità, misura, chiarezza, garbata gentilezza. Al contrario Alfieri trae da Petrarca soprattutto l’immagine di un io lacerato da forze contrastanti, portando il conflitto interiore ad un grado di tensione violenta, esasperata. Se poi Alfieri ricava dal poeta trecentesco tutta una serie di mate­ riali verbali, li trasforma profondamente o addirittura ne capovolge la valenza, quasi in una sistematica ripresa a contrasto (come osserva Walter Binni): mentre il linguaggio di Petrarca tende alla limpidezza, all’armonia musicale che smussa i contrasti e dà come l’impressione di una superficie unita e levigata, Alfieri punta ad un linguaggio aspro, dominato da forti chiaroscuri che fanno spiccare in netto rilievo parole e frasi, a un ritmo spezzato da pause, inversioni ardite, violente inarcature degli enjambements, scontri di consonanti, formule concise e lapidarie. È un linguaggio molto vicino a quel­ lo delle tragedie: ed è comprensibile, perché le liriche rispecchiano gli stessi conflitti e le stesse tensioni interne alla soggettività del poeta. Se per Petrarca la poesia ha il compito di «disacerbare» il «duolo», cioè di purificarlo ed illimpidirlo, trasfigurandolo in nitide forme letterarie, per Alfieri deve al contrario puntare all’intensificazione espressiva: il piacere dello sfogo poetico è nel «far sempre più viva» la «doglia».

I temi principali L’amore

La tematica politica

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Dominante nella raccolta è il tema amoroso, ma non è tanto l’amore soddisfatto e placato a costituire la fonte dell’ispirazione, quanto l’amore lontano e irraggiungibile, occasione di tormento e infelicità. Il motivo amoroso va però al di là dell’espressione diretta dei sentimenti vissuti, assume un più vasto significato: esso serve da veicolo all’espressione di un animo tormentato, in perenne conflitto con la realtà che lo circonda. Ai temi amorosi si mescola così nelle Rime alfieriane la tematica politica, anch’essa molto vicina al clima delle tragedie. Compare la polemica contro un’epoca vile e meschina, il disprezzo dell’uomo che si sente superiore contro una mediocrità che, con amarezza pessimistica, egli avverte come vittoriosa e dominante nel mondo, l’amore fremente della libertà, il protendersi verso un passato idealiz­ zato, visto come sede di un’umanità eletta e aristocratica in contrapposizione alla «tur­ ba malnata e ria» che trionfa nel presente. Alfieri delinea in questi sonetti un ritratto di sé che risponde a quell’ideale del letterato-eroe proposto anche nella Vita e in Del principe e delle lettere, e si presenta negli atteggiamenti titanici e fieri degli eroi delle sue tragedie. È l’ideale di un uomo dotato più di sentimento che di ragione: Alfieri è convinto che l’intensa passionalità sia segno di superiorità spirituale e contrappone il «forte sentire» al secolo illuministico, «tanto ragionatore» e «niente poetico», gelidamente razionalistico.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

«Ira» e «malinconia»

La morte

Il paesaggio, proiezione dell’io

Analisi interattiva

T7

Ma, accanto a questi atteggiamenti titanici e combattivi, compare nelle Rime anche quell’opposta tematica pessimistica che costituisce sempre il limite della tensione eroica di Alfieri. Egli stesso, in un sonetto, sottolinea come siano compresenti in lui «ira» e «malinconia», da un lato il magnanimo sdegno dell’anima superiore verso una realtà vile, ma dall’altro un senso di disillusione, di vuoto, di oscura, tormentosa e mai placata scontentezza, di noia, di vanità. La morte diviene allora un’immagine ricorrente, tetra ed ossessiva, ed appare sia come unica possibilità di liberazione sia come l’ultima prova dinanzi a cui si deve dimostrare la saldezza magnanima dell’io («Uom, se’ tu grande o vil? Muori, e il saprai»). Questa disposizione d’animo cupa ed angosciata ama sfondi di paesaggio aspri, selvaggi, tempestosi e orridi. L’io del poeta vuole intorno una natura simile a sé, in cui potersi specchiare. Anche questo sentire il paesaggio come proiezione dell’animo è un motivo già tipicamente romantico.

Tacito orror di solitaria selva dalle Rime

Temi chiave

• la corrispondenza appagante dell’io con la natura selvaggia

• la ricerca di solitudine

Il sonetto fu composto il 26 agosto 1786.

> metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDC, DCD.

4

Tacito orror1 di solitaria selva di sì dolce tristezza il cor mi bea, che in essa al par di me non si ricrea tra’ figli suoi nessuna orrida belva2.

8

E quanto addentro più il mio piè s’inselva3, tanto più calma e gioia in me si crea; onde membrando4 com’io là godea, spesso mia mente poscia si rinselva5.

Audio

11

Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso mende6 non vegga, e più che in altri assai; né ch’io mi creda al buon sentier più appresso7:

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ma, non mi piacque il vil mio secol mai: e dal pesante regal giogo8 oppresso, sol nei deserti tacciono i miei guai9.

1. orror: la selva, cupa e silenziosa, ispira un senso di orrore. 2. che ... belva: che nessuna orrida belva si allieta tra i suoi piccoli quanto io mi conforto in essa. 3. s’inselva: si addentra nella selva. Si noti la rima “ricca” col v. 1: le due parole in rima hanno in comune anche la consonante che pre-

cede la vocale tonica. Tra selva e s’inselva si crea poi una figura etimologica. Sono procedimenti di sapore petrarchesco. 4. membrando: ricordando. 5. si rinselva: si rifugia fantasticando in quella selva (ancora una rima “ricca” e una figura etimologica). 6. mende: colpe.

7. al buon ... appresso: più vicino alla via della virtù. 8. regal giogo: l’oppressione dei sovrani assoluti. 9. sol ... guai: solo nei luoghi solitari hanno tregua le mie sofferenze (perché il poeta è lontano dagli uomini e dalla loro viltà).

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Analisi del testo

> Tra petrarchismo e romanticismo

La corrispondenza tra io e paesaggio

La lontananza dal modello petrarchesco

In apertura del sonetto si accampa l’immagine di un paesaggio tipicamente preromantico, individuato dalle note del silenzio, dell’orrore e della solitudine selvaggia. Tra il paesaggio e l’io che lo contempla si stabilisce, sempre in termini romantici, una corrispondenza: ma, contrariamente alle aspettative, lo stato d’animo che si genera nel poeta non è di tetraggine e di cupezza, bensì di «dolce tristezza», di «calma e gioia». Nella corrispondenza con la natura congeniale l’io trova una sorta di pacificazione, di appagamento. Il motivo della ricerca di solitudine risale a Petrarca (ad esempio: «Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti», Canzoniere, XXXV, vv. 1­2), ma è evi­ dente come la tensione romantica allontani Alfieri dal clima del petrarchismo: non vi è qui l’assorta e pacata esplorazione interiore del poeta trecentesco, ma un animo tempestosa­ mente titanico che cerca pace in una natura orrida e selvaggia, in cui si rispecchia. Non si ha quindi la limpida grazia del gusto petrarchesco, ma la ricerca del «sublime», nel senso settecentesco, cioè di un «orrore» che appare «piacevole» («delightful horror»: è la formu­ la usata dal massimo teorico del «sublime» in questa età, l’inglese Edmund Burke). Anche il linguaggio è lontanissimo dalla fluida musicalità di Petrarca ed appare caratterizzato soprattutto da suoni aspri (si veda il continuo ricorrere di vibranti e sibilanti, /r/ e /s/).

> La dimensione politica

Lo scontro con il «vil secolo»

Nelle terzine l’introspezione lirica si allarga alla dimensione politica cara ad Alfieri. Il tor­ mento interiore che spinge l’io a cercare la pace nella natura selvaggia a lui conforme si chiarisce nei suoi termini storici: l’esigenza di solitudine non nasce dalla misantropia ego­ centrica di chi si ritiene superiore agli altri uomini («Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso / mende non vegga»), ma dallo scontro con un «vil secolo», dal rifiuto del «pesan­ te regal giogo» («ma, non mi piacque il vil mio secol mai: / e dal pesante regal giogo oppres­ so, / sol nei deserti tacciono i miei guai»). L’uomo magnanimo non ha altra via di scampo che la morte o la chiusura nella solitudine: sono sempre le tesi del trattato Della tirannide.

Esercitare le competenze

Laboratorio interattivo

cOmPrenDere

> 1. Qual è la situazione descritta dal poeta nelle due quartine? > 2. Quale opinione ha Alfieri dei suoi simili? E del secolo in cui vive? AnALIZZAre

> 3.

stile Considera le parole in rima nelle quartine: quale altra rima ricca basata sulla figura etimologica si può osservare, oltre a «selva», «inselva»? > 4. stile Quale figura di significato rintracci al v. 2? Quale stato d’animo del poeta sottolinea? > 5. Lessico A quali campi semantici appartengono, rispettivamente, le rime A e le rime B? Che rapporto intercorre tra questi due campi semantici?

APPrOfOnDIre e InTerPreTAre

> 6.

scrivere La selva rappresenta una metafora cara alla tradizione poetica italiana: da quella dantesca, ai boschi petrarcheschi, alle selve labirintiche di ariostesca memoria, fino alla selva incantata di Saron del Tasso, o ai boschetti leziosi e ameni dell’Arcadia. In un massimo di 20 righe (1000 caratteri) specifica e distingui il significato che di volta in volta assume tale luogo, fino alla «solitaria selva» di Alfieri. > 7. Testi a confronto Istituisci un confronto tra il paesaggio che fa da sfondo alla lirica di Paolo Rolli, Solitario bosco ombroso ( cap. 1, T1, p. 273), di gusto arcadico, e quello descritto da Alfieri in questo sonetto. Quale rapporto si instaura tra il poeta e lo scenario naturale?

652

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

T8

Bieca, o morte, minacci? e in atto orrenda

Temi chiave

• l’atteggiamento combattivo di fronte alla morte

• la visione della morte come

dalle Rime

liberazione dall’oppressione tirannica

• la contrapposizione tra la «viltà» delle

Il sonetto risale al 12 gennaio 1778.

>

masse e l’eroismo dell’uomo libero

metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABBA, CDC, DCD.

4

Bieca, o Morte, minacci? e in atto orrenda1, l’adunca falce a me brandisci innante? Vibrala, su: me non vedrai tremante pregarti mai, che il gran colpo sospenda2.

8

Nascer, sì, nascer chiamo aspra vicenda3, non già il morire, ond’io d’angosce tante scevro rimango4; e un solo breve istante de’ miei servi natali il fallo ammenda5.

11

Morte, a troncar l’obbrobrïosa vita, che in ceppi io traggo, io di servir non degno, che indugi omai6, se il tuo indugiar m’irrita?

14

Sottrammi7 ai re, cui sol dà orgoglio, e regno, viltà dei più, ch’a inferocir gl’invita, e a prevenir dei pochi il tardo sdegno8.

1. in atto orrenda: orrenda nel tuo atteggiamento. 2. che ... sospenda: che tu sospenda il tuo colpo mortale (è retto da pregarti). 3. aspra vicenda: avvenimento doloroso; cioè è una sventura nascere, non morire. 4. ond’io ... rimango: morire non è una sventura perché libera il poeta dalle ango-

sce (scevro: privo). 5. un solo ... ammenda: un breve istante (quello della morte) rimedia alla colpa di essere nato schiavo. 6. a troncar ... omai: perché ormai indugi a troncare l’obbrobriosa vita, che io conduco in catene (ceppi), io, che non merito di vivere schiavo?

7. Sottrammi: sottraimi, imperativo. 8. cui ... sdegno: ai quali solo la viltà della maggioranza degli uomini consente di andare orgogliosi del loro potere e di regnare; questa viltà generale li invita a inferocire sui sudditi e a stroncare in anticipo la ribellione sdegnosa dei pochi, che è troppo lenta a scatenarsi.

competenze attivate

Analisi attiva cOmPrenDere

> una sfida estrema

Rivolgendosi direttamente alla Morte, il poeta la sfida con temerarietà ad attuare la sua minaccia: non sarà certo lui a pregarla di risparmiarlo, poiché morire è una liberazione dall’angoscia di una vita non libera ed è dunque desiderabile. Chi non è degno di vivere in servitù, e tuttavia non può evitar­ lo a causa della vile subordinazione della maggioranza, può trovare soltanto nella morte un possibile riscatto.

• Leggere, comprendere ed interpretare

testi letterari: poesia • Dimostrare consapevolezza della

storicità della letteratura

> 1. In quale atto è rappresentata la morte? > 2. Quali esortazioni rivolge il poeta alla

morte, in modo diretto o attraverso interrogative retoriche?

653

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

AnALIZZAre

> La concezione titanica della morte

Il tema della morte è particolarmente caro ad Alfieri, e ricorre costantemente nella sua opera. In questo sonetto si propone un suo aspetto essenziale. Non vi è assaporamento voluttuoso dell’idea della dissoluzione, vagheggiamento morboso del nulla (come avverrà poi in tanta letteratura romantico­deca­ dente dell’Ottocento), ma un atteggiamento combattivo, tita­ nico: il modo in cui si affronta la morte è concepito come prova di coraggio, di magnanimità, il morire è sentito come suprema manifestazione di dignità eroica.

> Le radici storiche della sofferenza esistenziale

Questa concezione della morte è la naturale conseguenza di un pessimismo assoluto: il nascere è una sventura, quindi la morte è una liberazione da un peso intollerabile («ond’io d’angosce tante / scevro rimango»). Il male di vivere però non è solo una condizione esistenziale, ha per Alfieri precise radi­ ci storiche e politiche: la servitù in un’età di oppressione ti­ rannica. Nella morte risiede allora l’unica possibile afferma­ zione di libertà («de’ miei servi natali il fallo ammenda»). L’uomo libero e magnanimo, costretto a intristire sotto la ti­ rannide, non ha altro modo di trovare riscatto. Lo «sdegno» dei pochi individui come lui è impotente a mutare le cose. In contrapposizione al singolo eroe, che non teme di affrontare la morte, si profila la «viltà» dei più, su cui solo si regge il pote­ re dei re.

> Lo stile: l’andamento spezzato e i suoni aspri

Ricorrono nel sonetto i caratteri stilistici tipici della lirica alfieriana, che contribuiscono a staccarla nettamente dalla tradizione petrarchesca, da cui pure prende le mosse. Tali caratteri sono essenzialmente: la tensione concitata, che si esprime in frequenti apostrofi, imperativi vibranti ed interro­ gazioni, e si conclude in formule secche e lapidarie; l’anda­ mento spezzato dei versi, frequentemente interrotti da pause al loro interno; la predilezione per suoni aspri e per scontri di consonanti, il ricorrere frequente delle vibranti /r/ e delle si­ bilanti /s/, delle doppie occlusive, /tt/, /pp/, /cc/. È facile scor­ gere come questo stile della lirica riproduca le caratteristiche dominanti di quello tragico.

> 3. Come viene raffigurato nel testo il momento della morte? Si tratta di un passaggio naturale, fisiologico, oppure impetuoso e violento? Come influisce la personificazione della morte su questo aspetto? > 4. Rintraccia nel testo e spiega le espressioni in cui si manifestano l’audacia del poeta e la sua indole fiera.

> 5. A che cosa fa riferimento l’espressione «de’ miei servi natali» (v. 8)? In che cosa consiste effettivamente la servitù del poeta? > 6. Chi sono i «re» (v. 12) a cui fa riferimento il poeta? > 7. La parola «orgoglio» (v. 12) ha una sfumatura positiva o negativa? Con quale sinonimo potresti sostituirla?

> 8. Individua le pause interne e gli enjambements che conferiscono al sonetto un andamento spezzato.

> 9. Evidenzia nel testo la ricorrenza del suono /r/. Quali versi risultano particolarmente significativi per questo aspetto? > 10. Rintraccia nel testo le iterazioni: a quali temi danno risalto? > 11. Svolgi l’analisi retorica della seconda terzina, individuando le figure foniche, di significato e relative all’ordine delle parole.

APPrOfOnDIre e InTerPreTAre

> un autoritratto eroico

Nel sonetto tornano le tesi fondamentali espresse dall’autore nel trattato Della tirannide, scritto l’anno precedente. Non so­ lo, il sonetto è un cospicuo contributo alla costruzione di quell’immagine eroica di sé che Alfieri persegue attraverso tutta la sua opera.

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> 12. Rifletti sulla visione dell’umanità che Alfieri esprime in questo e in altri testi a te noti, e mettila a confronto con quella proposta dai philosophes francesi.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

Che Cosa Ci diCono anCora oggi i ClassiCi

Alfieri IL messAGGIO POLITIcO: DIsPOTIsmO e LIBerTÀ Gli arretramenti della democrazia Nel messaggio politico che ci ha trasmesso Alfieri con le sue opere possiamo trovare vari spunti che si collegano con il presente e con i problemi a cui ci troviamo di fronte oggi. Come si è visto, nelle pagine alfieriane si esprime una violenta avversione contro ogni forma di dispotismo e un’ansia di libertà senza confini. L’assolutismo aborrito dal poeta è scomparso da tempo e noi oggi in Italia non viviamo in un regime dittatoriale, per fortuna, ma anche nei regimi democratici c’è sempre il pericolo di un arretramento verso impostazioni autoritarie, che compromettano le libertà fondamentali della persona, magari dietro lo schermo di un rispetto formale della democrazia. Un esempio può essere il feroce pestaggio compiuto dalla polizia sui dimostranti che dormivano nella scuola Diaz dopo le manifestazioni contro il G8 a Genova, nel 2001, in conseguenza del quale l’Italia il 7 aprile 2015 è stata condannata per tortura dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; senza contare le altre vere e proprie torture praticate negli stessi giorni, su altri manifestanti, alla caserma di Bolzaneto, violenze degne di una dittatura sudamericana o di uno Stato di polizia, un’autentica vergogna nazionale. Per cui la lezione alfieriana ci avverte di essere sempre vigili, pronti a difendere i diritti e a opporci fermamente quando le libertà vengano in qualunque modo limitate e la democrazia sia messa in pericolo. I condizionamenti della libertà Ma comunque, anche senza che si verifichino manifestazioni di potere autoritarie e violente, l’individuo nei sistemi democratici è sempre sottoposto a condizionamenti che ne limitano la libertà di scelta e di azione: basti pensare alla potenza dei media e della pubblicità nel manipolare e condizionare occultamente le coscienze, inducendo a determinati comportamenti. Anche in questo caso il culto alfieriano della libertà può ricordarci l’esigenza di salvaguardare sempre l’indipendenza del nostro modo di pensare e delle nostre scelte, opponendo ai condizionamenti la consapevolezza critica.

IL mODeLLO DI un InTeLLeTTuALe InDIPenDenTe Intellettuali e fascismo Il poeta, nell’esercizio della sua scrittura letteraria, offre il modello di un intellettuale libero, immune da condizionamenti esterni e da servilismi verso il potere, qualunque esso sia (anche se, bisogna riconoscere, da una prospettiva arcaica, in quanto a suo avviso solo la condizione aristocratica con le sue rendite può garantire l’indipendenza). Non a caso a lui guardavano spesso gli oppositori alla dittatura mussoliniana: un grande intellettuale antifascista come Piero Gobetti, che pagò con la morte la sua lotta contro il regime, aveva come motto una frase ispirata ad Alfieri, «Che cosa ho a che fare io con gli schiavi?». Tanti altri intellettuali dell’epoca invece, pur non essendo di idee fasciste, si adattarono a servire il regime pur di avere in cambio privilegi, stipendi, cariche, prestigio. Intellettuali e potere oggi E non mancano neppure oggi figure di intellettuali che corteggiano il potere politico per assicurarsi ad esempio cariche alla televisione pubblica o trasmissioni loro affidate, o benefici di altro genere.

LA cAsTA mILITAre e sAcerDOTALe Le dittature militari Nel suo odio antitirannico Alfieri esprimeva la sua esecrazione per la casta militare e per quella sacerdotale, da lui considerate i principali pilastri su cui si reggeva la monarchia assoluta. Oggi almeno in Occidente monarchie assolute non ne esistono più, ma si sono dati vari esempi di dittature militari feroci e spietate nell’opprimere le popolazioni e nel cancellare ogni libertà, come, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, nell’Argentina del generale Videla, nel Cile del generale Pinochet, nella Grecia dei colonnelli. E ancora in anni molto recenti un paese di antica e raffinata civiltà come la Birmania (o Myanmar) è stato sotto il tallone di ferro di una dittatura militare, che soffocava la libera vita democratica e perseguitava gli oppositori, come la signora Aung San Suu Kyi, insignita poi del premio Nobel per la sua coraggiosa attività politica.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

I regimi teocratici E non mancano paesi a regime teocratico, come l’Iran, in cui il potere effettivo è in mano alla casta sacerdotale (la Guida Suprema è l’ayatollah Khamenei), senza distinzione tra sfera religiosa e sfera politica, anche in questo caso con gravi limitazioni delle libertà personali dei cittadini.

rIVOLTA e IsOLAmenTO DALLA sOcIeTÀ

cOnTrO LA menTALITÀ AffArIsTIcA Gli aspetti negativi dello sviluppo economico In Alfieri si ritrova un disprezzo profondo per la mentalità affaristica e mercantile: anch’esso proviene dal suo sdegnoso artistocraticismo, cioè da una posizione arcaica e arretrata rispetto al corso della storia, che andava nella direzione dell’affermarsi delle forze borghesi, capaci di creare un nuovo mondo, nell’organizzazione economica come in quella politica e cultu-

Purezza e realismo Da Alfieri proviene l’invito a un isolamento sdegnoso dalla compagine sociale, come unico mezzo per non farsi contaminare dalla sua bassezza e dalla sua meschinità e per mantenersi coerenti con un ideale di purezza e dignità supreme. È certo una nobile lezione, che invita a non cedere a compromissioni squalificanti e degradanti con gli aspetti più negativi della realtà. Però per noi oggi l’isolamento totale appare inaccettabile, in nome di un’inderogabile necessità di impegnarsi comunque con la realtà per quanto negativa, perché l’isolamento è in fondo una resa che induce ad accettare che le cose rimangano come sono, mentre per cambiarle è indispensabile un realistico fare i conti con la situazione in cui ci troviamo a vivere. L’aristocraticismo titanico Inoltre nelle posizioni alfieriane è possibile ravvisare un aristocraticismo sprezzante dell’umanità comune, un individualismo titanico esasperato, un bisogno di grandezza sovrumana e di un’affermazione di sé oltre ogni limite, che non possiamo non sentire come prodotti di una stagione culturale ormai lontana da noi, che anzi oggi può essere persino pericoloso riproporre.

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Arthur G. Dove, L’ intellettuale, 1925, assemblaggio, New York, Museum of Modern Art.

Il ribellismo giovanile L’ansia alfieriana di libertà si traduce in un’insofferenza di ogni vincolo e costrizione, in un sogno sterminato e astratto di rivolta contro ogni forma di potere, che ci può far pensare ai fenomeni di esasperato ribellismo intellettuale giovanile verificatisi negli anni fra il 1968 e il 1977, in cui si esprimeva un rifiuto totale dell’esistente. Lo slancio titanico di rivolta in Alfieri, proprio per la sua tensione astratta che non può trovare sbocchi, si rovescia inevitabilmente, come si è constatato, in un senso tragico di sconfitta: e anche per questo aspetto il pensiero corre ai contraccolpi che in tanti giovani di quegli anni tennero dietro ai sogni di eversione globale finiti in nulla, determinando condizioni di frustrazione e depressione.

Capitolo 9 · Vittorio Alfieri

rale. Noi oggi sappiamo che senza quel tipo di sviluppo avremmo oggi condizioni di vita infinitamente peggiori, segnate da miseria e fame per la gran massa della popolazione, come avveniva appunto in secoli passati. Però proprio dall’aristocraticismo alfieriano possono venire suggerimenti utili a non cedere a cieche esaltazioni del sistema attuale come migliore dei mondi possibili e a collocarci sempre in una posizione critica di fronte ai fenomeni economici odierni: posizione critica che al contrario consente di vedere come nel nostro sistema dominino la dura legge dell’interesse, la smania del profitto ad ogni costo, la lotta senza quartiere di tutti contro tutti per il predominio, senza alcun riguardo umano e senza tener conto degli effetti negativi che si riversano sulla vita degli individui comuni (sia nei paesi avanzati sia ancor di più nel Terzo Mondo). Pur di ottenere profitti spesso si è disposti a mettere a repentaglio la salute della gente: è il caso dei rifiuti tossici che varie industrie, tramite la camorra, hanno seppellito in certe regioni, dove poi le percentuali di chi si ammala di cancro provocano sdegno e paura. Oppure si pensi all’Eternit di Casale Monferrato o all’Ilva di Taranto, le cui lavorazioni hanno compromesso la salute di un numero impressionante di persone, e colpiscono tuttora.

cOnTrO LA scIenZA La razionalizzazione tecnologica Così, col suo culto della passionalità veemente e del forte sentire, Alfieri nutre un’avversione verso le scienze, per la loro impostazione raziocinante che spegne ogni entusiasmo e ogni volo dell’immaginazione: avversione che noi oggi, consapevoli dell’indispensabilità del progresso scientifico, non possiamo certo condividere. Però anche in questo caso la lettura delle sue pagine può offrirci l’antidoto contro certe esaltazioni acritiche odierne della scienza e della tecnologia, mitizzate come mezzi magici che possono risolvere tutti i problemi e assicurare agli uomini la felicità. Uno sguardo critico può invece portare alla luce il rovescio negativo del progresso scientifico-tecnologico: un mondo dominato da una perfetta razionalizzazione ipertecnologica, e pertanto inaridito e disumanizzato, non può non far paura; senza contare le ricadute della moderna tecnologia sull’ambiente, di cui troppo spesso non si tiene conto e di cui vediamo gli effetti talora devastanti (si ricordi il disastro della centrale atomica di Fukushima in Giappone). Ma anche la ricerca scien-

tifica può comportare pericoli, ad esempio nel campo della bioetica: si pensi alla possibilità di clonare esseri umani.

IL mALe DI esIsTere La scoperta delle zone oscure della psiche Uno degli aspetti più attuali di Alfieri è la sua percezione del male di esistere, che anticipa tanti aspetti dell’anima moderna. Nelle sue pagine autobiografiche e nei personaggi delle sue tragedie compaiono un tormento senza nome, un’irrequietezza perenne, un’insofferenza verso ogni aspetto della realtà presente, una noia di non si sa che cosa, a cui si contrappone il bisogno di un altrove più autentico, in cui si appaghi l’inquietudine e trovino pace le angosce. Proprio lo sguardo fissato sui conflitti interiori consente inoltre alla poesia alfieriana la scoperta e l’esplorazione di una zona della psiche oscura e ignota, dove si agitano impulsi inconfessabili (si pensi ai tormenti di Saul, o a quelli di Mirra): tutti temi che a noi appaiono anch’essi squisitamente moderni.

Le TrAGeDIe cOme sPeTTAcOLO La rapidità dell’azione drammatica Veicolando tutte queste tematiche, le tragedie alfieriane sono senza dubbio vitali, per lo meno alla lettura: ma possono essere considerate organismi teatrali ancora attuali oggi, dal punto di vista spettacolare? Certo la loro struttura resta drammaticamente molto viva, fondata com’è sulla rapidità di un’azione estremamente essenziale, che tende in modo incalzante verso la fine, senza indugi e lungaggini, senza diversioni o personaggi di semplice contorno, senza momenti di stanchezza e cadute di interesse, un’azione quindi capace di incatenare l’attenzione con la forza dei conflitti e l’intensità delle passioni. Ed effettivamente i testi tragici alfieriani sono ancora ripresi sulle scene. Le difficoltà della lingua Un ostacolo per il pubblico di oggi che non abbia una specifica preparazione letteraria può essere costituito dal linguaggio, con i suoi termini aulici e le sue dure inversioni sintattiche. Non tutti sarebbero in grado di decifrare all’ascolto battute chiave del Saul come «in ogni nappo ascoso tosco io bevo» (in ogni coppa io bevo un veleno nascosto): per questo talora le messe in scena attuali operano qualche ammodernamento sul piano linguistico.

657

L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

Ripasso visivo

VITTORIO ALFIERI (1749-1803) Mappe interattive

Ripasso interattivo

ELEMENTI BIOGRAFICI

• Nasce ad Asti nel 1749 da una famiglia della nobiltà terriera • Dal 1758 studia all’Accademia Reale di Torino; uscito dall’Accademia, viaggia per cinque anni (1767-72) prima in Italia, poi nell’Europa del Nord

• Rientrato a Torino, si dedica all’attività letteraria e compone le prime tragedie • Tra il 1776 e il 1780 è in Toscana per perfezionare la conoscenza della lingua italiana • Soggiorna frequentemente, tra il 1785 e il 1792, a Parigi, dove assiste allo scoppio della Rivoluzione. Deluso dagli esiti rivoluzionari, rientra a Firenze, dove muore nel 1803

POETICA E PENSIERO

• Rifiuta gli ideali illuministici (egualitarismo, razionali-

smo e fiducia nel progresso) cui oppone la superiorità dell’aristocrazia, il culto della passionalità e dell’immaginazione, la concezione elitaria della poesia, anticipando la sensibilità dell’età romantica • Affida alla poesia tragica il compito di veicolare il sublime del sentimento eroico, percorrendo una

parabola che dall’eroe titanico in conflitto con il mondo evolve verso un eroe sconfitto, in intimo conflitto con se stesso • Fedele al modello tragico classico e rispettoso delle unità aristoteliche, ricerca la massima intensità drammatica attraverso l’intreccio serrato e incalzante e lo stile conciso e rapido

OPERE OPERE POLITICHE E DI CONTENUTO POLEMICO • Della tirannide • Panegirico di Plinio a Traiano • Della virtù sconosciuta • Del Principe e delle lettere • Misogallo • Satire • Commedie

OPERE AUTOBIOGRAFICHE

• Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso

POESIA LIRICA

• Rime

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Prima fase esaltazione dell’individualismo eroico e del titanismo • Filippo • Polinice • Antigone • Agamennone • Oreste • Virginia Seconda fase sperimentazione di temi, ambienti e toni diversi • La congiura de’ Pazzi • Don Garzia • Maria Stuarda • Rosmunda • Ottavia • Timoleone • Merope

SAUL

LA STRUTTURA

LA MATERIA POETICA

• La tragedia, ispirata alla

• Saul rappresenta il supera-

vicenda biblica di Saul, è di impianto classicista: suddivisa nei canonici cinque atti, ha una scena fissa e un’azione unitaria e rispetta il dettato aristotelico dell’unità di tempo, luogo e azione.

TRAGEDIE

mento del titanismo eroico. L’eroe si scontra per la prima volta con la dimensione trascendente; il conflitto che ne nasce è tutto interiore.

Terza fase personaggi deboli e destinati alla sconfitta; attenzione agli affetti intimi e privati; senso di pietà • Saul • Agide • Sofonisba • Mirra • Alceste • Abele • Bruto primo • Bruto secondo

In sintesi

VITTOrIO ALfIerI (1749-1803) Verifica interattiva

Alfieri si forma in un contesto culturale dominato dall’Illuminismo e tuttavia la sua personalità tormentata, malinconica e ribelle, protesa titanicamente verso un ideale di grandezza sublime a cui la realtà storica non concede spazio, anticipa una sensibilità che si affermerà con il Romanticismo. Il poeta rappresenta d’altra parte l’esatto contrario dell’intellettuale impegnato nelle riforme civili, caro all’Illuminismo: rampollo della ricca nobiltà terriera sabauda, egli incarna piuttosto la figura dello scrittore aristocratico e sprezzante della massa, che grazie alle cospicue rendite può dedicarsi interamente all’attività letteraria, concepita come una vocazione quasi religiosa.

IDeOLOGIA Benché le basi della formazione di Alfieri siano costituite dagli illuministi francesi, le sue opere mostrano una diversa visione della realtà: egli esalta la passionalità sfrenata, la spontaneità e l’immaginazione contro il razionalismo scientifico; esprime un bisogno di assoluto inconciliabile con le istanze antireligiose dei philosophes; sull’ottimismo fiducioso nel progresso morale e civile fa prevalere il senso della miseria e dell’impotenza dell’uomo; disprezza lo spirito borghese; nutre una concezione elitaria della cultura. Lo stesso pensiero politico alfieriano, stenta a definirsi in un progetto concreto di cambiamento. Pur avendo inizialmente guardato con favore alla Rivoluzione francese, Alfieri ne prende le distanze nel momento in cui inizia a delinearsi il nuovo assetto borghese. Incapace di adattarsi a una realtà sentita come mediocre, lo scrittore si chiude così in un aristocratico isolamento.

OPere POLITIcHe, SaTire e CoMMeDie Il momento più radicale della riflessione politica alfieriana coincide con il trattato giovanile Della tirannide, caratterizzato da un’accesa polemica contro la monarchia: perché tale sistema di governo sia rovesciato, Alfieri vagheggia il gesto eroico dell’uomo libero, che provochi un’insurrezione popolare. Nelle opere più tarde, come il Misogallo, opera mista di prosa e di versi, la delusione per gli esiti del processo rivoluzionario spinge lo scrittore a rivalutare la monarchia e la nobiltà come mali minori rispetto al nuovo assetto borghese: affievolito ogni impeto rivoluzionario, l’eroismo sembra coincidere con la rinuncia all’azione. Già nel trattato in tre libri Del principe e delle lettere Alfieri aveva del resto affermato la superiorità dell’attività letteraria sull’impegno civile, delineando la figura di un intellettuale chiuso in una sdegnosa solitudine. Il disprezzo per le masse popolari e per la borghesia emerge anche nelle Satire e nelle sei Commedie, che mettono a nudo una concezione assai pessimistica dell’umanità.

Le TrAGeDIe Alfieri trova la forma letteraria più congeniale nella tragedia. Il poeta muove da una posizione polemica nei confronti della grande tragedia classica francese, a cui rimprovera la prolissità, il patetismo sentimentale, il carattere romanzesco; a questo modello contrappone un meccanismo tragico serrato e incalzante, tutto incentrato su pochi personaggi principali, e uno stile conciso e spezzato, antimusicale e rapido, capace di esprimere grande intensità drammatica. Nella poetica alfieriana agiscono però ancora istanze legate al classicismo: il rispetto delle tre unità aristoteliche e l’attenta elaborazione stilistica. Alla fase iniziale, immediata e passionale, coincidente con l’ideazione del soggetto e con la prima stesura di getto dei dialoghi, deve infatti seguire un attento lavoro di lima, inteso come controllo razionale della fantasia creativa. Il disprezzo per il pubblico e per il teatro contemporanei inducono Alfieri a presentare le proprie tragedie solo in ambienti privati: il teatro per il quale egli scrive è dunque un contesto ideale, fatto di individui «liberi, forti e magnanimi», cittadini di un’utopica Italia a venire. Anche nella produzione tragica si riflette l’evoluzione ideologica dalla tensione eroica giovanile al disinganno della maturità. Al centro delle prime tragedie campeggiano infatti eroi sovrumani, chiusi nella loro individualistica solitudine, ma essi cedono gradualmente il posto a personaggi intimamente deboli, coscienti dell’inevitabile sconfitta, come il protagonista del Saul (1782). Entrato definitivamente in crisi l’ideale eroico, Alfieri si apre a una tematica nuova, attenta alla sfera privata degli affetti intimi, che trova la sua massima espressione nella Mirra (1784-86): il conflitto si trasferisce dall’esterno all’interno dei personaggi, rappresentanti di un’umanità dolente, lacerata da sentimenti contrastanti, in cui si rivela la miseria universale del vivere.

LA ViTa SCriTTa Da eSSo e Le riMe La principale fonte per la conoscenza della personalità di Alfieri è costituita dall’autobiografia Vita scritta da esso. Essa ricostruisce il delinearsi di una vocazione poetica, vista come il centro intorno a cui ruota tutta l’esistenza, e nello stesso tempo esprime il disagio esistenziale e la delusione storica che caratterizzano l’ultimo Alfieri. Natura autobiografica hanno anche le Rime, composte lungo tutto l’arco dell’esistenza del poeta. Se i motivi e il lessico rinviano al Canzoniere petrarchesco, il linguaggio alfieriano è lontanissimo dalla musicalità sia del modello sia della lirica settecentesca, puntando all’intensificazione espressiva. Così come lo stile, anche i temi rivelano una sensibilità nuova, che si può considerare preromantica.

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L’età della “ragione” e dell’Illuminismo

facciamo il punto L’esPerIenZA DI VITA

1. La nascita in una famiglia della piccola nobiltà terriera piemontese in quale modo influenzò Alfieri? 2. Come visse Alfieri l’esperienza della Rivoluzione francese? 3. Dai brani antologizzati tratti dalla Vita ( T5 e T6, pp. 635 e 646) e dai sonetti ( T7 e T8, pp. 651 e 653)

ricava l’immagine che Alfieri dà di se stesso. LA fOrmAZIOne

4. Perché Alfieri definì «ineducazione» l’educazione ricevuta presso la Reale Accademia di Torino? 5. Che cosa ricavò Alfieri dall’esperienza giovanile dei viaggi ( T5, p. 635)? 6. Quali autori, classici e moderni, contribuirono alla crescita culturale di Alfieri? 7. Quali aspetti dell’Illuminismo e del Preromanticismo sono presenti nel pensiero di Alfieri? IL mODeLLO D’InTeLLeTTuALe

8. Quali compiti Alfieri attribuisce all’intellettuale-scrittore? Alfieri crede nel poeta-vate? 9. Come si conciliano in Alfieri l’amore per la liberà ed il suo rifiuto per gli ideali della Rivoluzione francese? Le OPere

10. Il poeta rispetta le codificazioni letterarie o introduce delle innovazioni? Se sì, quali sono? 11. Quale funzione hanno le opere teatrali per l’autore? 12. Quali elementi caratterizzano la poetica tragica di Alfieri?

Bibliografia La critica

Per la ricerca nel web

` EDIZIONI DELLE OPERE

È in corso di pubblicazione, dal 1951, l’edizione critica delle opere complete, a cura del Centro Nazionale di Studi Alfieriani di Asti, in 40 volumi. • Opere, a cura di V. Branca, Mursia, Milano 1965 • Opere, con introduzione e scelta di M. Fubini, testo e commento a cura di A. Di Benedetto, vol. I (unico per ora uscito), Ricciardi, Milano-Napoli 1977. Edizioni delle tragedie: oltre all’edizione nazionale sopra citata, Tragedie, a cura di N. Bruscoli, 3 voll., Laterza, Bari 1946 • Tragedie, a cura di P. Cazzani, Mondadori, Milano 1957 • Tutte le tragedie, a cura di G. Zuradelli, 2 voll., utet, Torino 1973 • Tragedie, a cura di L. Toschi e con introduzione di S. Romagnoli, Sansoni, Firenze 1985. Edizioni della Vita: Vita scritta da esso, a cura di L. Fassò, 2 voll., Centro Nazionale di Studi Alfieriani, Asti 1951 • Vita, a cura di G. Dossena, Einaudi, Torino 1981. Edizione delle commedie: Commedie, a cura di S. Costa, 2 voll., Mursia, Milano 1988-1990.

` BIBLIOGRAFIA E STORIA DELLA cRITIcA C. CappuCCio, Vittorio Alfieri, in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. Binni, La Nuova Italia, Firenze 1955 • B. Maier, Alfieri, Palumbo, Palermo 1957 • r. D. Bello, Rassegna alfieriana (1959-1960), in “Lettere italiane”, XIII, 1961 • a. FaBrizi, Rassegna

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alfieriana (1961-1967), in “Lettere italiane”, XX, 1968 • C. DoMeniCi, Rassegna alfieriana (1970-1972), in “Lettere italiane”, XXV, 1973 • G. Santato, Rassegna alfieriana (1972-1977), in “Lettere italiane”, XXX, 1978 • G. Santato, Rassegna alfieriana (1978-1981), in “Annali alfieriani”, III, 1983 • B. M. Da riF, Rassegna alfieriana (1977-1987), in “Lettere italiane”, XXXIX, 1987.

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Il teatro per immagini

La Commedia dell’Arte La Commedia dell’Arte si sviluppa fra la metà del Cinquecento e la metà del Settecento. Si tratta di un fenomeno tipicamente italiano, ma rapidamente esportato dagli attori italiani in paesi vicini come la Francia o la Germania. I tratti salienti della Commedia dell’Arte sono principalmente due. Innanzi tutto la centralità dell’attore, che recitava sulla base di un semplice “canovaccio” (privo di battute e di indicazioni sceniche complete) a partire dal quale gli attori mantenevano ampi margini di improvvisazione. Di qui un’altra definizione della Commedia dell’Arte, detta anche commedia “all’improvviso”. In secondo luogo la presenza delle maschere. Gli attori recitavano parti fisse caratterizzate dalle maschere, dai costumi, dalla gestualità e da tutto ciò che era necessario per qualificare una parte: ogni compagnia era composta da due servi (i cosiddetti “Zanni”), due vecchi (i cosiddetti “Magnifici”), un Capitano, due innamorati e alcuni altri ruoli minori. Due importanti novità di carattere organizzativo segnano poi l’affermazione della Commedia dell’Arte. Gli attori sono a tutti gli effetti dei professionisti che agiscono all’interno di un vero e proprio mercato teatrale, a differenza di ciò che accadeva nell’epoca precedente quando gli attori erano per lo più dilettanti. In secondo luogo, per la prima volta le donne recitano al fianco degli uomini.

Lo spAzio sCeniCo

1 Recita all’aperto, dipinto di scuola fiamminga, XVII secolo, Milano, Civica Raccolta d’Arte.

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2 Mascherata carnevalesca in piazza del Duomo a Milano (particolare), XVII secolo, olio su tela, Milano, Museo di Milano.

Il teatro per immagini

1/2/3. I comici dell’Arte recitavano spesso all’aperto, utilizzando teatri ambulanti o montando palcoscenici di fortuna. Le recite potevano avvenire in zone di campagna, come si vede nella figura 1, ma anche nei luoghi centrali delle grandi città, come è il caso della figura  2, che mostra un piccolo palco eretto in piazza del Duomo a Milano, oppure della figura  3, dove è raffigurata una recita in piazza San Marco a Venezia.

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Piazza San Marco a Venezia, XVIII secolo, incisione.

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4. Le rappresentazioni al chiuso avvenivano quasi sempre nelle cosiddette “stanze”, e cioè in alcune parti di edifici adibiti anche ad altri usi, come ospedali o dogane. Nella figura si può osservare una ricostruzione moderna di una di queste “stanze”, il teatro della Dogana o di Baldracca a Firenze, attivo sin dalla seconda metà del Cinquecento.

Il teatro della Dogana, ipotesi di ricostruzione, Firenze.

LA nAsCitA deL professionismo teAtrALe 5. Il fiorire della Commedia dell’Arte segna l’avvio del moderno professionismo teatrale. Gli attori sono ormai a tutti gli effetti dei professionisti che agiscono all’interno di un vero e proprio mercato dello spettacolo rivolto a un pubblico sempre più eterogeneo. Questa circostanza costringe i comici al girovagare continuo, “di piazza in piazza”, come si dice tuttora in gergo teatrale. Nel disegno vediamo una compagnia di comici dell’Arte con gli attori che sfilano nelle strade per pubblicizzare i loro spettacoli.

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La sfilata dei comici dell’Arte, XVII secolo, disegno a penna, Parigi, Bibliotèque Nationale de France.

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6. Il nuovo statuto professionale dei comici dell’Arte è testimoniato da numerosi ritratti di attori che mostrano la maschera usata in scena come segno qualificante della propria attività. La magnificenza dei vestiti, l’atteggiamento del soggetto ritratto, la stessa postura testimoniano l’elevato stato sociale dell’attore in quel periodo. Infatti lo stesso termine “arte”, in questo caso, non significa ciò che intendiamo noi oggi con questo termine ma indica, invece, il carattere “artigiano” della pratica recitativa. Pertanto, la locuzione “Commedia dell’Arte” ha un significato essenzialmente economico e professionale e gli attori ritratti mostrano segni evidenti di chi ha raggiunto buoni risultati come in questo quadro di Domenico Fetti che ritrae il grande comico dell’arte Francesco Andreini, vissuto fra Cinque e Seicento.

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Domenico Fetti, Ritratto di Francesco Andreini, XVII secolo, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

Maschere in un’osteria, XVI secolo, incisione, Stoccolma, Nationalmuseum.

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7/8. Una delle più importanti novità introdotte dalla Commedia dell’Arte è la presenza in scena delle donne che recitano. Si tratta spesso di donne molto belle, riccamente vestite e truccate, che, come scriveva il filosofo e teologo Francesco Maria del Monaco nel 1621, «congegnano le loro parole per dare una sensazione di mollezza, i loro gesti per produrre lascivia, i cenni per renderle impudenti, le danze e i balli per dare l’impressione della lussuria». È chiara, in queste parole, la condanna nei confronti della Commedia dell’Arte: secondo il pensiero della Chiesa, le attrici, con il loro modo di recitare, contaminano la purezza della donna, cardine della concezione cristiana della famiglia e della società.

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Attori della Commedia dell’Arte, fine del XVI secolo, pittura, Parigi, Musée Carnavalet.

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Le mAsChere 9

9. Ciascuna compagnia di comici dell’Arte prevede nel suo organico due attori che recitano la parte degli innamorati. Si tratta di ruoli di solito secondari però indispensabili per il coinvolgimento nella rappresentazione delle parti principali e per lo svolgersi della trama. Gli innamorati sono gli unici attori della compagnia che recitano senza maschera. Anonimo di scuola bolognese, Lucis e Trastullo (particolare), fine del XVII secolo, Milano, Museo teatrale alla Scala.

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Ludovico Ottavio Burnacini, Arlecchino, secolo XVII, disegno.

10 Brighella e Trivellino, XVII secolo, incisione.

10/11. Gli Zanni costituiscono una componente fondamentale della Commedia dell’Arte, tanto che un’altra denominazione di quest’ultima è proprio “Commedia degli Zanni”. Questi sono i servi, già presenti nella scena classica e poi in quella rinascimentale, che danno vita a tutti gli intrighi delle commedie. Si dividono in due categorie principali: il primo e il secondo Zanni. Il primo Zanni darà vita alla figura del servo furbo e il secondo a quella del servo sciocco. Ambedue prenderanno nomi diversi a seconda del tempo e del luogo. Ma se per il primo Zanni avremo poche varianti fra cui primeggia quella di Brighella (nella figura 10, a sinistra, insieme a Trivellino, variante di Arlecchino), per il secondo Zanni ne avremo invece moltissime. Arlecchino (fig. 11) è la maschera più celebre della Commedia dell’Arte. Furbo, imbroglione, traditore, tesse intrighi e diverte gli spettatori con i suoi “lazzi” (battute, sbeffeggiamenti, azioni mimiche, eccetera); il suo costume è a pezze variopinte che probabilmente indicano la sua povertà ma portano anche il ricordo dei costumi dei giullari medievali.

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12. Altra variante del secondo Zanni, originaria dell’area napoletana, è Pulcinella, goffo e furbo al tempo stesso, sempre affamato, amante della vita in tutti i suoi aspetti. Nel dipinto settecentesco qui riprodotto lo si vede fare baldoria con due giovani contadine che indossano l’abito tradizionale della loro regione.

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Giuseppe Bonito, Pulcinella e le pacchiane, 1750 ca, olio su tela.

13. Fra le molte varianti possibili del secondo Zanni vediamo qui le maschere di Beppe Nappa e di Frittellino. Anche se il dipinto non riproduce direttamente una scena che si svolge in teatro mostra però chiaramente alcune caratteristiche dello stile di recitazione dei comici dell’arte: la gestualità e i movimenti del corpo sono decisamente accentuati, i costumi sottolineano i movimenti paradossali, le maschere mettono in evidenza la singolarità delle parti; gli attori, inoltre, spesso usavano accompagnare le parole con la musica e col canto come è evidente dalla chitarra, qui in mano a Frittellino. 13

Beppe Nappa e Frittellino, XVII secolo, olio su tela, Milano, Museo teatrale alla Scala.

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14. Le parti dei “Magnifici” sono le parti dei vecchi. Fra queste, le due principali sono quelle di Pantalone e del Dottore. Si tratta di ruoli ridicoli, che fanno scaturire la comicità dal contrasto tra la serietà del personaggio e il suo comportamento, per così dire, poco serio, oppure sbruffone e comunque non adatto all’età e al ruolo. Qui Pantalone, che cavalca un servo travestito da asino condotto per mano da Arlecchino, fa una serenata a una giovane avendo come suggeritore un altro servo.

14 Serenata comica, fine del XVI secolo, olio su tavola, Drottningholm, Teatermuseum.

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Ludovico Ottavio Burnacini, Un cuoco, il Dottore e Pantalone, fine del XVII secolo, disegno, Österreichische Nationalbibliothek.

15. Il Dottore, qui raffigurato tra un attore che recita una parte minore e Pantalone, è la parodia dell’erudito che sfoggia in modo maldestro e ridicolo conoscenze solo per lui profonde e importanti. Un grande attore, Pier Maria Cecchini, scriveva in un trattato del 1628 che per recitare la parte del Dottore bisogna «di quando in quando, lasciarsi (con qualche sobrietà) uscir di bocca di quelle parole secondo loro più scelte, ma secondo il vero le più ridicole che si ascoltino [...] Bisognerebbe anche talvolta dar di piglio a qualche materia sciocca, triviale e molto ben conosciuta, e quivi mostrare, o finger di credere, ch’ella sia la più curiosa, la più nova e la più incognita [sconosciuta] cosa del mondo: onde, senza dar punto segno di ridere, darsi a credere di aver fatto stupire».

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16/17. La maschera del Capitano deriva dalla figura del soldato spaccone già presente nella commedia latina e poi nella commedia rinascimentale. Si tratta di una parte decisamente grottesca, così descritta da Andrea Perrucci, un letterato vissuto nella seconda metà del Seicento: «È questa una parte ampollosa di parole e di gesti, che si vanta di bellezza, di grazia e di ricchezza; quando per altro è un mostro di natura, un balordo, un codardo, un pover’uomo e matto da catena [da legare], che vuol vivere col credito [pretendendo] di essere tenuto [considerato] quello che non è». Il Capitano può recitare in vari dialetti (toscano, napoletano, romanesco, calabrese, siciliano), ma spesso usa anche lo spagnolo. Nell’immagine 16 vediamo un Capitano e uno Zanni. Nell’immagine 17 due diversi tipi di Capitani.

16 Un Capitano e uno Zanni, XVII secolo, olio su tela, Milano, Museo teatrale alla Scala.

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Jacques Callot, Balli di Sfessania, XVII secolo, disegno con figurazioni di “Capitani”.

Ritratto di Tiberio Fiorilli in veste di Scaramuccia, XVII secolo, incisione francese.

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18. Scaramuccia è una maschera di area napoletana. Si tratta di una variante del Capitano o del servo del Capitano, millantatore e attaccabrighe. Uno dei più grandi Scaramuccia fu Tiberio Fiorilli, vissuto nel Seicento, che portò la maschera in Francia dove ebbe grande successo e dove prese il nome di Scaramouche. Fiorilli era solito accompagnarsi con la chitarra, come è evidente nella figura. Secondo le testimonianze del tempo egli sapeva unire mirabilmente al canto una mimica di straordinaria efficacia comica e, grazie a queste sue capacità, apportò un’innovazione fondamentale a Scaramuccia: non usò più la maschera e la sostituì con una patina di trucco stesa sul volto.

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iL CAnovACCio 19

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19/20/21. I comici dell’Arte recitavano prendendo spunto da “canovacci” (o “scenari”) e cioè da testi che riportano la struttura di base, la trama, dell’azione scenica, senza precisare le battute o specificare dettagliatamente le azioni da eseguire. Questa impostazione lasciava un ampio margine alla libertà recitativa di ciascun attore, che poteva così calibrare la sua esibizione sulle proprie particolari abilità ed esigenze artistiche la cui unica limitazione era data dalla necessità di tenere conto delle corrispondenti abilità ed esigenze dei suoi compagni di scena. Le tre incisioni qui a fianco, che risalgono alla fine del XVI secolo, mostrano alcune scene recitate da Arlecchino, Pantalone e due personaggi minori.

Maschere della Commedia dell’Arte, XVI secolo, incisioni, Stoccolma, Nationalmuseum.

L’improvvisAzione 22. A partire dalle indicazioni contenute nei canovacci, l’esibizione degli attori della Commedia dell’Arte si basava su una forma di improvvisazione che comportava, però, una notevole preparazione. Ciascun attore, infatti, utilizzava un proprio repertorio costruito nel tempo, fatto di invenzioni sceniche personali (tra cui c’erano i “lazzi”) e di riferimenti letterari di varia provenienza. Tale repertorio veniva assemblato in modi diversi a seconda delle circostanze, e proprio in questa diversità di soluzioni possibili stava il margine dell’improvvisazione di ciascun attore.

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Una compagnia della Commedia dell’Arte durante una rappresentazione, XVII secolo, olio su tela, Parigi, Comédie Française.

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La riforma del teatro Il Settecento è il secolo delle riforme; non poteva pertanto mancare la riforma del teatro. Ma questa si realizza attraverso un processo lungo e articolato, all’interno del quale la cosiddetta “riforma goldoniana” – quella privilegiata dagli studi letterari – non è che una tappa, se pure di altissimo livello. Diversi anni prima dell’inizio dell’attività teatrale di Goldoni, la riforma era infatti già maturata direttamente sulle assi del palcoscenico, grazie in particolare alle idee e alla nuova sensibilità artistica di Luigi Riccoboni, comico dell’arte. Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento il pubblico del teatro comincia a cambiare poiché, insieme agli aristocratici sono ora presenti folti gruppi costituiti da piccoli e medi borghesi. Luigi Riccoboni propone una riforma che tenga conto di questo mutamento del pubblico. Il suo teatro pertanto cerca di allontanarsi dall’evasione fantastica così tipica del teatro delle maschere e, al contrario, di avvicinarsi a una forma di naturalismo basato su personaggi simili a quelli che si incontrano nella vita di tutti i giorni. Ed è proprio su questa strada che Carlo Goldoni – da scrittore, ma anche da vero e proprio uomo di teatro quale fu – lo seguì, portando a un primo compimento quegli stessi progetti di riforma.

Lo spAzio sCeniCo

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Interno del Teatro di S. Samuele, 1753, apparato scenico dello «specchiaro» Antonio Codognato per Il mondo alla roversa, dramma giocoso di Carlo Goldoni, musica di B. Galuppi.

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1/2. Gli edifici teatrali in muratura, che nel corso del Seicento avevano ospitato prevalentemente spettacoli musicali o balletti, con il Settecento iniziano a programmare sempre più frequentemente commedie e tragedie. La figura 1 mostra l’interno del Teatro veneziano di San Samuele; proprio in questa sala Goldoni nel 1734 iniziò la sua attività di “poeta di compagnia” e cioè di scrittore che viveva a stretto contatto con la vita del teatro partecipando ai vari momenti che portano alla costruzione di uno spettacolo. La figura 2 mostra invece il Teatro Scientifico di Mantova così come si è conservato fino ai nostri giorni. Durante il Settecento, al posto delle attuali poltroncine di platea, si trovavano sedie e panche per il pubblico borghese poiché i palchi erano riservati all’aristocrazia.

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Antonio Galli Bibiena, Teatro Scientifico di Mantova, 1767-69, particolare della sala.

3. Non mancano nel corso del Settecento le rappresentazioni teatrali all’aperto. In questa immagine, tratta da un’importante edizione delle commedie di Goldoni (1761), si può notare, nella parte dell’edificio teatrale destinata agli spettatori, l’assenza di una distinzione tra palchi e platea. Il che fa pensare a un pubblico composto in prevalenza da borghesi.

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Rappresentazione teatrale settecentesca, 1761, dal frontespizio del tomo XII dell’edizione Pasquali delle commedie di Goldoni.

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LA riformA di Luigi riCCoboni 4

4. Luigi Riccoboni (1679-1753), uno dei più importanti comici dell’Arte della sua generazione, indossava spesso il costume di Mezzettino, Zanni furbo e intrigante. Nel secolo delle riforme, però, anch’egli sentì un forte impulso a riformare il teatro poiché ormai, alla fine del Seicento, la Commedia dell’Arte era in piena decadenza. La sua riforma, essendo egli attore e capocomico, si incentrò soprattutto sulla recitazione: addestrava infatti i suoi attori a recitare non più maschere ma personaggi, in modo che potessero portare sulla scena tragedie e commedie scritte e bandiva così l’improvvisazione, almeno come metodo. Ma per ottenere il massimo di efficacia mimetica da parte degli attori, Riccoboni, con preciso gusto arcadico, imposta il discorso della naturalezza in teatro chiedendo all’attore di immedesimarsi nel personaggio in modo che tutto, sul palcoscenico, si svolga in modo verosimile. Per realizzare la sua riforma, Riccoboni ricorse alle tragedie di letterati del tempo tra cui spiccano Pier Jacopo Martello e Scipione Maffei. Le novità della recitazione riformata sarebbero però state soprattutto adatte al genere comico, ma furono proprio le commedie che mancarono al capocomico Riccoboni per portare a compimento la sua riforma.

François Joullain, Mezzettino, XVIII secolo, incisione.

5. Nel 1715 Riccoboni tentò l’esperimento di recitare una commedia “regolare”: scelse la Scolastica dell’Ariosto, che aveva adattatata scrivendo molti versi nuovi. Ma l’esperimento fu un insuccesso e il capocomico colse l’occasione per lasciare l’Italia e trasferirsi a Parigi. Il dipinto qui a fianco si riferisce all’esordio, il 18 maggio del 1716 a Parigi, della Compagnia di Riccoboni. Si vede il capocomico, nel costume di Lelio, la parte che gli era più congeniale, che, nella scena iniziale dell’Inganno fortunato di Balbi, presenta al pubblico francese il nuovo Arlecchino Tommaso Visentini. L’hereuse surprise, 1716, dipinto, Parigi, Musée Carnavalet.

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Il teatro per immagini

6. Questa, a fianco, è un’incisione contenuta in un’edizione settecentesca dell’Ifigenia in Tauris di Pier Jacopo Martello. Riccoboni e la sua compagnia recitarono la tragedia nel 1711 con buon successo. Infatti il testo di Martello rispondeva bene alle esigenze sceniche del riformatore perché la vicenda – rispetto a ciò che succedeva nella tragedia originale di Euripide – è trattata in modo più “verosimile” mentre i personaggi si fanno portatori di esempi di moralità. L’incisione non è la riproduzione di una scena teatrale ma certamente si ispira anche al modo in cui la tragedia veniva recitata all’epoca. E qui si può notare come gli attori realizzino i loro personaggi nel solco del buon gusto arcadico, ispirandosi ai buoni sentimenti che esprimono con gesti, sguardi e posizione dei corpi garbati e mai eccessivi. La vergine Ifigenia è una giovane donna assai pudica, lo sguardo dolcemente abbassato in segno di rifiuto dei piaceri del mondo, mentre con il corpo e il gesto del braccio e della mano destri si affida al guerriero alla sua sinistra che, da parte sua, riceve in modo altrettanto dolce e garbato la sottomissione della fanciulla. È da notare lo sguardo di quest’ultimo insieme fermo e melanconico, secondo i canoni di certo sentimentalismo dell’epoca, e la somiglianza con quello di Lelio (fig. 5) altrettanto melanconico e aggraziato.

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7. Luigi Riccoboni ci ha lasciato numerosi scritti con cui intendeva dare solide basi teoriche alla sua riforma: tra questi c’è anche la prima storia del teatro italiano (Histoire du théâtre italien, 1727). Altro lavoro prezioso per la storia del teatro è un trattato in versi, pubblicato nel 1728, intitolato Dell’arte rappresentativa. In questo libro l’attore riformatore affronta, fra gli altri, un argomento di grandissimo interesse per la recitazione: la distinzione tra “finto” e “falso”. Non si deve infatti pensare che la ricerca di una maggiore adesione alla realtà nella recitazione di Riccoboni comportasse di per sé una forma di naturalismo quale per esempio noi oggi conosciamo non solo in teatro ma anche in molti film, telefilm, eccetera che intendono riprodurre con precisione la vita quotidiana così com’è. Riccoboni è ben consapevole che il teatro è “finto”, e come tale va mostrato al pubblico. Ciò che secondo Riccoboni va evitato è il “falso”, che coincide tanto con l’eccessiva affettazione della recitazione quanto con una esagerata propensione alla naturalezza.

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goLdoni e LA CommediA riformAtA 8

8. Carlo Goldoni (1707-93) non fu soltanto un letterato ma fu anche un uomo di teatro in quanto “poeta di compagnia”, come è già stato detto alla didascalia della figura 1. La sua scrittura teatrale è quindi una scrittura che nasce e vive sulle tavole del palcoscenico. La riforma goldoniana, fortemente sostanziata da moltissime commedie di grande importanza sia artistica che storica, si muove nel solco di quella avviata da Riccoboni anni prima completandola, con i testi, e arricchendola con un’azione decisamente incisiva sulla cultura teatrale, e ruota attorno a due motivi fondamentali che stavano a cuore anche a Riccoboni: l’abolizione delle maschere e l’introduzione del testo scritto quale base della recitazione degli attori.

Carlo Goldoni, L’Astuzia, 1794, incisione sulla pagina della commedia goldoniana nell’edizione Zatta.

9 Pietro Longhi, Ritratto di Carlo Goldoni, 1750, olio su tela, Venezia, casa Goldoni.

9. Goldoni riteneva che il teatro potesse essere riformato soltanto in opposizione alla tradizione della Commedia dell’Arte. Gli attori, in questa prospettiva, avrebbero dovuto abbandonare l’uso delle maschere e imparare a recitare un testo scritto, annullando lo spazio dell’improvvisazione. Si rafforza così l’idea  –  non del tutto nuova dal momento che risale addirittura ad Aristotele – che l’opera dell’attore sia subordinata a quella dell’autore, e che quindi risulti di valore inferiore al testo scritto dovendosi limitare a una forma di “esecuzione” più che di “creazione”. L’incisione, tratta da un’edizione tardosettecentesca della commedia L’astuzia, ci mostra un’ambientazione scenica molto quotidiana e suggerisce implicitamente una recitazione sobria e misurata pur mostrando caratteri ben rilevati, come è evidente nella figura di destra: è l’effetto della riforma goldoniana sulla recitazione che, appunto, porta a compimento i presupposti di quella riccoboniana.

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Il teatro per immagini

10. L’obiettivo del teatro, secondo Goldoni, è presentare delle vicende in cui gli spettatori possano riconoscersi e immedesimarsi. Non basta però che gli attori dismettano l’uso delle maschere, è anche necessario che si facciano interpreti della psicologia dei personaggi, cercando di restituirla nelle sue varie sfumature al pubblico. Nell’immediato secondo dopoguerra dominò una lettura di Goldoni come scrittore realista che elogiando la borghesia, ormai in via di affermazione definitiva, ne metteva però in luce anche gli aspetti negativi. Nell’immagine si vede una rappresentazione della Locandiera del 1952, con la regia di Luchino Visconti: gli attori sono Rina Morelli e Marcello Mastroianni (in primo piano) e Paolo Stoppa (in secondo piano, a destra). Visconti intese, con quella memorabile regia, mettere in luce la crudeltà e il conformismo di Mirandolina, la protagonista della commedia, opponendosi così alle interpretazioni sdolcinate di quel testo che avevano dominato nell’epoca precedente. 11

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11. Il successo di Goldoni non fu immediato anche se le sue commedie vennero apprezzate dai contemporanei; ma, dal punto di vista teatrale, queste conobbero un successo incondizionato solo alcuni decenni dopo, quando il naturalismo si affermò definitivamente sulle scene italiane. Nella fotografia: Arlecchino servitore di due padroni con la regia di Giorgio Strehler (1952), l’altro grande regista dell’epoca insieme a Visconti, che si compiacque, grazie a questo spettacolo, di mettere in luce i rapporti di Goldoni con la Commedia dell’Arte.

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12. Al naturalismo goldoniano si oppone Carlo Gozzi (1720-1806) che, dopo aver polemizzato a lungo per ragioni politiche e ideologiche con Goldoni, si fa “protettore” della Compagnia Sacco (fig. 13); e per lui, quasi per gioco, scrive la “fiaba” L’amore delle tre melarance, rappresentata nel 1761. A questa prima fiaba ne seguiranno altre nove stese nel breve volgere di quattro anni: tutte intendono rifarsi alla Commedia dell’Arte e pertanto riservano grande spazio alla spettacolarità fantastica contro l’imitazione «materiale» (il termine è di Gozzi) della natura. Carlo Gozzi, 1772, incisione, dalla premessa all’edizione stampata delle sue opere, Venezia.

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13. Antonio Sacco (1708-88) è il più importante comico dell’Arte del suo tempo. Eccelleva nella maschera di Truffaldino, una variazione di quella di Arlecchino – e in questa parte è ritratto nell’incisione qui a fianco –: anche Goldoni lo tenne in grande considerazione tanto che, nella prima parte della sua attività, scrisse per lui Arlecchino servitore di due padroni (vedi fig. 11) e due commedie incentrate su Truffaldino. Più tardi, Carlo Gozzi lo considerò l’attore ideale per realizzare sul palcoscenico le sue “fiabe” che, infatti, Sacco portò al successo.

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Il Truffaldino Antonio Sacco, incisione, XVIII secolo, Roma, Biblioteca e Raccolta Teatrale del Burcardo.

ALfieri e iL “funerALe deL trAgiCo” 14. Vittorio Alfieri (1749-1803) interpreta un modo opposto a quello di Goldoni di misurarsi con il teatro del suo tempo. Infatti, anziché dare al pubblico ciò che il pubblico vuole, come cerca di fare Goldoni, Alfieri insegue un proprio ideale artistico distante, almeno in parte, dalla nuova sensibilità degli spettatori. Ciò avviene innanzi tutto perché frequenta nel suo teatro il genere tragico, che poco ha a che fare con l’attenzione naturalistica alla quotidianità introdotta da Goldoni e che quindi interessa meno i suoi contemporanei. In secondo luogo perché Alfieri mostra ormai la profonda crisi della tragedia, giungendo così a portare sulla scena, più che il tragico, una sorta di “funerale del tragico” (Rino Sudano) che, opponendosi alla tragedia sentimentale e garbata di cui s’è detto a proposito della riforma di Riccoboni, presenta al pubblico scene più dure e crudeli. Illustrazione per il Saul, 1824, Firenze.

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François-Xavier Fabre, Ritratto di Vittorio Alfieri, 1797, olio su tela, Asti, Fondazione Centro Studi Alfieriani.

15. È in particolare con il Saul (1782) che Alfieri realizza compiutamente la sua poetica teatrale. In questo testo il protagonista, Saul appunto, non incarna tanto la figura dell’eroe tragico quanto piuttosto la crisi dell’individualismo eroico, mostrando la contraddizione tra quell’ideale vagheggiato e la possibilità di perseguirlo nel mondo borghese. Anche se Alfieri non visse a stretto contatto con la scena, le sue tragedie ebbero grande importanza nel repertorio degli attori e capocomici più culturalmente avanzati, lungo tutto l’arco dell’Ottocento, da Antonio Morrocchesi (1768-1838) a Giovanni Emanuel (1848-1902). L’incisione qui a fianco, tatta da un’edizione della tragedia dell’epoca di Morrocchesi, esprime assai bene il tipo di recitazione del tempo: Saul, trattenuto dalla figlia Micol che è anche sposa di David, si scaglia con violenza contro lo stesso David che amava come un figlio – prima di cadere in preda a una follia allucinatoria – e che aveva designato quale suo successore. Anche David, a destra, se pure buono e comprensivo nei confronti del re, mostra un atteggiamento fermo e uno sguardo deciso ben lontano dalla graziosità che abbiamo riscontrato nei personaggi dell’Ifigenia in Tauris (fig. 6).

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Glossario N.B. Il presente glossario si riferisce esclusivamente a termini che compaiono nel volume; non pretende in nessun modo di essere un dizionario di retorica, metrica, linguistica, narratologia ecc.

a Acutezza Espressione metaforica lambiccata e artificiosa, costruita per destare meraviglia con l’arditezza degli accostamenti o addirittura con la contrapposizione tra senso letterale e metaforico. Es.: «voce pennuta» e «piuma canora», espressioni riferite da Marino all’usignolo nell’Adone (VII, 37, vv. 6-8). Agnizione (dal latino agnitio, riconoscimento). Procedimento proprio delle opere narrative o drammatiche. Consiste nell’improvviso e inaspettato riconoscimento dell’identità di un personaggio, che determina una svolta decisiva nella vicenda. Allegoria (dal greco állon altro, agoréuo, dico). Procedimento tipico della cultura medievale (ma già presente in quella tardo romana), che consiste nell’individuare, nelle scritture, dei sensi ulteriori, di carattere morale e religioso, al di là della semplice lettera. Ad esempio Fulgenzio, scrittore latino del VI secolo d.C., individuava nelle vicende di Enea, nel poema virgiliano, la storia dell’anima che attraverso prove e ostacoli giunge alla salvezza. Il metodo di lettura allegorico fu poi esteso dalla cultura cristiana medievale alle Sacre Scritture. Oltre a interpretare allegoricamente testi preesistenti, nel Medio Evo si composero anche opere di impianto allegorico. Un esempio insigne è la Commedia di Dante. Allitterazione Figura retorica che consiste nella ripetizione degli stessi fonemi (v.) in due o più parole vicine. Es.: «Per l’ombra e per la lieve / aura de’ lauri l’avviai ver l’acque» (Parini, Alla Musa, vv. 62-63). Allocuzione (o apostrofe) Figura retorica in cui il soggetto del discorso si rivolge direttamente a dei destinatari,

persone o cose personificate. Es.: «La mia Fille, il mio bel foco, / dite, o piante, è forse qui?» (Rolli, Solitario bosco ombroso, vv. 9-10). Anafora (dal greco aná, di nuovo, e phéro, porto). Ripresa della stessa parola, o di un gruppo di parole, all’inizio di più versi o membri del periodo consecutivi. Es.: «Te ricca di comune / censo la patria loda; / te sublime, te immune / cigno da tempo che tuo nome roda» (Parini, La caduta, vv. 25-28). Anagramma (dal greco aná e grámma, inversione delle lettere). Inversione delle lettere che compongono una parola, per formarne un’altra di diverso significato. Es.: «Colmo di meraviglia, / la sua vermiglia e sonnacchiosa testa» (Marino, Il papavero molle, vv. 3-4), dove «vermiglia» contiene in ordine inverso le stesse lettere di «meraviglia» (con l’eccezione di una a). Analogia Procedimento poetico che suggerisce rapporti di somiglianza tra realtà comunemente percepite come distinte e lontane. È particolarmente caro ai poeti barocchi. Es.: «onde dorate» per “capelli” (Marino, Onde dorate, v. 1). Anticlimax (dal greco antí, contro e klímax, gradazione). Una serie di parole disposte secondo un ordine di intensità decrescente, o per quanto riguarda il significato o per quanto riguarda aspetti formali. È il contrario di climax (v.). Antifrasi (dal greco antíphrasis, locuzione contraria). Figura retorica che consiste nel fare un’affermazione, intendendo il contrario di quello che si dice. Es.: è antifrastica tutta la celebrazione della vita del giovin signore nel Giorno di Parini. L’antifrasi è uno strumento essenziale dell’atteggiamento ironico. Antitesi (dal greco antíthesis, con-

trapposizione). Figura retorica che consiste nella contrapposizione di due idee, ottenuta accostando termini di significato contrario. Es.: «Così, grato ai soccorsi, / ho il consiglio a dispetto» (Parini, La caduta, vv. 101-102). Antonomasia (dal greco antí, contro, e ónoma, nome: mettere un nome al posto di un altro). Figura retorica che consiste nel sostituire un nome comune con un nome proprio, capace di rappresentare tutta una categoria. Es.: “Tartufo” per “ipocrita”. Viceversa si può designare un nome proprio con un nome comune, quando l’oggetto del riferimento è tanto famoso da essere immediatamente identificabile. Es.: “il Filosofo” per Aristotele. Apodittico (dal greco apodeiktikós, dal verbo apodéiknymi, mostrare). Si dice di asserzione che è evidente di per sé e non ha bisogno di dimostrazione. Arietta Momento lirico inserito nel melodramma tra le parti drammatiche. È generalmente composta di due strofette di versi brevi, settenari od ottonari. Asindeto (dal greco asy´ndeton, senza legami). Coordinazione dei membri della proposizione o del periodo senza l’uso di congiunzioni. Es.: «Fero, / impaziente, torbido, adirato / sempre» (Alfieri, Saul, II, 1, vv. 38-39). Asse sintagmatico - Asse paradigmatico Concetti fondamentali della linguistica, che hanno trovato applicazione anche nell’analisi dei testi letterari. I rapporti tra le unità costitutive della lingua, fonemi (v.), lessemi (v.), sintagmi (v.) ecc., sono di due tipi. Nel discorso le unità si dispongono insieme con le altre in una successione lineare, in cui ciascuna di esse entra in un rapporto di contiguità con quella che precede e con quella che segue: è questo l’asse sintagmatico del linguag-

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gio (o asse della combinazione). Ad esempio nella frase: «Oggi è una bella giornata» l’asse sintagmatico è costituito dalla serie delle varie parole collocate una dopo l’altra, con implicazioni sintattiche tra di loro (soggetto, predicato ecc.). Ma ognuna di queste parole, al di fuori di quella singola frase, ha rapporti con gli altri elementi del sistema linguistico generale. Ad esempio «oggi» con «ieri» o «domani», «bella» con «bellezza», o «brutta», o «bruttezza». Questi non sono rapporti in atto, come quelli sintagmatici, ma virtuali; possono essere istituiti solo dalla memoria del parlante, che richiama per similarità od opposizione altri elementi del sistema linguistico. È questo l’asse paradigmatico (o della sostituzione). Ognuno di noi, parlando o scrivendo, seleziona termini e costrutti nel sistema globale della lingua (secondo l’asse paradigmatico), poi li combina nel discorso a formare frasi e periodi (lungo l’asse sintagmatico). Comporre un testo verbale insomma implica sia un’attività di selezione sia un’attività di combinazione degli elementi selezionati. Le stesse operazioni possono valere per la costruzione o per la lettura di un testo letterario. Ad esempio un testo narrativo si può esaminare nella successione lineare dei vari elementi che costituiscono l’intreccio (v.), la fabula (v.) o il modello narrativo (v.), rilevando i rapporti di contiguità che li uniscono; oppure ogni elemento può essere visto in relazione con altri elementi non contigui, a cui rimanda nel sistema globale del testo, oppure con il sistema dell’opera generale dell’autore, o addirittura con il sistema letterario del momento storico in cui si colloca il testo (motivi, procedimenti narrativi, retorici, stilistici ecc.). Assioma (dal greco axíoma, dignità). Principio generale evidente di per sé, che non esige dimostrazione, e che viene usato come premessa ad un ragionamento o ad una teoria. Vico usa il termine «degnità», traducendo il vocabolo greco. Assonanza Si ha quando le parole terminali di due o più versi presentano le stesse vocali a partire da quella tonica, ma diverse consonanti. Es.: nelle quartine del sonetto Orologio a ruote di Ciro di

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Pers le rime di tipo A (in -ote) sono legate da assonanza a quelle di tipo B (in -ore): «rote» / «ore», / «note» / «more». Autodiegetico Narratore (dal greco autós, medesimo, diégesis, narrazione). Termine della narratologia proposto da Gérard Genette. È il Narratore che è protagonista della storia da lui stesso raccontata. Esempio: Robinson Crusoe nell’omonimo romanzo di Defoe.

b Bucolico Ciò che è pertinente alla poesia bucolica, di argomento pastorale, cioè che rappresenta stilizzati pastori in un’idealizzata Arcadia. Il modello della poesia pastorale sono le Bucoliche di Virgilio (70-19 a.C.), scritte fra il 42 e il 39. Il nome deriva dal greco boukólos, pastore, mandriano.

c Campo semantico È il campo dei significati a cui un termine può fare riferimento. Cesura (dal latino caedo, taglio). Pausa che divide il verso in due membri, detti emistichi. Es.: «Bell’alba è questa. // In sanguinoso ammanto» (Alfieri, Saul, II, 1, v. 1). Chiasmo Disposizione incrociata dei membri di una proposizione o di un periodo. Es.: «Tu capo, / termine tu d’ogni mia speme» (Alfieri, Saul, I, 4, vv. 242243). Il nome proviene dalla lettera greca X, che si legge chi; infatti unendo con una lineetta i membri tra loro corrispondenti dell’esempio si ottiene appunto il segno X: a b

b

1. significante

a

Climax (dal greco klímax, gradazione). Una serie di parole disposte secondo un ordine di intensità crescente, o per quanto riguarda il significato o per quanto riguarda aspetti formali. Es.: «Arrossì di vergogna, arse di scorno» (Marino, Il papavero molle, v. 9). Concettismo Procedimento che consiste nell’esasperazione del gioco metaforico. È proprio della poesia barocca (v. acutezza). Connotazione Concetto della linguistica: indica un valore supplementare che un segno assume, oltre a quello di designare un determinato oggetto, o referente (v.), che è invece il compito della denotazione (v.). Ad esempio il termine “lumi”, in senso denotativo, si riferisce a quegli oggetti che fanno luce; nella poesia amorosa invece designa abitualmente gli occhi della donna amata, con tutte le implicazioni che essi portano con sé nel codice cortese-stilnovistico (la donna portatrice di illuminazione e salvezza, in quanto creatura sovrannaturale e miracolosa ecc.). In termini linguistici, nel processo di connotazione un segno, che è l’unione di un significante e di un significato (v.), viene preso globalmente come significante di un significato più vasto e complesso. Si veda lo schema riprodotto al fondo di questa colonna, dove la linea continua e le minuscole indicano il processo di denotazione, la linea tratteggiata e le maiuscole indicano quello di connotazione. Su questa base torniamo all’esempio citato: i fonemi (v.) /l/, /u/, /m/, /i/ compongono il significante della parola “lumi”, che rimanda al significato “oggetto che fa luce”: questo è il processo di denotazione; ma a sua volta il segno “lumi”, unione di quel significante e di quel significato, diviene il significante di un nuovo significato di livello superiore, più ampio e compren-

2. significato

3. segno I. SIGNIFICANTE

II. SIGNIFICATO

III. SEGNO

Glossario

sivo, che indica appunto, come si diceva, l’illuminazione beatificante che proviene da quell’essere sovrumano che è la donna amata: questa è la connotazione.

d Deismo Tendenza filosofica che propone una religione naturale, fondata non sulla rivelazione e sui dogmi ma sul manifestarsi dell’idea di divinità alla sola ragione dell’uomo. Il deismo è un aspetto fondamentale dell’Illuminismo e porta ad una critica delle religioni istituzionalizzate, mettendone in luce contraddizioni ed assurdità irrazionali (v. teismo). Denotazione Processo di comunicazione che ha la semplice funzione di designare un oggetto (referente, v.), senza altri sensi supplementari (v. connotazione). Dialefe (dal greco dialéipo, lascio un intervallo). In metrica si ha quando la vocale finale di una parola e quella iniziale della successiva danno luogo a due sillabe distinte. È il contrario della sinalefe (v.). Es.: «O animal grazïoso e benigno» (Dante, Inferno, V, v. 88). Dieresi (dal greco diáiresis, divisione): in metrica è la pronuncia distinta delle due vocali di un dittongo, le quali pertanto contano come due sillabe. Il segno grafico è costituito da due punti sopra la prima vocale. Es.: «a le triste, ozïose / acque» (Parini, La salubrità dell’aria, vv. 26-27). Discorso In narratologia (v.) sta a indicare il “come” viene raccontata la storia (v.), cioè le forme dell’espressione di un racconto.

e Ecloga (dal greco ekloghé, scelta). In origine il termine indicava il singolo componimento della raccolta delle Bucoliche di Virgilio, opera di argomento pastorale (42-39 a.C.), che rappresenta idealizzati pastori in una stilizzata Arcadia, ma poi, data la fama raggiunta dall’opera, “ecloga” venne a significare

per antonomasia “componimento pastorale”. Elegia Genere poetico delle letterature greca e latina, composto di distici di versi esametri e pentametri. Originariamente fu usato per trattare vari argomenti, guerreschi, mitici, amorosi ecc. Nella letteratura latina del I secolo, con Catullo, Tibullo, Properzio, Ovidio, trattò invece esclusivamente una materia amorosa e soggettiva, prediligendo i sentimenti dolorosi e malinconici. Perciò, nell’uso corrente, l’aggettivo elegiaco è venuto ad indicare uno stato d’animo o una tonalità poetica di malinconia e di tristezza, di nostalgia e di rimpianto. Nella retorica medievale invece elegiaco indicava lo stile più umile, dopo il tragico e il comico. Emblema Figura od oggetto che si carica di un significato più vasto di quello originario, diventando rappresentativo di una condizione generale, di un concetto ecc. Emistichio (dal greco hemi-, mezzo, e stíchos, verso). Una delle due parti in cui una cesura (v.) divide un verso. Es.: «Bell’alba è questa. // In sanguinoso ammanto» (Alfieri, Saul, II, 1, v. 1). Il primo emistichio è un quinario, il secondo un settenario. Empirismo (dal greco empeiría, esperienza). È l’indirizzo filosofico che si rifà all’esperienza come criterio della conoscenza. Secondo esso ogni verità deve essere messa alla prova dell’esperienza, ed accettata o eventualmente abbandonata in base alle sue risposte. Nella cultura moderna l’empirismo è una corrente filosofica nata in Inghilterra, che ha come esponenti Locke, Hobbes e Hume. Enjambement (dal francese enjamber, scavalcare). Si ha quando la fine del verso non coincide con la fine del membro sintattico, per cui l’enunciato “scavalca” il verso e continua in quello seguente. Es.: «... Oh quanto in rimirar le umane / cose, diverso ha giovinezza il guardo» (Alfieri, Saul, II, 1, vv. 12-13). Enumerazione Procedimento retorico che consiste nell’elencazione di parole o sintagmi mediante congiunzioni coordinanti o per asindeto. Es.: «[...] onde nel cerchio secondo s’annida / ipocresia, lusinghe e chi affattura, / falsi-

tà, ladroneccio e simonia, / ruffian, baratti e simile lordura» (Dante, Inferno, XI, vv. 57-61); «[...] in un batter d’occhio, cavalieri, fornai, avventori, pani, banco, panche, madie, casse, sacchi, frulloni, crusca, farina, pasta, tutto sottosopra» (Manzoni, I promessi sposi, cap. XVI). Equivoca (rima) Si ha quando in rima compaiono parole identiche nel suono, ma diverse nel significato. Es.: nel sonetto A l’aura il crin di Marino rimano «sòle» (terza persona del verbo “solere”), «sole» (aggettivo femminile plurale) e «sole» (sostantivo maschile). Eterodiegetico (dal greco héteros, diverso, e diégesis, narrazione). Termine della narratologia (v.) proposto da Gérard Genette: indica il Narratore che non è presente come personaggio nel racconto. Ad esempio il Narratore del Candido di Voltaire.

f Fenomeno (dal greco pháinomai, apparire). È l’apparenza sensibile, che si contrappone all’essenza della realtà, della quale non è che una manifestazione. Focalizzazione Termine della narratologia (v.). È il procedimento per cui i fatti di un racconto sono presentati da un particolare punto di vista, in modo che l’informazione sugli eventi narrati rechi l’impronta della soggettività di chi “vede”. Vi può essere focalizzazione sul Narratore (v.), quando il racconto è presentato attraverso l’ottica del Narratore, focalizzazione sul personaggio quando i fatti della storia sono visti attraverso la prospettiva del personaggio. Gérard Genette dà una sistemazione diversa dalla nostra: parla di focalizzazione zero quando vi è un narratore onnisciente e il canale dell’informazione non subisce restrizioni soggettive, di focalizzazione interna quando il punto di vista coincide con quello del personaggio, di focalizzazione esterna quando la narrazione presenta il personaggio solo dall’esterno, attraverso i suoi comportamenti, senza aver accesso alla sua psicologia e senza indicare le motivazioni psicologiche dei suoi atti.

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Fonema (dal greco phoné, suono). È la più piccola unità del linguaggio. In linguistica si indica con le lettere dell’alfabeto tra due barrette, /a/, /p/, /t/, /r/, ecc. Mentre i suoni che l’apparato fonatorio dell’uomo può emettere sono infiniti, i fonemi, le unità dotate di senso, sono in numero limitato: questo perché il fonema è un’astrazione da una molteplicità di suoni concreti, un modello ideale. Ad esempio i vari parlanti A, B, C... Z emettono ciascuno un suono a diverso; ma tutti questi suoni si possono riferire al modello astratto /a/, e ciò permette la comprensione reciproca. I fonemi, combinandosi fra loro, danno origine ai monemi, unità fornite di senso grammaticale e morfologico.

i Idillio (dal greco eidy´llion, diminutivo di éidos, quadro). Indica un componimento di materia pastorale, che si svolge su sfondi di natura amena. Fu introdotto dai poeti greci dell’età ellenistica (Teocrito, IV-III secolo a.C.) e venne ereditato dai poeti latini (in particolare da Virgilio con le Bucoliche). In senso generico oggi designa la rappresentazione di una vita serena e tranquilla, lontana da preoccupazioni e conflitti, per lo più a contatto con una natura ridente e campestre. Intreccio In narratologia (v.) indica la successione degli elementi costitutivi della storia (v.), nella forma in cui si presentano concretamente nel discorso (v.). Ipallage (dal greco hypallagé, mutamento, scambio). È uno scambio di rapporti tra gli elementi di una frase. Il caso più frequente consiste nel riferire un aggettivo ad un sostantivo diverso da quello a cui logicamente dovrebbe attribuirsi. Es.: «... tra l’obliqua / furia de’ carri» (Parini, La caduta, vv. 7-8), dove l’aggettivo «obliqua» è riferito all’astratto «furia» anziché al concreto «carri». Iperbato (dal greco hypérbaton, inversione). È la separazione di due termini, che dovrebbero essere uniti sintatticamente, mediante l’inserzione di altri termini della frase. Es.: «Io con le nostre il volsi arti divine» (Parini, Alla

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Musa, v. 69), dove «il volsi» separa «le nostre» da «arti divine». Iperbole (dal greco hyperbolé, esagerazione). È l’esagerazione di un concetto o di un’immagine. Es.: «Sorgendo il mio bel Sol del suo oriente / per doppiar forse luce al dì nascente» (Marino, A l’aura il crin, v. 1). Ipotassi (dal greco hypótaxis, subordinazione). Rapporto di subordinazione di una o più proposizioni rispetto alla principale del periodo. Si contrappone alla paratassi (v.), che consiste nell’allineare le proposizioni sullo stesso piano, mediante la coordinazione. Ironia (dal greco éiron, chi interroga fingendo di non sapere). Procedimento che consiste nel suggerire il contrario di ciò che si sta dicendo esplicitamente. Implica un atteggiamento di distacco nei confronti dell’oggetto di cui si parla o nei confronti del destinatario del discorso. Iterazione (dal latino iteratio, ripetizione). Ripetizione di parole, sintagmi, concetti, suoni, al fine di ottenere determinati effetti espressivi.

l Litote (dal greco litós, semplice). Figura retorica che consiste nell’affermare un concetto negando il suo contrario, al fine di attenuare l’espressione. Es.: «non molto» per «poco», «non bello» per «brutto». Livello fonologico (v. fonema).

m Madrigale Breve componimento lirico, destinato ad essere musicato. L’origine del termine non è sicura: può forse essere il latino matricalis, “legato alla madre”, quindi “elementare, primitivo”, oppure matrix, chiesa madre, cattedrale, dove veniva cantata la musica polifonica. Il soggetto è generalmente amoroso, dedicato a cantare le lodi di una donna. La forma metrica originariamente era varia; nel Cinquecento assunse poi un modulo fisso, una strofa unica di endecasillabi o settenari, o di entrambi i versi alternati.

Materialismo La concezione che sostiene che tutta la realtà è materia, negando l’esistenza di sostanze spirituali. Metafora (dal greco metaphérein, trasferire). Figura retorica che consiste nel sostituire un termine proprio con un altro, che con il primo ha un rapporto di somiglianza. Es.: l’immagine «il mio bel Sol» per indicare la donna amata, nel sonetto A l’aura il crin di Marino. Metateatrale È il testo o la parte di un testo teatrale in cui si parla del teatro stesso, delle sue convenzioni, delle sue regole, delle sue componenti. Un testo tutto metateatrale è Il teatro comico, in cui Goldoni tratta della sua riforma della commedia. Metonìmia (dal greco metonymía, scambio di nome). Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine proprio con un altro, che ha con il primo un rapporto di contiguità, logica o materiale. Esempi: lo scambio di causa ed effetto: «di trista vergogna si dipinse» (Dante, Inferno, XXIV, v. 64), cioè di rossore, effetto della vergogna; la materia per l’oggetto: “legno” per “nave”, “ferro” per “spada”; il contenente per il contenuto o viceversa: “bere un bicchiere”; l’astratto per il concreto: «bavarico inganno» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, v. 66), per “Tedeschi ingannatori”; l’autore per l’opera: “leggere Dante”; il simbolo per la cosa simboleggiata: «L’uno il pubblico segno ai gigli gialli / oppone» (Dante, Paradiso, VI, vv. 100 s.), cioè i Guelfi oppongono all’aquila, simbolo imperiale, i gigli d’oro, simbolo della monarchia francese.

n Narratario Nella terminologia narratologica è il destinatario del racconto del Narratore (v.). Ad esempio, nel Decameron, narratari sono gli altri nove giovani della brigata che ascoltano il narratore di turno. Il narratario è una funzione del testo, cioè fa parte della finzione narrativa, quindi non è da confondere con il destinatario reale, in carne ed ossa. Il “lettore” a cui si rivolgono spesso i Narratori, è un’entità fittizia, postulata dal testo. Spesso il narratario

Glossario

è un’entità solo virtuale, non menzionata nel testo, ma l’atto stesso del raccontare presuppone un destinatario a cui si rivolge il racconto. Narratologia Disciplina che studia il testo narrativo, sia sul versante della storia (v.) sia su quello del discorso (v.). Narratore Nella terminologia narratologica indica la “voce” che racconta. Può essere un personaggio della storia stessa, come nella Commedia di Dante, o come in tanti romanzi moderni (Il fu Mattia Pascal di Pirandello, per esempio): è allora omodiegetico (v.); oppure può essere una voce fuori campo, che non fa parte del mondo della storia narrata, come il Narratore del Candido di Voltaire (Narratore eterodiegetico, v.). Nel primo caso è ovvio che il Narratore è distinto dall’autore reale; ma la distinzione vale anche nel secondo caso: il Narratore è una funzione del testo, e fa parte dell’universo della finzione.

o Omodiegetico, narratore (dal greco homós, uguale, e diéghesis, narrazione). È il Narratore (v.) presente tra i personaggi stessi della storia raccontata. Ad esempio Adso di Melk, il monaco che racconta la vicenda nel Nome della rosa di Eco. Se il Narratore è il protagonista stesso, si parla di Narratore autodiegetico (v.). Onomatopea Figura retorica che consiste nel riprodurre, mediante i suoni di una parola, un suono naturale. Ad esempio din don per il suono delle campane. Opposizione Termine della linguistica. In un sistema linguistico, ogni elemento si definisce ed acquista significato in quanto si oppone ad altri facenti parte dello stesso sistema. Esempio: “cane” e “pane” si distinguono perché il fonema /k/ si oppone al fonema /p/. Il meccanismo per cui il significato di un elemento si definisce in modo differenziale per opposizione ad altri elementi vale per ogni tipo di sistema, anche per il testo letterario. Ad esempio in un sistema di personaggi (v.) il significato di un personaggio si definisce per opposizione rispetto a quello degli altri: nel

Saul l’eroe abnorme Saul è in opposizione all’eroe normale David e i due personaggi acquistano significato in rapporto l’uno con l’altro. L’opposizione si indica convenzionalmente con il segno vs, che è l’abbreviazione dell’inglese versus, contro (v.). Ossimòro (dal greco oxy´s, acuto, e morós, insensato: acuta insensatezza). È un’apparente insensatezza, che in realtà è acuta; consiste nella combinazione di due termini tra loro in contraddizione, che sembrano escludersi l’un l’altro. Es.: «faticoso ozio» (Parini, Alla Musa, v. 22). Ottava Strofa composta in genere di otto endecasillabi, i primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata: ABABABCC. Usata da Boccaccio per il Filostrato, il Teseida, il Ninfale fiesolano, è poi divenuta la strofa per eccellenza della poesia epico-narrativa nei poemi cavallereschi rinascimentali, il Morgante di Pulci, l’Orlando innamorato di Boiardo, l’Orlando furioso di Ariosto, ma anche nel poema eroico di Tasso, la Gerusalemme liberata, e nell’Adone di Marino.

p Paradigmatico, asse, v. asse paradigmatico. Paradosso (dal greco pará, contro, e dóxa, opinione). Figura logica che consiste in un’affermazione apparentemente assurda, ma in realtà valida. Ad esempio l’evangelico «gli ultimi saranno i primi». Parallelismo Costruzione di due o più frasi successive secondo strutture sintattiche simmetriche. Paratassi (dal greco pará, vicino, e táxis, disposizione). Rapporto di coordinazione tra varie proposizioni di un periodo. Si contrappone ad ipotassi (v.). Parodia (dal greco pará, vicino, e odé, canto). Imitazione di un testo, di un personaggio, di un episodio o di una situazione, condotta al fine di rovesciare comicamente il modello. Paronomàsia (dal greco pará, presso, onomasía, denominazione). Accostamento di parole simili nel suo-

no, ma diverse nel significato. Es.: «Per la lieve / aura de’ lauri l’avviai» (Parini, Alla Musa, vv. 62-63). Rientrano in questa categoria anche l’anagramma (v.) e il paragramma, che è l’accostamento di due parole che si distinguono solo per un fonema, ad esempio visoriso, cane-pane. Perìfrasi (dal greco períphrasis, discorso che si aggira intorno). Si ha quando viene usato un giro di parole per indicare una persona, un oggetto o un concetto. Es.: «La nettarea bevanda ove abbronzato / fuma ed arde il legume a te d’Aleppo / giunto, e da Moca...», per indicare il caffè (Parini, il Mattino, vv. 140-143). Poetica 1) Nella tradizione classica indica i trattati che fissano le norme dello scrivere poetico (la Poetica di Aristotele, l’Arte poetica di Orazio). 2) Oggi il termine è comunemente usato a designare il complesso delle concezioni di un autore o di un movimento intorno all’arte, ed anche il programma artistico che essi si prefiggono. Poliptòto (dal greco poly´ptotos, dai molti casi). Figura retorica per la quale una stessa parola è usata in un testo a breve distanza con funzioni sintattiche diverse. Es.: «Ei già scendendo a me, giudice fea / me de’ suoi carmi: e a me chiedea consiglio» (Parini, Alla Musa, vv. 38-39). Polisindeto (dal greco poly´s, molto, e syndéo, lego insieme). Coordinazione tra più membri sintattici all’interno di una proposizione, o di più proposizioni fra loro, mediante ripetute congiunzioni. Es.: «che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle» (Ariosto, Orlando furioso, canto XXIII, 131, v. 1). Preterizione Si ha quando si dichiara di voler tacere una cosa, ma proprio attraverso tale dichiarazione la cosa viene enunciata e messa in evidenza. Es.: «Cesare taccio che per ogni piaggia / fece l’erbe sanguigne / di lor vene» (Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, vv. 49-51).

r Razionalismo In senso generico indica qualsiasi indirizzo filosofico che si

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affidi ai procedimenti della ragione per stabilire delle conoscenze; in senso specifico designa la corrente filosofica che da Cartesio, attraverso Spinoza e Leibniz, giunge sino a Kant, e che si contrappone all’empirismo. Recitativo Nel melodramma è un tipo di canto dal ritmo libero e irregolare, modellato sul discorso parlato. Referente Termine della linguistica: è l’oggetto designato dal segno (v.) linguistico. Ad esempio il referente della parola “albero” è l’albero concreto di cui noi parliamo, che si può vedere fuori della finestra, oppure il concetto generale di “albero”. Referente può anche essere un concetto astratto, la virtù, la felicità. Referenziale è il linguaggio che intende semplicemente designare dei referenti, senza sovrasensi ulteriori; si svolge quindi al livello della semplice denotazione (v.), escludendo ogni forma di connotazione (v.). Rifunzionalizzazione Conferire una funzione nuova a forme e materiali tradizionali della poesia, inserendoli in un nuovo sistema poetico. È un’operazione condotta ad esempio da Marino e dai marinisti sulla poesia rinascimentale.

s Segno Nella terminologia linguistica, ciò che vale a designare un certo concetto (significato, v.) attraverso un’espressione fonica (significante, v.): il segno è dato quindi dall’unione di un significante e di un significato. Vi sono però anche segni non linguistici (una vignetta disegnata, un cartello stradale, un modo di vestire, un gesto o una mimica). Semantica (dal greco semáino, significo). La parte della linguistica che studia i significati. Semiologia (dal greco séma, segno e lógos, scienza). È la scienza che studia i segni (v.) linguistici e non linguistici. Fu postulata dal fondatore della linguistica strutturale, Ferdinand de Saussure (1857-1913), ed ha recentemente avuto grandi sviluppi (oggi si preferisce usare il termine semiotica). In particolare la semiotica letteraria stu-

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dia, con i metodi semiotici, quel particolare segno che è il testo letterario. Sensismo Teoria filosofica secondo cui tutta la vita spirituale dell’uomo ha origine dalle sensazioni fisiche attraverso cui egli entra in contatto con la realtà esterna. Il sensismo prende le mosse dagli scritti di John Locke (1632-1704). La poetica che ne scaturisce punta alla parola precisa, energica, capace di suscitare immagini vivide, sollevando una folla di sensazioni accessorie. Il sensismo induce gli scrittori a prestare attenzione alla vita interiore, sentimentale. Significante In linguistica, è l’espressione fonica che rimanda ad un concetto (significato, v.). Ad esempio nella parola “sole” il significante è la serie dei fonemi /s/, /o/, /l/, /e/, combinati in quella successione. Significante e significato danno origine al segno (v.). Vi possono anche essere segni non linguistici, come i cartelli stradali, l’abbigliamento, ecc. In un cartello stradale il significante è costituito dalla forma (rotonda, triangolare), dai colori e dalla loro disposizione; ad esempio un triangolo col vertice in basso, bianco orlato di rosso, è un significante che rimanda al significato “dare la precedenza”. I significanti sono arbitrari, cioè non hanno nessun rapporto naturale, intrinseco e necessario con i significati e i referenti: nel senso che nascono da convenzioni tra i parlanti, o tra coloro che comunicano con segni non linguistici. Ad esempio non vi è nessun rapporto necessario tra i fonemi che compongono la parola “sole” e l’oggetto sole; tant’è vero che in altre lingue il significato si esprime con significanti del tutto diversi, francese soleil, inglese sun, tedesco Sonne. Così non vi è nessun rapporto necessario tra il cartello “precedenza” e il concetto di precedenza. Possono però darsi, sempre per convenzione, segni iconici, in cui il significante ha relazione con il significato: ad esempio il cartello “strada sdrucciolevole” che rappresenta un’auto che sta sbandando (ma comunque l’associazione forma triangolare del cartello = “pericolo” è sempre convenzionale e arbitraria). In altre epoche, come ad esempio nel Medio Evo, si credeva invece che vi fosse un rapporto necessario tra i significanti e i significati («Nomina sunt consequentia rerum»: i nomi

sono conseguenza delle cose). Per Dante ad esempio Beatrice è colei che dà la beatitudine. Significato In linguistica, il concetto a cui rimanda l’espressione fonica, il significante (v.). Sillogismo (dal greco sylloghismós, coordinazione di concetti). È una forma di ragionamento definita da Aristotele, che ebbe poi grande fortuna nel pensiero medievale, dominato dall’aristotelismo della Scolastica. Ve ne sono varie forme, ma quella fondamentale è composta da una premessa universale, evidente di per sé, da una premessa minore e da una conclusione che scaturisce dalla combinazione delle due precedenti. Esempio classico: «Tutti gli uomini sono mortali» (premessa generale); «Socrate è uomo» (premessa minore); «Socrate è mortale» (conclusione). Sinalefe (dal greco synaloiphé, fusione, mescolanza). In metrica è la fusione della vocale finale di una parola con quella iniziale della parola successiva nel verso. Le due vocali si pronunciano distinte, ma metricamente contano come una sillaba sola. È il contrario della dialefe (v.). Es.: «Bell’alba è questa. In sanguinoso ammanto» (Alfieri, Saul, II, 1, v. 1). Sineddoche (dal greco synekdoché, l’accogliere in sé). È la figura retorica che si ha indicando la parte per il tutto (o viceversa). Ad esempio: “tetto” per “casa”, “vela” per “nave”. Può rientrare nella sineddoche anche l’uso della materia al posto dell’oggetto; es.: “pino” per “nave”. Sinèresi o sinizèsi (dal greco synáiresis, contrazione, e synízesis, condensazione). In metrica si ha quando due o più vocali, che appartengono a sillabe diverse, si considerano una sillaba sola. È il contrario della dieresi (v.). Es.: «E sopra la lor tetra / noia le facezie e le novelle spandi» (Parini, La caduta, vv. 59-60). Sintagma (dal greco sy´n, insieme e tásso, ordino, dispongo). Gruppo di parole collegate fra loro da legami sintattici. Può anche essere un’unità inferiore alla proposizione, ad esempio il gruppo sostantivo-aggettivo, sostantivo-complemento di specificazione. Es.: «bell’alba» (Alfieri, Saul, II, 1, v. 1); «alta di monti schiena» (Parini, La salubrità

Glossario

dell’aria, v. 16). Gli elementi di un sintagma si combinano lungo l’asse sintagmatico (v.) del discorso, cioè in sequenza lineare, uno dopo l’altro. Sintagmatico, asse, v. asse sintagmatico. Sistema È un insieme di elementi, ciascuno dei quali ha una funzione precisa in rapporto a tutti gli altri, di modo che, se viene modificato, si determina una modificazione di tutto l’insieme. Secondo la linguistica strutturale la lingua è un sistema; anzi, ognuno dei suoi livelli (fonologico, morfologico, lessicale, sintattico, semantico) costituisce un sistema. Diamo un esempio a livello lessicale-semantico. Si prenda questa serie di verbi latini: pono (pongo), mitto (mando), mando (affido), fido (ho fiducia). Nel passaggio all’italiano si sono verificati spostamenti di significato, che sono avvenuti appunto all’interno di un sistema, nel senso che la “casella” lasciata libera da uno dei verbi è stata occupata da un altro, a catena: PONO

MITTO metto

MANDO mando

FIDO affido

Anche il testo letterario è un sistema. Ad esempio in un testo narrativo i personaggi compongono un sistema di personaggi, in cui ognuno di essi ha significato non in sé, ma in relazione funzionale a tutti gli altri. Ad esempio nei Promessi sposi: Renzo (Eroe) Gertrude innominato I Don Abbondio (Oppositori)

I Lucia (Eroina)

I Don Rodrigo (Avversario)

Fra Cristoforo Federigo innominato II (Aiutanti)

Storia Nella terminologia narratologica è il “che cosa” viene raccontato dal discorso (v.) narrativo. Non esiste in sé, separata dal discorso che la veicola, ma solo in quanto prende forma in tale discorso. Perciò si può ricavare dalle forme concrete del discorso di un testo narrativo, che abbiamo sotto gli occhi, solo mediante un processo di astrazione. Straniamento Procedimento che consiste nel presentare un oggetto familiare, consueto, da una prospettiva estranea, diversa, in modo da farlo apparire strano, inconsueto o addirittura irriconoscibile. L’oggetto, in altre parole, viene distanziato, guardato da una prospettiva lontana. Lo straniamento pertanto è il contrario dell’immedesimazione. Ad esempio ad un effetto di straniamento è sottoposta la vita del «giovin signore» nel Giorno di Parini.

Traslato o tropo (dal latino translatus, trasportato, e dal greco trópos, trasformazione). Si ha quando si conferisce alla parola un significato che non è quello proprio (ma che comunque mantiene con esso relazioni di vario genere, di somiglianza o contiguità). Sono traslati la metafora (v.), la metonimia (v.), la sineddoche (v.), l’iperbole (v.).

v Voce Nella terminologia narratologica indica chi racconta in un testo narrativo. Vs È l’abbreviazione del termine inglese (di origine latina) versus, che significa “contro”. È il segno convenzionale ad indicare l’opposizione (v.).

t

z

Teismo (dal greco theós, dio). Nell’uso attuale, fissato da Kant, indica una concezione del divino che va al di là di ciò che la pura ragione consente di credere, e che di Dio afferma qualità stabilite non dalla ragione ma dalla rivelazione. Pertanto oggi il termine teismo si usa in contrapposizione a deismo (v.). In Voltaire invece indica ancora genericamente il credere in Dio, in contrapposizione ad ateismo.

Zèugma (dal greco zéugma, giogo). È la dipendenza da un solo verbo di più termini, che esigerebbero ciascuno un verbo proprio. Es. «Parlare e lagrimar vedrai insieme» (Dante, Inferno, XXXIII, v. 9), dove «parlare» richiederebbe un «udrai», non «vedrai».

Tópos (in greco luogo, luogo comune). Tema o immagine letteraria ricorrente, stereotipata. Ad esempio il tópos del locus amoenus, che ricorre spesso nella poesia arcadica.

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Indice dei nomi

A Accetto, T., 22, 28, 30, 108, 109-111, 122 Achillini, C., 13, 32, 35-37, 56 Addison, J., 257, 268, 352-354, 355, 366, 367 Adorno, T. W., 104 Agostino (sant’), 9 Alciato, A., 197 Alfieri, V., 247, 258, 261, 265, 266, 268, 269, 271, 477, 521, 562-660, 676 Alonge, R., 459, 460, 461, 481 Anacreonte, 44, 272, 275 Anceschi, L., 15 Angelini, F., 481, 484 Appiani, A., 489, 552 Apuleio, 107 Arbasino, A., 542, 543, 544 Archiloco, 35 Archimede, 388 Ariosto, L., 18, 21, 57, 80, 95, 207, 209, 235, 272 Aristippo di Cirene, 537 Aristofane, 414 Aristotele, 14, 84, 180, 185, 193, 197, 203, 208, 221, 222, 224, 225, 226, 237, 239, 278, 287, 306, 408, 409, 413, 414, 539, 674 Assarino, L., 22 Auerbach, E., 88, 89

B Bachtin, M., 81 Bacone, F. (Francis Bacon), 11, 29 Bandello, M., 148, 150, 159 Baratto, M., 417, 418, 419, 459, 460, 474, 475, 481, 485 Baretti, G., 257, 268, 352, 363-366, 367 Bartoli, D., 23, 109, 119-121, 122 Basile, G., 22, 28, 30

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Battistini, A., 196, 197, 198, 241, 243 Bauman, Z.,106 Bayle, P., 301 Beccaria, C., 247, 252, 254, 257, 263, 269, 321, 334, 335-339, 340, 343, 344, 351, 359, 401, 488, 490, 491, 494, 496 Bembo, P., 18, 22 Bene, C., 177 Bernini, G. L., 33 Bettinelli, 405, 410 Bianucci, P., 202 Biffi, G., 266 Binni, W., 402, 481, 517, 552, 555, 587, 650 Bisaccioni, M., 22 Biscaretti di Ruffia, P., 255 Boccaccio, G., 272 Boccalini, T., 23, 108, 115-118, 122 Boiardo, M. M., 21 Bonino, G. D., 458, 459, 481 Borges, J. L., 106 Botero, G., 108, 118 Bovio, L., 164 Bracciolini, F., 57 Brahe, T., 203 Branagh, K., 166, 167, 175 Brecht, B., 8, 219, 220, 227, 230, 231 Brunetti, F., 214 Bruno, G., 4, 7, 191 Brusoni, G., 10 Buonarrorti, M., 216, 217, 218 Burke, E., 652

C Cabanis, G., 302 Calderón de la Barca, P., 4, 12, 24, 30, 123, 128-131, 133, 161, 162, 178, 179 Calvino, G., 314, 315 Calvino, I., 91, 181, 207, 210, 240, 644 Calzabigi, R. de’, 562, 588, 589, 590, 629 Campanella, T., 7, 20, 27, 30, 32, 47-49,

55, 56, 210 Canaletto, Antonio Canal detto, 250 Capri, 27 Cardi, L. (detto il Cigoli), 192 Carli, G. R., 335 Carnazzi, G., 340, 341, 342, 344 Cartesio, 4, 11, 29, 249, 289, 301, 302, 305 Cartesio, R., 197 Casanova, G., 265, 266, 269 Casini, P., 305 Castelli, B., 193, 198, 201, 219 Castiglione, B., 22 Catone, 635 Catullo, 44 Cavani, L., 191, 220 Cecchini, P. M., 667 Cellini, B., 265, 364, 365, 366, 367 Cervantes, Saavedra, M. de, 4, 21, 30, 77101, 102, 103, 104, 105, 106, 107 Cesarotti, M., 259, 268, 271, 588, 639 Cesi, F., 10, 29 Ceva, T., 270 Chambers, E., 306 Chapelain, J., 58, 235 Chapman, G., 148 Chiabrera, G., 20, 28, 30, 32, 44-46, 56, 271, 275 Chiari, P., 265, 266, 269, 399, 400, 401, 418, 478 Cicerone, M. T., 388 Cicognini, G. A., 410 Ciro di Pers, 31, 32, 40-42, 56 Colombo, C., 527 Condillac, É. B. de, 253, 254, 268, 328, 497 Confucio, 109, 120, 314 Copernico, N., 180, 183, 193, 203, 237, 239, 224 Corneille, P., 4, 24, 123, 131, 132, 137, 178 Crébillon C. P. de, 265

Indice dei nomi

Crébillon P. J. de, 629 Crescimbeni, G. M., 10, 256, 270, 284, 360 Crespi, G.M., 425 Croce, B., 15, 124, 178 Condillac, E. B. de, 254

D D’Adda, F., 546, 548 D’Alembert, J. B., 252, 253, 254, 262, 267, 268, 269, 300, 301, 303, 305, 306, 328, 332 D’Annunzio, G., 466, 467 Da Ponte, L., 145, 266 Da Porto, L., 148 Dante Alighieri, 10, 64, 153, 157, 290, 299, 524, 603 De Carlo, A., 508, 509, 510 De Chirico, G., 15 De Marivaux, P., 424 De Sanctis, F., 15, 23, 284, 415 Defoe, D., 246, 257, 264, 268, 269, 368, 373-380, 384, 389, 390 Del Monaco, F. M., 664 Della Casa, G., 22, 110, 111, 359, 360, 365, 388 Della Valle, F., 24, 30, 123-128, 129, 178, 179 Democrito, 290 Demostene, 68 Diderot, D., 247, 252, 258, 262, 263, 264, 267, 268, 269, 300, 301, 303-312, 328, 332, 333, 384, 399, 406 Diogene, 537 Donne, J., 21, 49, 56 Dossi, C., 543 Dottori, C. de’, 24, 123

E Enriquez, F., 468, 469 Epicuro, 76, 290 Epitteto, 314 Errico, S., 31, 57 Eudosso di Cnido, 203 Euripide, 132, 178, 673

F Fabre, X., 617 Fagiuoli, G. B., 404, 411 Fernández, J., 84 Ferrarotti, F., 484

Ferrero, G. G., 65 Fetti, D., 664 Fido, F., 409, 417, 419, 423, 424, 469, 481 Fielding, H., 264, 265 Filangieri, G., 335 Firenzuola, A., 365 Folena, G., 422, 481 Folengo, T., 85 Ford, J., 23, 148 Foscolo, U., 118, 264, 385, 390, 502, 550, 551, 580 Francesco d’Assisi (san), 297 Franco, J., 102, 103 Freud, S., 162 Frugoni, C. I., 270, 271 Fubini, M., 532

H

G

Johnson, S., 363 Jonard, N., 494 Jonson, B., 23, 148

Gadda, C. E., 362, 363, 543 Galeno, C., 221 Galiani, F., 335 Galilei, G., 4, 7, 8, 10, 11, 13, 23, 25, 28, 29, 30, 47, 57, 66, 111, 112, 180-243, 248, 249, 251, 284, 286, 287, 288, 299, 302, 305 Genovesi, A., 335 Getto, G., 15, 65, 241 Geymonat, L., 214 Giacomelli, G., 68 Giannone, P., 246, 262, 266, 269, 284, 295-298, 299, 335 Gigli, G., 404 Giovanetti, M., 31, 32, 37, 38 Gluck, C. W., 145 Goethe, W., 365, 589 Goldoni, C., 247, 260, 261, 265, 266, 269, 380, 396-485, 670, 671, 674, 675, 676 Góngora, L. de, 21, 30, 49, 50-52, 55, 56, 128 Goya, F., 343 Gozzi, C., 399, 401, 418, 478 Gozzi, G., 257, 259, 266, 268, 269, 675, 676 Grandi, A., 57 Grassi, O., 183, 204, 239 Gravina, G. V., 10, 256, 259, 268, 270, 272, 276, 284 Graziani, G., 57 Grotius, H., 301 Guarini, G., 5, 25 Guazzo, S., 236 Guicciardini, F., 579

Hauser, A.,106 Hazard, P., 253 Helvétius, C. A., 302, 566, 568 Hobbes, T., 184, 302, 303 Hofmannsthal, H. von, 88 Holbach, P. H. d’, 302 Hume, D., 302, 328

I Ignazio di Loyola (sant’), 9 Imbonati, C., 488, 489, 555

J K Kant, I., 313, 320 Keplero, G., 11, 29, 193, 197, 199 Kircher, A., 243

L Laclos, P.-A.-F. de, 265 Laforgue, J., 177 Laughton, Ch., 219 Leibniz, G. W., 302, 304, 313, 317, 320 Leonardo da Vinci, 185, 221, 239 Leopardi, G., 181, 207, 210, 240, 292, 580, 633, 642 Lippi, L., 360 Locke, J., 302, 330, 497 Longhi, P., 413, 425 Loredano, G. F., 10 Losey, J., 219 Lovelock, J., 215 Lubrano, G., 31, 32, 42-44, 56 Lucrezio, 272, 532, 540 Lutero, M., 19, 314

M Macchia, G., 110 Machiavelli, N., 68, 108, 115, 116, 117, 118, 301 Macpherson, J., 271, 637 Maffei, S., 672

685

Magalotti, L., 10 Maia Materdona, G. F., 32 Mallarmé, S., 50 Mannucci, F. L., 59 Manso, G., 109 Manzoni, A., 5, 35, 36, 37, 78, 108, 127, 191, 253, 263, 264, 284, 303, 335, 340, 343, 349, 397, 406, 413, 473, 543 Maratti, F., 275 Marco Aurelio, 314 Marenco, C., 148 Marini, G. A., 22 Marino, G. B., 4, 9, 12, 13, 20, 21, 29, 30, 31, 32-35, 40, 56, 58-68, 76, 77, 107, 190, 197, 207, 234, 235, 236, 241 Marlowe, C., 23, 148 Martello, P. J., 672, 673 Masiello, V., 570, 573, 574, 591, 594, 595, 614, 615, 616, 627, 628, 629, 660 Medici, Lorenzo de’ (detto il Magnifico), 592 Melchiori, G., 147, 148, 153, 155, 156, 159, 161, 170, 173, 176 Meli, G., 260, 271 Mengs, A. R., 552 Metastasio, P., 258, 261, 268, 269, 271, 272, 276-282, 283, 565, 635, 641, 643 Milton, J., 184, 272, 580 Molière, J.-B. Poquelin, detto, 5, 24, 30, 123, 128, 131, 132, 137-144, 145, 154, 178, 179, 411 Montesquieu, Ch.-L. de, 246, 252, 253, 263, 264, 265, 268, 269, 300, 301, 306, 321-327, 332, 333, 335, 338, 351, 358, 566, 568 Monteverdi, C., 25, 26, 27, 30 Monti, V., 551 Moravia, A., 391 Mozart, W. A., 128, 144, 145, 146, 266 Muratori, L. A., 249, 250, 259, 262, 268, 269, 270, 284, 285-288, 298, 299 Murtola, G., 32

N Narducci, A. M., 32, 39-40 Nelli, I. A., 404 Nencioni, E., 15 Newton, I., 5, 11, 29, 248, 251

686

Orazio, 278, 495, 498, 550, 551, 552, 554 Ortolani, G., 440, 481 Ovidio, 26, 58, 222, 225, 524, 626

P Pagano, F. M., 335 Pallavicino, F., 10, 108 Pappalardo, D., 62 Parini, G., 247, 253, 258, 260, 261, 271, 357, 401, 486-561, 562, 568, 571, 584, 632 Partant, F., 215 Pascal, B., 317 Pascoli, G., 466 Pasolini, P. P., 391 Pavese, C., 292, 293, 294 Peri, J., 26, 27 Perrucci, A., 668 Petrarca, F., 13, 19, 25, 29, 31, 41, 55, 56, 68, 108, 234, 235, 261, 650, 652 Petrella, E., 163 Petrolini, E., 162, 163, 164, 165 Petronio, G., 403, 406, 419, 481, 496, 516, 532, 535, 550, 553, 554, 555 Petrucci, A., 31 Pier della Vigna, 603 Piermarini, G., 489, 552 Pindaro, 44, 275 Pirandello, L., 80, 81, 92, 93, 94, 106, 162, 161, 164, 165, 385, 390, 463, 466, 467 Pitagora, 190 Platone, 290, 539, 590, 647 Plauto, T. M., 24, 138, 148, 411 Plutarco, 566, 591, 593, 635 Poliziano, A., 26 Pope, A., 355 Porta, C., 540, 543 Pozzo, A., 16, 17 Preti, G., 57 Proudhon, P.-J., 332 Proust, M., 648, 649 Puccini, D., 129

Q Quesnay, F., 507 Quevedo, F. de, 21, 49, 56, 128

O

R

Olivier, L., 166, 167, 175 Omero, 75, 114, 290, 291, 292, 299, 522, 552, 573

Rabelais, F., 80 Racine, J., 24, 28, 30, 123, 131, 132-136, 147, 178, 179, 272, 588, 629, 630

Raimondi, E., 595 Redi, F., 10 Regnard, J.-F., 423 Riccoboni, L., 670, 672, 673, 674 Richardson, S., 246, 264, 269, 369, 380384, 389, 390, 595 Rinuccini, O., 26, 27 Rodríguez de Montalvo, G., 84 Rojas, F. de, 89 Rolli, P., 261, 269, 271, 272-274, 276, 283, 642, 652 Rostropovich, M., 649 Rousseau, J.-J., 247, 252, 253, 254, 263, 264, 265, 268, 269, 300, 327-332, 333, 377, 421, 491, 496, 532, 537, 540, 566, 568

S Sade, D.-A.-F. de, 265 Saffo, 546, 551 Sagredo, G., 182, 208, 214, 218, 221, 225, 240 Salviati, F., 208 Salviati, L., 18 Salvini, T., 163, 165 Sannazzaro, I., 270 Sanzio, R., 217 Sapegno, N., 570, 585, 586 Sarpi, P., 10, 23, 28, 30, 108, 111-115, 122 Savioli, L., 271 Savoca, G., 518, 532 Schiller, F., 580, 589, 594 Sempronio, G. L., 31, 32 Seneca, 132, 147, 148, 178 Seriman, Z., 265 Serveto, M., 315 Settala, L., 108 Shakespeare, W., 21, 23, 24, 28, 30, 49, 53-55, 56, 147-177, 178, 179 Silva, F. de, 83 Sleidano, G., 113, 114 Smith, A., 6, 247, 249 Snyder, J. R., 243 Socrate, 216, 218, 314 Sofocle, 162 Steele, R., 257, 268, 352, 355 Sterne, L., 247, 264, 269, 303, 308, 311, 369, 385-389, 390 Stigliani, T., 197 Strehler, G., 675 Swift, J., 246, 264, 265, 269, 355, 368, 369-372, 389, 390

Indice dei nomi

T

V

Tacito, 115, 122 Tansillo, 234 Tanzi, C., 271 Tasso, T., 20, 25, 67, 75, 76, 109, 209, 234, 235, 236, 579, 582, 652 Tassoni, A., 9, 13, 18, 21, 27, 30, 57, 6876, 77, 80, 82, 107, 108 Telesio, B., 47 Teocrito, 270 Terenzio Afro, P., 411 Tesauro, E., 13, 14, 22, 30, 108, 122, 197, 241, 243, 284 Tingoli, L., 31 Tiraboschi, G., 284 Tirso de Molina, 24, 128, 138, 145 Tolomeo, 183, 186, 188, 203, 224, 237 Tommaso d’Aquino (san), 203 Turgot, R.-J., 507

Varano, A., 271 Vasco, G., 335 Vassalli, S., 347, 349, 350 Vecellio, T., 217 Vega, F. L. de, 24, 128, 411 Velázquez, D., 5, 17 Verga, G., 397, 406, 413, 473 Verri, A., 352, 359-362, 385 Verri, fratelli, 247, 252, 257, 258, 259, 263, 265, 266, 268, 269, 488, 489, 490, 491, 492, 493, 494, 516 Verri, P., 284, 334, 335, 338, 339-346, 349, 350, 351, 352, 355-358, 367, 401, 403 Vico, G., 246, 250, 262, 265, 269, 284, 289-292, 293, 294, 298, 299, 335, 532 Villani, G., 360 Virgilio, Marone, P., 26, 75, 153, 157, 222, 225, 270, 279, 505, 522, 552, 582 Visconti, L., 468, 469, 675 Vittorini, E., 644, 645 Vivaldi, A., 421

U Ungaretti, G., 15, 50, 51, 54

Voltaire, F. M. Arouet, detto, 247, 253, 254, 263, 264, 265, 268, 269, 300, 301, 303, 306, 311, 312-320, 326, 328, 332, 333, 403, 491, 537, 540, 566, 568, 569, 629

W Webster, J., 23, 148 Welles, O., 102, 103 Winckelmann, J. J., 489, 516, 552, 553, 555 Wölfflin, H., 15

Z Zappi, G. F., 256, 261, 269, 271, 275-276, 283 Zazzaroni, P., 31 Zeno, A., 272, 277, 283 Zenone di Cizio, 290 Zola, E., 583 Zuccolo, L., 108

687

Indice delle rubriche e delle schede

ChE COSA CI DICONO ANCORA OggI I CLASSICI Cervantes, 104 Shakespeare, 175 Galileo, 232 Goldoni, 476 Parini, 556 Alfieri, 655

LETTERATuRA E... Ambiente, 499 Diritto, 322, 336 Economia, 172 Società, 470, 581 Tecnica, 193

LA VOCE DEL NOVECENTO Pirandello e Cervantes: l’umorismo di Don Chisciotte, 92 Una parodia straziata: Petrolini rilegge Shakespeare, 163 Galileo e la rivoluzione scientifica moderna secondo Brecht, 227 La presenza di Vico nell’opera di Cesare Pavese, 293 Il rogo di una strega nella Chimera di Vassalli, 347 La donna incantatrice d’uomini in Goldoni e Pirandello, 463 L’insolubrità dell’aria nella Milano raccontata da Andrea De Carlo, 508 Un «giovin signore» del XX secolo nel racconto di Arbasino, 542 Gli «astratti furori» in Conversazione in Sicilia di Vittorini, 644 L’incanto sconosciuto della musica nelle pagine di Proust, 648

688

Indice delle rubriche e delle schede

L’ARTE INCONTRA LA LETTERATuRA Luci e ombre: il Barocco tra illusione e realtà, 16 Galileo Galilei e Ludovico Cigoli: la pittura incontra la scienza, 192 Venezia tra teatro e realtà: Goldoni e Longhi, 425

LETTERATuRA E CINEMA Don Chisciotte di Orson Welles, 102 Amleto nel cinema secondo Laurence Olivier e Kenneth Branagh, 166 Il Galileo di Joseph Losey e di Liliana Cavani, 219 La locandiera di Franco Enriquez e Valeria Moriconi, 468

MICROSAggI Il teatro elisabettiano, 148 L’antica cosmologia aristotelico-tolemaica e il sistema copernicano, 203 Razionalismo, empirismo, materialismo, 301 Dall’Encyclopédie francese a Wikipedia, 306 Teismo e deismo, 313 I fisiocratici, 507 Il titanismo, 579

L’OPERA LIRICA L’Orfeo, 26 Il Don Giovanni, 145

DIALOghI IMMAgINARI Galileo e Marino, 234 Alfieri e Goldoni, 630

689

PESARE LE PAROLE

690

Accattando (Alfieri), 639

Impassibile (Galileo), 211

Scorgi (Alfieri), 613

Asterso (Parini), 501

Impegno (Goldoni), 429

Smalitita (Galileo), 222

Avverati (Alfieri), 576

Ingenuo (Parini), 547

Soggezione (Goldoni), 435

Baldanzosi (Parini), 501

Innocente (Parini), 500

Sovviene (Galileo), 211

Balestrati (Alfieri), 575

Inopinati (Galileo), 205

Specolativi (Galileo), 215

Blandisce (Parini), 530

Lenemente (Parini), 530

Spiaccai (Alfieri), 604

Caduca (Galileo), 212

Maneggiando (Goldoni), 434

Squallida (Parini), 535

Creanza (Goldoni), 441

Onusta (Parini), 500

Strapazzo (Goldoni), 436

Disgustate (Goldoni), 431

Perfette (Parini), 523

Sturbava (Alfieri), 599

Disparatissime (Verri), 355

Picca (Goldoni), 432

Sublimato (Galileo), 217

Emendino (Parini), 520

Procace (Parini), 547

Superfluo (Galileo), 211

Esalto (Parini), 549

Purgata (Parini), 502

Umor (Parini), 522

Esibiscono (Goldoni), 432

Pusillanimi (Galileo), 223

Usurpata (Galileo), 224

regiasti (Alfieri), 610

Rifrange (Parini), 522

Vezzosa (Parini), 539

Funeste (Metastasio), 279

Satelliti (Alfieri), 575

Volgar (Parini), 534

Garrendo (Parini), 537

Scevra (Parini), 539

Indice delle illustrazioni » pp. 2-3: Jan Bruegel il Vecchio e Peter Paul Rubens, Allegoria della vista, 1617, olio su tavola, Madrid, Museo del Prado (elaborazione grafica).

» p. 334: Jean-Étienne Liotard, Ritratto di Francesco Algarotti, 1745, pastello su pergamena, part., Amsterdam, Rijksmuseum.

» p. 31: Jan Davidsz de Heem, Natura morta, 1640, olio su tavola, part., Collezione privata.

» p. 352: David Martin, Ritratto di Benjamin Franklin, 1767, olio su tela trasferito su tavola, part., Washington, White House.

» p. 57: Matthias Stom, Giovane uomo che legge al lume di una candela, XVII secolo, olio su tela, part., Stoccolma, Nationalmuseum.

» p. 368: L’isola di Laputa, part., illustrazione per I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, edizione Lipsia 1910.

» p. 108: Peter Paul Rubens, Quattro filosofi, XVII secolo, olio su tela, part., Firenze, Galleria Palatina.

» pp. 396-397: Giuseppe De Albertis, L’ Opera seria, XVIII secolo, olio su tela, part., Milano, Museo Teatrale alla Scala.

» p. 123: Inigo Jones, Bozzetto per costume teatrale, 1613, stampa colorata, part., Londra, Victoria & Albert Museum.

» p. 398: Ritratto di Carlo Goldoni in parrucca, XVIII secolo, olio su tela, part., Venezia, Gallerie dell’Accademia.

» pp. 180-81: Niccolò Tornioli, Gli astronomi, XVII secolo, olio su tela, part., Roma, Galleria Spada.

» p. 400: Antonio Canal detto Il Canaletto, Il ritorno del Bucintoro al molo nel giorno dell’Ascensione, 1734 circa, olio su tela, Windsor, Windsor Castle, The Royal Collection (elaborazione grafica).

» p. 182: Giusto Sustermans, Galileo Galilei, 1636, olio su tela, part., Firenze, Galleria degli Uffizi. » p. 184: Alfred Guesdon, La cattedrale e la torre di Pisa, 1843, litografia da un dipinto di Nicholas-Marie-Chapuy (elaborazione grafica). » p. 208: L’orologiaio Nicolas Kratzer, 1528, olio su tela, part., Parigi Musée du Louvre. » p. 208: Johannes Vermeer, L’astronomo, 1668 circa, olio su tela, part., Parigi, Musée du Louvre. » p. 208: Donato Creti, Osservazioni astronomiche: Luna, 1711, olio su tela, part., Città del Vaticano, Pinacoteca. pp. 244-45: Antonio Joli, Capriccio, XVIII secolo, olio su tela, Cambridge, Fitzwilliam Museum (elaborazione grafica). » p. 270: Jean-Honoré Fragonard, Pastorella con pecore e un cesto di fiori in un paesaggio boschivo con rovine, XVIII secolo, olio su tela, part., Collezione privata. » p. 284: Giambattista Tiepolo, Ritratto di Antonio Riccobono, 1743, olio su tela, part., Rovigo, Palazzo Roverella, Pinacoteca dell’Accademia dei Concordi. » p. 300: Maurice-Quentin de La Tour, La marchesa di Pompadour, 1749-75, pastello su carta blu montata su tela, part., Parigi, Musée du Louvre.

» p. 426: Scuola veneta, La lezione di Musica, XVIII secolo, olio su tela, part., Venezia, Casa Goldoni. » p. 426 : Jean Baptiste Simeon Chardin, La Brioche, 1763, olio su tela, part., Parigi, Musée du Louvre. » p. 426: Francesco Guardi, Cortile a Venezia, XVIII secolo, olio su tela, part., Mosca, Museo Pushkin. » pp. 486-487: Jean Baptiste Charpentier, La famiglia Penthievre o la tazza di cioccolata, 1768, olio su tela, part., Château de Versailles, Francia. » p. 488: Giuseppe Parini, XVIII secolo, olio su tela, part., Collezione privata. » p. 490: Milano, piazza del Duomo, XVIII secolo, stampa a colori, elaborazione grafica. » p. 511: Vittore Ghislandi detto Fra’ Galgario, Ritratto del conte Suardi con il domestico, XVIII secolo, olio su tela, part., Bergamo Accademia Carrara. » p. 511: Francois Boucher, Giovane donna con un carlino, 1740, olio su tela, part., Collezione privata. » p. 511: Gaspare Traversi, Il concerto, XVIII secolo, olio su tel, part., Stoccarda, Staatsgalerie.

691

» pp. 562-63: Jules Cesar Denis van Loo, Il castello di Collegno presso Torino con effetto di temporale, 1793, olio su tela, part., Torino, Galleria Sabauda. » p. 564: François-Xavier Fabre, Ritratto di Vittorio Alfieri, 1797, olio su tela, part., Torino, Museo Nazionale del Risorgimento Italiano. » p. 567: Carta di Asti da Theatrum Statuum Regiae Celsitudinis Sabaudiae Ducis, Pedemontii Principis, Cypri Regis, 1682, Amsterdam, tipografia Blaeu (elaborazione grafica).

692

» p. 594: Ernst Josephson, Davide e Saul, 1878, olio su tela, part., Stoccolma, Nationalmuseum. » p. 594: Virginio Grana, David e Micol, XIX secolo, olio su tela, part., Genova, Museo dell’Accademia Ligustica di Belle Arti. » p. 594: Rembrandt van Rijn, Davide suona l’arpa a Saul, 1658 circa, olio su tela, part., L’Aja, Mauritshuis. » p. 661 Platea vista dal palcoscenico, fotografia.

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